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Era sorprendente il lieve
tono ambrato che prendevano le lame di luce solare penetrando le lisce lastre
di vetro incastonate nelle finestre; lo era ancora,
dopo più di cento anni che quegli stessi passi solcavano i preziosi pavimenti
del Palazzo, permettendo allo sguardo di spaziare senza sforzo tra i diversi
usci che facevano capolino a tratti sulle pareti, piccole bocche di mondi
preclusi alla vista da sontuose porte di noce, che fondevano nella loro linea
slanciata il sapore del Barocco umano alla semplicità di curve temprate da
gentilezze quasi sovrannaturali.
Il suono di quei passi
leggeri era udibile solo ad un orecchio fine di cacciatore, accompagnato da
diversi fruscii: la stoffa di un pallido turchese che scivolava sullo specchio
ramato del pavimento, la cinta intrecciata di cuoio bruno che per un tratto
pendeva tra le volute della veste, scomparendo come una minuscola imbarcazione
nelle oscillazioni marine, creando un rapsodico sussurro; il tiepido mormorio
dei respiri, che si intervallavano tra di loro lenti, più lenti di quelli di un
uomo, più lenti di quelli delle bestie.
La donna che si muoveva in
quello spazio, arrivando infine ad una porta elegantemente intarsiata, era un
esemplare di elfo che non aveva pari al mondo.
La sua pelle incarnata
d’avorio era la stessa di tutti i suoi simili, come la struttura delle membra
che pareva più simile a quella di un giunco rispetto a quella degli esseri
umani. Era snella e slanciata, ritta negli abiti che, smossi da venti
inesistenti, danzavano attorno alla sua figura luminosa, colpita dal riflesso
del sole; la sua bellezza inestimabile era un miscuglio alchemico di serietà,
che le teneva le desiderabili labbra rosate serrate, e di imperscrutabile
saggezza, caratteristica che ogni millimetro di lei trasudava, imponendo con
tacite parole che le venisse usato un rispetto degno di una regina.
Ma vi erano connotazioni singolari,
nella sua figura, tinte che nella razza che le aveva dato i natali era raro
ritrovare: poiché i lunghi capelli che le cadevano sino alla vita, intrecciati
in molli treccioline che a tratti avvolgevano tutte
le fluenti ciocche, erano neri come il fosco piumaggio di un corvo; e le
pupille che oltre le fila di lunghe ciglia saettavano occhiate profonde e
insondabili erano illuminate di riflessi rosa, come quelli di alcune
particolari gemme di topazio, e guarniti di lampi occasionali che portavano lo
stesso rosso dei tramonti invernali.
Loole di Inveia allungò una
delicata mano, adorna di lunghe dita affusolate che recavano i segni arabeschi
di tatuaggi di fine inchiostro, alla maniglia dorata della porta che la
fronteggiava austera, abbassandola e creando uno spiraglio che lentamente andò
ad ispessirsi sino a permetterle il passaggio, dopo di che si chiuse
la porta alle spalle, penetrata in una vasta sala circolare che racchiudeva una
decina di persone.
Nessuno interruppe il suo
lavoro quando la sorella del Reggente fece la sua silente comparsa alle loro
spalle: elfi dalle giubbe di lino marroncino trascrivevano appunti diplomatici
con la loro fine e serpeggiante calligrafia; un umano dai capelli bianchi e le
lenti ovali posate sul naso ascoltava parole che a lui parevano dirette,
pronunciate da un elfo corrucciato, seduto scompostamente su una cattedra disadorna,
lo sguardo adirato fisso sulla pietra lucida dell’antichissimo tavolo che aveva
dinanzi.
«…non costringetemi a
ripagarvi con la vostra stessa moneta, Guillome, e
prendete la responsabilità che il vostro ruolo richiede. O sarò tentato di
pensare che voi siate deluso dall’esito che ha avuto l’attentato ai mie danni»
L’uomo, solo esponente della
razza nella stanza, ebbe un sussulto alle parole dl Reggente di Inveia. Con la pelle lucida di sudore accennò un gesto
nervoso di diniego, a cui seguì la sua voce soffocata, che portava la paura che
sentiva dopo la minaccia dell’elfo.
« Non è mai stata mia
intenzione negare i miei obblighi…verrà fatta giustizia per il grave
gesto…eppure mi sento ancora in dovere di…»
Il coraggioso rappresentante
di corte della popolazione umana del feudo fu liquidato con un gesto del
Reggente, che si levò in piedi. Gli scrivani interruppero di colpo il loro
lavoro, balzando in piedi e raccogliendo di fretta pergamene, piume e
inchiostri, e prodigandosi nell’uscire il più presto possibile dalla stanza. Loole, accanto al muro, osservava.
« Allora tornate a casa e
fate ciò che vi ho detto. Buona fortuna»
L’uomo chiamato Guillome bofonchiò indignato un paio di parole, ma si
rassegnò ad uscire dalla stanza a testa bassa. Era ormai arrivato alle porte
spalancate dagli scrivani quando notò la presenza di Loole,
a cui rivolse un’occhiata malinconica. Ho
tentato, dicevano i suoi occhi stanchi, ho
tentato ma ho fallito.
L’elfa
rispose con un tacito segno del capo, e l’uomo si affrettò ad uscire dalla
stanza.
Dopo la fiumana di cortigiani
defluita dalla sala, Loole rimase sola assieme al
fratello e ad un altro elfo, che rimaneva seduto con altezzosità al suo posto,
tracciando disegni astratti sulla tavola con i polpastrelli.
Il Reggente Fanaon era un uomo maestoso, che nel passare del tempo
aveva vissuto una metamorfosi dolorosa, di cui solo da poco aveva iniziato a
pagare le conseguenze. Era un elfo puro, disceso, assieme al suo clan,
direttamente dai Migratori delle Catene di Hörn, i
grandiosi eroi che avevano innestato le radici nelle floride terre dell’Ovest
secoli prima, abbandonando i castelli di ghiaccio in cui erano vissuti nelle
più alte cime alpine.
I suoi tratti ricordavano
molto quelli di Loole, nel taglio netto degli occhi e
nelle linee aguzze degli zigomi, ma i suoi colori erano i più frequenti tra i
loro simili, i capelli quasi bianchi e gli occhi blu come le profondità
oceaniche. Sembrava un bel giovane se visto di sfuggita, e sicuramente aveva
dimostrato di poterlo divenire anni prima, ma una piega truce del volto lo
aveva segnato per tanti anni da tracciare sulla sua pelle d’avorio un cruccio
perenne, simbolo agli occhi degli uomini che nel suo cuore si era conficcata
una scheggia di ghiaccio che non aveva possibilità di essere scacciata.
La camicia che gli avvolgeva
il petto era scostata sopra la spalla destra; là, macchiata di sangue,
una benda era stretta sulla
carne, posta dalle delicate mani della saggia Nün
giusto poche ore prima.
«Salute a te, fratello» parlò
Loole. La sua voce, a dispetto di ciò che ispirava la
sua immagine angelica, era scura, e i toni bassi delle sue parole avvolti da
volute di serietà inalterabile.
Gli occhi dell’altro elfo la
squadravano senza pudore, ma lei non lo degnò d’uno sguardo.
«Ah, sei qui…credevo che la
notizia non ti fosse giunta» disse Fanaon con un
ombra acida nello sguardo.
Loole si limitò a gettare un’occhiata alla sua spalla
ferita, e ciò appesantì il suo sguardo di dolore. Il fratello lo scorse, e,
senza smettere il suo cruccio né la sua alterigia, mosse una mano verso di lei,
nel tentativo di tranquillizzarla – un tentativo sin troppo magnanimo, per i
gusti del Reggente.
«Via, non è nulla. Ci vorrà
ben altro che un paio d’omuncoli per ammazzare me, sorella. Che sei venuta a
fare?»
Quanto era arido, quello
schizzo di tenerezza. Loole non mutò espressione
davanti al comportamento del fratello, scoraggiata ormai da anni nel mostrarsi
pietosa nei suoi confronti.
«Ti porto un messaggio di Mitride e della sua gente, Fanaon»
rispose la donna, sedendo accanto al fratello. Gli occhi blu di lui la
seguirono, accesi di una nuova ferocia.
«Sono scontenti di te. La
tassa che hai loro imposto sulle terre che occupano è inadeguata, e lamentano
il tuo disinteressamento verso la loro decisione di uscire dal nostro mercato.
Non hanno danaro, fratello, non possono pagarti i cinquecento pezzi d’oro che
tu domandi. E soprattutto, la tua richiesta va contro i trattati che firmammo
venti inverni fa…»
«Venti inverni fa io ero un
altro uomo!» esclamò irato Fanaon. Loole ebbe un piccolo sussulto quando lo stivale di lui
colpì con violenza il suolo, ma dopo di che rimase calma ad ascoltare. «I loro
sudici zoccoli hanno calpestato sin troppo i miei territori senza darmi nulla
in cambio, non tollererò oltre! Tornatene da dove sei venuta e impicciati dei
tuoi compiti, sorella, non osare invischiarti in faccende che non ti competono»
La rabbia violenta di Fanaon aveva raccolto ben poco stupore dai due elfi nella
stanza, e Loole attese solo il trascorrere d’un paio
di secondi prima di parlare ancora, con voce pacata:
«Eri un altro uomo» ripeté
piano, in contrapposizione alle urla del fratello.
Lui la guardò con odio, e i
suoi muscoli delle braccia si tesero a vuoto tanto che la benda si macchiò di
nuovo sangue. I suoi occhi, ciechi di rabbia, vagarono per un momento nella stanza,
e poi se ne andò, a grandi falcate che divorarono nel giro di un paio d’attimi
il pavimento.
Loole rimase immobile sulla sedia, senza parlare. Non
volgeva uno sguardo solo all’altro testimone dell’eccesso d’ira di Fanaon, e respirava attraverso i suoi calibrati sensi d’elfa come se fosse stata sola, insensibile alla presenza di
quell’individuo dal viso smunto, e gli occhi sporgenti, avidi, che non
smettevano di fissarla. Rimase ferma per alcuni minuti, a pensare, e poi
s’alzò, stanca del silenzio rotto solo dai loro respiri. Arrivò alla porta da
poco oltrepassata dal fratello quando la voce dell’altro elfo la raggiunse, fastidiosa
come il tafano attorno ad un puledro.
«Mia cara, è ammirevole come
voi vi intestardiate a portare a vostro fratello i vostri pensieri politici
travestiti da messaggi…»
Loole guardò l’altro con sguardo sottile, senza aspettarsi
parole preziose dalla sua bocca, tanto sottile e bianca da assomigliare al taglio
netto d’un coltello mosso da mano esperta sulla buccia compatta d’una zucca.
«L’unico compito che sento di
dover espletare è quello di curare le ferite che il nostro feudo sta subendo, Thaurgill. Quelli che voi chiamate pensieri politici non
sono altro che la voce dei nostri popoli che chiedono pace. Non mi aspetto che
voi comprendiate ciò che portiamo noi amici delle genti.»
Loole non impiegò nuova rapidità nel muoversi lontano dalla
stanza, e l’elfo cortigiano la raggiunse senza sforzo. La afferrò per un
braccio, ma la sua stretta era tanto debole da essere spezzata dal solo scatto
stupefatto di lei. Le pupille rosate della nobile elfa
si trovarono a pochi respiri da quelle di Thaurgill.
«Comprendo, invece, Loole. E so bene che tu da sola non puoi pretendere di
vincere questa tua piccola guerra…perché non accetti che un amico ti prenda per
mano per condurti alla vittoria del tuo capriccio, se questo ti renderebbe
felice?»
La figlia di Avenor si ritrasse, i sensi che sottopelle le inviavano
scosse allarmate, il viso candido atteggiato in una maschera di odio represso.
La mano di Thaurgill non fu capace di trattenere neppure una piega del
suo abito, e lasciò che si scostasse, eretta nel suo fiero portamento di
creatura secolare.
«Torna nel tuo angolino oscuro,
Thaurgill, torna a contare le tue sconfitte. Sei un
debole, se pensi che mi vincerai come il vento vince uno scampolo di stoffa
strappandolo al suo ramo. Io non ho bisogno di te, non ho bisogno della tua
avidità» lo aggredì Loole, sostando sotto il suo
lungo sguardo alterato.
Thaurgill fece un passo indietro, fremendo. Con uno sforzo che
parve sovrumano accennò un inchino, e allungò un pallido braccio avvolto da
seta blu a indicare il corridoio.
«Saluto la Signora di Inveia» mormorò, socchiudendo gli occhi. Loole lo guardò ancora per un istante, le labbra
splendidamente arricciate, poi si allontanò in fretta. Era arrivata lontano
quando avvertì lo sguardo di Thaurgill lasciare
libera la sua immagine.
Il feudo di Inveia si allungava a vista d’occhio dal braccio ad Est del
Palazzo di Onice: era dalla finestra più lontana dal resto dell’edificio che Loole amava osservare le leghe attraverso cui i loro
territori si espandevano, andando ad intrecciarsi con lunghe lingue di bosco,
correndo sino ai confini coi loro vicini marittimi, che reggevano i lembi di
terra a picco sul mare.
Quel giorno la luce del sole
investiva obliqua ogni cosa, portando con sé una tonalità ultraterrena di
pallido oro che rendeva preziosa ogni particella di polvere. Un profumo
floreale era limpidamente trattenuto nell’aria, come ultimo scampolo d’estate
che prometteva di svanire entro poche notti.
Sin dalla sua infanzia, Loole aveva sentito la voce tonante di suo padre chiamarla Figlia delle Stelle. Da quando l’avevano
trovata rifugiata ad osservare il cielo dopo che il fratello l’aveva gettata in
una polla di fango per dispetto, tutti a corte sapevano che, se la nuova Dama
di Inveia era irreperibile, di certo i suoi occhi
erano rivolti al cielo, da qualche parte del feudo.
Sentiva così vicina al suo
cuore, quella primigenia caratteristica della sua razza: quell’eterno guardare
la volta celeste alla ricerca di una risposta, forse per ingannare il lungo
tempo a cui erano destinati, quegli anni che li vedevano vivere e crescere come
querce, senza mai accennare un inchino al tempo.
Era mistico, trascorrere le
ore a guardare le nuvole, come per vedere attuato il desiderio di voltarsi e
ritrovare, conficcate nelle pupille, delle schegge di cielo.
Loole si imbrigliò una ciocca di capelli fuggitiva e la
mise dietro l’orecchio. Sotto di lei, lontano, alcuni umani tornavano alle
proprie case: le pareva di sentire, portata dal vento, l’eco festosa dei loro
canti.
Ecco, tutto era come doveva essere*. In quelle minuscole briciole di pace, la Dama di Inveia poteva confrontarsi col suo desiderio più grande. E
sperare, un giorno, di vedere il suo disomogeneo popolo raggiungere la pace.
*: Tutto è come deve
essere. La notte indurisce la polpa dei frutti, risveglia il desiderio degli
insetti; calma l’inquietudine degli uccelli; rinfresca la pelle dei rettili; fa
danzare le lucciole. Sì. Tutto è come deve essere.
Il vero sta nel
bianco, la menzogna nel rosso e nel nero l’essenza della vita stessa.
Come se la vita fosse lì, a una spanna dalla mano
tremante sul tavolo di legno, illuminata da quella fiamma magica balbettante
che calore non donava. La magia ancora la ingannava. Distolse lo sguardo.
Per tutta la vita aveva vissuto così e ora, a pochi
passi dalla libertà del corpo, si ritrova imprigionata in una guerra che non è
sua.
Vola, ragazza, vola.
Sì, ma da quale
paradiso? Non esistono dei, santi o martiri che ti possano salvare.
L’unico che rimane
sulla terra bruciata sei tu.
E ci rimani pure
fregato.
Perché non
scriveranno il tuo nome sulla tua lapide.
Un
nome che non è suo, che non è sulla sua pelle, né nel suo cuore. Un nome dato a
un’ombra che cade nel buio e vola nel vento. Un nome dato a un guanto che
uccide e ad un mantello che nasconde.
«Il
nome di un sicario è come i suo biglietto da visita.» affermò il capo, in uno
dei suoi alquanto noiosi e pomposi monologhi.
«Dimmi,
ragazza...qual è il tuo?» sogghignò, aspettandosi un nome altisonante e
difficile da pronunciare.
Lo sguardo
freddo, lontano dal buio e dalla verità del mondo. Solo aperti. Solo vivi. Lo disse
come se fosse il tempo, atona. Piove. Nevica. Notte. Luna piena.
«Sam.».
La mano che ancora trema, gli occhi fissi. Una goccia
di inchiostro che cade sulla carta.
E fu così che diedi
un nome alla mia maledizione.
Una maledizione che
scende dall’alto senza pietà e ti fredda lì, mandandoti al primo Dio creatore
che passa per i cieli.
Faccio solo ciò che
mi viene detto, la mia anima ha un prezzo, come quella di tutti.
L’unica cosa che
desidero è poter ritornare a sentire ancora una cosa sulla pelle...
Si fermò, rileggendo le ultime parole. Assaporandole
il gusto sulla carta.
Strinse la mano, sospirando e scrivendo la verità. Dopotutto...a
chi importava?
...il dolce profumo,
la carezza notturna e lieve della vita che ti scorre nelle viscere del tuo
corpo peccatore di vita.
Imprimendo il punto alla fine della frase lasciò la
penna sul foglio, prese un mantello appeso dietro di lei e indossandolo uscì,
calandosi il cappuccio sul viso. La giornata era appena iniziata, i primi
bagliori della vita del nuovo giorno stavano venendo al mondo con un silenzio
soffocante ma luminoso.
Le strida della città uscivano dal boccaporto in
cima al muro di fianco a lei.
La vita incomincia.
La ruota della fortuna gira.
Tu devi solo sperare di avere la fortuna che arrivi
a fine giornata con il numero fortunato.
Aprì un rotolo sul tavolo, osservando un ritratto
disegnato a matita. Il prossimo obbiettivo da eliminare, non importava perché,
andava fatto. Sospirò, di nuovo.
