I Signori delle Terre dell'Ovest

di Il Romanticismo Perduto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Schegge di cielo ***
Capitolo 2: *** 2. Il nome di una maledizione ***
Capitolo 3: *** 3. Lacrime d'ombra ***
Capitolo 4: *** 4. Svolgimenti inaspettati ***
Capitolo 5: *** 5. Scie ***
Capitolo 6: *** 6. Suggerimenti dal passato ***
Capitolo 7: *** 7. Pioggia e decisioni ***
Capitolo 8: *** 8. Le ore ruggenti ***
Capitolo 9: *** 9. Il quarto giorno ***
Capitolo 10: *** 10. La caduta di Fanaon ***
Capitolo 11: *** 11. Esilio ***
Capitolo 12: *** 12. Una Nuova Alba ***
Capitolo 13: *** 13. Fuga ***



Capitolo 1
*** 1. Schegge di cielo ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

I Signori delle Terre dell’Ovest

 

1.     Schegge di cielo

 

 

Era sorprendente il lieve tono ambrato che prendevano le lame di luce solare penetrando le lisce lastre di vetro incastonate nelle finestre; lo era ancora, dopo più di cento anni che quegli stessi passi solcavano i preziosi pavimenti del Palazzo, permettendo allo sguardo di spaziare senza sforzo tra i diversi usci che facevano capolino a tratti sulle pareti, piccole bocche di mondi preclusi alla vista da sontuose porte di noce, che fondevano nella loro linea slanciata il sapore del Barocco umano alla semplicità di curve temprate da gentilezze quasi sovrannaturali.

Il suono di quei passi leggeri era udibile solo ad un orecchio fine di cacciatore, accompagnato da diversi fruscii: la stoffa di un pallido turchese che scivolava sullo specchio ramato del pavimento, la cinta intrecciata di cuoio bruno che per un tratto pendeva tra le volute della veste, scomparendo come una minuscola imbarcazione nelle oscillazioni marine, creando un rapsodico sussurro; il tiepido mormorio dei respiri, che si intervallavano tra di loro lenti, più lenti di quelli di un uomo, più lenti di quelli delle bestie.

La donna che si muoveva in quello spazio, arrivando infine ad una porta elegantemente intarsiata, era un esemplare di elfo che non aveva pari al mondo.

La sua pelle incarnata d’avorio era la stessa di tutti i suoi simili, come la struttura delle membra che pareva più simile a quella di un giunco rispetto a quella degli esseri umani. Era snella e slanciata, ritta negli abiti che, smossi da venti inesistenti, danzavano attorno alla sua figura luminosa, colpita dal riflesso del sole; la sua bellezza inestimabile era un miscuglio alchemico di serietà, che le teneva le desiderabili labbra rosate serrate, e di imperscrutabile saggezza, caratteristica che ogni millimetro di lei trasudava, imponendo con tacite parole che le venisse usato un rispetto degno di una regina.

Ma vi erano connotazioni singolari, nella sua figura, tinte che nella razza che le aveva dato i natali era raro ritrovare: poiché i lunghi capelli che le cadevano sino alla vita, intrecciati in molli treccioline che a tratti avvolgevano tutte le fluenti ciocche, erano neri come il fosco piumaggio di un corvo; e le pupille che oltre le fila di lunghe ciglia saettavano occhiate profonde e insondabili erano illuminate di riflessi rosa, come quelli di alcune particolari gemme di topazio, e guarniti di lampi occasionali che portavano lo stesso rosso dei tramonti invernali.

Loole di Inveia allungò una delicata mano, adorna di lunghe dita affusolate che recavano i segni arabeschi di tatuaggi di fine inchiostro, alla maniglia dorata della porta che la fronteggiava austera, abbassandola e creando uno spiraglio che lentamente andò ad ispessirsi sino a permetterle il passaggio, dopo di che si chiuse la porta alle spalle, penetrata in una vasta sala circolare che racchiudeva una decina di persone.

Nessuno interruppe il suo lavoro quando la sorella del Reggente fece la sua silente comparsa alle loro spalle: elfi dalle giubbe di lino marroncino trascrivevano appunti diplomatici con la loro fine e serpeggiante calligrafia; un umano dai capelli bianchi e le lenti ovali posate sul naso ascoltava parole che a lui parevano dirette, pronunciate da un elfo corrucciato, seduto scompostamente su una cattedra disadorna, lo sguardo adirato fisso sulla pietra lucida dell’antichissimo tavolo che aveva dinanzi.

«…non costringetemi a ripagarvi con la vostra stessa moneta, Guillome, e prendete la responsabilità che il vostro ruolo richiede. O sarò tentato di pensare che voi siate deluso dall’esito che ha avuto l’attentato ai mie danni»

L’uomo, solo esponente della razza nella stanza, ebbe un sussulto alle parole dl Reggente di Inveia. Con la pelle lucida di sudore accennò un gesto nervoso di diniego, a cui seguì la sua voce soffocata, che portava la paura che sentiva dopo la minaccia dell’elfo.

« Non è mai stata mia intenzione negare i miei obblighi…verrà fatta giustizia per il grave gesto…eppure mi sento ancora in dovere di…»

Il coraggioso rappresentante di corte della popolazione umana del feudo fu liquidato con un gesto del Reggente, che si levò in piedi. Gli scrivani interruppero di colpo il loro lavoro, balzando in piedi e raccogliendo di fretta pergamene, piume e inchiostri, e prodigandosi nell’uscire il più presto possibile dalla stanza. Loole, accanto al muro, osservava.

« Allora tornate a casa e fate ciò che vi ho detto. Buona fortuna»

L’uomo chiamato Guillome bofonchiò indignato un paio di parole, ma si rassegnò ad uscire dalla stanza a testa bassa. Era ormai arrivato alle porte spalancate dagli scrivani quando notò la presenza di Loole, a cui rivolse un’occhiata malinconica. Ho tentato, dicevano i suoi occhi stanchi, ho tentato ma ho fallito.

L’elfa rispose con un tacito segno del capo, e l’uomo si affrettò ad uscire dalla stanza.

Dopo la fiumana di cortigiani defluita dalla sala, Loole rimase sola assieme al fratello e ad un altro elfo, che rimaneva seduto con altezzosità al suo posto, tracciando disegni astratti sulla tavola con i polpastrelli.

Il Reggente Fanaon era un uomo maestoso, che nel passare del tempo aveva vissuto una metamorfosi dolorosa, di cui solo da poco aveva iniziato a pagare le conseguenze. Era un elfo puro, disceso, assieme al suo clan, direttamente dai Migratori delle Catene di Hörn, i grandiosi eroi che avevano innestato le radici nelle floride terre dell’Ovest secoli prima, abbandonando i castelli di ghiaccio in cui erano vissuti nelle più alte cime alpine.

I suoi tratti ricordavano molto quelli di Loole, nel taglio netto degli occhi e nelle linee aguzze degli zigomi, ma i suoi colori erano i più frequenti tra i loro simili, i capelli quasi bianchi e gli occhi blu come le profondità oceaniche. Sembrava un bel giovane se visto di sfuggita, e sicuramente aveva dimostrato di poterlo divenire anni prima, ma una piega truce del volto lo aveva segnato per tanti anni da tracciare sulla sua pelle d’avorio un cruccio perenne, simbolo agli occhi degli uomini che nel suo cuore si era conficcata una scheggia di ghiaccio che non aveva possibilità di essere scacciata.

La camicia che gli avvolgeva il petto era scostata sopra la spalla destra; là, macchiata di sangue,

una benda era stretta sulla carne, posta dalle delicate mani della saggia Nün giusto poche ore prima.

«Salute a te, fratello» parlò Loole. La sua voce, a dispetto di ciò che ispirava la sua immagine angelica, era scura, e i toni bassi delle sue parole avvolti da volute di serietà inalterabile.

Gli occhi dell’altro elfo la squadravano senza pudore, ma lei non lo degnò d’uno sguardo.

«Ah, sei qui…credevo che la notizia non ti fosse giunta» disse Fanaon con un ombra acida nello sguardo.

Loole si limitò a gettare un’occhiata alla sua spalla ferita, e ciò appesantì il suo sguardo di dolore. Il fratello lo scorse, e, senza smettere il suo cruccio né la sua alterigia, mosse una mano verso di lei, nel tentativo di tranquillizzarla – un tentativo sin troppo magnanimo, per i gusti del Reggente.

«Via, non è nulla. Ci vorrà ben altro che un paio d’omuncoli per ammazzare me, sorella. Che sei venuta a fare?»

Quanto era arido, quello schizzo di tenerezza. Loole non mutò espressione davanti al comportamento del fratello, scoraggiata ormai da anni nel mostrarsi pietosa nei suoi confronti.

«Ti porto un messaggio di Mitride e della sua gente, Fanaon» rispose la donna, sedendo accanto al fratello. Gli occhi blu di lui la seguirono, accesi di una nuova ferocia.

«Sono scontenti di te. La tassa che hai loro imposto sulle terre che occupano è inadeguata, e lamentano il tuo disinteressamento verso la loro decisione di uscire dal nostro mercato. Non hanno danaro, fratello, non possono pagarti i cinquecento pezzi d’oro che tu domandi. E soprattutto, la tua richiesta va contro i trattati che firmammo venti inverni fa…»

«Venti inverni fa io ero un altro uomo!» esclamò irato Fanaon. Loole ebbe un piccolo sussulto quando lo stivale di lui colpì con violenza il suolo, ma dopo di che rimase calma ad ascoltare. «I loro sudici zoccoli hanno calpestato sin troppo i miei territori senza darmi nulla in cambio, non tollererò oltre! Tornatene da dove sei venuta e impicciati dei tuoi compiti, sorella, non osare invischiarti in faccende che non ti competono»

La rabbia violenta di Fanaon aveva raccolto ben poco stupore dai due elfi nella stanza, e Loole attese solo il trascorrere d’un paio di secondi prima di parlare ancora, con voce pacata:

«Eri un altro uomo» ripeté piano, in contrapposizione alle urla del fratello.

Lui la guardò con odio, e i suoi muscoli delle braccia si tesero a vuoto tanto che la benda si macchiò di nuovo sangue. I suoi occhi, ciechi di rabbia, vagarono per un momento nella stanza, e poi se ne andò, a grandi falcate che divorarono nel giro di un paio d’attimi il pavimento.

Loole rimase immobile sulla sedia, senza parlare. Non volgeva uno sguardo solo all’altro testimone dell’eccesso d’ira di Fanaon, e respirava attraverso i suoi calibrati sensi d’elfa come se fosse stata sola, insensibile alla presenza di quell’individuo dal viso smunto, e gli occhi sporgenti, avidi, che non smettevano di fissarla. Rimase ferma per alcuni minuti, a pensare, e poi s’alzò, stanca del silenzio rotto solo dai loro respiri. Arrivò alla porta da poco oltrepassata dal fratello quando la voce dell’altro elfo la raggiunse, fastidiosa come il tafano attorno ad un puledro.

«Mia cara, è ammirevole come voi vi intestardiate a portare a vostro fratello i vostri pensieri politici travestiti da messaggi…»

Loole guardò l’altro con sguardo sottile, senza aspettarsi parole preziose dalla sua bocca, tanto sottile e bianca da assomigliare al taglio netto d’un coltello mosso da mano esperta sulla buccia compatta d’una zucca.

«L’unico compito che sento di dover espletare è quello di curare le ferite che il nostro feudo sta subendo, Thaurgill. Quelli che voi chiamate pensieri politici non sono altro che la voce dei nostri popoli che chiedono pace. Non mi aspetto che voi comprendiate ciò che portiamo noi amici delle genti.»

Loole non impiegò nuova rapidità nel muoversi lontano dalla stanza, e l’elfo cortigiano la raggiunse senza sforzo. La afferrò per un braccio, ma la sua stretta era tanto debole da essere spezzata dal solo scatto stupefatto di lei. Le pupille rosate della nobile elfa si trovarono a pochi respiri da quelle di Thaurgill.

«Comprendo, invece, Loole. E so bene che tu da sola non puoi pretendere di vincere questa tua piccola guerra…perché non accetti che un amico ti prenda per mano per condurti alla vittoria del tuo capriccio, se questo ti renderebbe felice?»

La figlia di Avenor si ritrasse, i sensi che sottopelle le inviavano scosse allarmate, il viso candido atteggiato in una maschera di odio represso.

La mano di Thaurgill non fu capace di trattenere neppure una piega del suo abito, e lasciò che si scostasse, eretta nel suo fiero portamento di creatura secolare.

«Torna nel tuo angolino oscuro, Thaurgill, torna a contare le tue sconfitte. Sei un debole, se pensi che mi vincerai come il vento vince uno scampolo di stoffa strappandolo al suo ramo. Io non ho bisogno di te, non ho bisogno della tua avidità» lo aggredì Loole, sostando sotto il suo lungo sguardo alterato.

Thaurgill fece un passo indietro, fremendo. Con uno sforzo che parve sovrumano accennò un inchino, e allungò un pallido braccio avvolto da seta blu a indicare il corridoio.

«Saluto la Signora di Inveia» mormorò, socchiudendo gli occhi. Loole lo guardò ancora per un istante, le labbra splendidamente arricciate, poi si allontanò in fretta. Era arrivata lontano quando avvertì lo sguardo di Thaurgill lasciare libera la sua immagine.

 

Il feudo di Inveia si allungava a vista d’occhio dal braccio ad Est del Palazzo di Onice: era dalla finestra più lontana dal resto dell’edificio che Loole amava osservare le leghe attraverso cui i loro territori si espandevano, andando ad intrecciarsi con lunghe lingue di bosco, correndo sino ai confini coi loro vicini marittimi, che reggevano i lembi di terra a picco sul mare.

Quel giorno la luce del sole investiva obliqua ogni cosa, portando con sé una tonalità ultraterrena di pallido oro che rendeva preziosa ogni particella di polvere. Un profumo floreale era limpidamente trattenuto nell’aria, come ultimo scampolo d’estate che prometteva di svanire entro poche notti.

Sin dalla sua infanzia, Loole aveva sentito la voce tonante di suo padre chiamarla Figlia delle Stelle. Da quando l’avevano trovata rifugiata ad osservare il cielo dopo che il fratello l’aveva gettata in una polla di fango per dispetto, tutti a corte sapevano che, se la nuova Dama di Inveia era irreperibile, di certo i suoi occhi erano rivolti al cielo, da qualche parte del feudo.

Sentiva così vicina al suo cuore, quella primigenia caratteristica della sua razza: quell’eterno guardare la volta celeste alla ricerca di una risposta, forse per ingannare il lungo tempo a cui erano destinati, quegli anni che li vedevano vivere e crescere come querce, senza mai accennare un inchino al tempo.

Era mistico, trascorrere le ore a guardare le nuvole, come per vedere attuato il desiderio di voltarsi e ritrovare, conficcate nelle pupille, delle schegge di cielo.

Loole si imbrigliò una ciocca di capelli fuggitiva e la mise dietro l’orecchio. Sotto di lei, lontano, alcuni umani tornavano alle proprie case: le pareva di sentire, portata dal vento, l’eco festosa dei loro canti.

Ecco, tutto era come doveva essere*. In quelle minuscole briciole di pace, la Dama di Inveia poteva confrontarsi col suo desiderio più grande. E sperare, un giorno, di vedere il suo disomogeneo popolo raggiungere la pace.

 

 

 

*: Tutto è come deve essere. La notte indurisce la polpa dei frutti, risveglia il desiderio degli insetti; calma l’inquietudine degli uccelli; rinfresca la pelle dei rettili; fa danzare le lucciole. Sì. Tutto è come deve essere.

Luis Sepúlveda, Le rose di Atacama

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Capitolo 2
*** 2. Il nome di una maledizione ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

2.     Il nome di una maledizione

 

Il vero sta nel bianco, la menzogna nel rosso e nel nero l’essenza della vita stessa.

 

Come se la vita fosse lì, a una spanna dalla mano tremante sul tavolo di legno, illuminata da quella fiamma magica balbettante che calore non donava. La magia ancora la ingannava. Distolse lo sguardo.

Per tutta la vita aveva vissuto così e ora, a pochi passi dalla libertà del corpo, si ritrova imprigionata in una guerra che non è sua.

 

Vola, ragazza, vola.

Sì, ma da quale paradiso? Non esistono dei, santi o martiri che ti possano salvare.

L’unico che rimane sulla terra bruciata sei tu.

E ci rimani pure fregato.

Perché non scriveranno il tuo nome sulla tua lapide.

 

Un nome che non è suo, che non è sulla sua pelle, né nel suo cuore. Un nome dato a un’ombra che cade nel buio e vola nel vento. Un nome dato a un guanto che uccide e ad un mantello che nasconde.

«Il nome di un sicario è come i suo biglietto da visita.» affermò il capo, in uno dei suoi alquanto noiosi e pomposi monologhi.

«Dimmi, ragazza...qual è il tuo?» sogghignò, aspettandosi un nome altisonante e difficile da pronunciare.

Lo sguardo freddo, lontano dal buio e dalla verità del mondo. Solo aperti. Solo vivi. Lo disse come se fosse il tempo, atona. Piove. Nevica. Notte. Luna piena.

«Sam.».

 

La mano che ancora trema, gli occhi fissi. Una goccia di inchiostro che cade sulla carta.

 

E fu così che diedi un nome alla mia maledizione.

Una maledizione che scende dall’alto senza pietà e ti fredda lì, mandandoti al primo Dio creatore che passa per i cieli.

Faccio solo ciò che mi viene detto, la mia anima ha un prezzo, come quella di tutti.

L’unica cosa che desidero è poter ritornare a sentire ancora una cosa sulla pelle...

 

Si fermò, rileggendo le ultime parole. Assaporandole il gusto sulla carta.

Strinse la mano, sospirando e scrivendo la verità. Dopotutto...a chi importava?

