Terzo ed ultimo
capitolo... il più sofferto. Grazie a tutte coloro che mi hanno
seguita e recensita in questo timido esperimento: siete voi la mia
soddisfazione!
Per non illudervi
vi confermo che il rating è quello giusto. Sono rimasta volutamente
su un rating basso, perché per ora non credo di essere in grado di
scrivere una scena slash a rating rosso: è già difficile descrivere
un rapporto sessuale etero... ho il terrore di cadere in errori
madornali e/o in banalità lapalissiane se descrivessi un rapporto
tra due uomini.
E
questo è quanto! Canzone: First
Love
dei Maccabees. Buona lettura e a presto! :)
First
Last
Only Love
John aveva aperto
la porta senza nemmeno guardare dallo spioncino. La sua intenzione
era di mandare affanculo chiunque ci fosse dall'altra parte e poi
andare a piangere in un angolo come una donnetta premestruata.
Non aveva messo in
conto che dall'altra parte potesse esserci Sherlock. Lo stesso
Sherlock che aveva avuto la brillante idea di baciare poco prima. Lo
stesso Sherlock di cui aveva ancora il sapore in bocca e di cui non
avrebbe mai dimenticato la morbidezza delle labbra.
Gli stai
fissando le labbra. Smettila.
John sporse appena
la testa fuori per assicurarsi che nessun vicino stesse ficcanasando. Poi afferrò per una spalla Sherlock
e lo strascinò dentro, richiudendo velocemente la porta. Lo lasciò
immediatamente, come se il banale contatto di una mano su una
spalla, con strati di vestiario nel mezzo, fosse chissà cosa
rispetto a...
E piantala di
fissargli le labbra, Cristo!
Sherlock avanzò
dentro l'appartamento e vi si fermò in mezzo, guardandosi intorno.
John avrebbe potuto contargli i neuroni al lavoro del dedurre ogni
minimo dettaglio della sua esistenza. Si sentiva nudo.
Si schiarì la
voce: – Vuoi del tè? –
Sherlock si voltò
a guardarlo. No, ad esser precisi, si voltò a radiografarlo.
Se prima si sentiva nudo, adesso come si sentiva? Scorticato, aperto
in due dal bisturi dei suoi occhi e messo sotto il microscopio.
– Mi hai sempre
voluto, John. –
Una morsa gli
strinse la gola. Una morsa fatta di vergogna e di vecchi rimpianti e
di strascichi d'ipocrisia.
– Non voglio... –
John incrociò le braccia sul petto, ci si strinse letteralmente,
quasi a difendersi – Non voglio saperlo. –
– È importante
che te lo dica. –
– Oh, ma per
favore! Vuoi solo metterti in mostra come al solito. –
Era una stronzata.
Come lo era camminare nervosamente per la stanza. E nessuna di quelle
due stronzate avrebbe migliorato la situazione. Non gli avrebbero
impedito di sentirsi estremamente infantile e stupido proprio nel
momento in cui Sherlock decideva di fare un passo – un enorme passo
– verso di lui. Rappresentavano, piuttosto, l'ultimo ed inutile residuo di
quella barriera che aveva eretto per difendersi dalle emozioni che l'avevano lacerato per tre anni. Per
difendersi da lui.
Fu la voce morbida
di Sherlock e spezzare anche quel residuo: – Questa è davvero
l'ultima situazione in cui vorrei mettermi in mostra, John. –
Ed è incredibile
come certe cose non facciano alcun rumore nel momento in cui si
spezzano, mentre sanguinano, quando muoiono.
– Hai sempre
avuto quel modo di guardarmi. –
John si riscosse
dal suo personale dramma e si accorse di avere le guance in fiamme.
– Che... quale
modo? – borbottò.
Anni di
addestramento lo fecero istintivamente retrocedere in posizione di
difesa quando Sherlock gli si avvicinò con decisione. Ma non poté
che restare annichilito mentre lui lo afferrava per le spalle e lo
trascinava davanti allo specchio dell'ingresso.
– Questo.
–
È un fatto. Se il
più abile consulente investigativo del Regno Unito pensa che tu sia
sempre stato attratto da lui, deve essere vero. E la conferma stava
proprio davanti ai suoi occhi. Era così reale. Così
maledettamente reale e... e imbarazzante e – Cristo santo! –
come aveva potuto Sherlock fare finta di niente in tutto quel tempo?!
