Ceneri

di TuttaColpaDelCielo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. Ricordi? ***
Capitolo 2: *** 01. Sacrificio in divenire ***
Capitolo 3: *** 02. Il sole muore ***
Capitolo 4: *** 03. Parole ***
Capitolo 5: *** 04. Cristallo ***
Capitolo 6: *** 05. Principio ***
Capitolo 7: *** 06. Specchio ***
Capitolo 8: *** 07. Precipitare ***
Capitolo 9: *** 08. Silenzio ***
Capitolo 10: *** 09. Notte ***
Capitolo 11: *** 10. Flusso ***
Capitolo 12: *** 11. Colori ***
Capitolo 13: *** 12. Pensiero ***
Capitolo 14: *** 13. Scelta ***
Capitolo 15: *** 14. Tradimento ***
Capitolo 16: *** 15. Chiudi gli occhi ***
Capitolo 17: *** 16. Pioggia ***
Capitolo 18: *** 17. Quarto Evo ***
Capitolo 19: *** 18. Accusa ***
Capitolo 20: *** 19. Cecità ***
Capitolo 21: *** 20. Odio ***
Capitolo 22: *** 21. Marionetta ***
Capitolo 23: *** 22. Patto ***
Capitolo 24: *** 23. Quiete stanca ***
Capitolo 25: *** 24. Passato che torna; futuro che muore ***
Capitolo 26: *** 25. E fa male ***
Capitolo 27: *** 26. Legami ***
Capitolo 28: *** 27. Follia ***
Capitolo 29: *** 28. Non voglio ***
Capitolo 30: *** 29. Ciò che è successo ***
Capitolo 31: *** 30. Silenzi ***
Capitolo 32: *** 31. Tramonto ***
Capitolo 33: *** 32. Aenor ***
Capitolo 34: *** 33. Ishild ***
Capitolo 35: *** 34. Sangue ***
Capitolo 36: *** 35. Fiore marcio ***
Capitolo 37: *** 36. Eco ***
Capitolo 38: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 00. Ricordi? ***


Prologo – Ricordi?




Appena creata, con la schiena ancora sanguinante, ti ergevi tra le fiamme. 

Ricordi? 
Lei sorride. 
Tu no. 
Tu hai paura, perché sei umana. 
Lei forse non lo è mai stata. 

Era il Fuoco della Venuta: alimentato dal nulla, dal nulla generava l’essenza e plasmava l’involucro. 

Ricordi? 
Senti lo strappo. 
Lacera. Fa male. 
Chi ti ha ferita? 
Chi ti ha sporcata? 

Scuotevi le ali rossastre, con il movimento cauto e incerto degli infanti, che ancora soffrono per gli squarci alla schiena. 

Ricordi? 
Lei scompare. 
Ti abbandona. 
Tu rimani incatenata a queste spoglie. 
Il fuoco, intanto, brucia. 

Eppure non era quell’ovvio dolore a tormentarti, non era il tuo corpo naturalmente danneggiato. Era qualcosa di più profondo, di incomprensibile. 

Ricordi? 
Brucia, brucia! 
Non ascoltano: il rito non s’interrompe. Mai. 
Le leggi vanno rispettate. 
Il tuo corpo diventa cenere. 

«È ferita.» dissero, guardandoti, e di certo non riferendosi agli squarci della nascita; ma come potevi essere ferita in altro modo, se iniziavi allora ad esistere? 

Ricordi? 
Muori, inghiottita dal buio. 
L’attesa, l’angoscia. Il ritorno. 
Lei non c’era. 
Solitudine. 

«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco. 

Ricordi? 
E ardesti ancora. 
Nascesti, iniziando alla fine. 
Dimenticasti. 
O no? 

«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.» 

Ricordi? 
Puoi guardarti allo specchio e pensare? 
Non credere al Fuoco della Venuta. 
Riesci a tenere i fantasmi per mano? 
Non negare la gelida ora mortale. 

Ti condannarono ugualmente. 

Ricordi.




***
Angolo autrice:
Questo è solo un piccolo prologo, domani pubblicherò il primo capitolo. Ne ho già pronti alcuni, quindi posso assicurare aggiornamenti regolari.
So che il contenuto di quest'inizio è poco comprensibile, ma con l'evolversi della storia si spiegherà tutto ^^ Discrepanze nell'uso dei tempi verbali sono volute.
Grazie a chiunque abbia letto, pareri e critiche sono ovviamente ben accetti!

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Capitolo 2
*** 01. Sacrificio in divenire ***


Capitolo 1 – Sacrificio in divenire

 
 
 
Una luce calda e soffusa accarezzava le sagome distese, ammorbidiva i contorni e li rendeva incerti. Capelli sciolti sui guanciali, ali avvolte al busto, gambe piegate al petto, tutto sfumava in macchie rossastre poco definite.
Era impossibile capire da dove provenisse: le ampie finestre erano oscurate dalle tende, nessuna torcia ardeva alle pareti. Sembrava che l’aria stessa avesse assunto quel colore, senza produrre alcuna ombra. Semplicemente, la luce c’era.
Il fuoco vegliava i propri figli e ne guidava il riposo.
Lei poteva quasi sentire la sua carezza sulla pelle, simile al tocco del sole che muore, ma infinitamente più dolce, più avvolgente, più calda. Troppo, per permetterle di dormire a lungo: l’intensità della Presenza iniziava a diventare fastidiosa, anziché indurle il sonno, come una madre apprensiva e soffocante.
Lasciò scorrere lo sguardo lungo la camera, sulle otto compagne addormentate. Solo Cassiel, oltre a lei, era sveglia: ritta di fronte al letto, scuoteva le ali per riprendere sensibilità, senza accennare alcun dolore – gli squarci della nascita dovevano aver già smesso da tempo di sanguinare.
Cassiel era stata creata da poco, ma era giunta senza difficoltà alla classe di mezzo del ciclo inferiore, e già si mostrava troppo matura anche per quella. La fascia rossa che portava in vita era visibilmente più scura delle piume, tra cui iniziavano ad intravedersi rare macchie tenui, quasi bianche – l’aspetto tipico dell’ultima classe, a cui probabilmente sarebbe stata assegnata a breve, saltando quinta e sesta; ma nessuno dubitava che avrebbe ben presto abbandonato anche quella, entrando nel ciclo superiore sotto la guida del miglior mentore disponibile.
Avrebbe completato il ciclo inferiore nel tempo in cui di solito si avanzava di una classe. Mostruoso.
«Esci, se la Presenza ti infastidisce così tanto.» sussurrò, notando che si aggirava inquieta tra i letti.
Quella le puntò addosso gli occhi dal taglio obliquo, contrariata. «È vietato.»
«Ma così non riuscirai a riposare bene.»
«Non ne ho bisogno, per gli esercizi di oggi. Li trovo semplici.»
Cassiel avrebbe anche potuto piacerle, se solo non fosse stata così arrogante. Un se irrealizzabile.
Si voltò su un fianco, soffocando l’irritazione con uno sbuffo nel cuscino: lei, invece, di riposare bene ne aveva bisogno.
Il rosso delle sue ali era leggermente più chiaro della fascia ai fianchi, e gli squarci della nascita si trovavano in situazione migliore rispetto a quelli dei compagni; anche la Presenza che accompagnava la quarta classe nel sonno iniziava ad essere troppo intensa per farla dormire al meglio. La maturazione era quindi a buon punto, ma ancora non abbastanza per avanzare di fascia, come testimoniavano le difficoltà durante l’allenamento. E di certo il riposo inquieto non aiutava.
Era una situazione logorante, che si ripeteva nell’ultima fase di ogni classe, e che tutti conoscevano bene. Tranne, a quanto pareva, Cassiel e gli altri rarissimi geni come lei – che probabilmente non si potevano neppure definire cherubini, ma adulti in un involucro troppo immaturo.
La porta si schiuse, distogliendola da quei pensieri.
Entrò silenziosamente una figura alta, sottile. Alla luce della Presenza i ricci biondi si illuminarono di riflessi rossastri, e gli occhi chiari si puntarono a terra, infastiditi. La schiena, lasciata nuda per metà dall’abito, era spoglia; la giovane doveva essere quasi adulta, per saper ritirare le ali, e infatti i fianchi erano cinti dalla fascia grigia del ciclo superiore.
A differenza di quanto accadeva in quello inferiore, non esistevano distinzioni di classe e di colore: vi era un’unica tonalità, poiché unico era il passo da fare, che poteva richiedere tanto un secolo quanto un millennio. Lei, in particolare, stava impiegando più tempo degli altri.
Fu probabilmente per questo, e non perché era vietato abbandonare il proprio dormitorio, che Cassiel la accolse con un’occhiata di altera insofferenza; forse anche per invidia, per le libertà e i privilegi concessi agli allievi del ciclo superiore, a cui lei non era ancora ammessa.
La nuova arrivata intercettò il suo sguardo intollerante e sogghignò: «Non preoccuparti, Cassiel, non vi metterò nei guai. È difficile che qualcuno ti veda uscire, se dormi da sola.»
«Potrebbero vederti nei corridoi.»
«Ma in fondo a me è quasi permesso. Le Custodi al massimo mi fanno un rimprovero. A me
L’altra strinse le labbra e si preparò a rispondere, ma una voce infastidita interruppe la discussione: «Cassiel, torna a dormire, o cammina, o fai pensieri filosofici, quello che vuoi, ma taci. Anane, sei qui per me, non per lei. E abbassate la voce, non ci tengo a svegliare tutte.»
«Scusa, Amitiel.» ridacchiò la più matura, raggiungendo il suo letto e sedendosi a gambe incrociate.
Lei la imitò, ormai completamente sveglia. «Allora, novità?»
«Due. Quale vuoi per prima, quella bella o quella brutta?»
«Brutta.»
«Dunque, quella brutta è...» non riuscì a soffocare un sorriso entusiasta, annullando qualsiasi inquietudine dell’altra «che d’ora in avanti dovrò allenarmi ancora di più.»
«E perché sorridi?»
«Questa è la notizia bella.»
Anane si voltò e mostrò la schiena spoglia e nuda, coperta solo dai fitti ricci.
«Sai ritirare le ali. Oooooh.» mimò un’espressione sorpresa «Che novità.»
«Non dare troppo sfogo all’invidia, cara.» rise, e raccolse i capelli su una spalla «Ecco, adesso puoi.»
Amitiel trasalì, rimanendo per lunghissimi istanti a fissarle le scapole; anche Cassiel, dopo qualche passo poco casuale nella loro direzione, sussultò.
In Anane, gli squarci della nascita non avevano più ragione d’essere chiamati così. Non erano le ferite aperte e sanguinanti dei Cherubini appena creati, né quelle in via di guarigione dei meno immaturi, e neppure i graffi profondi del ciclo superiore: erano segni in rilievo, quasi rimarginati, solo leggermente lucenti per l’irritazione.
«Ridwan ha detto che presto saranno cicatrici.» annunciò, orgogliosa per le parole del maestro «E anche le ali migliorano. Tra poco potrei svilupparmi.»
«Ridwan ha deciso di averti sopportata abbastanza a lungo, deduco.» celiò l’amica.
Amitiel non avrebbe mai detto quelle parole a qualcun altro, ma era Anane; e Anane non avrebbe mai accettato quelle parole da qualcun altro, ma era Amitiel. Dovettero pensarlo entrambe nello stesso istante, perché si sorrisero, con la sincronia di chi ha passato secoli a conoscersi.
Continuarono a parlare sino a quando la Presenza non si fece più lieve, per preparare i cherubini al risveglio. Amitiel si lasciò scivolare sdraiata, percependola finalmente ad un’intensità riposante.
«Certo che è infantile. Avere ancora bisogno della Presenza per dormire, intendo.» sogghignò Anane.
Lei la colpì con un calcio. «È infantile deridere per qualcosa di naturale, invece.»
«Come farai al ciclo superiore, povera piccola? Nel nostro dormitorio la Presenza non c’è.»
Altro calcio. «Anane, sparisci.»
Quando quella fuggì verso la propria stanza, sorridevano ancora, senza sapere che non sarebbe più accaduto – non con quella serenità, almeno.
Che l’una stava per immolare tutto in nome del nulla.
Che l’altra stava per offrire la gola alla lama crudele dell’inganno.
E che altri ancora stavano per essere intrappolati in una lotta a loro estranea – pedine che l’ambizione e l’egoismo non avrebbero esitato a distruggere.
Il sacrificio si preparava, nell’ombra dell’ignoranza.
 
* *
 
Il gruppo era schierato su due file di fronte all’insegnante: venticinque giovani – quindici della sezione maschile e dieci di quella femminile – nella divisa morbida e aderente da esercizio fisico. Il tessuto candido lasciava scoperte le scapole e le braccia, annodandosi al collo; in vita, la fascia era sostituita da una sottile striscia rossa, che non disturbava i movimenti ma identificava ugualmente gli allievi.
La tonalità indicava la classe; gli asterischi bianchi sul lato destro, il numero del gruppo.
Quarta classe, ottavo gruppo.
Come ad ogni prima lezione, attendevano tutti l’ordine di uscire.
L’uomo tuttavia rimase a fissarli in silenzio, prestando attenzione ora all’uno ora all’altro, come soppesandoli. Sembrava cercare differenze nell’uniformità mostrata dagli abiti identici; differenze che andavano oltre la semplice fisionomia. Non si soffermava sugli occhi dal taglio obliquo e sui capelli neri e lisci, comparsi da poco tra i nuovi creati; né sui ragazzi con la pelle scura, che spiccavano tra i compagni pallidi; né sull’allieva dai colori chiarissimi, quasi bianchi. Lasciava vagare lo sguardo sulle ali, sul petto, sugli occhi, senza logica apparente – impegnato in un’analisi a loro incomprensibile, poiché erano ancora troppo immaturi per percepire le essenze così profondamente.
Questo, secondo il parere dell’insegnante, era un motivo sufficiente per escluderli da qualsiasi incarico che superasse la bassa difficoltà. Secondo il parere delle Autorità, no.
«Bene.» disse infine, rompendo il silenzio, ma dalla sua espressione non sembrava andare bene per nulla «Raphael, Cassiel, Amitiel, voi rimanete qui. Gli altri, fuori. Per oggi farete esercizio con il sesto e il settimo gruppo.»
Gli allievi si affrettarono ad uscire, inquietati da quel comportamento singolare, e lui fece cenno ai tre rimasti di sedersi.
«In basso, Amitiel.» precisò, quando lei tentò di risalire la gradinata che occupava gran parte dell’aula.
Quella si sistemò con palese insofferenza accanto a Cassiel, sul livello inferiore, e osò chiedere: «Cosa succede, Nelchael?»
«Fuori i taccuini.» la ignorò «Dimensione umana. Prima che me lo facciate notare, sì, è argomento della quinta classe e no, non ho idea del perché debba spiegarvelo ora.»
Amitiel si curvò entusiasta a prendere appunti, dimentica di qualsiasi domanda, come se quell’argomento – di solito ritenuto noioso – fosse di enorme interesse.
Nelchael serrò le labbra. Non andava bene, non andava bene per niente. Si sarebbero fatti ammazzare. Doveva impedirlo, doveva evitare che venissero sacrificati per un errore di valutazione, doveva... doveva solo comunicare alle Autorità che la loro proposta – no, il loro ordine – era fuori discussione. Non esattamente come battere le ali.
 
* * *
 
«Anane.»
L’interpellata alzò il capo biondo verso l’altra, smettendo di sottolineare sul libro. «Sì?»
«Cos’è il buio?»
«...il contrario del caldo, credo.»
Amitiel aggrottò la fronte, poco convinta, e tastò attorno a sé per trovare il taccuino. Erano in camera della più matura, sedute a gambe incrociate sul letto, immerse nello studio – situazione insolita, ma avevano trovato entrambe un motivo per impegnarsi. L’una vedeva finalmente concreta la possibilità di svilupparsi, l’altra aveva un’infinità di appunti fuori programma per uno scopo ancora ignoto.
Peccato che i suddetti appunti non avessero alcuna utilità, finché se ne stavano sul pavimento, ben lontani dalla proprietaria. Lei si sporse a prenderli, con una smorfia per il dolore agli squarci, e iniziò a sfogliare rapidamente le pagine.
«Contrario del caldo... no, quello era il freddo.»
«Ah, allora della luce.»
«E com’è?»
«È... strano.»
«Strano?»
«Sì.» afferrò una penna e iniziò a ricoprire il bordo della pagina di inchiostro «È come se fosse tutto così. Gli Umani vedono nero, se ho capito bene. E non fare quella faccia, l’ho detto che è strano!»
«Ma com’è possibile che vedano nero
«Anche noi vediamo quasi così, eh. Non so spiegarlo, è come... come... come la Presenza, ecco. Solo che invece di essere rossa è nera.»
Amitiel provò a immaginare la Presenza in quel modo, senza successo. Come poteva l’aria non essere luminosa? Come poteva essere scura, opaca? Per lei, nata e cresciuta in un mondo senza ombre, era un concetto estraneo quasi quanto il freddo.
Spostò lo sguardo sui propri capelli: arrivavano oltre le scapole, una cortina nera che accarezzava l’attaccatura delle ali. Li lasciò ricadere di fronte al viso, ma l’aria continuava ad essere luminosa e si rifletteva sulle lunghe ciocche mosse, colpendole gli occhi.
Quella era la migliore imitazione di oscurità a cui potesse giungere.
«Quindi... si vede nero.» riassunse, appuntandolo sul taccuino.
«Non proprio.» la corresse Anane «Il nero è il buio proprio più buio. Di solito però c’è un po’ di luce. Di giorno c’è il sole... sai cos’è, vero? E di notte invece ci sono la luna e le stelle... presenti? No? Sono come il sole, ma più più piccole, e sono meno luminose. Ultimamente poi gli Umani hanno imparato a crearla, la luce. La portano in mano, ci credi?»
«E quindi?»
«Questa è una cosa ancora più strana. Adesso riderai.»
Amitiel si sporse verso di lei. «Perché?»
«Eh... non mi crederai. Però è vero, era così, quando sono stata nella dimensione umana.»
«Sì, ma che cosa?»
«Più c’è luce» si morse le labbra per non ridere «più c’è buio.»
La guardò come se avesse perso il senno. «Anane, sii seria.»
«Ma sono seria!»
Riuscì infine a spiegarle che, quando la luce colpiva qualcosa, dalla parte opposta si formava un alone scuro. In che modo fosse possibile, nessuna delle due ne aveva idea; doveva essere una di quelle stranezze della dimensione umana, come il freddo.
«E fa paura, il buio?» chiese Amitiel dopo qualche istante di silenzio.
L’altra rabbrividì. «Molta. È angosciante. Dà più fastidio di quando la Presenza è troppo forte. Però...»
«Però?»
«C’è un momento bellissimo. Sai cos’è il tramonto?»
Sfogliò gli appunti e scosse la testa.
«È quando il sole si sposta in basso. Diventa tutto rossastro, come con la Presenza, e ci sono luce e buio, sembrano fondersi. È... magnifico.»
Amitiel chiuse gli occhi, tentando di visualizzarlo. Una sfera gialla, luminosa, che crea aloni scuri sugli oggetti. La sfera che si sposta, rendendo l’aria rossa. Luce e buio... no, era un’immagine troppo complessa, perché dove c’è luce non c’è buio, e dove c’è buio non c’è luce, ed è impossibile che l’una causi l’altro, o che si mescolino.
Ma il cielo infuocato, quello poteva immaginarlo. Poteva sentire la carezza tiepida del sole sulla pelle, vedere il mondo tingersi di fiamme e di sangue; sembrava una scena già vissuta, persa tra i ricordi e tornata alla mente all’improvviso. Una risata infantile, di quelle acute dei bambini umani. Il richiamo di una madre per la cena. Una presenza a stringerle la mano. Parole in una lingua sconosciuta, ma dal significato sorprendentemente chiaro.
«Il sole muore.» sussurrò, ancora ad occhi chiusi.
 
* * *
 
«Non sono pronti.» sbottò Nelchael, passandosi una mano tra i capelli.
La donna di fronte a lui strinse le labbra, infastidita. «Nessuno lo è, la prima volta.»
«Ma tutti sono preparati. Loro no. Non hanno la minima idea di come sia la dimensione umana.»
«Sono vicini alla quinta classe, sapranno cavarsela.»
Occhiata ironica, feroce. Una mancanza di rispetto tollerata solo per l’antica amicizia che li univa: nessun’altra Autorità avrebbe accettato un simile comportamento. «Senza nemmeno un insegnante?»
«Ci sarà il ciclo superiore, con loro. Gli insegnanti hanno altri impegni.»
«Li mandate allo sbaraglio.»
«Li mandiamo ad osservare.»
«Si osserva alla fine della quinta, non della quarta.»
«Prima, ma ora non c’è più tempo. Hai sentito del patto, sì? Loro saranno in molti, noi troppo pochi.»
«Perché noi non facciamo combattere i Cherubini appena creati.»
«Non sono poi così giovani, Nelchael, presto arriveranno alla quinta classe.»
«Quinta classe contro millenni di esperienza. Chi vince?»
«Per questo devono maturare in fretta.» ribatté, irritata «Ne sono capaci, devi solo dare loro un po’ di fiducia, e una piccola spinta per farli crescere.»
«Ma non possiamo forzare troppo il processo, potrebbero non essere pronti, e allora-»
«Ci servono adesso. Per il futuro ne abbiamo a centinaia.»
Rimase per qualche istante a soppesare quelle parole, neppure troppo stupito. «Sono... sacrificabili?»
«Se per maturare più in fretta devono correre dei rischi, li correranno. Altrimenti sarebbero inutili.» rispose gelida.
Un ghigno amaro. «Sono sacrificabili.»
La donna batté con forza la mano sul tavolo e scattò in piedi, furente, abbandonando ogni parvenza di pacata cortesia; sei enormi ali da serafino si materializzarono alle sue spalle, rendendola ancor più minacciosa, e per un istante sembrò quasi che dalla sua pelle e dai suoi occhi si propagassero lingue di fuoco candido. Guardandola, Nelchael ricordò perché fosse stata designata Autorità sin da giovanissima, e tremò internamente.
«Non tollererò ancora a lungo questa tua continua mancanza di rispetto.» ringhiò «Bada a come ti comporti. E ora va’ a comunicare l’incarico ai tuoi allievi. Se tra due cicli temporali, all’inizio del secondo periodo, non si troveranno alla Via, ne risponderai tu. Te la ricordi l’Espiazione, sì?»
«...obbedisco.»
E il sacrificio mutò da un’idea instabile alla solida architettura della concretezza. Una mostruosa cattedrale costruita sul sangue.
 
 

 
***
Angolo autrice:
Capitolo di introduzione. Serve per chiarire un minimo l'ambientazione, che ho molto personalizzato. Dal prossimo, ma in particolare dal terzo, si inizierà con l’azione. Se qualcosa non vi è chiaro, chiedete pure, se posso risponderò ^^
Quando parlo di ferite "lucenti per l'irritazione", mi riferisco al sangue angelico. L'ho immaginato bianco, quasi luminoso, e quindi la rottura dei capillari provoca un leggero chiarore - simile a quello che capita a noi con l'arrossamento, insomma.
Gli squarci della nascita sono, nel caso non si fosse capito, ferite che permangono per tutta la giovinezza, in corrispondenza dell'attaccatura delle ali. Sempre per tutta la giovinezza le piume mantengono un colore rosso, di tonalità sempre più chiara man mano che i cherubini maturano, fino a diventare completamente bianche con l'età adulta - il cosiddetto "sviluppo". Riferito alla schiena, "spoglia" significa senza le ali.

Come avrete notato, utilizzo molti dialoghi. Saranno uno dei punti focali di questa storia: mostrano chi si vorrebbe essere, chi si deve essere e chi invece si è davvero. Spero che li apprezziate, nei dialoghi ci sono i personaggi così come li ha concepiti la mia mente ^^

Grazie a chiunque abbia letto, pareri e critiche sono come sempre ben accetti.
Aggiornerò ogni domenica. Inizialmente avevo pensato a venerdì, ma per questioni di tempo ho scelto di cambiare. Perciò, al 12 con il secondo capitolo! ^^

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Capitolo 3
*** 02. Il sole muore ***


Capitolo 2 – Il sole muore





Era nella sala studio della prima classe, come spesso accadeva nel periodo libero concesso dopo le prime due lezioni. Le piaceva passarvi del tempo: era costantemente invasa da Cherubini giovanissimi che ripetevano la lezione, giocavano, litigavano, si lamentavano per il dolore alla schiena. L’aspetto era identico a quello di ogni biblioteca – lunghe file di tavoli, alti scaffali, finestre ampie quasi quanto le pareti stesse – ma l’aria sembrava più vivace, più animata. Una macchia di caos purpureo tra la candida quiete delle altre sale.
«Un ciclo temporale» stava leggendo ad alta voce un cherubino, accanto a lei «è un gruppo di dieci periodi. I periodi sono scanditi dal Richiamo... ehm... scusami?» le toccò il braccio, attirando la sua attenzione con espressione incerta «Che cos’è il Richiamo?»
«È quella... come posso spiegarlo...» gli rispose, alzando gli occhi nocciola su di lui «quella sensazione di dover fare qualcosa. Come la Presenza che ti dice di riposare, capisci? Il Richiamo invece ti dice di andare a lezione, o che hai un periodo libero, o cose così.»
Lui la ringraziò, appuntando diligentemente ogni parola sul margine della pagina.
«Di nulla. State studiando i Fuochi?»
«Cosa?»
«Fuoco del Richiamo, della Via, del Velo... o non ci siete ancora arri-»
«Ehi, Amitiel!» la chiamò qualcuno alle sue spalle «Va bene essere in ansia per l’incarico, ma ripassare tutto dai fondamentali mi sembra un po’ eccessivo.»
«Preferisco evitare di fare come qualcuno» ribatté, tornando al proprio libro «che, secondo le voci, alla terza classe ancora non ricordava l’elenco dei Fuochi.»
«Che stron...» intercettò l’occhiata di ammonimento di un Custode e si corresse: «Che idiozia! L’ho imparato in un attimo, l’elenco dei Fuochi! Chi è la malalingua che mette in giro queste voci?»
«E chi ha mai parlato di te, Anane?» sogghignò.
«Stavo solo mettendo le cose in chiaro, nel caso. E tu, rosso, levati, qua ci sto io.»
Il cherubino si affrettò a cambiare tavolo e la ragazza si lasciò cadere sulla sedia.
«Credo che mezzo ciclo inferiore mi odi, ormai.» ridacchiò, notando gli sguardi spaventati e infastiditi dei legittimi occupanti della sala.
«Chissà perché.»
«Ho faticato secoli per arrivare al ciclo superiore, lasciami godere i miei privilegi, no?» si chinò verso di lei per leggere sul suo libro «Ah, l’anatomia dei Serafini. Brutto argomento. Io non ho ancora capito come facciano a muovere sei ali contemporaneamente.»
«E come hai passato la quarta classe, allora? Anzi, no, aspetta. Non voglio sapere chi hai corrotto e come ci sei riuscita.»
«Amitiel, muori.» sbuffò «Oh, ma riderò, quando arriverai al ciclo superiore, vederti impazzire sarà molto divertente. C’è da studiare l’anatomia umana, che è davvero incomprensibile, altro che quella dei Serafini. Io ci sono su da almeno metà del ciclo... non so come faccia certa gente a finirla in fretta.»
«Ridwan non accetta favori sessuali in cambio della promozione?»
Balenò nella mente di entrambe l’immagine di lui, sempre riservato e composto, che si lasciava corrompere dalle proposte dell’allieva; le loro risate furono tanto squillanti che i Custodi minacciarono di non ammettere più la loro presenza in quella sala.

«Al prossimo ciclo, dimensione umana.» mormorò Anane dopo un lungo silenzio, distogliendola dallo studio «Sei preoccupata?»
«Impaziente. Ma Nelchael non ne sembra contento.»
«È un tradizionalista, no? Non gli andrà giù questo strappo alla didattica.»
Non lo so’ avrebbe voluto risponderle ‘Non vuole mai che chieda degli Umani. Perché, perché? Perché non posso sapere? Perché ci mandano così presto nella dimensione umana e non ci spiegano niente?’
Annuì, invece, proprio mentre il periodo finiva e il Richiamo convocava entrambe alle lezioni. Anane si chinò a terra per prendere la borsa e iniziò ad infilarvi in fretta i libri.
Perché dobbiamo andare ma non esserne contenti? Perché non posso voler vedere il sole che muore? Perché si arrabbia se chiedo qualcosa? Perché si spaventa? Perché è così sbagliato essere curiosa?’
Una marea di domande le turbinava nella mente, confondendola con stranezze e dubbi ingigantiti dalla sua incertezza; ogni esitazione le sembrava celare un segreto, ogni parola avere significati nascosti. Non pensò che l’insegnante potesse semplicemente temere per l’inesperienza degli allievi.
Voglio vedere. Conoscere. Capire. Perché Nelchael non vuole?’
Sette periodi. Le sembrava impossibile dover aspettare ancora così tanto, prima di giungere nella dimensione umana. Due di lezione, uno di svago, tre di riposo, uno di preparazione. Sette periodi. Li aveva contati ossessivamente, nove, otto, sette; era sempre più vicina a quel qualcosa che Nelchael sembrava volerle negare.
...no. Tutto a tempo debito. Non è ancora il momento, ma verrà, se sono cose che mi riguardano; altrimenti, non devo farmi distrarre.’
Poteva non fidarsi di Nelchael, ma erano le Autorità a gestire l’insegnamento, e dubitare del loro operato era fuori discussione: grazie a loro era sempre andato tutto bene. Il sistema non sarebbe di certo cambiato per l’agitazione di un cherubino, e – lo riconosceva – era giusto così.
Solo un po’ di pazienza. Sette periodi e potrò sapere.’
Un foglio piegato in quattro, abbandonato sul tavolo, attirò la sua attenzione. Era di un materiale strano, ruvido, giallastro; poteva distinguere le linee dell’inchiostro dal retro, come se il colore lo avesse impregnato, invece di rimanere impresso sulla superficie.
«È umano?» mormorò, prendendolo in mano; ma non sembrò una domanda, quanto più un’affermazione, guidata da una strana consapevolezza.
Anane sussultò e lo prese di scatto, per poi infilarlo in mezzo al suo taccuino, controllando che nessun Custode lo avesse visto. All’occhiata stranita dell’altra, si affrettò a spiegare in un sussurro: «Non avrei dovuto portarlo nella nostra dimensione. È solo che mi piace toccarlo, è diverso dalla nostra carta, hai sentito, no? È solo un foglio, non penso farebbero troppe storie, ma non-»
«Tranquilla.» la interruppe «Non farò di certo la spia per un pezzo di carta.»
Le scoccò un’occhiata quasi offesa, che stava a significare: «Non farei la spia per niente.»
«Nella dimensione umana ti mostrerò altre cose carine.» promise, come per farsi perdonare «Adesso però andiamo. Tra Nelchael e Ridwan, non so chi odi di più i ritardi.»
«Nelchael.» rispose sicura l’altra «Quindi, se dopo le lezioni non sarò viva, saprai che si è vendicato.»
Ma non era la sua vendetta che avrebbe dovuto temere.
Bastano sette periodi per assaporare un’ultima volta la quotidianità? Sono troppi o troppo pochi? Solo guardandosi indietro, ormai immersi nel buio, si potrebbe dire quanto sia durato il tramonto; ma di rado, nella notte, si può ritrovare abbastanza senno da riflettere.
Gioisci del sole che muore, finché puoi, perché il futuro è un’oscurità che promette incubi.

* * *

«Ishild... Ishild, non ti riconosco più.»
«Dite tutti così, eppure sono sempre io.»
«Come puoi volere questo? Come puoi voler abbandonare tutto?»
«Tutto? Tutto cosa? Le ombre, il freddo, la morte?»
«Me. Vuoi un mondo senza di me, Ishild? E il sole? Vuoi un mondo senza sole?»
«Forse sì, forse voglio davvero un mondo senza sole.»
Il calore dei suoi raggi al tramonto.
Risate acute. Il richiamo di una madre per la cena. Le loro mani unite.
«Il sole muore. Moriremo anche noi, Ishild?»
Un bacio.
No, un addio.


Gli Angeli non sognano. Era una certezza che non aveva mai neppure avuto bisogno di essere espressa ad alta voce: sono gli Umani a vagare tra immagini inesistenti, durante il sonno. Non gli Angeli. Gli Angeli non sognano. Non. Sognano.
E allora perché, perché, perché? Perché doveva accadere di nuovo? Perché quelle scene erano tornate a tormentarla, come quando... quando... quando? No, era impossibile: non potevano essere tornate, perché non c’erano mai state. Doveva essere la sua fantasia a giocarle brutti scherzi, per l’ansia dell’incarico imminente. E l’impazienza di vedere finalmente la dimensione umana – il freddo, il buio, tutto ciò che fino ad allora non le avevano permesso nemmeno di immaginare.
Rimase a fissare il soffitto, incurante del fastidio che le provocava la luce rossastra della Presenza, del dolore alle ali premute sotto di lei. Una sostanza calda le colava dalle scapole; doveva essersi agitata molto, per maltrattare la pelle tanto da farla sanguinare. Ma gli Angeli non si muovono, nel riposo, perché per loro è solo un ovattato nulla. Gli squarci della nascita si erano di nuovo approfonditi, semplicemente, nulla di troppo anomalo; anzi, accadeva molto spesso. Nessuna stranezza.
Ma perché, perché, perché?
Si sentiva angosciata da una sensazione indefinibile, un’irrequietezza inspiegabile. Solo un pensiero martellante in testa, una domanda senza senso. Perché?
«Tutto bene?» le chiese Cassiel, al vederla cosciente e sconvolta.
«Sì, sì.» rispose, irritata dall’essersi mostrata tanto vulnerabile di fronte a lei «La Presenza inizia a darmi più fastidio del solito, tutto qui.»
«Mh.» annuì, poco convinta.
Tornò ad aggirarsi tra i letti e aggiunse, dopo un po’: «Pensi che arriverà, la tua amica?»
«Non credo. Riposerà fino all’ultimo, dicono che la dimensione umana sia molto stancante.»
«Certo che lo è. Ci sono molti più stimoli, e siamo di continuo in allerta, anche se non ce ne accorgiamo. Percepiamo di più lo scorrere del tempo.»
Aggrottò la fronte. «Nelchael non ce l’ha detto, questo.»
«Ha avuto poco tempo per prepararci. Ho chiesto qualcosa a quelli del ciclo superiore.»
Ma a me neanche Anane l’ha detto’ pensò. L’altra dovette immaginarlo, perché aggiunse con un mezzo ghigno: «Quelli bravi del ciclo superiore, intendo.»
Amitiel sperò ardentemente che dimenticassero nella dimensione umana Cassiel, i suoi strani occhi obliqui e le sue osservazioni maligne. Magari avrebbe potuto dare una mano al Fato e farla precipitare da qualche parte con le ali spennate.

* * *

Duecentotrentasei.
Circa trenta del ciclo superiore: fasce grigie in vita e ali ritirate o screziate di bianco.
Due gruppi ciascuna per quinta, sesta e settima classe: fasce e ali di varie tonalità di rosso, sempre molto chiare.
I più maturi della quarta: una trentina di fasce e ali cremisi, una piccola macchia scura impossibile da non notare.
In tutto, duecentotrentasei allievi, più dodici insegnanti.
Secondo la didattica tradizionale, circa sessanta di loro non avrebbero dovuto partecipare ad una lezione pratica di quel genere; secondo il buonsenso, almeno un centinaio. Sempre secondo la didattica tradizionale, avrebbe dovuto esserci un adulto ogni cinque di loro; e sempre secondo il buonsenso, uno ogni tre. Secondo le Autorità, invece, duecentotrentasei allievi per dodici insegnanti andavano più che bene. Davvero un ottimo rapporto, un adulto ogni venti – ovvero come essere certi di perdere almeno un elemento per gruppo. Ancora meglio affidare i più giovani a Cherubini appena più esperti: un massacro annunciato.
L’Autorità responsabile della missione si librava in alto, perché tutti gli allievi potessero vederla e udirla – ma anche perché le sue maestose ali da serafino la rivestissero di fermezza e solennità. Le muoveva rapidamente, con una padronanza rara, in modo da rimanere sempre alla stessa altezza; nel mentre, il suo sguardo si posava serio sulle ordinate fila sotto di lei, disposte per colore.
«Settima e sesta classe si divideranno, sette ogni insegnante» stava illustrando in quel momento «per svolgere gli abituali incarichi.»
Un mormorio inquieto si diffuse tra gli interessati: non era mai accaduto che venissero inviati gruppi così numerosi. Non essendo ancora in grado di fronteggiare adeguatamente un pericolo, era meglio essere rapidi il più possibile, e sette Cherubini non corrispondevano di certo ad un assetto agile.
Gli accompagnatori e gli altri insegnanti presenti li richiamarono immediatamente al dovuto ordine.
Ristabilito il silenzio, l’Autorità li rassicurò con tono pacato: «Non avete nulla da temere, poiché il rischio di incontri sgraditi è del tutto inesistente, avendo predisposto misure di protezione ancor più rigorose del solito. Inoltre vi posso garantire che, dato il vostro numero tanto elevato, nessuno oserà avvicinarsi e potrete operare in assoluta tranquillità, come d’altronde è sempre accaduto.»
Settima e sesta classe tornarono ad avere un’espressione fiduciosa. Il ciclo superiore continuava a rimanere impassibile, già conscio del proprio compito e abituato alle visite nella dimensione umana – permesse anche in via privata, quando autorizzate del proprio insegnante. Solo quinta e quarta classe, quindi, erano ancora in ansiosa attesa: una folla di Cherubini troppo incerti e troppo rossi per quell’incarico, spaesati nell’enorme piazza immacolata della Via.
Il luogo era tanto ampio da poter ospitare agevolmente un esercito, nel suo perimetro di fiamme, e questo non faceva che intimorirli ulteriormente; l’avevano visto in precedenza solo una volta, alla propria creazione, quando il Fuoco della Via si era tramutato nel Fuoco della Venuta. Non era un caso che la piazza fosse così vasta e così bianca: se ti troverai perso nella dimensione umana, sembrava dire, ricorda il candore e la grandezza del mondo a cui appartieni, e non lasciarti corrompere.
L’Autorità, con un sottile accorgimento per la giovanissima età dei suoi nuovi uditori, riprese a parlare in tono meno severo: «Mi rivolgo ora alla quinta e alla quarta classe, che spero non siano intimorite dalla propria inesperienza. Come il ciclo superiore è già a conoscenza, voi agirete senza la diretta sorveglianza di un insegnante; tuttavia “agire” è senza dubbio un’espressione inadatta, in quanto non è previsto da parte vostra alcun intervento pratico. Il ciclo inferiore avrà l’unico compito di osservare la dimensione umana, nei luoghi più naturali e distanti dagli Umani. Ognuno degli allievi sarà affidato ad un compagno del ciclo superiore, che ha già stabilito con i Custodi i tempi e le modalità della vostra esplorazione: non avete nulla di cui preoccuparvi, quindi, poiché sarete sempre a debita vicinanza da un adulto, nell’improbabile eventualità in cui sorgano complicazioni. Le Autorità confidano nella responsabilità che si attende da giovani quasi sviluppati, quali sono gli allievi del ciclo superiore, e nell’adeguata preparazione che gli insegnanti hanno di certo fornito ai più giovani. Io stessa, come Autorità e maestra, sono convinta che siate tutti pronti per un’esperienza tanto importante, e che saprete trarne il maggior vantaggio possibile.»
Amitiel distolse per un istante lo sguardo dal serafino. Cassiel, alla sua sinistra, splendeva d’orgoglio; Raphael, dall’altro lato, appariva concentrato e determinato. Lei stessa, oltre all’ansia e all’impazienza, si sentiva onorata dalla fiducia accordatale, e con ogni probabilità la sua espressione era simile a quella dei compagni.
Un discorso ben costruito e ben proferito, se rivolto a menti inesperte, può mostrare come straordinaria concessione anche alla follia più avventata.
Nelchael, a lato della loro fila, fissava il serafino con disgusto poco velato.
«Ho terminato. Coloro che ne sono in grado si celino; degli altri si occuperanno gli insegnanti. Vi chiedo di rimanere in riga sino a quando non avranno tutti ultimato, in modo da non creare disordine. Non appena possibile, raggruppatevi e disponetevi senza confusione. Settima e sesta seguiranno come sempre gli insegnanti. Quinta e quarta si lasceranno guidare dai loro compagni del ciclo superiore.»
I maestri avanzarono rapidi lungo le file, fermandosi pochi istanti di fronte ad ogni allievo, sempre meravigliato. Il Fuoco del Velo era un meccanismo indispensabile per non essere scorti da occhi umani, e anche i più immaturi lo conoscevano, ma solo teoricamente: era la prima occasione in cui potevano provarlo su di sé.
Amitiel percepì all’improvviso le mani di Nelchael sulle proprie spalle. L’uomo tremava, con il viso irrigidito dalla collera, e per l’ennesima volta lei si chiese perché. Iniziava a temere che fosse impazzito, per tenere quel comportamento sempre più singolare.
Il tocco svanì in fretta com’era giunto, sostituito da una presa ferrea sul mento, che la costrinse a guardarlo in viso con un sussulto di sorpresa. I penetranti occhi scuri dell’adulto la scrutarono a fondo, mentre lei tentava senza esito di liberarsi o articolare qualche suono; Cassiel lanciò loro un’occhiata stranita, ma obbedì immediatamente quando Nelchael le ordinò di chiamare l’Autorità.
«È ferita.» sibilò lui, non appena il serafino lo raggiunse.
«Vediamo. Sachiel, avvicinati, guarda anche tu.» intimò, zittendo con un gesto infastidito le proteste dell’altro «Lo percepisci?»
Non aveva più nulla della solenne e benevola Autorità che aveva illustrato la missione: sembrava un’insegnante rigida, severa, abituata ad ordinare e non a chiedere.
La presa ferrea fu sostituita dal tocco della donna, più delicato ma altrettanto deciso. Sotto le sue dita Amitiel non osò più muoversi, neppure per scostare le ciocche chiare che dal capo dell’altra le scivolavano sul viso.
L’immobilità si sciolse in un sussulto, non appena al viso maturo del serafino se ne affiancò uno più giovane, probabilmente l’allieva. Le parve di riconoscere qualcuno, nei lineamenti delicati, nello sguardo azzurro e concentrato, nella linea morbida della labbra.
Risate acute. Il richiamo di una madre per la cena. Le loro mani unite.
Era come guardarsi allo specchio, e udendo la sua voce sommessa – «Sì, lo percepisco.» – si stupì di non aver parlato lei stessa.
Un bacio.
Poi la ragazza si distanziò, insieme all’insegnante, e sentì i due adulti discutere in un sussurro; tuttavia non li ascoltò, concentrata a riprendere contatto con la realtà. Vedeva le ali rosse del compagno nella fila successiva, le sagome dei maestri che avanzavano, le lingue di fuoco che danzavano lungo il perimetro della Via; eppure le sembrava non essere davvero lì. Confusa, stordita, attonita, percepiva un dolore sordo dentro di sé, da qualche parte, e al contempo si sentiva immersa nel nulla.
«Amitiel. Amitiel!» sbottò Nelchael, riportandola ad uno stato più lucido, per poi afferrarle di nuovo il mento e guardarla negli occhi con urgenza «Nessuno strappo all’organizzazione, sovvertirebbe tutto e non c’è tempo per approntare qualcosa di diverso solo per te. Vai con qualcuno di cui ti fidi, e state sempre vicini ad un Custode. Dicono che non c’è pericolo, ma sta’ attenta, chiaro? Se ti senti intontita o assente, dillo subito e fatti riportare qui. Hai capito?»
Annuì, precisamente intontita e assente. Lo udì discutere ancora con l’Autorità, forse riguardo al suo stato, e poi lasciò che, tremante di collera, le stringesse le spalle. Un vago tepore la invase, ma senza provenire da un punto preciso, senza irradiarsi: era in ogni parte del suo corpo, semplicemente. Il Velo.
Qualche istante dopo i Cherubini sciolsero le fila e, formati i gruppi, si disposero ordinatamente lungo tutta la superficie della Via. Anane la affiancò con uno sguardo strano, a metà tra la preoccupazione e il sollievo; passò qualcosa dalla mancina alla destra – forse degli appunti sull’incarico – e con la mano ora libera le strinse il braccio.
«La prima volta può essere un po’ traumatica.» la avvisò a bassa voce.
Lei, ancora assente, non le prestò attenzione; ma si destò all’improvviso, come riemergendo da un lungo stato d’incoscienza, quando il fuoco lungo il perimetro della Via si innalzò repentinamente. Crebbe, crebbe, crebbe sin quasi ad oscurare il cielo, tingendo l’aria di rosso; e poi quell’onda si abbatté silenziosamente su di loro, inesorabile, terrificante.
Brucio. Brucio. Brucio.’
No, no, il nostro fuoco non brucia, il nostro fuoco non-’
Brucio. Brucio. Brucio.’
Amitiel, annichilita, sentì le dita di Anane stringere di più, per impedirle di muoversi, mentre il Fuoco della Via sfumava in un vortice indistinto, portandoli con sé in un altro luogo.

* * *

Un vuoto spiacevole, soffocante. Infinito ed eterno.
Panico.
È normale che duri così tanto? È andato storto qualcosa? Dov’è Anane?
Una fitta ovunque, e i sensi tornano all’improvviso.
I muscoli contratti, gli occhi serrati, i pugni chiusi.
Impatto.
Qualcosa di duro sotto le ginocchia.
Dolore.
Bocca socchiusa in un urlo muto, bloccato in gola.
Occhi aperti. Cos’è quell’alone scuro? Perché è ovunque? Perché si spo-
Sangue.
Sangue argenteo, lucente, sotto le gambe ferite.
Sangue rosso, cupo, nel cielo al tramonto.
Il sole muore.’

Un tonfo ovattato.
Che cosa-
Uno strattone doloroso ai capelli.
Sì, il sole muore.
Muori anche tu?






***
Angolo autrice
Ecco il secondo capitolo. Non sono particolarmente soddisfatta della penultima parte, ma ho dovuto per forza cercare uno stile abbastanza "spento" - per ragioni che verranno spiegate in seguito.
Non odiatemi per averlo interrotto in questo modo xD Già è venuto più lungo del solito, non potevo proprio andare avanti. Il prossimo varrà la suspense u.u
Sto cercando di inserire in modo "naturale" più informazioni possibili sull'ambientazione, spero di non averle rese in modo pesante. Una piccola nota sull'uso delle maiuscole: Angeli, Serafini, Cherubini e simili sono inseriti con la lettera maiuscola solo al plurale, per indicare tutta la categoria o sottolineare l'appartenenza, mentre uso la lettera minuscola quando è al singolare o è utilizzato come semplice aggettivo. I ruoli - Autorità, Custodi e simili - invece sono sempre in maiuscolo perché, nella loro mentalità, equivalgono ad un nome proprio.
Grazie a chi ha inserito la storia tra i preferiti e le ricordate, e soprattutto a chi commenta! ^^ Se vi va, mi piacerebbe sapere che ne pensate.
Al 19 con il terzo capitolo! ^^

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Capitolo 4
*** 03. Parole ***


Capitolo 3 – Parole



Non li aveva sentiti. Troppo occupata a riprendersi, non aveva prestato attenzione ad altre presenze, certa che i Custodi avrebbero compiuto il loro dovere; e forse, così inesperta, anche prestando attenzione non avrebbe percepito nulla. ‘Pietosa’ continuava a ripetersi, lacrimante – di dolore e di terrore. Una mano gelida le stringeva la treccia, le dita di un’altra erano posate sul suo collo esposto.
Se ti sgozzano, aveva detto una volta Nelchael, possono prosciugare la tua essenza insieme al sangue.
Raggi tiepidi e luminosi danzavano tra le chiome degli alberi, aloni scuri tremolavano e divenivano sempre più densi; ma lei, obbligata dalla stretta ferrea ai capelli, guardava verso il sole. Un’enorme sfera sfocata che calava piano oltre la cresta dei monti, tingendo il cielo di rosso e oro.
Doveva finire così? Poco più che bambina, guardando per la prima volta la dimensione umana? Accompagnata nell’oblio dalla luce sanguigna del sole che muore, come dalla Presenza nel sonno?
Uno strattone la costrinse a rizzarsi sulle ginocchia, ferite per la brusca caduta. Non ebbe la forza di protestare o agitarsi: di tutto il suo corpo tremante solo le ali ebbero un movimento inconsulto, come se volessero farla fuggire, ma subito una ginocchiata le raggiunse alla base, crudele, con uno scricchiolio inquietante. La schiena inarcata, un urlo di dolore bloccato in gola, chiuse gli occhi per non mostrare le lacrime.
«Una volta» mormorò una voce profonda e severa, indubbiamente maschile, accanto al suo viso «non eri così patetica.»
Una volta?
Le dita sul suo collo scivolarono fino a posarvi tutto il palmo, e Amitiel capì all’improvviso cosa fosse il freddo – dove lui la toccava, migliaia di aghi si conficcavano nella carne fino a raschiare anche le ossa, facendola sussultare di dolore. Era così gelido da bruciare. Avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto, ma non riusciva a spostarsi, immobilizzata dalla stretta crudele dell’uomo. Si agitava, si lamentava, senza riuscire ad arginare le lacrime, senza provarci nemmeno: persino la dignità non aveva più importanza, di fronte a quel dolore senza fine. Voleva solo che smettesse, che la facesse tornare al tepore del Paradiso, o almeno alla carezza consolante del sole, e non si curava di non umiliarsi e di non implorare. Fiamme gelide le lambivano la pelle, estendendosi dalla gola a tutto il corpo, mordendo senza pietà; qualcosa si agitava in lei, qualcosa che trovava quel contatto doloroso anche più a fondo della carne, nell’intimo, come se la sua stessa essenza si dimenasse per strapparsi di dosso quel fuoco atroce. Era pronta a lacerarsi, a raschiare via la pelle, pur di far finire quell’inferno – ed era una sensazione uguale e opposta a qualcosa che aveva già provato, in un altro tempo, in un altro luogo.
E poi finì, all’improvviso, lasciandola esausta e singhiozzante; il gelo tornò a concentrarsi sulla gola, dove l’uomo la stringeva, ma senza essere più così insopportabile.
«Immagino che dovrò accontentarmi.» un istante di silenzio riflessivo, poi una risata roca, e del fiato gelido le investì la tempia «Oh, ma tu respiri.»
Sì, respirava, si accorse. Non nel modo quieto, lento, che serviva per parlare: erano movimenti rapidi del petto, immotivati, che le davano ansia invece di tranquillizzarla. Meglio comunque dello stordimento che minacciava di inghiottirla, travolta da troppe emozioni.
«Alcuni istinti permangono, quindi. Interessante. Ma tu non sai nemmeno di cosa sto parlando, vero? Vi mantengono in uno stato di spaventosa ignoranza.»
Il tepore del sole, che fino ad allora le aveva accarezzato il volto, scomparve all’improvviso; al di là delle sue palpebre tutto divenne scuro, senza alcuna traccia di luce o colore. Aprì gli occhi di scatto, ma li richiuse immediatamente, terrorizzata. Il cielo livido non aveva più nulla dei colori caldi di prima, e le stelle esalavano una luce fredda ed esausta, che riempiva il mondo di ombre angoscianti. Il viso dell’uomo, intravisto per un istante, le aveva strozzato il rapido respiro: i lineamenti marcati non avevano nulla di mostruoso, ma lo sguardo grigio conteneva qualcosa di antico e amaro. Erano gli occhi di chi ha vissuto troppo in poco tempo e non riesce a liberarsi di quel peso; o di chi desidera la morte ma rimane incatenato all’esistenza, condannato ad un’eternità non richiesta e non voluta. Gli occhi di un folle. Aveva scorto un bagliore simile in Sariel, la sua insegnante della prima classe, prima che scomparisse all’improvviso; aveva poi scoperto, ormai all’inizio della terza, che la donna era stata isolata perché consumata dalla pazzia.
Rabbrividì.
«Sì, davvero uno stato di spaventosa ignoranza. E tu non ti sei affatto impegnata per cambiare le cose, a quanto vedo, vero? Una volta, oltre a non essere patetica, ragionavi.»
Amitiel continuò a rimanere in silenzio, le palpebre serrate, il freddo a farla tremare. Di cosa parlava? Stava delirando? Non ricordava nessuna voce simile, nessun tocco altrettanto gelido.
«Ma non temere. Anche se ti hanno resa un burattino, presto tornerà tutto normale, vedrai.» le mormorò, come a volerla rassicurare, in quella assurda situazione.
Era folle, sì. Forse l’aveva scambiata per un’altra, o forse la sua mente era affogata tra ricordi inesistenti, che gli facevano credere di averla già conosciuta. Agghiacciante.
I movimenti del petto si fecero ancor più rapidi.
Le dita sul suo collo strinsero, impedendo all’aria di raggiungere i polmoni, e lui la avvisò: «Se non smetti di respirare così, ti sentirai male.»
Le mani, prima abbandonate lungo i fianchi, scattarono ad allentare la stretta – un gesto impulsivo, inutile, poiché non aveva bisogno di ossigeno. Eppure sentire l’aria bloccarsi in gola l’aveva riempita di un terrore cieco, qualcosa le aveva urlato che sarebbe morta; e la sua mente continuava a strillare, e le unghie continuavano ad affondare in quelle dita gelide, e lui continuava a stringere. E lei continuava a vivere e a sentire quell’irrazionale bisogno d’aria.
Perché non la uccideva? Perché non affondava le dita nel suo collo esposto e non estingueva la sua essenza? Forse non ne era in grado, pensò, aggrappandosi a quella speranza; forse stava solo tentando di spaventarla, in attesa dell’arrivo di qualcuno più potente.
Ma sarebbero arrivati prima i Custodi – Anane doveva già essere andata a chiamarli, perché non era normale non essere arrivate nello stesso luogo, e sicuramente la stavano già cercando e sarebbero giunti in un attimo, e... i pensieri vorticavano, deliranti, minacciando di farla impazzire.
L’uomo si avvicinò ancora, tanto che le sue labbra gelide le sfiorarono la tempia, quasi in un bacio distratto. Percepì su di sé l’intensità quasi fisica del suo sguardo, e dopo qualche istante lo udì considerare, senza inflessione: «Sei ferita.»
Ferita. Era un’osservazione incomprensibile, che aveva attirato l’attenzione di molti: Nelchael, l’Autorità, la sua allieva. Uno spasmo interiore la colse senza preavviso, al ricordo di quegli occhi azzurri, ma svanì presto com’era giunto.
Ferita. Una parola ripetuta spesso, e nessuno che le avesse dato una spiegazione.
«Perché» sussurrò, con voce incerta «dite tutti così?»
«Perché è così. Intendevi chiedere cosa significa, vero?»
Annuì, per quel poco che le permetteva la sua stretta.
«Davvero uno stato di spaventosa ignoranza. Inizia a farti le domande giuste, se vuoi sapere qualcosa.»
La lasciò all’improvviso, e Amitiel si accasciò a terra, tremante. I sensi, acuiti dal terrore e non più distratti dall’uomo così vicino, percepirono almeno altre tre persone: presenze oscure, soffocanti, diverse da quelle limpide a cui era abituata. Una fuga sarebbe stata impossibile, anche nel caso in cui l’attaccatura delle ali non fosse tornata a dolere, disturbata dal movimento; per la ginocchiata si erano riaperti anche gli squarci, e sentiva il sangue scorrere lungo la schiena, mischiandosi sul terreno a quello colato dalle ginocchia.
Senza energie, aveva finalmente smesso di respirare, ma non farlo continuava a sembrarle innaturale. Un’impressione a dir poco assurda. Anche le lacrime si erano fermate, lasciando solo una scia tiepida sulle guance – ridicola consolazione, in confronto al gelo che la pervadeva. Il freddo avrebbe dovuto essere sgradevole, non così doloroso, ma forse era la vicinanza di quegli esseri oscuri.
Continuava a tenere gli occhi serrati, temendo l’aria buia e opaca che avrebbe potuto vedere. Non che il nero uniforme delle palpebre fosse in realtà molto migliore; ma così poteva illudersi che aprendole avrebbe visto, se non la luce rassicurante del Paradiso, almeno quella del sole.
«Domande.» sussurrò l’uomo, camminando lentamente intorno a lei in cerchi sempre più stretti, come un cacciatore con la sua preda «Domande. Ma immagino che tu te le ponga già, vero? Altrimenti non saresti ancora così umana. Il punto, quindi, è se avrai delle risposte.»
Si chinò di nuovo verso il suo viso, con un movimento tanto repentino che lei per la sorpresa aprì gli occhi. Rabbrividì, incontrando il suo sguardo severo, illuminato da una scintilla folle – dolore, rabbia, esaltazione?
«Ma ne hai mai ricevute, Amitiel?» sibilò sulle sue labbra «Quante volte hai domandato? Quante volte non ti hanno neppure ascoltata? Quante volte avresti voluto sapere e te l’hanno impedito?»
Scosse la testa violentemente, negando, atterrita dalla sua espressione furiosa. Non era vero, non era vero, non l’aveva mai fatto, le avevano detto che era sbagliato e non l’aveva più-
No, mai, mai, mai l’aveva fatto, mai!
Il viso dell’uomo si distorse orribilmente in un ghigno feroce. Una mano tornò a stringerle i capelli e lei chiuse di nuovo gli occhi, sibilando di dolore.
«Sì, invece. Quante volte hai sognato la dimensione umana? Quante volte hai guardato una persona e hai creduto di conoscerla già? Quante, Amitiel? E quante volte ti è stata negata una risposta?»
Sembrava conoscerla. Il suo nome, i suoi pensieri, le sue sensazioni. Come se fosse sempre stato accanto a lei, dentro di lei. I rimproveri, le punizioni, la rabbia di Nelchael ad ogni domanda di troppo, e quegli occhi azzurri e i dubbi e i sogni e-
«Perché ti ho cercata? Chi sono io? Chi sei tu? Pensi che te lo spiegherebbero, se tu lo chiedessi?»
«Non sono informazioni che mi competano.» mormorò d’istinto – parole che aveva udito così spesso da interiorizzarle a tal punto.
Lui rise ancora, sprezzante, aggressivo. «Capisci quello che dici? Sei davvero convinta che non ti riguardi, tutto questo? L’Espiazione ti ha resa un burattino?»
«Io non sono-»
«Uno stupido burattino inerme. Un tempo non l’avresti mai permesso, un tempo avresti preteso di sapere, invece di lasciarti manipolare da frasi vuote. Chi sei? Pensi davvero che non ti riguardi? Non ti sei mai chiesta niente?»
Rimase in silenzio, trattenendo a stento lacrime di rabbia e terrore. Perché doveva aggredirla così, perché non poteva semplicemente ucciderla o stordirla? Non poteva lasciarsi corrompere, non dopo tutto quello che aveva passato per capire che le domande erano solo una perdita di tempo, un’inutile perdita di tempo, un errore, un... un maledetto vizio che non era ancora riuscita a strapparsi via.
Lui, vedendo la sua espressione atterrita, sembrò calmarsi, quasi dispiaciuto. La stretta tra i suoi capelli si fece quasi gentile, e percepì un bacio gelido sulla tempia. La sua voce, sempre severa, ma appena più morbida di prima, le sussurrò: «Io ho risposte, Amitiel. Quelle che cerchi e altre ancora. Chi sei, perché sogni, perché sei ferita. Le domande che credevo ti ponessi, io ero pronto ad ascoltarle e a spiegarti tutto, anche ciò che altri ti stanno nascondendo. Ma se davvero non hai dubbi, se davvero non t’interessa...»
Parole.
Potevano delle parole fare così male? Scavavano solchi profondi dentro di lei, riaprivano vecchie ferite mai rimarginate del tutto, insinuavano il veleno dell’incertezza nella sua mente.

«Chi sono?»
«Sei una figlia del Paradiso, un frutto del Fuoco della Venuta. Uguale alle migliaia che ti hanno preceduta, uguale alle migliaia che ti seguiranno.»
«Ma io, io chi sono?»
«Non hai il diritto di porti queste domande. Il tuo compito è solo maturare nel migliore dei modi; non lasciarti distrarre da quesiti inutili.»
«Ma se mi riguarda, perché non mi deve interessare?»
«Basta così.»
Dolore.

Era un caduto o un demone. Non avrebbe dovuto ascoltarlo: la sua stirpe corrompeva, spargeva odio, mentiva.
Ma.
Ma parlava di cose che non comprendeva – che non ricordava? – e di cose che le erano accadute; e se sapeva quello, forse sapeva anche tanto altro che lei non avrebbe mai potuto conoscere, e se poteva spiegargliele non importava che fosse pazzo.
Ma sembrava così sinceramente deluso dal suo rifiuto, voleva rispondere alle sue domande, senza rimproverarla, senza punirla per i suoi dubbi.
Ma la sua stretta si scioglieva talvolta in un tocco più leggero, come se non volesse farle davvero del male; e una carezza era un gesto che prima di allora lei non aveva mai conosciuto, la promessa di una dolcezza ignota, un conforto negato dai cuori aridi che l’avevano cresciuta.
«Aspetta.» sussurrò, trattenendolo per un polso prima che si allontanasse.

* * *

«Non erano questi i patti.» mormorò per l’ennesima volta, con la voce incrinata dall’ansia.
«Sta’ tranquilla, cara.» fu l’altrettanto ripetuta risposta «Non ha alcun interesse a farle del male.»
«Oh, andiamo! Sappiamo entrambe com’è fatto!»
«...forse dovrebbe imparare a darsi dei limiti, sì, ma si tratta di lei. Non le farà nulla.»
«L’ultima volta che a me non ha fatto nulla, sono tornata in Paradiso con un braccio letteralmente a pezzi, ti ricordo.»
«Tu sei tu, cara. Lei è lei.»
«E lui è lui. È proprio questo che mi preoccupa.»
Era almeno la quinta volta che quel dialogo si ripeteva, sempre uguale. Le loro voci risuonavano limpide, in quella porzione di bosco quasi silenziosa: un ruscello gorgogliava a pochi passi da loro e il vento sfiorava le chiome degli alberi quasi in fiore, ma non si udivano animali – come se essi avessero percepito presenze estranee e si fossero allontanati, temendole. Una falce di luna emergeva tra le nubi, gettando una luce pallida che filtrava a fatica tra i rami – non che i loro occhi ne avessero bisogno, per vedere, ma la luce era comunque una rassicurazione. Una difesa contro gli incubi che sembravano annidarsi tra le ombre.
Anane camminava lungo la riva del ruscello, avanti e indietro, da tanto tempo che ormai ripercorreva le proprie orme sull’erba umida. Con il viso stravolto dall’ansia, si mordeva a sangue il labbro inferiore e torturava con le unghie l’abito candido – forse immaginando che al posto del tessuto ci fosse quel bastardo che non stava ai patti.
Due caduti le erano vicini, le ali nere esposte in una velata intimidazione, ma richiuse sulla schiena in segno di rispetto verso la donna con cui parlava. Seduta su un masso nel ruscello, quella sembrava essere del tutto a proprio agio, come se si trovasse lì per un’amabile chiacchierata tra amici e non per controllare la giovane: non si era nemmeno curata di esporre le ali. Aveva la tranquillità di chi, forte della propria fama, non si dà nemmeno la pena di apparire minaccioso.
Il suo viso non portava alcun segno del tempo, poiché il corpo di tali esseri rimane immutabile per l’eternità, fermo nell’istante della loro creazione, con un aspetto simile alle due decadi umane; solo le ali si schiariscono con la crescita, ma una volta raggiunta la maturità – perciò con le piume del tutto bianche – non vi è modo di comprendere l’età precisa. Tuttavia era chiaro che la donna avesse millenni di esperienza: l’energia emanata dalla sua essenza era enorme, forse persino paragonabile a quella degli Antichi.
I due caduti le tributavano il rispetto dovuto al suo prestigio e alla sua potenza, senza nemmeno osare distendere le ali per timore che quel gesto venisse interpretato come una minaccia; il cherubino, invece, le parlava con una confidenza inspiegabile.
«Basta.» sbottò Anane, fermandosi di fronte a lei «Io chiamo aiuto.»
«No.» le rispose in tono gentile. Non sembrava un ordine, ma una semplice osservazione.
«Sì.»
«Non credo, cara.» occhieggiò brevemente al foglio che la giovane stringeva in una mano «Non ne vale la pena.»
«Ci sta mettendo troppo. Se le ha fatto qualcosa, io... io...»
Sorrise, ironica. «Tu?»
«Basta, io chiamo aiuto.»
«Fermi.» ordinò, improvvisamente fredda e autoritaria, quando i due caduti si mossero verso Anane. Poi tornò a rivolgersi a lei in tono gentile: «Tranquilla, non le farà nulla.»
«Conoscendolo...»
«Proprio perché lo conosci, cara, dovresti fidarti. Sai meglio di chiunque altro quanto si sia dato da fare, sì? Anche con quell’altra, per essere sicuro di riavere lei.»
«Certo che lo so. Tutto questo è merito mio. Il minimo è rispettare i patti! Era così difficile aspettare ancora un po’? L’avrà traumatizzata, così. Neanche un po’ di preparazione.»
«Cerca di capirlo, cara. Quando ha saputo che sarebbe discesa in anticipo-»
«Ha perso il poco senno che aveva.»
«D’altronde, cosa possiamo farci noi?» sorrise «I sentimenti spingono a fare pazzie, a volte.»
Anane strinse di più il foglio che aveva in mano, poi lo ripose in una tasca sul petto e sibilò: «Grazie della delicatezza, la apprezzo molto.»
«Scusami, cara.» si allungò a sfiorarle un braccio «Non era riferito a te.»
La giovane si scostò malamente, rischiando di farla cadere in acqua. «Non ho bisogno della falsa compassione di una viscida puttana ipocrita.»
«E io, invece, mi annoio ad ascoltare i tardivi ripensamenti di una stupida ragazzina traditrice.» rise, con il capo gettato indietro «Di solito non mi parli così, cara.»
«Di solito i patti si rispettano. La traditrice qui non sono io.»
La donna saltò con agilità sulla riva, di fronte all’altra, alzando il viso per poterla guardare negli occhi e posandole una mano bollente sulla guancia. «No, dici? Eppure in te vedo così tanto rimorso. Ti sciupa.» inclinò leggermente il capo e socchiuse gli occhi, come ascoltando qualcosa «Ma non devi più preoccuparti, ci sta chiamando. Andiamo, sì?»
Precedute da uno dei due caduti, esposero le ali e si elevarono al di sopra degli alberi, seguendo poi la traccia del Richiamo. Nel vedere Anane portare la mano al petto, per controllare che il foglio non cadesse durante il volo, sorrise mestamente e le mormorò: «Non dovresti tenerci così tanto, cara. Sono solo parole.»
Ma le parole avevano già distrutto convinzioni, legami, vite, e ne avevano creati altrettanti. Quanto potere può esservi in una semplice sillaba? Sì, no, un singolo suono che può cambiare tutto.
C’è chi è tanto bravo con le parole da poter raggirare un intero pubblico.
Anane si lasciò precipitare in una radura, vicino ad una giovane inginocchiata, e spinse via l’uomo che quella teneva per un polso. Abbracciò il cherubino, singhiozzando scuse, quasi in lacrime; poi gridò al caduto parole che la donna, ancora sospesa sopra di loro, avrebbe preferito non udire. Come avrebbe preferito non udire le repliche velenose dell’uomo, che fecero ammutolire Anane a metà di un’ingiuria.
C’è chi è tanto bravo con le parole da poter raggirare un intero pubblico; e poi c’è chi con le parole è un genio, e non basta tutta la propria cautela per non cadere nella sua rete.
«Non piangere, cara.» mormorò ad Anane, atterrando dietro di lei «Il rimorso ti sciupa, te l’ho già detto, sì? E poi lo trovo terribilmente ipocrita.»
«Proprio tu parli di ipocrisia?» ringhiò quella, voltandosi furiosa verso di lei.
«Cara, perché sei così scortese? Mi pare che la tua amica stia bene, sì?» le accarezzò i capelli con un sorriso triste «Ora calmati, smetti di offendermi in questo modo. Mi addolori, figlia mia.»
«Taci, madre
Parole.
Semplici suoni in grado di ferire più a fondo del ferro e del fuoco.




***
Angolo autrice:
Capitolo importante. Fondamentale. Fateci attenzione, perché niente è messo a caso, qui.
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite e soprattutto un ringraziamento enorme a chi commenta. Leggere l'opinione dei lettori è il miglior modo per ritrovare l'ispirazione (:
A domenica prossima con il quarto capitolo!

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Capitolo 5
*** 04. Cristallo ***


Capitolo 4 – Cristallo



La biblioteca degli insegnanti era stranamente quasi deserta. Durante il secondo periodo, nonostante vi fossero le lezioni, qualcuno era sempre lì: il proprio allievo nella dimensione umana, un gruppo occupato in altre attività, un incarico urgente, e così almeno una decina di maestri era libera.
Per quel ciclo e per molti altri a venire, tuttavia, ogni istante utile sarebbe stato dedicato ad incombenze straordinarie: per divenire insegnante servivano acume e capacità, ed era giunto il momento che tali doti fossero sfruttate anche al di fuori delle aule.
A differenza del solito, quindi, solo una donna era presente – una figura minuta, che quasi non si notava, mentre si aggirava tra i tavoli e gli alti scaffali. Afferrava volumi, li sfogliava, li rimetteva al loro posto; talvolta annotava qualche parola su un taccuino, ma la sua ricerca non sembrava dare molti risultati.
All’improvviso la porta si spalancò con violenza.
«Nelchael.» salutò la donna, riconoscendo la presenza, senza alzare gli occhi da un libro.
«La tua allieva?»
«Ad esercitarsi. E tu dovresti essere a fare lezione, sì?»
«Studio individuale.»
«Proprio quando vorresti essere libero. Che casualità.»
«Un insegnante in più, uno in meno, non penso che ormai faccia molta differenza, non credi?»
«Chi non è con i propri allievi» s’interruppe, già irritata, per trascrivere un’informazione «sta solo eseguendo gli ordini.»
«E quindi cosa-»
«Nelchael.» sibilò, chiudendo di scatto il volume «Ho già avuto abbastanza pazienza. Se hai un buon motivo per essere qui, bene, altrimenti torna ai tuoi compiti.»
L’uomo si sedette ad un tavolo e ringhiò: «Naturalmente ho un buon motivo, ma gradirei parlare con te, non con la tua schiena.»
«Adeguati.»
Era una scena che sembrava quasi essere stata vissuta mille e più volte – ma in un altro tempo, in altre circostanze, senza quel rancore. Ammutolirono entrambi.
Lui fissava le proprie mani con espressione assente, tutta la rabbia dissolta all’improvviso, come ricordando qualcosa; lei sfogliava nervosamente le pagine, tentando di trovare un indizio, senza prestarvi davvero attenzione.
«Pensi davvero che questi libri ti saranno utili?» chiese ad un certo punto l’uomo, udendola riporre l’ennesimo volume.
«Prima di consultarne altri, devo provare con questi. Lo sai.»
Lo sapeva, infatti: lo ricordava con dolorosa precisione, perché più volte la giustizia del Paradiso aveva condannato chi, per impazienza, non si era attenuto alla sua rigida e lenta burocrazia.
Tacquero ancora, persi entrambi tra pensieri e memorie, in un’implicita e fragile tregua – capivano sempre quando l’altro tornava con la mente al passato, un passato che esigeva almeno il silenzio.
Fu la donna, questa volta, a riscuotersi per prima. Si arrese all’evidenza – non sarebbe mai riuscita a trovare nulla, nel reparto di libera consultazione – e si sedette accanto a Nelchael.
«È per loro due, sì?» chiese senza guardarlo.
«Hai visto anche tu, prima. Non era il caso di-»
«Sachiel non ha reagito in alcun modo.» lo interruppe «Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
«Sachiel non è ferita, ed è stato comunque un rischio.»
«Invece penso che potrebbe aiutarle molto, stare vicine.»
La fissò allibito. «Stai scherzando.»
«No.» sfogliò distrattamente il taccuino, pensierosa «Non intendo forzare nulla, non ne vale la pena. Ma se si avvicinassero, forse potrebbe essere uno stimolo per entrambe, sì?»
«O forse» ringhiò «potresti distruggere tutti i loro progressi.»
La tregua era finita.
«La mia allieva è pronta a reggerlo, e potrebbe aiutarla a maturare più in fretta.» lo guardò negli occhi, gelida «Anticipare lo Sviluppo di un quasi certo serafino, o piegarsi alla presunta fragilità di un cherubino poco dotato? Che scelta difficile, sì?»
«Forse non sono ancora pro-»
«Taci!» si alzò di scatto, furiosa, esponendo le ali «Credi che ami questi metodi? Chiamare gli insegnanti ad altri incarichi, lasciare i Cherubini soli, spingere tutti al limite?»
Sì.’ pensò lui ‘Sì che lo credo. Tu pretendi sempre il meglio, il massimo, anche a costo di sacrificare qualcuno. Sei un’ottima Autorità, ma una pessima persona. E io uno stolto.’
«Tu» continuò in un sibilo «eseguirai gli ordini come tutti, senza discuterli, e non ti intrometterai nelle relazioni tra Sachiel, la mia allieva, e il cherubino ferito.»
«Amitiel. Non sai nemmeno il suo nome?»
«Non m’importa il suo nome. E non m’importa neppure parlare con te, perciò vattene, prima che mi spazientisca.»
«...obbedisco.»
La conclusione di ogni loro colloquio, una parola sputata con rabbia e amarezza, perché per quella donna – no, per quell’Autorità, perché di femminile ormai non aveva più nulla – sembrava quasi che i problemi non sussistessero per principio: se ordinava che andasse tutto bene, sarebbe andato tutto bene, in un qualche modo impossibile che stava agli Esecutori inventarsi. Mentre lui si preoccupava dei Cherubini che mandavano a farsi a ammazzare, lei contava con soddisfazione i tanti piccoli combattenti che presto avrebbero avuto.
Davvero un’ottima Autorità. Davvero una pessima persona.’
Rimase a guardarla per qualche istante, prima di voltarle le spalle e lasciarla alle sue ricerche inutili; gettandole un’ultima occhiata, poté vedere le sue spalle esili chinarsi, esauste, e le mani abbandonate stancamente sul tavolo. Desiderò che tornasse tutto come un tempo, che potessero ricostruire quel fragile cristallo di felicità che forse vi era stato, millenni prima – o forse era stato solo un sogno, chissà. Si odiò per averla lasciata crollare sotto il peso di responsabilità troppo grandi, e la odiò per aver rifiutato ogni aiuto. Fu quasi sul punto di tornare indietro, parlarle, sfogarsi. Quasi.
Davvero uno stolto.’

* * *

Anane. Riconobbe il suo abbraccio in un istante – quel modo inconfondibile che aveva di intrecciare le mani attorno alla sua vita, forte, fin quasi a farle male; e di posare il capo biondo sul suo, inspirando l’odore dei suoi capelli, grazie alla differenza d’altezza; e di sospirare di contentezza, stringendosi a lei. Tanti piccoli dettagli che rendevano Anane ciò che era. La sorridente, allegra, serena Anane.
Eppure stentava a riconoscerla. Quando il polso dell’uomo le era scivolato via dalle dita, si era chiesta cosa fosse accaduto; poi aveva percepito la presenza di Anane, la stretta violenta e angosciata, le grida contro quello sconosciuto, le scuse singhiozzate, le lacrime. Ma non poteva piangere, perché era la sorridente, allegra, serena Anane. Non poteva conoscere quelle persone, non poteva parlare a quell’uomo con tanta familiarità. E, soprattutto, non poteva avere una madre.
Gli Antichi, lo sapeva, inizialmente avevano avuto dei figli, e accanto ai Cherubini creati dal Fuoco della Venuta vi erano stati anche i frutti delle loro unioni. Si era notato subito, però, come il legame parentale fosse estremamente scomodo: impediva di considerarsi tutti figli del Paradiso, fratelli e sorelle senza alcuna distinzione. Era un ostacolo alla dovuta uniformità, che divideva i Cherubini a seconda della loro origine; tanto più che, a quanto si diceva, quelli generati da una coppia avevano una maturazione radicalmente diversa dal normale. Le unioni degli Angeli erano quindi state rese sterili, ed era impossibile – davvero impossibile – che Anane avesse una madre.
Le venne da ridere per l’assurdità della situazione.
«Amitiel, cosa... cosa ti succede?» le sussurrò l’amica «Ti hanno fatto qualcosa?»
«Penso che sia sconvolta, cara.» intervenne la madre, scostandola leggermente «Lascia fare a me, sì?»
Delle mani bollenti le alzarono il viso con delicatezza e fu costretta a fissare una donna dalla bellezza quasi esagerata. Tutto di lei trasmetteva incuria – i capelli scuri aggrovigliati, la veste sgualcita, le labbra segnate dai denti –, ma era evidente che fosse una negligenza voluta: sembrava un’amante appena rivestitasi, che esibiva senza pudore quel corpo tanto invitante.
Sei ali le avvolgevano languidamente il busto, membranose e prive di piume, di un rosso troppo intenso per essere scambiato con le tonalità dei Cherubini. Un demone.
La vide sorridere con espressione indulgente – falsa, la etichettò per istinto – e percepì il suo tocco bollente scostarle i capelli dalla fronte, una tenerezza materna del tutto fuori luogo.
Ormai le doleva il ventre per le risate, perché Anane non poteva avere nulla in comune con quella donna dall’aria ipocrita. Non la Anane che conosceva, almeno; ma in fondo quella notte era già così inverosimile che non si sarebbe stupita troppo, se avesse scoperto che la sua trasparente migliore amica era in realtà viscida come sua madre.
«Amitiel, sì?» il demone le accarezzò la guancia «Su, cara, calmati. Va tutto bene.»
«Tutto bene? Mi prendi in giro?» sfiatò stridula, trovando a malapena il fiato per parlare, tra una risata e l’altra; ma il tocco della donna era ammaliante, la sua voce la rilassava, la sua espressione esprimeva una sincera preoccupazione.
Perché agitarsi, in fondo? Non serviva a nulla, la rendeva semplicemente ridicola: avrebbe dovuto tranquillizzarsi, chiedere spiegazioni con lucidità. Senza nemmeno accorgersene, inclinò il viso verso la mano dell’altra, quasi calma; era come se all’improvviso tutto fosse scivolato lontano dalla sua mente, lasciando posto solo ad un’inattesa pace.
«Non influenzarla.» ingiunsero due voci all’unisono – quella severa dell’uomo e quella rotta di Anane.
«Ora è calma, sì? È questo l’importante.» rispose quella, continuando a sfiorarle il viso.
Fu strappata dalla quiete senza preavviso, non appena il demone venne brutalmente allontanato da lei. Si guardò attorno confusa, notando a stento che Anane, singhiozzando isterica, aveva ripreso a stringerla con forza, come terrorizzata dalla possibilità di perderla. Il caduto – ne poteva finalmente vedere le ali, nere, enormi, dalle piume affilate e taglienti degli Arcangeli – aveva afferrato la donna per un polso e la fissava furioso, chinato a sibilarle qualcosa all’orecchio. Altri caduti li osservavano a distanza, guardandosi di tanto in tanto intorno con nervosismo.
Dopo l’ilarità e la pace, venne la rabbia, violenta e improvvisa, accompagnata nella sua mente dal fragore di migliaia di cristalli infranti – la sua sanità mentale che andava in pezzi, probabilmente.
Non capiva e nessuno sembrava intenzionato a spiegarle qualcosa; avanzava nel buio, tra pensieri sconnessi e dubbi inascoltati, confusa. Anane singhiozzava scuse per qualcosa di incomprensibile, senza rispondere alle sue domande, permettendosi di essere debole quando era lei quella stanca e frastornata. Il caduto, dopo averle promesso informazioni, la ignorava per litigare con la donna, e quella rideva, per nulla impressionata, incurante della figlia e di lei. Si sentiva invisibile.
Avrebbe voluto ringhiare con forza la propria rabbia, ma le uscì solo uno strillo acuto: «Nessuno vuole degnarmi di una spiegazione, qui?»
L’amica mormorò il suo nome, con le lacrime che scorrevano lungo le guance. Avrebbe voluto scostarla, ma il suo corpo tiepido era troppo piacevole, dopo il gelo del caduto e il calore eccessivo del demone – una briciola di normalità in quella situazione assurda.
«Oh, cara.» mormorò la donna, ancora trattenuta per il polso, voltandosi nella sua direzione «Non sai nulla, ancora? Credevo che Michael ti avesse spiegato tutto, prima di chiamarci.»
Amitiel impiegò qualche istante per capire che Michael era il nome del caduto, che ora la fissava con espressione seria, indecifrabile.
«Manchi di organizzazione, figlio mio.» continuò il demone, indirizzandogli uno sguardo ironico.
L’unica risposta che ottenne fu un ringhio irritato, perciò tornò a rivolgersi verso le due giovani e aggrottò la fronte, infastidita dal pianto della più matura. Sbuffò: «E tua sorella manca di dignità. Mi fate quasi vergognare di essere vostra madre.»
Sembrava divertirsi enormemente, senza più alcun accenno della precedente dolcezza, nel vedere Amitiel sussultare incredula ad ogni riferimento alla loro tanto sottolineata parentela. Era assurdo pensare che potesse essere davvero la madre di Anane e del caduto; che questi fossero fratelli, poi, era un’idea a dir poco inconcepibile.
Altro rumore di cristalli infranti, altro brandello della sua stabilità che crollava miseramente.
E stava ancora aspettando delle spiegazioni.
«Non ascoltarla.» le consigliò Michael, con un’occhiata furiosa verso la donna «Sono tutte stronzate.»
«Non dovresti sminuire così certi legami, figlio mio.» rise quella «Capisco che-»
«Eisheth, taci.» ringhiò lui, dandole finalmente un nome.
Amitiel strinse i pugni, sempre più furiosa per quella mancanza di considerazione.
L’amica nel frattempo le era rimasta aggrappata, sempre in lacrime. Forse si aspettava che lei ricambiasse l’abbraccio. La allontanò con una spinta stizzita e scattò i piedi, per immenso sollievo delle sue ginocchia distrutte; strillò contro madre e figlio la propria rabbia, perché non potevano sconvolgere tutto così e poi ignorarla, senza neanche un chiarimento. Gli altri caduti presenti la fissarono, straniti dal suo sfogo, prima che Michael li invitasse alla discrezione con un gesto infastidito del capo.
Poiché ancora non le rispondeva, la giovane sbottò: «Se volevi tanto parlare, perché continui a perdere tempo?»
«Amitiel...» le sussurrò Anane, ancora a terra, notando un bagliore pericoloso negli occhi di Michael; lo stesso richiamo che le rivolse lui, in tono di gelido avvertimento.
«E tu!» continuò rivolta all’amica, battendo un piede a terra con stizza «Si può sapere perché continui a frignare?»
«E tu perché ti comporti come un cherubino appena creato, cara?» rise Eisheth, precedendo il figlio.
«Non-»
«Impaziente, indisponente, volubile. Come i cherubini appena creati, sì? Ti credevo più matura.»
«Siete stati voi a-»
«Basta.» intimò Michael, in tono vibrante di collera; persino il viso, fino ad allora impassibile e assente, era teso in un’espressione furiosa. Strinse il polso di Eisheth finché, nel silenzio che si era creato, non si udì uno scricchiolio sinistro, sibilandole: «Tu sai che Anane reagisce così, quando cerchi di influenzarla. Per una volta potresti avere compassione di questa tua figlia tanto patetica, madre, ed evitare una crisi d’isteria a lei e a tutti i presenti.»
La donna, lungi dall’essere intimorita, si liberò con sorprendente facilità dalla sua presa, per poi avvicinarsi ad Anane e accarezzarle il capo. Con l’aria di divertirsi più di un cherubino, mormorò: «Perdonami, cara, a volte dimentico che sei così sensibile. Volevo solo tranquillizzarti un po’.»
Amitiel, sfiorata dalle ali bollenti del demone, ebbe l’impressione che invece non avesse dimenticato nulla: voleva solo dare spettacolo e riderne, forse per scacciare la noia. Nauseante.
Il tocco gelido di Michael su un braccio la fece sussultare, distogliendola dalla contemplazione di quell’ipocrita affetto materno – di cui ancora si chiedeva il significato, perché continuava a ripetersi che una reale parentela era impossibile.
«Vieni.» le ingiunse.
Rivolse un brusco cenno del capo a due arcangeli che si erano avvicinati, ordinando di non seguirlo, e si alzò in volo. Benché un sussurro nella sua mente le suggerisse di non infastidirlo ancora, Amitiel non lo raggiunse e tornò a fissare Anane ed Eisheth, improvvisamente stremata.
Era come se quella scena nauseante l’avesse svuotata di ogni forza, lasciandola esausta senza un vero motivo. Forse c’entrava l’Influenza del demone, con quella stanchezza, e anche con la sua strana assenza di paura. All’improvviso si sentiva semplicemente vuota.
«Grazie, Eisheth.» ringhiò Michael, tornando a terra «Grande idea, influenzarla quando è ferita.»
Si volse poi verso Amitiel, afferrandole un braccio senza fare davvero forza; con l’altra mano le strinse la treccia ormai mezza sciolta, quasi in una carezza distratta e un po’ brusca. Lei lo lasciò fare, inerme, continuando a guardare l’amica.
«Vieni.» ripeté l’uomo, le labbra che le sfioravano la tempia «Se vi state vicine in questo stato, vi influenzate negativamente a vicenda. E poi tu volevi risposte, vero?»
Si alzò in volo, sempre tenendola per un braccio, e a lei non rimase altra scelta che seguirlo. Sembrava aver abbandonato la collera, ma era probabilmente una maschera per tranquillizzarla: gli occhi grigi erano ancora furiosi, mentre cercavano il sorridente viso di Eisheth per ammonirla silenziosamente. Avrebbe dovuto provare paura, si disse, incrociandoli per un istante – d’altronde stava seguendo un caduto verso una meta sconosciuta, i Custodi non si erano ancora accorti di ciò che stava succedendo, Anane era in preda ad un’inspiegabile crisi. Eppure, ancora una volta, si sentiva solo stanca e stordita.
Poteva quasi visualizzare i frammenti della sua sanità mentale andata in pezzi, ma era troppo esausta per tentare di rimetterli insieme, di trovare un senso a ciò che stava accadendo. Aveva solo voglia di piangere. E qualcosa faceva male, dentro di lei, in profondità – una sensazione inspiegabile e incomprensibile, eppure intensa.
Non fece nemmeno caso al tocco gelido di Michael che la guidava, all’aria fresca che le accarezzava gentilmente il viso, alle fitte che provava talvolta all’attaccatura delle ali. Si limitò a lasciarsi trasportare attraverso le ombre cupe della notte, troppo vuota anche per inquietarsi.
«Non preoccuparti.» le disse l’uomo ad un tratto, forse fraintendendo il suo stato d’animo «Andrà tutto bene, è normale che l’Influenza di Eisheth ti faccia questo effetto. Sei ferita.»
Lei continuò a volare senza rispondere, lasciando che i fruscii delle loro piume riempissero il silenzio.
Non era ferita: era in frantumi.




***
Angolo autrice:
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite e soprattutto un ringraziamento enorme a chi commenta! ^^ Tengo a ringraziare in particolare DearJuliet, con cui sono partita con i discorsi filosofici e che con il suo supporto mi fa sempre tornare l'ispirazione ^^
Non so voi, ma io trovo Eisheth adorabile u.u
A domenica prossima! (:

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Capitolo 6
*** 05. Principio ***


Capitolo 5 – Principio



Lanciò un sasso, facendolo rotolare oltre le radici degli ultimi alberi, e poi giù lungo il ripido pendio. Forse sarebbe caduto nel ruscello come i precedenti, o sarebbe scivolato fino a valle, o si sarebbe fermato a metà, rimanendo a languire tra l’erba dei pascoli.
Socchiuse gli occhi, ascoltando. Nessun tonfo, il torrente poco lontano continuava a gorgogliare indisturbato. Lanciò un altro ciottolo: rumore di spruzzi. Centro. Sorrise, soddisfatta.
«Gli Umani sanno far saltare i sassi sull’acqua. Incredibile, vero?» disse Michael, in piedi dietro di lei, una nota quasi malinconica nel tono.
«Come fanno?» gli chiese quieta, scagliandole un altro. Centro di nuovo.
«Ti sembro umano?» rise «Qualcuno ha... cercato di insegnarmelo, una volta, ma non c’è riuscito.»
«Conoscevi un umano?»
Altro lancio. Il ciottolo atterrò oltre il ruscello e rotolò lungo il pendio.
«Più di uno. È inevitabile, se vivi nella loro dimensione.»
«Sì, immagino di sì.»
Il caduto si sedette al suo fianco, ai piedi di un albero, ritirando le ali per non ferirla con le taglienti piume da arcangelo.
«Sei ancora stordita?» le chiese.
«Meno di prima.»
Avrebbe dovuto essere terrorizzata, confusa, angosciata per Anane e per quella situazione assurda; invece riusciva a pensare in modo lucido, pressando tutto in un angolo della sua mente e lasciando spazio solo al ragionamento – sempre che essere così tranquilla potesse chiamarsi pensare in modo lucido. Forse era semplicemente impazzita.
«Riusciamo a parlare, quindi?» si accertò Michael, divenuto quasi gentile, una volta soli «Non manca molto all’alba, il teatrino di Eisheth ci ha fatto perdere fin troppo tempo.»
«Riusciamo a parlare, sì.»
Lui le scostò dalla fronte una ciocca sfuggita alla treccia nera, ormai quasi sfatta. Sembrava stranamente abituato a quei gesti, la toccava con una confidenza che Amitiel non riusciva a spiegarsi.
«Eisheth non avrebbe mai dovuto influenzarti.» ringhiò.
«Perché la sua... Influenza... mi fa quest’effetto?»
«Sei ferita.» rispose, come se fosse ovvio «Te l’ho già detto.»
«Ferita?»
«S’intende ferita nell’essenza.»
Si voltò a guardarlo, confusa. «Perché, l’essenza si può ferire?»
«Evidentemente. Come il corpo si può danneggiare, l’essenza si può ferire.»
«Cosa significa?»
«Niente di grave.» esitò, cercando le parole più comprensibili «Si diventa solo un po’ più sensibili a certe cose, un po’ più instabili, ma con il tempo si guarisce.»
Aggrottò la fronte, assorta. «Come fa l’essenza a ferirsi?»
«Può accadere spesso, quando uno scontro raggiunge un piano più... spirituale.»
«La mia essenza è ferita...» mormorò Amitiel, confusa.
Lui annuì, facendo scorrere tra le dita le ciocche scure della ragazza.
«La mia essenza è ferita...» ripeté, mentre uno strano disagio strisciava dentro di lei «Ma io non mi sono mai scontrata in questo modo.»
Michael scosse le spalle e le chiese: «È la prima volta che ti dicono di essere ferita?»


Dolore alla schiena, violento, improvviso, come se fosse stata appena squarciata.
La carezza materna delle fiamme che porta un po’ di consolazione.
Un tormento più profondo, inspiegabile, intimo.
«È ferita.»


Inclinò il capo verso la mano dell’uomo, assaporandone la carezza gelida, come cercando conforto. Di fronte a sé vedeva ancora quello sprazzo di passato, e lo stordimento stava lentamente lasciando spazio ad un’esausta malinconia. Sussurrò: «...no, non è la prima volta.»
Diversa, anomala, sin dall’inizio. Prima ferita, poi troppo curiosa e troppo distratta. Strane sensazioni di familiarità, impressioni istintive che si rivelavano esatte, fantasie simili a ricordi. I sogni che talvolta tormentavano il suo riposo. Tante domande, nessuna risposta. L’Espiazione.
La macchia imperfetta in mezzo al candido meccanismo del Paradiso, i cui ingranaggi funzionavano perfettamente: ognuno con il proprio preciso compito, ognuno con l’intimo desiderio di adempiervi nel migliore dei modi, senza lasciarsi distrarre. Tranne lei e pochi altri – ribelli da correggere in tempo.
Percepì appena la mano di Michael scivolarle lungo il viso e guidarla verso di lui. Appoggiare la fronte al suo collo gelido fu doloroso, ma non si sottrasse a quel contatto: rimanere così le sembrava un gesto naturale, scontato. Un gesto familiare.
Si chiese distrattamente quando la confusione se ne sarebbe andata, permettendole di provare almeno disagio, se non terrore, per quell’assurda situazione. Ma quell’interrogativo scivolò ben presto lontano, e il suo interesse fu catturato dallo strano abito del caduto, che fasciava il busto e le spalle per intero; sulla schiena, il tessuto aveva due grandi lacerazioni, in corrispondenza dell’attaccatura delle ali. Preferiva di gran lunga i propri vestiti, che sembravano più resistenti e morbidi, oltre che più comodi – ora che ci pensava, non sapeva nemmeno di che tessuto fossero, e se gli Umani ne usassero altri. Avrebbe dovuto informarsi meglio.
Ma com’era finita a pensare a questo? Sbuffò, senza riuscire a risalire il filo delle proprie riflessioni. Era difficile mantenersi concentrata: la sua attenzione vorticava, labile e incostante, senza riuscire a posarsi su nulla in particolare, come una nube di lieve vapore dissipato dal vento.
«Michael.» chiamò, quando i suoi pensieri volsero di nuovo allo stato della sua essenza.
«Dimmi.»
Si sforzò di non distrarsi e continuò, con un’improvvisa illuminazione: «Scontrarsi su un piano più... spirituale... è l’unico modo per ferire l’essenza?»
«Sì.»
Ogni sua congettura crollò miseramente. Un po’ esitante, chiese ancora: «Quindi alla nascita non... alla nascita non è possibile che...»
«La nascita non è un evento che ferisca l’essenza.» le rispose, sciogliendo il nastro bianco che tratteneva la sua treccia. Rimase in silenzio per diverso tempo, concentrato nel districarle i capelli con gesti rilassanti, poi aggiunse: «Dovrebbe essere accaduto qualcosa prima, perché sia così.»
Si godette quelle attenzioni, che paradossalmente non la distraevano, aiutandola invece a rimanere concentrata. Avrebbe voluto scostare il capo dalla sua spalla e guardarlo in viso, ma temeva che così si sarebbe interrotto, quindi rimase con gli occhi nocciola puntati sul terreno.
«Prima della nascita?» chiese, confusa.
«Prima del Fuoco della Venuta.»
Non comprese il senso di quella correzione: il Fuoco della Venuta segnava il principio, la creazione. La voce profonda e seria dell’uomo, però, sembrava volerle suggerire significati nascosti e improbabili.
«Ma la Venuta coincide con la nascita.» mormorò «E prima non c’è nulla.»
Michael non rispose, continuando a pettinarle i capelli con le dita, e l’attenzione di Amitiel scemò ben presto, tornando a vorticare tra mille pensieri inconsistenti.
Il dolore alla fronte cresceva lentamente, contro il collo gelido del caduto, e anche la guancia – benché non a contatto diretto con la pelle dell’altro – iniziava ad essere molto infastidita; tuttavia non si mosse, assaporando quella posizione con un senso di pace e familiarità.
«Dobbiamo andare.» la riscosse Michael, dopo un tempo indefinibile «È quasi l’alba.»
«Mh.» mormorò, restia ad abbandonare quella quiete.
«Non parlare a nessuno di questa notte.» ordinò, serio, scostandosi per guardarla negli occhi «Saresti accusata di tradimento.»
Sbuffò: «Non sono stupida.»
«Quando sarai tornata lucida, rifletti su quello che ci siamo detti.» le raccolse di nuovo i capelli con il nastro bianco, in una coda morbida e disordinata «Ne riparleremo la prossima volta.»
Sembrava essere certo che si sarebbero visti di nuovo. Amitiel chiese come avrebbero potuto organizzare tutto, ma lui la liquidò con un brusco cenno del capo.
La giovane si alzò, con le gambe intorpidite, e dovette appoggiarsi ad un tronco per non scivolare lungo il pendio. Alzò gli occhi. Il cielo stava assumendo un colore meno cupo, un azzurro tenue che oltre la cresta delle montagne sfumava in tinte rosate; la luna non si vedeva più, le stelle scomparivano poco a poco. La dimensione umana sembrava risvegliarsi, non più soffocata dalle ombre della notte: si tingeva d’oro e di rosa, come un fiore che sboccia dopo un inverno gelido e oscuro.
«Il sole nasce.» mormorò, incantata, nonostante in realtà l’astro fosse ancora invisibile.
«Già.» il caduto le sfiorò la tempia con le labbra «E prima del sole c’era la luna.»

* * *

«Ishild. Sei qui.»
«È quasi il momento, vero?»
«Sì. Si avvicina il nostro tramonto
«Non è un tramonto. È un’alba.»
«Come vuoi tu. Mi basta che ci sia il sole, e che ci siamo noi.»


«Maledizione.»
Erano quattro cicli di fila che faceva quel sogno – quattro cicli che si svegliava all’improvviso, tremante e sconvolta; quattro cicli che entrava in aula e Nelchael la fissava come se sapesse tutto; quattro cicli che attendeva invano Anane per parlare e sfogarsi.
Quello era il quinto, e stava iniziando a preoccuparsi davvero. Non riusciva a capire molto di ciò che sognava: c’era il sole a sfiorarle la pelle, una presenza accanto a sé, delle parole in una lingua sconosciuta di cui comprendeva ugualmente il senso. Sembrava un ricordo, quasi, ma era stata una sola volta nella dimensione umana, e quell’occasione non c’entrava nulla con le immagini oniriche.
Affondò un pugno nel cuscino, frustrata e accaldata. Era stanca, terribilmente stanca: non riusciva a riposare per più di un periodo e mezzo a ciclo, a causa della Presenza troppo intensa e di quei sogni. Non poteva più neppure distrarsi battibeccando con Cassiel, che fin dal loro rientro in Paradiso era stata promossa dalla quarta alla sesta classe, e nessuna delle compagne rimaste era abbastanza matura da svegliarsi presto quanto lei. Rimaneva a dibattersi tra pensieri neri e opprimenti riflessioni per almeno un periodo, dibattendosi tra le spire vischiose dell’angoscia, prima che qualcuna si destasse – Ramiel, di solito, talvolta anche Gadriel. Nessuna con cui avesse un legame particolare, in ogni caso, perciò rimaneva una ben scarsa consolazione.
Sospirò, rannicchiandosi tra le lenzuola a occhi chiusi, infastidita dalla luce rossa della Presenza – persino quella sembrava accusarla di aver tradito, di essersi lasciata corrompere, di non meritare la dolce attenzione con cui il Fuoco vegliava i propri figli.
Avrebbe potuto confidarsi con Anane, se fossero riuscite a parlare, ma tra loro era sceso un velo di soffocante silenzio. Durante quei quattro – ormai quasi cinque – cicli, l’aveva vista ogni volta socchiudere la porta del dormitorio e rimanere a fissarla, indecisa; e ogni volta se n’era andata senza una parola. Era arrabbiata, forse? O disgustata? O si sentiva in colpa? O temeva che potesse farle domande scomode? Non riusciva a capirla, e la voleva indietro.
Voleva indietro Anane, il suo abbraccio e la sua risata. Voleva potersi sfogare, anche sapendo già che sarebbe stata troppo orgogliosa e riservata per dire tutto – ma era già una consolazione sapere che, se avesse voluto, avrebbe potuto farlo. Voleva che l’amica tornasse come prima. Ma non voleva, invece, sapere cosa passasse per la testa dell’altra: troppo terrorizzata dalla possibilità che per qualche motivo la odiasse, o che fosse disgustata da lei, o qualsiasi altro veleno che potesse corrodere il loro rapporto. Era terribilmente sbagliato, se ne rendeva conto – desiderava che Anane la ascoltasse, ma non era pronta a fare lo stesso. Una ragazzina egoista ed egocentrica.
Soffocò un singhiozzo nel cuscino.
Cos’avrebbe potuto fare, d’altronde? L’amica sembrava saperne molto più di lei, di ciò che era successo, mentre lei non capiva neppure cosa avrebbe dovuto fare. Ignorare l’incontro con Michael? Cercare di contattarlo? Riflettere su ciò che si erano detti? Nessuno le aveva spiegato come comportarsi, una volta tornata in Paradiso, né a lei era venuto in mente di chiederlo, ancora stordita dall’Influenza di Eisheth. Nessuno le aveva spiegato nemmeno cosa fosse diventata, in realtà: una traditrice? Una corrotta? Un semplice cherubino troppo ingenuo, che avrebbe potuto sperare nel perdono, se avesse confessato? Non voleva essere considerata feccia, si sentiva figlia del Paradiso, sorella degli altri Angeli; non era diversa da prima di quell’incontro, solo un po’ più curiosa, un po’ più informata. Era abbastanza per farla condannare? Ma era davvero così sbagliato, poi, aver parlato con un caduto? Non era giustificabile un po’ d’interesse per ciò che lui sembrava conoscere?
Si diede della stupida, continuando a soffocare il pianto nel guanciale; si maledì mille e più volte, perché si era fatta corrompere con un po’ di lusinghe e qualche notizia, tradendo così la fiducia delle Autorità, dei suoi fratelli, del Paradiso intero. Se avesse avvertito i Custodi di quel che era avvenuto, sarebbe stato tutto a posto – tutti vacillano, l’avrebbero perdonata. Perché era stata tanto stupida da tenerlo nascosto? E perché Anane non diceva niente, perché sembrava voler ignorare tutto?
Non riusciva a strapparsi di dosso l’impressione di essere sporca, macchiata. Aveva parlato con un caduto, si era lasciata convincere da lui, gli aveva chiesto informazioni; ma nessuno le assicurava che quelle informazioni fossero corrette, in fondo.
Sembrava voler insinuare che prima del Fuoco della Venuta vi fosse qualcosa, che non fosse il principio di tutto, che la vera nascita avvenisse in un altro momento; un pensiero assurdo, negato dall’istinto e dalla ragione, un concetto a cui la sua mente si ribellava, indignata da una falsità così palese.
E forse essere feriti era normale, quando si era appena stati creati: la schiena danneggiata, l’essenza anche. Aveva senso. Ma poteva non essere vero neanche quello che aveva detto sulla ferita, Nelchael e l’Autorità potevano riferirsi ad altro, quando ne parlavano – forse alla situazione logorante che si veniva a creare durante la maturazione, a cavallo tra una classe e l’altra, che sfiancava l’essenza impedendo il riposo; oppure gli squarci della nascita che si riaprivano, tornando a sanguinare.
C’erano così tante cose di cui non aveva tenuto conto, quando aveva scelto di ascoltare quel caduto. Era solo un cherubino, nemmeno a metà della maturazione completa, come poteva immaginare che l’avrebbe raggirata? E poi l’avrebbe di certo uccisa, se non gli avesse dato attenzione, cos’altro avrebbe potuto fare lei?
Se solo le avessero spiegato qualcosa, non avrebbe avuto alcun desiderio di ascoltare il caduto, perché avrebbe già avuto le risposte di cui sentiva il bisogno. Se fosse stata meno ignorante, non si sarebbe lasciata convincere da parole ingannevoli. Se non avessero punito ogni volta la sua curiosità, non si sarebbe aggrappata alla comprensione di uno sconosciuto. L’avevano repressa e lei aveva cercato sfogo altrove, con qualcuno che aveva mostrato di ascoltarla e capirla. Era davvero solo colpa sua, quindi, o anche di chi non aveva mai voluto prestarle attenzione?
E in fondo non era successo nulla di grave, no? Non era morto nessuno, non aveva tradito il Paradiso, aveva semplicemente parlato con un caduto. Aveva avuto delle informazioni, forse false, forse corrette – ma in ogni caso non era così importante, sapere che l’essenza poteva essere ferita; probabilmente aveva solo anticipato qualcosa che avrebbe studiato nelle classi successive. Le insinuazioni su un’esistenza prima del Fuoco della Venuta non erano altro che vaneggiamenti. Di cosa poteva essere accusata? Di aver scoperto qualcosa che avrebbe comunque saputo, di aver dovuto ascoltare le farneticazioni di un folle? Se l’Influenza di quel demone l’aveva stordita a tal punto da non farla ribellare al caduto, lo si doveva alla facilità con cui l’essenza ancora immatura dei Cherubini si lasciava manipolare, lei non aveva potuto opporre alcuna resistenza. Probabilmente era accaduto così anche ad Anane, probabilmente l’amica era ancora stordita, per questo si comportava in modo così strano. Loro non ne avevano colpa. L’aveva piuttosto chi le aveva lasciate sole nella dimensione umana, senza riguardo per la loro acerba fragilità.
Non si sarebbe più lasciata ingannare, non sarebbe più accaduto. Che cos’era un istante di debolezza, in confronto all’eternità? Solo un granello di polvere, un dettaglio quasi inesistente. Poteva ignorarlo, dimenticare, rimediare, poteva farne ciò che voleva, perché non era nulla e nessuno sarebbe mai venuto a saperlo. Tranne Anane, ma lei avrebbe di certo compreso; e quei caduti e quel demone, che probabilmente non avrebbe visto mai più.
Rise, quasi isterica, rischiando di svegliare le compagne. Perché si era preoccupata in quel modo? Non era niente di grave, niente d’importante. Non l’avrebbero mai accusata o condannata o rinnegata, o qualsiasi cosa avrebbe meritato un suo tradimento, perché lei non ne aveva commesso alcuno.
La luce rossa della Presenza le sembrò all’improvviso più tiepida e piacevole, come se il Fuoco l’avesse nuovamente riconosciuta come propria figlia, perdonandole quell’istante di inesperienza e debolezza. Amitiel sorrise, rincuorata, mentre quella carezza materna la riaccompagnava nel sonno.
Ma quando chiuse gli occhi, la accolsero le tinte fiammeggianti di un ricordo, non il dolce nulla del riposo; l’incubo le sfiorò le palpebre, ghignando, come avrebbe fatto per molto tempo a venire.
Era solo il principio – uno dei tanti –, ma già non c’era modo di fermarlo.




***
Angolo autrice:
Grazie per aver letto, per i preferiti e per le seguite. Come al solito, un ringraziamento enorme a chi commenta, mi fate davvero contenta (:
Non ho potuto rileggere un'ultima volta il capitolo prima di pubblicarlo, se trovate errori segnalatemeli pure ^^
Se in questo capitolo avete colto qualcosa che Amitiel invece sembra non cogliere... be', poverina, lei è cresciuta in un certo ambiente, con una mentalità molto chiusa, deve ancora maturare molto. Non detestatela troppo, se vi sembra ottusa, si rifarà u.u
Il prossimo aggiornamento probabilmente slitterà da domenica a martedì.

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Capitolo 7
*** 06. Specchio ***


Capitolo 6 – Specchio




Fissava la porta bianca da un tempo indefinibile, senza mai allontanare gli occhi dalla cifra rossa in rilievo, dagli asterischi sotto di essa.
Quarta classe, ottavo gruppo.
Al di là vi era il dormitorio, la Presenza intensa e materna e confortante, le ali ancora così rosse e gli squarci sanguinanti. Amitiel.
Quarta classe.
Spaventosamente immatura. Avrebbe dovuto insistere con Michael per aspettare ancora e prepararla meglio, perché era troppo acerba, troppo fragile. Ma cosa importava a lui? Non passava periodi interi a guardarla piangere e agitarsi nel sonno, non la spiava da una fessura della porta sino a quando non scivolava in un riposo più quieto, non incontrava i suoi occhi spaesati e spietati.
Non fissava il suo viso in lacrime chiedendosi se, un tempo, anche il proprio fosse apparso così – se fosse uno specchio crudele di come il dolore e l’incertezza non mutassero mai, dilaniando tutti in ugual modo. Non sentiva riaprirsi vecchie cicatrici che, in fondo, non erano né vecchie né cicatrici.
Non si accasciava in preda all’angoscia nel proprio letto, non temeva per la sorte di quella che considerava più di una sorella, non si logorava per il senso di colpa straziante. Non passava interi cicli a fissare il cielo con occhi vacui, invocando nomi che avrebbe dovuto dimenticare – e in quei momenti avrebbe desiderato persino la carezza di ipocrita comprensione di Eisheth, per scacciare la solitudine.
Fuggì lungo il corridoio, singhiozzando, senza il coraggio di aprire quella porta per vedere ancora una volta gli incubi di Amitiel. Non le importava di farsi scoprire dalle Custodi, o di svegliare qualcuno con il rumore della sua corsa: voleva solo allontanarsi da lì, da quel numero rosso in rilievo che sembrava accusarla e giudicarla.
Quarta classe.
Così spaventosamente immatura.