 

...il dolce profumo, la carezza notturna e lieve della vita che ti scorre nelle viscere del tuo corpo peccatore di vita.

 

Imprimendo il punto alla fine della frase lasciò la penna sul foglio, prese un mantello appeso dietro di lei e indossandolo uscì, calandosi il cappuccio sul viso. La giornata era appena iniziata, i primi bagliori della vita del nuovo giorno stavano venendo al mondo con un silenzio soffocante ma luminoso.

Le strida della città uscivano dal boccaporto in cima al muro di fianco a lei.

La vita incomincia.

La ruota della fortuna gira.

Tu devi solo sperare di avere la fortuna che arrivi a fine giornata con il numero fortunato.

Aprì un rotolo sul tavolo, osservando un ritratto disegnato a matita. Il prossimo obbiettivo da eliminare, non importava perché, andava fatto. Sospirò, di nuovo.

Afferrò il rotolo e lo introdusse in una tasca all’interno del corpetto.

La vita incomincia...già.

 

L’unica che le dà un termine però, o sono io o la morte. E nei casi più disperati, le due cose coincidono.

 

 

Un’ombra silente, con cappuccio calato, scivola nella gente senza nemmeno sfiorar vesti. Le braccia nascoste sotto la mantellina scura che arrivava all’altezza del ginocchio. Produce un suono di tessuto dolce, ovattato e misto all’odore e rumore puzzolente del mercato locale.

Venditori di lame, di pesce, di ortaggi vari dalla dubbia freschezza e chincaglierie per signore non più giovani.

«Vuole una mela, signore? Le mie sono le più gustose del mercato!» l’ombra si voltò, dirigendo l’apparente sguardo all’oggetto offertogli, e con lieve fretta si allontanò, negando con una mano ricoperta da un guanto. Si diresse direttamente alla bancarella interessata, lievemente nascosta in un vicolo, che mostrava un arsenale di armi dal più piccolo coltellino a qualche spada ben affilata.

«Cosa desidera?» domandò il mercante, giocando con le mani pregustando la pesantezza dell’oro prossimo alle sue tasche.

L’ombra, muovendosi con calma, indicò un pugnale di delicata fattura, da lancio.

L’uomo, senza decantarne gli onori né la storia com’era solito fare, lo afferrò, lo introdusse in un fodero non suo, e glielo porse con una mano, attendendo nell’altra il sacco di denari richiesto.

L’uomo afferrò il prodotto, lasciando sul balcone un sacchettino che, a contatto con il legno, produsse un suono tintinnante di denaro sporco.

«Grazie mille!» fece il mercante, sorridendo affabile. Ma quando si alzò, per guardare il compratore generoso, era già svanito nei corridoi della città, dove il cielo si colorava lentamente di rosso al tramonto dell’astro.

 

La luce, già svanita dal cielo, si nascondeva ora nelle case, piccoli rifugi di quella gente immonda dalle mani sporche di inganni.

L’ombra, in cima alle mura, osservava con il cappuccio teso sul volto i rumori silenziosi e le luci soffocate nelle case. Lo sguardo fisso in una locanda, osservare un uomo dalle vesti pregiate entrare, pronto per un giro di sbornia e divertimento locale.

Chiusasi la porta pesante di legno, l’ombra era già scivolata nel suo stesso colore di città.

 

«Oggi offro da bere a tutti! Sono diventato ricco!» disse l’uomo, con un paio di baffi arricciati e i capelli lievemente bianchi, la pelle decadente. Attorniata da giovani bellezze del locale, adibite a far divertire i più ricchi di tasche, sorridevano affabili e si facevano toccare senza dispiaceri, nel cuore aride come nelle loro vesti.

L’uomo, considerandosi un pascià, all’ennesimo bicchiere di birra proruppe in un rutto da far tremare i vetri sporchi di quella locanda di second’ordine.

Non si accorse nemmeno che, lontano dai suoi sguardi e dai suoi immediati interessi, uno sguardo oscuro lo osservava nascosto nell’angolo più remoto della locanda.

«Vuole qualcosa?» domandò un garzone giovane, pieno di pustole gialle sul viso.

L’ombra, quasi sprofondata nel suo mantello da cui non si era separata né accingeva a rivelare il suo volto, lo osservò e parlando con voce bassa ordinò del pane e del formaggio. Il ragazzo svanì, e lo sguardo ritornò al panciuto mercante, dagli occhi dilatati e le vesti strette.

«Signorina, le va di venir di sopra con me?» domandò poi l’ubriaco mercante, ormai gonfio di birra e di desiderio. La donna, sempre con occhi spenti, annuì convinta, sorridendo all’ennesimo cliente e guardando il locandiere con sguardo d’intesa.

La mano del locandiere indicò il numero quattro.

Il garzone intanto si diresse verso il tavolo dell’ombra che, assimilando l’informazione offertagli senza cautela dal proprietario della locanda, prese al volo pane e formaggio avvolgendole in un panno, lasciando sul tavolo una manciata di monete d’argento per poi uscire dalla porta principale.

Tutte le finestre della locanda, adibite a stanze di pernottamento, quella notte erano spente, tranne una.

La camera più grande d’un tratto si illuminò, e al suo interno si potevano udire suoni di risate della prostituta e la voce squillante del mercante ubriaco. L’ombra appiattita contro le tegole del tetto spiovente di fronte ad essa, il cappuccio calato, la mano guantata intorno alla lama da lancio, la presa forte e ferma. Le finestre, aperte in quei giorni di calura estiva, davano l’occasione perfetta.

Aspettò che l’uomo desse le spalle alle finestre, per avvicinarsi di più, scivolando sulle tegole marce con sicurezza.

La luna, ricoperta da strati e strati di nuvole cariche di pioggia, negava la luce per individuare l’ombra, con fisico asciutto e agilità di un gatto, mentre si avvicinava sempre più.

L’uomo aveva spento la luce, entrando nel covo di finto amore che stava costruendo ora. I rumori che provenivano dal suo interno si intuivano di che natura fossero.

L’ombra, sotto il cappuccio terso, sorrise all’oscurità, abbracciandone ogni sua forma e mistero, sentendosi come un felino nella propria radura. Acquattata, entrare dalla finestra con un balzo, facendosi intenzionalmente scoprire.

«Chi va là?» intimò l’uomo con voce squillante.

La lama interruppe lo sguardo irato, trasformandolo in panico, poi in paura, e infine in morte.

La donna, raggelata, scostò il corpo con disgusto, facendolo cadere con un tonfo sordo a terra, osservandolo attonita per poi guardare l’ombra, rischiarata dalla luna, apparsa per un poco nella piccola stanza della locanda.

Il cappuccio ancora teso sul volto, si avvicinò alle vesti dell’uomo, frugando tra le tasche e prendere il sacchetto di monete tintinnanti tra le mani.

La donna, ancora nuda nel letto, non smise un secondo di guardare quell’assassino muoversi senza vederla. Trovato il denaro e un oggetto indistinto avvolto in un panno, infine l’ombra passò il suo sguardo su di essa.

L’odore di sangue scivolava sulla pietra del pavimento, il cadavere osservato da entrambi come se fosse polvere.

La mano frugò nel sacchetto, lanciando sul letto una manata di sonanti monete d’oro, facendo sussultare la donna.

Si voltò l’assassino, e uscì da dove era entrato. Nella stanza, ora, c’era solo odore di morte e di soldi.

 

Entrando dalla guardiola di un edificio apparentemente abbandonato scese verso le fondamenta di esse, bussando tre volte e mormorare una parola. La porta si aprì, e l’ombra scivolò lesta, sparendo.

Si diresse alla porta interessata, nemmeno guardata di striscio dal robusto guardiano.

Entrando, lanciò l’oggetto rubato pochi istanti prima al mercante sul tavolo, unico arredamento di quella stanza chiusa.

Una mano scura prese l’oggetto comparendo dal nulla, ma come se fosse sempre stata lì. L’oggetto scivolò come la mano nel buio e poi un sacchetto pesante atterrò sul tavolo, velocemente preso e soppesato dall’assassino.

«Ottimo lavoro, come sempre...» mormorò l’uomo, notando lo sguardo affilato dell’interlocutore, non più nascosto dal cappuccio «...Sam.» gli occhi ambrati della ragazza schioccarono fuoco, e senza mormorare parole, né gesti, si diresse alla porta, fermata dalle parole dell’uomo.

«C’è un altro lavoro per te, sempre ben remunerato...» buttò la voce sibillina. La donna si fermò, pronta ad ascoltare.

«Le informazioni le troverai nella tua stanza, se accetti il lavoro.» terminò l’uomo, soddisfatto di aver attirato l’attenzione della ragazza.

Si voltò, muovendo la testa contornata da corti capelli di un blu notte.

«Sarà fatto.» rispose schiettamente, la voce fredda, atona, dura. Uscì, e la luce di un fuoco di corridoio illuminò per pochi attimi il volto, prima di essere di nuovo celato dal cappuccio. Un tatuaggio tribale, dall’odore di magia, tagliava il volto in due parti passando sopra l’occhio destro e la base del setto nasale.

 

Un vecchio giorno è morto, la luna, la notte vivono di nuovo ora.

La vita è finita per qualcuno e continua per qualcun altro.

L’unica cosa che di sicuro non terminerà, è la mia maledizione.

 

 

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Capitolo 3
*** 3. Lacrime d'ombra ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

I Signori delle Terre dell’Ovest

 

3. Lacrime d’Ombra

 

 

L’intenso sapore d’estate che con le ultime larghe pennellate investiva i prati del Palazzo inducevano nella mente complessa dell’elfo molti ricordi.

Profumavano di rabbia e dolore, quelle tessere di domino ripescate dal pozzo del tempo: oltre la patina di nerume sparsa su di essi dalle nebbie infauste del presente, era solo un lungo e intenso suono di ninnoli d’oro che giungeva a Loole nella sua placida traversata del prato.

Fanaon era nato in una fulgida mattina primaverile, ancor prima che la sgargiante silhouette della stella infuocata mostrasse la sua intera bellezza ai popoli delle loro terre: era scivolato nella vita in silenzio, con gli occhi spalancati e le mani timidamente contratte sul petto. Era avvolto da un’aurea di luce lattea e, appena aveva incrociato gli occhi di sua madre, aveva aperto la piccola bocca in un sorriso.

Loole, investita da un improvviso sbuffo di vento odoroso – campi coltivati, pane, capelli rossi intrecciati – socchiuse gli occhi. La memoria che la razza le aveva conferito fu rapida a farle rivivere uno dei ricordi più belli ch’ella custodisse: due paia di occhi color del mare che si sfiorano, gl’uni incorniciati di lunghe ciglia, gl’altri appena appannati dalla vita appena incontrata, e una mano lunga e affusolata tanto da assomigliare ad uno stiletto che si muove leggiadra ad accarezzare il viso umido del piccolo.

Chissà come stava, Gwersean. Erano trascorsi moltissimi inverni da quando aveva lasciato la residenza reale per ritirarsi a vita privata in campagna, in una grande casa accanto ad un vecchio mulino ad acqua in disuso. La Dama di Ghiaccio aveva baciato i figli, prima di salire sul suo cavallo baio e di svanire all’orizzonte: a trascorrere gli anni tra gli scoiattoli e i cerbiatti, tra mura di pietra grezza con la sola compagnia di un paio di pergamene e dell’amato che aveva portato via dal mondo dei vivi il suo corpo e la sua anima.

Le missive che era solita inviare si fecero sempre più rare, e col passare del tempo Loole e Fanaon si ritrovarono sempre più distanti a ricevere notizie di loro madre. Dal tono affettuoso e conciliante, le parole vergate da Gwersean si erano fatte sempre più urgenti e rigorose. Erano i tempi in cui Fanaon lasciava che il suo cuore si avvelenasse lentamente, quando ancora tutti si stupivano degli eccessi a cui si abbandonava il Reggente ormai sempre più frequentemente.

Infine, Gwensean iniziò a scrivere solo a Loole. Furono lettere di rimpianto e di confessione, irte di desideri inespressi e di preghiere. La mano della Dama di Ghiaccio si fece sempre più protettiva nei confronti della figlia, sino a spronarla a fuggire via dal Palazzo per non cadere vittima della pazzia che stava lentamente consumando Fanaon. Ma Loole rimase, e solo le sue lettere si allontanarono dal Palazzo di Onice.

Dopo le ultime preghiere e le ennesime raccomandazioni, Gwersean si abbandonò al silenzio. Entrambe loro sapevano che l’altra stava bene, ovunque ella fosse. Nel loro sangue di donne pulsava un legame sottile, che le univa attraverso gli acri incolti che correvano tra loro: un bocciolo che si sarebbe interrotto se una di loro avesse cessato d’esistere.

Così, Loole ricordava la sua genitrice senza sospirarla, convinta che, là fuori, ella stava costruendosi il suo castello di pace e serenità, sola col ricordo dell’uomo della sua vita, e la saldezza che contraddistingueva il suo sangue nordico.

L’immagine di Gwersean era sempre impressa nella memoria di Loole, senza mai venire mutata dallo scorrere del tempo: gli stessi boccoli biondo cenere, che tanto a lungo le avevano carezzato il viso da bambina; gli stessi occhi blu i cui gemelli sfoggiava Fanaon; le medesime labbra rosee che parevano uno schizzo di vernice tanto erano fini e casualmente eleganti. Le stesse mani. Mani di mamma, di regina e di donna.

La trasformazione avvenuta in Fanaon aveva molto spaventato la Dama di Ghiaccio, gettandola in uno sconforto che a tratti aveva rasentato la follia. Aveva chiamato a gran voce l’anima del figlio perché essa non fosse perduta, e quando ebbe la certezza che le sue preghiere ancestrali altro non erano che urla mute al vento, si rinchiuse in un bozzolo di spine. Loole ricordava sempre con delusione tutto ciò che Fanaon aveva smesso d’essere.

Gli stralci di memoria che portava con sé pesavano come se fossero stati segreti inconfessabili, in cui invece di un assassino vi fosse un bambino felice che andava per i campi con suo padre e sua sorella. Un bambino curioso che si arrampicava sugli alberi e che Avenor faceva fatica a riportare a terra, che afferrava la mano della sorella per trascinarla di corsa su una collina ad osservare il tramonto.

«A forza di pensare verranno le rughe persino sul tuo bel viso, madama Loole»

Una voce bianca apparve dal nulla come portata dal vento, e Loole seppe di non essere sola. I pensieri l’avevano portata lontano da lì, ed il piccolo amico che stava avvicinandosi, conoscendo quanto gli elfi odiassero essere colti di sorpresa da individui più silenziosi di qualsiasi pettirosso, aveva sfogato la piccola gentilezza di darle quel segnale della sua venuta, un gesto che ben pochi soggetti della sua razza erano disposti a compiere verso i governanti di Inveia.

Loole attese di avvertire il calore di un corpo a pochi passi dalla sua gamba prima di voltarsi.

Dalla vegetazione lontana era apparso un ragazzino smilzo, che portava colori di bosco sia sugli abiti che nel corpo. I suoi occhi color cioccolato fissavano giocondi il punto in cui lo sguardo dell’elfa si era incantato poco prima, e un sorrisetto gli increspava le labbra sfilacciate di bambino povero. Aveva i capelli mori spettinati, e tra di essi spuntavano alcune piccole foglie. Loole ne sfilò una in silenzio, e una mano poco curata del ragazzo scattò alla capigliatura, arruffandola ancor di più.

«Lo sai che gli elfi non apprezzano battute sulla loro giovinezza, messere Matias?» rispose con un tono basso e serio Loole, guardandolo dall’alto al basso. Dopo appena qualche attimo, il ragazzino alzò il visetto arrogante e sorrise.

«L’ho detto apposta» disse, negli occhi i raggi di un sole ben più splendente della luce ultraterrena che li circondava.

Loole si inginocchiò dinanzi a lui, ritrovandosi occhi negli occhi.

«Che ci fai qui, bestiola? La tua gente in questo periodo non si prepara per l’autunno?»

Il ragazzino chiamato Matias alzò le spalle insofferente, senza abbandonare il sorriso che gli illuminava il volto.

«Sono lavori noiosi» si giustificò, «intanto lo so che sei contenta di vedermi e non mi cacci via»

Loole annuì, abbassando gli occhi.

«La signora è malinconica?» chiese Matias, abbassando il viso per tentare di guardare gli occhi di lei da oltre il ciuffo di capelli che scivolava sulla sua fronte bianca; Loole si drizzò repentinamente e lui poté solo vederla quando ebbe alzato il capo.

«Stavo pensando a mio fratello, Matias» disse Loole, «ti assomigliava tanto, quando era un bambino. E ora è diventato un mostro»

«Io ho la coda, lui lo scettro» sorrise Matias, «chi di noi due è più mostro, elfa?»

Loole si lasciò sfuggire un risolino poco convinto, dopodiché s’alzò. Matias le afferrò un polso e indicò un punto lontano sotto di loro.

«Li vedi quei boschi laggiù, Loole?» chiese con voce elettrizzata. L’elfa seguì il suo braccio e scorse una macchia verde poco dopo un ponte su cui stava passando, a giudicare dai rintocchi di un campanaccio, un pastore con un paio di vacche.

«Sì, li vedo» rispose lei, curiosa di sapere perché il ragazzino fremesse ad indicarglieli.

«Papà ha detto che lì mi porta ad allenarmi. Quando è inverno e non ci va più nessuno, ha detto che ci andiamo insieme e che mi insegna a stendere un lupo!» spiegò Matias.

Loole tornò a guardarlo con un filo di disapprovazione nello sguardo.

«Un bambino come te non è adatto ad imparare cose simili…» obiettò, aspettandosi saggiamente che le sue parole cadessero nel vuoto come un sassolino lanciato in un pozzo. L’unica cosa che ebbe in cambio, infatti, fu un altro dei sarcastici sorrisi del ragazzino, che si curvò su di sé sottolineando un’aria vagamente ferina dei suoi tratti, e un luccichio sinistro balenò nei suoi occhi quando i suoi piccoli muscoli si tesero, allarmando i sensi acuti dell’elfa, pronti all’assalto.