Afferrò il rotolo e lo introdusse in una tasca all’interno
del corpetto.
La vita incomincia...già.
L’unica che le dà un
termine però, o sono io o la morte. E nei casi più disperati, le due cose
coincidono.
∞
Un’ombra silente, con cappuccio calato, scivola
nella gente senza nemmeno sfiorar vesti. Le braccia nascoste sotto la mantellina
scura che arrivava all’altezza del ginocchio. Produce un suono di tessuto
dolce, ovattato e misto all’odore e rumore puzzolente del mercato locale.
Venditori di lame, di pesce, di ortaggi vari dalla
dubbia freschezza e chincaglierie per signore non più giovani.
«Vuole una mela, signore? Le mie sono le più
gustose del mercato!» l’ombra si voltò, dirigendo l’apparente sguardo
all’oggetto offertogli, e con lieve fretta si allontanò, negando con una mano
ricoperta da un guanto. Si diresse direttamente alla bancarella interessata,
lievemente nascosta in un vicolo, che mostrava un arsenale di armi dal più
piccolo coltellino a qualche spada ben affilata.
«Cosa desidera?» domandò il mercante, giocando con
le mani pregustando la pesantezza dell’oro prossimo alle sue tasche.
L’ombra, muovendosi con calma, indicò un pugnale di
delicata fattura, da lancio.
L’uomo, senza decantarne gli onori né la storia
com’era solito fare, lo afferrò, lo introdusse in un fodero non suo, e glielo
porse con una mano, attendendo nell’altra il sacco di denari richiesto.
L’uomo afferrò il prodotto, lasciando sul balcone
un sacchettino che, a contatto con il legno, produsse un suono tintinnante di
denaro sporco.
«Grazie mille!» fece il mercante, sorridendo
affabile. Ma quando si alzò, per guardare il compratore generoso, era già
svanito nei corridoi della città, dove il cielo si colorava lentamente di rosso
al tramonto dell’astro.
La luce, già svanita dal cielo, si nascondeva ora
nelle case, piccoli rifugi di quella gente immonda dalle mani sporche di
inganni.
L’ombra, in cima alle mura, osservava con il
cappuccio teso sul volto i rumori silenziosi e le luci soffocate nelle case. Lo
sguardo fisso in una locanda, osservare un uomo dalle vesti pregiate entrare,
pronto per un giro di sbornia e divertimento locale.
Chiusasi la porta pesante di legno, l’ombra era già
scivolata nel suo stesso colore di città.
«Oggi offro da
bere a tutti! Sono diventato ricco!» disse l’uomo, con un paio di baffi arricciati e i capelli lievemente
bianchi, la pelle decadente. Attorniata da giovani bellezze del locale, adibite
a far divertire i più ricchi di tasche, sorridevano affabili e si facevano
toccare senza dispiaceri, nel cuore aride come nelle loro vesti.
L’uomo, considerandosi un
pascià, all’ennesimo bicchiere di birra proruppe in un rutto da far tremare i
vetri sporchi di quella locanda di second’ordine.
Non si accorse nemmeno
che, lontano dai suoi sguardi e dai suoi immediati interessi, uno sguardo
oscuro lo osservava nascosto nell’angolo più remoto della locanda.
«Vuole
qualcosa?» domandò un garzone giovane,
pieno di pustole gialle sul viso.
L’ombra, quasi
sprofondata nel suo mantello da cui non si era separata né accingeva a rivelare
il suo volto, lo osservò e parlando con voce bassa ordinò del pane e del
formaggio. Il ragazzo svanì, e lo sguardo ritornò al panciuto mercante, dagli
occhi dilatati e le vesti strette.
«Signorina, le
va di venir di sopra con me?» domandò poi l’ubriaco
mercante, ormai gonfio di birra e di desiderio. La donna, sempre con occhi
spenti, annuì convinta, sorridendo all’ennesimo cliente e guardando il
locandiere con sguardo d’intesa.
La mano del locandiere
indicò il numero quattro.
Il garzone intanto si
diresse verso il tavolo dell’ombra che, assimilando l’informazione offertagli
senza cautela dal proprietario della locanda, prese al volo pane e formaggio
avvolgendole in un panno, lasciando sul tavolo una manciata di monete d’argento
per poi uscire dalla porta principale.
Tutte le finestre della
locanda, adibite a stanze di pernottamento, quella notte erano spente, tranne
una.
La camera più grande d’un
tratto si illuminò, e al suo interno si potevano udire suoni di risate della
prostituta e la voce squillante del mercante ubriaco. L’ombra appiattita contro
le tegole del tetto spiovente di fronte ad essa, il cappuccio calato, la mano guantata intorno alla lama da lancio, la presa forte e
ferma. Le finestre, aperte in quei giorni di calura estiva, davano l’occasione
perfetta.
Aspettò che l’uomo desse
le spalle alle finestre, per avvicinarsi di più, scivolando sulle tegole marce
con sicurezza.
La luna, ricoperta da
strati e strati di nuvole cariche di pioggia, negava la luce per individuare
l’ombra, con fisico asciutto e agilità di un gatto, mentre si avvicinava sempre
più.
L’uomo aveva spento la
luce, entrando nel covo di finto amore che stava costruendo ora. I rumori che
provenivano dal suo interno si intuivano di che natura fossero.
L’ombra, sotto il cappuccio
terso, sorrise all’oscurità, abbracciandone ogni sua forma e mistero,
sentendosi come un felino nella propria radura. Acquattata, entrare dalla
finestra con un balzo, facendosi intenzionalmente scoprire.
«Chi va là?» intimò l’uomo con voce squillante.
La lama interruppe lo
sguardo irato, trasformandolo in panico, poi in paura, e infine in morte.
La donna, raggelata,
scostò il corpo con disgusto, facendolo cadere con un tonfo sordo a terra, osservandolo
attonita per poi guardare l’ombra, rischiarata dalla luna, apparsa per un poco
nella piccola stanza della locanda.
Il cappuccio ancora teso
sul volto, si avvicinò alle vesti dell’uomo, frugando tra le tasche e prendere
il sacchetto di monete tintinnanti tra le mani.
La donna, ancora nuda nel
letto, non smise un secondo di guardare quell’assassino muoversi senza vederla.
Trovato il denaro e un oggetto indistinto avvolto in un panno, infine l’ombra
passò il suo sguardo su di essa.
L’odore di sangue
scivolava sulla pietra del pavimento, il cadavere osservato da entrambi come se
fosse polvere.
La mano frugò nel
sacchetto, lanciando sul letto una manata di sonanti monete d’oro, facendo
sussultare la donna.
Si voltò l’assassino, e
uscì da dove era entrato. Nella stanza, ora, c’era solo odore di morte e di
soldi.
Entrando dalla guardiola
di un edificio apparentemente abbandonato scese verso le fondamenta di esse,
bussando tre volte e mormorare una parola. La porta si aprì, e l’ombra scivolò
lesta, sparendo.
Si diresse alla porta
interessata, nemmeno guardata di striscio dal robusto guardiano.
Entrando, lanciò
l’oggetto rubato pochi istanti prima al mercante sul tavolo, unico arredamento
di quella stanza chiusa.
Una mano scura prese
l’oggetto comparendo dal nulla, ma come se fosse sempre stata lì. L’oggetto
scivolò come la mano nel buio e poi un sacchetto pesante atterrò sul tavolo,
velocemente preso e soppesato dall’assassino.
«Ottimo lavoro,
come sempre...» mormorò
l’uomo, notando lo sguardo affilato dell’interlocutore, non più nascosto dal
cappuccio «...Sam.» gli occhi ambrati della ragazza schioccarono
fuoco, e senza mormorare parole, né gesti, si diresse alla porta, fermata dalle
parole dell’uomo.
«C’è un altro
lavoro per te, sempre ben remunerato...» buttò la voce sibillina. La donna si fermò, pronta ad ascoltare.
«Le
informazioni le troverai nella tua stanza, se accetti il lavoro.» terminò l’uomo, soddisfatto di aver attirato
l’attenzione della ragazza.
Si voltò, muovendo la
testa contornata da corti capelli di un blu notte.
«Sarà fatto.» rispose schiettamente, la voce fredda, atona,
dura. Uscì, e la luce di un fuoco di corridoio illuminò per pochi attimi il
volto, prima di essere di nuovo celato dal cappuccio. Un tatuaggio tribale,
dall’odore di magia, tagliava il volto in due parti passando sopra l’occhio
destro e la base del setto nasale.
Un vecchio giorno è morto, la luna, la notte vivono di nuovo ora.
La vita è finita per qualcuno e continua per qualcun altro.
L’unica cosa che di sicuro non terminerà, è la mia maledizione.
L’intenso sapore
d’estate che con le ultime larghe pennellate investiva i prati del Palazzo
inducevano nella mente complessa dell’elfo molti ricordi.
Profumavano di
rabbia e dolore, quelle tessere di domino ripescate dal pozzo del tempo: oltre
la patina di nerume sparsa su di essi dalle nebbie infauste del presente, era
solo un lungo e intenso suono di ninnoli d’oro che giungeva a Loole nella sua
placida traversata del prato.
Fanaon era nato
in una fulgida mattina primaverile, ancor prima che la sgargiante silhouette
della stella infuocata mostrasse la sua intera bellezza ai popoli delle loro
terre: era scivolato nella vita in silenzio, con gli occhi spalancati e le mani
timidamente contratte sul petto. Era avvolto da un’aurea di luce lattea e,
appena aveva incrociato gli occhi di sua madre, aveva aperto la piccola bocca
in un sorriso.
Loole, investita
da un improvviso sbuffo di vento odoroso – campi coltivati, pane, capelli rossi
intrecciati – socchiuse gli occhi. La memoria che la razza le aveva conferito
fu rapida a farle rivivere uno dei ricordi più belli ch’ella custodisse: due
paia di occhi color del mare che si sfiorano, gl’uni incorniciati di lunghe
ciglia, gl’altri appena appannati dalla vita appena incontrata, e una mano
lunga e affusolata tanto da assomigliare ad uno stiletto che si muove leggiadra
ad accarezzare il viso umido del piccolo.
Chissà come
stava, Gwersean. Erano trascorsi moltissimi inverni da quando aveva lasciato la
residenza reale per ritirarsi a vita privata in campagna, in una grande casa
accanto ad un vecchio mulino ad acqua in disuso. La Dama di Ghiaccio aveva
baciato i figli, prima di salire sul suo cavallo baio e di svanire
all’orizzonte: a trascorrere gli anni tra gli scoiattoli e i cerbiatti, tra
mura di pietra grezza con la sola compagnia di un paio di pergamene e
dell’amato che aveva portato via dal mondo dei vivi il suo corpo e la sua
anima.
Le missive che
era solita inviare si fecero sempre più rare, e col passare del tempo Loole e
Fanaon si ritrovarono sempre più distanti a ricevere notizie di loro madre. Dal
tono affettuoso e conciliante, le parole vergate da Gwersean si erano fatte
sempre più urgenti e rigorose. Erano i tempi in cui Fanaon lasciava che il suo
cuore si avvelenasse lentamente, quando ancora tutti si stupivano degli eccessi
a cui si abbandonava il Reggente ormai sempre più frequentemente.
Infine, Gwensean
iniziò a scrivere solo a Loole. Furono lettere di rimpianto e di confessione,
irte di desideri inespressi e di preghiere. La mano della Dama di Ghiaccio si
fece sempre più protettiva nei confronti della figlia, sino a spronarla a
fuggire via dal Palazzo per non cadere vittima della pazzia che stava
lentamente consumando Fanaon. Ma Loole rimase, e solo le sue lettere si
allontanarono dal Palazzo di Onice.
Dopo le ultime
preghiere e le ennesime raccomandazioni, Gwersean si abbandonò al silenzio.
Entrambe loro sapevano che l’altra stava bene, ovunque ella fosse. Nel loro
sangue di donne pulsava un legame sottile, che le univa attraverso gli acri
incolti che correvano tra loro: un bocciolo che si sarebbe interrotto se una di
loro avesse cessato d’esistere.
Così, Loole
ricordava la sua genitrice senza sospirarla, convinta che, là fuori, ella stava
costruendosi il suo castello di pace e serenità, sola col ricordo dell’uomo
della sua vita, e la saldezza che contraddistingueva il suo sangue nordico.
L’immagine di
Gwersean era sempre impressa nella memoria di Loole, senza mai venire mutata
dallo scorrere del tempo: gli stessi boccoli biondo cenere, che tanto a lungo
le avevano carezzato il viso da bambina; gli stessi occhi blu i cui gemelli
sfoggiava Fanaon; le medesime labbra rosee che parevano uno schizzo di vernice
tanto erano fini e casualmente eleganti. Le stesse mani. Mani di mamma, di
regina e di donna.
La trasformazione
avvenuta in Fanaon aveva molto spaventato la Dama di Ghiaccio, gettandola in
uno sconforto che a tratti aveva rasentato la follia. Aveva chiamato a gran
voce l’anima del figlio perché essa non fosse perduta, e quando ebbe la
certezza che le sue preghiere ancestrali altro non erano che urla mute al
vento, si rinchiuse in un bozzolo di spine. Loole ricordava sempre con
delusione tutto ciò che Fanaon aveva smesso d’essere.
Gli stralci di
memoria che portava con sé pesavano come se fossero stati segreti
inconfessabili, in cui invece di un assassino vi fosse un bambino felice che
andava per i campi con suo padre e sua sorella. Un bambino curioso che si
arrampicava sugli alberi e che Avenor faceva fatica a riportare a terra, che
afferrava la mano della sorella per trascinarla di corsa su una collina ad
osservare il tramonto.
«A forza di
pensare verranno le rughe persino sul tuo bel viso, madama Loole»
Una voce bianca
apparve dal nulla come portata dal vento, e Loole seppe di non essere sola. I
pensieri l’avevano portata lontano da lì, ed il piccolo amico che stava
avvicinandosi, conoscendo quanto gli elfi odiassero essere colti di sorpresa da
individui più silenziosi di qualsiasi pettirosso, aveva sfogato la piccola
gentilezza di darle quel segnale della sua venuta, un gesto che ben pochi
soggetti della sua razza erano disposti a compiere verso i governanti di
Inveia.
Loole attese di
avvertire il calore di un corpo a pochi passi dalla sua gamba prima di voltarsi.
Dalla vegetazione
lontana era apparso un ragazzino smilzo, che portava colori di bosco sia sugli
abiti che nel corpo. I suoi occhi color cioccolato fissavano giocondi il punto
in cui lo sguardo dell’elfa si era incantato poco prima, e un sorrisetto gli
increspava le labbra sfilacciate di bambino povero. Aveva i capelli mori
spettinati, e tra di essi spuntavano alcune piccole foglie. Loole ne sfilò una
in silenzio, e una mano poco curata del ragazzo scattò alla capigliatura,
arruffandola ancor di più.
«Lo sai che gli
elfi non apprezzano battute sulla loro giovinezza, messere Matias?» rispose con
un tono basso e serio Loole, guardandolo dall’alto al basso. Dopo appena
qualche attimo, il ragazzino alzò il visetto arrogante e sorrise.
«L’ho detto
apposta» disse, negli occhi i raggi di un sole ben più splendente della luce
ultraterrena che li circondava.
Loole si
inginocchiò dinanzi a lui, ritrovandosi occhi negli occhi.
«Che ci fai qui,
bestiola? La tua gente in questo periodo non si prepara per l’autunno?»
Il ragazzino
chiamato Matias alzò le spalle insofferente, senza abbandonare il sorriso che
gli illuminava il volto.
«Sono lavori
noiosi» si giustificò, «intanto lo so che sei contenta di vedermi e non mi
cacci via»
Loole annuì,
abbassando gli occhi.
«La signora è
malinconica?» chiese Matias, abbassando il viso per tentare di guardare gli
occhi di lei da oltre il ciuffo di capelli che scivolava sulla sua fronte
bianca; Loole si drizzò repentinamente e lui poté solo vederla quando ebbe
alzato il capo.
«Stavo pensando a
mio fratello, Matias» disse Loole, «ti assomigliava tanto, quando era un
bambino. E ora è diventato un mostro»
«Io ho la coda,
lui lo scettro» sorrise Matias, «chi di noi due è più mostro, elfa?»
Loole si lasciò
sfuggire un risolino poco convinto, dopodiché s’alzò. Matias le afferrò un
polso e indicò un punto lontano sotto di loro.
«Li vedi quei
boschi laggiù, Loole?» chiese con voce elettrizzata. L’elfa seguì il suo braccio
e scorse una macchia verde poco dopo un ponte su cui stava passando, a giudicare
dai rintocchi di un campanaccio, un pastore con un paio di vacche.
«Sì, li vedo»
rispose lei, curiosa di sapere perché il ragazzino fremesse ad indicarglieli.
«Papà ha detto
che lì mi porta ad allenarmi. Quando è inverno e non ci va più nessuno, ha
detto che ci andiamo insieme e che mi insegna a stendere un lupo!» spiegò
Matias.
Loole tornò a
guardarlo con un filo di disapprovazione nello sguardo.
«Un bambino come
te non è adatto ad imparare cose simili…» obiettò, aspettandosi saggiamente che
le sue parole cadessero nel vuoto come un sassolino lanciato in un pozzo. L’unica
cosa che ebbe in cambio, infatti, fu un altro dei sarcastici sorrisi del
ragazzino, che si curvò su di sé sottolineando un’aria vagamente ferina dei
suoi tratti, e un luccichio sinistro balenò nei suoi occhi quando i suoi
piccoli muscoli si tesero, allarmando i sensi acuti dell’elfa, pronti
all’assalto.
Il corpicino di
Matias spiccò il balzo, e Loole lo afferrò per gli abiti schivandolo di un paio
di millimetri, scoppiando in una risata fonda e armonica che aggiunse al danno
del piccolo anche la beffa. Le gote del ragazzino si imporporarono quando
iniziò a scrollarsi per liberarsi dalla presa dell’elfa.
«Uffa, Loole,
perché non mi dai mai la soddisfazione di prenderti di sorpresa? È imbarazzante
per un lupo.» bofonchiò, dondolandosi.