– Tu mi
osservavi. – realizzò, mentre l'imbarazzo andava a sciogliersi nello
stupore, creando uno strano ibrido che gli faceva martellare il
cuore.
Sherlock non
distoglieva gli occhi dai suoi, nel riflesso dello specchio. Era come
avere due Sherlock che lo osservavano. Quello dello specchio mosse le
labbra e contemporaneamente quello alle sue spalle sussurrò “Sì”.
Solo un “Sì”. Lapidario e senza alcuna sfumatura, eppure
traboccante di tutte le emozioni che in quel momento impregnavano
l'aria del minuscolo monolocale.
– Quando? –
volle sapere.
Le ciglia di
Sherlock fremettero appena. Unico, delicato segno tangibile di ciò che stava provando.
– Sempre. –
soffiò.
Era una cosa
bellissima, semplicemente bellissima. E agghiacciante.
John non riusciva a
muoversi, lacerato tra il desiderio di tirare un pugno allo specchio
per incrinare quel volto perfetto che lo scrutava, e l'istinto di
voltarsi e morderlo a sangue che l'aveva preso fin dal momento in cui
aveva messo piede là dentro.
– Non mi hai mai
detto niente. –
Si accorse di
parlare a fatica.
– Cosa potevo
dirti? – Sherlock inarcò un sopracciglio e voltò le spalle allo
specchio e a lui – “John, sei attratto da me, fattene una ragione
e andiamo a letto insieme”? –
Come si potrebbe
illustrare la reazione che ebbe John Hamish Watson? Il principio di
erezione che lo colse sarebbe già più che eloquente. Si aggiunga
che si strozzò con la propria saliva e dovette cercare sostegno
posando una mano alla parete, poiché le gambe smisero di reggerlo a
dovere.
John era stato in
guerra e anche da civile non è che i momenti di adrenalina fossero
mancati. Aveva sperimentato più volte quella sorta di furia
berserker che ti offusca il cervello e ti manda le pulsazioni fuori
fase, che ti spinge oltre i limiti, che ti rende una bestia letale.
Questo era diverso.
Era peggio. Questo contemplava la furia e il sesso. Insieme.
Era il risultato di tre anni di menzogne e disperazione e desideri
repressi. Il risultato di una provocazione assolutamente gratuita e
palese da parte della fonte di tutti i suoi drammi.
– Fallo. –
John annaspò: –
Cosa...? –
Scorse la figura
alle sue spalle.
– Picchiami. –
Oh, Dio...
Il mondo attorno a
John si mise graziosamente a roteare. Stava sperimentando un infarto
e le mani gli prudevano dalla voglia di menarlo.
– No. –
rantolò, girando stupidamente su stesso, lo sguardo allucinato che
vagava attorno a sé alla disperata ricerca di un appiglio, un... un
qualcosa – qualsiasi cosa dannazione! – potesse distrarlo.
– Sì, John. –
– No,
Sherlock. –
– Fammela pagare.
–
Oh, quale
dolcissimo invito. Il respiro di John si fece difficoltoso mentre
immaginava senza fatica alcuna come avrebbe voluto fargliela
pagare.
– Non in questo
modo. – scandì.
Sherlock lo osservò
curioso, la testa inclinata di lato: – Perché no? –
L'incredulità non
era sufficiente per definire lo stato di John. Era un fottuto
detective o no? Deduceva quante volte una persona aveva fatto il giro
del mondo dal modello del suo orologio, era mai possibile che non
arrivasse a capire quanto poteva essere pericolosa quella situazione?
Si lasciò
scivolare alla scrivania, la testa tra le mani, fissando sconvolto un
punto della carta da parati davanti a sé.
– John... –
Il calore di una
mano, le dita sottili tra i capelli. John strinse gli occhi e sospirò
pesantemente, sentendo il sangue che tornava ad affluire all'inguine.
Non voleva fargli
male. Non poteva. Non in quel modo. No no no no. Era intollerabile.
Scostò la sua mano
con un colpo secco e si grattò la testa, scompigliando i capelli,
strofinando il viso, ringhiando di disappunto con la faccia ficcata
nei palmi.