Il corpicino di Matias spiccò il balzo, e Loole lo afferrò per gli abiti schivandolo di un paio di millimetri, scoppiando in una risata fonda e armonica che aggiunse al danno del piccolo anche la beffa. Le gote del ragazzino si imporporarono quando iniziò a scrollarsi per liberarsi dalla presa dell’elfa.

«Uffa, Loole, perché non mi dai mai la soddisfazione di prenderti di sorpresa? È imbarazzante per un lupo.» bofonchiò, dondolandosi.

La donna lo mise a terra, sorridendo sorniona.

«Torna ad aiutare tua madre, Matias, che al tuo allenamento mancano ancora alcuni mesi» disse. Lui le sorrise, accennando un saluto militare molto goffo.

«Agli ordini. Un giorno, quando sarò bello grosso, ti faccio finire a valle, elfa!» esclamò il ragazzino, partendo di corsa e voltandosi poi a metà strada verso il limitare del bosco per salutarla con la mano.

Loole lo ricambiò, sospirando alla sua gentilezza. Aveva saputo quando apparire e quando andarsene, lasciandole sulle mani un finissimo sentore di sottobosco. Lo sguardo di quarzo dell’elfa lo osservò svanire, ed il suo udito seguì i suoi passi giù per le colline, finché gli scricchiolii del terreno si fecero troppo lontani per essere seguiti.

Passi umani che si erano trasformati in falcate di bestia.

Loole si sedette sull’erba macchiata di smeraldo, raccogliendosi sul grembo le volute di stoffa che formavano la gonna del suo abito.

Aveva visto così spesso la luce birichina degli occhi di Matias nello sguardo di Fananon, ed invano aveva sperato che quella scintilla di vitalità non svanisse mai, neppure sotto la cappa opprimente dell’avarizia.

Eppure quella scintilla era morta senza lasciare tracce, e con lei erano state chiuse le pesanti porte della serenità che per molti anni erano rimaste spalancate sulla loro famiglia e sull’intero Feudo.

Matias non poteva dire addio a quella scintilla. Nessuna lotta, nessuna crescita avrebbe dovuto farlo cambiare.

Loole tirò un respiro tremulo sulle gote del cielo.

Avrebbe voluto imprigionare tutte le lucciole del pianeta, per rischiarare quella notte che scendeva inevitabile su tutti loro.

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Capitolo 4
*** 4. Svolgimenti inaspettati ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

4. Svolgimenti inaspettati

 

Sam, scivolando sul buio della notte come la mano di un poeta scivola sulla carta odorata di fresco e vitello, si fermò sul ciglio di un tetto, osservando la città dormire mentre lei, assassina e ombra di morte, è sveglia già dal tramonto.

Avere questi ritmi, a volte, stanca. Alcuni desiderano mollare tutto per avere una vita normale, alla luce del sole, poter magari vivere dei propri sforzi, prendersi un pezzo di terreno e vivere di esso, farsi una famiglia ed essere...felici.

Schioccò la lingua sui denti, provocando un suono scocciato. Questa è vita, non quella fiaba che propinano a tutti. La felicità è come la politica. Non è mai quello che dicono che sia.

A lei, Sam, quella vita bastava. Bastava per raggiungere il suo scopo.

Una fiamma la individuò sul tetto, ma fu veloce a sfuggire allo sguardo della guardia.

Svanì, come uno sbuffo di fumo. E l’uomo, osservando lo spazio prima scuro e ora chiaro, scrollò il testone facendo tintinnare l’elmo, continuando a camminare lungo la cinta.

Sam, illuminata dalla sbavatura di luna, sorrise, fiera di quella piccola dote dello scomparire al momento giusto, e saltò ferina, lanciandosi verso una nuda parete nascosta dalla luce. Alcuni ganci fecero breccia nella pietra, e cominciò a salire.

 

Fanaon dormiva, placido, nell’enorme letto a baldacchino, contornato da figure indistinte di elfe dagli svariati capelli, tutte dame di corte o leggiadre incantatrici ingaggiate per il nobile signore.

Si sentivano, nell’aria riscaldata dalle ceneri di un vecchio fuoco, i respiri sommessi delle donne e il russare forte dell’uomo. La grande vetrata, affianco al grande letto, veniva pallidamente illuminata dall’astro notturno, colorando leggermente i contorni di quella stanza piena di tutto ma anche di niente. Una sala che conteneva dalle armi da cerimonia a un enorme armadio ripieno di vestiti eleganti e sgargianti, un manichino che supportava una fine e dolce armatura da combattimento, rimasta ancora scalfita dalla Guerra degli Elfi del Sud, durata ben cinquant’anni, dove lo vide vincitore.

Quadri di inestimabile valore artistico e storico, una mappa aggiornata del Feudo, un tavolo ripieno di missive. Eppure, per quanto fosse la stessa stanza di quando era piccolo, conservava solo una cosa al suo interno: un dipinto, di mano dolce e concentrata, che raffigurava il vecchio regnante, sorridente, con accanto una dama dal taglio freddo ma dagli occhi dolci, una bambina in piedi vicino a lei e un bambino in braccio, ovviamente Loole e Fanaon da giovani.

Tutto ciò strideva con questo unico - vero - ricordo di famiglia.

Per il resto mostrava quanto vuota era la stanza e l’animo di quell’uomo dalle mille pretese e poche virtù.

Intanto fuori si sentiva uno strano ticchettio, come di una pioggia che cade sul ferro.

Ma il vetro era pulito, come il cielo, dalle nuvole, e dall’acqua.

 

Sam arrivata al grande terrazzo d’onore del Re, che si affacciava sulla camera, entrò lesta, sapendo che aveva poco tempo prima di compiere il misfatto.

Entrò, trovando la porta di vetro aperta. Osservò il letto, il cappuccio calato, due occhi chiari osservavano l’ambiente, come brillanti di luce.

Evitò il russare del principe e si avviò alla scrivania, leggendo con facilità come se fosse alla vicino a una fiamma, le orecchie tese nel caso il sonno del principe venisse interrotto.

Prese un paio di carte con un silenzio e, conscia del suo obbiettivo, si avvicinò con silenzio, in mano una bottiglietta di liquido trasparente. Veleno.

Lo stappò, la mano tesa sopra la bocca aperta, il liquido che sta per cadere quando sentì il grido stentato di una delle serve, sveglia.

Gli occhi di lei si incrociarono con quelli fiammanti di Sam, e poi urlò con tutta la voce che prima dallo spavento aveva spento.

Sam corse con un amaro nello stomaco lasciando cadere la boccetta, sapendo di aver fallito, per la prima volta, una missione.

L’uomo all’urlo scattò, afferrando un pugnale nascosto nel cuscino e, vedendo l’ombra scampare verso il terrazzo, considerò di averlo in pugno. Non aveva minimamente calcolato il fatto che l’ombra si sarebbe gettata con ovvia sicurezza oltre il bordo.

Corse, per individuare chi avesse avuto il coraggio di gettarsi da quell’altezza suicida.

L’ombra cade, cade, e il principe pensò che avesse fatto male i conti, sogghignando tra sé e sé, pregustando il suono sordo di un corpo che si scontra con il suolo. Ma non avvenne ciò che previde.

Scivolò l’ombra su uno spiovente del muro, le tegole che impedivano la presa resero claudicante l’equilibrio dell’uomo, che al bordo invece di afferrarlo, lo usò come base per un salto lungo, agile, diretto verso il muro del torrione più in basso.

Sfregiando la superficie rocciosa con un metallo tenuto in mano, facendo scaturire scintille, scivolò ancora, fin quando, con un ennesimo balzo potente si lasciò cadere al di là della cinta difensiva.

Atterrò come un ferino, e fuggì nella babele della città. Fanaon rimase di stucco. Tra tutte le meraviglie dell’essere umano e non, quella magia lui non l’aveva mai vista, e gli occhi si disegnarono di rabbia, trasfigurando il bel volto di un elfo nel pieno della vita in una maschera di ira e frustrazione pura. Rientrò in camera, ovviamente dove le guardie erano già entrare per proteggere il re, ovviamente in ritardo.

«Andate via, buzzurri, è già fuggito.» a niente valse far suonare l’allarme per tutto il palazzo, l’ombra era già stata inghiottita dalla notte.

 

Loole, convocata di gran urgenza, raggiunse la camera regale ancora in camice da notte e con i capelli lunghi raccolti per il sonno, correndo dal fratello preoccupata. Entrando nella porta spalancata della stanza più grande, senza notare le presenti dame scivolare silenziose con poche vesti addosso, si diresse verso il biondo. Venne scacciata con un gesto freddo e duro, e la donna spense ogni sua preoccupazione.

«Se stai bene, fratello mio, allora è inutile che io stia qui.» affermò, guardandolo con rabbia. Ottenne lo stesso sguardo in cambio.

«E invece un motivo c’è sorella...» rispose, incrociando le mani sul petto nudo. Anche lui era in tenuta da notte.

«Cosa vuoi domandarmi, nel cuore della notte?» chiese, con un silenzioso timore nella voce. Gli occhi nascosti dalla lanterna non fecero intuire le sue paure dal fratello.

«Devi capire chi è quella persona che ha tentato di assassinarmi stanotte.» negli occhi ancora quella magia, quella scaltrezza e dolcezza ferina di un animale che balza sul labirinto di muri invalicabili, atterraggio sicuro sul terreno, nonostante l’altezza.

Loole lo guardò negli occhi, vide un bagliore di rabbia e desiderio mista a impazienza. Si preoccupò.

«Ci stanno già pensando le guardie a cercarlo...» disse, ottenendo una risposta secca dall’uomo.

«Lo voglio. Vivo. Devo sapere una cosa da lui.» disse, gli occhi come avvelenati da una nuova frenesia, come grondanti di cieca follia. Quella che aveva visto tempo addietro per la conoscenza dell’arte dell’uccidere.

Loole si preoccupò ancor di più.

«Perché vuoi parlargli, Fanaon? Cosa vuoi sapere che già non sai?» e in risposta ricevette silenzio.

«Tsk, tu non puoi capire, donna.» ribatté, «E poi sono affari miei, tu fallo. Dopotutto...non sei tu la migliore cacciatrice del Feudo? Trovare le tracce, fiutare le prede, seguirle nel bosco, catturarle...».

«Sono animali quelle, non persone.» rispose lei, gli occhi acidi.

«Anche il tuo amico - come si chiama? Ah, Matias - è un uomo. Ma è anche bestia...no?» non credette alle sue orecchie, Loole, a sentire quella vena di minaccia nella voce del fratello. Cosa c’entrava ora Matias?

«Nelle battute di caccia non importa se è bestia o uomo, l’importante è che faccia divertire il re... l’importante è che faccia divertire me.». Loole intuì cosa c’entrava ora il suo piccolo amico muti forma. Ed ebbe paura.

«Va bene fratello, farò quello che desideri... ti porterò quest’uomo vivo...» e stringendosi nelle braccia scivolò veloce verso la propria camera, dall’altra parte del corridoio. Finché sentì gli occhi divertiti di Fanaon sulle spalle, non osò tremare nemmeno un secondo, conscia del fatto che lui l’avrebbe intuito. Se anche la sorella del re ora tremava al suo cospetto, il Feudo sarebbe morto. Lei era il suo ultimo baluardo, prima della completa disfatta. Non poteva crollare. Non ora.

Si chiuse la porta alle spalle e respirò forte, cercando di fermare quel tremore nelle mani. Per una volta nella sua vita Loole ebbe paura di suo fratello.

 

Sam rientrò nel covo con particolare fretta, dirigendosi verso la porta del capo, trovandolo ovviamente ammantato nell’ombra. La donna stette vicina alla porta, come cosciente dell’errore compiuto di cui l’uomo sapeva, ovviamente.

«Mi hai deluso, Sam... questa è la prima volta che fallisci una missione.» disse l’uomo, con tono mellifluo, come sempre. Sam abbassò lo sguardo, da sotto il cappuccio, gli occhi ancora fiammeggianti.

«Datemi una seconda possibilità e non vi deluderò.» ribatté, scattando con la testa.

Ci fu silenzio, dall’altra parte, prima che cadesse una cartellina sul raggio di luce che filtrava da una grata. Luce di luna.

Sam l’afferrò, aprendola e leggendo con velocità.

A un certo punto si fermò, alzando lo sguardo irata.

«Come sarebbe a dire, affiancata?! Non sono più una novellina, so fare il mio lavoro senza l’aiuto di nessuno! Men che meno lui!» risposte, gli occhi accesi di rabbia.

Una voce fuori dal campo interruppe la sua ira, prendendola di sorpresa. Non aveva percepito la sua presenza. Silenzioso come sempre, quell’elfo.

«Ti dà così tanto fastidio la mia presenza, Sam?» una voce calda, apparentemente affettuosa, che a Sam fece venire i brividi di disgusto.

«Francamente? Sì.» rispose la donna austera, osservando l’ombra nel buio, come il chiarore della luna sulla superficie acquatica. Il capo prese la parola.

«Smettetela di bisticciare e fate i bravi, dopotutto è solo una missione breve. Prima la porterete a termine, meglio sarà, sia per noi, sia per coloro che hanno comprato i nostri egregi servigi.» La donna, ancora con la rabbia che le scorre nelle vene e con l’orgoglio schiacciato sotto un tacco sporco di fango, uscì dalla stanza, dirigendosi verso le proprie umili camere.

Si fermò solo quando sentì i suoi passi seguirla.

«Ho orecchie più buone di quanto pensi. Smettila di seguirmi.» non si voltò, non le serviva. Non voleva rivedere il suo volto, né i suoi occhi. Gli bastava l’immagine nei suoi incubi.

Sentì un movimento di tessuto, e il suo fiato caldo le sfiorò l’orecchio, di nuovo brividi.

«Lo so, mia cara Sam...» la sua mano le sfiorò i capelli. Si scostò, irata. La mano che assaggiava l’elsa di un pugnale.

«... avevi capelli più lunghi, nei miei ricordi...» soffiò ancora.

«...e tu un’intelligenza più fine.» Sam scattò, compiendo un arco dal basso per cercare di ferirlo al ventre, ma l’elfo, veloce, lo schivò, prendendo il braccio e torcendoglielo dietro la schiena. Le sfuggì un grugnito di dolore, mentre lui si avvicinava di nuovo all’orecchio.

«Vedo che conservi la rabbia per me ancora adesso.»

«Non rabbia, odio.» sbuffò tra le labbra, mentre con la testa gli diede un colpo forte sul naso, movimento inaspettato dall’essere. Si liberò della sua prese e afferrando un pugnale per mano si preparò al combattimento. Di fronte a lei, l’oggetto dei suoi incubi.

Alto, come tutti gli elfi, d’altronde. Occhi color ghiaccio, freddi e impenetrabili, capelli biondi quasi bianchi, lunghi, raccolti in un’elegante treccia, con forme e fattezze androgine, le spalle piccole e le braccia fini ma stranamente lunghe, come le gambe, il bacino stretto.

Con una mano sistemò un ciuffo scampato all’accorata capigliatura, sorridendo con un ghigno. I suoi incubi non avrebbero mai raggiunto quel sorriso fatale.

«Continua ad odiarmi, Sam. Il tuo odio per me è come nettare di vino.» e ridendo le voltò le spalle, muovendo le spalle, scivolando dietro il primo angolo. Quella risata maligna di quella voce rimbombava nelle mura, ma peggio ancora, nei corridoi della mente, dei ricordi, di Sam come il rintocco della campana nei giorni funesti di morte e guerra.

Quella notte, perdendo il sonno, ritrovò se stessa.

C’era ancora una cosa che doveva fare, in vita.

Doveva uccidere l’uomo dei suoi incubi.

Doveva uccidere Helvorn.

 

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Capitolo 5
*** 5. Scie ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

I Signori delle Terre dell’Ovest

 

5. Scie

 

 

Seduta sul parapetto delle finestre spalancate, Loole osservava le stelle. Achernar*, lontana e pulsante, ricordava un mazzo di rose selvatiche abbandonato alla corrente dell’impetuoso fiume che la trascinava a Sud, dominatrice di quella pozza nera che era il cielo notturno, che in sussurri di vento senza sapore prometteva di aprire presto le braccia all’alba.

La cacciatrice era pronta, eppure esitava a partire. Il suo corpo elfico era avvolto in una veste da caccia che la rendeva più simile ad un ombra che ad una creatura, l’opaca pelle nera che le stringeva il petto era percorsa da lunghe cinghie usurate e morse da fibbie che mandavano un cieco bagliore, le sue lunghe gambe erano coperte di tessuto leggero di un colorito che faceva pensare che fosse stato macchiato di polvere da sparo, e i calzari in cuoio mielato erano stati soppiantati da slanciati stivali da cavallerizza.

Fosca nei suoi abiti, che portavano sulle labbra il nome soffocato di una guerra personale, si era silenziosamente intrecciata alcune ciocche di capelli per liberare lo sguardo da una qualsiasi cecità improvvisa, aveva stretto con forza la custodia da coscia in cui era infilato uno stiletto d’argento, ed ora era pronta alla partenza. Eppure il richiamo di quella notte senza più luna era stato troppo forte per resisterne, ed ora la stessa coperta notturna che l’aveva ammaliata la vedeva accasciata a quella finestra a contare le lacrime dorate di chissà quale dio, lottando in silenzio contro la spinta ad uscire da quelle mura per cercare l’assassino.

Il suo arco era posato a pochi passi da lei, nascosto nell’ombra. Le polsiere di cuoio scuro che indossava erano sfigurate da lunghi graffi che quella stessa arma vi aveva impresso in anni di fido servizio. I suoi lumi lignei occhieggiavano verso di lei con pazienza, in attesa di essere imbracciato. Sapeva che era l’ora di partire, e sapeva anche che presto le ginocchia della dama si sarebbero flesse per marciare incontro a quel destino. Come ogni battaglia, l’avrebbero affrontata assieme.