La donna lo mise
a terra, sorridendo sorniona.
«Torna ad aiutare
tua madre, Matias, che al tuo allenamento mancano ancora alcuni mesi» disse.
Lui le sorrise, accennando un saluto militare molto goffo.
«Agli ordini. Un
giorno, quando sarò bello grosso, ti faccio finire a valle, elfa!» esclamò il
ragazzino, partendo di corsa e voltandosi poi a metà strada verso il limitare
del bosco per salutarla con la mano.
Loole lo
ricambiò, sospirando alla sua gentilezza. Aveva saputo quando apparire e quando
andarsene, lasciandole sulle mani un finissimo sentore di sottobosco. Lo
sguardo di quarzo dell’elfa lo osservò svanire, ed il suo udito seguì i suoi
passi giù per le colline, finché gli scricchiolii del terreno si fecero troppo
lontani per essere seguiti.
Passi umani che
si erano trasformati in falcate di bestia.
Loole si sedette
sull’erba macchiata di smeraldo, raccogliendosi sul grembo le volute di stoffa che
formavano la gonna del suo abito.
Aveva visto così
spesso la luce birichina degli occhi di Matias nello sguardo di Fananon, ed
invano aveva sperato che quella scintilla di vitalità non svanisse mai, neppure
sotto la cappa opprimente dell’avarizia.
Eppure quella
scintilla era morta senza lasciare tracce, e con lei erano state chiuse le
pesanti porte della serenità che per molti anni erano rimaste spalancate sulla
loro famiglia e sull’intero Feudo.
Matias non poteva
dire addio a quella scintilla. Nessuna lotta, nessuna crescita avrebbe dovuto
farlo cambiare.
Loole tirò un
respiro tremulo sulle gote del cielo.
Avrebbe voluto
imprigionare tutte le lucciole del pianeta, per rischiarare quella notte che
scendeva inevitabile su tutti loro.
Sam, scivolando sul buio
della notte come la mano di un poeta scivola sulla carta odorata di fresco e
vitello, si fermò sul ciglio di un tetto, osservando la città dormire mentre
lei, assassina e ombra di morte, è sveglia già dal tramonto.
Avere questi ritmi, a
volte, stanca. Alcuni desiderano mollare tutto per avere una vita normale, alla
luce del sole, poter magari vivere dei propri sforzi, prendersi un pezzo di
terreno e vivere di esso, farsi una famiglia ed essere...felici.
Schioccò la lingua sui
denti, provocando un suono scocciato. Questa è vita, non quella fiaba che
propinano a tutti. La felicità è come la politica. Non è mai quello che dicono
che sia.
A lei, Sam, quella vita
bastava. Bastava per raggiungere il suo scopo.
Una fiamma la individuò
sul tetto, ma fu veloce a sfuggire allo sguardo della guardia.
Svanì, come uno sbuffo di
fumo. E l’uomo, osservando lo spazio prima scuro e ora chiaro, scrollò il
testone facendo tintinnare l’elmo, continuando a camminare lungo la cinta.
Sam, illuminata dalla
sbavatura di luna, sorrise, fiera di quella piccola dote dello scomparire al
momento giusto, e saltò ferina, lanciandosi verso una nuda parete nascosta
dalla luce. Alcuni ganci fecero breccia nella pietra, e cominciò a salire.
Fanaon dormiva, placido, nell’enorme letto a
baldacchino, contornato da figure indistinte di elfe dagli svariati capelli,
tutte dame di corte o leggiadre incantatrici ingaggiate per il nobile signore.
Si sentivano, nell’aria
riscaldata dalle ceneri di un vecchio fuoco, i respiri sommessi delle donne e
il russare forte dell’uomo. La grande vetrata, affianco al grande letto, veniva
pallidamente illuminata dall’astro notturno, colorando leggermente i contorni
di quella stanza piena di tutto ma anche di niente. Una sala che conteneva
dalle armi da cerimonia a un enorme armadio ripieno di vestiti eleganti e
sgargianti, un manichino che supportava una fine e dolce armatura da
combattimento, rimasta ancora scalfita dalla Guerra degli Elfi del Sud, durata
ben cinquant’anni, dove lo vide vincitore.
Quadri di inestimabile
valore artistico e storico, una mappa aggiornata del Feudo, un tavolo ripieno
di missive. Eppure, per quanto fosse la stessa stanza di quando era piccolo,
conservava solo una cosa al suo interno: un dipinto, di mano dolce e
concentrata, che raffigurava il vecchio regnante, sorridente, con accanto una
dama dal taglio freddo ma dagli occhi dolci, una bambina in piedi vicino a lei e
un bambino in braccio, ovviamente Loole e Fanaon da giovani.
Tutto ciò strideva con
questo unico - vero - ricordo di famiglia.
Per il resto mostrava
quanto vuota era la stanza e l’animo di quell’uomo dalle mille pretese e poche
virtù.
Intanto fuori si sentiva
uno strano ticchettio, come di una pioggia che cade sul ferro.
Ma il vetro era pulito,
come il cielo, dalle nuvole, e dall’acqua.
Sam arrivata al grande
terrazzo d’onore del Re, che si affacciava sulla camera, entrò lesta, sapendo
che aveva poco tempo prima di compiere il misfatto.
Entrò, trovando la porta
di vetro aperta. Osservò il letto, il cappuccio calato, due occhi chiari
osservavano l’ambiente, come brillanti di luce.
Evitò il russare del
principe e si avviò alla scrivania, leggendo con facilità come se fosse alla vicino
a una fiamma, le orecchie tese nel caso il sonno del principe venisse
interrotto.
Prese un paio di carte
con un silenzio e, conscia del suo obbiettivo, si avvicinò con silenzio, in
mano una bottiglietta di liquido trasparente. Veleno.
Lo stappò, la mano tesa
sopra la bocca aperta, il liquido che sta per cadere quando sentì il grido
stentato di una delle serve, sveglia.
Gli occhi di lei si
incrociarono con quelli fiammanti di Sam, e poi urlò con tutta la voce che
prima dallo spavento aveva spento.
Sam corse con un amaro
nello stomaco lasciando cadere la boccetta, sapendo di aver fallito, per la
prima volta, una missione.
L’uomo all’urlo scattò,
afferrando un pugnale nascosto nel cuscino e, vedendo l’ombra scampare verso il
terrazzo, considerò di averlo in pugno. Non aveva minimamente calcolato il
fatto che l’ombra si sarebbe gettata con ovvia sicurezza oltre il bordo.
Corse, per individuare
chi avesse avuto il coraggio di gettarsi da quell’altezza suicida.
L’ombra cade, cade, e il
principe pensò che avesse fatto male i conti, sogghignando tra sé e sé,
pregustando il suono sordo di un corpo che si scontra con il suolo. Ma non
avvenne ciò che previde.
Scivolò l’ombra su uno
spiovente del muro, le tegole che impedivano la presa resero claudicante
l’equilibrio dell’uomo, che al bordo invece di afferrarlo, lo usò come base per
un salto lungo, agile, diretto verso il muro del torrione più in basso.
Sfregiando la superficie
rocciosa con un metallo tenuto in mano, facendo scaturire scintille, scivolò
ancora, fin quando, con un ennesimo balzo potente si lasciò cadere al di là
della cinta difensiva.
Atterrò come un ferino, e
fuggì nella babele della città. Fanaon rimase di
stucco. Tra tutte le meraviglie dell’essere umano e non, quella magia lui non
l’aveva mai vista, e gli occhi si disegnarono di rabbia, trasfigurando il bel
volto di un elfo nel pieno della vita in una maschera di ira e frustrazione
pura. Rientrò in camera, ovviamente dove le guardie erano già entrare per
proteggere il re, ovviamente in ritardo.
«Andate via,
buzzurri, è già fuggito.» a niente
valse far suonare l’allarme per tutto il palazzo, l’ombra era già stata
inghiottita dalla notte.
Loole, convocata di gran urgenza, raggiunse la camera
regale ancora in camice da notte e con i capelli lunghi raccolti per il sonno,
correndo dal fratello preoccupata. Entrando nella porta spalancata della stanza
più grande, senza notare le presenti dame scivolare silenziose con poche vesti
addosso, si diresse verso il biondo. Venne scacciata con un gesto freddo e
duro, e la donna spense ogni sua preoccupazione.
«Se stai bene, fratello mio, allora è inutile che io stia
qui.» affermò, guardandolo con rabbia. Ottenne lo stesso sguardo in cambio.
«E invece un motivo c’è sorella...» rispose, incrociando
le mani sul petto nudo. Anche lui era in tenuta da notte.
«Cosa vuoi domandarmi, nel cuore della notte?» chiese,
con un silenzioso timore nella voce. Gli occhi nascosti dalla lanterna non
fecero intuire le sue paure dal fratello.
«Devi capire chi è quella persona che ha tentato di assassinarmi
stanotte.» negli occhi ancora quella magia, quella scaltrezza e dolcezza ferina
di un animale che balza sul labirinto di muri invalicabili, atterraggio sicuro
sul terreno, nonostante l’altezza.
Loole lo guardò negli occhi, vide un
bagliore di rabbia e desiderio mista a impazienza. Si preoccupò.
«Ci stanno già pensando le guardie a cercarlo...» disse,
ottenendo una risposta secca dall’uomo.
«Lo voglio. Vivo. Devo sapere una cosa da lui.» disse,
gli occhi come avvelenati da una nuova frenesia, come grondanti di cieca
follia. Quella che aveva visto tempo addietro per la conoscenza dell’arte
dell’uccidere.
Loole si preoccupò ancor di più.
«Perché vuoi parlargli, Fanaon?
Cosa vuoi sapere che già non sai?» e in risposta ricevette silenzio.
«Tsk, tu non puoi capire,
donna.» ribatté, «E poi sono affari miei, tu fallo. Dopotutto...non sei tu la
migliore cacciatrice del Feudo? Trovare le tracce, fiutare le prede, seguirle
nel bosco, catturarle...».
«Sono animali quelle, non persone.» rispose lei, gli occhi
acidi.
«Anche il tuo amico - come si chiama? Ah, Matias - è un uomo. Ma è anche bestia...no?» non credette
alle sue orecchie, Loole, a sentire quella vena di
minaccia nella voce del fratello. Cosa c’entrava ora Matias?
«Nelle battute di caccia non importa se è bestia o uomo,
l’importante è che faccia divertire il re... l’importante è che faccia
divertire me.». Loole
intuì cosa c’entrava ora il suo piccolo amico muti forma. Ed ebbe paura.
«Va bene fratello, farò quello che desideri... ti porterò
quest’uomo vivo...» e stringendosi nelle braccia scivolò veloce verso la
propria camera, dall’altra parte del corridoio. Finché sentì gli occhi
divertiti di Fanaon sulle spalle, non osò tremare
nemmeno un secondo, conscia del fatto che lui l’avrebbe intuito. Se anche la
sorella del re ora tremava al suo cospetto, il Feudo sarebbe morto. Lei era il
suo ultimo baluardo, prima della completa disfatta. Non poteva crollare. Non
ora.
Si chiuse la porta alle spalle e respirò forte, cercando
di fermare quel tremore nelle mani. Per una volta nella sua vita Loole ebbe paura di suo fratello.
Sam rientrò nel covo con particolare fretta, dirigendosi
verso la porta del capo, trovandolo ovviamente ammantato nell’ombra. La donna
stette vicina alla porta, come cosciente dell’errore compiuto di cui l’uomo
sapeva, ovviamente.
«Mi hai deluso, Sam... questa è la prima volta che
fallisci una missione.» disse l’uomo, con tono mellifluo, come sempre. Sam
abbassò lo sguardo, da sotto il cappuccio, gli occhi ancora fiammeggianti.
«Datemi una seconda possibilità e non vi deluderò.»
ribatté, scattando con la testa.
Ci fu silenzio, dall’altra parte, prima che cadesse una
cartellina sul raggio di luce che filtrava da una grata. Luce di luna.
Sam l’afferrò, aprendola e leggendo con velocità.
A un certo punto si fermò, alzando lo sguardo irata.
«Come sarebbe a dire, affiancata?! Non sono più una
novellina, so fare il mio lavoro senza l’aiuto di nessuno! Men
che meno lui!» risposte, gli occhi accesi di rabbia.
Una voce fuori dal campo interruppe la sua ira,
prendendola di sorpresa. Non aveva percepito la sua presenza. Silenzioso come
sempre, quell’elfo.
«Ti dà così tanto fastidio la mia presenza, Sam?» una
voce calda, apparentemente affettuosa, che a Sam fece venire i brividi di
disgusto.
«Francamente? Sì.» rispose la donna austera, osservando
l’ombra nel buio, come il chiarore della luna sulla superficie acquatica. Il
capo prese la parola.
«Smettetela di bisticciare e fate i bravi, dopotutto è
solo una missione breve. Prima la porterete a termine, meglio sarà, sia per noi,
sia per coloro che hanno comprato i nostri egregi servigi.» La donna, ancora
con la rabbia che le scorre nelle vene e con l’orgoglio schiacciato sotto un
tacco sporco di fango, uscì dalla stanza, dirigendosi verso le proprie umili
camere.
Si fermò solo quando sentì i suoi passi seguirla.
«Ho orecchie più buone di quanto pensi. Smettila di
seguirmi.» non si voltò, non le serviva. Non voleva rivedere il suo volto, né i
suoi occhi. Gli bastava l’immagine nei suoi incubi.
Sentì un movimento di tessuto, e il suo fiato caldo le
sfiorò l’orecchio, di nuovo brividi.
«Lo so, mia cara Sam...» la sua mano le sfiorò i capelli.
Si scostò, irata. La mano che assaggiava l’elsa di un pugnale.
«... avevi capelli più lunghi, nei miei ricordi...»
soffiò ancora.
«...e tu un’intelligenza più fine.» Sam scattò, compiendo
un arco dal basso per cercare di ferirlo al ventre, ma l’elfo, veloce, lo
schivò, prendendo il braccio e torcendoglielo dietro la schiena. Le sfuggì un
grugnito di dolore, mentre lui si avvicinava di nuovo all’orecchio.
«Vedo che conservi la rabbia per me ancora adesso.»
«Non rabbia, odio.» sbuffò tra le labbra, mentre con la
testa gli diede un colpo forte sul naso, movimento inaspettato dall’essere. Si
liberò della sua prese e afferrando un pugnale per mano si preparò al
combattimento. Di fronte a lei, l’oggetto dei suoi incubi.
Alto, come tutti gli elfi, d’altronde. Occhi color
ghiaccio, freddi e impenetrabili, capelli biondi quasi bianchi, lunghi,
raccolti in un’elegante treccia, con forme e fattezze androgine, le spalle
piccole e le braccia fini ma stranamente lunghe, come le gambe, il bacino
stretto.
Con una mano sistemò un ciuffo scampato all’accorata
capigliatura, sorridendo con un ghigno. I suoi incubi non avrebbero mai
raggiunto quel sorriso fatale.
«Continua ad odiarmi, Sam. Il tuo odio per me è come
nettare di vino.» e ridendo le voltò
le spalle, muovendo le spalle, scivolando dietro il primo angolo. Quella risata
maligna di quella voce rimbombava nelle mura, ma peggio ancora, nei corridoi
della mente, dei ricordi, di Sam come il rintocco della campana nei giorni
funesti di morte e guerra.
Quella notte, perdendo il
sonno, ritrovò se stessa.
Seduta sul
parapetto delle finestre spalancate, Loole osservava
le stelle. Achernar*, lontana e pulsante, ricordava
un mazzo di rose selvatiche abbandonato alla corrente dell’impetuoso fiume che
la trascinava a Sud, dominatrice di quella pozza nera che era il cielo
notturno, che in sussurri di vento senza sapore prometteva di aprire presto le
braccia all’alba.
La cacciatrice
era pronta, eppure esitava a partire. Il suo corpo elfico era avvolto in una
veste da caccia che la rendeva più simile ad un ombra che ad una creatura,
l’opaca pelle nera che le stringeva il petto era percorsa da lunghe cinghie
usurate e morse da fibbie che mandavano un cieco bagliore, le sue lunghe gambe
erano coperte di tessuto leggero di un colorito che faceva pensare che fosse
stato macchiato di polvere da sparo, e i calzari in cuoio mielato erano stati
soppiantati da slanciati stivali da cavallerizza.
Fosca nei suoi
abiti, che portavano sulle labbra il nome soffocato di una guerra personale, si
era silenziosamente intrecciata alcune ciocche di capelli per liberare lo
sguardo da una qualsiasi cecità improvvisa, aveva stretto con forza la custodia
da coscia in cui era infilato uno stiletto d’argento, ed ora era pronta alla
partenza. Eppure il richiamo di quella notte senza più luna era stato troppo
forte per resisterne, ed ora la stessa coperta notturna che l’aveva ammaliata
la vedeva accasciata a quella finestra a contare le lacrime dorate di chissà
quale dio, lottando in silenzio contro la spinta ad uscire da quelle mura per
cercare l’assassino.
Il suo arco era
posato a pochi passi da lei, nascosto nell’ombra. Le polsiere di cuoio scuro
che indossava erano sfigurate da lunghi graffi che quella stessa arma vi aveva
impresso in anni di fido servizio. I suoi lumi lignei occhieggiavano verso di
lei con pazienza, in attesa di essere imbracciato. Sapeva che era l’ora di
partire, e sapeva anche che presto le ginocchia della dama si sarebbero flesse
per marciare incontro a quel destino. Come ogni battaglia, l’avrebbero
affrontata assieme.
E gli occhi di
quarzo della donna sovrannaturale si posarono sulla figura liscia e ammaliante
dell’arco, simile ad un serpente nell’aria del mistero. Era ora di andare.
La città,
annegata nelle tenebre, pareva un grande teatro di spettri senza forme né
profondità, ma solo una varietà indescrivibile di ombre multiformi.
