The Butterfly Effect

di Doralice
(/viewuser.php?uid=4528)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***
Capitolo 8: *** Sette ***
Capitolo 9: *** Otto ***
Capitolo 10: *** Nove ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Tutti i buoni propositi che mi sono fatta di frenarmi, di aspettare a mettermi a scrivere – e pubblicare – questa storia, perché è bene prima pianificare a fondo la trama e gli avvenimenti che ho intenzione di raccontare e l'evoluzione dei personaggi e, insomma, tutte quelle cose che vanno fatte per rendere una storia degna di questo nome... tutti questi buoni propositi, dicevo, si sono infranti nel momento in cui ho letto la poesia qui citata, mentre ascoltavo contemporaneamente il brevissimo brano qui linkato.

Questa storia è nata per caso, contro ogni mia reale intenzione... il che è a dir poco emblematico, visto il tema trattato (capirete più avanti cosa intendo). E sarei ipocrita e poco riconoscente se non dichiarassi che tutto questo ha potuto diventare reale sopratutto grazie ad Elendil Snape. Non esagero se dico che questa storia è scritta a quattro mani, perché gran parte dell'ispirazione e delle idee e delle immagini che escono dalle mie dita, non sarebbero mai esistite senza il costante contributo di Elendil. Dunque diamo a Cesare quel che è di Cesare, e ricordatevi di scrivere al plurale nelle recensioni, perché qualsiasi commento varrà per me tanto quanto per lei.







The Buttlerfly Effect


Piccola, azzurra aleggia

una farfalla, il vento la agita,

un brivido di madreperla

scintilla, tremola, trapassa.

Così nello sfavillio d'un momento,

così nel fugace alitare,

vidi la felicità farmi un cenno

scintillare, tremolare, trapassare.

Herman Hesse –



Prologo


Dodici anni è un'età difficile. A dodici anni ti poni un sacco domande. Sul mondo, su te stessa, sul mondo dentro te stessa.

Pensate, poi, se di domande ne hai una sola. Perché tutte le altre te le sei già fatte e hai anche trovato le risposte per ognuna di loro.

Ma per quella domanda no.

Nessun'altra, solo quella, solo lei. Così apparentemente banale e di semplice risoluzione, eppure inafferrabile. Di tutte, l'unica che ancora ti fa tribolare, alla ricerca di qualcosa che cancelli il punto interrogativo e ci metta al suo posto un bel punto. E basta.


Le gambe raccolte al petto, Azuré affondava le sottili dita nella sabbia del bagnasciuga e scavava, riempiendo le unghie di granelli, il palmo di grumi umidi misti a frammenti di conchiglie. L'acqua le lambiva le dita dei piedi facendole il solletico con il risucchio.

L'ennesimo schiamazzo di suo fratello le fece ruotare gli occhi nella sua direzione. Aingeal s'era inerpicato addosso a loro padre, che al momento sembrava molto divertito mentre tentava di scrollarselo di dosso tuffandosi all'indietro in mezzo alle onde turchesi.

Ops! –

Nonostante avesse già notato l'ombra alle sue spalle e sapesse perfettamente cos'era intenzionato a fare, Azuré parò a stento la palla di sabbia lanciata da John. E gli scoccò un'occhiataccia.

Sherlock era “papà”, John era “babbo”. Anche se lei preferiva chiamarli per nome, con sommo disappunto di John.

Se mi guardi un'altra volta in quel modo, ti lancio in acqua. – l'avvertì affiancandosi e guardandola dall'alto.

Azuré si ripulì alla bell'e meglio: – Almeno mi laverei. –

Perfetto! – esclamò lui con un perfido sogghigno.

Due mani ferme la sollevarono per le ascelle e un attimo dopo tutto il mondo s'era fatto molto bagnato e salato.

Riemersero dall'acqua sputacchiando e ridendo e ingaggiando immediatamente una tremenda lotta di schizzi, alla quale s'unirono subito anche il papà e Geal. Fu una battaglia epica e le forze erano pari, per cui alla fine non vi fu alcun vincitore. Stremati e bisognosi di ossigeno, si decisero infine ad uscire dall'acqua. Azuré si asciugò la faccia con una manata e si lasciò cadere sul bagnasciuga, strizzando gli occhi contro la luce vivida di quel luglio.

Accanto a lei, John non fece commenti, ma Azuré conosceva bene quella sua espressione trionfante. Erano in vacanza da una settimana e lei non aveva fatto altro che sabotare qualsiasi tentativo di divertimento. Non che questo avesse impedito loro di spassarsela, ovviamente. Azuré avrebbe solo voluto che la lasciassero in pace, a crogiolarsi nei suoi pensieri. Non lo sapevano che le ragazze della sua età hanno bisogno dei loro spazi, dei loro tempi?

Ecco cosa voleva dire crescere con due uomini. Tre, da quando era nato Geal. Era una brutta storia essere in minoranza.

Azuré sospirò, arrendendosi davanti alla palese capziosità dei suoi collegamenti mentali. Sempre lì dovevano andare a parare, eh?

Un penny per i tuoi pensieri. –

E Azuré sorrise tra sé.

John era quello delle frasi fatte, dei proverbi, del “dalle mie parti si fa così”, del “sai cosa avrebbe detto la nonna?”. Quello che prima di accompagnarti a scuola si preoccupava sempre che sotto ti fossi messa la maglia di lana e che al mare ti spalmava un triplo strato di crema solare perché “non si sa mai”. Era rassicurante, John, era la colonna portante, senza di lui non si sarebbe potuto nemmeno parlare di “famiglia”. Non ci voleva una laurea per capirlo: lei era cresciuta con loro, l'aveva sempre sentito.

Azuré mosse appena la spalla e rispose atona: – Nessun pensiero. –

Sapeva bene che non sarebbe stata una vaga risposta negativa a scalfire il suo granitico intento di farsi i fatti di sua figlia. John era il confidente di tutti. Già, persino il suo, nonostante Azuré fosse così simile al papà.

Sherlock era quello delle frasi ad effetto, dei discorsi da lasciarti a bocca aperta, delle battute sferzanti, dell'intelligenza sovrumana che sconfinava in un ego spropositato. Era quello avventato, lui, quello degli esperimenti ai limiti del legale e delle vacanze sulle Ande, in groppa a dei lama, al seguito di indios che masticavano foglie di coca. Era il succo vitale di quella famiglia folle e rappezzata, la fulgida stella attorno alla quale si muoveva tutto il loro piccolo sistema planetario.

Gli assomigliava in tutto e per tutto, Azuré, nel fisico come nel carattere sociopatico e nell'intelligenza fuori dal comune. Lo ammirava di quell'ammirazione mista al vago – imbarazzante – timore reverenziale che si riserva agli eroi. L'avrebbe seguito in capo al mondo.

Ma solo perché sapeva che prima o poi sarebbe tornata a casa, sotto l'ala protettiva di John.

D'accordo. – le stava dicendo – E questo “nessun pensiero” ha magari a che fare con le due B in pagella? –

Azuré sbuffò una mezza risata e si mise a sedere, scrollando con le mani la sabbia che s'era infilata tra i capelli scuri.

Il babbo era adorabile nel suo costante modo di preoccuparsi per tutto e tutti. Ma come al solito aveva cannato in pieno. Certo, non le aveva fatto per niente piacere chiudere l'anno scolastico con una media sotto la A. Ma cosa poteva farci se il sistema d'istruzione britannico era sbagliato? Lei non era portata per lo sport e dell'arte non gliene fregava niente, eppure ogni settimana la costringevano a lanciare una stupida palla dall'altra parte di un'altrettanto stupida rete, per non parlare dell'illogica nonché inutile imposizione di “rielaborare un'opera d'arte a scelta e realizzarla con una tecnica a piacere”.