* * *

«Amitiel.»
«Anane, ciao.»
Un incontro casuale nel caos del secondo periodo, quando gli allievi si affrettavano a centinaia verso le aule. Voluto, forse, ma non cercato. Avrebbero potuto fingere di non essersi viste, continuare per la propria strada con la scusa del ritardo, salutarsi con un cenno e correre via; ma l’affetto tra loro era tanto – troppo, per lasciare che lo insultassero ancora in quel modo.
«Come va?»
«Bene, tu? Ridwan ti ha detto qualcosa sul tuo Sviluppo?»
Sguardi sfuggenti, mani nervose che torturavano la divisa, un silenzio impacciato e titubante.
«No, non lo vedo da un po’, è sempre occupato.»
«Capisco.» pausa incerta «Scusa, ora devo andare. Se arrivo un’altra volta in ritardo, Nelchael mi uccide.»
«Allora ciao. Mi ha fatto piacere vederti.»
«Sì, anche... anche a me.»
Prima che l’altra si allontanasse, Anane le afferrò un braccio, facendola di nuovo voltare verso di sé.
«Ti va di...» mormorò, mentre il sangue le affluiva alle guance, rendendole candide e luminose d’imbarazzo «Quarto periodo, solito posto?»
«Qualcosa di più appartato? Per parlare più tranquille. Se vuoi, ovvio.»
«La settima è nella dimensione uma-» s’interruppe all’improvviso, timorosa di ricordare all’altra la loro esperienza lì «La settima non c’è, possiamo andare nella loro biblioteca.»
«Mh... tetto di quella degli insegnanti?»
«Giusto, lì non ci sono i Custodi.»
«E così possiamo stare un po’ all’aperto.» aggiunse Amitiel, come per sottolineare che non c’era nulla da nascondere, nei loro discorsi – o almeno così le piaceva pensare.
«Certo. Be’, allora a dopo.» le lasciò il braccio e sorrise, incerta «Se Nelchael vuole ucciderti, digli pure che sei in ritardo per colpa mia.»
«...no, io non ti tradisco.»
E quella frase fece nascere uno sguardo d’intesa, lo specchio di ciò che vi era stato prima di quella notte; un riflesso forse un po’ distorto e incrinato, ma per quel momento bastava.

* * *

Anane passò il secondo periodo a sorvolare i quartieri degli allievi, incapace di rimanere chiusa in una stanza a studiare. Si lasciava bagnare dalla luce senza provenienza del Paradiso, ridendo, planando sui tetti bianchi e piatti, salutando i compagni che scorgeva a terra.
Amitiel voleva parlare, aveva detto che non l’avrebbe tradita, e le aveva anche sorriso, prima di andarsene. Andava tutto bene, ogni cosa sarebbe tornata alla normalità. Niente più imbarazzo o incertezza o silenzi. Tutto meravigliosamente bene.
Percepì il Richiamo segnalare l’inizio del terzo periodo e si lasciò cadere verso i dormitori, euforica, arrivando a sfiorare un tetto con le dita. Solo allora distese le ali e con un rapido battito tornò verso l’alto, trascinata dal vento. Ripeté il gioco più volte, incurante dei compagni che da terra le facevano ansiosi cenni di smettere, ridendo delle loro grida spaventate. Non temeva di ferirsi: aveva avuto secoli per provare e riprovare, fino a conoscere ogni corrente d’aria, e altri secoli ancora per sfidarsi con Amitiel.
Ricordò con un sorriso malinconico quel cherubino dalle ali ancora così rosse, la sua insistenza per provare quel gioco pericoloso, il proprio esasperato consenso. Quando, la prima volta, l’aveva vista battere le ali troppo tardi e spezzarsi un polso contro il terreno, aveva creduto che Amitiel non avrebbe più osato riprovare; invece lei l’aveva stupita, ripresentandosi poco tempo dopo con le ossa risanate e ancor più determinazione. Il vento aveva cullato la loro amicizia nascente, germogliata tra cielo e terra con la velocità di una caduta libera.
Smise di lasciarsi precipitare e, in un malinconico moto di affetto, accarezzò con lo sguardo i vasti quartieri degli allievi – lo Specchio, come venivano chiamati, anche se in realtà la loro struttura non era del tutto simmetrica. Era pronta a giurare di conoscerne ogni angolo, e di non aver mai amato così profondamente un altro luogo: poteva non condividere le sue idee, poteva disprezzare i suoi insegnamenti, poteva detestare molti dei suoi abitanti, ma non poteva non considerarlo casa.


D’altronde, lo Specchio era stato studiato affinché i Cherubini lo amassero.
Era sito su un immenso altopiano sempre accarezzato da correnti d’aria, che sostenevano i più immaturi nei loro primi voli con estrema dolcezza, ma che potevano rivelarsi altrettanto violente: nelle giornate più ventose nessuno delle classi inferiori osava volare, il cielo diveniva un confuso turbinio di fogli strappati dalle mani, le allieve nemmeno tentavano di avere dei capelli ordinati, le ampie finestre degli edifici tremavano per le folate.
Un fiume bianco scorreva intorno allo Specchio, facendolo sembrare un’isola – il Confine, che durante il rito dello Sviluppo si tingeva di rosso, per sancire la maturità di un allievo.
Nella pianura sottostante, piuttosto discosta dal monte, si estendeva la Città degli adulti: i palazzi delle Autorità e dei Censori, i templi, le palestre... una marea di edifici candidi sempre in fermento, poiché solo ai giovani era necessario il riposo. Luoghi affascinanti e solenni, in confronto allo Specchio – luoghi che loro potevano solo guardare da lontano o visitare con gli insegnanti, sognando l’indipendenza di cui erano simbolo e promessa. Così era in ogni zona del Paradiso, non solo in quella Circoscrizione: i Cherubini amavano la propria casa, ma agognavano la maturità, il giorno in cui sarebbero discesi tra gli adulti come loro pari.
Anane era una di quelle rare eccezioni che, avendo passato interminabili secoli nello Specchio, vi si erano affezionate tanto da guardare al distacco con malinconia, piuttosto che con impazienza. C’era anche chi, come Cassiel, attendeva quel momento con brama più irrequieta del normale, sentendo di non appartenere davvero alla marea di Cherubini immaturi: erano adolescenti dal corpo acerbo, ma dalle capacità di un adulto, e – secondo alcuni – dall’eccessiva arroganza.
E poi c’era chi, procedendo nella maturazione, percepiva sempre di più come quei quartieri fossero frutto di un’analisi attenta e meditata: giovani che rimanevano meravigliati da come fosse tutto efficiente e funzionale, o da come fosse studiato per rispondere sempre alle necessità dell’instabile essenza dei Cherubini. Futuri membri del Genio i primi, Custodi quasi assicurati i secondi. Sempre che non comprendessero troppo a fondo il funzionamento di tutto, perché quello sarebbe stato un problema; e che non si chiedessero perché, pur non essendo simmetrico, quel luogo venisse nominato Specchio – bisognava saper stare al proprio posto, senza spingersi oltre il punto richiesto, e senza porsi domande inutili.
Era una delle prime lezioni di cui s’impregnava la mente dei Cherubini, e non a caso le restrizioni sui luoghi vietati erano molto rigide, per i più giovani; diminuivano con la crescita, dimostrando come gli adulti fossero liberi e indipendenti, per spingere a maturare in fretta. Arrivati al ciclo superiore, ad un soffio dallo Sviluppo, era ormai permesso aggirarsi ovunque, tranne i dormitori del sesso opposto; ma questo divieto era spesso ignorato, perché gli allievi erano ormai abbastanza accorti da non farsi scoprire – nel ciclo inferiore, d’altronde, le punizioni per chi non vi riusciva erano sempre un ottimo incentivo ad impararlo in fretta.
E se un cherubino sa celarsi ad un Custode, sarà in grado da adulto di farlo contro i nemici.
Tutto perfettamente calcolato.


Anane, scuotendo il capo a queste riflessioni, atterrò sul tetto della biblioteca degli insegnanti e ridacchiò. Amitiel aveva avuto davvero un’idea grandiosa: quello era il centro esatto dei quartieri degli allievi, un punto da cui si poteva scorgere ogni edificio, spiare dalle enormi finestre, vedere le pendici verdi del monte e la candida Città distesa ai suoi piedi. Osservare tutto da quell’altezza – cinque piani, contro gli abituali due – la faceva sentire assurdamente potente. Ma forse era solo la felicità elettrizzata di tornare a parlare con l’amica, dopo più di quattro cicli di silenzio e occhiate sfuggenti.
Si appollaiò sul bordo del tetto, tentando di scorgere la classe di Amitiel, nell’edificio accanto. Le aule che davano su quel lato dovevano essere del sesto e del settimo gruppo, non dell’ottavo, ma aveva bisogno di occuparsi di qualcosa, o sarebbe presto scoppiata per l’impazienza.
«Mi annoio.» si lamentò con un immaginario interlocutore, allungando a dismisura le vocali.
«Potresti studiare, allora.» fu l’inattesa risposta.

* * *

«Sono solo un Custode, e per di più un semplice angelo. Non credo di riuscire ad affiancare i Guardiani ai confini, rischio di essere solo d’intralcio.»
«Discutere è inutile, ragazzo. Ti parla un Esecutore Materiale che in teoria insegna alla quarta classe.»
«Un arcangelo alla quarta classe? Non lo sapevo.»
«E chi ha parlato di un arcangelo, ragazzo? Hanno smesso di badare a certi dettagli.»


Aveva ancora in mente la voce derisoria di quell’uomo: i commenti di un’ironia quasi intollerabile, le risate beffarde, lo sprezzo malcelato. Ma era riuscito ad ignorarlo, senza lasciarsi scalfire dal suo sarcasmo, rendendo onore al proprio nome – Ridwan, come l’arcangelo della pace interiore – e alla propria pazienza; l’uomo gli era addirittura risultato quasi sopportabile, quando si era lasciato sfuggire di essere preoccupato per gli allievi più giovani.
Saputo il nome della sua allieva, però, aveva iniziato a fare insinuazioni che gliel’avevano reso decisamente insostenibile. Era innegabile che Anane avesse una maturazione molto lenta, ma questo era imputabile solo ad uno scarso talento e ad un ancor più scarso amore per lo studio; di certo non era un legame con gli Sconsacrati, o una corruzione interiore, ad ancorare la sua essenza allo stadio di cherubino. E uno sconosciuto, che nemmeno le aveva mai parlato, non poteva osare certe insinuazioni infondate – insinuazioni che, per giunta, avrebbero anche potuto causarle dei guai.
Aveva tirato un sospiro di sollievo, quando aveva visto le fasce blu degli Esecutori allontanarsi, tuttavia la sua inusuale irritazione non si era placata. Gli avambracci, sostenuti dalla rabbia, avevano retto gli assalti dei compagni senza mai cedere: anche se sarebbe rimasto dolorante per diverso tempo, era riuscito a dimostrarsi quasi al pari degli Arcangeli – perché un Custode era sì qualcuno incapace di spiccare, ma anche qualcuno in grado di adattarsi ad ogni ruolo.
Non esiste la mediocrità, semplicemente alcune doti sono più difficili da notare e da apprezzare. Quella ragazzina senza apparente valore era la sua sfida: l’avrebbe guidata verso la sua strada, trovando il suo talento. Serviva solo del tempo, e nessuno poteva osare certe insinuazioni su di lei.
Sbuffò, turbato da quei pensieri, e sfilò i pantaloni e la maglia ormai a brandelli per sciacquarsi dal sangue e indossare abiti tradizionali. Per gli allenamenti, molti – lui compreso – utilizzavano quelli di foggia umana: infastidivano un po’ le ali, che dovevano aprirsi un varco nel tessuto, ma erano più comodi e resistenti, avvolgendo interamente il busto e le gambe. Qualità apprezzata soprattutto dalle donne, che non gradivano affatto quando il chitone tradizionale risaliva verso i fianchi, o quando il drappeggio lungo una spalla si scioglieva e scopriva il seno.
Rivestendosi sfiorò per errore un gomito, particolarmente malridotto, e sibilò di dolore. Un Custode a fare il Guardiano tra gli Arcangeli; senza l’inusuale rabbia che l’aveva sorretto per quell’allenamento, avrebbe dovuto impegnarsi davvero molto, se non voleva morire prematuramente – e no, non voleva, o almeno non prima di aver trionfato nella propria sfida personale e aver visto Anane svilupparsi. Dopo le insinuazioni di quell’uomo, poi, era diventata una questione di principio.
Stretta ai fianchi la fascia azzurra dei Custodi, salutò con un cenno i compagni e uscì a grandi passi dalla palestra, senza recarsi dai Guaritori per quel gomito, che sarebbe guarito autonomamente in qualche tempo. Sorvolò in fretta la Città, diretto verso l’alto piano, ad ali distese – le sue semplici ali da semplice angelo e altrettanto semplice Custode, che però aveva saputo tener testa agli Arcangeli, e forse peccava di superbia, ma un po’ di orgoglio non glielo poteva negare nessuno.
In pochi istanti risalì le pendici boscose del monte, trovandosi sospeso sugli immensi quartieri degli allievi – una vastità che non era un inutile sfoggio, ma semplice efficienza. Un suo vecchio compagno, entrato nel Genio, gli aveva spiegato come quella struttura fosse meditata fin nei dettagli: un riflesso imperfetto, la cui simmetria era studiatamente sfregiata. Da quando aveva ascoltato la sua descrizione, si fermava spesso a contemplare lo Specchio, ammirando la cura con cui era stato ideato e riprodotto, identico, in ogni Circoscrizione del Paradiso.


I quartieri degli allievi erano un quadrato enorme e quasi perfetto. Otto larghi viali lastricati di bianco lo dividevano in nove colonne, incrociate perpendicolarmente da altri quattro viali, che le tagliavano in cinque sezioni ciascuna – zone rettangolari di uguali dimensioni.
Le colonne – tranne la nona – ospitavano i dormitori maschili nella prima sezione, quelli femminili sul lato opposto, nella quinta; questi erano disposti secondo la progressione delle classi, ma il ciclo superiore faceva eccezione, trovandosi esattamente al centro, tra la quarta e la quinta. Le candide costruzioni erano su due piani, ciascuno con quattro camerate – una per lato – orientate verso il grande cortile interno. Solo gli allievi del ciclo superiore avevano una stanza per sé, ma dall’esterno la struttura appariva uguale alle altre, essendo le finestre rivolte verso il cortile.
Se la prima e la quinta sezione erano identiche, la seconda e la quarta erano radicalmente diverse. Adiacenti ai dormitori maschili si trovavano le zone aperte, ampie aree erbose dedicate alle lezioni pratiche; a quelli femminili, invece, gli edifici a due piani delle biblioteche. Questo perché gli allievi, più robusti, fossero spinti all’esercizio fisico, mentre le loro compagne allo studio teorico.
La terza sezione, quella centrale, era dedicata alle aule; ma non nella zona del ciclo superiore, poiché gli allievi erano affidati singolarmente ad un maestro. Lì, al centro esatto dello specchio, sorgeva la biblioteca degli insegnanti, più alta e imponente di qualsiasi altro edificio.
La nona colonna, da cui si poteva osservare l’intera Città, rovinava radicalmente la simmetria dello Specchio. Accoglieva nella sezione dei dormitori maschili i magazzini, mentre nella zona femminile l'edificio dei Guaritori. Questo perché, essendo l’essenza delle donne più fragile e più spesso orientata verso la guarigione, le allieve fossero facilitate nel farvi visita e incoraggiate ad apprendere quell’arte; gli allievi, invece, avrebbero imparato a non ricorrere troppo di frequente alle cure, poiché era permesso recarsi nell’ala del sesso opposto solo in rare occasioni.
Seconda, terza e quarta sezione non erano divise tra loro dai viali, ma riunite in un unico, vastissimo lastricato bianco: la Piazza, in cui si raccoglievano tutti gli allievi in occasioni particolari. Le gradinate volgevano le spalle allo Specchio, guardando verso la Città; l’oratore era così investito di tutta la grandezza del bramato mondo degli adulti, non solo del proprio prestigio.
Non era un caso che il ciclo superiore fosse spostato nella colonna centrale, lontano dalla Piazza, né una semplice questione di spazio per la biblioteca degli insegnanti. Gli allievi più maturi, ormai vicini allo Sviluppo, potevano cadere in superbia o indolenza; trasferirli più indietro, strappando loro la visione della Città, ricordava loro che dovevano ancora impegnarsi, che ancora appartenevano ai Cherubini.
Tale era la cura con cui il Paradiso aveva concepito lo Specchio, rifugio dei propri figli ancora rossi.


Ridwan si riscosse all’improvviso da quella contemplazione, percependo un’essenza volteggiare sopra di sé. Gli occorse meno di un istante per riconoscere Anane e, con un sorriso, lasciò che si divertisse senza farsi notare: non poteva impedirsi un moto d’affetto per quell’allegria tanto genuina, anche se erano proprio comportamenti simili – troppo esuberanti, quasi anormali – a dar luogo alle maldicenze.
Chiuse gli occhi, per udire meglio la risata cristallina dell’allieva, che eliminava in lui ogni traccia d’irritazione. Quando li riaprì, la vide appollaiata sul tetto della biblioteca degli insegnanti; se sussultò, però, non fu perché era pericolosamente vicina al bordo, ma per l’uomo appena atterrato dietro di lei.
E Ridwan, che rendeva onore al suo nome, che non abbandonava mai la calma, che non si lasciava sfuggire neppure un’esclamazione, imprecò tra i denti e si gettò verso la sua allieva appena in tempo.

* * *

«Michael.»
«Eisheth.»
L’aria densa e bituminosa del Vestibolo sembrava risucchiare le loro voci, distorcendole in un’eco grottesca: le risate divenivano latrati, i sussurri urla laceranti. Era un luogo immateriale, eppure nero e soffocante; e immateriali erano anche i suoi visitatori, essenze e anime i cui corpi scomparivano nel nulla, in attesa di poterle ospitare nuovamente. Tutto era astratto, eppure visibile.
La presenza del demone era un’enorme nube di un rosso violento, sanguigno; quella dell’arcangelo caduto, uno sbuffo di fumo grigiastro che quasi scompariva al suo confronto.
«Oh, Michael.» sospirò la donna «Chiamami madre, almeno in privato... o almeno nel mio dominio, dove ti è utile. Non è la prima volta che te lo chiedo.»
«Non siamo negli Inferi, Eisheth. Non vedo perché dovrei palesare il nostro legame.»
«Non siamo nemmeno nella dimensione umana. Non vedo perché dovresti rinnegarlo.»
«Se volevi sentirti chiamare madre, avresti dovuto convocarmi negli Inferi, non nel Vestibolo. E ora sbrigati, Eisheth, ho altro da fare che ascoltare le tue chiacchiere.»
«Mi ripaghi così, Michael, quando io ti ho usato una gentilezza?» mormorò, ma sembrò un urlo rabbioso, da bestia ferita «Possiamo spostarci, se sei così ansioso di non potermi parlare da pari, di aggrapparti alla mia tunica come un cherubino. Vuoi vedere i Demoni inchinarsi al mio cospetto? Vuoi sentire la loro brama di attaccarti, frenata solo dal legame che ci unisce? Vieni, dunque!»
La nube rossa si infittì ad ogni parola, sin quasi a sembrare solida e fremente, perdendo tutta l’evanescenza che caratterizzava l’essenza dei serafini; era uno spettacolo magnifico e minaccioso, un’ombra concreta che pulsava e vorticava come impazzita, rabbiosa. In un istante circondò il fumo grigio, che scomparve poco a poco senza riuscire a liberarsi, come trasportato in un altro luogo.
«...no.» fu costretto a mormorare il caduto, prima di venire condotto negli Inferi.
«Perdonami, Michael?» chiese, con una risata soddisfatta a malapena trattenuta.
«No, madre
L’essenza del demone si ritirò all’improvviso, tornando ad essere una nebbia sottile.
«Era così difficile dirlo?»
«Perché mi hai convocato?» la ignorò «Dovrei essere a combattere, in questo momento, e a vigilare sul patto affinché venga rispettato.»
«Dubito che potresti fare molto, figlio mio» rise «nel caso in cui Belial ordinasse ai suoi Demoni di ritirarsi. O di attaccarvi.»
«Samyaza me lo ha ordinato e ho intenzione di farlo, madre
«È da tempo che non lo incontro, ora che ci penso. Deve aver perso il suo tanto celebrato intelletto, se ha messo te a vigilare sul patto, sì?»
«Evidentemente ha fiducia nelle mie capacità.»
«Evidentemente ha voglia di ridere un po’.» lo corresse «O è davvero impazzito.»
«Smetti di deridermi.» ringhiò «Sono giovane, ma ho più potere di altri che sono nati molto prima di me. Significherà pur qualcosa.»
«Sì, che il mio nome ha influenza anche sulle gerarchie dei Caduti.»
«Non-»
«Michael, so che hai talento e potere: una madre non ignora mai i successi dei propri figli. E, per la tua giovane età, questo talento e questo potere sono quasi sorprendenti, anche escludendo l’influenza che il mio nome ha sicuramente avuto nel farti ottenere l’autorità di cui godi.» lo stava deridendo, con quel discorso così formale «Ma abbandona per un istante la superbia e guardati intorno: ci sono decine, centinaia di persone più potenti di te. In confronto agli Antichi, figlio mio» espanse la propria essenza in modo quieto, non minaccioso, ma quella del caduto sembrò ugualmente minuscola «non sei niente. Solo il patetico riflesso di un decimo della loro – della nostra – grandezza.»
«Mi hai convocato nel Vestibolo per dirmi questo?» chiese, spazientito e a disagio.
«Sta’ attento, Michael, perché potresti scoprire nel peggiore dei modi quanto tu sia debole.» lo ammonì «Puoi manovrare come burattini dei cherubini inesperti, ma non inganni me. Spera che io non decida di averne avuto abbastanza dei tuoi giochetti.»
«Non credo che ti riguardi. Non ti ho mai coinvolta, né ho intenzione di farlo in futuro, se è questo che ti preoccupa.»
«Hai coinvolto mia figlia, tua sorella, nel modo più subdolo e crudele.» ringhiò, e l’aria densa del Vestibolo trasformò la sua voce in un ruggito agghiacciante «I Demoni peccano di egoismo, ma non di indifferenza. Spera, prega di non ferirla troppo, perché scateneresti la mia ira.»
Il caduto rise, tentando di mascherare il suo disagio, e disse seccamente: «Se sei così ansiosa per la sua sorte, madre, perché sei tu la prima a non svelarle nulla?»
«Perché non ho solo una figlia, ma anche un figlio. Non mi piacerebbe vederti di nuovo in quelle condizioni.» la sua essenza sfiorò il fumo grigio, come in una carezza «Ma non spingerti troppo oltre, Michael, per riavere quella femmina. Rischi di perdere tua sorella e tua madre.»
«Non vedo come potresti impedirmi di... spingermi troppo oltre, come dici tu.» commentò, gelido «Se anche tentassi di escludere Anane da questa storia, lei stessa sarebbe la prima a protestare. E il tuo potere, per quanto grande, non potrà mai influenzare questioni private come questa: riguarda me, che per tua sfortuna sono adulto, e solo marginalmente Anane. Non hai modo di intrometterti.»
«Non ho modo?» rise «Oh, Michael, sei davvero ingenuo.»
Lui non comprese cosa il demone avesse in mente, e la sua essenza grigia si arricciò su sé stessa, esprimendo involontariamente la propria confusione.
«Spingerti troppo oltre ferirebbe tua sorella e te» lo avvisò Eisheth «e non ho intenzione di vedervi entrambi distrutti dalla tua ingordigia. Piuttosto, figlio mio, preferisco che sia tu l’unico a venire colpito dai tuoi errori.»
«Cos’hai intenzione di fare?» ringhiò con ansia malcelata, espandendo la propria essenza – sempre ridicola, di fronte alla grandezza del demone.
«Quello che avrei già dovuto fare: proteggervi. Non ti permetterò di ripetere i tuoi errori ancora una volta, Michael. Non obbligarmi a farlo.» sospirò «Non ho mai amato gli specchi, Michael, lo sai.»
Era una frase incomprensibile ad un ascoltatore esterno; per loro, invece, era spaventosamente chiara.
Prima che l’altro potesse risponderle, Eisheth lo sfiorò con una carezza leggera, quasi addolorata, e in un istante scomparve, inghiottita dagli Inferi.
Michael rimase ancora a lungo a vagare nell’aria bituminosa del Vestibolo, tremando di rabbia e di allarme per l’ultima frase.
Non ho mai amato gli specchi.
E, come sottinteso che potevano cogliere solo loro due: non dovresti nemmeno tu.




***
Angolo autrice:
Con un po' di fatica, sono riuscita ad aggiornare oggi. Se trovate errori, segnalatemeli pure, non ho avuto tempo di rileggere un'ultima volta dopo la correzione.
Capitolo di un paio di pagine più lungo del solito, per compensare le lunghe spiegazioni sullo Specchio. Risulteranno quasi sicuramente pesanti, ma dovevo inserirle, prima o poi, e non avevo modo di spezzarle senza perdere in chiarezza. Spero che risultino comprensibili.
Che altro dire? Non so voi, ma io adoro Ridwan xD Può sembrare inutile la parte su di lui, o inserita solo per descrivere lo Specchio, ma ha il suo perché. Ridwan è un personaggio limpido, "pulito", che ha una visione del Paradiso molto positiva. Servirà a mostrare le cose da un altro punto di vista.
Spero che l'ultima parte vi sia piaciuta... io mi sono divertita moltissimo a distruggere così Michael xD

Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite, e come sempre un enorme ringraziamento a chi recensisce!
A domenica prossima (:

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Capitolo 8
*** 07. Precipitare ***


Capitolo 7 – Precipitare





Il corpo di Anane era più pesante di quanto si aspettasse. Prima ancora che lei si accorgesse di essere caduta – e quella consapevolezza sarebbe arrivata troppo tardi per permetterle di distendere le ali in tempo –, Ridwan l’aveva afferrata e stretta contro di sé, ad una velocità tale che la giovane quasi non aveva percepito il movimento; gli avambracci esausti del Custode avevano implorato pietà, il gomito ferito aveva strillato tutto il proprio dolore, ma non aveva allentato la stretta.
Mentre l’allieva si guardava intorno confusa, senza capire cosa fosse accaduto, Ridwan fissava con rabbia l’uomo appena atterrato sul tetto della biblioteca.
«Volevi farla precipitare, Esecutore?» chiese, con la voce vibrante di collera mal trattenuta.
«Non credevo che si sarebbe sbilanciata così. Al ciclo superiore si dovrebbe avere una padronanza maggiore delle proprie reazioni.»
«Ridwan? Che cosa-»
«Vattene, Anane.» le ordinò, posandola sulla superficie piatta del tetto.
L’uomo strinse le labbra, contrariato. «Volevo parlarle, in realtà.»
«Vattene, Anane.» ripeté, ma lei non si mosse.
«Ridwan, non capisco, cosa-»
«Anane!» sibilò, facendola ritrarre, spaventata.
«Se sei così ansioso di farla allontanare, Custode» commentò l’uomo «potrei quasi pensare che abbiate qualcosa da nascondere. Sono un insegnante che vuole parlare con un allievo; non posso?»
Non sono un tuo parigrado’ sottintendeva il suo sguardo sicuro di sé ‘perché mi occupo solo del ciclo inferiore; ma comunque un’autorità per gli allievi. Non puoi ostacolarmi di fronte ad uno di loro.’
«È legittimo.» dovette arrendersi Ridwan «Ma è legittimo anche che io assista, essendo il suo maestro. Se un insegnante ha un richiamo o una comunicazione per lei, è mio dovere informarmene.»
Non parlò di diritti, perché quell’uomo non sembrava prestarvi molta attenzione; ma i doveri erano imprescindibili e, come lui non poteva impedirgli di parlare ad Anane, l’altro non poteva negargli di essere presente.
Si affiancò all’allieva, confusa e inquieta, e le posò una mano tra le scapole, tra le ali, in un gesto rassicurante. Le sentì arruffate per la caduta, tiepide di sangue e tremanti d’ansia.
«Ovviamente puoi restare, Custode.» convenne l’uomo a denti stretti «Sono qui perché non mi convince la relazione del cherubino tuo allievo sull’incarico nella dimensione umana.»
Sotto le sue dita, le ali di Anane sussultarono.

* * *

Sbuffò, annoiata.
Tanta fretta per arrivare in aula e Nelchael non c’era. «Lezione pratica con quinto, sesto e settimo gruppo» aveva lasciato scritto, senza nemmeno presentarsi per avvisarli personalmente. Forse temeva che gli avrebbero riso in faccia.
Più di cento cherubini gestiti da un unico Custode – una donnetta esile e nervosa, con una voce stridula e la fermezza di un filo d’erba. E loro avrebbero dovuto esercitarsi nel combattimento?
Quanto ottimismo.
«Direi di... disporvi a coppie e provare... provare i colpi di palmo, senza violenza, per favore...» aveva farfugliato l’improvvisata insegnante, sottolineando quel senza violenza con una risatina ansiosa.
Evidentemente l’avevano scambiato tutti per un «Date sfogo ai rancori personali e tentate di uccidervi.», perché in poco tempo i colpi di palmo non violenti si erano trasformati in vendette a graffi e ginocchiate. Ad un certo punto, Raphael – il compagno di Amitiel che era disceso con lei nella dimensione umana – aveva per puro caso affondato un’unghia nell’occhio di un cherubino, con cui non doveva essere in rapporti idilliaci. La Custode si era finalmente resa conto che la situazione era divenuta ingestibile.
Amitiel si era aspettata minacce, scoppi d’ira, punizioni. Quella invece si era guardata intorno smarrita, si era aggrappata ad un braccio del ferito e lo aveva quasi implorato di farsi accompagnare dai Guaritori, lasciandoli a trucidarsi senza sorveglianza. Una scena magnifica.
«Hai voglia di allenarti?» le chiese Raphael, entrando all’improvviso nel suo campo visivo.
Lei, sdraiata sull’erba, gli rispose con una smorfia: «Ho l’aria di una che ha voglia di faticare?»
«Pensavo che volessi passare di classe in fretta.»
«Per una volta che non c’è Nelchael e abbiamo un periodo libero, allenarmi per passare di classe non è il mio primo pensiero.» sbuffò «Chiedi a Ramiel, a lei interessa di sicuro.»
Le guance dell’altro divennero bianche in un secondo, palesando il suo imbarazzo. Se non voleva avere guai, avrebbe dovuto imparare ad essere più discreto; e anche Ramiel, che li fissava con scarso riserbo. Amitiel si reputava un’osservatrice, ma non era né un prodigio nel cogliere i rapporti interpersonali né interessata ai fatti altrui; se lei si era accorta del legame che univa quei due, l’avevano di certo notato anche altri. Era solo questione di tempo prima che qualche voce giungesse, casualmente o no, ad un adulto. Amitiel non sapeva fino a che punto fossero giunti – supponeva comunque che fossero solo all’inizio, visto il loro costante imbarazzo –, ma sperava che non superassero il limite.
C’erano cose proibite e c’erano cose da non fare.
Avere una relazione senza l’approvazione dei Censori – approvazione che ai Cherubini non si concedeva mai – era proibito; spingersi oltre era da non fare. Per essersi lasciati distrarre da un legame non autorizzato vi erano punizioni severe; per essersi sporcati non esisteva possibilità di riparare all’errore, solo la pena peggiore, la più dolorosa e umiliante.
«Non voglio impicciarmi» mormorò al compagno, tirandosi a sedere «ma tu e lei-»
«Non impicciarti, allora.» la interruppe, con insolita asprezza per quel cherubino di solito così garbato.
Prima che potesse rispondergli – non sapeva nemmeno lei se per scusarsi o se per ribattere velenosa, avendo l’infausta abitudine di parlare prima di pensare – una sagoma alata atterrò al centro della zona aperta, riportando l’ordine con la sua sola presenza. Sotto lo sguardo vigile dell’arcangelo appena giunto, la marea di cherubini in agitazione si trasformò in pochi istanti in due file ordinate e silenziose, intimorite dalla fascia nera che gli cingeva i fianchi – ma cosa ci faceva un Guardiano allo Specchio?
L’adulto sembrò soppesare la situazione, come chiedendosi se dovesse indagare sull’inattività in cui li aveva trovati, e sul perché molti di loro sfoggiassero ferite degne di uno scontro; poi, decidendo che non era compito proprio, si limitò a dire: «Amitiel, ottavo gruppo.»
L’interessata fece un passo avanti, cercando di nascondere il tremore alle ali. Al cenno dell’arcangelo, si chinò a prendere la borsa e lo seguì in volo in silenzio. Si era messa nei guai in qualche modo? Aveva sbagliato qualcosa? Erano venuti a sapere di... di quello che era successo nella dimensione umana?
Il tremore aumentò così tanto che perse quota, arrivando quasi a sfiorare i tetti delle aule, prima che l’adulto le stringesse un braccio e arrestasse la sua caduta. Lo ringraziò con voce incerta, dandosi mentalmente della stupida, perché se si mostrava così preoccupata non faceva che confermare tutti i sospetti; sempre che vi fossero dei sospetti, certo, perché magari qualcuno aveva chiesto di lei per qualche motivo diverso dall’accusarla di qualcosa di cui nessuno poteva essere venuto a conoscenza, a meno che Anane non avesse fatto la spia, ma Anane non l’avrebbe mai fatto, perché poi comunque ci sarebbe andata di mezzo lei stessa, quindi era-
Rischiò di perdere di nuovo quota, e solo la stretta dell’arcangelo le impedì di precipitare sul tetto di una biblioteca. Non riusciva nemmeno a capire dove stessero andando, troppo concentrata a trattenere il tremito delle ali – impresa resa ancora più ardua dal dolore alla schiena, per gli squarci riaperti all’improvviso dalla caduta. L’adulto le lanciò un’occhiata vagamente impensierita, poi scosse le spalle, come decidendo che tranquillizzarla non faceva parte dei propri compiti.
«Cambiati.» le ordinò, atterrando con lei nel cortile interno del suo dormitorio «Divisa formale.»
«...formale?» chiese in un sussurro strozzato. Era un’Autorità o un Censore ad aver richiesto la sua presenza, allora, ma un’Autorità o un Censore non richiedeva mai la presenza di semplici allievi, e soprattutto non di uno solo, e ancora al ciclo inferiore. Doveva aver sentito male, sì, doveva aver-
«Formale.» confermò «Ti attendo alla Piazza.»
«Arrivo immedia...» si schiarì la voce acuta «immediatamente.»
L’arcangelo diede uno sguardo alle sue ali, ancora tremanti, e – forse impietosito da tutto quel rosso, forse dicendosi che impedirle di precipitare era proprio compito – si corresse: «Ti attendo qui.»
Anche se, a giudicare da come le vacillavano le gambe, probabilmente sarebbe precipitata perfino nel salire le scale per il secondo piano.

* * *

«Non vedo perché un insegnante della quarta classe dovrebbe interessarsi agli incarichi di un allievo del ciclo superiore.» disse Ridwan a denti stretti, intensificando la pressione della propria mano sulle ali di Anane – un contatto che era sia una rassicurazione sia un ammonimento.
«La tua allieva ha accompagnato nella dimensione umana una dei miei. Ho notato un comportamento strano da parte di quel cherubino e mi sono informato sulla relazione che hanno riportato, ma non ne sono rimasto convinto.» gli occhi scuri dell’uomo si spostarono sulla giovane, ben sapendo che il suo maestro non avrebbe mai ceduto, e continuò: «Troppe incongruenze, cherubino.»
«Nelchael.» lo chiamò Ridwan con collera malcelata, passando da un registro formale – in cui si evitava per rispetto il nome dell’interlocutore – ad uno più colloquiale. Essendo superiore di grado all’uomo, anche se solo di poco, gli era permesso; ma in una situazione del genere avrebbe comunque dovuto evitarlo, soprattutto perché vi era un cherubino ad assistere.
Se tu vuoi parlare con la mia allieva senza avvisarmi, io sfrutto la mia posizione senza rimorso.’
«Ti ascolto, Custode.» gli rispose, senza poter ricambiare l’affronto del nome, per la rigida gerarchia.
«Sono presente in quanto suo maestro, perciò preferisco che tu ti rivolga a me, non a lei.»
«Come preferisci.» ringhiò, furioso per come l’altro stava svilendo la sua autorità di fronte ad un cherubino «Troppe incongruenze. Non mi convince ed ho il dovere di approfondire, essendo coinvolta una mia allieva.»
«Possiamo discutere con la tua allieva presente, allora, così avremo di certo un quadro più chiaro.»
«Preferisco parlare con una alla volta.»
«Parti dalla convinzione che abbiano mentito, Nelchael, e perciò vuoi metterle in difficoltà?»
«No.» negò, ma l’occhiata che gettò ad Anane fu abbastanza indagatrice da smentire le sue parole «È solo per poter ascoltare entrambe con uguale attenzione.»
«Come preferisci.» Ridwan aumentò la stretta alle ali dell’allieva, tramutando il tocco in un vero e proprio ammonimento, perché lei tremava decisamente troppo «Di quali incongruenze parli?»
L’uomo estrasse da una tasca dell’abito alcuni fogli e iniziò ad estrapolare frasi, mettendo il luce errori, contraddizioni, passaggi poco chiari; l’altro ribatteva prontamente ad ogni frase, senza mai lasciare la parola ad una Anane sempre più tremante – più che stringerle le ali, ormai, la stava sostenendo.
Sì, il luogo in cui erano giunte era un po’ spostato rispetto a quello pattuito, ma poteva accadere che, prima dell’arrivo, gli allievi più immaturi si agitassero e si muovessero senza volerlo.
Sì, il cherubino della quarta classe era apparso molto turbato al suo ritorno, ma il primo incontro con le ombre della dimensione umana non era mai semplice, tanto più che erano giunte poco prima della notte.
Sì, la giovane aveva delle lievi ferite, ma per sua stessa ammissione era atterrata male più di una volta; e sì, quel livido alla schiena non si poteva spiegare in questo modo, ma una semplice lite tra cherubini bastava a giustificare quel segno di lotta.
Continuarono per molto tempo, tanto che Anane quasi smise di ascoltarli, rimanendo attenta solo quanto bastava per rispondere, nei rari casi in cui i due adulti chiedevano il suo intervento – d’altronde era solo un cherubino, non sarebbe stato rispettoso discutere con un insegnante mentre poteva farlo il suo maestro. Per una volta, ringraziò l’esistenza di consuetudini così formali, perché la esentavano dal fornire spiegazioni quando non riusciva nemmeno a ragionare: parlava meccanicamente, ripetendo a memoria una relazione falsa quasi quanto lo era lei stessa. Ad ogni parola precipitava sempre più a fondo nel baratro nero dell’inganno – e proprio nei confronti di chi si stava impegnando a discolparla.
Mi dispiace, Ridwan. Ci sono dentro da troppo tempo per cambiare idea.’
Quando tradisci troppe volte, non riesci più a capire a chi devi la tua fedeltà; e se gliela stai tributando davvero, o se invece è solo una finzione. Ma forse, quando tradisci troppe volte, la fedeltà assume lo stesso valore di un cherubino di fronte a due insegnanti: il nulla.
C’è qualcuno per cui valgo, e a lei va la mia fedeltà.’ pensò, continuando a rispondere e a mentire ‘A lei, Ridwan, non a te. Mi dispiace. Se dirti la verità significa tradire Amitiel, allora ti ingannerò.’
Ma ormai stava precipitando da così tanto tempo – e ancora non era giunta al fondo del baratro – che presto avrebbe tradito anche lei.

* * *

Calma.’
Aprì la porta della camerata con mani tremanti e si guardò intorno, spaesata.
Amitiel, calma.’
Si avvicinò alla parete rivolta verso il cortile interno, occupata quasi interamente da enormi finestre, e tirò le tende candide. Non ebbe il coraggio di controllare se l’arcangelo stesse guardando verso di lei.
Calma, va bene? Calma.’
Sulla parete opposta della lunga camerata erano allineati i letti, con il relativo piccolo armadio a destra. Non vi era alcuna distinzione: lenzuola tese con cura, ogni abito ripiegato nel guardaroba, nessun oggetto personale in mostra – e, se un allievo non riusciva a riporre tutti i propri averi in un’anta e due cassetti, significava che aveva decisamente troppo.
Si diresse verso uno dei tanti letti uguale agli altri e si inginocchiò di fronte all’armadio, vacillando.
Non hanno scoperto niente. Niente.’
Dopo due vani tentativi di stringere il pomello, la sua mano riuscì finalmente ad aprire il secondo cassetto. Svuotò la sacca in fretta, riversando libri e taccuini su quelli già impilati con poco ordine, senza curarsi di non rovinarli.
Anane non ha parlato. Ci va di mezzo anche lei, altrimenti. Non ha parlato.’
Nel primo cassetto sistemò la borsa e le penne. Urtò per sbaglio l’unico quaderno di cui le importasse davvero e rimase a guardarne la copertina lisa, come se fosse stata aperta molte volte.
Il taccuino dei ricordi. Ero ancora alla seconda classe, quando l’abbiamo fatto...’
Lo prese con un mezzo sorriso, più calma. Sulla prima pagina, tra disegni infantili, spiccava una scritta colorata: «A e A, amiche per sempre». E per sempre, quando hai davanti l’eternità, non è una frase senza importanza, ma una promessa.
No, certo che Anane non ha parlato.’
Lo ripose a malincuore, sapendo che l’arcangelo la stava aspettando.
Ma allora cosa vogliono? Non possono aver scoperto della dimensione umana. Nessuno lo sa, a parte noi. Nessuno può saperlo. Nessuno.’
Con le mani di nuovo tremanti, si alzò e slacciò la striscia di tessuto rosso ai fianchi. Sciogliere il nodo al collo si rivelò più difficile; dopo tre tentativi vi riuscì, e poi fece scivolare lungo le gambe i pantaloni della divisa da esercizio fisico, con una foggia simile agli abiti umani.
E poi non è successo niente. Abbiamo solo parlato.’
Completamente nuda, ripose la divisa nell’armadio, sulle due di riserva. Urtò con un gomito la pila di divise ordinarie e la fece crollare a terra; con un’imprecazione, si chinò a raccoglierle e ripiegarle. Ci stava mettendo troppo, ma, piuttosto che lasciare l’armadio in pessimo stato con il rischio di un controllo delle Custodi, era meglio far aspettare un Guardiano.
E far aspettare un’Autorità o un Censore, invece?’
Rimase con le divise tra le mani per un istante, poi si decise e le gettò alla rinfusa nel guardaroba. Crollò anche la pila di abiti da riposo, ma non vi fece caso, afferrando in fretta l’unica veste appesa.
Se arriva un controllo proprio questa volta, uccido qualcuno.’
Le mani non avevano smesso di tremarle, e così le ali: gli squarci le dolevano, tormentati da quei movimenti incontrollati, vomitando abbondante sangue lungo la sua schiena nuda. Presentarsi con la divisa impregnata di liquido bianco non avrebbe di certo favorito una buona impressione – perché, oltre ad essere scomodo e complesso da indossare, quell’abito era anche di un tessuto diverso dalle solite uniformi. Si sporcava, si inzuppava, si lacerava con una facilità disarmante – e dire che, secondo Anane, i tessuti umani erano ancora peggio. Sì, avrebbe di certo fatto una pessima impressione.
Non che in fondo una buona impressione sarebbe servita a molto, se sapevano di ciò che era accaduto nella dimensione umana.
Mi taglieranno le ali?’
Si lasciò scivolare a terra, la schiena dolorosamente premuta contro il letto, terrorizzata.
Non è successo niente. Niente. E poi non possono saperlo, né io né Anane abbiamo parlato. Magari vogliono solo dei chiarimenti sulla relazione, ma con quella è tutto a posto, no? Basterà attenersi a quella versione e andrà tutto bene. Tutto bene.’
Gli incubi e i dubbi del riposo tornarono a tormentarla, non più mitigati dalla luce materna della Presenza, ma ingigantiti da quella limpida dei periodi di attività – una luce che sembrava accusarla di non essere trasparente, giusta, pulita. Rischiarava la camerata in modo quasi tagliente, mostrando spigoli e macchie, e di sicuro avrebbe mostrato anche che lei era sporca.
Potrei confessare tutto. Potrei-
No. Metterei nei guai Anane. E non mi perdonerebbero, avrei tradito e mentito e continuato a nasconderlo, è una cosa troppo grande. È più grande di me, sono solo un cherubino, che posso fare? Continuare a mentire?’
Strinse le ginocchia al petto e vi nascose il capo, tentando di trattenere i singhiozzi.
Così peggioro la situazione. Ma c’è un modo per migliorarla? Se confesso, non mi perdoneranno. Anche se ho solo parlato con un caduto. Stupida, stupida, stupida! Perché gli ho dato ascolto? Perché mi sono fatta ingannare? Non potevo starmene buona ad aspettare il tempo delle risposte come gli altri? Perché devo essere così curiosa?’
Ma la sua mente, con un dolore sordo e profondo e inspiegabile, si ribellava a quelle domande e sembrava chiedere, invece: ‘Perché non devo esserlo? Perché non posso desiderare la conoscenza?’
Era una lotta tra ciò che era e ciò che le avevano insegnato ad essere; i confini non erano netti, e per questo si tormentava, senza riuscire a capire, senza trovare un equilibrio. Nella dimensione umana era stata troppo assente e stordita per percepirla, ma tra le luci abbaglianti del Paradiso quella guerra le si mostrava in tutta la sua violenza, rischiando di divorarla.
Stava precipitando in qualcosa di più grande di lei – nei dubbi di un’intera esistenza, nel peccato, nel tradimento. Stava precipitando e le sue ali da cherubino, troppo incerte e doloranti, non potevano frenare la caduta.






***
Angolo autrice
Buona domenica (o qualsiasi altro giorno in cui stiate leggendo), miei prodi! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto più del precedente, che a quanto ho visto non è stato molto apprezzato xD Il settimo è un po' più movimentato, ma per entrare nel vivo della storia servirà ancora un po' di tempo. Prima di passare all'azione, devo lasciare che i personaggi maturino e si mostrino, o alla storia mancherebbero le basi su cui svilupparsi. Il prossimo capitolo, in particolare, conterrà una svolta interiore molto importante per Amitiel. Se questo è la caduta, l'ottavo sarà l'impatto. Piano piano le cose si smuovono, spero che l'attesa non sia troppo noiosa.
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite e, come sempre, un ringraziamento particolare a chi commenta!

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Capitolo 9
*** 08. Silenzio ***


Capitolo 8 – Silenzio




Vi sono molti tipi di silenzio.
Quello imbarazzato di chi vorrebbe parlare, ma non sa cosa dire – stille d’incertezza che rendono la gola secca e le guance candide.
Quello quieto di chi non sente il bisogno di riempirlo – la serenità di un contatto che non richiede parole, perché basta semplicemente essere insieme.
Quello furibondo di chi vorrebbe esplodere, ma sa che rimanere muti è il miglior grido possibile – la crudeltà di una vendetta spietata.
Quello cupo di chi è solo, ferito nell’animo da amarezza e abbandono – il principio della follia, poter udire la propria voce infrangersi contro un muro di nulla.
E poi ve n’è uno più sottile: il silenzio dell’attesa, angosciante e oppressivo. Un silenzio in cui i propri pensieri risuonano vacui, divenendo presto circolari, senza un principio o una fine, e nemmeno un senso; un silenzio in grado di portare alla follia, se protratto troppo a lungo. L’animo si tormenta e si logora nel dubbio, pronto ad essere malleato o straziato; ma non si può far altro che attendere. Attendere senza avere idea di ciò che accadrà. Attendere senza poter chiedere nulla. Attendere senza sapere quanto a lungo durerà. Attendere senza più avere la cognizione del tempo, fino a che i sensi scivolano in un limbo ovattato e la mente vaga in un tormentato nulla.
Proprio quel silenzio circondava Amitiel, coprendola di un pesante velo di stanchezza e inquietudine. Da quanto era in quel corridoio, in piedi di fronte ad un’imponente porta bianca? Da quanto il Guardiano a sinistra dell’ingresso fissava davanti a sé, senza prestarle attenzione? Da quanto si dibatteva nell’angoscia, alla ricerca di una risposta a cui non poteva giungere? Avrebbe voluto urlare, pur di spezzare quella mancanza assoluta di suoni, perché i pensieri divenivano ogni istante più cupi, affondando poco a poco nell’ossessione.
Cosa vogliono? Sanno qualcosa? Io non ho parlato. Anane... Anane no, non mi tradirebbe mai, e poi ci andrebbe di mezzo anche lei. E non c’era nessun altro, non possono sapere quello che-
No, non è successo niente. Ho solo avuto le risposte che mi spettavano. Se Nelchael mi avesse spiegato, se avessi potuto fare domande, se... se solo potessi essere io, e non solo una dei tanti, per essere ascoltata non avrei bisogno di... chiedere informazioni su qualcosa che è mio diritto sapere.’
Se lo ripeteva incessantemente, ormai convinta. Quel silenzio estenuante avrebbe dovuto metterla a disagio, e ci riusciva; ma avrebbe anche dovuto far crollare ogni sua difesa, quando in realtà esasperava le sue giustificazioni ed esacerbava l’astio – verso chi l’aveva lasciata senza protezione nella dimensione umana, chi non le aveva mai dato risposte, chi aveva punito la sua curiosità. Aveva trovato qualcuno che accogliesse le sue domande, e nel silenzio risuonavano anche le sue spiegazioni, la sua voce, la sua preoccupazione: la solitudine stava affrettando un’accettazione che altrimenti sarebbe durata per molto più tempo, frammentata tra tutti gli attimi d’insonnia e incertezza. Quel disagio non la metteva in soggezione, ma nutriva la certezza di aver agito bene – e, se non bene, almeno di non avere colpe. Attaccata, invece di cedere, reagiva.
Michael le aveva dato risposte. Loro la lasciavano ad annegare nei dubbi e soffocavano la sua curiosità.
Nel silenzio della solitudine e dell’attesa poteva vedere la vera sé stessa, non più condizionata da punizioni e richiami e paure instillate a forza; nel silenzio della solitudine e dell’attesa, quindi, ciò che era trionfava su ciò che le avevano insegnato ad essere.


L’ordine di entrare giunse quando ormai questi pensieri si erano accumulati nella sua mente, creando uno strato di convinzioni che sarebbe stato impossibile raschiare in poco tempo. Varcò la soglia senza tremare, con lo sguardo basso solo il minimo necessario a non mancare di rispetto all’Autorità.
Non ebbe modo di guardarsi intorno senza sembrare indiscreta, perciò si limitò ad un’occhiata rapida: alte pareti ricoperte di scaffali, libri e documenti impilati ovunque; oggetti strani e complessi, dall’apparenza fragile, di cui non riuscì a comprendere l’utilizzo; una sola finestra, troppo piccola per dare veramente aria alla grande stanza. Questo si presentò al suo sguardo, prima che dovesse porsi di fronte alla scrivania, anch’essa ingombra di carte.
La donna sedutavi ripose la penna, spostò in un angolo il foglio che aveva letto fino a quel momento e incrociò le mani sul piano di legno. Non la invitò a sedersi – d’altronde era un semplice cherubino al cospetto di un’Autorità – ma le rivolse un cenno vago della mano, come a concederle di assumere una postura più rilassata.
Amitiel non mutò posizione: per non sgualcirsi, la divisa formale esigeva schiena rigida e ali immobili, ed era già stato abbastanza difficoltoso renderla di nuovo ordinata dopo il volo dallo Specchio al palazzo delle Autorità. Era un unico drappo candido, che avvolgeva spalle e busto quasi interamente, lasciando a malapena scoperte le scapole; quello femminile si stringeva al seno, delineandone i contorni, per poi cadere morbidamente e cingere le gambe fino a terra. Ai fianchi la fascia abituale era sostituita da una molto più lunga, che si annodava di lato e lasciava scendere un’estremità verso il basso, sin quasi a sfiorare il suolo. Rispetto alla divisa ordinaria non era certo un abito comodo, e non si poteva dire che lei amasse indossarlo.
«Amitiel, cherubino, quarta classe, ottavo gruppo. È corretto?» chiese la donna, adottando le formule di cortesia.
«Sì, Autorità.»
«Sai perché ti ho convocato, cherubino?»
Lei rimase sconcertata. Non era una domanda da porre: la risposta era ovvia, perché non era concesso chiedersi il motivo. Se poi si conoscesse o no, non aveva importanza.
L’Autorità chiamava, la persona desiderata rispondeva alla chiamata. Fine. Niente pensieri superflui.
Prima cercavano di imprimerle quel meccanismo fin nel profondo, tanto da farlo diventare istintivo, e poi chiedevano se sapeva perché fosse stata convocata. Assurdo.
«Non mi è concesso chiedermelo, Autorità, perciò non ho una risposta.»
Una risposta affermativa sarebbe stata la conferma di meritare, per qualche motivo, un richiamo; ma una negativa avrebbe fatto intendere che si era già posta la domanda e vi aveva riflettuto, e questo forse era sarebbe stata un’ammissione anche peggiore. Non che ci fossero molte altre occupazioni oltre a pensare, nel silenzio in cui l’avevano abbandonata fino a poco prima. Incoerenze snervanti.
«Ti ho convocata perché mi sono state riferite alcune perplessità riguardo l’ultima lezione nella dimensione umana, a cui hai partecipato con i tuoi compagni. In particolare, ti ho convocata poiché mi è stato segnalato un tuo evidente turbamento nei cicli successivi al ritorno; tuttavia, nella relazione che ha fornito la tua accompagnatrice del ciclo superiore, non c’è alcun accenno ad accadimenti particolari che giustifichino tale stato. Dunque, cherubino, cosa rispondi a queste osservazioni?»
Amitiel si sentì mancare, e l’agitazione esacerbò il suo astio verso quella donna così fredda, così distante, così incomprensibile. Sibilava parole d’accusa, insinuava menzogne, sembrava dare per certo che la relazione fosse falsa. Era cattiva, non poté impedirsi di pensare il cherubino, in un moto d’infantilità. Non poteva sapere che era persino un trattamento cortese, quello che stava ricevendo, rispetto alle abitudini dell’Autorità.
«Sono... sono onorata dall’attenzione che viene dedicata ad un semplice cherubino come me.» ‘Ma anche no.’ «Posso assicurare che... non è accaduto nulla di particolare, Autorità. Sono solo rimasta colpita da tutto... tutto l’insieme. Le ombre, il freddo... è molto diverso dal Paradiso. Nient’altro, Autorità.» chinò brevemente il capo «Mi rincresce che il mio turbamento abbia creato dei dubbi sulla sincerità della mia compagna. In futuro cercherò di essere più lucida e di non lasciarmi inquietare.»
La donna la fissò in silenzio per qualche istante, come se potesse leggerle dentro. Lei si sentiva tremare, al pensiero che scoprisse tutto, ma tentò di mantenere un’espressione neutra.
Credici. Per favore, credici.’
«Comprendo, cherubino.» disse infine l’Autorità «Non temere, il turbamento è una reazione comune e non del tutto negativa. Spero che ora tu capisca meglio perché gli Umani siano così fragili e perché ci venga richiesto un impegno così profondo per guidarli.»
Ehm... no?’
«Sì, Autorità.» al cenno dell’altra di continuare, improvvisò: «La... la loro dimensione è spaventosa. Dev’essere difficile seguire il giusto, quando si vive in un luogo così... imperfetto. Invece noi... il Paradiso è più...»
«Puro.» le venne in aiuto la donna, notando che non trovava il termine adatto.
«Più puro.» annuì «E quindi abbiamo il compito di guidarli, perché sono così esposti alla corruzione, mentre noi non... non rischiamo di sporcarci, perché viviamo qui, e... e qui siamo più vicini a Dio. Qui vi è la Shekinah
Dio, nell’arcana lingua di tali esseri, non è una parola davvero esistente; d’altronde, pronunciare quel nome sarebbe una mancanza di rispetto imperdonabile. Il modo in cui lo chiamano è inesprimibile in un idioma umano: Padre, Creatore, Altissimo, Signore, nulla può tradurlo appieno. È un termine che indica insieme la potenza e la misericordia, l’amore e la grandezza; Amitiel, pronunciandolo, esprimeva in un’unica parola tutto ciò a cui gli Angeli aspiravano. Essere vicini a Dio significava essere devoti al compito da Lui affidato ai suoi figli più puri: guidare gli Umani verso la rettitudine, senza lasciarsi corrompere dall’odio per i loro errori, o dall’invidia per il libero arbitrio. Significava essere immersi nella Shekinah – il Suo potere, la Sua benevolenza.
L’Autorità parve soddisfatta, perché le disse: «Sono lieta di aver chiarito la situazione, e che tu abbia saputo sfruttare la tua inquietudine per cogliere quest’importante insegnamento: ti sei dimostrata molto matura. Per questo, cherubino, ti promuovo io stessa alla quinta classe. Le tue ali denunciano che è giunto il momento e le tue parole lo confermano.»
Chinò lievemente il busto. «Ti ringrazio, Autorità.»

* * *

Il Richiamo segnalò l’inizio del quarto periodo, lasciando i Cherubini liberi dalle lezioni e lei dalla curiosità dei compagni. Sì, l’aveva chiamata un’Autorità; no, non aveva fatto niente di male; sì, voleva solo sapere come fosse andato l’incarico nella dimensione umana; , l’aveva promossa alla quinta classe. Inizialmente aveva provato un po’ di imbarazzato compiacimento, ma, dopo aver ripetuto ogni cosa almeno quattro volte, era solo infastidita. Il suo umore non era quindi dei migliori, considerando anche che, terminate le ultime lezioni, avrebbe dovuto trasferirsi nel suo nuovo dormitorio – e ciò comportava saluti venati d’invidia e di tristezza, viaggi per trasportare libri e vestiti, tediose presentazioni a nuove compagne con cui in buona parte non avrebbe avuto il tempo di legare.
L’incontro con l’Autorità, poi, le aveva lasciato addosso un’irritazione pulsante. Le parole che aveva pronunciato lei stessa sugli Umani le strisciavano in mente, vi si insinuavano con riflessioni improvvise e ponevano ogni cosa in un’altra prospettiva. Vedendo Raphael e Ramiel che si lanciavano sguardi sfuggenti, aveva riflettuto che a causa di quella loro infatuazione non si sarebbero concentrati abbastanza sui loro compiti; pensando a Michael, aveva provato un’istintiva repulsione per la corruzione che i Caduti spargevano tra i deboli Umani, impedendo alle loro anime l’accesso al Paradiso. Solo dopo aveva considerato che Raphael e Ramiel dovevano essere davvero legati per correre il rischio di quel rapporto proibito, e che in realtà non aveva informazioni approfondite sul comportamento dei Caduti – non sapeva nemmeno quale differenza vi fosse tra questi e i Demoni.
Invece di pronunciare la convinzione degli Angeli che gli Umani siano esseri fragili, da guidare con attenzione e pazienza, l’Autorità l’aveva fatta esprimere a lei; in questo modo, Amitiel non aveva potuto evitare di riflettervi, secondo un percorso già segnato – non si passano secoli allo Specchio, a studiare e ascoltare e ripetere sempre gli stessi concetti, senza che questi si sedimentino in certezze e traccino sentieri da cui il pensiero non riesce a deviare.
Lei non si accorgeva di questo condizionamento, come d’altronde tutti i Cherubini, che, cresciuti a contatto con un’unica cultura, non riuscivano neppure ad immaginarne una diversa; ma sentiva, dentro di sé, che doveva esistere anche qualcos’altro. Non vi erano anche Demoni e Caduti, oltre agli Angeli? E le infinite sfaccettature degli Umani? Avrebbe voluto vedere tutta la loro dimensione, così variegata e mutevole, e non l’uniformità del Paradiso; e al contempo sentiva un’istintiva repulsione per quell’ambiente cupo e freddo. Tali istinti provenivano da parti opposte della sua mente, senza che lei riuscisse a comprendere quale fosse la linea di confine, che cosa la causasse: esisteva e basta, divenendo ogni secondo più netta e precisa.
Sarebbe bastato uno sguardo più approfondito, per capirlo. Una riflessione logica di fronte a queste contraddizioni, una domanda quasi doverosa – e lei di domande era un’esperta –, un dubbio intimo: sono io, o sono la persona che mi hanno insegnato ad essere?
Sarebbe bastato un sussurro dell’animo, per condurla alle radici del suo scontro interiore; ma l’animo, seguendo il sentiero tracciato in precedenza, taceva.


Impiegò più tempo del solito per raggiungere la biblioteca degli insegnanti: quei contrasti stancavano l’essenza, e le ali, risentendone, erano divenute all’improvviso esauste e rigide. Quasi tremavano per lo sforzo, quando si lasciò cadere pesantemente sul tetto dell’edificio.
Anane le si avvicinò di un passo, come per impedirle di crollare in ginocchio, ma poi rimase con la mano protesa e lo sguardo incerto, lasciando che ritrovasse l’equilibrio da sola.
«Cos’hai?» mormorò «È successo qualcosa anche a te?»
Amitiel si sedette, subito imitata dall’altra. Alzò il viso verso il cielo privo di sole del Paradiso, dove sagome rosse e candide si libravano senza proiettare alcuna ombra sul terreno, e non rispose alla domanda, chiedendo invece: «Anche a me?»
«Ti spiego dopo. Prima tu.»
«Nah.» scosse la testa, suo malgrado rasserenata da quel rituale scambio di battute «Prima tu.»
«Io sono più grande e io decido chi deve parlare per prima. Cioè tu
«Un’Autorità mi ha promossa alla quinta classe. Ora parla.»
«Nelchael è un fottuto impiccione.»
«Dimmi qualcosa che non so già.»
«Mh... la quinta classe sarà terribile. Ogni volta andrai a riposare almeno dolorante.»
«Grazie dell’incoraggiamento, Anane.»
Sorrisero.
Era quasi come se quei cinque periodi di silenzio non fossero mai trascorsi. C’era forse un po’ di esitazione nel tono, più impaccio del solito, ma sembrava un incontro normale – per quanto qualcosa potesse essere normale, dopo tutto quello che era accaduto nella dimensione umana, i dubbi, le paure. Due ragazzine sedute su un tetto a chiacchierare, con lo sguardo al cielo e le gambe oscillanti nel vuoto: una scena che doveva essersi ripetuta infinite volte, negli infiniti Specchi che costellavano il Paradiso, con gli infiniti Cherubini che li avevano popolati. E al contempo era profondamente loro, per i sorrisi e gli sguardi lanciati in sincronia, per le parole non dette che continuavano ad essere taciute ma smettevano di dolere, nell’improvvisa pace di quell’istante.
Mi dispiace, avrebbero potuto mormorare. Mi sei mancata. E domande, dubbi, timori. L’ansia per le domande di Nelchael e per il colloquio con l’Autorità. Avrebbero potuto, ma non lo fecero, preferendo lasciarsi cullare da quel silenzio fatto di sorrisi e affetto.


La realtà tornò a scuoterle, violenta, nel momento in cui la sagoma di Nelchael attraversò il cielo. Anane sussultò, pronta a giurare che l’uomo le avesse fissate con sospetto, e allungò d’istinto una mano, afferrando quella di Amitiel; l’altra non si oppose a quella stretta e neppure rispose, rimase semplicemente inerme, assente.
Il silenzio divenne all’improvviso un velo gelido.
«Dobbiamo parlare sul serio.» mormorò la più matura.
«Mh.» annuì «Cosa voleva Nelchael da te?»
«Non era convinto della relazione. Quella sull’incarico ne-»
«L’incarico nella dimensione umana, sì. Anche l’Autorità voleva parlarmi di quello.»
«E...?»
«E niente, le ho detto che» si guardò intorno e abbassò ulteriormente la voce «che ero solo turbata per le ombre. Deve averci creduto, o non mi avrebbe promossa alla quinta classe. Con Nelchael?»
«C’era Ridwan, ha fatto tutto lui. Alla fine Nelchael ha dovuto andarsene, non trovava più appigli, ma... la prossima volta dovremo organizzarci meglio, o creeremo altri sospetti.» la guardò, dubbiosa «Sempre se vuoi una prossima volta, eh. Per Michael, se non vuoi, posso... posso chiedere a Eisheth di parlarci»
«È davvero tua... tua madre?» chiese d’impulso.
«Nessuno mentirebbe su un legame del genere. Ma non-»
«Perché continuava a sottolinearlo?»
«Perché... boh, perché è Eisheth, credo. È fatta così, le piace provocare.» si morse il labbro «Non è neanche cattiva, in fondo. Ma-»
«E Michael?»
La più matura rabbrividì e mormorò: «Michael non mi piace. Per niente.»
«Perché?»
«Perché è arrogante, spietato, impaziente. Soprattutto impaziente. Io... quello che è successo... non era programmato, davvero, non sapevo che avrebbe fatto così. Avrei voluto prepararti meglio, chiederti se volevi incontrarlo, ma lui era stanco di aspettare.»
Prima che Amitiel potesse porle un’altra domanda, dei Cherubini della terza classe atterrarono sul tetto, costringendole a cambiare discorso. Anane iniziò a parlare del proprio Sviluppo con una disinvoltura quasi incredibile, considerata la difficoltà con cui di solito fingeva, e continuò fino a quando non se ne furono andati. Amitiel si limitò ad annuire di tanto in tanto durante il discorso, per dare l’impressione di ascoltarla; in realtà, rifletteva. Se la trasparente Anane non era davvero così trasparente, cos’altro le aveva nascosto? Incredula, si agitava senza riuscire ad attendere, impaziente che quei Cherubini si allontanassero.
«Da quanto tempo hai contatti con gli Sconsacrati?» chiese non appena rimasero sole.
«Caduti e Demoni, dici?» si mordicchiò un labbro, pensierosa «Ho iniziato verso la fine del ciclo inferiore, se non ricordo male.»
«Da prima che io venissi creata, insomma.» mormorò, con l’impressione di aver subito un tradimento.
«Be’, sì. Perché fai quella faccia?»
«E tu perché non me ne hai mai parlato?»
Le si avvicinò, ignorando i suoi tentativi di scostarsi, per sussurrarle in un orecchio: «Ehi, Amitiel, sai che ho rapporti con gli Sconsacrati? Sai che ho un demone come madre?» abbassò lo sguardo «Non potevo, capisci? Non ci avresti creduto, o ti saresti spaventata. Avrei voluto, davvero, ma non-»
«Farmi incontrare un caduto senza preavviso invece è stato meglio?»
«Te l’ho detto, non lo sapevo, non avrei mai accettato una cosa del genere.» mormorò, afflitta «Volevo parlartene quando siamo discese, ma Michael mi ha... preceduta.»
Amitiel si voltò finalmente verso di lei, trafiggendola con gli occhi nocciola ardenti di rabbia, e sibilò: «Avvisarmi un po’ prima no? Va avanti da prima che io fossi creata e tu non mi hai mai detto niente.»
«Ma sono rimasta.» rialzò lo sguardo, le ciglia umide di lacrime trattenute a fatica «Avrei potuto cadere, lasciare tutta questa gente che mi esclude perché rido troppo, non soffrire più perché qui non posso fare domande, smettere di rischiare così tanto a rimanere in Paradiso anche se sono una traditrice. Ma sono rimasta, per non lasciarti sola, perché sapevo che anche tu stavi male, e... e io non volevo abbandonarti, ma non ero sicura di poterti dire di Eisheth e gli altri.» le sfuggì un singhiozzo «Scusa se ho avuto paura di spaventarti, con il mio tradimento. Se ho avuto paura di perderti.»
Amitiel abbassò lo sguardo, il senso di colpa a roderle il petto e i denti a torturare il labbro inferiore.
«Non mi avresti mai persa.» bisbigliò, quasi inudibile.





***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite e, come sempre, un ringraziamento particolare a chi commenta!
Di seguito qualche nota (: Se avete altri dubbi/trovate errori, segnalatemeli pure ^^
Shekinah (anche scritto Shekhinah o Shekina) è un termine ebraico realmente esistente, che esprime un concetto piuttosto articolato riguardo la presenza di Dio e la sua manifestazione. Ho cercato di semplificarlo al massimo, definendolo come la vicinanza a Dio e a tutto ciò che lo concerne, ma in realtà è una questione molto più complessa.
L'Autorità non è stupida, e se si lascia convincere dalle parole di Amitiel è solo perché ha decisamente altro a cui pensare, piuttosto che ad un cherubino poco dotato e al suo (ormai ex) insegnante paranoico. E se la promuove così su due piedi... diciamo che vuole togliersi di torno il suddetto insegnante paranoico xD I motivi di questa disattenzione si vedranno meglio nel prossimo capitolo, nel frattempo non consideratela un'idiota.
Da qui inizia la vera maturazione di Amitiel, la sua presa di coscienza. Ci vorrà un po' di tempo, ma le cose iniziano a smuoversi sul serio, finalmente - come detto nelle note dello scorso capitolo, se prima c'è stata la caduta, ora è arrivato l'impatto. Deve solo... imparare a camminare sul nuovo terreno. Ancora un po' di pazienza, non uccidetemi per la lentezza degli sviluppi D:
Ovviamente, nel dialogo tra Anane e Amitiel, il registro molto basso è voluto (: parlano due ragazzine tra loro, non due Autorità xD
Al prossimo capitolo! (:

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Capitolo 10
*** 09. Notte ***


Capitolo 9 – Notte




Il tempio si ergeva al di fuori della Città, nella foresta, cupo come pochi altri. Era piccolo, ma le mura blu – tanto scure da sembrare nere – lo facevano apparire minaccioso, le lisce colonne sembravano sorreggere il cielo stesso, l’assenza di vetrate lo rendeva soffocante; all’interno vi era il buio, rischiarato solo da un braciere che spandeva stordenti fumi d’incenso. La sola ombra in un mondo di luce e colore.
Di tutte le Circoscrizioni del Paradiso, quella era l’unica a poter vantare un possesso tanto unico quanto potente e pericoloso. Era dominata dall’arcangelo Raphael, il Guaritore, ma non aveva particolari meriti nell’ambito dell’Antico, a differenza delle altre sotto il suo governo; la sua fama derivava invece dall’Autorità a cui era affidata – un’Autorità che aveva più volte stupito con la sua giovane età e il suo talento, ma ancor di più con il suo potere.
Leliel, serafino della notte.
Quel tempio era stato innalzato per lei, perché potesse rigenerarsi ed esercitarsi al meglio; i membri del Genio erano avvezzi anche agli edifici insoliti, da quelli per i pochi dominatori dell ghiaccio a quelli per gli ancor più rari signori del sonno, ma quasi mai ne avevano eretto uno per una sola persona. Che lo stesso Raphael avesse ordinato di sporcare il Paradiso con un’ombra, pur di innalzare un tempio per lei – a quell’epoca poco più di un cherubino, non ancora Autorità e per di più femmina –, bastava a renderla famosa e temuta. Soprattutto temuta.
Perché in realtà non era stata l’unica ad utilizzarlo, perché aveva condiviso il dominio della notte con qualcun altro, perché quel qualcun altro era stato inghiottito dalle tenebre di un potere rarissimo e pericoloso.
Perché l’unica ombra di un Paradiso inondato di luce era terrorizzante. Grande, naturalmente, e stimata; ma terrorizzante. Portare su di sé una fama simile equivaleva ad un marchio d’infamia – un marchio che si era strappata di dosso a forza, dimostrando per secoli la propria devozione, fino ad essere riconosciuta da tutti come la degna signora della notte.
Era diventata un’Autorità e aveva smesso di essere Leliel.
Nelchael, che l’aveva vista mutare da una giovane cupa ma viva ad uno spettro avido di stima e potere, ne era rimasto disgustato; per esprimersi in termini umani, la larva non era divenuta una farfalla, ma una mantide mostruosa.
Erano millenni che l’uomo non varcava la soglia di quel tempio, perché non ne aveva motivo e perché, in fondo, temeva ciò che vi avrebbe trovato. Il buio, il silenzio, la solitudine – i ricordi. Invidiava gli Umani, che avevano almeno la consolazione di una fine certa. Nascevano, un istante di vita, morivano. Nessun peso a gravare su di loro per l’eternità.
Nessuna mantide mostruosa a tormentarli, crudele.
Perché era crudeltà, convocarlo proprio in quel tempio e non nel palazzo delle Autorità; perché lei sapeva e affondava la lama, come se ritenesse insufficienti le sue sofferenze, in una vendetta puerile che non le si addiceva. Aveva mantenuto solo i tratti peggiori, della giovane ch’era stata un tempo.
Di quella che in un’epoca lontana l’aveva accompagnata nel tempio della notte, invece, aveva cancellato ogni cosa e pretendeva che lo facesse anche lui. Ma come poteva, se gli ordinava di tornare in un luogo pregno di passato? L’odore stordente dell’incenso era lo stesso, il silenzio assordava in ugual modo, le ombre inquietavano come millenni prima.
Lei si ergeva al centro della sala, magnifica e terribile, immersa nel suo elemento. Lui rimaneva immobile sulla soglia, appena oltre il velo nero che impediva alla luce di bagnare quel tempio oscuro. L’essenza stessa del Paradiso era stata violentata per creare quelle anomale tenebre, per rendere l’aria opaca e nera; i loro occhi sovrannaturali scorgevano ugualmente ogni cosa, ma rimaneva l’angosciante sensazione che quel buio fosse sbagliato, innaturale.
«Mi hai chiamato qui come Autorità o come Leliel?» le chiese, pronunciando un nome che su di lei non veniva più utilizzato da secoli.
La donna ignorò la sua domanda e con un cenno imperioso della mancina gli ordinò di avvicinarsi.
«Ho udito cose interessanti, Nelchael, sul tuo recente comportamento.» sibilò «Cose che spero non siano vere.»
«Ma che credi lo siano.»
«Conoscendoti, non mi stupirei se tu fossi davvero stato così stupido e arrogante.»
«In che modo lo sarei stato, secondo le cose interessanti che hai udito?»
La mano sinistra dell’Autorità, ancora piegata verso di lei nel comando di avanzare, scattò verso il basso e artigliò l’aria. Le tenebre si condensarono all’improvviso in sagome striscianti, simili a serpi, di un nero impenetrabile; gli strinsero le membra in una morsa ferrea, costringendolo a crollare in ginocchio tra inquietanti scricchiolii.
«Non osare mai più» gli intimò l’Autorità con voce vibrante di collera «interrogare un allievo del ciclo superiore su qualcosa che non ti riguarda, scavalcando l’autorità del suo maestro e la mia
Uno schiocco secco e il viso di Nelchael si contrasse, con un urlo bloccato in gola. Sotto il tessuto della maglia, lacerato in corrispondenza di un gomito, s’intravedeva un osso frantumato dalla spaventosa pressione delle ombre.
«Contrastare i miei ordini.»
Secondo schiocco.
«Indagare senza la mia autorizzazione.»
Terzo schiocco.
«Ma soprattutto, non osare mai più» quarto schiocco e Nelchael si piegò in avanti per il dolore, con un braccio completamente distrutto «insultare così la mia intelligenza.»
Si ergeva di fronte a lui, sovrastandolo fiera e furiosa, gli occhi azzurri intorbiditi dall’ira.
«Te l’avrei detto.» sfiatò l’uomo «Volevo solo-»
Il quinto suono fu un insieme di schiocchi rapidi e violenti, di una ferocia agghiacciante. Un urlo sofferente gli sfuggì dalle labbra quando le sue ali si piegarono su sé stesse, quasi in pezzi.
«Non mentirmi!» gridò Leliel «Perché hai voluto essere così stupido, Nelchael? Dovrei condannarti all’Espiazione. Dovrei denunciarti ai Censori. Dovrei smettere di fidarmi del tuo giudizio, perché rimani il solito ragazzino arrogante di sempre!»
Le ombre solide che lo trattenevano si sciolsero, lasciandolo crollare a terra, e lui si sostenne con il braccio sano per non battere il viso contro il pavimento.
«Smettere di...» articolò a fatica «fidarti... del mio giudizio?»
«So perché t’interessi così tanto di quel cherubino.» disse, ignorandolo «Se continui, ti metterai in pericolo – e non con me. Con i Censori. Con il Consiglio. Smettila, Nelchael, prima che sia tardi.»
«L’ho... promesso.» rantolò «Lo sai.»
«Non hanno importanza le promesse fatte ai traditori. Né ai morti.»
«Non è-»
«Lo è.» lo interruppe, in tono improvvisamente esausto «Lo è, Nelchael. Devi accettarlo. Preoccuparti così per quel cherubino non ci restituirà nessuno.»
«Ma l’ho promesso.» strinse i denti, rabbioso, quasi dimentico del violento dolore al braccio «Sua madre... lo sai anche tu, io... sua madre
L’altra non rispose, limitandosi ad un’occhiata stanca. Erano argomenti proibiti, idee vietate, termini taciuti – erano sussurri che solo le tenebre potevano accogliere, promettendo di custodirne il segreto. Erano un pericolo.
Sta’ attento, sembrava dirgli quello sguardo. Sperava solo che lo capisse.

* * *

Udiva il ruscello gorgogliare sui ciottoli chiari, levigati dal suo continuo flusso, come una sommessa risata di contentezza. La luna tingeva la cresta dei flutti con riflessi di cristallo, ma le profondità del fiume rimanevano nere: le vedeva scorrere placide, poco più avanti, dove il rivo trasparente veniva inghiottito da una serpe d’acqua scura.
Avrebbero potuto nuotarvi gli incubi peggiori senza che qualcuno li scorgesse. Avrebbero potuto emergere all’improvviso dai flutti torbidi e strangolare a tradimento, con il loro ghigno mostruoso. Lo facevano.
Lo percepiva nel tremore di un altro corpo aggrappato al proprio, nei respiri rapidi che si sovrapponevano al mormorio del ruscello; e non poteva far altro che stringerla e ripetere una risposta sempre uguale ad una domanda che non cambiava mai.


«Quanto manca all’alba?» chiedeva sempre lei, posandogli il capo su una spalla, nelle notti di un tempo quasi dimenticato. Di quando guardavano insieme il cielo tingersi di rosa, la luce disperdere gli incubi partoriti dalle loro menti insonni, i fiori schiudersi e il fiume tornare limpido. Di quando le aveva mostrato per la prima volta la neve, lontano dalle terre calde che li avevano accolti sino ad allora, e lei aveva affondato le mani in quel manto candido con espressione ammaliata. Di quando la guardava raccogliere ciottoli dalla riva di uno stagno e scagliarli sull’acqua, uno due tre quattro rimbalzi; di quando scuoteva la testa per quel passatempo troppo umano per loro due, ma provava comunque ad impararlo, per vederla illuminarsi di gioia.
Erano state notti anche quelle, perché il giorno la chiamava spesso ai suoi doveri e non restavano che le ore più buie da passare insieme; tuttavia il suo «Quanto manca all’alba?» era sempre mormorato con urgenza, non con la malinconia della separazione. Gli incubi la spaventavano più della solitudine, e il terrore si traduceva in quella domanda assillante.
«Poco» le rispondeva ogni volta, accarezzandole i capelli – anche quando il sole era appena scivolato oltre il profilo morbido delle colline. Ma non mentiva, perché la notte era scagliare sassi sull’acqua, era guidarle le dita nella neve fresca, era sussurrare e tacere e guardarsi e viversi, e non durava mai più di un respiro.
Era sfiorarla con dita leggere, come la luna accarezzava le acque del ruscello, accendendole il viso di emozioni proibite che si scioglievano in un respiro spezzato. Era udire il proprio nome singhiozzato da quelle labbra lacerate a morsi, leggere il pentimento nei suoi occhi e dissolverlo peccando ancora.
Le avrebbe reso caro anche il buio, un giorno – le avrebbe fatto capire che portava incubi ma ammorbidiva gli spigoli, e che non c’era niente di sbagliato, nella notte. O in loro.


«Quanto manca all’alba?»
«Poco.»


Quando se n’era andata, l’eternità gli era apparsa inconcepibile. Le notti non erano più notti ma vuoto, nulla, oblio – non avevano più senso, perché non aveva più senso nemmeno il giorno. Avrebbe voluto avere un motivo per attendere l’alba, ma non lo trovava, per cui rimaneva in riva ad un ruscello a non attenderla, solo.
Solo.
Solo.
Solo.
Se lo ripeteva come una litania, in quei momenti di dolore nero.
Sei solo, Michael. Lei non c’è.
Lei, il suo amore per il sole e il terrore della notte, la sua voce che tremava nel porre una domanda assillante, i suoi capelli sparsi sulle spalle di entrambi. Sassi che rimbalzavano sull’acqua e neve stretta tra le dita. Il suo rimorso per un peccato che non riusciva a rifiutare, e quella decisione, poi. Quella scelta. Quell’errore.
«Non tornerà più.» si diceva a volte, divorato dalla disperazione «Non tornerà più.»


«Quanto manca all’alba?»
«Poco, ti ho detto. Tranquilla.»


E invece era tornata.
La felicità, evidentemente, sfiorava anche chi credeva di non vederla mai più, e al suo arrivo il resto perdeva d’importanza: una guerriglia sfiancante, una madre possessiva e volubile, aspirazioni forse troppo ambiziose e aspettative di certo troppo pesanti, e inganni tradimenti morte.
Non esisteva più nulla, al di fuori del tocco gentile della pace – una pace che aveva lineamenti conosciuti, una domanda ripetuta all’infinito e un corpo da abbandonare contro di lui. Persino sentirla tremare, angosciata dagli incubi delle notti di veglia, aveva un sapore dolce; persino ripeterle che mancava poco, che l’alba sarebbe arrivata presto, che andava tutto bene.
Sembrava un ricordo divenuto presente, un tempo che aveva temuto essere perso per sempre. Memorie strappatele a forza da loro, per farle dimenticare ogni cosa, ma in quel momento non importava, perché era tornata.
Aveva il suo corpo stretto contro di sé, i suoi capelli sparsi sul petto e la solita domanda mormorata in tono sempre più angosciato. Aveva lei.
Come era stato, come avrebbe dovuto essere per sempre.
Il suo nome gli riecheggiava in mente, non più rimpianto del passato, ma promessa del futuro – il suo nome vero, non quello che le avevano dato loro quando le avevano strappato ricordi e identità per rieducarla. Infante, di nuovo; cherubino senza storia e senza idee, da modellare secondo il giusto pensiero. Illusi.
Lei era tornata, ed era lì, ed era sua.
Ishild.

* * *

Il lungo silenzio sceso nel tempio fu spezzato dalla voce di Leliel, debole, amara – ferita?
«Ho parlato con la tua allieva. Mentre tu cercavi di raggirarmi, io davo ascolto ai tuoi timori.»
L’uomo si alzò in piedi, stordito ma non troppo sofferente: il dolore al braccio stava già sfumando in un fastidio quasi sopportabile, il tepore di un invisibile fuoco lambiva le carni lacerate e iniziava a guarirle.
«E...?» mormorò.
«E niente.» gli rispose secca «Tempo sprecato. Ho visto solo un cherubino spaventato dalle ombre e da un insegnante troppo apprensivo.»
Prima che potesse ringraziarla – sempre che trovasse la voce e il coraggio per riuscirvi –, Leliel continuò: «In ogni caso, non dovrai più curarti di lei. L’ho personalmente promossa alla quinta classe.»
Quel ‘personalmente’, sottolineato da uno spasmo minaccioso delle ombre, bloccò ogni possibile protesta.
«Almeno andrà nella dimensione umana con un insegnante.» sospirò Nelchael.
Il silenzio dell’altra fu insolito, ma ancor più insolito fu il modo in cui strinse le labbra, con un’espressione quasi... colpevole?
«Lel-» s’interruppe prima di chiamarla per nome, per timore che quel gesto di familiarità venisse scambiato per un’offesa «Autorità?»
La donna chiuse gli occhi e mormorò: «Non riusciamo a... la quinta classe non è più coperta. Forse neanche la sesta.»
«Co-»
«Gli insegnanti servono ad altro, Nelchael.» lo interruppe con voce acuta, come per giustificarsi, o per convincere anche sé stessa «Non siamo formalmente in guerra, non possiamo chiedere troppi aiuti alle altre Circoscrizioni. Il Consiglio ci ha concesso di prendere misure straordinarie, ma-»
«Ma non ci concede più aiuti di così, o di dichiarare guerra?» sfiatò, incredulo «O di richiamare anche i Veglianti a combattere?»
I Veglianti – i Custodi dediti alle anime – erano un numero immenso, almeno il doppio di tutti gli abitanti del Paradiso. Molti di loro erano pura essenza, creati appositamente per guidare le anime a cui si legavano di volta in volta, ma altri – coloro che erano stati comuni Angeli, prima di venire assegnati alla Veglia – erano in grado di assumere una forma materiale; e in ogni caso anche esseri incorporei, capaci di scontrarsi solo sul piano spirituale, avrebbero potuto essere utili. Fondamentali, anzi, vista la grave carenza di combattenti di cui in quel momento soffriva la loro Circoscrizione.
«Non ci sono gli estremi per una dichiarazione di guerra, e uno scontro è da evitare il più possibile, Nelchael, ricordalo.» gli rispose l’Autorità, senza particolare convinzione «E non possiamo richiamare i Veglianti, non possiamo abbandonare gli Umani.»
«Quindi abbandoniamo i Cherubini?»
«Nessuno attaccherà i nostri Cherubini durante le lezioni. L’ultimo patto con i Demoni è molto chiaro.»
«È molto chiaro anche l’ultimo patto tra quei sudici e i Caduti.» ringhiò.
Leliel, ancora ad occhi chiusi, sospirò: «È un patto di non aggressione, non un’alleanza contro di noi. Il Consiglio non ci autorizzerà mai a dichiarare guerra con queste premesse.»
«Però ci autorizza ad abbandonare i Cherubini?»
«Abbiamo subito solo incursioni isolate lungo i confini umani.» aprì gli occhi e si massaggiò le tempie, come in preda ad un feroce mal di testa «Nessuna violazione esplicita del nostro patto. Non possiamo violarlo noi per primi.»
«Quindi lasciamo che ci indeboliscano così?»
«Quindi attendiamo un loro passo falso.» lo corresse, ma non sembrava davvero convinta nemmeno lei «Nel frattempo rinforziamo i confini.»
«E abbandoniamo i Cherubini.»
L’Autorità portò la mano al seno ed estrasse un foglio dalla veste. La carta aveva ovunque pieghe e strappi, come se dita irrequiete l’avessero più volte aperta e richiusa, stretta, stropicciata, lisciata; ma il contenuto rimaneva comunque leggibile, e Nelchael sussultò. Iniziali, sigle, luoghi, annotazioni incomprensibili, ma soprattutto cifre – tante, tantissime cifre, tutte spaventosamente alte.
«Ruolo. Zona. Numero dei feriti, gravità, tempi di ripresa.» elencò Leliel a memoria, con voce piatta «E anche altre informazioni. L’ultima colonna sono i morti.»
L’uomo la scorse con lo sguardo e sussultò di nuovo.
Erano tanti. Troppi. Diversi Custodi, un apprendista Stratego, due Guaritori; la cifra più elevata e più sconcertante, tuttavia, era quella dell’ultima riga. Cinque Guardiani – cinque degli loro Arcangeli più potenti, dei loro combattenti più feroci. Un numero così elevato in così poco tempo non si raggiungeva dall’ultima guerra contro i Caduti.
«Sono... tutti questi...» farfugliò, incredulo.
«Sono solo gli ultimi dati. Quasi raddoppiano, se li sommi a quelli dei periodi meno recenti.» commentò l’Autorità «E non sono mai stati visti Caduti e Demoni attaccare insieme. Hanno un tempismo sospetto, ma il Consiglio vuole prove certe, e noi... noi non ne abbiamo.»
L’uomo rimase in silenzio, attonito. Cinque Guardiani. Cinque. E i Guardiani, gli Arcangeli migliori, non venivano certo uccisi con facilità: serviva un potere di molto superiore al loro, o una schiacciante superiorità numerica. Era semplicemente assurdo che il Consiglio non desse l’autorizzazione a rispondere agli attacchi – la clemenza degli Angeli e la burocrazia del Paradiso erano davvero folli, talvolta. Fin troppo spesso.
I territori umani della loro Circoscrizione erano sotto attacco, quelle cifre ne erano la prova, e di certo Demoni o Caduti da soli non avrebbero mai potuto raggiungerle. Che importava se il patto tra quelle due fazioni di traditori era, ufficialmente, di semplice non belligeranza? E che il patto tra Angeli e Demoni ammettesse incursioni sui reciproci confini? Tutti quei morti erano un invito allo scontro.
Ma il Paradiso non dichiarava mai guerra per primo, il Paradiso cercava la pace, il Paradiso doveva mostrare misericordia, il Paradiso doveva occuparsi degli Umani.
Il Paradiso, pur di non sottrarre i Veglianti al loro compito, chiamava ogni altro a nuovi incarichi. Gli Strateghi abbandonavano le proprie stanze, il Genio le proprie opere, gli Esecutori le proprie mansioni non essenziali. Gli insegnanti abbandonavano i propri allievi, e questo sottolineava la gravità della situazione: non erano considerati una categoria a sé, e infatti svolgevano anche altre funzioni, ma mai negli ultimi secoli avevano dovuto trascurare i Cherubini.
Un maestro poteva portare la fascia blu degli Esecutori, o quella verde dei Guaritori, o quella avorio delle Autorità, o qualsiasi altra; la sua essenza, tuttavia, era sempre concentrata su un unico fine: educare, insegnare, guidare. Il colore del tessuto ai fianchi era solo un dettaglio che non poteva e non doveva allontanare un maestro dai suoi allievi.
Eppure stava accadendo. Erano tutti impegnati a proteggere i confini, subendo passivamente gli attacchi di quei sudici traditori, mentre i Cherubini venivano lasciati a sé stessi e gli Umani, ignari, continuavano a godere della protezione dei Veglianti.
«Non lasciare che il risentimento contamini la tua essenza.» mormorò Leliel, allungando una mano a sfiorargli il viso, in un gesto quasi dimenticato «Gli Umani sono i figli più fragili di Dio, coloro che più hanno bisogno di guida e sostegno. Può sembrarci ingiusto, doverci sacrificare per loro in questo modo, ma questa è la volontà di Dio, e la Sua volontà non può essere ingiusta.»
Nelchael rimase immobile, fissandola negli occhi senza una parola. Come lei osservava la sua essenza agitata, lui scrutava quella della donna, scorgendovi dietro una forzata calma un tormento profondo. Avrebbero chiesto perdono per quel rancore, avrebbero piegato le ginocchia e chinato il capo, ma in quel momento vi si abbandonarono, specchiandosi in un risentimento uguale al proprio. Nel tempio della notte e delle tenebre, in cui l’unica luce era la fiamma agonizzante di un braciere, la devozione vacillava. Solo un istante, solo per un dettaglio, ma vacillava.
Vedendoli così, nessuno avrebbe creduto che tra i due fosse la donna a regnare sulla notte, perché una profonda stanchezza – stridente con l’immensità di quel potere – trapelava da ogni dettaglio del suo corpo: il viso malinconico, gli occhi azzurri lucidi di lacrime amare, le ciocche bionde sparse disordinatamente sulle spalle, le ali da serafino afflosciate. L’uomo, dai colori più scuri e dall’espressione più dura, sembrava maggiormente adatto a reggere il dominio delle ombre notturne; ma, quando portò la propria mano su quella della donna, la sua aria di irrequieta potenza scivolò lontano con un sospiro esausto e una smorfia di dolore per il braccio fratturato.
«Nella zona costiera a nord è morto un apprendista Stratego.» disse Nelchael, sempre guardandola negli occhi, e vi scorse l’essenza della donna contrarsi in uno spasmo afflitto – la risposta alla sua domanda implicita.
«Era Raphael, sì.» mormorò, nominando un vecchio allievo. Si era sviluppato di recente, appena prima che lei prendesse sotto la propria tutela quella attuale: ricordava ancora con precisione la sua espressione fiera per essere divenuto un arcangelo, l’orgoglio con cui aveva indossato per la prima volta la fascia indaco degli Strateghi, l’abbraccio imbarazzato con cui l’aveva ringraziata di tutto. Ricordava e basta, perché Raphael non esisteva più.
«Ma non pensiamo ai morti, Leliel. Ai morti veri.» sussurrò l’uomo «È inutile. Dobbiamo solo reagire, evitare che ce ne siano altri, ma... non pensiamo più a loro. È sbagliato.»
«È sbagliato che ci siano morti.» ribatté, allontanando la mano dal suo viso «Tra noi, creati per essere eterni, non dovrebbero essercene. È la guerra a portarli.»
«Sono quei sudici traditori.»
«E quindi pensi di migliorare le cose, con una guerra?» gli diede le spalle, incamminandosi verso l’uscita del tempio, la stanchezza e il dolore tramutati in rabbia «Morti, morti e ancora morti. È a questo che porterà. Dobbiamo evitare un massacro, cercare la pace.»
«Evitare un massacro include il lasciarci decimare?»
Uscì senza rispondergli, lasciandolo solo in quelle tenebre soffocanti; ma quando lei se ne andò la luce del Paradiso filtrò dal velo all’entrata, squarciando la notte, e Nelchael quasi avrebbe preferito l’oscurità – quell’oscurità in cui, dopo secoli e forse millenni, erano riusciti a vedersi. Solo per un istante, solo nell’ora più buia, erano riusciti a stringere tra le dita quell’antica familiarità, quell’affetto che ancora avrebbe potuto esserci, se.
Ma la notte era finita.

* * *

Aprire gli occhi fu come essere strappato alla vita. Il silenzio, senza il mormorio di un ruscello e una domanda ripetuta mille e mille volte, gli squarciò la mente come uno stridio; il vuoto tra le proprie braccia, orrendo terribile vuoto, lo colpì allo stomaco con più violenza del colpo di un arcangelo.
Faceva più male dell’Espiazione, della Caduta, della Condanna. Faceva più male di quanto avesse mai creduto di poter sopportare.
Era normale, continuava a ripetersi. Era il suo corpo che si ribellava al sonno impostogli, la sua essenza soggiogata dal potere di Dumah. Era una reazione logica, niente di preoccupante, era solo una-
Era dolore rabbia amarezza rimpianto.
Lei non c’era. Lei non ricordava – non ancora. Ma un giorno l’avrebbe fatto, un giorno sarebbe tornata, un giorno... un giorno quando?
Secoli. Secoli di solitudine, ad aspettarla in nome di un giuramento che lei aveva dimenticato, consumato da un’ossessione. Notti insonni a non attendere l’alba, perché non c’era più alcun motivo di farlo; ad attendere lei, in compenso. Una domanda che non poteva giungere, un fiume nero che non ospitava incubi, neve che non veniva stretta tra le mani, sassi che non rimbalzavano sulle acque di uno stagno. Non più.
Lei, lei non c’era.
Ishild.
Avrebbe gridato e singhiozzato e distrutto ogni cosa, se fosse stato solo; ma il distacco che si era sempre imposto non gli permise che un debole sospiro, in presenza di un altro – e poco importava che quell’altro si fosse alzato in piedi e girato di spalle, fingendo interesse per l’orizzonte della silenziosa pianura.
La luce della luna morente faceva apparire bianchi i suoi capelli chiarissimi, sciolti in ciocche lisce che arrivavano oltre le scapole. Il viso dai lineamenti delicati, quasi femminei, era rivolto verso il cielo con espressione assorta, gli occhi socchiusi e un sorriso malinconico ad incurvare la linea sottile delle labbra. Tutto del suo aspetto era diafano, scarno, come sul punto di scomparire – un sogno fuggito in quel mondo, o un incubo ben mascherato in attesa di strangolare una mente troppo fragile.
«Dumah.» lo chiamò Michael, alzandosi in piedi a sua volta.
«Resta sdraiato. Non ti fa bene dormire, permetti al tuo corpo di riprendersi, ora.» gli consigliò. Persino la sua voce era bassa, quasi inudibile, senza inflessione: avrebbe potuto essere scambiata per il fruscio del vento tra le foglie, o per il mormorio di un corso d’acqua.
«Non ne ho bisogno.»
«La tua essenza è ridotta in uno stato patetico. Esponi le ali, almeno, lascia che si distenda.»
«La mia essenza non si prosciugherà per essersi affaticata un po’.»
«Sei durato solo due tramonti, questa volta. Inizi a rifiutare la mia Influenza.» si voltò leggermente verso di lui «Di questo passo, non riuscirò a fare nulla senza danneggiarti.»
«È quasi il momento, non temere, tra poco non dovrai fare più nulla.» affermò, tentando di convincere anche sé stesso, perché lei doveva tornare, era assurdo pensare ad un’eternità di solitudine e di illusioni. Poi aggiunse in un sussurro: «E... grazie.»
«Sto ripagando il mio debito.» gli rispose in tono neutro «Ma non so quanto ti stia facendo bene, tutto questo.»
«Quanto mi stia facendo bene non deve interessarti.»
«Sensibilità, empatia... ti dicono niente?» chiese, per la prima volta con un accenno d’ironia nella voce «O più semplicemente istinto di sopravvivenza.»
«Eisheth?» s’informò, inquieto. Non aveva il diritto, lei, d’intromettersi in quella questione; non dopo che l’aveva minacciato di porvi fine a modo proprio, soprattutto, dimostrando di tenere più a dilettarsi che a lui. E ancora si fregiava del titolo di madre.
«Ha voluto parlarmi, e sai come sono le sue chiacchierate. È stata piuttosto... incisiva.»
«Tra poco non avrai più motivo di preoccuparti.»
Tra poco lei tornerà. Tornerà. Tornerà. Tornerà.’
In quel momento il primo chiarore del sole tinse d’oro la pianura, come a ricordargli di aver passato un’altra notte in solitudine – niente domande mormorate ossessivamente, niente capelli da accarezzare, niente incubi e rimorsi da dissipare, niente corpo tremante stretto al proprio. Solo le illusioni di Dumah.
L’alba giungeva, ma lei non era lì a vederla.
Tornerà. Tornerà. Tornerà.’





***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per preferiti/seguite/ricordate e, come al solito, un pensiero in particolare a chi commenta (: i capitoli sono diventati di due-tre pagine più lunghi rispetto ai primi e hanno raggiunto - credo - la media definitiva, merito dell'ispirazione che mi date voi u.u Se trovate errori o avete consigli, non fatevi problemi a parlare, non mi offendo, anzi, mi fa davvero piacere avere la possibilità di migliorare!
Questo capitolo è un "intermezzo" nella vicenda principale, non si può nemmeno definire "di transito", ma non potevo non inserirlo: bisognava spiegare la situazione di "politica estera" (...lol) del Paradiso, prima o poi, e Amitiel non è di certo la persona più informata su questo. Grazie al tema del capitolo ho colto l'occasione di parlare anche di Michael, perché dovevo scrivere di lui, è uno dei personaggi più ispiranti. Se leggere la sua parte vi farà piacere la metà di quanto è piaciuto a me narrarlo, sarò già contentissima (:
E ho mostrato il lato più umano, meno distaccato, dell'Autorità - che ha finalmente un nome anche per i lettori, yeah. Spero di averla resa bene, anche se non è facile trattarla, essendo molto volubile e lunatica... forse si è notato xD Se non avete capito parte del suo discorso con Nelchael, o il motivo di alcuni stati d'animo... bene, il capitolo ha fatto il suo dovere u.u Sono personaggi secondari, ma non ho messo lì per caso né loro né il loro passato così nebuloso. E reclamavano un capitolo per sé xD Nel prossimo, comunque, tornerà ampiamente Amitiel (:
Una piccola curiosità: Leliel, nella tradizione, è davvero colui (nel mio caso colei) che governa la notte, mentre Dumah è considerato il signore del silenzio e del sonno.
Ho finito lo sproloquio, grazie ancora per aver letto (:

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Capitolo 11
*** 10. Flusso ***


Capitolo 10 – Flusso




Il capo reclinato contro una delle finestre alte quasi quanto le pareti stesse, le mani strette alla divisa che avrebbe dovuto indossare, Amitiel era tanto immobile da sembrare addormentata. Lasciò vagare fiaccamente lo sguardo sul dormitorio deserto: le altre erano già uscite, solo lei non si era ancora preparata, ma sperava che il suo ritardo non venisse notato dagli insegnanti. Temeva di essere troppo stanca anche per volare.
Quando Anane le aveva detto che sarebbe sempre andata a riposare dolorante, Amitiel aveva sperato che l’amica scherzasse: la quarta classe si era già rivelata molto impegnativa, con le sue interminabili lezioni di anatomia, e non c’era bisogno – davvero nessun bisogno – che la quinta fosse ancor più pesante. Ovviamente Anane era seria.
Con un inutile sospiro, portò le ginocchia al petto e tornò a guardare oltre i vetri. Al di là del porticato che circondava il cortile – e quindi il lato interno delle camerate al primo piano – vide solo un paio di ragazze affrettarsi verso l’uscita, la tunica raccolta tra le mani e l’espressione preoccupata. Doveva essere davvero tardi, eppure nessuno era venuto a chiamarla; forse le altre non si erano nemmeno accorte della sua assenza. Non sarebbe stata la prima volta.
Per tre cicli temporali era rimasta sola con compagne che non conosceva, essendo stata assegnata al terzo gruppo, con cui non aveva mai avuto contatti. Tra la naturale diffidenza delle altre verso un’estranea e la sua timidezza, facilmente scambiata per alterigia, in quei tre cicli aveva a malapena scambiato qualche frase con le altre – presentazioni, informazioni sullo studio e saluti inclusi. Non che si fossero dette molto di più, in effetti.
Subito dopo di lei era stato promosso Raphael, assegnato invece al primo gruppo. Al quarto ciclo dal loro passaggio, anche Ramiel era avanzata alla quinta classe, dopo una maturazione rapidissima che aveva stupito tutti; curiosamente, però, quando era stata condotta al dormitorio del terzo gruppo non era apparsa molto soddisfatta del risultato.
Amitiel si era sentita sollevata per l’arrivo di una compagna conosciuta, tanto che l’aveva apertamente invitata ad occupare il letto accanto al proprio, in un insolito impeto di cordialità. Non apprezzava Ramiel in modo particolare, ritenendola troppo rigida e fredda: aveva i capelli rossi tagliati corti, gli occhi verdi sempre seri e la voce bassa che non si scioglieva mai in una risata. Ma sapeva anche essere gentile e, con i Cherubini più immaturi, protettiva in modo quasi esagerato. Era una serietà da Ramiel, insomma, un materno ‘Non metterti nei guai’ molto diverso rispetto alla serietà da Cassiel – più simile ad un ‘Non sei degno di occupare la mia stessa dimensione’.
E la serietà da Ramiel era preferibile al gelo di quei tre cicli da sola. Forse avrebbe riso un po’ meno, ma sarebbe stata con qualcuno: non più solo ‘Buon risveglio’ e ‘Buon riposo’ e ‘Fino a che paragrafo dobbiamo studiare?’, ma anche ‘Come stai?’ e ‘Hai novità?’ e ‘Sai chi ho visto prima?’. Non più solo libri sfogliati in silenzio e un tavolo isolato in biblioteca, ma anche appunti scambiati ed esercizi svolti insieme. Non più solo sé stessa, ma anche qualcuno al proprio fianco.
Sospirò di nuovo e, ancora seduta a terra, iniziò a sfilarsi la morbida veste da riposo. Però era davvero stanca, e non sapeva se voleva davvero andare: avrebbe finalmente potuto parlare con Anane, che non vedeva da diverso tempo, troppo occupata con lo studio, ma poi avrebbe dovuto rivedere... non riusciva a ricordare il nome. Aveva i suoi occhi grigi in mente, a scrutarla con severità, ma come si chiamava? Si sentiva immersa in una nebbia lattiginosa, in cui la mente vagava senza trovare il filo dei pensieri. Un po’ come quando quel demone l’aveva toccata e... e poi cos’era successo? Nebbia, confusione, stordimento. Aveva bisogno dell’aiuto di Ramiel, per tornare lucida e in forze. Con un po’ di fortuna sarebbe venuta a cercarla per controllare che non le fosse accaduto nulla, sperò.
Erano passati solo due periodi da quando l’altra era stata promossa, ma la loro quasi forzata intimità le aveva già rivelato molto: era bastato trovarsi insieme, isolate dal resto del dormitorio, per lasciarsi andare a confidenze. Aveva scoperto che l’altra detestava avere i capelli rossi, perché era un colore che la faceva apparire infantile, e che invece li avrebbe preferiti biondi; che le piaceva osservare i combattimenti, ma non scontrarsi lei stessa; che voleva diventare una Guaritrice e studiare nella Circoscrizione dell’Autorità Gabriel. Amitiel si era trattenuta a stento dal notare ad alta voce che Raphael aveva i capelli biondi, amava combattere e voleva chiedere il passaggio proprio a quella Circoscrizione – famosa per gli Arcangeli che formava, oltre che per le arti di cura.
Nonostante quell’inaspettata confidenza con Ramiel, Anane le mancava, con la sua risata e i suoi abbracci: non si vedevano da quasi quattro cicli temporali, perché la quinta classe era tremendamente impegnativa. Ritenuti abbastanza maturi per diminuire il sonno, i Cherubini riposavano per due periodi, non più per tre, perciò le lezioni ne occupavano cinque invece di quattro, e i due di svago erano dedicati interamente allo studio – anche il quarto, fino ad allora sacro e immancabile momento di incontro con Anane. Quando riusciva a destarsi in tempo sfruttava persino il primo periodo, dedicato al risveglio, per mettersi in pari con i compagni.
In ogni classe si affrontavano pochi temi tra loro indipendenti, in modo che un nuovo allievo potesse inserirsi in qualsiasi momento senza troppe difficoltà. Dalla quinta, tuttavia, diveniva tutto più esteso e complesso; non era raro che un cherubino appena promosso dovesse seguire le lezioni su un argomento già iniziato e fosse costretto a recuperare tutte le nozioni precedenti. Lei aveva avuto la particolare fortuna di giungere a metà dell’enorme, enormissimo libro sulla dimensione umana: undici capitoli da recuperare, più le spiegazioni ordinarie. Caldo, freddo, pioggia, grandine, sole, luna, stagioni... era un luogo così instabile e mutevole, c’erano così tante cose da tenere in considerazione, così tanti dettagli che potevano cambiare e influenzare tutto l’ambiente.
Ricordò solo in quel momento di chiudere le tende. Premendo la veste sul seno, allungò una mano verso lo spesso tessuto bianco e lo tirò leggermente, coprendo una minima porzione di vetro. Le braccia doloranti non le permisero di fare di più.
Perché vi erano estenuanti esercitazioni pratiche, oltre allo studio teorico. Dal primo al quarto gruppo si svolgevano durante le lezioni ultime lezioni prima del riposo, dal sesto all’ottavo durante quelle successive; un cambiamento sgradito e traumatico, che aveva sconvolto i suoi ritmi. Erano allenamenti più complessi rispetto alle classi passate: se in precedenza si trattava di acquisire controllo sul corpo e di provare i movimenti fino a renderli istintivi, dalla quinta si iniziava a combattere seriamente – unire ogni gesto in modo fluido, resistere al dolore, mantenere la lucidità. L’attenzione non poteva mai calare, ma nemmeno restando concentrata riusciva ad evitare le ferite, come testimoniavano i suoi movimenti cauti. Ramiel, la sua allegra insegnante, la rassicurava dicendole che erano difficoltà normali; Ramiel, la compagna aspirante Guaritrice, talvolta imponeva le mani sul suo corpo e le donava un po’ di sollievo. Scorgere Cassiel che combatteva come se fosse stata creata per farlo, però, non aveva aiutato il suo umore a risollevarsi.
Sfilò del tutto la veste, restando nuda contro il pavimento, poi riprese tra le mani la divisa per le esercitazioni pratiche. Corpetto e pantaloni erano più comodi e pratici di un chitone, e più semplici da indossare, ma anche strani: era imbarazzante muoversi con vestiti che mettevano in evidenza ogni forma, difficile non sentirsi a disagio con le gambe avvolte così strettamente dal tessuto. Infilata l’uniforme, allungò una mano verso il pavimento, dove giaceva la striscia rossa della quinta classe, più sottile e pratica della fascia della divisa ordinaria. La strinse ai fianchi con movimenti cauti a causa delle membra doloranti, senza preoccuparsi di intrecciare un nodo stretto.
La sua insegnante non si sarebbe indignata per il disordine dei suoi abiti: Ramiel era allegra, sorridente, spigliata. Tollerava il caos, i ritardi, le risate, il rumore, i commenti, le lamentele, gli errori – tutto ciò che un altro maestro avrebbe punito senza esitazione, insomma, e ciò era ancor più sorprendente se ci considerava che era un arcangelo e una Guardiana. Aveva qualcosa di vitale che le ricordava un po’ Sariel, la sua vecchia insegnante della prima classe, ma senza l’ombra di follia che aveva scorto in quella donna. Era gioia pura.
E lei... lei si sentiva così stanca, al suo confronto. Così morta.

* * *

«Leliel.»
«Vuoi offendermi, Esecutore?»
«...chiedo perdono, Autorità. Desidero parlare, non mancarti di rispetto.»
«Sono molto occupata. Se hai altre rimostranze riguardo l’istruzione dei Cherubini, va’ a porgerle direttamente al Consiglio, ma non sperare che sia clemente quanto me.»
«Non riguarda i Cherubini.»
«Gli Esecutori?»
«Nemmeno. Io-»
«Allora non è nulla che possa interessarmi e non vedo motivo perché tu rimanga qui. Sono in biblioteca per lavorare con tranquillità, non per chiacchierare. Ithuriel ha ottenuto un posto nel Consiglio e devo giudicare quale tra le aspiranti Autorità sia più degna di succedergli. È notevolmente impegnativo, sai... oh, no, perdonami. Tu non puoi saperlo, Esecutore.»
«So che mi sei superiore di grado, non c’è bisogno che lo sottolinei così.»
«Se lo sai, perché sei ancora qui, quando io ti ho evidentemente invitato ad andartene?»
«Perché voglio... scusarmi per... quello che è successo nel tempio. E farti sapere che mi dispiace, che... ti sono vicino... per Raphael.»
«Non ho bisogno della tua pietà. E ti ripeto: perché sei ancora qui, se ti ho invitato ad andartene?»
«Perché voglio parlarti. Non puoi rinchiuderti così, non di nuovo, non-»
«Nelchael, questo non ti riguarda. Devo ripetermi una terza volta?»
«E io ti ripeto: sono ancora qui perché voglio parlarti. Se tu mi hai solo invitato ad andarmene, senza ordinarmelo, significa che anche tu lo vuoi, in fondo.»
«Ti ordino di andartene, Esecutore.»