Avvolta in un
mantello corvino fortemente assicurato alle spalline della veste da caccia da
raffinate fibbie dorate, Loole scivolava silenziosa
tra le mura degli edifici, seguendo una pista che od ogni altro occhi sarebbe
stata invisibile, e che invece dinanzi a lei si inerpicava attraverso le vie
urbane con curve serpentine, brillante come un’aurora boreale nei cieli del
nord.
Lentamente, ad
ogni suo passo, le variazioni di luce tra le ombre della sera si fecero sempre
più eclatanti, finché i tacchi morbidi dei suoi calzari non calpestarono la
luce del giorno, neonato tra le braccia delle nuvole chiare, che occhieggiava
verso una variegata aggregazione di case.
Il centro più
fiorente del Feudo di Inveia, da cui esso stesso
prendeva il nome, aprì gli occhi alla serenità mattutina, nascondendo
frettolosamente i commerci notturni che solevano amare la loro stessa natura;
sempre più rapide, ombre gobbe si nascondevano alle spalle degli edifici,
trascinando oggetti che sbatacchiavano lievi sulle ruvide pareti. Loole lasciò che molte figure incappucciate la scambiassero
per una statua trasparente all’interno nelle budella della periferia, mentre
con gli occhi seguiva i respiri agitati che esse si lasciavano alle spalle,
tranquilla nel sapere che l’individuo che andava cercando non era lontano, ma
neppure tanto vicino da essere uno di quei fuggitivi dall’aspetto malaticcio.
L’elfa si insinuò nei vicoli meno frequentati dell’insieme
urbano, dove rivoletti putridi rigavano i fianchi dei camminatoi
e rumori soffocati e sinistri si disperdevano nelle nubi di vapore che, ad
intervalli di qualche metro, s’innalzavano da grate instabili verso il cielo –
un cielo ferito nel profondo dalle lame affilate dei tetti simmetrici che
coprivano in gran parte la visuale aerea.
Camminava da
molto tempo schiacciata in una viuzza larga meno di un metro quando udì il
primo rumore rilevante. Stava giungendo finalmente alla fine del vicolo, dove
una piazzetta decadente s’apriva in circolo, e uno scalpiccio provenne proprio
da sopra la sua testa: un paio di colpi sordi soffocati, provocati da qualcosa
– o da qualcuno – che non volesse essere scoperto.
Loole scivolò via dall’abbraccio delle due case
tra le quali era rimasta rinchiusa, e tese l’arco già in precedenza armato.
Attese. La piazza
alle sue spalle era deserta, parte dei suoi sensi erano orientati verso d’essa;
una brina caliginosa ricopriva i sampietrini incastonati nel terreno, una
finestra cieca era affacciata da un muro basso, e un gatto vagabondo aveva da
poco lasciato una forte traccia urinaria ad alcuni metri da dove ora lei era
piantata, gli occhi rivolti al cielo e i muscoli in tensione.
Attese un rumore,
un movimento, ma non accadde nulla. Trascorsi minuti e minuti, abbassò la
guardia armata e si guardò attorno.
Si era
allontanata appena dal luogo su cui aveva sostato quando, alle sue spalle, un
soffice suono fece capolino.
Tutti i sensi in
allerta, Loole ruotò su se stessa, tendendo
nuovamente l’arco, il paesaggio demotivante che correva rapido dinanzi al suo
sguardo acuto che, nonostante la rapidità, percepiva ogni forma e ogni colore
nitidamente; si presentò davanti a lei un’ombra accovacciata, che senza
attendere si preparò a balzare lontano, rivelando capacità superiori a quelle
di qualsiasi essere umano, ma non abbastanza sviluppate da ingannare un elfo.
Loole scoccò, proprio quando l’ombra accennava
un lungo passo di corsa, e la freccia si conficcò sibilando nel tenero muro
umido alle spalle del nuovo arrivato, portando con sé spessi strati di stoffa.
L’elfa si accostò subitanea alla figura celata che, sorpresa
appena, strappò con forza gli abiti dalla stretta della freccia, e prima
ch’essa potesse fuggire l’afferrò per il collo, stringendolo nella piega del
gomito.
«Tu sei fuggito
dal Palazzo d’Onice» sibilò Loole al suo orecchio. L’individuo
ristette nella sua stretta senza ribattere, limitandosi a respirare. Il suono
dell’aria che fluiva nei suoi polmoni rubava a Loole
gran parte della propria capacità uditiva.
«Chi siete voi
per dirlo?» sussurrò l’ombra fattasi uomo dopo un istante, prima di
divincolarsi con forza e di guadagnare abbastanza terreno da sferrare un duro
colpo allo stomaco dell’elfa, che colta di sorpresa
si piegò, dando il tempo all’incappucciato di fuggire correndo.
Loole si lanciò nella sua direzione senza
esitare, osservando gli scatti felini del mercenario che lo portarono al muro
basso dirimpetto a lei, dove nasceva una scaletta arrugginita e divelta in più
punti. Loole imprecò contro se stessa per aver
lasciato quella via di fuga al suo uomo, e proprio mentre questi si ergeva sul
limitare del tetto, anch’ella salì i pioli scivolosi della scala, allungando
l’arco.
Iniziava a
piovigginare quando il fuggitivo commise l’errore che gli costò una pesante
caduta sul tetto di pietra: senza accorgersene l’arco gli aveva agguantato uno
stivale.
Il mantello nero
si gonfiò, il cappuccio voltò via dalla testa: a Loole
parve quasi una scena della commedia del ridicolo, prima di posare il piede sul
tetto e di ritornare a quella che era solo realtà.
Si accostò alla
persona sdraiata a terra e con sorpresa constatò che ciò che si era raffigurata
nel pensiero divergeva di molto con la verità delle cose.
Il cappuccio nero,
che iniziava a macchiarsi di goccioline di pioggia, aveva lasciato liberi
capelli tagliati corti che, alla luce tribolata di quel giorno maledetto,
sembravano risplendere di una morbidezza simile alla seta. Agli occhi sorpresi
di Loole quei capelli si mostrarono del colore del
cielo notturno.
L’elfa sgranò gli occhi, stupita di trovare di fronte a sé
qualcuno che non era un semplice umano: solo la prova vivente che le movenze
inumane di poco prima avevano una giustificazione palese.
Il fuggitivo fece
leva sulle braccia e alzò la testa, puntando sul viso di Loole
uno sguardo arcigno, che deformava il viso dai tratti decisi ma morbidi in una
maschera di ira profonda, verso se stessa come verso quell’elfa
dall’aria nobile che aveva teso una trappola vincente. Era una donna, quella
stesa scompostamente sul tetto, mantenendo la grazia nella sua figura: una
donna dagli occhi neri, vestita di nero e armata di un paio di coltelli da
lancio e di altri attrezzi seminascosti dal mantello.
Loole, per niente impressionata dal ringhio che
le labbra dell’altra atteggiavano, si prese tempo per studiare il suo viso. Con
una mano la teneva giù, ma senza fare pressione: la ragazza avrebbe potuto
fuggire in qualunque momento, ma non lo fece. Gli occhi dell’elfa intanto erano perduti nello studio del disegno tribale
che, simile ad una vena d’inchiostro su una pergamena precoce, segnava quel
viso come…
Una maledizione.
Loole si allontanò di scatto dalla donna, che
si alzò con calma e la fronteggiò, assumendo una posizione tesa che sapeva
tanto di vecchie esercitazioni.
«Che hai sul
volto?» chiese Loole, rapita. Il disegno ora appariva
ancora più pericoloso, ornato dallo sguardo serio da leonessa a caccia della
donna.
«Mi hai allestito
un agguato solo per chiacchierare, madama?» ribatté arrogante la giovane donna.
Loole, a quelle parole, parve ricordare il
perché era là.
«Sono stata
mandata dal Reggente del Feudo per scortarti al Palazzo d’Onice…» disse l’elfa senza particolare enfasi.
La donna si
accorse di come questa notizia non fosse per nulla resa significante dalla voce
della creatura, e accennò un sorrisetto.
«E immagino che
tu voglia portarmici con tutti gli agi e le cortesie,
vero?»
Loole abbassò gli occhi. Nella sua mente, un
gran subbuglio di pensieri si intrecciava su se stesso, come fosse fiera
all’interno di una gabbia.
«No» rispose. Il
suo sguardo si spostò nuovamente sul viso della donna.
Ella assunse un
cipiglio interrogativo. I suoi sensi si impregnarono dell’indecisione che l’elfa esprimeva, domandosi in silenzio cosa c’era da
aspettarsi.
La Dama di Inveia attese ancora una manciata d’attimi, che tenne per
sé per respirare profondamente. L’aria fredda e appesantita di fine pioggia la
rinvigorì fintamente, e le diede la forza per parlare, prima di svanire e
rigettarla nella confusione di crampi che le attanagliavano le meningi temprate
di donna d’intelletto.
«Ti offro tre sacchetti
d’oro per compiere l’assassinio del Reggente del Feudo, mio fratello»
La donna dai
capelli color del cielo estivo ristette, sorpresa. Non si sarebbe mai aspettata
una simile proposta da un elfo, soprattutto da quella elfa; un voltafaccia diretto non
solo ad un suo simile, ma persino ad un parente stretto, il parente – Sam lo
sapeva – più vicino che le fosse rimasto.
«A un prezzo
simile, credo non ti convenga rifiutare» aggiunse piano Loole,
guardandola in tralice.
«Io non accetto
un lavoro in questa maniera» rispose l’altra donna. «Devi lasciarmi tempo»
«Allora prenditi
quattro giorni per pensarci. Tre sacchetti d’oro, e ti offro la mia collaborazione.
Tutto per un assassinio e il tuo silenzio»
Loole ascoltò con orrore le proprie parole. Un
battito sordo risuonò nel proprio petto.
«E sia» annuì il
sicario, parlando con un filo di voce. Loole annuì a
sua volta.
«C’è una locanda
a pochi passi da qui, nel retro ha un cortile dove tengono i cavalli degli
avventori. Tra quattro giorni, a mezzanotte, sarò lì. Se non vi vedrò arrivare
entro una quindicina di minuti io me ne andrò e per il vostro assassinio
dovrete arrangiarvi»
Loole non sentì alcun sollievo sentendo come il
tono della donna aveva ripreso pacatezza, ritornando a rivolgersi a lei con il
“voi”. La stava trattando come un cliente, e il prezzo pattuito avrebbe
scambiato una merce molto particolare: la morte.
L’elfa annuì ancora, facendo un passo indietro. La donna
abbassò il capo in seno di saluto, e si tirò sul capo il cappuccio, nascondendo
di nuovo i propri lineamenti nell’ombra. Diede le spalle a Loole,
senza però abbassare la guardia e, giunta alla fine del tetto, si lasciò
cadere, atterrando morbidamente sul selciato.
Sam si portò una
mano umida al viso, tergendolo. Era solo un lavoro come un altro. Eppure,
portava un nome ben diverso dagli altri: profumava di innocenza e di un certo
tipo di amore a cui ella non sapeva dare nome. Gli occhi di quell’elfa, così differenti da tutti quelli che fino ad allora
aveva incontrato, lanciavano disperati segnali di dolore. Il sicario svanì
lentamente nelle budella della città. per la prima volta nella sua vita, non si
era accorta di come il cielo si era ritirato dietro ad una pesante coperta di
nubi uggiose.
Loole, nascosta dietro un alto muro di una casa
che, al pari di tutte le altre, pareva abbandonata, a dispetto dei rumori
soffocati che provenivano dal suo interno, trasse dalla custodia lo stiletto.
Gettata un’occhiata tutt’intorno, si premette la lama con forza sul braccio,
lasciando che la fredda lingua d’argento disegnasse nella sua carne una ferita.
L’elfa gemette, premendosi una mano sulla pelle. Il sangue
scivolava tra le sue dita, ma senza prestarvi attenzione pulì la lama del
pugnale alla bell’e meglio sotto un rivolo d’acqua piovana che cadeva da una grondaia.
La pioggia si
stava facendo sempre più forte. Loole osservò
un’ultima volta ciò che aveva attorno: le strade deserte, le case, le pietre
brillanti di gocce. Ecco come quella città di miseria veniva incoronata regina
degli storpi.
La Dama d’Inveia abbassò il viso e riprese la marcia. Si sarebbe
confusa con le ombre gettate dalle nubi tornando al castello. Le stesse ombre
che tanto assomigliavano alla sua anima addolorata, ripiena di dolore e di
bieca determinazione.
Madre, fa che la follia della nostra casta
non si appropri anche di me.
*è la stella più
brillante della costellazione di Eridano, il Fiume Celeste, che secondo la tradizione
rappresenta il Po.
La stesura di questo capitolo non è stato fatto né da Adhara, né da Eriok.
Volevamo informarvi di ciò per il fatto che l’autore e quindi il punto
di vista di questo personaggio è un amico delle autrici, che ha chiesto se
poteva, in forma breve, dare un pizzico di sé in questa storia e in questo
genere che ama tanto. Ecco a voi, allora, in questo capitolo di nuova forma, ViktorLebowskyall’opera.
Buona lettura a tutti.
L'aria della taverna era
pesante e soffocante, ma non tanto quanto quella delle bettole dei regni degli
uomini. Per Viktor andava bene così, se non fosse per il fatto che la birra
elfica era leggera e troppo dolce. Scansò l'ennesimo boccale e se ne fece
mandare un altro mentre ascoltava le dolci note di un violino.
Il suonatore era
rincantucciato in un angolo oscuro dove le pareti gonfie di odori stantii
s’incontravano; vestito di stracci, riempiva la fitta tessitura di voci roche e
silenzi che occupava l’ambiente. I tavoli di foggia rustica erano fiocamente
illuminati da bracieri sporchi; uomini e elfi, confusi nei loro anonimi panni
di reietti, occupavano quelle panche scheggiate.
Sfregiato in volto e
abbigliato come il più squallido tagliagole, Viktor se ne stava solo ma non in
disparte. Ammirò per qualche istante l'elsa lavorata del suo stocco, gli occhi
che vedevano doppio, e non sentì nemmeno arrivare lo sconosciuto alle sue
spalle.
«Viktor! Vecchia canaglia!
Cosa ci fai in un posto come questo?».
L'uomo si voltò, divertito, e
quando vide la sua vecchia amica scoppiò in una risata.
«Sam! Non posso crederci, dev’essere
un miraggio! Sarà qualche stregone elfo che ha fatto un incantesimo ai miei
occhi! Cosa diavolo ci fai tu in un posto come questo!? E guarda come sei conciata!
Sembri un pulcino bagnato! Oste, porta del buon vino alla mia amica, e alla
svelta!».
I due non fecero caso
all'occhiata minacciosa che l'oste lanciò all'uomo. Sam si sedette, sollevata
nel rivedere un vecchio amico, mentre Viktor rideva divertito picchiando le
mani sul tavolo. Attirava l'attenzione.
«Dai, dimmi, amica mia. Cosa
ti porta qui, in questo sperduto regno di elfi? Alla Regina degli storpi?».
«Lavoro, Viktor. Lavoro...».
«Mmm...
Mi pare che ci sia qualcosa che non va qua!».
«Sei ubriaco per caso?».
«Quando mai sono stato
sobrio?» sorrise Viktor finendo la birra. Si pulì la bocca con la manica e Sam
rise. «Sam, piccola mia, ti conosco da quando sei nata. Ricordi quando da
piccola ti tenevo a cavalcioni sulle mie ginocchia? Quanto ridevi! Vedo che hai
ancora una bella chioma di capelli blu notte! Non come me... Ma parliamo d’altro!
Vedo dai tuoi occhi che hai un qualche dilemma... È successo qualcosa di
brutto? Puoi contare su di me, lo sai.».
«No, niente di speciale. Se si
trattasse di problemi concreti me la potrei cavare da sola.» rispose Sam
accarezzando le impugnature dei suoi splendidi pugnali da lancio. Viktor
sorrise.
«Non sei cambiata affatto.».
«E tu non sei invecchiato di
un giorno! Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ci siamo visti? Sei
anni?».
«Nove, piccola mia...»,
sospirò Viktor, stanco. Si passò una mano sulla metà destra del proprio cranio,
rasata a zero «Il tempo passa, inesorabile... Ma non stare a sentire le
farneticazioni di un povero vecchio! Tu sei giovane, hai tutta la vita davanti!
A proposito, mi pare di capire che finalmente sei arrivata dove volevi
arrivare. Sei diventata un sicario, dico bene? Lo vedo dai tuoi occhi. Hanno
una luce strana, la luce di chi conosce la morte come compagna.».
«Come i tuoi?», lo stuzzicò
Sam.
«Conosco molte compagne, Sam,
e la morte non è la mia favorita.» rise lui. «Come te la passi?».
«Alti e bassi, vecchio mio.
Come al solito. Dimostrare ogni giorno che sei più brava ed esperta nell'arte
della furtività e dell'assassinio è già di per sé stancante senza contare il
fiato sul collo degli elfi. Devo sempre mantenermi uno scalino più in alto di
loro altrimenti mi schiacceranno. Tu dovresti saperlo bene.».
«Io so solo che non sembri
avere problemi in questo. Ti conosco bene, Sam! Il tuo problema non può essere
questo! Questi quattro elfi non valgono mezza cicca, li puoi prendere tutti
comodamente a calci nei loro sederi rosei! Avanti, sputa il rospo.».
«Non è un segreto che posso
confidare a cuor leggero, Viktor, anche se parlarne mi toglierebbe un tale
peso... Vieni, andiamo fuori. Ho bisogno di prendere un po' d'aria.».
Viktor seguì la graziosa
ragazza che avanzava verso l'uscita. I suoi passi non producevano alcun rumore
e ogni suo movimento era aggraziato e delicato. Sembrava un predatore in caccia
in una grotta di pecore belanti. Aveva imparato bene. Dannatamente bene.
Fuori continuava a piovere,
l'intera città avvolta in una cappa di tetra malinconia.
Gli occhi neri di Sam,
stranamente cerchiati, osservarono per un attimo il cielo: una tavolozza sporca
di tinte fosche, caduta in una pozzanghera infangata per colpa di un qualche
artista sbadato. Le gocce d’acqua, fredda nella loro ripida discesa verso il
suolo, erano piccoli pugnali per la consistenza ovattata delle sue pupille, ma
non per questo abbassò le palpebre. Accanto a lei sentiva la presenza dell’amico,
una figura che irradiava un calore stinto da accampamento autunnale attorno al
fuoco di bivacco.