Non aveva mai fatto
l'amore con un uomo, John. Ma su internet si trovava di tutto –
forse anche troppo – e lui era un tipo curioso. E adesso gli era
assurdamente naturale immaginare di sperimentare su Sherlock certe
cose. Applicarle bene, sì, fino ad annullare quel dannato cervello
che si ritrovava e imporgli una fisicità dalla quale si ostinava a
tenersi lontano.
John desiderava
annientarlo.
Troppo
cerebrale. Stai diventando come lui.
Ma che gli stava
succedendo? Era un uomo terra-a-terra, santo Cielo. Un medico e un
soldato: l'apoteosi della praticità. Gli piacevano le cose semplici.
Il sesso, dal suo
punto di vista, non doveva implicare lo stress di pensare,
solo la fatica fisica di agire. Quella sacrosanta fatica che
ti fa sudare anche in pieno inverno col riscaldamento staccato, che
ti fa pulsare la testa per il calore, che spinge i muscoli fino ai
limiti, che ti toglie il fiato e la facoltà di parlare fino a
crollare privo di forze, tremante e sudato. Non c'è mai stato niente
di cerebrale in questo, grazie a Dio.
– Pensi troppo,
John. Non fa per te. –
C'è sempre un
punto di non ritorno nella vita di uomo. John credeva di averlo
varcato nel momento in cui aveva confessato – smozzicato, strappato
dal cuore e sputato tra i denti come un pensiero deforme, masticato
da anni di rimuginazione – a Sherlock ciò che provava.
John si sbagliava.
Fu quello il momento in cui varcò il punto di non ritorno.
Capì che stava
succedendo con sorprendente lucidità. Lo capì dall'istante in cui
si rialzò e si voltò verso di lui e si guardarono in silenzio, la
sedia tra di loro come un'ultima, labile barriera, e una vita di cose
non dette che parevano riecheggiare in mezzo a loro, amplificandosi,
aprendo in due le loro anime spietatamente.
John batté le
palpebre e fece un profondo sospiro. La tensione della rabbia si
sciolse in qualcosa di nuovo, di più sottile e penetrante. I muscoli
si rilassarono, la mente smise di lavorare.
Il silenzio della
stanza venne spezzato dallo stridio della sedia che John scostò con
un piede. Fece un passo avanti, solo uno. Era sufficiente. Sherlock
non indietreggiò, non lo fermò, non fece nulla. Nemmeno quando gli
posò una mano sul petto e lo spinse, con delicata decisione, verso
la parete alle sue spalle.
Infilò due dita
nella piega della sua sciarpa e tirò. Piano. Tirò fino a che il
nodo non si allentò. Fino a che la stoffa non scivolò via,
rivelando il collo candido.
Non c'era niente
altro al mondo per John che quello: il suo collo nudo. Era banale
come un romanzetto d'appendice, come una commediola romantica, eppure
era così e basta, e non ne provava vergogna. C'era solo Sherlock,
con il suo odore e la stoffa della sciarpa ancora chiusa nella sua
mano e quella pelle diafana, increspata dai brividi, sotto la quale
pulsava lieve una vena.
Era materiale e
tangibile. Per la prima volta da quando lo conosceva, John sentì
che lo stava toccando davvero. Perché era lui a volerlo. Era
Sherlock che si era resto materiale per lui. Solo per lui.
~
Svuotato. Sherlock
si sentiva svuotato. Era questo l'effetto delle endorfine
post-orgasmiche? Era meglio dei cerotti alla nicotina. Decisamente
meglio.
Mosse la testa sul
cuscino, chinando le labbra sulla mano di John, strofinandole appena
su quella pelle che sapeva di loro. Lui rispose nel sonno, istintivo
come sempre, stringendosi di più a lui, avvolgendolo. Un calore
disumano irradiava dai loro corpi, rendendo l'ambiente sotto le
coperte piacevolmente soffocante.
Tentò di mettere a
fuoco quello che era successo, ma i ricordi e le sensazioni andavano
a mescolarsi, confondersi, creando un confuso patchwork emotivo che
gli faceva venire i brividi, gli offuscava la mente, gettandola in
quella nebbia che aveva permeato ogni loro gesto e respiro. Quella
nebbia dalla quale ancora si sentiva avvolto, umida sulla pelle.