Sciocchezze. Azuré non vedeva l'ora di chiudere con la scuola media e andare, finalmente, al liceo. Voleva studiare scienze per iscriversi poi a medicina: con due genitori come loro e la sua innata predisposizione, non aveva dubbi che sarebbe andata alla grande. Allora e solo allora si sarebbe preoccupata seriamente della propria media.

Erano ben altre le sue preoccupazioni attuali. Solo, non era sicura che quello fosse il momento più adatto per parlarne con i suoi genitori.

Non è questo. –

Il babbo si mise a sedere, le gambe incrociate e le mani intrecciate in grembo. Anche se non la guardava, Azurè sapeva che le stava prestano la massima attenzione: era nella sua posizione da ascolto. Lo faceva sempre. Empatia. Una cosa che lui aveva e il papà invece no, non l'avrebbe mai posseduta. Chissà se anche lei sarebbe stata così?

John. – alzò appena la testa verso di lui, nascondendo il disagio e l'agitazione nella smorfia a cui il sole la costringeva.

Mhm? –

Era buffo il suo sforzarsi di non dare a vedere quanto fosse attento. Il fatto è che, anche se a lui non piaceva, sapeva bene che quando lei lo chiamava “John” voleva parlare di cose serie.

Io non sono stata adottata, vero? –

Una conchiglia le capitò opportunamente sottomano, cosicché poté sfogare la tensione rigirandosela tra le dita.

Papà l'aveva detto che non avrebbe retto a lungo. –

Azuré aveva nelle orecchie quel suono lievemente malinconico dei tardi pomeriggi d'estate, fatto dello sciabordio delle onde e delle grida lontane dei gabbiani e delle chiacchiere dei pochi che si attardano in spiaggia fino a quell'ora. Era strano. Non aveva mai immaginato che la verità – quella verità che sapeva sarebbe arrivata, prima o poi, ma che fa sempre un certo effetto – gliel'avrebbero detta con un'atmosfera simile. Chissà cosa avrebbe provato, d'ora in avanti, a passeggiare su una spiaggia?

Portò un ginocchio al petto e chinò la testa di lato, posando la tempia sulla mano. Guardò di traverso il profilo di uno dei suoi due padri. Aveva il suo naso, Azuré, e anche la forma del viso era la stessa. Gli zigomi e le labbra invece, erano di Sherlock, come anche il colore degli occhi. Come avevano potuto pensare che prima o poi non avrebbe notato la somiglianza?

Ma tutte le ricerche che aveva fatto erano chiare e lampanti: il primo neonato ufficialmente concepito da due persone dello stesso sesso, era venuto al mondo nell'aprile del duemilatredici. Sedici mesi dopo la sua nascita. C'era decisamente qualcosa che non quadrava.

John si schiarì la voce, come faceva sempre quand'era nervoso.

Avrai tante domande. – le disse timido.

Azuré mosse le labbra, indecisa.

In realtà ne ho solo una. – alzò la testa e strofinò il mento contro il dorso della mano – Come avete fatto a tenerlo nascosto? C'è di mezzo anche zio Mycroft? –

Il babbo si voltò a guardarla e aveva quel suo solito sguardo. Quello di quando lei faceva o diceva qualcosa che lo sorprendeva. Era uno sguardo strano, che la metteva a disagio. Perché era come pieno di orgoglio, ma aveva anche qualcosa di malinconico. Era uno sguardo talmente tipico di John, che sembrava fatto appositamente per stare sul suo viso. S'era chiesta spesso se quello non fosse lo sguardo che un tempo riservava al papà.

C'è di mezzo anche zio Mycroft. – confermò.

Si pulì poi le mani dalla sabbia e si alzò. Azuré sollevò il capo e lo guardò dal basso, in attesa della frase che avrebbe stroncato quel discorso.

È meglio se... ne devo parlare col papà prima di... –

Ecco, appunto. Azuré distolse lo sguardo, accigliata.

Senti, lasciamo perdere, ok? – borbottò alzandosi a sua volta, evitando ostentatamente di guardarlo.

Non me ne volete parlare, sono troppo piccola, magari fra qualche anno... – cantilenò – Certo, va bene. –

S'incamminò lungo il bagnasciuga, diretta chissà dove, comunque lontano da lui.

Ti ho mai mentito? –

Questa, poi! Azuré si voltò verso di lui, irata.

Da quel che mi è appena stato riferito, sì. – ribatté freddamente – Per dodici anni. –

John era in pieno assetto militaresco, adesso. Lo notava dalla posa rigida, le spalle diritte, la mascella contratta. E quell'espressione di determinazione così caratteristica di lui, quasi quanto lo era quella da “lampadina accesa” che vedeva ogni tanto sul volto di Sherlock.

Questa sera, dopo cena. – dichiarò fermamente.

Mi direte tutto? – lo incalzò, trattenendo a stento l'incredulità.

John annuì. E Azuré si sentì come sgonfiare di tutto l'astio. Lo occhieggiò, cercando di mantenere l'aria sostenuta, di non apparire colpevole come si sentiva.

E adesso vieni qua e fatti dare un bacio. – le ordinò.

Lei sbuffò, raspò la sabbia con i piedi, scrollò le spalle. E infine, le braccia incrociate sul petto, gli andò incontro a grandi passi e si fermò giusto davanti a lui, in attesa del bacio.

Vai. – le disse dopo averle premuto bruscamente le labbra sui capelli.

Azuré ricambiò con un timido, velocissimo bacetto sulla guancia, e scappò via.


I sussurri cessarono nonappena varcò la soglia della portafinestra che dal soggiorno dava alla veranda. Non origliava mai, Azuré: non ne aveva bisogno. Ma adesso che sapeva che stavano parlando di lei – perché di che altro avrebbero potuto parlare? – le sarebbe tanto piaciuto sentire cose si dicevano.

Il babbo evitava di guardarla in modo diretto. Il papà la guardava in modo strano. Non sapeva quale dei due atteggiamenti la mettesse più a disagio. Si sedette su una delle poltroncine di vimini libere, e attese, le mani ficcate sotto le cosce, nei suoi pinocchietti color menta, con i capelli umidi della doccia raccolti in una pinza.

I suoi genitori si scambiarono un'occhiata inequivocabile.

Sherlock si accomodò meglio nella sua poltroncina: – Da dove vuoi che iniziamo? –

Azuré strinse le labbra e deglutì a vuoto.

Dal momento in cui ti sei accorto che eri incinto. – disse tutto d'un fiato.

Lui alzò le sopracciglia arricciò le labbra con aria ammirata. Come le succedeva ogni volta che lui faceva così, Azuré arrossì, ma si obbligò a non distogliere lo sguardo.

Aspetta, come hai fatto a capire...? –

Il papà ridacchiò e Azuré scosse la testa.

Ovviamente non poteva che essere lui. – disse con sicurezza – Tu mentre aspettavi Geal ti lamentavi continuamente e papà non faceva che rassicurarti come se sapesse cosa stavi passando. –

John arrossì un po' e si mosse impacciato sulla sedia. Azuré intercettò lo sguardo divertito di Sherlock e si morse il labbro nel tentativo di non ridere.

Bene, – fece lui battendo le mani – direi che possiamo iniziare. Era il marzo del... –

Aprile. – lo corresse John.

Marzo. Era marzo. –

A Baskerville siamo stati in marzo, ma tu non ti sei resto conto di niente fino ad aprile. –

A dire il vero, i primi sintomi... –

Azuré alzò le mani: – Ehi, stop! Time out! –

I due si zittirono.

Cominciamo dal momento in cui avete lasciato Baskerville. – suggerì – Tanto quel caso lo conosco a memoria. –

Loro si scambiarono un'occhiata e annuirono.