* * *

Amitiel si alzò, appoggiandosi ai vetri per non scivolare di nuovo a terra. Il cortile era ormai deserto, notò; il Richiamo doveva aver segnalato l’inizio del secondo periodo da molto.
Mosse qualche passo malfermo verso l’uscita, prima di barcollare e sentire le ginocchia piegarsi. Appena prima che cadesse, la porta si spalancò e due braccia esili l’afferrarono, sorreggendola. Gli occhi verdi di Ramiel – la compagna – la fissarono, pieni di preoccupazione; per istante ad Amitiel sembrò quasi di avervi scorto la sua essenza rossastra arricciarsi convulsamente, poi non ebbe più la forza di guardare con attenzione. Era esausta.
L’altra la fece distendere sul letto e le chiese cosa avesse: «Solo stanchezza? Niente dolore, confusione, percezioni alterate?»
«Solo stanchezza e un po’ di smarrimento.»
«Devo chiamare qualcuno? Ramiel dice che è normale se siamo stanche, ma a questi livelli...»
«Non preoccuparti.» la rassicurò «Ieri mi sono sforzata molto, con gli esercizi di Percezione. Dev’essere per quello.»
«Avvisiamo almeno Ramiel, forse è meglio che tu non venga, questa volta.»
Una stilettata d’ansia la colpì, squarciando lo stordimento, al pensiero di rimanere in Paradiso e non vedere Anane e... Michael, le sovvenne, in quell’improvvisa lucidità.
«Vengo.»
«Amitiel, non-»
«Tranquilla, sul serio.» si alzò a sedere sul letto «Sono solo stanca per gli esercizi, non c’è da preoccuparsi, non possiamo disturbare gli insegnanti per un po’ di stanchezza. Se puoi, per favore, fare quella cosa dell’altra volta... sono sicura che starò subito meglio, se mi aiuti.»
La compagna la guardò, dubbiosa, poi annuì. Era vero: se si sentivano stanchi, riguardava solo gli allievi. Gli insegnanti non potevano né dovevano essere più indulgenti per questo, era inutile avvisarli; anche se in quell’occasione non si trattava di una normale lezione, non erano state date disposizioni diverse dal solito, perciò non osò insistere. La sua omonima poteva essere un’insegnante più morbida degli altri, ma lamentarsi con lei per la stanchezza era comunque fuori discussione – senza contare che era già parsa abbastanza irritata, quando l’aveva mandata a cercare Amitiel.
«Va bene.» cedette infine.
L’altra la ringraziò con un sorriso stanco, poi lasciò che le posasse le mani sulle spalle e chiuse gli occhi. Dopo qualche istante, un fiotto di tepore si propagò dalle dita che la toccavano: s’insinuò sotto la sua pelle lungo tutto il corpo, tra muscoli ed ossa, lavando via la stanchezza con tocco delicato. Poteva sentire quelle scie di calore balsamico pervaderla, sin quasi a sfiorare qualcosa di più intimo e profondo della carne, per far fiorire in lei nuova energia e nuova lucidità. Ramiel era ancora troppo immatura ed inesperta perché le sue cure giungessero direttamente all’essenza, ma aveva talento e lo dimostrava. Sarebbe di certo divenuta una Guaritrice straordinaria.
«Ho finito.» decretò questa dopo un tempo piuttosto lungo, allontanando le mani dalle sue spalle.
Non sembrava stanca, ma Amitiel le chiese comunque, dopo averla ringraziata: «Ti sei affaticata? Non c’era bisogno che facessi così tanto, bastava darmi la forza per muovermi.»
«Non preoccuparti. E ora andiamo, il nostro gruppo ci aspetta alla Piazza per scendere, gli altri sono già andati. Abbiamo già tardato troppo.»
«Non volevo rallentare tutti.» si scusò, appoggiandosi al muro per indossare dei sandali intrecciati sui polpacci.
«La settima classe doveva partire da sola, la nostra starà ancora aspettando di poter accedere alla Via.» attraversò in fretta il porticato e si diede una spinta con le gambe ancor prima di toccare l’erba del prato, per alzarsi in volo «Ma preferirei che non accadesse più, Amitiel. Ramiel sembrava piuttosto infastidita dal tuo ritardo.»
«Mh.» la seguì in aria «Gli altri mi odieranno, per averla irritata proprio oggi.»
«Noi non odiamo, Amitiel.» ribatté seccamente «Non siamo Umani o Sconsacrati.»
«Era per dire.»
«Se dici le cose tanto per dire, faresti meglio a tacere.»
Atterrarono sull’enorme superficie candida della Piazza, davanti alle gradinate, e la attraversarono a passo svelto, verso una ventina di Cherubini irrequieti. L’unico adulto era una donna dall’aria contrariata, con le grandi ali d’arcangelo frementi per l’impazienza e i capelli biondi raccolti in una crocchia disordinata. La sua divisa da Guardiana, dalla foggia umana, era stropicciata come se nell’attesa l’avesse torturata con le mani-
Ramiel le si avvicinò e chinò il busto, dicendo: «Chiedo perdono per il ritardo.»
Amitiel, accanto a lei, fece lo stesso. Iniziava a sentire disagio per quella situazione e per ciò che sarebbe accaduto – le emozioni si stavano scrollando di dosso la nebbia lattiginosa che le aveva avvolte, affacciandosi alla sua mente con timidezza. Avrebbe potuto davvero vedere Anane, parlare con Michael? Ci sarebbe stata anche Eisheth e la sua risata falsa? Avrebbe saputo porre le domande giuste? Incertezza, dubbio, esitazione. Voleva qualcosa e al contempo lo temeva – non credeva si potesse essere così combattuti, e invece stava avendo la prova del contrario.
«Come giustifichi questa tua vergognosa mancanza di puntualità, cherubino?» le sibilò l’insegnante. Se persino Ramiel era irritata, doveva essere davvero tardi.
«Chiedo perdono.» ripeté invece «Non ho giustificazioni, se non la mia stanchezza.»
Lo sguardo della donna si ammorbidì appena.
«Sei fortunata, gli altri gruppi stanno ancora attendendo fuori dalla Via, ma che non accada più. La stanchezza non è una scusa.»
«Chiedo perdono.» disse per la terza volta, chinando di nuovo il busto. Anche se il suo orgoglio, sotto un velo di polveroso stordimento, si ribellò un poco, quello era l’unico modo per sperare di evitare una punizione – scusarsi, scusarsi e ancora scusarsi. Pochi adulti si lasciavano ammansire dal pentimento, ma Ramiel era una di questi.
«Andiamo.» ordinò l’insegnante ad alta voce, senza più prestarle attenzione.
I cherubini si librarono in aria dietro di lei con poca organizzazione, badando più a non scontrarsi tra loro che a mantenere una disposizione fissa. Non si poteva dire che volassero male – non si sarebbe potuto dire di nessuno che avesse passato la seconda classe, d’altronde –, ma farlo davvero bene era tutt’altro. Non avevano nulla degli ordinati schieramenti dei Guardiani e degli Esecutori, o del movimento fluido e rapido che caratterizzava i Custodi.
«Prendete una posizione e mantenetela.» ordinò infatti Ramiel, ancora irritata, oltrepassando il placido nastro candido del Confine «Volate come cherubini della prima classe.»
Amitiel si sforzò di ignorare le occhiate risentite dei compagni, e sperò che nessuno la urtasse e la facesse casualmente precipitare nel fiume. Non sapeva quanto fosse profondo, ma preferiva non rischiare di schiantarsi sul greto.
Ramiel – l’allieva – le si affiancò, interponendosi tra lei e un compagno dallo sguardo particolarmente corrucciato, Jael. La giovane aveva un’espressione impassibile, ma il suo atteggiamento tradiva un che di protettivo, e Amitiel si sentì quasi lusingata: nessuno, prima di allora, si era preoccupato così per lei. Gli insegnanti avevano sempre troppi allievi per prestare attenzione ad uno in particolare, Anane non era abbastanza matura per avere un atteggiamento materno. Era piacevole, scoprì.

* * *

«Michael.»
«Eisheth.»
«Madre, Michael. Madre
«Ho saputo che hai minacciato Dumah.»
«Non esagerare, ora. Abbiamo solo fatto una chiacchierata.»
«Conosco le tue chiacchierate, Eisheth.»
«Madre.»
«Smetti d’intrometterti in questa storia.»
«L’ho già fatto una volta, sì? E mi piace portare a termine le cose.»
«Ero un cherubino. Ora sono adulto da molto.»
«Il tuo ‘molto’ è relativo, caro. Per me non è che un battito di ciglia.»
«Non m’interessa. Smetti d’intrometterti, non ne hai più alcun diritto. Ci sono delle regole
«Non sei la persona più adatta a parlare di regole, Michael, sì?»
«Le sto rispettando. Fallo anche tu.»
«Le rispetterò, Michael, non temere – ho già messo abbastanza a rischio la mia posizione, per te.»
«Non ti ho chiesto io di farlo.»
«Ma l’ho fatto, e sei vivo grazie a questo.»
«Ci sono delle regole.»
«...come sei monotono. Ti ho appena risposto.»
«Smetterai d’intrometterti, quindi?»
«Rispetterò le tue amate regole.»

* * *

Gli allievi discesero le pendici boscose del monte e attraversarono rapidi la Città, faticando a mantenere il ritmo delle grandi ali da arcangelo dell’insegnante. Amitiel percepì con sollievo gli occhi dei compagni spostarsi da lei ai candidi edifici sotto di loro, guardando con invidia templi, palazzi, biblioteche, palestre e altre costruzioni di cui non conoscevano l’utilizzo. Quasi sfioravano i tetti più alti, poiché non volavano ad una quota molto elevata, per non essere ostacolati da correnti avverse. Talvolta incrociavano qualche adulto che si spostava in aria e non attraverso i larghi viali, e che rivolgeva loro un cenno di saluto e di rado anche un sorriso; tuttavia la Città pareva poco popolata, rispetto alle altre – rare – volte in cui vi erano discesi. Se di solito era calma ma brulicante, in quell’occasione era del tutto silenziosa, pressapoco deserta.
Avevano incontrato al massimo cinque adulti, quando giunsero al centro e la Via si aprì di fronte a loro, grande almeno tre volte la Piazza dello Specchio. Lo sguardo ancora immaturo dei Cherubini, seguendo le fiamme che ne delimitavano il perimetro, quasi non scorgeva il limite opposto, dove gli edifici della Città si innalzavano nuovamente; ma nemmeno la vista più acuta di un adulto riusciva a distinguere molto, in realtà.
Centinaia di fasce grigie del ciclo superiore erano già disposte ordinatamente ad un estremo della piazza. Dietro di loro si stavano schierando quattro gruppi della sesta classe, mentre tre della quinta attendevano il proprio turno in uno dei viali più grandi. Più indietro ancora vi erano molti allievi della quarta, più del doppio della volta precedente.
Atterrando nello spazio lasciato libero per loro dagli altri gruppi della quinta, Amitiel scorse l’espressione furente di Nelchael, diretta al vuoto – non vi era alcuna Autorità a cui rivolgerla, la gestione era interamente affidata agli insegnanti.
«Chi non c’era l’altra volta?» chiese Ramiel «Phanuel, Amitiel, Zephon... anche tu, Ramiel, sì? E... Jael? No, tu c’eri già... Ithuriel, anche tu eri già stato promosso? No? Cinque... mh, un po’ troppi...»
Rimase in silenzio per un po’, la fronte aggrottata. Quando anche la quinta classe iniziò a riversarsi nella Via, si riscosse per guidarli attraverso un varco nelle fiamme lungo il perimetro, poi fece loro segno di disporsi accanto al secondo gruppo e si allontanò per parlare con gli altri Guardiani.
«Tornerò prima che venga richiesto il Fuoco del Velo.» promise «Se c’è qualche problema, rivolgetevi all’insegnante del secondo gruppo. Preparatevi a prendere appunti, nel frattempo.»
Prima ancora che Amitiel si accorgesse di non aver portato la borsa, la compagna dai capelli rossi gliela porse bruscamente.
«Te l’ho presa io, la stavi dimenticando.»
«Grazie.» sorrise, prima di chinare il capo per annodare i lacci della sacca bianca in vita, appena più un basso della fascia, in modo da non coprirla.
«Invece di ringraziarmi, la prossima volta ricorda che ci forniscono la borsa per un motivo, piuttosto.»
«E due mani per portare anche quella di una compagna sbadata.» ridacchiò.
Inaspettatamente, Ramiel le concesse un mezzo sorriso.
Tornarono in silenzio, aspettando l’insegnante. Amitiel si era sempre ritenuta una persona paziente – allo Specchio, d’altronde, l’attività principale era attendere. Attendere di essere promosso alla classe successiva; attendere i periodi di riposo; attendere i dettagli di un incarico; attendere di poter accedere a informazioni non ancora concesse; attendere lo Sviluppo. Attendere, attendere, attendere – forgiava il carattere e l’obbedienza.
Ma, nonostante quest’abitudine all’ignoranza e all’attesa, iniziava a sentire l’inquietudine serpeggiare dentro di sé. Temeva di non riuscire più a tenerla a bada, con la mente libera dalla stanchezza o dalla concentrazione per il volo. Il solido – o, almeno, così avrebbe dovuto essere – muro di paziente indifferenza stava iniziando a crollare.
Gli insegnanti avevano annunciato una nuova visita alla dimensione umana tre cicli prima di quello, e ancora nessuno degli allievi aveva avuto altre informazioni: cosa sarebbe accaduto, con chi, in che modo. Non aveva trovato il tempo di parlarne con Anane, non sapeva nemmeno se ci fosse anche lei, tra le centinaia di fasce grigie del ciclo superiore; e, se non ci fosse stata, come avrebbe potuto incontrare Michael?
Aveva domande, tante, troppe, che le affollavano la mente sin da quando era tornata in Paradiso, e non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto reprimerle. Temeva di essere scoperta, ma doveva parlargli, o sarebbe impazzita – si riteneva una persona paziente, sì, ma fino ad un certo punto.

* * *

«Cassiel, cherubino, sesta classe, secondo gruppo. È corretto?»
«È corretto, Autorità.»
«Che insegnanti hai avuto sino ad ora, cherubino?»
«Tamiel alla prima classe, Meros alla seconda, Nelchael alla quarta, Tagas alla sesta. Terza e quinta recuperate durante le successive.»
«Un serafino e tre angeli.»
«Sì, Autorità.»
Il raschiare di una penna sulla carta.
«Consegna questo alle Custodi. Ti ho trasferita al quarto gruppo, sotto l’arcangelo Khamiel.»
«Sì, Autorità.»
«Perché quell’espressione? Ti eri affezionata al secondo?» risata «O credi di non aver bisogno degli insegnanti migliori? È un onore, cherubino. Mostra riconoscenza.»
«...chiedo perdono.»
«O forse credevi che ti avessi convocata per promuoverti di persona?»
«Non credevo nulla, Autorità.»
«Lo credevi.»
«Non desidero contraddirti, Autorità, ma non credevo nulla.»
«Non ti ritieni pronta per essere promossa, quindi?»
«...non è mio compito giudicare il mio grado di maturazione.»
«Ti chiedo di farlo.»
«Io... ritengo che potrei essere pronta per la settima classe.»
«Eppure non ti sto promuovendo. La tua essenza ne è contrariata, non credere che non lo veda. Superbia, cherubino?»
«No, io... non... non è superbia, ma consapevolezza. Ognuno serve il Paradiso secondo le proprie capacità, io credo... credevo di essere pronta ad avanzare di classe, ma... le mie capacità ancora non me lo permettono. Non oserei mai mettere in dubbio la decisione di un’Autorità.»
«Dimmi, cherubino, ti ritieni migliore dei tuoi compagni?»
«Ognuno ha diverse capacità.»
«Tu ne hai più di altri. Ti ritieni migliore, per questo?»
«No, Autorità. Non è mio compito confrontarmi con gli altri, solo servire il Paradiso al meglio. Non perdo tempo in simili paragoni.»
«Quindi, se la tua essenza fosse particolarmente adatta a servire il Paradiso come Custode allo Specchio, tu ne saresti soddisfatta?»
«...se questa fosse la mia maggior capacità, sì, lo sarei.»
«Non hai aspirazioni più ambiziose?»
«La mia unica aspirazione è servire il Paradiso al meglio delle mie possibilità.»
«Non desideri divenire un serafino? O un arcangelo?»
«M’impegno per svilupparmi al meglio, Autorità. Non nego che... preferirei divenire un arcangelo.»
«Arcangelo. Sei ambiziosa.»
«Desidero solo servire il Paradiso, Autorità. Necessitiamo di arcangeli e perciò vorrei diventarlo; solo per questo, non per brama di gloria o di potere.»
«Puoi andare, cherubino. Il tuo gruppo ti attende alla Via. Consegna alle Custodi il mio messaggio.»
«Sì, Autorità.»
Il suono di una porta aperta e richiusa. La voce distaccata di un arcangelo, attutita, che ordinava al cherubino di seguirlo fino alla Via.
«Non per brama di gloria o di potere, sì?» risata «Piccola bugiarda.»

* * *

«Eccomi.» annunciò Ramiel, sorridente. Sembrava molto più sollevata di quando si era allontanata per discutere con gli altri Guardiani «Chi non ha partecipato con noi all’altra visita... voi cinque, sì, non preoccupatevi. Non avete quasi nulla da recuperare, ripeteremo tutto ciò che abbiamo fatto nell’altra, sarà molto basilare.»
Una domanda aleggiava sugli allievi promossi di recente, senza che nessuno osasse esprimerla. L’arcangelo dovette percepirla, perché aggiunse, rivolgendosi a loro con un sorriso: «Ma voi non sapete ancora niente, giusto? Spostatevi in prima fila, preferisco avervi vicini. Zephon, parlo anche con te, non essere così timido... qui al centro, bene. Avete tutti un quaderno per gli appunti? Niente penne, solo matite, l’ultima volta c’è stato qualche problema con le boccette d'inchiostro... Phanuel, tu hai solo una penna? Non importa, qualcuno avrà di certo una matita di riserva... sì, Ramiel, prestagliela pure. Cielo, Zephon, non indietreggiare così, non sto minacciando nessuno.»
Amitiel decise di cancellare paziente dalla lista delle proprie qualità, mentre prendeva con stizza malcelata matita e taccuino dalla borsa fissata al fianco sinistro.
«Bene, cherubini, dicevo? Dunque... sì, che voi ancora non sapete nulla dell’incarico. Chi di voi ha partecipato all’ultima visita, anche se era alla quarta classe? Tutti tranne Ramiel? Be’, siamo in una situazione migliore di quanto temessi, allora. Chi c’era già, silenzio!» ordinò, zittendo il brusio che aveva iniziato a crearsi «E ascoltate anche voi, è cambiato un po’ dall’altra volta.»
Cominciò a spiegare, nel suo modo confusionario che Amitiel trovava a volte davvero snervante. Riuscì a capire, con qualche difficoltà, che non sarebbero stati divisi in gruppi più piccoli, ma avrebbero fatto tutti lezione con Ramiel, nella prima parte della visita; la seconda parte sarebbe stata spiegata quando fosse giunto il momento, e il cherubino si dovette sforzare per non emettere un gemito frustrato. Non avevano già aspettato abbastanza?
Prima che riuscisse a capire in cosa consistesse almeno la prima parte della lezione, un sibilo acuto interruppe il discorso disorganizzato della donna: i Guardiani chiedevano di apporre il Velo, prima di attivare il Fuoco della Via. Ramiel, senza smettere di sorridere, avanzò lungo le fila dei propri allievi, rapida come pochi altri insegnanti.
Amitiel assaporò la sensazione del Velo che calava su di lei, con un calore più intenso di quanto ricordasse. Prima che le mani esili dell’arcangelo si allontanassero dalle sue spalle, la udì dire: «Sembri stanca. È per questo che sei arrivata così in ritardo?»
Annuì, chiedendo di nuovo perdono, confusa. Da quando un insegnante si preoccupava della stanchezza di un allievo? Doveva aver ricevuto notizie davvero buone, parlando con gli altri Guardiani, per essere così gentile. Si chiese cosa avesse saputo.
«Sarà una visita piuttosto lunga, temo. Potrai riposare solo tra qualche tempo.» Ramiel passò all’allievo accanto a lei, ma continuò a parlarle «Non torneremo prima di quattro periodi.»
Nell’ultima visita ne avevano impiegato mezzo. Aggrottò la fronte, cercando di ricordare quanti tramonti avesse visto nella dimensione umana: uno con Michael, quattro con Anane. Cinque. Fece qualche calcolo a bassa voce e poi chiese: «Quaranta tramonti?»
Ramiel, passata alla fila dietro, si voltò a guardarla, stupita.
«No, al massimo una trentina.»
Lei contò di nuovo. «...non capisco.»
«Oh, Amitiel, speravo proprio che qualcuno se ne interessasse.» batté le mani come un cherubino entusiasta «Fissazioni da Guardiani. Quando ti occupi sempre della Via e della dimensione umana, diventi un esperto. Aspetta solo un attimo, finisco e ti spiego.»
Terminò di apporre il Velo sui propri allievi quando gran parte degli insegnanti era ancora a metà. Tornò con passo quasi saltellante di fronte ad Amitiel, notando con delusione che nessun altro pareva interessato a quell’argomento, e le spiegò: «Non c’è un rapporto fisso tra il tempo in Paradiso e nel Mediano – nella dimensione umana, intendo. Definizione da Guardiani, non usarla, ‘dimensione umana’ è quella ufficiale. Dicevo? Sì, che il rapporto varia in base alla quantità di essenze.»
«Continuo a non capire, scusami.»
«È un concetto complesso, per questo si preferisce non esporlo ai Cherubini, se non lo richiedono loro stessi. Dunque... è come se il tempo in Paradiso e nel Media... nella dimensione umana scorresse in due flussi separati, la cui velocità è regolata dalle essenze angeliche. Se la quantità fosse uguale per entrambi i flussi, il loro ritmo sarebbe lo stesso; più vi è disparità di essenze, più il flusso che ne ospita la maggior parte scorre più lentamente dell’altro.»
«Come se fosse appesantito?»
«Si può semplificare così, sì. La velocità, comunque, di solito varia di pochissimo: perché il rapporto tra i due flussi cambi sensibilmente, serve che si trasferiscano molte essenze, ma accade di rado.»
Il flusso del Paradiso era più rapido rispetto alla sua ultima visita, quindi dovevano essere discesi nella dimensione umana molti Angeli, rifletté. Fu quasi sul punto di chiedere conferma di quel ragionamento, si trattenne appena in tempo: era quasi certa che Ramiel non avrebbe dovuto darle tutte quelle informazioni, ma che si fosse lasciata trascinare dall’entusiasmo. Forse avrebbe potuto chiederlo a Michael, se fosse riuscita ad incontrarlo – fitta d’ansia e d’impazienza.
«Ma i Veglianti? Sono molti di più delle essenze in Paradiso. E gli Sconsacrati?» domandò invece.
«Sei sveglia.» si complimentò l’insegnante, con gli occhi che brillavano «Di solito solo i Guardiani riflettono sui flussi del tempo. Hai mai pensato di diventarlo?»
«Dicono che non ho l’essenza adatta per svilupparmi in un arcangelo.» le rispose neutra, occhieggiando brevemente agli altri adulti. Avevano quasi finito di apporre il Velo agli allievi, presto i Guardiani avrebbero attivato il Fuoco della Via e Ramiel non avrebbe più potuto dedicarsi solo a lei. Conoscere i meccanismi dei flussi avrebbe potuto esserle utile, ma la donna continuava a divagare. Cercò di assecondarla: «Ma penso che mi piacerebbe, se invece lo diventassi, e se fossi degna di unirmi ai Guardiani. Mi sta interessando molto, questo discorso sul tempo, ma... non capisco, come si fa con i Veglianti e gli Sconsacrati?»
«Buona domanda, cara.» annuì con un sorriso, senza irritarsi perché aveva ripetuto due volte lo stesso interrogativo – doveva essere molto raro trovare aspiranti Guardiani interessati all’aspetto teorico, che invece sembrava appassionare la donna «Le essenze dei Veglianti sul Mediano sono compensate dall'essenza del Paradiso stesso: la presenza di Dio riesce a bilanciare la loro enormità. Gli Sconsacrati non hanno niente a che fare con questo. I Caduti non hanno alcuna dimensione propria, le loro essenze non intervengono sul rapporto tra i flussi; la quantità di Demoni, invece, influenza la rapidità del flusso degli Inferi.»
«Quindi non è il flusso della dimensione umana a cambiare velocità, ma solo Paradiso e Inferi?»
«Sì. Il Mediano è l’unico punto fisso, tra il ritmo dei flussi.» rimase un attimo in silenzio, poi batté un palmo sulla coscia, sgualcendo ancor di più la sua divisa da Guardiana, con un’aria quasi infastidita «La dimensione umana, cioè.»
«Perché Mediano non va bene?» chiese, senza riuscire a trattenersi.
Ramiel la fissò.
Ecco. Ora mi punisce. Stupida, stupida, stupida, non potevo starmene zitta? Non devo chiedere certe cose! Ora mi punisce, ora-’
«Perché Mediano lo usano gli Sconsacrati.» le rispose, stupendola «Mentre noi, Amitiel, non riconosciamo una gerarchia tra le dimensioni. Paradiso e dimensione umana sono sullo stesso piano, creati entrambi da Dio per Suo volere; gli Inferi non dovrebbero nemmeno esistere, creati per la superbia di un semplice angelo. Gli Sconsacrati pongono prima gli Inferi, poi la dimensione umana e infine il Paradiso. I nostri Guardiani dicono Mediano solo perché è più breve, ma tu non usarlo.»
Aveva senso. Ringraziò l’insegnante, sentendo di essere stata favorita due volte – nel non essere stata punita per quella domanda inopportuna, e nell’aver ricevuto una risposta.
Un secondo sibilo acuto annunciò il Fuoco della Via. Fissò le fiamme aumentare d’altezza, inquietata e suo malgrado affascinata da quello spettacolo spaventoso. Stava per discendere nella dimensione umana, stava – forse – per vedere Anane, parlare con Michael, porre domande senza il timore di aver chiesto troppo. L’impazienza tornò a farsi strada in lei. Forse, se avesse saputo cosa la aspettava in quella visita e nelle altre a venire, avrebbe desiderato invece non discendere mai nel Mediano.
Era stata istruita sul flusso del tempo, ma sarebbe stato quello degli eventi a travolgerla – e dei dubbi, dei ricordi, delle emozioni, dei tradimenti. Delle scelte.





***
Angolo autrice
Eccoci qui anche oggi. Buona Pasqua a tutti e, come sempre, grazie per letture, preferiti, seguite, ricordate e in special modo per i commenti (:
Spero che non sia un capitolo deludente dopo il nono, che, a quanto pare, ha riscosso molto successo *^* Di transito, ma serviva... anche i dialoghi che fanno da intermezzo alla scena principale hanno la loro utilità... dicono molto, nonostante lo stile "copione" - necessario all'idea di immediatezza che volevo dare e a non rendere abnorme questo capitolo, già più lungo del solito. E' stato davvero liscissimo da scrivere, ho dovuto fermarmi prima di raggiungere le diecimila pagine xD
A voi il giudizio (: critiche costruttive e consigli sono sempre ben accetti, ovviamente!
Piccola nota: so che andrebbero le virgolette doppie (") per i pensieri e le citazioni, ma word le cambia in automatico con quelle basse e quindi per comodità uso le virgolette semplici.
A domenica prossima!

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Capitolo 12
*** 11. Colori ***


Capitolo 11 – Colori




Cinque erano stati i cicli del sole, la prima volta che Amitiel era discesa sul Mediano, prima che dovesse tornare al cielo vuoto del Paradiso.
Cinque cicli che non erano stati sufficienti a saziare la fame che provava verso quella luce calda; tanto più che l’aveva vista appena passato l’inverno, pallido riflesso dell’intensità estiva con cui l’accolse quel giorno.
Ramiel concesse loro mezzo ciclo del sole per abituarsi alla dimensione umana, poi si allontanò con l’allieva sua omonima, che non vi era mai discesa, per guidarla meglio in quel mondo così mutevole. Gli altri si sparsero per tutta la zona circostante, entro il perimetro delimitato dai pochi Custodi posti a vegliare su di loro. Cercavano angoli boschivi in cui riprendere confidenza con le ombre, scacciando l’inquietudine del buio e dei continui rumori con la compagnia di qualche altro allievo; oppure rifugi isolati in cui estendere in solitudine le proprie Percezioni, annullando i sensi e collegandosi alla vita che pulsava in quei luoghi – Custodi, Cherubini, e i più dotati sfioravano talvolta gli Umani dei villaggi meno distanti, o l’essenza più discreta degli animali.
Avevano fretta, perché una volta richiamati alla lezione non avrebbero più avuto il tempo di abituarsi con gradualità ai continui cambiamenti di quella dimensione, ma mezzo ciclo del sole era troppo poco per riuscirvi. Un battito di ciglia, un inutile respiro, l’attimo di nulla tra un pensiero e l’altro; poi si alzava lo sguardo al cielo e si scopriva che era già giunto il tramonto.
Il tempo scorreva rapido e stancante, in quel mondo dove assumeva tutt’altro significato, perché i suoi abitanti avevano un termine ultimo sempre troppo vicino e spaventoso. Sfuggiva dalle mani, invano aggrappate al presente, come quando ancora alla prima classe si era avventurata sulle rive proibite del Confine e aveva tentato di trattenere la sabbia bianca tra le dita. Sfiorava gli occhi con i raggi accecanti del sole, ma prima che lo sguardo vi si fosse abituato, già sorgeva la luna con il suo lucore pallido – gli astri danzavano in cielo, giocando a rincorrersi e nascondersi e riapparire, con un ritmo così rapido da togliere ai Cherubini inesperti il loro inutile respiro.
Poi gli occhi scorgevano un fiore sul punto di sbocciare, l’orecchio percepiva i mille richiami di animali sconosciuti, le dita scoprivano la carezza gelida di un torrente, e il tempo sembrava arrestare la sua folle corsa: erano attimi acronici, infiniti, sospesi nella meraviglia. Gli anni potevano sembrare istanti e gli istanti potevano sembrare anni.
Ha percezioni strane e incoerenti, chi è nato con la promessa dell’eternità.
Quando Amitiel giunse in una pianura ai limiti del territorio concesso per l’esplorazione dei Cherubini, quindi, rimase a contemplarla senza accorgersi che il mezzo ciclo si stava rapidamente consumando; ma, anche se ne avesse avuto consapevolezza, quel luogo inondato di sole esercitava su di lei tanto fascino che forse non si sarebbe mossa comunque. Nemmeno le ombre che vi gettavano i radi alberi riuscivano ad inquietarla, e lasciava vagare lo sguardo senza timore, solo con meraviglia: sulle colline che all’orizzonte increspavano il terreno, sui piccoli villaggi che punteggiavano la pianura oltre il limite che le era permesso raggiungere, sull’erba rada bagnata dal sole, sul bosco dalle chiome macchiate di giallo e di nero – il luogo in cui il suo gruppo era arrivato nella dimensione umana, un ambiente brulicante di vita, in cui però la luce filtrava a fatica. Nonostante la pianura fosse in più punti annerita o giallastra, nonostante fosse quasi vuota, nonostante sapesse di morte, era inondata di sole e questo bastava a fargliela preferire al bosco.
Era affamata di quella luce calda, intensa, gioiosa, e non sembrava capire che ciò che tanto ammirava poteva essere pericoloso. Mortale, anche – o forse lo capiva ed era proprio questo ad affascinarla, facendo fremere la sua natura più oscura. Violento, così avrebbe potuto definire il bagliore che sembrava quasi far tremolare l’aria in lontananza, ed era un aggettivo adatto e bello.
Atterrò dolcemente al limite dello spazio aperto, appena più avanti degli ultimi alberi.
Si tolse i sandali – inutile impaccio, per lei che come tutti gli allievi era abituata ad andare a piedi nudi – e si affidò alle percezioni, invece che alle Percezioni che avrebbe dovuto sviluppare. Un semplice accento più marcato, che nella sua lingua segnalava una maiuscola, divideva in realtà due universi completamente differenti; lei preferiva di gran lunga il primo al secondo, i sensi alla mente. Non era forse meglio guardare, toccare, respirare, piuttosto che immaginare? L’essenza poteva essere acuta, estendersi lontano, cogliere ogni dettaglio a distanza, ma vivere era diverso.
Soddisfatta della profondità delle proprie riflessioni, prese in mano i sandali e mosse qualche passo, sorridendo. Avrebbe presto saputo come si sarebbe svolta la lezione, e se avrebbe avuto la possibilità di contattare Anane e Michael; intanto, poteva divertirsi. Persino l’attesa assumeva toni più distesi, nella dimensione umana, perché il tempo scorreva troppo rapido per lasciar germogliare l’impazienza. Se prima di discendervi aveva provato inquietudine, la luce intensa del sole estivo la sostituiva con la meraviglia.
Il terreno era caldo sotto i suoi piedi nudi, e lo trovò piacevole, pur non potendo avvertirne davvero la temperatura. Aveva una consistenza mai sentita prima: arido, frammentato, percorso da fratture che lo dividevano in zolle polverose. L’erba rada, giallastra, non assomigliava per nulla a quella rigogliosa e immortale del Paradiso: sembrava accasciarsi sul suolo riarso, esausta, implorando energia – implorando acqua, avrebbe potuto pensare Amitiel, se avesse saputo che quel liquido per lei solo decorativo era in realtà fonte di vita. Il cielo azzurro, limpido, scherniva quella richiesta riversando luce bollente invece di pioggia.
Si chiese perché non vi fosse nessuno ad ammirare quello spettacolo, a vagare in quella grande pianura. Le abitudini degli Umani erano argomento della sesta classe, ma sapeva, grazie ad Anane, che spesso conducevano animali nei prati. Non capiva perché, invece, quello fosse deserto – poteva darsi che i Custodi stessero provvedendo ad allontanare gli Umani dai Cherubini, sì, ma il Velo serviva proprio per non essere percepiti da loro. Allora perché non c’era nessuno in quella pianura?
Il concetto di carestia le era del tutto estraneo. Non c’erano più animali da condurre al pascolo – sempre che quei radi fili giallastri si potessero definire pascolo – e, al massimo, avrebbe potuto esservi qualche bambino a strappare l’erba agonizzante per placare la fame; ma il cammino dai villaggi era troppo lungo ed esposto al sole impietoso, perché qualcuno si avventurasse fin lì.
Amitiel non capiva e, per questo, non poteva avere compassione o orrore per quella desolazione. Si limitava a trovarlo strano e in qualche modo anche bello, mentre camminava a piedi nudi sul terreno arido, bagnata dal sole violento di piena estate.
Le sembrò di scorgere una sagoma minuta, al limite più lontano della pianura, dove l’aria tremolava per il calore e il suo sguardo ancora immaturo riusciva a malapena ad arrivare. Non riusciva a capire se la gracilità della figura fosse dovuta alla distanza, o se fosse effettivamente così piccola, né coglieva altri dettagli sul suo aspetto. Tentò anche di estendere le proprie Percezioni, per comprendere se si trattasse di un umano o di un’altra strana creatura di quella dimensione, ma non riuscì a sentire nulla: era ancora lontana dalla semplicità e della naturalezza con cui gli adulti avvertivano anche le presenze così distanti.
Attese, senza osare avvicinarsi, ma la figura minuta rimase lontana: nella pianura deserta e silenziosa, rimaneva un’ombra quasi indistinguibile, che saltellava all’orizzonte lungo un tracciato circolare. Era un po’ inquietante.
Dopo qualche tempo quella sagoma esile si perse all’orizzonte e Amitiel percepì il Richiamo di Ramiel per la lezione: il mezzo ciclo era passato. Si alzò in volo, così rapida da distinguere solo una macchia verde, al posto degli alberi che scorrevano sotto di lei: l’inspiegabile ansia data da quella figura la spinse ad allontanarsi in fretta, rendendo all’improvviso angoscianti il silenzio e la solitudine della pianura. Si accorse di avere una boccata d’aria bloccata in gola da tempo ed espirò piano, appena prima di lasciarsi ricadere tra gli alberi, dove il Richiamo l’aveva condotta.
Ramiel – l’insegnante – si complimentò per la puntualità, almeno per quella volta, e rise da sola della propria ironia. Ramiel – la compagna – le si avvicinò con un’espressione incerta, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive agli angoli dove le ombre erano più dense. Amitiel, nella pianura inondata di sole, non aveva notato le tenebre, e anche in quel momento si sentiva sicura, finché la luce filtrava tra gli alberi; sorrise comunque all’altro cherubino, cercando di mostrarsi comprensiva.
In breve tempo, tutti i diciotto allievi del terzo gruppo si trovarono radunati in semicerchio attorno all’insegnante. Lei li contò mentalmente, controllando che non mancasse nessuno, prima di dire: «Spero che abbiate sfruttato bene questo mezzo ciclo del sole. Tra non molto calerà la notte e gradirei che nessuno si facesse prendere dal panico. Avremo...» corrugò la fronte, pensierosa «una decina di tramonti, per la prima parte della lezione. Osserveremo un villaggio umano poco lontano da qui, in modo più ravvicinato rispetto all’altra volta, quindi dovrete aggiungere diverse informazioni ai vostri appunti. Il Velo è più intenso, questa volta: se vi manterrete ad una distanza sufficiente, impedirà agli Umani di avvertire la vostra presenza in qualsiasi modo, non solo attraverso la vista – non accadranno spiacevoli inconvenienti come nell’ultima lezione, quindi. È raro che a Cherubini così immaturi venga concesso di osservarli così da vicino, per cui esigo» sottolineò il termine con un fremito delle ali, ricordando loro di essere un arcangelo, al di là della cordialità con cui li trattava «la massima attenzione da parte vostra. Niente mormorii, risatine o simili. Se qualcuno ha altre intenzioni, sono certa che troverà molto istruttivo tornare allo Specchio e godersi l’Espiazione in attesa degli altri.»
Doveva essere una lezione importante e forse anche rischiosa, per rendere Ramiel così seria. Nonostante l’istintivo timore per la minaccia, tuttavia, Amitiel non poté impedirsi di provare una scarica di eccitazione: gli Umani erano un argomento proibito ai più immaturi, su cui non aveva mai potuto porre troppe domande. Le era stato insegnato a provare compassione per la loro fragilità, e che il compito degli Angeli era di proteggerli e guidarli, per salvaguardare le loro anime dall’ingordigia degli Sconsacrati. Poco altro le era stato concesso di sapere, poiché forse si temeva che, parlandone troppo, i fragili Cherubini si sarebbero lasciati corrompere dalla debolezza degli Umani. Amitiel, un po’ per propria inclinazione, un po’ perché era un argomento proibito, era stata sempre curiosa nei loro riguardi.
Attraversarono in volo campi di erba rada e giallastra, popolati da creature mai viste prima: bestie a quattro zampe, ossute e sporche, che emettevano versi raccapriccianti. Gli Umani, spiegò Ramiel, come tutti gli esseri mortali avevano bisogno di nutrirsi, perciò allevavano animali per cibarsi della loro carne e del loro latte – peccato che nessuno di loro sapesse cosa fosse, questo latte.
Non solo la loro anima, ma anche il loro corpo era più fragile: si danneggiava facilmente e di rado riusciva a rigenerarsi, necessitava di cibo e acqua, doveva riposare anche da adulto, aveva sensi meno sviluppati. Li avvisò anche che emanavano un odore proprio, non dovuto agli oli di cui si cospargevano.
Capirono meglio cosa intendesse quando si trovarono sospesi su un villaggio – niente di più che una manciata di capanne cadenti ammassate attorno a un pozzo –, respirandone il lezzo nauseante. Non assomigliava a nulla che avessero mai percepito prima: nemmeno chi aveva già osservato gli Umani, nella precedente discesa, si era spinto tanto vicino da poter sentire l’odore e il suono del loro villaggio.
«La particolarità maggiore di tutti gli esseri terreni, però, è che il loro corpo cambia in modo molto rapido.» continuò Ramiel, quando ebbe di nuovo l’attenzione degli allievi. Vedendo che uno si stava sfiorando i capelli, dubbioso, aggiunse: «Non sto parlando solo di questo, Zephon. Anche se, in effetti, i loro capelli crescono molto più velocemente.»
Indicò loro alcune figure minuscole che si rincorrevano ridendo tra le stradine sterrate, e poi un’altra rugosa, curva, che avanzava lentamente trasportando un secchio d’acqua. Non assomigliavano a nessuna persona che Amitiel avesse mai visto.
«Nascono dal ventre delle loro donne – non chiedetemi come, l’anatomia la lascio volentieri al ciclo superiore. Da giovani sono di dimensioni ridotte, e di ridotto intelletto: i Cherubini più immaturi, al loro confronto, sono quasi adulti. Maturando, crescono fino a raggiungere, nel fiore della loro vita, un aspetto simile al nostro. Poi decadono sempre più velocemente, diventano più deboli, la loro pelle rugosa, i loro sensi meno acuti.»
Le matite scorrevano rapide sui taccuini, interrompendosi solo quando gli allievi lanciavano sguardi curiosi e a volte un po’ disgustati verso il basso. Ramiel ripeteva spesso i concetti, costringendoli a riscriverli ogni volta, e spiegava lentamente: lasciava il tempo di osservare ciò che stava illustrando, concedeva pause, si assicurava sempre che tutti avessero capito.
S’interrompeva di frequente per parlare con i Guardiani e i Custodi che, ad intervalli regolari, si avvicinavano per controllare che fosse tutto tranquillo. Amitiel notò che il Custode cambiava quasi sempre, e tra i tanti riconobbe solo Ridwan, l’insegnante di Anane; il Guardiano invece era sempre lo stesso, l’arcangelo che l’aveva accompagnata quando era stata convocata dall’Autorità.
Non era una lezione dal ritmo particolarmente intenso, ma complessa per i contenuti: parole come fame o famiglia erano estranee ai Cherubini, concetti difficili da comprendere e da assimilare. Il sole era scivolato quattro volte dietro l’orizzonte, quando Ramiel terminò di spiegare le funzioni vitali degli Umani, per passare alla loro organizzazione.
Amitiel, anche se provata per aver trascorso tutto il tempo in volo sul villaggio, era ammaliata. La voce dell’arcangelo apriva porte di mondi misteriosi, le sue dita pallide e affusolate indicavano scene di una dolcezza sconosciuta.
Una madre che stringeva al seno un bambino – «Le donne sono disposte a morire per i propri figli.», ripeteva spesso Ramiel. Amitiel si sentiva scaldare il petto per quell’amore, e stringere lo stomaco perché nessuno sarebbe mai morto per lei, invece.
Ragazzini che giocavano con pietre e legni, concentrati – «Sanno anche essere crudeli.» ammoniva Ramiel ogni volta. Amitiel si chiedeva come potessero esserlo quei visi sorridenti e ingenui, e se non fosse peggiore l’indifferenza che i Cherubini mostravano gli uni per gli altri.
Vecchi che raccoglievano attorno a sé i più giovani per narrare antiche leggende – «Hanno una vita breve, ma le loro credenze si perpetrano per generazioni, attraverso i racconti degli anziani.» diceva Ramiel quando accadeva. Amitiel provava invidia per i miti che popolavano l’infanzia degli Umani, e delusione per la storia vera e triste e crudele che veniva insegnata ai Cherubini.
Doveva essere strano, vivere al modo degli Umani. Avere dei genitori, dei fratelli di sangue, dei figli, un nucleo da non abbandonare mai – senza essere cresciuti da estranei che quasi non ricordavano il tuo nome, senza essere spostati da un gruppo all’altro sradicando i propri legami ad ogni cambio di classe, senza dover chiamare fratelli persone che s’interessavano a te solo in quanto futuro adulto di possibile utilità. Avere la certezza che prima o poi sarebbe finito tutto, le gioie e le sofferenze, i legami, le fatiche. Avere su di sé aspettative umane, non il peso soffocante di un compito divino. Avere la libertà di amare e odiare e chiedere e decidere.
Doveva essere molto strano, sì.
...doveva essere bello.
Prima che si rendesse conto di averlo pensato, uno strillo acuto attirò l’attenzione di tutti gli allievi, distogliendola da quelle riflessioni. Risuonò un’altra volta e un’altra ancora, e ancora e ancora, sempre più flebile ma sempre più bestiale, disperato. Raccapricciante.
Avevano da poco visto la settima alba di lezione e ancora l’inquietudine per le ombre notturne non li aveva abbandonati del tutto, così come il sonno tardava a lasciare gli Umani: doveva essere per questo che tutti continuavano indifferenti le proprie attività, senza dar segno di essersi accorti di nulla, mentre i Cherubini sorvolavano la manciata di capanne con frenesia, cercando di capire da dove provenisse quello strillo agghiacciante. L’insegnante rimase impassibile, senza rimproverarli o rassicurarli, e con un gesto pacato della mano fece segno di attendere al Custode e al Guardiano che si stavano avvicinando.
«Qui.» chiamò Ramiel, l’allieva, con voce rotta. Subito i compagni la raggiunsero ai limiti del villaggio, appena prima delle ultime abitazioni, sopra un vicolo angusto che quasi non avevano notato. Dei bambini erano in cerchio, chini su qualcosa – forse ciò che emetteva quegli strilli, ormai ridotti ad un lamento sommesso, quasi coperto da soddisfatte risa infantili.
«Sedete pure in tre o quattro su ogni tetto: gli Umani non si accorgeranno di nulla, il Velo vi rende silenziosi e inconcepibili. Crederanno sia qualche animale, se sentiranno qualcosa. Su, che aspettate?» li esortò l’insegnante, imperscrutabile «Sedete e godetevi lo spettacolo.»
Obbedirono, incerti, posandosi cautamente sui tetti dalla consistenza cedevole. Non capivano cosa stesse accadendo: i bambini scagliavano sassi e calci verso terra, così compatti che dall’alto non si distingueva ciò che stavano colpendo. Ridevano ed esultavano in una lingua sconosciuta, roca e gutturale, che però l’arcangelo comprendeva.
«Non tradurrò ciò che stanno dicendo. Posso dirvi che sono insulti, ingiurie, ma non ho intenzione di sporcarmene le labbra.» disse, gelida.
Il lamento, intanto, diveniva sempre più flebile.
L’inquietudine germogliava nei Cherubini, un vago senso d’orrore, l’impressione che ciò che stava accadendo fosse sbagliato – eppure quei bambini sembravano così allegri, così puri! Come potevano fare qualcosa di male?
«Bambini, venite ad aiutarmi.» tradusse Ramiel, quando una donna, gridando, si affacciò all’ingresso del vicolo. Giunta la risposta di due dei ragazzini, tradusse ancora: «Ancora un po’, madre. Sì, madre, ancora un po’, abbiamo catturato un gatto.» ascoltò la donna «Venite, ho detto, e state lontani da quella bestia. E anche voi... – ha usato dei nomi, qui – vostro fratello vi cerca.»
Un singhiozzo strozzato sfuggì a diverse allieve, quando i cinque bambini corsero nella strada principale, rivelando qualcosa rannicchiato a terra. Un ammasso di pelo nero e carne esposta; ferite profonde, graffi, lacerazioni. E tanto, tanto, tantissimo rosso. Qualcuno chiuse gli occhi o stornò lo sguardo, disgustato; altri fissarono Ramiel, senza capire perché stesse loro mostrando quel... quella cosa. L’omonima allieva si strinse il capo tra le mani, artigliando le ciocche rosse con angoscia, e si accasciò contro la spalla di Amitiel, accanto a lei.
«Gatto.» mormorò quella, stordita. Gatto. Doveva chiamarsi così, quella cosa. Un animale. Gatto. Gatto gatto gatto. Era un bell’animale – in precedenza, per lo meno, lo era stato. Gatto.
Un massacro.
Quei bambini ridevano, esultavano e uccidevano.
Gatto.
Un maledetto massacro.
Gatto gatto gatto.
Rosso. Sangue. Ovunque. Rosso. Uguale alle ali dei Cherubini alla prima classe, e non sarebbe più riuscita, mai mai mai più riuscita, a guardarne uno senza aver voglia di piangere e urlare.
Gatto.
Amitiel, senza pensare, si gettò dal tetto verso quel corpo in agonia. Vi atterrò di fronte con un tonfo attutito e, inginocchiata sul terriccio impastato di sangue, allungò una mano tremante per sfiorarlo. Quello emise un flebile lamento ancor prima che lo toccasse, terrorizzato, volgendosi a fatica verso di lei – forse il Velo funzionava solo sugli Umani. Aveva perso un occhio, notò il cherubino, fermando la mano a mezz’aria con un sussulto. Tutto il muso era percorso da ferite dai bordi slabbrati, là dove le pietre avevano colpito con più forza. Non osò guardare da vicino il resto del corpo: bastavano il dolore e il panico folle dell’animale a farle capire quanto quei bambini, ridendo ed esultando, si fossero accaniti su di lui. Sanno anche essere crudeli. Ramiel aveva ragione.
Ma il gatto, il gatto cosa aveva fatto? Perché quel massacro?
Gatto. Gatto gatto gatto.
Gatto.
Cosa c’entrava il gatto?
Si accorse che le lacrime le avevano inondato il viso solo quando alzò gli occhi da quell’ammasso di carne e sangue. All’entrata del vicolo stava immobile una figura esile, resa sfocata dal pianto, ma comunque riconoscibile come un bambino piuttosto piccolo. Non era uno dei cinque che avevano massacrato il gatto – gatto gatto gatto, cosa c’entrava il gatto? –, o si sarebbe probabilmente scagliata contro di lui, senza curarsi della reazione dell’insegnante.
Il bambino non si mosse, fissando l’animale da sotto la frangia scura, con espressione stupita e disgustata. Non sembrava vedere Amitiel, o accorgersi dell’ombra che proiettava, o delle macchie di sangue – sangue, sangue, sangue ovunque, sangue del gatto, ma cosa c’entrava il gatto? – sui suoi vestiti. Probabilmente non vedeva nemmeno quelle.
Le sembrò quasi che il bambino avesse alzato lo sguardo su di lei, fissandola per qualche istante, per poi lasciarlo vagare lungo i tetti dov’erano radunati gli altri Cherubini. Ma probabilmente lo stava solo distogliendo dal corpo del gatto, perché un secondo dopo diede le spalle al vicolo e corse via. Doveva essere rimasto disgustato anche lui per quel massacro. Ma gli altri bambini, perché l’avevano fatto? Perché ridevano esultavano uccidevano?
«Perché?» sfiatò, dando voce all’interrogativo che silenziosamente si stavano ponendo tutti.
Alzò lo sguardo verso l’insegnante. Ramiel, affiancata dal solito Guardiano e da un Custode che non conosceva, era in piedi su un tetto, impassibile e silenziosa. Distante. Come se il massacro non l’avesse toccata.
Ma c’era rosso, così tanto rosso – rosso come il terriccio impastato di sangue, rosso come le ali dei Cherubini, rosso come i capelli di Ramiel che era atterrata accanto a lei e adesso la stava allontanando da quel corpo in agonia.
«Perché?» ripeté più forte.
«I bambini sanno essere crudeli.» le rispose l’insegnante, impassibile «Gli Umani sanno essere crudeli. Tentati dagli Sconsacrati, si allontanano da Dio, dalla sua luce, dalla sua bontà, e fanno questo. O di peggio, anche; e su altri Umani, non su animali.»
«Non c’erano Demoni, qui. Non c’erano Caduti. Non sono stati tentati, per loro era un gioco. E anche gli altri Umani... perché non li hanno fermati, quando hanno sentito gridare il gatto? Perché?»
«Perché è parte della natura umana.»
«Ma-»
«Amitiel.» la richiamò «Parleremo anche di questo, ma ora dobbiamo andare.»
«E l’animale?» chiese Ramiel, l’allieva, prima che la compagna potesse ribattere ancora.
«Morirà.» le rispose la donna, con un bagliore di amarezza nello sguardo freddo.
«Non possiamo salvarlo?»
«No, Ramiel. Non possiamo interferire con le decisioni degli Umani o le loro conseguenze.»
«Per favore.» mormorò quella, chinando il capo, in lacrime «Per favore
«No.»
Gli altri allievi tacevano, sconvolti e nauseati. Era stata loro insegnata la compassione; perché, allora, non potevano alleviare le sofferenze di una vittima?
Perché gli Umani avevano scelto di farlo soffrire.
Il rancore serpeggiava tra le loro coscienze pure, sporcandole.


«Ramiel.» le sussurrò all’orecchio il Guardiano accanto a lei, chinandosi per essere alla sua altezza.
«Non dire niente.»
«Ramiel, è solo un gatto.»
«Devono imparare.»
«È solo un gatto, ed è vivo. Ci è ancora permesso salvarlo.»
«Ma loro devono imparare.»
«Guarda le loro essenze. Vuoi davvero farli sporcare per questo?» le posò una mano sulla spalla esile, senza stringere «Non soffocare la loro compassione. Alimentala e impareranno ad averne anche per gli Umani.»
«Non davanti ai Cherubini, Gabriel, lo sai.» mormorò, scostandosi dal suo tocco.
«Non stanno guardando noi. Stanno guardando la morte – la stanno imparando nel modo peggiore, Ramiel.»
«Se li assecondo, crederanno di potersi intromettere quando vogliono.»
«Spiega i limiti, ma non renderli più rigidi di quanto già non siano. È tuo dovere incoraggiare la loro compassione.»
«Sono io l’insegnante, Guardiano. È tuo dovere proteggerci, non spiegarmi come svolgere il mio compito.»
«È mio dovere starti accanto.» ribatté, posandole di nuovo una mano sulla spalla.
«Gabriel... i Cherubini.» protestò, allontanandosi per la seconda volta.
«Cherubini, sì. Hanno tempo per imparare i limiti. Per ora, insegna la compassione – non soffocarla, o rischia di tramutarsi in rancore.»
«...queste lezioni mi uccidono.» sospirò.
«È tuo dovere.»
«Mi uccidono ugualmente.» mormorò «Mi fa male, vederli così.»
«Potresti evitarlo.»
«Non posso essere morbida, lo sai. Non in questo.»
«Ogni volta lo stesso discorso, hai notato?»
Il loro volto, sino a quel momento, era rimasto congelato nell’impassibilità; solo un lieve sorriso increspò le labbra di Ramiel, a quelle parole, ma scomparve subito.
«Ogni volta lo stesso discorso» ripeté il Guardiano «e ogni volta finisce nello stesso modo.»
«...e io che ho chiesto un gruppo della quinta proprio per evitare queste lezioni.»
«Quinta o sesta, finirai sempre per darmi ragione.» affermò con un ghigno malcelato.
«Ricordami di chiedere la seconda classe, la prossima volta. Almeno andrò sul sicuro.»
«Oh, Ramiel, così mi ferisci. In tal modo non ci vedremmo mai.»
«Appunto.»
Soffocò una risata – era suo dovere mostrarsi serio – e si voltò verso i Cherubini in attesa di ordini. Incoraggio l’altra con una lieve stretta, poi allontanò la mano dalla sua spalla e spiccò un balzo verso le due giovani inginocchiate davanti all’animale. Udì Ramiel dare il permesso di salvare il gatto e si chinò per prenderlo tra le mani, ma l’allieva dai capelli rossi lo precedette: sfiorandolo con dita delicate, chiuse gli occhi e respirò piano, in un tentativo di calmarsi.
Gabriel non si aspettava che riuscisse davvero a fare qualcosa: era giovane, inesperta e autodidatta, e l’animale in fin di vita. Invece, sotto le mani del cherubino – inaspettatamente ferme, come quelle di un vero Guaritore – s’intravide un bagliore bianco, lingue sottili che lambivano le ferite e placavano il dolore. Era solo una pallida imitazione del vero Fuoco della Guarigione, ma stava funzionando: lentamente gli squarci si richiusero in evidenti cicatrici, le articolazioni piegate in angoli anormali assunsero pose più naturali, lo sguardo perse l’annebbiamento dato dalla sofferenza e si fece più lucido. Quando la giovane lasciò ricadere le mani in grembo, stanca, Gabriel avvertì le essenze dei Cherubini bloccare il proprio ansioso turbinio, congelate nell’attesa. Solo le più mature si tesero per ampliare le Percezioni, senza ottenere nulla – appena in grado di intuire le anime umane, la scintilla di vita di un animale era troppo incerta e flebile perché riuscissero a coglierla.
La scintilla di quell’animale, in particolare, era quasi sul punto di estinguersi; ma c’era.
Se ne accorsero anche gli allievi, quando il gatto si alzò barcollando e corse via, terrorizzato. Vivo.
Le essenze tornarono a vorticare, in preda al sollievo e alla gioia, il rancore già diminuito. Era un cuore pulsante di emozioni, intense come sapevano essere solo quelle dei sensibili Cherubini. Il Guardiano colse un sorriso sul volto di Ramiel, più adatto dell’espressione gelida che aveva simulato fino a quel momento, e fu quasi certo di sorridere a propria volta. Ma era suo dovere rimanere vigile e lucido, e subito pensò che quell’impeto di esultanza era troppo percepibile: la cautela prestata fino ad allora sarebbe stata inutile, con quell’invito a venire individuati e attaccati.
Gettò uno sguardo inquieto a Ramiel, cui lei rispose con un movimento brusco della mano – il polso esile ruotato di scatto verso di sé, le dita sottili inarcate come artigli. Il gesto di una belva che ritira l’arto ferito; il gesto di un Guardiano che suggerisce di andarsene. E Ramiel, sotto i sorrisi e l’aria materna, era Guardiana e belva.


I colori si mordevano l’un l’altro, ferendo i suoi occhi sconvolti. Non era più il silenzio di una pianura ingiallita dal sole o il fruscio di un bosco nero di ombre. Non era più la dolcezza dell’affetto materno o l’immagine cupa di un’antica leggenda. Non era più nulla ed era tutto: un turbinio di colori violenti di cui non capiva il senso, macchie indistinte che non riusciva a mettere a fuoco. Solo pochi dettagli erano chiari, netti come cicatrici.
Poteva incolpare le lacrime che continuavano ad inondarle il viso, o l’errore era solo nella sua mente angosciata?
C’era il rosso del sangue sulle sue mani, quello lo vedeva bene, e sul terreno e sulla divisa bianca. E rosso anche sulle sue ali, così nitido che avrebbe voluto strapparsele via, pur di non vedere le piume che le sfioravano le spalle.
C’era il nero del pelo – quel poco ancora integro, quel poco non insanguinato – del gatto. E anche se Ramiel aveva dato il permesso di salvarlo, e anche se l’altra Ramiel l’aveva guarito, e anche se poi era diventato più nero e meno rosso, comunque rimaneva l’angoscia. La rabbia. Nera, la immaginava quella rabbia, perché rosso era già l’orrore.
C’era l’azzurro del cielo a cui aveva alzato gli occhi, un azzurro spietato e indifferente, che non si tingeva di grigio e non si bagnava di pioggia. Non per il dolore di un gatto. Non per la crudeltà di un bambino. Non per le lacrime di un cherubino. Dov’era l’amore, dov’era la compassione?
C’era la voce distaccata di Ramiel che ordinava di andarsene, senza un accenno di dolcezza, senza una rassicurazione. Era brava a nascondere le emozioni, la donna, ma Amitiel non lo sapeva: per lei, quella voce aveva solo il colore del cristallo – un bagliore trasparente, abbagliante, impietoso. L’avrebbe paragonata al ghiaccio, se l’avesse conosciuto.
I colori si mordevano l’un l’altro, ferendo il suo animo nero di rabbia e rosso d’orrore.





***
Angolo autrice
Grazie per letture e preferiti/seguite/ricordate. State diventando sempre di più *^* E, come sempre, un ringraziamento speciale a chi commenta! Se avete dubbi/consigli/critiche, sarò ben felice di rispondervi.
Se trovate ripetizioni di frasi/verbi a poca distanza, sono volute. Amitiel è troppo sconvolta per non avere pensieri monotoni, quasi circolari.
Al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 13
*** 12. Pensiero ***


Capitolo 12 – Pensiero




Il tempo vorticava impazzito, si addentava la coda come un serpente folle e Amitiel si diceva che forse il veleno sarebbe riuscito a consumarla, quell’estremità maledetta, senza lasciare nient’altro che un ricordo dimenticato. Una cicatrice liscia.
Era solo nei momenti più deliranti che la sua mente riusciva a concepire ossimori come quello, troppo adulti perché potessero appartenerle davvero: quando il dolore dell’Espiazione minacciava di farla impazzire, quando l’angoscia di un incubo che non avrebbe dovuto esistere la schiacciava, quando lo stordimento lasciava il posto ad una realtà troppo violenta.
E quando il tempo vorticava impazzito. Quella coda se la sarebbe morsa fino a strapparla via, magari, serpe sconvolta che si faceva del male pur di dimenticare. Pregava di poter anche lei cancellare gli ultimi attimi dalla memoria, di lacerare i ricordi e perdersi tra i flutti del tempo – presente e futuro ma passato no, perché passato era crudeltà dolore morte. La vita era arrivata troppo tardi e troppo sofferente per poter scacciare l’orrore, e non importava che fosse solo un gatto, che fosse solo un attimo, che quasi non fosse. Faceva male comunque.
La luce abbagliante del sole e il rosso intenso del sangue avevano ceduto il passo, davanti ai suoi occhi, a tinte morbide e ad un’ombra umida; nel mezzo, ricordava appena l’azzurro feroce del cielo, prima di giungere all’oscurità pietosa e riposante del bosco. Sempre che vi fosse davvero stato, quell’azzurro: era una constatazione logica, che avessero volato fino a lì, ma forse il lampo turchino era stato solo lo sguardo gelido di Ramiel e in realtà si erano trovati nel bosco senza fare nulla, trasportati dai flutti folli del tempo. In fondo non ricordava il sollievo della luce calda, o la carezza consolatoria del vento; solo le proprie mani lorde di sangue, e poi un lembo di terra nera.
Stava delirando, rannicchiata tra le radici di un albero, le ginocchia strette al petto. Tra le cosce appena dischiuse, una striscia di suolo – umido, nonostante il sole implacabile che inondava la pianura – accoglieva il suo sguardo, senza ferirlo con tinte troppo accese o luminose.
Aveva paura di alzare gli occhi. Di vedere una lama di luce filtrare tra le fronde ingiallite, per rischiarare con spietata nitidezza anche quell’angolo quieto. Di scorgere i capelli rossi di Ramiel, le ali dei Cherubini, le macchie sulle proprie mani.
Di trovare l’azzurro gelido degli occhi dell’insegnante, o di cercare quello di Anane, più comprensivo, più affettuoso, che in quel momento non c’era. O di desiderarne un altro ancora, sconosciuto, lampo celeste che talvolta le faceva visita nei sogni – che, quando estendeva le Percezioni in Paradiso, sembrava guidarla verso un punto preciso e poi dissolversi all’improvviso, lasciandola persa tra mille essenze che non riusciva a distinguere, con una malinconia amara e un senso d’incompletezza lacerante.
Ma, ancor di più, voleva Michael. Voleva i suoi occhi grigi, l’attenzione con cui l’ascoltava, la vaga preoccupazione che s’intuiva nel tono; il suo collo freddo contro cui abbandonarsi e le ali da arcangelo che ritirava nell’avvicinarsi a lei, per non ferirla con le piume affilate. Voleva ciò che rappresentava, in realtà – l’interesse, il conforto, la curiosità, il fascino conturbante del proibito –, ma l’aveva conosciuto solo con lui e in lui, quindi, lo identificava. Michael.
«Amitiel, giusto?» la chiamò qualcuno.
Alzò gli occhi: era Ridwan, inginocchiato di fronte a lei. Sapeva bene come si chiamava, ma aveva attirato la sua attenzione con i soliti modi discreti, anonimi – com’era lui stesso, d’altronde, con le ali da angelo e la fascia azzurra dei Custodi, i capelli castani e lo sguardo gentile, la bassa statura e le mani esili, quasi da donna, sempre pronte ad accennare una carezza. Gli sorrise debolmente, un po’ rincuorata dalla sua delicatezza.
«Anane?» gli chiese subito, perché Anane era Anane ed era anche la possibilità di vedere Michael.
«Più tardi.» le sfiorò i capelli, rassicurante «Se non ti senti bene, posso chiedere alla tua insegnante di allontanarmi con te per un po’.»
«No, no, io...» declinò istintivamente «Non ce n’è bisogno, ma grazie comunque.»
«Ne sei sicura?»
«Sì, grazie, davvero, ma-»
«Ridwan, lasciala stare, non è tuo dovere insistere così.» mormorò un arcangelo alla loro destra, a voce sufficientemente bassa da non essere udito da nessun altro. Dovevano avere comunque molta familiarità, perché uno accettasse di essere contraddetto in presenza di un cherubino.
«Mi sembra scossa, Gabriel, ed è nostro dovere» sottolineò le ultime parole imitando la voce profonda dell’altro «assicurarci che i Cherubini stiano bene.»
«Ce n’è un’altra che sta peggio, vai da lei, di questa mi occupo io.»
«È un’amica di Anane.»
«E quindi?»
Ridwan sospirò e le sorrise, rassicurante, poi si alzò e raggiunse il cherubino in lacrime indicatogli dall’arcangelo. Anche i loro compagni – due Custodi e un Guardiano – erano chini sugli allievi, intenti a tranquillizzarli goffamente, o almeno a rendere le loro essenze meno sconvolte ed evidenti. Ramiel invece rimaneva in piedi al centro della radura, gelida, priva di tutta l’abituale cordialità.
«Bene, cherubino.» sbuffò l’arcangelo rimasto lì, Gabriel «Parla.»
Non s’inginocchiò accanto a lei, ma rimase a fissarla dall’alto, l’espressione insofferente e una spalla appoggiata al tronco contro cui era seduta. Non proprio il modo migliore per rassicurarla.
«Il gatto.» trovò appena il coraggio di mormorare, in soggezione.
«Oh, il gatto. Naturalmente.» guardò al centro della radura, liberandola dal peso del suo sguardo chiaro «La tua insegnante ne parlerà tra poco, non è mio dovere. Devi solo aspettare.»
Aspettare. Quanto? Quanto avrebbe dovuto passare, con il rancore a roderle il petto e i dubbi, il dolore, il ricordo del sangue sulle proprie mani?
«Il gatto.» mormorò di nuovo, notando che il sangue sulle mani non era un ricordo – non era riuscita a pulirle bene sulla divisa, perché il tessuto non si sporcava facilmente. Per quanto avesse sfregato, le era rimasta qualche traccia scarlatta sui palmi, e faceva così schifo.
L’arcangelo si passò una mano tra i capelli biondo cenere, poi piegò le ginocchia e si sedette sui polpacci, abbassandosi all’altezza del suo viso. Amitiel tornò a fissare la striscia di terra che intravedeva tra le proprie gambe, a disagio, ma l’uomo le ordinò seccamente di guardarlo e a lei non restò che obbedire.
«Ascolta, cherubino.»
«Sto ascoltando.» gli fece notare, poiché lui non aggiunse altro.
«No, tu stai pensando. E, credimi, pensare non ti servirà a niente. Non riuscirai a venirne a capo nel modo giusto.»
«Non posso non pensare.»
«Puoi. Dimostrati più matura di una ragazzina umana, cherubino. Noi non ci lasciamo ossessionare da un gatto quasi morto; noi le superiamo, queste cose – noi superiamo tutto. Come potremmo vivere per l’eternità, altrimenti?»
Improvvisamente Amitiel invidiò la caducità degli Umani.
«Non posso non pensare.» ripeté «Quel gatto stava morendo. Lo stavano uccidendo
«E Ramiel pensa che saresti una buona Guardiana.» mormorò tra sé l’uomo, scuotendo la testa «Se t’impressioni per un gatto non morto...»
«Lo stavano uccidendo!»
«Porta rispetto, cherubino.» ringhiò, irritato dal suo tono di voce «E non pensare: ti distrarrebbe. Ascolta e impara, come ogni allievo.»
«Ma il ga-»
«Non è mio dovere farti da balia. Vuoi distruggerti per un gatto? Bene.» si distaccò dal tronco «Cerca di non disturbare la lezione, almeno.»
Lei rimase in silenzio, lo sguardo fisso sullo scorcio di terra tra le proprie gambe.
Non pensare. Ascolta e basta. Lascia che il tempo scorra e si porti via tutto.’
Ma il tempo non scorreva più, non avanzava, si avvolgeva su sé stesso in spire vischiose di sangue.
Strappati la coda, serpente.’
Gli Angeli, per sopravvivere ad un’esistenza infinita, dovevano piegarsi agli eventi. Ignorare, dimenticare, perdonare. Accettare.
Forse io non sono fatta per l’eternità.’


Guardiani e Custodi si allontanarono dai Cherubini per circondarli, vigili, gli occhi chiusi e le Percezioni estese il più possibile. Di fronte al semicerchio che gli allievi avevano formato per abitudine, Ramiel iniziò a parlare con voce fredda, acuta, blaterando parole senza sentimento.
Amitiel alzò lo sguardo dal terreno per puntarlo sul viso spigoloso dell’insegnante, ma la sua mente vagava ancora in un nulla imbrattato di sangue. Ascolta, continuavano ad ordinarle mille voci diverse – il Guardiano, le Custodi che l’avevano educata, gli insegnanti che aveva avuto, l’abitudine. Non pensare. Ascolta. E ancora i pensieri le strisciavano dentro, e le domande sibilavano dubbi al suo orecchio, e una nausea profonda si annidava dentro di lei.
E il gatto continuava a perseguitarla, con il suo unico occhio pieno di panico e dolore.
E Ramiel parlava, parlava, parlava.
La sua voce colpiva, gelida, violenta come uno schiaffo in pieno volto. Se il tono si era addolcito, Amitiel non lo notò, troppo concentrata nel capire il senso del suo discorso, o nell’accettarlo.
Era colpa degli Sconsacrati, diceva. Corrompevano la già fragile natura degli Umani, li allontanavano dalla purezza ispirata dagli Angeli, legavano a sé le loro anime e impedivano loro l’accesso al Paradiso – o alla rinascita, se non si erano mostrate degne e necessitavano di una seconda possibilità.
Dovevano avere compassione degli Umani, i figli più deboli e insicuri di Dio, così corruttibili in confronto al candore angelico. Dovevano guidarli verso il giusto, combattere gli Sconsacrati avidi delle loro anime, impedire che fossero trascinati negli Inferi.
«La vostra essenza è colma di compassione per quell’animale e ciò vi fa onore.» ripeteva continuamente Ramiel, come il ritornello di un canto «Ma gli animali, ricordatelo, non hanno anima né essenza. Godono della sola vita terrena, mentre noi dobbiamo occuparci di quella spirituale. Compatite quei ragazzini, piuttosto, che spinti dalla loro natura corruttibile si divertono con le sofferenze altrui; e pregate perché il sudicio influsso degli Sconsacrati non offuschi la guida dei Veglianti, perché le loro anime possano allontanarsi dai vizi umani, perché preferiscano la purezza al peccato. Compatite, pregate. Perdonate.»
Perdonare.
Ma perché perdonare? Nei brevi attimi in cui il corpo devastato del gatto smetteva di ripresentarsi ai suoi occhi, Amitiel riusciva a recuperare la lucidità necessaria a chiederselo, ma non a trovare una risposta. Perché perdonare quei ragazzini che ridevano esultavano uccidevano? Perché per gli Angeli vi era l’Espiazione al minimo errore, mentre per gli Umani il perdono? Perché dare loro una nuova possibilità, e poi un’altra e un’altra ancora, infiniti cicli che l’anima poteva vivere, fino a che non si fossero dimostrati degni del Paradiso?
Perché, perché, perché. Voleva risposte, Amitiel – chiamata come l’angelo della verità; come l’angelo condannato a bruciare nell’Espiazione sino ad estinguersi, per essersi opposto alla creazione degli Umani. Vi era un che di profetico, a volte, nei nomi assegnati ai Cherubini.
«Amitiel.» la richiamò l’insegnante, notando la sua disattenzione «Cosa ne pensi?»
«Non devo pensare: mi distrarrebbe. Devo ascoltare e imparare, come ogni cherubino.» le rispose subito, guidata dall’abitudine, celando i propri dubbi dietro un tono neutro.
Ramiel annuì, soddisfatta, e tornò a ribadire gli stessi concetti con le stesse parole. Non vi era nulla di strano in quella ripetizione: ogni classe, ogni lezione, ogni attimo di vita dei Cherubini era scandito da cicli ripercorsi all’infinito. Dovevano divenire attori di un’opera imparata a memoria e mai variata.
Amitiel scosse la testa, infastidita. Non riusciva a dare forma a quelle riflessioni, troppo distratta dall’orrore e troppo condizionata dalla propria educazione, ma le sentiva, e non era piacevole – dubbi e timide obiezioni che la rodevano da dentro, facendosi strada in lei a piccoli morsi di coscienza.
Non devo pensare. Certo, l’ha detto anche il Guardiano: pensando, mi complico le cose e basta. Mi distraggo. Mi faccio del male. Mi agito per trovare una risposta, senza riuscirci. Non. Devo. Pensare.’
Rifletti, le ingiungeva un’altra voce, più vibrante, più aggressiva. Più viva. Aveva il timbro profondo di Michael, il suo tono rabbioso, era come averlo di nuovo lì a strattonarle la treccia ed esporle il collo. Temeva di incontrarlo, le parole che avrebbe potuto ringhiarle, le certezze che avrebbe distrutto; e al contempo lo voleva, con un’intensità così disperata da stringerle lo stomaco. Ma voleva lui, o voleva semplicemente risposte? Lui, o le attenzioni che nessun altro le aveva mai concesso prima?
Quella confusione, le avrebbe detto un adulto, era il chiaro segno che non riusciva a pensare nel modo giusto, perché finiva solo per smarrirsi tra mille riflessioni diverse. Amitiel, pur ripetendoselo, non riusciva a convincersene davvero, né a smettere di farlo. Lo Specchio avrebbe dovuto insegnarle a mettere a tacere la mente; lo Specchio, con lei, aveva funzionato male in molti modi.
Il pensiero, ottenuta la libertà, ha la terribile mania di non volervi più rinunciare.

* * *

«Potete alzarvi.»
I Cherubini scattarono in piedi, irrequieti per la lunga immobilità. Non parlarono, perché non era stato loro permesso, né si allontanarono; solo alcuni mossero qualche passo indietro, per recuperare le borse abbandonate sull’erba.
Sul viso di tutti, un’espressione serena dimostrava che Ramiel aveva saputo svolgere il proprio compito, o che gli allievi sapevano fingere bene. Ma nessuno avrebbe mai potuto pensare questo, perché l’innocenza e la trasparenza dei Cherubini non potevano essere messe in dubbio. Se ad un allievo tremavano le ali, doveva essere per la stanchezza; se un’altra teneva gli occhi bassi, si apprezzava il suo pudore nel non fissare in volto un adulto, e non vi era motivo di credere che volesse invece nascondere il proprio sguardo.
Amitiel, i lineamenti congelati nell’espressione distesa che da tempo aveva imparato ad assumere, sperava che nessuno si preoccupasse di controllare anche le loro essenza. Era consuetudine degli insegnanti osservarle, per accettarsi che fossero tutti calmi e attenti, ma forse nella dimensione umana Ramiel non avrebbe perso tempo: troppi possibili imprevisti, troppi pericoli, troppe presenze estranee per prestare attenzione alle essenze dei Cherubini. Avrebbe potuto gettarvi un’occhiata per abitudine, se avesse incrociato lo sguardo di un allievo, ma in caso contrario non avrebbe certo distolto le Percezioni dall’esterno per verificare che fossero davvero calmi.
Amitiel lo sperava, almeno, con gli occhi bassi e i lineamenti atteggiati ad una quieta serenità. Non aveva idea di come controllare l’essenza e darle una parvenza di pace – non riusciva nemmeno a percepirla, e non sapere se fosse quieta o vorticante, limpida o torbida, la faceva sentire esposta. Se qualcuno avesse esteso le Percezioni verso di lei, si sarebbe tradita senza nemmeno accorgersene.
Non credeva di essere l’unica a sentirsi ancora turbata, però, e questo la confortava un po’. Ramiel – la compagna – sembrava distesa, tranquilla, ma in altri aveva colto un barlume d’irrequietezza. Erano trascorsi almeno quattro tramonti da quando si erano riuniti nella radura, l’insegnante aveva ripetuto decine di volte le stesse parole, molti se n’erano convinti – molti, non tutti. Alcuni rivedevano ancora quel massacro, il dolore del gatto, la morte che era arrivata a sfiorare l’animale.
Avevano conosciuto la caducità degli esseri viventi nel modo peggiore, e la crudeltà degli Umani, la loro morale alterata, proprio nel periodo della loro maturazione in cui avevano più bisogno di esempi irreprensibili. La voce gelida dell’insegnante, abituata a classi più avanzate, non aveva offerto loro alcun conforto; Guardiani e Custodi, poco avvezzi ai Cherubini, non erano riusciti a rassicurarli.
Erano stati sopravvalutati, era stato loro mostrato qualcosa da sempre destinato ad allievi più maturi, e che loro quindi non avevano potuto comprendere. Troppo acerbi, ancora, per compatire e perdonare. Troppo umani.
«Ora potete rilassarvi, Cherubini.» concesse Ramiel, tornata vagamente sorridente «Stiamo richiamando gli allievi del ciclo superiore, saranno qui a breve. Hanno già concordato con i Custodi ogni cosa, voi dovrete solo seguirli. Non sarete più distratti dalle essenze dei compagni, abbiamo risolto adottando anche per la quinta classe un’organizzazione a coppie – più isolati di così non posso permettervelo, se persino un solo compagno del ciclo superiore vi deconcentra, dovrete adeguarvi comunque.»
S’interruppe per ascoltare qualcosa che un Guardiano – sempre il solito con cui parlava ogni volta – le stava sussurrando, poi annuì, riflessiva. Mormorò qualcosa di simile a «Pensaci tu, Gabriel.» e, senza una parola agli allievi, s’inoltrò tra gli alberi con Ridwan.
«Per chi non lo ricordasse, o per chi fosse stato promosso di recente» continuò in sua vece il Guardiano, ignorando i loro sguardi confusi «sarà vostro dovere esercitarvi nelle Percezioni. La dimensione umana è particolarmente adatta a svilupparle e acuirle, ma la presenza di altri Angeli può risultare molto disturbante, perciò vi isolerete il più possibile. Sarete comunque accompagnati da un allievo del ciclo superiore, per la vostra sicurezza, e i Custodi si avvicineranno periodicamente a controllare che non vi sia nulla di irregolare; anche se è improbabile che ve ne siano, prestate attenzione e segnalate ai Custodi qualsiasi anomalia. Rimanete nel luogo concordato e non avvicinatevi alle zone sorvegliate dai Guardiani. Vi richiameremo tra circa quindici tramonti, organizzate bene il vostro tempo.»
Amitiel si sentì tremare. Aveva bisogno di Anane e aveva bisogno di Michael – di parlare, confrontarsi. Aveva bisogno di dare un senso all’indignazione che provava al pensiero che gli Umani, sbagliando, ricevevano una seconda possibilità, e una terza e una quarta, infinite vite in cui fare del male finché non fossero stati degni del Paradiso. Aveva bisogno di comprendere l’odio che sentiva serpeggiare e sibilare in fondo all’animo, lei, che era stata educata ad amare – l’odio è per gli Umani e gli Sconsacrati, gli Angeli perdonano e compatiscono; e puniscono, quando questa è la volontà di Dio, ma solo in quel caso. Stava esulando da ciò che le avevano insegnato, tra sentimenti da non provare e pensieri da non formulare.
Voleva solo che qualcuno le dicesse che era normale, che era giusto.
Sussultò quando qualcuno le toccò un braccio. Non aveva avvertito nessuno avvicinarsi, anche se già alla quinta classe molti Cherubini iniziavano ad avere vaghe impressioni delle presenze attorno a sé, senza doversi concentrare intenzionalmente sulle Percezioni: era ancora lontana dall’abilità di un adulto. E gli adulti – le avevano insegnato – non avevano solo capacità più sviluppate, ma anche una maturità che permetteva loro di comprendere, di giungere alle giuste conclusioni; lei, ancora così inesperta, come poteva avere la presunzione di credere che il proprio pensiero fosse corretto?
Ma come poteva avere la certezza che fosse sbagliato, in fondo?
Qualcuno la toccò di nuovo, scuotendola per un braccio.
«Amitiel? Stai bene?»
Alzò lo sguardo, incontrando quello di Anane. E Anane significava anche Michael.
Annuì, sollevata, con un sospiro tremulo. Ebbe l’impulso di abbracciarla, perché non si vedevano da tempo, ma dimostrazioni d’affetto così evidenti non erano opportune in pubblico, perciò si limitò a prenderle la mano e a stringerla con un sorriso. Anane sfregò la guancia contro i suoi capelli e sbuffò: «Non hai usato gli oli. Non hanno odore.»
«Non ne ho avuto il tempo.»
«Sì, ho notato. Non avevi nemmeno il tempo per la tua vecchia amica...» singhiozzò teatralmente, nascondendo a fatica un ghigno «Non mi dimenticherai per quelle della quinta classe, vero?»
«No, ma se passo di classe in tempo e mi ritrovo di nuovo con Cassiel, potrei eleggere lei a mia nuova migliore amica.»
«Così mi ferisci. La mia vecchia mente potrebbe non reggere al colpo...»
«Ho trovato il modo di liberarmi di te?»
L’occhiata severa di un Custode le convinse a tornare in silenzio. Ascoltarono le ultime ripetitive raccomandazioni, poi la ventina di fasce grigie del ciclo superiore si alzò in volo, seguita dai compagni più immaturi. Presero direzioni diverse, a gruppi, dividendosi sempre di più man mano che sorvolavano il bosco. Quando infine rimasero a coppie, Amitiel si rese conto che Anane era riuscita a farsi assegnare uno dei luoghi più estremi dell’immenso territorio concesso per la lezione, lontano dai Custodi e dai Guardiani – a malapena si scorgeva la sagoma di un adulto, in lontananza, e un’altra coppia di allievi diretta verso la propria zona. Il terreno non era più pianeggiante, ma risaliva le radici delle colline in un dolce pendio, coperto da una fitta vegetazione che si schiudeva talvolta in qualche radura.
Discesero tra gli alberi, in una delle zone più coperte, senza una parola: Anane le aveva fatto cenno di tacere fin da prima che rimanessero sole, gli occhi socchiusi in un’espressione concentrata. Amitiel, un po’ offesa per quel silenzio dopo che non si vedevano da interi cicli, atterrò più pesantemente del necessario sull’erba giallastra e sbuffò, sperando che l’altra le rivolgesse finalmente attenzione.
«Siamo un po’ lontani.» mormorò la più matura, pensierosa, guardandosi intorno.
«Cosa?»
«Niente, parlavo tra me e me.» scosse le spalle «Ora richiamo Eisheth.»
«Devi proprio?» chiese con una smorfia. Quella donna non le piaceva per niente, era falsa, affettata, e aveva sperato di non doverla rivedere – e poi diceva di essere madre di Anane, quando non era assolutamente possibile perché Anane non era abbastanza antica per essere nata da un’unione, e si divertiva a turbarla sottolineando quella presunta parentela di continuo. Anche il cherubino aveva confermato il legame, ma non lo ricordava, o preferiva non farlo: convincersi che Eisheth mentiva era di gran lunga più comodo.
«Non vuoi?» Anane si voltò di scatto verso di lei «Avevi detto di sì, e ormai abbiamo organizzato tutto, non è...» affondò i denti nel labbro inferiore e si lasciò sfuggire un sospiro tremulo «Ma se davvero non vuoi... posso parlare con Eisheth, ma Michael, ora che è così tardi... potrebbe non... gradire.»
Torturava la divisa con le dita, parlava con voce incerta. Era in ansia. Ma perché? Michael se la sarebbe presa con Anane, se lei avesse cambiato idea? Per questo temeva un suo rifiuto?
«Tranquilla.» la rassicurò, senza più avvertire alcuna irritazione «È solo che Eisheth non...»
Fece un gesto vago con la mano, per non sbilanciarsi troppo. Anane non le era apparsa in buoni rapporti con la madre – ricordava ancora il suo pianto isterico, le sue parole velenose – ma si affidava comunque a lei, a quanto sembrava, ed esprimendo ciò che pensava di Eisheth temeva di offenderla.
«È una persona particolare, sì. Molto irritante. Ma credo di esserle affezionata, in fondo... se non altro per tutte le volte che mi ha salvato le ali da Michael.» si esibì in una mezza risata divertita «Scusa, ora devo concentrarmi.»
Anane chiuse gli occhi, una mano alzata a chiederle silenzio, le labbra che mormoravano qualcosa – il nome di Eisheth, forse. Rimase così per diverso tempo, interrompendosi un istante solo per dirle: «Esercitati nelle Percezioni, intanto, o si accorgeranno che abbiamo perso molto tempo.»
Amitiel era certa di essere troppo agitata per riuscirvi: stava per vedere Michael – ed Eisheth, sì, ma aveva relegato quel dettaglio in un angolo della mente –, stava per parlare, chiedere, dare un senso alle confuse emozioni che ancora sentiva agitarsi dentro di sé; come poteva concentrarsi su qualcosa di tanto noioso come le Percezioni?
Seguì comunque il suo consiglio, più per abitudine che per reale intenzione. Chiuse gli occhi a sua volta e si accoccolò tra le radici di un albero, un po’ stanca per la lunga lezione. Doveva raccogliersi, ignorare ciò che aveva dentro per captare tutto ciò che era fuori, cercare di identificare ciò che avvertiva. Non le avevano spiegato altro, perché la teoria era, in effetti, molto semplice; le difficoltà non sorgevano nella comprensione, ma nell’applicazione. Riusciva a fatica ad avvertire le presenze più vicine, identificarle era ancora pura utopia – e poi c’era qualcosa che la distraeva, a volte, guidandola verso di sé e abbandonandola prima che vi giungesse, lasciandola persa tra presenze troppo distanti, che la confondevano e la stancavano. Non sapeva se fosse normale, né che cosa attraesse così tanto le sue Percezioni: non aveva osato chiedere chiarimenti, per timore che la sua domanda non fosse ben accetta. Probabilmente erano solo i Fuochi, che la spingevano verso la Città senza riuscire a fargliela raggiungere, ancora troppo immatura per arrivare così lontano. Nella dimensione umana forse sarebbe andata meglio, si disse, salvo poi rimproverarsi perché non doveva dirsi niente – doveva solo smettere di pensare e trovare la calma necessaria.
Si riteneva una persona ottimista, ma non arrivava a sperare davvero di riuscirvi.
Inaspettatamente, invece, dopo poco si sentì scivolare verso la quiete. Avvertì la presenza di Anane vicino a sé, intensa, disturbante: non era come vederla o toccarla, semplicemente sapeva che era lì, e le dava fastidio al capo, come uno stridio – no, dava fastidio a tutto l’ambiente. L’essenza di Anane non apparteneva a quel mondo, le sue Percezioni lo coglievano e glielo trasmettevano. Se si fosse trovata in mezzo agli altri Cherubini, probabilmente non avrebbe sopportato quel malessere.
Eppure, in qualche modo, trovava più semplice estendere le Percezioni. La vita pulsante del Mediano la attirava, le facilitava il compito, riusciva quasi a distrarla dalla stridente essenza di Anane. Avvertiva qualcos’altro oltre al cherubino, miriadi di presenze insignificanti e confuse tra loro, in qualche modo più passive, meno importanti – animali, forse, perché le trasmettevano un istintivo disinteresse. La sua essenza voleva altro, si tendeva alla ricerca di vita senziente, di anime umane; ma i villaggi erano troppo lontani, Anane troppo disturbante, lei troppo inesperta, perciò vagava senza trovare qualcosa su cui concentrarsi. Solo per un attimo le sembrò di avvertire un’anima umana, non troppo distante, prima che l’essenza dell’altro cherubino la distraesse di nuovo; era stata una sensazione stana, un sussurro delicato che le diceva che c’era qualcuno e che apparteneva a quella dimensione, ma era scomparsa subito.
E qualcosa, all’improvviso, la attrasse verso di sé. La strappò alla stridente presenza di Anane, alle altre innumerevoli che non le interessavano, a quell’unica umana che le aveva sfiorato la mente; uno squarcio, le sue Percezioni sradicate brutalmente e trascinate lontano, da qualche parte che non riusciva a capire, verso qualcuno che non riusciva a riconoscere.
Faceva male, dentro, più a fondo di pelle carne ossa, come se un artiglio gelido stesse lacerando la sua mente squassata dal dolore.
Si ritrovò a boccheggiare, reazione inutile quanto istintiva; avrebbe inarcato la schiena, spalancato le labbra in un urlo muto, se avesse avuto ancora controllo del suo corpo, ma non riusciva neppure a percepirlo – c’era solo quell’artiglio che la squarciava, quel qualcosa che la attirava a sé con violenza, ed era peggio dello stridio dell’essenza di Anane, era peggio dell’Influenza di Eisheth, e non era più nemmeno una sensazione, era lei stessa che si dibatteva e urlava e in realtà non si muoveva, perché esisteva solo la sua mente, lesa squarciata distrutta.


«È ferita.»

«Quanto manca all’alba?»
«Poco.»

«Non voglio morire.»
«Rinascerai.»
«Non voglio morire!»

«Ti ricorderò? Ti ricorderò, vero?»
«...sì.»

«È ferita.»


«Amitiel? Amitiel!» mani a scuotere quel corpo che non percepiva più «Madre, non reagisce!»
«Non temere, cara, dev’essere il Mediano. Può fare quest’effetto.»
Mani più piccole, tiepide, a sfiorarle le tempie.
«Cosa succede, madre?»
«Sta ricordando, cara. Sta pensando


Ferita. Ferita. Ferita.

Occhi azzurri.

Ferita. Ferita. Ferita.

Occhi grigi.

Ferita. Ferita. Ferita.

Fiamme.

Ferita. Ferita. Ferita.

«Conosci la leggenda della fenice?»





***
Angolo autrice
Grazie per letture e preferiti/seguite/ricordate e, come sempre un grazie enorme a chi commenta!
Come vedete, ho personalizzato parecchio la "vita dopo la morte". Non esiste il Purgatorio, ma una seconda - infinite - possibilità, se l'anima non viene conquistata dagli Sconsacrati. Gli amanti della tradizione non me ne vogliano, era una cosa troppo da miei Angeli per non inserirla. Verrà spiegata meglio nei capitoli seguenti.
A domenica prossima!

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Capitolo 14
*** 13. Scelta ***


Capitolo 13 – Scelta





La tiepida acqua nelle vasche era cristallina, rilucente al chiarore senza provenienza del Paradiso. Dei larghi gradini di pietra scendevano dal bordo candido – al livello del pavimento – fino al fondo, permettendo così alle visitatrici delle terme d’immergersi più comodamente. Su uno di essi era seduta Leliel, immersa fino al ventre, composta come ad una riunione ufficiale: ormai assuefatta a tale atteggiamento, non abbandonava il proprio contegno nemmeno sola. I capelli biondi raccolti sulla nuca con uno spillone, la schiena spoglia – sorprendentemente priva di cicatrici – e dritta, le mani intrecciate sul ventre, sembrava quasi temere una visita improvvisa, mentre in realtà quella nicchia delle terme era riservata alle Autorità: la sua pace non sarebbe stata disturbata, poiché era l’unica donna in un collegio di uomini – prima in un collegio di uomini, pensò con un moto d’orgoglio.
Solo la sua allieva poteva talvolta accedervi, con il suo permesso. Era una di quelle occasioni.
Percepì la sua essenza avvicinarsi, calma ed imperscrutabile come le aveva insegnato ad essere, e poco dopo il rumore dei suoi passi regolari risuonò nel corridoio. Non vi erano porte, alle terme, ma la vasca di quella nicchia era sistemata in modo che dall’ingresso non si scorgesse nulla – riserbo concesso solo alle Autorità e, in un’altra sala, ai Censori. Perciò l’allieva si fermò rispettosamente prima dell’entrata, come avrebbe fatto con un uscio, e disse con voce distaccata: «Eccomi, maestra.»
Leliel si sciolse i capelli, che ricaddero fin oltre le scapole, nascondendo la mancanza di cicatrici alla schiena. Posato lo spillone sul pavimento asciutto, come se lo avesse tolto prima d’immergersi, la inviò ad entrare. L’allieva, con la pelle chiara e la chioma bionda umide, era avvolta in un telo bianco: prima di accedere alle sale con le vasche bisognava spogliarsi e sciacquarsi, per non portare polvere all’interno, anche se non si aveva intenzione d’immergersi.
«Hai terminato prima del previsto.» le fece notare Leliel, voltando appena il capo verso di lei.
«Gli Strateghi si sono mostrati molto disponibili nel fornirmi le informazioni di cui necessitavo.» esitò «Ho sbagliato nel venire a cercarti? Desideravi rimanere sola?»
«No, Sachiel, non temere. Il tuo zelo è lodevole.»
«Ti ringrazio, maestra.»
«Come ti sono sembrate le mansioni degli Strateghi?»
Un’altra esitazione, che l’avrebbe forse fatta sorridere divertita, se quelle continue incertezze non fossero state biasimevoli in un cherubino dal talento di Sachiel. Conosceva la sua allieva e sapeva già cos’avrebbe pensato nel vedere da vicino l’attività delle fasce indaco.
«Sono ammirata e onorata per l’esperienza e la serietà delle nostre guide.»
«Ma?»
La vide mordersi il labbro inferiore. L’avrebbe rimproverata per quella dimostrazione d’insicurezza, se l’argomento fosse stato meno importante; si ripromise, comunque, di farglielo notare una volta terminato il discorso.
«Ma... temo che non sia adatto a me. Non ritengo di essere abbastanza meticolosa e... pronta, per un incarico del genere.»
«Troppe responsabilità?»
«Sì.»
«Non per nulla, gran parte degli Strateghi sono Arcangeli – tutti i condottieri sul campo, almeno. Sono i più adatti a guidare. Mentre la tua essenza non sembra affatto predisposta a svilupparsi in un arcangelo, cherubino.»
Sachiel era una promessa di serafino – una grande, gloriosa promessa – ma preferì non dirglielo, volendo mostrarsi per il momento un’insegnante esigente e severa.
La giovane chinò il capo senza ribattere, mortificata.
«Non devi avere timore delle responsabilità, Sachiel.»
«Desideri che dopo il mio Sviluppo io chieda un apprendistato tra gli Strateghi, maestra? Mi stai dicendo questo? Perdonami, non capisco.»
«Desidero che tu non sprechi le tue potenzialità, ma non ho intenzione d’importi un ruolo per cui non ti senti adatta. Sei davvero sicura di non volerlo?»
«Sì, io... troppe decisioni, troppe responsabilità, non...»
«Sachiel, ti ho già chiesto più volte di parlare in modo chiaro. Non farfugliare così.»
«Chiedo perdono.»
Leliel represse a fatica un sospiro. Apprezzava l’evidente rispetto che Sachiel portava agli adulti – e a lei in particolare, in quanto sua insegnante e Autorità –, ma troppo spesso si traduceva in incertezza e timore. Non poteva certo farle notare che con i Cherubini parlava in modo più disinvolto, adatto ad un’allieva con le sue potenzialità, perché sarebbe stato come un invito a trattare gli adulti con troppa confidenza; a volte, però, avrebbe davvero voluto. Così insicura non avrebbe percorso molta strada, altrimenti, per quanto fosse talentuosa.
«Porgimi il telo, Sachiel, per favore.»
L’allieva si affrettò a raccogliere da terra il tessuto e a porgerglielo. Lei, alzatasi in piedi senza pudore – erano tra donne, in fondo, non c’era alcuno sguardo lascivo a cui doversi celare –, lo prese e se lo avvolse delicatamente intorno al corpo. Quando fosse stato asciutto, avrebbe stretto il seno nelle fasce che giacevano sul pavimento, poiché trovava sconveniente esibire le proprie forme, se non aveva le ali esposte che le impedivano di avvolgersi il torace con il tessuto.
Un tempo, prima che prendesse quell’abitudine, alcuni avevano insinuato che usasse il proprio corpo fin troppo attraente per corrompere i suoi superiori e avanzare di grado.
Divenuta Autorità, li aveva fatti punire uno ad uno per pensieri impuri – tanto che in molti si erano chiesti perché non avesse cercato un posto tra i Censori, se amava così profondamente accusare e condannare. Anche questi avevano poi pagato la propria mancanza di rispetto.
«Tra gli Strateghi potresti diventare grande, Sachiel.» le spostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita alla crocchia, con un contatto che poteva essere sia invito all’ordine sia una brusca carezza «Per un serafino, è il primo passo per divenire poi Censore, o Autorità.»
«Sono onorata che tu mi ritenga degna di ambire a tale ruolo, maestra.»
«Ma non sono queste le tue aspirazioni.» fece schioccare la lingua sul palato, contrariata «Perché vuoi sprecare così il tuo talento, Sachiel?»
«Non credo di essere in grado di... sostenere tutte queste responsabilità, maestra.»
«Crescerai. Maturerai.»
«Avrò tempo di aspirare a ruoli importanti una volta che sarò maturata, maestra.» le rispose con voce conciliante. Diplomatica, negoziatrice: sarebbe davvero diventata un ottimo serafino.
«A volte penso davvero che dovresti avere più ambizioni, Sachiel.» sospirò, senza più nascondere la propria disapprovazione.
Il cherubino chinò il capo, mordendosi il labbro – di nuovo. Le aveva ripetuto più volte di non farlo.
«Non volevo contrariarti, maestra...» esitò per l’ennesima volta, prima di dare voce al suo timore più pressante: «...o deluderti.»
«So che servirai sempre il Paradiso al meglio delle tue possibilità, e le tue possibilità non mi deludono, né mi deluderanno, se continuerai ad impegnarti.» si sedette su una delle panche addossate alla parete, frizionandosi la pelle con il telo «Il problema, Sachiel, è che la tua mancanza di fiducia rischia di fartele apparire minori di quanto siano in realtà. Se non t’interessano gli Strateghi, a cosa aspiri?»
«In realtà non lo so, maestra.»
«I Serafini hanno ampia scelta.» guardò in viso l’allieva, rispettosamente in piedi, composta, a qualche passo da lei «Eppure, in realtà, hanno le imposizioni più rigide. Non possiamo sprecare l’essenza di un serafino come Custode o Vegliante, o come Geniere, o... ma perché te lo dico? Tu non vuoi responsabilità.»
«Non voglio deluderti, maestra.» abbassò lo sguardo sul pavimento umido «E intendo assumermi le mie responsabilità – intendo servire il Paradiso al mio meglio. Temo solo di non essere pronta a guidare altre persone.»
Troppo insicura, troppo fragile. Come un effimero fiore della dimensione umana. Quanto sarebbe durata, dopo lo Sviluppo, senza più la sua protezione? Temeva di scoprirlo. Poteva solo sperare che il suo timore reverenziale verso gli adulti si attenuasse, una volta che Sachiel lo fosse divenuta a sua volta, o davvero sarebbe rimasta schiacciata dalle ambizioni altrui.
«Diverrai un serafino, Sachiel.» le disse con sicurezza, reprimendo a fatica un sorriso nel vedere la luce orgogliosa che all’improvviso le aveva ravvivato lo sguardo «Non perdo il mio tempo ad istruire un allievo perché si sviluppi in un angelo, né perché lui sprechi le sue potenzialità. Quindi, nonostante questa tua biasimevole insicurezza, diverrai un serafino. Questo è fuori discussione.»
«Sono onorata dalle tue parole, maestra.»
«Ma la strada di un serafino è segnata, che tu lo voglia o meno. L’apprendistato tra gli Strateghi e, ottenuta la fascia, l’insegnamento, per condividere il proprio sapere. Se hai la fortuna d’essere promettente, con l’esperienza puoi ottenere un posto tra i collaboratori delle Autorità o dei Censori – e infine nel loro collegio.»
«Hai... maestra, hai sempre detto che viene concessa a tutti la possibilità di scegliere.»
«Non se c’è la possibilità che un serafino compia la scelta sbagliata.»
«...dovrò divenire una Stratega?»
«I Serafini sono troppo pochi per permetterci di sprecarli: molti, molti meno degli Angeli, e persino meno degli Arcangeli. Ma gli Arcangeli, se non altro, sono per natura portati al comando e alla lotta; noi dobbiamo adattarci ad un ruolo che non sempre ci sembra quello adatto, invece. Essere un serafino è difficile, Sachiel, perché la nostra potenza è faticosa da gestire, ma soprattutto perché ci vengono richieste decisioni gravose. Sacrifici.»
«...dovrò divenire una Stratega?» ripeté, con evidente sforzo nel mantenere la voce ferma e neutra.
Leliel si alzò con un inutile sospiro. Fissò l’allieva, temendo ancora una volta per il suo futuro; poi, in una dimostrazione d’affetto che concedeva assai raramente, le sfiorò la guancia con la punta delle candide dita.
«Parlerò con i responsabili degli Esecutori Spirituali. So che cercano un apprendista.»
«Ti ringrazio, maestra.» mormorò l’allieva, gli occhi lievemente socchiusi per assaporare meglio il suo tocco, senza riuscire a mascherare la propria felicità con la dovuta apparenza distaccata. Per una volta, però, forse avrebbe potuto rinunciare a rimproverarla.
«Ma ultimamente hanno ben poche occupazioni. Si sta spostando tutto sul piano fisico.» allontanò la mano e tornò a sedersi, poggiando la schiena spoglia contro la parete «Perciò, Sachiel, potrai – dovrai – avere anche un’altra mansione.»
«Sì, maestra?»
«Preparati in fretta, va’ nella dimensione umana.» accompagnò le parole con un cenno imperioso della mano, incurante della confusione dell’allieva per quell’ordine improvviso «La sesta classe sta facendo lezione. Dovrebbe essere quasi il momento di dividere gli allievi, ognuno con un compagno del ciclo superiore. Cerca Cassiel, una femmina, lineamenti da orientale umana. Secondo gruppo, sotto la guida dell’angelo Tagas... a meno che non l’abbiano già spostata al quarto, dell’arcangelo Khamiel. Pensi di ricordarlo?»
«Cassiel, femmina, secondo gruppo, di Tagas, o quarto, di Khamiel. Nel caso di omonimie, quella con i lineamenti degli Umani d’Oriente.» ripeté Sachiel, nonostante lo smarrimento.
«Ottimo. Di’ al suo insegnante che ti ho ordinato io stessa di prenderla in custodia, nel caso sia già accompagnata da un altro allievo.»
«Posso chiedere cosa devo fare, maestra?»
«Osservarla. E comunicarmi, una volta tornata, se secondo te è pronta per la settima classe, o eventualmente anche per il ciclo superiore. Non badare troppo all’incarico che assegnerà l’insegnante al gruppo, ti concedo la libertà di metterla alla prova come preferisci – sempre nei limiti della vostra sicurezza e della discrezione, naturalmente. Non deve rendersi conto che è un esame.»
«Come desideri, maestra.» esitò, per l’ennesima volta «Ma... la seconda mansione di cui mi parlavi? Perdonami, non voglio insistere, ma temo di non aver capito ciò che intendevi.»
Leliel si preparò mentalmente a leggere la gioia sul viso di Sachiel, e non venne delusa, quando le disse: «Prima di accettarti come apprendista insegnante, preferisco metterti alla prova.»
«Ti... ti ringrazio, maestra.»
«Va’, ora.»
La osservò allontanarsi con forzata calma, la schiena spoglia rigida, le braccia lungo i fianchi.
...aveva dimenticato di rimproverarla.
Non che servisse a molto criticare le sue continue dimostrazioni d’insicurezza: lo faceva da quando l’aveva scelta come sua allieva – un tempo esiguo, rispetto alla durata media del ciclo superiore – e ancora non era riuscita ad estirpare quei gesti istintivi, come toccarsi i capelli o mordersi il labbro.
Nessuno dei Cherubini che aveva istruito si era mai mostrato così incerto; e dire che con i compagni Sachiel era invece così sicura, così orgogliosa. Ci rifletteva di continuo, eppure non era ancora riuscita a trovare un rimedio e l’allieva era ormai ad un passo dall’età adulta. Poteva non autorizzarla a svilupparsi, ma per quanto ancora? Il Consiglio le chiedeva sempre più spesso quando il cherubino sarebbe stato pronto. Se avesse ritardato troppo, in attesa che Sachiel maturasse, le avrebbero ordinato di concederle il permesso – un allievo non poteva tentare lo Sviluppo, senza l’approvazione del proprio maestro, ma all’insegnante si poteva imporre di acconsentire.
E i sussurri! Sachiel forse non li udiva, così ingenua, ma lei sì – lei vi era cresciuta in mezzo e poteva immaginare le parole delle serpi ancor prima che le sibilassero. Un cherubino così promettente, perché rallentare la sua gloriosa maturazione? Forse temeva che i Censori, nell’esaminare la sua allieva, vi trovassero qualche vizio? Forse non la riteneva abbastanza dotata da superare la prova? Forse sapeva che non sarebbe stata in grado di gestire la potenza di un serafino? Non sarebbe stata certo la prima volta. Come dimenticare quel traditore, unitosi ai Demoni appena dopo lo Sviluppo? E quello più recente, l’arcangelo apprendista Stratego, che non era stato nemmeno in grado di sopravvivere alla prima incursione nemica?
Ma d’altronde cosa ci si poteva aspettare da una donna come lei, senza cicatrici alla schiena? Da una donna così arida da non permettere nemmeno all’allieva di chiamarla per nome? Da una donna con sangue corrotto nelle vene, sangue sbagliato, sangue marcio? Il frutto non cade mai lontano dall’albero, dicevano gli Umani, e la loro saggezza popolare non aveva forse un fondamento di verità?
Nessuno ricordava i tanti altri Arcangeli e Serafini che aveva offerto al Paradiso, Guardiani, Strateghi, persino collaboratori di Autorità e di Censori. Nessuno pensava a come la loro Circoscrizione fosse divenuta più famosa e celebre, da quando vi era lei alla guida.
Permettere a Sachiel di non seguire la strada tradizionale, divenendo Esecutrice anziché Stratega, era un rischio; ma sarebbe stato un rischio anche imporle un ruolo che non sentiva adatto a sé, o ritardare il suo Sviluppo sperando che maturasse più sicurezza.
...in qualunque modo fosse andata, sarebbe stata un’altra macchia sulla sua reputazione.
E non poteva permetterlo, non ora che stava per essere esaminata per ottenere un incarico più influente. Se avesse affrontato degnamente la rovinosa situazione nella dimensione umana, avrebbe di certo ottenuto un ruolo come collaboratrice del Consiglio; e, quando uno dei suoi membri avesse rinunciato alla carica, avrebbe potuto prendere il suo posto. Il più giovane serafino entrato a far parte a tutti gli effetti dell’assemblea più influente di tutte le Circoscrizioni; la prima donna che avesse conquistato quel ruolo seguendo il lungo percorso stabilito dalla burocrazia, senza che le fosse assegnato per la sua appartenenza agli Antichi.
Poteva solo sperare che l’allieva compisse le scelte giuste e non disonorasse la sua già compromessa fama di ottima insegnante – o che la nuova che aveva individuato, Cassiel, si sviluppasse tanto in fretta e tanto gloriosamente da oscurare anche il fallimento di Sachiel.
Non aveva per nulla bisogno di un’altra macchia sulla propria reputazione.