Rendeva tutto più denso e ovattato, avvicinando, quasi livellando
quegli estremi di cui erano fatti loro due. Amalgamandoli come
perfetti ingredienti di una ricetta che poteva funzionare solo in
questo modo.
Ciò che era certo
era che John lo aveva aggredito. Correzione: Sherlock si era fatto aggredire.
E denudare e divorare. Palmo a palmo, lentamente, sistematicamente.
Non gli aveva lasciato alcun margine, John, mentre lo rivoltava come un
calzino. Senza alcun pudore, né reticenze di sorta. Eppure con una
delicatezza tale da farlo tremare per l'emozione.
Era così che si
sentivano le persone quando lui deduceva ogni anfratto delle loro
esistenze? No, Sherlock era certo di non aver mai detto a John in
quelle ultime ore “Fuori dai piedi”. Era certo di non avergli
detto un bel niente, impegnato com'era a ricordarsi di respirare. Ad
accettare di avergli permesso quella pericolosa esplorazione.
Ad assimilare
l'idea che stava facendo l'amore con lui.
Il suo
fantasmagorico cervello era andato in tilt, lasciandolo nelle sue
mani. Lasciandolo in balia di qualcosa che nemmeno poteva immaginare.
Ignaro e stupidamente fiducioso.
Ma era il dopo che
l'aveva annientato definitivamente. Era l'abbraccio costrittivo, la
presa soffocante in cui John l'aveva stretto fino ad addormentarsi. E
quell'assurda sensazione. Casa. Essere a casa, nel concetto
del tutto emotivo del termine. Essere a casa, dopo un viaggio durato
mille anni nei freddi siderali di una galassia che non ti conosce e
non ti vuole. Essere a casa e ritrovare quelle cose così scontate e
insignificanti, come l'odore familiare del tè e la propria poltrona
preferita e lo scorcio che si vede dalla finestra del salotto, sempre
lo stesso, sempre uguale, così rassicurante nella sua banalità.
Quelle cose, sì, che nel loro essere insignificanti, quando sei
solo, ci indugi fino a farti sanguinare il cuore.
Le braccia di John
erano la sua poltrona preferita, la sua bocca che giaceva socchiusa
sulla sua spalla era l'odore del tè. John era la sua casa.
– John. –
Il vago grugnito
che gli arrivò alle spalle indicava chiaramente che il richiamo
non era affatto andato a buon fine. Sherlock schiuse le labbra sulla
sua mano e mordicchiò.
– John. –
ripeté, ruotando gli occhi.
La mano di John si
ritrasse, scivolò fino alla sua spalla e premette per girarlo. Steso
sulla schiena, Sherlock subì con piacevole curiosità il bacio a
stampo che gli scoccò sulle labbra. John nascose poi il volto nel suo
collo e mosse la testa quasi rudemente, come un cane che cerca le
coccole.
Sherlock percepiva
il calore morbido delle labbra e il ruvido della pelle che avrebbe
avuto bisogno di una rasata. Quel contrasto assurdo gli strappò un
sospiro che s'infranse tra il cervello e il cuore, gettandolo
nuovamente nella nebbia. Con un certo – falsissimo – disappunto,
giunse alla logica conclusione che da quel momento sarebbe stato
sempre così: un minimo gesto da parte di John e le facoltà
intellettive di Sherlock Holmes si sarebbero praticamente annullate.
– John, devo
parlarti. – riuscì a dire mentre lui, nel dormiveglia, lo
costringeva in un abbraccio senza vie d'uscita.
– Dimmelo domani
mattina. – biascicò John sul suo collo.
– È già domani
mattina. – obbiettò Sherlock.
L'orso in
semi-letargo che aveva tra le braccia ringhiò indispettito. Alzò
infine la testa e si stropicciò gli occhi.
Sherlock inghiottì
a vuoto, imponendosi di non indugiare troppo sulla bellezza
innominabile di John che si risveglia. Spettinato. Nudo. Dopo aver
fatto l'amore con lui.
– Cosa c'è? –
borbottò infine.