E gli occhi di quarzo della donna sovrannaturale si posarono sulla figura liscia e ammaliante dell’arco, simile ad un serpente nell’aria del mistero. Era ora di andare.

 

La città, annegata nelle tenebre, pareva un grande teatro di spettri senza forme né profondità, ma solo una varietà indescrivibile di ombre multiformi.

Avvolta in un mantello corvino fortemente assicurato alle spalline della veste da caccia da raffinate fibbie dorate, Loole scivolava silenziosa tra le mura degli edifici, seguendo una pista che od ogni altro occhi sarebbe stata invisibile, e che invece dinanzi a lei si inerpicava attraverso le vie urbane con curve serpentine, brillante come un’aurora boreale nei cieli del nord.

Lentamente, ad ogni suo passo, le variazioni di luce tra le ombre della sera si fecero sempre più eclatanti, finché i tacchi morbidi dei suoi calzari non calpestarono la luce del giorno, neonato tra le braccia delle nuvole chiare, che occhieggiava verso una variegata aggregazione di case.

Il centro più fiorente del Feudo di Inveia, da cui esso stesso prendeva il nome, aprì gli occhi alla serenità mattutina, nascondendo frettolosamente i commerci notturni che solevano amare la loro stessa natura; sempre più rapide, ombre gobbe si nascondevano alle spalle degli edifici, trascinando oggetti che sbatacchiavano lievi sulle ruvide pareti. Loole lasciò che molte figure incappucciate la scambiassero per una statua trasparente all’interno nelle budella della periferia, mentre con gli occhi seguiva i respiri agitati che esse si lasciavano alle spalle, tranquilla nel sapere che l’individuo che andava cercando non era lontano, ma neppure tanto vicino da essere uno di quei fuggitivi dall’aspetto malaticcio.

L’elfa si insinuò nei vicoli meno frequentati dell’insieme urbano, dove rivoletti putridi rigavano i fianchi dei camminatoi e rumori soffocati e sinistri si disperdevano nelle nubi di vapore che, ad intervalli di qualche metro, s’innalzavano da grate instabili verso il cielo – un cielo ferito nel profondo dalle lame affilate dei tetti simmetrici che coprivano in gran parte la visuale aerea.

Camminava da molto tempo schiacciata in una viuzza larga meno di un metro quando udì il primo rumore rilevante. Stava giungendo finalmente alla fine del vicolo, dove una piazzetta decadente s’apriva in circolo, e uno scalpiccio provenne proprio da sopra la sua testa: un paio di colpi sordi soffocati, provocati da qualcosa – o da qualcuno – che non volesse essere scoperto.

Loole scivolò via dall’abbraccio delle due case tra le quali era rimasta rinchiusa, e tese l’arco già in precedenza armato.

Attese. La piazza alle sue spalle era deserta, parte dei suoi sensi erano orientati verso d’essa; una brina caliginosa ricopriva i sampietrini incastonati nel terreno, una finestra cieca era affacciata da un muro basso, e un gatto vagabondo aveva da poco lasciato una forte traccia urinaria ad alcuni metri da dove ora lei era piantata, gli occhi rivolti al cielo e i muscoli in tensione.

Attese un rumore, un movimento, ma non accadde nulla. Trascorsi minuti e minuti, abbassò la guardia armata e si guardò attorno.

Si era allontanata appena dal luogo su cui aveva sostato quando, alle sue spalle, un soffice suono fece capolino.

Tutti i sensi in allerta, Loole ruotò su se stessa, tendendo nuovamente l’arco, il paesaggio demotivante che correva rapido dinanzi al suo sguardo acuto che, nonostante la rapidità, percepiva ogni forma e ogni colore nitidamente; si presentò davanti a lei un’ombra accovacciata, che senza attendere si preparò a balzare lontano, rivelando capacità superiori a quelle di qualsiasi essere umano, ma non abbastanza sviluppate da ingannare un elfo.

Loole scoccò, proprio quando l’ombra accennava un lungo passo di corsa, e la freccia si conficcò sibilando nel tenero muro umido alle spalle del nuovo arrivato, portando con sé spessi strati di stoffa.

L’elfa si accostò subitanea alla figura celata che, sorpresa appena, strappò con forza gli abiti dalla stretta della freccia, e prima ch’essa potesse fuggire l’afferrò per il collo, stringendolo nella piega del gomito.

«Tu sei fuggito dal Palazzo d’Onice» sibilò Loole al suo orecchio. L’individuo ristette nella sua stretta senza ribattere, limitandosi a respirare. Il suono dell’aria che fluiva nei suoi polmoni rubava a Loole gran parte della propria capacità uditiva.

«Chi siete voi per dirlo?» sussurrò l’ombra fattasi uomo dopo un istante, prima di divincolarsi con forza e di guadagnare abbastanza terreno da sferrare un duro colpo allo stomaco dell’elfa, che colta di sorpresa si piegò, dando il tempo all’incappucciato di fuggire correndo.

Loole si lanciò nella sua direzione senza esitare, osservando gli scatti felini del mercenario che lo portarono al muro basso dirimpetto a lei, dove nasceva una scaletta arrugginita e divelta in più punti. Loole imprecò contro se stessa per aver lasciato quella via di fuga al suo uomo, e proprio mentre questi si ergeva sul limitare del tetto, anch’ella salì i pioli scivolosi della scala, allungando l’arco.

Iniziava a piovigginare quando il fuggitivo commise l’errore che gli costò una pesante caduta sul tetto di pietra: senza accorgersene l’arco gli aveva agguantato uno stivale.

Il mantello nero si gonfiò, il cappuccio voltò via dalla testa: a Loole parve quasi una scena della commedia del ridicolo, prima di posare il piede sul tetto e di ritornare a quella che era solo realtà.

Si accostò alla persona sdraiata a terra e con sorpresa constatò che ciò che si era raffigurata nel pensiero divergeva di molto con la verità delle cose.

Il cappuccio nero, che iniziava a macchiarsi di goccioline di pioggia, aveva lasciato liberi capelli tagliati corti che, alla luce tribolata di quel giorno maledetto, sembravano risplendere di una morbidezza simile alla seta. Agli occhi sorpresi di Loole quei capelli si mostrarono del colore del cielo notturno.

L’elfa sgranò gli occhi, stupita di trovare di fronte a sé qualcuno che non era un semplice umano: solo la prova vivente che le movenze inumane di poco prima avevano una giustificazione palese.

Il fuggitivo fece leva sulle braccia e alzò la testa, puntando sul viso di Loole uno sguardo arcigno, che deformava il viso dai tratti decisi ma morbidi in una maschera di ira profonda, verso se stessa come verso quell’elfa dall’aria nobile che aveva teso una trappola vincente. Era una donna, quella stesa scompostamente sul tetto, mantenendo la grazia nella sua figura: una donna dagli occhi neri, vestita di nero e armata di un paio di coltelli da lancio e di altri attrezzi seminascosti dal mantello.

Loole, per niente impressionata dal ringhio che le labbra dell’altra atteggiavano, si prese tempo per studiare il suo viso. Con una mano la teneva giù, ma senza fare pressione: la ragazza avrebbe potuto fuggire in qualunque momento, ma non lo fece. Gli occhi dell’elfa intanto erano perduti nello studio del disegno tribale che, simile ad una vena d’inchiostro su una pergamena precoce, segnava quel viso come…

Una maledizione.

Loole si allontanò di scatto dalla donna, che si alzò con calma e la fronteggiò, assumendo una posizione tesa che sapeva tanto di vecchie esercitazioni.

«Che hai sul volto?» chiese Loole, rapita. Il disegno ora appariva ancora più pericoloso, ornato dallo sguardo serio da leonessa a caccia della donna.

«Mi hai allestito un agguato solo per chiacchierare, madama?» ribatté arrogante la giovane donna.

Loole, a quelle parole, parve ricordare il perché era là.

«Sono stata mandata dal Reggente del Feudo per scortarti al Palazzo d’Onice…» disse l’elfa senza particolare enfasi.

La donna si accorse di come questa notizia non fosse per nulla resa significante dalla voce della creatura, e accennò un sorrisetto.

«E immagino che tu voglia portarmici con tutti gli agi e le cortesie, vero?»

Loole abbassò gli occhi. Nella sua mente, un gran subbuglio di pensieri si intrecciava su se stesso, come fosse fiera all’interno di una gabbia.

«No» rispose. Il suo sguardo si spostò nuovamente sul viso della donna.

Ella assunse un cipiglio interrogativo. I suoi sensi si impregnarono dell’indecisione che l’elfa esprimeva, domandosi in silenzio cosa c’era da aspettarsi.

La Dama di Inveia attese ancora una manciata d’attimi, che tenne per sé per respirare profondamente. L’aria fredda e appesantita di fine pioggia la rinvigorì fintamente, e le diede la forza per parlare, prima di svanire e rigettarla nella confusione di crampi che le attanagliavano le meningi temprate di donna d’intelletto.

«Ti offro tre sacchetti d’oro per compiere l’assassinio del Reggente del Feudo, mio fratello»

La donna dai capelli color del cielo estivo ristette, sorpresa. Non si sarebbe mai aspettata una simile proposta da un elfo, soprattutto da quella elfa; un voltafaccia diretto non solo ad un suo simile, ma persino ad un parente stretto, il parente – Sam lo sapeva – più vicino che le fosse rimasto.

«A un prezzo simile, credo non ti convenga rifiutare» aggiunse piano Loole, guardandola in tralice.

«Io non accetto un lavoro in questa maniera» rispose l’altra donna. «Devi lasciarmi tempo»

«Allora prenditi quattro giorni per pensarci. Tre sacchetti d’oro, e ti offro la mia collaborazione. Tutto per un assassinio e il tuo silenzio»

Loole ascoltò con orrore le proprie parole. Un battito sordo risuonò nel proprio petto.

«E sia» annuì il sicario, parlando con un filo di voce. Loole annuì a sua volta.

«C’è una locanda a pochi passi da qui, nel retro ha un cortile dove tengono i cavalli degli avventori. Tra quattro giorni, a mezzanotte, sarò lì. Se non vi vedrò arrivare entro una quindicina di minuti io me ne andrò e per il vostro assassinio dovrete arrangiarvi»

Loole non sentì alcun sollievo sentendo come il tono della donna aveva ripreso pacatezza, ritornando a rivolgersi a lei con il “voi”. La stava trattando come un cliente, e il prezzo pattuito avrebbe scambiato una merce molto particolare: la morte.

L’elfa annuì ancora, facendo un passo indietro. La donna abbassò il capo in seno di saluto, e si tirò sul capo il cappuccio, nascondendo di nuovo i propri lineamenti nell’ombra. Diede le spalle a Loole, senza però abbassare la guardia e, giunta alla fine del tetto, si lasciò cadere, atterrando morbidamente sul selciato.

Sam si portò una mano umida al viso, tergendolo. Era solo un lavoro come un altro. Eppure, portava un nome ben diverso dagli altri: profumava di innocenza e di un certo tipo di amore a cui ella non sapeva dare nome. Gli occhi di quell’elfa, così differenti da tutti quelli che fino ad allora aveva incontrato, lanciavano disperati segnali di dolore. Il sicario svanì lentamente nelle budella della città. per la prima volta nella sua vita, non si era accorta di come il cielo si era ritirato dietro ad una pesante coperta di nubi uggiose.

 

Loole, nascosta dietro un alto muro di una casa che, al pari di tutte le altre, pareva abbandonata, a dispetto dei rumori soffocati che provenivano dal suo interno, trasse dalla custodia lo stiletto. Gettata un’occhiata tutt’intorno, si premette la lama con forza sul braccio, lasciando che la fredda lingua d’argento disegnasse nella sua carne una ferita.

L’elfa gemette, premendosi una mano sulla pelle. Il sangue scivolava tra le sue dita, ma senza prestarvi attenzione pulì la lama del pugnale alla bell’e meglio sotto un rivolo d’acqua piovana che cadeva da una grondaia.

La pioggia si stava facendo sempre più forte. Loole osservò un’ultima volta ciò che aveva attorno: le strade deserte, le case, le pietre brillanti di gocce. Ecco come quella città di miseria veniva incoronata regina degli storpi.

La Dama d’Inveia abbassò il viso e riprese la marcia. Si sarebbe confusa con le ombre gettate dalle nubi tornando al castello. Le stesse ombre che tanto assomigliavano alla sua anima addolorata, ripiena di dolore e di bieca determinazione.

 

Madre, fa che la follia della nostra casta non si appropri anche di me.

 

 

*è la stella più brillante della costellazione di Eridano, il Fiume Celeste, che secondo la tradizione rappresenta il Po.

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Capitolo 6
*** 6. Suggerimenti dal passato ***


Signori delle Terre dell’Ovest

 

6. Suggerimenti dal passato

 

La stesura di questo capitolo non è stato fatto né da Adhara, né da Eriok.

Volevamo informarvi di ciò per il fatto che l’autore e quindi il punto di vista di questo personaggio è un amico delle autrici, che ha chiesto se poteva, in forma breve, dare un pizzico di sé in questa storia e in questo genere che ama tanto. Ecco a voi, allora, in questo capitolo di nuova forma, ViktorLebowsky all’opera.

Buona lettura a tutti.

 

 

 

L'aria della taverna era pesante e soffocante, ma non tanto quanto quella delle bettole dei regni degli uomini. Per Viktor andava bene così, se non fosse per il fatto che la birra elfica era leggera e troppo dolce. Scansò l'ennesimo boccale e se ne fece mandare un altro mentre ascoltava le dolci note di un violino.

Il suonatore era rincantucciato in un angolo oscuro dove le pareti gonfie di odori stantii s’incontravano; vestito di stracci, riempiva la fitta tessitura di voci roche e silenzi che occupava l’ambiente. I tavoli di foggia rustica erano fiocamente illuminati da bracieri sporchi; uomini e elfi, confusi nei loro anonimi panni di reietti, occupavano quelle panche scheggiate.

Sfregiato in volto e abbigliato come il più squallido tagliagole, Viktor se ne stava solo ma non in disparte. Ammirò per qualche istante l'elsa lavorata del suo stocco, gli occhi che vedevano doppio, e non sentì nemmeno arrivare lo sconosciuto alle sue spalle.

«Viktor! Vecchia canaglia! Cosa ci fai in un posto come questo?».

L'uomo si voltò, divertito, e quando vide la sua vecchia amica scoppiò in una risata.

«Sam! Non posso crederci, dev’essere un miraggio! Sarà qualche stregone elfo che ha fatto un incantesimo ai miei occhi! Cosa diavolo ci fai tu in un posto come questo!? E guarda come sei conciata! Sembri un pulcino bagnato! Oste, porta del buon vino alla mia amica, e alla svelta!».

I due non fecero caso all'occhiata minacciosa che l'oste lanciò all'uomo. Sam si sedette, sollevata nel rivedere un vecchio amico, mentre Viktor rideva divertito picchiando le mani sul tavolo. Attirava l'attenzione.

«Dai, dimmi, amica mia. Cosa ti porta qui, in questo sperduto regno di elfi? Alla Regina degli storpi?».

«Lavoro, Viktor. Lavoro...».

«Mmm... Mi pare che ci sia qualcosa che non va qua!».

«Sei ubriaco per caso?».

«Quando mai sono stato sobrio?» sorrise Viktor finendo la birra. Si pulì la bocca con la manica e Sam rise. «Sam, piccola mia, ti conosco da quando sei nata. Ricordi quando da piccola ti tenevo a cavalcioni sulle mie ginocchia? Quanto ridevi! Vedo che hai ancora una bella chioma di capelli blu notte! Non come me... Ma parliamo d’altro! Vedo dai tuoi occhi che hai un qualche dilemma... È successo qualcosa di brutto? Puoi contare su di me, lo sai.».

«No, niente di speciale. Se si trattasse di problemi concreti me la potrei cavare da sola.» rispose Sam accarezzando le impugnature dei suoi splendidi pugnali da lancio. Viktor sorrise.

«Non sei cambiata affatto.».

«E tu non sei invecchiato di un giorno! Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ci siamo visti? Sei anni?».

«Nove, piccola mia...», sospirò Viktor, stanco. Si passò una mano sulla metà destra del proprio cranio, rasata a zero «Il tempo passa, inesorabile... Ma non stare a sentire le farneticazioni di un povero vecchio! Tu sei giovane, hai tutta la vita davanti! A proposito, mi pare di capire che finalmente sei arrivata dove volevi arrivare. Sei diventata un sicario, dico bene? Lo vedo dai tuoi occhi. Hanno una luce strana, la luce di chi conosce la morte come compagna.».

«Come i tuoi?», lo stuzzicò Sam.

«Conosco molte compagne, Sam, e la morte non è la mia favorita.» rise lui. «Come te la passi?».

«Alti e bassi, vecchio mio. Come al solito. Dimostrare ogni giorno che sei più brava ed esperta nell'arte della furtività e dell'assassinio è già di per sé stancante senza contare il fiato sul collo degli elfi. Devo sempre mantenermi uno scalino più in alto di loro altrimenti mi schiacceranno. Tu dovresti saperlo bene.».

«Io so solo che non sembri avere problemi in questo. Ti conosco bene, Sam! Il tuo problema non può essere questo! Questi quattro elfi non valgono mezza cicca, li puoi prendere tutti comodamente a calci nei loro sederi rosei! Avanti, sputa il rospo.».

«Non è un segreto che posso confidare a cuor leggero, Viktor, anche se parlarne mi toglierebbe un tale peso... Vieni, andiamo fuori. Ho bisogno di prendere un po' d'aria.».

Viktor seguì la graziosa ragazza che avanzava verso l'uscita. I suoi passi non producevano alcun rumore e ogni suo movimento era aggraziato e delicato. Sembrava un predatore in caccia in una grotta di pecore belanti. Aveva imparato bene. Dannatamente bene.