«Malinconia al caffè.»
proruppe Viktor assaporando l'aria fresca di pioggia.
«Come?».
«Malinconia al caffè! Potrei
usarlo per qualche mia poesia, quando avrò tempo. Sembra buono...».
Sam scosse la testa,
sorridendo. Ecco quel sapore antico di vicinanza che si scioglieva sulla
lingua. Un legame che nessuno di quelli come lei potevano permettersi di
mettere in primo piano. Eccoli, due figure nella notte: gli esempi concreti di
questa semplice e disumana regola di vita.
«Come procede con il lavoro,
Viktor? Non sei stanco di fare ciò che fai? Non hai dubbi?».
«Dubbi?» borbottò l'altro, mettendosi
il cappellaccio a tesa il larga in testa. Sembrava un vecchio spaventapasseri «Mia
cara, il mio mestiere è fondato sui dubbi! La caccia alle streghe... Quanti
ricordi mi tornano in mente, Sam, rischiano di sommergermi. Faccio questo
dannato lavoro da una vita e mi sento come se non dovesse finire. Sono troppo
vecchio ormai... Ci sono più probabilità di trovare il fantomatico ago nel
pagliaio che una strega in questa terre. Gli elfi, dannati loro, sono tutti
maghi», sputò a terra. «E da quello che ho capito adesso fanno amicizia con i
licantropi! Ai miei tempi quando si vedeva un licantropo gli si sparava in
mezzo agli occhi un quadrello d'argento, non gli si dava da mangiare!».
«Visto il tuo odio per gli
elfi ti farà piacere conoscere il mio nuovo bersaglio.», la ragazza abbassò la
voce, circospetta «Devo assassinare l'attuale reggente degli elfi, per tre
sacche di monete d'oro.».
«Un lavoro che ti sistemerebbe
per la vita. Potresti comprarti questa baracca con tutti quei soldi! E il
problema dove sarebbe? Temi forse di non riuscire a superare le guardie di
palazzo?».
«Niente affatto. É ardua da
spiegare, Viktor. Non trovo le parole... Sento che non devo farlo...».
«Inizia la storia daccapo,
Sam.», disse Viktor, serio per la prima volta.
«La mia gilda mi aveva, tempo
addietro, commissionato un attentato al reggente degli elfi. Un lavoro arduo,
ma non impossibile. Ce l'avevo quasi fatta, Viktor. Stavo per somministrargli un
certo miscuglio e poi sarei sparita nell'ombra. Ma ho fallito. E quel vile ha
mandato i suoi segugi alla mia ricerca. Non pensavo mi avessero trovata...
Eppure proprio ieri un’elfa mi mette in scacco. Un’elfa, capisci? Niente meno
che la sorella stessa del re.».
«Loole?»,
chiese Viktor, grattandosi il pizzetto rossiccio.
«Come fai a saperlo? Ah, che
m'importa... Fatto sta che l’elfa mi ha in pugno, e che fa? Mi lascia andare. E
mi ingaggia per mettere fine alla vita di suo fratello. Capisci? Gli elfi non
fanno queste cose, Viktor. Questo comportamento è troppo... Umano.».
«Vero. Ma è altresì vero che
il suddetto re degli elfi è un incapace. M’intendo discretamente di intrighi di
corte, intrighi umani sia chiaro, e la mossa dell'elfa potrebbe essere un suo
piano per prendere il comando. Di questi tempi non sembrerebbe una cattiva idea,
visto come vanno le cose tra i vari regni...».
«Non riesco a capire, Viktor.
Qui dev’esserci qualcosa che non va. Non stiamo parlando delle terre degli
uomini, questi sono Elfi! Quale elfo pagherebbe per assassinare il proprio
fratello?».
«Sam, Sam, vuoi farmi credere
che sei assalita da i tipici dubbi sulla morale? Vuoi dirmi che non riesci a
tenere a bada la tua coscienza? Tu sei un'arma, non sei una persona. Sei pagata
per portare la morte. Pensieri simili non devono albergare nella tua testa, ti distruggerebbero.».
«Il punto non è questo,
Viktor. Il punto è che non posso farlo.», sbottò Sam «Questo porterebbe ad una
guerra! Scatenerei una guerra terrificante tra il regno degli elfi e quello
degli uomini, capisci? Perché verrebbero di certo a sapere che è stata un’umana
a piantare un coltello nel cuore del re e allora si scatenerebbe l’inferno sulla
terra. Milioni di morti...».
La donna ruotò il corpo per
fissarlo. Gli occhi del cacciatore, seppur nascosti nell’ombra della tesa del
cappello, ai suoi occhi allenati apparivano come tizzoni ardenti che la
osservavano fin dentro l’anima.
«Dici il vero, amica mia, dici
il vero», rispose Viktor meditabondo «Ma a te importa davvero qualcosa? La tua
mano è frenata forse dal pianto dei bimbi che non vedranno tornare il loro
padre alla sera? È fermata dai contadini che moriranno di fame poiché i nemici
devasteranno le loro terre? Davvero? Non farmi ridere, Sam! Il problema non sta
nella tua mente, sta nel tuo cuore.».
«Non essere sciocco, cacciatore
di streghe.».
«Sei tu l'unica sciocca qui,
Sam», le sorrise con affetto Viktor «Sei un sicario, Sam, uno dannatamente
bravo. Ricordo quando da piccola giocavi con le spade di legno in riva ai
fossati. Ti guardavo e già ti immaginavo come una donna che danzava nella battaglia.
Non te n'è mai importato nulla degli altri, per questo sei quello che sei. Nei
nostri mestieri è fondamentale prendere a calci la coscienza e farle capire
qual è il suo posto!».
«Non capisco cosa vuoi dirmi,
Viktor. Parla chiaro.».
«Voglio dirti, amica mia, che
nella vita si fanno le cose per tre semplici motivi: per profitto, per
appagamento, e per amore. Ergo, se il profitto per te è irrilevante e se la tua
coscienza ti a rinunciare forse è il momento di seguire il tuo cuore» spiegò
Viktor fissandola negli occhi «Credimi Sam, sono quasi due secoli che mi
trascino su questa terra, forse posso aver capito qualcosa. Qualcosa da poter
raccontare, insegnare, in modo che anche gli altri non facciano i miei stessi
errori. La via del cuore non sbaglia mai. Mai.».
«Le tue parole sono confuse,
Viktor. Non capisco perché mi dici questo... Devo pensarci sopra. Ho altri tre
giorni per riflettere, sono sicura che alla fine arriverò da qualche parte.».
«Ne sono sicuro anche io,
amica mia. Ne sono certo.».
«Forse è meglio che ora ci
separiamo, Viktor.» disse tristemente la ragazza «Non è il caso che io mi
faccia vedere a lungo in giro, non con il compito che mi appresto a svolgere.
Prometto... Prometto che farò ciò che mi dice il cuore e quando ci rivedremo
capiremo se sarà stata la scelta giusta.».
«Lo saprai nel momento stesso
in cui lo deciderai, Sam, nonostante tu sappia già qual è la scelta giusta da
fare. Quando accadrà tu lo saprai, e lo saprò anche io! Infondo un re che viene
assassinato è una notizia che farà presto il giro del mondo!» rise il
cacciatore di streghe.
«Grazie dell'aiuto, vecchia
canaglia.» borbottò la donna, sorridendo suo malgrado. Gli batté una mano sul
braccio, ed inclinò il busto indietro.
«Aspetta, Sam», sussurrò
Viktor avvicinandosi alla ragazza. Le parlò all'orecchio, come se tutto quello
che avessero detto fino ad allora fossero bazzecole a confronto di quel segreto
«Il tuo segno, la tua... Maledizione. Mi sono informato, se vuoi posso fare
qualcosa per aiutarti. Non sarà doloroso, è solo...».
«No, Viktor.», lo zittì lei,
seria. «So già cosa devo fare. E so quale sangue devo versare per questo.».
«Ne sei sicura? Hai vissuto
abbastanza con un fardello come quello.», fece lui, deluso.
«Non preoccuparti per me,
vecchio mio, so badare a me stessa. Lo sai. Ora, con permesso, la notte mi
chiama.».
«Buona fortuna, piccola mia.
Ti auguro ogni bene.» concluse il duro cacciatore di streghe, cupo.
«Buona fortuna a te,
canaglia...», sorrise lei. Un sorriso venato di tristezza «Alla prossima.».
Si allontanò di corsa,
scomparve nel buio. Lasciò che una lacrima le bagnasse una guancia. Il suo
cuore le disse che non lo avrebbe più rivisto. Un pensiero cupo, triste,
malinconico. Malinconia al caffè, come avrebbe detto Viktor, il cacciatore di
streghe.
L'uomo in nero con la lunga
cicatrice sulla faccia e la testa rasata per metà osservò la sua amica
andarsene. Sparire nel buio. Era una vera professionista.
Soffocò un’imprecazione quando
pestò dello sterco di cavallo e rientrò in taverna. Il suo cuore, quel poco che
ancora possedeva, gli diceva che non l'avrebbe più rivista.
«Il cuore a volte sbaglia»,
sospirò, fissando il boccale vuoto «Scusa se non te l'ho detto, Sam. Ma il
cuore non ha tutte le risposte... la birra
ha tutte le risposte. Oste, dell'altra birra! C'è gente che muore di sete
qui!».
Sam sapeva osservare bene il mondo, dall’alto delle
guglie della cattedrale, un fantasma che si staglia in mezzo alla marmaglia di
case confusionarie, in mezzo al fango e in mezzo alle lacrime di quel signore
che quei pinnacoli cercavano - invano - di raggiungerlo. Sam guardava con
occhio esperto la concatenazione di vie, strade principali e portici di fronte
a sé con sicurezza, conoscendone ogni anfratto. Aveva appena salutato un caro
amico, incontrato per fato o per caso - oh, quanto possono essere sinonimi
queste due parole - e gli aveva detto inconsciamente addio. Sapeva che, in
quella missione, in quella particolare
missione, Sam avrebbe perso il fluire della sua pallida e oscura vita, per
incontrarne un’altra, molto più intrigata. Lo sentiva, lo percepiva.
La pioggia cade, intensa e soffocante, come un muro
di leggeri fogli di aghi. E Sam ne assapora ogni stilla, come se la pioggia
lavasse via tutto, anche le lacrime.
Dire addio a quella vita, per quanto ricercata,
l’aveva quasi illuminata. Una donna le offriva la vita e la morte. Sapeva che
quello che gli era stato chiesto l’avrebbe fatta radiare dalla sua gilda - la
morte - ma non le importava. Ora aveva altri obbiettivi.
L’unico obbiettivo che la teneva in vita. La morte
di Helvorn.
Stava buttando se stessa in un baratro di infinita
sofferenza e perdere la coscienza di sé non è da Sam. Eppure lei, per quanto
sapesse il prezzo della vendetta, lo assaporò e lo incorporò nel suo petto.
Uccidere il suo cuore era solo il primo passo, ma
una volta che si incomincia a camminare nell’oscurità, gli occhi si adattano al
buio. Al dolore.
La luna, da dietro le nuvole cariche di pioggia,
fa capolino. Gli occhi brillano di fuoco, un corpo si abbandona alla forza di
gravità.
Loole avanzava silenziosa nelle vie della città,
silenziosa, aggraziata nei movimenti, la pioggia bagnava con insistenza il suo
mantello. L’arco, a tracolla, spuntava fuori di poco dalla spalla della
giovane. Entrò nel primo pub, lanciando una moneta per una pinta di birra.
Stette in un angolo, assaporandola poco a poco. Birra umana, intensa e amara,
troppo, per lei. Ma, ormai pagata, decide di finirla comunque.
Ordinò anche un brodo caldo, per cercare invano di
riscaldarsi. Il focolare era troppo lontano per sentirne le sue leggere vampate
di calore.
Pochi uomini ancora stavano in piedi a quell’ora
di sera, quando ormai la maggior parte dei contadini dormiva. Sussurravano, ma
le sue orecchie udivano comunque i discorsi degli uomini seduti dall’altra
parte del pub.
«Questo Fanaon non capisce un cazzo di come si
comanda un paese... Sono stato al porto, tempo addietro, nella contea vicina,
là è tutt’altra vita a differenza di qui. Devi vivere per pagare qui, là puoi
permetterti anche una vita al di fuori del lavoro. E pagare per cosa poi? Per
una statua nuova di questo stupido e giovane re? Per nuove aree del palazzo a
cui noi non possiamo accedere? Sto rimpiangendo sempre più spesso il vecchio
re, quello sì che era buono...» un uomo sfregiato dal lavoro e dal sole
parlava, mostrando vesti da artigiano. Un uomo con plateali vesti da contadino
rispose.
«Hai ragione, compagno, qui è impossibile vivere,
ti ricordi la guerra che ha devastato le Terre dell’Ovest per anni? Sai
qual’era il motivo? Me lo raccontò mio padre - che riposi in pace - che era un
vecchio funzionario del re... avidità. Voleva le terre del vicino perché erano
più verdi e più floride. Mio zio ci morì, per questa causa di merda, e con lui
tutti i suoi figli. E intanto io devo coltivare sempre il mio orticello, di cui
non posso tenere che una minima parte. E quella la uso per avere di nuovo altro
da rivendere. Non vivo di quello che coltivo, capite? Viviamo di stenti, io e
mia sorella. Mia zia morì di fame.» la rabbia colorava il pugno di quell’uomo,
ruvido per i lavori manuali e per la rabbia repressa.
Un uomo incappucciato, nascosto alla vista della
donna, intervenne nel discorso, parlando con soffi soffocati.
«Mia zia è una delle tante serve che vivono a
palazzo. Dice che il re, oltre a vivere nel lusso, si diverte anche con le
serve più giovani. Mi disse che una volta una giovane che lei conosceva rimase
incinta di lui. Gliene parlò, sperando che lo riconoscesse come proprio e lo
crescesse. Sapete che fine ha fatto quella giovane?» l’uomo lasciò una pausa,
per aumentare l’effetto «Fu trovata morta in un condotto delle fogne. Il figlio
strappato dal suo ventre squarciato e lasciato morire accanto a lei. C’era
sangue ovunque. Fu mio zio a trovare il corpo, e io a ricomporre le spoglie. Fu
seppellita un mese fa, e non fu per questo motivo che smise di divertirsi con
le serve.» gli occhi del commerciante si illuminarono di furia.
Il contadino sollevò il bicchiere, in segno di
cordoglio, e ingurgitò il rimanente del vino.
Loole rimase stupita, aveva gli occhi sgranati, e
quando le arrivò la zuppa, ne mangiò pochi bocconi di pane. La birra era
diventata calda, e il suo volto si colorò di disgusto. Strinse la mano guantata intorno all’impugnatura del vetro e ingurgitò.
Gli uomini però non smisero di parlare.
«Conosco queste storie, tutte vere purtroppo. Ma
per i morti ci sono solo lacrime, ora bisogna pensare ai vivi. Ma sono sicuro
che se morisse lui, altro che lacrime, offrirei birra a tutti.» proruppe il
contadino, e il commerciante incalzò.
«Ho sentito che c’è stato un attentato al re, ma
che non è andato a fondo. Vorrei stringere la mano a quel coraggioso che ha
provato a ucciderlo. Se fosse stato per me l’avrei pugnalato al cuore.»
aggiunse.
«Io vorrei tanto che la sorella del re fosse
salita al trono, assomiglia tanto alla vecchia regina, la ricordate? Che poi
fuggì chissà dove, lasciando il re e i figli giovani.» i due annuirono e l’uomo
incappucciato parlò.
«Molti desiderano la morte del re per avere lei al
trono, dopotutto hanno pochi anni di differenza, e il ragazzo è salito al trono
solo perché maschio, ma preferisco lei, di gran lunga, se facesse smettere la
vita di stenti di noi poveri esseri umani.» Loole finì la sua zuppa con un
groppo allo stomaco. Stavano parlando di lei, ora.
La birra stava per finire, le bolle che salivano,
e la schiuma che colava dalle pareti del bicchiere. Il suo tempo lì stava per
finire, e la pioggia, fuori, non cadeva più. Non c’era più il ronzio del suo
urlo, alle finestre.
«Ma è pur sempre una donna. E delle donne non
bisogna fidarsi, soprattutto di una elfa dai connotati strani. L’avete vista,
no? Ha capelli neri... e io nella mia lunga vita non ho mai visto una elfa coi
capelli neri. Ma voi avete ragione, sir, quell’elfo ormai ha vita corta. Ha
calcato troppo la mano, ed è odiato da tutto il regno. Finirà accoltellato al
cuore, prima o poi. E chissà, magari dalla stessa sorella.» con quell’ultima
affermazione Loole ingurgitò il restante della birra e lasciando la moneta per
la zuppa si alzò, dirigendosi verso la porta.
Aveva udito abbastanza, ora era tempo di tornare
al castello e riferire il suo fallimento al “re”.
Suo fratello, il suo amato fratello. Cosa gli
avrebbe fatto? Avrebbe veramente attuato la sua minaccia? Loole però aveva
ancora tante carte da giocare, e quella giovane catturata e poi ingaggiata era
fondamentale. Doveva sopravvivere al fratello ancora per poco, poi avrebbe
attuato il suo piano.
Tutto filava liscio, tutto secondo i suoi piani.
«E allora, Loole, perché il tuo cuore sussulta e
la tua mente esita?» sussurrò, parlando se stessa mentre si incamminava
lentamente verso il castello, strusciando gli stivali nel pantano delle vie di
fango.
E cade Sam, cade. Aveva compiuto il primo passo
verso l’oscurità. Verso la vendetta. La sua dolce scivolata sui muri e la
fulminante fuga nelle vie concatenate di silenzi umidi ultimò il suo transito a
nuova vita.