– Dobbiamo
trovare una soluzione. –
Lui roteò la testa
e lo guardò vagamente confuso: – Per cosa? –
– Per questo. –
precisò con un gesto impacciato della mano.
Lo sguardo di John
saettò dalla mano al suo volto, senza capire. Sherlock ricordò
allora che le tempistiche di John al mattino erano sempre decisamente
rallentate. Si predispose dunque a spiegare, con calma e
chiarezza, il suo punto di vista.
– A lungo andare
tutto questo complicherebbe notevolmente le... –
Il discorso venne
interrotto da una crescente sequela di “Aspetta”. Infastidito,
Sherlock si zittì e restò in attesa. John era irritato e anche un
po' spaventato: era palese che avesse frainteso qualcosa.
– Se solo ti
azzardi a provare a negare quello che è successo... –
Ecco, per
l'appunto.
– Non essere
ridicolo, John. – sbottò, seccato dalla sua incapacità di capire.
– Allora che
diavolo c'è? –
– Se mi avessi
lasciato finire... –
– Sentiamo. –
Erano insieme da un
paio d'ore e già litigavano. A pensarci bene, litigavano da sempre.
Dio, quanto mi mancava!
– Sarebbe assurdo
continuare con questo tira e molla, John. – sentenziò, mettendosi
a sedere, allontanandosi almeno un po' dal suo sguardo preoccupato e
dal suo odore invadente e da quel calore insopportabile che gli
confondeva le idee.
– Vorresti, poi,
che i nostri futuri incontri si svolgano qui? – aggiunse,
avvolgendosi nel lenzuolo e scivolando fuori dal letto – Escludo
che possa durare, in questa maniera. –
Andò verso il
cucinino, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Biscotti. Un tè.
Aveva una fame...
Alle sue spalle,
John si schiarì la voce: – Che possa durare cosa? –
Sherlock alzò gli
occhi al cielo. Non è che non ci arrivava, voleva sentirselo dire.
Le labbra s'incurvarono in un sorriso. Era così da lui.
– Tutto questo,
John. – disse semplicemente, mentre apriva e chiudeva le antine
della credenza.
John gli si
avvicinò. Aveva addosso i pantaloni del pigiama. E niente altro.
Silenzioso, aprì un'antina in basso a destra e ne tirò fuori una
latta contenente del tè. La posò sul ripiano, davanti a lui, e lo
guardò dritto negli occhi.
– “Tutto
questo” cosa? – insisté in tono fermo, entrando in modalità
soldato duro e puro che non ha intenzione di mollare l'osso.
Era pericoloso
quando faceva così. Perché era bravo nella sua testardaggine e
perché Sherlock iniziava a non capire niente quando gli mostrava
quel lato di sé così diverso dal dolce, paziente, ingenuo dottor
Watson.
– Perché tieni
il tè lì? – gli chiese, aprendo la latta e annusandone il
contenuto.
– Perché è il
punto meno umido della cucina. – spiegò velocemente – Potevi
arrivarci anche da solo. – gli fece notare, alzando le
sopracciglia.
Sherlock gli scoccò
un'occhiata di traverso.
– “Tutto
questo” cosa, Sherlock? – ripeté, ostinato.
– Io e te, John.
– si arrese infine, con un sospiro.
Non era in grado di
tenergli testa, non in quel momento. Lo ammise con sé stesso e fu
meno traumatico di quel che credeva. Aveva tutte le scusanti del
caso, dopotutto.
Si è appena
preso tutto di te. Corpo, anima, mente. Pure quel cuore che credevi
di non avere, mentre lui ce l'aveva in mano fin dall'inizio. Da
sempre.
Mentre metteva
l'acqua a bollire, un altro sorriso gli increspò le labbra. E
stavolta non tentò nemmeno di nasconderlo.
– E cosa
suggeriresti di fare? – gli stava chiedendo John.
– La signora
Hudson non ha ancora trovato a chi affittare la tua vecchia stanza. –
Era facile in quel
silenzio improvviso, dentro quel minuscolo appartamento, divenire
chiaramente consapevoli di tutti quei lievi rumori che riempivano
l'aria. I passi ovattati dei piedi di nudi di Sherlock che si
muovevano davanti alla cucina, il lieve scricchiolare della fiamma
del fornello sotto il bollitore bagnato, quel tipico suono sordo che
fanno le foglie sfuse del tè quando le pigi nel filtro. Il respiro
lento e regolare di John, a un passo da lui – materialmente ed
emotivamente.