Fuori continuava a piovere, l'intera città avvolta in una cappa di tetra malinconia.

Gli occhi neri di Sam, stranamente cerchiati, osservarono per un attimo il cielo: una tavolozza sporca di tinte fosche, caduta in una pozzanghera infangata per colpa di un qualche artista sbadato. Le gocce d’acqua, fredda nella loro ripida discesa verso il suolo, erano piccoli pugnali per la consistenza ovattata delle sue pupille, ma non per questo abbassò le palpebre. Accanto a lei sentiva la presenza dell’amico, una figura che irradiava un calore stinto da accampamento autunnale attorno al fuoco di bivacco.

«Malinconia al caffè.» proruppe Viktor assaporando l'aria fresca di pioggia.

«Come?».

«Malinconia al caffè! Potrei usarlo per qualche mia poesia, quando avrò tempo. Sembra buono...».

Sam scosse la testa, sorridendo. Ecco quel sapore antico di vicinanza che si scioglieva sulla lingua. Un legame che nessuno di quelli come lei potevano permettersi di mettere in primo piano. Eccoli, due figure nella notte: gli esempi concreti di questa semplice e disumana regola di vita.

«Come procede con il lavoro, Viktor? Non sei stanco di fare ciò che fai? Non hai dubbi?».

«Dubbi?» borbottò l'altro, mettendosi il cappellaccio a tesa il larga in testa. Sembrava un vecchio spaventapasseri «Mia cara, il mio mestiere è fondato sui dubbi! La caccia alle streghe... Quanti ricordi mi tornano in mente, Sam, rischiano di sommergermi. Faccio questo dannato lavoro da una vita e mi sento come se non dovesse finire. Sono troppo vecchio ormai... Ci sono più probabilità di trovare il fantomatico ago nel pagliaio che una strega in questa terre. Gli elfi, dannati loro, sono tutti maghi», sputò a terra. «E da quello che ho capito adesso fanno amicizia con i licantropi! Ai miei tempi quando si vedeva un licantropo gli si sparava in mezzo agli occhi un quadrello d'argento, non gli si dava da mangiare!».

«Visto il tuo odio per gli elfi ti farà piacere conoscere il mio nuovo bersaglio.», la ragazza abbassò la voce, circospetta «Devo assassinare l'attuale reggente degli elfi, per tre sacche di monete d'oro.».

«Un lavoro che ti sistemerebbe per la vita. Potresti comprarti questa baracca con tutti quei soldi! E il problema dove sarebbe? Temi forse di non riuscire a superare le guardie di palazzo?».

«Niente affatto. É ardua da spiegare, Viktor. Non trovo le parole... Sento che non devo farlo...».

«Inizia la storia daccapo, Sam.», disse Viktor, serio per la prima volta.

«La mia gilda mi aveva, tempo addietro, commissionato un attentato al reggente degli elfi. Un lavoro arduo, ma non impossibile. Ce l'avevo quasi fatta, Viktor. Stavo per somministrargli un certo miscuglio e poi sarei sparita nell'ombra. Ma ho fallito. E quel vile ha mandato i suoi segugi alla mia ricerca. Non pensavo mi avessero trovata... Eppure proprio ieri un’elfa mi mette in scacco. Un’elfa, capisci? Niente meno che la sorella stessa del re.».

«Loole?», chiese Viktor, grattandosi il pizzetto rossiccio.

«Come fai a saperlo? Ah, che m'importa... Fatto sta che l’elfa mi ha in pugno, e che fa? Mi lascia andare. E mi ingaggia per mettere fine alla vita di suo fratello. Capisci? Gli elfi non fanno queste cose, Viktor. Questo comportamento è troppo... Umano.».

«Vero. Ma è altresì vero che il suddetto re degli elfi è un incapace. M’intendo discretamente di intrighi di corte, intrighi umani sia chiaro, e la mossa dell'elfa potrebbe essere un suo piano per prendere il comando. Di questi tempi non sembrerebbe una cattiva idea, visto come vanno le cose tra i vari regni...».

«Non riesco a capire, Viktor. Qui dev’esserci qualcosa che non va. Non stiamo parlando delle terre degli uomini, questi sono Elfi! Quale elfo pagherebbe per assassinare il proprio fratello?».

«Sam, Sam, vuoi farmi credere che sei assalita da i tipici dubbi sulla morale? Vuoi dirmi che non riesci a tenere a bada la tua coscienza? Tu sei un'arma, non sei una persona. Sei pagata per portare la morte. Pensieri simili non devono albergare nella tua testa, ti distruggerebbero.».

«Il punto non è questo, Viktor. Il punto è che non posso farlo.», sbottò Sam «Questo porterebbe ad una guerra! Scatenerei una guerra terrificante tra il regno degli elfi e quello degli uomini, capisci? Perché verrebbero di certo a sapere che è stata un’umana a piantare un coltello nel cuore del re e allora si scatenerebbe l’inferno sulla terra. Milioni di morti...».

La donna ruotò il corpo per fissarlo. Gli occhi del cacciatore, seppur nascosti nell’ombra della tesa del cappello, ai suoi occhi allenati apparivano come tizzoni ardenti che la osservavano fin dentro l’anima.

«Dici il vero, amica mia, dici il vero», rispose Viktor meditabondo «Ma a te importa davvero qualcosa? La tua mano è frenata forse dal pianto dei bimbi che non vedranno tornare il loro padre alla sera? È fermata dai contadini che moriranno di fame poiché i nemici devasteranno le loro terre? Davvero? Non farmi ridere, Sam! Il problema non sta nella tua mente, sta nel tuo cuore.».

«Non essere sciocco, cacciatore di streghe.».

«Sei tu l'unica sciocca qui, Sam», le sorrise con affetto Viktor «Sei un sicario, Sam, uno dannatamente bravo. Ricordo quando da piccola giocavi con le spade di legno in riva ai fossati. Ti guardavo e già ti immaginavo come una donna che danzava nella battaglia. Non te n'è mai importato nulla degli altri, per questo sei quello che sei. Nei nostri mestieri è fondamentale prendere a calci la coscienza e farle capire qual è il suo posto!».

«Non capisco cosa vuoi dirmi, Viktor. Parla chiaro.».

«Voglio dirti, amica mia, che nella vita si fanno le cose per tre semplici motivi: per profitto, per appagamento, e per amore. Ergo, se il profitto per te è irrilevante e se la tua coscienza ti a rinunciare forse è il momento di seguire il tuo cuore» spiegò Viktor fissandola negli occhi «Credimi Sam, sono quasi due secoli che mi trascino su questa terra, forse posso aver capito qualcosa. Qualcosa da poter raccontare, insegnare, in modo che anche gli altri non facciano i miei stessi errori. La via del cuore non sbaglia mai. Mai.».

«Le tue parole sono confuse, Viktor. Non capisco perché mi dici questo... Devo pensarci sopra. Ho altri tre giorni per riflettere, sono sicura che alla fine arriverò da qualche parte.».

«Ne sono sicuro anche io, amica mia. Ne sono certo.».

«Forse è meglio che ora ci separiamo, Viktor.» disse tristemente la ragazza «Non è il caso che io mi faccia vedere a lungo in giro, non con il compito che mi appresto a svolgere. Prometto... Prometto che farò ciò che mi dice il cuore e quando ci rivedremo capiremo se sarà stata la scelta giusta.».

«Lo saprai nel momento stesso in cui lo deciderai, Sam, nonostante tu sappia già qual è la scelta giusta da fare. Quando accadrà tu lo saprai, e lo saprò anche io! Infondo un re che viene assassinato è una notizia che farà presto il giro del mondo!» rise il cacciatore di streghe.

«Grazie dell'aiuto, vecchia canaglia.» borbottò la donna, sorridendo suo malgrado. Gli batté una mano sul braccio, ed inclinò il busto indietro.

«Aspetta, Sam», sussurrò Viktor avvicinandosi alla ragazza. Le parlò all'orecchio, come se tutto quello che avessero detto fino ad allora fossero bazzecole a confronto di quel segreto «Il tuo segno, la tua... Maledizione. Mi sono informato, se vuoi posso fare qualcosa per aiutarti. Non sarà doloroso, è solo...». 

«No, Viktor.», lo zittì lei, seria. «So già cosa devo fare. E so quale sangue devo versare per questo.».

«Ne sei sicura? Hai vissuto abbastanza con un fardello come quello.», fece lui, deluso.

«Non preoccuparti per me, vecchio mio, so badare a me stessa. Lo sai. Ora, con permesso, la notte mi chiama.».

«Buona fortuna, piccola mia. Ti auguro ogni bene.» concluse il duro cacciatore di streghe, cupo.

«Buona fortuna a te, canaglia...», sorrise lei. Un sorriso venato di tristezza «Alla prossima.».

Si allontanò di corsa, scomparve nel buio. Lasciò che una lacrima le bagnasse una guancia. Il suo cuore le disse che non lo avrebbe più rivisto. Un pensiero cupo, triste, malinconico. Malinconia al caffè, come avrebbe detto Viktor, il cacciatore di streghe.

L'uomo in nero con la lunga cicatrice sulla faccia e la testa rasata per metà osservò la sua amica andarsene. Sparire nel buio. Era una vera professionista.

Soffocò un’imprecazione quando pestò dello sterco di cavallo e rientrò in taverna. Il suo cuore, quel poco che ancora possedeva, gli diceva che non l'avrebbe più rivista.

«Il cuore a volte sbaglia», sospirò, fissando il boccale vuoto «Scusa se non te l'ho detto, Sam. Ma il cuore non ha tutte le risposte... la birra ha tutte le risposte. Oste, dell'altra birra! C'è gente che muore di sete qui!».

 

 

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Capitolo 7
*** 7. Pioggia e decisioni ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

7. Pioggia e decisioni

 

Sam sapeva osservare bene il mondo, dall’alto delle guglie della cattedrale, un fantasma che si staglia in mezzo alla marmaglia di case confusionarie, in mezzo al fango e in mezzo alle lacrime di quel signore che quei pinnacoli cercavano - invano - di raggiungerlo. Sam guardava con occhio esperto la concatenazione di vie, strade principali e portici di fronte a sé con sicurezza, conoscendone ogni anfratto. Aveva appena salutato un caro amico, incontrato per fato o per caso - oh, quanto possono essere sinonimi queste due parole - e gli aveva detto inconsciamente addio. Sapeva che, in quella missione, in quella particolare missione, Sam avrebbe perso il fluire della sua pallida e oscura vita, per incontrarne un’altra, molto più intrigata. Lo sentiva, lo percepiva.

La pioggia cade, intensa e soffocante, come un muro di leggeri fogli di aghi. E Sam ne assapora ogni stilla, come se la pioggia lavasse via tutto, anche le lacrime.

Dire addio a quella vita, per quanto ricercata, l’aveva quasi illuminata. Una donna le offriva la vita e la morte. Sapeva che quello che gli era stato chiesto l’avrebbe fatta radiare dalla sua gilda - la morte - ma non le importava. Ora aveva altri obbiettivi.

L’unico obbiettivo che la teneva in vita. La morte di Helvorn.

Stava buttando se stessa in un baratro di infinita sofferenza e perdere la coscienza di sé non è da Sam. Eppure lei, per quanto sapesse il prezzo della vendetta, lo assaporò e lo incorporò nel suo petto.

Uccidere il suo cuore era solo il primo passo, ma una volta che si incomincia a camminare nell’oscurità, gli occhi si adattano al buio. Al dolore.

La luna, da dietro le nuvole cariche di pioggia, fa capolino. Gli occhi brillano di fuoco, un corpo si abbandona alla forza di gravità.

 

Loole avanzava silenziosa nelle vie della città, silenziosa, aggraziata nei movimenti, la pioggia bagnava con insistenza il suo mantello. L’arco, a tracolla, spuntava fuori di poco dalla spalla della giovane. Entrò nel primo pub, lanciando una moneta per una pinta di birra. Stette in un angolo, assaporandola poco a poco. Birra umana, intensa e amara, troppo, per lei. Ma, ormai pagata, decide di finirla comunque.

Ordinò anche un brodo caldo, per cercare invano di riscaldarsi. Il focolare era troppo lontano per sentirne le sue leggere vampate di calore.

Pochi uomini ancora stavano in piedi a quell’ora di sera, quando ormai la maggior parte dei contadini dormiva. Sussurravano, ma le sue orecchie udivano comunque i discorsi degli uomini seduti dall’altra parte del pub.

«Questo Fanaon non capisce un cazzo di come si comanda un paese... Sono stato al porto, tempo addietro, nella contea vicina, là è tutt’altra vita a differenza di qui. Devi vivere per pagare qui, là puoi permetterti anche una vita al di fuori del lavoro. E pagare per cosa poi? Per una statua nuova di questo stupido e giovane re? Per nuove aree del palazzo a cui noi non possiamo accedere? Sto rimpiangendo sempre più spesso il vecchio re, quello sì che era buono...» un uomo sfregiato dal lavoro e dal sole parlava, mostrando vesti da artigiano. Un uomo con plateali vesti da contadino rispose.

«Hai ragione, compagno, qui è impossibile vivere, ti ricordi la guerra che ha devastato le Terre dell’Ovest per anni? Sai qual’era il motivo? Me lo raccontò mio padre - che riposi in pace - che era un vecchio funzionario del re... avidità. Voleva le terre del vicino perché erano più verdi e più floride. Mio zio ci morì, per questa causa di merda, e con lui tutti i suoi figli. E intanto io devo coltivare sempre il mio orticello, di cui non posso tenere che una minima parte. E quella la uso per avere di nuovo altro da rivendere. Non vivo di quello che coltivo, capite? Viviamo di stenti, io e mia sorella. Mia zia morì di fame.» la rabbia colorava il pugno di quell’uomo, ruvido per i lavori manuali e per la rabbia repressa.

Un uomo incappucciato, nascosto alla vista della donna, intervenne nel discorso, parlando con soffi soffocati.

«Mia zia è una delle tante serve che vivono a palazzo. Dice che il re, oltre a vivere nel lusso, si diverte anche con le serve più giovani. Mi disse che una volta una giovane che lei conosceva rimase incinta di lui. Gliene parlò, sperando che lo riconoscesse come proprio e lo crescesse. Sapete che fine ha fatto quella giovane?» l’uomo lasciò una pausa, per aumentare l’effetto «Fu trovata morta in un condotto delle fogne. Il figlio strappato dal suo ventre squarciato e lasciato morire accanto a lei. C’era sangue ovunque. Fu mio zio a trovare il corpo, e io a ricomporre le spoglie. Fu seppellita un mese fa, e non fu per questo motivo che smise di divertirsi con le serve.» gli occhi del commerciante si illuminarono di furia.

Il contadino sollevò il bicchiere, in segno di cordoglio, e ingurgitò il rimanente del vino.

Loole rimase stupita, aveva gli occhi sgranati, e quando le arrivò la zuppa, ne mangiò pochi bocconi di pane. La birra era diventata calda, e il suo volto si colorò di disgusto. Strinse la mano guantata intorno all’impugnatura del vetro e ingurgitò.

Gli uomini però non smisero di parlare.

«Conosco queste storie, tutte vere purtroppo. Ma per i morti ci sono solo lacrime, ora bisogna pensare ai vivi. Ma sono sicuro che se morisse lui, altro che lacrime, offrirei birra a tutti.» proruppe il contadino, e il commerciante incalzò.

«Ho sentito che c’è stato un attentato al re, ma che non è andato a fondo. Vorrei stringere la mano a quel coraggioso che ha provato a ucciderlo. Se fosse stato per me l’avrei pugnalato al cuore.» aggiunse.

«Io vorrei tanto che la sorella del re fosse salita al trono, assomiglia tanto alla vecchia regina, la ricordate? Che poi fuggì chissà dove, lasciando il re e i figli giovani.» i due annuirono e l’uomo incappucciato parlò.

«Molti desiderano la morte del re per avere lei al trono, dopotutto hanno pochi anni di differenza, e il ragazzo è salito al trono solo perché maschio, ma preferisco lei, di gran lunga, se facesse smettere la vita di stenti di noi poveri esseri umani.» Loole finì la sua zuppa con un groppo allo stomaco. Stavano parlando di lei, ora.

La birra stava per finire, le bolle che salivano, e la schiuma che colava dalle pareti del bicchiere. Il suo tempo lì stava per finire, e la pioggia, fuori, non cadeva più. Non c’era più il ronzio del suo urlo, alle finestre.

«Ma è pur sempre una donna. E delle donne non bisogna fidarsi, soprattutto di una elfa dai connotati strani. L’avete vista, no? Ha capelli neri... e io nella mia lunga vita non ho mai visto una elfa coi capelli neri. Ma voi avete ragione, sir, quell’elfo ormai ha vita corta. Ha calcato troppo la mano, ed è odiato da tutto il regno. Finirà accoltellato al cuore, prima o poi. E chissà, magari dalla stessa sorella.» con quell’ultima affermazione Loole ingurgitò il restante della birra e lasciando la moneta per la zuppa si alzò, dirigendosi verso la porta.

Aveva udito abbastanza, ora era tempo di tornare al castello e riferire il suo fallimento al “re”.

Suo fratello, il suo amato fratello. Cosa gli avrebbe fatto? Avrebbe veramente attuato la sua minaccia? Loole però aveva ancora tante carte da giocare, e quella giovane catturata e poi ingaggiata era fondamentale. Doveva sopravvivere al fratello ancora per poco, poi avrebbe attuato il suo piano.

Tutto filava liscio, tutto secondo i suoi piani.

«E allora, Loole, perché il tuo cuore sussulta e la tua mente esita?» sussurrò, parlando se stessa mentre si incamminava lentamente verso il castello, strusciando gli stivali nel pantano delle vie di fango.