Sherlock tornò a guardarla: – E sia. Ma non ti lamentare se dovremo epurare il racconto di qualche... dettaglio. –

Azuré era abbastanza grande da intuire quali dettagli dovessero essere epurati, ma preferì diplomaticamente non immaginare niente. Per cui si limitò ad annuire e poi fece un bel respiro, cercando di prepararsi almeno un po' a ciò che le avrebbero raccontato.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Uno ***


Uno

~

Di sogni e sintomi e sospetti e altre cose che iniziano per “s”


La vita è ciò che succede

mentre noi pensiamo ad altro.

Oscar Wilde –



Ottobre 2010.


L'autonoleggio era giusto a due minuti dall'uscita della A41. John salutò con sollievo il cartello Aylesbury / Centre London W.

Fece manovra nel parcheggio e fermò l'auto. La chiave girò e il motore si spense con un ultimo, stanco brontolio. Anche a John parve di spegnersi. Il ritorno da Baskerville era stato un viaggio lungo, lunghissimo. Infinito. Ma di solito non era il contrario? Di solito non era l'andata a sembrare più lunga del ritorno?

Smontò dall'auto. E quasi si stupì che Sherlock facesse lo stesso: dopo quattro ore di totale immobilità e anomalo silenzio, era convinto che si fosse irrimediabilmente fuso con il sedile. Lo vide avviarsi fuori dal parcheggio. Batté le palpebre e distolse lo sguardo con uno sospiro, scrollò le spalle per sgranchire il collo indolenzito. Si mosse infine verso gli uffici per riportare le chiavi al gestore.

Quando uscì si accorse che il giorno aveva fatto definitivamente spazio alla sera. E che aveva freddo. Soffiando via un brivido tra i denti, tirò su la zip della giacca e andò a cercare Sherlock. Lo trovò appena fuori, sul marciapiede difronte. Un taxi era fermo, acceso, in attesa che salissero.

Il percorso fino a Baker Street, a quell'ora, di domenica, non dovette durare più di venti minuti. A John parve un'eternità. Quel silenzio, che li accompagnava da tutto il giorno e che all'altezza di Birmingham aveva iniziato a pesare, ormai pareva aver permeato ogni cosa, appiccicoso e anche un po' soffocante. Né la presenza del tassista né lo sfrigolio insistente della radio rimediavano al disagio.

Quando la vettura fermò al 221B, Sherlock aprì la portiera e uscì senza una parola. Ancora una volta, gli occhi stanchi di John seguirono la sua figura. Non aveva la forza di cercare di capire cosa lo tormentava. Salì le scale con il passo esausto di chi vede il proprio letto ancora lontano dieci miglia, nonostante sia appena dietro l'angolo.

È sempre così, dopotutto, no? Gli ultimi passi sono sempre quelli più difficili.

Quando trovò il conforto del materasso sotto il suo corpo stanco, John decise risolutamente di chiudere gli occhi e, assieme ad essi, chiudere anche il pensiero “che-diavolo-gli-prende-adesso?”. Almeno fino al mattino dopo. Che lui lo sapeva bene: ci voleva la forza del sonno ristoratore per affrontare uno Sherlock con la luna storta.


Dopo un'intera notte insonne, le idee iniziavano ad accatastarsi. Dove aveva messo i cerotti alla nicotina? Mhm... no, non aveva voglia di alzarsi. Non dopo aver trovato la perfetta posizione per pensare.

La sagoma di John apparve in un angolo del suo campo visivo.

'Giorno. –

Sherlock non rispose. Così come non rispose alla signora Hudson che gli chiedeva se voleva una tazza di tè. Non rispose nemmeno al cellulare: non era il momento, Lestrade avrebbe dovuto fare quel lavoro per il quale era mantenuto dai contribuenti, per una volta.

Non si mosse di lì, dunque. Non fece un bel niente Sherlock.

E facendo un bel niente, arrivò l'ora di pranzo. E passò anche. Il gorgoglio dello stomaco era facile da ignorare, tutto sommato.

A metà pomeriggio riuscì a giungere ad una conclusione e per averne la conferma avrebbe dovuto sentire John. Ma John era in ambulatorio, certo, era lunedì. Dunque doveva telefonargli. Il suo cellulare era nella tasca del cappotto. E il cappotto era appeso nell'ingresso. E davvero non era il caso di alzarsi dal divano. Chiamò la signora Hudson, ma lei non si fece viva. Doveva essere offesa perché lui non aveva risposta alla sua offerta di un tè.

Sbuffò. Che tedio la gente comune.

La sera lo colse nel bel mezzo di un ragionamento. Gli occhi s'abituarono al graduale cambiamento di luce, finché le ombre attorno a lui divennero sempre più lunghe e sfocate, e infine si ritrovò immerso nel buio del soggiorno.

Quando John accese la luce, il suo cervello s'era già premurato di preparare i nervi ottici a ricevere quell'assalto sensoriale, ma non servì a molto. Ferite, le pupille si strinsero sotto le palpebre. Una breve fitta s'irradiò dalle tempie, annunciandogli l'insorgenza di una seccante cefalea.

Ci fu un momento in cui John gli chiese se voleva mangiare. Era abbastanza fastidioso quando interrompeva il corso dei suoi pensieri, per cui non rispose. Dove era rimasto? Non riusciva proprio a concentrarsi con tutti quei rumori che faceva in cucina. Per non parlare del suo continuo brontolio. Fu allora che Sherlock riconsiderò quella conclusione e decise che non avrebbe chiesto a John quella conferma che gli serviva.

Per il momento.

Dopotutto, John non era pronto per una cosa del genere. Era palese dal modo in cui la sua ristretta mentalità girava attorno al problema senza metterlo a fuoco. Doveva averlo sicuramente catalogato come attività onirica influenzata dalle tossine con cui era venuto a contatto a Baskerville. Incubi, in poche parole. Bastava soffermarsi sul suo volto tirato e perplesso, tipico di quando faceva un brutto sogno e stava a rimuginarci su tutto il giorno.

Decisamente, John non era pronto.

Nonostante tutto quel gran bel riflettere, fu facile per Sherlock evitare di pensare che – forse – anche lui non era poi così pronto.


Da stoico e paziente uomo di mondo quale era, John sorvolò sull'ennesimo comportamento asociale del suo coinquilino e proseguì la serata per conto suo. Preparò la cena, sparecchiò, lavò i piatti. Decise poi di non fermarsi a guardare la televisione, perché quella presenza di mummia vigile sul divano lo metteva a disagio. Optò quindi per la propria camera e un buon libro. Sì, quella era una degna soluzione.

John aveva già abbastanza gatte da pelare per stare a preoccuparsi anche degli sbalzi umorali di Sherlock. Gli sarebbe passata, come sempre. Come sarebbe passata a lui quell'altra cosa che...

Ma quel comportamento non era da Sherlock – rifletteva mentre si lavava i denti. Insomma, non era normale, non dopo la brillante risoluzione di un caso, per lo meno. Mhm... come se lui ne sapesse qualcosa di ciò che era o non era “da Sherlock”. Andiamo, quanto lo conosceva? Certamente non quanto Sherlock conosceva lui. Gli aveva riassunto la vita al loro primo incontro: adesso, dopo più di un anno di convivenza, chissà quante informazioni aveva accumulato su di lui in quell'assurdo database che aveva al posto del cervello.

E tu? Tu che ne sai di lui?

La mano fermò il movimento e lo specchio del bagno gli rimandò una buffa espressione che aveva un che di patetico.

John finì di lavarsi e soffocò un grugnito infastidito nell'asciugamano. Fuori dal bagno, si sporse appena a sbirciare in soggiorno: era sempre lì. Sempre immobile. Sempre silenzioso. Sempre così eternamente lontano.