* * *

Bruciava. Dentro. Tante piccole unghie bollenti affondate in lei, nel suo corpo, nella sua testa. E un artiglio gelido a lacerarla. Uno stridio la stava assordando, ma non poteva essere ancora l’essenza di Anane, perché ormai le Percezioni erano abbandonate nel nulla e c’era solo quel dolore assurdo e incomprensibile. Qualcosa che la stava trascinando verso di sé a costo di strapparla in due – e lo stava facendo, la stava strappando.
Faceva... male.
«Madre... madre, cosa facciamo?»
«Aspettiamo, cara. Prima o poi smetterà.»
«Ma...» un singhiozzo, poi una mano le accarezzò il viso «Amitiel...»
«Cara, non piangere. Sai che m’infastidisce.» un sospiro «Oh, Sephon, eccoti. Temevo di doverti richiamare fino al tramonto.»
A fatica aprì le palpebre. Era in piedi, notò: Anane la sosteneva tra sé e un tronco d’albero, come una marionetta inerme. Il viso del cherubino, ad un soffio dal suo, era alterato e in lacrime per la preoccupazione. Ai margini del suo campo visivo, un uomo piuttosto esile sembrava parlare da solo – con Eisheth, a quanto aveva capito, ma non riusciva a vedere la donna.
«Madre, ha aperto gli occhi.» esclamò Anane, ricevendo una risposta disinteressata, di cui Amitiel non capì la provenienza. Dov’era il demone?
«I Custodi passeranno ogni cinque tramonti.» disse riflessiva Eisheth, o qualcuno che aveva la sua voce «Ci serve che manchino un controllo, cinque non basteranno, con lei in queste condizioni. Pensi di riuscire a celarci per dieci tramonti, Sephon?»
«Dipende dal numero.»
«Di me non devi preoccuparti... solo di Michael. Pensi di farcela? Sì? Anane, richiamalo allora, o farà una scenata da ragazzina isterica, se scoprirà che la sua cara Amitiel è stata male e noi non lo abbiamo chiamato subito.»
«Perdonami, Eisheth, ma in questa forma la tua Influenza è molto... ridotta.» l’uomo si schiarì la voce, incerto «Sei sicura di poterla esercitare bene sui Custodi?»
«...forse hai ragione. Chiama... Liwet, ha un’essenza piuttosto esile, riuscirai a celare anche lei, sì?»
L’uomo dispiegò le rosse ali da demone e si alzò in volo, sgusciando tra le chiome degli alberi.
Un altro strappo a lacerare la pace che Amitiel aveva quasi trovato. Le sfuggì un gemito.
«Tranquilla, cara, passerà tra poco.» la rassicurò la voce di Eisheth con una risatina.
Lei si guardo intorno, ma ancora non la vide. Stanca, si liberò dalla stretta di Anane e si lasciò scivolare lungo il tronco, ad occhi chiusi, fino a trovarsi rannicchiata tra le radici nodose.
«Su, su, tesoro.» ridacchiò la voce di Eisheth, vicinissima.
Non capì se fosse diretta a lei o ad Anane, ancora piangente, ma il suo fiato – letteralmente – sul collo la fece rabbrividire come se le avesse sussurrato una minaccia. Sollevò le palpebre di scatto.
...un bambino?
Un’altra fitta le fece chiudere gli occhi.

* * *

«Oh, finalmente. Iniziavo a temere che la tua essenza non si stancasse più di agitarsi.» ridacchiò Eisheth «Ma cosa pensavi di fare, sciocchina, con quelle Percezioni così estese? Non sei un po’ troppo immatura per cercare qualcuno in questo modo?»
Sospirò, esausta. Aveva smesso di soffrire, non udiva più quello stridio assordante, né provava più quegli strappi a... a qualcosa, dentro di sé, che ancora non era riuscita a identificare. Però si sentiva stanca, e... irritata? Non riusciva a definire bene il vago fastidio che serpeggiava in lei, ma c’era e questo bastava. Non aveva bisogno di un motivo preciso per sentirsi nervosa.
«Cara, posso capire che tu tenga gli occhi chiusi, è una reazione naturale, ma non mi nascondi comunque l’essenza, è inutile. Perciò, da brava, metti a tacere l’istinto e apri gli occhi. Parlare con qualcuno che non mi guarda è francamente molto irritante.»
...quella voce. Così ipocrita, così leziosa, così falsamente materna. Spalancò le palpebre, infastidita, ma ammutolì ancor prima di trovare qualcosa da sbottare.
Non era stato uno scherzo della sua mente confusa, prima: quello che aveva davanti era effettivamente un bambino. Il bambino che, nel vicolo, sembrava fissare lei e gli altri Angeli, non il gatto sofferente. Il bambino, forse, che nella pianura saltellava lontano, all’orizzonte, lungo una circonferenza che aveva lei come centro.
«Possessione.» le spiegò quel fanciullo dalla voce di donna, con un largo sorriso «Un giochetto molto carino, sì? E molto discreto, se fatto bene. Quei Custodi non si sono nemmeno accorti di me.»
«Anane?» mormorò, senza trovarla accanto a sé. Preferì ignorare l’inquietante giochetto di Eisheth.
«L’ho mandata da Sephon a concordare gli ultimi dettagli. Stava diventando davvero fastidiosa, la sua immotivata preoccupazione.»
«...Michael?»
«Arriverà. Se non fosse stato trattenuto, sarebbe stato qui prima di me, conoscendo la sua impazienza.» commentò, con l’ennesima risatina irritante «Oh, penso sia arrivata Liwet ad influenzare i Custodi. Si stanno allontanando. Nonostante lo scherzetto della tua essenza, pare che stia andando tutto bene, sì?»
«Cos’è successo?»
Cos’era quel dolore assurdo?’ avrebbe voluto chiedere, ma preferì mantenersi neutra.
«È successo che i giovani si sopravvalutano sempre.» avvicinò il viso tondo da bambino per schioccarle un bacio sulla fronte «Hai esteso troppo le Percezioni, sciocchina. Troppo sforzo per un’essenza troppo immatura. Ma ora è passato, sì?»
Senza attendere risposta, si voltò e saltellò tra gli alberi, canticchiando qualcosa. Era così irritante. La trattava con una confidenza offensiva, con una falsità nauseante, con... con un comportamento da Eisheth, non trovava altra definizione.
Ringhiò, infastidita, provocando una risata del demone.
«Anane è prossima allo Sviluppo, te l’ha detto?» le chiese quello, tornando vicino a lei.
No, si rese conto Amitiel. Non gliel’aveva detto. Non avevano avuto molte possibilità di parlare, di recente, però... però Eisheth lo sapeva e lei no. Lei, che si considerava come una sorella – sì, erano tutti fratelli, però loro due lo erano un po’ di più. Lei, che era sua amica. Perché Anane non le aveva detto una cosa così importante? Perché doveva saperlo quella donna insopportabile, mentre lei ne era all’oscuro?
Si sentiva messa da parte. Offesa.
«Mi è mancata tanto, sai?» mormorò Eisheth, annuendo con espressione esageratamente triste «Ma finalmente mia figlia potrà cadere. Sperando che non sia ingrata quanto suo fratello... un caduto.» sbuffò «Un caduto. Dopo tutto quello che ho fatto per lui, poteva almeno diventare un demone, sì? Ma sono sicura che Anane sarà più riconoscente. Prossima allo Sviluppo! Quasi non ci credo. Mi sembra un attimo fa che aveva ancora gli squarci sanguinanti... Come passa in fretta il tempo, per le madri che vedono crescere i figli, sì?»
Non poteva essere sua madre. Non davvero. Non esistevano nemmeno più, le madri. C’era solo il Fuoco della Venuta. Perché quella donna intollerabile cercava di turbarla in quel modo? Possibile che si divertisse nel confonderla?
...era un demone. Naturale che si divertisse.
«Diventerà di certo un angelo... povera cara, la sua mancanza di talento è davvero desolante. Ma tra i Demoni non avrà problemi.»
«Come puoi essere sicura della sua Caduta?» le chiese, mossa dal bisogno di sfidare quelle convinzioni, quella confidenza, quella possessività di Eisheth nei confronti di Anane «Ha aspettato fino ad ora, perché non potrebbe rimanere in Paradiso?»
«Oh, sciocchina, sei davvero divertente.» il bambino saltellò attorno all’albero contro cui era seduta, ridendo «Per lo Sviluppo, non è ovvio?»
Amitiel soffocò a malapena un ringhio. Non capiva – le mancava qualcosa per comprendere, lo sapeva lei e lo sapeva anche Eisheth, ma non si degnava di spiegarle nulla. E come si permetteva di trattare Anane come un oggetto, come poteva essere così sicura che fosse sua, mentre era libera di decidere se cadere o no, se diventare un demone o un caduto, se... se restare con lei in Paradiso o abbandonarla. Ma non avrebbe mai scelto di abbandonarla, quindi Eisheth si sbagliava. Doveva sbagliarsi.
Il bambino si fermò di fronte a lei con espressione delusa, smettendo di ridere e abbandonando le mani lungo i fianchi. Mormorò: «...oh. Non è ovvio.»
«No.» ringhiò «Evidentemente no.»
«Non insegnano più il rispetto, in Paradiso? Sei fortunata, cara, che non voglia sopportare gli strepiti di Michael. Altrimenti in questo momento ti starei strappando la sanità mentale... e non solo quella.»
Il tono con cui lo disse, senza una reale inflessione minacciosa, ma anzi quasi divertito, complice, la fece rabbrividire. In special modo quando, a metà della frase, studiò le proprie unghie rosicchiate con sguardo critico.
«Non è ovvio.» mormorò, allarmata e all’improvviso più rispettosa «Potresti spiegarmelo?»
«Così va meglio.» annuì soddisfatta e tornò a saltellare tra gli alberi, alzando la voce per farsi sentire anche a distanza «Per lo Sviluppo, sì? Un cherubino non può cadere.»
«...davvero?»
«Be’, in realtà può, ma non è una vera e propria Caduta. L’essenza dei Cherubini è troppo immatura per mutare in quella di uno sconsacrato.»
«Un cherubino caduto rimane un angelo?»
«No.» rise il demone.
Amitiel aspettò che aggiungesse qualcosa, ma ottenne solo un’altra risatina. Eisheth si stava divertendo a confonderla volutamente, si rese conto con rabbia. Ma aveva bisogno di comprendere, perciò trattenne le emozioni e ammise: «Non capisco.»
«L’essenza di un cherubino non è né angelo né sconsacrato.» le spiegò finalmente «È immatura, indefinita, ambigua. Persino il suo colore muta spesso – di solito è rossa, come le ali, ma... oh, sapessi che spettacoli ho visto, a volte.» mosse le mani in ampi gesti, entusiasta «Bianche. Nere. Grigie. E anche violacee, bluastre, ocra... spesso, prima dello Sviluppo, assume il colore della fascia che poi si indosserà. O meglio» schioccò la lingua sul palato con espressione saccente «il colore della fascia è lo stesso dell’essenza, non il contrario. Sono state scelte in base a questo, le varie tonalità, lo sapevi?»
«...lo Sviluppo di Anane.» mormorò, esausta. Trattenere l’irritazione le costava davvero molta dell’esigua energia rimastale.
«Oh, sì, cara, hai ragione. Be’, subito dopo lo Sviluppo cadrà, è ovvio. E diventerà di certo un demone... anche se la transizione è un po’ più dolorosa, è di certo un ruolo migliore per lei... come caduto davvero non sarebbe per nulla adatta, sì?»
«Ha aspettato fino ad ora. Magari vorrà rimanere in Paradiso.»
«Non dire sciocchezze, cara. Se ha aspettato fino ad ora, è per lo Sviluppo, non per altro.»
Non per te.
«Ma che importa se l’essenza di un cherubino non può marcire? Avrebbe potuto cadere comunque, se avesse voluto, ma non l’ha fatto.»
«Solo perché è una codarda.» ridacchiò «Lo Sviluppo, senza il Fuoco, è molto più doloroso. Teme di soffrire, per questo.»
Non per te.
«...lo Sviluppo è doloroso?»
Non sapeva nulla dello Sviluppo: ai Cherubini troppo immaturi non veniva permesso di assistervi, per non turbarvi, dicevano gli adulti. Questo avrebbe dovuto farle venire qualche dubbio, effettivamente.
«Mettiamola così, ignorantella.» sospirò Eisheth, in tono esasperato «Se dovessi perdere le piume ancora rosse, distruggere organi inutili, svilupparne altri, riformare tutto il sangue perso, irrobustire le ossa... non saresti la persona più serena e tranquilla mai esistita, sì?»
Rabbrividì. Era questo, lo Sviluppo? La distruzione di un corpo perché potesse rinnovarsi?
«Questo con il Fuoco, naturalmente – rende il tutto meno traumatico, meno doloroso. E... oh, forse questo non dovrei dirtelo, potrei turbarti.»
«Che cosa?» chiese, incapace di trattenersi.
Eisheth sorrise di nascosto, un ghigno che mal si addiceva al corpo infantile che stava manovrando.
«Senza il Fuoco, è anche più violento – l’essenza si sente esposta, in pericolo, e reagisce con più rapidità. Le piume cadono, quasi strappate. Gli organi non si consumano, ma vengono rigurgitati uno ad uno... anche quelli che, in condizioni normali, non comunicano con la gola. Delle lacerazioni spaventose. Gli organi da adulto ricrescono così in fretta che spezzano le ossa attorno a sé, a volte... hanno funzioni diverse da quelli dei Cherubini, e anche dimensioni, posizioni. Un vero massacro.» sgranò gli occhi chiari del bambino «Vogliamo parlare delle ossa? Devono ispessirsi, irrobustirsi... specialmente nel caso di Arcangeli e Serafini, per le ali, sì? Lacerano la pelle, le membrane, tutto ciò che si oppone alla loro crescita. Spesso gli stessi organi che prima le avevano spezzate.»
Amitiel serrò gli occhi, atterrita. Non aveva idea che fosse così spaventoso.
«Oh, non preoccuparti, cara. Senza Fuoco dello Sviluppo, spesso l’essenza... bara, possiamo dire così.» annuì compita «Si sviluppa in arcangelo, perché è il corpo che meglio può sopportare tutto questo dolore. Peccato che non tutti possano gestire la potenza degli Arcangeli... spesso chi non è adatto finisce ammazzato al primo scontro, o consumato dalla propria stessa essenza. Hai mai visto una persona morire consumata? No? Oh, è davvero uno spettacolo te-»
«Eisheth.»
Amitiel sussultò. Non aveva minimamente avvertito Michael avvicinarsi, o atterrare a qualche passo di distanza da loro due: la sua voce la colse impreparata, facendole alzare lo sguardo di scatto verso di lui, che però fissava Eisheth, furioso.
«Le spiegavo, Michael.» si giustificò quella con un ghigno «Me lo ha chiesto lei.»
«E tu perché le fai certe domande?» ringhiò al cherubino «Non l’hai capito che si diverte, a-» si bloccò e sgranò gli occhi «Cosa cazzo hai fatto all’essenza?»
«Su, Michael, non aggredirla, non è certo colpa sua.» ridacchiò Eisheth.
Li udì discutere – il demone divertito, il caduto furioso – ma non li ascoltò, esausta.
Voleva solo andare via. Parlare con Anane, magari, e chiederle se quello che diceva sua madre era vero, se sul serio era rimasta in Paradiso solo per lo Sviluppo e non perché c’era lei. O forse solo dormire, ma dormire del sonno degli Angeli, senza sogni, non di quello popolato di incubi che talvolta doveva subire.
Lontano da quella donna crudele che si divertiva a spaventarla e nausearla e ferirla, lontano da Michael che le ringhiava contro e la fissava con occhi furiosi – e tutte le domande che aveva, tutti i dubbi, tutti i pensieri sparivano in confronto all’enorme stanchezza che la stava invadendo.
Era... ferita. E sfinita. E offesa. E delusa. Era troppe cose insieme, che non facevano altro che confonderla ancora di più.
Voleva avere scelta – e avrebbe scelto senza dubbio di fuggire, in quel momento. O di non aver mai incontrato nessuno degli Sconsacrati... magari nemmeno Anane.
Non si accorse che Eisheth se n’era andata, saltellando tra gli alberi, finché le mani di Michael non la costrinsero ad alzarsi, rudi. Si ritrovò a fissare i suoi occhi grigi, ardenti di rabbia.
«Cos’hai fatto all’essenza?» le ringhiò ad un soffio dalle sue labbra, affondando le unghie nelle sue spalle.
Le ali reagirono con un violento fremito che lacerò la pelle irritata attorno all’attaccatura, così che gli squarci stillarono gocce di sangue bianco che le imbrattò la divisa. Soffocò un gemito.
Era stanca. Perché non lo capiva? Perché non la lasciava in pace?
Voleva avere scelta – fuggire, dimenticare, riposare.
Gli occhi grigi che la fissavano furiosi, però, le dicevano che non l’aveva: lei era stata scelta e, per questo, si trovava incatenata a quell’uomo di cui in realtà non conosceva nulla. Per cosa stava tradendo il Paradiso, lei? Per cosa l’aveva tradito? Per qualche informazione, per qualche risposta, per qualche attenzione? Per ritrovarsi poi con le sue unghie affondate nella carne, gli squarci doloranti, la testa pesante e una domanda ringhiata come una minaccia?
Voleva fuggire dimenticare risposare.
Ma non aveva scelta, perché era stata scelta.





***
Angolo autrice
Come sempre, grazie a chi ha inserito la storia in una delle tre liste e in special modo a chi commenta! Consigli, critiche e commenti sono sempre ben accetti (:
Spero che questa versione di Leliel non vi dispiaccia u.u Ha anche un cuore, quella donna - sepolto molto in fondo. Se qualcuno si stesse interrogando sull'effettiva utilità della scena, posso solo dire che alcuni personaggi vanno introdotti lentamente, mostrandoli a piccoli sprazzi. Ognuno ha il suo ruolo e il suo modo di adempirvi.
Una nota sul "Cosa cazzo hai fatto all'essenza?" di Michael. Può sembrare un modo di parlare troppo attuale e per questo ho avuto qualche dubbio sull'inserirlo, ma ogni lingua ha le sue imprecazioni, anche la loro. Mentre un angelo non avrebbe di certo usato un termine simile, qui sta parlando un caduto, per giunta piuttosto alterato; sul fatto che Amitiel capisca la parola, quando invece non avrebbe mai dovuto nemmeno sentirla... be', è amica di Anane. Questo spiega tutto.
Grazie ancora e a domenica prossima! (:

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Capitolo 15
*** 14. Tradimento ***


Capitolo 14 – Tradimento





Piangeva.
No, lacrimava: minuscole gocce dolcissime le scorrevano sulle guance, tiepide, ma era una reazione puramente fisica, istintiva, per la rabbia e la stanchezza e il dolore alla schiena sanguinante. Non aveva intenzione di mostrarsi più debole di quanto già non apparisse – la dignità e l’orgoglio non le mancavano, o almeno così le piaceva pensare.
«Smettila. Sono già abbastanza irritato.» le ringhiò Michael, affondando di più le unghie nella carne delle sue spalle. Le sue taglienti piume da arcangelo vibrarono quando irrigidì le ali, chiuse attorno a loro, così vicine da rischiare di ferirla.
Lei, in risposta, voltò il capo per non dover fissare quegli occhi grigi, furiosi, ma continuò a sentirli addosso, come una violenta stilettata di disagio e malessere.
Il caduto la lasciò andare all’improvviso, quasi con una spinta, facendola sbilanciare, ma la strattonò per un braccio prima che cadesse. Le voltò le spalle e mosse qualche passo rigido, calcando i piedi nudi sul terreno come se volesse frantumarlo; poi sospirò, rilassò le spalle e ritirò le ali, lentamente. Amitiel poté vedere con disgustosa chiarezza le ossa e le piume nere ritrarsi nella schiena, scomparendo poco a poco: al loro posto non rimasero che due larghe lacerazioni nel tessuto scuro della maglia e due cicatrici bianche sulle scapole del caduto.
C’era un motivo se, di solito, il processo era estremamente più rapido: vederlo era davvero nauseante.
Sperò di non doverlo mai fare. Tutti le assicuravano che era indolore, ma rimaneva disgustoso e innaturale – piuttosto che essere obbligata ad impararlo, non sarebbe mai passata al ciclo superiore. Pura illusione, lo sapeva, ma preferiva illudersi che pensare a quello... quello schifo.
Michael si voltò e le si avvicinò di nuovo, in apparenza più calmo. Lei cercò di indietreggiare, ma il tronco d’albero a cui prima si era appoggiata la fermò dopo un passo, dolorosamente premuto contro le sue ali rosse.
«Sei danneggiata?» mormorò il caduto, allungando una mano per sfiorarle una spalla. Là dove le sue dita erano affondate con violenza, il tessuto – più resistente rispetto alle stoffe umane – non si era lacerato, ma era ancora sgualcito; lo lisciò con un gesto lento, lieve, rassicurante.
«Gli squarci.» gli rispose senza guardarlo «E mi fanno male le spalle.»
Non si scusò. Con un sospiro, le chiese: «Ora mi spieghi cos’hai fatto all’essenza, o vuoi aspettare nove tramonti? Abbiamo poco tempo, non sprecarlo.»
Nove? Si guardò intorno. Era vero: un tramonto era già passato, la notte era scesa ad ammantare il mondo di ombre che i suoi occhi inumani percepivano appena. Nell’agonia non si era resa conto del tempo che passava; dopo, era stata troppo confusa per accorgersi della falce di luna che s’intravedeva tra le chiome degli alberi, o dell’alone scuro che ricopriva tutto.
La mano che le accarezzava una spalla si fece più pesante. Michael la scosse leggermente, con delicatezza; sembrava quasi una persona diversa dall’arcangelo furioso di poco prima.
«...non te l’ha detto Eisheth? Ho esteso troppo le Percezioni.» mormorò, a disagio per quell’errore così grossolano. L’insegnante non si era nemmeno raccomandata di evitarlo, perché era ovvio che non dovessero farlo. E lei, naturalmente, lo aveva fatto.
«Stronzate. Sforzarsi non riduce l’essenza in questo stato.»
«Ma ho solo esteso le Percezioni, nient’altro. Mi sono concentrata e... e ha fatto male.»
Se non era stato quello, cos’altro poteva averle provocato quel dolore? Succedeva quasi ogni volta che estendeva le Percezioni, come se la sua essenza si spingesse sempre troppo in là; la dimensione umana l’aveva amplificata, ma era sempre la stessa sensazione di strappo, di lacerazione. Doveva saperne la causa, perché altrimenti non avrebbe potuto evitarla – e non voleva ripetere l’esperienza, davvero. Se in Paradiso era sopportabile, un’unica volta nella dimensione umana le era bastata. Con una seconda temeva di impazzire.
La mano gelida di Michael risalì lungo il suo collo nudo, nella versione più delicata della stretta con cui le aveva bloccato il respiro, all’inizio dell’incontro precedente. Amitiel non riuscì a reprimere un fremito allarmato delle ali, tormentando ancor di più gli squarci alla schiena; inclinò il capo per sottrarre la gola al suo tocco, senza guardarlo in viso, ancora stanca e irritata.
Michael riteneva una stronzata la sua risposta? Che ne trovasse una lui. Doveva sapere come evitare quel dolore assurdo, doveva.
«Sei offesa?» le chiese in tono neutro – non una preoccupazione, ma una semplice perplessità.
«Mi hai fatto male.» sibilò, muovendo un passo di lato, perché il tronco d’albero non le impedisse più di indietreggiare. La mano del caduto, tornata a stringerle una spalla, non le permise di allontanarsi di più.
«E tu hai l’essenza più lacerata che abbia mai visto.»
Le agguantò il mento, costringendola con poca delicatezza a fissarlo in viso. Lei avrebbe chiuso gli occhi pur di non incontrare i suoi, ma le parve un gesto troppo infantile, perciò sostenne il suo sguardo grigio con quella che sperava fosse un’espressione dignitosamente risentita.
«E quindi?»
«Mi irrita essere venuto a saperlo così tardi.»
«Non è dipeso da me.»
«Oh, giusto, tu stavi... estendo troppo le Percezioni, vero?» commentò, la voce grondante ironia.
«Se non è stato quello, allora cosa?» ringhiò «Succede solo se estendo le Percezioni.»
«...non ho mai visto niente di simile. Ma ti assicuro che sforzarsi troppo non produce effetti così... devastanti. Dovrai trovare il modo di spiegare questi danni al tuo insegna-»
«Mia.» lo corresse d’istinto, aggiungendo poi, alla sua occhiata perplessa: «Alla mia insegnante. È una donna. Ramiel.»
Lo sguardo di Michael si fece distante, come se non la stesse guardando davvero. Le sue labbra scandirono quel nome senza darvi voce, come un pensiero o un ricordo ritenuto ormai lontano, di cui non riteneva possibile il ritorno: aveva bisogno di renderlo concreto in qualche modo, per credervi.
«E comunque» mormorò Amitiel con voce acuta, incurante di sembrare polemica o infantile, pur di spezzare quel silenzio «se nessuno ti ha avvisato, o se stavo male, non è colpa mia.»
Gli occhi del caduto tornarono penetranti, severi, e quasi si pentì di averlo riscosso.
«Tu non hai migliorato la situazione.» ringhiò, spingendola di nuovo contro il tronco – non violentemente, ma abbastanza forte da farla sussultare per il dolore alla schiena.
«Io non ho fatto niente.»
«Tu hai fatto domande a Eisheth.» sibilò ad un soffio dal suo volto, con voce vibrante, furiosa «Non capisci. È capace di farti impazzire, quella donna. Di farti star male. Le sue parole sono veleno.»
«Perché dovrebbe?»
«Perché è un demone, non una tenera fanciulla che si diletta in opere di carità.»
«Lo diventerà anche Anane?» chiese d’impulso, atterrita dall’idea che la sua migliore amica si trasformasse in una persona simile.
«Non sono nella mente di Anane.» le fece notare con un’occhiata ironica «Né ho il dono dell’onniscienza.»
«Ma quindi quello che ha detto Eisheth potrebbe anche non essere vero, giusto?»
«Immagino che, se sapessi cosa ti ha detto, potrei darti una risposta.» sospirò, esasperato. Poi, notando l’urgenza e la stanchezza nei suoi occhi nocciola, aggiunse in tono più pacato: «Spiegami. E siediti, prima di collassare.»
Amitiel si lasciò scivolare a terra, senza poggiare la schiena contro l’albero. Sentiva la disgustosa consistenza del sangue scivolarle tra le scapole, colando sul corpetto che le cingeva la schiena poco più sotto. Il dolore, almeno, iniziava ad attenuarsi.
Michael rimase in piedi, a guardarla dall’alto, con rare occhiate distanti che si perdevano nel nulla. Ascoltò il suo racconto in silenzio, senza interromperla nemmeno con un sospiro o una risata; se il viso lasciò trapelare qualche emozione, lei non poté vederla, troppo intenta a fissare il terreno.
«È vero.» mormorò infine il caduto, lo sguardo di nuovo distante «Tutto.»
«Quindi Anane...»
«Anane è rimasta in Paradiso nonostante fosse un rischio. Un rischio enorme. Per quanto possa essere codarda, immagino che la paura dello Sviluppo non sarebbe bastata, da sola.» soppesò per qualche istante le parole successive «Ma se vorrà cadere subito dopo lo Sviluppo o no, non posso saperlo. Non è nemmeno una cosa che dipenda totalmente da lei.»
«...no?»
«Ignoranza spaventosa.» commentò «Ma cosa v’insegnano? A intrecciare ghirlande?»
«Devo ridere?» sbuffò, infastidita.
«L’essenza dei Cherubini è neutra. Eisheth te l’ha spiegato, vero? Ecco. Un cherubino potrebbe tradire il Paradiso, ma la sua essenza non ne verrebbe influenzata troppo. Non sarebbe evidente come per un adulto, anzi, a volte è quasi impossibile da notare – come nel caso di Anane. In realtà non si tradisce, perché non si appartiene agli Angeli più di quanto si appartenga agli Sconsacrati.»
«Quindi un... un cherubino potrebbe tradire e non venire scoperto?»
La ignorò. «I Cherubini, proprio per questo, possono sopportare il contatto con gli Sconsacrati meglio degli adulti: la vostra essenza non entra istintivamente in conflitto con la nostra.»
«Potrebbero esserci dei traditori, allo Specchio? Potrebbero continuare a vivere normalmente fino al loro Sviluppo?»
«Sfortunatamente, i Cherubini non sono tenuti troppo in considerazione, vero? Siete così tanti che uno in più, uno in meno... che sarà mai?» rise, amaro «I Censori non hanno il tempo di controllarvi. Lo fanno solo una volta, prima di concedere lo Sviluppo, ma... se sei un nessuno – e Anane lo è – potresti essere infido e traditore quanto una serpe, e loro non sarebbero abbastanza attenti da accorgersene. Diverso se la tua essenza è più promettente, se sembra volersi sviluppare in arcangelo o serafino, ma-»
«Quindi potrebbero esserci dei traditori ancora non scoperti?»
«Ma» ringhiò, irritato «questo non è il caso di Anane, perciò non preoccuparti. Al massimo si preoccupano gli insegnanti dell’integrità degli allievi, ma non sono presi troppo sul serio nemmeno loro, vero? A meno che non siano particolarmente potenti. Ma questo, come sempre, non rientra nel caso di Anane.»
«E quindi-»
«Ti ho risposto, Amitiel.» le gettò un’occhiata gelida «Lieto che tu faccia domande, ma impara a recepire la risposta, o è inutile. Se hai la fortuna che qualcuno ti spieghi, almeno ascolta.»
Non trovò nulla da ribattergli. Quella ricerca di conferme era puerile, lo sapeva – e insensata. L’importante era che Anane fosse rimasta al sicuro fino ad allora.
Lei, ancora, si riteneva fedele al Paradiso – ancora s’illudeva di non aver tradito.
«...quindi?» mormorò Amitiel, quando il caduto non accennò a continuare.
«Quindi Anane non sarà in pericolo fino allo Sviluppo.»
«E poi?»
Parve infastidito. «Non sono Naamah. Non ho il dono della divinazione.»
«Ma... in generale... cosa potrebbe accadere?»
«Vi hanno spiegato almeno la Caduta, vero?»
«È la scelta dei traditori, o... una punizione per colpe troppo gravi per la semplice Espiazione, ma non abbastanza per la Scomparsa. O per il Ritorno.»
Ad una fugace occhiata, le sembrò che Michael si fosse irrigidito.
«Scelta non è il termine giusto. Non sempre siamo noi a decidere.» la corresse «È la nostra essenza, spesso – quando ha già iniziato a marcire, non può sopportare il Paradiso. Cerca di sfuggire al dolore e l’unico modo che trova è cadere.»
«Anane allora potrebbe cade-»
«Mi ascolti, quando parlo?» ringhiò «, l’ho appena detto.»
«Volevo solo... essere sicura.»
Voleva che le dicesse che no, Anane non sarebbe stata obbligata a cadere. Che avrebbe potuto rimanere con lei, lontana da quella donna crudele che si definiva sua madre, dai pericoli della dimensione umana, dall’orrore degli Inferi.
Ma Michael non sembrava disposto ad accontentarla – a mentirle.
Scese il silenzio, un silenzio di cui le loro percezioni alterate non avrebbero saputo quantificare la durata; un istante o un secolo, mentre la mente scivolava verso la calma. Così, quando il primo raggio di sole giunse a sfiorarle la mano, Amitiel non seppe se esserne stupita o se invece avrebbe dovuto aspettarselo.
«L’alba.» mormorò.
«L’alba.» convenne Michael con voce bassa, malinconica. Stanca.
Il cherubino alzò il capo verso l’alto per guardare il cielo: non era più terso e limpido come nelle giornate precedenti, ma nell’azzurro s’intravedevano le macchie biancastre di diverse nubi, tra le chiome degli alberi. Secondo ciò che aveva studiato, la temperatura avrebbe dovuto essere più fresca, poiché il sole era un po’ coperto. Non riuscì comunque a percepire alcuna variazione degna di nota.
Si alzò in piedi e mosse qualche passo, gli occhi ancora puntati verso l’alto, alla ricerca di uno stralcio di cielo più ampio degli altri.
Sentì Michael avvicinarsi e si tese, a disagio, ma lui si limitò a rimanerle alle spalle, il petto a contatto con le sue ali rosse e il capo reclinato verso il suo. Il caduto inspirò piano e mormorò, contrariato: «Non hai usato gli oli, sui capelli. Non hanno odore.»
Amitiel represse una risata, perché erano le stesse parole di Anane, ma dubitava che lui avrebbe apprezzato saperlo. Non sembravano essere in ottimi rapporti.
L’uomo si scostò appena per scioglierle la treccia e affondarle le dita tra i capelli, districando le ciocche con movimenti lenti, come a sancire una tregua dopo i ringhi irritati dell’uno e le domande insistenti dell’altra. Lo lasciò fare, suo malgrado rilassata da quel gesto che iniziava a diventare familiare.
«Ti piace la dimensione umana?» le chiese Michael dopo un po’, richiamando la sua attenzione.
«Non lo so. È un po’ stancante, ma mi piace il cielo di qui. Il sole, il tramonto, l’alba.» si morse il labbro inferiore, con un fremito per ciò che stava per dire, aperta ribellione a ciò che le avevano insegnato «Non sono sicura di amare i suoi abitanti, però.»
Il respiro gelido di Michael la fece rabbrividire, quando si chinò a sfiorarle la tempia con le labbra.
«Spiegami. Puoi dire quello che pensi, con me. Non temere.»
«Io... non lo so, quello che penso. Non capisco. So che non dovrei disprezzarli, che non è colpa loro questa debolezza verso il male, ma-»
«Amitiel.» la richiamò con un sospiro infastidito, cingendole il ventre con le braccia, in un contatto lieve e rassicurante «Parli con un caduto, immagino che tu te ne renda conto, vero? Non c’è bisogno che ti giustifichi, se non sei d’accordo con le balle che ti hanno insegnato. Non ti minaccerò dell’Espiazione per aver osato esprimere un tuo parere.»
Era troppo, per lei. Troppo orrore, al ricordo del gatto massacrato dai bambini; troppo sollievo e al contempo impacciata insicurezza, nel sentirsi dire che poteva esprimersi liberamente; troppo turbamento strano, sconosciuto, simile ad un brivido caldo che saliva dal ventre alla schiena, per quel contatto così intimo e piacevole.
Le sfuggì un singhiozzo.
«Hanno... massacrato un gatto. Dei bambini. Lo stavano uccidendo.» mormorò «Mi sono sporcata del suo sangue. Avrei voluto che fosse il loro.»
«Tu stai bene? Sei caduta, ti sei ferita? Gli squarci?»
Non seppe se sentirsi infastidita per quella mancanza di considerazione verso il suo turbamento, o se piuttosto dovesse essere lusingata dall’attenzione che le dedicava. Optò per un neutro: «Niente. Solo quando... quando ho esteso le Percezioni, sono stata male. E poi...» voltò il viso per gettargli un’occhiata che sperò fosse eloquente «tu.»
«È passata un’intera notte. La schiena dovrebbe già aver smesso di dolere.»
«Non è questo il punto.» replicò, ma lui non sembrò comunque colpito dalla sua espressione offesa.
«Già. Stavamo parlando degli Umani.» strusciò una guancia contro i suoi capelli e rafforzò la stretta attorno al suo ventre «Posso spiegarti il mio pensiero – il pensiero dei Caduti. Ma sei tu a dover scegliere in cosa credere, non io per te; posso solo sperare che, almeno, non ti lasci condizionare da ciò che t’impongono gli Angeli.»
«Sono diversi, i pensieri di Demoni e Caduti?»
«No, siamo divisi perché ci piace giocare ad ammazzarci a vicenda e indebolirci per fare un favore al Paradiso.»
«...era un modo per chiederti di spiegarli.»
«Ironia. Immagino che tu abbia già sentito questa parola, vero?»
«Se non vuoi spiegarmelo, basta dir-»
«Non volevo spiegarlo a qualcuno teso come se stesse parlando con un Censore.»
Amitiel aveva l’impressione che si divertisse a metterla in difficoltà, non che si fosse preoccupato di metterla a suo agio, ma le sfuggì comunque un mezzo sorriso sorpreso, che si affrettò a celare chinando il capo. Sarebbe stata un’espressione più evidente, forse, se le ali non avessero iniziato a provare un violento fastidio per il contatto con la pelle gelida dell’uomo. S’intensificava ad ogni istante, a stento attenuato dal tessuto – stille di gelo che colavano tra le piume, imbrattando l’essenza come il sangue aveva imbrattato la divisa. Un cherubino poteva non essere ancora legato nel profondo al Paradiso, ma il suo plasma era candido come quello degli Angeli, e il contatto con un caduto rimaneva proibito e innaturale.
«Le ali.» mormorò, soffocando un sibilo di dolore «La schiena.»
«Si sono di nuovo riaperti gli squarci?»
«No, è... sei tu.»
Lui la lasciò e si allontanò di pochi passi, per appoggiarsi ad un tronco. «Così?»
«Meglio.»
Michael annuì, riflessivo, poi si distaccò dall’albero il tempo di esporre le ali. «E così?»
Amitiel non seppe cosa rispondere. Percepiva di nuovo una sensazione di gelo, ma sottile, quasi carezzevole. Il suo corpo rabbrividiva, ma era qualcosa di più intimo, di più profondo. Non riusciva a capire se fosse fastidiosa o persino piacevole.
«Hai freddo?» le chiese, venendole in aiuto.
«Un po’. Ma è... strano.»
«Bene.»
«Bene?»
Le sembrò che avesse sibilato ‘Ignoranza spaventosa’ tra i denti, prima di fissarla e spiegare, accademico: «Ho disteso l’essenza. Sfiora la tua.»
«Ed è un bene?»
Le era stato insegnato a tenere la propria essenza sotto controllo, isolata dalle altre; non si muovevano certo sul piano fisico, un eventuale contatto sarebbe stato puramente spirituale, ma proprio per questo considerato troppo intimo. Persino i Cherubini della prima classe erano in grado di controllarsi abbastanza da non sfiorare troppo spesso le essenze altrui.
«È un bene che ti abitui ai Caduti. Più rimani a contatto con la nostra essenza, prima accadrà.» chiuse gli occhi e rivolse il viso verso l’alto «E prima accadrà, prima perderai questa irritante sensibilità verso il nostro corpo.»
Non trovando una risposta, si limitò a guardarlo in silenzio, non ricambiata. Non sentirsi addosso due lame grigie e gelide era più rilassante di quanto pensasse; si accorse di non aver mai osato fissarlo con attenzione, per timore di incontrarne lo sguardo. Le avevano insegnato a prestare attenzione all’aspetto fisico solo per raccogliere informazioni, così che aveva imparato ad associare un corpo fin troppo magro, come quello di Anane, ad un’essenza fievole; uno imponente ad un’essenza quasi eccessiva; una donna florida ad un’essenza dalla natura pacifica e materna; e così via. Il colore della pelle o i lineamenti del volto non indicavano nulla e non erano, perciò, nemmeno da prendere in considerazione – osservarli sarebbe stato un inutile spreco di tempo e di concentrazione.
Ma aveva voglia di guardarlo. Senza motivo, senza utilità. Solo guardarlo.
Corte ciocche scure, le palpebre a celare gli occhi grigi, i lineamenti marcati, le braccia incrociate al petto. La pelle sfiorata dal sole, di un colore pallido, malsano, diverso dal candore degli Angeli – il suo sangue era nero, non bianco come il loro, e pensò che la differenza di incarnato fosse dovuta a questo; in ogni caso, non era qualcosa di troppo evidente o rilevante. Non lo guardava per analizzarlo, ma per fissare nella mente l’immagine di Michael quasi rilassato, sfiorato dai raggi del sole, con gli occhi chiusi che non la trafiggevano. Voleva ricordarlo, perché lui era importante – la faceva sentire importante e, per questo, diveniva a sua volta speciale. Un sentimento egoista, ma Amitiel non se ne rendeva conto, né sarebbe stata in grado di dargli altro, e a Michael sembrava bastare.
Rimase a fissarlo a lungo, smarrendo la percezione del tempo, come le capitava spesso nella dimensione umana. I pochi pensieri che aveva si perdevano oziosamente nel punto in cui il collo pallido dell’uomo scompariva sotto gli abiti scuri, o sulle labbra tese in quello che sembrava un sorriso appena accennato. Il gelo interiore diventava lentamente sempre meno acuto, sfumando in un fastidio sopportabile, mentre la sua essenza si distendeva piano a contatto con quella di Michael.
Era una questione di tranquillità, di autocontrollo: se avesse imparato a mantenerla rilassata, quasi inerme, avrebbe smesso di essere fastidioso. Un meccanismo simile a quello con cui ferivano le ali degli Arcangeli – un’essenza aggressiva che si avventava su quelle avversarie, concretizzata nelle piume taglienti. Elementi senza natura senziente non rimanevano neppure graffiati, poiché mancava la possibilità di uno scontro tra essenze: e infatti l’albero contro cui Michael era appoggiato non risentiva delle sue ali, la sua corteccia non veniva segnata dalle piume che invece avevano rischiato di ferire lei. Era affascinante osservare il sole che affondava in quel mare nero senza rischiararlo davvero, riflettendosi appena sui bordi taglienti, come se la luce sfiorasse la sua essenza ma non riuscisse a pervaderla.
Tanto evidente da non poter nemmeno essere definito un simbolo, forse. Un’allegoria priva di sottigliezza.
«Non immaginavo che le mie ali fossero così interessanti.» la gelò la sua voce.
Alzando gli occhi, stupita, incontrò quelli di Michael, di nuovo fissi su di lei. Non seppe come reagire, se dovesse sentirsi in imbarazzo per essere stata sorpresa a osservarlo, o se potesse far finta di nulla; un angelo l’avrebbe rimproverata per la scarsa discrezione, ma il caduto sembrava avere opinioni piuttosto personali su tali argomenti. Perciò rimase immobile, l’espressione forzatamente distaccata, lo sguardo fuori fuoco, la schiena dritta e le mani incrociate sul ventre con i gomiti aderenti al busto – la rigida postura che le avevano insegnato ad assumere in ogni situazione, tanto che era diventata istintiva. Le sembrava quasi di sentire la voce morbida di Sariel che le mormorava «I gomiti più stretti, Amitiel.» in tono materno.
Notando che non raccoglieva la provocazione, Michael continuò: «Dopo queste innumerevoli digressioni, ricordi di cosa stavamo parlando?»
C’era una macchia di terra e sangue secco sulla sua divisa, una striscia rossastra su una mano, un’immagine che le balenò in mente con violenza. Naturalmente ricordava.
«Il gatto.» mormorò.
«Ci sono miriadi di questioni morali e ideologiche implicate, pensare solo al gatto mi sembra un po’ riduttivo...» squadrò il suo misero tentativo di espressione impassibile e sospirò, rassegnato «...ma immagino che noi faremo esattamente in questo modo.»
«Il gatto. Cos’aveva fatto il gatto?»
«Agli Umani non serve un motivo per essere crudeli.»
«Ma... ma li tentate voi. Volete le loro anime e perciò le sporcate.» mormorò, con voce poco convinta.
«È questo che vi dicono?» rise, gelido «Immagino che non dovrei stupirmi, non vi spiegano nemmeno la differenza tra Demoni e Caduti.»
«Ma è vera, la... la Tentazione. Non puoi negarlo.»
«Non Tentazione, tentazione.» la corresse, eliminando l’accento più marcato che nella loro lingua indicava una maiuscola «Il Paradiso, nella sua umiltà, pensa bene di usare queste forme di rispetto solo per ciò che riguarda gli Angeli.»
«Va bene, tentazione. Esiste.»
«Esclusiva dei Demoni. Loro sì, tentano, ma non accade troppo spesso. Buona parte di ciò che fanno gli Umani è una loro scelta. Il vostro tanto benevolo Dio» sputò quel nome sacro come un insulto «concede il libero arbitrio a creature che si crogiolano nel loro marciume, mentre lo vieta agli Angeli, che ne sarebbero di certo più degni.»
La spaventava udire quelle frasi, pregne di odio e di rancore, contrarie a tutto ciò che le avevano insegnato. Ma la spaventava ancor di più sentire che qualcosa, dentro di lei, assentiva.
«Allora i Demoni sono malvagi, se tentano.» mormorò, cercando una conferma, perché la impauriva l’ipotesi che tutto ciò che aveva imparato non fosse che un’illusione. Aveva impressioni, sensazioni, pensieri che a volte contrastavano gli ideali del Paradiso; ma da questo a sentirsi dire chiaramente che non era vero nulla, la differenza era enorme e spaventosa. Se gli Sconsacrati non erano più malvagi, allora lo erano gli Angeli, eppure lei non si sentiva così – non voleva sentirsi così.
«Sono superbi. Egoisti. Annoiati.» Michael scosse le spalle, neutro «Vuoi chiamarli malvagi per il modo in cui scacciano la noia? Chiamali malvagi, allora. Non fanno nient’altro che procurarsi anime; non troppo dissimile dal compito degli Angeli, in fondo. Anzi, il Paradiso è ancora più marcio.»
«Perché?»
«Perché i Demoni non possono trascinare un’anima negli Inferi, se è pura. Gli Angeli, invece, le strappano alla morte per dare infinite possibilità. Infinite possibilità di ferire, uccidere, distruggere. Infinite possibilità di essere crudeli. Infinite possibilità di sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni, fino a quando non ci si dimostrerà degni del Paradiso.» lo sguardo s’intorbidì d’ira, fissandola con più intensità «E gli Angeli, invece? Agli Angeli è mai concessa una seconda possibilità?»
Amitiel non rispose, perché se avesse parlato avrebbe dovuto dargli ragione, ma dargli ragione significava tradire. Lei non sarebbe mai stata feccia, lei non avrebbe mai tradito, perché doveva troppo al Paradiso per essere tanto ingrata – lei non avrebbe mai avuto il coraggio di abbandonare tutto per qualcosa che le avevano sempre descritto come mostruoso. Tradire; e poi? Mischiarsi al marciume dei Demoni? Soffrire il gelo dei Caduti?
I suoi pensieri si ritraevano, atterriti, e a lei non restava che tacere. Avrebbe avuto tempo per pensare al futuro.
«I Caduti vogliono tornare alla situazione iniziale. Le anime meritevoli in Paradiso, le corrotte negli Inferi. Niente possibilità ulteriori. Alcuni vorrebbero negare anche il perdono – anche questo senza maiuscola, come la tentazione, perché non è degno di appartenere alla grandezza degli Angeli.» latrò un’aspra risata «Un umano si pente e viene perdonato di tutti i suoi errori. Comodo, vero? Mentre per gli Angeli questo non è nemmeno contemplato. Espiazione, Caduta, Scomparsa, Ritorno – mille tipi di condanna, ma mai il perdono.»
Amitiel abbassò gli occhi sulle proprie mani pallide, strette all’altezza del ventre, tentanto di impedire loro di tremare. Stavano sgualcendo la divisa. L’avrebbero rimproverata per questo, forse. E se avesse ribattuto con sgarbo l’avrebbero punita.
Ogni azione ha delle conseguenze, le ripetevano fino alla nausea, prima del lacerante dolore dell’Espiazione.
E per gli Umani, per gli Umani no?
«Sei turbata.» osservò Michael «Dai tuoi pensieri?»
«Dicono che non devo pensare. Che spreco energia e serenità.» mormorò, fissando le proprie unghie che affondavano nei palmi e nel tessuto candido. Un istante dopo si sentì sollevare il viso da una morsa gelida, che la costrinse a sostenere lo sguardo gelido e furioso di Michael. Si era mosso ad una velocità tale che quasi non l’aveva percepito – ridicolmente lenta e fragile, lei, in confronto all’efficienza di un corpo adulto – e anche il dolore per la stretta giunse con un attimo di ritardo, come se faticasse a rendersi conto del suo tocco brusco, quasi violento.
«Stronzate.» ringhiò con voce vibrante di collera «Se tengono per sé l’onere di pensare, non è certo per magnanimità. Poveri Cherubini, evitiamo loro il turbamento dei pensieri, rendiamoli bambole inermi. E poi, una volta cresciuti? Poveri Angeli, rischierebbero di farsi strane idee, meglio soffocare sul nascere ogni tentativo di pensare. L’Espiazione esiste apposta, in fondo, vero? E le altre condanne... sì, davvero magnanimi, ad evitarvi con tanto zelo queste preoccupazioni. Meglio che obbediate senza pensare. Meglio che vi riduciate a marionette.»
«Mi fai male.» sussurrò, sentendo le unghie irregolari del caduto affondarle nella pelle tenera del collo.
«Te ne stanno facendo di più loro.» sibilò «Ti stanno rendendo inerme, vuota, incapace di pensare. E le poche volte che pensi, hai paura – ti si legge in viso. Se ti ordinassero di uccidere un amico, tu lo faresti? Se ti ordinassero di uccidere Anane?»
«Non sarei comunque abbastanza potente.» gli rispose, angosciata. sarebbe stato un tradimento nei confronti di Anane; no, un tradimento nei confronti del Paradiso. La maggior parte dei Cherubini – degli Angeli in generale – avrebbe scelto la prima opzione senza esitare.
«E se potessi farlo? Distruggeresti con le tue stesse mani ogni legame, ogni ricordo, ogni barlume di felicità della tua vita, per un ordine? O penseresti che in fondo non è giusto e ti ribelleresti?» il suo fiato gelido le sfiorò le labbra, i suoi occhi la trafissero con un’intensità dolorosa, tormentata «Gli ordini sono ordini; ma sei tu a doverli eseguire. Tu a dover uccidere, massacrare, torturare. Tu a ritrovarti il sangue di amici e compagni sulle mani. Tu che prima o poi finirai per farti ammazzare e diventare cenere. Tu che ci cammini in mezzo, a quella cenere, e cerchi di afferrare l’ultimo barlume di essenza, solo per capire a chi apparteneva – e no, preghi, non a quella persona che non riesci a trovare. Sei tu che soffri, per gli ordini che devi eseguire. Non hai il diritto di pensare, di giudicare?»
«Io...»
«Buona parte dei Caduti è stata condannata per questo motivo. Egoismo, lo chiama il Paradiso; io lo chiamo non essere vuote marionette. E Dio, in tutto questo, si gode le lodi e le preghiere senza degnarsi di agire di persona. Ha lasciato voi a sacrificare ogni cosa per il bene degli Umani, di cui avrebbe dovuto curarsi Lui
«Mi fai male.» sussurrò di nuovo. Un rivolo di sangue bianco le scese lungo il collo, dove Michael aveva stretto con più veemenza; probabilmente gli bagnò le dita, in un contatto che per il suo corpo da sconsacrato doveva essere doloroso, eppure lui non diede segno di soffrirne, né allentò la presa. La furia nei suoi occhi si placò quasi impercettibilmente, invece, quando una scia di lacrime le rigò il viso – un pianto silenzioso e discreto, non segno di dolore, quanto piuttosto della confusione e del turbamento che le scuotevano l’animo. Michael diceva il vero, glielo urlava qualcosa, dentro di lei, lo sentiva; ma faceva paura, così paura, pensare di tradire, e il ricordo dell’Espiazione era così vivido e così doloroso, e qualcos’altro le strillava di non lasciarsi corrompere da un caduto.
«Pensa al gatto, Amitiel. Quei bambini non si pentiranno mai di averlo quasi ucciso; e chissà quanti altri orrori compiranno, nella loro vita. Più di quanti noi possiamo concepire di compiere in tutta l’eternità. E avranno comunque un’altra possibilità, e infinite altre ancora, per perpetrare ancora tutto questo. Pensa a quanto altro faranno. Orrori. Sofferenze. Crudeltà. E non per tentazione dei Demoni; per loro scelta – quella proibita agli Angeli, che saprebbero di certo sfruttarla meglio. Non meriterebbero gli Inferi?» le lasciò il collo per accarezzarle i capelli e si chinò fino a sfiorarle la fronte con le labbra «Se gli Inferi non ingoiassero le loro anime, loro tornerebbero. Rifarebbero tutto, e anche di peggio. Diventano più marci ogni secolo che passa. Pensa a tutte le atrocità. E gli Angeli lo permettono, sperando che prima o poi conducano un’esistenza abbastanza pura da meritare il Paradiso. Nel frattempo... il gatto, Amitiel, è la cosa minore. Vi sono orrori molto peggiori.»
Aveva ragione. Non lo pensò in termini così espliciti, ma fu questo il senso del confuso turbinio di timore, approvazione e disgusto che le si agitò nell’animo: Michael aveva ragione.
...stava tradendo?
Prima che potesse darsi una risposta – se mai avesse trovato il coraggio di darsela –, il caduto la spinse contro un albero, strappandole un urlo per l’improvviso dolore agli squarci. Percepì la propria essenza venire circondata e compressa da quella gelida dell’altro, la avvertì distintamente dibattersi nel vano tentativo di liberarsi. Michael la stava... aggredendo?
«Taci.» le ordinò, con un tono gelido che non nascondeva l’urgenza «Arriva qualcuno.»





***
Angolo autrice
Grazie a chi ha letto e inserito la storia in una delle tre liste! State diventando sempre di più e mi fa davvero piacere (: E, come sempre, un ringraziamento speciale a chi recensisce. Critiche costruttive, consigli e commenti sono sempre ben accetti (:
Che dire, amo dal profondo questo capitolo, finalmente si inizia a ragionare u.u Un unico appunto: Naamah secondo la tradizione è uno dei demoni della prostituzione sacra e una delle compagne di Samael, ed è considerata colei che ha iniziato l'umanità alle arti della preveggenza. Il suo potere sarà forse spiegato più avanti, per ora prendetela molto alla larga come una "veggente", unica e conosciuta da tutti; questo spiega la frase di Michael "Non sono Naamah".
A domenica prossima!

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Capitolo 16
*** 15. Chiudi gli occhi ***


Capitolo 15 – Chiudi gli occhi





Il mondo, all’improvviso, si era ridotto. Era stato risucchiato dall’ansia, violenta come un colpo allo stomaco, là dove negli adulti era gestita l’essenza più aggressiva – se non fosse stata un cherubino l’avrebbe sentita ribollire, calda, quasi liquida, prima che divenisse incorporea e premesse disperatamente contro quella di Michael per liberarsi dal gelo e dal panico. E l’organo cavo e immobile nel petto, che in un corpo maturo dava origine all’essenza e faceva con quell’energia circolare il sangue, si sarebbe dilatato fin quasi a scoppiare, pur di darle la forza di liberarsi. E il ventre si sarebbe contratto in uno spasmo caldo e freddo, là dove l’essenza infetta si raccoglieva, quasi tangibile, per essere depurata e assimilata, perché nulla di quell’energia andasse sprecato.
Ma era un cherubino, dall’anatomia sconosciuta e assai meno efficiente. La poca essenza tangibile, mischiata al sangue, scorreva lenta nelle vene per darle la forza di muoversi; non ribolliva, non reagiva, non cercava una soluzione. L’essenza vera, quella spirituale, si dibatteva sempre più debolmente, priva dell’energia necessaria – e si disperdeva, si assottigliava, si consumava.
Il mondo, quindi, non era ridotto alla sensazione di un’essenza in lotta, ma a quella di un’essenza sfinita, perché il suo corpo acerbo non le concedeva altro. La mente, invece, era sveglia e lucida, di quella lucidità data dal panico, e percepiva con angosciante chiarezza ogni cosa.
L’essenza che si agitava e si spegneva lentamente. Il corpo che si indeboliva, sostenuto solo da Michael e dal tronco d’albero. Gli squarci che, riaperti in modo orrendo, vomitavano sangue e essenza – l’essenza destinata alle ali, quella più pura, quella più preziosa. I capelli impigliati nella corteccia. I denti candidi affondati nel labbro inferiore per non urlare, perché Michael le aveva ordinato di tacere e lei aveva l’istinto e il buonsenso di non opporsi.
Il fiato gelido del caduto sulla fronte, le sue unghie affondate nelle spalle. Le proprie braccia alzate d’impulso in difesa, di fronte al petto, che sfioravano quello di lui con un brivido. I muscoli nervosi sotto le proprie dita, guizzanti nei brevi attimi in cui il caduto si tendeva, come aspettandosi un attacco da una direzione ignota.
Ma fu lui ad attaccare. Un istante la stava premendo contro il tronco, quello successivo era scomparso tra gli alberi, silenzioso e letale, e quello successivo ancora era riapparso poco lontano, inginocchiato a terra, le ali nere esposte all’improvviso con furia e minaccia. I suoi occhi non apparivano più grigi, ma neri, neri neri, due pozze enormi che sembravano voler inghiottire il mondo intero – era l’essenza che si faceva liquida e visibile per la rabbia.
Sotto di lui un angelo si dibatteva e sibilava, misero tentativo di urlo, soffocato dal suo stesso sangue e dalla mano di Michael, affondata nella sua gola. La fascia azzurra dei Custodi gli cingeva i fianchi, lacerata, e per un attimo Amitiel temette che fosse Ridwan; poi si accorse dei capelli troppo scuri per essere quelli dell’insegnante, ma la sua angoscia si acquietò appena.
Un angelo subiva un attacco di fronte a lei. Doveva reagire? E come, se riusciva a malapena a sostenersi, puntellata contro il tronco? E come, se nemmeno sapeva in favore di chi dovesse intervenire?
Michael ringhiava domande, intanto, a cui il Custode rispondeva con risate strozzate e sibili inudibili. Da quanto era lì? Cosa aveva visto? Aveva avvertito qualcuno? Domande, ringhi, gemiti di dolore. Il terreno si copriva di sangue bianco, denso, che la luce del tramonto tingeva di riflessi rossastri. La carne sempre più dilaniata dell’angelo offriva la vista di muscoli e vene e ossa.
...era anche peggio del gatto, quello.
«Michael.» mormorò, rauca.
Lui la ignorò, continuando a fissare la vittima, furioso.
«Michael.»
Una domanda. Silenzio. Il rumore orribile della carne che si apriva, un urlo soffocato dal sangue che scorreva in gola.
«Michael!»
«Ci ha visti, Amitiel.» le ringhiò, voltandosi verso di lei con espressione così feroce da procurarle un brivido «Ha visto troppo. Devo capire meglio la situazione.»
«Devi fare per forza così?» mormorò, mentre tutto il suo essere gridava pietà e disgusto per ciò a cui stava assistendo «Non c’è un altro modo? Non c’è... qualcun altro?»
«Li sto chiamando, ma ci vuole tempo, e non c’è altro modo.» ghignò, ferino «E, anche se ci fosse, dubito che rinuncerei a quest’occasione, considerando chi ho tra le mani.»
Le fece paura. Una paura così istintiva e intima da farla premere contro il tronco, incurante del dolore, pur di rimanere in piedi e ritrarsi il più possibile da lui. Era crudele. Era come quei bambini umani.
Michael dovette accorgersene, perché smise di sorridere in quel modo animalesco e le fece segno di aspettare. Si voltò di nuovo verso l’angelo, incurante dei suoi tentativi di liberarsi: quello si dibatteva, lo colpiva, gli sputava addosso il suo sangue corrosivo, eppure l’arcangelo non sembrava nemmeno accorgersene. Mascherava il dolore dietro una furia calma, calcolatrice, e per questo ancor più terrorizzante.
«Torno subito.» ringhiò all’angelo «Tu non ti muovi, vero? Fammi questo favore, così dopo potremo continuare la nostra amabile chiacchierata tra amici, Shoftiel.»
Con un colpo di palmo su un’ala, violento, lo schiacciò a terra. Un altro colpo, l’orrendo rumore di qualcosa che si frantuma, un urlo così acuto da non essere soffocato nemmeno dal sangue che invadeva la gola dell’angelo. L’altra ala. Pausa per spostarsi più indietro. Un ginocchio. L’altro.
E urla, e sangue, e urla e sangue, e ancora urla e ancora sangue. Straziante. Nauseante. Spaventoso.
E Michael continuava, rapido, metodico. Gli spezzava le ossa per impedirgli di fuggire, versava il suo sangue e la sua essenza per impedirgli di richiamare qualcuno.
Si ripulì le mani sul lembo meno lordo della divisa del Custode, poi si alzò e ripassò i palmi sui pantaloni, per eliminare le ultime tracce vischiose. Una soddisfazione feroce gli animava lo sguardo, ancora nero per l’essenza che si agitava in lui. Non un’impressione di rimorso. Non un accenno di turbamento. Solo un lampo amaro, brevissimo, nel vedere l’espressione terrorizzata di Amitiel; un suono di gola, a metà tra un ringhio e una risata, quando lei mosse precipitosamente un passo indietro, perdendo l’appoggio del tronco. La afferrò senza delicatezza appena prima che cadesse e la premette di nuovo contro l’albero, con più forza del necessario.
«Mi fai male.» mormorò Amitiel, con voce incrinata, una tiepida scia di lacrime lungo il viso «Lasciami.»
Lui strinse di più. «Sai chi è?»
«Lasciami.»
«Sai chi è?» ripeté con un ringhio.
«Cosa importa?»
«Importa.»
«Non-»
«Shoftiel. Troverai il suo nome in almeno metà dei processi più recenti.» le strattonò i capelli per costringerla a guardarlo negli occhi «Un semplice angelo che, non potendo diventare Censore, ha sfogato la sua frustrazione accusando decine e decine di compagni al minimo errore. E non serve che ti dica quanto è clemente la giustizia del Paradiso, vero?»
Non le importava. Aveva di fronte agli occhi l’immagine del suo corpo dilaniato, gli schizzi di sangue bianco sul terreno, i suoi disperati tentativi di liberarsi; udiva ancora i suoi rantoli di sofferenza. Era così sbagliato, così crudele torturarlo in quel modo. Era peggio del gatto, infinitamente peggio, e faceva male e schifo e paura, le tremavano le ginocchia e le affioravano singhiozzi convulsi alle labbra. Non le importava chi fosse, quello che Michael gli aveva fatto era comunque terribile. Terribile e agghiacciante.
«Avrebbe potuto accusare anche Anane, sai. E potrebbe accusare te, ora che ci ha visti, se non risolviamo la cosa. Vuoi farti condannare perché provi pietà di una serpe?»
«Risolvere la cosa...» mormorò, benché il riferimento a sé stessa e ad Anane l’avesse resa molto meno comprensiva verso l’angelo «include torturarlo?»
«Per sapere se ha avvisato qualcuno, sì. Mi servono informazioni.»
«E devi raccogliere proprio... proprio così?»
«Ti accuserebbe di lascivia con un caduto.» le ringhiò, affondando con violenza le unghie nelle sue braccia «Anche se non c’è stato nulla, lui lo farebbe. Sai qual è la condanna, vero?»
Il terrore la stordì, perché lo sapeva e il solo pensiero era orrore puro, che non le permise nemmeno di rispondere. C’era solo una preghiera, un ‘no’ sussurrato, singhiozzato, urlato dentro di lei, dalla parte della sua mente più disperatamente aggrappata alla vita.
«Il Ritorno. E non ho la minima intenzione di permettertelo.» si chinò si di lei, fino a sibilare ad un soffio dalle sue labbra: «Mi hai già fatto aspettare abbastanza.»
«...mi fa male. Mi fa male vederlo così, io non... non ce la faccio.»
«Chiudi gli occhi, allora.»
La lasciò e lei, non più sostenuta dalla sua stretta, scivolò a terra. Non aveva nemmeno la forza di parlare: si limitava a fissarlo, implorante, no, no, non farlo, non tornare lì, rimani, non tornare lì. Ti prego, non farlo, mi fa male, mi fai male. No, no, ti prego.
«Chiudi gli occhi.» le ripeté, gli occhi grigi fissi su di lei, che sembravano l’acciaio di un’arma affilata, tagliente – un’arma fragile e sottile da guerriero stanco, però.
Stanco di lei, perché lei era ignoranza, debolezza, emotività. Lacrime. Urla. Paure. E ancora cercava un modo di farla restare in Paradiso, di non esporla troppo presto alla guerra che andava germogliando nella dimensione umana.
Lasciò crollare il capo, sconfitta, premendo la fronte contro le ginocchia. I capelli sciolti e scompigliati le ricaddero ai lati del viso come onde nere, oscurandole la vista; il nastro bianco che li aveva trattenuti nella treccia abituale doveva giacere a qualche passo di distanza, dove Michael l’aveva abbandonato. Inspirò tremante l’aria fresca della notte, pregna di odore di erba e di terra arida e di sangue, intenso, disgustoso, vagamente dolciastro. Smise di nuovo di respirare, ma le era rimasto nelle narici e nella testa e non riusciva a farlo andare via; e, tra le ciocche di capelli, si apriva come uno squarcio candido la vista delle macchie sul terreno.
L’angelo, poco lontano, rantolava.
«Chiudi gli occhi.»
Dopo quell’ordine, ripetuto in tono quasi stanco, tra i capelli intravide anche l’ombra densa di Michael che si spostava lentamente, intrecciandosi con quelle degli alberi. La sua sagoma che si chinava su qualcosa che, grazie Dio grazie, non riusciva a vedere. Udì ringhi, urla, domande, rantoli; e gli schizzi sul terreno aumentavano sempre di più, sempre di più, ferendola come lame bianche e crudeli.
Chiuse gli occhi.

* * *

Sachiel ricordava Khamiel con mesta precisione. Era un Guardiano alto, robusto, dall’aspetto poco rassicurante; la sua espressione poteva variare da una rarissima neutralità, nei momenti di buon umore, ad una assai più frequente minaccia, e non si distendeva mai in un sorriso che non fosse un ghigno sarcastico e preoccupante. Molto preoccupante.
Non il genere di persona che qualcuno avrebbe reputato adatta all’insegnamento, in sintesi, come sottolineavano le occhiate compassionevoli riservate dagli adulti ai suoi allievi; e, nonostante il dovuto rispetto che gli portava, Sachiel non poteva biasimare troppo quegli sguardi. Non che avesse l’autorità di farlo, ben inteso, ma se anche avesse potuto se ne sarebbe astenuta.
L’atteggiamento della sua maestra poteva dirsi spontaneo e confidenziale, in confronto a quello di Khamiel, e ciò era sufficiente per provare compassione nei riguardi dei – pochi – Cherubini che erano sotto la tutela dell’arcangelo. Non più di una quindicina, valutò con un’occhiata, poiché a lui venivano affidati solo i più promettenti, per spremere da loro qualsiasi goccia di energia e talento.
In bilico sui rami più robusti per non sporcarsi di erba e terriccio, seguivano la lezione con concentrazione angosciosamente palese, perché Khamiel non pensasse che fossero disattenti; solo i più arditi o i più stanchi osavano gettare brevi occhiate verso di lei, unico cherubino tra i Custodi e i Guardiani che li sorvegliavano. Dal saluto dell’insegnante l’avevano identificata come una precedente allieva e, per questo, i loro sguardi si erano accesi per un attimo di interesse e speranza – se era sopravvissuta lei, potevano farcela anche loro; e sì, sapevano che in molti avevano superato più o meno indenni la sesta classe sotto Khamiel, ma vederlo era un’altra cosa. Curiosamente non avevano bisogno di prove, invece, per tremare al racconto di Cherubini crollati sotto l’estenuante peso della severità dell’arcangelo. A quel ‘crollati’ non si dava mai un significato preciso, perciò non sapevano se s’intendesse stancati fino a logorare anche l’essenza o... forse pensare a degli allievi morti era un po’ eccessivo, ma chi poteva dirlo?
Sachiel un morto – il morto, più precisamente, che nei racconti poi si era moltiplicato fino a diventare due e cinque e dieci – lo aveva visto, alla fine della sesta classe. Non intenzionale, certo: Khamiel era severo, non stupido, e non avrebbe mai spinto un cherubino oltre i suoi limiti. Il problema sussisteva, però, nel fatto che era l’arcangelo a valutare i limiti del cherubino – un arcangelo molto esigente e, soprattutto, adulto da troppo tempo per ricordare come fosse fragile il corpo degli infanti. Quella che doveva essere un’esercitazione per i migliori tra i migliori, gli allievi più promettenti di quelli già affidati al maestro più capace, si era trasformata in un massacro: un attacco improvviso dei Caduti, pochi adulti sul luogo, i portali per tornare in Paradiso troppo lontani. Lei era stata inclusa nell’esercitazione perché stava per essere promossa, non per un reale talento che giustificasse la sua presenza lì: gli altri quattro Cherubini, seppur più immaturi, erano di gran lunga più capaci. Ironicamente, l’unica a tornare in Paradiso quasi indenne era stata proprio lei, ma non prima di aver visto un compagno tramutarsi in cenere, morto, sotto i propri occhi inorriditi. Questo, insieme a tre feriti gravi, aveva reso chiaro a Khamiel quanto avesse sopravvalutato i suoi allievi; le conseguenze, poi, gli avevano lasciato una cicatrice alla schiena e l’intenzione di non ripetere mai più l’errore.
Ma, nonostante la sua essenza non si fosse estinta per volere dell’arcangelo, il morto restava morto. Non si poteva biasimare l’inquietudine dei Cherubini sotto la sua guida.
Non si poteva biasimare nemmeno l’apprensione con cui Khamiel vigilava sui suoi allievi nella dimensione umana, però, nonostante fosse ritenuta eccessiva da molti – da chi non aveva mai visto la cicatrice che gli deturpava il corpo dalla scapola destra al fianco sinistro, o quella ancor più spaventosa che gli sfigurava l’essenza; perché solo segnando questa per sempre si potevano sfregiare le loro carni immortali, e ciò era un avvenimento tanto raro quanto raccapricciante.
Sachiel, che vedeva le essenze con una precisione quasi pari a quella con cui poteva osservare il mondo materiale, provava di fronte a quell’apprensione una comprensione rispettosa e pietosa insieme, badando però a mostrare solo il rispetto; e non si stupiva che Khamiel fosse rimasto così irritato dal trovare senza preavviso un’allieva sconosciuta nel suo gruppo, un istante prima di discendere nella dimensione umana. Se avesse potuto permettersi una simile mancanza di rispetto nei confronti di un’Autorità, Sachiel avrebbe pensato che la sua maestra non aveva scelto il momento migliore per spostare il cherubino in quel gruppo.
Sperava solo di non dover comunicare di persona a Khamiel che, presa in consegna la sua nuova allieva, avrebbe ignorato le sue disposizioni per metterla alla prova in altri modi a cui, onestamente, non aveva ancora pensato. Un Custode o un Guardiano avrebbe potuto riferirgli la notizia senza correre il rischio di subire uno dei suoi temuti scoppi d’ira.
A quanto sembrava dall’espressione minacciosa dell’arcangelo, la prima vittima non sarebbe stata comunque lei, ma un allievo che non stava concentrando ogni sua più intima energia nel prendere appunti con la dovuta alacrità. Il fatto che stesse sfregando la punta della matita sulla carta ruvida per affilarla non importava: la mente di Khamiel, evidentemente, registrava solo che il cherubino non stava scrivendo. Quello dovette percepire il suo sguardo, perché si affrettò a riporre la carta ruvida nella borsa per tornare ai suoi appunti con zelo encomiabile. La voce dell’insegnante divenne all’improvviso vibrante, irritata: non aveva ancora raggiunto il limite, ma mancava poco, e – benché questo fosse un ulteriore incentivo per gli allievi a mantenere una condotta irreprensibile – Sachiel dubitava che sarebbero sfuggiti alle ire di Khamiel.
«Credo che la lezione durerà ancora per un po’. Non è mai un bene affrettare le spiegazioni sugli Umani e sulla morale.» le disse una Custode, accovacciata su un ramo poco lontano, in tono vagamente materno «La zona è ben presidiata; puoi allontanarti senza pericolo e tornare tra un paio di tramonti, se ti annoi.»
Ringraziò e declinò l’offerta con la dovuta cortesia, affermando che non si stava affatto annoiando, poiché quegli argomenti la interessavano sempre; il che avrebbe anche potuto essere vero, se non avesse dovuto seguire quelle lezioni decine e decine di volte, al punto che avrebbe potuto ripeterle a memoria senza difficoltà. Ma la sua maestra le aveva ordinato di recarsi lì e una Custode non aveva l’autorità di dispensarla da quel compito: assentarsi, seppur per breve tempo, le sarebbe parso un tradimento della promessa fatta all’insegnante, e se Sachiel temeva qualcosa con tutta sé stessa era di perdere la sua fiducia così faticosamente guadagnata. La gratitudine che doveva a Leliel era troppa per permetterle una disobbedienza – per concepire una disobbedienza. Sarebbe rimasta lì ad annoiarsi finché fosse stato necessario.


Non lo fu per molto ancora. Nonostante le previsioni della Custode, un’alba un po’ nuvolosa giunse a rischiarare il cielo – quel cielo che le piaceva tanto guardare, di giorno, quando assumeva il colore dei suoi occhi – e Khamiel smise di spiegare, ritenendo di aver ripetuto abbastanza gli stessi due o tre concetti sulla debolezza degli Umani, sulla compassione degli Angeli e sulla mostruosità degli Sconsacrati. Non concesse ai Cherubini di rilassarsi, ordinando loro di prepararsi all’arrivo degli allievi del ciclo superiore, per la seconda parte della lezione; alle parole ‘Percezioni’ e ‘anime’, Sachiel poté giurare di aver visto almeno metà del gruppo curvare le spalle, già esausto, e provò per loro un misto di compassione e divertimento.
Essere al ciclo superiore era decisamente piacevole, convenne tra sé e sé.
Lo fu un po’ meno quando dovette avvicinarsi, balzando da un ramo all’altro, all’imponente figura di Khamiel, e ancor meno nel comunicargli il proprio compito. Ogni traccia di piacevolezza scomparve del tutto quando, sotto il suo sguardo adirato, rifiutò la scorta di un Custode: la sua maestra si era raccomandata la massima discrezione, non voleva offenderlo o respingere la sua generosa offerta, ma non poteva davvero disobbedire agli ordini dell’Autorità.
Benché non fosse particolarmente minuta, in confronto alla mole dell’arcangelo si sentiva insignificante e vulnerabile; così vulnerabile che, non appena lui glielo permise, si precipitò dall’allieva affidatale e fu sul punto di afferrarla per un braccio e trascinarla malamente, pur di allontanarsi il prima possibile. L’ira di Khamiel le aveva lasciato ricordi tutt’altro che piacevoli e anche allora, ormai quasi adulta, preferiva evitare di ripetere l’esperienza.
Il cherubino non sembrò comprendere quell’urgenza, perché la seguì in volo con irritazione malcelata, e non prima di aver salutato Khamiel e gli altri Guardiani con frasi quasi ossequiose. Se cercava l’approvazione dell’insegnante, aveva davvero sbagliato metodo: l’arcangelo detestava gli adulatori con fervida intensità, ma ancor di più detestava chi non portava rispetto ai Custodi, che tra le proprie file includevano anche la sua compagna – forse proprio la donna che le aveva dato il permesso di andarsene, rifletté Sachiel distrattamente, scorgendo i due parlare con familiarità. Non che le interessassero particolari di questo tipo; non sapeva nemmeno come fosse venuta a conoscenza della relazione tra Khamiel e una Custode, in effetti.
Forse avrebbe dovuto metterne al corrente l’altro cherubino, perché non incorresse nella temibile ira dell’insegnante, pensò. Poi si accorse dell’aria di superiorità e fastidio con cui quella la fissava e si disse che, in fondo, imparare l’umiltà a proprie spese avrebbe potuto giovarle.
Ancora non sapeva se Cassiel avesse capacità degne di un allievo del ciclo superiore, ma di certo ne aveva l’alterigia.

* * *

Aveva chiuso gli occhi e premuto le mani sulle orecchie pur di non sentire e non vedere, ma sapeva che erano lì, a pochi passi da lei, rantoli e ringhi e urla e carne dilaniata, così vicini che le sembrava di avvertire il tepore del sangue, il suo odore dolciastro. Si era rannicchiata con un fianco contro l’albero, dando le spalle a quell’orrore e artigliandosi i capelli con le dita; nel farlo le unghie le erano strisciate sul collo, proprio nel punto in cui le dita di Michael avevano stretto fino a incidere la pelle, e un rivolo bianco aveva ripreso a scorrere sul suo corpo, gola clavicola seno, ma poi lei l’aveva asciugato con un gesto rabbioso prima che raggiungesse il ventre, perché il sangue le faceva schifo e non voleva avercelo addosso.
Ce n’era già abbastanza sul terreno.
E poi la stanchezza l’aveva vinta, tentandola con il suo pacifico nulla: si era lasciata scivolare nel sonno, i muscoli sempre più rilassati, la mente immersa nell’oblio.
Rinvenne dopo un tempo che non seppe quantificare, quando due mani piccole e tiepide le accarezzarono gentilmente il viso. Aprì gli occhi, priva della difficoltà che accompagnava – secondo ciò che aveva accennato la sua insegnante – il risveglio degli Umani, per vedere alla luce del giorno un sorridente – ghignante – viso di bambino ad un soffio dal suo; dopo qualche istante comprese che era il corpo posseduto da Eisheth. Non si era nemmeno accorta del suo arrivo.
«Oh, mia cara, finalmente.» ridacchiò il demone «Temevo che non ti svegliassi più.»
«Anane?»
«L’ho lasciata con Sephon. Non voglio che si avvicini a certa feccia.» indicò alle sue spalle con espressione disgustata «Ti porto i suoi saluti, se ti consola.»
Feccia. Un collaboratore dei Censori, che si assicurava che tutto andasse secondo la morale. Chi veniva condannato lo era, non certo chi accusava; e, se fino a poco tempo prima lei non si era sentita tale, dopo aver chiuso gli occhi e ignorato quell’orrore non poteva più dirsi certa di non essere feccia. Anzi.
Lasciò ricadere la testa sulle ginocchia, trattenendo a malapena un singhiozzo. Non aveva nemmeno il coraggio di voltarsi, di cercare Michael e vederlo sporco di sangue, sangue dolce, sangue angelico, sangue di chi l’aveva cresciuta, sangue come il suo. Non le importava nemmeno sapere cosa avesse scoperto, voleva solo chiudere gli occhi e dimenticare. Ignorare tutto, come aveva fatto sino a quel momento, rendendosi complice.
Quel pensiero le provocò un altro singhiozzo.
«Su, su, cara, non fare così. Sei davvero irritante.»
Eisheth si portò alle sue spalle e le sfiorò la base delle ali in un gesto materno; poi, preso un laccio da una tasca, le raccolse i capelli in una coda morbida. Sarebbe persino parsa rassicurante, se non avesse continuato a ridacchiare tra sé e sé.
«Shoftiel non ha comunicato a nessuno i suoi sospetti su Anane... molto da lui. Avrebbe dovuto dividere la gloria con qualcuno, altrimenti. La sua ambizione gioca a vostro favore, sì? Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
Il demone sembrava sapere perfettamente che non stava singhiozzando per la preoccupazione. Subito aggiunse, infatti, con un ghigno più ampio degli altri: «Ora dobbiamo solo trovare il modo di eliminarlo. Hai mai visto un’essenza estinguersi, cara? Sono certa che ti piacerà, è spetta-»
«Eisheth.»
Il ringhio di Michael fu un balsamo, dopo le continue risatine acute del demone. Amitiel lo accolse rialzando di scatto la testa per guardare sopra di sé, ma se ne pentì con un brivido: il volto del caduto era contratto per la rabbia, gli occhi ancora neri, il corpo lambito da sottili fiamme scure per l’essenza che si concretizzava, nutrita dalla rabbia. E sangue, sangue sulle sue mani, sangue sul suo corpo, sangue ovunque, ma lui ignorava il dolore e nemmeno tamponava quel liquido bianco che, per gli Sconsacrati, doveva essere bruciante quanto l’Espiazione. E sangue nero, anche, sulle unghie irregolari e scheggiate.
«Oh, tesoro, hai finito di strapazzare la povera Liwet?» gli chiese Eisheth, leziosa, ignorando la sua occhiata furiosa «Povera cara, non poteva sapere che Shoftiel avesse deciso di fare una visitina qui, sì? La sua Influenza è stata discreta, sui Custodi di cui era a conoscenza. Non buona quanto la mia, certo,» fece schioccare la lingua sul palato, pensierosa «ma comunque degna di nota, considerando che si è sviluppata da poco. Così giovane... era appena due classi avanti a Sa-»
«Eisheth.»
«Sì, sì, taccio, come vuoi.» annuì con espressione beffardamente contrita, salvo poi riprendere dopo pochi istanti: «Oh, non indovinerai mai chi ho visto venendo qui!»
Michael non diede segno di interessarsene.
«Non ci provi nemmeno? Dai, fa’ contenta tua madre, almeno un nome!»
«Eisheth
«Tesoro, è scontato che io mi sia vista venendo qui.» fissò i grandi occhi infantili su Amitiel «E tu, mia cara, non vuoi provare a indovinare?»
«Basta!»
Le fiamme nere che lambivano il corpo del caduto si estesero e Amitiel si ritrasse di scatto, spaventata, per non esserne sfiorata. Erano terribilmente simili all’Espiazione e, benché con ogni probabilità non fossero tanto dolorose, preferiva non rischiare.
«Proprio nessuno vuole indovinare? E va bene...» la falsa espressione di delusione fu sostituita da un ghigno eccitato «Tuo padre, ci crederesti? Pensavamo tutti che avesse smesso di insegnare, dopo quell’incidente, sì? E persino il padre di Anane!» batté le mani, entusiasta «E sua-»
«Madre
Eisheth sembrò soddisfatta.
«Vuoi che vada da Liwet, caro? Ha sempre idee brillanti, potrebbe risparmiarmi il tedio di pensare al modo di sistemare questa situazione, sì? Non vorrei mai che la tua cara Amitiel si trovasse in pericolo. E mia figlia, non dimentichiamoci di lei.»
Scoccatagli un’occhiata che Amitiel non seppe interpretare, Eisheth tornò indietro saltellando, senza attendere risposta. Il cherubino voltò istintivamente il capo per seguirla con lo sguardo; tentando di ignorare – ignorare? No, no, non poteva davvero ignorarlo, era terribile, faceva schifo – il corpo straziato a terra, abbandonato come una bambola divenuta inutile, incontrò la figura di colei che doveva essere Liwet. La prima parola che le associò fu ‘morbida’, perché la bassa statura la faceva apparire più robusta di quanto già la rendesse una lieve pinguedine, data probabilmente da un’essenza fin troppo florida; ma non se ne ricavava un’impressione sgradevole e, anzi, Amitiel avrebbe potuto trovarla rassicurante, se uno squarcio non le avesse lacerato il viso dallo zigomo alle labbra.
Sangue nero colava copiosamente, imbrattandole il collo e i capelli castani, eppure non sembrava esserne colpita: si limitava a rimanere immobile, attendendo che Eisheth la raggiungesse con la sua andatura saltellante, senza dar segno d’inquietudine o di dolore. Addirittura le sorrise, accorgendosi del suo sguardo, riuscendo a sembrare benevola anche con quella ferita a deturparle i tratti morbidi del viso.
«Posso avere l’onore della tua attenzione?» la riscosse Michael, irritato.
Alzando il viso verso l’alto per guardarlo, notò che le sottili fiamme nere erano del tutto scomparse – blanda rassicurazione che non diminuì l’orrore per il sangue che gli imbrattava il corpo. Quando lui allungò una mano, Amitiel si ritrasse di scatto, tremando, perché se aveva fatto quello chissà di cos’altro poteva essersi macchiato, e senza il minimo rimorso, senza la minima esitazione, e chissà cosa avrebbe potuto fare a lei, e ad Anane, e...
...e l’aveva fatto per lei, perché altrimenti sarebbe stata accusata e condannata. Per lei. Una sottile lusinga si aprì uno spiraglio tra l’orrore, abbastanza a non farla più ritrarre quando, lo sguardo furioso ma le mani ripulite sugli abiti, Michael la afferrò per un polso e la strattonò per farla alzare in piedi.
Le fece male. La sua pelle inviò un fremito di dolore, tanto intenso da lasciarla per un attimo annichilita, perché sulle dita del caduto erano rimaste tracce nere e gelide, di quel gelo che sembra mordere e bruciare anche le ossa. Come il loro primo contatto, ricordò; no, quello era stato peggio, con la mano di Michael a serrarle la gola e le fiamme a divorarla dentro, ma anche questo era doloroso, tanto, troppo, e un singhiozzo le sfuggì senza che neppure provasse a reprimerlo.
«Non osare piangere.» ringhiò il caduto «Sei già abbastanza patetica.»
Le lasciò il polso, ma solo per passarle il braccio attorno ai fianchi e stringersela contro. Amitiel sibilò di dolore e ribrezzo, le braccia nude a contatto con il tessuto intriso di sangue, la fronte premuta contro il collo gelido del caduto. Gli spinse le mani contro il torace, inutilmente, mentre i singhiozzi divenivano più frequenti.
«Non piangere.» le ripeté, in un tono quasi stanco, che più che un ordine sembrava una richiesta.
«Lasciami.»
In risposta, la strinse di più. Alla lieve lusinga si aggiunse un languore strano, che dilagava nel ventre in onde lente e tiepide; paradossalmente – o forse coerentemente con il gelo del caduto – rabbrividì. Le piaceva quel contatto, nei brevi istanti in cui l’orrore cedeva il passo ad altre sensazioni. I muscoli compatti del torace sotto le proprie dita, il respiro freddo che le lambiva un orecchio, le ali di cui avvertiva la presenza ad un soffio dalla pelle, il braccio che le cingeva i fianchi quasi con violenza.
Gli occhi grigi che la fissavano, furiosi e annebbiati da qualcosa che, forse, era ciò che stava pervadendo anche lei.
Michael era crudele. Spietato. Glorioso, si ritrovò a pensare. Glorioso. E quello che aveva fatto l’aveva fatto per lei. Per lei. Quanti altri, nella sua breve vita, le avevano prestato un’attenzione simile? Quanti l’avevano stretta e si erano chinati a sfiorarle l’orecchio con le labbra e l’avevano guardata? Non vista, non scorta, non esaminata con freddezza, ma guardata, con uno sguardo così intenso da farla rabbrividire.
Lo voleva. Era un bisogno di cui non comprendeva il senso, o le implicazioni, ma c’era. Il desiderio di toccarlo e lasciarsi toccare, pelle e muscoli e la mano che le stringeva il fianco e occhi e respiro e... e quel languore intanto minacciava di divorarla, sarebbe morta nel calore che dilagava nel ventre e nel brivido che le scuoteva la schiena e le ali.
E all’improvviso non importava più del sangue e del tradimento e della sua complicità in quell’orrore, e neanche di Eisheth a pochi passi da loro e di Anane e del Paradiso e di tutto il resto, lo voleva ed era una sensazione così nuova e così intensa da inghiottire ogni altra cosa e non permetterle nemmeno un pensiero coerente. Importava solo il torace contro cui era premuta – a cui si aggrappava –, la mano sul suo fianco e l’altra che era risalita a stringerle i capelli, il respiro gelido che le sfiorava il viso, lo sguardo grigio che la trafiggeva. Importava solo lui.
«Chiudi gli occhi.» le ordinò, roco.
Obbedì.





***
Angolo autrice
Sì, so che sarete tutti in preda allo shock. Questo capitolo contiene una spaventosa rivelazione.
Gli Angeli non usano i temperini.
*tossicchia* Bene, dopo aver concesso la dovuta attenzione alla carta ruvida con cui il povero allievo di Khamiel stava temperando la matita, torniamo alle cose serie. Grazie come sempre a chi ha inserito la storia in una delle tre liste e un ringraziamento particolare a chi commenta (:
Questo capitolo potrebbe partecipare alle fiere del "Scene con personaggi secondari che sembrano inutili ma inutili non sono" e del "Interrompiamo sul più bello". E ora lascio voi, 
Amitiel "Finalmente il corpo si dà una svegliata" e il povero Michael "Trattieniti o le fai una lezione di anatomia in pubblico" in attesa del prossimo, non avendo particolari appunti su questo.
A domenica! (:

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Capitolo 17
*** 16. Pioggia ***


Capitolo 16 – Pioggia





«No.»
Quel no, sibilato in tono esausto e tutt’altro che fermo, ebbe il potere di farla tornare lucida. Quasi l’avesse proferito lei, si allontanò di scatto, sgusciando via dalla sua presa – non che Michael avesse tentato di impedirglielo, anzi, abbandonò lui stesso le braccia lungo i fianchi.
Si sentiva ancora annegare nel languore, ma qualcosa di ancora più intenso la faceva tremare, urlandole che era sbagliato, era disgustoso, era osceno. Aveva l’impressione di essere sporca dove lui l’aveva toccata, e la cosa più nauseante era che continuava a piacerle. Si strinse le braccia attorno al corpo, come per proteggersi – o per impedirsi di tornare a toccarlo e sentirsi di nuovo stringere e assaporare il suo respiro gelido.
«No.» ripeté Michael, fissando un punto sopra il suo capo «Non... Sei alla quinta classe. Quinta classe. È da insani.»
Amitiel abbassò lo sguardo, offesa e ferita. L’aveva rifiutata. Le aveva impedito di compiere un’oscenità, sì, ma l’aveva rifiutata.
Era... un senso di contrarietà strano, che non aveva mai provato.
Voleva che tornasse a stringerla. Aveva fatto male, la sua pelle gelida, ma era stato bello – bello in quel modo strano e nuovo che nonostante sembrava naturale, familiare. Istintivo. Umano.
«Devo parlare con Liwet. Resta qui.» le ordinò, ancora senza guardarla.
«Credo» trillò Eisheth con una risata acuta, facendola sobbalzare: non si era accorta che si fosse di nuovo avvicinata, con quel corpo tanto minuto «che sia meglio farla ascoltare, caro. Non c’è tempo per spiegarle tutto più tardi.»
«C’è.»
«Liwet è stanca, povera cara: influenzare due Custodi contemporaneamente, così a lungo, immatura com’è... e anche Sephon sarà esausto. Non perdiamo tempo, rischiamo che si deconcentrino.» abbracciò di scatto Amitiel, premendo la guancia contro il suo ventre «E non priviamo Amitiel della tua presenza per questi ultimi istanti, sì?»
Prima ancora che il cherubino tentasse di allontanare quel corpo infantile da sé, Michael l’aveva strattonato lontano da lei e con un brusco cenno del capo aveva ordinato a Liwet di raggiungerli. La donna scavalcò il corpo a terra con una noncuranza che stonava con la sua aria gentile e si avvicinò a passi piccoli e rapidi; dava l’impressione di fluttuare, più che di camminare, e il suo viso grondante sangue dallo squarcio sembrava una maschera congelata in un’espressione materna. Amitiel non riusciva a capire se quella donna le piacesse o meno.
«Avete bisogno di me?» chiese con voce sommessa una volta che li ebbe raggiunti, fermandosi per rispetto un paio di passi più indietro di Eisheth.
«Ripeti anche a loro il tuo suggerimento, cara.» la invitò Eisheth, in tono di comando quasi gentile.
«Si potrebbe» lasciò vagare lo sguardo su tutti loro, Amitiel compresa, che si stupì di una simile considerazione verso un cherubino «simulare un attacco. Isolato, improvviso, non pianificato. In alcun modo legato alle nostre strategie. Mirato solo al Custode, per vendetta – magari da parte di un folle, privo di controllo, perché non venga considerata una voluta violazione dei patti da parte di tutti noi. Casuale il luogo, casuale la presenza dei Cherubini.»
«Ho giusto qualcuno di cui volevo liberarmi da un po’.» Eisheth batté le mani, entusiasta «Posso convincerlo a venire qui e fargli perdere il controllo.»
«Non avevo dubbi sulla capacità della tua Influenza.» le rispose Liwet, con un tono che non sembrava adulatorio, ma solo velato di una sincera ammirazione «E tua figlia mi sembra abbastanza matura da fingere in modo convincente.»
«Non Amitiel.» intervenne Michael «E c’è il rischio che venga... vengano ferite anche loro.»
«L’accusatore più attivo dai tempi delle grandi Cadute e due Cherubini di cui quasi s’ignora l’esistenza. Tu attaccheresti i Cherubini, sì?»
«Rimane il problema. Amitiel non sa mentire.»
«Prima imparerà, più possibilità avrà di sopravvivere in Paradiso. Sono certa che Anane saprà essere un’ottima maestra.»
«Anane è un’allieva del ciclo superiore.» intervenne Liwet in tono pacifico «Vorranno parlare con lei, non con una della quinta classe.»
«È un rischio.» ringhiò l’uomo.
Continuava a non guardarla, notò Amitiel, e a rimanere distante; parlava come se lei non ci fosse, un contrasto stridente e offensivo con la considerazione che Liwet continuava a riservarle, attraverso brevi occhiate rassicuranti.
«Hai altre soluzioni, caro?»
Michael non rispose.
«Perfetto. Liwet, devo abbandonare questo corpo, riportalo dove l’ho preso. Spiega tu a mia figlia e a Sephon – lui saprà gestire tutto. Mia cara» si volse verso Amitiel, ghignando «se vuoi farti spiegare qualcos’altro sullo Sviluppo, io sono sempre disponibile.»
«Evita, Eisheth.»
«Sempre felice che tu riconosca il nostro legame, figlio mio, ma non farti distrarre troppo dall’affetto verso di me. Sta’ attento, tesoro, mi raccomando.»
E, schioccatogli un bacio sul palmo di una mano, lasciò quel corpo. Amitiel poté giurare di aver scorto una sottile traccia rossastra svanire dagli occhi del bambino, come un filo di fumo, prima che questi si accasciasse privo di sensi; il cherubino sussultò, vedendolo inerte, ma Liwet lo afferrò prima che crollasse a terra e, strettolo al petto senza fatica, le mormorò: «Rinverrà tra poco, non temere. Per lui sarà solo come aver dormito molto a lungo.»
Espose le ali nere da angelo caduto e si alzò in volo senza un’altra parola. Amitiel la salutò con un cenno della mano appena abbozzato, come per ringraziarla dell’attenzione che le aveva concesso – anche se a ben vedere nessuno, nemmeno Liwet, le aveva chiesto se si sentisse in grado di sostenere quella recita. D’altronde, era un cherubino: che importanza potevano avere le sue parole?
Gli Sconsacrati non erano poi molto diversi dagli Angeli.
Michael rimase per un istante in silenzio, senza guardarla, poi si avvicinò al corpo che ancora giaceva a terra, immobile – doveva aver perso tanto sangue da non riuscire più a controllare i movimenti. Lei distolse gli occhi. Era possibile essere più colpita dal comportamento scostante del caduto che dall’orrore di cui si era resa complice?
...sì, evidentemente lo era, almeno in quel momento. Voleva che tornasse a guardarla, a prestarle attenzione, a toccarla – no, a toccarla no, perché era un’oscenità, quello che provava.
Come se tessere legami con gli Sconsacrati non fosse anch’esso una colpa.
«Michael?» lo chiamò, esitante, senza osare avvicinarsi.
«Taci.»
«...perché?»
Non era un ‘perché devo tacere?’, ma un ‘perché fai così?’ e, anche se forse Amitiel non se ne rendeva nemmeno pienamente conto, lui invece lo colse. Le sue enormi ali da arcangelo ebbero un fremito.
«Sei alla quinta classe. Non posso sporcarti. Lo vedrebbero.»
«Avevi detto che... l’essenza dei Cherubini...»
«Non in quel senso.»
«Non capisco.» ammise, frustrata. Voleva che tornasse a stringerla; perché non poteva? Perché si allontanava? Perché cercava di ignorarla il più possibile?
«Ti cambierebbe. Ti farebbe... maturare, in modo troppo rapido e troppo evidente.»
«Davvero?»
«No, sto lontano perché lo trovo divertente.»
Era un’ammissione – strappata come un ringhio sarcastico, ma pur sempre un’ammissione. Le fece piacere. Persa tra il compiacimento che le riscaldò le guance e il languore tiepido che ancora le accarezzava il ventre, aveva quasi dimenticato l’orrore per quel corpo dilaniato e abbandonato a terra.

* * *

«E così» stava dicendo Cassiel, seduta con le gambe nel vuoto sul robusto ramo di un albero che, con la sua chioma, le proteggeva parzialmente dalla pioggia «tu sei l’allieva dell’Autorità più influente dell’intero collegio?»
«Non la più influente.» la corresse Sachiel, accanto a lei, sovrastando a malapena lo scroscio dell’acqua «Quella che riferisce all’arcangelo Raphael e al Consiglio. È un ruolo onorevole, ma non concede poteri maggiori rispetto alle altre Autorità.»
«Sì, naturalmente. Mi sono espressa male.»
Il tono di voce, l’espressione, la luce che brillava nei loro sguardi, tutto contraddiceva il senso delle loro parole. Leliel era riconosciuta da tutti come l’Autorità più influente della loro Circoscrizione, e questo garantiva ai suoi allievi una posizione altrettanto considerevole nelle implicite gerarchie dei Cherubini; persino i Custodi, se non tutti gli adulti, avevano un atteggiamento più rispettoso nei loro confronti, poiché era preferibile non attirarsi i rancori di chi un giorno sarebbe di certo stato influente.
Questo nonostante i Cherubini del ciclo superiore fossero tutti alla pari, indipendentemente dal loro insegnante, e che non fosse permesso né privilegiare qualcuno né portare rancore. Ma d’altronde non era nemmeno regolare che ad un’Autorità fosse riconosciuto maggior potere rispetto alle altre.
Si parlava per sottintesi.
Quando Cassiel aveva terminato di analizzare ogni presenza, con delle Percezioni sorprendentemente sviluppate – sorpresa di cui l’altra non aveva voluto mostrare alcun segno –, Sachiel non si era perciò stupita che sfruttasse quella pausa per informarsi sull’identità del suo insegnante. La domanda, pronunciata in tono casuale e disinteressato, nascondeva in realtà la valutazione di quanto rispetto le fosse dovuto; e, benché il solo fatto di essere al ciclo superiore le garantisse una posizione superiore a quella dell’altra, Sachiel aveva accontentato quella curiosità calcolatrice con non poca soddisfazione.
Avrebbero dovuto rimproverarla per quella superbia che mostrava spesso con gli altri allievi, ma in realtà nessuno poteva biasimarla davvero – in primo luogo la sua maestra. Quando con la voce le suggeriva di essere più umile con i suoi pari, con gli occhi sembrava invece ordinarle di mostrare un po’ di quell’orgoglio anche con gli adulti; il problema era che, in quanto adulti, Sachiel li rispettava troppo per non essere modesta.
Non che non rispettasse gli altri Cherubini – sarebbe stata un’arroganza inaccettabile – ma aveva guadagnato la propria posizione con impegno e intendeva sfruttarne i vantaggi; e la sua maestra, dietro un’esortazione a concentrarsi solo sullo studio e non su simili distrazioni, sarebbe stata senza dubbio compiaciuta da questi pensieri.
Chi sembrava non rispettare gli altri Cherubini – e ne aveva di certo meno motivo di Sachiel – era Cassiel: con gli occhi neri animati da una scintilla calcolatrice e ambiziosa, dava l’impressione di valutare gli altri a seconda della loro utilità e di ritenersi superiore ad ogni altro in virtù della propria genialità. Era quella genialità a permetterle un comportamento simile, lasciando un senso d’invidia strisciante, una rispettosa ammirazione, una vaga confusione. Cos’altro si poteva esigere da chi, ad un soffio dalla propria creazione, era quasi alla fine del ciclo? Quanto altro impegno era lecito pretendere? Si poteva biasimare la sua superbia per qualcosa che le era riconosciuto da tutti?
Forse il problema, rifletté Sachiel, era proprio che non le si chiedeva nulla più di ciò che già dava. La obbligavano a saltare classi, a recuperare interi libri in appena qualche ciclo temporale, ma non sembrava risentirne: non appariva stanca, provata, o anche incerta su ciò che aveva dovuto apprendere tanto in fretta. Gli insegnanti esigevano solo che non rimanesse indietro rispetto al gruppo e questo non doveva essere troppo pesante, data la sua genialità; non si doveva sforzare più di qualsiasi altro allievo, in proporzione alle sue capacità.
Il che, Sachiel lo sapeva, era un errore. Avrebbe dovuto andare a riposare esausta, dolorante, molto più degli altri Cherubini; avrebbe dovuto impegnarsi sino allo sfinimento, per completare il periodo da cherubino nel minor tempo possibile, e non in quello che si riteneva fosse adatto al suo talento. Non dava più di ciò che le veniva chiesto, mentre avrebbe dovuto sempre offrire tutto ciò che era in suo potere. Lo Specchio sapeva insegnare bene questo tipo di sacrificio, ma lei, che esulava dalla didattica classica, avrebbe dovuto impararlo in altro modo – ancora da cherubino, possibilmente, in modo da non rischiare la vita per non essersi impegnata abbastanza in uno scontro.
Sachiel si sistemò meglio sul ramo, la schiena ritta e le gambe solo leggermente oscillanti nel vuoto. Si voltò per osservare l’altra, che nel frattempo era tornata a concentrarsi sulle proprie Percezioni, sotto suo ordine; spostando dietro un orecchio una ciocca sfuggita alla treccia, notò che Cassiel invece portava i capelli più corti, raccolti da un nastro. Non era usuale: benché non vi fosse una netta distinzione, le allieve preferivano superare almeno le scapole o tagliarli tanto corti da non doverli legare, mentre alle spalle era una misura tipicamente maschile. In questo, e nel suo celare il seno e i fianchi da donna lasciando gli abiti larghi il più possibile, sembrava quasi voler rinnegare il proprio sesso – la propria inferiorità nei confronti di chi, a parità di rango, le sarebbe sempre stato superiore in quanto uomo.
Non era stata educata ad accettare la subordinazione, evidentemente. Abituata a sentirsi superiore, a non impegnarsi a fondo, a compiacersi sterilmente del proprio talento; Leliel non ne sarebbe stata soddisfatta, rifletté. Forse non l’avrebbe ritenuta abbastanza matura per il ciclo superiore.
«Sachiel.» la riscosse l’altra, con voce stranamente incerta. Aveva le palpebre socchiuse, come se non sapesse decidere se aprirle o serrarle di nuovo, e i denti affondati nel labbro inferiore. Le ali tremavano lievemente, le mani artigliavano spasmodicamente la corteccia del ramo, l’essenza – Sachiel la scorgeva con poco sforzo – si tendeva con inquietudine.
«Sì?»
«C’è... qualcosa. Qualcosa di strano.»
«Cosa?»
«Non lo so, non riesco a concentrarmi. Mi... respinge.» si umettò le labbra «Ma c’è, lo sento. È disturbante.»
Ansia. Angoscia. Inquietudine.
...sollievo.
«Sto cercando, ma non avverto nulla.»
«Cerca meglio
«Porta rispetto, fascia rossa.» sibilò, perdendo momentaneamente la concentrazione.
Cassiel chinò il capo senza scusarsi.
«Continuo a non avvertire nu-» ad occhi sgranati, dovette aggrapparsi ad un ramo sopra di sé per non cadere «Dai Guardiani, subito.»
«Cosa-»
«Subito!»

* * *

Capitolo tre, paragrafo nove: pioggia (maiuscolo, sottolineato). Precipitazione dalle nubi (sottolineato; vedi capitolo due, paragrafo quattro) di gocce d’acqua (sottolineato) più o meno grandi e fitte. Spesso accompagnata da bassa temperatura (vedi capitolo uno, paragrafo due), minore luminosità (vedi capitolo uno, paragrafo uno), vento (vedi capitolo tre, paragrafo otto). Se di particolare intensità, accompagnata da tuoni (vedi capitolo quattro, paragrafo sei) e fulmini (vedi capitolo quattro, paragrafo sette), prende il nome di temporale (maiuscolo, sottolineato).
Indispensabile per la crescita della vegetazione (sottolineato; vedi capitolo sette, paragrafi dieci e undici) e per la stabilità dei corsi d’acqua (sottolineato; vedi capitolo sette, paragrafo sei).

Aveva riletto quel paragrafo così spesso, per tentare di capirlo, da impararlo a memoria, e continuava a ripeterselo – note e sottolineature e maiuscole incluse – per assicurarsi che quella che si riversava su di lei fosse effettivamente pioggia. Aveva dovuto assicurarglielo Michael, appena prima che Anane arrivasse e lui si congedasse con una lieve carezza ai capelli, altrimenti non l’avrebbe mai compreso: ‘precipitazione’ non rendeva bene l’idea di quella moltitudine di gocce sottili rigettate dal grigiore delle nubi, non definiva la sensazione dei rivoli che scorrevano lungo il corpo, non descriveva quel tamburellare rilassante, non tratteggiava l’immagine dell’acqua che rimaneva impigliata tra i capelli come piccole lacrime, non evocava quel profumo intenso, strano, piacevole – l’odore tipico di un bosco sotto la pioggia, terra e muschio e umidità, che in Paradiso non aveva mai potuto percepire.
La pioggia la lavava dal sangue che era rimasto sul tessuto della sua divisa – difficile da sporcare e semplice da pulire, con suo enorme sollievo. La accarezzava con dita fredde, delicate, come la mano di Michael tra i capelli prima che si congedasse. La cullava con il suono ritmico e ipnotico, melodioso quanto la voce di Anane che tentava di rassicurarla. La investiva con il suo profumo, la avvolgeva in un abbraccio leggero, la immergeva in un mondo ovattato. La meravigliava sussurrando storie d’acqua che sgorgava dalle sorgenti, scivolava lungo i ciottoli del greto come un nastro d’argento e giungeva alle onde spumose dell’oceano, e poi risaliva sino al cielo e si riversava di nuovo verso il basso per nutrire il terreno arido; storie di pietre levigate dalla corrente, di sentieri scavati dal suo corso lungo le pendici dei monti, di villaggi sorti lungo il suo corso; storie di creature che si erano chinate sui suoi flutti per dissetarsi, di radici affondate nel terreno umido per assorbirne vita.
Se si concentrava su di essa e sulla sterile ripetizione di ciò che aveva studiato, poteva rimanere distaccata. Assorta nel suo ripasso, le mani tese in avanti per raccogliere la pioggia, gli occhi fissi sulla scena senza quasi vederla davvero, riusciva a cancellare tutto il resto.

«Amitiel? Amitiel, non piangere, per favore, non piangere. Andrà tutto bene.»

Capitolo tre, paragrafo nove: pioggia (maiuscolo, sottolineato).
Via la sagoma del demone che si avventava sul corpo a terra e feriva, lacerava, dilaniava.

«Adesso finisce, non preoccuparti, tra poco chiamo i Custodi.»

Precipitazione dalle nubi (sottolineato; vedi capitolo due, paragrafo quattro) di gocce d’acqua (sottolineato) più o meno grandi e fitte.
Via l’odore dolciastro e nauseante del sangue.

«Girati, non guardare, non guardare!»

Spesso accompagnata da bassa temperatura (vedi capitolo uno, paragrafo due),
Via la nebbia bianca che si diffondeva, sottile, dagli occhi quasi vitrei del Custode.

«Amitiel, non devi vederlo, girati!»

minore luminosità (vedi capitolo uno, paragrafo uno),
Via la nube rossastra che soffocava lentamente quella foschia, come ingoiandola.

«Va tutto bene, va tutto bene, non guardare.»

vento (vedi capitolo tre, paragrafo otto).
Via Anane che la abbracciava ma non faceva niente, niente, assolutamente niente per fermare quello scempio.

«...ci sta mettendo troppo tempo.»

Se di particolare intensità, accompagnata da tuoni (vedi capitolo quattro, paragrafo sei) e fulmini (vedi capitolo quattro, paragrafo sette),
Via la voce fredda e calcolatrice che neanche sembrava appartenerle.

«Di questo passo, qualcuno potrebbe accorgersi di... no, tranquilla, va tutto bene, va tutto bene, non piangere.»

prende il nome di temporale (maiuscolo, sottolineato).
Via i suoi occhi azzurri socchiusi per concentrarsi e controllare i movimenti dei Custodi.

«Amitiel, ti ricordi cosa devi dire ai Custodi, sì?»

Indispensabile per la crescita della vegetazione (sottolineato; vedi capitolo sette, paragrafi dieci e undici)
Via l’urgenza della sua voce, le mani che le scuotevano le spalle.

«...arriva qualcuno.»

e per la stabilità dei corsi d’acqua (sottolineato; vedi capitolo sette, paragrafo sei).
Via Ramiel, la Guardiana, che compariva all’improvviso tra gli alberi e si avventava sul demone.

«No. No, no, no, no...»

Capitolo tre, paragrafo nove: pioggia (maiuscolo, sottolineato).
Via il corpo dilaniato del Custode a terra, i suoi occhi annebbiati dal dolore.
I suoi occhi vivi.