Siamo ombre che corrono
sui muri, frastagliati in tanti punti ma sempre integri nella nostra squallida
vita, siamo burattini, siamo lampade, siamo gocce di rugiada, siamo righe di
una piuma carica di inchiostro di solitudine.
Sam, Sam... indugi
troppo, tieni a bada la tua coscienza.
Viktor, avevi ragione...
sono un’arma, e niente più.
Ma lo sarò appieno quando
avrò affondato, ucciso, schiacciato e dilaniato la mia coscienza a suon di lame
e veleno. Ne berrò il latte di sangue dal petto squarciato e griderò di gioia.
Diverrò ciò che ho sempre voluto diventare.
Arma e nulla più.
Sam poggiò la penna nel calamaio e spegnendo la
candela con le dita inumidite si coricò vestita, avvolgendosi intorno a se
stessa, cullando il suo animo frastagliato. Aveva appena iniziato una battaglia
all’ultimo sangue con la sua mente, abbracciando armi che solo il cuore aveva
il potere di brandire.
Cuore
assassino.
La luce pallida del giorno conciliò il sonno alla
donna, e sprofondò in un baratro di manichini che la rincorrevano e la
soffocavano con le loro mani di pezza.
Neppure
si cambiò d’abito per presentarsi al cospetto del suo Re: si inchinò
cerimoniosa con gli stivali coperti di melma, lasciando tracce del suo
passaggio in umidicce impronte sul pavimento lindo.
Cacciatrice
tra i cacciatori, genuflessa al cospetto di Fanaon
che, mollemente abbandonato su una poltrona, si studiava le unghie cercando di
esprimere al meglio una tranquillità di cui tutti erano ben consapevoli essere
falsa.
«Allora?»
chiese, e la sua voce, nel profondo, fremeva d’impazienza.
Loole non si alzò.
Rimase con la fronte premuta sul ginocchio, come a ricevere ondate di coraggio
dal terreno.
«…ho
fallito»
Tra i
pochi cortigiani presenti nella sala, uno strano brivido elettrico corse,
messaggero di grandi sventure, o incredibili eventi. Mai la Dama di Inveia si era presentata al desco mancante di una preda al
laccio.
Fanaon, graffiando
l’aria, chiuse di colpo il pugno, e fece slittare lo sguardo ad un punto
indeterminato dinanzi a sé. La rabbia iniziò a colorare il suo collo, che
spuntava dal morbido colletto della tenuta da camera.
«Scusa,
hai detto…?» domandò.
La posa
dell’elfa restò invariata: «Ho detto che ho fallito, Fanaon. Non sono riuscita a catturare la persona che mi hai
chiesto di cacciare.»
«Ordinato,
Loole» mormorò Fanaon. «Il
vostro Re non chiede mai…ordina.»
Fu con un
sottile senso di paura che Loole ascoltò i passi di Fanaon avvicinarsi. D’un tratto s’arrestarono, e rimasero
immobili per un paio di pesanti e interminabili minuti.
Poi
arrivò la presa felina di una mano bianca, e i capelli corvini di Loole vennero afferrati e strattonati in alto. Lei non
emise nessun suono balzando in piedi, la gola nivea disarmata davanti al feroce
sguardo di suo fratello.
«Neppure
la migliore motivazione di tutti i continenti ti salverà dal più ufficiale dei
richiami, sorella» decretò Fanaon, costringendo la
schiena di lei ad assumere un’innaturale piega all’indietro.
Loole sopportò con
paziente tempra elfica quel ridicolo gioco di potere che nessuno dei cortigiani
aveva il coraggio di fermare, finché le braccia di suo fratello non la fecero
riversare a terra, senza incontrare una resistenza che la giovane sarebbe
indubbiamente stata capace di fornire.
Rovinata
sul pavimento in malo modo, su una gamba piegata in modo che a qualunque altro
essere sarebbe parso doloroso, Loole notò il mulinare
delle pupille di suo fratello individuare la ferita sul braccio, e una ruga
corse tra i suoi occhi appena prima di scomparire, soppiantata da una patina di
sudore. Nella sua posizione prostrata eppure ancora gloriosa, Loole ricevette un severo schiaffo a tutto braccio da parte
del Reggente di Inveia. Tra i cortigiani sussurrò un
cupo lamento, misto di sdegno e dispiacere, ma nessuno ancora ebbe il coraggio
di intervenire in quella lite a senso unico.
Girando
il volto nuovamente in direzione di Fanaon, Loole lo guardò con quei suoi occhi di quarzo. Le sue
pupille vetrose erano ripiene di pietà verso quell’uomo che, piegato in una
raccapricciante posa, la guardava con odio muovendo passetti di topo verso il
suo sedile.
«Vattene…non
farti più vedere in questa luce…» le ingiunse, muovendosi come un gargoyle animato da una sacra paura interiore.
Loole si alzò, e
uscì dalla stanza. Fanaon non si accorse della sua
dipartita, voltato verso la poltrona e grondante di sudore. Non sentì neppure i
mormorii terrorizzati dei cortigiani che, dopo un paio di minuti di titubanza,
si affrettarono a seguire la Dama.
***
Occhi di
vetro, occhi di maga oscura…
Sguardo
che ti penetra e ti strappa l’anima dal cuore, e ti brucia il sangue nelle vene
e ti lascia il sapore di un bacio di bile sulle labbra, sguardo di una
fattucchiera cresciuta nel seno del suo stesso palazzo.
Gli occhi
di Fanaon erano spalancati nell’oscurità del suo
letto, in cui era disteso da solo, immobile come un’asse di legno. Nella sua
mente, una sola immagine: lo sguardo da strega di Loole,
quella sorella rinnegata nata sotto una stella sanguigna, che dopo essere stata
battuta lo aveva maledetto.
Aveva
cessato di tremare, ma sapeva di essere a pochi passi dalla morte. Quella notte
i fantasmi evocati da quella serpe sarebbero entrati nelle sue stanze e lo
avrebbero soffocato con sacchi di iuta, legandolo con code di gatto e
segnandolo con rune alchemiche.
Aveva
visto l’ombra della morte nelle pupille demoniache di lei; la sagoma
affascinante della Donna in Bianco, la fata che baciava ogni morente
succhiandone l’ultimo respiro.
Aveva
visto la ragnatela di un incantesimo funesto infilarsi sotto le proprie vesti e
svanire come vapore, inghiottita dalla sua stessa pelle.
Era
predestinato. Lo sapeva.
Neppure
un passo lo avrebbe salvato dalla morte. Tanto valeva attendere, e privare alla
strega l’ardore di assistere alla sua vittoria.
***
Maryssa era corsa a
casa con la sua solita pagnotta racchiusa in un cencio macchiato. Ad ogni passo
di corsa che le faceva sbuffare la gonna come un’alga sbatacchiata dalle
correnti marine, nuovi gruppi di galline ovaiole si disperdevano in un turbinio
di piume.
L’aria
nell’accampamento popolare sotto il colle del Palazzo puzzava di rifiuti e erbe
cotte. Case di pietra avevano via via preso il posto
delle baracche, e ora, dopo che la casata dei reggenti si era instaurata da
tempo memorabile, non si trovavano più costruzioni lignee se non nelle parti
più periferiche del borgo, dove i cacciatori lasciavano le loro armi
rudimentali al ritorno dalle battute di caccia.
La casa
della sua vecchia madre si trovava vicina al centro del budello di abitazioni,
in una zona umida in cui, tra i sassi delle stradine, crescevano erbe
infestanti.
La
giovane serva di palazzo si fermò davanti all’uscio socchiuso della loro casa,
attraverso cui si sentiva un parlottare lento. Maryssa
spinse la porta e si insinuò all’interno dell’edificio: qui fu investita
dall’aria viziata che vi ristagnava, un misto di acqua a bollore e fetore di
malattia. Sul pavimento, poco lontano, un ammasso di stracci erano
aggrovigliati in mezzo ad un nugolo di moscerini.
«Maman?» chiamò la ragazza, sporgendo il viso lentigginoso
oltre il varco della stanza di sua madre.
«Entra,
entra» tossì una voce roca.
Maryssa obbedì,
penetrando nell’aurea carica di oscurità della sala. Una figura ai piedi del
letto la osservò, e si tolse lentamente il cappello.
«Buongiorno
Maryssa…» disse l’uomo, senza spostarsi dalla nuvola
di tenebra che lo avvolgeva.
«Buongiorno
Mastro Tan…» rispose la ragazza, posando la pagnotta
sul comodino accanto al letto.
Tra le
coperte ruvide, se ne stava il corpo di sua madre, raggomitolato in una posa
che lo faceva sembrare un feto innaturale. Un paio d’occhi scavati e velati si
muovevano lenti sul suo viso, una cascata di rughe di pelle giallastra.
«Quali
notizie dalla tana della serpe, Maryssa?» chiese
l’uomo.
La madre
mosse il collo come ad acchiappare con più maestria le parole.
«Il re ha
battuto sua sorella, oggi…» rispose la ragazza.
«Come?»
gracchiò sua madre.
«Sì…me lo
ha detto uno dei cortigiani che era sceso nelle cucine a bere una coppa di
vino…» aggiunse Maryssa. «Non so perché lo ha fatto,
ma il cortigiano era molto scosso…»
«Diciamo
addio alla sanità mentale del reggente per un’ennesima volta» accennò l’uomo.
La donna
intrecciata in maniera così atroce alle coperte agitò piano una mano, e lui si
voltò verso di lei.
«Tu che
sei sempre in società da voialtri…cosa si dice in giro?» chiese rauca.
«Se il
Reggente uscisse senza scorta e venisse qua dai suoi servi, non ne rimarrebbe
neppure un capello» rispose con semplicità. Trasse lentamente una pipa
dall’interno degli abiti e la mise in bocca.
«Nessuno,
nessuno tra noi poveracci vi diverte a vederlo in vita» continuò. «Forse i
grassi porci che difende tra le sue fetide mura lo adorano, ma qui siamo tutti
nella stessa barca. Una barca che sta affondando. E noi facciamo la fine dei
topi.»
Maryssa lo
ascoltava senza dir nulla, mentre sua madre sembrava scossa da una di quelle
strane serpentine che piovevano dal cielo nelle notti di tempesta, quelle che
il vecchio Saggio che una volta viveva nel suo eremo a poca distanza dal
Palazzo chiamava “elettricità”: scuoteva il corpo nell’intento di annuire
selvaggiamente, talmente leggera da essere sbalzata dal suo stesso assenso.
«Signore,
io vi lascio» si congedò dopo un attimo Mastro Tan.
«Riguardi, madama»
Si chinò
brevemente verso la donna più anziana.
«A
presto, a presto…» abbaiò secca lei, con un crescendo nella voce simile ad un
eco spoglio tra le mura di una catacomba.
«…Maryssa…»
La
giovane chinò il capo prima di seguire l’uomo sino alla porta.
«Sta
attenta al castello, Maryssa» sussurrò Mastro Tan arrivando a sporgersi dall’uscio.
La
ragazza lo osservò senza capire.
«Arriveranno,
arriveranno presto» un paio di occhi turchesi la inchiodarono quando la figura
dell’uomo fu rapita dalla luce soffusa dell’esterno, e i suoi colori si
accesero.
«Cosa?»
domandò la ragazza.
«Quelle
che ci libereranno da questa inutile schiavitù…quelle che spazzeranno via la
demenza di quel pagliaccio…le ore ruggenti.»
E con
quel saluto da oracolo se ne andò, diretto ad uno dei tanti campanelli di
uomini nella zona più misera di quella cittadina.
Maryssa rimase a
guardarlo sparire. Poi, chiudendo la porta, si ritirò in quella tomba di
silenzio.
Era un giorno grigio e
frastagliato di piogge, la Capitale del Regno di Fanaon. Il tramonto del quarto
giorno svegliò la donna dai capelli blu, alzandosi mestamente con un mugugno
scocciato.
Si strofinò i capelli e
con poca voglia si alzò, aveva passato quei giorni nel riposo, sapendo ben
presto che quel corpo ora teso per il risveglio avrebbe dovuto scattare,
correre, saltare e uccidere.
Di buona lena si lavò il
collo e il volto, indossando indumenti comodi. Poi, poggiando i pollici al
terreno iniziò le quotidiane flessioni mattutine.
1, 2, 3...
Loole, entrando nella
camera color pesca con un elegante vestito lungo, blu come la notte e dorato
come il grano, sbadigliò, dando segni di stanchezza per il meriggio passato a
una festa di palazzo, sfarzosa e pesante di vino e cibi esotici. Il tramonto
filtrò dal vetro, ricordando un appuntamento ormai prossimo. Gli occhi si
spensero.
Alla porta bussò, e lei
tornò indietro, con i piedi già nudi degli eleganti tacchi neri come la pece. La
sua pelle bianca, diafana quasi, sfilava sul pavimento liscio e freddo,
muovendosi come un’onda nello spazio immobile.
Entrò un elfo, lei
sorrise con le labbra, cortesemente, e negò con la testa. Lui insistette, lei
lo fulminò con gli occhi. Alzò il braccio e gli indicò la porta. L’uomo con
grandi falcate tornò sui propri passi, e la porta sbatté. Una mano sul volto,
tirando il volto stanco e con un poco velo di trucco, appoggiata alla porta,
distrutta. Entrò nei bagni, regalandosi un bagno caldo con petali di fiori.
La stanchezza scivolò via
con il sapone, e il desiderio con le dita.
Indossò la propria tenuta
da caccia, il fidato arco, una faretra piena alla cinta, coltelli da lancio, un
tascapane con l’essenziale.
Gli ultimi colpi di
spazzola terminarono la sua preparazione. La luna sbucò da dietro le nuvole
scariche della pioggia che si era riversa sul terreno.
... 98, 99, 100.
L’ultimo coltello si
conficcò nel legno scheggiato. Riscaldamento completato. Stiracchiò le spalle,
indossando la casacca. Recuperò il coltello e lo lucidò, indossandolo alla
cintola. Recuperò alcuni coltelli da lancio, la cerbottana, veleno. La luna
fece capolino tra la finestra alta nel cunicolo. Il tatuaggio - la maledizione
- sul proprio volto s’illuminò al brillare della luna sulla sua pelle,
brillando anch’essa, ma di fuoco vivo, come se sotto scorresse lava. Gli occhi
vennero avvolti da un’anima di cupo rosso sangue. Sam sentì i propri sensi
acuirsi, il fisico tendersi, i muscoli diventare più forti, l’udito raffinarsi
talmente da sentire le termiti rosicare il pezzo di legno all’angolo. Le mani
pulsanti delle vene, l’olfatto inspirare l’aria ripiena di vecchio e chiuso. La
voglia di sangue e morte sulla punta della lingua. La morte fatta persona era
pronta.
La tenuta nera, il
cappuccio teso sul volto, il mantello sulle spalle, pochi ori nel borsello.
Uscì sbattendo la porta.
La chiesa, nel suo
bagnato tepore, scoccò la mezzanotte, l’ultima messa prima del riposo concesso
nel giorno del Signore.
I rintocchi, sordi,
lontani dal riparo dei cavalli, arrivarono all’orecchio attento della donna,
indugiando sulla figura scura che arrivava dal tetto.
Slacciò leggermente un
coltello, per sicurezza. Riconobbe i capelli neri, gli occhi ambrati. Rifoderò l’arma.
Loole guardò in volto
quella donna con diffidenza. Aveva gli occhi roventi come il sangue, e la
maledizione puzzava di morte.
«Ordini.» comandò l’assassina,
aspettando indicazioni dalla cliente. Le braccia conserte.
«Domani mattina mio
fratello uscirà per raggiungere la dama della Villa di Mironga, a sud-est dal
castello, a mezza giornata da qui. Visto che sarà un’uscita di piacere e non
dichiarata avrà con sé poche guardie, le più fidate. Uscirà in carrozza,
anonima, come quelle degli altri nobili che domani ripartiranno dopo la festa
di oggi.» gli occhi di Sam non si staccarono da Loole. Il volto sempre teso in
quella maschera di leggera foga di sangue, sfida e distacco. Almeno ascoltava. «Colpiremo
allora.» ultimò.
«Colpirò, vorrai dire. Non
mi porto dietro spettatori nel mio lavoro. Sono solo intralci.» rispose
pacatamente la donna.
«Cosa?» domandò
Loole,non aspettandosi un tale
cambiamento.
«Non porto con me
spettatori, sei d’intralcio, donna.» spiegò con voce fine. Gli occhi sottili. Il
corpo immobile nel respiro calmo. Il battito regolare. Ombra pulsante nelle
ombre.
«Allora non avrai il tuo
compenso.» ribatté Loole. Sul volto dell’assassina si dipinse fastidio.
«Vuoi che faccia bene il
mio lavoro e che tuo fratello muoia? Allora fatti da parte.».
«Io vengo con te, so
cavarmela, nel nascondermi. Ricordati che io sono la Cacciatrice migliore nel
regno.» affermò, ergendosi nella sua altezza di elfo, gonfiando il petto. Sam
sciolse le braccia, avanzò di poco, la luce della luna dietro le spalle dell’elfa
mostrò la netta differenza di altezza, la sorella del re superava di una testa
l’assassina. Per Sam non fece differenza, portò il proprio volto il più vicino
a lei, allargando le gambe e il mento in alto, poi, con un sorriso beffardo
disse: «... dopo di me, Loole di Inveia.».
Gli occhi ambrati dell’elfa
si colorarono di sdegno, ma non parlò. Un’accozzaglia di sguardi scoppiava tra
loro. Quegli occhi velati di sangue erano così... magnetici. Poi un’ombra inaspettata delle nuvole oscurò tutto. Sam
era scomparsa nel nulla. Loole non ci poteva credere. Si guardò intorno cercando
tracce della donna nel fango, ma nulla, se non le proprie. Era diventata come
un fantasma.
Ancora buio. Poi una
presa al braccio inaspettata la fece curvare. La sua voce, i suoi occhi, la sua
maledizione a pochi centimetri dal suo volto. Il respiro caldo sbatté contro il
padiglione auricolare appuntito dell’elfa.