Sempre così eternamente vicino. Neppure si ne rendeva conto di quanto.

Interferiva con il fluire dei ragionamenti. E non poteva nemmeno tirare fuori la scusa dell'ignoranza: gliel'aveva detto così tante volte di non stargli addosso in quel modo.

Ah, se n'era andato in camera sua. Finalmente.

Sherlock riprese il filo dei pensieri. Lo dipanò lentamente, snodandolo con perizia e stendendolo ordinatamente nella sua testa. Ogni cosa trovò una collocazione e l'unico vuoto che restava era sempre lo stesso: quello che attendeva di essere riempito dalla conferma di John.

Tempo. Gli serviva tempo. Conoscendo John, non sarebbe bastato semplicemente chiederglielo. O forse sì? Be', la risposta dipende sempre da come si pone la domanda.


Spazio. Gli serviva spazio. Era tutto troppo soffocante, troppo caldo, troppo umido, troppo... troppo. Era insopportabile. Dio, avrebbe voluto che non finisse mai...

John si risvegliò di colpo, prima di raggiungere quel limite oltre il quale un sano maschio adulto non può che dire addio alla propria dignità e all'igiene dei propri boxer.

Si era addormentato dopo due pagine e aveva sognato. L'aveva sognato ancora. Si passò una mano sulla fronte sudata e sospirò di frustrazione.

Quello che più lo disgustava era il fatto di non riuscire a capire se era una cosa bella o brutta. Cioè, praticamente non gli faceva schifo il sogno in sé, ma ciò che ogni volta gli faceva provare. C'era un bel po' di materiale per la sua analista. Ma no, grazie, quella era l'ultima cosa che sarebbe andato a riferirle. Ci mancava solo che Mycroft venisse a saperlo, a sapere una cosa del genere... santo Iddio...

Imbarazzante” era il termine che gli veniva in mente. Ma non era sufficiente, proprio no.

Il primo di quei sogni l'aveva fatto a Baskerville. La seconda notte. S'era svegliato con un mezzo urlo strozzato in gola e il corpo in preda ai tremori. Aggrovigliato alle coperte, s'era rigirato convulsamente, con il sangue che gli pulsava violento ai due poli estremi della volontà maschile. Era convinto di trovarsi Sherlock seduto lì vicino, con lo sguardo di chi la sa lunga e un sorrisetto di consapevolezza stampato in faccia.

Ovviamente non andò così. Sherlock dormiva nel letto a fianco al suo e sembrava non essersi accorto minimamente che qualcuno, ad un passo da lui, aveva quasi infartato a causa di un sogno che lo coinvolgeva da vicino. Molto da vicino.

Le tossine. – si era detto e continuava a dirsi – Sei ancora sotto l'influenza di quelle dannate tossine.

Quanto era facile prendersi in giro.

John raccolse il libro e provò a distrarsi riprendendo la lettura. Dopo la quarta volta che rileggeva la stessa frase senza comprenderne il significato, abbandonò il libro sulle ginocchia e si strofinò la faccia. Aveva l'impressione che la tecnica “letto più buon libro” non sarebbe stata sufficiente, questa volta. In preda ad un'insonnia coi fiocchi, si decise a scendere di sotto per farsi un tè. Almeno gli avrebbe occupato una buona mezzora.

La mummia era dove l'aveva lasciata. Gli risparmiò l'accensione della luce, chiedendosi tuttavia se si sarebbe reso conto di qualcosa, e si limitò ad accendere quella della cucina. Conosceva a memoria il contenuto dei cassetti e sapeva localizzare ad occhi chiusi il bollitore e la latta del tè e le tazze pulite, ma era troppo stanco e quella cucina poteva riservare brutte sorprese dimenticate lì a putrefarsi in sostanze chimiche e lui di esperimenti ne aveva fin sopra i capelli.

Fornitosi della sua bella tazza di tè, passò di nuovo per il soggiorno. E una punta di preoccupazione iniziò a farsi strada in mezzo alle sue personali paranoie, andando a colpire il tasto più apprensivo del medico che era in lui.

Da quanto stava lì? Gli sarebbe venuta una cancrena, le piaghe da decubito... Ma aveva mangiato? Aveva dormito? Aveva fatto la pipì – era pericoloso anche quello, eh!

Sto bene, John. –

John si scottò le dita con il tè che il suo sobbalzo aveva fatto traboccare dalla tazza. Mugolò per il dolore e si succhiò le parti offese.

Stai... – si schiarì la voce – stai lavorando ad un nuovo caso? –

Certo che no. –

Allora cosa... –

Sto cercando di pensare. E la tua presenza ansiogena mi distrae. –

Era difficile mantenere della sincera empatia e preoccupazione nei confronti di un essere tanto impermeabile ai rapporti umani come Sherlock Holmes. John virò i suoi sentimenti verso la pietà – pietà per una persona così arida e irriconoscente, che non riusciva nemmeno a fare finta di apprezzare gli sforzi del suo unico amico – e decise di tornasene in camera sua. Almeno il libro non lo trattava male. E nemmeno il letto. E poi adesso aveva anche il suo tè. Loro sì che erano sulla sua stessa lunghezza d'onda.

Per quanto possa apparirti assurdo, apprezzo che ti preoccupi per me, John. –

Immobilizzato sulla rampa delle scale, John s'imbronciò subitaneamente. Quanto era fastidioso quando capiva al volo cosa gli passava per la testa e glielo sbatteva in faccia in quel modo! Non aveva il minimo pudore.

Come no. – borbottò tra sé.

Gli ultimi scalini subirono l'assalto dei suoi passi appesantiti dal rancore infantile.


Alle quattro del mattino del giorno dopo, Sherlock batté le palpebre nel buio e sospirò profondamente. Aveva riflettuto abbastanza. Era il momento di mettere da parte quella faccenda e dedicarsi a qualcosa di più proficuo.

Nel mettersi a sedere, la schiena scricchiolò pericolosamente e la vista gli si offuscò. Si aggrappò saldamente alla seduta del divano, aspettando con impazienza che la testa smettesse di girargli. Calcolò allora che non mangiava da circa trentasei ore. Ebbene, avrebbe dovuto obbligarsi a fare un pasto.

Seccante. Era decisamente tedioso dover essere schiavo della propria biologia.

Sherlock riuscì infine a schiodarsi da quel divano e andò in cucina per cercare qualcosa – qualsiasi cosa – potesse sostentarlo. Aprì il frigo e, senza nemmeno guardare, arraffò la prima cosa che trovò e la divorò nel tragitto dal soggiorno al bagno. Suo malgrado, doveva fare pipì.

Oh, e aveva bisogno di una doccia. E anche di vestiti puliti.

Noioso, noioso, noioso.

Si bloccò sul pianerottolo. Il suo cellulare: non lo controllava da più di un giorno. Andò di sotto e lo sfilò dalla tasca del cappotto. Controllò le chiamate mentre tornava di sopra. Sette da Lestrade, due da Mycroft. Cinque messaggi.

Odio quest'espressione, ma stiamo brancolando nel buio. Rispondi appena puoi. – GL

D'accordo, rispondi quando ti gira... ma rispondi! – GL

Non ti mando affanculo solo perché mi servi. Comunque è implicito. – GL

Un sorriso sì aprì gradualmente sul volto di Sherlock mentre cancellava i minacciosissimi e terrificanti richiami dell'ispettore.

Mi chiedo quale sia l'utilità di possedere un cellulare se poi non ti degni di

Cancella”. E adesso che andasse a piangere da mamma perché suo fratello gli faceva i dispetti.