***
Angolo autrice
Grazie a chi legge, inserisce la storia in una delle tre liste e soprattutto commenta!

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Capitolo 18
*** 17. Quarto Evo ***


Capitolo 17 – Quarto Evo





Il lungo corridoio che collegava i palazzi di Autorità e Censori era silenzioso, deserto. Nessun suono di passi risuonava sotto il candido soffitto a volta; nessuna figura s’intravedeva, dall’esterno, oltre vetri su entrambi i lati – da una parte la piazza che separava i due palazzi, dall’altra edifici più bassi che dal lato opposto costeggiavano la Via. Le uniche presenze erano i due Esecutori alle estremità, immobili appena oltre il punto in cui il corridoio terminava di snodarsi in un palazzo per superarne le mura e collegarsi all’altro: controllavano il movimento e si rendevano disponibili ad Autorità e Censori per trasmettere messaggi – entrambi compiti riservati ai Guardiani, di solito, ma la scarsità di fasce nere aveva ormai reso necessario affidarsi a quelle blu.
L’Esecutore che sorvegliava il passaggio dal palazzo dei Censori si spostò con deferenza non appena, svoltata un’ansa del corridoio all’interno, comparve una donna: le ali candide da serafino raccolte sulla schiena, la fascia color avorio delle Autorità a cingerle i fianchi. Coperta la distanza che li separava, lei gli concesse un cenno del capo in saluto e si diresse silenziosamente verso l’altro palazzo, ma dopo pochi passi arrestò l’andatura lieve e regolare per voltarsi, come richiamata da qualcuno; infatti un istante più tardi l’Esecutore si spostò di nuovo per permettere il passaggio ad un altro serafino, con la fascia bianca dei Censori. Gli occhi verdi erano puntati sulla donna, non infastiditi dalle ciocche rosse, tagliate corte in modo da non sfiorarli nemmeno – ma, nonostante quel colore che ricordava vagamente i Cherubini, nessuno avrebbe potuto definirlo infantile, con quello sguardo freddo e l’espressione distaccata.
«Autorità.» la salutò per primo, senza un accenno di calore.
«Censore.» rispose nello stesso modo «Ho un impegno. Devo il tuo Richiamo ad un motivo improrogabile, o possiamo rimandare?»
«Sarò breve, Autorità, non temere. Se mi concedi di accompagnarti sino ai vostri uffici, non ti richiederò altro tempo. Stavo proprio recandomi lì.»
«Come desideri, dunque.»
S’incamminò di nuovo nel lungo corridoio, verso il palazzo delle Autorità. Il Censore la affiancò dal lato che lasciava intravedere il Fuoco della Via, sulla destra, come a ribadire la superiorità del proprio sesso e della propria carica; tuttavia rimase un passo indietro, poiché era lui a doverle chiedere qualcosa e ad essere in suo potere, e non il contrario.
Una situazione che non favoriva nessuno dei due; piuttosto abituale. Sin da cherubini il loro rapporto era stato teso, ma da quando avevano ottenuto ruoli così prestigiosi si era logorato più di quanto in principio ritenessero possibile. Non avevano semplicemente sostituito Censore e Autorità ai loro nomi; al di là dei Daniel e Leliel taciuti, qualcosa di più profondo e velenoso aveva scavato un solco di rancori e invidie, nel terreno ammorbidito da un’infanzia trascorsa a detestarsi – circostanza comune, per i Cherubini cresciuti durante il convulso Secondo Evo, ma che di rado aveva una raggiunto simile intensità. Nessuno dei due era ancora riuscito a prevalere in quella lotta silenziosa, che languiva in uno stato di parità sin dal momento in cui era iniziata.
Lotta che stava per raggiungere anche un altro ambito, a quanto Leliel poteva capire dalle vuote formule con cui l’uomo stava esponendo la propria richiesta.
La tutela di un allievo del ciclo superiore. Non una novità, per lui: benché l’attività di insegnante di Daniel non fosse assidua quanto la sua, non era nuovo ad un simile compito; più volte aveva osservato le lezioni dell’arcangelo Hadar nella settima classe, non di rado anche quelle di Khamiel nella sesta, alla ricerca di un cherubino particolarmente promettente tra quelli già considerati migliori. Da quando era divenuto Censore, non aveva mai ottenuto risultati inferiori all’eccellenza, con i suoi allievi – gli errori del periodo precedente erano ormai dimenticati da tutti, e quei due Custodi non diminuivano la gloria dei molti Guardiani e Strateghi che aveva formato in seguito. Diversamente da lei, che aveva avuto tra i propri allievi un traditore e un debole morto al primo scontro, Daniel non aveva mai avuto altra colpa che l’inesperienza.
Questo era il contenuto, celato dietro formule rispettose e sorrisi cortesi: l’esaltazione del proprio operato, lo svilimento del suo. Se stava chiedendo la tutela di un allievo a lei e non ad un’altra Autorità solo per soddisfare la propria vanità, però, sarebbe rimasto deluso, poiché lei non aveva alcuna intenzione di mostrarsi colpita. Giunti al termine del lungo corridoio, Daniel doveva ancora comunicarle il nome dell’allievo – il Censore non aveva il dono della sintesi e, anzi, sembrava compiacersi delle vuote formule con cui diluiva il discorso – e Leliel non aveva ancora dato il minimo segno d’irritazione per le continue allusioni ai suoi fallimenti.
«Devo chiederti di sintetizzare, Censore: siamo quasi giunti.» gli disse, quando furono abbastanza lontani dall’Esecutore per non essere uditi «Il nome dell’allievo?»
Fu con malcelata soddisfazione e con ancor meno discreta sfida che Daniel identificò, finalmente, l’allievo – o meglio l’allieva – che avrebbe avuto l’onore della sua guida; e fu con poco stupore che Leliel lo accolse, benché avesse sperato di essersi ingannata nelle proprie previsioni.
E invece.
Cassiel.
Il cherubino per cui lei aveva già – informalmente – sporto richiesta alle altre Autorità, e che avrebbe assicurato gloria a sé e al suo insegnante. Nessun altro aveva osato avanzare rivendicazioni su Cassiel, sapendo delle sue intenzioni e ritenendola una valida guida; e se qualcuno non ne era sicuro, aveva accortamente scelto di non esprimere i propri dubbi. Non riteneva ancora il cherubino una sua proprietà, ma aveva sperato che il Censore non volesse scatenare una lotta, sottovalutandole l’astio e l’ambizione.
Spettava alle Autorità decidere a chi andassero affidati gli allievi del ciclo superiore, ai Censori approvare la loro scelta; i membri più influenti della fascia dell’insegnante dovevano valutare se l’ulteriore compito non gli richiedesse troppo tempo o troppa attenzione; l’atteggiamento di tutti gli adulti verso il cherubino avrebbe poi gettato su allievo e maestro l’ombra della mediocrità, o li avrebbe al contrario consacrati entrambi alla gloria.
Non era mai accaduto prima che tutti dovessero schierarsi a favore dell’uno o dell’altro, perché entrambi erano sempre stati abbastanza accorti da capire che una lotta troppo palese avrebbe devastato la loro Circoscrizione senza portare a nulla. Perché rompere quel tacito accordo? Erano già in una situazione fin troppo incerta, senza aggiungere conflitti intestini. Avrebbero rischiato di soccombere e, in un clima simile, sarebbe ricominciato tutto ciò che aveva reso il Secondo Evo così convulso e incontrollato.
Angoscia. Sospetti. Livore. Tradimenti reali e presunti.
Qualcuno ne sarebbe uscito...
La sua espressione, a quel pensiero, mutò per la prima volta in un lieve turbamento – violento allarme ben mascherato.
Qualcuno ne sarebbe uscito completamente annientato.
Il possesso di un cherubino – perché di possesso si trattava, con quell’avanzare rivendicazioni e diritti sulla sua essenza immatura – era appena divenuto il nuovo ambito di scontro tra Autorità e Censore.
Forse l’ultimo.

* * *

Il vento sibilava tra le cime più alte, scuotendo le foglie di un verde smorto, accarezzando le cortecce ruvide. Un intenso aroma di erba bagnata lo colpiva, quando respirava per percepire gli odori, e acuti richiami di animali gli ferivano l’udito abituato al silenzio.
Il Paradiso gli sembrava sempre più perfetto ogni volta che discendeva nella dimensione umana – occasioni che erano andate diradandosi nel corso della sua esistenza, arrivando persino a non accadere per tutto il tempo in cui il suo gruppo di allievi si era completamente rinnovato quattro volte. Aveva chiesto e ottenuto di rimanere nella dimensione angelica.
Troppi ricordi, troppi rimpianti. Memorie ancora troppo vive di persone che, in realtà, morte non erano.
Aveva sperato di non dovervi discendere almeno sino a quando anche le ultime testimonianze tangibili sarebbero scomparse dallo Specchio, inghiottite dalla marea febbrile della vita adulta – ali bianche e identità perse sotto il colore di una fascia, niente più volti familiari, niente più essenze immature che portavano un’impronta dolorosamente conosciuta. Niente più promesse da mantenere.
E invece era tornato in quel luogo mutevole e pregno di ricordi, imperfetto di un’imperfezione che poteva quasi amare. L’inchiostro con cui tratteggiare la perfezione si era esaurito in Paradiso, con i suoi colori sempre accesi e vitali, le superfici lisce, suoni rari e odori inesistenti; la dimensione umana sembrava essere stata abbozzata da una penna dal tratto troppo chiaro e irregolare, che nel disegnare una figura avrebbe probabilmente reso i capelli con il semplice candore della carta, gli occhi trasparenti, la pelle diafana. Un nitore abbagliante che in pochi sarebbero stati in grado di apprezzare, come in pochi apprezzavano le imperfezioni della dimensione umana.
Era cambiata, nei secoli in cui lui era stato assente: la notte sussurrava maligna di carestie e guerre e morte, la luna mormorava confortante di vita e pace e sviluppo. O forse – probabile – era solo la sua immaginazione, perché, se qualcuno avrebbe potuto trarre bisbigli dagli astri e dall’oscurità non era di certo lui.
...chissà cosa sussurrava in realtà la notte, alla figura che gli dava la schiena. Stava immobile, inginocchiata su un masso nel torrente, le mani posate morbidamente sulle cosce, il capo chinato a guardare il proprio riflesso nell’acqua; le ali da serafino esposte e dilatate, così com’era dilatata l’essenza, per dare finalmente sfogo al proprio potere. Le ombre notturne guizzavano, ai lati del campo visivo dell’uomo, e non c’entravano le nubi che spesso oscuravano la luna.
Si stupiva che gli avesse permesso di giungere fino a lei, ma forse lei si stupiva ancor di più che fosse disceso per cercarla.
Rimase in piedi sulla riva, cogliendo in un’ombra più densa delle altre l’avvertimento a non avvicinarsi ancora.
«Perché?» gli chiese lei, semplicemente «Perché, Nelchael?»
Ed era una domanda bisbigliata in tono così esausto, così rassegnato che dovette impedirsi di raggiungerla; ma soprattutto era una domanda, e tra gli Angeli nessuno avrebbe mai osato formularne una ad alta voce, senza la certezza di essere al riparo da un tradimento.
Chiedere perché equivaleva ad offrire la propria reputazione, la propria sicurezza, la propria stessa esistenza. Sarebbe bastato un accenno dell’accaduto ai Censori, per strapparle ogni goccia di quel rispetto così faticosamente guadagnato.
Leliel si stava fidando.
«Daniel?» indovinò lui, con voce quasi gentile.
Il serafino alzò il viso per guardare il cielo. La luna.
Troppi ricordi anche per lei.
«Daniel. Sta chiedendo di schierarsi.»
«Ora? Si sta preparando una guerra e lui inasprisce i conflitti?»
«Il Paradiso – la nostra Circoscrizione – è terrorizzato. È il passato che torna, sì? Le lotte, l’angoscia... siamo al limite. Quando lo supereremo...» rise, aspra «Quando lo supereremo sai cosa accadrà, sì?»
«...lo so. C’ero.»


E, come lui, molti altri – o almeno quelli che non erano andati persi nelle Condanne, nelle grandi Cadute, nelle circostanze convulse in cui il Paradiso si era purificato e ricostruito. C’era Leliel, c’era Daniel, c’era una donna crudele e corrotta che aveva avuto più amore e coraggio di molti puri. C’era una figura d’inchiostro sbiadito, imperfetta e mutevole come la dimensione umana, che osservava il mondo con occhi trasparenti; figura candida che era maturata e cresciuta, rendendo infine il proprio sguardo viola e le proprie ali uguali alle altre. C’erano anche altre figure incolori, sempre che di loro si potesse dire questo, perché in realtà non erano, solo corpi acerbi come gusci vuoti in attesa di essere colmati – attesa vana. Attesa eterna.
Era un Paradiso immaturo, che muoveva passi incerti dopo che la prima grande Caduta l’aveva sconvolto, segnando la fine del Primo Evo; erano Angeli che si guardavano attorno, scossi e angosciati, temendo altri traditori. La serenità se n’era andata per sempre, o almeno così sembrava, e persino i Cherubini se n’erano resi conto – ma come non rendersi conto di un cambiamento così grande? Schiene lisce, ali candide, corpi acerbi pronti a mutare; e cicatrici e sangue e piume rosse, e la fissità di corpi già maturi. Diffidenza, insulti sibilati a mezza voce, occhi di vetro e figli di nessuno, due schieramenti opposti che logoravano lo Specchio – lo, perché a quel tempo erano in pochi e ancora non vi erano Circoscrizioni, né schemi ripetuti mille volte e in mille luoghi –, alleanze basate sul sangue e sulle origini. Cherubini che non avrebbero dovuto esistere, che avrebbero dovuto avere sguardi trasparenti e corpi inerti; Cherubini che sperimentavano per primi il cambiamento, nati dal Fuoco e non dall’essenza materna. Il Primo Evo che ancora languiva durante la loro infanzia, instillando sospetti e rancori, gettando le basi per ciò che sarebbe accaduto.
E ancora altre Condanne, altre Cadute, la diffidenza tornata a logorare il Paradiso. Il Secondo Evo che si chiudeva insieme ai cancelli dell’Eden.
Infanti che portavano il marchio indelebile di una schiena liscia e che in quel momento crollavano sotto il peso di sangue traditore, se non erano stati generati da Angeli ancora tali e non Sconsacrati; e c’era chi proponeva di isolarli, di allontanarli, per la grave colpa di essere nati. Serviva qualcuno contro cui scagliarsi, per sentirsi poi al sicuro da altri tradimenti, e quei Cherubini erano la preda migliore – ultimi resti di un passato che si era rinnegato e cancellato, provocavano timori e angosce pur non avendo macchie, e Nelchael si era trovato più volte a ringraziare di avere quegli squarci sulla schiena. Una grettezza di cui anche a posteriori non riusciva a vergognarsi, perché era terrificante il pensiero di essere uno di loro, di subire le accuse e gli insulti – occhi di vetro, come se fossero nati dopo, bambole inerti la cui esistenza non era contemplata.
I pochi che erano riusciti a non crollare – ed erano stati pochi, veramente pochi – avevano dovuto dimostrare la propria devozione al Paradiso più di quanto fosse lecito pretendere; di quei pochi, quasi tutti erano poi divenuti cenere, essendosi fatalmente trovati in luoghi sbagliati a momenti sbagliati. Perché nessuno avesse tentato di avvisarli del pericolo, però, non era una domanda che qualcuno avesse mai voluto porsi.
I sopravvissuti non erano che qualche decina, ormai, e di rado in posizioni influenti. L’eccezione era inginocchiata su un masso nel torrente, di fronte a lui, e nessuno avrebbe potuto accusarla di non essersi purificata dall’onta di un sangue maledetto due volte – e poi una terza, per colpa di morti che morti non erano.
Era feroce, rancorosa e inflessibile, ma anche devota al Paradiso più di molti altri.
Di certo più di chi non aveva dovuto conquistare rispetto e fiducia con una difficoltà così esagerata, di chi aveva cercato una posizione influente solo per appagare la propria brama di potere.
Di certo più di Daniel.


«È passato molto tempo, e tu sei un’Autorità in procinto di entrare nel Consiglio. Non devi temere nulla.»
«Sai anche tu di mentire, Nelchael.»


No, Nelchael non mentiva: sperava, e pregava che quella speranza non fosse inutile come l’ultima volta che aveva desiderato salvare qualcuno.
Probabilmente s’illudeva. L’atmosfera in tutto il Paradiso – in generale – e nella loro Circoscrizione – in particolare – stava tornando come durante la loro infanzia: tensioni, angosce, sospetti. Lutti. Accuse maligne, congetture febbrili, menti sconvolte. Il Terzo Evo stava di nuovo rimanendo invischiato nel grumo di inquietudine e odio che aveva intrappolato le epoche precedenti, e di cui loro ancora portavano i segni, Cherubini del Secondo; e che ancora rinnovavano, con quelle lotte tra fratelli, offrendo il petto e la gola agli Sconsacrati.
Leliel era il terrore di molti, e quella paura poteva ritorcersi contro di lei. Anche Daniel lo era, certo, ma per un motivo diverso: l’una era un’ombra del passato, sangue di traditori a scorrerle nelle vene e dominio sulla notte a renderla potente; l’altro un emblema del nuovo Evo, nato dal Fuoco e temuto per la fascia bianca di Censore.
Se si fossero scontrati apertamente, avrebbero dovuto schierarsi i due collegi principali, e poi tutte le altre fasce; e il Consiglio, con i membri di tutte le Circoscrizioni. Diffidenze, alleanze, processi. Una terza grande Caduta, forse; il Quarto Evo.
Chi sarebbe stato sacrificato, questa volta, per la pretesa di purificare il Paradiso?


«Se mi spiegassi, potrei capire meglio.»
«Ricordi Cassiel, sì?»
«Il... mio, quello appena diventato Stratego? Ha chiesto il suo appoggio?»
«No, l’ultima di Haniel. Il genio.» un guizzo minaccioso delle ombre attorno a lei «L’ho chiesta come allieva. Ora l’ha fatto anche lui.»
«No.» ringhiò dopo un istante «Non potete sacrificare un cherubino per una vostra contesa. Non puoi
«Ho scelta?»


No, non l’aveva.
E pensare ad una Leliel impotente era spaventoso. Inconcepibile. Lei, che non si era lasciata trascinare nel fango nemmeno dalla propria nascita, dal tradimento dei propri creatori, dall’onta del proprio sangue; e dal proprio potere così inconsueto e temuto, dal fallimento di un allievo, dalle dicerie maligne. Lei, che dell’autorità aveva il nome e l’emblema.
Sembrava che ogni certezza fosse sul punto di essere sovvertita, e che quel sul punto seguisse la concezione degli Angeli, a cui i secoli potevano sembrare attimi, non riusciva a rincuorarlo. Per lui non cambiava nulla sapere se si dovessero attendere giorni o millenni: era sufficiente la sensazione che qualcosa dovesse accadere, per instillargli un’inquietudine sempre più violenta e opprimente. Anzi, forse non riuscire a quantificarne la durata rendeva l’attesa ancor più tormentata, nonostante vi fosse abituato da millenni – i cicli temporali scandivano solo la vita dei Cherubini, secondo i ritmi del riposo, mentre gli adulti quasi non percepivano il Fuoco del Richiamo. Il tempo si misurava in avvenimenti, in Richiami privati verso le proprie mansioni, in attese interminabili, in ali di infanti che viravano gradualmente al bianco; le ere trascorrevano senza gettare stanchezza sui loro corpi o turbamento sulle loro menti. Creati per sostenere il peso dell’eternità, non vi era nulla da cui non potessero riprendersi in fretta, tornando uguali a prima: i lutti, le ferite, le torture, le delusioni, tutto poteva riversarsi su di loro e lasciarli intatti, immutati.
Un vantaggio, per esseri immortali che non potevano permettersi il lusso di marcire nel proprio dolore come gli Umani.
Una promessa di rovina ad ogni rinnovamento – perché così le chiamavano, quelle rivoluzioni. Rinnovamento. Tutto più puro, più limpido, più giusto. Tutto ripulito dalla decadenza, dalle essenze corrotte. Tutto come in un tempo precedente, sempre migliore dell’attuale, sempre perfetto. Rinnovamento. Il passato che tornava, com’era legittimo che fosse, a proteggere le essenze degli Angeli da pericolosi mutamenti a cui non avrebbero potuto resistere. Il cerchio che si chiudeva, iniziando alla fine. Rinnovamento. Di nuovo come prima, per il loro bene, per la purezza del Paradiso. Nessuna degenerazione folle e viziosa di ciò che era in origine. Rinnovamento. Per il loro bene.
E gli Evi nascevano e morivano, in questo continuo ritorno al passato, e con loro chi non riusciva ad adattarsi. Cambiamento nascosto dalle parole, evoluzione celata dietro rassicurazioni vuote. Rinnovo di un passato che nessuno più ricordava, perché chi esisteva già allora ormai era perso, distrutto, devastato. Schiere intere ritiratesi nella zona neutra del Consiglio, pur di non dover più sopportare oltre.
Cherubini del Secondo Evo che erano i soli adulti del Terzo, superstiti di una rivoluzione a cui avevano potuto adattarsi con la malleabilità dell’infanzia. Essenze rese fragili e folli ugualmente – da guide troppo scosse e turbate dalle grandi Cadute, dalla solitudine, dall’indifferenza, da lotte germogliate tra loro come steli velenosi nutriti dal sangue. Ma folli abbastanza, anomali abbastanza da assistere al crollo di un Evo senza rimanerne sconvolti?
Ne dubitava.
Di certo non vi sarebbe riuscito chi sarebbe caduto sin dall’inizio, sotto il peso di accuse maligne e tradimenti non propri; e forse nemmeno chi avrebbe vinto quella prima lotta – perché ricostruire tutto era incombenza dei più immaturi, non di chi apparteneva ancora ad un Evo precedente. Sarebbero crollati tutti, vittime di uno scontro tra mondi opposti, di un passato che, rinnovato, non smetteva di tormentarli.
Guardò Leliel, le sue ali candide e tese per l’ira, per la disperazione; poi abbassò lo sguardo sulle proprie mani, strette istintivamente a pugno sul tessuto candido della divisa da Esecutore.


«Capisci, Nelchael?»
«...capisco.»


Il Quarto Evo sarebbe nato con la loro morte.





***
Angolo autrice
Grazie a chi legge, inserisce la storia in una delle tre liste, recensisce. Se ne avete voglia, mi fa sempre molto piacere ricevere commenti e consigli (:
...ma possibilmente non sommergetemi d'insulti per non avervi detto nulla su Amitiel xD Nel prossimo capitolo torna, nel frattempo godetevi Leliel e i viaggi mentali di Nelchael. Ho cercato di rendere il tutto il più chiaro possibile - risultando magari un po' prolissa nelle spiegazioni - e, anche se alcune cose devono rimanere per forza vaghe o incomprensibili, spero che non sia troppo pesante. Si tratta di un punto cardine della storia, sappiatelo u.u Non volendo fare spoiler, per ora vi dico solo che ogni cosa di questo capitolo è fondamentale.
A domenica prossima (:

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Capitolo 19
*** 18. Accusa ***


Capitolo 18 – Accusa





Anane poteva dire molte cose di sua madre; alcune inquietanti, altre spiacevoli, quasi nessuna gradevole, che sommate davano davvero un’infinità di informazioni, caratteristiche e aneddoti.
Eisheth era un demone, innanzitutto, e persino più potente di quanto il suo comportamento rendesse lecito supporre. Non erano molti gli Antichi che vagavano per la dimensione umana, immischiandosi nella vita dei figli ed evitando ad intervalli regolari che si facessero ammazzare per una lite, imprudenza, sfacciataggine o qualsiasi altro problema riuscissero a crearsi con le proprie stesse mani. In quest’instancabile opera di soccorso, per giunta, trovava anche il tempo di convincere l’uno a non rendersi figlio unico e l’altra a non perdersi tra sogni, incubi, false promesse e messaggi giunti a lei come brevi scarabocchi su carta umana e riletti poi sino a consumarsi gli occhi.
In secondo luogo, a chi avesse dovuto fare la conoscenza di sua madre – poiché che qualcuno potesse volerlo le risultava in tutta sincerità piuttosto improbabile – avrebbe dovuto comunicare che Eisheth era, appunto, una madre. Non madre creatrice, ma proprio madre madre: con affetto, preoccupazioni e rancori degni del peggior rapporto di dipendenza. Non puoi legarti a qualcuno senza impazzire, diceva spesso il demone, sono cose per gli Umani, non per noi; e sembrava, a dirla tutta, piuttosto fiera della propria follia.
Avrebbe potuto aggiungere molto altro, ovviamente: come, ad esempio, la sua tremenda abitudine di esercitare la propria Influenza su qualsiasi essere senziente, la figlia compresa – benché lei fosse già legata all’Influenza di qualcun altro e, quindi, quella altrui le provocasse crisi emotive anche quando tentava di rallegrarla. Non era neppure certa che tale inconveniente dispiacesse del tutto ad Eisheth, e questo bastava a chiarire la particolarità con cui il demone esprimeva il proprio affetto materno.
Oppure il suo divertimento nello strappare le unghie delle persone. Ecco, questo andava sottolineato, perché poteva capitare che il demone rimirasse affascinato le mani dell’interlocutore; in tal caso, la tattica migliore era affondarle nelle tasche e pregare con tutte le proprie forze di non irritarlo. O anche fuggire il più lontano possibile, ma questa con Eisheth era una buona strategia a priori.
Oppure il profondo livore che provava per il modo di pensare della figlia. Non per le sue idee, ma proprio per come le esprimeva; e, benché di solito lei parlasse in maniera molto più concisa e lineare di come formulava in realtà le proprie riflessioni, Eisheth era in grado di strapparle le parole così come le pensava: non poteva parlare con sua madre senza lasciar fluire le frasi in modo un po’ confusionario, inelegante e grossolano, in cui il soggetto spesso si perdeva tra le prime cinque parole e il verbo arrivava nelle ultime tre, dopo una sequenza interminabile di avverbi e congiunzioni – come se la sua mente divagasse e ricordasse poi di dover ancora concludere una frase di cui, in realtà, quasi non ricordava l’inizio. Se fosse dipeso da Anane, si sarebbe espressa volentieri nel modo più conciso che le era abituale, ma era Eisheth a chiederle di non porre filtri tra pensieri e parole, e se Eisheth chiedeva qualcosa era consigliabile accontentarla; salvo poi lamentarsi dell’ineleganza nella mente di sua figlia, che rifletteva come se stesse conversando con un amico particolarmente amante delle frasi contorte. Questa doveva essere in realtà un’avversione verso qualcun altro che, avendo avuto la sua stessa insegnante alla prima classe, ne aveva assorbito almeno in parte il modo di esprimersi; un modo così caratteristico e riconoscibile che si potevano identificare gli allievi di Kasbeel con una certa sicurezza – almeno quelli della prima classe, a contatto solo con lei, o quelli che ne erano rimasti maggiormente influenzati. Anche Ridwan aveva studiato sotto la sua giuda e, nelle sue parole, spesso Anane poteva individuare le tracce lasciate da Kasbeel; e, anche se il cherubino aveva superato la prima classe in un tempo quasi accettabile, languiva al ciclo superiore da un periodo ben più lungo della norma, perciò non ci si poteva stupire che il suo modo di esprimersi fosse nella sua mente così influenzato dai due insegnanti.
Altra caratteristica che Eisheth trovava francamente esasperante era la sua capacità di perdersi con tutta tranquillità in simili riflessioni mentre, ad esempio, con la massima naturalezza strattonava Amitiel in modo che la coprisse e poi si chinava su quell’infida serpe di Shoftiel per estinguere la sua essenza. Era già tanto debole e fragile che sarebbe bastata la minima pressione offensiva, come quella di un cherubino terrorizzato, per eliminare definitivamente il rischio di un’accusa nei confronti suoi o di Amitiel. Non sapeva invece se quella calma surreale – che dopo un iniziale panico si era impossessata di lei e non sembrava intenzionata ad abbandonarla – fosse una dote di famiglia, un effetto della compagnia di Eisheth, un dono naturale o una conseguenza dell’abitudine; più probabilmente l’ultima opzione, perché aveva ormai compreso che per sopravvivere doveva mantenersi lucida e fredda.
Le lacrime e l’orrore sarebbero giunti più tardi, in solitudine, quando il pericolo fosse stato scongiurato. Per il momento, era spaventosamente calma.
Calma quando, il volto atteggiato ad una credibile smorfia terrorizzata, si chinò sul Custode, come se volesse controllare il suo stato, mentre in realtà si stava avventando con la propria essenza sulla sua.
Calma quando percepì la vita scomparire lentamente da lui, inghiottita dal velo di nebbia cangiante del cherubino.
Calma quando gli occhi dell’angelo divennero opachi, vuoti, privi della scintilla che li aveva resi tanto maligni e tanto odiati.
Calma quando il corpo si tramutò lentamente in cenere, impastata dalla pioggia, che urlava «Assassina!» senza essere – per il momento – ascoltata.
Calma quando, emulando lacrime incontrollate, si accasciò a terra per affondare le mani in quella polvere grigiastra, come se non potesse credere che la propria essenza si fosse avventata, in preda al panico, su quella del Custode.
Invece si agitò un po’ – si agitò molto – quando Amitiel le crollò accanto in ginocchio, piangendo davvero, lei; perché l’amica singhiozzava, ed era una reazione troppo umana per essere mostrata in pubblico.
Dopo un istante notò che non aveva i capelli raccolti dal solito nastro bianco, ma da uno scuro, di tessuto umano. Abituata da secoli a tradire in silenzio il Paradiso, non poté non cogliere quel dettaglio che avrebbe potuto farle scoprire in meno di un istante, perché non avrebbero certo potuto spiegare che fine avesse fatto il primo nastro, e come si fossero procurate quell’altro. Nel migliore dei casi, avrebbero ricevuto una punizione per aver rubato e portato in Paradiso quell’oggetto indegno; nel peggiore – e, quando si trattava di mantenere quella fragile finzione orchestrata per secoli, le cose si volgevano sempre nel peggiore dei casi – sarebbero state scoperte. Si affrettò a strapparle il nastro dai capelli con un gesto brusco, pregno d’urgenza, e a gettarlo tra il folto degli alberi, lontano da loro.
Non aveva bisogno di chiedere ad Amitiel chi glielo avesse dato: ricordava di averlo visto spuntare da una tasca del bambino posseduto da Eisheth.
Delle tante cose che Anane poteva dire di sua madre, figurava sicuramente l’abitudine di essere doppia e infida.
Stava cercando di affrettare la sua Caduta.
...stava cercando di far accusare Amitiel.

* * *

Sachiel si lasciò crollare a terra, in ginocchio, le mani che artigliavano i capelli alle tempie e gli occhi serrati. Un lamento sfuggiva, flebile, dalle labbra socchiuse.
La sua essenza, come impazzita, si tendeva e si contraeva, senza alcuna logica, investita da troppi stimoli; le ali, in preda allo stesso smarrimento, fremevano come se una brezza agitasse le piume, o come se il peso della pioggia fosse eccessivo.
Troppi Richiami che avvertiva pur non essendo diretti a lei, troppe essenze che si tendevano in una ricerca angosciosa, troppo panico che scorreva in un brivido gelido lungo la schiena. I Guardiani sapevano essere efficienti e rapidi – così rapidi da stordirla, per la prontezza con cui avevano reagito le loro essenze. Un qualsiasi cherubino avrebbe potuto semplicemente annullare le Percezioni, ma lei era troppo vicina allo Sviluppo per non godere già della sensibilità degli adulti, che avvertivano ogni cosa anche senza il proprio volere.
Ma, se in Paradiso questo era un vantaggio, nella dimensione umana riusciva solo a stordirla dolorosamente – ancora poco abituata allo stridore delle essenze angeliche in quei luoghi. E alla sgradevole abitudine dei Guardiani di sovrapporre le proprie voci, riuscendo a comprendersi anche se stavano gridando tre o quattro arcangeli insieme.
In compenso lei non aveva capito molto, tra «Ramiel è già lì? Da lei, muovetevi!», «Gabriel, aspetta gli altri, non da solo.», «Avvisate gli insegnanti.» e altri ordini berciati con brusca efficienza da un punto all’altro – spesso così distanti che si era chiesta come riuscissero ad udirsi, prima ancora che ad intendere ciò che l’altro stava dicendo.
Se avesse potuto concentrarsi su qualcosa di diverso dal dolore al capo, avrebbe probabilmente valutato che Cassiel, in piedi accanto a lei, sembrava più contrariata che spaesata. Nessuno più si curava di loro: finché rimanevano tra i Guardiani non avevano nulla da temere, e complimentarsi per la sottigliezza delle loro Percezioni non era certo una priorità.
Ma non poteva, tutta la sua attenzione era focalizzata su quel dolore, lacerante, immenso. Quasi non avvertiva la pioggia scorrerle addosso, le ali vibrare, i movimenti attorno a lei: male, solo male. Stridii assordanti e fitte al capo che le strappavano un gemito ogni volta.
Sussultò quando una mano esile le afferrò un braccio e la costrinse con una certa delicatezza ad alzarsi, senza riuscire a capire se fosse Cassiel o un’adulta – in quel caos assordante non distingueva nemmeno le presenze. Un’essenza tiepida e conosciuta avvolse la sua, impedendole di avvertire altro, e il suo stridore così vicino era più sopportabile di decine e decine più distanti. Le fitte al capo si acquietarono, divenendo pulsazioni sostenibili; tornò all’improvviso consapevole dell’acqua che impregnava i capelli e scorreva sugli abiti inumidendoli appena, delle ali frementi, del corpo tiepido contro cui si appoggiava.
Sollevò le palpebre con espressione rassicurata, quasi distesa, per rivolgere alla donna un sorriso.
Leliel la ignorò, continuando a pronunciare ordini in tono imperioso; tuttavia non smise per un istante di sorreggerla, le ali quasi avvolte attorno a loro per isolare meglio l’essenza dell’allieva. Il sorriso di Sachiel si spense in fretta, divisa tra lo stupore di trovarla nella dimensione umana e il disagio di essersi mostrata così debole.
Le chiese, con un filo di voce, se fosse stata deludente.
«Non hai agito male.» le concesse l’insegnante, dopo aver ordinato ad un Custode di sorvegliare il secondo cherubino.
«Ti ringra-»
«Sei stata tu a percepire quell’anomalia?»
«...l’ho identificata.»
«Ma è stata la tua compagna a percepirla per prima.»
Non rispose, perché non era domanda; un rimprovero, semmai, che la spinse ad abbassare gli occhi e a scostarsi lievemente da Leliel.
«Sta’ ferma. Ci sono ancora troppe essenze per te.»
«Io... mi dispiace esserti di disturbo, maestra.»
«Se avessi trascorso più tempo nella dimensione umana come ti avevo consigliato, ora non mi disturberesti.»
Il cherubino si morse il labbro inferiore, avvilito da quell’accusa ingiusta.
«Ho provato ad abituarmici, maestra, ma-»
«Le labbra, Sachiel. Come ti dico ogni volta
I denti smisero di torturare la carne.
«...non me n’ero accorta.»
«Hai intenzione di non accorgertene nemmeno durante il colloquio con il Censore, o posso sperare che tu acquisisca un po’ di autocontrollo prima dello Sviluppo?»
Disturbata dall’essenza dell’insegnante e mortificata da quel rimprovero, non ebbe nemmeno la forza di formulare una risposta.
«Avrai tempo per migliorare, non temere. Molto tempo.»
Voleva ritardare il suo Sviluppo? Per... per le Percezioni troppo sensibili e un labbro mordicchiato? Era assurdo, assolutamente assurdo, non era certo un motivo sufficiente – non dopo averlo già rinviato a lungo, al punto che tutti si erano chiesti se non vi fosse qualche vizio che non doveva giungere sotto gli occhi dei Censori, o qualche debolezza di troppo per ciò che si diceva del suo talento. Iniziavano a considerarla problematica, iniziavano a macchiarla con dubbi e insinuazioni – perché, per quanto la sua maestra potesse considerarla ingenua, lei vedeva. Udiva. Soffriva.
E ancora Leliel voleva ritardare il momento in cui avrebbe potuto, se non proprio sottrarsi ai sussurri, almeno fissare i maligni negli occhi, senza dover abbassare lo sguardo – piume rosse. Maledette piume rosse. Quante? Poche. Pochissime. Tanto da farla spesso scambiare per un’adulta; ma abbastanza per renderla inferiore a chi, invece, non aveva che candore – candore e un talento che non si poteva neppure pensare di paragonare al suo.
E nonostante tutto rimaneva inferiore.
Non che ritenesse ingiusto quel rapporto gerarchico, naturalmente, ma iniziava ad esserne stanca. Forse era ciò che provava anche Cassiel, nel trovarsi così diversa, così geniale rispetto agli altri Cherubini, e comunque costretta a confondersi tra loro, nient’altro che scarso talento e instabilità e squarci sanguinanti; inadeguata all’ambiente a cui doveva appartenere. Tuttavia abbandonò presto questo pensiero compassionevole, non sentendosi particolarmente empatica o comprensiva in quella situazione – soprattutto nei confronti di chi, a quanto sembrava, le aveva strappato il favore dell’insegnante per il grande merito di aver percepito qualcosa appena prima che se ne accorgesse lei stessa. Cassiel, con il suo genio, si attirava già abbastanza ammirazione da gratificare a sufficienza il suo ego smisurato, che bisogno c’era di rubare anche ciò che sarebbe spettato a lei?
Non le importava di ciò che potevano pensare gli altri – non più di quanto fosse ragionevole, almeno, e poteva permettersi di ignorare ciò che aveva udito, finché non si procurava astio o sospetti particolari. Era Leliel a ferirla, con la delusione e i rimproveri e le pressioni per indirizzarla verso gli Strateghi.
La sua aspirazione segreta – molto segreta, perché l’insegnante non l’avrebbe di certo apprezzata o ritenuta degna di lei, nonostante si ostinasse a non concederle lo Sviluppo come se non fosse mai abbastanza brava, abbastanza zelante, abbastanza giusta – era di perdersi tra le fasce viola degli Esecutori Spirituali, conquistando una posizione non tanto in basso da poter essere attaccata senza timore e non tanto in alto da farla oggetto di invidie. Mire modeste, per un cherubino che dimostrava il suo talento, ma si sarebbe volentieri accontentata di poter guardare con superiorità i semplici Angeli; non aveva alcun interesse nell’inimicarsi Serafini e Arcangeli mostrandosi superba.
Ma ancora poteva far valere il proprio talento solo sugli altri Cherubini – soddisfazione pressoché nulla –, perché aveva il vizio di mordersi il labbro inferiore e Percezioni troppo acute per la sua essenza infantile.
Motivi validi per ritardare ancora il suo Sviluppo e dare adito ad altri bisbigli malevoli.
Motivi davvero molto validi.
«Sachiel.» la richiamò seccamente il serafino, affondando le dita nel suo braccio «Trattieni l’essenza. Almeno di fronte agli interessati, sii più discreta con il rancore.»
«Io...»
«Risparmiami le tue scuse patetiche, cherubino. Non ho tempo da perdere.»
«Come desideri.»
Leliel tornò lentamente a distendere le ali dietro la schiena. La sua essenza, dopo un’ultima pressione – come ad ammonirla a controllarsi –, abbandonò quella dell’allieva; il cherubino vacillò, stordito di nuovo dalla sofferenza, rimanendo in piedi solo grazie al suo sostegno.
Sul punto di lasciarsi cadere in ginocchio, Sachiel faticò a trattenere le lacrime. Uno stridio continuo le assaliva la mente, facendo svanire ogni pensiero nel dolore, spingendo l’essenza a contorcersi e contrarsi nel tentativo di attenuare le Percezioni. Tutto ciò che riusciva ad elaborare lucidamente era l’espressione gelida dell’insegnante e quelle parole, risparmiami le tue scuse patetiche, in un tono che non era né ostile né deluso: semplicemente prendeva atto della situazione con distacco, come se non fosse importante. Come se non le interessasse.
Una fitta più intensa delle altre la fece quasi crollare in ginocchio.
«Sachiel, sai controllare le Percezioni. Devi solo calmarti.»
«Non... mi dispiace, non ci rie-»
«Come si acquieta l’essenza?»
«...come?»
«Come si acquieta l’essenza, cherubino. Rispondi.»
«Autocontrollo.» rispose, confusa.
«E?»
«E lucidità.»
«E?»
«E... e...» si morse il labbro inferiore, senza riuscire a concentrarsi «E... pressione non aggressiva di altre essenze... e...»
«Niente interventi esterni. Come puoi tu acquietare l’essenza?»
«Mantenendomi lucida e... controllata, e... e...»
Il cherubino portò una mano al capo dolorante.
«Le ali, Sachiel. Ritira le ali.»
Perché non c’aveva pensato prima? Umiliazione. Disagio. Si stava mostrando troppo debole.
Socchiuse gli occhi, tentando di concentrarsi sull’essenza, per spingerla a comprimersi. Avvertì le ossa ritirarsi, assorbite dalla schiena, le piume frusciare prima di venire inghiottite; un lieve dolore agli squarci, una pressione spiacevole alle scapole, dall’interno, come se le ali volessero tornare ad esporsi e a distendersi.
Le Percezioni, attenuate dalla quiete dell’essenza, distinguevano in modo vago, poco disturbante: uno stridio sommesso per Leliel così vicina, le presenze confuse dei Custodi, quelle più intense dei Guardiani, la flebile essenza di un cherubino. O più di uno? A tratti le sembrava di percepirne almeno due, ma non riusciva a capire se fosse la realtà o solo un’impressione dovuta alla particolare intensità della presenza di Cassiel.
«Va meglio, sì?» le chiese l’insegnante, dopo averle concesso qualche istante per quella silenziosa analisi.
«Sì, maestra. Grazie.»
«Avresti dovuto pensare subito alle ali.»
«Non... riuscivo a concentrarmi.»
«Risparmiami le tue scuse. La prossima volta, piuttosto, ricordatene.»
«Lo farò.»
«Lo spero. Non si è mai visto uno Stratego perdere il controllo per non aver saputo gestire le Percezioni.»
Una sensazione sgradevole al petto, come una stretta gelida. Ansia.
«Uno... Stratego, maestra?»
«Va’ da Cassiel.» la ignorò «Quel Custode avrà altri allievi a cui badare, tra poco.»
«Vado subito, maestra.»
Anche una volta che si fu allontanata, non riuscì a scacciare quella stretta angosciante al petto. Non si è mai visto uno Stratego... ma lei doveva diventare un’Esecutrice. Sfuggire alle trame delle cariche più potenti e vivere la propria eternità da rispettato membro di una fascia poco considerata in quegli intrighi. Leliel aveva promesso – perché, se non proprio la voce, almeno lo sguardo assicurava che sarebbe stato così – di procurarle una fascia viola e un incarico di insegnante, non poteva all’improvviso tornare a parlare di Strateghi e potere. Doveva aver immaginato lei significati velati in una frase che invece era trasparente, cristallina.
Se si fosse voltata avrebbe visto che l’azzurro limpido degli occhi di Leliel sembrava, in quel momento, il grigio opaco del cielo che continuava a vomitare pioggia.

* * *

«Non volevo, non volevo, davvero, io non-»
«Dopo, cherubino, dopo. Riesci ad alzarti? Aspetta, ecco... così... appoggiati. E tu?»
«Della fascia rossa mi occupo io.»
«Simiel, lascia stare i cherubini e va’ a chiamare una... due fasce viola.»
«Non possiamo lasciarle so-»
«Dopo che tu ti sei precipitata qui da sola, Ramiel, sei l’ultima persona che... Simiel, che ci fai ancora lì?»
«Gabriel, Ramiel, tornate a concentrarvi. Simiel, vai.»
«Cherubino, sta’ ferma. E tu... Amitiel, alzati.»
«Amitiel? Amitiel, stai bene?»
«Ferma, ho detto. Amitiel, lascia stare quella cenere e alzati. E non singhiozzare, non sei umana.»
Voci. Voci che non riusciva a riconoscere mentre si sovrapponevano, ringhiavano, sibilavano ordini, lasciavano trasparire un’angoscia pressante. Non c’era tempo. Servivano Esecutori Spirituali. Ma per cosa? Per cosa? Il demone era ancora vivo? E se era vivo... se era vivo lei – e Anane, sì, certo, anche Anane, come poteva pensare solo a sé stessa? – sarebbe stata scoperta? E quella cenere, quella cenere che stringeva tra le dita, era davvero il corpo di quel Custode?
Aveva visto la sua essenza estinguersi. Estinguersi sotto quella di Anane.
Assassina. Traditrice. Anane, la limpida allegra meravigliosa Anane. Assassina assassina assassina. Anane. Assassina.
E lei... lei, nonostante vi fosse la pioggia a sciacquarla, era sporca di sangue. Sangue bianco, sangue alleato. Non aveva fatto nulla per impedire quell’orrore, troppo concentrata su sé stessa, sulle attenzioni di Michael. Impotente – no, indifferente. Aveva chiuso gli occhi e basta. Era un’assassina? Una traditrice?
Singhiozzava, senza accorgersene – lei, un cherubino. Un angelo. Un essere che non avrebbe dovuto avere quel riflesso.
Anomalo.
«Basta
Unghie nelle braccia. Uno strattone. Il corpo trascinato verso l’alto.
Il viso di Anane ad un’estremità del campo visivo – assassina assassina assassina –, ali bianche a sfiorare le sue, braccia maschili a sostenerla. Oltre la spalla dell’Esecutore, scorse Ramiel china su qualcosa. Un uomo al suo fianco. Altri Guardiani attorno a loro, le ali dilatate spasmodicamente insieme all’essenza, alle Percezioni.
Ancora Anane che mormorava il suo nome, in lacrime. Ancora un richiamo dell’Esecutore a non singhiozzare – di chi era quella voce? Di chi? Era familiare, era... era... Nelchael. Un sussulto.
Ancora gli occhi tornarono su Ramiel. Era ferita, sporca di sangue bianco ma anche rosso, soprattutto rosso, una tonalità più cupa e carica di quella del gatto. Il gatto, chissà come stava.
...aveva voluto salvare un gatto e non aveva fatto nulla per aiutare un Custode. Un angelo. Un fratello.
Assassina. Assassina.
Fruscii di ali. Una fascia nera, due fasce viola. Altre nere dietro di loro. Voci.
«Simiel, finalmente. Venite qui.»
«Dobbiamo allontanare i Cherubini.»
«Non è il momento, Ramiel.»
«Possiamo rinunciare ad un Guardiano. Simiel, vuoi...?»
«Solo io?»
«Sì, forse sarebbe meglio... tre?»
«Due
«Gabriel...»
«Due basteranno, ha ragione. Ci sarà anche l’Esecutore con noi.»
Passi. Voci nuove.
E lei singhiozzava, sostenuta da Nelchael. E lei si odiava e si dava della traditrice e si chiedeva come Anane, la limpida allegra meravigliosa Anane, avesse potuto fare una cosa del genere. E lei tremava, temendo un’accusa – codarda fino in fondo.
E non capiva quel che dicevano, non riusciva a concentrarsi, percepiva solo la pioggia che scorreva sul suo viso insieme alle lacrime e i singhiozzi che le squassavano il petto, e quell’urlo dentro di lei, assassina, assassina.
«Riesci a volare, fascia grigia?»
«Credo... credo di sì.»
«E tu?»
«Lei non riesce.»
«La por-»
«Me ne occupo io.»
«Esecutore...»
«Ha ragione, Simiel, meglio che abbia lui le braccia occupate.»
«...va bene. Andiamo.»
La pressione delle ali bianche sulle sue aumentò, spingendole a raccogliersi sulla schiena. Un braccio attorno ai fianchi e uno sotto le ginocchia, si trovò sollevata da terra, premuta contro il busto dell’Esecutore.
Il viso spaesato all’altezza di quello serio e ostile di Nelchael.
Assassina assassina assassina.
Era sicura che avrebbe aperto la bocca per gridarlo, per accusarla – sapeva, sapeva, era ovvio, lui sapeva. Si vedeva dagli occhi, non si fidava di loro due, aveva capito tutto, sì, aveva capito tutto.
Un ringhio aggressivo. Minaccioso.
«Avrai molto di cui rendere conto.»
Sì, lui sapeva.





***
Angolo autrice
Grazie a chi legge, inserisce la storia in una delle tre liste e come sempre un ringraziamento speciale a chi commenta (:
La parte iniziale ha uno stile probabilmente confuso, lo so. Benvenuti nella testa di Anane. Come al solito, potrebbe sembrare inutile ma non lo è; e si avvicina il momento in cui si capirà il senso di tutti questi approfondimenti. Ormai la metà della storia è stata raggiunta, tempo un paio di capitoli l'attenzione tornerà a focalizzarsi su pochissimi personaggi fondamentali, e quelli secondari potranno agire senza destare un enorme WTF? in tutti voi.
A domenica prossima!

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Capitolo 20
*** 19. Cecità ***


Capitolo 19 – Cecità





«Sei riuscita a controllare le Percezioni?»
Tono basso, rassicurante. Solo il silenzio – no, il mormorio dell’acqua, smossa dalle ali tremanti – a rispondere a quella domanda.
«La presenza di un altro allievo era un po’ disturbante, ma pensa se fossimo stati in gruppo.»
Nessuna replica. Un tonfo attutito.
«Lascio tutto qui sulla panca.»
Passi. Esitazione. Altri passi nel senso contrario.
«Prima di andare ti tampono il sangue, va bene?»
Ancora silenzio. Fruscio. Passi.
«Cerco di fare piano, ma se gli squarci ti dolgono dillo.»
Gocciolio – capelli strizzati tra le mani e spostati oltre le spalle, sul seno.
«Sono lunghi. Vuoi che li tagliamo?»
Pausa.
«Va bene, li preferisci così.»
Fruscio.
«Sicura, però? Corti sono più comodi.»


Se nella stanza vi fosse stata solo Ramiel, probabilmente non sarebbe cambiato nulla.
Amitiel, all’ordine di immergersi – perché anche rilassarsi era un ordine –, si era seduta sui gradini che portavano alla vasca, bagnandosi appena le gambe e l’estremità delle ali tremanti. Con la schiena curva per poggiare gli avambracci sulle cosce, fissava il vuoto in silenzio, come se non capisse nemmeno ciò che Ramiel le stava dicendo.
Anche la Custode posta a vigilare su di loro taceva, senza allontanare quel cherubino a cui era stato ordinato solo di portare alle compagne degli abiti – i teli non potevano stringersi al busto senza infastidire le ali – e che si stava trattenendo oltre il tempo consentito.
Tacevano tutte, in realtà: Amitiel, la Custode, Sachiel, Cassiel. Un silenzio rotto solo dal mormorio dell’acqua e dalla voce rasserenante di Ramiel, che parlava solo perché lei non c’era stata, non aveva visto, non aveva udito; altrimenti non avrebbe trovato la forza per quel tentativo di conforto, troppo impegnata a mantenersi lucida. Forse sarebbe stata come Cassiel, gli occhi chiusi e il capo immerso sott’acqua, nel tentativo di cancellare tutto; forse come Sachiel, con la schiena spoglia appoggiata al bordo e le braccia strette al seno, le labbra morse a sangue, lo sguardo fisso sulla nuova arrivata. Non come Amitiel, completamente estraniata, ma chi poteva biasimarla? Per lei era stato peggio – ogni cosa. E per la sua compagna, anche, ma quella non aveva ancora finito. Non era ancora lì con loro.
Alle terme degli adulti, non allo Specchio, per essere vicine. Raggiungibili. Era un pensiero angosciante, rifletté Sachiel, mentre guardava Ramiel ripiegare il panno con cui aveva tamponato gli squarci della compagna. In ogni momento avrebbero potuto mandare a chiamarle e ricominciare tutto, ancora, di nuovo.
Rabbrividì e abbassò il viso, per non vedere e non invidiare quel cherubino di cui, almeno, qualcuno si preoccupava.
...invidiare.
Cosa c’era da invidiare?
Quella compagna che le aveva ripulito la schiena dal sangue? Quella compagna che le stava cospargendo i capelli con gli oli?
Un insegnante diverso da Kasbeel alla prima classe?
Non parli come lei, quindi non sei spontanea, immediata. Se davvero dicessi la verità lo saresti, diresti le cose come ti vengono in mente, e si sa che agli allievi di Kasbeel vengono in mente come parla lei. Il principio lascia i segni, su di noi – più che sugli Umani. Più che su ogni altro essere.
Assurdo. Incomprensibile.
Aveva passato tutto il ciclo superiore a perdere quello stile così confusionario nel parlare, e ora... ora non andava bene. Ora significava mentire.
E, se nonostante questo continuava a non invidiare Amitiel, era facile immaginare quanto non invidiasse nemmeno quell’altra, Anane – lei sì, l’aveva avuta Kasbeel alla prima classe. Si pretendeva che anche lei mentisse perché non parlava come quell’insegnante.
...e non le aveva ancora raggiunte, lì, in quella sala, in quell’edificio vicino ai Censori in modo angosciante.
Vicino, non da loro.
Era già un miglioramento.


«Ferma.»
Passi rapidi, lievi.
«Ma...»
Singulto sorpreso.
«Non puoi. E ora va’, sei qui da troppo.»
Fruscio.
«...vado.»
Passi lenti, pesanti.


Rialzò lo sguardo. Anche Cassiel, poco lontana da lei, sollevò il capo dall’acqua e fissò la Custode – non aveva bisogno di socchiudere gli occhi, perché l’acqua non dava loro fastidio, a differenza degli Umani.
Ma non era il momento di ripassare gli appunti di – fremito di rancore – Leliel.
Non riusciva a capire cosa fosse successo: il cherubino si era allontanato con espressione sorpresa e furiosa, l’angelo stava tornando al proprio posto contro la parete con un forzato distacco.
Amitiel fissava ancora il vuoto, ma aveva il busto lievemente voltato, un braccio disteso per poggiare il polso sul pavimento asciutto, come se fosse stata mossa da qualcuno e avesse poi dimenticato di tornare come in origine. Forse non si era nemmeno accorta di aver cambiato posizione.
C’era un alone candido, su quel polso – il Fuoco della Guarigione che ardeva nei Cherubini era flebile, quasi insignificante. Per riprendersi in tempi accettabili, il loro corpo non poteva rinunciare all’intervento dei Guaritori; e il dolore non scemava in breve tempo come negli adulti, ma persisteva più a lungo e più intensamente.
Che la compagna volesse bendarle il polso? Che, versata in quell’arte, volesse guarirlo?
Qualsiasi cosa avesse tentato, non era permesso. Non per loro, possibili traditrici.
...continuava a sfuggirle il senso di tutto quello.
Assurdità su assurdità che stavano scalfendo la sua fiducia nel Paradiso – una fiducia totale, cieca.
Cieca davvero, perché non era possibile che non si fosse mai accorta di quella ferocia, di quella violenza, o che le avesse giustificate. Viverle, però, era tutt’altra cosa e... e non era possibile che anche quello fosse il Paradiso.
Cieca. Cieca.
Ma aveva visto, ormai; e prima e dopo – perché entrava sempre una alla volta, sola, fragile, spaventata – aveva udito, udito tanto da star male.
Amitiel, ancora, non accennava a voler sollevare il polso dal pavimento. Totale disinteresse, totale alienazione. Spenta. Vuota.
Rabbrividì e, meschinamente, ringraziò di aver ricevuto un trattamento di favore.
Per altre era stato peggio, mille volte peggio.

* * *

Calore.
Un calore intenso, ustionante. Totalizzante. Tutto il suo essere concentrato su quella fiamma che ardeva dentro e fuori, avvolgendolo in una spirale di dolore febbrile.
Era troppo e ne voleva ancora.
Cos’altro aspettarsi da chi non assaporava quel calore da secoli?
Un cherubino che non cede al sonno da interi cicli non si accontenterà di un istante di riposo.
Un umano che non si disseta da giorni non sarà appagato da una goccia d’acqua.
Ma aveva giurato. Secoli che erano sembrati millenni, ere intere: un’attesa più lunga di quanto credesse inizialmente. Era stata una promessa avventata, strappata dalla rabbia e dalla disperazione, e quel calore era così invitante, così seducente. Nessuno l’avrebbe mai saputo.
...o forse gli sarebbe rimasta addosso l’impronta di quel tradimento, la pelle bruciata, il corpo tiepido. Forse i suoi occhi non avrebbero più potuto posarsi su quel corpo – atteso per secoli, desiderato ancor più a lungo – senza ricordarne un altro, bollente, estraneo.
Un corpo che in quel momento era su di lui, le mani a percorrergli il torace lacerando il tessuto con le unghie, la pelle ambrata celata appena dalle vesti. Un corpo seducente. Caldo. Demoniaco. Il viso della donna era impassibile, le palpebre rilassate calate sugli occhi, le labbra distese in un vago sorriso senza significato. O lo stava schernendo?
Sì, stava schernendo quella promessa. Quella debolezza. Quella rinuncia. Stava schernendo – perché Eisheth di certo gliel’aveva raccontato, ghignando – quel rifiuto per il timore di rovinare tutto, di perderla ancora senza averla mai ritrovata davvero.
No. Sei troppo immatura. Non posso.
Chi si sarebbe fatto tanti scrupoli?
Doveva apparire ridicolo agli occhi dei Demoni, probabilmente anche a quelli dei Caduti: un uomo che rinuncia ad essere tale per tener fede ad un giuramento, un uomo che attende per secoli una femmina priva di particolari attrattive. Non si era mai udito di nulla di simile – se mai era accaduto, gli interessati avevano avuto cura di mantenerlo riservato.
Interessati che non avevano una madre vagamente sadica e disturbata come Eisheth; una madre che, per fare un esempio del tutto casuale, diffondeva dettagli sulla vita privata dei figli per il solo gusto di provocarli, o suggeriva a conoscenti fidate di fargli visita. O gliela faceva lei stessa con gli identici intenti.
E stava diventando sempre più difficile rifiutarle, quelle visite.
Premuto sul terreno dal lieve peso della donna, assaporava le sue dita roventi che gli scorrevano sul torace gelido, saggiandone i muscoli, ignorando il ringhio di minaccia – solo minaccia? – che lo faceva vibrare. Scie roventi che gli causavano fremiti, i muscoli tesi come durante uno scontro, le unghie che artigliavano i fianchi del demone senza avere la forza di allontanarlo.
Avrebbe piuttosto voluto rovesciare le posizioni, gravare sul bacino della donna, stracciarle le vesti e stringere quella carne invitante.
Il fuoco cresceva. Cresceva. Cresceva. Ardeva con l’intensità di un desiderio represso troppo a lungo per un ridicolo giuramento; nessuno dei due aveva idea di cosa sarebbe successo in futuro, quando lei gliel’aveva strappato – erano stati ottimisti. E invece non c’era, non c’era il suo corpo tiepido, non c’era la sua voce, non c’era più nulla da troppo tempo. Troppo condizionata, troppo influenzata lei. Troppo impaziente lui.
Più nulla.
Solo quel giuramento e quella donna che gravava sul suo bacino, che percorreva il suo torace con dita roventi e sorrideva ad occhi chiusi, come se gli stesse concedendo un grande privilegio – abituata ad amanti più influenti, più antichi, più degni della sua compagnia. Temuta quasi quanto Eisheth, splendida come lei, potente persino di più.
Desiderabile.
Desiderata.
Da Naamah puoi ottenere tre cose: il piacere, il futuro e la morte.
E quel giuramento, quel giuramento che non smetteva di tormentarlo mentre il demone affondava le unghie nelle sue spalle; pelle d’arcangelo che non ne rimaneva segnata, che neppure avvertiva il dolore, ma fremeva comunque sotto quel tocco.
Voglia. Lascivia. Desiderio.
Soffocare nel suo corpo rovente ogni ricordo, ogni rimpianto, ogni promessa avventata, ogni nome che affiorava alle labbra. Non è lei. Non è lei. Stringerla e rubarle quel calore, estinguere il gelo che avvolgeva i Caduti, sfogare la brama ignorata troppo a lungo. Trovare il piacere e affogarvi lucidità e pensieri.
Ishild.
Le labbra della donna sul collo. L’eccitazione come una scossa lungo la schiena, le unghie affondate nei suoi fianchi fino a lacerare il tessuto e incidere la pelle, sangue di demone che colava sulle dita come fuoco liquido. Un ringhio, le mani a risalire la schiena liscia – ali da serafino ritirate, cicatrici inesistenti –, a stracciare la veste, a stringerla contro di sé.
Ishild.
Quel nome sussurrato con rabbia, con rimpianto. Con il dolore devastante che lo accompagnava da secoli, perché non c’era più nulla, più nulla, non il suo corpo, non la sua voce, non le notti trascorse ad attendere l’alba.
La risata del demone gli giunse alle orecchie, bassa, gentile, del tutto diversa da quella acuta di Eisheth. Il viso di nuovo sollevato, come a volerlo guardare dall’alto, ma gli occhi ancora chiusi – eppure si sentiva più scrutato che se l’avesse fissato con le palpebre sollevate.
«Dunque tua madre non mentiva.» mormorò, sorridendo leggermente «Davvero vuoi mantenere quel giuramento.»
La rabbia prese il sopravvento. La scostò da sé con un movimento furioso, gettandola sul terreno; su di lei, le mani spostate ai lati del suo viso, resistendo all’impulso di stringerle la gola – poteva prevalere fisicamente con il proprio corpo d’arcangelo, ma lei gli era immensamente superiore. Poteva vantare un’Influenza più potente persino di quella di Eisheth: avrebbe potuto renderlo folle in pochi istanti. Distruggere ogni pensiero razionale, ogni briciola di lucidità. Annientare la sua mente con il dolore o farla divorare dall’ira.
Non era sua madre, non poteva sfidarla sapendo di rimanere vivo – devastato, sì, ma vivo –, ed era anzi una dei pochi che avrebbero potuto ucciderlo senza temere la vendetta di Eisheth.
E la sentiva, sotto di sé. Carne calda, immobile, senza neppure un fremito di inquietudine; carne che lo invitava. Lo seduceva.
Non è lei. Non è lei.
«Molto poetico, ma poco concreto. Non voglio condividerti con un’altra.» mormorò Naamah, sfiorandogli il viso con le dita, come a voler ricreare nella propria mente i suoi lineamenti. Non aveva ancora aperto gli occhi, eppure sembrava sapere esattamente come muoversi.
L’arcangelo s’irrigidì, i muscoli tesi che trattenevano a fatica l’impulso di ferirla, spezzare quel corpo fragile di donna, o... o...
Non è lei.
Un ringhio basso, gutturale, animalesco – perché Naamah non poteva dissacrare così ogni cosa, non ne aveva il diritto, non ne aveva interesse.
«Come lo sa-»
«Dovresti stare più attento agli alleati cui ti affidi, arcangelo. La fiducia va tenuta ben riposta, perché non si sciupi.»
Un sorriso a tenderle le labbra. Le mani sollevate a sfiorargli il volto in una carezza materna.
Scostò il capo con un gesto brusco.
«Non mi affido a nessuno.»
«In tal caso, la mia Influenza arriva persino a frugare nella tua memoria senza che tu te ne accorga. Non ne avevo idea neppure io, ti assicuro.»
Non sembrava ironica: stava semplicemente attestando. Incolore, neutra. Indifferente.
La voce un bisbiglio che avrebbe potuto confondersi con il vento, con il fruscio delle foglie, con il mormorio di un torrente. Come se non appartenesse a quella dimensione, a quel tempo.
Naamah non era diafana, non era scarna, ma rimaneva sfuggente.
Come...
«Dumah
«Precisamente.» premé con le mani sul suo torace, per spingerlo a sollevarsi «Ma nessuna rivalsa su di lui, se non ti dispiace. Sarebbe tedioso dover spiegare a tua madre il motivo della tua morte.»
Non osò tenerla ancora imprigionata a terra e si rialzò in piedi, sovrastandola – illusione di supremazia su quel corpo seducente disteso a terra, pelle ambrata e graffi intravisti sotto il tessuto. Illusione di supremazia su un’essenza che avrebbe potuto annientarlo in pochi istanti.
«Hai visto la mia reazione?»
«Percepisco le tue intenzioni.» si rialzò con un movimento calmo, indolente «Ma evita, tua madre ti consiglierebbe la stessa cosa – lei sa quanto io trovi fastidiosi gli amanti feriti. Non mi piace il sangue, Michael.»
Amante? Ma Dumah era...
Persino il disgusto, però, fu sopraffatto dall’ira.
Voglia di attaccarla. Farla a pezzi. Affondare le unghie taglienti nella pelle, ferendo, lacerando. Mostrare le sue ossa, spezzarle, frantumarle. Sarebbe bastato sollevare una mano, afferrarle il gomito e stringere – una pressione minima per il corpo da guerriero dell’arcangelo, ma in grado di devastare il fragile involucro del serafino.
Dilaniarle la gola, soffocare la sua voce con il suo stesso sangue. Impedirle di tormentarlo con quel tono neutro – eppure poteva percepire lo scherno, dietro quell’apparente impassibilità. Poteva sentirsi attaccato dal suo sorriso, schernito dalla sua indifferenza.
Stava sporcando ricordi. Frasi antiche, promesse, sussurri – nemmeno sapeva che Dumah li avesse raccolti, quando la sua mente era esposta e la sua essenza più fragile, sotto la sua Influenza. Parole custodite gelosamente e strappate, ormai; rovinate. Distrutte da quella voce impassibile.
Brama di violenza.
«Non imporrò la mia compagnia a chi non sa apprezzarla.» un gesto della mano sottile «Puoi andare.»
Come se l’avesse raggiunta Michael e non il contrario. Come se si fosse recato da lei.
Rabbia. Un ringhio in gola, le mani serrate a pugno. Le ali esposte all’improvviso, tanto bruscamente da provocargli una fastidiosa fitta alle scapole – ali nere, ali enormi, ali taglienti, da arcangelo caduto. Quasi una minaccia.
Il desiderio estinto da quella voce impassibile, da quelle frasi pronunciate senza emozione, senza delicatezza, senza nulla di ciò che gliele aveva rese care quando era stata un’altra a mormorarle.
No, non un’altra. Lei. Ishild.
«Fa’ sapere a tua madre che ora ritengo ripagata ogni cosa.» mosse di nuovo la mano, come ad invitarlo ancora ad andarsene «Ma che non si avvicini più a Dumah, se non vuole che io mi avvicini a te.»
«...non ti ha mandata lei?»
«Che mi abbia chiesto di incontrarti, caduto, non significa che io l’abbia fatto per accontentarla.» fremito delle palpebre chiuse «E la prossima volta potrei non avere intenzioni così pacifiche. Un patetico giuramento tra due cherubini non è di mio interesse.»
Una spinta con le gambe, un battito rabbioso delle ali.
Allontanarsi da lei prima di perdere il controllo. Prima che sporcasse del tutto quel giuramento.


«Non voglio condividerti con un’altra.»
«Non credere di essere stata la prima.»
«Importa l’ultima. Quella che scegli.»


La donna sollevò le palpebre con un movimento improvviso, ma non brusco, quasi pacato. Sollevò il viso per guardarlo allontanarsi – o almeno così sembrava.
Gli occhi, orbite bianche, si perdevano in un punto imprecisato del cielo notturno.
«Mi chiedo chi sia più cieco tra noi due, Michael.»

* * *

Il polso faceva male.
Faceva male tutto il braccio, in realtà, torto in modo un po’ strano per poggiare il dorso della mano sul pavimento senza piegare il busto.
Però il polso di più.
E anche la gola.
E gli squarci.
Aveva voglia di chiudere gli occhi e strofinarseli, perché le ciocche lasciavano gocciolare acqua sul viso, ma sapeva di non averne bisogno: era una cosa da Umani, quella. Come sbattere le palpebre. O passarsi le mani tra i capelli, a districare nodi inesistenti. O singhiozzare. O respirare.
Non lo avrebbe più fatto. Davvero, aveva capito, non lo avrebbe più fatto; perché non erano contenti? Perché dicevano che non andava bene? A lei nessuno aveva mai spiegato che gli Umani avevano la chioma aggrovigliata, o che i loro occhi dovevano chiudersi spesso, come poteva sapere di imitarli? No, no, certo che non avevano sbagliato a non spiegarglielo! Solo che lei non poteva saperlo, lei non voleva contrariarli, altrimenti non si sarebbe comportata così.
...a volte gliel’avevano detto, di non farlo, solo che se l’era dimenticato. Le veniva naturale, istintivo, non era colpa sua, davvero. Lei non voleva, però non riusciva a evitarlo.
Nelchael l’aveva sempre rimproverata per questo, perché allora diceva di non essersene mai accorto? Perché diceva che nessuno le aveva mai vietato quei gesti? Ai Censori non si doveva mentire. No, no, non si doveva; però lui lo stava facendo e lei... lei avrebbe dovuto dirlo, che non era vero? E poi cos’altro avrebbe dovuto smentire? Il racconto di Anane? Le proprie stesse parole?
Voleva quasi aprire bocca, però l’Autorità l’aveva fermata con uno sguardo gelido. Sì, aveva ragione, non poteva interrompere un insegnante mentre parlava. Solo che poi l’argomento era cambiato e lei si era... dimenticata di smentire Nelchael – e non aveva capito cosa ci facesse lui al posto di Ramiel, lì. Forse la Guardiana era occupata e avevano chiamato il suo insegnante precedente, dato che era passata alla quinta classe da pochissimo? Per questo Nelchael era così arrabbiato? Non voleva perdere tempo per un cherubino che non era più neanche suo allievo?
Ma allora potevano aspettare Ramiel, sì, potevano smettere e farla tornare dopo...
No. Era già tutto finito. Era già tutto passato.
Solo che era un po’ difficile mettere a fuoco la parete di fronte a lei. L’acqua creava riflessi strani senza produrre ombre, solo chiarore ancora più intenso, e un po’ la confondeva. Sembrava quasi di essere ancora seduta in quella stanza bianca – così bianca che aveva dovuto socchiudere gli occhi, entrando, anche se a loro la luce non dava fastidio. Altro comportamento da evitare, se ne sarebbe ricordata.
Forse non era normale neanche sentirsi così male, lì. Così piccola, così insignificante, così sporca in mezzo a tutto quel bianco. Bianco. Bianco. Tutto bianco. Anche il sangue che bagnava gli squarci, il collo, la divisa, e com’era possibile che si fosse danneggiata così? Ma non era tutto suo quel sangue, era del... del Custode, e no, non sapeva come avesse fatto a sporcarsi così tanto, non se lo ricordava, e neanche come si fosse ferita il collo. O come avesse perso il nastro per capelli. Davvero, davvero, non se lo ricordava, perché dovevano arrabbiarsi? Non potevano lasciarla andare, per favore?
No. Finito. Tutto bene.
Non c’erano più le loro voci, i loro volti, le loro insinuazioni. Non urlavano, no; e neppure accusavano. Erano delicati – la devastavano con un sorriso gentile sulle labbra. Distruggevano ogni cosa. Ogni cosa.
Ed era quasi arrivata a credere che davvero Anane l’avesse tradita, che non le importasse nulla di lei, che fosse un legame sbagliato.
Ed era quasi arrivata a credere di essere un errore continuo, con quei suoi comportamenti troppo umani e la sua poca devozione, la sua poca sincerità – ma quando aveva dimostrato poca devozione, poca sincerità? Cosa volevano dire?
Ed era quasi arrivata a credere di voler dire loro tutto, tutto. Che Nelchael non aveva detto la verità, che Ramiel aveva un rapporto speciale con Raphael, che Anane era una traditrice. Che lei... lei non aveva fatto niente di male, davvero. Non avrebbe potuto impedire niente di quello che era successo, era solo un cherubino.
...il polso. Male. Perché Nelchael aveva stretto così tanto?
Ed era stanca, stanca come le sembrava di non essere mai stata: il corpo faticava a muoversi, l’essenza si stendeva in un velo esausto e labile, il sangue scorreva rapido cercando di dare energia – ma anche il sangue era essenza, essenza fisica, liquida, fragile e fondamentale e poca, terribilmente poca.
Non le avevano lasciate riposare; e lì, lontano dallo Specchio, nemmeno avvertivano il Richiamo che scandiva i periodi. Quanto avevano atteso? Quanto erano rimaste nella vasca? Quanto era durato quello? Non lo sapeva. Poteva misurarlo unicamente dalla stanchezza e sapeva solo che era troppo, troppo.
Dormire. Chiudere gli occhi. Riposare. Glielo avrebbe permesso, la Custode? Non le serviva nemmeno la Presenza, voleva solo potersi immergere nel nulla.
Ma forse, nel sonno, avrebbe rivisto tutto. Rivissuto tutto. Ancora e ancora e ancora, come non era normale per gli Angeli – oblio. Solo oblio, niente sogni, niente incubi. Niente pensieri. Niente ricordi.
Niente ossa esposte, organi devastati – un grumo di carne e sangue e orrore, bianco che si sommava al bianco dandole la nausea e non importava che fosse una sensazione umana, c’era, c’era e la faceva star male.
Niente arti scomposti, abrasioni, muscoli dilaniati – rosso, rosso ovunque, che dava fastidio alla testa e al petto e alle ali, come se la sola presenza di quel fluido fosse in grado d’intossicarla.
Niente insinuazioni bisbigli accuse sorrisi.
Dormire. Solo dormire.
...male al polso.
Una stretta tiepida, delicata, lo spostò dal pavimento al suo grembo.
Di fronte a lei – nemmeno l’aveva messa a fuoco sino a quell’istante – l’allieva dell’Autorità, il viso ad un soffio dal suo, con un’espressione preoccupata, ansiosa. Le sembrava di scorgerlo oltre un velo di nebbia, sfumava di continuo contro il bianco della parete alle spalle; eppure non ricordava di avere gli occhi danneggiati, non le facevano male, non percepiva alterazioni. Solo, non riusciva a vedere quasi nulla.
Quasi come essere cieca.
Solo un dettaglio, nitido, in quella nebbia.
Occhi azzurri.


«Vedi? O sei accecata da tutto questo bianco?»





***
Angolo autrice
Come al solito, grazie a chi legge, inserisce tra preferiti/seguite/ricordate e un ringraziamento speciale a chi commenta! (:
E dopo la terribile scoperta che... sì, Eisheth fa avance sessuali al figlio *coff*... vi do il permesso di insultare la mia fantasia malata xD
Non sono sicura di poter aggiornare, domenica prossima, causa possibili impegni per tutta la settimana. Eventualmente, aggiornerò la domenica successiva (:

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Capitolo 21
*** 20. Odio ***


Capitolo 20 – Odio





Socchiuse le palpebre, tentando di scorgere il viso della compagna in quel mare bianco che inghiottiva ogni cosa. Capelli biondi raccolti malamente con uno spillone – le ciocche più disordinate divorate dal candore. Pelle chiara che sfumava in quella luce abbagliante. Il viso ovale indistinto contro il bianco della parete alle spalle, l’espressione incomprensibile, le labbra una semplice linea.
E gli occhi. Gli occhi. Quegli occhi azzurri che rimanevano l’unico punto fermo nella nebbia accecante che le circondava; tanto vicini da poter notare le screziature grigie dell’iride, il lieve fremito delle palpebre, la curva delle ciglia.
...familiari?
Scosse debolmente la testa, come a scacciare un pensiero molesto.
Ma dove li aveva già visti? Dove?


«Gli Umani, vivendo per l’eternità, impazzirebbero. Troppo dolore, troppa stanchezza. Troppi ricordi.»
«E... noi?»
«Noi ti sembriamo meno folli di loro?»


Voci. Voci. Voci. Parole dal suono che non sarebbe riuscita a ripetere, ma di cui comprendeva il senso. Parole sibilate dalla sua stessa voce nella sua mente, senza che assumessero un tono particolare, una sfumatura che facesse distinguere chi le aveva pronunciate.
Forse stava solo impazzendo e parlava tra sé.
D’altronde, lei mentiva agli altri; perché la sua mente non avrebbe dovuto mentire a lei?
Follia. Gli Sconsacrati erano folli, nella loro mostruosa esistenza di peccato: si sottraevano al giusto, alla luce, al tepore, alla purezza, precipitando sempre di più nel loro baratro di orrore. Come avrebbero potuto non impazzire? Il freddo, il bruciore, la rapidità dei tempi umani, l’intima consapevolezza di non essere altro che abomini, errori, aborti dei giusti e dei puri.
Terribile, ripetevano sempre, gli occhi sgranati per il raccapriccio e un indice sollevato, ammonitore, verso i Cherubini; le sembrava quasi di rivederli di fronte a sé, in quella nebbia che aveva ormai divorato anche gli occhi della compagna, immergendola in un nulla bianco in cui i suoi pensieri vorticavano senza tregua, angosciati e angoscianti. Terribile. Divorati dalla follia.
Ripetevano chi? Tutti. I Custodi, gli insegnanti, i Guaritori, chiunque avesse a che fare con gli allievi. Non era mai un momento sbagliato per insegnare la morale, la purezza, se l’occasione si presentava; e con l’imperfezione dell’infanzia – errori su errori ripetuti sino a che l’Espiazione non riusciva a sopprimerli – si presentava spesso. Ancora così inadeguati, così incompleti. Più esposti alle mancanze.
Lei... lei aveva già sbagliato abbastanza da diventare pazza?
Un sussulto. Acqua tiepida versata sugli occhi.
La vista tornò più nitida, solo un po’ infastidita da tutta quella luce, da tutto quel candore; il viso dell’altra ad un soffio dal suo, le mani ancora sospese sulla sua fronte.
...l’allieva dell’Autorità, quella che aveva osservato la ferita poco prima che lei discendesse per la prima volta nella dimensione umana. Ecco dove l’aveva già vista.
«Vedi un po’ meglio?» le chiese quella a bassa voce.
Nessuna risposta.
«Amitiel, sì?» un sorriso rassicurante «Io sono Sachiel, lei Cassiel. Ma forse vi conoscete già.»
Ancora nessuna risposta.
Cosa voleva da lei? Non aveva sentito quello che le avevano detto? Distrazione, le parole. Concentrarsi sui propri compiti. Distrazione, i legami. Eppure era fuori, non poteva non aver sentito mentre... mentre...
«Hanno ordinato di immergerci.» le mani a stringerle lievemente i gomiti «Vieni?»
Anane, chissà Anane come stava. Non era ancora arrivata.
No. Distrazione.
«Quest’acqua risana l’essenza. È riposante.»
Riposante. La tentava, quella parola – il corpo esausto che non rispondeva più ai suoi comandi, la vista che già iniziava a tornare sfocata, l’essenza che si abbandonava all’apatia. Riposare sarebbe stato così bello. Si trovò sul punto di chiedere Davvero?, ma si fermò in tempo: nessuna domanda. Mai.
«Lasciala stare. Se non vuole, non vuole e basta.»
Un’altra voce, più alta, più aspra. Cassiel era irritata? Con lei? O con Sachiel? Voltò il capo, spaesata, cercando la compagna del ciclo inferiore. Era lontana, isolata; le ali chiare distese a far vibrare l’acqua, l’espressione dura a far vibrare lo sguardo – sembrava quasi accusarla, come se fosse colpa sua, e forse un po’ lo era ma loro non dovevano saperlo. Gliel’aveva detto Michael, prima di andarsene, e gliel’aveva ripetuto anche Anane: negare sempre. Stare in silenzio, se non sapeva cosa dire, ma non ammettere mai. Avrebbe solo peggiorato le cose e lei non voleva che le cose peggiorassero, vero?
Pensa all’Espiazione. Pensa a tutto quel dolore. Non ammettere mai, mai, mai. Senza prove, le loro saranno solo parole.
Ma non credeva che le parole potessero essere così dolorose, così devastanti.
Poco male: lei non doveva credere niente. Inutile distrazione.
«Vieni?»
Di nuovo la voce morbida di Sachiel, venata appena dall’irritazione. Parlava con una sorta di cautela, come se temesse di turbarla; anche le sue mani furono delicate, quando si alzò in piedi di fronte a lei e la fece sollevare a sua volta, stringendole i gomiti senza violenza.
Amitiel balbettò qualche passo incerto, sostenuta a fatica dall’altra per non crollare in ginocchio. Le gambe tremanti la ressero solo per poco: nonostante la presa di Sachiel si lasciò ricadere, immergendosi fino alle spalle, seduta su uno dei gradini più bassi. Le ali urtarono contro quelli superiori e rimasero inerti quando lei tentò di distenderle, per trovare una posizione meno dolorosa; l’acqua si tinse del sangue bianco perso dagli squarci – il sangue più puro, più prezioso, versato prima di arrivare alle ali. Ma era un dolore distante, come se la sua mente non lo recepisse davvero, come se non la riguardasse.
Era stanca. Stanchissima.
Peggio di come le capitava a volte, all’improvviso, insieme a quel senso di stordimento ed estraneità che – se fosse riuscita a ragionare – avrebbe da tempo associato all’essenza ferita; peccato che non fosse in grado di riflettere così lucidamente. Era stanca, aveva male, si sentiva disorientata: pensare era inconcepibile, onorava già abbastanza il proprio autocontrollo trattenendosi dal piangere, urlare e chiedere che cosa dovesse fare per stare un po’ meglio – e non poteva porre domande, no, però non chiedeva tanto, solo di stare un po’ meglio, solo di essere lasciata in pace, perché lei non aveva fatto niente di male. Davvero. Avevano fatto tutto gli altri, era colpa loro, lei... lei non avrebbe potuto impedirlo comunque; e non era giusto che venisse condannata solo perché era debole, inetta. Se mentiva ai Censori era solo perché sapeva che non avrebbero capito, adulti da troppo tempo per ricordare quanto i Cherubini fossero fragili. Non aveva nessuna colpa, quindi non potevano farla stare un po’ meglio? Lasciarla dormire, assicurarle che non l’avrebbero più chiamata per... per...
Acqua sul viso, a diradare la nebbia bianca che – nemmeno se n’era accorta – tornava lentamente a inghiottire tutto.
Gli occhi della compagna ad un soffio dai propri, scorti attraverso quel candore accecante.
La vista un po’ più nitida.
«L’essenza sta già migliorando.» la informò Sachiel, sistemandole dietro un orecchio una ciocca nera che le infastidiva gli occhi. Lei non ci aveva minimamente pensato, a scostarla – non ci aveva prestato attenzione e basta.
«Mentire è peccato, fascia grigia.» sibilò Cassiel, con una risata grondante ironia e livore.
«Che imperdonabile errore ho commesso per perdere il privilegio della tua benevolenza, fascia rossa?»
«Tu nulla.» le rispose, con un tono che sembrava sottintendere l’esatto contrario «Ma se lei avesse avvertito subito i Guardiani, io non sarei stata coinvolta.»
«Non cre-»
«Cherubini.» le richiamò la Custode «Una simile ostilità non vi fa onore.»
Ostilità.
Amitiel si rigirò quella parola in bocca, come ad assaporarla, articolandola a bassa voce.
Ostilità.
Un termine diverso, nell’idioma degli Angeli: duro, gutturale, aspro. L’aria sibilò tra i denti, nella gola vibrò un suono roco, le labbra si schiusero per una vocale dal timbro cupo e pesante. La lingua contro gli incisivi, a chiudere la parola con uno schiocco secco.
Era un sentimento proibito, assolutamente proibito, si disse: avrebbe sporcato l’essenza delle due compagne. Ma era davvero ostilità?
Dal tono, dall'espressione, le sembrava più... rancore. Astio. Livore.
Odio.
Odio? Ancora peggio. Non andava per niente bene, no, proprio per niente. I Censori non ne sarebbero stati contenti.
...forse non sarebbero stati contenti nemmeno che si fossero recate lì. Quando Nelchael aveva ordinato di andare ad immergersi in quelle acque riposanti, i Custodi erano rimasti visibilmente interdetti; ma, tra un «Mi assumo io la responsabilità.» e un «Ho il consenso dell’Autorità.», era riuscito a convincerli che non vi fosse nulla di sbagliato nel permettere alle allieve di rilassarsi. Eppure sembrava ancora arrabbiato e lei non riusciva a capire bene perché, e temeva che i Censori fossero contrari, e non voleva dare un altro motivo per... per tornare lì a parlare – detto così sembrava quasi accettabile, meno spaventoso.
Non voleva, no, no, non voleva.
Rannicchiarsi di nuovo su sé stessa e farsi piccola, piccola, piccola, lasciatemi scomparire per favore. Trattenere a fatica l’impulso di piangere e urlare e implorare pietà. Ascoltarli ancora, ancora, con il dolore che si scioglieva liquido in gola e le loro parole che colavano bruciavano devastavano.
Sei fedele al Paradiso? Sì, sì, sì sì sì sì, davvero, sì, sì.
Sì a tutto, avrebbe voluto dire, pur di farli smettere; perché non potevano distorcere così ogni cosa, Anane, i sorrisi, i singhiozzi, le domande, le amicizie. Tutto diventava sbagliato sulla loro bocca, anche le innocenti avventure lungo le rive proibite del Confine, anche la preferenza per la biblioteca della prima classe, anche svagarsi con le correnti d’aria. E... e... e stava quasi per... per tradire. Per tradirsi. Per raccontare ogni cosa.
Le mani di Michael tra i capelli, sui fianchi, sulla schiena. Anane che mentiva e ingannava. Ramiel e Raphael che osavano cedere ad un sentimento non contemplato per due Cherubini. Il ghigno di Eisheth, la sua risata acuta. Nelchael che non diceva il vero.
Avrebbe voluto dire di sì a tutto, pur di farli tacere, perché iniziava a sembrarle davvero tutto sbagliato. Proibito. Sporco.
Ma non l’aveva fatto, perché poi sarebbe arrivata l’Espiazione – brivido – e a quella... a quella – altro brivido – avrebbe detto di sì a tutto, davvero, avrebbe ammesso anche il falso pur di farla smettere. E poi sarebbe stato solo peggio, perché il Paradiso non brillava per clemenza verso i suoi figli.
Erano solo parole, solo parole, poteva ignorarle e dirsi che non erano vere e dimenticarle, rinchiuderle in un angolo della memoria e non tornarci più. Sostituirle con le dita di Michael che le pettinavano i capelli, con la sua voce, il suo respiro, le sue braccia a stringerla. O con la risata squillante e allegra e contagiosa di Anane, o con Ramiel che le tamponava il sangue dagli squarci, o... o anche con Nelchael che sembrava arrabbiato ma poi la faceva allontanare perché si riposasse, perché non sentisse.
Con Cassiel erano stati quasi delicati, con Sachiel un po’ meno, con lei per nulla; ma con Anane... con Anane erano peggio, molto peggio, e davvero sarebbe impazzita se avesse dovuto stare lì dietro una porta a sentire le urla, le implorazioni, i dinieghi angosciati.
Era stata l’unica, tra le tre già uscite, a trovarsi dolorante – capelli strattonati e dita affondate nella mascella per costringerla ad alzare il viso, e ali premute contro il corpo di Nelchael mentre cercava di indietreggiare, e quella stretta violenta al polso, e... e niente di grave, niente di insopportabile.
Anane... Anane... voleva sperare, davvero, che le grida fossero solo di angoscia. Pregava che fosse così, e ringraziava che le proprie non fossero state di dolore. Perché non potevano fare nulla, nulla, senza le prove, ma... ma quel Censore dagli occhi verdi gelidi che non avevano niente, proprio niente a che fare con quelli di Ramiel, quel Censore non sembrava troppo propenso a seguire così tanto le regole, perché era già convinto che loro – lei, Anane, Sachiel, forse anche Cassiel – c’entrassero qualcosa con la morte di quel Custode.
E poi, in realtà, qualcosa contro Anane in effetti ce l’avevano.
La sua essenza si era avventata su quella dell’angelo.
Soppressa. Schiacciata. Estinta.
Per colpa – per volere, ma questo lo sapevano solo loro due – di Anane.
Però... però... però Anane non era un’assassina. Non poteva esserlo. Non la limpida allegra meravigliosa Anane.
Quindi non era colpa di Anane e basta.
L’Autorità stava in silenzio e vigilava, con i suoi occhi azzurri gelidi ma non tanto quanto quelli del Censore, e Amitiel sperava pregava implorava che quella briciola di calore potesse far provare un po’ di pietà alla donna. Un po’ di compassione. Non c’era anche la sua allieva, in fondo, tra quei cherubini?
Quindi Anane stava bene. Per forza. Tardava solo perché... perché... perché perché perché... perché forse non l’avevano avvisata che loro erano lì a riposare, forse Ridwan l’aveva riportata subito allo Specchio.
Sì, doveva essere così.
Vero?
Percepì a fatica le braccia di Sachiel cingerle le spalle, delicatamente, poco più di una carezza; labbra sulla fronte, un’essenza tiepida a circondare la propria, un sussurro morbido.
«Non piangere.»
Ma Sachiel doveva sbagliarsi, non c’era alcun motivo per piangere, perché lei stava bene e Anane stava bene e nessuna delle due era una traditrice o un’assassina o rischiava l’Espiazione o peggio.
Non avvertiva le lacrime scorrere lungo le guance, dopotutto. No, non le avvertiva.
No.
...no.
«Non piangere.»
E – nonostante non stesse piangendo, nonostante non ci fosse nulla di cui preoccuparsi, nonostante andasse tutto benissimo – si aggrappò a lei.

* * *

Si udiva solo un respiro, nella stanza: lento, regolare, profondo. Un’espirazione più rumorosa quando il capo si abbassava stancamente; un’inspirazione bloccata in gola per l’angoscia quando lo sguardo si volgeva verso la finestra, che non lasciava entrare luce nell’ambiente perché la luce era ovunque, tra quei muri come fuori, in basso nel cortile dove si muovevano fasce grige e ali quasi bianche. Le fasce azzurre delle Custodi che sorvegliavano il ciclo superiore, anche, ma ancora mancava quella di Ridwan.
Chissà cos’avevano ancora da dirgli, i Censori.
Chissà se andava davvero tutto bene come le aveva detto, e come poi le aveva ripetuto anche Nelchael – incontro tanto inaspettato e improbabile che dubitava fosse stato casuale.
Sospirò e abbassò lo sguardo sulla propria mano, il palmo abbandonato sul lenzuolo bianco, le dita a stringerne altre più pallide. Non avrebbe dovuto respirare, lo sapeva, e una parte di lei rabbrividiva ogni volta che l’aria raggiungeva i polmoni; un’altra, però, non poteva rinunciare alla fragranza che le accarezzava le narici.
Era un buon profumo, sapeva di fresco e pioggia – tutti gli oli con cui i Cherubini si cospargevano il corpo e i capelli ricordavano la dimensione umana, in realtà, come se dovessero abituarsi sin da subito agli odori, assenti in Paradiso. Gli adulti invece non li usavano e, quindi, quel profumo sapeva anche di ali rosse e divertimenti infantili; quante volte lo aveva sentito appoggiando la guancia sul capo di Anane, entrambe sull’erba sdraiate sul ventre, stanche per aver sfidato troppo a lungo le correnti d’aria. Quante volte Anane aveva sentito quello che preferiva usare lei e che, però, non era riuscita ad associare a nulla; era intenso, inebriante, un po’ dolciastro e ancora senza nome.
Sapeva di ricordi sereni, quel profumo che permeava l’aria, e in quel momento ne aveva davvero bisogno. Aveva rovesciato la boccetta sulle lenzuola candide, sui vestiti candidi, sulle pareti candide. Sulla pelle candida e sulle ali candide di Anane. Sui capelli, anche, che però erano biondi; sulle poche piume ancora rosse e sulle proprie mani non così chiare.
Le sembrava quasi che Anane fosse sveglia e la stesse abbracciando, mentre in realtà era... era lì, effettivamente, ma non nel modo che avrebbe voluto. Chissà quando avrebbe smesso di dormire – quando l’essenza fosse tornata intatta, probabilmente, anche se secondo Ridwan c’era il rischio che rimanesse segnata. Ancora poco e avrebbe finito per impazzire come quella di quel demone; e non poteva che ringraziare quella follia, quel dolore indotto da Eisheth che l’aveva portato a vaneggiare, senza essere di alcuna utilità ai Censori per stabilire cosa fosse accaduto realmente.
In caso contrario, Anane non sarebbe stata lì a riposare e lei a vegliare il suo sonno.
Ma erano salve.
Sospirò, fissando quelle dita pallidissime; risalì con lo sguardo lungo l’avambraccio, percorso da venature bianche, come se i capillari fossero esplosi e avessero riversato il plasma candido lungo vie invisibili scavate sottopelle. Una macchia chiarissima che si espandeva sul gomito; piccoli squarci sul braccio, più profondi nella spalla e nel collo, tanto che il guanciale era impregnato di sangue.
Spostò lo sguardo sul suo viso, sfiorato dai ricci sciolti sul petto. Sembrava quieta: le labbra schiuse, come per far filtrare un respiro inesistente, le palpebre abbassate, i lineamenti abbandonati ad un’espressione serena. Nel sonno, almeno, non avvertiva il dolore.
Le ali erano distese sotto di lei, rilassate e intatte, all’apparenza. All’interno – e Amitiel ringraziava di non poterlo vedere – le ossa erano solcate dai segni dell’Espiazione, quasi sul punto di spezzarsi in una miriade di piccole schegge; il dolore liquido e bruciante era giunto sin lì a corrodere quel corpo esausto, devastato.
Una brutalità che non aveva mai visto riservare ai Cherubini.
D’altronde, non aveva mai visto nemmeno un cherubino uccidere. Involontariamente, certo – o almeno così dovevano credere tutti –, ma pur sempre uccidere. Un Custode. Un fratello.
Un malessere profondo le artigliò le tempie, implorandola di non ricordare quella scena. Muscoli lacerati, ossa esposte, sangue bianco, occhi vivi; e anche gli occhi vacui e folli del demone, il suo sangue rosso, e...
No. Non ricordare.
Tornò a guardare le dita strette tra le proprie.
Erano salve, sì? Salve entrambe. Ridwan aveva detto che andava tutto bene, quando aveva riportato Anane allo Specchio; che forse le sarebbe rimasta l’essenza segnata, ma che la clemenza del Paradiso aveva perdonato il suo errore.
Clemenza.
Non riusciva a trovare nessuna clemenza in tutto quello. Nell’Espiazione portata al limite, a ferire anche le ali, così fragili che l’essenza dei Cherubini rischiava di impazzire o di estinguersi. Nel corpo esausto e devastato che aveva ceduto al sonno tra le braccia di Ridwan, ancora prima di giungere allo Specchio. Nel tempo lunghissimo che Anane aveva passato con il Censore, a piangere e urlare – e poteva immaginarlo anche se lei era rimasta con le altre ad immergersi nell’acqua tiepida, poteva ricordare l’orrore di quelle grida prima che Nelchael le facesse allontanare.
Se fosse stata umana... se fosse stata umana, Anane sarebbe stata perdonata. Avrebbe avuto un’altra possibilità, infinite altre possibilità, non quell’orrore.
Si strofinò rabbiosamente gli occhi, arginando le lacrime che minacciavano di cadere. Aveva la nausea. Sì, era una sensazione umana, era sbagliato provarla, ma... aveva la nausea. E il terrore la invadeva, nell’accorgersene – il Censore che sibilava e Nelchael che le stringeva il polso e... e tutto il resto, non sarebbe tornato solo per un po’ di nausea, vero? Non l’avrebbero punita per questo, vero? Perché lei... lei non lo faceva volontariamente, succedeva e basta, non era colpa sua, no. E...
E la rabbia. L’odio.
Perché non era giusto, quel corpo devastato che accarezzava con lo sguardo – no, no, con questo non intendeva pensare che il Censore avesse sbagliato, solo che...
Solo che nulla.
Non era giusto e basta.
Il dolore dell’Espiazione che bruciava e corrodeva da dentro, scavando solchi nelle ossa e nella carne, fino a rendere tutta la pelle un intreccio di linee candide di sangue.
Il dolore delle parole del Censore che entravano nella testa e non se ne andavano più, e questo legame vi distrae dai vostri compiti, no, no, non le distraeva, non c’era bisogno di dividerle, eppure la tua amica ha detto che sarebbe meglio farlo sai?, no, no, non poteva essere vero e... no, non stava dicendo che stessero mentendo, però... però... però cosa? Silenzio. Lacrime. Singhiozzi. Singhiozzi? Non lo faceva apposta, davvero, le veniva naturale ma... ma non l’avrebbe più fatto, però per favore voleva solo andarsene e... e tornare da Anane – stretta al polso tanto forte da farla urlare, perché Nelchael faceva così? Perché? Cosa c’era di sbagliato? Allora no, non voleva tornare da Anane, voleva solo... voleva solo... lei era fedele al Paradiso, sì, non c’era bisogno di trattenerla ancora lì con loro, voleva solo andarsene perché non c’era motivo di farla stare lì, e... e... e davvero l’avrebbero lasciata andare via se avesse detto tutto? Davvero l’avrebbero lasciata riposare? Perché era stanca, sì, stanchissima, voleva riposare, ma... ma... ma non c’era nulla da dire, davvero, sicura? Sì sì sicura, davvero, per favore, per favore voleva andarsene, voleva...
No. Basta.
Era finito.
Però doveva smettere di pensare quelle cose così sbagliate, altrimenti avrebbero potuto ricominciare e lei non voleva, davvero. Non avrebbe dovuto avere la nausea o essere arrabbiata per quello che era successo ad Anane.
Era giusto, quel corpo devastato e sanguinante, perché Anane aveva davvero ucciso quel Custode ed era davvero una-
No. Non lo era.
Figlia di un demone. Assassina. Traditrice.
No. No no no no.
Eppure sarebbe stato logico, no...?
No.
Spostò lo sguardo sul viso di Anane, la limpida allegra meravigliosa Anane, serena solo perché nel sonno non poteva avvertire il dolore. Un dolore che non osava nemmeno immaginare, un dolore che aveva rischiato di rendere la sua essenza folle o inesistente, morta.
Odio.


«È già successo?»
«Che volessero parlarti? Che ti facessero questo? Che tu odiassi? Sì.»
«Non ricordo.»
«Noi ricordiamo tutto. Ogni istante, ogni parola, ogni pensiero.»
«...io non ricordo.»





***
Angolo autrice
Ed eccomi questa domenica, dopo la pausa della settimana scorsa!
Grazie come sempre a chi legge, inserisce in una delle tre liste e soprattutto a chi commenta (:

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Capitolo 22
*** 21. Marionetta ***


Capitolo 21 – Marionetta





«Non farti illusioni. Io ti odio
«Perché?»
«Sai già perché.»


Occhi aperti – spalancati.
...mal di testa.
Due mani di fronte al viso – le sue? Non le sentiva.
Le ginocchia rannicchiate al petto e la schiena incurvata – dolore agli squarci. O almeno presumeva di provarne.
Ramiel, nel letto accanto al suo, aveva i lineamenti distesi dall’oblio del sonno, immersa nella luce soffusa della Presenza. La massima ombra che si potesse sperare di ottenere.
Ma ad Amitiel dava dolore persino quel chiarore rossastro, morbido, materno.
Doveva essere la Presenza, ma non poteva uscire per trovare sollievo – se fosse stata scoperta le Custodi non avrebbero apprezzato, e lei non voleva contrariare nessuno, davvero. Non voleva dare di nuovo adito a dubbi e tornare dai Censori.


«Perché sei una marionetta. Un fantoccio.»


Voci. Ancora. Voci senza timbro, impossibili da riconoscere, da distinguere l’una dall’altra; voci in una lingua che comprendeva ma che non avrebbe saputo ripetere. Come idee che, prive di forma, nella sua mente assumevano comunque un senso.
Pazza. Pazza.
Mal di testa.
Non quanto nella dimensione umana: non era nulla di lacerante, nulla di insostenibile. Era solo... molto fastidioso. Mille pensieri che si contendevano la sua attenzione, una pressione dolorosa che gravava da dentro. Che pensieri? Su cosa?
Forse su Anane. Su Anane che ancora non poteva volare – le ali non riuscivano a rimanere distese, l’essenza fuori controllo, la sofferenza a distorcerle i lineamenti. Su Anane che piangeva e si fissava la pelle dove ancora le venature bianche spiccavano, quasi lucenti. Su Anane con cui non riusciva mai a parlare, perché c’era sempre Ridwan e se non c’era lui arrivava Nelchael e non si fidavano di loro, non volevano lasciarle sole. Su Anane che-
Basta. Troppo rancore, troppa nausea – e la nausea non era qualcosa da provare, e nemmeno il rancore, quei pensieri non le facevano bene.
O su Michael. Su Michael che l’aveva stretta e l’aveva fatta fremere con quelle dita gelide e... e aveva massacrato quel Custode, sì, però l’aveva fatto per lei, no? Perché altrimenti sarebbe stato un pericolo, l’avrebbe accusata di cose in cui lei non c’entrava niente e magari poi le sarebbe successa la stessa cosa di Anane – Anane che non volava. Anane che a distanza di interi cicli non poteva essere sfiorata perché altrimenti rischiava sempre di ritrarsi.
Anane che non si era meritata nulla, perché doveva essere colpa di Eisheth, doveva averla convinta lei a... fare quelle cose, no? Anane era come lei, era solo un po’ curiosa, un po’ allegra, un po’ soffocata da tutti quei divieti, ma non era cattiva. Non era una traditrice. Doveva essere colpa di Eisheth, sì.
Eisheth che ghignava e le spiegava l’orrore dello Sviluppo, di un involucro distrutto per farlo rinascere più resistente, più rapido, più adulto. Eisheth che rideva in quel corpo di bambino. Eisheth che faceva piangere Anane.


«Perché hai paura di loro al punto che ti reprimi.»


Un gemito.
Troppi ricordi, troppe idee le si affollavano in testa e aumentavano il dolore ad ogni istante, e lei su cosa doveva concentrarsi? Cosa poteva farle meno male? Cosa poteva essere più giusto?
Perché c’erano pensieri giusti e pensieri sbagliati, ormai l’aveva capito. Quelli giusti le procuravano un attimo di pace; quelli sbagliati, un sibilo che minacciava dolore – non era corretto, non era puro, avrebbe contrariato qualcuno e lei non voleva tornare dai Censori, vero?
A dire la verità, i pensieri giusti erano solo il ricordo delle parole che le avevano detto le Custodi, le Autorità, gli insegnanti; o il silenzio, anche, che acquietava un po’ la nausea – nausea che non doveva provare, perché era una sensazione umana. Tutto il resto era sbagliato e quindi lei non doveva pensarlo, solo che poi continuava a tormentarle la mente e a procurarle quel mal di testa e quelle voci.
Ma cosa poteva fare, lei? A zittire la propria mente il dolore si faceva insostenibile. Ad ogni riflessione arrivava il terrore che qualcuno avrebbe scoperto quelle idee sbagliate.
Lo sapeva anche lei che era sbagliato provare rancore verso i Censori, o concentrarsi troppo su Anane e poco sull’apprendimento, o porsi così tante domande; e provava a correggersi, davvero, ma durava poco. Non poteva cambiare atteggiamento, come se una parte di lei non venisse nemmeno scalfita dai rimproveri, dall’Espiazione, dalla paura – era divisa. Scissa.


«Perché non scegli. Perché credi di poter appartenere sia a loro che a me.»


Voleva la compagnia di un caduto, ascoltarlo e parlargli e toccarlo e lasciarsi stringere, voleva fargli domande e ottenere risposte che in Paradiso non le avrebbero mai dato; ma non stava tradendo, stava solo anticipando delle conoscenze.
La nauseava il ricordo del corpo del Custode, delle sue urla, dei suoi gemiti; ma non era colpa sua, lei non avrebbe comunque potuto impedirlo in alcun modo.
Sapeva di aver mentito, che avevano mentito anche Nelchael e Anane, e che avrebbe dovuto denunciare quelle falsità; ma non ne vedeva il motivo, perché tanto era andato tutto bene – perché, anche se Anane era stata punita, le conseguenze in fondo erano state quasi giuste, e invece non lo sarebbero state se avessero detto la verità, sarebbe stato tutto frainteso e fatto sembrare un tradimento ciò che non lo era per niente.
La atterriva la possibilità di tornare dai Censori, con i loro sorrisi gentili mentre distruggevano ogni cosa e lo sguardo gelido dell’Autorità e Nelchael che le stringeva il polso; ma, passato il primo momento, non riusciva a correggersi per evitare il rischio.
Aveva un vago ricordo del terrore che la invadeva ad ogni pensiero, quando era immersa nell’acqua, appena dopo essere stata fatta allontanare da Nelchael insieme alle altre; appena dopo aver parlato con il Censore. Ormai, però, con la luce della Presenza a infastidirla e la nausea e il mal di testa per i troppi pensieri repressi, si sentiva più propensa a cedere alle riflessioni che al timore; salvo poi interrompersi a metà e tornare a cercare il silenzio mentale, perché stava davvero esagerando e qualcuno avrebbe potuto capire – non sapeva come, in che modo, ma non si poteva mai essere sicuri – tutte le cose sbagliate che le passavano per la testa.


«Perché sei così debole da cedere sempre a tutto e non voler mai ammettere niente. Perché se avessi un po’ di forza, non ti lasceresti manovrare così.»


L’Espiazione ti ha resa un burattino. Uno stupido burattino inerme. Non gliel’aveva detto anche Michael, la prima volta che le aveva parlato? Non l’aveva accusata di lasciarsi manovrare, senza porsi domande, senza pensare? Non le aveva domandato se non fosse accecata? No, forse quelle erano le voci.
Ma non era giusto così? Non era giusto fidarsi del Paradiso e obbedire, collaborare per il bene di tutti?
Gli ordini sono ordini; ma sei tu a doverli eseguire. Tu a dover uccidere, massacrare, torturare. Tu a ritrovarti il sangue di amici e compagni sulle mani.
Nauseante. Orrendo. Le era sembrato persino che Michael stesse male, nel dire – ricordare – quelle cose, e... e lei continuava ad obbedire.
Mossa come una marionetta. Incapace di opporsi, se non con qualche reazione troppo umana che non riusciva a reprimere – singhiozzi, respiri, nausee, pensieri. Debole, trasportata dagli eventi.
Piegata dall’Espiazione. Piegata dai propri istinti. Senza scegliere tra l’una e gli altri, continuamente a metà, farsi domande e poi pentirsene e avere il terrore che qualcuno lo scoprisse; e tornare comunque a porsele, a pensare, a ricordare.
In balia del Paradiso e degli Sconsacrati. Gli Angeli le impedivano di esprimersi, di riflettere, di chiedere, di esistere come Amitiel e non come allieva, quinta classe, terzo gruppo; ma anche gli Sconsacrati – anche Michael, anche Eisheth – non la ascoltavano davvero. Poteva porre domande e ricevere risposte – magari un po’ criptiche, magari un po’ irritate, magari un po’... agghiaccianti come quelle del demone, ma pur sempre risposte –, ma loro l’avevano costretta ad assistere a quel massacro, loro avevano spinto Anane ad uccidere il Custode, loro le avevano obbligate a mentire ai Censori per non essere fraintese, per non essere ritenute traditrici.
Chiuse gli occhi, cercando inutilmente di sottrarsi alla luce della Presenza, che le rischiarava la vista anche a palpebre serrate.
Mal di testa. Male male male.
La assaliva l’angoscia, al pensiero che avessero ragione quelle voci – che lei fosse inerte, debole, una marionetta. Non avevano parole reali, non avevano tono, non avevano inflessione, eppure le sembrava di avvertirvi disprezzo. Ma il disprezzo era per i traditori, non per chi obbediva, perché chi obbediva non era una marionetta, chi obbediva stava semplicemente eseguendo il proprio dovere per il bene comune. Erano da disprezzare quelle voci, non lei. Era da disprezzare anche a Michael, quando le ringhiava addosso quelle risate derisorie o la trafiggeva con lo sguardo ad ogni dimostrazione di ignoranza o debolezza; perché lei era solo un cherubino come ogni altro, che imparava ciò che doveva imparare e non chiedeva ciò che non doveva chiedere – davvero? –, mentre lui era un traditore e un rinnegato.
Non voleva il disprezzo di nessuno, Amitiel: né del Paradiso, che l’aveva amata e cresciuta e a cui doveva gratitudine, né di Michael, che le aveva dato risposte e l’aveva protetta dai sospetti.
Ma il Paradiso l’avrebbe disprezzata, se avesse saputo di quei pensieri, di quel desiderio di scegliere, di quell’incertezza nell’obbedire.
Ma Michael l’avrebbe disprezzata, se avesse saputo che non riusciva nemmeno a riflettere senza tremare per il terrore delle conseguenze.
Non abbastanza devota per l’uno, non abbastanza traditrice per l’altro.
Portò le mani agli occhi chiusi, tentando inutilmente di arginare la luce che le feriva la vista. Era troppo presto perché anche la Presenza della quinta classe divenisse troppo intensa, eppure la disturbava, acuendo il mal di testa dato dai troppi pensieri confusi.
Forse poteva uscire un attimo...?
No. Le Custodi l’avrebbero vista, l’avrebbero punita. Forse avrebbero addirittura scorto sul suo viso i segni di quella lotta interiore.
Chi sei o chi ti hanno insegnato ad essere? Cosa scegli?
Amitiel si sarebbe alzata e sarebbe andata a cercare Anane, per parlare, per assicurarsi che stesse bene, per... perché era Anane e basta.
Allieva, quinta classe, terzo gruppo avrebbe sopportato il mal di testa, zittito ogni pensiero e tentato di riposare ancora un po’, per riuscire a seguire al meglio le lezioni del ciclo successivo.
Guardò ancora Ramiel, rilassata nel sonno. Avrebbe dovuto fare come lei, sì: rimanere girata su un fianco per non schiacciare le ali – perché stava puntando le mani sul materasso, allora? – e abbandonarsi alla confortante Presenza – perché le dava fastidio? Perché non riusciva a riposare? Perché stava sollevando il busto?
Si trovò seduta sul bordo del letto, il viso voltato a guardare le tende che davano quiete e riservatezza ai dormitori – le uniche stanze in cui le finestre fossero coperte – e che, in quella luce, sembravano tingersi di rosso. Fuori, anche se non lo intravedeva, sapeva che era tutto luminoso come sempre; ma vuoto, addormentato, perché nel decimo periodo anche il ciclo superiore riposava. Il solo momento in cui lo Specchio non fervesse di attività.
Anane sarebbe stata sicuramente sveglia, però, perché da tempo non aveva bisogno che di pochi istanti di sonno – un’infanzia protratta troppo a lungo a cui il corpo iniziava a ribellarsi, abbandonando a forza quelle necessità infantili.
Avrebbero potuto parlare, confrontarsi, spiegarsi. Avrebbe potuto assicurarsi che l’amica stesse bene, che i segni dell’Espiazione continuassero a scomparire dalla sua pelle e dalle sue ali. Avrebbe potuto chiederle se fosse normale non riuscire a reagire, a scegliere.
...le Custodi. Le Custodi l’avrebbero scoperta e punita.
L’Espiazione. Anane che a distanza di cicli interi non riusciva a volare, a guarire, a sopportare il contatto. I Censori, l’Autorità, Nelchael che le stringeva un polso. Sorrisi gentili e lacrime.
No. No no no per favore no.
Tornò a rannicchiarsi su un fianco.
Aveva ragione Michael. Aveva ragione quella voce.
Un burattino, una marionetta inerte.
Patetica.