«Aspettami al limitare
della foresta, sul sentiero di sud-est, prima dell’alba. Sarò lì. e porta i
soldi.» gli fece un occhiolino e un sorriso sbarazzino, scivolando veloce nella
via nascosta, soffocata dal buio della notte.
L’elfa rimase di sasso. La
luce della luna illuminò il retrobottega e sul fango, umido di pioggia, non c’erano
tracce se non le proprie.
Seminascosta
tra i folti rami di una magnolia, Sam osservava. I suoi abiti grezzi, del
colore del terriccio e dell’erba riarsa, spiccavano banali tra le lucide foglie
dell’albero come parte integrante della corteccia. I suoi occhi aquilini spazzavano
la strada soffocata da vapori irreali, chiazzati di blu dall’alba. D’un tratto,
come sbucata dal nulla, una figura a cavallo entrò nel suo campo visivo. Sam si
sorprese, ché il cavallo dell’elfa non aveva sortito
alcun suono, e si lasciò cadere con leggerezza, atterrano come un felino a
pochi passi da Loole.
Ella
non parve né stupita né impressionata: voltò la testa verso di lei con calma, e
non disse nulla smontando, mantenendo un’espressione glaciale. Sam avvertiva i
suoi lunghi muscoli tendersi al minimo movimento, e leggeva in tutto ciò che
faceva una grande ansia… e senso di colpa.
«
Lascia il cavallo dietro questi rami… basterà a
tenerlo celato» disse Sam semplicemente, abbassando gli occhi.
Loole, dopo averla osservata con sguardo
pulito, fece girare la cavalcatura attorno all’albero e prese a legarla con
cura, tirando nodi con sicurezza e sapendo che nessun cavallo avrebbe saputo
sciogliere quell’intrico sapiente.
Sam,
appoggiata al tronco, la osservò. Era vestita di verde scuro, un colore che
riluceva nella luce sottile sotto quelle larghe foglie. I suoi neri capelli
erano sciolti, ma diverse trecce concentriche li solcavano da metà della testa
sino alla nuca, incrociando piccole spille nere che la donna sapeva incarnare
minuscole rose dal gambo irto di spine. Loole si era
acconciata a lutto in quel giorno, eppure i suoi passi erano forti come sempre,
e il suo regale portamento suscitava rispetto più del solito, perché ammantato
dal coraggio di donna che si spoglia degli affetti per il bene della sua causa.
Sam avvertì una fitta all’altezza del petto, e ne rimase scioccata. Tanto tempo
era trascorso dall’ultima volta che aveva osservato così il corpo di un essere
vivente, e parevano essere millenni quelli che separavano quella mattina all’ultima
volta in cui aveva avvertito lo stesso sentimento.
Con
palpitare agitato levò lo sguardo da Loole, che si
era voltata a guardare il cielo. In quel tripudio di verde e nero, sembrava l’anima
del giusto martirio.
«Portami
nel luogo, mercenaria» disse infine, «la sacca rossa che vi è sul cavallo è il
tuo compenso: prendilo, ti spetta di diritto»
«Ma
non ho ancora espletato al compito che mi hai dato» la contraddisse Sam,
sorpresa.
«I
modi di fare dei tuoi clienti abituali non mi concernono: mi fido di te, e
credimi se ti dico che la mia razza sa bene vedere nei cuori delle persone».
Allora
Sam sciolse il fiocco che tratteneva il fagotto sotto la sella dell’elfa, e lo nascose sotto gli abiti, poco lontano dal
pugnale che si rifugiava sotto il bordo della casacca.
«Andiamo»
Si
mossero in silenzio uscendo dalla macchia d’alberi. Camminarono per un buon
tratto, senza lasciare tracce sul terreno ammollato dalle ultime piogge. Sam stava
alla testa, immersa nella consultazione del panorama che le circondava, e Loole la seguiva, gli occhi fissi sull’orizzonte, ma le
orecchie fini rivolte al sussurro carezzevole della natura.
Arrivarono
ad un’ampia curva che macchiava la strada dell’ombra delle fronde per pochi
passi, e lì Sam fece segno a Loole di attendere. Affondò
una manonella fanghiglia a lato della
strada, poi si voltò verso l’elfa.
«Avverrà
qui. La carrozza si impantanerà in una fossa che scaverò, e tu non dovrai far
altro che restare su di un ramo di uno di quegli alberi. Chiaro?» disse,
traendo dagli abiti un fagotto di cuoio.
Loole non rispose, e rimase ad osservare la
donna che, armata di una minuscola pala a mano, lavorava alacremente e in
silenzio, calcolando quanti centimetri sarebbero serviti per far fermare la
carrozza. Fu rapida e costruttiva, e nel giro di una decina di minuti aveva
creato una fossa dall’aspetto naturale in cui vuotò una bisaccia d’acqua. Il fango
acquoso che iniziava a sciogliersi nella buca pareva abbastanza per essere
notato da una buona ruota di veicolo.
«Sali
sul ramo» disse a Loole, «dobbiamo solo aspettare»
«Nasconditi,
tu, io lo farò tra poco» mormorò l’elfa senza
guardarla negli occhi.
La
donna fece per rimproverarla sulla pericolosità di trovarsi sulla strada quando
Fanaon poteva essere a poche decine di metri, ma la
luce mesta che vagava sul fondo dei suoi occhi viola zittì ogni parola che la
sua bocca voleva creare. Annuì, e salì tra le fronde.
Loole, sotto di lei, si chinò nel fango
accanto alla pozza. Era ben camuffata, solo essendo stata presente alla sua
creazione l’elfa poteva riconoscere il luogo in cui
era in agguato. Si tolse un guanto e vi infilò il braccio sino a toccarne il
fondo. I suoi capelli corvini caddero, scivolando sul terreno, ma non se ne
preoccupò. Sam ascoltò i suoi sussurri senza giudicare. La Dama di Inveia stava pregando.
Arrivò
con sonorità, la carrozza trainata da due cavalli. La videro da lontano, ma
ancor prima la udirono, così che Sam poté impugnare la cerbottana e sporgersi
un poco per prepararsi.
Veloce
come una bestia di legno, il veicolo raggiunse la curva, continuando di gran
carriera sino alla trappola: con un rinculo preciso, una ruota anteriore si
conficcò nel terreno accidentato, e i cavalli ebbero un verso di sorpresa.
«Ma
che…?» ebbe il tempo di domandare il cocchiere, prima
che una libellula mortale gli si conficcasse nel collo. Il suo corpo, dopo un
fremito, cadde sul fianco. L’uomo al suo fianco, come lui vestito da viandante,
si bloccò nel discendere da cassetta, e cadde a viso in giù nel fango. La terza
guardia in borghese, scesa a controllare il danno, la raggiunse senza un
gemito.
Loole osservò i gesti pratici i Sam mentre
gli accompagnatori di Fanaon cadevano. Nei suoi occhi
non vi era ombra di pietà, ma neanche di piacere, o di colpa. Sembrava ghiacciata
nella quotidianità dei suoi gesti.
Poi
ripose l’arma e,sfoderando i coltelli da lancio, parlò.
«Mio
Signore, volete scendere un momento? Si è verificato un piccolo disguido…»
La
portiera si aprì lentamente, e un paio di scarpe arricchite in velluto
atterrarono con uno schiocco. Il Reggente imprecò, poi sbatté sonoramente la
portiera.
«Razza
di cretino, per colpa tua mi sono infangato. Cosa diamine succede?» esclamò
irato, girando a grandi passi attorno alla carrozza. Arrivato accanto ai
cavalli, con occhi sbarrati vide i tre cadaveri ammollati nel terriccio. Arretrò
con un grido di spavento, prima il luccicare di un coltello che mirava dritto
al suo cuore.
Chiuse
gli occhi con terrore, ma il dolore non venne. Anzi, alle sue orecchie pervenne
un tonfo sordo, e meravigliato sbirciò tra le palpebre, curioso di sapere
perché l’aldilà risuonasse in maniera tanto curiosa. Stava in piedi nel luogo
in cui un coltello avrebbe dovuto ucciderlo, e sul selciato impronte allungate
portavano all’ombra degli alberi, dove berciava rumore di lotta.
Non
perse tempo. Si voltò rapido e, alzando fango che atterrò sulla pelle delle sue
guardie assassinate, fuggì.
Helvorn diresse con rabbia la punta del suo
stesso coltello verso il collo di Sam, che si gettò di lato per salvarsi. Il fischio
della lama finì nel conficcarsi nel tronco, e un grugnito irato si levò dalle
labbra dell’elfo, che sguainò il pugnale.
La
donna fece altrettanto, preparandosi allo scontro.
«Traditrice
dei tuoi pari, hai raggiunto il tuo obiettivo! Te ne andrai dalla confraternita
seduta stante, perché un cadavere non può servire nessuno!» strillò Helvorn furente, innescando una precisa e mortale lotta. Sam
parava e scartava ogni suo affondo, curiosamente infervorata dall’istinto di
sopravvivenza che sembrava essere ancora presente nelle sue membra.
«Questo
non è il compito che ci hanno affidato, Helvorn!
Questa è una commissione!» esclamò respingendolo con forza. L’elfo rispose alle
sue parole riparando di lato, e Sam dovette premersi sul tronco dell’albero per
non essere colpita.
Con
la coda dell’occhio vide l’orizzonte sgombro. Fanaon era
fuggito.
«Loole!» pensò di urlare, ma si accorse che l’elfa non c’era più. Acuendo di fretta i sensi, sentì in
lontananza i suoi passi correre dietro ad una bestia spaventata. Sam sorrise…
E
il braccio di Helvorn le colpì la testa, facendola
sbattere sul legno, stanco di combattere. La lasciò svenuta a terra,
intenzionato a coprirsi del merito di aver ucciso il Reggente di Inveia.
uesto non è
Fanaon vide
la morte arrivare vestita di fiamme bianche, i capelli neri al vento simili ad
ali, e lo sguardo feroce di un rapace che si getti sulla sua preda. La figura
di Loole si beava delle sue arti magiche, volando
verso di lui con la bocca sporca di sangue.
«Non
mi uccidere!» guaì Fanaon, terrorizzato. Il suo corpo
tremava nella corsa, tanto che inciampò e cadde. Loole
si fermò.
«Fanaon, tu hai disonorato la nostra famiglia e reso schiavi
i tuoi stessi sudditi. Devi lasciare questo mondo, o Inveia
morirà nella tua follia» rispose Loole, la voce
spezzata dal pianto. Si chinò su di lui, brandendo il pugnale. La carne della
sua gola era straordinariamente morbida, e lasciò che la vita cadesse sull’erba
come ringraziando. Gli occhi di Fanaon divennero
vacui e Loole si chinò a baciargli la fronte, sapendo
che il periodo buio di Inveia così si chiudeva: con
un bacio.
Poi
corse via dal cadavere di suo fratello, cosciente di avere alle calcagna un
nemico ben più pericoloso.
Quando Sam si ridestò dal
colpo, inspirò odore di sangue, e il sole era già alto nel cielo. Loole non era
nei dintorni.
“Perché mai dovrebbe
esserci?” si domandò poi la donna, alzandosi con i muscoli rigidi. “Dopotutto
ha assolto lei il mio compito. E quel cretino di Helvorn ha confuso la mia
missione per la nostra.” Sputò per terra, e iniziò a correre verso la base.
Quando varcò la soglia l’energumeno
alla guardia stranamente gli sorrise e buttò una battuta che Sam comprese fin
troppo bene.
«L’ultima volta che ci si
vede, eh?» la donna lo ignorò, e si diresse spedita verso la porta chiusa del
capo.
Varcò la porta facendo
trapelare la luce quel tanto che bastava per vedere Helvorn con in mano una
testa ancora gocciolante.
«Troppo tardi, traditrice.
Ho assolto io al compito.» Sam ignorò anche l’elfo, ancora febbricitante e
inebriato dall’odore del sangue reale. Diresse lo sguardo verso l’ombra del
capo, seduto su una sedia.
«Sono stata fraintesa.»
cercò di spiegare «Ero stata commissionata da un privato per quella morte.»
disse. La voce del capo provenne dura e secca. Era arrabbiato, e tanto.
«Non mi importa, il fatto
sta che non hai seguito le direttive e il mio cliente non è contento. Il
compenso era alto e per colpa tua l’ho perso, Sam.» la donna lanciò il
sacchetto rosso sul tavolo.
«Prendetene la metà. Sono
tre sacchi.» ma la risata che si alzò dal tavolo fu grande, da entrambi i
presenti.
Helvorn rideva,
guardandola con quegli occhi ghiacciati. Brillavano ebbri e iracondi.
«Quei tre sacchi non
arrivano nemmeno al decimo che il nostro offerente aveva intenzione di darci.»
Sam sbiancò. Erano un sacco di soldi.
«Quindi, per ripagare il
debito, devi morire.» soffiò Helvorn, il pugnale già in mano. Sam sfoderò il
suo.
«Fermi!» la voce anonima
del capo tuonò, fermando l’elfo dal commettere qualsivoglia azione.
«Tu non morirai, almeno,
per stanotte. Non qui. Non ora.» la voce del capo era severa. Helvorn
ghiacciato nell’attentare alla vita di lei.
«Sei esclusa dalla Gilda,
Sam, e ricercata per l’omicidio del regnante. Questo mi basta per soddisfare la
mia perdita.» Sam rimase allibita. Lei, ricercata? Un foglio scivolò sul
tavolo, e confermò i suoi dubbi. Quella era la sua faccia. E il compenso
talmente alto che la donna non riusciva nemmeno a figurarseli, quei soldi.
«Vattene da qui, prima
che qualche nostro tagliagole si venga a prendere il suo compenso.» concluse
infine.
Helvorn però non accettò
la cosa.
«Non può farmi questo!
Sono io quello che l’ha ucciso!» ma la voce dell’elfo risultò lontana alla
ragazza. Era già fuori dalla stanza. Un solo pensiero che correva nella sua
mente: fuggire, fuggire, fuggire.
Entrò nella sua piccola
dimora, che ora sarebbe stato il giaciglio di qualcun altro.
Prese le parche cose di
sua proprietà e vestendosi in panni più pesanti, da viaggio, uscì correndo,
scappando dalla porta in preda a mille pensieri.
Sono di nuovo senza dimora e senza lavoro. Di nuovo allo sbaraglio di
questo mondo. La mia missione persa, i miei intenti falliti.
Ho deciso, vado nel regno vicino. Qui nessuno accetterebbe più un lavoro da
chi ha una faccia nota come la mia. Fuggirò lontano, e ignorerò la guerra che
sta per abbattersi su questo regno.
Non è mai stata casa mia.
Nessun luogo sarà mai casa.
Perché casa è dove sta il cuore.
...
E il mio, l’ho perso dietro a degli occhi color quarzo.
Sam alzò lo sguardo un
ultima volta, deponendo penna e taccuino nella borsa del cavallo, osservando
con i suoi occhi neri di pece quella città che era stata la sua dimora, la sua
mappa, il suo destino. Lì che aveva incontrato un vecchio amico. Lì che aveva
incontrato lei.
Si era fissata nella sua
mente quella donna. E quanto ripensava ai suoi capelli neri d’inchiostro o ai
suoi occhi color quarzo Sam percepiva un brivido diramarsi per tutto il corpo, ricordandole
sentimenti umani che da tanto tempo non percepiva.
Sam sorrise, stranamente,
guardando il castello svettare alto da quell’insieme di palazzi e carne. E si
voltò, lasciando una traccia di lacrima lungo il selciato di fango.
Loole, sulla terrazza,
guardava il tramonto mesta, con le vesti della nuova regnante ancora addosso. Aveva
ancora sulle labbra la pelle rilassata del fratello, ormai morto. Pianse una
tenue lacrima, Loole, mantenendo il freddo e distaccato comportamento a cui un
elfo è portato di natura. Sentiva che quel giorno aveva perso qualcosa, oltre
che a un fratello.
Un ombra solitaria si
allontanava da Inveia, fermandosi ad ammirarla per l’ultima volta. E volle
essere con quella figura nera, poter fuggire, non essere più lei ma qualcun
altro. E vedere il mondo.
Ma i suoi stupidi sogni
vennero cestinati, ridendo di sé. Si asciugò quella lacrima, e quell’ombra si voltò
per perpetuare il cammino scelto.
Le sembrò di vedere la
sua vita dargli le spalle.
Il sole cala su Inveia, un nuovo regno inizia.
E qui, da un partenza, inizia il mio nuovo viaggio, alla ricerca di me.
La
Sala del Trono era in preda ad un viavai frenetico, intermezzato
dal brusio delle persone che giungeva all’orecchio in ampie onde. Uno stuolo di
cortigiani e funzionari prendeva posto nell’ampio spazio, misti agli esponenti
del Consiglio che tra poche ore sarebbero stati eletti dalla carica regia. Come
illuminata di magia naturale, la Sala sfilava in verticale con sinuose colonne
d’ebano e racchiudeva gli astanti nella parte bassa del suo budello, facendoli
sembrare ancor più piccoli con setosi nastri di polvere dorata che brillavano
nel gioco di luci che rimbalzava sulle pareti.
Il
pavimento pareva uno specchio d’acqua, pronto ad accogliere la danza di un
cigno. Tutti i presenti calpestavano alti tappeti pelosi e gonfi d’oli, e solo
una persona avrebbe solcato la lastra perfettamente lucidata di marmo.
Loole, oltre una porticina di legno scuro,
attendeva. Sentiva l’odore pesante dell’ebano antico azzuffarsi con i suoi
capelli, acconciati in una sola lunga treccia punteggiata di perle. Le sue
orecchie, prese d’assalto dai pensieri, erano cullate dai sussurri di chi prima
di lei era stato chiuso come un bambino in quella stanzina segreta di fianco
alla porta d’ingresso alla Sala. Sentiva suo padre, e come doveva starci
stretto in quell’angusto spazio. Sentiva suo nonno e il tintinnio delle sue
medaglie. Sentiva suo fratello, e quello che non sarebbe tornato mai più.
Sentiva,
oltre alle melodie del passato, gli echi della Sala che andavano spegnendosi.