Vai a dormire. – JW

Sherlock rallentò il passo fino a fermarsi, il cellulare in una mano e un non meglio identificato pezzo di cibo nell'altra. Alzò gli occhi dallo schermo e guardò il vuoto davanti a sé per un momento. Voltò infine lo sguardo verso la rampa di scale che portava alla camera di John, poi tornò a guardare il cellulare.

Quel messaggio dimenticò di cancellarlo.


Buongiorno. –

L'aveva salutato? John ricambiò a stento con un grugnito.

Non aveva ancora fatto colazione. In quel momento, ciò di cui era consapevole si limitava al fatto che 1) aveva fame, 2) il suo nome era John Hamish Watson – e non era del tutto sicuro sul secondo nome.

Fatto sogni interessanti? –

A parte quello che mi perseguita da tre notti, dove tu sei una donna e non mi sembra vero di poterti saltare addosso senza sentirmi gay? No, assolutamente nessuno.

Non l'aveva detto a voce alta, vero? Nel dubbio, John trovò adeguata come reazione strozzarsi con il proprio caffè. Tossì, deglutì, tossì ancora sotto le manate che Sherlock gli stava dando sulla schiena.

Nel breve momento in cui intercettò la sua espressione, ebbe una mezza sincope. Eccolo là. Esattamente quello che temeva. Lo sguardo di chi la sa lunga e il sorrisetto di consapevolezza stampato in faccia: preciso sputato al suo terrore più nero.

Durò meno di un battito di ciglia, poi Sherlock scivolò fuori dalla cucina.

Se mi cerchi sono da Lestrade. Buona giornata, John. –

La fronte solcata da numerose rughe d'ansia, John batté le palpebre ed esalò un sospiro che trasudava disperazione. Quando si ricordò di rispondere al suo saluto, venne raggiunto dal rumore della porta che si chiudeva.


Sherlock alzò il bavero del cappotto e mosse un braccio a chiamare un taxi. Il vuoto era stato colmato e il contenuto corrispondeva esattamente ai suoi sospetti.

Dunque, adesso cosa avresti intenzione di fare?

La sua coscienza possedeva la bizzarra capacità di mutare voce a seconda della situazione: in quel momento aveva fatto la riprovevole scelta di assumere quella di Mycroft.

Non lo so cosa devo fare, va bene? Sono un genio, non un dio.

Sherlock montò sul taxi e diede come direzione Scotland Yard.

Non era una situazione di facile risoluzione – rifletteva mentre le vie di Londra gli scorrevano davanti agli occhi. Non lo era mai, quando lui ne era direttamente coinvolto. Ma a Sherlock piacevano i casi complessi.

Sfortunatamente, in quello specifico caso, vi era un unico punto a suo sfavore. Di lì a poco, tutte le sue geniali facoltà intellettive sarebbero state assorbite dal più imponente esperimento della sua vita. Un esperimento che, a sua totale insaputa, era già in atto.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Due ***


Due

~

Di come una mente aperta non sempre sia sufficiente


La vita è proprio strana.

Ti mette in mano carte

che puoi leggere solo dopo averle giocate

o solo dopo che altri le giocano per te.

Christiaan Barnard –



Ventiquattro sterline e sei penny. –

Sherlock pagò e afferrò il sacchetto di carta che la commessa gli porgeva. Ignorando la sua espressione falsamente disinteressata, salutò e uscì a grandi falcate dalla farmacia.

Che sollievo. Il sacchetto stretto tra le dita gelide, respirò a pieni polmoni l'aria fredda mentre faceva ritorno a casa. Meglio lo smog londinese che il nauseabondo tanfo di medicinali che impregnava l'aria là dentro. Aveva seriamente rischiato di vomitare sul bancone.

In quei frenetici giorni, un'ipotesi inaspettata e altrimenti del tutto implausibile s'era gradualmente tramutata in idea concreta, se non in certezza. Sherlock aveva lasciato che si facesse strada nella propria coscienza come un tarlo lento e paziente, rinforzato ogni giorno dal nutrimento che egli stesso gli dava. Nutrimento costituito da un preciso corollario di sintomi, tutti inequivocabilmente ricollegabili ad un'unica, lampante causa.

Dopo tre settimane, comprese che una risposta – non certo la risposta definitiva, ma per lo meno un'abbozzo di vaga risposta – poteva averla soltanto in un modo.

Si augurò solo di poter evitare le domande di John. Fortunatamente, in quei giorni era impegnato con una nuova fiamma – Amanda la logopedista. Per cui con ogni probabilità non si sarebbe accorto di niente. Dopotutto, non si era accorto di niente fino ad allora, perché mai avrebbe dovuto adesso?

Mentre rimetteva piede al 221B e si chiudeva la porta alle spalle, Sherlock lottò per un momento con l'illogico fastidio che quell'ultima constatazione gli dava. Ma fu solo un momento, per l'appunto. Lui non aveva bisogno di John. Non aveva bisogno di nessuno.


John era un medico. E prima ancora era andato al college. Il caratteristico rumore che fa una persona quando da di stomaco non era difficile da identificare, per lui.

Stirò le labbra e si accigliò per il disappunto quando, dalla soglia del bagno, vide Sherlock piegato sulla tazza. Stava cacciando fuori anche l'anima. Con tutte le volte che aveva preteso il suo aiuto per delle colossali idiozie, proprio adesso che aveva – letteralmente – bisogno di una mano, non s'era degnato di chiamarlo.

Cosa ci fai qui? – rantolò tra un conato e l'altro quando sentì la sua mano reggergli la fronte.

John gli passò un braccio sotto l'ascella a sostenerlo: – Cambio di programma. –

Amanda gli aveva dato buca. Sherlock alzò lo sguardo su di lui e, con suo sommo fastidio, John scoprì che anche così, sporco di vomito e pallido come uno straccio e barcollante, riusciva a dargli ad intendere che poteva dedurre anche il numero di scarpe dell'istruttore di ginnastica per il quale Amanda l'aveva scaricato.

John distolse lo sguardo e continuò a sostenerlo mentre lui finiva di rigettare. Lo aiutò poi a rimettersi in piedi, visto che le gambe non lo reggevano granché. Abbassò la tavoletta e ce lo fece sedere sopra. Sherlock si lasciò andare contro lo parete, esausto. A John non piaceva per niente quel pallore su cui spiccavano le occhiaie violacee. Bagnò un asciugamano con dell'acqua fredda e glielo passò sulla faccia.

Non c'è... bisogno. – biasciò con ben poca efficacia.

John grugnì un secco “Mhm”. Ma ringraziare, per una volta, era troppo faticoso? “Grazie, John, perché nonostante io dimostri puntualmente di essere un coglione, tu ci sei sempre per me”.

Con un sospiro frustrato, gettò a terra l'asciugamano sporco. E quello cos'era? John s'irrigidì e batté le ciglia, perplesso. Lo raccolse e, sì, era definitivamente un test di gravidanza.

E questo a chi l'hai rubato? – fece rigirandoselo tra le dita.

Sherlock si aggrappò al lavandino, facendo leva per alzarsi. Aprì rubinetto e tuffò la testa sotto il getto freddo.

È mio. – gorgogliò dopo aver sputato una boccata d'acqua.

John sbuffò una risata, il sopracciglio scetticamente inarcato. Chissà per quale assurdo esperimento gli serviva? Niente di serio, quello era certo, visto che aveva trovato lo stick abbandonato sul pavimento.

È sbagliato. – constatò un po' scioccamente, scotendo la testa davanti a quell'improbabile doppia lineetta rossa.

Aprì il cestino per buttarvelo dentro. E tirò indietro il capo per la sorpresa. Ma quanti ne aveva fatti?

Tutti sbagliati. – si chinò a frugarci in mezzo – Che cos'è, una ricerca sulla fallibilità dei test di gravidanza? –

John. –

...nove, dieci, undici dodici. Sì, aveva contato bene: erano dodici test.