«...perché sei esattamente com’ero io. Com’era lei

* * *

Nei suoi ricordi, Leliel aveva un buon odore. Lei aveva sempre adorato gli oli e, sin da quando era un corpo minuscolo e candido di cherubino e un’adulta doveva aiutarla nell’usarli – la presa delle sue dita sottili ancora troppo incerta attorno all’ampolla –, aveva dimostrato la determinazione che l’avrebbe resa poi temuta e rispettata. Avevano capito solo dopo quanto fosse ironico che proprio lei, senza cicatrici, amasse quelle fragranze pensate per i figli del Fuoco; ma, sotto il peso di secoli di veleno, non avevano davvero trovato la forza di ridere per quell’inaspettata scoperta.
Che Leliel fosse speciale, in fondo, si era capito nel momento stesso in cui aveva aperto gli occhi: l’azzurro gelido delle sue iridi l’aveva quasi fatta sembrare una degli incolori, come anche il biondo chiarissimo dei capelli, e tutti si erano detti che la sua essenza non sarebbe durata a lungo prima di consumarsi da sé.
Avevano dovuto ricredersi; così come avevano dovuto ricredersi su un’altra, che all’esterno incolore lo era davvero, ma che dentro aveva un’essenza cangiante e mai stanca.
Era di quest’ultima che Nelchael ricordava l’odore, in realtà: si era avvicinato più a Sariel, svagata e sorridente, che non alla sorella – sorella davvero, sorella d’essenza e di sangue – così ombrosa. La fragranza che usavano era la stessa, quasi volessero unirsi ancor di più per proteggersi meglio a vicenda; e forse speravano di riuscirci davvero, ma la storia, poi, non aveva dato loro ragione. Era un profumo intenso, inebriante, tiepido; dolciastro al punto da stordire, come le notti estive nella dimensione umana, con quell’infinità di minuscole presenze vive che confondevano le loro Percezioni immature. Era avvolgente, impregnava la pelle e i capelli e gli abiti e non se ne andava più – e lui lo sapeva bene, ne aveva avuto spesso la prova. Ma Nelchael sapeva anche che era una dolcezza ingannevole, perché era dolce anche il sangue degli Angeli, erano dolci anche le lacrime; perché anche la zagara sembrava dolce, all’inizio, ma poi dava frutti aspri e amari.
Era stata Sariel a sussurrare quell’ultima frase, ricordò. Sariel che conosceva il profumo delle notti nella dimensione umana, che da cherubino l’aveva portato su di sé come un vanto; Sariel che in quel tempio così buio e angosciante spargeva fiori umani, invece dell’incenso.
Un profumo che da quel luogo era scomparso con lei.
Nei suoi ricordi, Leliel aveva un buon odore; e lui se lo risentiva addosso, per aver di nuovo stretto il corpo di un cherubino. Faceva meno male di quanto avesse temuto – forse era il tempo. L’abitudine.
Nei suoi ricordi, quell’odore l’aveva salutato per l’ultima volta nel tempio, con le ombre che ne distruggevano i resti – i petali, le gocce. L’aria stessa. Tutto inghiottito, scomparso, cancellato dall’oscurità; un’oscurità che era totale, nero, nero ovunque, un’unica marea che sembrava ribollire e vorticare e scagliarsi su ogni cosa. Le colonne ancora ne portavano le tracce: crepe a monito degli errori commessi, nascoste dal buio ma presenti; e lui e Leliel lo sapevano, sapevano dove allungare le dita per incontrare una breccia, sapevano della furia che aveva devastato quel luogo.
Era come tornare indietro, profumo intenso e dolciastro, ombre minacciose a farlo tremare – ombre così dense da essere impenetrabili persino per i suoi occhi inumani. Furia tramutata in un’oscurità aggressiva, rabbiosa, pronta a devastare ogni cosa.
«Non ti vedo.» la avvisò, cauto, senza guardarsi attorno – non riusciva nemmeno a scorgere l’ingresso, distante pochi passi; sarebbe stato inutile qualsiasi tentativo di vederla.
Era buio, un buio innaturale, che oscurava la vista e le Percezioni; un buio angosciante, che vi era stato solo poche volte – per cancellare. Per dimenticare. L’ultima, a farne le spese erano stati una sorella e quel profumo.
Avrebbe attaccato anche lui perché lo portava addosso?
Rabbrividì, per nulla certo della risposta.
«Perché dovresti?» gli rispose Leliel, gelida, da un punto distante.
«Mi hai richiamato tu. Credevo-»
«No. Tu non credi, Esecutore. Tu non pensi. Tu non ti aspetti nulla.»
Gli parve quasi – impossibile, era tutto uniforme, impossibile – di scorgere un guizzo minaccioso, in quell’oscurità assoluta.
«...come desideri.»
«Hai ancora addosso l’odore di quel cherubino.» osservò, con palese disgusto.
Si era fatta più vicina, con passi silenziosi, impercettibili; ma comunque non abbastanza per percepire quel profumo dai suoi abiti. Era come se avesse allungato tentacoli d’ombra su di lui, estendendo i propri sensi.
«Ho preferito controllarla da vicino.»
Il guizzo, questa volta, fu ancor più evidente.
«Tu non controlli, Esecutore. Nessuno te lo ha ordinato.»
«Devo smettere?»
«Quanto ancora vuoi sopravvivere?»
E fu vicina, all’improvviso: il viso ancora immerso nel buio, ma le parole sibilate ad un soffio da lui, una mano sottile ad artigliargli un gomito. C’era una nota di urgenza, nella sua voce – una nota rabbiosa, terrorizzata.
«Dipende tutto da questo, Nelchael. Puoi decidere di vivere – ignorare tutto, non schierarti, dimenticare le promesse e i morti. Oppure» le dita del serafino strattonarono con violenza, obbligandolo ad avvicinarsi di più «puoi rischiare, prendere posizione. Puoi stare attaccato ad un cherubino sospetto – e non credere di potermi ingannare: tu non la accuserai mai. Se anche scoprissi qualcosa, tu continueresti a controllarla per proteggerla
«Non-»
«Puoi venire qui senza nemmeno cambiarti d’abito, ancora con il suo disgustoso odore addosso. Sembra davvero che tu non voglia sopravvivere, Nelchael, sì? Attirarti il sospetto di Daniel – come se già non avesse abbastanza dubbi su di te. Attirarti il mio astio. Credi davvero di poter fare ciò che preferisci?»
«Il tuo astio per un profumo?»
Si udì uno schiocco secco, violento; un urlo trattenuto a malapena.
Le dita di Leliel si bagnarono di sangue, dove le ombre avevano stretto tanto da lacerare la pelle e spezzare il gomito.
«Ti avevo già ordinato di starle lontano. Davvero non t’interessa sopravvivere.»
In risposta, solo un rantolo.
«Hai pensato, Nelchael, che continuando ad intrometterti potresti causare sospetti non solo a tuo danno?»
Una lingua di fiamma candida rifulse nel buio, circondando le dita di Leliel, prima di affondare nella carne già ferita e scavare fino all’osso spezzato. Un urlo.
«Hai pensato che quel cherubino ha dei legami? Che potrebbero sospettare anche di loro?»
Un fruscio improvviso, prolungato – ali da serafino esposte per dare sfogo all’ira.
«Anane. Hai pensato a chi appartiene?»
Della roccia si sgretolò, da qualche parte, come se le ombre vi si fossero avventate. Erano materiali particolari, non certo fragili come quelli umani, non certo così cedevoli e delicati: creati per sostenere la furia dell’oscurità, della notte, più resistenti persino dei loro corpi inumani.
Se fosse stato lui, al posto della colonna?
Solo un grumo di ossa spezzate e carne dilaniata, se fosse rimasto qualcosa.
«Hai pensato a Ramiel? A Gabriel?»
E urla, ancora. Fiamme bianche a lambire il torace, carezze che scavavano solchi profondi nella carne. Le ombre trattenute per non devastarlo del tutto.
«Hai pensato a chi altri appartiene a loro? Sachiel. Sachiel
Si allontanò da lui a passi rumorosi, quasi volesse spezzare il pavimento calcandovi i piedi nudi. Le ali urtarono il busto di Nelchael quando si voltò, facendolo sibilare.
«Se vuoi attirarti il mio astio e i sospetti di Daniel, fa’ pure; ma almeno assicurati di non mettere in pericolo altri più utili di te. Si è detto disposto ad acconsentire allo Sviluppo di Sachiel e di Anane, ha rinunciato a Cassiel per lasciare che sia affidata a me, ha concesso a Ramiel e Gabriel un altro Fuoco. Sono già abbastanza concentrata sul capire che cosa voglia ottenere, non ho il tempo di preoccuparmi anche dei danni causati da te.»
«Forse... ti favorisce così per... evitare lotte intestine.»
«Stai scherzando, spero.»
Il rumore di passi si arrestò di colpo con un ultimo suono secco. Un fruscio di vesti e piume voltate all’improvviso.
Un ringhio di quella voce femminile solitamente così gelida, così controllata.
«Non posso più rifiutare lo Sviluppo a Sachiel, non posso rifiutare Cassiel. Non sono pronte, ma darebbe luogo a dubbi sulla loro integrità. E quel cherubino, Anane? Perché concederle lo Sviluppo subito dopo un assassinio? Vuole ottenere un errore, un altro sospetto ancor più evidente, non sta certo stipulando una tregua.»
«E... Amitiel?»
«Sa della ferita – è un caso troppo particolare perché non ne tenga conto. Vorrà... usarla. Sachiel, Anane... tu. Lei. Troppi legami. Stalle lontano, non peggiorare la situazione.»
«Usarla?»
«Capisco tu sia estraneo alle strategie dei migliori, Nelchael, ma non ti credevo così stolto. Userà lei come userà Sachiel, Cassiel, tutti.» una risata vibrante, aggressiva; un’altra colona si sgretolò sotto la furia delle ombre «Finché non sarà chiaro come vuole agire, siamo nelle sue mani. Marionette.»

* * *

Era strano vedere così tante porte bianche lungo il corridoio: decine di piccole stanze che accoglievano il riposo delle allieve del ciclo superiore, invece delle camerate di quello inferiore. Pareti sottili ma dense, che ostacolavano l’estendersi delle essenze e impedivano che si disturbassero a vicenda – una sensibilità che le coglieva solo nel sonno, simile a quella delle Percezioni nella dimensione umana. Diveniva difficile anche per le Custodi avvertire le presenze dei Cherubini; e questo rendeva Amitiel leggermente meno ansiosa. Era stato più pericoloso uscire dal dormitorio della propria classe e raggiungere quello accanto, del ciclo superiore: tra quelle mura dense, ormai, aveva meno da temere.
Certo, non sapeva bene come raggiungere il piano superiore, dato che di fronte alle scale una Custode fissava il vuoto, ma confidava che l’adulta si sarebbe spostata, dopo un po’: sembrava annoiata e, forse, avrebbe percorso il corridoio per raggiungere una compagna e scacciare il tedio. Bisognava solo sperare che non scegliesse il corridoio in cui Amitiel si stava premendo contro una porta, sbirciando di tanto in tanto per controllare che l’adulta fosse sempre al suo posto; e che, nell’avanzare nella direzione opposta, non si voltasse – con l’assoluta certezza di vederla proprio mentre tentava di raggiungere le scale.
Era sicura di non aver mai avuto un’idea così stupida – nemmeno quando si era avventurata lungo le rive del Confine, proibite, o quando aveva voluto restare con Anane oltre il quarto periodo ed era arrivata con terribile ritardo alla lezione.
Ne era sicura già da quando, pur di mettere a tacere quelle voci angoscianti – sei un burattino. Una marionetta. Patetica. Quando smetterai di lasciarti trasportare dagli eventi? –, si era alzata e aveva pregato la propria essenza di non attirare l’attenzione delle Custodi. L’essenza doveva essere stata d’accordo con lei, sul fatto che era meglio non assaggiare l’Espiazione; un po’ meno sulla sua decisione, perché aveva continuato a sentire le ali irrigidirsi e fremere, per l’incertezza e il terrore. L’essenza mutava di continuo, da spirito che assicurava la sopravvivenza a sangue che era energia pura per il corpo e viceversa e ancora e ancora, come se volesse prepararsi a contrastare un attacco improvviso; e faceva male, la stancava, la intontiva, essenza ferita che non riusciva a rimarginarsi, e così le comunicava che era un’idea stupida, un’idea molto stupida, ma anche che... che, data quella autolesionistica testardaggine a non tornare indietro, avrebbe fatto il possibile per risultare discreta e non attirare l’attenzione delle Custodi.
Era la prima decisione da tantissimo tempo – da sempre – che prendeva lei, lei davvero, senza lasciarsi frenare dal timore o dalle regole, o farsi influenzare dall’opinione di Anane, o... forse in realtà l’avevano spinta quelle voci – pazza, stava diventando pazza – e le vecchie parole di Michael, però aveva deciso lei di alzarsi e andare a cercare l’amica. Non riuscivano a vedersi quasi mai, e Ridwan rimaneva sempre con loro per assicurarsi che l’allieva non si sentisse male all’improvviso a causa dell’essenza ferita – o almeno così diceva, anche se in effetti era capitato un paio di volte; e, se non c’era Ridwan, compariva Nelchael all’improvviso, e lui... lui sapeva, sì? Lui sapeva, lui sapeva.
Doveva parlare con Anane, prima di impazzire. Di Michael, di Eisheth, del suo Sviluppo, della Caduta... del Custode morto. Delle voci e dei sogni. Di come avrebbero dovuto comportarsi dopo essere state quasi scoperte – quasi fraintese.
Doveva solo aspettare che la Custode se ne andasse, salire in fretta le scale, sperare di non incontrare nessun altro ed entrare nella camera di Anane senza essere scoperta. E poi tornare al proprio dormitorio entro il primo periodo del nuovo ciclo, ovviamente. Semplicissimo.
Quando aveva deciso di dimostrare a sé stessa e alle voci di non essere una patetica bambola inerte, non aveva valutato proprio tutte le difficoltà.
La porta contro cui era premuta si schiuse, ma prima che perdesse l’equilibrio una mano la agguantò per un braccio e la trascinò dentro senza delicatezza. Le ali, leggermente dispiegate per mantenere stabilità, opposero resistenza contro gli infissi; ma una seconda mano le strinse l’altro braccio, strattonando bruscamente e costringendole a richiudersi per il dolore.
Il suono secco della porta richiusa non bastò a coprire il sibilo minaccioso che le giunse all’orecchio.
«Vuoi di nuovo causare problemi a tutte?»





***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per preferiti, seguite e ricordate e in particolar modo per i commenti (:
Come sempre, le parti introspettive non potevano essere troppo lineari, ma spero non risultino comunque troppo confuse. Se non si capisce qualcosa di ciò che pensa Nelchael riguardo al passato, be'... non posso spoilerare tutti i precedenti, quindi devo per forza di cose specificare poco.
Nei prossimi capitoli inizierà a fare capolino questa tematica, quindi sottolineo che tra gli avvertimenti della storia c'è anche femslash. Non sarà nulla di spinto o troppo esplicito, il rating arancione non è per questo, ma se comunque vi infastidisce, io ho avvisato (:
A domenica prossima!

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Capitolo 23
*** 22. Patto ***


Capitolo 22 – Patto





«Dunque, fascia rossa?»
Amitiel aveva pensato che Sachiel fosse piacevole; ricordava la sua stretta lieve, le sue rassicurazioni, la sua pietà – che, per quanto potesse ferire l’orgoglio, era giunta in un momento in cui lei voleva solo comprensione e compassione. Non si era risentita quando l’altra, in seguito, non aveva ricambiato i suoi saluti: poteva accadere di non scorgere dei compagni nei viali affollati dello Specchio, non aveva motivo di pensare che la ignorasse di proposito. Sachiel era conosciuta, oltre che per il suo talento, anche per la sua fredda serietà; ma, dopo averla rassicurata con tanta dolcezza, non si sarebbe certo dimostrata altera come Cassiel – che invece fingeva di non notare i saluti dei compagni più immaturi.
Con il suo sguardo corrucciato addosso, però, non se ne sentì più così sicura.
«Ho un nome, fascia grigia
L’espressione di Sachiel s’indurì ancor di più, ma le mani – abbandonate lungo i fianchi – ebbero solo un lieve fremito, unico segno dell’impulso di serrarsi a pugno. Le aveva lasciato le braccia non appena la porta si era chiusa alle sue spalle, con un movimento repentino e quasi sprezzante che le aveva ricordato terribilmente Cassiel, come se toccarla le facesse ribrezzo.
«Non ti devo spiegazioni.» sibilò ancora Amitiel, difendendosi dalla furia malcelata dell’altra.
«Alle Custodi pensi di doverne, invece?»
L’avrebbero scoperta.
Il terrore, accantonato per un istante in favore dell’orgoglio, tornò ad assalirla con violenza. Le ali fremettero, rese più rigide dall’ansia, strisciando dolorosamente contro la porta.
Per gli allievi del ciclo superiore le conseguenze potevano essere un semplice rimprovero, ma per la quinta classe? Ancora nel pieno delle limitazioni, della severità del ciclo inferiore.
L’Espiazione. Il Fuoco.
Dovette assumere un’espressione particolarmente angosciata, nel realizzare quella certezza, perché Sachiel le fece bruscamente segno di sedersi sul letto – sembrava diventare più gentile, quando aveva la possibilità di compatire qualcuno.
Lei rimase immobile.
«Siediti.» le ordinò Sachiel a voce, allora «Non correrò ad avvisare le Custodi nell’istante in cui ti toglierai dalla porta, fascia rossa, non temere.»
«...no?»
L’altra chiuse gli occhi per qualche istante, riflessiva.
Amitiel si morse le labbra con forza, tentando di controllare il tremito convulso delle ali. Forse... forse non avrebbe chiamato le Custodi, forse l’avrebbe lasciata andare. Niente Espiazione. Poter parlare con Anane. Forse sarebbe andata bene.
...perché le aveva ordinato di sedersi, allora?
Le sembrava poco probabile che proprio l’allieva di un’Autorità – dell’Autorità – tacesse della sua trasgressione; e proprio quell’allieva, la cui clemenza si diceva fosse allo stesso livello dell’umiltà, con gli altri Cherubini: il nulla. Eppure Sachiel sembrava essere davvero incerta, combattuta. Aveva le ali ritirate, ma le spalle erano rigide, troppo tese all’indietro, segno che faticava a non esporle; e, in un cherubino così maturo, poteva significare solo che le sue riflessioni le stavano facendo perdere il controllo sul corpo e sull’essenza.
Un conflitto interiore che Amitiel avrebbe voluto poter seguire, per capire a che decisione stesse giungendo l’altra, invece di fremere nell’attesa. Nel terrore dell’Espiazione.
«No.» decretò infine Sachiel, riaprendo gli occhi e fissandola con freddezza «Per ora, no. Non ho intenzione di causare problemi a tutti i dormitori.»
«...problemi?»
«Giusto, fascia rossa.» le labbra stirate in una smorfia sprezzante «Tu non hai idea del controllo che esercitano, dopo aver trovato qualcuno del ciclo inferiore nei corridoi.»
«Ho un nome.» ripeté, senza sapere cos’altro ribattere.
«Siediti e spiega, fascia rossa, prima che cambi idea e decida di chiamare le Custodi.»


«Ripetimi ancora perché, fascia rossa.» le ordinò Sachiel, in piedi di fronte al letto, dopo che le ebbe raccontato per la terza volta di come avesse raggiunto i dormitori del ciclo superiore.
Era una situazione opprimente, le ricordava quando a sovrastarla era stato il Censore, invece di un cherubino; ma il fatto che Sachiel non avesse ancora chiamato le Custodi – nonostante avesse sibilato più volte quell’intenzione – la rassicurava un po’, perché non poteva permettersi di essere scoperta, e... e l’Espiazione no, no. Poteva anche sopportare il gelo e il disprezzo dell’altro cherubino, perché non erano nulla in confronto a quel dolore lacerante – e lo ricordava, nonostante non lo soffrisse da un po’. Lo ricordava con terribile precisione.
«Per parlare con Anane.» mormorò stancamente.
«Aspettare qualche periodo era troppo per il tuo tenero animo, fascia rossa?»
Parlare noi due e basta, intendevo. Non ci lasciano mai sole.
Parlare come mia decisione. Senza farmi influenzare da regole o divieti o... o altre cose del genere.
Ingoiò a fatica la risposta, che iniziava a pretendere di essere espressa, alla quarta replica sempre identica di quel dialogo. Forse Sachiel l’avrebbe trattata con meno sufficienza, se le avesse dato una spiegazione valida.
O forse avrebbe chiamato davvero le Custodi.
«Ho un nome.» ripeté ancora.
«Non m’importa del tuo nome, fascia rossa. Non m’importa del tuo assurdo bisogno di parlare con la tua amica proprio ora. Non-»
«Sembri Cassiel.» sbottò infine, esasperata; dall’espressione dell’altra, capì che non aveva apprezzato.
«Meglio che sembrare te, patetica fascia rossa.»
«Non sono patetica.»
«Fai rischiare controlli feroci a tutto il dormitorio – e anche al tuo. Fai rischiare l’Espiazione alle Custodi che non si sono accorte di te. Fai rischiare l’Espiazione a me per non averle chiamate subito. Fai rischiare l’Espiazione alla tua amica. Tu stessa la rischi.» si chinò su di lei con sguardo furioso, sprezzante «Perché il tuo tenero animo non sa resistere qualche periodo senza parlare con quell’altro cherubino patetico quanto te.»
«Non-»
«Voi due» si rizzò per fissarla dall’alto «avete fatto rischiare l’Espiazione e peggio a chi non aveva alcuna responsabilità, perché siete state – povere – troppo smarrite per chiamare subito Custodi e Guardiani. È tanto difficile non causare problemi a chiunque vi stia suo malgrado attorno? È tanto difficile aspettare dopo le lezioni per pettinarvi i capelli a vicenda e ridacchiare come cherubini della prima classe, invece di girovagare fuori dal dormitorio?»
La compassione di Sachiel, forse, non giungeva fino a farle perdonare rischi che la tangevano personalmente.
Amitiel si alzò in piedi di scatto, sfregando inavvertitamente le ali contro la parete accanto al letto; si permise solo una breve smorfia per il dolore agli squarci, prima di fissare Sachiel dalla sua stessa altezza, furiosa e colpevole – da quel punto di vista, sembrava effettivamente poco sensato. Ma che ne sapeva Sachiel dei suoi dubbi, del suo desiderio di scegliere, della necessità pressante di confrontarsi con qualcuno che potesse capirla?
«Non ti capita mai di dover cercare qualcuno con cui parlare?» le sibilò, con gli occhi umidi di lacrime di rabbia «Di doverti sfogare per non impazzire? Non hai nessuno per cui rischieresti così?»
«No. Noi non ne abbiamo bisogno, noi non rischiamo così per un’amica.» sputò quella parola quasi con disprezzo «Non ho nessuno perché a noi, fascia rossa, non serve nessuno.»
Aveva ragione. Era folle aver bisogno a tal punto di qualcuno, per esseri che non avrebbero dovuto avere legami; era folle doversi sfogare, per esseri che non avrebbero dovuto avere pensieri. Ma un’anomalia simile avrebbe potuto giustificare disgusto, disprezzo, derisione; non rabbia – ed era rabbia quella che lesse negli occhi di Sachiel, nell’essenza tanto agitata da essere avvertita persino dalle sue Percezioni immature. Rabbia.
Incertezza? Invidia?
Rabbia.
Per quel legame così stretto tra lei e Anane? Per quella necessità di parlare con l’amica? Una necessità che non avrebbe dovuto avvertire. Che nessuno avrebbe dovuto avvertire, perché erano Angeli e come tali privi di legami, privi di elementi di distrazione. Nessuno avrebbe rischiato così, uscendo dal proprio dormitorio, per incontrare un’amica – nemmeno se le conseguenze fossero state meno severe di quelle riservate al ciclo inferiore.
...c’era qualcosa di terribilmente contraddittorio, in tutto quello – e Sachiel sembrava accorgersene e volerlo negare, con quella rabbia cieca e velenosa.
«E allora perché» mormorò, cauta, fissandola negli occhi «sono così tanti, gli allievi che rischiano? Che escono dal proprio dormitorio per raggiungere un compagno?»
L’altra ammutolì. Non era una domanda da porsi, non esistevano domande da porsi, ed era come... negare la loro natura. Tutti gli insegnamenti, i principi, la morale. Prima il Paradiso, gli Umani, le leggi; poi i legami personali, comunque inutili, distrazioni da concedersi con moderazione. Era così per tutti gli Angeli, impresso nelle loro menti e nelle loro essenze: andava contro la loro stessa natura, infrangere un divieto – uno dei tanti, tantissimi divieti – per una futile amicizia. Era folle.
Anormale.
Ma sembrava tacitamente la normalità, tra i Cherubini, uscire dalle camere durante il periodo di riposo. Arrivare talvolta un po’ in ritardo alla lezione per essersi fermati troppo tempo a conversare. Sussurrare dicerie e insinuazioni troppo maligne per la purezza degli Angeli. Era anormale, eppure anche la normalità di molti; ed era la normalità non denunciarli, finché un adulto non chiedeva espressamente di riferire le violazioni dei compagni – il che non accadeva troppo spesso, come se non avesse importanza, come se fosse permesso tutto, purché si facesse con discrezione.
Era violare le regole di fronte ad un adulto, ciò che si temeva; e persino Cassiel non aveva mai riferito alle Custodi le continue visite di Anane nel loro dormitorio.
Era mostrarsi anormali di fronte ad un adulto, il rischio. Anche se poi l’anormalità era solo la normalità di molti, moltissimi – e non era possibile che gli adulti non lo sapessero, perché erano stati Cherubini anche loro, eppure... eppure continuavano ad insegnare che tutto ciò era anormale, e a fingere che non accadesse.
Sì, c’era qualcosa di terribilmente contraddittorio.
Possibile che non se ne fosse mai accorta prima?


«Gli Umani, in Paradiso, diventerebbero ciechi. Troppa luce. Troppo candore.»


Sachiel, ancora, taceva. Aveva abbassato gli occhi e sembrava fissarle le mani, strette in grembo; l’essenza di nuovo calma, tanto che Amitiel non riusciva più a percepirne il movimento, e l’espressione cheta, riflessiva.
Avrebbe potuto denunciarla ai Censori, per una frase come l’ultima che aveva azzardato. Avrebbe potuto farle riassaporare la ferocia di quei sorrisi gentili e delle insinuazioni sottili, maligne – maligne? Ma gli Angeli non potevano avere pensieri maligni.
Amitiel trattenne a fatica un tremito. Non avrebbe dovuto mormorare quella domanda, perché i Cherubini non denunciavano i compagni, no, ma solo per ciò che facevano tutti; un dubbio simile sarebbe stato riferito anche dall’allieva più gentile, una famosa per la sua severità non avrebbe esitato un istante a farlo. Si era fatta ingannare da un disprezzo che pareva rabbia macchiata d’incertezza e invidia; aveva voluto vedere per forza una scintilla di comprensione, di condivisione per quella scoperta che... che l’anormalità sembrava essere invece la consuetudine, almeno tra i Cherubini. Ecco, Sachiel nemmeno la guardava in faccia, troppo disgustata: le fissava le mani e probabilmente stava pensando a come comunicare ad un adulto di quei pensieri assurdi, innaturali... sensati.
Sensati.
Non poteva davvero essersi immaginata tutto, vero? Quella volontà di negare qualcosa che sembrava già sapere. Quell’invidia per un legame così stretto, così esclusivo. E... e non aveva chiamato subito le Custodi, mentre avrebbe dovuto farlo – era sembrata addirittura essere contraria alle conseguenze che ci sarebbero state per le altre, se lei fosse stata scoperta nei corridoi del ciclo superiore; e qualcosa di simile poteva anche essere pensato, o lasciato sottintendere in un bisbiglio tra allievi, ma esprimerlo ad alta voce? Non ho intenzione di causare problemi a tutti i dormitori. Fai rischiare controlli feroci. Fai rischiare l’Espiazione. Pericoloso. Eccessivo. Un tono urgente e velenoso che sembrava voler dire che... che le conseguenze non sarebbero state giuste, pur essendo disposte dagli insegnanti, dalle Autorità, dai Censori. Non poteva averlo immaginato, non poteva aver frainteso tutto, vero?
Si ancorava a minuzie, se ne rendeva conto lei stessa. Dettagli che erano frutto della sua fantasia – o forse del suo disperato bisogno di trovare un po’ di comprensione. Di credere che Sachiel non l’avrebbe denunciata ai Censori, con i loro sorrisi gentili e... e l’Espiazione. Il dolore liquido e lacerante dell’Espiazione.
No. No.
«Hai fatto curare il polso?» le chiese Sachiel all’improvviso, rompendo il lungo silenzio, rialzando lo sguardo sul suo volto.
...le aveva osservato il polso? Aveva controllato se l’alone bianco causato dalla stretta di Nelchael fosse scomparso?
«Sì.» mormorò in risposta, ancora troppo incerta e confusa per sentirsi sollevata. Nessuno le assicurava che Sachiel non si sarebbe precipitata da un momento all’altro da una Custode, in fondo.
Ma... ma... ma quello sguardo?
Lo sguardo della più matura era confuso almeno quanto il suo. Smarrito, disorientato, incerto.
«Ti hanno trattenuta dentro per molto.» continuò Sachiel a bassa voce, con una sorta di cautela.
«...sì.»
«Li ho sentiti, quando alzavano la voce. E ho sentito te che urlavi. E... e anche con me sono stati... duri
Sachiel si chinò lievemente su di lei, posando le mani sulle cosce, come a voler sussurrare al suo orecchio per timore di essere udita da qualcun altro.
«...sì.»
«Eppure... eppure non c’erano prove che fossi coinvolta. Che fossimo coinvolte. Non sembrava esserci motivo per quella...»
«...ferocia.» terminò per lei in un sussurro, notando che l’altra non sembrava trovare la parola – o il coraggio di pronunciarla.
Era uno scambio equo: una domanda azzardata per un’affermazione altrettanto rischiosa. Un dubbio sull’operato dei Censori e una velata insinuazione di incoerenza, di ipocrisia, di menzogna.
Non aveva immaginato nulla, non aveva frainteso nulla. La severità criticata, la rabbia venata d’invidia e incertezza, le contraddizioni negate ma segretamente riconosciute. L’orrore per la ferocia dei Censori – e forse era stato proprio quello a colpirla di più, a far risvegliare riflessioni proibite.
Chissà cos’aveva visto Sachiel in lei, invece; la smania di scegliere, troppi pensieri e troppe incertezze, o cos’altro? Qualcosa che l’aveva spinta a tentare un primo passo, ad allentare il controllo sulle proprie parole e lasciarsi sfuggire troppo – un troppo che invece si era rivelato solo un abbastanza.
Abbastanza per spingere anche lei ad esprimersi. Abbastanza per originare quello scambio equo che sembrava quasi una rassicurazione, una garanzia: non ti tradirò. La penso come te. Neanche tu mi tradirai, vero?
Si erano riconosciute, in qualche modo, con una semplicità che non era per nulla normale. Per nulla naturale.
O forse, invece, era la cosa più naturale che potesse accadere.
«Ferocia.» le fece eco Sachiel in un sussurro, dopo un silenzio che sembrò durare interi cicli «...hanno esagerato.»
«Sì.»
Era un patto.

* * *

«L’allieva dell’Autorità? Sei impazzita?»
Anane si voltò all’improvviso verso di lei, smettendo di camminare lungo il bordo del tetto della biblioteca. Amitiel, sdraiata sul ventre, sollevò il busto per ricambiare lo sguardo, sostenendosi con gli avambracci poggiati sulla superficie piatta.
«Sì.» sibilò ancora la più matura «Sì, sei impazzita.»
«Anane...»
«Anane cosa? L’allieva dell’Autorità. Devi essere impazzita. Pensi davvero che ci si possa fidare di lei?»
«Ha detto delle cose che-»
«Dire è diverso dal credere. Se mi fossi fidata di chiunque dicesse qualcosa di ambiguo, non sarei più in Paradiso da molto.»
«Non ha detto qualcosa di ambiguo.» ringhiò in risposta «Giudicare esagerate le azioni dei Censori ti sembra ambiguo? Giudicare esagerate le conseguenze, le regole, le-»
«Regole che infrangiamo.» ribatté l’altra, lasciandosi scivolare in ginocchio di fronte a lei, con l’essenza che si estendeva per controllare che nessuno si stesse avvicinando «Non è così strano che qualcuno le ritenga esagerate. Questo non significa che sia meno fedele al Paradiso, o che sia meno pronto a giudicare chi compie i suoi stessi errori
«Ipocrisia. L’ho capito, Anane.»
L’aveva capito in quell’occasione, parlando con Sachiel; e aveva gettato ancora qualche accenno, colto e approvato dall’altra, quando riuscivano a rimanere sole – il che accadeva molto più spesso di quanto fosse possibile con Anane.
«Se l’hai capi-»
«L’ho capito, ma Sachiel non è ipocrita. Io ci ho parlato, tu...»
«Potrei averci parlato anch’io, da prima che tu fossi creata.»
«Sì, me l’ha detto.» replicò, fredda «Se può confortarti, ho smentito qualsiasi sospetto su di te.»
«...aspetta. Quando è iniziata questa follia
«Qualche ciclo fa. Quando ancora non riuscivi a volare.»
«E dopo solo qualche ciclo tu ritieni di poterti fidare di lei? Magari le hai già raccontato tutto, sì?»
«Non le ho raccontato niente.» ringhiò Amitiel, rizzandosi in ginocchio «Ti ho detto che ho smentito qualsiasi sospetto su di te.»
«E di te, invece, cosa le hai detto? Quanto hai già voluto comprometterti?»
«Chi si è compromessa di più è stata lei. I Censori che hanno esagerato, la sua insegnante che l’ha tradita, le regole troppo severe. E sembra quasi... quasi odiare gli Umani.»
Contro ogni sua previsione, Anane rise, acuta, sprezzante. Terribilmente simile ad Eisheth.
«Tutti odiano gli Umani, Amitiel.» le sussurrò, a voce tanto bassa che dovette quasi indovinare le parole dal movimento delle labbra «Doverli proteggere, perdonare, compatire. Non poter invidiare la loro libertà, la clemenza a loro sempre concessa. Ma non troverai mai un angelo che lo ammetta apertamente, se non un futuro traditore; lei l’ha ammesso, Amitiel?»
«...no. Ma... ma si capiva. Parlava dell’Espiazione, di come a volte si potrebbero perdonare gli Angeli, del Paradiso che...»
«Che?»
La più immatura distolse lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore.
«...che dovrebbe essere meno ipocrita e severo, e farsi onore con la sincerità e la clemenza.»
«È fedele al Paradiso, Amitiel, è evidente
«Non a questo Paradiso. Non al Paradiso che è falso, che non perdona nulla.»
«Oh, quindi abbiamo un’illuminata che vorrebbe trasformarlo? Non è la prima. E non sarà nemmeno la prima a cambiare idea pur di evitare l’Espiazione, la Caduta. Non sarà nemmeno la prima a tradire chi aveva approvato le sue idee.»
«Non-»
«Lascia perdere, Amitiel. Interrompi le vostre amabili chiacchierate e non fidarti più di lei, di... di nessuno. Se vuoi resistere in Paradiso almeno fino allo Sviluppo, abituati a restare sola con le tue idee, o qualcuno ti tradirà.»
«È perché è l’allieva dell’Autorità? È perché non andate d’accordo?»
«Anche perché è l’allieva dell’Autorità.»
«Quindi credi che sia di certo fedele al Paradiso perché la sua insegnante è un’Autorità?»
«Non è questo, Amitiel.» mormorò, con lo sguardo all’improvviso meno furente «È il rischio che la sua insegnante si accorga di qualcosa. È il rischio che cambi idea. È il rischio che in qualche modo si tradisca e ti tradisca. Non parlarne più con nessuno, Amitiel – soprattutto non con lei.»
«Eppure tu stessa hai voluto parlarle, mi ha detto.» ribatté, suo malgrado acquietata dalla calma dell’altra.
«Molto tempo fa.»
«E che hai fatto... osservazioni strane. Quasi compromettenti.»
«Cercavo qualcuno con cui condividere certe idee, sì. Ho imparato a tenerle per me. Stalle lontana, Amitiel, per favore. Se... se proprio...»
«Se proprio...?»
Anane si passò una mano tra i capelli, rovinando la treccia in cui erano raccolti. Senza curarsene, continuò a fissare l’altra negli occhi, con uno sguardo che – Amitiel se ne accorse persino turbata dall’irritazione – esprimeva solo preoccupazione, angoscia.
«Tra poco... è probabile che cada, lo sai. Se proprio non riesci a trattenerti, puoi parlarne con... con Ramiel, sì? Male che vada, se minaccia di tradirti, tu puoi sempre... minacciarla a tua volta. Con Raphael si sta compromettendo molto di più che dicendoti qualche parola – è più probabile che taccia lei, piuttosto che Sachiel.» le fece cenno di zittirsi, per bloccare le proteste che già stavano affiorando «Non inganniamoci, Amitiel. Nessuna di noi due è particolarmente coraggiosa. Nessuna di noi due rischierebbe l’Espiazione o peggio, se potesse evitarlo.»
Avrebbe minacciato Ramiel di denunciarla? Per evitare di nuovo i Censori. L’Espiazione. Peggio.
...sì, se fosse servito.
«C’è una cosa che non capisco.» mormorò, vinta, dopo qualche istante di silenzio.
«A me puoi chiedere, lo sai.»
«Ramiel non sembra tipo da... queste cose, e nemmeno Raphael. Per niente. Come fanno a... non lo so, a... mantenere questa apparenza così perfetta. A fingere così.»
«Non è finzione.» la corresse Anane, passandosi di nuovo una mano tra i capelli, riflessiva «È... separare le due cose. Scindersi. Come essere due persone – come se a infrangere le leggi fosse un altro, come se non mentissi nel negare ogni cosa, come se a dover subire le conseguenze non dovessi essere tu.»
«È così che sei... sei rimasta qui per tutto questo tempo? È così che ti succede?»
«Succede anche te, credo.»
Forse succede anche a Sachiel.
Si morse il labbro inferiore per non dirlo; ma ancora non capiva perché Anane non desse peso al suo giudizio. Se lei si fidava di Sachiel, perché non avrebbe dovuto fidarsi anche l’amica? La riteneva incapace di giudicare?
Sì, le sembrava in effetti che succedesse anche a lei ciò che raccontava Anane – sentirsi estranea a quell’Amitiel che nel Mediano quasi tradiva il Paradiso, quasi si comprometteva con un caduto. Sentirsi un’altra, ancora fedele agli Angeli, nonostante tutto – nonostante parlasse con Anane di una possibile Caduta, di non farsi scoprire, del rischio di essere denunciate.
Ma perché anche Sachiel non avrebbe dovuto provare la stessa cosa? La Sachiel che si comportava come Cassiel, che ignorava i saluti dei compagni più immaturi – e ancora continuava a farlo anche con lei –, che guardava con superiorità e parlava con sprezzo; e la Sachiel che si stendeva accanto a lei sull’erba sempre rigogliosa e priva di odore del Paradiso, che sussurrava riflessioni proibite, che talvolta la aiutava persino ad esercitarsi e a studiare. Perché Sachiel non avrebbe dovuto sentirsi divisa così? Perché Anane doveva dare per certo che invece la stesse quasi... ingannando? Che fosse pronta a denunciarla da un momento all’altro, che non credesse davvero in ciò che diceva.
Non riuscì più a tacere e sussurrò quel dubbio, con una sicurezza che lei per prima non si sarebbe mai aspettata. Tenne lo sguardo fisso sul viso dell’amica, senza abbassarlo nemmeno quando si fece di nuovo furiosa, l'espressione contratta dall’ira.
«Allora non mi ascolti.» sibilò Anane «Vuoi proprio litigare per un’estranea?»
«Dovrei fare quello che mi ordini, quindi? Sono stanca di doverti dare sempre ragione.»
«E non vuoi darmela proprio su questo? Amitiel, per favore...»
«, proprio su questo.»
Nonostante la fermezza dello sguardo, si accorse di avere le lacrime agli occhi. Le mani, strette in grembo, non riuscivano ad arrestare il tremore che le aveva assalite; le piume rosse fremevano, come scosse da una brezza leggera. Le dolevano gli squarci.
Era uno di quei momenti in cui le sembrava che nulla andasse bene, perché stava litigando con Anane e non era mai successo, non così, non seriamente; e non era mai successo perché lei aveva sempre approvato tutto ciò che faceva Anane, secondo Sachiel, e all’inizio le aveva risposto che non era vero e che lei non poteva saperne niente, però... però era vero. E per una volta, solo per una volta, aveva scelto, aveva voluto prendere una decisione senza lasciarsi influenzare dall’amica; ma Anane non la capiva. Muoveva obiezioni senza senso, perché Sachiel si era già compromessa troppo per poterla tradire, se proprio volevano ragionare così – ma la cosa più importante era che di Sachiel non sospettava, lei, e Anane avrebbe dovuto fidarsi del suo giudizio. Avrebbe dovuto capirla.
E invece non la capiva; come, d’altronde, lei stessa non capiva Anane. La limpida Anane che sembrava torbida e calcolatrice, in momenti come quello – come quando, la prima volta, l’aveva abbandonata in balia di Michael senza nemmeno avvertirla. Come quando aveva mentito ai Censori. Come quando aveva... aveva ucciso il Custode.
Era quella, la parte di Anane che si separava dal resto?
Quasi non la riconosceva. Non con quelle labbra strette e lo sguardo furioso, esasperato; non con quelle ali quasi del tutto candide così rigide e dilatate, nell’identico modo di un adulto che voleva intimidire un cherubino.
Si sentì all’improvviso un’estranea – ma non lo era stata per tutto quel tempo? Non aveva saputo degli Sconsacrati, di Eisheth, di Michael. Non aveva saputo che Anane mentiva e tradiva. Non aveva saputo di quella parte così nascosta. Quanto altro non sapeva, ancora?
Tradita.
Di nuovo, come la prima volta che avevano parlato dopo essere discese nella dimensione umana, si sentiva tradita. Perché non le aveva detto nulla per tutto quel tempo, e... forse Anane aveva paura di spaventarla, di perderla, e le aveva anche detto di essere rimasta lì solo per non lasciarla sola, ma... ma le aveva nascosto una parte di sé così fondamentale.
Tradita.
Non si era fidata di lei. E non si fidava nemmeno in quel momento, non si fidava del suo giudizio su Sachiel, non si fidava di ciò che le diceva.
Tradita.
Anane aveva violato la loro amicizia più di quanto l’allieva dell’Autorità avrebbe mai potuto tradire il loro tacito patto.
«Perché per te è così importante parlare con Sachiel?» le chiese l’altra, dopo qualche istante di silenzio.
«Perché è una mia scelta.» mormorò, trattenendo a fatica le lacrime «Per una volta, ho scelto io.»
Inaspettatamente, l’altra rise – una risata acuta e quasi isterica che, come la precedente, le ricordò terribilmente Eisheth.
«Scegliere? Pensi davvero di avere scelta? Siamo Cherubini, Amitiel. Finché non perderemo anche l’ultima piuma rossa, non potremo scegliere nulla.»
Per un attimo, ebbe l’impulso di darle ragione. Quando si era ritrovata addosso lo sguardo gelido e furioso di Michael e le sue dita affondate nelle spalle e gli squarci sanguinanti, aveva capito: non aveva scelta, perché altri avevano deciso per lei.
Ma... ma Sachiel era stata una sua scelta. Uscire dal dormitorio per andare da Anane, e ritrovarsi poi a parlare con quell’estranea che sembrava una versione un po’ più gentile di Cassiel; e incontrarsi nei momenti liberi in un angolo isolato e bisbigliare, scambiandosi opinioni sempre meno caute su ciò che accadeva in Paradiso. E nessuno lo ordinava, nessuno lo imponeva, qualcuno tentava persino di scoraggiarlo – come Anane, come Nelchael. Era una sua scelta, una loro scelta, e quindi... quindi sì, poteva scegliere.
Voleva scegliere.
Non si aggrappava a Sachiel, ma a ciò che rappresentava – a quell’unico sprazzo di libertà che sembrava averla intossicata, resa dipendente. Non importava che in realtà trovasse la compagna poco piacevole, non importava che passassero gran parte del tempo in silenzio; per orgoglio, non avrebbe mai tradito l’unica scelta che era riuscita a strappare alla passività cui erano condannati i Cherubini.
«Amitiel...» sussurrò Anane.
Rialzò lo sguardo sulla più matura, senza ricordare quando lo avesse abbassato sulle proprie mani; alle sue spalle, la sagoma di Ridwan si stava avvicinando in volo. Erano rimasti solo pochi istanti per parlare, e avrebbe voluto dirle molto. Chiederle perché le avesse nascosto la seconda Anane, pretendere che le spiegasse perché non doveva fidarsi di Sachiel, parlare della sua Caduta e di ciò che sarebbe accaduto dopo. Mancava il tempo.
Anane le posò le mani ai lati del volto, richiamando di nuovo la sua attenzione. Le dita sottili e tiepide le sfioravano le guance con delicatezza, ma lo sguardo era tagliente, gelido – non umido di lacrime come il suo. Il suono delle ali di Ridwan, sempre più vicino, quasi coprì il sussurro seguente.
«Amitiel, stalle lontana. Fidati di me, fammi solo questo favore. Stalle lontana.»
Il Custode si posò sul tetto della biblioteca con un lieve fruscio, poco più indietro dell’allieva.
Il Richiamo arse all’improvviso, ricordando ai Cherubini i propri doveri.
«Devo andare, Anane.»
Era riuscita a scegliere, e non sarebbe stata Anane – la limpida Anane che però mentiva e tradiva e uccideva, e ordinava senza spiegare, e le nascondeva una parte fondamentale di sé – a strapparle quell’unica conquista.





***
Angolo autrice
Per problemi tecnici (ovvero l'html che mi vuole tanto, tanto male) ho aggiornato oltre mezzanotte. Devo avvisare di un altro possibile ritardo, più considerevole: l'ispirazione latita per vari motivi e il capitolo della prossima settimana non è ancora pronto, quindi potrei saltare l'aggiornamento di domenica prossima, ma spero di riuscire comunque ad aggiornare.
Dopo questo avviso, come sempre ringrazio chi segue la storia e in particolar modo chi la recensisce (:
E finalmente Amitiel si è svegliata sul serio. Se l'è presa con comodo, ha fatto le sue lentissime riflessioni ripetitive e circolari, ma ce l'ha fatta u.u A questo proposito, i suoi ragionamenti potrebbero risultare un po' pesanti e ripetitivi, ma... non è un genio. Ha bisogno di sbattere la testa più volte, prima di arrivare a capire qualcosa. Dai prossimi capitoli sarà più leggera, comunque (:
A (spero) domenica prossima! (:

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Capitolo 24
*** 23. Quiete stanca ***


Capitolo 23 – Quiete stanca





Le Percezioni si estendevano a fatica, scontrandosi contro la resistenza dell’essenza compressa, quasi dovessero avanzare in acque limacciose. Non riusciva ad analizzare il poco che avvertiva: le informazioni si confondevano e l’attenzione sfumava, facendole perdere l’appiglio sulle presenze a cui si aggrappava con fatica. Stilettate crudeli affondavano nelle scapole, dove sentiva la divisa umida di sangue; un dolore feroce pulsava alle tempie, e se si trovava ancora eretta e salda sulle gambe doveva ringraziare solo il proprio orgoglio.
«Raggiungi la Via.» le ordinò Leliel, indifferente al suo malessere.
La Via. Un punto troppo distante perché potesse raggiungerlo, da quel luogo isolato nella foresta, poco lontano dal tempio dell’insegnante – l’Autorità non amava farla esercitare allo Specchio, troppo frequentato e pieno di distrazioni.
Era certa, Sachiel, che non sarebbe riuscita a raggiungere la Via senza distendere le ali; ali che Leliel le aveva imposto di ritirare, con un ordine che si poteva definire solo crudele.
Trattenerle, pur estendendo a tal punto le Percezioni e l’essenza?
Doloroso. Sfibrante. Impossibile.
Si spinse più avanti lungo i viali, lentamente, ignorando le presenze che avvertiva – e che, probabilmente, la avvertivano. Il suo passaggio lasciava una traccia spessa, greve, congiunta a lei troppo profondamente; scivolava sulle essenze altrui con difficoltà, rendendosi evidente, senza l’abituale discrezione.
«Subito, cherubino.»
Le Percezioni, tese allo spasimo, vinsero le resistenze dell’essenza con un guizzo improvviso.
Un suono raccapricciante, come di carne lacerata con violenza; il sangue candido colò più copioso lungo le scapole, mentre un lamento sommesso e prolungato le sfuggiva dalle labbra.
Aveva raggiunto alla Via. C’era riuscita.
Lo stordimento inghiottì persino l’orgoglio per quel risultato.
«Tre... quattro Arcangeli. Guardiani.» iniziò ad elencare con voce flebile, affidandosi all’intuito più che ad una reale comprensione.
Avvertiva le essenze in modo vago, indistinto, confondendo numero e identità; che riuscisse anche ad analizzarle tanto a fondo da distinguerne il ruolo era utopia. Ma era ciò che Leliel chiedeva, e ciò che Leliel chiedeva andava portato a termine, fosse anche una pretesa esagerata.
«Che ci siano Guardiani alla Via, cherubino, mi pare quantomeno ovvio.» ribatté l’insegnante, appena prima che tentasse di indovinare il numero di Custodi «Il Fuoco, piuttosto.»
«Il Fuoco...?»
Leliel non si ripeté, perché Leliel non ne aveva bisogno, mai – perché nessuno avrebbe osato esitare, ad un suo ordine. La conferma fu una domanda aspra: «Sai analizzarlo, sì, o ho sprecato il mio tempo ad insegnarti il nulla
Era crudele. Sachiel non pensava di godere del suo affetto – gli ultimi avvenimenti gliene avevano dato prova in maniera incontestabile –, ma non credeva nemmeno di meritare quella ferocia, quel gelo.
Lacrime di frustrazione le inumidirono gli occhi serrati, senza scorrere oltre le palpebre.
Non si era mostrata negligente o irrispettosa, eppure stava perdendo il favore di cui aveva sempre goduto; forse perché Leliel si era accorta di star perdendo il suo, e non poteva tollerare che lei, proprio lei che era stata istruita e guidata con tanta attenzione, smettesse di adorarla.
Ma era stata Leliel per prima a divenire meno benevola, a disprezzare ogni suo risultato, a rimproverare ogni minima mancanza. A paragonarla sempre ad un cherubino geniale, che lei non avrebbe mai potuto eguagliare. A ridurre il – già esiguo – tempo che le dedicava per concentrarsi su Cassiel, nonostante l’altra fosse ancora al ciclo inferiore.
Poteva stupirsi, Leliel, se poi trovava l’allieva risentita?
«Il Fuoco.» mormorò ancora.
Forse il serafino la stava sopravvalutando.
O forse era solo crudele, ad ordinarle qualcosa di impossibile.
Avvertiva poco, vedeva ancora meno. Coglieva a fatica le presenze candide e sfocate dei Guardiani, le loro essenze mescolarsi indistinte, immerse nella luce – la luce pura e brillante della dimensione immateriale in cui si muovevano, a cui appartenevano. Attorno a loro, il Fuoco: chiarore che si sommava al chiarore, lingue di fiamma di cui riconosceva vagamente i contorni.
Cercò di tendersi di più, per distinguere le vampe dalle essenze, dal Paradiso, da tutto quel candore confuso; ma si trovò a mordersi il labbro inferiore, furiosamente, mentre fitte violente alle scapole e al capo minacciavano di farla gridare.
«Non sai dirmi nulla?»
La voce di Leliel, ancora. Crudele.
No. No, non con le ali ritirate, non con quelle pulsazioni feroci alle tempie, non con quello stordimento. Cosa avrebbe potuto dirle, poi? Il colore che aveva assunto, tra il bianco e il rosso e le infinite altre tonalità che designavano lo scopo delle fiamme? Se avrebbe dovuto essere sfruttato a breve? I luoghi a cui avrebbe condotto? Erano informazioni possibili da raccogliere, ma solo da qualcuno di esperto e abile, non da un cherubino stanco.
Ma forse un cherubino – uno, uno solo – ci sarebbe riuscito. Forse Cassiel si sarebbe dimostrata abbastanza brillante, abbastanza geniale, rubandole ancora l’attenzione e il favore di Leliel; e a lei, che si impegnava fino allo stremo, restava solo l’accusa di inettitudine, senza neppure l’ombra di quei sorrisi di approvazione tanto rari e tanto bramati.
Rimase in silenzio, a palpebre calate e pugni serrati.
«Nulla? Non farmi sprecare tempo, allora. Ritira le Percezioni.»
Quei commenti.
Quei commenti continui, infastiditi, feroci.
Leliel non aveva mai parlato molto: la sua opinione si esprimeva attraverso uno sguardo, un’inflessione della voce, un gesto. Normalmente le avrebbe solo ordinato di ritirare le Percezioni, con un tono più brusco del solito; non avrebbe esternato la propria contrarietà con quelle parole.
Con un guizzo opposto al precedente si ritrasse rapidamente dalla Via, e un lamento strozzato le salì alle labbra a quel moto brusco.
«Lentamente, Sachiel.» le ordinò l’insegnante, con voce appena più morbida.
Lentamente. Eppure era stata proprio lei a parlare di tempo sprecato; perché doveva portarla al limite e poi mostrare quell’accenno di gentilezza?
Ma Leliel poteva agire come più le sembrava opportuno: il comportamento di un’insegnante, di un serafino, di un’Autorità non era qualcosa che un cherubino avesse il diritto di giudicare. C’era sicuramente un senso, un motivo per quell’asprezza, e lei poteva – doveva, voleva – solo fidarsi.
Come aveva sempre fatto, in fondo: c’era sempre riuscita, anche se... anche se non le era mai stato chiesto quello – non le era mai stato chiesto di subire un comportamento così freddo e crudele. Di subire il continuo confronto con un cherubino geniale, che le rubava l’attenzione e il favore dell’insegnante mentre lei li meritava cento, mille volte di più. Di subire lo sguardo distaccato di Leliel mentre il Censore sorrideva e la straziava da dentro.
Non aveva meritato nulla di simile.
O lo meritava? Si stava dimostrando così ingrata, con quell’astio verso Leliel – verso chi l’aveva guidata, istruita, cresciuta. Verso chi le diceva di far piano, nel ritirare le Percezioni, per non acuire il malessere. Non avrebbe dovuto, forse, essere così ostile verso l’insegnante.
Non avrebbe dovuto, ma il dovere negli ultimi tempi era stato spaventosamente trascurato; non nelle azioni, nell’apprendimento a cui si dedicava con impegno quasi disperato, nella brama di un’approvazione che non giungeva mai, ma nei pensieri. Nelle emozioni. Nelle parole sussurrate ad un’altra, celate tra il fruscio di piume rosse e ciocche nere smosse dal vento.
Rilassò l’essenza, nel ritirarla, per lenire il malessere. Le scapole dolevano ancora, come se una lama lacerasse i muscoli e frantumasse le ossa, ma le pulsazioni alle tempie si stavano lentamente placando. L’essenza, non più costretta verso una meta troppo lontana, si distese morbidamente: un velo incorporeo, attirato dallo Specchio, arricciato attorno alle presenze infantili che incontrava. Non cercava nessuno, ma c’era qualcosa di seducente, nel turbinio di quelle essenze incontrollate – il rosso intenso dei Cherubini appena creati, le sfumature sempre più pallide della maturazione, il ciclo superiore tinto di cenere. Le avvertiva, le vedeva con chiarezza, come se rilassarsi avesse acuito le Percezioni: il caos delle zone aperte, il flusso nei viali e nell’aria, l’ordinata quiete delle biblioteche.
La sua attenzione rimase sospesa su una di esse, senza motivo – ammaliata da qualcosa che aveva già incontrato e conosciuto. Una nube grigia, deturpata da macchie scarlatte, che fremeva, trattenendo a malapena la propria agitazione. Un’altra presenza, accanto ad essa: un rosso tenue, ma dal turbinio violento. Un rosso macchiato di pece, schegge nere a contaminarne l’infantile purezza.
Ferite. Lacerazioni.
«Sachiel.» la richiamò l’insegnante.
La sua essenza – grigia, limpida, intatta – le sfiorò ancora, indugiandovi, arricciandosi lieve attorno a quelle volute cineree e rossastre. Rapita, affascinata. Sedotta.
«Sachiel.» ripeté Leliel – Leliel che non si ripeteva mai.
Le ali del serafino la avvolsero con un fruscio, scorrendo tiepide sulla pelle lasciata scoperta dagli abiti.
All’improvviso si trovò persa, priva di appigli, inghiottita dai limiti di quella foresta – tronchi lisci, foglie mai avvizzite e un’essenza adulta e potente a trattenerla. L’istinto di dibattersi contro quella costrizione, di aggrapparsi di nuovo al turbinio di essenze dello Specchio, e il malessere a suggerirle invece di non combatterla. Dopo qualche istante, le fitte alle scapole – sangue colante dagli squarci quasi rimarginati, dolore bollente e feroce che straziava la carne – la convinsero a lasciarsi guidare.
Avvertiva solo l’essenza di Leliel avvolgerla, annebbiando le Percezioni, spingendola a ritirarsi; e la propria addensarsi e assottigliarsi, instabile, esausta, una nube immateriale che circondava il corpo in volute sempre più strette.
Immateriale eppure visibile, ai suoi occhi inumani e sensibili.
La pressione di Leliel svanì, le ali da serafino si allontanarono e lei sollevò le palpebre, incerta. Si aspettava una domanda sul suo comportamento anomalo, ma gli occhi chiarissimi dell’insegnante non erano fissi su di lei: guardavano alle sue spalle, riflessivi, persi nel vuoto. Dopo qualche istante, la fronte aggrottata si distese e lo sguardo del serafino si posò su di lei.
Le avrebbe chiesto perché avesse indugiato tanto su quelle presenze, perché si fosse distratta così, perché non avesse ritirato l’essenza senza essere costretta. Sachiel ne era certa, era ovvio che glielo avrebbe chiesto, e... e non sapeva cosa rispondere. Forse era solo stanca e aveva trovato rassicuranti quelle essenze conosciute, o aveva cercato qualcosa su cui concentrarsi per distrarsi dal dolore. Non le era mai accaduto, ma poteva avere senso, sì?
Le labbra di Leliel si schiusero.
Con un fremito trattenuto a stento, Sachiel si preparò a giustificarsi – lucida anche nell’incertezza, nel timore che l’insegnante avesse compreso... qualcosa, qualcosa che non si spiegava neppure lei.
«Puoi esporre le ali.»
Le servì qualche istante per comprendere le parole del serafino, tanto che Leliel dovette ripeterlo – Leliel che non si ripeteva mai, e che invece l’aveva già fatto due volte in pochi istanti.
Sachiel sorrise, incerta. Il sollievo le fece perdere il controllo: il dolore esplose, quando le ossa dilaniarono la carne con troppa veemenza, ma un istante più tardi non ne era rimasta che un’ombra. Le ali si distesero, rapide, urtando la corteccia liscia degli alberi.
«Non perdere mai il controllo dell’essenza.» sibilò Leliel, tornata gelida all’improvviso «Ritirarla lentamente è diverso dal lasciarla languire.»
Sachiel raccolse abbastanza lucidità da chiederle perdono e assicurarle che non sarebbe più accaduto. Non tentò di giustificarsi: la stanchezza e il malessere non erano mai stati scusanti, per Leliel, nemmeno quando le concedeva un sorriso per un esercizio riuscito. Ma, invece di stirare le labbra in quel segno di approvazione, l’insegnante le ordinò di ripetere tutto – per dimostrare di saper ritirare le Percezioni in modo adeguato. Per imparare a non distrarsi.
Le parole del serafino furono quasi sovrastate da un lamento acuto, mentre le ali si ritraevano di nuovo e il dolore tornava, intenso, stordente. Stilettate che la ridestavano dal torpore della stanchezza, affondando crudeli nelle scapole e diradandosi in tutta la schiena e verso il collo, il capo, le tempie – o forse erano le pulsazioni violente alle tempie a scendere giù verso il collo, le scapole, la schiena, fino a farle tremare anche le gambe.
«Più rapidamente di prima, cherubino. Tra poco devo occuparmi di Cassiel.»
Sachiel si conficcò le unghie nei palmi tanto a fondo da farli sanguinare.

* * *

Raccolse le ginocchia al petto, vi appoggiò il mento e fissò lo sguardo sull’acqua sotto di sé – acqua vera, trasparente, non come il nastro candido del Confine che scorreva attorno allo Specchio. Lasciò scivolare il braccio sinistro verso il basso, oltre il bordo del masso chiaro su cui era rannicchiata, immergendo le dita nel torrente.
Tiepido. Come tutto, lì.
Con l’altra mano strinse uno dei ciottoli che aveva raccolto sulla riva e lo gettò in acqua. Quello affondò con un tonfo, disturbando per un istante il quieto gorgoglio della corrente.
Amitiel non capiva come gli Umani potessero farli rimbalzare. Forse Michael aveva mentito, quando glielo aveva raccontato.
Ne scagliò un altro e decise di ignorare quella riflessione. Non era il momento di pensare a Michael – Michael che le scostava i capelli dalla fronte e le rispondeva e le spiegava. Michael che poi la stringeva fino a ferirla e ringhiava e la intrappolava in qualcosa di troppo spaventoso – e l’aveva ascoltata? L’aveva lasciata parlare, chiedere? Cosa le era rimasto, delle informazioni promesse? Qualche parola, qualche chiarimento a cui sarebbe potuta giungere da sola; e le membra doloranti, un Custode divenuto cenere tra le sue dita, il corpo straziato di un demone davanti ai suoi occhi terrorizzati. Il sorriso del Censore, il terrore di essere scoperta. La sensazione opprimente di essere intrappolata, come un fantoccio senza possibilità di scelta.
Il terzo ciottolo giunse più lontano, scagliato con foga maggiore.
E lei aveva inclinato il capo, cercando le sue dita gelide. E lei aveva avvertito la frenesia di incontrarlo di nuovo, per essere ascoltata e compresa. E lei aveva tremato per la sua stretta e l’aveva bramata, ancora, ancora.
E lei era scomparsa per quegli occhi grigi, era tornata un cherubino invisibile e muto – sì, avrebbe portato il peso di quell’assassinio, di quegli occhi che si spegnevano lentamente, di quella cenere, di quelle accuse, di... di... di tutto. Tutto quello che altri avevano deciso per lei.
Ci era abituata, era sempre stato così; ma per un istante si era illusa che con Michael fosse diverso. Che la ascoltasse, che – addirittura – prendesse in considerazione la sua opinione. Invece aveva ragione Anane: erano Cherubini, senza parola e senza scelta.
La quarta pietra, scagliata con furia, urtò un altro masso con uno schiocco secco, prima di rimbalzare e affondare.
O forse anche Anane si sbagliava, forse una scelta c’era anche per loro, e... ed era così cieca invidiosa gelosa da non accettarlo.
Non parlare con Sachiel. Stalle lontana. Parla con Ramiel, lei si è già esposta, puoi minacciarla. Non Sachiel. Pazza. Pazza. Non fidarti.
Non fidarsi di qualcuno che l’aveva confortata, con cui poteva parlare, che non portava alla mente ricordi spaventosi. E perché fidarsi di Anane, allora? Di qualcuno che l’aveva lasciata in balia di Michael senza avvertirla, che non l’aveva mai informata dei suoi rapporti con gli Sconsacrati, che aveva ucciso davanti a lei.
La destra non trovò più ciottoli da scagliare. La mancina, ancora immersa nell’acqua tiepida, sfregò furiosamente contro il masso ruvido.
Non era mai in grado di tenere fede alle proprie intenzioni, quando decideva di non pensare a qualcosa.
«Amitiel?»
Sollevò il mento dalle ginocchia e voltò il capo a destra, verso la voce. Tra gli alberi, la figura sottile di Sachiel si scorgeva a malapena: il lampo biondo della treccia, qualche sprazzo rosso nel candore delle ali, un lembo di tessuto che ondeggiava seguendo i suoi passi.
Sorrise.
Era lì, la sua scelta – ed era giusta, qualsiasi fosse l’opinione di Anane.
«Sachiel.» la salutò a sua volta. La voce, suo malgrado, suonò ancora vibrante di furia.
Sachiel raggiunse la riva e si fermò ad un passo dall’acqua. Il suo sguardo non la abbandonava, corrucciato; le sue ali tremavano leggermente, come se le avesse irrigidite.
«Non dovresti essere qui.» disse, fredda.
Il sorriso di Amitiel si spense. La mancina tornò a raschiare contro la roccia.
«Ho il permesso di Ramiel. Volevo esercitare le Percezioni.»
Lo sguardo dell’altra divenne più quieto, ma le ali continuarono a vibrare.
«...lontano dallo Specchio?» chiese, a metà tra un’incertezza e un dubbio poco convinto.
«Dice che è meglio così.» scosse bruscamente le spalle «Imparare a estenderle senza distrazioni, invece di avvertire da subito tutte quelle presenze.»
Gliel’aveva suggerito l’insegnante stessa, e lei non si era lasciata sfuggire l’occasione di rimanere da sola, senza lo sguardo di compagni e Custodi a seguirla. Si era esercitata davvero, prima di perdere interesse e sedersi a fissare l’acqua, annoiata e stanca; ma era comunque riuscita a concentrarsi meglio e più a lungo, senza venire stordita da troppe presenze – o attratta con violenza da qualcosa e poi trovarsi all’improvviso persa, confusa, senza più idea di cosa cercare.
Non doveva preoccuparsi, le aveva assicurato Ramiel, scrutandola negli occhi: era un problema risolvibile con la pratica, tipico delle essenze troppo sensibili e inesperte. Le aveva consigliato di esercitarsi da sola e acconsentito a farla allontanare.
Non c’era motivo di dubitare che avesse il permesso di essere lì. Se Ramiel non avesse chiamato una Custode per accompagnarla, non l’avrebbero mai lasciata uscire dallo Specchio; l’angelo avrebbe dovuto essere ancora lì con lei, ma il numero di fasce azzurre sembrava diminuire sempre di più, e occuparne una per un singolo cherubino era apparso inutile. Avrebbe potuto capirlo anche Sachiel, invece di essere così scettica, invece di divenire così gelida al dubbio che fosse lì senza permesso, invece di... no, lei non stava dubitando, ma aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi e non c’era più il Paradiso, non c’era più Michael, forse non c’era più neppure Anane, c’era solo la sua scelta – e la sua scelta doveva dimostrarsi giusta, doveva, perché se anche Sachiel la tradiva lei non... non...
Un rivolo di sangue colò lungo la mano. Amitiel continuò a sfregarla violentemente contro la roccia, ignorando il dolore all’escoriazione sempre più profonda.
«Ti ho disturbata?» chiese l’altra, con voce più morbida, senza dar segno di averlo notato.
«Stavo facendo una pausa.»
Tacquero.
Amitiel volse lo sguardo verso il torrente, dove una traccia bianca si spandeva, colando dalla sua mano. Sachiel si lasciò scivolare seduta con un fruscio; un ciottolo, urtato nel movimento, rotolò nell’acqua con un tonfo.
«Vi ho percepite, prima.» disse la più matura «Tu e Anane.»
Le ali rosse si irrigidirono, le labbra si strinsero, la mano sfregò con più vigore contro la roccia; gli occhi, però, rimasero fissi sull’acqua.
«Avete discusso.» continuò Sachiel.
«Non ti riguarda.»
«Ne dubito, dall’occhiata che mi ha lanciato mentre venivo qui.»
Amitiel smise di graffiarsi la mancina contro la roccia e la strinse a pugno, torturando con le unghie la pelle già escoriata.
Cosa avrebbe potuto dirle? Sì, abbiamo discusso. Nulla di particolare, semplicemente non dovrei fidarmi di te che hai l’unica colpa di essere allieva dell’Autorità, e invece dovrei fidarmi di lei che mi ha mentito e gettata tra le mani degli Sconsacrati.
Non le sembrò la risposta migliore.
«È solo gelosa, Sachiel. Ignorala.»
Non voleva coinvolgerla. Turbarla. Disgustarla.
Doveva dimostrare che la sua scelta fosse giusta, e... e ne era certa, che se Sachiel avesse saputo degli Sconsacrati, l’avrebbe tradita. Ma era normale, comprensibile – lei stessa non era affatto sicura di voler avere ancora rapporti con loro, dopo tutto quell’orrore. Si poteva fidare di Sachiel, certo, ma ancora entro ragionevoli limiti.
«È... eccessiva.» sbuffò Sachiel, ma il tono quieto smentiva le parole esasperate «State insieme di continuo.»
«Non tanto, ora. Deve prepararsi per lo Sviluppo.»
«Dovrebbe pensare a quello, allora, invece di essere opprimente.»
«Sei tagliente.» osservò Amitiel, incerta se assentire o sentirsi offesa per Anane; e, notando che l’altra non rispondeva, continuò: «Perché?»
«Stanchezza. Mi sono esercitata da poco con Leliel.»
Tornarono a guardarsi in viso, l’una curiosa, l’altra imperturbabile. Le unghie smisero di tormentare il palmo insanguinato e le ali di entrambe si rilassarono – Leliel era un argomento che le acquietava, perché era uno dei pochi punti del loro tacito accordo, che le trovava sempre in armonia.
«È successo qualcosa con lei?»
«Non è...» chiuse gli occhi e rovesciò il capo all’indietro «Sono... forse sono io che esagero.»
«O forse è lei.»
Sachiel riaprì gli occhi e li fissò su di lei. Sembravano lucidi.
Amitiel la ascoltò raccontare: frasi brevi, secche, forzatamente distaccate – la voce vibrante d’ira e umiliazione, e dolore. Osservò le ali frementi, la fronte corrugata, le spalle tese. Non curartene, avrebbe dovuto risponderle, ma beveva quella rabbia come un umano assetato – la sentiva fluire e ne gioiva, meschina, perché la rabbia contro Leliel andava bene. Anche quando provocava dolore, e labbra morse per soffocare le parole in eccesso, e lineamenti contratti in una maschera di freddezza già in pezzi. La rabbia contro Leliel era buona.
La voce di Sachiel s’incrinò e Amitiel avvertì l’affetto sgorgare, improvviso: dovuto a quella scelta giusta che si riconfermava tale, eppure sincero, genuino. Calore, gioia, un sorriso sul punto di affiorare alle labbra. E compassione, anche, perché in quel momento era abbastanza bendisposta da provarne.
Si alzò, scattando rapida verso la riva, con le ali distese a frenare la caduta. Fu un’azione puramente istintuale, inginocchiarsi accanto a Sachiel e stringerla: un braccio attorno alla vita, l’altra mano sulla nuca, un calore nel petto che la spingeva a dimostrarle quanto le fosse grata.
Grata per dimostrarsi sempre giusta. Grata per averla stretta a sua volta, tempo prima; grata per non averla ingannata o tradita.
«Hai ragione.» mormorò, e la sua voce suonava così limpida e sicura che nessuno ne avrebbe dubitato «Ma lei non merita tutta questa attenzione.»
Sachiel ammutolì e rimase immobile, rigida; ma dopo qualche istante le cinse la vita a sua volta, con un braccio esile e tremante che sembrava pronto a sollevarsi. I loro corpi aderivano, le ali si sfioravano con fruscii morbidi, ed era... piacevole. Tiepido, delicato – piacevole.
Una quiete stanca e affaticata le pervadeva, lentamente; e la gioia incontenibile dell’una trovava freno, e la rabbia umiliata dell’altra si placava. Forse sì, forse si erano salutate con freddezza; forse c’era un palmo escoriato contro la roccia, parole furiose trattenute in gola, il principio di un litigio senza motivo; forse serpeggiava ancora la stanchezza, il timore, la frustrazione di sentirsi inadeguata e la segreta angoscia che una scelta si rivelasse errata. Ma il tepore di un corpo contro il proprio era rassicurante, come lo era chiudere gli occhi e annegare i pensieri in una stretta goffa. Trovare posto tra le braccia di qualcuno, un posto sereno, un posto senza pesi troppo gravosi o preoccupazioni opprimenti; un posto che era, forse, il migliore che le avesse accolte da tempo.
E vi rimasero a lungo, in silenzio, immerse in quella quiete meravigliosa e un po’ stanca.





***
Angolo autrice
In ritardo. Più di un mese dall'ultimo aggiornamento. Sto avendo diversi impegni e problemi che purtroppo non mi lasciano né il tempo né la disposizione d'animo adatta a scrivere; non posso promettere che gli aggiornamenti resteranno regolari come prima. Dovrei riuscire ad aggiornare ogni due-tre settimane circa, ma è sicuro solo che continuerò a scrivere, il ritmo è incerto - anche perché ora ho iniziato anche un'altra storia. Il capitolo successivo, in ogni caso, è già in lavorazione.
Grazie a chi legge, segue e/o commenta (:

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Capitolo 25
*** 24. Passato che torna; futuro che muore ***


Capitolo 24 – Passato che torna; futuro che muore





C’era qualcosa, nell’aria, che ferveva come se ci fosse un tempo limite, un termine prossimo – o forse era in lei e la spingeva a guardarsi attorno, a ricordare ogni dettaglio di quel luogo che presto avrebbe abbandonato, a imprimere tutto nella sua memoria sempre troppo imperfetta.
Vedeva le fronde lontane agitarsi sotto il vento, le correnti d’aria che conosceva bene sostenere il volo ancora incerto dei Cherubini; ma avevano sempre avuto quella rapidità, quella violenza?
Su un tetto, un allievo sfogliava gli appunti con tale foga che le pagine rischiavano di strapparsi. Più in basso, i viali erano un continuo flusso in direzioni opposte, le sacche annodate ai polsi che si urtavano tra loro e le ali agitate, arruffate, frementi. Mancava la settima classe – la settima classe mancava sempre, come se avesse continuamente qualche impegno lontano dallo Specchio, ma non era stato così, quando lei aveva indossato quella fascia. Il colore pallido della sesta c’era, però, e – minuscola fitta al petto – la quinta con il suo rosso tenue, la quarta dalle tinte ancora accese. E terza e seconda e prima, gocce di sangue umano che si perdevano in quella marea più chiara, come se fossero pochi, pochissimi, come se il ciclo inferiore fosse composto solo da Cherubini quasi maturi e da quell’unico sprazzo più intenso della quarta – e questo, nemmeno questo era normale. C’erano anche ali che, da lontano, apparivano bianche: una moltitudine che ai fianchi portava il colore del lutto, fasce grigie più numerose di quanto fossero mai state, mentre le ali davvero candide – insegnanti, Custodi, Guaritori – diventavano sempre più rare, sempre più scarse.
In un viale, un cherubino spintonò un altro, che sbatté la schiena contro la parete esterna dei dormitori; quello restituì il colpo, facendolo crollare a terra, ma nessun adulto intervenne – ricordava, invece, di quando le Custodi le ordinavano di non ridere per non turbare la quiete, e un litigio sarebbe stato impensabile. Si sporse di più sul bordo del tetto, per vedere meglio la scena, e finalmente un Custode li fermò, furioso; lei lo conosceva, perché erano stati nello stesso gruppo, da qualche parte in quell’infinità di tempo trascorsa dalla sua creazione. Era stato uno di quelli che avevano sussurrato alle sue spalle – uno di quelli che avevano disprezzato la sua allegria, la sua memoria difettosa, la sua lentezza; uno di quelli che avevano sorriso, soddisfatti, ogni volta che aveva mostrato le venature bianche lasciate dall’Espiazione; uno di quelli che avevano sperato che la macchia della sua esistenza imperfetta svanisse, che il monito della fascia grigio cenere si avverasse.
Anane si accorse che la sua memoria difettosa poteva rinunciare al ricordo del Paradiso.

* * *

Sull’acqua si riflette la luce del tramonto. Il sole che muore sembra riversare il suo sangue nel torrente, tinge i flutti di colori caldi; lei ci immerge le mani e scopre che invece sono freddi, gelidi, nonostante le promesse di quei raggi.
Non si guarda nel torrente: volta il capo verso le pietre dell’argine, verso la terra umida che le sta sporcando le gambe. Sente ogni granello, ogni sasso, graffiare la pelle morbida e tenera. Un frammento di metallo riflette il bagliore del sole, appoggiato poco lontano; abbandonato su una roccia, uno specchio le rimanda uno scorcio di cielo rossastro. Si sporge e vi vede un lampo di capelli scuri, e la mano rosea che sale ad allontanarli dal viso.
È sola.
Fa stranamente male, pensarlo.

* * *

«Hai pensato a quello che ti ho detto?»
«Non cambio idea.»
«Ti tradirà, Amitiel.»
«Io mi fido, di lei
«Michael-»
«Michael non c’entra nulla con questo.»
«Michael mi ha... tempo fa, mi ha detto-»
«Per colpa sua ho dovuto assistere a... a quello che hai fatto, e ho rischiato molto più di quanto potrò mai rischiare per colpa di Sachiel. Perché dovrebbe interessarmi quello che ti ha detto? Perché dovrei fidarmi della sua opinione?»
«Lasciami parlare, de-»
«No. Hanno sempre parlato tutti, e nessuno mi ha mai spiegato niente, nessuno mi ha mai chiesto niente, non posso parlare io, per una volta? Devo sempre ascoltare e annuire e non pensare?»
Qualsiasi cosa avesse voluto dirle – e doveva essere importante e difficile, a giudicare dal tono tremante –, Anane perse il coraggio.
«Va bene. Parla.»
«Non con te.»
«...non ti fidi più di me?»
La voce di Anane vibrava: sembrava sul punto di piangere, o urlare, come se conoscesse già la risposta – e forse era così, perché Anane conosceva lei. Amitiel non conosceva Anane, invece, non davvero, e scoprirlo aveva fatto male, malissimo, perché aveva passato un’esistenza intera con un’estranea che chiamava amica; e Amitiel – Amitiel che ancora era solo un cherubino, Amitiel che ancora apparteneva al Paradiso, Amitiel che ancora non aveva un grumo nero di rancore e rabbia a marcire nel petto – era già vendicativa e implacabile.
Ricordava la fiducia tradita. Ricordava le unghie di Michael sulla gola e Anane che non l’aveva avvertita, e la risata di Eisheth e Anane che la chiamava madre, e il Custode che la guardava disperato e Anane che estingueva la sua essenza, e Anane che la accusava di essere impazzita, e Anane che le diceva che non avevano scelta, e Anane che non credeva nel suo giudizio.
Amitiel era già vendicativa e implacabile, e la sua memoria – anche se era ancora quella difettosa dei Cherubini, non quella perfetta degli adulti – sapeva essere molto, molto lunga.

* * *

«Non usi mai il mio nome.»
«Non mi sembra ti sia mai importato.»
«Ma non lo usi.»
«Ho altro a cui pensare. Non vedere problemi che non esistono.»
«Ma-»
«Ishild.»
Una mano gelida stretta al polso. Unghie – taglienti, aguzze, divenute all’improvviso come artigli – affondate con violenza nella carne.
Fissa quelle dita di un pallore grigiastro, malato; i rivoli scarlatti che colano dalla pelle ferita.
Dolore.
«Ishild. Ishild. Ishild. Sei soddisfatta?»
«Eisheth...»
«Eisheth?»
«A volte mi parla del prima
«Non ascoltarla.»
«Mi fa venire... dubbi.»
«È quello che vuole. Ignorala.»
«Non ci riesco.»
La lascia. La pelle ha un alone roseo, dove le ha stretto il polso.
Le dà le spalle.
«Dove vai?»
Le piume – nere, taglienti, spaventose – vibrano.
La voce anche – ringhio trattenuto.
«Da Dumah.»

* * *

Eisheth rizzò la schiena, scorrendo con le dita sull’erba, come artigli che lasciavano tracce di morte e marciume; sangue colava a terra dal fianco, dove lui l’aveva colpita per respingerla, divorando gli steli anneriti.
Il caduto avvertiva la stessa corrosione avanzare lungo le dita, consumando le unghie e i polpastrelli fino a lasciare solo carne annerita. Il dolore risaliva fino al palmo, stringeva il polso in una morsa rovente e dilaniava l’avambraccio, ma era quasi come non sentirlo, perché affondare gli artigli in carne dannata era ormai divenuto abitudine.
«Michael, Michael... bastava dire di no.» mormorò Eisheth, con una voce simile a un latrato isterico e divertito. Rovesciò il capo verso l’alto per guardarlo, con un ghigno minaccioso e uno sguardo famelico. Lui si impedì a fatica di muovere un passo indietro.
«Anane... è quasi il momento, finalmente.» gorgogliò il demone «E poi, Michael? Poi come farai?»
«Anane non mi serve più.»
«È andato tutto troppo lento, sì?»
«Non importa. Anane sa come deve orientarla, prima di cadere.»
«Anane potrebbe aver cambiato idea.» sporse il busto verso di lui, ancora, con un ghigno «In fondo, tu non le servi più.»
«Abbiamo un accordo.»
«Un accordo con una codarda che ha la mia protezione. Michael, Michael...» gorgogliò ancora, scuotendo la testa.
Le ali nere dell’arcangelo si irrigidirono.
«Se anche Anane fallisse, le parlerò io. C’è tempo.»
«Da quanto attendi, Michael? Quanto ancora dovrai pazientare, mentre quella femmina si risveglia?»
«C’è tempo
«Povera bambina. Davvero una sorte triste.»
«Cherubino, non bambina.» ringhiò «Non è un’umana.»
I polpastrelli sembrarono venire divorati dal dolore, quando risuonò il latrato della risata di Eisheth.

* * *

«Non sei diversa da loro, cara.»
«Non è vero.»
«No? Eppure temi le loro leggi, fingi di seguirle, ti rinneghi. Sei come loro
«Non è vero!»
Una risata acuta, graffiante.
«Sempre così codarda, sempre così debole.»
«Non-»
«E lui disprezza i codardi, sì? Lui disprezza i deboli.»
«Taci, taci!»
«Lui disprezza loro
«Io non sono come loro.»
Una risata, ancora.
Mani bollenti a stringerle le braccia, occhi scuri sgranati con una luce feroce, labbra stirate in un ghigno ferino.
Fiato rovente a un soffio dalle labbra.
«E sai chi altri disprezza, cara? Gli Umani

* * *

«Avete autorizzato il suo Sviluppo.»
«Evidentemente.»
«Ma non è pronta. La consumerà.»
«Forse.»
Il pugno di Nelchael si abbatté contro la colonna al suo fianco. Leliel rimase immobile, ma l’oscurità nel tempio si fece più fitta, annebbiandogli la vista con un velo scuro. Scorgeva i suoi occhi, di fronte a lui, che lo fissavano gelidi – era difficile capire quanto Leliel fosse irritata, perché con lui lo era sempre, dietro la sua maschera impassibile.
«O forse rimarrà in vita, Esecutore, com’è rimasta in vita per tutto questo tempo.»
«Dopo di lei, chi? Chi si svilupperà senza essere pronto? Chi sacrificherete per la fretta?»
«Per la fretta?» Leliel rise, con un suono che somigliava a uno scricchiolio d’ossa «Ha avuto sin troppo tempo.»
«Se non morirà, cadrà
«Non dare per certo un tradimento di cui non c’è prova, Esecutore.»
«Ha ucciso un Custode.»
«Non intenzionalmente; comprensibile, in quella situazione.»
«Non ci credi nemmeno tu.» sibilò Nelchael. Il velo scuro davanti ai suoi occhi s’infittì.
«Ciò che credo non deve interessarti, Esecutore. Giudicarla e punirla spettava ai Censori, e così è stato. Non c’è altro da dire.»
«Daniel non può ritenerla davvero sincera.»
«Daniel ha sospetti su tutti.»
«E tu non mi hai permesso di allontanare Amitiel da quella traditrice, né dalla tua allieva. Avremmo-»
S’interruppe con un suono strozzato. Uno scricchiolio inquietante e le sue ali si ripiegarono sulla schiena, come se qualcosa – ombre, oscurità, dita mostruose di tenebra – stesse premendo su di loro, lentamente; ma la rabbia era troppa perché potesse annegare nel dolore, e quando la morsa si attenuò – quando Leliel parlò ancora, sempre gelida, sempre impassibile – era aumentata a dismisura, strappandogli il poco controllo che gli rimaneva.
«Avremmo solo dimostrato che nemmeno noi ci fidiamo di loro.»
«Vuoi lasciare che si compromettano, allora?»
«Non voglio confermare i suoi sospetti. Non voglio risolvere un problema e chiedermi quale sarà il prossimo. O credi che smetterebbe di cercare accuse?»
«Si può trovare una soluzione.»
«Non ho il tempo di preoccuparmi di qualche cherubino.»
«Sono-»
«Sachiel tra poco si svilupperà e non mi riguarderà più. Amitiel non mi ha mai riguardata. Ho troppi pensieri, troppi problemi per occuparmi anche a loro.»
Il pugno di Nelchael si abbatté di nuovo contro la colonna, ignorando le tenebre che si strinsero ancora su di lui, gli scricchiolii, il dolore, le ossa che minacciavano di cedere sotto quella pressione spaventosa.
«Quindi è per questo.» sibilò «Non tenti nemmeno di impedirlo per non rimanere coinvolta.»
«Non posso assumermi anche il peso dei loro errori. Credevo che ricongiungersi le avrebbe aiutate a maturare, non a tradire, mentre forse avrei dovuto allontanarle; ma il tradimento dipende da loro, non da me.»
Leliel aveva la voce incerta. Sembrava stanca – e sembrava riferirsi ad altro. A qualcosa che non avrebbe dovuto essere ricordato, che li ossessionava e che sarebbe dovuto morire da tempo. Ma c’era rabbia, anche: c’erano occhi invasi da nebbia bianca, ali rigide e frementi, candide lingue di fiamma che le accarezzavano la pelle, ombre che guizzavano attorno a lei.
Nelchael, però, già da tempo non era più tanto lucido da accorgersene.
«Perdonami.» ghignò «Avevo quasi dimenticato che abbandonare gli altri è sempre stata la soluzione a tutto, per te.»
L’oscurità si strinse ancora su di lui, le fiamme lo raggiunsero; poi fu solo dolore.

* * *

«Parlami di lei.»
«No.»
«Perché?»
«Non sono cose che devi sapere.»
«Non devo sapere nulla del prima, secondo te.»
«No. Non devi.»
«Ma era mia sorella
«E la rivedrai, quando sarà il momento. Vi riconoscerete.»
«Come?»
«Siete legate. Ti aiuterà a ricordare, e potrai tornare da me. Con lei.»
«Ti... ti ho chiesto di non farmi separare di nuovo da lei. Di aiutarmi a farla cadere con me.»
«Sì.»
«E tu hai accettato.»
«Sì.»
«È importante, quindi. Anche se ancora non ricordo niente, è importante.»
«Sì.»
«E allora perché non vuoi parlarmene?»
«...ci sono cose, del prima, che potrebbero non piacerti.»

* * *

«È stato fissato per il prossimo ciclo.»
Ridwan si sforzava di essere impassibile, ma la sua voce vibrava di una nota euforica; gli occhi – e Anane doveva abbassare lo sguardo per vederli, tanto era alta – brillavano di qualcosa simile al sollievo.
Le sembrò di ricordare che Amitiel avesse detto qualcosa, una volta, sull’ansietà di Ridwan di liberarsi di lei, e forse aveva avuto ragione. Non doveva essere semplice, occuparsi di un’allieva imperfetta, difettosa, anomala. Non doveva essere semplice nemmeno fingere che lei fosse normale, come invece Ridwan aveva sempre fatto; soprattutto quando aveva di fronte a sé la sua essenza screziata di rosso, e la fascia grigia che ormai non la spaventava più.
Grigio cenere. Il colore del lutto.
Un cherubino, l’aveva avvisata Ridwan infinito tempo prima, non può rimanere troppo a lungo a languire: la sua essenza è troppo fragile per sostenere il peso dei secoli, e sopravvive solo continuando a maturare. Il ciclo inferiore è un continuo mutamento, ma al ciclo superiore c’è solo un ultimo passo da compiere; se non ti sviluppi in tempo, muori.
Lei l’aveva superato da molto, quel limite di tempo, eppure la sua essenza non si era consumata; e questa era stata solo una delle tante anomalie accumulate in un’intera esistenza. Solo una delle tante cause di sussurri e malignità.
Oh, lo sapeva, cosa sibilavano alle sue spalle. Lo sapeva di cosa la accusavano, quasi spettasse a loro giudicarla; quasi fosse un frutto marcio, guasto, da distruggere a parole e sguardi.
Quella memoria troppo imprecisa anche per un cherubino, quel corpo che aveva smesso troppo presto di maturare, quell’incapacità, quella risata troppo pronta e troppo squillante. E – dettaglio riservato ai pochi tanto maturi da scrutare a fondo la sua essenza – quegli squarci rossi, del rosso marcio dei demoni, che non guarivano mai.
Erano stati l’inizio di tutto, quegli squarci. L’essenza ferita, e lei sapeva perché, e tutti credevano di sapere, e presto avrebbe avuto un senso. Presto avrebbe abbandonato la fascia grigia e le piume rosse, e poi... poi niente più sussurri alle spalle, niente più timori. Niente più Michael, niente più Amitiel che non voleva ascoltarla, niente più tradimenti troppo pesanti per le sue spalle esili.
Avvertiva una voragine nel petto, al pensiero di perdere l’amica; ma sapeva che sarebbe dovuto accadere, e avrebbero sempre potuto riunirsi, una volta che Michael avesse ottenuto ciò che voleva.
Lei, al suo obiettivo, era tanto vicina da tremare.

* * *

«Ti manca mai, quello che hai lasciato?»
«No.»
«Nulla?»
«No.»
«Ma... ci sei cresciuto, in Paradiso.»
«E cosa dovrebbe mancarmi del Paradiso? L’Espiazione? L’ipocrisia? Il disprezzo?»
«...sei freddo. Pensavo che...»
«Il calore?»
«Sì.»
«Fa parte della Condanna. Lo sapevo, quando ho tradito.»
«E non ti manca?»
«Preferisco il freddo a lasciarmi manovrare.»
«E di chi conoscevi? Non hai nostalgia di nessuno?»
«Nostalgia di ipocriti e codardi?»
«Non c’era nessuno a cui fossi legato?»
«Se anche ci fosse stato, avevo un buon motivo per lasciarlo.»
«Quindi c’era.»
Un sospiro.
«Cosa stai cercando di dirmi? Che temi la nostalgia?»
«Chi era?»
«Ishild...»
«Chi era?»
«La mia insegnante.»
«Come si chiama?»
«Ramiel.»

* * *

Un vento freddo, gelido, scuoteva la neve dai rami e la disperdeva nell’aria in polvere finissima; gliela gettava in viso, senza che gli occhi dovessero socchiudersi sotto quella carezza violenta, e sembrava quasi voler lenire il bruciante dolore alle dita. Ma i polpastrelli continuavano ad ardere, mentre il resto del corpo rabbrividiva di un gelo che non era né neve né vento.
A volte, qualcuno affermava di aver quasi dimenticato come fosse vivere prima; di ricordare solo le imposizioni e l’ipocrisia, l’Espiazione, i pensieri annegati nella cieca obbedienza. Era falso, lo sapevano, ma era meglio ingannarsi che ricordare la luce, il calore. La sicurezza di un luogo in cui rifugiarsi.
Il prima andava dimenticato, perché nel prima erano annidate fobie che li avrebbero distrutti: l’oscurità, il gelo, la solitudine, il continuo pericolo. Nel prima erano annidati rimpianti che non potevano concedersi.
Lui, quel prima, non aveva mai imparato a relegarlo tra le false dimenticanze. L’aveva smembrato in frammenti custoditi nelle profondità della memoria, sino a rendere impossibile raccoglierli tutti e fingere di cancellarli, perché sarebbe sempre mancata una scheggia: uno sguardo rimasto incastrato tra le lezioni della prima classe, o una carezza persa tra lo stupore di conoscere per la prima volta la pioggia. E il prima della Caduta diveniva inconsistente e irrilevante, perché c’era solo lei: prima di incontrarla. Prima dell’ossessione. Prima di notti di incubi insonni, prima di capelli che scorrevano tra le dita, prima della neve e dell’acqua. Prima che se ne andasse. Prima di un nome ripetuto all’infinito, come una preghiera, come una delle litanie che no, non più. Miriadi di schegge di un prima pronto a tornare ora. E non sarebbe stata Eisheth, o Anane, ad impedirlo; non la codardia, o una gelosia feroce.
Presto, si disse. Presto.

* * *

«Non li tradirai. Resterai con loro.»
«Non...»
«Puoi negarlo?»


«È il momento.»
«Sì.»
«Vai, allora.»
«Devo... devo ancora parlarti, Amitiel.»
«Ridwan ti attende.»
«Cambia idea, Amitiel. Non fidarti.»
«E il Richiamo mi esorta al riposo. Dobbiamo andare entrambe.»
«Quando ti desterai, io sarò già sviluppata. Sarò già...»
Non diede segno di aver colto quell’allusione – di volerla lasciare in un modo diverso, meno gelido e astioso. Le voltò le spalle e volò via, semplicemente: il respiro rapido che fluiva nel petto e un singhiozzo incastrato in gola.


«Li temi. Li temi al punto che non oserai.»
«Non... non è vero.»
«Dimostralo.»

* * *

Il Fuoco si ritirò dalle sue membra, sciogliendosi rosso e denso nel Confine. L’urlo di dolore indugiò per qualche istante sulle labbra, prima di morire in un silenzio esausto.
Distese le ali sottili, da angelo. Candide.
Distese l’essenza matura e già corrotta.
E cadde.

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Capitolo 26
*** 25. E fa male ***


Capitolo 25 – E fa male





Nelchael le affondò le nocche nel fianco, con violenza. Lingue di fiamma candide divorarono la carne già segnata, infittendo la trama di rivoli bianchi che colavano a terra, quasi l’insegnante volesse prosciugare la sua essenza insieme al sangue.
Amitiel urlò, e Nelchael affondò ancora.
E ancora.
E ancora.
E poi furono le dita a ferirla, arcuate, con le unghie divenute artigli perlacei che scavavano solchi profondi nella carne molle del ventre.
E ancora.
E ancora.
Gli afferrò il polso per fermarlo – l’essenza immatura che non riusciva a concretizzarsi in fiamme, le unghie solo morbide curve che non potevano nulla. Nelchael le diede un istante di tregua, come a premiarla, prima di strattonarla in avanti e premerla contro di sé con l’altro braccio; liberò il polso dalla sua stretta ridicola e le strinse l’attaccatura delle ali, implacabile, senza che la sua presa feroce le permettesse di reagire.
Faceva male. Male, male, male.
Gli squarci – alle gambe, al fianco, al ventre, alla schiena, al collo, ovunque – rigettavano sangue, e insieme al sangue se ne andava la lucidità, l’energia, il controllo del corpo. Si sentiva, ma non riusciva a muoversi.
E faceva male, male, male.
Sachiel osservava immobile, lontano da loro, con l’espressione indecifrabile di chi è abituato a non mostrare nulla – non di chi non vuole, ma di chi non può. Amitiel riusciva a scorgerla a fatica, oltre la spalla dell’insegnante, con gli occhi annebbiati dal dolore e dalle lacrime; dopo un istante non la vide più, la schiena inarcata e un urlo breve e acuto sulle labbra, soffocato dal sangue che le invadeva la gola, e la mano di Nelchael che stringeva le piume strappate con violenza.
E faceva male, male, male.
E le ali vomitavano il sangue più puro e prezioso. Più vitale.
L’avrebbe uccisa. Se avesse continuato a infierirvi, l’avrebbe uccisa – lei, cherubino fragile e immaturo, ancora infante, ancora effimero. Sarebbe bastato così poco: strapparle le ali. Squarciarle la gola. Anche il ventre, forse?
No, sarebbe bastato ferirla ancora alla schiena, al collo; proprio come Nelchael aveva spiegato una volta, con lei seduta a metà della gradinata, a nascondersi in mezzo agli altri perché non si notasse lo sguardo distratto.
E faceva male, male, male.
E l’essenza si affannava a tramutarsi in sangue, diventando sempre più rada, sempre più sottile. Avrebbe continuato fino a scomparire, a divenire solo sangue, solo sangue perso versato sprecato, e avrebbe lasciato un corpo inerme pronto a incenerirsi.
Nelchael la lasciò lentamente, quasi ad accompagnare la sua caduta verso il suolo.
Lo guardò torreggiare su di lei, sporco del suo sangue, con gli abiti squarciati in più punti ma nessuna ferita, nessun alone – era un adulto, lui. La sua pelle non impallidiva sotto i colpi, le sue guance non ardevano per l’imbarazzo, il sangue non mutava il suo flusso. Aveva la fascia blu degli Esecutori, lui.
Anche se era un angelo; anche se avrebbe dovuto essere un semplice Custode, nemmeno degno di divenire un Vegliante, aveva la fascia blu degli Esecutori. Degli Arcangeli – dei mediocri, sì, ma sempre Arcangeli.
Non sarebbero stati i colpi di un cherubino della quinta classe a ferirlo.
Amitiel avrebbe voluto spostarsi: alzarsi, o rannicchiarsi su un fianco per non gravare sulle ali dilaniate, o proteggersi il ventre con le braccia. Sarebbe bastato anche voltare il capo, per non dover guardare quell’espressione gelida e le mani sporche di sangue non loro; o chiudere gli occhi, ecco, solo chiudere gli occhi.
Ma non riusciva... non riusciva più a muoversi.
E Nelchael torreggiava su di lei, gelido.
E Sachiel osservava, immobile.
E faceva male, male, male.

* * *

Non rimandava bagliori, la pietra, come un mare blu che inghiottiva la luce fino a sembrare nero: occhio scuro e opaco che osservava tutto, rialzato di tre gradini sopra una radura in cui non spirava mai vento – morta anche l’aria, morti anche gli alberi immobili. Morta la luce, nella dominatrice di quei luoghi oscuri in un Paradiso candido.
Vi era entrata anche lei, una volta, certa di non rimanerne turbata – era al ciclo superiore, aveva già visto le ombre. Aveva calcato i tre gradini appena un passo dietro Leliel, fiera, pronta a dimostrarle la propria maturità; e ne era uscita correndo e piangendo, perché un buio simile non l’aveva conosciuto mai, neppure nelle notti senza luna, neppure nell’incontrare i Caduti – e quello, oh, quello era stato terribile, un nero agghiacciante che inghiottiva tutto e faceva tremare di una cosa sconosciuta chiamata gelo, ma il potere di Leliel era peggio.
Dove la luce è più intensa, l’ombra è più profonda.
Ogni volta il serafino attendeva un istante, prima di varcare il velo nero e immobile che celava al Paradiso quell’orrore. Vi si fermava di fronte, ritta, quasi a invitarla ad affiancarla; ma lei non poteva, cherubino troppo fragile e terrorizzato, e Leliel entrava sola.
E faceva male, sapere di non essere adeguata. Di non essere abbastanza.
Male, male, male.
Distolse gli occhi dall’ingresso, senza riuscire a guardarlo più a lungo – troppo minaccioso e troppo vicino, per lei che era appena discosta dal primo gradino. Percepiva l’essenza di Leliel estendersi, filtrare attraverso quel velo nero – unico, sottile punto in cui la costrizione del tempio fosse meno salda – e cercare la sua, sfiorarla come a chiamarla a sé, con una fermezza delicata che non lasciava scelta.
Ma no. No, no, non poteva essere. Era giunta fin lì a quel richiamo e Leliel avrebbe varcato il velo per incontrarla, come accadeva sempre: non poteva chiederle di entrare, sapeva come aveva reagito quando aveva tentato, sapeva del terrore e delle lacrime e di quanto la facesse star male.
No. Ti prego, no.
Il Richiamo si rafforzò, diventando imperioso.
No. No no no no ti prego no.
Lo sguardo si posò di nuovo sul velo nero, immobile in quell’aria morta. L’unica, sottile barriera tra il Paradiso così candido e rassicurante e le fauci di un’oscurità pronta a divorarla.
No. No no no no NO!
Sì.
Raccolse la tunica con le mani, perché non strisciasse sulla pietra, e posò il piede nudo sul primo gradino.

* * *

Eisheth s’intrecciava i capelli come un ragno avrebbe tessuto la seta tra le zampe sottili: aveva dita lente, metodiche, che si muovevano con la precisione che avrebbero dedicato a un impegno vitale. Il viso, non più incorniciato da una scarmigliata cascata nera, aveva un candore alabastrino; gli occhi erano due laghi di tenebra, pronti a inghiottire nelle proprie profondità chi li avesse guardati troppo a lungo.
Sapeva essere oscura, Eisheth, anche sotto il sole violento della stagione calda.
«Anane scoprirà tutto, non appena terminerà di mutare.» sogghignò, senza interrompere il movimento calmo delle dita, con il viso rivolto verso l’alto per guardare il figlio.
Michael non mutò espressione.
«Soffrirà molto, caro.» rise «Saprà che l’hai ingannata.»
«Sei allegra, per parlare del dolore di tua figlia.»
Il demone si alzò dal terreno. La stoffa lacera che l’avvolgeva mormorò un fruscio seducente e le mani corsero a lisciarla sui fianchi, abbandonando sul petto la treccia incompleta. Zampe di ragno che poi risalirono a sfiorargli il viso, bollenti, le unghie aguzze incrostate di sangue e sudiciume.
Michael la guardò un istante di troppo. I laghi di tenebra lo inghiottirono in un vortice fangoso di follia e divertimento, e di una dolcezza strana, marcia, che prometteva solo altra sofferenza. Un brivido gli attraversò le ali.
Non poteva sapere, allora, che per lungo tempo – secoli, millenni, ere intere – sarebbe stato inghiottito uno sguardo altrettanto corrotto, altrettanto putrido. L’inquietudine feroce che gli sarebbe strisciata addosso, sotto occhi vacui, con un respiro caldo a lambirgli l’orecchio in un bisbiglio di morte. Ti guarderò contorcerti nell’agonia, amore. La dolcezza con cui quello sguardo corrotto avrebbe ripagato un debito di vita e di odio, la voce appena un soffio divenuto gelido, e il brivido che gli sarebbe corso lungo la schiena sarebbe stato per l’una e per l’altra. Oh, Savsa, vorrei ucciderti con queste mie mani. Ancora non poteva saperlo, e perciò non colse alcuna eco del futuro, in quel brivido.
Se anche un semplice sentore lo avesse raggiunto, avrebbe di certo prestato più attenzione alla lungimiranza di una madre tanto antica.
«E se già ne fosse a conoscenza?» gli mormorò Eisheth a un soffio dalle labbra «Dell’inganno. Del tradimento. Di tutto.»
Michael si scostò da lei, brusco, e il demone rise ancora.
«Potrebbe aver ripagato un inganno con un inganno.»
Non rispose, ma le voltò le spalle con una furia più eloquente delle parole.
Sei allegra, madre, per parlare del dolore di tuo figlio.

* * *

Il velo scivolò alle sue spalle senza alcun suono, divorando qualsiasi scintilla di luce.
Non vedeva. Non udiva – perché non c’era nulla che potesse udire, non un respiro, non un fruscio. L’essenza dell’insegnante si perdeva nell’oscurità troppo fitta. La pietra non aveva temperatura, sotto i suoi piedi nudi, e quasi faticava a percepirne la consistenza liscia e compatta.
Si guardò intorno, ma ancora non riuscì a scorgere nulla, in quel mare nero e angosciante che prometteva solo morte.
Era come essere immersa nel nulla.
Aveva il velo a un passo dietro di sé, Leliel vicina, tutto il Paradiso distante lo spessore di una parete; eppure le sembrava, eppure era certa che avrebbe potuto vagare in quelle tenebre per l’eternità, senza riuscire a fuggire. L’avrebbero intrappolata in una morsa nera e implacabile, l’avrebbero incatenata alle colonne scure, l’avrebbero condannata al nulla e... e chissà cosa avrebbe potuto nascondersi in quegli anfratti oscuri, cosa avrebbe potuto strisciare fino a lei, mostri orrendi e serpi e tentazioni luride, per sporcarla morderla ucciderla e fare a pezzi il suo corpo e imprigionare la sua essenza lì per sempre, sempre, persa in un buio che non lasciava scampo, a gettarsi contro le pareti senza poterne uscire, e... erano lì, lì lì lì! Li sentiva strisciare attorno a lei, camminarle addosso, la stavano già toccando, l’avrebbero presa e... e...
«Mi è sufficiente, Autorità.»
Il buio si diradò all’improvviso: non era più una coltre nera che ottundeva i sensi, ma un velo che rendeva ogni cosa grigia, piatta, poco dissimile da una notte umana.
Leliel era appena un paio di passi più avanti, impassibile, le grandi ali distese e gli occhi assottigliato in lame chiarissime e calcolatrici. Accanto a lei, l’uomo che aveva parlato: le ali da serafino altrettanto distese, il viso conosciuto del responsabile degli Strateghi.
«Molto ligia.» concesse questi, senza sorridere «Degna tua allieva, Autorità.»
Sachiel capì tutto, all’improvviso, e fece male. Male e paura.
Perché aveva dato prova di essere degna.
Perché aveva attirato l’attenzione degli Strateghi.
Capì e non riuscì a capire.
Perché mi fai questo, maestra. Perché m’imponi un futuro che non voglio. Perché mi sacrifichi sull’altare della tua gloria, come se non mi fosse stata promessa una scelta, come se fossi nulla più che un mezzo. Perché. Perché. Perché.
Le lame chiarissime dello sguardo di Leliel, però, non diedero risposte.
Nessun angelo, in fondo, avrebbe mai dovuto chiedersi perché.

* * *

Si tastò la gola, lentamente, cercando tracce dello squarcio che l’aveva attraversata. Vi avvertiva un lieve formicolio, dove la pelle era appena più tesa e sottile; niente, in confronto al dolore che l’aveva attraversata in precedenza.
«Ferma.» la ammonì il Guaritore, premendo con più forza sul ventre nudo, nel ventre nudo. Ramiel, accanto all’angelo, osservava con espressione concentrata e, con le mani avvolte da un velo di fiamme candide, imitava nell’aria i suoi movimenti – già non aveva più necessità di scrivere, per ricordare qualcosa, e poteva dedicarsi all’esercizio.
Era rimasta accanto a lei per molto, a osservare gli effetti del Fuoco sul suo corpo ferito, ma non avevano parlato: quelle fiamme annebbiavano i sensi e la mente, per donare sollievo e riposo – e, si vociferava, per impedire che qualche arcangelo troppo zelante tornasse a combattere senza essersi adeguatamente rigenerato. Solo alla fine era giunto un Guaritore, a controllare che l’essenza fluisse in modo corretto. Non era doloroso, ma nemmeno piacevole: si trattava pur sempre di un’essenza estranea che invadeva il corpo – rapida, perché non si poteva perdere troppo tempo su un inutile cherubino – e lo forzava a riprendere sensibilità.
Era un lieve bruciore, poco più di un formicolio, che si estendeva intorno al tocco del Guaritore; avrebbe voluto scacciare la sua mano, ma poteva solo muoversi un po’, per alleviare quel desiderio.
...non poteva fare neppure quello, in realtà.
Il palmo dell’angelo scivolò dal ventre verso una coscia, accarezzando la pelle nuda con quel tocco bruciante.
«Ferma.» ripeté, nel vedere che ancora agitava le mani, prima di tornare a fissare lo squarcio rimarginato.
Resistette per qualche istante, prima di tornare a tastarsi la gola nel tentativo di distrarsi.
«Ramiel.» sibilò il Guaritore, premendo con più decisione.
Lei si sporse a trattenerle le braccia lungo i fianchi, con fermezza.
Doveva essere particolarmente dotata, se un adulto ricordava – si dava la pena di ricordare, ricercandolo nella memoria – il suo nome; e, in effetti, lo era.
«Non ce n’è bisogno.» mormorò Amitiel, assalita da un desiderio ancor più intenso di muoversi.
«Zitta.»
Ricordava di aver incontrato Guaritori più accondiscendenti.
Voltò il capo di lato e socchiuse gli occhi. Nonostante il Fuoco, si sentiva stanca.
Scorse il candore degli abiti che le avevano procurato, ripiegati accanto a lei; e il candore del pavimento su cui era distesa, e il candore delle pareti, e il candore dei Fuochi.
Candido.
Tutto candido.
Ne sei accecata?
Faceva male. Male, male, male.
Nella testa. Nel petto. Nel ventre. Ovunque.
Oh, sì. Ne sei accecata.
Quelle voci. Quelle voci estranee che la visitavano nel sonno, quegli stralci di scene che le apparivano davanti agli occhi, e... e perché. Perché dovevano tormentarla. Perché non poteva più dimenticarli non appena sveglia. Perché non riusciva a capire.
Perché continuava a chiedersi quando fossero accadute, quelle cose che non ricordava. Dove. Con chi.
Frammenti che raccoglieva e non avevano senso, mai, come se le mancasse sempre qualcosa – e cosa, cosa le mancava?
E faceva male, male, male.
Strattonò i polsi, tentando di muoversi, ma Ramiel vinse senza fatica la resistenza del suo corpo immerso nel torpore.
Era riuscita a non pensarci, finché c’era stata Anane; perché c’era sempre stato qualcos’altro su cui concentrarsi, un dubbio, una riflessione, un litigio.
Ma Anane se n’era andata – il Paradiso squarciato per un istante e lei che cadeva, cadeva, cadeva lontano da un Dio troppo distante, da un Paradiso troppo freddo e crudele. Cadeva verso una madre che l’avrebbe abbracciata e ghignato della sua sofferenza. Cadeva dove lei non avrebbe potuto raggiungerla, dopo un ultimo saluto tanto gelido da riempirle gli occhi di lacrime al ricordo.
Le mancava. Tanto.
E faceva male, male, male.
E c’era Sachiel sempre più avvelenata dall’invidia, dalla rabbia, da una brama di elogi mai soddisfatta. C’era Sachiel che non poteva accettare che Leliel la ritenesse seconda a un’altra.
C’era Cassiel che sibilava commenti su quanto fosse prevedibile la Caduta di Anane.
C’era Ramiel che era divenuta più distante, più fredda, troppo concentrata sul suo futuro da Guaritrice – e guardinga, come se temessi sospetti, accuse, domande su un legame troppo profondo.
E faceva male, male, male.
C’erano Custodi Guardiani Cherubini tutti che si guardavano attorno con una diffidenza nera e opprimente, perché avrebbe potuto esservi un altro traditore, tra loro; e perché temevano di essere additati come tali.
C’erano Custodi Guardiani Cherubini tutti che guardavano Ridwan con una diffidenza nera e opprimente, perché era stato il maestro della traditrice, e chissà cosa le aveva insegnato, e chissà come lei lo aveva contaminato.
C’erano Custodi Guardiani Cherubini tutti che la guardavano con una diffidenza nera e opprimente, perché lei era stata il cherubino più vicino ad Anane, l’unica amica, l’unica confidente – o almeno così pensavano, anche se in realtà non lo era stata, una confidente, o avrebbe saputo tutto molto prima. E forse neppure amica, o l’avrebbe salutata – per l’ultima volta? – in un modo diverso dal gelo e dalla rabbia.
E faceva male, male, male.
C’era Nelchael che accoglieva il suo desiderio di combattere – ma no, non era desiderio. Non era nemmeno necessità, o scelta: era un obbligo insopprimibile che ribolliva nel sangue e nell’essenza, spingendola a lottare, a ferire, a sentire il dolore che colava bollente lungo il corpo e inghiottiva ogni cosa. Affogare ogni pensiero e ricordo e voce nel sangue, e andava bene anche il proprio, perché lo strazio distraeva, la frenesia del combattimento svuotava di ogni emozione.
Ma c’erano pensieri e ricordi e voci che tornavano, non appena la lotta terminava, o il Fuoco smetteva di annebbiarle la mente.
E faceva male, male, male.
Agitò ancora le mani, senza riuscire a liberarsi dalla stretta ferrea di Ramiel.
Voleva muoversi. Voleva parlare.
Voleva combattere ancora.
Voleva solo non pensare.