 

E cade Sam, cade. Aveva compiuto il primo passo verso l’oscurità. Verso la vendetta. La sua dolce scivolata sui muri e la fulminante fuga nelle vie concatenate di silenzi umidi ultimò il suo transito a nuova vita.

 

Siamo ombre che corrono sui muri, frastagliati in tanti punti ma sempre integri nella nostra squallida vita, siamo burattini, siamo lampade, siamo gocce di rugiada, siamo righe di una piuma carica di inchiostro di solitudine.

Sam, Sam... indugi troppo, tieni a bada la tua coscienza.

Viktor, avevi ragione... sono un’arma, e niente più.

Ma lo sarò appieno quando avrò affondato, ucciso, schiacciato e dilaniato la mia coscienza a suon di lame e veleno. Ne berrò il latte di sangue dal petto squarciato e griderò di gioia. Diverrò ciò che ho sempre voluto diventare.

Arma e nulla più.

 

Sam poggiò la penna nel calamaio e spegnendo la candela con le dita inumidite si coricò vestita, avvolgendosi intorno a se stessa, cullando il suo animo frastagliato. Aveva appena iniziato una battaglia all’ultimo sangue con la sua mente, abbracciando armi che solo il cuore aveva il potere di brandire.

Cuore assassino.

La luce pallida del giorno conciliò il sonno alla donna, e sprofondò in un baratro di manichini che la rincorrevano e la soffocavano con le loro mani di pezza.

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Capitolo 8
*** 8. Le ore ruggenti ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

I Signori delle Terre dell’Ovest 

8. Le ore ruggenti

 

 

Neppure si cambiò d’abito per presentarsi al cospetto del suo Re: si inchinò cerimoniosa con gli stivali coperti di melma, lasciando tracce del suo passaggio in umidicce impronte sul pavimento lindo.

Cacciatrice tra i cacciatori, genuflessa al cospetto di Fanaon che, mollemente abbandonato su una poltrona, si studiava le unghie cercando di esprimere al meglio una tranquillità di cui tutti erano ben consapevoli essere falsa.

«Allora?» chiese, e la sua voce, nel profondo, fremeva d’impazienza.

Loole non si alzò. Rimase con la fronte premuta sul ginocchio, come a ricevere ondate di coraggio dal terreno.

«…ho fallito»

Tra i pochi cortigiani presenti nella sala, uno strano brivido elettrico corse, messaggero di grandi sventure, o incredibili eventi. Mai la Dama di Inveia si era presentata al desco mancante di una preda al laccio.

Fanaon, graffiando l’aria, chiuse di colpo il pugno, e fece slittare lo sguardo ad un punto indeterminato dinanzi a sé. La rabbia iniziò a colorare il suo collo, che spuntava dal morbido colletto della tenuta da camera.

«Scusa, hai detto…?» domandò.

La posa dell’elfa restò invariata: «Ho detto che ho fallito, Fanaon. Non sono riuscita a catturare la persona che mi hai chiesto di cacciare.»

«Ordinato, Loole» mormorò Fanaon. «Il vostro Re non chiede mai…ordina

Fu con un sottile senso di paura che Loole ascoltò i passi di Fanaon avvicinarsi. D’un tratto s’arrestarono, e rimasero immobili per un paio di pesanti e interminabili minuti.

Poi arrivò la presa felina di una mano bianca, e i capelli corvini di Loole vennero afferrati e strattonati in alto. Lei non emise nessun suono balzando in piedi, la gola nivea disarmata davanti al feroce sguardo di suo fratello.

«Neppure la migliore motivazione di tutti i continenti ti salverà dal più ufficiale dei richiami, sorella» decretò Fanaon, costringendo la schiena di lei ad assumere un’innaturale piega all’indietro.

Loole sopportò con paziente tempra elfica quel ridicolo gioco di potere che nessuno dei cortigiani aveva il coraggio di fermare, finché le braccia di suo fratello non la fecero riversare a terra, senza incontrare una resistenza che la giovane sarebbe indubbiamente stata capace di fornire.

Rovinata sul pavimento in malo modo, su una gamba piegata in modo che a qualunque altro essere sarebbe parso doloroso, Loole notò il mulinare delle pupille di suo fratello individuare la ferita sul braccio, e una ruga corse tra i suoi occhi appena prima di scomparire, soppiantata da una patina di sudore. Nella sua posizione prostrata eppure ancora gloriosa, Loole ricevette un severo schiaffo a tutto braccio da parte del Reggente di Inveia. Tra i cortigiani sussurrò un cupo lamento, misto di sdegno e dispiacere, ma nessuno ancora ebbe il coraggio di intervenire in quella lite a senso unico.

Girando il volto nuovamente in direzione di Fanaon, Loole lo guardò con quei suoi occhi di quarzo. Le sue pupille vetrose erano ripiene di pietà verso quell’uomo che, piegato in una raccapricciante posa, la guardava con odio muovendo passetti di topo verso il suo sedile.

«Vattene…non farti più vedere in questa luce…» le ingiunse, muovendosi come un gargoyle animato da una sacra paura interiore.

Loole si alzò, e uscì dalla stanza. Fanaon non si accorse della sua dipartita, voltato verso la poltrona e grondante di sudore. Non sentì neppure i mormorii terrorizzati dei cortigiani che, dopo un paio di minuti di titubanza, si affrettarono a seguire la Dama.

 

***

Occhi di vetro, occhi di maga oscura…

Sguardo che ti penetra e ti strappa l’anima dal cuore, e ti brucia il sangue nelle vene e ti lascia il sapore di un bacio di bile sulle labbra, sguardo di una fattucchiera cresciuta nel seno del suo stesso palazzo.

Gli occhi di Fanaon erano spalancati nell’oscurità del suo letto, in cui era disteso da solo, immobile come un’asse di legno. Nella sua mente, una sola immagine: lo sguardo da strega di Loole, quella sorella rinnegata nata sotto una stella sanguigna, che dopo essere stata battuta lo aveva maledetto.

Aveva cessato di tremare, ma sapeva di essere a pochi passi dalla morte. Quella notte i fantasmi evocati da quella serpe sarebbero entrati nelle sue stanze e lo avrebbero soffocato con sacchi di iuta, legandolo con code di gatto e segnandolo con rune alchemiche.

Aveva visto l’ombra della morte nelle pupille demoniache di lei; la sagoma affascinante della Donna in Bianco, la fata che baciava ogni morente succhiandone l’ultimo respiro.

Aveva visto la ragnatela di un incantesimo funesto infilarsi sotto le proprie vesti e svanire come vapore, inghiottita dalla sua stessa pelle.

Era predestinato. Lo sapeva.

Neppure un passo lo avrebbe salvato dalla morte. Tanto valeva attendere, e privare alla strega l’ardore di assistere alla sua vittoria.

 

***

Maryssa era corsa a casa con la sua solita pagnotta racchiusa in un cencio macchiato. Ad ogni passo di corsa che le faceva sbuffare la gonna come un’alga sbatacchiata dalle correnti marine, nuovi gruppi di galline ovaiole si disperdevano in un turbinio di piume.

L’aria nell’accampamento popolare sotto il colle del Palazzo puzzava di rifiuti e erbe cotte. Case di pietra avevano via via preso il posto delle baracche, e ora, dopo che la casata dei reggenti si era instaurata da tempo memorabile, non si trovavano più costruzioni lignee se non nelle parti più periferiche del borgo, dove i cacciatori lasciavano le loro armi rudimentali al ritorno dalle battute di caccia.

La casa della sua vecchia madre si trovava vicina al centro del budello di abitazioni, in una zona umida in cui, tra i sassi delle stradine, crescevano erbe infestanti.

La giovane serva di palazzo si fermò davanti all’uscio socchiuso della loro casa, attraverso cui si sentiva un parlottare lento. Maryssa spinse la porta e si insinuò all’interno dell’edificio: qui fu investita dall’aria viziata che vi ristagnava, un misto di acqua a bollore e fetore di malattia. Sul pavimento, poco lontano, un ammasso di stracci erano aggrovigliati in mezzo ad un nugolo di moscerini.

«Maman?» chiamò la ragazza, sporgendo il viso lentigginoso oltre il varco della stanza di sua madre.

«Entra, entra» tossì una voce roca.

Maryssa obbedì, penetrando nell’aurea carica di oscurità della sala. Una figura ai piedi del letto la osservò, e si tolse lentamente il cappello.

«Buongiorno Maryssa…» disse l’uomo, senza spostarsi dalla nuvola di tenebra che lo avvolgeva.

«Buongiorno Mastro Tan…» rispose la ragazza, posando la pagnotta sul comodino accanto al letto.

Tra le coperte ruvide, se ne stava il corpo di sua madre, raggomitolato in una posa che lo faceva sembrare un feto innaturale. Un paio d’occhi scavati e velati si muovevano lenti sul suo viso, una cascata di rughe di pelle giallastra.

«Quali notizie dalla tana della serpe, Maryssa?» chiese l’uomo.

La madre mosse il collo come ad acchiappare con più maestria le parole.

«Il re ha battuto sua sorella, oggi…» rispose la ragazza.

«Come?» gracchiò sua madre.

«Sì…me lo ha detto uno dei cortigiani che era sceso nelle cucine a bere una coppa di vino…» aggiunse Maryssa. «Non so perché lo ha fatto, ma il cortigiano era molto scosso…»

«Diciamo addio alla sanità mentale del reggente per un’ennesima volta» accennò l’uomo.

La donna intrecciata in maniera così atroce alle coperte agitò piano una mano, e lui si voltò verso di lei.

«Tu che sei sempre in società da voialtri…cosa si dice in giro?» chiese rauca.

«Se il Reggente uscisse senza scorta e venisse qua dai suoi servi, non ne rimarrebbe neppure un capello» rispose con semplicità. Trasse lentamente una pipa dall’interno degli abiti e la mise in bocca.

«Nessuno, nessuno tra noi poveracci vi diverte a vederlo in vita» continuò. «Forse i grassi porci che difende tra le sue fetide mura lo adorano, ma qui siamo tutti nella stessa barca. Una barca che sta affondando. E noi facciamo la fine dei topi.»

Maryssa lo ascoltava senza dir nulla, mentre sua madre sembrava scossa da una di quelle strane serpentine che piovevano dal cielo nelle notti di tempesta, quelle che il vecchio Saggio che una volta viveva nel suo eremo a poca distanza dal Palazzo chiamava “elettricità”: scuoteva il corpo nell’intento di annuire selvaggiamente, talmente leggera da essere sbalzata dal suo stesso assenso.

«Signore, io vi lascio» si congedò dopo un attimo Mastro Tan. «Riguardi, madama»

Si chinò brevemente verso la donna più anziana.

«A presto, a presto…» abbaiò secca lei, con un crescendo nella voce simile ad un eco spoglio tra le mura di una catacomba.

«…Maryssa…»

La giovane chinò il capo prima di seguire l’uomo sino alla porta.

«Sta attenta al castello, Maryssa» sussurrò Mastro Tan arrivando a sporgersi dall’uscio.

La ragazza lo osservò senza capire.

«Arriveranno, arriveranno presto» un paio di occhi turchesi la inchiodarono quando la figura dell’uomo fu rapita dalla luce soffusa dell’esterno, e i suoi colori si accesero.

«Cosa?» domandò la ragazza.

«Quelle che ci libereranno da questa inutile schiavitù…quelle che spazzeranno via la demenza di quel pagliaccio…le ore ruggenti.»

E con quel saluto da oracolo se ne andò, diretto ad uno dei tanti campanelli di uomini nella zona più misera di quella cittadina.

Maryssa rimase a guardarlo sparire. Poi, chiudendo la porta, si ritirò in quella tomba di silenzio.

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Capitolo 9
*** 9. Il quarto giorno ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

9. Il quarto giorno

 

Era un giorno grigio e frastagliato di piogge, la Capitale del Regno di Fanaon. Il tramonto del quarto giorno svegliò la donna dai capelli blu, alzandosi mestamente con un mugugno scocciato.

Si strofinò i capelli e con poca voglia si alzò, aveva passato quei giorni nel riposo, sapendo ben presto che quel corpo ora teso per il risveglio avrebbe dovuto scattare, correre, saltare e uccidere.

Di buona lena si lavò il collo e il volto, indossando indumenti comodi. Poi, poggiando i pollici al terreno iniziò le quotidiane flessioni mattutine.

1, 2, 3...

 

Loole, entrando nella camera color pesca con un elegante vestito lungo, blu come la notte e dorato come il grano, sbadigliò, dando segni di stanchezza per il meriggio passato a una festa di palazzo, sfarzosa e pesante di vino e cibi esotici. Il tramonto filtrò dal vetro, ricordando un appuntamento ormai prossimo. Gli occhi si spensero.

Alla porta bussò, e lei tornò indietro, con i piedi già nudi degli eleganti tacchi neri come la pece. La sua pelle bianca, diafana quasi, sfilava sul pavimento liscio e freddo, muovendosi come un’onda nello spazio immobile.

Entrò un elfo, lei sorrise con le labbra, cortesemente, e negò con la testa. Lui insistette, lei lo fulminò con gli occhi. Alzò il braccio e gli indicò la porta. L’uomo con grandi falcate tornò sui propri passi, e la porta sbatté. Una mano sul volto, tirando il volto stanco e con un poco velo di trucco, appoggiata alla porta, distrutta. Entrò nei bagni, regalandosi un bagno caldo con petali di fiori.

La stanchezza scivolò via con il sapone, e il desiderio con le dita.

Indossò la propria tenuta da caccia, il fidato arco, una faretra piena alla cinta, coltelli da lancio, un tascapane con l’essenziale.

Gli ultimi colpi di spazzola terminarono la sua preparazione. La luna sbucò da dietro le nuvole scariche della pioggia che si era riversa sul terreno.

 

... 98, 99, 100.

L’ultimo coltello si conficcò nel legno scheggiato. Riscaldamento completato. Stiracchiò le spalle, indossando la casacca. Recuperò il coltello e lo lucidò, indossandolo alla cintola. Recuperò alcuni coltelli da lancio, la cerbottana, veleno. La luna fece capolino tra la finestra alta nel cunicolo. Il tatuaggio - la maledizione - sul proprio volto s’illuminò al brillare della luna sulla sua pelle, brillando anch’essa, ma di fuoco vivo, come se sotto scorresse lava. Gli occhi vennero avvolti da un’anima di cupo rosso sangue. Sam sentì i propri sensi acuirsi, il fisico tendersi, i muscoli diventare più forti, l’udito raffinarsi talmente da sentire le termiti rosicare il pezzo di legno all’angolo. Le mani pulsanti delle vene, l’olfatto inspirare l’aria ripiena di vecchio e chiuso. La voglia di sangue e morte sulla punta della lingua. La morte fatta persona era pronta.

La tenuta nera, il cappuccio teso sul volto, il mantello sulle spalle, pochi ori nel borsello.

Uscì sbattendo la porta.

 

La chiesa, nel suo bagnato tepore, scoccò la mezzanotte, l’ultima messa prima del riposo concesso nel giorno del Signore.

I rintocchi, sordi, lontani dal riparo dei cavalli, arrivarono all’orecchio attento della donna, indugiando sulla figura scura che arrivava dal tetto.

Slacciò leggermente un coltello, per sicurezza. Riconobbe i capelli neri, gli occhi ambrati. Rifoderò l’arma.

Loole guardò in volto quella donna con diffidenza. Aveva gli occhi roventi come il sangue, e la maledizione puzzava di morte.

«Ordini.» comandò l’assassina, aspettando indicazioni dalla cliente. Le braccia conserte.

«Domani mattina mio fratello uscirà per raggiungere la dama della Villa di Mironga, a sud-est dal castello, a mezza giornata da qui. Visto che sarà un’uscita di piacere e non dichiarata avrà con sé poche guardie, le più fidate. Uscirà in carrozza, anonima, come quelle degli altri nobili che domani ripartiranno dopo la festa di oggi.» gli occhi di Sam non si staccarono da Loole. Il volto sempre teso in quella maschera di leggera foga di sangue, sfida e distacco. Almeno ascoltava. «Colpiremo allora.» ultimò.

«Colpirò, vorrai dire. Non mi porto dietro spettatori nel mio lavoro. Sono solo intralci.» rispose pacatamente la donna.

«Cosa?» domandò Loole,  non aspettandosi un tale cambiamento.

«Non porto con me spettatori, sei d’intralcio, donna.» spiegò con voce fine. Gli occhi sottili. Il corpo immobile nel respiro calmo. Il battito regolare. Ombra pulsante nelle ombre.

«Allora non avrai il tuo compenso.» ribatté Loole. Sul volto dell’assassina si dipinse fastidio.

«Vuoi che faccia bene il mio lavoro e che tuo fratello muoia? Allora fatti da parte.».

«Io vengo con te, so cavarmela, nel nascondermi. Ricordati che io sono la Cacciatrice migliore nel regno.» affermò, ergendosi nella sua altezza di elfo, gonfiando il petto. Sam sciolse le braccia, avanzò di poco, la luce della luna dietro le spalle dell’elfa mostrò la netta differenza di altezza, la sorella del re superava di una testa l’assassina. Per Sam non fece differenza, portò il proprio volto il più vicino a lei, allargando le gambe e il mento in alto, poi, con un sorriso beffardo disse: «... dopo di me, Loole di Inveia.».

Gli occhi ambrati dell’elfa si colorarono di sdegno, ma non parlò. Un’accozzaglia di sguardi scoppiava tra loro. Quegli occhi velati di sangue erano così... magnetici. Poi un’ombra inaspettata delle nuvole oscurò tutto. Sam era scomparsa nel nulla. Loole non ci poteva credere. Si guardò intorno cercando tracce della donna nel fango, ma nulla, se non le proprie. Era diventata come un fantasma.

Ancora buio. Poi una presa al braccio inaspettata la fece curvare. La sua voce, i suoi occhi, la sua maledizione a pochi centimetri dal suo volto. Il respiro caldo sbatté contro il padiglione auricolare appuntito dell’elfa.