Dove hai trovato l'urina per fare dodici test?! –

John. –

Gesù... spero che tu non sia andato nella farmacia qua di fronte. – considerò richiudendo il cestino e alzandosi, gli occhi fissi sgranati sul coperchio chiuso – La ragazza alla cassa è carina e pensavo di chiederle di uscire, ma... –

John. –

Cosa? – sospirò alzando lo sguardo verso lo specchio.

Sherlock lo fissava serio attraverso il riflesso.

Non sono sbagliati. –

La testa di John si abbassò lentamente, le sue sopracciglia si inarcarono fin quasi all'attaccatura dei capelli. Non aveva la minima idea di cosa avesse preso, ma doveva essere qualcosa di forte. Una serie di impronunciabili nomi e formule riemersero dall'angolo in cui li aveva accatastati da tempo e che era sicuro di aver dimenticato nonappena dato l'esame di farmacologia. Comunque, se Sherlock era arrivato a questo punto, doveva intervenire e doveva farlo subito.

D'accordo. – disse con calma.

Ignorò la sua espressione d'esasperazione e lo prese per un braccio, portandolo con ferma gentilezza fuori dal bagno.

Sei disidratato. – sentenziò – Devi bere. Ma prima mangia qualcosa di secco, per la nausea. –

John, ti ricordi Baskerville? – gli chiese.

Lo condusse in soggiorno e lo fece sedere su una poltrona. Andò quindi a cercare qualcosa da fargli mangiare.

Certo. – rispose dalla cucina.

Ricordi cosa ha detto la dottoressa Stapleton? – lo sentì dire.

Non ricordo nemmeno che faccia ha la dottoressa Stapleton. – ribatté seccato.

John frugava ovunque: possibile che in quella cucina ci fosse qualsiasi cosa, in particolare roba di origine illegale, tranne del cibo?

– “Qui facciamo un po' di tutto. Se una cosa la si può pensare, c'è qualcuno che la sta facendo”. – recitò Sherlock.

E finalmente John trovò qualcosa: del pane. Poteva andare. Preparò anche un bicchiere d'acqua.

È questo che ha detto. – concluse Sherlock, guardandolo dalla poltrona mentre lui tornava dalla cucina.

Davvero? – fece porgendogli il pane, scrutando con occhio clinico il suo aspetto – Ecco, mangia. –

Lui fece una smorfia disgustata e allontanò la sua mano, mugugnando un infantile “Non lo voglio”.

John alzò gli occhi al cielo e con infinita pazienza insisté: – Vomiterai ancora... mangialo. –

Sherlock gli prense di mano il pane e lo addentò con poca convinzione, la smorfia ora tramutata in broncio.

Evidentemente stava lavorando ad un progetto per rendere fattibile la gravidanza maschile e in qualche modo io devo essere venuto a contatto con gli intrugli che stava sperimentando sulle sue cavie. –

Ma di cosa stava parlando? Ah, già. Quella dottoressa di Baskerville. Sforzandosi di non apparire troppo derisorio – dopotutto Sherlock era malato, o comunque stava male, insomma era un suo paziente – John annuì.

Evidentemente. –

Oh, al diavolo!

Insomma, che altro può essere? Hai dato di stomaco un paio di volte... è l'ovvio sintomo di una gravidanza ai primi stadi. Voglio dire, perché mai dovrebbe trattarsi di un noioso virus intestinale o di una banale intossicazione alimentare? Dopotutto, tu sei Sherlock Holmes. Anche il comune atto di vomitare, per te, deve avere cause uniche e misteriose. –

Notevole prova di sarcasmo, John. – Sherlock mandò giù il boccone che stava masticando e gli scoccò un'occhiata di sufficienza – Hai finito? Se permetti, adesso t'illustrerei la mia situazione. –

Trattenendo una risatina, John si accomodò sulla poltrona davanti a lui, pronto a godersi lo spettacolo.

Non ho dato di stomaco “un paio di volte”, sono tre settimane che sto piegato sulla tazza. Tre, John. Un po' troppe per un'intossicazione, non credi? E troppo poche per un virus. – gli spiegò concitato.

John si limitò a fare un vago “Mhm” e spinse con una mano il bicchiere verso di lui. Sherlock lo buttò giù con un unico sorso.

E ho la nausea ogni mattina. – riprese immediatamente – E nonostante questo, ho una fame che divorerei con gusto persino il polpettone della mensa del St Barth. –

John assunse un'espressione seria e si sporse verso di lui: – Quello del giovedì? Con lo sformato di patate come contorno? –

Quello. – annuì gravemente.

Be', questo è grave. – John si umettò le labbra e saettò gli occhi qua e là, fingendosi assai preoccupato – Sono decisamente voglie. E probabilmente aspetti due gemelli. –

Il volto di Sherlock si pietrificò in una maschera di profonda offesa.

John, per l'amor del cielo, fai uno sforzo e apri quella tua piatta mente da soldatino! Eliminando l'impossibile... –

Ah, no, Sherlock! – alzò le mani – Mi spiace, stavolta non attacca. Ad aprire troppo la mente si rischia di far cascare fuori il cervello.

Vuoi per lo meno provare ad essere serio, per un momento? – ribatté petulante – Che mi dici della costante sonnolenza? –

John si avvicinò e gli prese il polso.

Non sono mai stato così serio. – borbottò, gli occhi fissi all'orologio per contare i battiti. Aveva una leggera aritmia.

La sonnolenza potrebbe forse avere a che fare con il fatto che, invece delle otto ore canoniche, ne dormi, di norma, a malapena tre? – suggerì ironico, prendendogli il volto tra le mani e abbassando le palpebre inferiori con i pollici, controllando l'irrorazione del sangue – Dobbiamo chiamare Baskerville, chiedere se quelle tossine hanno effetti collaterali a lungo termine. –

Chiamare Baskerville! – Sherlock lo afferrò per le mani, allontanandole, e si alzò con aria baldanzosa.

Mosse un dito contro di lui: – Questa è la prima cosa intelligente che dici, John. –

E scappò in camera sua, ostentando un'energia improvvisa nonché ingiustificata.

Lo prenderò come un complimento. – sbuffò correndogli dietro – Cosa stai facendo? –

Sherlock non si era premurato di chiudere la porta e si stava cambiando dietro l'anta aperta dell'armadio.

Mi vesto. –

Lo vedo. – John distolse lo sguardo, inspiegabilmente imbarazzato.

Insomma, era un medico, quanta gente nuda aveva visto? Per non parlare delle docce comunitarie ai tempi dell'esercito.

Per andare dove? – decise di chiedergli mentre riemergeva finalmente vestito – Sherlock, sei malato. Dovresti... –

Dovrei andare a farmi visitare nel più avanzato centro di ricerca del Regno Unito. – concluse garrulo, schizzando fuori dalla stanza come una trottola impazzita, facendolo arrancare dietro di lui – Era questo che volevi suggerire, giusto? –

Giusto. Precisamente. – esalò John, scrollando stancamente le spalle e seguendolo di sotto.

Afferrò il cappotto e se lo infilò con gesti secchi.

Guido io. –


Eccoti qua, Jacqui. – mormorò Sherlock, lo sguardo illuminato.

Il profilo completo della dottoressa su Linkedin. Facile.

Aspetta, – obiettò John – e se informa i suoi capi? –

Sherlock roteò gli occhi verso di lui mentre il pollice componeva veloce il numero di cellulare.

Rischiando di perdere il lavoro ed essere radiata dall'albo per aver causato un incidente di tale portata e la conseguente catastrofica fuga di notizie? Lo escludo. –

Mhm. Già. –

Sherlock selezionò il vivavoce e agganciò il cellulare in un vano del cruscotto.