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Capitolo 27
*** 26. Legami ***


Capitolo 26 – Legami




«Scegli. Scegli da che parte stare.»
«Come posso, se non conosco né voi né loro?»
«Non dire idiozie.»
«Non conosco neppure me stessa, lo sai.»


Scegli. Scegli da che parte stare.
E ricorda, bambina: ricorda ogni cosa.
L’Espiazione. Il dolore. La ferocia delle imposizioni, dell’ipocrisia, del silenzio.
Un demone che ride e fa male. Un caduto che fa male e fa male e fa male, e non dà risposte, e mette in pericolo, e fa male e fa male e fa male. Chi ti ha strappato un’amica e confidente e sorella, facendola marcire in qualcosa che non hai mai capito.
Ricorda, bambina. Pensa. Scegli.
E chissà chi ti ha ingannata di più, alla fine.


«Parlami del prima. Parlami di lei.»
«Taci, Ishild.»
«Se non ricordo ora, come potrò ricordare in futuro? Quando cambierà persino il mio nome?»
Silenzio. Un ghigno disegnato su labbra pallide.
«...perché sorridi?»
«Cambiare nome non è mai stato un problema.»

* * *

La sorprendeva sempre più spesso a fissare il vuoto.
Dopo il risveglio, dopo uno scontro con Nelchael, dopo una lezione; o anche mentre restavano in silenzio, cercando senza neppure accorgersene il tepore del corpo dell’altra.
Aveva uno sguardo inquietante, immerso in pensieri che lei non poteva conoscere, e quando ne riemergeva sembrava sempre un po’ più cupo, un po’ più smarrito. Era come se ci fossero dei fili, tra le loro dita, fili sottili che le legavano con un’intesa insensata e spontanea – guardarsi, cercarsi, sussurrare –, ma in quei momenti si sfaldavano, sfuggendo insieme ad Amitiel verso qualcosa di fosco e doloroso.
Torna. Torna da me.
Avrebbe voluto urlarlo e scuoterla, aiutarla a ritrovare la via; perché se si fosse smarrita, smarrita per sempre, avrebbe portato con sé anche una parte di lei – di Sachiel. Di un cherubino diffidente e invidioso e devoto che in qualche modo si era incastrato con un altro dubbioso e imperfetto e ribelle, e i fili si erano avvolti attorno a loro, allacciandole in una stretta che a volte faceva quasi male.
Che lasciava segni nella carne, quando la seta sottile vi affondava troppo.
Che avvelenava con il terrore di trovarsi di nuovo sola, a tremare di gelo nel tepore del Paradiso, sotto i candidi sguardi di accusa e giudizio.
Costrizione invisibile a cui non sapeva più rinunciare.
Ma i fili si sfaldavano tra le dita, con gli occhi di Amitiel fissi nel vuoto, e nel suo sguardo il terrore pressante di perderla.
Torna. Torna da me.
Di nuovo sola contro la ferocia di Leliel, contro l’ipocrisia che soffocava e feriva, contro la superiorità schiacciante di Cassiel.
Niente più sguardi, niente più carezze o sussurri.
Quando Amitiel tornava – quando il suo sguardo si faceva lucido e presente, e sempre un po’ più cupo di prima – la stringeva, come se la seta le stesse davvero avvinghiando in un unico corpo: inspirava la fragranza dei suoi capelli, godeva della morbidezza del suo corpo, ne accarezzava le piume ancora rosse. La completezza la assaliva, sciogliendole dentro qualcosa che somigliava alle lacrime, e lei sussurrava ordinava pregava «Non andartene più.», ma Amitiel non rispondeva mai.
Un silenzio che aveva il sapore amaro delle scuse.

Le sembrò che Amitiel muovesse le labbra.
Tornò a prestare attenzione al suo profilo, vigile, per cogliere qualsiasi segno di risveglio; ma gli occhi dell’altra rimasero fissi nel vuoto, opachi come quelli di un corpo senza essenza, i capelli neri sciolti lungo il viso e le mani in grembo, immobili, strette in un groviglio di dita.
Le labbra chiare ebbero un altro fremito.
«Amitiel...» tentò di richiamarla, senza ottenere nulla.
E si mossero ancora, e ancora; Sachiel si sporse verso di lei, per cogliere quei sussurri appena percettibili, quasi inesistenti, mentre Amitiel tornava a muoversi, lentamente, ma con gli occhi sempre fissi nel vuoto. Non si stava risvegliando, no: era solo un incubo diverso, che scivolava attraverso il corpo scosso da fremiti, attraverso le labbra schiuse.
Le ali quasi candide di Sachiel ebbero un tremito.
Erano... sembravano...
Parole sconosciute. Il tono acuto incrinato dalla disperazione, dal pianto imminente. Domande? Implorazioni?
I-shild. Ae-nor.
Cantilena ripetitiva – sempre gli stessi suoni.
Nomi.
E scuoteva la testa, e si artigliava i capelli, e sgranava gli occhi come se vedesse qualcosa. Insensibile ai suoi richiami, alle mani che si avvicinavano senza osare sfiorarla, perché era spaventosa, terrificante, con il viso distorto e il sangue che le colava dalle labbra morse troppo a fondo quasi volesse trattenere quelle parole incomprensibili.
Una ferita, nell’essenza, divenuta un abisso pronto a inghiottire tutto – i fili che le legavano. La lucidità nel suo sguardo. La... la sottile, sottilissima barriera che separava un cherubino ribelle da un cherubino folle.
E continuava a gorgogliare quei suoni sconosciuti, nonostante il sangue che le invadeva la bocca, con gli occhi sgranati e le dita tra i capelli.
Terrificante.
Se qualcuno l’avesse vista, le avesse viste... se... ma doveva chiamare aiuto, un adulto che sapesse cosa fare, che le spiegasse il perché di quella cantilena che, lo sapeva, le sarebbe risuonata nella mente ancora per molto troppo tempo come un pensiero ossessivo.
Ishild. Aenor. I...shild.
La voce di Amitiel trasfigurata in qualcosa di sconosciuto e inquietante.
Chiamare... chiamare qualcuno. Ma cosa avrebbe pensato, un adulto? Cosa sarebbe accaduto? Leliel sarebbe venuta a saperlo e non c’era bisogno che diventasse ancora più fredda e distante, e forse qualcuno si sarebbe insospettito, un sospetto, un altro sospetto su di sé, tutti gli sguardi a ferirla, non... non era pronta, no, a sostenere il peso della diffidenza del Paradiso. E Amitiel, Amitiel ne sarebbe rimasta semplicemente schiacciata, perché su Amitiel la diffidenza gravava già, quindi... quindi no, non poteva chiamare nessuno, non poteva cercare aiuto, non poteva fare nulla – forse era la prima volta che si trovava così, sperduta, senza idee, senza nessuno che le dicesse cosa fare, e non le piacque.
Seppe solo stringerla a sé, come faceva quando tornava, e l’altra ebbe un sussulto. La cantilena si attenuò, diventando solo un mormorio indistinto, e infine smise; Amitiel ricambiò la sua stretta. Forte. Disperata.
Avrebbe voluto sapere cosa le stesse succedendo, e poterlo fermare, e farla stare un po’ meglio. Solo... solo un po’. Solo per togliere dalla sua voce quella nota vibrante e angosciata, per sciogliere la tensione nel suo corpo, cancellare le lacrime che le scorrevano lungo le guance.
E non sapeva perché. Non sapeva cosa fare.
Si sentiva tanto impotente da aver voglia di urlare.
«Scusami.» mormorò la più immatura, con la fronte contro l’incavo del suo collo. Glielo sporcò del sangue che colava dalle labbra ferite, ma nessuna delle due sembrò prestarvi attenzione, anche se tracciava una scia umida e tiepida.
«Cosa è successo, Amitiel?»
«È solo... è difficile.»
«Cos’è successo?»
Acuta. Spaventata. Le braccia strette attorno alla sua vita, tremanti, spasmodiche, non andare via, oh ti prego non andare via, spiegami cos’è successo e non farlo più accadere.
«Non riesco a sostenere... tutto questo. Tutto questo... questo...» scosse la testa, ancora appoggiata contro di lei «Non ti senti mai confusa, Sachiel? Su quello che vuoi fare?»
Confusa.
Confusa...?
Non capì a cosa si stesse riferendo. Che cosa dovessero fare, che cosa dovessero scegliere.
Si rimaneva lì. Si obbediva. Ci si sfogava un po’ con l’altra, poi, affogando in un abbraccio tutto il disgusto per l’ipocrisia per un Paradiso marcio, tutta la rabbia per un’insegnante troppo severa, tutta l’invidia per un cherubino geniale.
Che altro avrebbero dovuto fare?
Le ali scosse da un tremito, ancora.
«Che cosa stavi dicendo, Amitiel? Cosa dicevi prima?»
«...nulla. Sono solo... cose che mi vengono in mente.»
Con un brivido inquieto – quello sguardo vacuo e sgranato e folle, quella cantilena insensata, i fili sempre più sottili e dolorosi – preferì non indagare oltre. Si limitò a stringerla di più, mossa dall’istinto di proteggerla da qualcosa che neppure conosceva, solo perché... perché era Amitiel, anche se era inquietante e si smarriva, e incastrarsi insieme come un unico corpo sembrava farle stare un po’ meglio entrambe.
Più distese. Più complete.
C’era il terrore di perderla, c’era quel brivido che scuoteva le ali, c’erano i fili stretti tanto da ferire; era... ossessivo, doloroso. Eppure le faceva stare bene.
Le fece scorrere una mano sul capo, cautamente, come a rassicurarla; affondò le dita nei capelli e li pettinò piano, sciogliendo nodi inesistenti.
L’altra, senza motivo apparente, si irrigidì.
E i polpastrelli incontrarono una larga ciocca più corta delle altre, sulla nuca: le punte irregolari, come se un artiglio le avesse tranciate malamente, lasciando appena la lunghezza di un’unghia.
Si irrigidì anche lei.
«Amitiel...» sussurrò.
«Lo so.» un altro singhiozzo, le mani aggrappate al suo collo «Lo so.»
Quei capelli non crescevano più.
E chissà quanto doveva essere devastata ed esausta la sua essenza, se nemmeno con il Fuoco della Guarigione riusciva a riportarli alla lunghezza originaria.

* * *

«Sei forse cieca?»
«Sorella...»
«Non vedi che è folle? Che-»
«Vedo che tu hai paura, sorella.»
«È un folle come sua madre!»
«Lui non è folle. Tu, sorella, sei folle di terrore.»
«Non-»
«Verso di lui. Ma verso di loro, soprattutto.»
«...»
«Tu non vuoi tutto questo, vero? Tu sei diversa da loro. Dagli altri. Da me.»
«...io sono solo umana.»
«Eppure acconsenti.»
«Non ho altra scelta.»
«C’è sempre una scelta, sorella. Io ho compiuto la mia.»


Io... io sono solo umana.
E tu, bambina? Tu cosa sei? Tu a chi appartieni?
Un cherubino. Una marionetta.
Di chi, bambina? Chi stringe i tuoi fili tra le dita?
I Cherubini non appartengono a nessuno. Essenze ancora immature, essenze ancora incerte – Angeli, Arcangeli, Serafini? Puri, Caduti, Demoni? Nessuno può esserne certo.
I Cherubini non appartengono a nessuno.
Oh, bambina, non illuderti. Dovrai compiere la tua scelta.
I Cherubini non appartengono a nessuno.
Presto, bambina.
Presto.


«...Liwet.»
«Necessiti di qualcosa?»
«Ti senti mai fuori posto?»
«Fuori posto?»
«Nel luogo sbagliato. Tra le persone sbagliate. Come... come se non dovessi essere qui.»
«Sarei morta da tempo, se non fossi qui.»
«Ma sei felice tra gli Sconsacrati, Liwet?»
«Considerato che servo loro viva, penso di potermi ritenere soddisfatta.»
Nessuna ironia, nessuna acredine. Una semplice constatazione.
«Perché hai scelto i Caduti, Liwet?»
«Non ho potuto scegliere.»
«...nemmeno io potrò farlo.»
«No, nemmeno tu.»
«Vorrei solo... un’alternativa.»
«Quelle come noi non ce l’hanno. Ma quelle come noi... quelle come noi, se anche ce l’avessero, sceglierebbero questa.»
«Come puoi esserne certa, Liwet?»
«Perché non apparteniamo al Paradiso. Perché ci sono altri legami, più violenti e più crudeli, che ci strattonano giù.»
«Lontano dal calore.»
«Ma verso la luce, Ishild. Verso qualcosa che non sia cieca e buia obbedienza.»

* * *

Lilith rideva, i capelli – rossi – che le sferzavano il volto, sospinti da un vento innaturale. Macchie – rosse – impregnavano la veste – rossa – e la facevano aderire alle ferite – rosse – che squarciavano la carne invitante. Doveva essersi esaltata particolarmente, nel combattimento, perché nonostante ci fosse tutto quel rosso sembrava quasi di non vederlo, coperto dal bianco e dal nero – ma nessuno desiderava davvero indagare su come si fosse macchiata di nero, e se tutto il rosso che la copriva fosse davvero suo.
Di solito erano in due, a ridere coperte di ferite e di plasma: l’una dalle tinte sanguigne, l’altra dai colori scuri come le ombre evocate da un serafino famoso persino tra i Demoni. Entrambe magnifiche, entrambe folli.
Ma rideva solo Lilith, in quel momento... notte, forse? O dì? Quanto tempo, quanti giorni, quanti anni erano trascorsi? Non si sarebbe potuto dire, con il cielo oscurato da nuvole rosse e un vento sferzante e bollente che disperdeva la cenere. La causa di quelle raffiche innaturali, invece, non sembrava troppo propensa a mostrarsi divertita.
Né l’arcangelo che le stava di fronte sembrava troppo propenso a trovare la situazione divertente.
«Due Demoni maggiori.» sibilò Eisheth, sovrastando il figlio con la propria essenza, nonostante dovesse alzare il mento per guardarlo in viso «Due compagne di Samael.»
«Erano molti.»
«Tanti che avrebbero potuto sterminarvi, sì.»
Non c’era ironia, nella voce del demone: solo una presa d’atto.
Solo un rimprovero feroce.
«Non potevamo saperlo. Si stavano celando.»
«E perché non hai reagito, dopo averlo scoperto?»
Michael non osò allargare le braccia, per mostrarle i numerosi squarci sul busto che vomitavano sangue nero – sarebbe stato come invitarla a colpire, e no, invitare Eisheth a colpire non sarebbe stata una buona idea.
«Ho reagito.» si limitò a ribattere.
«Avresti potuto reagire meglio
«Non...»
Tacquero, fissandosi, con il sottinteso che scorreva tra loro come il vento feroce e bollente che ancora non si placava.
C’erano argomenti che non andavano neppure sfiorati, perché erano come lame, tanto sottili e taglienti da fendere le dita al minimo tocco; c’erano ricordi, memorie, attimi che non avrebbero mai dovuto affiorare alle labbra. Non erano provocazioni sterili, o ringhi e minacce e litigi che quasi non intossicavano, e neppure debiti troppo pesanti: erano peggio, infinitamente peggio, e non andavano mai, mai, mai rievocati.
Erano veleno. Erano la lama che avrebbe reciso quel legame sottile e fragile che li univa.
E, nonostante tutto, nessuno dei due voleva davvero che accadesse.
Perciò andava bene dimenticare un nome antico, un cherubino spaesato raccolto in mezzo alla devastazione, le fiamme che divoravano tutto e il significato di quel nome nuovo e pesante. Gli altri no, potevano, dovevano ricordare la rovina che aveva saputo portare, la cenere, le vampe, quel potere che quasi eguagliava quello del primo Michael – della vera bestia di fuoco, che annientava ogni cosa con uno sguardo e un gesto della mano. Gli altri non dovevano dimenticare perché, così giovane, si trovasse già ad obbedire solo a Samyaza, nelle gerarchie complesse e immutabili dei Caduti. Ma neppure gli altri, pur ricordando, avrebbero mai dovuto parlarne in sua presenza.
Il motivo non lo sapeva nessuno, o almeno così si mentivano l’un l’altro; e non si chiedeva, mai.
Si ricordava, si temeva, ma non si nominava.
E per Eisheth era un divieto ancor più ferreo. Non importava che senza l’intervento di due Demoni maggiori e un numero incalcolabile di minori, lui sarebbe morto; non importava che, pur di non richiamare il potere da cui aveva preso il nome, fosse stato sul punto di sacrificare sé stesso e i compagni – e chissà se l’avrebbe usato, alla fine, o se si sarebbe lasciato morire.
Non importava nulla. Eisheth non doveva nominare, non doveva alludere, non doveva pensare.
Era uno dei pochi, taciti accordi su cui si basava il fragile equilibrio del loro rapporto – della sua mente.
«Oh, Savsa, non ti chiami Michael per nulla.»
A Lilith dovette sembrare molto divertente, incrinarlo.

* * *

«Siamo legate. Non lo avverti anche tu?»
«Siamo sorelle. Ci lega il sangue.»
«Solo il sangue?»
«Il sangue e il destino.»
«Solo questo, sorella?»
«Taci
«Oh, sorella, lo avverti anche tu.»


Una copertina lisa, sotto le dita – ma è solo il retro, non liso quanto il fronte. Perché parti dal fondo, bambina?
Carta sottile; eppure il taccuino è sorprendentemente spesso, perché questa carta sottile è attraversata da fili candidi, e questi fili vi legano pagine strappate e coperte di scritte, foglie dalla forma appena irregolare, tessuto macchiato dal sangue del primo combattimento. Capelli no, anche se c’hai provato, una volta, e al posto della ciocca ti è rimasta in mano cenere; e nemmeno quella piuma che – ricordi? – ti è stata strappata durante il primo combattimento, quello di cui conservi il sangue con orgoglio, e per la prima volta era una piuma dal colore vagamente più chiaro, più maturo.
Il taccuino dei ricordi. Era la seconda classe, forse? O ancora la prima? Con Anane che scuoteva la testa, ma intanto rideva e ti aiutava a cucire lì quei ricordi che temevi di perdere.
Da dove ti veniva quel terrore di dimenticare, bambina?
Pagine e pagine di fiori, semplici fiori che dopo tutto questo tempo – tempo? E da quando agli Angeli interessa il tempo? – sono ancora prosperi, rigogliosi. Ma no, non sono semplici fiori: guarda, uno ha un colore che sembra quasi un giallo molto pallido, invece del solito candore senza macchia, e... manca un petalo, a quello? E quell’altro non ha forse una forma un po’ troppo irregolare, rispetto agli altri?
Collezionavi rarità. Collezionavi errori.
Lo ricordi, lo schiaffo della tua insegnante, quando ha visto quella raccolta? Avrebbe dovuto spaventarti, trovare una corolla diversa dalle altre, non attirarti in quel modo, perché era un’incrinatura, una macchia nella perfezione del Paradiso. Oh, sì, lo ricordi lo schiaffo. Il nome dell’insegnante invece l’hai dimenticato, con la tua memoria imperfetta di cherubino, ma sai che non era Sariel, perché Sariel era morbida e speciale e forse avrebbe anche sorriso; quindi doveva essere già alla seconda classe, non alla prima, ti sovviene ora.
Altre pagine sfogliate nel senso sbagliato, e un altro pezzo di tessuto – rosso, del rosso della seconda classe, di quelle fasce ancora così infantili. La tua prima promozione.
E... e l’ultima pagina, alla fine – che in realtà è la prima. Linee colorate – il massimo disegno che ti concedano, quando sei un cherubino che deve studiare e maturare; e, tra quegli schizzi, una scritta.
No. Una menzogna.
A e A, amiche per sempre.
Che promessa sciocca, sì, bambina? Puerile e falsa.
Non ti è valsa un altro schiaffo solo perché l’amicizia è concessa; ma lo sguardo limpido e puro di quell’insegnante innominata era incerto tra la compassione e il disgusto, e tu l’hai capito, che quella scritta non andava bene. Forse, bambina, avresti dovuto seguire il tacito consiglio di quegli occhi: lascia perdere. Lascia perdere, ora che puoi.
Oh, sì, avresti davvero dovuto. Ora non puoi più.
Ora non sai nemmeno se mai la rivedrai, l’unico angelo che avresti chiamato sorella sentendo che era vero.
E i fili vengono strappati dalla carta, uno a uno. Con rabbia.
E i ricordi cadono a terra, uno a uno. Con dolore.
Brava, bambina: cancella il passato. Fa’ spazio al futuro, a nuovi occhi, a nuovi abbracci.
Scegli, bambina, scegli chi sarà al tuo fianco per l’eternità.


«Sorella. Oh, sorella.»
«Mi stai facendo paura.»
«Non dire sciocchezze. Come puoi avere paura di te stessa?»
«Ma-»
«Non senti come fa male, sorella? Essere così legate, eppure così lontane. Senza potersi riunire mai.»
«...lo sento.»
«Siamo una in due.»

* * *

«Amitiel.»
Lei non rispose nulla, limitandosi a poggiarle la fronte su una spalla, non appena le si fu seduta accanto. Sachiel le affondò una mano tra i capelli sciolti, accarezzandole la nuca, lieve, là dove c’era quella ciocca spaventosa che aveva smesso di crescere. Come a confortarla.
Ma ad Amitiel ricordò un altro tocco, e allora si irrigidì, perché era stato un tocco morbido e crudele troppo diverso da quello candido di Sachiel – anche se a volte la facevano tremare nello stesso modo, di un brivido profondo, sconosciuto. Erano state carezze confortanti donate da dita artigliate, macchiate di sangue; dita che l’avevano stretta e strattonata e ferita. Dita che per la prima volta le avevano fatto assaporare la dolcezza e – questa no, non per la prima volta, perché ne aveva già assaporata fin troppa – la violenza, e... e le ricordavano qualcosa, qualcosa d’altro.
Qualcosa di vago, sepolto nel profondo, indistinto come le voci che al risveglio sbiadivano piano.
Ma non aveva forza, o voglia, di farsi altre domande e confondersi ancora di più.
«Ti stai perdendo di nuovo, Amitiel.»
«Me ne rendo conto.»
«Hai trovato le tue risposte?»
Chi. Dove. Perché.
E il futuro e il passato.
Continuava a perdersi nei pensieri, in deliri cosparsi di bisbigli e ricordi, e ancora non capiva – ancora non... non riusciva a valutare. A scegliere.
A rispondere a una domanda che neppure aveva il coraggio di porsi.
«Oh, Sachiel. Sono così confusa.»
«Non perderti. Non perderti più.»
«Non posso evitare qualcosa che è dentro di me, Sachiel.»
«Dentro.» ripeté, e fu un sibilo ferito e rabbioso.
Si scostò da lei e la fissò con occhi azzurri che, per un attimo orrendo, nella furia le parvero grigi; ma no, no, erano azzurri, di un azzurro meraviglioso e confortante persino quando era intorbidito dall’ira. Sachiel le prese il viso tra le mani, stringendolo, lasciando piccoli segni nella pelle chiara della mascella, obbligandola a non distogliere lo sguardo; e, per un altro attimo orrendo, quel dolore gliene ricordò un altro, più gelido e feroce.
«Dentro.» ripeté l’altra, ancora.
«Dentro.»
«Ma cos’hai dentro, Amitiel?»
Le unghie scesero lungo la gola – altro terribile orrendo attimo.
«Carne. Sangue.»
Le solcarono le spalle, scesero a stringere le braccia nude; e nonostante fossero sempre uguali, nonostante i muscoli non potessero divenire più perfetti di come si presentavano alla Venuta, la pratica le aveva rese più pronte. Non più robuste o potenti, solo più pronte: in un istante l’essenza si tramutava in sangue per fornire energia, in un istante si tendevano, pronte a subire un colpo o liberarsi da una stretta violenta.
Si trattenne.
«Muscoli.»
Le mani di Sachiel, pallide, sottili, si serrarono ancor più ferocemente attorno alla sua carne.
«Eppure non c’è nulla che non vada in loro, sì? Nei tuoi muscoli. Nella tua carne, nel tuo sangue.»
E dalle braccia scivolarono verso la schiena, come ad abbracciarla, fino a sfiorare le scapole – le piume alla base, gli squarci umidi di sangue candido.
«Essenza.» un ringhio gutturale, spaventoso «Ferita. È questo che ti porta via, Amitiel? È questo che ti fa perdere?»
«...non lo so.»
Solo una delle tante domande a cui non trovava risposta.
E la più importante, la più importante rimaneva taciuta.
«Senti, Amitiel?» le dita ripercorsero il loro cammino a ritroso, lievi, morbide, sfiorando le linee bianche che avevano causato «I fili si stringono. Fanno male
«Perdonami.»
«Non perderti più, Amitiel. Non andartene più.»
Aveva gli occhi torbidi di furia e di lacrime, e quelle lacrime li rendevano senza dubbio azzurri, senza dubbio bellissimi. Sarebbe stato meraviglioso poterli consolare, darle una certezza, ma... ma neppure lei sapeva cosa stesse accadendo, cosa la strattonasse in un vuoto costellato di voci, cosa la stesse facendo impazzire.
«Non sono abbastanza per trattenerti qui?» sibilò Sachiel, socchiudendo quegli occhi tornati familiari e non orrendamente grigi, come se volesse celarne il bagliore umido.
«Non...»
Scusami, oh, scusami, scusami, scusami.
«Non sono abbastanza. Te ne andrai.»
Era una certezza, che si sarebbe persa ancora, ma Sachiel era abbastanza, con quegli occhi azzurri e il corpo tiepido e la rabbia, l’invidia, la fragilità. Era abbastanza, sì, e sarebbe sempre tornata da lei, sempre, sempre, anche se...
«Ma lo sai quanto farebbe male tornare sola, Amitiel? Lo sai?»
...anche se il Paradiso era crudele e di un candore accecante e soffocava i suoi pensieri, le sue domande, i suoi desideri. Anche se collezionare rarità era collezionare errori e lei non se ne sentiva spaventata ma attratta.
Gli occhi azzurri di Sachiel erano abbastanza per ripagarlo, sì...?
«Siamo legate.» sussurrò, tornando a posarle il capo su una spalla «Siamo legate, lo sai.»
L’altra la abbracciò rapidamente, con violenza, quasi volesse spezzarla. Spezzare quel cherubino che... chissà cos’era. Cos’era stato, cosa sarebbe divenuto.
Chi. Dove. Perché.
E il futuro e il passato.
Chissà quali fili l’avrebbero strattonata con più violenza.
Oh, Sachiel. Sono così confusa.





***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per i preferiti, le ricordate e le seguite, e come sempre un ringraziamento particolare a chi commenta!
Ho fatto attendere molto per questo capitolo, ma il prossimo è già pronto - dovevano essere un unico, in realtà, ma raggiungeva una lunghezza spropositata. Sono in periodo di esami, quindi difficilmente troverò tempo di aggiornare la settimana prossima, ma non farò attendere un mese!
Ricordate la raccolta di ricordi? Compare in - mi pare - il settimo capitolo, o comunque in uno prima del decimo. Se qualcuno si fosse chiesto perché Amitiel avesse creato qualcosa di tanto inutile - e folle, per gli Angeli - qui potrebbe esserci un accenno alla risposta (:
E... siamo finalmente arrivati alla parte più succosa =ç=

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Capitolo 28
*** 27. Follia ***


Capitolo 27 – Follia





«Perché non vorresti cadere? Cosa otterresti in Paradiso, oltre a Espiazione e silenzio?»


Già, bambina. Cosa otterresti?
Non essere sciocca. Non dimenticare il dolore, il disgusto, le domande represse. Non dimenticare com’è, essere imprigionata in una morsa di silenzio e vuoto pronta a frantumarti. Non dimenticare gli sguardi, i sussurri, la falsa purezza.
Vuoi forse restare qui a morire dentro, istante dopo istante?
Restare qui con la nausea e le lacrime e risposte mute a quesiti mai posti. Restare qui con i Censori che fanno impazzire e Leliel che diventa sempre più crudele, e Ridwan che ha lo sguardo spento, e Ramiel avvelenata dai sospetti e dal terrore, e... e Nelchael che ha l’espressione cupa e le mani crudeli e aiuta a distrarsi, Sachiel con l’essenza nera di rabbia e braccia che stringono per strappare al delirio, quindi forse non è davvero tutto così... così...
No! Non dimenticare, bambina. Non dimenticare com’è spezzarsi le ali, nel tentativo di risalire dal baratro di silenzio e obbedienza.


Amitiel voltò il capo di lato, lentamente, posando la guancia sul cuscino.
Le dolevano le ali, compresse dal corpo disteso supino, e doleva anche qualcos’altro – ma cosa? Pulsava piano dentro di lei, tra il petto e gli squarci, ed era come... come un vuoto. Come se qualcosa le stesse mangiando la carne e le ossa, silenziosamente, e l’aria spirasse nel suo corpo cavo.
No, non nel corpo. Era più... intimo. Più profondo.
Una sensazione, quel vuoto, che risveglio dopo risveglio stava diventando familiare.
E non solo dopo il risveglio, ormai.
...aveva gli occhi aperti? Non riuscì a capirlo. Vedere solo bianco, in Paradiso, non era garanzia di non vedere la semplice realtà.
Sbatté le palpebre – come se le fosse necessario – e il bianco assunse contorni: la parete, un letto, una sagoma dagli abiti candidi. Poi vennero i colori, e distinse Ramiel che la fissava a sua volta: due pietre verdi e una cascata rossa, di una tonalità calda e infantile.
Ma Ramiel non aveva i capelli lunghi.
...l’aria era trasparente, senza Presenza, si accorse; eppure lei si era appena destata.
«Ti è stato concesso di riposare più a lungo» la informò la compagna, con voce neutra «poiché Nelchael ha ammesso di averti stancata troppo.»
«Capisco.» si udì rispondere, altrettanto neutra.
Così... vuota. Stanca. Stordita.
Una sensazione che sembrava divenire più intensa a ogni risveglio.
«Ovviamente dovrai recuperare le lezioni che non hai seguito.»
Annuì, sfregando la guancia contro il cuscino.
«E tu...?» mormorò, ancora stordita da quel riposo stancante, dagli innumerevoli riposi stancanti che si succedevano, accompagnati da voci che al risveglio scolorivano lentamente fino a lasciare solo un ricordo confuso. Se fosse stata lucida, forse avrebbe stretto le labbra per impedire alla domanda di affiorare.

Pensieri repressi, dubbi inghiottiti. E cosa succederà, quando esploderanno?

«È stato concesso di riposare anche a me, poiché il Fuoco non ha avuto il tempo di agire completamente.»
«Il... Fuoco?»
Si spiegavano i capelli lunghi, quindi: il Fuoco doveva aver sanato anche quella ferita, riportandoli alla lunghezza che avevano avuto alla Venuta, quando il sangue scorreva copioso dagli squarci e tutto il resto era intatto, perfetto, tra lingue rosse che le danzavano attorno. Probabilmente non aveva ancora trovato il tempo di tagliarli.
Non si spiegava, però, perché Ramiel ne avesse bisogno: le esercitazioni dei Cherubini non erano tanto feroci da causare lesioni che non si rimarginassero nel tempo di qualche lezione – non alla quinta classe, ad ogni modo. Più avanti, be’, più avanti non poteva esserne certa, ma fino a quel momento nessuna lezione ordinaria aveva causato troppi danni, e Ramiel non amava combattere, non cercava nessuno con cui scambiare colpi e ringhi – no, Ramiel no, non aveva bisogno di affogare il vuoto e l’ossessione nel proprio sangue.
...e il ciclo precedente si era coricata come tutte le altre.
La compagna, in risposta, scostò la veste dalle gambe. Su una coscia spiccava una lacerazione di un colore innaturale; non si vedeva la carne chiara, non si vedeva il sangue candido, solo... rosso. Rosso, rosso, rosso, rosso di un colore che non erano ali infantili, non erano gocce di sangue umano, non erano nemmeno le tracce atroci che dal corpo martoriato di un gatto le si erano impresse nella memoria; ma era una vista altrettanto terribile, che le faceva ribollire d’orrore qualcosa, dentro, quel poco che di lei era rimasto candido e angelico e spaventato dalla corruzione. Se fosse stata istruita sui Demoni, avrebbe riconosciuto il sangue – veleno – che scorreva in loro.
Nell’ignoranza, il suo ventre si limitò a contrarsi per il disgusto.
«Come...?»
«Dai Guaritori.» replicò, secca, come se non potesse dire altro – e probabilmente non poteva, in effetti.
Non capì. Non riuscì neppure a formulare un’ipotesi: perché era impensabile che un cherubino si coricasse e, il periodo successivo, stesse seduto sul letto con quel segno violento sul corpo. Era impensabile che un cherubino venisse richiamato durante il riposo, a svolgere compiti che sarebbero dovuti competere solo ai Guaritori più esperti.
Impensabile. Impossibile.
Poi, d’un tratto, Ramiel ricoprì le gambe con la veste e si guardò attorno: nessuno nella stanza, nessuno oltre le vetrate. La sua essenza si tese, espandendosi a cercare altre presenze, dove gli occhi non potevano giungere ma l’udito poteva ancora captare – dove parole sbagliate avrebbero potuto essere colte e riferite. Chiuse gli occhi e rovesciò la testa all’indietro, come a voler ingoiare più aria, ma il suo torace era già sollevato per un’inspirazione.
Sembrava solo voler prendere tempo.
«Amitiel...» sfiatò infine, svuotando il petto e incurvando le spalle «Come sono i Censori?»
Lei si sollevò dal cuscino. Si era aspettata di sentirsi stanca, appesantita da quel vuoto interiore, ma si mosse facilmente: era come essersi appena ripresa grazie al Fuoco, con il corpo che rispondeva ai comandi pur sembrando ancora vagamente intorpidito.
Doveva essere rimasta una macchia bianca, dove si erano poggiate le scapole sanguinanti, ma non abbassò lo sguardo a controllare. Lo tenne su Ramiel, invece, su quelle iridi verdi, su quella lunga cascata rossa che emergeva dal candore e ancora non trovava una spiegazione.
Com’erano i Censori.
No, no, non ricordare, urlava qualcosa dentro di lei.
Oh, sì, bambina, ricorda, bisbigliava qualcos’altro.
Com’erano i Censori.
Voleva davvero saperlo, Ramiel? E lei, lei voleva davvero raccontarlo?
«Perché?» le uscii in un mormorio.
L’altra si irrigidì.
Già. Perché.
Fu bello, poterlo chiedere.
E fu dolce, pensare che in fondo stava seguendo il consiglio di Anane – che stava parlando con Ramiel. Quasi potesse scusarsi, così. Quasi potesse colmare il vuoto, per un istante, invece di occultarlo sotto la brutalità di un combattimento o sotto un delirio incomprensibile.
«Cosa ti fanno?» chiese ancora Ramiel, tremante, senza rispondere.
Quella domanda, inaspettatamente, le procurò un sorriso – no, un ghigno. Un ghigno amaro e feroce.
«È come se ti entrassero dentro. Nella testa, tra i pensieri. Come se la loro essenza soggiogasse la tua, e... e non ragioni più. Le loro... parole, le loro parole distorcono ogni cosa. Ogni cosa.»
Le loro menzogne, era stata sul punto di dire.
È meglio che veniate divise. Per il vostro bene.
Ed erano state divise, alla fine, ma aveva fatto solo male.
Lo aveva fatto e lo faceva ancora: tanto, tanto male. Per diciassette interi cicli.
Solo in quel momento si accorse di averli contati.
«È vero che... che portano alla follia?»
Il ghigno si sciolse in una risata bassa, di gola, e poi tornò ad aleggiare come un sorriso vago. Il viso s’inclinò leggermente, come a scrutarla con più attenzione, e Ramiel... Ramiel, per un istante, sembrò rabbrividire.
«Chi è folle, Ramiel?»
Silenzio.
«Chi è folle, Ramiel?»
Silenzio.
«Chi è folle, Ramiel?»
Silenzio.
Mani che passarono febbrilmente tra i capelli rossi, lunghi – e i suoi, i suoi, i suoi non crescevano più. La ciocca più corta delle altre bruciava la nuca, là dove si adagiavano le punte irregolari, segno del vuoto immondo dentro di lei.
Un sospiro tremulo, alla fine, prima della risposta.
«Gli Sconsacrati.»

No. Oh, no, non è questa la risposta.

«Chi è folle, Ramiel?»
«I Caduti. I Demoni.»
E tremare entrambe dentro, sapendo che erano altre, le parole da bisbigliare.

Forse, bambina, la tua scelta la stai compiendo ora.

«Chi è folle, Ramiel?»
Chi si chiede. Chi si domanda.
Chi non obbedisce.
Chi precipita in legami troppo profondi, troppo intensi.
Chi ama e chi non vuole fingere quell’amore falso e sbiadito che chiamano compassione.

I Censori non rendono folli. I Censori puniscono i folli.

«Chi è folle, Ramiel?»
Chi sente voci, chi non riesce a riposare, chi ha ricordi e sussurri che ormai si mischiano anche durante la veglia. Chi non riesce più a distinguere tra ciò che è e ciò che... che, chissà, forse è stato un tempo.

È solo una parola, la risposta. Solo una parola. Ma cosa trattiene dal pronunciarla? Paura, forse? Negazione? Eppure è tutto qui, sotto gli occhi. Sulle labbra.
Parla, bambina.

«I Censori, Ramiel, non possono renderci più folli di quanto già non siamo.»
Nessuna risposta.
E tremare entrambe dentro, ancora, sapendo che era vero.
«Siamo noi i folli, Ramiel.»

Lo vedi che lo sai, bambina?
Lo vedi che lo sai, folle?

* * *

Era stato un attimo. Solo un istante in cui il vuoto era divenuto chiarezza; in cui la sua mente, galleggiando nel nulla, era stata libera. Niente catene, niente terrori, niente echi di insegnamenti che erano come litanie ripetute troppo a lungo. Solo chiarezza – e luce, quella vera.
Aveva pensato.
E aveva compreso.

Libera.
O forse, chissà, stava solo affondando tra catene diverse.

Era folle.
Era folle perché sognava, perché si affezionava, perché i legami corrodevano la candida essenza degli Angeli; perché il ricordo degli occhi del Custode appannati dal dolore continuava a tormentarla, e così un gatto seviziato da innocenti Umani, e così le voci, e così ricordi non suoi.
Era folle e andava bene.

Il nodo della fascia si stava allentando. Un lembo della maglia iniziava a sfuggirvi: lo sentiva adagiarsi contro la pelle del fianco, nell’aria ferma – sempre che si potesse chiamare maglia qualcosa che le lasciava scoperte le spalle e le scapole, coprendo solo il seno e la parte inferiore del busto. C’erano altri, lì attorno, che portavano maglie vere, di fattura simile a quella umana; altri che già potevano ritirare le ali e indossare abiti diversi, certamente più comodi e pratici di qualcosa che cadeva a terra non appena un laccio si spezzava.
...la lucidità svaniva, lentamente, inghiottita da pensieri inutili e superflui.
Si morse il labbro inferiore.
Erano tutti immobili, lì: due schiere opposte, con le ali ripiegate sulla schiena, le spalle dritte, il viso impassibile. Immobili i Cherubini, immobili gli insegnanti – o almeno presumeva che fossero insegnanti, anche se erano tanti, anche se non li aveva mai visti, anche se avevano quasi tutti fasce nere. Qualcuna verde, altre viola. Guardiani, Guaritori, Esecutori spirituali. Possibile che non avesse mai incontrato che una manciata di tutti quegli insegnanti? Forse venivano da altre Circoscrizioni.
Erano di fronte, erano ai lati; dietro no, perché non c’era bisogno di far sentire i Cherubini circondati. Perché, per quanto l’aria fosse immobile e il silenzio carico di incertezza, nessuno sarebbe scappato.
Nessuno.
Erano tutti sani, lì, erano tutti puri, candidi, nessuno si chiedeva, si domandava, nessuno intesseva legami, nessuno forzava i tempi. Nessuno si sarebbe mosso, nessuno avrebbe rifiutato quell’attesa sfibrante, nessuno avrebbe detto no. Voglio sapere. Adesso. Voglio sapere. Adesso. Ditemi che succede.
No, nessuno, perché erano tutti sani, lì.
Perché tutti avrebbero atteso.
In silenzio.
Immobili.

Il nodo della fascia si stava allentando.
Piegò leggermente i gomiti, ruotò di poco le spalle e abbassò il capo – ma non abbastanza da non poter gettare occhiate fugaci attorno a sé.
C’erano tre file di Cherubini dietro di lei, altre due davanti, una larga striscia di terreno vuoto; oltre il terreno vuoto, fasce nere. Tante. Schierate. E dietro, dietro le fasce nere... dietro le fasce nere c’era qualcosa, ma non riusciva ad afferrarne la presenza, come se le sfuggisse, come se vi fosse un velo – il Velo – a confonderne i contorni – riflesso distorto e increspato.
Sciolse del tutto il nodo, con dita lente e meticolose, con movimenti discreti in mezzo all’immobilità.
C’era Raphael, accanto a lei, con la fascia del suo stesso colore ma le ali già un po’ più chiare.
E più oltre, dove si raggruppavano i più maturi, Cassiel – da quando era alla settima classe?
Un cherubino con cui aveva studiato durante il primo periodo dopo la Venuta, un altro che si era trovata accanto sul Mediano – no, dimensione umana, perché Mediano lo usavano solo gli Sconsacrati, le aveva detto Ramiel. Sul Mediano, si ripeté, perché era più conciso e più comodo e perché le faceva scorrere un brivido di colpevole piacere lungo la schiena, scacciando almeno un po’ il vuoto.
C’era un’allieva con cui Anane aveva litigato furiosamente, una volta. Un’altra con cui lei aveva condiviso terza e quarta classe, con capelli che sembravano bianchi e occhi di un grigio che pareva liquido.
C’erano Cherubini con cui aveva parlato, altri solo intravisti lungo i viali dello Specchio, altri mai visti; ma le sembrava di conoscere tutti, perché erano tutti uguali, tutti con le spalle dritte, tutti con lo sguardo limpido e nessun vuoto dentro.
Tutti in silenzio.
Tutti immobili.
Tutti sani.

Annodò nuovamente la fascia, assicurandosi che trattenesse il tessuto della maglia.
Non si era mai accorta di quanto fossero tutti... pallidi. Con le labbra chiare, la pelle chiara, le unghie chiare. A volte avevano capelli bruni, occhi dalle sfumature buie; ma il corpo, il corpo era chiaro, chiarissimo, e non solo il cherubino bianco e grigio, ma persino quelli che aveva sempre reputato scuri. Ce n’era uno, davanti a lei, che appena creata doveva aver visto per una manciata di lezioni, e un’altra che una volta le aveva riportato un taccuino dimenticato sull’erba, e un’altra ancora che era la più scura di tutti, con la pelle di una sfumatura più calda degli altri, più... più ambrata, le sovvenne, ricordando le pietre che aveva visto nel Mediano – Mediano, Mediano, Mediano, brividi di piacere colpevole che scorrevano lungo la schiena. Quei cherubini potevano essere reputati scuri, tra tutti gli altri chiarissimi e limpidi, ma non avevano nulla del nero che tingeva la pelle di alcuni Umani.
Erano tutti pallidi, ma non del pallore un po’ grigiastro che aveva Michael, non di quello alabastrino di Eisheth – anche se Eisheth, a volte, sembrava un po’ più rosea. Quando il suo sangue rosso scorreva con più vigore, forse.
Ecco, dovevano essere pallidi per il sangue bianco, loro, anche quelli con una sfumatura più calda. Ma perché non l’aveva mai notato?

Oh, bambina, sono gli Umani a guardare con gli occhi. Gli Angeli guardano con l’essenza; insegnare a distinguere con lo sguardo farebbe nascere troppa attenzione per l’apparenza.
Non l’hai mai notato, bambina, perché non ti è mai stato insegnato.

Eppure lo notava, in quel momento.
E ricordava.
Una mano rosea. Segni rossi sul braccio.
Due palpebre chiuse, linee azzurre che s’intravedevano sotto la pelle diafana, un... un respiro, un respiro rapido e pesante e necessario.
Mani che scorrevano tra i capelli e incontravano ostacoli ruvidi, spiacevoli.
Labbra pallide di un pallore quasi livido, labbra come petali schiusi e scarlatti.
Immagini che si affacciavano rapide alla mente, alla memoria: un istante solo e poi di nuovo inghiottite dal nulla.
Ricordava.
Dove. Quando.
Ricordava e non sapeva.
La lucidità tornò a farsi strada, lentamente, sgretolando piano muri di imposizioni e convinzioni.

Si raddrizzò nuovamente, le mani incrociate sul ventre, i gomiti stretti.
In silenzio, come tutti.
Immobile, come tutti.
Sana, come tutti.
Sana.
...eppure voleva guardarsi attorno. Eppure trovava quell’attesa irritante – da quanto si protraeva? Le sembrava fosse passata un’intera esistenza, da quando li avevano fatti disporre in quello spiazzo immenso, con gli adulti silenziosi ad attenderli per schierarsi attorno a loro, ma solo su tre lati, perché farli sentire osservati andava bene, ma circondati no. Perché dovevano decidere da soli, di non fuggire da quell’attesa piena di incertezza.
Non aiutava, no, essere lontani da ciò che avevano sempre conosciuto: dagli alberi sulle pendici di un monte, dai viali lastricati di bianco, dagli edifici imponenti. Lontani dallo Specchio – tanto lontani che non avvertiva più le essenze immature che si muovevano tra i viali, tra le correnti d’aria.
Non avvertiva più Sachiel, né Ramiel, né... no, Anane non avrebbe potuto avvertirla comunque.
E chissà cosa ci facevano, lì, Cherubini di classi diverse – mai sotto la quinta, però, e mai del ciclo superiore. Cherubini dalle fasce di vari colori, Cherubini dalle ali che perdevano lentamente la tinta sanguigna – ma il sangue era bianco, non rosso. Vi aveva associato un aggettivo strano, un aggettivo sbagliato.
E chissà cosa ci facevano, lì, Guardiani e Guaritori, Esecutori spirituali e... e c’era qualcos’altro. C’era qualcos’altro, percepiva il Velo che lo celava, ma non riusciva a capire.
Forse era l’unica tanto folle da domandarsi cosa fosse occultato e perché, perché, perché. Avrebbe voluto urlarlo, quel perché, ora che si sentiva di nuovo lucida e in grado di pensare.
Ma rimase in silenzio.
Immobile.

Attese, perché non aveva altra scelta, ma pensò.
Si chiese.
Odiò chi la faceva annegare nell’incertezza.
E cosa, dove, perché.
Che ci faccio qui. Devo saperlo. Voglio saperlo.
E chi, dove, perché.

Non devi saperlo, bambina. Non ti è concesso.

Non devo.
Voglio.

Devi tacere, bambina. Con le labbra e con la mente.

Devo.
Non voglio.

Oh, bambina, sei così folle.
E sai chi è folle, bambina?

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Capitolo 29
*** 28. Non voglio ***


Capitolo 28 – Non voglio





Devo.
Non voglio.

Un grande onore, aveva detto l’Autorità – Leliel, Leliel maestra gelida e crudele, Leliel signora della notte e del buio. Leliel con un’allieva accanto che sembrava non esistere, offuscata dalla grandezza dell’insegnante.
Siatene degni, li aveva ammoniti poi, con gli occhi come lame d’acqua gelida, con le ali da serafino gloriose che ricordavano chi fosse, e quanto potente, e quanto fosse raro che concedesse la propria presenza ai Cherubini. Un grande onore, un grande impegno. Un’attitudine particolare che li aveva condotti sin lì, e che avrebbe dovuto guidarli ancora, al ciclo superiore e allo Sviluppo e sempre; a cui avrebbero dovuto appellarsi in quel momento, perché un grande onore era duro, era difficile, ma loro avrebbero saputo portare a termine quel compito.
No, c’erano dubbi che lo avrebbero portato a termine: perché l’Autorità stava dedicando il suo tempo a loro, e quindi dovevano essere dotati, dovevano essere importanti – e, oh, cosa poteva operare la sensazione nuova e inebriante di valere qualcosa, in infanti sempre anonimi in una marea di altri uguali?
Perché il Paradiso non li avrebbe mai abbandonati, affidando loro un compito che non fosse adatto alle capacità di un cherubino.
Perché erano ordini – e gli ordini, semplicemente, si portavano a termine.
Un grande onore. Siatene degni, Cherubini.
Siete speciali, sembrava sussurrare alle loro menti affamate di approvazione.
Siete speciali. Siete migliori.
Dimostratemelo.

Devo.
Non voglio.

Per un istante aveva ceduto anche Amitiel all’incanto di quelle parole: la lusinga di essere riconosciuta, finalmente, di ricevere un elogio, di godere di attenzione. L’aveva inebriata ed era stato dolce quanto una carezza; ma... ma lei l’aveva già provata, quella sensazione, e non le avevano lasciato buoni ricordi né le carezze né le parole. Un altro l’aveva già avvinta, incantata, sedotta: si era già lasciata modellare sotto occhi che erano come lame gelide, ma grigie, acciaio e non acqua, e ancora esplodevano rabbia e disgusto al ricordo di ciò che era accaduto. Di quanto le avevano fatto male quelle dita gelide e artigliate che le avevano solcato la pelle; di quanto le aveva fatto male guardare un Custode morire e Anane uccidere e i Censori che le erano entrati nella testa, nella mente.
C’era qualcun altro che la faceva sentire indispensabile, ora, ma in un modo che non era buio e non era spaventoso, e la differenza tra Sachiel e Michael, tra Sachiel e Leliel, l’aveva fatta tremare: perché in quel momento non le si chiedeva semplicemente di esserci, di non sparire, ma... ma qualcosa che si prometteva terribile e duro e agghiacciante.

Devo.
Non voglio.

Leliel si era ritirata in disparte ad osservarli, portando con sé lo spettro di un’allieva impassibile e lasciando un brivido d’inquietudine lungo la schiena – ad Amitiel, almeno. Curiosa, fremente ma inquieta, con il ricordo atroce di ciò che era successo, di ciò che aveva visto, di ciò che la strappava alla realtà per affogarla in memorie di sangue.
La luce impaziente negli occhi degli altri, invece, le era sembrato solo esaltata, mentre si protendevano verso i Guardiani, attendendo che spiegassero e ordinassero. Volevano che il Velo fosse dissolto, che la prova fosse rivelata; volevano dimostrarsi degni.
Forse loro non si curavano di quanto quel compito ignoto avrebbe potuto essere difficile, doloroso, nauseante.
Forse loro non imploravano di avere scelta.

Devo.
Non voglio.

Ma non era stata l’unica ad urlare, quando il Velo si era dissolto, permettendo di percepire ciò che ancora i Guardiani celavano alla vista: erano state tante le voci a levarsi, acute, terrorizzate – infanti che imploravano protezione contro quelle cose terrificanti e sconosciute.
Eppure nessuno aveva tentato di allontanarsi, anche se c’era il cielo a invitare alla fuga, anche se gli adulti non li avevano circondati.
Siete speciali. Dimostratevi degni di meritare altra attenzione, altre lusinghe, altre carezze.
Il sottinteso aleggiava tra loro, silenzioso e inesorabile; e loro non erano che infanti a cui per la prima volta veniva concesso di avere valore, infanti che agognavano ancora quella sensazione inebriante, seducente.
Avevano urlato e pianto e implorato di portare via quelle cose, ma erano rimasti tutti lì, obbedienti.
Siete in Paradiso, avevano ricordato i Guardiani, gli insegnanti. Non avete di che temere, qui.
Era stato ordinato di calmarsi e si erano calmati, lentamente: erano tornati a fissare davanti a sé e a tentare di trattenere le lacrime, i tremiti, il panico.
Erano arrivati gli ordini, poi, e altre urla e altro terrore.
Eppure avevano obbedito, tutti, perché erano ordini e perché loro erano importanti e migliori e speciali e dovevano dimostrarlo.
Tutti.
Tutti?

Devo.
Non voglio.

Aveva creduto di conoscere i Demoni, Amitiel, perché dopo aver incontrato Eisheth cosa poteva esserci di peggio? E c’era stato anche quell’altro demone, quello che si era gettato sul Custode, quello che aveva gli occhi folli e il sangue rosso che colava dalla carne squarciata, e... e quindi lei conosceva i Demoni, al contrario di tutti i suoi compagni, non era così?
Aveva creduto, prima di urlare così tanto da trovarsi con la gola dolorante e i polmoni vuoti.
Aveva incontrato Eisheth, sì, ma Eisheth doveva essere un demone minore, perché non aveva avuto tutto quel potere tremendo e corrotto che si raccoglieva attorno a sé; e i ricordi confusi che conservava del secondo demone, fantoccio sacrificato da Eisheth senza esitazione, non erano nulla di simile – ma forse non erano davvero ricordi, solo resti, briciole, frammenti di qualcosa che la sua mente si era rifiutata di assimilare per intero.
Erano sbagliati. Contrari all’ordine delle cose, disturbanti, corrotti – ma Eisheth non era stata così, e neppure Michael o Liwet o gli altri Sconsacrati, perché altrimenti non si sarebbe mai fidata di loro, non avrebbe mai permesso che la sfiorassero e mai, mai, mai avrebbe lasciato che quelle essenze tossiche le si avvicinassero.
Se la sentiva dentro, la consapevolezza che fossero un errore, se la sentiva nelle ossa, nella testa: presenze che premevano rabbiose alle tempie – uno stridio ancor più violento di quello degli Angeli nella dimensione umana – e calore, calore che la raggiungeva anche se le loro essenze erano trattenute da quelle dei Guardiani, calore che le strisciava addosso e le bruciava la pelle, le divorava gli squarci alla schiena. Faceva... faceva male, ma era un dolore che veniva da dentro, dall’intimo, perché forse lei era corrotta, sì, ma non così tanto.
Lei era ancora limpida, pura: aveva l’essenza mutevole dei Cherubini e labbra che avevano appena appreso a mentire. Non era opprimente, spaventosa, sbagliata come i Demoni che avvertiva. L’orrore la colmava e la faceva piangere e urlare ma singhiozzare no, perché singhiozzare era umano, era sbagliato, e lei aveva appena scoperto che le cose sbagliate facevano paura.
Aveva ascoltato gli ordini, poi, e sapeva che obbedire agli ordini era una cosa giusta; ma aveva scoperto – ricordato – che anche le cose giuste potevano fare paura, a volte.

Devo.
Non voglio.

* * *

Ci sono due parole, due parole che riecheggiano continuamente nella sua mente.
Contro un destino che non ha scelto, contro un’eternità che l’attende colma di tenebre.
Contro chi le dice che è per il suo bene, che capirà, che ricorderà, che deve fidarsi, che... che... troppe parole.
Contro chi le ordina di non pensare, e contro chi le ordina di farlo mai poi sceglie al posto suo.
Ci sono due parole, due parole che riecheggiano continuamente nella sua mente, e che dalla sua mente non escono mai.

* * *

«Hai tentato di discendere nella dimensione umana.»
Le parole di Leliel la raggiunsero anche oltre le grida e i pianti. C’era qualcuno – una voce maschile, roca – che supplicava no, o qualcosa del genere, e altre che si levavano in esclamazioni di dolore; ma Sachiel non si voltò, continuando a dare le spalle ai Cherubini per guardare in viso l’insegnante.
O per non guardare loro, più probabilmente, come invece faceva Leliel; per non dover scorgere anche Amitiel e magari vederla piangere, urlare, ritrarsi spaventata. Quanto poteva essere terrorizzante un demone, per Cherubini ancora troppo immaturi? Presenze corrotte e bollenti che li sfioravano, li lambivano, prostrate dal Paradiso ma ancora brucianti; lo stridio di essenze nel luogo sbagliato e sangue corrosivo e l’aspetto mostruoso di quando perdevano il controllo e... e c’era Amitiel, lì in mezzo. Amitiel.
Nessuna voce bestiale, raschiante, ma grida acute di Cherubini, strazianti e straziate.
Si era sistemata in modo da non guardare; non c’era modo di non sentire, anche?
«Non sapevo fosse stato proibito. Ho desistito non appena informata dai Guardiani.»
«Desideravi esercitarti con le Percezioni, sì?»
«Esatto. Come mi avevi...» un grido più violento degli altri la fece interrompere «suggerito.»
Ordinato, fu sul punto di dire, perché i consigli di Leliel stavano diventando sempre più simili a gelide imposizioni – o forse erano sempre stati così e lei non l’aveva mai realizzato, non aveva mai avuto desiderio di avere più tempo a disposizione, non si era mai sentita ferita da quella freddezza. Non che l’avesse reputata freddezza, prima di scoprire quanto fosse piacevole ricevere una carezza e un abbraccio, invece di uno sguardo senza emozione.
Stavano cambiando molte cose.
«Le tue Percezioni sono ancora problematiche?»
«...a volte.»
«Darò ordine che un arcangelo ti accompagni, affinché ti sia permesso di discendere.»
«Ti ringrazio.»
Un arcangelo.
Il passaggio verso la dimensione umana era sempre stato libero, per il ciclo superiore – libero e solitario e... e sicuro, ma quello sembrava non esserlo più. Non era normale che gli Arcangeli impedissero ai Cherubini di discendere; che dovessero accompagnarli e vigilare su di loro, mentre nella dimensione umana vi erano sempre stati Guardiani sufficienti perché gli allievi potessero considerarsi protetti. Stavano diminuendo i Guardiani, forse? O stavano aumentando i pericoli da cui difendersi?
Un altro grido, più intenso, più acuto. Lungo. Lacerante. La voce di... di Cassiel.
Quanto sapeva far male, il sangue di demone. Quanto poteva far urlare e piangere anche il più orgoglioso degli Angeli.
Non era normale che quel sangue venisse a contatto con dei Cherubini. Non erano normali i Demoni lì nella dimensione sbagliata, non era normale il ciclo inferiore che sembrava all’improvviso impazzito. La settima classe che scompariva dal Paradiso sempre più spesso, la quinta – e la quarta, la quarta! – che già discendeva nella dimensione umana, quelle inferiori che sembravano assottigliare sempre di più i propri numeri, insegnanti troppo occupati per badare ai propri allievi, esercitazioni folli.
Sì, stavano cambiando davvero molte cose.
«Sfrutta questa opportunità, cherubino. Non ti rimangono molte occasioni di migliorare.»
Sachiel si morse il labbro inferiore, ma Leliel continuò a fissare i Cherubini – e Amitiel, Amitiel tra quelle urla e quei pianti, Amitiel in quell’inferno –, senza rimproverarla per quel gesto. Senza mostrarsi interessata a ciò che le aveva appena detto, ai dubbi che poteva causarle, a lei. Cassiel, tra gli infanti che conoscevano per la prima volta il sangue di demone, doveva essere più rilevante dell’allieva che le era affidata personalmente.
«Ho... ho raggiunto il mio limite, maestra?»
«No.»
E Leliel spostò lo sguardo su di lei, finalmente: chiarissimo e fermo e illuminato da un bagliore che forse era incoraggiamento, forse ammonimento, forse – solo forse, meraviglioso forse – orgoglio.
«Ma hai quasi raggiunto lo Sviluppo, Sachiel. Dovrai essere pronta.»
«Lo sarò, maestra.»
«Vi confido.»
Il serafino tornò a rivolgere la propria attenzione agli altri Cherubini, ma lei non udiva più le urla, non percepiva più il calore crescente di sangue corrotto ed essenza dispersa: c’era un turbino tiepido e luminoso nel suo ventre, una gioia che le esplodeva dentro senza limiti. Era giunto il momento, quindi, e c’era stato un bagliore nello sguardo di Leliel, un confido che sarai pronta, un... un riconoscimento che era capace, era brava, era degna. Avrebbe cessato di essere inferiore in quanto cherubino, cessato di doversi curare febbrilmente dei sussurri, delle aspettative, di un ruolo troppo pesante; perché in fondo la gloria poteva lasciarla interamente a Cassiel, se poteva ricevere comunque quel segno di – solo forse, altro meraviglioso forse – affetto, se poteva godere comunque dell’approvazione di Leliel che la scaldava dentro. Ritirarsi tra gli Esecutori come Leliel le aveva promesso tempo prima – prima di metterla alla prova, prima di farla entrare nel proprio tempio, prima di... di farla inquietare e urlare in silenzio – perché forse, forse, terzo meraviglioso forse, Leliel sarebbe stata abbastanza fiera da prendere in considerazione il suo parere. Tutti gli Angeli potevano scegliere quale fascia indossare, in fondo, avrebbe dovuto solo... solo imporsi un po’, anche se imporsi su Leliel sembrava un’impresa impossibile, ma Leliel era orgogliosa e forse forse meraviglioso forse le voleva anche un po’ bene, e quindi... quindi poteva farcela. Ritirarsi tra gli Esecutori, non sentirsi schiacciata da responsabilità troppo pesanti, non doversi curare di troppi sguardi su di sé. Trovare tempo per sé e per Amitiel e magari anche per parlare ancora, a volte, con quell’insegnante che le aveva concesso un bagliore nel proprio sguardo. Dimenticare che Leliel, per un po’, l’aveva spinta verso qualcosa di troppo grande e complesso e pericoloso – e che aveva preferito Cassiel, e che era stata gelida, e... e tutto il resto.
Sentirsi bene, semplicemente; sentirsi serena e luminosa come in quel momento.
«Sarò pronta, maestra.» confermò ancora, sorridendo – e le urla alle sue spalle non erano che un brusio trascurabile.
«Lo spero davvero, Sachiel. Già un mio allievo si è dimostrato incapace di sopravvivere, tra gli Strateghi; sarebbe spiacevole che l’errore si ripetesse una seconda volta.»
Smise di sorridere.

* * *

E le urla, alla fine, quelle due parole. Le urla alla persona sbagliata, e la persona sbagliata non è quella che può ferirla, che può punirla, che può rendere tutto più difficile; non è quella da cui dipende tutto e che comunque non potrebbe impedire nulla, anche se lo volesse. Ma non lo vuole, lei lo sa: ha gli occhi troppo pazzi, quella donna, troppo illuminati di una luce sbagliata, per capire quanto possa essere difficile vivere per prepararsi morire. Morire per prepararsi a vivere.
Quella donna non capisce, non ricorda, ma non è lei la persona sbagliata. Forse non è neppure quella da cui dipende tutto, in effetti, perché ci sono gerarchie complesse di cui intuisce appena le linee, e ci sono altri, altri ancora, e... e nessuno di loro è la persona sbagliata a cui urlare le due parole proibite.
Gli occhi azzurri di sua sorella hanno la stessa luce sbagliata della donna da cui forse dipende tutto, ma c’è un’ombra sul fondo, un’ombra che somiglia al grigio ferroso di un altro sguardo; non l’esitazione, l’incertezza che sarebbe umano provare.
Ha sperato, ha pregato, ma quell’ombra non se n’è andata, e nemmeno la luce; quando la condanna esce dalle labbra morbide e rosee di sua sorella, infine, capisce che ormai l’altra è una di loro.
«Codarda.»
È la persona che può ucciderla dentro, quella sbagliata.
È guardarsi allo specchio e scoprirsi mostruosa.

* * *

Devo.
Non voglio.

Avevano essenze represse dagli Esecutori, arti immobilizzati, corpi che non potevano reagire. Dita che a volte sembravano allungarsi in artigli per un istante, nell’agonia; schiene inarcate, pelle tesa sopra ali che premevano per formarsi. Bocche spalancate come baratri di zanne e di rosso, urla che non varcavano le labbra livide – silenzio innaturale e assordante, perché le loro parole non potessero giungere ai Cherubini. Avevano sangue che colava dalle membra squarciate, dai segni di un combattimento feroce: flutti rossi vomitati dalla carne, vivi, violenti. Il Velo aleggiava ancora su di loro, offuscandoli all’udito, ma un aroma aspro si spandeva nell’aria – prepotente, rabbioso, scivolava denso sulla lingua anche senza respirare.
Avevano occhi lucidi, presenti, animati da una furia bestiale. Occhi d’incubo.

Devo.
Non voglio.

Avevano carne bollente, sotto le sue dita. Pelle coriacea su cui si spezzava le unghie, sangue che le apriva squarci sulle dita sottili, sui palmi morbidi. Si sentiva piangere e urlare e sentiva anche gli altri, vedeva anche gli altri, ritrarsi e poi tornare perché erano ordini, e seguire gli ordini era giusto, era il loro dovere, era ciò che avrebbero dovuto volere. O forse non avrebbero dovuto volere niente, ma semplicemente eseguire? Non riusciva a ricordarlo. C’era solo quel dolore bruciante, atroce, che risaliva dalle dita ferite e la scuoteva in tutto il corpo, fiamme che la divoravano da dentro, sangue corrotto che la infettava – e ora avrebbe potuto capire come Ramiel si fosse procurata quella lacerazione agghiacciante, ma il dolore inghiottiva anche i pensieri.
Continuate, li incoraggiavano gli adulti. Obbedite. Davano istruzioni, correggevano, ordinavano. Non spiegavano perché, ma assicuravano che sarebbe servito, che avrebbero capito, che... che sarebbero stati premiati, se fossero stati forti. Obbedienti.

Marionette.

Non c’era onore, in quel massacro. Solo orrore. Solo una luce affamata e sbagliata negli occhi dei Cherubini – e continuavano, loro. Gridavano e piangevano e supplicavano, ma obbedivano.
Obbediva anche lei, perché erano gli ordini e non seguire gli ordini faceva paura, anche se sentiva il malessere montarle dentro e la testa scoppiare di parole represse.
Obbedite, ripetevano ancora coloro che avrebbero dovuto proteggerli, a cui avevano sempre guardato come una difesa. Obbedite. Siate degni di questo onore. Obbedite. È il vostro dovere.
Chissà se c’era Sachiel, ancora, ad osservare senza fare nulla; l’aveva sempre fatto, quando lei si scontrava con Nelchael, ma era... era diverso. Più terribile e feroce e brutale. Perché non veniva da lei, invece di starsene lontana, immobile, con quell’espressione distaccata che assumeva sempre – lasciandola sola come aveva fatto Anane e come in fondo avevano fatto tutti, senza mai ascoltarla davvero, senza mai concederle attenzione e carezze, senza mai proporle una scelta. L’una a urlare e piangere, l’altra accanto ad un serafino gelido che la avvelenava d’insicurezza; divise dal Paradiso, divise dai propri doveri assurdi e crudeli.
Chissà se c’era anche Nelchael, tra quelle voci salmodianti – Nelchael che le aveva insegnato come evitare un colpo senza sbilanciarsi. Come affondare il colpo sino ad avvertire le ossa, sotto, che opponevano una resistenza troppo solida per il suo corpo infantile. Come infliggere un dolore più crudele, come ignorare i lamenti del proprio corpo, come affogare i pensieri nel sangue.
Ma infierire su un demone, aveva capito subito, non aveva nulla della violenza inebriante della lotta contro Nelchael: non la pacificava, non zittiva le voci, ma le aumentava a dismisura fino a minacciarle di farle scoppiare il capo.
E Anane, Anane era diventata un orrore simile. Cosa avrebbe fatto, se l’avesse incontrata? Se avessero dovuto scontrarsi, in un punto dell’eternità che si dispiegava davanti a loro?

Devo.
Non voglio.

Obbedite, continuavano le voci – non all’unisono, ma sussurri all’orecchio, nell’affiancarsi ad un cherubino dopo l’altro. Sottili, discrete, eppure udibili nonostante i pianti e le urla. Servite il Paradiso. Dimostratevi degni. Impegnatevi, offritevi. Rispondete al dovere.
Salmodia dal suono familiare, litania ripetuta da sempre, dal primo istante, dal primo movimento incerto delle ali; richiamava qualcosa dentro, imponeva devozione, prometteva il conforto dell’abitudine. Obbedite, obbedite, obbedite. È il vostro dovere. Ma altro la strattonava in direzione opposta, altro si ribellava, altro le urlava la mostruosità di tutto quello.

Chi sei.
Chi ti hanno insegnato ad essere.
Cosa vuoi davvero, sotto gli strati di imposizioni e paure che ti si sono sedimentate dentro, parola dopo parola, punizione dopo punizione.

Altro le faceva male dentro, più a fondo del fuoco che la divorava, più intensamente del sangue che la infettava. Strappata dentro, lacerata, lasciata impazzire al suono di mille voci e ricordi diversi che si sovrapponevano nella sua mente già folle. Sussurri e occhi e parole e orrori, orrori che le erano rimasti dentro pronti a riemergere, e c’era dolore dipinto sulle sue palpebre – sprazzi rossi e neri e candidi di un candore accecante. Inondata, sommersa da qualcosa che la affogava senza lasciarsi cogliere, mentre sangue terribile la scuoteva di dolore in tutto il corpo e anche più a fondo, dentro, tentando di strapparle le parole proibite dalle labbra.
Obbedite, obbedite, obbedite. È il vostro dovere.

Devo.
Non voglio.

E si fermò, infine, interrompendo quell’esercitazione crudele.
Non fu l’abbraccio confortante di Sachiel o il calore promesso dal Paradiso, ad accoglierla, ma terra – terra corrosa dal sangue, terra dall’aroma aspro, terra bagnata di sangue che le consumò la carne infantile. Terra che impattò contro il suo corpo inerte, senza un gemito dalle labbra morse a fondo, senza più lacrime a invaderle gli occhi.
Lo sguardo senza luce e senza ombra, vacuo, vuoto. Spento.

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Capitolo 30
*** 29. Ciò che è successo ***


Note iniziali: chiedo scusa per il ritardo. Sto avendo problemi con il pc e davvero troppi impegni nella vita quotidiana. Più volte ho promesso a me stessa e ai lettori di finire questa storia e ho intenzione di mantenere la parola; ho solo bisogno di tempo. Grazie a chi ancora mi segue e con il suo supporto mi dà la forza di scrivere.

Ricordate dov’eravamo rimasti?
Vari Cherubini riuniti lontani dallo Specchio, di fronte ad una schiera di Arcangeli – e dietro gli Arcangeli, qualcosa.
Devo. Non voglio. Amitiel che lotta contro l’orrore e il dovere.
Leliel annuncia a Sachiel l’imminente Sviluppo. Stupore. Aspettativa. Ansia. I Cherubini che, sotto ai loro occhi, obbediscono a ordini atroci.
Demoni, quel qualcosa dietro gli Arcangeli: Demoni indeboliti e mostruosi, Demoni da combattere, Demoni di cui versare il sangue – e grida e piangere e non potersi sottrarre a quell’esercitazione crudele. Devo. Non voglio. Parole proibite, ritornello che scandisce urla e ricordi. Follia che avanza. Stanchezza. Orrore. Tutto diventa troppo.

E si fermò, infine, interrompendo quell’esercitazione crudele.
Non fu l’abbraccio confortante di Sachiel o il calore promesso dal Paradiso, ad accoglierla, ma terra – terra corrosa dal sangue, terra dall’aroma aspro, terra bagnata di sangue che le consumò la carne infantile. Terra che impattò contro il suo corpo inerte, senza un gemito dalle labbra morse a fondo, senza più lacrime a invaderle gli occhi.
Lo sguardo senza luce e senza ombra, vacuo, vuoto. Spento.




Capitolo 29 – Ciò che è successo





Raggi tiepidi sulla pelle, del tepore rosso del tramonto.

Ciocche bionde tinte di bagliori sanguigni e un profilo nero contro la luce, ciglia sottili socchiuse, labbra rosee distese in un sorriso.
Il corpo dell’altra contro il proprio la scalda più del sole.


Panico.
Terrore.
Calore, un calore che la opprimeva, un calore che era ovunque, attorno e su di lei e dentro, a squarciarla e dilaniarla con artigli invisibili.


È l’ultima notte.
L’ultima in cui potranno restare insieme, abbracciate, respirando il profumo dell’altra.
L’ultima in cui assaporeranno il tepore del sonno e la sete che asciuga la gola e la fame che stringe lo stomaco.
L’ultima in cui lei avvertirà il sangue rimescolarsi nella brama di chi non potrà mai avere.
Sarà proibito anche desiderare, dopo.


Non c’erano più Cherubini con la carne corrosa e Demoni con i segni di un combattimento feroce e urla, strepiti, pianti, sangue vomitato dalle ferite, adulti che ordinavano e incoraggiavano, il cielo che invitava alla fuga.
C’era... rosso. E bianco.
E dolore, dolore, dolore.


Saranno proibite così tante cose, dopo, che non riesce a contarle.
Il sole, le ombre, il tramonto.
Il sangue che scalda da dentro.
I dubbi, le domande, le incertezze.
Teme quasi di provare nostalgia, per un istante; ma, si costringe a dirsi, non si può provare nostalgia per ciò che non si ricorda.


Nebbia, foschia, turbini di rosso e di bianco che si scontravano e respingevano e devastavano a vicenda, squarciandosi, sciogliendosi, e lei non riusciva a capire niente, niente, avvertiva solo quel calore bruciante tutto attorno, oppressione atroce che non le dava tregua – o forse sì, forse c’erano istanti in cui un guizzo candido giungeva a sfiorarla e mitigava l’agonia, ma erano troppo troppo brevi e a lei non restava che urlare senza voce e agitarsi senza corpo, cercando un sollievo che non arrivava mai. Rosso, bianco, dolore. Sollievo. Bianco, rosso, dolore. Le esplodevano colori sulle palpebre incorporee e non capiva, non capiva nulla, c’era solo quel dolore assurdo che era simile a... a... a qualcosa.
A tante cose.
Ricordi.


«Il sole muore, sorella.»
«Moriremo anche noi, finalmente

* * *

Cedimento.
Essenza fuori controllo. Ferita.
Non c’è da stupirsene, dopo ciò che ha passato con Da- sssh.
Troppi stimoli.
Brava, Sachiel, te ne sei accorta in tempo. Ottimo lavoro.
Plasmata una seconda volta.
Non la stancare troppo, Ramiel.
Riposo, cautela.
Nelchael, non farla combattere. Volare sì, ecco, falla volare – con prudenza.
Prendere familiarità con il nuovo involucro.
Sei tornata lucida, Amitiel? Sì, sì, lo so, è fastidioso. Migliorerà con un po’ di pazienza, non preoccuparti, cara.

Le sentiva ancora nella testa, quelle voci. Riviveva ancora quella scena. La Guaritrice che spiegava e rassicurava, la sua insegnante che le accarezzava i capelli, lo sguardo serio di Nelchael, Sachiel un po’ discosta con le labbra morse a sangue e gli occhi sgranati. I loro sussurri. I loro sospiri.
E... e altre, altre voci, ma non voleva perdersi – non in quel momento. Non ancora. Aveva bisogno di lucidità per capire, per riflettere, perché la Guaritrice aveva spiegato e rassicurato ma non aveva risposto.
Perché.
Troppi stimoli, troppa tensione, l’essenza che era quasi esplosa fuori dal corpo pur di sfuggire a tutto quello – ma solo per trovarsi in una situazione peggiore, nuda, esposta, senza un involucro a trattenerla e a proteggerla almeno un po’. Sachiel che l’aveva avvolta e difesa fino a quando gli adulti non erano riusciti a isolarla, a stringerla tra dita incorporee per far agire i Guaritori.
Un nuovo corpo, identico al precedente – ancora poco familiare, ancora poco connesso all’essenza, sì, ma ancora non era per sempre, doveva solo portare un po’ di pazienza. Era sempre lei, sempre la stessa, anche se quell’involucro non aveva assaggiato ferite e carezze, l’Espiazione, le dita gelide di un caduto, il sangue ustionante di un demone. La stessa essenza in un corpo diverso.
Ma quello, ancora, non spiegava perché.
Dolore alle tempie, stridii che la aggredivano non appena tentava di estendere le Percezioni; ali tremanti, squarci che vomitavano sangue senza tregua, membra lente e intorpidite. Problemi comuni, diceva la Guaritrice, non preoccuparti, cara: l’essenza non si lega subito all’involucro, ma con un po’ di pazienza tornerà tutto normale. È per quello che è accaduto, diceva senza spiegare.
Perché.
Perché era accaduto. Perché era dovuto accadere.
Perché la sua essenza si era trovata oppressa da tutta quella tensione, perché c’era stato tutto quell’orrore, i Demoni e il sangue e l’ordine di aggredire quei corpi che non potevano difendersi – per prendere confidenza, per abituarsi da subito al dolore, dicevano, ma ancora, ancora non rispondevano.
Perché perché perché.
Erano Cherubini, Cherubini del ciclo inferiore, Cherubini con ali rosse e squarci sanguinanti, Cherubini che avrebbero dovuto conoscere solo la luce e il tepore del Paradiso; e non era normale, ciò che avevano dovuto fare – l’aveva letto nello sguardo scosso di Sachiel, nel turbamento che Nelchael e Ramiel avevano nascosto a fatica, nella dolcezza eccessiva della Guaritrice. Non era normale.
Perché Cherubini tanto immaturi dovessero già abituarsi ai Demoni, però, nessuno l’aveva spiegato.
Perché. Perché perché perché.
E nessuno che rispondesse a quella domanda silenziosa.
Perché perché perché.
E un fremito, la sensazione di aver perso qualcosa, di non averlo colto in tempo. Le voci che la spingevano a perdersi e lei che diceva no, no, voglio restare lucida. Non riuscire a capire. Dopo ciò che aveva passato con... con. Ciò che aveva passato. Cos’aveva passato? Cos’altro? Non era sufficiente l’orrore di quell’esercitazione?
Ciò che aveva passato con... con... con Da.


«Cosa mi faranno, se lo scopriranno?»
«Oh, bambina, non vuoi davvero saperlo.»


«A... Amitiel.»

Da?
Da.
Con Da.
Ma cos’era a toccarla, in quel momento? Cos’era a scuoterla, tentando di richiamare la sua attenzione? Non vedevano forse che lei era occupata a trovare le sue risposte?


«Hai gli occhi troppo pensierosi, bambina. Sta’ attenta, se non vuoi che te li strappino.»


«Non riuscivo a trovarti. È... è più difficile ora, sai? Sei sfuggente

Da. Da. Da.
Aveva mal di testa – forse doveva smettere di pensarci? Chiudere gli occhi e riposare, come le aveva detto la Guaritrice, perché si sentiva esausta e provata per ciò che era successo. Successo con Da – no, con i Demoni. Era normale che avesse tentato di fuggire a quel dolore, non c’era nulla di che preoccuparsi, tutto regolare, cara, non preoccuparti, riposa, svuota la mente, vedrai che andrà tutto bene, è normale ciò che è successo, a volte accade, non... non...
Non era accaduto a nessun altro. Per quanto orrore avessero provato gli altri, a loro non era accaduto.
Ma perché c’era quella luce accecante, ora, a ferire il nulla in cui si era rifugiata? Perché volevano distrarla a tutti i costi dalle sue riflessioni?
La sensazione vaga di capelli estranei a sfiorarle il viso – ma il profumo era identico a quello degli oli che usava lei. Eppure non conosceva nessun altro che scegliesse sempre quelle fragranze, e perché uno sconosciuto avrebbe dovuto venire a disturbarla? Non vedevano che era impegnata?


«Al Fuoco avevi ancora il suo odore addosso, bambina. Davvero una puttana.»
«Non so di cosa-»
«Ti è piaciuto sentire il suo sapore sulla lingua, bambina?»


«Amitiel, non... non perderti, non adesso, non...»

Agli altri non era successo, no, di trovarsi con l’essenza dilaniata e un corpo dissolto in cenere.
Ma per lei era normale, dopo ciò che era accaduto con Da, giusto?
Le erano accadute così tante cose, così tante cose che non avrebbero dovuto accaderle, così tante cose che gli altri non potevano neppure concepire... così tante cose.
E ricordava, con la sua memoria imperfetta di cherubino, senza riuscire a capire quale delle tante cose avesse spinto la sua essenza a distaccarsi dal corpo. Così tante cose. Così tante cose.
C’erano le voci, e le voci non erano forse un motivo sufficiente ad impazzire? E i Demoni. Eisheth – risate acute, ghigni crudeli, dita bollenti ad accarezzarla. Le mani gelide di Michael che la ferivano. Gli occhi gelidi di Michael. La voce gelida di Michael. Anane, Anane respinta, Anane odiata, Anane che forse non avrebbe rivisto mai più e l’ultimo ricordo sarebbe stato quella rabbia. Il gatto, sì, anche tutto il rosso malato che aveva coperto quel gatto, anche quello era un motivo sufficiente ad impazzire. Gli occhi terrorizzati del Custode e la cenere portata via dal vento. L’impotenza che la schiacciava, nel non poter fermare l’orrore, nel non poter gridare quel no.
Il profumo si fece più intenso.


«Oh, bambina, cos’è quest’espressione? Vuoi forse dirmi che non ti è piaciuto?»
«Non so di-»
«Sempre così ipocriti, voi Umani. Il vostro senso di colpa è semplicemente disgustoso.»


«Amitiel, non... perché piangi? Cosa succede?»


Il dolore. Il disgusto. Le menzogne.
I Censori.
Quello che era successo con Da.
I Censori che le erano entrati nella testa, nella mente. Quelle parole che l’avevano fatta sentire così sbagliata e impotente e sporca e... quelle parole che si rifiutava di ricordare, perché facevano male, male, male, più male di Nelchael che le stringeva il polso, più male del sangue dei Demoni, più male delle dita di Michael, male, male, male – quelle parole che erano finite all’improvviso e... e non ricordava. Il male era rimasto, ma c’era silenzio e bianco e male, male, male, e poi la stretta di Nelchael l’aveva abbandonata e non aveva sentito più niente, solo bianco e male, bianco e male, bianco e male, e... e poi la stretta di Nelchael era tornata ad ancorarla alla realtà e... e quello che era successo con Da.
Da. Da. Da.
I Censori che avevano sussurrato direttamente alla sua mente – ma era stato solo uno, non tanti, solo un Censore, un Censore e le sue parole nella testa, ma no, no, non ricordare, fa troppo male, non ricordare. Lei così piccola e insignificante e debole e quelle parole nella testa.
Quello che era successo con Da.
Quelle parole nella testa, quelle parole nella testa che non erano le voci, non erano quei pensieri sibilanti che la chiamavano bambina, erano... erano... erano dolore puro sciolto dentro di lei a corroderla, male, male, male, stupido insignificante cherubino che non poteva nemmeno difendersi da qualche parola. Dopo era giunto il desiderio di prendere una decisione, la determinazione velenosa nel rifiutare Anane, la sua scelta giusta che aveva occhi azzurri e dita gentili; ma quel male, quel male le era rimasto dentro e... e le sembrava quasi che le avesse dato la forza per tutto quello, la volontà di riscattarsi e non essere più così piccola stolta insignificante e male, male, male, errori su errori e...
Tepore, tutt’attorno a lei, e quel profumo sempre più stordente.


«Le mie... le mie scelte non sono affar tuo.»
«Pensi davvero di aver scelto qualcosa, bambina? Tu, nulla più di carne e istinti?»


«Amitiel, non... resta qui, non... non... oh, maledizione, perché piangi?»

Ciò che era successo con Da.
Da. Da. Da.
Male, male, male, quel dolore folle che si rifiutava di ricordare.
I Censori.
Ciò che era successo con Da.
Da. Da. Da.
Daniel.


«Lo ricordi, bambina, il suo sapore sulla lingua? Ricordi il suo odore?»
«...aveva le labbra rosse.»


E c’era Sachiel, all’improvviso, in quella luce accecante che aveva squarciato il nulla. Il suo viso che si stagliava contro i colori vividi degli alberi, la sua voce che sovrastava il mormorio del ruscello. Capelli biondi che le sfioravano il viso, braccia magre a premerla contro un corpo tiepido, occhi azzurri liquidi di panico. Labbra chiarissime schiuse in un richiamo. Profumo intenso e dolce, lo stesso che amava lei – ma Sachiel non aveva mai usato gli oli, prima di quel momento.
E all’improvviso c’erano singhiozzi che le squassavano il petto, mentre l’altra ammutoliva – singhiozzi sbagliati, singhiozzi troppo umani, eppure Sachiel non se ne andava, non criticava, non la guardava disgustata, solo... solo la stringeva e sembrava sollevata e felice e grata che fosse tornata lucida. Era lì, rimaneva lì, per lei, a stringerla mentre si sentiva così persa e impotente, così oppressa dal dolore che le era rimasto dentro – i Censori, quello che era successo con Daniel, quello che era successo con Daniel, cos’era successo? Faceva ancora male. Non poteva smettere di pensare all’impotenza sotto gli occhi di Michael, l’odio, la voglia di fare una scelta, Anane che l’aveva abbandonata, un taccuino riempito di memorie e di errori, la rabbia, le risposte mai giunte, le domande inghiottite, il silenzio, le voci, i ricordi, male, male, male, voleva solo... solo dimenticare tutto quello, per un attimo, ma quel male non glielo permetteva, era lì nella sua testa, nella sua mente, a confonderla e stordirla e...
E Sachiel, Sachiel era lì con lei, e lei non era più sola rannicchiata a terra, ma stretta contro il suo corpo tiepido. Sachiel era lì per lei, non la abbandonava, Sachiel la pregava con gli occhi di non perdersi più – con le labbra no, perché le labbra chiarissime erano silenti, tremanti, incerte tra una smorfia e un sorriso. Sachiel era lì, la sua scelta giusta, e riusciva a farla sentire un po’ meglio – perché per Sachiel era importante, non un cherubino stupido insignificante impotente lercio, e... e Sachiel era importante, per lei. Quando era diventato tanto fondamentale, ricevere un suo abbraccio per potersi sentire meglio?


«...aveva le labbra rosse.»


Sachiel aveva gli occhi azzurri che la fissavano come se fosse la persona più importante del Paradiso, del Mediano, degli Inferi; occhi azzurri intorbiditi da un sollievo violento e feroce. Aveva le labbra chiare socchiuse a metà tra una smorfia e un sorriso. Aveva le braccia a stringerla e un corpo tiepido, morbido, contro cui era piacevole rifugiarsi.
Sachiel aveva la sua devozione molto più del Paradiso, perché la faceva sentire fondamentale e amata senza obbligarla a nulla. Perché la lasciava scegliere, perché non fuggiva spaventata davanti ai suoi occhi pensierosi, perché non l’accusava di follia quando si perdeva tra le voci e le domande. Perché era lì, lì, lì per lei, lì con lei, e il male un po’ era scomparso.
Sachiel aveva occhi azzurri che la imploravano di non perdersi e un corpo che era rifugio contro i mostri nella sua testa, e labbra chiarissime sospese nell’incertezza.


«...aveva le labbra rosse.»

«Lo ricordi, bambina, il suo sapore sulla lingua?»

Un bacio.
No, un addio.


Sachiel aveva occhi azzurri sgranati e torbidi e un corpo tremante, e labbra chiarissime e morbide, mentre lei ne assaggiava il sapore.

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Capitolo 31
*** 30. Silenzi ***


Note iniziali: per l'ennesima volta, chiedo scusa. È passato molto tempo e sono successe molte cose, ma spero che ci sia ancora qualcuno che si ricordi di me, tra chi prima seguiva la storia. Altre note in fondo al capitolo, ora vi lascio al riassunto dei capitoli precedenti per riprendere un po’ le fila della trama.

Ricordate dov’eravamo rimasti? 
Avvenimenti spiacevoli nella dimensione umana – Michael amabile come sempre, Eishet sempre più sana e adorabile, un angelo che ha visto troppo ed è stato ucciso da Anane. Di conseguenza, chi ha assistito – Anane, Amitiel, Sachiel e Cassiel – viene sottoposto ad un’amabile chiacchierata con i Censori, per chiarire gli avvenimenti.
Anane si sviluppata e, divenuta un angelo adulto, cade. Sachiel entra in competizione con Cassiel per le attenzioni di Leliel, sempre più distante e più dura con le sue allieve; ha anche scontri con Amitiel, prima di trovare un punto di incontro e approfondire un legame strano. Nelchael, il maestro di Amitiel, non sembra contento di questo avvicinamento – così come non è contento del trattamento riservato ai Cherubini, forzati a crescere troppo in fretta, sino a doversi scontrare con dei Demoni. Durante lo scontro, Amitiel perde conoscenza e al risveglio si scopre smarrita e confusa, annaspante tra ricordi incomprensibili e sentimenti che spaventano Sachiel. E poi accade l’errore.

 
Sachiel aveva occhi azzurri sgranati e torbidi e un corpo tremante, e labbra chiarissime e morbide, mentre lei ne assaggiava il sapore.



 
Capitolo 30 – Silenzi
 
 



Erano silenzi di seta, quelli che scivolavano nel fiume. Sgusciavano nel flusso di un respiro inutile e le si adagiavano lievi sulle labbra; ma i flutti candidi glieli portavano via in un gorgoglio, scorrendo lenti attorno a lei, mentre le dita sfioravano quella carne chiara macchiata dal peccato. L’acqua le entrava dentro, la avvertiva scorrerle in gola e riempirle le sacche nel petto – polmoni, le chiamavano, e una volta Anane le aveva detto che era stupido, perché polmoni erano quelli degli Umani. Avrebbe potuto fare a meno di quelle sacche, loro, come di tanti altri muscoli e tessuti e organi; ma cosa sarebbe rimasto, senza quelle inutilità? Cavità spalancate sul nulla, silenzi sterili ad aderire alle ossa. Corpi di carne e di vuoto.
C’erano così tante cose insensate, in loro, e così tante cose importanti che non potevano avere.
Le dita le premettero di più sulle labbra, quasi a zittire la voce – perché, avrebbe potuto essere la parola proibita. Voglio. Penso. Sono. O seta, anche, perché nessuno le aveva mai spiegato cosa fosse e non le era permesso conoscerla, non ancora; anche se ricordava un fruscio lieve sulla pelle e tessuto che le scivolava addosso in una stanza buia – e non ricordava quando o come, ma sussurrava seta e c’era il fruscio nella sua mente, c’era il buio davanti ai suoi occhi. O un nome, innumerevoli nomi che avrebbe dovuto solo cancellare e che venivano ridotti a quel silenzio di seta.
Sarebbe stato così sbagliato, se le sue dita si fossero premute su altre labbra?
Così tante cose importanti e proibite. Così tante cose che erano più importanti della luce e del calore e degli organi a riempire spazi sterili, e verso cui non potevano volgere gli occhi e i pensieri.
Era vietato anche desiderare.
 
Abbandonò la testa sul fondo, dove i suoi capelli si agitavano, nastri neri intrecciati dai flutti, mossi come lingue di fuoco o di serpi. Parole proibite ancora sulle labbra, strappate dalla corrente prima di trovare voce; carne morbida e umida che si stringeva attorno alle sue dita, e il richiamo violento e nebbioso di qualcosa, qualcosa, qualcosa che...
Carne morbida e umida che si stringeva attorno alle sue dita.
Le labbra che suggevano i polpastrelli, lente, quasi senza avvedersene.
Calore. Respiro.
La memoria del corpo.
 
Fantasmi che la prendevano per mano, impalpabili, guidandola verso l’ora più gelida e calda.
Ma i flutti candidi le strappavano pensieri emozioni ricordi e restava solo quel richiamo violento e nebbioso, indistinguibile, lontano. Passato.
E la seta le scivolava addosso ancora una volta, impalpabile. Sulle membra e sul seno e sulle labbra, a sussurrare i suoi silenzi.
 
«Il Confine...»
La voce le giunse attutita, tra i flutti che danzavano attorno a lei: nulla più che un gorgoglio tra i fruscii muti della seta.
Sollevò il busto di scatto, con i capelli a coprirle la carne nuda e le labbra ancora socchiuse, le ali grondanti, le sacche nel petto che si contraevano per espellere l’acqua. Ne sentì i fiotti risalirle la gola e colarle dalla bocca lungo il mento, ma non ci fece caso: c’era altro a cui pensare.
Aria. Sabbia. Suoni.
Un cielo azzurro che si mostrava, non più offuscato dai flutti candidi del fiume.
Un cielo azzurro che si rifletteva in occhi puri e corrotti – e distanti, anche. Puri corrotti distanti vuoti.
«È proibito venire qui, Amitiel.»
«Lo so.»
Avrebbe voluto urlare piangere stringerla, peccare ancora, imprimersi sul corpo ogni istante; ma Sachiel le sarebbe sfuggita tra le dita come sabbia, come acqua, come seta. Non l’avrebbe appagata, fuggendo il silenzio, lasciandole il suo sapore dolce sulle labbra e il desiderio di assaggiarla ancora – ma avrebbe potuto davvero appagare quella fame di lei, in fondo? E loro non sapevano neppure cosa fosse la fame, la sete, l’istinto vorace del corpo, eppure... eppure quella era fame, quella era sete, quello era un obbligo. Sfiorarle le labbra con le proprie e sentirsi una in due, per un istante, come a guardarsi allo specchio e congiungere le dita a quelle del riflesso. Non era possibile saziarsi di quella sensazione, ma solo anelarne ancora e ancora, bisogno vorace e violento.
Le ricordava, le labbra di Sachiel e il loro sapore e quegli occhi azzurri terrorizzati.
 
Era stato sbagliato.
Era stato meraviglioso.
 
Distese le ali, lentamente, sentendole pesanti per l’acqua e per la stanchezza – non era riuscita a riprendere totalmente il controllo, ancora, come se la sua essenza logora non avesse la forza di legarsi al nuovo involucro.
«Non credevo saresti venuta a cercarmi.» mormorò, cauta. Quanto sarebbe bastato, perché Sachiel si spaventasse di nuovo? Perché le sfuggisse e... e la paura che non tornasse. Il terrore di rimanere sola, ancora, sola come prima, sola come era sempre stata senza neppure rendersene conto. Se la sentiva ancora addosso, quell’angoscia nera e vischiosa di un istante – o di un’esistenza? Il Confine toglieva al tempo il suo significato, fluendo lento e immutabile nel suo ciclo continuo.
«Il Confine è proibito, Amitiel.» ripeté Sachiel. Se ne stava lì in piedi sulla riva, rigida, come manovrata da dita estranee; gli occhi azzurri puri e corrotti non la guardavano, ma fissavano il nulla, persi, quasi opachi. Era stata lei a togliere loro la luce? Eppure lei aveva solo voluto... solo voluto sentirsi una in due, per il tempo di un respiro condiviso.
«Lo so.»
«Il Confine è essenza liquida, sapevi? Sempre la stessa essenza, da quando è stato creato. È senza tempo. È...» la voce le mancò per un istante, prima di tornare a sussurrare atona «È un confine. Il confine. L’attimo del cambiamento, cristallizzato in eterno.»
«Sachiel...»
«Si dice che abbia... proprietà rare, quest’essenza. Che non solo guidi i Cherubini nello Sviluppo, ma che  possa anche...»
Sachiel scosse la testa lentamente, con gli occhi distanti e un sorriso vacuo, come se qualcosa le avesse succhiato la vita da dentro – ma no, no, Amitiel non poteva credere che fosse stato quel breve sfioramento di labbra, perché in quel momento la vita era esplosa. Non poteva essere colpa di quello. Non poteva essere colpa dell’istinto più torbido e magnifico di un’esistenza intera.
Le dita pallide di Sachiel si mossero per appuntare una ciocca dietro l’orecchio.
«Si dicono cose, Amitiel... cose incredibili.»
 
Amitiel si sentì tremare, guardandola negli occhi – occhi azzurri puri corrotti distanti vuoti. Occhi che non erano Sachiel, perché Sachiel era ferma e affilata e ti fissava come se volesse entrarti dentro, non come se non fossi altro che nebbia e silenzio. No, non era Sachiel, quella. Non le accendeva il desiderio di sentirla, toccarla, esplorarla; non scatenava l’istinto vorace di renderla parte di sé. Risvegliava un’inquietudine sottile che scorreva sotto pelle, e folle urlava qualcosa nella sua mente, folle sibilava contro il suo orecchio, folle alitava contro il suo collo, folle come sempre, folle come prima – e quegli occhi erano invasi da una luce rossastra e sanguigna, illuminati da un bagliore esaltato, e c’era ancora l’acqua candida del Confine che le scorreva attorno, ancora il richiamo vago come seta sulla pelle, ancora... ancora cose, cose che non avrebbero dovuto esserci lì davanti ai suoi occhi e nella sua testa, ma cose che c’erano, illusioni, deliri, ricordi.
E il Confine le scorreva ancora attorno, addosso, dentro.
 
«Non tornare più qui, Amitiel. Non ti fa bene.»
Fruscii di piume.
Gorgogli d’acqua.
Nella sua testa, solo un silenzio assordante; davanti ai suoi occhi, solo quello sguardo vacuo.
Sulla sua pelle, il richiamo lontano della seta.
 
*   *   *
 
Si era aspettato furia – oscurità impenetrabile che si sarebbe serrata attorno a lui, spezzandogli le ali. Lacerando. Devastando. Si era preparato al dolore, perché il nero accecante del tempio aveva sempre tremato, sotto la collera disperata di Leliel; perché, quando lo richiamava in quel luogo di incubi e mostri, il motivo era uno solo.
Ricorda, Esecutore. Ricorda chi sono. Ricorda il mio potere.
E soffri.
Scoprire lacrime su quegli occhi di ghiaccio, invece, era stato inaspettato e terrorizzante. Respirava l’aria scura e avvertiva una disperazione non sua invadergli i polmoni, avvertiva la confusione, la rabbia; un grumo più nero dell’ombra, dolore folle e violento che aggrediva il nulla, essenza impazzita che vorticava e si espandeva e sembrava quasi volersi lacerare. Lui, spettatore esterno di quella tempesta, si lasciava attraversare da ogni cosa senza esserne ferito.
E le lacrime rilucevano nel buio, colando da quegli occhi aridi.
«Hai parlato con Sachiel.» ringhiò Leliel.
Più che un’accusa, gli sembrò una supplica.
«...no, Autorità.»
«Non mentire!» urlò – eppure l’oscurità continuò a non toccarlo, a non ferirlo, perché era una rabbia che si ritorceva su sé stessa e si malediva. «Chi altri le avrebbe parlato? Chi altri, per allontanarla da quel cherubino... chi altri?»
Una supplica, ancora. Un’implorazione.
«Non so di-»
«Non sai, Nelchael? Davvero non sai? Eppure Sachiel è cambiata, Sachiel... Sachiel sembra...»
La sagoma di Leliel, nell’oscurità, parve accasciarsi per un istante, quasi volesse lasciarsi crollare a terra: le spalle curve, le ali tremanti, ciocche che le ricadevano scomposte sul volto e sempre quelle lacrime, quelle scie trasparenti sulle guance che non avrebbero dovuto esistere – non su Leliel. Non sull’Autorità gelida e implacabile.
Doveva essere accaduto qualcosa di terribile, per piegare persino lei; Sachiel doveva sapere qualcosa di proibito, di orrendo, di...
Un presentimento gli strisciò lungo la schiena, gelido.
«Leliel.» la chiamò, cauto, allungando una mano senza osare sfiorarla «Cosa sembra, Sachiel?»
«Non lo immagini?» sussurrò, e crollò davvero, questa volta. L’impatto delle sue ginocchia contro la pietra risuonò come un boato, nel silenzio vibrante del tempio. «Si sta perdendo. È folle, distante, è... sembra come lei
«Ne sei certa?» sfiatò, fissandola dall’alto – senza pietà. Senza inginocchiarsi accanto a lei e offrirle conforto, perché la pietà non superava il rancore. «Ti ha raccontato?»
«Non... non vuole, parla solo di... di cose incredibili. Ho tentato, ma non risponde, è... è come lei, Nelchael. Si sta perdendo.»
Avrebbe potuto rassicurarla: dirle che non poteva averne la certezza, che Sachiel poteva essere semplicemente inquieta per l’imminente Sviluppo, che era un cherubino acuto e forse aveva intuito la tensione crescente con gli Sconsacrati, che... che c’erano tante spiegazioni, tanti modi per giustificare distanza e distrazione, che non doveva angosciarsi tanto.
Avrebbe potuto, ma non era mai stato disposto a mentire, lui.
«Dobbiamo separarle.» sibilò invece, deciso e tagliente quanto una lama «Subito.»
Leliel, se possibile, sembrò piegarsi ancor di più su sé stessa – colpevole.
«Le hanno accordato l’ultima Presenza, Nelchael.» mormorò «E Amitiel... stanno concedendo nuovi Fuochi. Gli allievi assisteranno.»
«No.»
La fissò dall’alto e dominò a stento l’impulso di colpirla – perché era colpa sua, sua che non lo aveva ascoltato, sua che non le aveva divise, sua che era stata troppo cieca orgogliosa stolta. Sua che concedeva alla propria allieva lo Sviluppo – e poi sarebbe stata un’adulta, senza difesa, senza guida, esposta alla ferocia di chi non mirava a lei ma a Leliel. Sua che imponeva a Cherubini troppo immaturi di assistere alla Venuta – e c’era una bambina, lì, che lui aveva promesso di proteggere. Giurato no, perché giurare era proibito, ma l’aveva promesso, aveva detto ; e Leliel lo sapeva, Leliel lo sapeva e gettava comunque quel cherubino bambina in qualcosa che...
Avrebbe dovuto essere alla settima classe – e neppure alla settima sarebbe stato certo che fossero pronti. Era necessario, perché maturassero abbastanza da giungere al ciclo superiore, ma alla quinta, alla quinta... non era bastato che fosse permesso – fosse imposto – di assistere alla sesta classe? Non era accaduto nulla, e forse non sarebbe accaduto nulla neppure alla quinta, ma non era... non era giusto. Stavano strappando l’innocenza, la serenità. Stavano strappando l’infanzia.
Stavano allevando piccoli combattenti che dovevano crescere in fretta, sempre più in fretta, per fronteggiare una guerra che ancora non c’era.
«Non l’ho deciso io.» mormorò Leliel. Aveva le ali tremanti e la schiena curva e la fronte che quasi sfiorava terra, e lacrime che le scorrevano sulle guance e colavano sulla pietra, eppure non risvegliò in lui neppure un barlume di pietà. «Si sono espressi tutti i Censori, tutte le Autorità... persino gli Antichi. È stato collegiale, non... non sono stata io.»
«Ti sei opposta?»
E sperò davvero, per un istante, che Leliel lo avesse fatto – s’illuse davvero che quel serafino affamato di gloria si fosse compromesso, lei che sapeva cosa fosse un’infanzia strappata e mille orrori vissuti troppo presto.
«Ti sei opposta, Leliel?»
Leliel rimase muta.
Colpevole.
 
*   *   *
 
Il dolore era una marea rossa che le esplodeva dentro. La sua stessa carne le si ribellava, straziata da sangue sbagliato, sfigurata da un’essenza marcita; è troppo presto, le aveva detto Eisheth con preoccupazione di madre e ghigno di demone, è troppo presto, amore mio. Non le era sembrato che stesse precisamente tentando di dissuaderla, quanto piuttosto di spingerla a farlo, perché se Eisheth l’aveva scelta – se non l’aveva eliminata, abbandonata, ignorata – era stato solo per noia. Quanto avrebbe potuto essere divertente, una ribelle codarda?
Avrebbe dovuto capirlo subito, Anane, che l’interesse di Eisheth chiedeva in cambio la vita – in un modo o nell’altro.
Ma era tardi, troppo tardi, e lei non sarebbe più stata Anane; anche se non avrebbe mutato nome, come invece aveva fatto un fratello codardo quanto lei, avrebbe perso sé stessa tra le dita di Eisheth. Anane era un cherubino immemore e incapace, era traditrice, era amica e sorella in nome di falsità donate come abbracci, ma non... non quello. Non un’essenza impazzita e un corpo che le si ribellava. Non un demone.
Anane era sempre Anane, ma non lo sarebbe più stata.
Savsa era diventato Michael ed era rimasto lo stesso.
Eisheth, senza dubbio, doveva trovare la cosa molto divertente.
 
È troppo presto, le aveva detto Eisheth, e Anane lo sapeva; come sapeva anche che, ignorando quell’avvertimento, stava solo seguendo le tracce che la madre aveva predisposto da tempo. Avvertì la schiena squarciarsi, abbozzi ossei che si formavano straziando la carne, ma lei li respinse nel nulla con un gemito. Troppo presto. Troppo presto per riuscire a controllare quel nuovo corpo. O troppo presto per affrontare quell'incontro?
Dumah, davanti a lei, mostrava il disgusto del genio costretto a confrontarsi con lo stolto: la piega appena contratta delle labbra, una ruga lieve sulla fronte. Aveva ancora potere su di lui, pensò, cercando la lucidità oltre il dolore che la travolgeva. Poteva ancora incrinare un’impassibilità che non era solo maschera, ma natura profonda; nel gelo di un animo perso tra incubi, lei era reale, concreta, importante. Era meraviglioso, scoprirlo.
Anche se quell’importanza si traduceva in disgusto.
Anche se avrebbe fatto male – qualsiasi cosa avesse scoperto.
«Dumah.» lo chiamò, piano. I denti troppo aguzzi le tagliarono le labbra rovinate, e altro sangue ustionante le si riversò in bocca, corrodendo carne già corrosa.
Le unghie le affondarono nei palmi. Avrebbe voluto avere qualcosa da stringere tra le mani, carta e inchiostro che aveva carezzato e lisciato troppe volte per poterle contare, ricordi che le dessero forza; ma il suo sangue li avrebbe corrosi in un istante, distruggendo quello che – sperava implorava pregava – non era stato solo finzione.
Eisheth l’avrebbe ingannata senza una goccia di rimorso; Savsa, che mentiva anche a sé stesso, avrebbe potuto superare persino la madre.
Lo sapeva, quando era iniziato tutto, ed aveva accettato comunque: aveva sacrificato tutto, tutti, sull’altare di qualcosa che poteva essere solo l’inganno di un demone annoiato e un caduto ossessionato. Forse, in fondo, anche lei era stata tanto annoiata e ossessionata da accettare un gioco che gridava sconfitta sin dal principio.
Aveva pensato che ne valesse comunque la pena; giunta al termine, troppi legami recisi urlavano il loro dolore più di un corpo in mutamento.
«Eisheth fingerà di non essere contenta, quando tornerò da lei.»
Forzò la voce in una risata stridula. Dumah, senza guardarla negli occhi, storse le labbra sottili in una smorfia più accentuata – aveva fiutato il suo dolore, la sua debolezza? Il terrore che la annichiliva?
Non ho nulla da perdere, si era detta nell’accettare l’inganno e il tradimento, ma poi aveva scoperto che sì, aveva tanto troppo da perdere, una sorella e un maestro e un mondo odiato che perlomeno risultava familiare. Sé stessa. Una Anane che non fosse un corpo mostruoso, devastato, denti troppo aguzzi che le tagliavano le labbra quando parlava e artigli che le squarciavano i palmi e sangue che la corrodeva da dentro; una Anane che non fosse allucinata ossessionata confusa, preda del ghigno predatore di una madre crudele.
Era andata avanti comunque, in quel gioco che gridava sconfitta sin dal principio, perché era troppo tardi, e a rifiutarsi non avrebbe guadagnato nulla e perso ogni cosa.
«Ma ha rispettato il patto. Incredibile, sì?» continuò, con un’altra risata stridula «Sono un demone, ora.»
No, sei ancora in mutamento, si era quasi aspettata che la correggesse; ma non era più abbastanza importante da meritarsi la sua voce. Forse non lo era mai stata – non davvero.
«Sono un demone, e lei mi ha condotta sino a te.»
Tacque, attendendo una risposta – un barlume di comprensione, un segno, un sospiro – senza neppure sperarci davvero. Si sentiva tesa; tesa come non era neppure con Eisheth. Come non era stata neppure di fronte agli orrori più atroci, forse, perché lei era egoista e codarda e abbastanza realistica da ammetterlo: era più importante la sua incertezza dolorosa e lacerante, piuttosto che i danni inflitti ad un altro. Aveva visto sua madre strappare unghie e spezzare ossa e lacerare essenze, e Michael infuriarsi sino a devastare ogni cosa, e gli occhi di quella serpe di Shoftiel spegnersi mentre lei stessa ne estingueva la vita; ma non c’era nulla, nulla che l’avesse fatta sentire così esposta vulnerabile angosciata come quelle labbra sottilissime e mute che vomitavano solo silenzio.
C’erano fronde che stormivano, da qualche parte, sussurri di vento e richiami di bestie, lontanissimi; ma il nulla pioveva da quella bocca troppo desiderata e la assordava. Non valeva neppure una parola, lei? Lei che aveva sacrificato ogni cosa. Lei che si era votata a lui, con la devozione malata di un angelo per il suo Dio. Lei che portava il suo marchio dentro, più a fondo della carne, fenditura rossa corrotta spaventosa in un’essenza che avrebbe dovuto essere candida – e forse per questo era stato tanto facile avvicinarsi ad Amitiel, cherubini dal dolore affine e da un futuro che era opposto e uguale, ma aveva sacrificato persino lei. Persino quel legame unico e prezioso. Persino l’unico frammento di sincerità in un’esistenza di menzogne.
E lui rimaneva muto, ancora.
«Quello che mi hai scritto...»
Accuse. Sentenze.
La dimostrazione che ancora, di lei, gli importava qualcosa – fosse anche solo per l’odio.
«...non farmelo chiedere, Dumah. Rispondimi e basta.»
Era sempre stata una codarda, in fondo: non aveva il coraggio di dar voce al suo terrore più profondo.
Dumah non le sorrise – sarebbe stata una crudeltà dolcissima più adatta ad Eisheth, quella, o a Michael. Il signore degli incubi, invece, tornò a distendere il viso in un gelido distacco: non c’era più nulla che valesse una dimostrazione d’interesse.
Sembrava che Naamah, oltre all’appellativo di figlio e al piacere di mille amplessi, gli avesse trasmesso anche l’indifferenza verso il mondo – entrambi troppo persi la propria realtà irreale, sogni e incubi e il futuro che si svelava a occhi ciechi.
Eppure, nel vedere le labbra sottili di Dumah muoversi su quel volto impassibile, scoprì di valere almeno quella risposta – la più temuta. La più prevedibile, in fondo.
«Io non ti ho mai scritto nulla.»
Avrebbe preferito il silenzio.