«Aspettami al limitare della foresta, sul sentiero di sud-est, prima dell’alba. Sarò lì. e porta i soldi.» gli fece un occhiolino e un sorriso sbarazzino, scivolando veloce nella via nascosta, soffocata dal buio della notte.

L’elfa rimase di sasso. La luce della luna illuminò il retrobottega e sul fango, umido di pioggia, non c’erano tracce se non le proprie.

 

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Capitolo 10
*** 10. La caduta di Fanaon ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

10. La caduta di Fanaon

 

 

Seminascosta tra i folti rami di una magnolia, Sam osservava. I suoi abiti grezzi, del colore del terriccio e dell’erba riarsa, spiccavano banali tra le lucide foglie dell’albero come parte integrante della corteccia. I suoi occhi aquilini spazzavano la strada soffocata da vapori irreali, chiazzati di blu dall’alba. D’un tratto, come sbucata dal nulla, una figura a cavallo entrò nel suo campo visivo. Sam si sorprese, ché il cavallo dell’elfa non aveva sortito alcun suono, e si lasciò cadere con leggerezza, atterrano come un felino a pochi passi da Loole.

Ella non parve né stupita né impressionata: voltò la testa verso di lei con calma, e non disse nulla smontando, mantenendo un’espressione glaciale. Sam avvertiva i suoi lunghi muscoli tendersi al minimo movimento, e leggeva in tutto ciò che faceva una grande ansia… e senso di colpa.

« Lascia il cavallo dietro questi rami… basterà a tenerlo celato» disse Sam semplicemente, abbassando gli occhi.

Loole, dopo averla osservata con sguardo pulito, fece girare la cavalcatura attorno all’albero e prese a legarla con cura, tirando nodi con sicurezza e sapendo che nessun cavallo avrebbe saputo sciogliere quell’intrico sapiente.

Sam, appoggiata al tronco, la osservò. Era vestita di verde scuro, un colore che riluceva nella luce sottile sotto quelle larghe foglie. I suoi neri capelli erano sciolti, ma diverse trecce concentriche li solcavano da metà della testa sino alla nuca, incrociando piccole spille nere che la donna sapeva incarnare minuscole rose dal gambo irto di spine. Loole si era acconciata a lutto in quel giorno, eppure i suoi passi erano forti come sempre, e il suo regale portamento suscitava rispetto più del solito, perché ammantato dal coraggio di donna che si spoglia degli affetti per il bene della sua causa. Sam avvertì una fitta all’altezza del petto, e ne rimase scioccata. Tanto tempo era trascorso dall’ultima volta che aveva osservato così il corpo di un essere vivente, e parevano essere millenni quelli che separavano quella mattina all’ultima volta in cui aveva avvertito lo stesso sentimento.

Con palpitare agitato levò lo sguardo da Loole, che si era voltata a guardare il cielo. In quel tripudio di verde e nero, sembrava l’anima del giusto martirio.

«Portami nel luogo, mercenaria» disse infine, «la sacca rossa che vi è sul cavallo è il tuo compenso: prendilo, ti spetta di diritto»

«Ma non ho ancora espletato al compito che mi hai dato» la contraddisse Sam, sorpresa.

«I modi di fare dei tuoi clienti abituali non mi concernono: mi fido di te, e credimi se ti dico che la mia razza sa bene vedere nei cuori delle persone».

Allora Sam sciolse il fiocco che tratteneva il fagotto sotto la sella dell’elfa, e lo nascose sotto gli abiti, poco lontano dal pugnale che si rifugiava sotto il bordo della casacca.

«Andiamo»

Si mossero in silenzio uscendo dalla macchia d’alberi. Camminarono per un buon tratto, senza lasciare tracce sul terreno ammollato dalle ultime piogge. Sam stava alla testa, immersa nella consultazione del panorama che le circondava, e Loole la seguiva, gli occhi fissi sull’orizzonte, ma le orecchie fini rivolte al sussurro carezzevole della natura.

Arrivarono ad un’ampia curva che macchiava la strada dell’ombra delle fronde per pochi passi, e lì Sam fece segno a Loole di attendere. Affondò una mano  nella fanghiglia a lato della strada, poi si voltò verso l’elfa.

«Avverrà qui. La carrozza si impantanerà in una fossa che scaverò, e tu non dovrai far altro che restare su di un ramo di uno di quegli alberi. Chiaro?» disse, traendo dagli abiti un fagotto di cuoio.

Loole non rispose, e rimase ad osservare la donna che, armata di una minuscola pala a mano, lavorava alacremente e in silenzio, calcolando quanti centimetri sarebbero serviti per far fermare la carrozza. Fu rapida e costruttiva, e nel giro di una decina di minuti aveva creato una fossa dall’aspetto naturale in cui vuotò una bisaccia d’acqua. Il fango acquoso che iniziava a sciogliersi nella buca pareva abbastanza per essere notato da una buona ruota di veicolo.

«Sali sul ramo» disse a Loole, «dobbiamo solo aspettare»

«Nasconditi, tu, io lo farò tra poco» mormorò l’elfa senza guardarla negli occhi.

La donna fece per rimproverarla sulla pericolosità di trovarsi sulla strada quando Fanaon poteva essere a poche decine di metri, ma la luce mesta che vagava sul fondo dei suoi occhi viola zittì ogni parola che la sua bocca voleva creare. Annuì, e salì tra le fronde.

Loole, sotto di lei, si chinò nel fango accanto alla pozza. Era ben camuffata, solo essendo stata presente alla sua creazione l’elfa poteva riconoscere il luogo in cui era in agguato. Si tolse un guanto e vi infilò il braccio sino a toccarne il fondo. I suoi capelli corvini caddero, scivolando sul terreno, ma non se ne preoccupò. Sam ascoltò i suoi sussurri senza giudicare. La Dama di Inveia stava pregando.

 

Arrivò con sonorità, la carrozza trainata da due cavalli. La videro da lontano, ma ancor prima la udirono, così che Sam poté impugnare la cerbottana e sporgersi un poco per prepararsi.

Veloce come una bestia di legno, il veicolo raggiunse la curva, continuando di gran carriera sino alla trappola: con un rinculo preciso, una ruota anteriore si conficcò nel terreno accidentato, e i cavalli ebbero un verso di sorpresa.

«Ma che…?» ebbe il tempo di domandare il cocchiere, prima che una libellula mortale gli si conficcasse nel collo. Il suo corpo, dopo un fremito, cadde sul fianco. L’uomo al suo fianco, come lui vestito da viandante, si bloccò nel discendere da cassetta, e cadde a viso in giù nel fango. La terza guardia in borghese, scesa a controllare il danno, la raggiunse senza un gemito.

Loole osservò i gesti pratici i Sam mentre gli accompagnatori di Fanaon cadevano. Nei suoi occhi non vi era ombra di pietà, ma neanche di piacere, o di colpa. Sembrava ghiacciata nella quotidianità dei suoi gesti.

Poi ripose l’arma e,sfoderando i coltelli da lancio, parlò.

«Mio Signore, volete scendere un momento? Si è verificato un piccolo disguido…»

La portiera si aprì lentamente, e un paio di scarpe arricchite in velluto atterrarono con uno schiocco. Il Reggente imprecò, poi sbatté sonoramente la portiera.

«Razza di cretino, per colpa tua mi sono infangato. Cosa diamine succede?» esclamò irato, girando a grandi passi attorno alla carrozza. Arrivato accanto ai cavalli, con occhi sbarrati vide i tre cadaveri ammollati nel terriccio. Arretrò con un grido di spavento, prima il luccicare di un coltello che mirava dritto al suo cuore.

Chiuse gli occhi con terrore, ma il dolore non venne. Anzi, alle sue orecchie pervenne un tonfo sordo, e meravigliato sbirciò tra le palpebre, curioso di sapere perché l’aldilà risuonasse in maniera tanto curiosa. Stava in piedi nel luogo in cui un coltello avrebbe dovuto ucciderlo, e sul selciato impronte allungate portavano all’ombra degli alberi, dove berciava rumore di lotta.

Non perse tempo. Si voltò rapido e, alzando fango che atterrò sulla pelle delle sue guardie assassinate, fuggì.

 

Helvorn diresse con rabbia la punta del suo stesso coltello verso il collo di Sam, che si gettò di lato per salvarsi. Il fischio della lama finì nel conficcarsi nel tronco, e un grugnito irato si levò dalle labbra dell’elfo, che sguainò il pugnale.

La donna fece altrettanto, preparandosi allo scontro.

«Traditrice dei tuoi pari, hai raggiunto il tuo obiettivo! Te ne andrai dalla confraternita seduta stante, perché un cadavere non può servire nessuno!» strillò Helvorn furente, innescando una precisa e mortale lotta. Sam parava e scartava ogni suo affondo, curiosamente infervorata dall’istinto di sopravvivenza che sembrava essere ancora presente nelle sue membra.

«Questo non è il compito che ci hanno affidato, Helvorn! Questa è una commissione!» esclamò respingendolo con forza. L’elfo rispose alle sue parole riparando di lato, e Sam dovette premersi sul tronco dell’albero per non essere colpita.

Con la coda dell’occhio vide l’orizzonte sgombro. Fanaon era fuggito.

«Loole!» pensò di urlare, ma si accorse che l’elfa non c’era più. Acuendo di fretta i sensi, sentì in lontananza i suoi passi correre dietro ad una bestia spaventata. Sam sorrise…

E il braccio di Helvorn le colpì la testa, facendola sbattere sul legno, stanco di combattere. La lasciò svenuta a terra, intenzionato a coprirsi del merito di aver ucciso il Reggente di Inveia.

 

uesto non è 

Fanaon vide la morte arrivare vestita di fiamme bianche, i capelli neri al vento simili ad ali, e lo sguardo feroce di un rapace che si getti sulla sua preda. La figura di Loole si beava delle sue arti magiche, volando verso di lui con la bocca sporca di sangue.

 

«Non mi uccidere!» guaì Fanaon, terrorizzato. Il suo corpo tremava nella corsa, tanto che inciampò e cadde. Loole si fermò.

«Fanaon, tu hai disonorato la nostra famiglia e reso schiavi i tuoi stessi sudditi. Devi lasciare questo mondo, o Inveia morirà nella tua follia» rispose Loole, la voce spezzata dal pianto. Si chinò su di lui, brandendo il pugnale. La carne della sua gola era straordinariamente morbida, e lasciò che la vita cadesse sull’erba come ringraziando. Gli occhi di Fanaon divennero vacui e Loole si chinò a baciargli la fronte, sapendo che il periodo buio di Inveia così si chiudeva: con un bacio.

Poi corse via dal cadavere di suo fratello, cosciente di avere alle calcagna un nemico ben più pericoloso.

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Capitolo 11
*** 11. Esilio ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

11. Esilio

 

Quando Sam si ridestò dal colpo, inspirò odore di sangue, e il sole era già alto nel cielo. Loole non era nei dintorni.

“Perché mai dovrebbe esserci?” si domandò poi la donna, alzandosi con i muscoli rigidi. “Dopotutto ha assolto lei il mio compito. E quel cretino di Helvorn ha confuso la mia missione per la nostra.” Sputò per terra, e iniziò a correre verso la base.

Quando varcò la soglia l’energumeno alla guardia stranamente gli sorrise e buttò una battuta che Sam comprese fin troppo bene.

«L’ultima volta che ci si vede, eh?» la donna lo ignorò, e si diresse spedita verso la porta chiusa del capo.

Varcò la porta facendo trapelare la luce quel tanto che bastava per vedere Helvorn con in mano una testa ancora gocciolante.

«Troppo tardi, traditrice. Ho assolto io al compito.» Sam ignorò anche l’elfo, ancora febbricitante e inebriato dall’odore del sangue reale. Diresse lo sguardo verso l’ombra del capo, seduto su una sedia.

«Sono stata fraintesa.» cercò di spiegare «Ero stata commissionata da un privato per quella morte.» disse. La voce del capo provenne dura e secca. Era arrabbiato, e tanto.

«Non mi importa, il fatto sta che non hai seguito le direttive e il mio cliente non è contento. Il compenso era alto e per colpa tua l’ho perso, Sam.» la donna lanciò il sacchetto rosso sul tavolo.

«Prendetene la metà. Sono tre sacchi.» ma la risata che si alzò dal tavolo fu grande, da entrambi i presenti.

Helvorn rideva, guardandola con quegli occhi ghiacciati. Brillavano ebbri e iracondi.

«Quei tre sacchi non arrivano nemmeno al decimo che il nostro offerente aveva intenzione di darci.» Sam sbiancò. Erano un sacco di soldi.

«Quindi, per ripagare il debito, devi morire.» soffiò Helvorn, il pugnale già in mano. Sam sfoderò il suo.

«Fermi!» la voce anonima del capo tuonò, fermando l’elfo dal commettere qualsivoglia azione.

«Tu non morirai, almeno, per stanotte. Non qui. Non ora.» la voce del capo era severa. Helvorn ghiacciato nell’attentare alla vita di lei.

«Sei esclusa dalla Gilda, Sam, e ricercata per l’omicidio del regnante. Questo mi basta per soddisfare la mia perdita.» Sam rimase allibita. Lei, ricercata? Un foglio scivolò sul tavolo, e confermò i suoi dubbi. Quella era la sua faccia. E il compenso talmente alto che la donna non riusciva nemmeno a figurarseli, quei soldi.

«Vattene da qui, prima che qualche nostro tagliagole si venga a prendere il suo compenso.» concluse infine.

Helvorn però non accettò la cosa.

«Non può farmi questo! Sono io quello che l’ha ucciso!» ma la voce dell’elfo risultò lontana alla ragazza. Era già fuori dalla stanza. Un solo pensiero che correva nella sua mente: fuggire, fuggire, fuggire.

Entrò nella sua piccola dimora, che ora sarebbe stato il giaciglio di qualcun altro.

Prese le parche cose di sua proprietà e vestendosi in panni più pesanti, da viaggio, uscì correndo, scappando dalla porta in preda a mille pensieri.

 

Sono di nuovo senza dimora e senza lavoro. Di nuovo allo sbaraglio di questo mondo. La mia missione persa, i miei intenti falliti.

Ho deciso, vado nel regno vicino. Qui nessuno accetterebbe più un lavoro da chi ha una faccia nota come la mia. Fuggirò lontano, e ignorerò la guerra che sta per abbattersi su questo regno.

Non è mai stata casa mia.

Nessun luogo sarà mai casa.

Perché casa è dove sta il cuore.

...

E il mio, l’ho perso dietro a degli occhi color quarzo.

 

Sam alzò lo sguardo un ultima volta, deponendo penna e taccuino nella borsa del cavallo, osservando con i suoi occhi neri di pece quella città che era stata la sua dimora, la sua mappa, il suo destino. Lì che aveva incontrato un vecchio amico. Lì che aveva incontrato lei.

Si era fissata nella sua mente quella donna. E quanto ripensava ai suoi capelli neri d’inchiostro o ai suoi occhi color quarzo Sam percepiva un brivido diramarsi per tutto il corpo, ricordandole sentimenti umani che da tanto tempo non percepiva.

Sam sorrise, stranamente, guardando il castello svettare alto da quell’insieme di palazzi e carne. E si voltò, lasciando una traccia di lacrima lungo il selciato di fango.

 

Loole, sulla terrazza, guardava il tramonto mesta, con le vesti della nuova regnante ancora addosso. Aveva ancora sulle labbra la pelle rilassata del fratello, ormai morto. Pianse una tenue lacrima, Loole, mantenendo il freddo e distaccato comportamento a cui un elfo è portato di natura. Sentiva che quel giorno aveva perso qualcosa, oltre che a un fratello.

Un ombra solitaria si allontanava da Inveia, fermandosi ad ammirarla per l’ultima volta. E volle essere con quella figura nera, poter fuggire, non essere più lei ma qualcun altro. E vedere il mondo.

Ma i suoi stupidi sogni vennero cestinati, ridendo di sé. Si asciugò quella lacrima, e quell’ombra si voltò per perpetuare il cammino scelto.

Le sembrò di vedere la sua vita dargli le spalle.

 

Il sole cala su Inveia, un nuovo regno inizia.

E qui, da un partenza, inizia il mio nuovo viaggio, alla ricerca di me.

Addio, Inveia.

Addio... Loole.

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Capitolo 12
*** 12. Una Nuova Alba ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

12. Una Nuova Alba

 

La Sala del Trono era in preda ad un viavai frenetico, intermezzato dal brusio delle persone che giungeva all’orecchio in ampie onde. Uno stuolo di cortigiani e funzionari prendeva posto nell’ampio spazio, misti agli esponenti del Consiglio che tra poche ore sarebbero stati eletti dalla carica regia. Come illuminata di magia naturale, la Sala sfilava in verticale con sinuose colonne d’ebano e racchiudeva gli astanti nella parte bassa del suo budello, facendoli sembrare ancor più piccoli con setosi nastri di polvere dorata che brillavano nel gioco di luci che rimbalzava sulle pareti.

Il pavimento pareva uno specchio d’acqua, pronto ad accogliere la danza di un cigno. Tutti i presenti calpestavano alti tappeti pelosi e gonfi d’oli, e solo una persona avrebbe solcato la lastra perfettamente lucidata di marmo.

Loole, oltre una porticina di legno scuro, attendeva. Sentiva l’odore pesante dell’ebano antico azzuffarsi con i suoi capelli, acconciati in una sola lunga treccia punteggiata di perle. Le sue orecchie, prese d’assalto dai pensieri, erano cullate dai sussurri di chi prima di lei era stato chiuso come un bambino in quella stanzina segreta di fianco alla porta d’ingresso alla Sala. Sentiva suo padre, e come doveva starci stretto in quell’angusto spazio. Sentiva suo nonno e il tintinnio delle sue medaglie. Sentiva suo fratello, e quello che non sarebbe tornato mai più.