Fai parlare me. – avvertì John, che rispose con un “È tutta tua”.

Tuu-Tuu squillò per un po'.

Pronto? –

Dottoressa Stapleton. – si annunciò cordiale.

Signor Holmes? È un piacere sentirla. –

Sherlock alzò le sopracciglia in un comico ammiccamento. Dubitava fortemente che, una volta informata su quando stava succedendo, il suo entusiasmo si sarebbe mantenuto inalterato.

Cosa posso fare per lei? –

Per caso negli ultimi tempi le è capitato di lavorare ad un progetto sulla gravidanza maschile? –

Silenzio.

Dottoressa? – la richiamò, senza riuscire a reprimere una nota comica nella voce – Jacqui? –

Usa sempre tutta questa diplomazia?

Le labbra di Sherlock si piegarono in un sorrisino: – Me ne faccio un vanto. –

John volse la testa al finestrino e borbottò qualcosa a mezzabocca, dimenandosi sul sedile. La comunione di sentimenti che aveva con la dottoressa gli avrebbe certamente creato dei problemi, considerò adocchiandolo.

Non posso parlarne al telefono. –

Comprensibile. Per questo sto venendo a Baskerville. –

Aspetti... adesso? –

Se Maometto non va alla montagna... –

Fra quanto sarà qui? –

La aspetto per pranzo, dottoressa. – Sherlock si sporse dal sedile con aria soddisfatta e prese il cellulare – A presto. –

Lei ricambiò il saluto – gli parve di sentire una nota di disperazione nella voce – e chiuse la chiamata.

Non riuscì – né aveva la minima voglia – di trattenersi, per cui lo disse e basta, e anche con somma soddisfazione.

Come puoi constare, John... –

Sì, sì. – lo interruppe annuendo con aria contrariata, lo sguardo accigliato fisso sulla strada che si dipanava dritta davanti a loro – Sta certamente sperimentando... roba sulla... gravidanza... –

Sherlock lo guardò divertito: – Cosa c'è? –

Mi fa strano, va bene? – ammise John, levando una mano dal volante.

Come se ci fosse bisogno enfatizzare il disagio che gli provoca tutto questo. Era abbastanza buffo. E tenero, sì, Sherlock si concesse di pensare che era anche tenero.

Mandiamo uomini sulla Luna, – obiettò tranquillamente, giusto per studiare la sua reazione – creiamo energia scindendo l'atomo... –

È diverso. – disse fermamente.

Hai ragione. Gli animali non hanno lo shuttle, né le testate atomiche. L'intersessualità per lo meno è presente in alcune specie. – gli fece notare.

– “Alcune specie”, hai detto bene. – ribatté lui, le mani ora strette entrambe convulsamente sul volante – In quella umana, no. –

Non fare il borghese reazionario, adesso. – lo rimproverò.

Io non faccio...! – John si morse la lingua – Ti ricordo che mia sorella è lesbica e si è pure sposata con una donna. Sono l'ultima persona al mondo che... –

Era davvero troppo, troppo tenero. “Stupidamente tenero” era una definizione che rendeva abbastanza bene l'idea. Quasi ne soffriva, Sherlock, di causare tutta quell'agitazione nel suo povero, sentimentale John.

John, non c'è bisogno che ti giustifichi. È del tutto normale. – lo rassicurò – Ognuno di noi ha dei limiti e sarebbe impensabile accettare di buon grado qualcosa che nemmeno ci siamo mai immaginati potesse accadere. –

John gli lanciò un'occhiata in tralice, con un'espressione che sapeva di confusione, e mosse appena le labbra. Ma dovette ripensarci, perché non disse niente. Salvo poi ruotare appena la testa, come a rivalutare l'idea.

Non è che non l'ho mai immaginato. – se ne uscì.

Parlava lentamente, come se avesse paura di quello che lui stesso stava dicendo, quasi lo stesse realizzando in quell'esatto momento.

È solo... insomma, era una cosa che faceva parte di... un lontano futuro utopico. Sai, assieme ai viaggi a curvatura e alle spade laser e agli androidi delle colonie extramondo. –

Correzione: niente “come se” o “quasi”. Quell'aria adorabilmente confusa gli confermava che John stava tentando di aprire la sua piccola mente e, nonostante tutto, Sherlock ebbe la capacità di apprezzare il suo sforzo.

Tre citazioni in un colpo solo, John. Sei proprio un nerd. –

John gli rivolse uno sguardo compiaciuto e annuì.

Grazie. –


Neanche due minuti che erano entrati nella zona senza campo. Le casse sputavano degli sfrigolii senza senso e le dita di John presero a tamburellare nervosamente sul volante. Spostò una mano a regolare la radio, ma niente. La spense. E non avevano nemmeno portato dei CD, come poté constatare frugando nel cassetto del cruscotto.

Non ci voleva: mancava ancora più di un'ora a Baskerville ed era stanco e impensierito. Aveva bisogno di distrarsi.

Sherlock. –

Un grugnito.

Stai dormendo? –

Un altro grugnito, un po' più forte del primo.

Si stiracchiò sul sedile: – Adesso non più. –

Scusa. – borbottò.

Dimmi che non mi hai svegliato per poi chiedermi scusa perché mi hai svegliato. –

John sospirò, deglutì e sospirò ancora. Aveva come la sensazione di aver fatto una gran cazzata.

Stavo pensando... –

Mhm? –

Se fosse... – si schiarì la voce – Dando per assunto che sia vero... –

È vero. –

La sensazione di aver fatto una cazzata si acuì notevolmente. Iniziava a mancargli lo sfrigolio della radio che non prendeva.

Teniamoci il dubbio finché la Stapleton non ci da qualche conferma, vuoi? – suggerì cautamente, più rivolto a sé stesso che a lui.

Come preferisci. – sospirò Sherlock – “Se fosse vero che sono incinto”...? –

Se fosse vero... – John soffiò via l'aria e si concentrò sull'interessantissima linea bianca che divideva la statale in due corsie – Chi è... uhm... il fortunato papà? –

Io. –

John alzò gli occhi al cielo.

Hai capito cosa intendo. – disse irritato.

Ma certo. – Sherlock lo guardò scotendo la testa comicamente – È troppo spassoso prenderti in giro, John. –

Oh! Ah, ah. Divertente. – replicò offeso.

E notando che quell'idiota non si decideva a dargli una risposta, incalzò: – Allora? –

Lì a fianco, poté sentirlo distintamente, John. Sherlock prese un profondo respiro. E quando rilasciò l'aria, fu consapevole del suo sguardo addosso. C'era una tensione tutta nuova, adesso, dentro quell'auto.

John si decise dopo un'eternità a voltarsi casualmente a guardarlo, con l'espressione ingenua di chi proprio non comprendere questa reiterata assenza di risposte. “Allora” avrebbe dovuto comunicare il suo sguardo. Ma questa comunicazione non verbale venne stroncata dall'espressione di Sherlock.

Venne stroncato anche altro. Tipo il fiato di John e la sua capacità di mettere a fuoco la strada davanti a sé. Succede, quando il tuo cervello viene assalito da immagini e sensazioni che forse non sono solo gli echi di strani sogni influenzati da tossine e quindi... e quindi...

E quindi John inchiodò. Cosa che non parve minimamente scalfire Sherlock.

Non sei divertente. – annaspò, le mani aggrappate al volante e il respiro mozzo.

Io non ho detto niente. –

Eh, no! L'aria innocente non attaccava. Non con lui, non in quel momento, non su quel discorso.

Oh, sì che hai detto qualcosa! – John gli puntò un dito accusatore alla fronte – L'hai fatto con le sopracciglia. –

Davvero? E che cosa ti hanno detto? –

John ingranò la marcia. O almeno ci provò, perché non fece che grattare. Con una smorfia in volto, insisté e infine la ebbe vinta sul cambio. Ripartì.