Sedie scricchiolanti spostate, mezze imprecazioni, sussurri scambiati con le
guardie. E, quando il silenzio fu totale, tre colpi.
Loole scivolò fuori dal suo pertugio, e con
passi lunghi e gravi sfilò nella sala.
Gli
occhi di tutti i presenti scivolavano sulla sua veste preziosa, che ricordava
quella d’una sposa nella fattura e negli sbuffi di colore bianco che si
facevano intravedere ad ogni movimento, scambiandosi con toni ora verdi ora
lilla, in una danza affascinante che rendeva ancor più palpabile l’atmosfera
ultraterrena.
In
piedi sopra al primo dei cinque scalini che portavano al Trono, il valletto che
aveva battuto i colpi sul pavimento ostentava severità in un completo nero come
il corvo. Nessuno dei colori della festa era stato portato in parata per
salutare la nuova Reggenza. Al collo di Loole,
brillava la Pietra del Dolore.*
Dopo
cinque passi, Loole si fermò, e lentamente piegò le
gambe. Tutto venne seguito con attenzione dai presenti. L’elfa
trasse da una piega del vestito una pigna di bronzo, perfetta nella fattura,
corredata di piccoli pinoli che occhieggiavano attraverso le sue squame, e la
posò a terra.
Così
annunciava di perdere ogni desiderio di ricchezza personale.
Era
strano come, vestiti di ori e preziosi, i Reggenti di quelle terre fossero per
prima cosa costretti a rinunciare alle ricchezze. Troppo spesso questa promessa
era stata infranta, a discapito del frutto sacro lasciato sul pavimento come
isoletta di detriti in un potente fiume.
Loole percorse altri cinque passi e si chinò
ancora a depositare un oggetto sul marmo. Stavolta si trattava un falcetto
d’oro, pegno di fedeltà al popolo di Inveia. L’elfa vi aveva apposto un lungo nastro di seta nera, a
ricordo di suo fratello e del suo patto violato.
Alzandosi,
i suoi occhi color del quarzo si riflessero brevemente nella superficie
preziosa del falcetto. Una punta di spillo si conficcò nelle sue carni, ma Loole si costrinse a continuare a camminare.
Altri
cinque passi, e fu dinanzi agli scalini foderati di tappeti che Loole lasciò l’ultimo oggetto della scalata regale verso il
potere. Lasciò un piccolo cuore lacerato interamente intagliato nel diamante.
Promessa di battaglia.
Attese
un poco prima di salire in gradini. I suoi calzari erano talmente lievi che
poteva avvertire la consistenza calorosa delle pelli sotto di sé. Il trono, una
cattedra in ebano intagliata di arabeschi, era allestito a lutto con un ampio
guanciale di velluto nero. Ma alla sua sommità vi era stata incastonata una
splendente lacrima di quarzo, che richiamava le pupille di colei che stava per
essere insignita del titolo di Reggente.
Loole sedette con grazia su quel trono di
giganti, e alcune ballate risuoneranno ancora per anni ricordando quanto la sua
minuta maestà si incastrasse alla perfezione in quel quadro fatato.
Il
viso severo e pallido che s’apriva alla Sala con coraggio, l’elfa attese.
Un
argentino squillar di trombe scosse l’aria. Loole si
alzò dal trono come da protocollo, e scese sino a sfiorare il leggio che alcuni
cortigiani avevano portato.
La
Sala intera aspettava di sentire la sua voce.
«Cittadini
d’Inveia» parlò l’elfa, con
voce insabile. L’agitazione le stava percorrendo la
schiena trascinandosi dietro una scopa saggina, come una strega, attenta a
graffiare con lingue elettriche ogni parte del suo sistema nervoso. La donna si
schiarì piano la gola, chiudendo gli occhi sui visi scocciati dei cortigiani.
Già
iniziavano a parlare. A convincersi che una donna avrebbe solo portato
sfortuna. A trovare nei suoi colori traccia di una stregoneria cruenta e senza
cuore.
Nel
buio, l’occhio della mente di Loole vide profilarsi
un volto. Coraggio, Loole.
Devi farlo anche per me. Sam la osservò solo per un istante, e di nuovo il
dolore di spillo si fece vivo nel suo petto. Spalancò gli occhi, e riprese a
parlare: stavolta con tono fermo e sicuro, solo in fondo provato da una sottile
ansia.
«Questo
è un giorno di morte ancor prima d’essere di celebrazione. Mio fratello ci ha
lasciati come può farlo una farfalla, spegnendo la sua luce sotto una goccia di
egoista pioggia. Ma dobbiamo ricominciare senza esitazione, e unire le qualità
che i padri d’ognuno di noi hanno lasciato a segnare questa nostra terra. Popoli
d’Inveia, unitevi quest’oggi per rendere questo paese
un luogo migliore, e accettate che io scenda tra voi, a portare la mia
minuscola parte a dar man forte al vostro sapere. Nessuno di noi è trascurabile
nel dipinto della nostra terra; nessuno di noi si porrà al di sopra di nessun
altro per glorificare se stesso. Ho giurato con i nostri simboli sacri per i
nostri deschi, e anche se so che in molti hanno preso a male l’intero evento,
ho giurato anche di scendere in battaglia per Inveia
se mai fosse necessario».
I
presenti ascoltavano in silenzio le parole di Loole,
che per quanto cariche di speranza e coraggio, non riuscivano a farsi
apprezzare da tutti. In molti ancora la guardavano con sospetto, ed ella stessa
se ne avvide. Prese un respiro silenzioso, e poi finì il discorso.
«Non
importa quanti leoni dovrò combattere a mani nude; non importa quante volte
dovrò perire nel mio operato. Per Inveia»
Si
narra che, al termine di quelle parole, la Reggente Loole
sedette al trono con la maestà di una regina, e che il diadema che le venne
posto in capo splendesse tanto quanto una costellazione nel cielo notturno.
Si
vociferava che un nano avesse plasmato quel fine filo di argento per due
giorni, senza mai fermarsi a dormire, bere o mangiare. Ne aveva scolpito con
semplici e sinuose linee un diadema leggerissimo, incastonato di perle nere
ruvide e deformi provenienti da mari esotici. Vi aveva impresso con le rudi
mani tutto il sapere del suo antico popolo, come rispondendo al discorso non
ancora pronunciato da Loole in quella sala d’ebano.
Si
narra che la Reggente brillasse di tutte le polveri più preziose del mondo
conosciuto, ma nessuno di coloro i quali si tramandarono queste leggende vide
mai il suo spettacolo.
La
videro solo al di là dei cancelli del Palazzo d’Onice, sorvegliati da guardie
corazzate in metalli scintillanti. La videro in un gesto che suo fratello non
aveva mai voluto compiere, ma che suo padre aveva fatto proprio come lei nel
giorno della sua nomina. La videro che alzava una mano bianca al cielo, ritta
come l’intero suo corpo. Al saluto della Reggente, i popolani della terra d’Inveia esplosero in un boato festante.
Loole tamburellò nervosamente le lunghe dita
affusolate sul tavolo. Sedeva composta sulla cattedra della sala circolare e
aveva dinanzi a sé i componenti del nascituro Consiglio d’Inveia.
O meglio, quelli che sembravano voler essere i suoi più sfegatati oppositori.
«Con
tutto il rispetto, mia Dama…» disse con voce severa
un semiuomo dai lunghi e crespi capelli color natura.
Loole lo interruppe con un gesto.
«Mi
hai chiamata per nome sino al giorno prima della mia nomina, ti prego di
continuare a farlo. Anzi, siete pregati tutti di farlo. Non sono diventata
parte integrante dello strapotere di mio fratello, prendendone il posto».
Il
cortigiano, vestito dei colori del suo popolo – un misto di verde e marrone che
simboleggiava il popolo nato dall’unione tra uomini e ninfe silvestri -, si
mosse sulla sedia per poi riprendere la parola.
«Bene,
Loole, tu ben sai che sei stata nominata perché sei l’ultima
della tua discendenza. Ma non puoi pretendere di ricoprire il tuo ruolo come
farebbe un uomo. La vostra intelligenza è di natura subordinata a quella
maschile, anche nell’eccelsa razza degli elfi. Non ti pare saggio che qualcuno
indirizzi le tue scelte, come sta al tuo sesso, almeno per i primi tempi?»
«Perché
nessuno mi ha mai insegnato come comportarsi al potere, vero?» ribatté piccata
l’elfa, «e non ero io quella che si è imposta a far
ragionare i consiglieri quando al potere c’era mio fratello. Se non fossi stata
io a convincere chi di merito, ora saremmo in guerra su tutti i fronti.»
Guillome, che era tutt’ora rappresentante degli
umani di Inveia, alzò gli occhi dalla pergamena che reclamava
– apparentemente – tutta la sua attenzione.
«In
realtà la Dama d’Inveia ha ragione, Shonn» mormorò. «Non si può negare che sia stata molto
valida da molti anni nella partecipazione alla vita politica del paese…»
«Voi
umani siete ciechi!» esclamò con voce aspra uno degli abitanti delle lagune. «Come
si può dare fiducia ad una persona che invita in un consiglio una simile
sciagura!» e indicò con un gesto sprezzante la donna dall’aspetto felino che
sedeva al suo fianco. Era vestita di pelle e cuoio, e i suoi lunghi e setosi
capelli rossi avrebbero potuto arrivare sino al pavimento, se non fossero stati
fermati dalla cinta che teneva legata attorno ai fianchi. I suoi occhi
magnetici erano grigi come la roccia.
La
Gwyllionbattè con violenza
lo stivale sul pavimento.
«Solo
perché c’è qualcuno che ci considera non devi sentirti attaccato nella tua
virilità, Maelstraw» rispose ghignando. «Il nostro
popolo è stato riconosciuto sul suolo di Inveia
troppi anni or sono perché il tuo assembramento di zotici possa ricordare.»
Maelstraw fece per alzarsi con violenza, e Loole scattò in piedi.
«Non
intendo omettere nessuno da questa seduta, perciò che vengano posate le asce da
guerra. Nessuno qui rappresenta un popolo migliore di un altro, e se non vi è
chiaro, allora siete pregati di prendere la porta subito» impose con voce
autoritaria. Gli occhi di tutti la fissavano, ma in maniere diverse, dall’ira
profonda dell’abitante delle lagune alla calma felina della Gwyllion,
sino ad arrivare all’approvazione di due dei presenti: Guillome
e il rappresentante dei nani, che masticava pensieroso il bocchino della sua
tozza pipa spenta.
Cadde
il silenzio, e Loole sedette. Sospirò, e prese in
mano i fogli della seduta del giorno.
«Vogliamo
iniziare a scalfire i noccioli delle questioni più importanti?» chiese,
strofinandosi gli occhi.
Mai
avrebbe pensato che il compito di una reggente elfa
dai colori inusuali fosse così arduo.
*Un medaglione d’oro e rubino dalla forma a
stalattite che il maggiore esponente della Casta dei Reggenti deve indossare
per dieci giorni a seguito di un lutto avvenuto nel circuito governativo.
Il cappuccio calato sul
volto di Sam celava la sua identità, almeno in parte. Viaggiava nella foresta,
scivolando i posti di blocco degli elfi, anche se sarebbe stato pericoloso,
perché i Marcatori sono pericolosi forse più degli elfi.
Ma loro avevano ancora un
debito con lei.
«Stai varcando confini
pericolosi, essere umano.» una voce profonda le giunse alle orecchie, e fermò
il suo cavallo, per niente spaventato dalla presenza del lupo.
«Ho diritto a passare su
questi terreni tanto quanto te.» ribadì, svelando il volto. Una pioggia leggera
batteva il terreno. Il fango e il verde si mischiavano, dove gli occhi non
riuscivano a vedere al di là del prossimo albero.
«Sam... è tanto tempo che
non varchi la nostra terra.» mormorò il lupo, riprendendo forme umane. Era un
uomo adulto, con barba accennata, capelli ed occhi neri, vestiti di foresta.
«Lo so, Hildegard. Lo so.» mormorò con malinconia la giovine. «Ma
sono obbligata.» l’uomo in silenzio accennò a farle proseguire il cammino,
silente.
Il cavallo riprese a
camminare, il suo respiro colpiva l’aria con nuvole di vapore.
L’uomo afferrò le
briglie, fermando momentaneamente il cavallo.
«Un Marcatore non
dimentica, Sam.» la donna lo fissava, ascoltandolo «Tu hai salvato Matias da morte sicura, sarò sempre in debito con te.» Sam
ricordò, con un accenno di sorriso, quel piccolo lupetto ferito nella foresta,
salvato da un cacciatore «Ma ormai sto invecchiando, e i Marcatori non sono
sordi all’esterno della foresta. Ho paura della guerra, Sam, come qualsiasi
padre. Ti chiedo una cortesia, prima che tu parta.» Sam, come leggendogli nella
mente, rispose.
«Non preoccuparti di tuo
figlio, Hildegard, lo proteggerò.» il volto dell’uomo,
prima grave, si rilassò, e lasciò le redini. Il cavallo riprese la sua marcia.
Lo salutò con affetto,
dirigendosi verso la Terra frastagliata, Lamben. Era
una popolazione molto rude, grezza nei modi, madrepatria dei migliori
tagliagole e mercenari delle Terre dell’Ovest.
Lì era diretta Sam,
sapendo di trovare presto un giro tutto suo di clienti. Ma avrebbe avuto una
forte concorrenza che, pur di non perdere clienti, avrebbe ucciso.
Era sempre stato il suo
sogno, arrivare alle vette dei migliori tagliagole di Lamben,
la migliore assassina, ma mai si era avventurata.
E ora camminava verso il
confine della foresta, entrando ufficialmente in quelle terre.
Rischio la morte, nell’entrare in queste terre. Dovrò sempre mantenere la
guardia, mai voltare le spalle a nessuno.
Aveva appena passato il
confine che un coltello le passò vicino al volto. Il cavallo si impennò, ma
riuscì a domarlo.
Un gruppo di cinque
energumeni le si avvicinò. Varie cicatrici solcavano il loro volto.
«Molla i denari e avrai
la chance di poter fuggire con le tue gambe.» l’uomo si ritrovò un pugnale al
petto, alla fine della frase. I compagni non si erano nemmeno accorti dell’attacco
della loro preda.
«Allora» soffiò Sam,
guardandoli dall’alto, il cappuccio teso sul volto «c’è qualcun altro che vuole
morire?». Un uomo si avventò su di lei, afferrando il mantello per farla
cadere, ma la giovane scivolò dal lato opposto del cavallo, slacciandolo, e
tagliò la gola di quello sventurato. Mentre il corpo cadeva una freccia le
sfiorò un braccio, e il cavallo venne abbattuto con un colpo di ascia. Il sangue
iniziò a colorare la terra secca. Sam sfoderò i suoi pugnali e impiegò una
breve battaglia con un uomo armato di scimitarra, abbattuto con una lama
avvelenata.
I due superstiti stavano
cercando di saccheggiare i bagagli di Sam, ancora stretti al cadavere dell’animale.
Quando videro l’ennesimo compagno cadere, scapparono, correndo veloci.
Quando pensarono di
essere troppo lontani per essere colpiti si sorrisero a vicenda, felici per il
colpo riuscito. Stramazzarono a terra, un coltello da lancio impiantato nella
schiena. Gli occhi neri di Sam vibravano di vuoto.
La fortezza di Lamben era una rocca dai cupi colori, costruita sulla
parete della montagna, affianco un lago dal blu scuro e una rada vegetazione
anch’essa cupa. Solo pini, qualche albero morto, una distesa di erba secca.
Solcata l’entrata del
villaggio ai piedi della rocca, Sam si soffermò ad origliare i vari discorsi
dei cittadini. Molti spaventati, altri che mostravano le loro ricchezze, molti
coperti di cicatrici, da nani a mezzi orchi, gli occhi bramosi di sangue e lame
non propriamente nascoste sotto le loro vesti.
Sam si sentì più sicura
stringendo i suoi pugnali nelle mani.
Entrò in una taverna e
chiese se aveva un alloggio libero ma, con sguardo dubbioso e sottile, le venne
negato un letto.
«Agli stranieri non diamo
il benvenuto. Se cerchi un alloggio, vai da un’altra parte.». la giovine vagò
per il paese per vari minuti prima di trovare un uomo anziano che le cedette
una sua vecchia e sgangherata proprietà in cambio di un gioiello raro, frutto
di un suo vecchio furto.
Era una stanza unica, all’ultimo
piano di un vecchio palazzo, con il tetto che perdeva acqua e pochi e parchi
mobili.
Ma era meglio di niente.
Si armò di pazienza e
fino all’ora di cena riuscì a sistemare l’abitazione per un assassino come lei.
Aveva murato le finestre, installato delle trappole per i ladri, bloccato la
porta e aperto una piccola fessura per il cambio d’aria.
Stanca, si mangiò un
pezzo di pane con formaggio e si coricò, arma alla mano, sensi all’erta.
La prima notte lì avrebbe
deciso il suo futuro in quel paese così poco avvezzo ai turisti e ai nuovi
abitanti.
Eppure, negli ultimi
attimi prima di crollare, Sam pensò, con malinconia, al profumo dolce dei
capelli di Loole, immaginandoseli lì, a pochi respiri, stretta a sé.
Avrebbe dormito sempre
sonni tranquilli, con quel profumo.
Loole, nelle sue stanze,
si strinse a quel cuscino con stanchezza, ancora vestita con i reali simboli,
riuscita a liberarsi dalla riunione, stanca morta per la notte precedente in
bianco e per le varie discussioni avute in sede di consiglio.
Inspirò il profumo di
buono, e sorseggiando un poco di vino e mangiucchiando la zuppa ormai fredda
sul mobile si spogliò degli abiti, stendendosi sulle lenzuola fredde del suo
letto.
Gli occhi persi sulla
parete, ripercorrendo pensieri e ricordi.
“Fanaon, fratello mio...”
una lacrima silenziosa cola.
Chiuse gli occhi e zittì
la mente, doveva dormire, almeno quella notte.
Doveva.
Nella mente un parco pensiero
prima di cedere al sonno, Sam che la guardava e...sorrideva.