Sentiva, oltre alle melodie del passato, gli echi della Sala che andavano spegnendosi. Sedie scricchiolanti spostate, mezze imprecazioni, sussurri scambiati con le guardie. E, quando il silenzio fu totale, tre colpi.

Loole scivolò fuori dal suo pertugio, e con passi lunghi e gravi sfilò nella sala.

Gli occhi di tutti i presenti scivolavano sulla sua veste preziosa, che ricordava quella d’una sposa nella fattura e negli sbuffi di colore bianco che si facevano intravedere ad ogni movimento, scambiandosi con toni ora verdi ora lilla, in una danza affascinante che rendeva ancor più palpabile l’atmosfera ultraterrena.

In piedi sopra al primo dei cinque scalini che portavano al Trono, il valletto che aveva battuto i colpi sul pavimento ostentava severità in un completo nero come il corvo. Nessuno dei colori della festa era stato portato in parata per salutare la nuova Reggenza. Al collo di Loole, brillava la Pietra del Dolore.*

Dopo cinque passi, Loole si fermò, e lentamente piegò le gambe. Tutto venne seguito con attenzione dai presenti. L’elfa trasse da una piega del vestito una pigna di bronzo, perfetta nella fattura, corredata di piccoli pinoli che occhieggiavano attraverso le sue squame, e la posò a terra.

Così annunciava di perdere ogni desiderio di ricchezza personale.

Era strano come, vestiti di ori e preziosi, i Reggenti di quelle terre fossero per prima cosa costretti a rinunciare alle ricchezze. Troppo spesso questa promessa era stata infranta, a discapito del frutto sacro lasciato sul pavimento come isoletta di detriti in un potente fiume.

Loole percorse altri cinque passi e si chinò ancora a depositare un oggetto sul marmo. Stavolta si trattava un falcetto d’oro, pegno di fedeltà al popolo di Inveia. L’elfa vi aveva apposto un lungo nastro di seta nera, a ricordo di suo fratello e del suo patto violato.

Alzandosi, i suoi occhi color del quarzo si riflessero brevemente nella superficie preziosa del falcetto. Una punta di spillo si conficcò nelle sue carni, ma Loole si costrinse a continuare a camminare.

Altri cinque passi, e fu dinanzi agli scalini foderati di tappeti che Loole lasciò l’ultimo oggetto della scalata regale verso il potere. Lasciò un piccolo cuore lacerato interamente intagliato nel diamante. Promessa di battaglia.

Attese un poco prima di salire in gradini. I suoi calzari erano talmente lievi che poteva avvertire la consistenza calorosa delle pelli sotto di sé. Il trono, una cattedra in ebano intagliata di arabeschi, era allestito a lutto con un ampio guanciale di velluto nero. Ma alla sua sommità vi era stata incastonata una splendente lacrima di quarzo, che richiamava le pupille di colei che stava per essere insignita del titolo di Reggente.

Loole sedette con grazia su quel trono di giganti, e alcune ballate risuoneranno ancora per anni ricordando quanto la sua minuta maestà si incastrasse alla perfezione in quel quadro fatato.

Il viso severo e pallido che s’apriva alla Sala con coraggio, l’elfa attese.

Un argentino squillar di trombe scosse l’aria. Loole si alzò dal trono come da protocollo, e scese sino a sfiorare il leggio che alcuni cortigiani avevano portato.

La Sala intera aspettava di sentire la sua voce.

«Cittadini d’Inveia» parlò l’elfa, con voce insabile. L’agitazione le stava percorrendo la schiena trascinandosi dietro una scopa saggina, come una strega, attenta a graffiare con lingue elettriche ogni parte del suo sistema nervoso. La donna si schiarì piano la gola, chiudendo gli occhi sui visi scocciati dei cortigiani.

Già iniziavano a parlare. A convincersi che una donna avrebbe solo portato sfortuna. A trovare nei suoi colori traccia di una stregoneria cruenta e senza cuore.

Nel buio, l’occhio della mente di Loole vide profilarsi un volto. Coraggio, Loole. Devi farlo anche per me. Sam la osservò solo per un istante, e di nuovo il dolore di spillo si fece vivo nel suo petto. Spalancò gli occhi, e riprese a parlare: stavolta con tono fermo e sicuro, solo in fondo provato da una sottile ansia.

«Questo è un giorno di morte ancor prima d’essere di celebrazione. Mio fratello ci ha lasciati come può farlo una farfalla, spegnendo la sua luce sotto una goccia di egoista pioggia. Ma dobbiamo ricominciare senza esitazione, e unire le qualità che i padri d’ognuno di noi hanno lasciato a segnare questa nostra terra. Popoli d’Inveia, unitevi quest’oggi per rendere questo paese un luogo migliore, e accettate che io scenda tra voi, a portare la mia minuscola parte a dar man forte al vostro sapere. Nessuno di noi è trascurabile nel dipinto della nostra terra; nessuno di noi si porrà al di sopra di nessun altro per glorificare se stesso. Ho giurato con i nostri simboli sacri per i nostri deschi, e anche se so che in molti hanno preso a male l’intero evento, ho giurato anche di scendere in battaglia per Inveia se mai fosse necessario».

I presenti ascoltavano in silenzio le parole di Loole, che per quanto cariche di speranza e coraggio, non riuscivano a farsi apprezzare da tutti. In molti ancora la guardavano con sospetto, ed ella stessa se ne avvide. Prese un respiro silenzioso, e poi finì il discorso.

«Non importa quanti leoni dovrò combattere a mani nude; non importa quante volte dovrò perire nel mio operato. Per Inveia»

 

Si narra che, al termine di quelle parole, la Reggente Loole sedette al trono con la maestà di una regina, e che il diadema che le venne posto in capo splendesse tanto quanto una costellazione nel cielo notturno.

Si vociferava che un nano avesse plasmato quel fine filo di argento per due giorni, senza mai fermarsi a dormire, bere o mangiare. Ne aveva scolpito con semplici e sinuose linee un diadema leggerissimo, incastonato di perle nere ruvide e deformi provenienti da mari esotici. Vi aveva impresso con le rudi mani tutto il sapere del suo antico popolo, come rispondendo al discorso non ancora pronunciato da Loole in quella sala d’ebano.

Si narra che la Reggente brillasse di tutte le polveri più preziose del mondo conosciuto, ma nessuno di coloro i quali si tramandarono queste leggende vide mai il suo spettacolo.

La videro solo al di là dei cancelli del Palazzo d’Onice, sorvegliati da guardie corazzate in metalli scintillanti. La videro in un gesto che suo fratello non aveva mai voluto compiere, ma che suo padre aveva fatto proprio come lei nel giorno della sua nomina. La videro che alzava una mano bianca al cielo, ritta come l’intero suo corpo. Al saluto della Reggente, i popolani della terra d’Inveia esplosero in un boato festante.

 

Loole tamburellò nervosamente le lunghe dita affusolate sul tavolo. Sedeva composta sulla cattedra della sala circolare e aveva dinanzi a sé i componenti del nascituro Consiglio d’Inveia. O meglio, quelli che sembravano voler essere i suoi più sfegatati oppositori.

«Con tutto il rispetto, mia Dama…» disse con voce severa un semiuomo dai lunghi e crespi capelli color natura.

Loole lo interruppe con un gesto.

«Mi hai chiamata per nome sino al giorno prima della mia nomina, ti prego di continuare a farlo. Anzi, siete pregati tutti di farlo. Non sono diventata parte integrante dello strapotere di mio fratello, prendendone il posto».

Il cortigiano, vestito dei colori del suo popolo – un misto di verde e marrone che simboleggiava il popolo nato dall’unione tra uomini e ninfe silvestri -, si mosse sulla sedia per poi riprendere la parola.

«Bene, Loole, tu ben sai che sei stata nominata perché sei l’ultima della tua discendenza. Ma non puoi pretendere di ricoprire il tuo ruolo come farebbe un uomo. La vostra intelligenza è di natura subordinata a quella maschile, anche nell’eccelsa razza degli elfi. Non ti pare saggio che qualcuno indirizzi le tue scelte, come sta al tuo sesso, almeno per i primi tempi?»

«Perché nessuno mi ha mai insegnato come comportarsi al potere, vero?» ribatté piccata l’elfa, «e non ero io quella che si è imposta a far ragionare i consiglieri quando al potere c’era mio fratello. Se non fossi stata io a convincere chi di merito, ora saremmo in guerra su tutti i fronti.»

Guillome, che era tutt’ora rappresentante degli umani di Inveia, alzò gli occhi dalla pergamena che reclamava – apparentemente – tutta la sua attenzione.

«In realtà la Dama d’Inveia ha ragione, Shonn» mormorò. «Non si può negare che sia stata molto valida da molti anni nella partecipazione alla vita politica del paese…»

«Voi umani siete ciechi!» esclamò con voce aspra uno degli abitanti delle lagune. «Come si può dare fiducia ad una persona che invita in un consiglio una simile sciagura!» e indicò con un gesto sprezzante la donna dall’aspetto felino che sedeva al suo fianco. Era vestita di pelle e cuoio, e i suoi lunghi e setosi capelli rossi avrebbero potuto arrivare sino al pavimento, se non fossero stati fermati dalla cinta che teneva legata attorno ai fianchi. I suoi occhi magnetici erano grigi come la roccia.

La Gwyllion battè con violenza lo stivale sul pavimento.

«Solo perché c’è qualcuno che ci considera non devi sentirti attaccato nella tua virilità, Maelstraw» rispose ghignando. «Il nostro popolo è stato riconosciuto sul suolo di Inveia troppi anni or sono perché il tuo assembramento di zotici possa ricordare.»

Maelstraw fece per alzarsi con violenza, e Loole scattò in piedi.

«Non intendo omettere nessuno da questa seduta, perciò che vengano posate le asce da guerra. Nessuno qui rappresenta un popolo migliore di un altro, e se non vi è chiaro, allora siete pregati di prendere la porta subito» impose con voce autoritaria. Gli occhi di tutti la fissavano, ma in maniere diverse, dall’ira profonda dell’abitante delle lagune alla calma felina della Gwyllion, sino ad arrivare all’approvazione di due dei presenti: Guillome e il rappresentante dei nani, che masticava pensieroso il bocchino della sua tozza pipa spenta.

Cadde il silenzio, e Loole sedette. Sospirò, e prese in mano i fogli della seduta del giorno.

«Vogliamo iniziare a scalfire i noccioli delle questioni più importanti?» chiese, strofinandosi gli occhi.

Mai avrebbe pensato che il compito di una reggente elfa dai colori inusuali fosse così arduo.

 

 

 

 

 

 

 

*Un medaglione d’oro e rubino dalla forma a stalattite che il maggiore esponente della Casta dei Reggenti deve indossare per dieci giorni a seguito di un lutto avvenuto nel circuito governativo.

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Capitolo 13
*** 13. Fuga ***


I Signori delle Terre dell’Ovest

 

13. Fuga

 

Il cappuccio calato sul volto di Sam celava la sua identità, almeno in parte. Viaggiava nella foresta, scivolando i posti di blocco degli elfi, anche se sarebbe stato pericoloso, perché i Marcatori sono pericolosi forse più degli elfi.

Ma loro avevano ancora un debito con lei.

«Stai varcando confini pericolosi, essere umano.» una voce profonda le giunse alle orecchie, e fermò il suo cavallo, per niente spaventato dalla presenza del lupo.

«Ho diritto a passare su questi terreni tanto quanto te.» ribadì, svelando il volto. Una pioggia leggera batteva il terreno. Il fango e il verde si mischiavano, dove gli occhi non riuscivano a vedere al di là del prossimo albero.

«Sam... è tanto tempo che non varchi la nostra terra.» mormorò il lupo, riprendendo forme umane. Era un uomo adulto, con barba accennata, capelli ed occhi neri, vestiti di foresta.

«Lo so, Hildegard. Lo so.» mormorò con malinconia la giovine. «Ma sono obbligata.» l’uomo in silenzio accennò a farle proseguire il cammino, silente.

Il cavallo riprese a camminare, il suo respiro colpiva l’aria con nuvole di vapore.

L’uomo afferrò le briglie, fermando momentaneamente il cavallo.

«Un Marcatore non dimentica, Sam.» la donna lo fissava, ascoltandolo «Tu hai salvato Matias da morte sicura, sarò sempre in debito con te.» Sam ricordò, con un accenno di sorriso, quel piccolo lupetto ferito nella foresta, salvato da un cacciatore «Ma ormai sto invecchiando, e i Marcatori non sono sordi all’esterno della foresta. Ho paura della guerra, Sam, come qualsiasi padre. Ti chiedo una cortesia, prima che tu parta.» Sam, come leggendogli nella mente, rispose.

«Non preoccuparti di tuo figlio, Hildegard, lo proteggerò.» il volto dell’uomo, prima grave, si rilassò, e lasciò le redini. Il cavallo riprese la sua marcia.

Lo salutò con affetto, dirigendosi verso la Terra frastagliata, Lamben. Era una popolazione molto rude, grezza nei modi, madrepatria dei migliori tagliagole e mercenari delle Terre dell’Ovest.

Lì era diretta Sam, sapendo di trovare presto un giro tutto suo di clienti. Ma avrebbe avuto una forte concorrenza che, pur di non perdere clienti, avrebbe ucciso.

Era sempre stato il suo sogno, arrivare alle vette dei migliori tagliagole di Lamben, la migliore assassina, ma mai si era avventurata.

E ora camminava verso il confine della foresta, entrando ufficialmente in quelle terre.

 

Rischio la morte, nell’entrare in queste terre. Dovrò sempre mantenere la guardia, mai voltare le spalle a nessuno.

 

Aveva appena passato il confine che un coltello le passò vicino al volto. Il cavallo si impennò, ma riuscì a domarlo.

Un gruppo di cinque energumeni le si avvicinò. Varie cicatrici solcavano il loro volto.

«Molla i denari e avrai la chance di poter fuggire con le tue gambe.» l’uomo si ritrovò un pugnale al petto, alla fine della frase. I compagni non si erano nemmeno accorti dell’attacco della loro preda.

«Allora» soffiò Sam, guardandoli dall’alto, il cappuccio teso sul volto «c’è qualcun altro che vuole morire?». Un uomo si avventò su di lei, afferrando il mantello per farla cadere, ma la giovane scivolò dal lato opposto del cavallo, slacciandolo, e tagliò la gola di quello sventurato. Mentre il corpo cadeva una freccia le sfiorò un braccio, e il cavallo venne abbattuto con un colpo di ascia. Il sangue iniziò a colorare la terra secca. Sam sfoderò i suoi pugnali e impiegò una breve battaglia con un uomo armato di scimitarra, abbattuto con una lama avvelenata.

I due superstiti stavano cercando di saccheggiare i bagagli di Sam, ancora stretti al cadavere dell’animale. Quando videro l’ennesimo compagno cadere, scapparono, correndo veloci.

Quando pensarono di essere troppo lontani per essere colpiti si sorrisero a vicenda, felici per il colpo riuscito. Stramazzarono a terra, un coltello da lancio impiantato nella schiena. Gli occhi neri di Sam vibravano di vuoto.

 

La fortezza di Lamben era una rocca dai cupi colori, costruita sulla parete della montagna, affianco un lago dal blu scuro e una rada vegetazione anch’essa cupa. Solo pini, qualche albero morto, una distesa di erba secca.

Solcata l’entrata del villaggio ai piedi della rocca, Sam si soffermò ad origliare i vari discorsi dei cittadini. Molti spaventati, altri che mostravano le loro ricchezze, molti coperti di cicatrici, da nani a mezzi orchi, gli occhi bramosi di sangue e lame non propriamente nascoste sotto le loro vesti.

Sam si sentì più sicura stringendo i suoi pugnali nelle mani.

Entrò in una taverna e chiese se aveva un alloggio libero ma, con sguardo dubbioso e sottile, le venne negato un letto.

«Agli stranieri non diamo il benvenuto. Se cerchi un alloggio, vai da un’altra parte.». la giovine vagò per il paese per vari minuti prima di trovare un uomo anziano che le cedette una sua vecchia e sgangherata proprietà in cambio di un gioiello raro, frutto di un suo vecchio furto.

Era una stanza unica, all’ultimo piano di un vecchio palazzo, con il tetto che perdeva acqua e pochi e parchi mobili.

Ma era meglio di niente.

Si armò di pazienza e fino all’ora di cena riuscì a sistemare l’abitazione per un assassino come lei. Aveva murato le finestre, installato delle trappole per i ladri, bloccato la porta e aperto una piccola fessura per il cambio d’aria.

Stanca, si mangiò un pezzo di pane con formaggio e si coricò, arma alla mano, sensi all’erta.

La prima notte lì avrebbe deciso il suo futuro in quel paese così poco avvezzo ai turisti e ai nuovi abitanti.

Eppure, negli ultimi attimi prima di crollare, Sam pensò, con malinconia, al profumo dolce dei capelli di Loole, immaginandoseli lì, a pochi respiri, stretta a sé.

Avrebbe dormito sempre sonni tranquilli, con quel profumo.

 

Loole, nelle sue stanze, si strinse a quel cuscino con stanchezza, ancora vestita con i reali simboli, riuscita a liberarsi dalla riunione, stanca morta per la notte precedente in bianco e per le varie discussioni avute in sede di consiglio.

Inspirò il profumo di buono, e sorseggiando un poco di vino e mangiucchiando la zuppa ormai fredda sul mobile si spogliò degli abiti, stendendosi sulle lenzuola fredde del suo letto.

Gli occhi persi sulla parete, ripercorrendo pensieri e ricordi.

“Fanaon, fratello mio...” una lacrima silenziosa cola.

Chiuse gli occhi e zittì la mente, doveva dormire, almeno quella notte.

Doveva.

Nella mente un parco pensiero prima di cedere al sonno, Sam che la guardava e...sorrideva.

 

 

 

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