– Mhm... – fece
John.
Lui gli proponeva
di tornare a vivere insieme e la sua risposta era solo un
insignificante “Mhm”? Sherlock s'impose di non apparire
mortalmente offeso come si sentiva dentro.
E poi John fece una
di quelle sue cose. Quelle, per capirci, che Sherlock ormai se le
aspettava da lui, perché lo conosce, perché era ben consapevole
dell'innata capacità di John di sorprenderlo ogni volta, come solo
lui sapeva fare. Quelle cose che tuttavia, per la loro stessa natura
imprevedibile – sì, anche per un genio come lui, sopratutto
per un genio come lui – lo lasciavano sempre completamente spiazzato.
Quella cosa, John,
la fece piano, quasi temesse, con qualche gesto inconsulto, di farlo
scappare via come una bestia selvatica spaventata. E Sherlock si rese
conto di non aver avuto intenzione di scappare fino che John, con
quel suo modo cauto e circospetto, non lo mise letteralmente alle
strette.
Socchiuse gli
occhi, e non poté fare a meno di chinare la testa seguendo il suo
movimento. Perché John – c'era da ricordarlo – era più basso
lui. E allora com'è che in quel bacio era stato proprio John a
sollevargli il mento? Com'è che si stava facendo baciare, quasi
stesse subendo invece che partecipare?
Sarebbe sempre
stato così? Si sarebbe sempre ritratto come uno sciocco gattino che
non vuol farsi prendere per la collottola, ogni volta che John gli avrebbe
posato una mano sulla nuca per spingere le sue labbra contro le proprie?
Sherlock indugiò
in quegli assordanti quanto inutili interrogativi, finché la voglia
di lui prese il sopravvento e spazzò via ogni pensiero coerente dal
suo straordinario cervello.
Un rumore umido e
l'improvviso freddo delle labbra nude, prive di quel contatto.
– Anch'io,
Sherlock. –
Aveva parlato?
Perché aveva parlato, cosa c'era da dire? Di cosa stava parlando?
Aveva importanza?
– Cosa? – gli
chiese, del tutto disinteressato, seguendo con sguardo famelico le
labbra di lui.
Non l'aveva baciato
abbastanza. Ne aveva ancora bisogno.
– Ti amo. E
voglio tornare a vivere con te. –
Lo sguardo risalì
il volto fino agli occhi. Lì si fermò e per la seconda volta nella
sua vita in sole poche ore, Sherlock Holmes si sentì aperto in due.
Lasciò che quella dolce ferita sanguinasse, esposta e vulnerabile,
affinché le parole di John vi entrassero dentro, s'insinuassero in ogni
piega, si mescolassero al suo flusso, fino a raggiungergli l'anima.
Lasciò che gliela marchiasse, come poco prima aveva lasciato che gli
marchiasse il corpo. Glielo lasciò fare, nonostante – o forse
proprio per? – la paura che tutto questo gl'incuteva.
La paura di John,
del potere che ormai era capace di esercitare su di lui. La paura
della solitudine – specchio della sua stessa solitudine – che gli
aveva letto negli occhi ogni volta che l'aveva spiato da dietro quel
cipresso. La paura di ammettere che Sherlock Holmes è un essere
umano e come tale ha la necessità imperativa di amare e di essere
amato. La paura di essere ormai invischiato fino al collo in qualcosa
di sconosciuto e innominabile, che tutto il genio e la scienza di
Sherlock non avrebbero mai potuto districare. Qualcosa che non puoi dedurre,
non puoi sperimentare, non puoi risolvere come un enigma... puoi solo
viverla e, se sei fortunato, condividerla.
La paura di averlo
scoperto così, questo qualcosa, nel modo meno prevedibile eppure più
banale: facendosi possedere. Corpo e mente e prima ancora cuore,
sempre il cuore. La paura di sé stesso. La paura di loro.
Una paura deliziosa
e ricca di aspettativa, come lo erano i loro baci.
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