***
Angolo autrice
Eccomi. Sono finalmente tornata, per tirare le fila di questa storia e fare un po' di chiarezza su tutto ciò che è successo e deve ancora succedere.
Grazie infinite a chi ha seguito la storia e, spero, tornerà a seguirla.
E grazie anche a chi mi fa stare finalmente bene e mi incoraggia, dandomi di nuovo la forza di scrivere.

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Capitolo 32
*** 31. Tramonto ***


Capitolo 31 – Tramonto





Si passò una mano tra i capelli, gettando all’indietro le ciocche – non aveva avuto tempo di raccoglierli, risvegliata a fatica dai richiami lontani di Ramiel, strappata ad un sogno che sapeva di freddo e di voci. Le era rimasto incollato un bagliore rosso alle palpebre, mentre la Presenza svaniva lasciando l’aria vuota e le compagne varcavano l’uscita con le sacche annodate ai polsi e le trecce ad ondeggiare sulle spalle; e forse quel rosso erano i capelli di Ramiel che si allontanava in fretta senza aspettarla, forse la Presenza che ancora l’accarezzava, o forse l’eco di un sogno.



Socchiude gli occhi.
Il sole, all’orizzonte, muore per rinascere ancora.
Come me. Come noi.



La pietra non aveva temperatura, sotto il suo corpo nudo. Le fiamme della Presenza erano un tepore rossastro che l’accarezzava, richiamando alla mente ricordi del prima – prima di Leliel. Prima di ali quasi bianche che non le dolevano più per il peso del corpo sopra di esse. Prima di pareti spoglie, isolate, che non si tingevano mai del colore rassicurante della Presenza; prima del silenzio, della solitudine, di tempo infinito a fissare il vuoto senza poter dormire, rincorrendo angosce e pensieri.
Prima del presagio di come sarebbe stato sempre.



C’è l’eco di parole mai udite, nella sua mente, che sanno di promessa – o di minaccia.
Tornerò.
Fenice leggendaria che rinasce dalle ceneri.



C’erano tante presenze, alla Via: un mare di essenze che si serravano in uno schema ordinato, s’intrecciavano, si allacciavano, e a lei sembrava di percepirle tutte su quella pelle nuova. Il Fuoco che ardeva lungo il perimetro: lingue rosse stagliate contro il candore degli edifici, carezza sfuggente e lontana. Fasce nere e azzurre a vigilarvi – i Guardiani come punti fermi, stabili, nella cinta un po’ vacillante dei Custodi. C’era un’essenza più incerta delle altre tra quei Custodi, tremante in quell’immobilità, instabile, afflitta; dava un po’ pena e un po’ inquietudine, nella sua fragilità angosciata, ed era... era Ridwan.
Allontanò le Percezioni da lui, quasi stesse abbassando di scatto lo sguardo, perché il tormento di Ridwan era solo uno dei tanti lasciti di qualcuno a cui, davvero, non voleva pensare.
Tornò a concentrarsi sullo schema che intuiva nella disposizione delle essenze: un circolo che si restringeva sempre di più in linee compatte, sino a lasciare un largo disco vuoto al centro della Via. C’erano essenze di qualsiasi tipo, tutte immobili al proprio posto, perfettamente inserite nell’intreccio ordinato, ed era impossibile stabilire chi avesse un ruolo e chi semplicemente fosse lì per assistere.
C’era chi, poi, aveva il ruolo di assistere: Cherubini dalla quinta classe alla settima, schierati sulla linea più interna dello schema, perché potessero vedere e percepire. Un anello rosso intervallato solo dalle ali candide degli insegnanti e da quelle, ancor più maestose, di un’Autorità e di un Censore – persino le due fasce più influenti rimanevano arretrate, senza sconfinare nel grande circolo libero.
Era l’altare, quello. La sede sacra del rito.
Il punto a cui si rivolgevano tutti gli sguardi e le Percezioni. Erano tanti, tantissimi, Ramiel accanto a lei e Raphael poco lontano e Cassiel che spiccava maestosa anche alla settima classe, e l’Autorità, il Censore, Nelchael, Ridwan, una marea di essenze immobili; tutti concentrati verso quel vuoto che presto si sarebbe colmato, in un rito tanto puro e luminoso che persino ai Cherubini era concesso di assistere. Doveva essere meraviglioso, e lei aveva un disperato bisogno di riempirsi la mente di meraviglia – di una luce che fosse riposante e non le ferisse gli occhi, di serenità, di gioia. Di qualcosa che riuscisse a zittire sogni e ricordi. Lo agognava come un umano avrebbe agognato l’aria tra acque stagnanti, perché altrimenti sarebbe morta, smarrita nella sua stessa mente – cercava un modo per respirare.
Si passò una mano tra i capelli, nervosamente. Sentiva l’aspettativa scorrerle addosso, incresparle la pelle in quella staticità pregna di attesa e di



silenzio. Sono tantissimi e sono candidi e sono frementi, attorno a lei, ma nessuno parla: hanno voce i gesti e gli sguardi, in quest’attimo sacro, perché già sanno e non c’è nulla da aggiungere.
Chi non sa, ad ogni modo, non può chiedere.



Il Fuoco si dissolse lentamente e lei si rizzò in piedi, spoglia e tremante – si poteva avere freddo in Paradiso?
Le mani della Custode furono gentili, nell’aiutarla a vestirsi; gli occhi di Leliel, due lame di gelo. Nulla di nuovo, pensò amara, seguendo l’insegnante fuori dal tempio; nulla di nuovo, si ripeté nel volare accanto a lei con ali per l’ultima volta macchiate di rosso, nulla di nuovo, nel librarsi sopra lo Specchio, nulla di nuovo, nel discendere verso la Piazza e il nastro bianco del Confine. Nulla di nuovo, ripeté ancora, guardandosi attorno: le espressioni tese di qualche allievo venuto per assistere, la serietà degli adulti, lo sguardo vigile del Censore – capelli rossi e occhi verdi e un viso che non aveva mai dimenticato, mai, da quando le era penetrato a forza nella mente. E Leliel, gelida, quasi non fosse neppure interessata. Nulla di nuovo, il Censore si fece da parte e lei camminò verso il Confine e Leliel restò a fissarla impassibile. Nulla di nuovo, lasciò scivolare le vesti sulla riva e mosse un passo nell’essenza candida, tiepida, tremando per il gelo di quello sguardo. Nulla di nuovo, nulla di nuovo, e pensarlo non faceva neppure troppo male, perché



perché è preparata. È preparata al rischio, al dolore, alla morte del sole – alla propria. Il suo ultimo tramonto è un’esplosione di rosso che riecheggia sangue e piume, e labbra agognate morse baciate: il cielo è lo specchio del peccato, in quel momento.
La terra, rifugio di incubi.



Si passò ancora la mano tra i capelli sciolti. Ramiel, notandolo, estrasse un pettine dalla sacca e glielo porse in silenzio. Aveva dita pallide e sottili, Ramiel, troppo simili a quelle di Anane – e Anane aveva stretto un pettine uguale a quello, un tempo.
Ricordò i denti candidi che scorrevano tra ricci biondi, e poi anche tra le onde nere dei suoi capelli.
Ricordò che anche Sachiel l’aveva pettinata, talvolta, con mani tiepide e attente.
Ricordò altre mani – mani gelide, crudeli, che si erano immerse tra le sue ciocche. Ricordò di come, in un punto, non vi fosse più nulla da toccare: solo cute rovinata e fili secchi, sterili, morti. Il tocco di Sachiel sulla pelle abrasa e nuda della nuca, il suo sguardo terrorizzato nello scoprirlo.
Lo sguardo di Sachiel. Terrorizzato. Azzurro. Vacuo. Non perderti, resta con me – una preghiera che non sapeva più chi dovesse rivolgere a chi, perché entrambe avevano incubi e mostri a portarle via.
Non si accorse di avere gli occhi lucidi e le ali tremanti – come non si accorse neppure che Ramiel aveva ritratto la mano, o che Raphael la fissava da lontano con feroce diffidenza, o che Nelchael si era fatto all’improvviso più vicino e più vigile.
Non c’era più niente attorno a lei, dentro di lei, se non un grumo nero di



angoscia. Le blocca la gola e non la lascia respirare, e si sente soffocare, soffocare, soffocare.
Ci sono voci che mormorano parole in una lingua sconosciuta, come una cantilena o una preghiera. A lei sembra quasi di comprenderle, quasi fossero i sussurri antichi, atavici, che l’hanno cullata nel ventre di sua madre; è ciò che le hanno ripetuto per tutta la vita, in fondo – due volte.
Leggi.
Obblighi.
Divieti.
È qualcosa che è già preparata a tradire – e la consapevolezza, ancora, le toglie il respiro.
Eppure si lascia cullare da quella cantilena come ha già fatto un tempo, perché è la sua stessa natura che la chiama e la seduce, suoni e parole che non deve imparare ma solo ricordare: è nata per questo e la sua mente vi si modella, docile, finalmente pronta.
È la sua essenza, un futuro già impresso nella memoria, il suo istinto che la spinge verso qualcosa che coglie senza comprendere davvero. È ciò che dev’essere – ciò che è, nonostante le menzogne e il tradimento. Oltre spoglie mortali e una vita troppo breve, la sua natura la chiama a sé e lei non può sottrarvisi.
Il grumo lentamente si scioglie e lei, infine, sente che è



il momento.
L’acqua – essenza – le lambì la pelle, mentre avanzava lungo il greto sabbioso: piedi, caviglie, polpacci. Onde lievi, sottili, che risalivano lente a sfiorarle la carne nuda – cosce. Ventre. Piume.

Il tocco tiepido della corrente era una carezza morbida che sembrava portarla con sé. La stanchezza le strisciava addosso: il desiderio di chiudere gli occhi, di lasciarsi cullare dal mormorio del Confine, abbandonarsi al corso dell’acqua e divenirne parte, forse – parte di quel moto perenne che prometteva pace e silenzio e nessuna cosa incredibile che le risuonasse nella testa.
Sino a sentirti distante, l’aveva istruita Leliel. Sino a sentirti sul punto di smarrirti. Non oltre. Ma sarebbe stato tanto semplice immergersi ancora e perdersi, con le membra intorpidite e il capo greve; perché fermarsi? La sua mente obnubilata annaspava, cercando un motivo, un richiamo che la trattenesse, e–
e lo incontrò.
Siamo legate. Fili sottili a strattonarla. Siamo legate, lo sai. A impedirle di perdersi.
Si fermò, con il liquido candido che le lambiva i fianchi, distendendo le ali perché tutti potessero osservarle: sprazzi rossi, piume lattee, l’attaccatura ch’era ormai pelle integra. Tremavano, nello sforzo di opporsi alla stanchezza e all’acqua, ma anche il dolore delle membra esauste le giungeva attutito.
Forse gli astanti avrebbero interpretato quel fremito come un segno d’agitazione, o forse avrebbero potuto leggerle dentro e giungere a comprendere – comprendere tutto. La stanchezza, lo stordimento, la distanza. La luce che sembrava troppo intensa e accecante, ai suoi occhi affaticati. Forse, pensò distrattamente, le avrebbero letto tanto a fondo da vedere anche



il peccato. La pece di piume taglienti gliel’ha incollato addosso e la sua pelle ancora ne porta il ricordo – ha brividi gelidi, nella memoria, e tocchi tiepidi nei suoi sogni. Madre è sembrata sempre un po’ strana e guardinga, nelle ultime notti, come se avesse intuito qualcosa.
Nei sogni madre ha capelli di luna e sguardo di pazza, ma ora che è lì viva e reale le ciocche candide sembrano grigie. Gli occhi, invece, restano viola e folli come sono sempre apparsi – colmi di stanchezza angoscia conflitto. E se quegli specchi di delirio la scrutassero tanto a fondo da rivelare il peccato?
Un uomo sconosciuto sta accanto a madre e le sfiora un braccio in silenzio – non mormora la litania ipnotica che accompagna il rito, non la culla con parole cantilenanti. Madre la fissa ancora con i suoi occhi folli e muove le labbra in una domanda muta – sei pronta?
Non preoccuparti, sillaba ancora madre. Andrà bene.
Lei non è certa che il rito permetta certe rassicurazioni – certe menzogne.
Ma non ha tempo di indugiare in quel pensiero, perché giunge



il Fuoco.
La staticità s’increspò in un’irrequietezza trattenuta a fatica, nel silenzio si diffusero vaghi fruscii di piume. Il grumo che Amitiel sentiva in gola divenne ancor più soffocante, o forse fu l’aria stessa a farsi pesante e irrespirabile, condensata in tempo: la poteva sentire addosso, quella dimensione sconosciuta, che scorreva lenta lasciando tracce graffianti sulla pelle. Il Paradiso conosceva il tempo ed era come la stanchezza di un corpo sempre più debole, come l’urgenza di acqua a dissetare membra aride, come l’angoscia di una vita troppo breve che scivolava tra le dita. Nel rito più luminoso, nell’istante più sacro, gli Angeli si scoprivano fragili e umani.
E il Fuoco nacque in lingue candide e vermiglie, mutevoli come il cielo del Mediano.
Prima un semplice sospiro bianco che serpeggiò come nebbia, minuscolo al centro del grande spazio libero; poi un altro e un altro ancora, e lentamente le vampe si elevarono al cielo, solenni, maestose. Mille toni di rosso sfidavano il candore, tingendo le fiamme e poi sciogliendosi nel bianco, in un flusso di colori inarrestabile.
Sembravano piume di adulti e di infanti, materia fatta essenza, un’esistenza intera riassunta in quelle sfumature.
Sembravano fiotti di sangue mortale.
Sembravano



il cielo al tramonto.
Il sole morente richiama parole perdute, vecchie promesse, un destino temuto e agognato – il sole muore. Come me, come noi. È quasi il momento. Non sono sicura di... non ti riconosco più, Ishild. È umano avere paura.
È umano avere paura – non le è più concesso. E guarda il tramonto, allora, per non dover guardare occhi impavidi e folli: nell’agonia di un astro agonizzante, trova lo specchio di un’esistenza e la rassicurazione di non essere sola.
Fiamme tiepide sfiorano il suo corpo nudo, delicate e dolcissime: è madre che allunga dita impalpabili ad accarezzarla – è la prima e unica volta in cui le sarà mai concesso il tocco materno, questa. Una donna sconosciuta è morta tra spasmi e sangue mentre lei le scendeva tra le cosce, e un’altra con capelli di luna e sguardo di pazza è sempre stata un fantasma perso nei suoi sogni; e dopo, lo sa, non ci sarà più neppure uno spettro da chiamare madre.
Assapora quel tocco come un infante assetato d’affetto, unica consolazione mentre gli ultimi raggi del sole scompaiono oltre la collina e la litania si fa più intensa – più intensa, più intensa, più intensa, sente vibrare dentro quella cantilena incomprensibile e conosciuta. All’improvviso l’essenza dell’uomo estraneo si unisce al Fuoco e



dolore. Dolore, dolore, un’agonia che la risvegliò all’improvviso dal torpore e le scavò dentro. Avvertì le fiamme invaderle il corpo e bruciare e... e c’era qualcosa che affondava artigli nel suo ventre, il torace scosso da convulsioni violente, i muscoli contratti, vene squarciate che vomitavano sangue, sentiva... sentiva... dolore dolore dolore il Fuoco la stava mangiando, divorava ogni cosa e lei lo sentiva, lo sentiva che straziava le sue carni e lasciava vuoto dietro di sé, pelle tesa su qualcosa che ormai non esisteva più, sarebbe collassata su sé stessa senza più ossa a sostenerla e muscoli a farla muovere e organi a gestire l’essenza e-
e-
e-
e la schiena, le ali, era possibile che in quel tormento qualcosa facesse ancor più male? Sì, sì, era possibile, le ali tremavano e si ripiegavano su sé stesse e c’erano membrane tese allo spasimo, sangue che colava tra le piume, male male male male male male neppure il sangue di demone era stato tanto atroce e lei urlava, urlava, le doleva la gola per la violenza delle sue grida, ma poi... poi il sangue le invase la bocca e lei non ebbe più nulla, nel petto, che potesse raccogliere l’aria, il Fuoco si era mangiato anche i polmoni, erano urla mute che le risuonavano nella testa e... e si ritrovò in ginocchio a pregare che quell’agonia terminasse, con l’acqua che le invadeva gli occhi la gola il corpo straziato, ed era acqua rossa, acqua rossa per quegli ultimi brandelli d’infanzia che le venivano strappati a forza, faceva male ma mancava poco, mancava poco vero? A vederlo da fuori non era mai stato tanto lungo né tanto agghiacciante, nessuno l’aveva avvertita che sarebbe stata un’agonia, voleva solo che finisse, vi prego, doveva finire subito o sarebbe impazzita. Ormai non era rimasto più niente, si sentiva un fantoccio d’ossa e pelle e le ali, le ali, le ali continuavano a ingrossarsi e lacerare le membrane e poi qualcosa dilaniò ancora la sua schiena e- e lo sentì, lo scheletro che cresceva e le vene la carne la pelle, sentì ogni cosa che si formava, serafino pensò, serafino, sei ali candide enormi gloriose che sarebbero state un onore, ma ancora ricordava cose... cose incredibili, c’era stato un tempo in cui non era stato necessaria quell’agonia per divenire adulti, cose incredibili, le sarebbero rimaste sei cicatrici bianche a ricordarle quel momento, cose incredibili, un Censore con capelli di fiamma e ghiaccio verde negli occhi e le sue dita di ragazza che gli sfioravano la schiena, cose incredibili, le aveva sentite quelle sei cicatrici, ma... cose incredibili, sulla schiena di Leliel non le aveva mai viste ed era



terrorizzante.
Si sente lacerare dentro – lì tra l’anima e il corpo, confine sottilissimo che non si può toccare eppure esiste. In qualche modo, in qualche mondo, lei sanguina d’un sangue immateriale. Il tormento accresce, l’agonia si fa infinita, il corpo... il corpo è puro dolore che inizia a non essere, ma non importa, le hanno detto, non importa, sta solo rinascendo.
Lentamente il mondo svanisce – madre e l’uomo estraneo e quella litania dolce. Il mondo rinasce bianco e accecante e la schiena, la schiena, la schiena...



Le ali si estesero.
Ali bianche, alle spalle di un serafino. Sotto lo sguardo di un’Autorità orgogliosa e un Censore all’improvviso sorridente.
Ali rosse, alle spalle di un nuovo nato. Sotto lo sguardo di Cherubini troppo immaturi e adulti inquieti – e sotto il velo del ricordo. In memorie che riaffioravano incerte.
Ed era lì, erano lì, con il sangue che scorreva rosso e bianco lungo le scapole. Cicatrici; cose incredibili. Il passato.
«È ferita.»
Era ferita, ferita, ferita. Lo sarebbe sempre stata, forse – lo sarebbero state entrambe, insieme, per motivi differenti ma nell’identica maniera. Con il passato davanti agli occhi.
Ed era lì, erano lì, mentre il Paradiso rifuggiva quell’aberrazione. Entrambe perse, entrambe folli.
E il serafino cadeva; e il cherubino tradiva.
Insieme.
Ricordando.

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Capitolo 33
*** 32. Aenor ***


Capitolo 32 – Aenor





Il Paradiso gridò.
Gridò nelle loro menti, nei loro corpi – uno stridio che si levava dalla terra stessa, dall’aria attorno a loro. Qualcuno cadde in ginocchio, altri si aggrapparono ai compagni per darsi forza. E ancora si udì l’orrore, lo strazio di un’altra ferita; l’essenza del Paradiso si squarciò attorno allo Specchio, lontano, e si ritrasse come corrosa.
Allo Specchio.
Allo Specchio.
«Sachiel.» mormorò Amitiel. Scorse nubi nere e dense, lì dove l’altopiano si volgeva alla pianura e brillava il nastro candido di un fiume. Lì dove i Cherubini divenivano adulti, o perivano consumati dalla loro stessa essenza, o...
Anane se n’era andata così, tra urla e terrore e i fremiti di una sacralità violata, mentre essenza nera come pece le si addensava attorno e lacerava il Paradiso per esiliarla, per strapparla a quel luogo e farla cadere giù, giù, giù verso l’orrore degli Sconsacrati.
«Sachiel.» mormorò ancora. Anane se n’era andata così, ma Sachiel... Sachiel... forse era solo un errore della sua mente, una delle troppe visioni che la assalivano nel sonno.
C’era un peso contro le sue gambe – Ramiel accasciata a terra, tremante. Il grido ancora la assordava, riecheggiava nella sua testa sempre più acuto. Faceva male. Faceva paura.
Oh, Sachiel, Sachiel, Sachiel...
Il peso contro le gambe si spostò. Qualcuno aveva sollevato Ramiel e la stava abbracciando. Raphael? Sì, Raphael, riconobbe al margine del campo visivo. Le sarebbe piaciuto che qualcuno abbracciasse anche lei. Magari Sachiel, che era sempre così tiepida e morbida e sapeva tenerla lontana dai deliri.
Ma Sachiel era al Confine, dove l’aria era oscura e densa. Nessuno tornava più per un abbraccio, dopo essere stato inghiottito dalla pece.
«Sachiel.»
Nessuno tornava più per sorridere e chiedere resta qui e pettinarle i capelli, e neanche per singhiozzare e sibilare commenti feroci e parlarle di cose incredibili, e neanche per farsi sfiorare le labbra in un bacio sbagliato. Nessuno tornava più per niente, mai, neppure in un milione di cicli, neppure dopo un miliardo di Fuochi. Non c’era ammenda per l’esilio.
«Sachiel.»
E Sachiel se n’era andata, andata, perché? Non aveva senso, non poteva essere, Sachiel era sempre stata pura, mai corrotta da pensieri immondi, mai sfiorata dalla minaccia della Caduta, mai sfregiata dall’orrore...
Mai?
Ricordi le oscuravano la vista e le opprimevano la mente, voci già udite nel sonno, sprazzi di colore, il cielo, tramonto, il vento sulla pelle, occhi, occhi azzurri occhi grigi occhi che la facevano tremare. Ishild, Ishild ripeteva qualcosa, ed era un sussurro familiare, era il richiamo di un corpo proibito. Ishild, Aenor, nomi che si intrecciavano in urla confuse, fuoco e litanie e dolore, dolore dentro, dolore dolore dolore, l’assenza che si spalancava dentro come fauci di mostro pronte a inghiottirla, no, non di nuovo, per favore non di nuovo, gelo dolore solitudine, Ishild, Ishild...
Si fece strada tra la folla, annaspando, singhiozzando, stordita dalle urla e dalle essenze impazzite, con un unico obiettivo in mente. Via. Via da qui.
Le ali dolevano per gli urti, ripiegate troppo contro la schiena, ma lei continuò a scansare e spingere e arrancare fino a giungere al limite del piazzale.
«Amitiel?»
Ridwan la chiamò, la trattenne per un braccio. Si aggrappò a lui, esausta, mentre il pianto le squassava il petto e l’angelo le cingeva la vita per sorreggerla.
«Voglio andare via.» singhiozzò «Ti prego.»
«Stai... stai tranquilla. Ti porto a riposare.»
Il cherubino sollevò lo sguardo implorante. Le dita si strinsero ancora contro la sua maglia.
«No. No, no, io... voglio andare via. Via di qui.»
Ridwan ricambiò lo sguardo, turbato.
«Non... Amitiel...»
«Ti prego

* * *

Faceva male.
Faceva freddo.
Affondò le unghie nel terreno, costringendo le braccia a sostenerla per inginocchiarsi, e scoprì che anche quel semplice gesto era dolore. Distese le ali e scoprì l’agonia. Nell’urlare scoprì l’orrore di una voce raschiante, uno sfregio all’udito; nell’aprire gli occhi, l’ustione di un pianto gelido. Scoprì le ombre e il freddo, il tocco della pioggia, la furia del tuoni. Il cielo piangeva e lei lo accompagnava. Assaporò i ricordi uno ad uno, carezze e tramonti e parole, assaporò un dolore incredulo e ingiusto, mentre il temporale si quietava e si affacciava il crepuscolo.
Cos’altro le avevano nascosto?
Volle quasi zittire quella domanda, perché non era lecita; ma poi ricordò di non avere più divieti e si cullò nei dubbi. Ormai era marcia, in fondo, e nessuno avrebbe potuto punirla per questo – era già successo. Era già caduta. Non c’era più niente che potessero fare.
Sorrise, sofferente e feroce; ma poi ripensò al Censore che le sussurrava cose incredibili, un passato che non ricordava, le labbra di Amitiel sulle sue e lo sguardo gelido di Leliel e non sorrise più. Ora ricordava, e ricordare faceva solo più male.
Forse, si disse, un Guardiano avrebbe avvertito la sua presenza corrotta e lei sarebbe morta, sfuggita a millenni di tenebra. Millenni – una parola strana, che non avrebbe mai dovuto riguardarla, ma vi scoprì un senso tutto nuovo.
Il tempo esisteva. Il tempo importava.
Il suo sarebbe finito presto.
Le dispiaceva solo di doversene andare da corrotta – no, non era vero. Le dispiaceva per Amitiel. Per sé stessa. Per Aenor e Ishild e tutto il dolore che l’aveva investita con ricordi confusi, il futuro che non c’era stato, i suoi rimpianti – aveva un sacco di rimpianti, lei. Una fascia viola attorno ai fianchi e un gruppo di Cherubini da guidare e Amitiel accanto, forse, Amitiel presente e viva senza più ombre incomprensibili. Quelle ombre ora avevano forma e nome, ma ormai era inutile saperlo, perché le cose incredibili sussurrate dal Censore si erano rivelate vere e l’avevano trascinata giù.
Giunse la notte, e con essa altra pioggia, e con essa altri rimpianti.
Sperò che quel Guardiano giungesse presto a porre fine all’agonia.
Ma giunsero ali nere, occhi grigi a fissarla dall’alto.
Scoprì il terrore.

* * *

Il bosco grondava ombre e pioggia sotto il cielo scuro di nubi, e il portale sembrava volerla richiamare in Paradiso con la sua luce tiepida; ma mentre le ultime fiamme si estinguevano, chiudendo il passaggio, lei già estendeva le Percezioni in una ricerca febbrile. Ignorò lo stridio dell’essenza di Ridwan e le flebili vite tra gli alberi e sospiri lontani di anime, perché lei voleva altro, lei voleva Sachiel. Sachiel, oh, Sachiel...
Ora che aveva compreso, che finalmente quelle voci nel sonno assumevano un senso. Ora che avrebbe potuto spiegarle. Ora Sachiel cadeva, senza preavviso, senza motivo. E se non fosse più riuscita a riconoscerla? Non sapeva neppure cosa cercare, perché la Caduta forse aveva mutato l’essenza di Sachiel, l’aveva corrotta sino a renderla irriconoscibile. Ma doveva trovarla, non importavano la Caduta e Ridwan che le urgeva di raggiungere i Guardiani e le ombre spaventose del Mediano, non importava nemmeno che tornata in Paradiso sarebbe stata punita, perché senza Sachiel non sarebbe importato più niente. Non lo poteva immaginare, un mondo senza Sachiel.
«Perché piangi, bambina?»
Sussultò per la voce improvvisa. Ridwan la spinse dietro di lui, protettivo, ma nessuno si mostrò davanti a loro. Le Percezioni non avvertivano nulla; lo sguardo si volse tutt’attorno per incontrare solo alberi e ombre.
Ma lei già sapeva, già immaginava i sussurri crudeli di quella voce conosciuta, il ghigno dolcissimo teso su zanne di mostro.
«Mostrati.» ordinò Ridwan, con voce tremante.
Quanto tempo sarebbe servito all’angelo per riaprire il passaggio verso il Paradiso? Troppo, si rese conto Amitiel, troppo per la rapidità con cui tutt’attorno si delineava una nuova presenza acida e dita immateriali si allungavano a sfiorarle l’essenza – ogni carezza una stilettata bruciante. Troppo per la minaccia che si faceva sempre più incombente. Eisheth era lì, la stava toccando, ma non riusciva a trovarla.
E all’improvviso urlò, mentre le sue ali premevano contro un petto bollente e braccia crudeli le cingevano i fianchi. Chiuse gli occhi e urlò e urlò e urlò mentre la sua schiena-no, il suo intero corpo ardeva, la sua intera essenza si dibatteva nel fuoco, la voce di Ridwan si unì alla sua e poi si zittì e allora lei urlò ancora, divincolandosi per sfuggire a quell’agonia, singhiozzando, implorando. Crollò a terra, ma il fuoco che la divorava non si spense e lei si accasciò, tremando, mordendosi le braccia per non urlare ancora. Neppure il tocco feroce di Michael era stato tanto intollerabile, neppure l’Espiazione.
La pioggia scivolava sul suo corpo, sciacquando il dolore con carezze fresche. Respiro dopo respiro, lentamente, l’agonia si acquietò fino a spegnersi. Lei strinse le ginocchia al petto e vi nasconde il viso per zittire i singhiozzi.
«Su, su, bambina. Va tutto bene.»
Dita bollenti le accarezzarono il capo, quasi materne. Un calore sopportabile, non un’agonia com’era stato quell’abbraccio – il demone stava contenendo il proprio potere. Non riuscì a sentirsene rassicurata.
«Sssh.» ripeté quella voce dolce «È passato.»
«Perché?» singhiozzò, ritraendosi. Eisheth le strinse i capelli e la forzò ad alzare il viso. Lei non aprì gli occhi, come in un’ultima flebile protesta, prima che il terrore ruggisse ancora per le labbra del demone accostate al suo orecchio.
«Perché sono molto scontenta, Aenor

* * *

«Sei tornata.»
La voce del caduto vibrava di gioia folle. Lei tentò di ritrarsi, ma si trovò bloccata sotto quello sguardo vittorioso, stretta da mani estranee. Agghiacciata dal terrore, non ebbe neppure la forza di implorare lasciami. Forse era per quello che sentiva così freddo, o forse per i Caduti tutt’attorno, per l’uomo chino su di lei.
«Sei tornata.»
Dita gelide salirono dalle spalle ad accarezzarle il volto, scostandole dalle guance ciocche bagnate e sporche di fango. La assalì il bisogno di piangere, perché quelle carezze la disgustavano, ma ricordava che invece in un altro tempo le aveva cercate come il sole. Quanto marcia doveva essere stata, per agognare una corruzione simile?
«Tranquilla.» le sussurrò. Aveva un tono così dolce da essere ridicolo, e allora lei rise appena, debolmente. Il caduto sembrò ignorarla. «Non temere. Andrà tutto bene, ora.»
Rise ancora – quasi un singhiozzo. Nel prima era andato tutto bene. Desiderò non aver mai udito le parole del Censore, non essersi mai interrogata su quelle cose incredibili, aver confessato tutto a Leliel quando ancora poteva. Ora sarebbe andato tutto male – era già andato tutto male.
Si lasciò scivolare di nuovo nel fango, con le ali premute sotto di sé e le palpebre serrate per non vedere.
Come sempre, aveva sbagliato tutto.
«Ti ricordi di me, Ishild?» bisbigliò Michael, senza smettere di accarezzarle il viso.
Lei pianse.

* * *

Spalancò le palpebre.
«Non...» gorgogliò a fatica. Ingoiò il sangue che le sporcava la bocca – si era morsa le braccia troppo a fondo. La pioggia le pulì le labbra. «Io non sono Aenor.»
«Lo sei stata.»
«So-» un singhiozzo le incrinò la voce «sono Ishild.»
«Sei stata anche lei.»
Eisheth rise e si inginocchiò accanto a lei. La morsa tra i suoi capelli si allentò in una carezza.
«Sempre così ingenua, bambina.»
Non capiva, non combaciava con i suoi ricordi, le stringeva il ventre in una morsa di dubbi e incertezze. Avrebbe voluto urlare. Domandare. Preoccuparsi di Ridwan.
Avrebbe voluto, davvero; ma Sachiel, ricordò, era più importante.
«Devo... devo trovare...»
«Più tardi, sì? Resta a farmi compagnia, bambina. Ho tanto da raccontarti.»
«Ma io devo...»
«Ho detto» il demone le strattonò i capelli per farla avvicinare, sino a posarle ancora le labbra all’orecchio «di restare. La tua puttana è caduta ad un soffio dai Guardiani e non è il luogo, ti assicuro, per riunioni familiari. Quando si sarà spostata, sarò più che felice di assistere al vostro lacrimevole incontro e alla reazione folle di mio figlio. Non ora.»
Michael era con Sachiel?
L’angoscia le strinse lo stomaco.
«Ti prego, io...»
«Oh, cara, cara Aenor. Sei adorabile quando supplichi.»
Si morse le labbra e ingoiò le lacrime. Non poteva sfuggire al demone, a quel potere bruciante che l’aveva fatta urlare e piangere – non osava sfuggire al demone. Si odiò per quella debolezza patetica.
«Non sono Aenor.» ripeté in un sussurro. Eisheth le sorrise, qualsiasi traccia d’irritazione già scomparsa dal suo viso, e le guidò il capo contro il proprio seno, stringendola al petto come avrebbe fatto una madre.
«Lo sei stata, bambina.» bisbigliò.
E iniziò a raccontare.

Amitiel avrebbe voluto negarsi e fuggire, ma c’era la voce di Eisheth a cullarla e guidarla verso un altro tempo, e lei scivolò indietro, indietro, indietro sino a quando il suo nome era un altro e socchiudeva gli occhi per guardare il sole. Si guardava allo specchio e aveva il cielo nello sguardo, grano nei capelli; si guardava al fianco e trovava un’altra sé.
«Ti chiamavi Aenor.»
Si chiamava Aenor, ma Aenor era doppia, Aenor era solo una metà.
Aenor mangiava, respirava, dormiva; ma certe notti, nei sogni, si affacciava la certezza di essere destinata ad altro. Glielo sussurrava una donna con lo sguardo quieto e due ali alla schiena, e l’appellativo di madre a riecheggiare tra le pieghe morbide del sonno. Le piaceva l’idea di avere una madre, almeno nei sogni, perché quella vera l’avevano uccisa lei e Ishild dibattendosi tra le sue cosce. Era una cosa piuttosto comune, le aveva spiegato madre – le spiegava molte cose. E così Aenor sapeva che una donna aveva pagato con la morte l’onore di aver nutrito lei e Ishild nel suo ventre, le avevano succhiato la vita l’energia fino a sfibrarla, perché non era semplice portarle dentro, no, non loro che erano destinate ad altro. A morire per rinascere diverse, senza né sogni né respiro né fame.
«Nata da una figlia degli uomini, come figlia degli uomini. Nata doppia, in un sistema creato per evitare i legami scomodi. Adorabile ironia, mia cara, sì?»
A morire per rinascere sole, senza né padre né madre né ricordi. Sorelle di tutti, figlie di nessuno – perché i Cherubini venivano creati.
I Cherubini nascevano, invece. L’essenza germogliava in un ventre di donna e si sviluppava lentamente, ancora troppo immatura per controllare un corpo inumano, incatenata alla debolezza di un involucro imperfetto. Maturava in spoglie mortali per abbandonarle, poi, nel momento di massimo vigore; per rinascere con un corpo simile e due squarci alla schiena, e nessuna memoria del prima. La Venuta cancellava la vergogna di sapersi quasi umani.
A Aenor non piaceva, l’idea di dimenticare tutto. Di dimenticare Ishild.
A Ishild l’idea di non essere umana piaceva troppo, invece, e contava i tramonti a quel giorno. Ma Ishild nascondeva passioni sporche, impure; rincorreva ombre e accarezzava piume nere.
«Oh, bambina, avresti dovuto abbandonare quell’umanità quand’eri in tempo; e invece guardarti ora. Bambina, bambina cara.»
E Aenor era gelosa.
Gelosa di Ishild, della sua compagnia sempre più rara, dei pensieri che non confidava. Gelosa delle notti trascorse altrove, mentre lei restava sola, sola, sola, e guardandosi al fianco non trovava più nessuno.
Gelosa di attenzione e baci e carezze e del piacere che riservava ad un altro, perché – che la perdonessaro, per favore, che la perdonassero – la voleva. Come un uomo avrebbe voluto una donna.
Ma erano due donne ed erano sorelle e presto non avrebbero ricordato più nulla.
Aenor non voleva dimenticare Ishild.
Aenor voleva restare umana, perché non riusciva a immaginare, davvero, un mondo senza sogni e senza sole e senza Ishild.
«Orgogliosa della tua umanità. Forse fu per questo che il Fuoco ti rifiutò, bambina.»
Ishild che si dissolveva tra le fiamme, accompagnata da una litania ipnotica.
E lei, con l’essenza protesa verso un altro luogo e la volontà a negarle un corpo immortale.
Lei ferita dentro, squarciata da quel conflitto.
Lei, incatenata a quelle spoglie.
Le fiamme non smisero di ardere.

«E poi?»
«Poi sei diventata Ishild.»

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Capitolo 34
*** 33. Ishild ***


Capitolo 33 – Ishild





Non l’ha udito arrivare.
Si è voltata all’ultimo istante, scorgendone la figura distorta sulle acque del torrente, appena prima che l’uomo giungesse a sfiorarla; ora indietreggia appena, con le braccia al petto e un’inquietudine violenta.
Non è la prima volta che lo vede – ma mai così vicino, mai a solo un soffio da lei. Mai più di una presenza evanescente, a scrutarla a distanza con occhi che riecheggiano qualcosa.
Occhi che riecheggiano qualcosa.
Riecheggiano qualcosa.
Qualcosa.
E allora lo fissa in silenzio, senza urlare, senza fuggire, cercando di dare un senso a quel qualcosa che riecheggia lontano.
Lui china il volto per ricambiare lo sguardo – è più alto degli uomini del paese, più alto persino di Artair, che sfiora gli stipiti con il capo. È più robusto, più grande, e quando le tende una mano lei si sente minuscola. Potrebbe stringerle il collo e strangolarla senza fatica, con quella mano.
E invece l’uomo le preme due dita sulle labbra, come a zittirla.
Lei sussulta.
È gelido.
«...Ishild.»

Piange.
Piange e singhiozza e urla e non capisce, non vuole credere, tra le dita si trova capelli strappati. Chiede perché. Chiede di lei. Vomita parole in una lingua estranea, la lingua di madre nei sogni, dubbi e domande e ancora singhiozzi e ancora urla.
Lui la guarda dall’alto, in silenzio.
«Dimmi che non è vero.» rantola con la voce arrochita. Solleva lo sguardo a fissarlo, implorante. «Dimmi che stai mentendo. Ti prego.»
L’uomo allunga una mano e le scosta i capelli dal viso, in una carezza lieve.
«Non posso, Ishild.»

«Morag, sì? Un nome grazioso, bambina.»
La donna la guarda con il volto inclinato di lato, come se il collo non riuscisse a sostenerlo.
«Preferisco Ishild.»
Risata – bocca spalancata. Zanne scoperte.
«Oh, Morag. Bambina.»
«...io sono Ishild.»
«Tu credi?»
Le si avvicina barcollando, quasi ondeggiasse nell’aria, sospinta dal vento. Tutto in quella donna sembra decadente – anche il passo. Anche il riso. Anche il respiro caldo, bollente, ad un soffio da lei.
Una decadenza spaventosa e ammaliante.
«Eppure» sibila il demone contro le sue labbra «non puoi dire d’essere la stessa di un tempo. Sei rinata. Sei diversa. Sì?»
Lei annaspa, trema sotto quello sguardo – barato oscuro che la inghiotte senza speranza. Vorrebbe solo chiudere gli occhi e coprirsi le orecchie, ma non può, perché quella voce è una nenia che incanta e incatena.
«Dici di essere Ishild.»
La donna sorride, dolcissima.
Spaventosa e ammaliante.
«Ma Ishild, bambina, non è che lo spettro di un’ossessione.»

Lei è ombra rincorsa negli incubi, vuoto che divora, figura evanescente.
Sa che lei esiste, che è importante. Riconosce il suo richiamo nella solitudine opprimente, ne cerca il volto tra i ricordi del prima – ma i ricordi del prima sono nulla. Memorie vuote. Solo le parole di Michael a narrare, spiegare, dipanare davanti a lei la trama di un passato che non rimembra.
Sa che lei esiste, che è importante, e che un giorno potrà riaverla e cadere insieme e non separarsene più.
Ma di lei non sa null’altro e annaspa nell’ignoranza, nel silenzio di occhi grigi troppo distanti, cercando di dare un nome all’assenza.

«Mi ami?»
Michael aggrotta la fronte, stringe le labbra con irritazione. La mano, mentre scorre a pettinarle i capelli, ha un fremito.
Non risponde.
«Mi ami, Michael?»
Silenzio – ancora.
Lei gli appoggia la fronte contro un braccio a sospira.
«Perché non rispondi?»
«Cosa vuoi sentirti dire?»
La sua pelle è fredda, ma la sua voce di più.
Sempre così gelido. Così distante.
«Di certo mi hai amata, se sono qui. D’altronde non è stato il nostro amore a farmi rifiutare dal mio primo Fuoco? Non è stato perché tu mi hai toccata
Gli stringe il braccio, affonda le unghie nella carne per reclamare la sua attenzione. Lui la guarda dall’alto e non reagisce. Forse non se n’è neppure accorto, o forse la sta solo ignorando per non cedere alla furia. Non le piacerebbe se cedesse, immagina.
Continua comunque.
«Dici che la ferita mi aiuterà a ricordare, che ritrovare lei mi aiuterà a ricordare, quando il Fuoco mi avrà accettata. Che potrò tornare da te, eterna e immortale. Penso che... sì, penso che si possa definire amore, forse, questo tuo desiderio di avermi con te per sempre. Non credi, Michael? Eppure» storce le labbra in una smorfia «eppure trascorrono mesi, prima che tu torni da me. Né sembra costarti molto sforzo, mantenere puro il mio corpo.»
Lui resta a fissarla in silenzio, immobile, per un tempo che le pare infinito.
Istanti di stasi.
E poi sente la sua mano gelida contro il volto e il suono di un colpo e lei all’improvviso rovina a terra. Bruciore, sangue dal labbro spaccato – fa male.
Il caduto incombe su di lei, fremente di collera.
«Ti avevo detto di non parlare con Eisheth.»
Lei sorride, anche se il labbro rigurgita sangue. Ha voglia di piangere.
«Mi ami, Michael? O è solo ossessione?»
Michael le volta le spalle.

(rabbia silenzio solitudine.)
Non usi mai il mio nome. Eisheth a volte mi parla del prima. Mai il mio nome. Non capisco. Dove vai? Da Dumah. No, non andare. Per favore. Per favore, resta. (silenzio.) Mai il mio nome. Mai il mio nome. Ti prego, parlami di lei. Parlami del prima. Ci sono cose, del prima, che potrebbero non piacerti. Ma io voglio sapere. Ti prego. No, non andare. Resta. Resta... (rabbia silenzio solitudine dubbi.)
Non usi mai il mio nome. Mai il mio nome. Io sono Ishild, non sono uno spettro. Sono qui, perché non mi guardi? Perché non mi parli? (silenzio.) Ti manca mai il Paradiso? Voglio essere l’unica a mancarti. Solo io. Dimmi che sono l’unica, dimmi che sono importante. Dimmi che mi ami.
(rabbia silenzio solitudine dubbi terrore.)
E se non ricordassi? E se non la riconoscessi? E se- hai paura. ...sì. Stringimi, ho paura. Mi disprezzi, vero? Sono sempre così umana, lo so. Non li tradirai. Resterai con loro. Non... no, non dire questo, non dirlo, ho bisogno di sapere che ci sei, che mi aspetterai, avevi ragione tu non avrei mai dovuto ascoltare Eisheth mi sono venuti tutti questi dubbi ma ti prego non dire così, sto crollando non vedi? Ho bisogno di te. Ho bisogno di te. Li temi. Li temi a tal punto che non oserai. No, no no no no, no, non sono codarda, non sono una di loro, non disprezzarmi, non sono... Dimostralo.

Socchiude gli occhi.
Il sole, all’orizzonte, muore per rinascere ancora.
Come me. Come noi.


«Povera, povera cara. Povera sciocca.» sussurrò Eisheth, stringendola contro il proprio petto. Le accarezzò le guance, si bagnò le dita delle sue lacrime. «Fa male, sì? Sapere di essere stata ingannata, usata, tradita. Sapere che qualcuno ha voluto sibilarti menzogne, avvelenarti la mente. È davvero crudele, bambina, sì? Così sola, confusa, disperatamente affamata di attenzioni. E lui è giunto ad abbracciarti, bambina, bambina sciocca...» strusciò le labbra contro i suoi capelli «solo per strapparti le ali.»

 * * *

Dita di ghiaccio cercavano le sue labbra, gli zigomi, il groviglio dei capelli. Le percorrrevano il volto come a voler ritrovare forme conosciute e riecheggiare il passato, ribadire un possesso.
«Non piangere.» bisbigliò il caduto «Va tutto bene, Ishild, ora va tutto bene.»
Le baciò le gote, si bagnò le labbra delle sue lacrime.
Fece male.
Fece schifo.
Lei voltò il viso di scatto per sottrarsi a quel tocco. Pregò che la pioggia lavasse la vergogna e il disgusto, ma dalle gocce ottenne solo altro gelo, brividi di freddo a scuoterle il corpo ancora nudo – un freddo che veniva da dentro e non se ne sarebbe più andato, perché era la sua stessa essenza ad agonizzare nel ghiaccio.
Se solo non avesse ascoltato il Censore, se solo avesse ignorato quelle cose incredibili – Cherubini nati umani e madri e unioni fertili e schiene senza squarci e basta per favore basta. Avrebbe voluto cancellare ogni parola perché era troppo, troppo da assimilare, troppo da sostenere. Portava alla follia. Alla Caduta.
E lei era caduta, infatti. Con un altro dannato ad attenderla.
Se solo da umana non si fosse lasciata corrompere.
«Ishild, non mi riconosci? Non ricordi?»
Sì, ricordava – grazie al Censore e all'essenza sconvolta dal Fuoco e a un bacio che aveva risvegliato troppo. Ricordava e si odiava.
«Lasciami in pace.»
Ricordava e lo odiava.
«Ishild...»
Lo sguardo dello sconsacrato era dolore confuso che le colava addosso. Avrebbe voluto rallegrarsene, ma i singhiozzi continuarono a violarle le labbra, i rimpianti non smisero di stringerle la gola. L'angoscia minacciava di non concederle mai tregua, indifferente persino alla stanchezza opprimente.
«Io sono Sachiel. Ishild non esiste più.» lasciò che le ali si accasciassero attorno al busto, esausta, sottraendo la pelle nuda agli sguardi «Lasciami in pace, Michael.»
Lui le sorrise con una malinconia dolce, delicata quanto la carezza che le sfiorò i capelli.
«Non posso.»

* * *

«Ci pensi, bambina? Sei stata nelle sue mani per la tua intera vita. La ferita che lui ha corrotto, lui ha infettato, senza che potesse mai chiudersi. Anane che ti ha condotta a lui. I tuoi pensieri impuri, i tuoi ricordi, l'attrazione verso quella puttana... lui lo sapeva, bambina. Lui ti ha condannata a marcire nel dolore e nel passato, perché sporcassi la puttana. È sempre stata lei, quella importante. Lei.» le baciò il capo «E di te, bambina, cosa rimane ora? Una bambola inutile, gettata nel fa-»
Eisheth tacque. Tornò a parlare dopo un istante, la voce inasprita e rivolta ad un altro.
«…la feccia è in fermento.»
Amitiel, ancora stretta al suo petto, avvertì le sue braccia farsi più calde.
«Sephon?»
«Siamo ancora celati.» rispose una voce maschile, dietro di loro. Il cherubino sussultò – non aveva percepito nessuno oltre ad Eisheth.
«Questo lo so, Sephon.»
Il demone la lasciò e si alzò in piedi di scatto, urtandole il viso con le gambe. Bruciore.
«Il Custode?»
«Ancora dov'era, inerme. Sto celando anche lui.»
«Vivo
Sibilo. Inquietudine.
L'aria che tornava bollente, carezze minacciose di un'essenza inquieta. La pioggia aveva smesso di cadere: nulla portava conforto dal calore, nulla lavava le lacrime.
«Tua figlia ha un... un certo attaccamento verso di lui. Ho pensato che-»
«Idiota.»
«Vado subi-»
«L'hanno trovato. Idiota!»
Amitiel portò le mani alle tempie – mal di testa. Nausea. Non capiva.
«Cosa...» mormorò, alzando lo sguardo su Eisheth.
La donna storse le labbra in una smorfia e sibilò: «Sono sempre più scontenta, bambina.»
«Eisheth,» s'intromise l'altro demone «aprono un passaggio. Ne arrivano altri.»
«Quella puttana non si sposta. Vogliono farsi ammazzare?»
Quella puttana.
Sachiel.
Amitiel fece forza con le gambe e si rizzò lentamente, percependo ogni muscolo rigido per l'essenza ancora sconvolta. Si aggrappò ad un braccio di Eisheth. Il demone arricciò ancora le labbra, come infastidita, ma da vicino la sua smorfia si rivelava quasi un ghigno.
«Sì, bambina, vieni anche tu. Sarà divertente.»

* * *

«...Khamiel?»
«Spostati, Liwet. Voglio gli Arcangeli.»
«Ci è permesso recuperare i nuovi Ca- ah!»

Successe tutto molto in fretta. L'urlo si levò mentre ancora sembrava riecheggiare il colpo, poi qualcosa sbatté contro una superficie dura e cadde a terra – no, non qualcosa. Qualcuno. Ma nel momento in cui lo realizzò già risuonavano altre voci, ringhi, gorgogli rauchi, e Michael era ritto davanti a lei con le ali tese.
«Cosa volete?»
«Il cherubino.»
«È adulta, Guardiano. Sono certo che tu sappia contare sei ali.»
Una sagoma si mosse verso Michael, ma prima ancora che lei riuscisse a distinguerla c'era stato un altro colpo sordo, membra contrapposte, un ringhio di rabbia a vibrare nell'aria. Altri due arcangeli si erano affiancati a Michael per fermare il Guardiano: una aveva ali nere come ombre e un viso sconosciuto, l'altro piume bianche e capelli color sabbia e una mano sulla spalla di Khamiel – Gabriel, lo riconobbe, Gabriel che tante volte aveva salutato nella luce, in Paradiso. Khamiel ancora ringhiava, trattenuto dal caduto a lei estraneo e dall'arcangelo candido, mentre dietro di lui altri Guardiani latravano parole roche – Simiel e Hagar e Ramiel e altri, altri che aveva intravisto nei viali, udito discutere alla Via, timbri dolorosamente familiari.
Sì, successe tutto molto in fretta, perché lei non avrebbe mai potuto avere i riflessi di un arcangelo e il gelo le rodeva le ossa, stordendola.
Ma i Guardiani erano giunti, finalmente, a porre fine all'agonia e al disgusto.

«Calmatevi.» tuonò Gabriel, sovrastando gli altri. Scese di nuovo il silenzio – neppure la pioggia scorreva più, persino il cielo era muto. Khamiel assecondò la stretta del compagno e si allontanò di un passo.
«Stiamo raccogliendo un nuovo caduto.» sibilò Michael, ancora fremente «Non vi è concesso intromettervi.»
«Attaccate i Cherubini, ora?» una voce femminile – Ramiel. «Così rispettate i patti?»
«Vedi cherubini?» rispose uno sconsacrato, gorgogliando una risata.
«È svanito nel nulla, quindi.»
Khamiel tornò a parlare, rauco e minaccioso. Sachiel si ritrasse, spaventata, ma nessun altro diede segno di timore. Non avevano conosciuto l'ira di Khamiel, forse? Non era un bene far arrabbiare Khamiel, no, no. Davvero. Dal basso vide la sua espressione distorta dalla furia e strisciò più indietro.
«Il cherubino è svanito nel nulla, e il Custode si è massacrato da solo.»
«Cosa farnetichi, Guardiano?» latrò una donna, l'arcangelo caduto che aveva fermato Khamiel.
Idioti. Idioti. Sarebbe stato solo peggio, a quel modo, più lungo e più atroce, e lei invece voleva solo chiudere gli occhi e trovare il nulla ad attenderla. Prima che la sua essenza si guastasse e le sue piume si annerissero e lei diventasse come loro, corrotta, crudele, ché il Paradiso a volte l'aveva nauseata e ferita ma era sempre meglio di loro, del loro marciume, del loro orrore, il Paradiso era l'alternativa migliore perché in Paradiso c'era luce e calore e c'era Amitiel e se non poteva avere il Paradiso allora non avrebbe avuto niente. Era meglio così, davvero, era meglio morire che corrompersi, restare incatenata a quel caduto agghiacciante, macerare nei rimpianti e nell'orrore e nella vergogna di ciò che aveva ricordato, ciò che era successo, ciò che aveva fatto.
Che si scontrassero e basta, senza logorarsi con parole che lei capiva solo in parte, troppo angosciata e stordita. Che facessero schioccare i colpi e risuonare le grida, e che la uccidessero, pregava, che la uccidessero in fretta.

«Gabriel, non collaborano.» ringhiò Khamiel.
L'altro, in risposta, ritirò la mano dalla sua spalla.

Di nuovo, successe tutto molto in fretta.






***
Angolo autrice
Piano piano si chiudono le fila, ma come vedete, l'azione non è finita! *ride malefica*
Grazie mille a chi mi segue. Prima o poi riuscirò a rimettermi in pari con le risposte alle recensioni, non mi aspettavo davvero di riceverne così tante!
Alla prossima (:

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Capitolo 35
*** 34. Sangue ***


Capitolo 34 – Sangue





«Portala via.»
Michael ringhiò l'ordine mentre già le dita di Khamiel scattavano verso la sua gola, le unghie irrigidite simili ad artigli. La donna accanto a lui obbedì, ma nello scatto per raggiungere Sachiel si arrestò bruscamente.
Sachiel vide il suo volto distorto dalla furia, le ali macchiate di bianco quando si voltò. C'era Gabriel dietro la donna, con la mano ferita dalle sue piume taglienti, e quella ringhiò di rabbia e dolore nel venire sporcata ancora dal suo sangue. Anche Michael latrò un verso ferino, da qualche parte – non era più di fronte a lei, rimanevano solo gocce nere a divorare la terra. Altre grida, voci conosciute mischiate a timbri estranei. Essenze violente che si mordevano e respingevano e turbinavano, stridevano in quella dimensione a cui non appartenevano, e lei le percepiva tutte con quel nuovo corpo, ma era troppo, la opprimeva, la stordiva.
Si portò le mani al capo.
La donna tornò all'improvviso vicino a lei, con i denti esposti in un ringhio bestiale e un occhio socchiuso, il volto deturpato da abrasioni. Le afferrò un braccio con una mano gelida, umida di sangue bollente, e la strattonò in piedi ignorando le sue urla.
Dolore.
Le sembrò che il proprio corpo dovesse ripiegarsi su sé stesso, incapace di sopportare oltre, e invece le gambe ressero, le ali si distesero per bilanciarla. Si strappò alla presa violenta dell'altra – no, la strapparono. Gabriel si avventò di nuovo sull'arcangelo, rovinarono entrambi a terra. Un urlo, lontano. Qualcosa le sfrecciò accanto, Sachiel sussultò e si ritrasse.
Il braccio bruciava.
La donna tentava di mettersi in ginocchio, si sosteneva con le braccia. Perdeva sangue dall'occhio socchiuso – no, da dove c'era stato l'occhio. Gabriel, da terra, vibrò un calcio.
Il tallone impattò contro il gomito della donna.
Schiocco.
Urlo.
La donna crollò di nuovo.
Sachiel si tastò il braccio, sibilò quando sangue gelido le bagnò le dita. Era ancora candida – le ali e il sangue e l'essenza – ma già l'esilio la rendeva ghiaccio e abiezione.
«Mihr!»
Un grido, un'essenza glaciale che si tendeva a proteggere quella della donna mentre Gabriel le gravava addosso, affondando gli artigli alla base delle sue ali. Mihr aveva il ventre a terra, il viso rivolto verso Sachiel a fissarla con un occhio solo, annebbiato di furia e dolore.
La furia si tramutò in trionfo. Gabriel era in piedi, a pochi passi di distanza, con il viso sanguinante e un altro caduto ad assalirlo.
E poi fu in piedi anche in Mihr, vicina, a stringerle di nuovo un braccio e ringhiare: «Andiamocene.»
Aveva una bella voce, notò Sachiel, anche se resa roca e bestiale dallo scontro – una di quelle voci create per cantare. Aenor aveva avuto una voce così, un tempo.
Chissà cos'era successo a Aenor.
Chissà cos'era successo a Ishild – perché lei era Sachiel, Sachiel, non Ishild. Ishild era persa, morta, forse rinata, ma non era lì. Non era lei.
Ishild forse avrebbe guardato quell'occhio furioso, quell'orbita vuota che rigurgitava sangue, e chinato il viso in un impeto di compassione e timore; avrebbe cercato Michael con lo sguardo per assicurarsi che stesse bene e disteso le ali per volare via, fuggire, aspettare che lui la raggiungesse.
Sachiel guardò quell'occhio furioso, quell'orbita vuota che rigurgitava sangue, e senza chinare il viso rispose.
«No.»


L'aria risuonava di colpi e ringhi, s'inspessiva di essenze rabbiose che tentavano di mordere, lacerare, annientare. Sangue scuro e candido si mescolava sul terreno spoglio dei colli, come a voler riflettere le nubi grigiastre che soffocavano il cielo.
Gli squarci urlavano ad ogni battito, ma Amitiel continuò a volare, instabile, frugando con lo sguardo lungo i pendii. Su un'altura due Guardiani affrontavano uno sconsacrato, gli artigliavano le ali per impedirgli di volare. Una sagoma nera stesa a terra, sulla cima di un altro colle; Eisheth e Sephon discesero per atterrarle accanto. Una fitta più intensa alla schiena le oscurò la vista. Si sentì precipitare per un istante, prima di riprendere quota a fatica, ma le ali erano rigide, l'essenza incontrollabile. Continuò a cercare – arcangeli e arcangeli e arcangeli, violenza volta a versare sangue, a indebolire e prosciugare l'essenza e uccidere, un Guardiano immobile sotto i colpi – ma scartò ogni viso, ogni voce, perché non importavano, non erano Sachiel. Avrebbero potuto morirle cento Guardiani davanti e non le sarebbe importato comunque. Un lampo biondo la fece sussultare, ma era solo un altro caduto. Stanchezza. Dolore.
Obbedì alle implorazioni degli squarci, si lasciò cadere accanto ai due demoni. Rovinò sulla cima della collina e batté le ginocchia contro il terreno – non riusciva a volare. Non riusciva neppure ad alzarsi in piedi, troppo stanca, troppo rigida, con l'essenza sconvolta dall'angoscia. Ma Sachiel, Sachiel...
Tentò di estendere le Percezioni, ma le essenze in lotta stridevano in quella dimensione estranea, la stordivano, e allora si morse le labbra per non urlare e le ritirò di nuovo. Sachiel, urlava ancora la sua mente, Sachiel, Sachiel, Sachiel, Sachiel era lì e lei non riusciva a trovarla. Un urlo strozzato le raschiò la gola, il verso di una bestia ferita. Si rialzò tremando.
«Ti cercavano, cherubino.» mormorò Liwet, stesa a terra. Amitiel la guardò di sfuggita. Non sembrava ferita: solo una chiazza grigiastra le macchiava uno zigomo, come se fosse stata colpita con violenza. Ma era la sua stessa essenza, angelo tra arcangeli, a proibirle lo scontro – e nessuno avrebbe perso tempo ad attaccarla.
E lei, cherubino, avrebbe voluto addentrarsi tra quei combattenti?
Scacciò quel pensiero.
«Non che fosse più di un pretesto, s'intende.» continuò l'angelo. Si mise a sedere. «E in un pessimo momento.»
«Si ritireranno a breve?» chiese Sephon, aiutandola ad alzarsi in piedi. Un altro che non avrebbe mai potuto avvicinarsi agli arcangeli in lotta.
«Non credo.»
«Credi male, Liwet.» gorgogliò Eisheth. Li superò per avvicinarsi il crinale e si voltò a guardarli con un ghigno. Nell'aria scura e densa, tuonante di urla, sembrava ancor più fosca. Pericolosa.
«Ci sono io, sì? A risolvere i problemi di mio figlio, a scacciare i cani. Come sempre.»
Eisheth ruotò su sé stessa, latrando una risata. Fissò Amitiel negli occhi e spalancò le braccia, come a voler abbracciare tutto quell'orrore, colpi e ringhi e sangue e Sachiel che non c'era.
«Divertiti, bambina.»


Balzò indietro, evitando le dita artigliate di Mihr. Atterrò più lontano di quanto avesse previsto, ma già l'arcangelo le era di nuovo di fronte, a colpirle il viso. Vide la mano avvicinarsi, le dita piegate, la parte dura del palmo a impattare contro il mento e spingerlo verso l'alto; non fu abbastanza pronta per reagire. I denti sbatterono, si trovò a guardare il cielo con la vista offuscata – un istante. Solo un istante. Poi il suo corpo reagì e abbassò il capo, smise di esporre il collo; le braccia si sollevarono a bloccare la mano di Mihr.
Unghie le graffiarono la gola. Un rivolo gelido iniziò a colare.
Scostò l'arto di lato, con la mano libera cercò una spalla e spinse, balzando ancora indietro. Quel nuovo corpo era rapido, scoprì, e forte. Mihr indietreggiò di un passo per la spinta, visibilmente affaticata per il sangue perso, stordita dal dolore – un'orbita cava, un braccio inerme lungo il fianco.
Non abbastanza rapido, però, né abbastanza forte: l'arcangelo la raggiunse in un istante e le afferrò un'ala, strattonando.
Sachiel urlò.
Un altro urlo risuonò, più violento del suo.


Una bestia ferita, un mostro furioso che ruggiva in cielo.
Amitiel riconobbe la voce, alzò lo sguardo di scatto per trovare la fonte del grido. Un caduto precipitava, stretto da un puro lercio di sangue corrotto. Piovevano stille nere.
Lei corse da quella parte per vedere meglio, incespicando sulle gambe tremanti; riuscì a scorgere i volti, così, Michael e Khamiel della sesta classe. Sachiel non ne sarebbe stata felice, pensò. Sachiel aveva paura di Khamiel.
L'arcangelo candido abbandonò l'altro e distese le ali, Michael impattò contro il terreno. Il grido si scurì in un ringhio. Khamiel atterrò accanto a lui e piegò un ginocchio, sollevò il piede. Le braccia del caduto s'incrociarono a proteggere il viso, ma il colpo giunse più in basso, a infierire sul fianco squarciato. Il caduto si voltò di lato, gravando su quello stesso fianco; piegò le gambe al ventre e slanciò un piede, quando Khamiel aveva appena ritirato il proprio. Il tallone impattò contro il ginocchio teso.
Khamiel non cadde. Si voltò per fronteggiare una donna, giunta alle sue spalle; dal cielo calarono altri Guardiani e Amitiel, in quella ferocia caotica, non riuscì più a distinguere nulla.
Michael urlò di nuovo.


L'ala, nel trovarsi all'improvviso libera dalla stretta feroce, sembrò quasi dolere di più. Sachiel socchiuse gli occhi, arricciò le labbra quando una scia gelida scivolò tra le piume. Di nuovo sola, di nuovo ignorata dagli arcangeli in lotta come un semplice ostacolo, un fantoccio inutile. Sollievo. Era bastato un grido di Michael perché Mihr scattasse a soccorrerlo – sperò che stessero massacrando entrambi.
Forse anche il caduto che teneva impegnato Gabriel se n'era andato, perché l'essenza dell'arcangelo la investì con violenza. Voltò il capo, stupendosi di trovarlo all'improvviso accanto a sé.
Lui la guardava dall'alto, serio, con una ruga profonda a solcargli la fronte. Un braccio già flesso nell'istinto di colpire; eppure esitava. Sachiel ricambiò lo sguardo senza reagire, quasi sfidandolo, quasi chiedendogli perché indugiasse. Pensava a quando, talvolta, l'aveva accompagnata nella dimensione umana con gli altri Cherubini? O forse a quando l'aveva vista al fianco di Leliel, a quando anche lui era stato allievo dell'Autorità, a quanto l'insegnante avrebbe sofferto? O... la memoria del prima ricompose le schegge, restituendole l'immagine di Gabriel che attendeva il rogo di un corpo umano. L'aveva guardata così anche quel giorno, ricordò, con una ruga profonda a solcargli la fronte e la serietà nello sguardo.
Forse sì, ripensava a quando lei era rinata in Paradiso, guidata dalla sua essenza.
Ed esitava.
Mihr era lontana, ma presto sarebbe tornata da lei, per condurla via e condannarla a tornare Ishild; e allora lei sarebbe morta, morta dentro, lo sapeva, perché Ishild non esisteva più e c'era Sachiel al suo posto. Passare l'eternità con un caduto, a ricordare e rimpiangere e disgustarsi e marcire e rimpiangere ancora, e ripensare ad Amitiel, a Aenor, a Leliel e al Paradiso e alla luce e al calore... no. Sarebbe morta.
E Gabriel, ancora, esitava.
Lei gli sorrise, tremando. Serrò le palpebre e si riempì la mente di luce, di una carezza rara di Leliel, e degli occhi di Amitiel, delle labbra di Amitiel. Il rimpianto le strinse la gola.
Mi dispiace, avrebbe voluto urlare, e invece sussurrò altro.
«Uccidimi.»


«Là.» le sussurrò Liwet, giunta al suo fianco.
Amitiel seguì con lo sguardo la direzione del suo indice teso, scivolò lungo il pendio di un altro colle. Non vide nessuno.
«Là, in basso. Se è lei che cerchi.»
Scese ancora e scorse un lampo biondo, sagome bianche che si stagliavano contro la terra nera.
Il sollievo morì in un rantolo di terrore.
Sforzò le ali rigide, sentì gli squarci urlare e il sangue colare lungo la schiena, dolore, le ginocchia sbatterono a terra, portò le mani davanti al viso nel crollare. Dolore. Terrore. Singhiozzò, l'odore di terra bagnata le invase le narici. Si rialzò, incespicò lungo il pendio prima che le ali riuscissero a tendersi di nuovo, le mosse frenetica e con un grido strozzato si sollevò.
Il lampo biondo era ancora là, ma le sagome bianche erano troppe, non sei ali ma di più, troppe, troppe ali, e una fascia nera e altro bianco – fiumi, pozze che stagnavano a terra. Doveva avere la gola squarciata, le ali, tutto il corpo nudo abbandonato contro il Guardiano, perdeva troppo sangue, la stava uccidendo, la stava uccidendo e Sachiel non reagiva. Amitiel rovinò ancora sul terreno, sangue nero le macchiò una mano. Singhiozzando si lasciò cadere, altro gelo a bruciarla, grida troppo vicine. La risata di Eisheth. Rialzò lo sguardo e Sachiel era lì, ad un soffio, avrebbe potuto correre da lei, era lì, lì, venti passi forse? Sì, venti passi, sarebbero bastati venti passi per raggiungerla, poteva vedere il suo profilo, le palpebre strette, le labbra socchiuse in un gemito, la pelle nuda sporca di terra, e le mani del Guardiano che la sorreggevano mentre la sua gola vomitava sangue, e il ventre e le ali e... e Sachiel non reagiva, restava lì a morire, a farsi prosciugare il sangue e l'essenza, Sachiel, Sachiel, Sachiel Sachiel Sachiel Sachiel...
Urlò. Sachiel spalancò le palpebre, voltò il capo verso di lei con il viso distorto dall'agonia. Anche Michael urlò, rabbioso, da qualche parte che era troppo troppo troppo vicina. Eisheth non rideva più. No, sillabò Sachiel, ma dalle labbra le uscì solo un gorgoglio soffocato dal sangue. Aveva lo sguardo un po' perso, annegato nel dolore. Andava via.
Anche lei era andata via, pensò Amitiel, sì, anche lei, ma Sachiel era sempre riuscita a riportarla indietro e si erano strette l'una contro l'altra, ossa e carne morbida e calore, come aggrappandosi alla vita. Anche lei poteva riportare indietro Sachiel, sì, anche lei.
Si mise in ginocchio, sporca di sangue e terra, e Sachiel gorgogliò ancora tra le urla troppo vicine. Anche lei poteva, anche lei poteva, non era ancora tardi, anche lei pote-
Qualcuno le afferrò un braccio, strattonò per trascinarla in piedi.
«Via.» le ringhiò all'orecchio una voce familiare. Amitiel diede uno strattone nel senso opposto, verso Sachiel, e ancora l'altra gorgogliò qualcosa e la guardò con quella sua maschera di agonia, ma era uno sguardo sempre più perso, sempre più distante.
«Sachiel.» singhiozzò lei, e si rese conto solo in quel momento di averlo ripetuto senza tregua. «Sachiel. Sachiel.»
«Via.» ordinò di nuovo la voce familiare, ma lei ancora si divincolò, morse la mano che tentava di afferrarle il collo, sapore di terra e sangue dolciastro le investì la lingua. Gridò, ma Sachiel non rispose. Il sangue era tanto e colava, colava, colava. Le sei ali pendevano flosce alle sue spalle. Il suo viso si stava scurendo, sulla pelle si aprivano crepe come nella terra arida. Il suo sguardo non guardava più niente.
E il sangue colava, colava, colava, e ancora colava prosciugando l'essenza. Un lago di morte.
La cenere scivolò tra le braccia del Guardiano.

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Capitolo 36
*** 35. Fiore marcio ***


Capitolo 35 – Fiore marcio





Aveva le unghie sporche – grumi neri sotto il bordo, sulla pelle. Un insulto al candore.
Si portò la mano alla bocca, ma lo sguardo disgustato del Guardiano sembrò bruciare su di lei. Lo ignorò. Li raschiò con i denti unghia per unghia, li sputò accanto alle proprie gambe raccolte, sul pavimento bianco.
Un insulto al candore.
L'avrebbe rifatto, se avesse trovato la forza di sollevare anche l'altra mano. La guardò, pelle sporca e unghie nere e dita torte ad angoli strani, abbandonate sulla coscia. Dolevano – Ramiel aveva stretto e piegato e strattonato per trascinarla, per farle male. Decise che ripulire le unghie non era così importante.
Spinse le ali a circondarle il busto – dolore. Erano troppo rigide per avvolgerla, e allora le abbandonò di nuovo contro il muro. Si abbracciò le ginocchia e vi appoggiò il capo, nascondendo il viso, ma lo sguardo del Guardiano continuò a bruciarle addosso. Sentì gli avambracci appiccicosi contro la fronte, acqua e terriccio impastati sulla pelle nuda. Doveva apparirgli così sporca, pensò, così miserabile, abbandonata contro la parete. Avrebbe voluto rannicchiarsi in un angolo, ma c'erano tracce rosse sul pavimento, sangue di demone che non era stato lavato. Chissà se erano stati lì, i demoni che era stata costretta ad attaccare. Non tutti, no – era una stanza troppo piccola, ogni lato non più di quattro, cinque passi. Ma alcuni. Se li immaginò ammassati, corpi dilaniati da cui colava sangue acido. Ringhi, chiostre di denti aguzzi, le unghie indurite in artigli. Il tormento dell'aria tiepida, della luce. Terrore. Avevano avuto anche loro un Guardiano a fissarli dall'alto, a farli sentire nudi e disgustosi? Essenze sconvolte che si scontravano contro le pareti, senza riuscire a oltrepassare quella pietra troppo densa.
Era la pietra che formava i templi, che custodiva il sonno dei Cherubini più maturi: una barriera impossibile da penetrare.
Prigionieri in una bolla di luce.
Era stanca. Quanto tempo era passato? Lì non arrivavano i richiami dei Fuochi a scandire i cicli, né il sole a dividere i giorni. Le mancava il tramonto. Lo guardava spesso un tempo, ricordò. Da umana – da Aenor. O da Ishild?
Scosse la testa, gemendo. Non capiva. Due vite si fondevano, colavano senza senso negli angoli della memoria, la menzogna confondeva ogni cosa. Dolore. Smise di pensarci.
Ma la voce di Eisheth era ancora lì, annidata tra i suoi pensieri a straziarla da dentro. Aenor. Ishild. Michael aveva voluto fingere che lei – l'umana, non Aenor, la seconda, la seconda... cercò nella memoria un nome. Davanti ai suoi occhi balenò il volto di un bambino in lacrime, la sua voce infantile risuonò stridula mentre tendeva le braccia e la chiamava. Morag. Si chiamava Morag, la seconda lei, e Michael aveva voluto fingere che Morag fosse Ishild. Sollevò il capo, rise, continuò anche quando lo sbatté contro la parete per la foga. Il Guardiano strinse le labbra in una smorfia. Poi ricordò Morag che si convinceva di esserlo, Ishild – notti insonni passate a bruciare, madre che nei sogni restava in silenzio a fissarla, ossessione, nausea, freddo, gli occhi di Michael sempre distanti. Non rise più.
Stupida, si disse. La testa sbatté di nuovo contro la parete. Stupida Morag. Colpo. Stupida Morag. Colpo. Stupida Morag. Colpo. Stupida Mo- sussulto. Il Guardiano le strinse i capelli, le strattonò la testa in avanti.
«Basta.» le ordinò, irritato. Lei restò immobile, il Guardiano le strattonò ancora i capelli. La fronte le sbatté contro le ginocchia.
«Sì.» mormorò. L'altro la lasciò e tornò al proprio posto, davanti alla porta chiusa. Si pulì la mano sui vestiti. Lei avvertì l'essenza del Guardiano arricciarsi, sfiorare la sua e subito ritrarsi. Era così disgustosa?
Latrò una risata. Oh, sì. Stupida, disgustosa Morag.
Colpo.

Fissò il Guardiano. Avrebbe dovuto essere lui a tormentarla, e invece eccolo, con le labbra strette e la fronte aggrottata, lo sguardo distolto troppo spesso. Cos'era quel lampo nei suoi occhi? Irritazione, fastidio? Disagio?
Il suo viso cambiava per l'angolazione, quando lei chinava il capo e di nuovo lo gettava all'indietro. A volte, appena dopo il colpo, le sembrava quasi assomigliare a Michael. C'era un piacere sottile nel tormentarlo così.
Stupida, disgustosa Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Stupida, disgustosa Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Stupida, disgustosa Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Era quella la misura del tempo, lì. Gli echi della sua umiliazione. Dovevano essere decine, ormai, ma il Guardiano non l'aveva più fermata. Gli faceva troppo schifo? Colpo. La testa urlò il proprio dolore, ma il dolore era buono, il dolore annichiliva i pensieri.
Stupida, disgustosa Morag. Che si era lasciata ingannare e sedurre.
Ma non era stata l'unica, vero? Sembrava un errore ricorrente, un meccanismo rotto dentro di lei che-
Colpo. Colpo. Colpo.
Che la spingeva ad aggrapparsi, a credere, a fremere sotto tocchi gelidi.
Colpo. Colpo. Colpo. Colpo. Colpo. Colpo. Il dolore non bastava più.
E davvero si era illusa di essere libera nel scegliere Sachiel, e invece-
Colpo. Colpo.
E invece si era solo piegata di nuovo ad un gioco perverso. Era sporca, infetta, marcia dentro. La ferita era un mostro che non l'avrebbe mai abbandonata, radicato in lei da troppo tempo – baratro nero in cui restava qualcosa di Aenor, qualcosa di Morag, ed era un qualcosa oscuro e guasto. Solitudine e dolore e ossessione. E dal baratro erano risalite parole a tormentarla nei sogni, e gli occhi di Michael, gli occhi di Sachiel. Sachiel. Sachiel. Quei desideri che Aenor aveva respinto nel ventre languido. Ricordava le labbra di Sachiel contro le proprie, il respiro ch'era passato di bocca in bocca, ed era stato un respiro corrotto, quello, un soffio di morte. L'aveva macchiata. L'aveva condannata.
Stupida, disgustosa Amitiel.
Abbandonò il capo tra le braccia.

Uno spiraglio – essenza che s'insinuava, riusciva a sfiorarla, la avvertiva, esisteva, il mondo chiuso delle pareti dense si era espanso all'improvviso. Sussurri. Sollevò lo sguardo. Porta chiusa – vuoto.
«Preparati.»
Il Guardiano le posò davanti una brocca d'acqua e si rialzò in fretta. Prese un straccio dal tessuto ripiegato che aveva tra le mani, glielo gettò. Lei appoggiò di nuovo la fronte contro le braccia.
«Devo costringerti, cherubino?»
Lo ignorò. Che la costringesse, sì. Che la toccasse, la spogliasse. Aveva importanza?
«È acqua delle terme. Non dovrebbero nemmeno concedertela, cherubino – non sprecarla.»
...acqua delle terme. Un ricordo guizzò sulla pelle e lei si mosse, piano, a occhi bassi. Si mise in ginocchio e sollevò la mano sinistra, guardò le dita piegate, strette troppo da Ramiel. Le immerse nell'acqua. Tepore. Il dolore si assopì in un fastidio lontano, ma tornò a morderle non appena riemersero. Non poteva curare, quell'acqua – solo lenire e ingannare, promettere che il peggio era passato.
Il peggio era presente, invece, e il passato Sachiel che le sciacquava gli occhi. Con la mano sana bagnò lo straccio e se lo portò al viso, premendolo contro le palpebre socchiuse. L'acqua scivolò lungo le guance come aveva fatto quella volta, infinito tempo prima, quando la sua vista si perdeva nel bianco e nel panico. Quando Sachiel era ancora un'estranea, occhi familiari oltre un velo di nebbia, mani sconosciute che l'avevano riportata al mondo con l'acqua lenitiva delle terme. Si passò lo straccio sulla fronte. Le labbra di Sachiel si erano posate lì, e c'erano state le sue braccia a circondarle le spalle, anche, e un sussurro morbido, non piangere, mentre lei annaspava tra le parole del Censore. Il tepore dell'acqua si spostò su uno zigomo, gota, labbra. Labbra. Ssssh, non ricordare. Abbassò lo straccio sul collo, lungo la spalla. Abbracci. Le mancava così tanto da far male.
Lo straccio era asciutto. Lo avvicinò alla brocca – esitazione. Mano a mezz'aria. Restò a guardare l'acqua limpida, il tessuto lercio di terra che ondeggiava incerto.
E ora?, si chiese con la voglia di urlare. E ora. E ora.
Ciò che è stato sporcato non si può ripulire.
Ciò che è stato sporcato non può tornare alla purezza, al candore, o la macchia della sua colpa gli si allargherà attorno come un fiore marcio.
Ciò che è stato sporcato non può tornare e no, non sarebbe tornato, mai più.
Mai più. Mai più.
Colpì la brocca, la gettò contro il pavimento. Cocci infranti. Acqua versata.
E ora.
Le labbra di Sachiel le mani di Michael una ciocca che non si allungava. La fascia della quinta classe le avvinghiava i fianchi e sembrava chiederle davvero? Davvero sei come quei Cherubini che non sanno e non sognano? E quella ciocca agonizzante sulla nuca, che non trovava più la forza di crescere, rispondeva con un sospiro esausto. Non ricordava neppure quando l'avesse tagliata – forse erano state le unghie di Michael, strattonando? Gli occhi di Sachiel, gli occhi di Sachiel quando le aveva toccato la nuca e aveva trovato quella ciocca spezzata. Quanto doveva essere esausta la sua essenza, se non riusciva più a darle vita?
Anane che le intrecciava i capelli e Ramiel che le porgeva un pettine prima della Venuta e Michael, Michael che accarezzava e stringeva e strattonava. I capelli pesavano sulle spalle e sussurravano no, bambina, non sei come loro. Non più. La fascia bruciava contro i fianchi. Il tocco di Michael sembrava essere ancora lì a sporcarla.
«Cherubino.»
Sollevò lo sguardo. Il Guardiano si era avvicinato, ma il suo viso era sfocato. Lacrime? Si sfiorò una guancia – sì, lacrime.
«Cambiati, cherubino.»
Il Guardiano lasciò cadere sulle sue cosce del tessuto ripiegato. Lei annuì piano e mormorò una richiesta.

«Non può presentarsi così.»
Amitiel ignorò il sibilo femminile alle sue spalle e avanzò nella sala circolare. Dopo la stanza minuscola e il corridoio stretto, quell'immensità la stordiva; chiuse gli occhi e trattenne l'essenza, con una morsa alle viscere che già minacciava di diventare malessere. Troppo spazio. Troppo bianco. Troppa luce.
«Non preoccupartene, Hagar. Che si presenti come preferisce.»
L'ingresso si chiuse e i due Guardiani le si affiancarono. Le venne da ridere – cosa temevano, che scappasse? Inspirò, ma l'aria le invase la gola troppo in fretta e la risata morì in un verso strozzato. Persino l'aria era stata più pesante, tra le mura soffocanti che l'avevano circondata.
Quanto poteva far male la libertà, dopo una prigionia troppo lunga?
Inspirò, espirò, si abituò piano al nuovo ambiente. Socchiuse le palpebre. Meglio.
«Chi...» si inumidì le labbra «chi arriverà? I Censori?»
La donna ebbe un fremito. L'altro Guardiano storse le labbra, come quando si era pulito la mano dopo averle toccato i capelli. Non le risposero.
Sistemò una spallina scivolata lungo il braccio. Non aveva mai avuto abiti del genere, che avvolgevano il busto e stringevano le spalle – un cherubino non avrebbe mai potuto indossarli. Gliel'avevano portato di proposito? Lei con la sua mano inerme che tentava di vestirsi e il Guardiano che dopo un'eternità di fallimenti umilianti l'aveva aiutata, aveva strappato il tessuto sulla schiena per far spazio alle ali, e ora i lembi pendevano scomposti, la veste non aderiva. Nessuna fascia le cingeva i fianchi.
«Quanto dovremo aspettare?»
Le essenze dei Guardiani s'incresparono, sconcertate. , ebbe voglia di urlare, sì, un'altra domanda, davvero. Chinò il capo per nascondere una smorfia, ma i capelli non scesero a coprirle il viso. Sentiva il sangue seccarsi sulla nuca, dove la lama le era sfuggita, e la cenere sporcarle le mani, le spalle, la veste bianca già lercia di sangue e terra. Aveva dovuto stringere i capelli con la mano ferita, tenderli con le dita sane e ignorare il dolore a quelle inermi. Nulla le avrebbe ricordato il tocco di Michael, ora che quelle ciocche si erano dissolte – era un'illusione, lo sapeva, ma per un attimo... per un attimo, solo per un attimo, era tornata a respirare.
«...sì.» mormorò «Sì, saranno di certo i Censori.»
Qualcosa tremò, in lei. Chiuse gli occhi e inghiottì il ricordo.
Era già avvelenata. Era già distrutta.
Non potevano farle più male di così.
Riaprì gli occhi. Attraversò la sala con lo sguardo, bianco bianco bianco, senza finestre, senza tregua, senza cielo, e lo fissò davanti a sé. Il portale era così bianco che riusciva a malapena a distinguerlo, e quando iniziò a schiudersi faticò a realizzarlo, perché dietro il portale bianco c'era solo altro bianco, altra luce, nessuna ombra a definire i contorni. Una macchia rossa, violenta – capelli. Un viso. Altre figure, essenze, passi. I Guardiani smisero di trattenere il portale, lo lasciarono a richiudersi piano alle loro spalle. Il Censore dai capelli rossi si fece avanti nella grande sala. Lei irrigidì le ali, impedì loro di tremare. Un altro Censore gli si affiancò, mentre i Guardiani restarono dietro di loro, sei figure bianche contro la parete bianca. I due accanto a lei avanzarono, l'uomo le calcò la mano contro i lombi perché li seguisse. Il Censore rosso sorrise, di un sorriso così dolce che le ricordò Eisheth. Le sue ali tremarono, il terrore le congelò le gambe. Il Guardiano la spinse avanti. Incespicò.
«Con gentilezza, Guardiano.» mormorò il Censore «Non c'è bisogno di essere bruschi.»
Amitiel si raddrizzò, ma si sentì all'improvviso piccola e sporca, lei con le piume rosse e il sangue e la terra e il vestito strappato, lei lì tra loro che avevano ali da arcangeli, ali da serafini, essenze maestose che la circondavano, lei insulto al candore. Strinse le braccia contro il ventre, riconoscendo l'effetto dei Censori – quella capacità di denudarla, strapparle ogni scheggia di sicurezza. Gli occhi verdi del mostro la osservavano quieti, l'essenza si tendeva a lambirla, e Amitiel avvertì la propria ritrarsi, tentare di sfuggire a quel tocco conosciuto. È come se ti entrassero dentro, aveva sussurrato a Ramiel nel dormitorio vuoto, nella testa, tra i pensieri, ma non rendevano folli, le aveva detto, no, i Censori non rendevano folli, perché chi erano i folli? Chi? La follia era già lì, ad accarezzarli nel sonno, a germogliare in silenzio dentro quel corpo ch'era stato umano, umano, umano, quello non era abbastanza da portare alla follia? Sospettarlo, saperlo, ricordarlo? Ammazzare una donna per sgusciarle tra le cosce? Folli, folli a saperlo, folli a non saperlo, a credere sempre, senza domande, ingoiando boli di dubbi e inquietudine. Ma l'avrebbero mai ammesso?
«Cherubino.» la chiamò il Guardiano, stringendole un gomito. Lei sussultò. Il Censore rosso non sorrideva più. Le aveva parlato? Schiuse le labbra, incerta, ma poi le serrò di nuovo. Il serafino avanzò di un passo, lasciandosi l'altro alle spalle, e la sua essenza agghiacciante sembrò violarla, affondarle dentro.
«Sei stata convocata per la seconda volta.»
Se lo sentiva dentro, dentro, oltre pelle muscoli ossa, dentro dove c'erano le memorie di Aenor e Morag e Ishild e gli incubi, le voci, lo squarcio che non si chiudeva mai.
Si morse il labbro. Inspirò. Espirò. Inspirò.
«Sì.»
«È inusuale, cherubino. Ti stai macchiando.»
Non rispose. Il Censore le sfiorò una guancia e continuò, con quella sua voce gentile che sembrava Eisheth, davvero, sembrava orrore e falsità.
«Stai macchiando chi ti attornia. I tuoi insegnanti, i tuoi compagni. I tuoi fratelli.»
«Non...» deglutì. Inspirò. Espirò. Inspirò. «Non è ciò che voglio.»
«È ciò che accade.»
Chiuse gli occhi. Ripensò all'acqua limpida, allo straccio lercio di terra che stava per immergere. Il fiore marcio della colpa che si allargava attorno.
«Eppure sei stata avvertita.» il Censore corrugò la fronte «Perché rifiuti di lasciarti proteggere, cherubino?»
Soffocata violata annegata. La sua essenza annaspava, stretta da quella del Censore, ma non poteva sottrarsi, costretta a dispiegarsi e schiudersi. Non riusciva a respirare.
«Non hai voluto comprendere. Perché, cherubino? L'altra. Anane. Perché hai rifiutato di separartene?»
Faceva male. Male. Male. Il rimpianto bruciava e urlava e le divorava il petto.
«Si è persa, cherubino, appena prima dello Sviluppo. Ha scelto di rendersi indegna.»
Anane. Anane Anane Anane Anane allegra solare meravigliosa Anane che l'aveva ingannata. Le dita del Censore bruciavano sulla guancia. Stupida, stupida Amitiel che le aveva creduto. E le risate gli abbracci le lacrime potevano morire nell'oblio, perché faceva solo male, ricordare. Male male male.
«L'allieva dell'Autorità, cherubino. Perché anche lei?»
Sussultò. No, non dovevano parlare di Sachiel. Non dovevano avvelenare anche quel ricordo. No. No. No.
«No.» mormorò «No.»
C'erano occhi azzurri, stagliati sul candore delle sue palpebre chiuse. E cenere grigia.
«Sì, cherubino. Si è persa. Perché anche lei, cherubino? Perché hai voluto corromperla?»
«No.»
«Era impura.»
«No.»
No? Davvero? Davvero non l'aveva corrotta, davvero non l'aveva avvelenata? Il calore che stringeva il bassoventre e la pelle che fremeva e le labbra, le labbra di Sachiel, quel respiro che era passato di bocca in bocca e le aveva condannate. Stupida, disgustosa Amitiel.
«L'hai corrotta, cherubino?»
«No. No.»
Il pollice del Censore si mosse lungo la guancia, raccolse le lacrime. Voleva singhiozzare, ma non riusciva a respirare, l'aria si bloccava in gola.
«O è stata lei?»
Spalancò le palpebre. Il Censore sorrideva.
«Lei ha corrotto te?»
«Non insultarla.»
«Cos'è successo, cherubino? Cos'è stato a spargere il marcio attorno a voi?»
Le ali tremavano. Male. Male. Marcio? Era stato così bello potersi abbandonare e parlare e stringersi le mani e sapere che c'era qualcuno a cui importava, era stato un balsamo e un veleno. I pensieri erano un vortice impazzito che impattava sempre contro quel muro, il rimorso e il disgusto e il rimpianto, e la certezza che non avrebbe più conosciuto quegli abbracci tiepidi.
«Chi è stato a corrompere entrambe?»
Attraverso il velo delle lacrime, il Censore era un sorriso falso e occhi freddi. Inspirò piano, tremando. Sapeva? O cercava solo qualcun altro da incolpare?
«Attorno a voi, cherubino, ci sono stati un Custode morto e due Cadute. Il Custode che ti ha aiutata è ancora dai Guaritori, e quando si sarà ripreso dovremo convocarlo. Un Guardiano ha rischiato di morire. Il Paradiso piange i suoi figli perduti. Perché, cherubino? Perché tradisci così i tuoi fratelli?»
Serrò di nuovo le palpebre. Le entrava dentro, nella testa, nei pensieri, e lei si sentiva così inerme e sporca, e c'era quell'essenza estranea a violarla e uccidere ogni logica. Le sfiorava la ferita. Il mondo era dolore e nausea e rimorso.
«Eri con un demone.» intervenne l'altro Censore. Aveva una voce meno morbida, più profonda, e un'essenza ferma che circondò la sua senza soffocarla. Il mostro smise di sfiorarle la guancia ma non ritirò la propria essenza, la lasciò annidata tra le pieghe, nell'intimo.
«Una femmina. Tua madre?»
Riaprì gli occhi e sollevò il capo di scatto. Fissò il secondo Censore senza capire. Quello rosso storse le labbra con uno sbuffo, come se non credesse nella sua incertezza, ma l'altro chiarì: «Ti ha promesso protezione? Ha stretto un patto?»
Non era un legame vero, realizzò – Anane non era davvero figlia di Eisheth, o sorella di Michael. Ovvio. Come aveva potuto non capirlo? Forse perché era assurdo, incomprensibile, che qualcuno scegliesse di legarsi a Eisheth. Quanto non sapeva, ancora? La nausea le strinse le viscere.
«No.» mormorò «No, nessun patto.»
«Chi è?» intervenne il Censore rosso «Lei ti ha corrotta, cherubino?»
«...Eisheth.»
Il Guardiano al suo fianco ebbe un fremito. Il Censore tornò a sorridere e le sfiorò di nuovo la guancia, gentilmente. La pressione delle essenze estranee aumentò, lei si morse le labbra per non gemere – dolore alle tempie. Dolore dentro.
«Si chiama Eisheth. Non so altro.»
«Come l'hai incontrata?» le chiese il secondo Censore.
Si sentì invadere ancora, più a fondo, e il dolore esplose nella sua testa insieme ai ricordi. Il respiro le tremò in gola.
«Chi te l'ha fatta incontrare, cherubino?» continuò l'altro serafino, accarezzandole il capo.
Si irrigidì – dita tra i capelli Michael ciocche che non crescevano più il terrore di Sachiel la lama cenere. L'essenza vibrò nello sforzo di ritrarsi, si richiuse su sé stessa come un grumo pulsante di dolore. Basta. Ricordò il terreno duro contro le ginocchia e il tocco gelido di Michael che l'aveva fatta urlare e anche Anane aveva urlato e la risata di Eisheth, e poi c'era stato ancora Michael, Michael, Michael a ingannarla e corromperla e far sbocciare il fiore marcio in lei. Basta. Basta. Non le avrebbero strappato anche quello – non avrebbero saputo come si era lasciata sporcare, come aveva sporcato Sachiel. Era un dolore solo suo.
«La virtù conosce il peccato per poterlo fuggire.» mormorò il Censore rosso. Le strinse il mento con gentilezza per alzarle il viso «Hai visto l'orrore – hai capito perché lo combattiamo. Ma ora torna tra i tuoi fratelli, riposa gli occhi nella luce del Paradiso. Sarai perdonata.»
Amitiel ricambiò il suo sguardo malinconico. Avvertiva l'essenza del serafino circondare la propria, premere tentando di penetrarvi ancora, ma non cedette.
E ora?
Sorrise.
«No, non credo.»

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Capitolo 37
*** 36. Eco ***


Capitolo 36 – Eco





Riposa gli occhi nella luce del Paradiso aveva detto il Censore rosso.
Lei che aveva visto il sole e gli incendi e il luccichio del sangue umano.
La luce del Paradiso, la luce senza ombre, la luce accecante ch'era stata un tempo tutto il mondo conosciuto. Bianca? Davvero? Era rossa invece. Rossa come i tramonti dimenticati da bambini nati una seconda volta, e le loro ali, e il Fuoco che li aveva ingoiati per risputarli sanguinanti e immemori. Era l'Espiazione a divorarle carni.
Gli squarci alla schiena tormentati, la gola aperta in un ghigno che vomitava fiotti bianchi – per dissanguarla e sfinirla e impedirle di muoversi. Bambola fragile, inerme nell'abbraccio delle fiamme. E ringraziava quel calore bruciante perché la strappava alla sua mente, e il dolore, il dolore, il dolore profondo che sembrava lacerarla da dentro, una violenza, uno stupro, quel dolore era benedetto perché i pensieri s'infrangevano contro l'eco delle sue urla. Era solo un corpo in fondo. Ma se anche l'Espiazione l'avesse dilaniata al punto da segnarle l'essenza, importava?
Era già rotta, ripiegata sulla sua fragilità, rovinata sfiorita difettosa, smembrata in mille frammenti di vite passate. Che la sfregiassero ancora. Era solo un corpo in fondo, era solo un'essenza in fondo, era solo lei stessa in fondo – e di sé, scoprì, non le importava poi molto. Non in quel momento almeno, e forse per altri mille anni a venire, sino a quando i ricordi non fossero scomparsi nel buio. Troppi fantasmi avvinghiati al suo collo.
E il ghigno sulla sua gola vomitava sangue, e la follia nella sua mente vomitava risate.

* * *

Doveva sembrare un cadavere pensò, lì abbandonata sulla pietra fredda, il Fuoco placato e il dolore rovente. Non era mai stato così intenso, così violento – ferite scavate nel corpo e nell'essenza, e sangue versato e urla e risate e il sollievo di non essere sola con la propria mente. La rassicurazione di sentirsi bruciare. Era una cosa malata forse – no, di certo. Scoprì che neanche questo le importava.
Nelchael dall'alto la guardava e non si muoveva. C'era dolore nei suoi occhi? Non riusciva a capirlo, il suo stesso sguardo sfocato da capillari rotti e stanchezza.
«Sciocca.» le mormorò, ma senza biasimo. Solo constatando.
Lei gli sorrise.
Nelchael dovette abbassarsi e passarle le braccia attorno al busto, sollevandola di peso, perché da sola non sarebbe mai stata in grado. Le ali si accasciarono contro la sua schiena, attraversate da piaghe sino alle punte – desiderò di poterle ritrarre, così Nelchael avrebbe potuto prenderla tra le braccia, invece di trascinarla. Tentò di muovere un passo, le gambe cedettero con una nuova ondata di dolore. Si abbandonò contro l'angelo.
«Se vuoi lasciare il Paradiso, vattene ora. Non ti è concesso tempo per riprenderti.»
«Voglio.»
«Sciocca.» le ripeté Nelchael. C'era sollievo nella sua voce.

* * *

Nelchael la adagiò sul terreno umido, sotto un cielo chiaro e lontanissimo. Le ali soffocavano sotto il suo peso. Lei raccolse le ultime energie, uno sforzo appena per sollevarsi appena e farsi ricadere su un fianco. Terra nelle ferite – non aveva voluto che la rivestissero dopo l'Espiazione, maneggiandola come un fantoccio. Sarebbe stato più umiliante della nudità stessa.
«Sono stanca.» sussurrò. Aveva la voce debole e raschiante, rovinata dalla ferita alla gola.
«Dormi. Sei al sicuro – i Cherubini sono preziosi anche per gli Sconsacrati.»
Sorrise. Non era vero, ma dirlo ad alta voce sarebbe stato troppo spaventoso.
«Resta con me finché non mi addormento.»
Nelchael si sedette accanto a lei.

L'essenza si accartocciava su sé stessa, proteggendo disperatamente il proprio dolore. L'assenza era un vuoto terrificante dentro di lei, un'agonia che riecheggiava nella solitudine della sua mente.
«Ricordo Sariel, sai.» sussurrò per zittire il silenzio «La sognavo, da umana. Si faceva chiamare madre.»
Nelchael non rispose.
«Tu invece ci sei stato solo alla Venuta. Accanto a Sariel.»
Parlare le faceva male, ogni inspirazione una fitta, ogni parola bruciore, ma continuò.
«Ricordo la tua essenza che mi avvolgeva mentre morivo.»
«Non dovresti.»
«Ti sei interessato così a tutte le tue creazioni
«No. Ma tu sei stata l'ultima, e l'unica ferita.»
«Perché l'ultima?»
«...perché poi Sariel è impazzita.»
Compagni d'eternità strappati l'uno all'altra. Doveva essere come perdere una parte di sé, guardarsi attorno e scoprirsi solo all'improvviso.
Chiuse gli occhi.
«Come si sopravvive all'assenza, Nelchael?»
Lui non rispose.

* * *

Quando riapre gli occhi, Michael è lì.





***
Angolo autrice
Capitolo cortissimo, lo so, ma è l'ultimo prima dell'epilogo. Tra tre giorni pubblicherò anche quello e quest'avventura, che mi ha accompagnata per due anni e mezzo, sarà finita. Stento a crederci. Colgo l'occasione per ringraziare chi ha commentato, inserito la storia tra le preferite e le seguite o è semplicemente passato di qui - tutti molto più numerosi di quanto mi aspettassi. Sapere che questa storia interessava a qualcuno è stato lo stimolo più grande a continuarla e a fare del mio meglio. Ci sarà un seguito? Forse, ma prima voglio finire anche Lambda, in attesa da troppo tempo di essere continuata, e magari dedicarmi anche ad altre idee. Si vedrà. Per ora mi basta l'enorme soddisfazione di poter scrivere la parola fine a questa storia.
Di nuovo, grazie a tutti. Spero che leggere Ceneri vi sia piaciuto quanto è piaciuto a me scriverla.

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Capitolo 38
*** Epilogo ***


Grazie a Melissa, che ha visto l'inizio di questa storia.
Grazie a Matteo, che invece l'ha accompagnata alla fine,
e a cui appartiene l'ultima frase di questo epilogo.
Buona lettura.



Epilogo – Ceneri





Ha dormito?
Probabilmente. Nelchael non è più lì e lei sente l'essenza appena rinfrancata, il corpo in grado di muoversi. Ma è con lo sguardo ancora velato che vede Michael incombere, figura scura contro cielo scuro, le ali tese su di loro a nasconderli dal mondo; è con la carne ancora scavata dall'Espiazione che sente il sangue del caduto colarle addosso, gocce gelide che aprono crateri nella sua pelle.
Dal corpo di Michael piove dolore.
Lei si tira a sedere, guarda verso gli occhi dell'altro – ed è come guardarsi dall'alto, la sensazione straniante di non essere in sé. Il dolore c'è ma non c'è, come se fosse diventato troppo e la sua mente l'avesse rinchiuso in un angolo per non impazzire. Una goccia cade sul petto, scorre tra i seni scavando la carne. Pioggia sul suo viso, sulle sue braccia. Un'agonia a cui non tenta neppure di sottrarsi.

«Dovrei ucciderti.» sibila Michael.
Lei getta indietro il capo e ride. Lui fa vibrare le ali, dalle ferite tra le piume cola altro sangue sulla sua gola già ferita. La risata si spezza in un rantolo.
«Avrei dovuto ucciderti molto tempo fa.»
«Ah, davvero.»
L'essenza del caduto si stringe attorno alla sua, la soffoca in una morsa brutale che le strappa un urlo acutissimo di bestia morente. Doloredoloredoloredolore il dolore è lontano ma quello è il suo intimo, già violato dai Censori, già tormentato dall'Espiazione, e attorno alla ferita con lei dalla nascita si sono aperte piaghe che la sfiancano e le velano gli occhi e le scavano la carne, un corpo difettoso per un'essenza difettosa, e l'essenza di Michael sembra aggrapparsi alla ferita e squarciarla. Gocce di sangue sul viso, sulle labbra socchiuse nell'urlo, sugli occhi spalancati. Il mondo si fa d'ombra, figure scure distinguibili appena.
La mano di Michael si serra sul suo braccio e la trascina in piedi, l'altra le afferra i capelli e le scrolla il capo.
«È stata colpa tua.» le sibila a un soffio dal viso «Se tu non avessi attirato gli Arcangeli, Ishild sarebbe viva.»
È una rabbia che pare più disperazione, la sua, e lei tende le labbra spaccate in un ringhio.
«Io? Tu. Tu hai creato quest'intreccio assurdo e ti sei fatto ossessionare e mi hai mentito mi hai illusa e mi hai ingannatausatatradita e» doloredoloredolore, nel mondo di ombre rilucono i denti scoperti di Michael, ali nere la avvolgono e la gelano dentro «e dici anche che è colpa mia
«Tu l'hai seguita, tu hai richiamato l'attenzione, tu l'hai uccisa
«E non l'avresti uccisa dentro, tu?» si aggrappa alle spalle di Michael, gli affonda le unghie nella carne «Sachiel, non Ishild, Sachiel, e tu Sachiel non l'hai mai conosciuta, non sai come ride e come piega le spalle quando è stanca e il suo sguardo e il suo abbraccio e le sue labbra, tu non conosci le sue labbra e io sì, io le conosco e ora sono sola, io, io, io...»
io ho avuto Sachiel per un lungo brevissimo attimo, vorrebbe dire, ma quell'agonia che cercava di ignorare esplode all'improvviso, la squassa dentro con una violenza agghiacciante e lei si accascia contro Michael, incapace di sostenersi ancora.
e io ora posso solo ricordare
e io ora non posso sopravvivere
perché ioioioioio
io la amavo
«Tu l'hai uccisa!» urla Michael e spalanca le ali, la getta via come una bambola rotta e la fa cadere, è su di lei che le afferra il capo e glielo sbatte a terra, e glielo sbatte, e glielo sbatte, e glielo sbatte, e glielo sbatte, e sangue gelido le cola ancora sul viso e la sua vista si fa sempre più buia e lui le sbatte il capo e glielo sbatte e glielo sbatte e lei ormai vede solo nero.
E poi Michael le abbandona il capo per stringerle la gola, affondare le unghie taglienti nella ferita già aperta.
«Ti avrei risparmiata, per lei.» le sibila «Anche se mi disgusti. Mi disgustavi da Aenor, da Morag. Sei sempre stata patetica e debole. Credevi davvero di essere Ishild? Ho dovuto passare una vita con te e avrei voluto ucciderti ogni giorno.»
E le squarcia la gola, affonda e affonda e affonda ancora, e il sangue la abbandona portandosi via lucidità e forze.
«Uccidimi allora.» rantola lei, la voce ridotta a un suono raschiante sottilissimo «Per quel che importa.»
E sente Michael calare sul suo collo, affondarvi i denti, sbranarla come una belva affamata. Non può urlare, non può muoversi sotto il suo peso, inarca la schiena e spalanca gli occhi e il mondo è nero e dolore.
«Ho dovuto passare una vita con te.» ringhia ancora Michael. Ha il fiato gelido sulla sua carne martoriata, raccoglie il sangue con la lingua – deve bruciargli più dell'Espiazione. Forse gli piace. «E credevi di essere Ishild, davvero. Mi venivi a cercare la notte. Ti avevo raccontato che Ishild lo faceva e allora tu, patetica, umana, vagavi e urlavi il mio nome finché non comparivo.» affonda i denti, ma ormai lei distingue a fatica altro dolore nella carne martoriata «Mi chiedevi se ti amassi. Volevi che ti chiamassi Ishild e ti dicessi che eri l'unica, e mi venivi a cercare, la notte, e mi sembrava di sentirti anche quand'ero lontano. Avrei voluto ucciderti per non sentirti più.»
Lei si abbandona contro il terreno, smette di combattere il dolore. Nell'agonia riesce a tendere le labbra in un sorriso amaro, rantola parole quasi incomprensibili.
«Fallo. Fallo e» tossisce, volta il capo di lato per sputare un fiotto di sangue «resta solo con la tua ossessione.»
I denti sfiorano ancora la carne, labbra gelide seguono la scia del sangue lungo la gola.
«...mi venivi a cercare la notte.»
Il mormorio di Michael si spegne contro la sua pelle e lui si abbandona su di lei, le stringe il capo quasi a cercare l'eco di una carezza tra i capelli, le ali da arcangelo si distendono attorno a loro chiudendo fuori il mondo. Il sangue delle loro ferite si mescola. Solo il dolore la tiene cosciente, aggrappata alla realtà – vorrebbe perdersi dentro di sé, diventare cenere dispersa dal vento. In fondo l'Espiazione l'ha già arsa, e i Censori, e Michael, e Sachiel e Ishild e Aenor e Morag l'hanno fatta a pezzi dentro, e il Fuoco della Venuta forse non è stata una nascita ma una condanna a morte. Quell'ultimo tramonto da umana, a bruciare sotto un cielo in fiamme, forse è stato anche il suo ultimo istante di vita.
Vorrebbe solo bruciare di nuovo e non svegliarsi più. È stanca.
«Mi venivi a cercare la notte...»
Forse lo è anche Michael, abbandonato su di lei come se un peso enorme lo schiacciasse. Uccidimi e resta solo con la tua ossessione, prova a ripetergli, ma il corpo non le risponde più – ha troppe ferite, l'essenza non riesce a controllarlo. Si sta spegnendo lentamente.
Ma poi Michael le preme la mano sulla gola, fermando il sangue, e sussurra gelido contro le sue labbra.
«Possiamo essere soli in due.»


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