John, che cosa ti hanno detto le mie sopracciglia? –

Se gli avesse dato un pugno sarebbe stato poco ortodosso? Va bene che forse era incinto, ma quando è troppo è troppo!

Io non c'entro in questa faccenda. – dichiarò, sentendosi immediatamente ridicolo e patetico e un altra dozzina di aggettivi umilianti di questo genere.

Oh! – Sherlock rise – La storia più vecchia del mondo. –

Lo vide imbronciarsi e portarsi una mano al ventre: – Piccolo, il papà non ci vuole... dovrò mantenerti da solo. –

John strinse gli occhi, la bocca aperta per lo sdegno.

La finisci? – sibilò.

Il volto di Sherlock si aprì in un sorriso diabolico.

Mi sto divertendo un mondo! – dichiarò inarcando le sopracciglia.

Io no. – ringhiò John, sull'orlo di una crisi di nervi – Perché non vuoi dirmi... –

Perché lo sai già. –

Ecco, ecco cos'era che lo faceva uscire di testa di lui. Quella sua allucinante capacità di passare da uno stato emotivo all'altro, tenendoti costantemente sulla corda. Quella frase lapidaria, lanciata così, dopo quelle ultime battute, era stata una doccia fredda per John.

Lo sai già, John. – ribadì con il tono di chi, seccato, si trova a dover spiegare per l'ennesima volta un concetto lapalissiano ad un alunno particolarmente tordo – Ma continui scioccamente a sperare che tutto questo sia solo un'allucinazione, che da un momento all'altro ti risveglierai nel tuo letto e con sollievo potrai dirti “Ah, meno male, erano solo gli effetti collaterali delle progetto HOUND”. –

Analisi perfetta, doveva ammetterlo. Ma la povera, bistrattata coscienza del dottor John Hamish Waston, non si sentiva ancora pronta per questo.

Cosa... che vuoi dire? Io non so un bel niente! –

Era patetico nel suo pigolare quelle insignificanti pseudo-difese, e lo sapeva. Si sentiva addosso tutta la riprovazione di Sherlock, ingigantita nondimeno dalla propria. Ma che altro poteva fare?

La seconda notte a Baskerville. –

BOOM!

La bomba deflagrò nel petto di John, facendo a pezzetti ogni sua più piccola certezza.

Lui sapeva, aveva sempre saputo, ricordava ogni cosa. Sherlock ricordava ogni cosa. Ogni cosa. Era tutto così maledettamente confuso. Frammenti sconnessi di quella notte gli aggredirono le sinapsi, contribuendo a peggiorare la situazione, mescolando, senza soluzione di continuità, vergogna e piacere e incredulità e... e perché? Perché? Perché?! Si poteva sapere solo perché lui lo ricordava come un sogno?!

Allora non... non era...? – John batté freneticamente le palpebre nello sforzo di far uscire le parole – Credevo che fosse un sogno. –

Un sogno? –

La voce di Sherlock era chiara e ferma.

Sì, Sherlock, un sogno. – già era difficile articolare delle parole di senso compiuto, ci mancava solo che dovesse ripetersi – Perdonami se la mia ristretta mente da borghese reazionario non riesce ad accettare senza traumi l'idea che noi... –

Interessante che tu abbia scelto di definirlo proprio “sogno”. –

Scusa? –

John si azzardò a guardarlo. Pessima, pessima mossa.

Le parole sono importanti, John. – disse, gli occhi fissi nei suoi a sondare profondità che nemmeno John era consapevole di avere – Non lo capirai mai troppo presto. –

John distolse lo sguardo, tentò di chiudersi.

Non capisco a cosa ti riferisci. –

Ed era scioccamente sincero nel suo spudorato mentire.

Carino. Un cliché più elegante e meno abusato di “Non so di cosa parli”. –

La radio aveva ripreso campo. Non parlarono più per il resto del viaggio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tre ***


Tre

~

Di quanto costano le parole


Bisogna essere in due perché la verità nasca:

uno per dirla e l'altro per ascoltarla.

Henry David Thoreau –



Fu con il sollievo del condannato a morte che riceve l'assoluzione che John aprì la portiera e uscì da quell'abitacolo così simile ad una camera a gas. Lasciò deliberatamente indietro Sherlock ed entrò nell'albergo.

Baskerville in novembre era, se possibile, ancora più amena che in ottobre. Amena e fredda. Amena, fredda e con qualche turista in meno, ma comunque sempre troppi per i gusti di John. 'Ché non sarebbe bastata la risoluzione del caso da parte di un certo consulente detective di Londra a stroncare da un giorno all'altro un mito che da quarant'anni si nutriva del piacere del mistero. Purtroppo per John, tuttavia, pochi turisti significava anche una maggiore virulenza nel ficcare il naso da parte degli avventori dell'albergo.

Oh, eravamo sicuri che sareste tornati! – esclamò il più giovane.

John mosse la mascella ed emise un sospiro che esternava tutta la sua poca pazienza.

Billy! Billy, ti ricordi la coppia di Londra? Sono tornati! –

Billy sporse la testa da retrobottega.

Be', tornano sempre, no? – fece con aria d'intesa.

E fece l'occhiolino. L'occhiolino. John si passò una mano sulla fronte.

Non per vantarci, ma i nostri letti non se li scorda nessuno! –

D'accordo. Ne aveva avuto abbastanza.

Niente camera per questa volta. Avete un tavolo? Siamo in tre. –

In tre? –

Cosa aveva da guardare? Avevano un'ospite, sì. La dottoressa. Un'adulta. Non erano in tre nel senso che...

Oh, Dio.

John schioccò la lingua: – Sì, in tre. –

Era davvero arrivato ad un punto critico, non c'era che dire. Complimenti.

Billy? – chiamò di nuovo il ragazzo.

È un po' tardi per il pranzo, – li informò la voce di Billy – vedo cosa ci è rimasto in cucina. –

C'è un bagno qui? Ho bisogno di un bagno. –

John si voltò sorpreso verso Sherlock. Erano stati lì appena un mese prima e non ricordava nemmeno dove fosse il bagno?

Il ragazzo indicò: – In fondo a destra. –

Pallido in volto, Sherlock si lanciò letteralmente in quella direzione.

Hai bisogno di... –

Resta qui. Aspetta la Stapleton. –

John aprì la bocca, ma pensò bene di richiuderla senza proferire parola. Non aveva la minima voglia di dare spettacolo.


Cosa avesse vomitato era un mistero, dato che non mangiava dalla sera prima. Ma non si comanda alle nausee.

Sherlock tirò lo sciacquone andò a lavarsi. Avrebbe solo voluto strapparsi lo stomaco e vivere d'aria per il resto della sua vita. Non era abituato a tutti questi fastidi: dopo una vita di autocontrollo, riusciva ormai senza difficoltà a piegare le esigenze del proprio corpo alla sua volontà.

Stai bene? –

Sherlock lanciò un'occhiata al John riflesso sullo specchio che s'intravedeva nello spiraglio aperto della porta.

La tua abilità nel tirare fuori domande retoriche mi stupisce ogni volta, John. –

Lui non rispose, solo scosse appena la testa e richiuse la porta, svanendo dal riflesso. Sherlock sentì un subitaneo fastidio. Non voleva che se ne andasse. Ma non voleva nemmeno che restasse lì a compatirlo con l'aria del medico che “ha fatto tutto il possibile”. Cos'era meglio, un John fastidiosamente presente o un John tristemente assente? In verità Sherlock non aveva la minima idea di quello che voleva.

Quando uscì dal bagno, l'odore di cibo gli aggredì immediatamente i sensi, facendogli salire un'altra ondata di nausea. Deglutì il sapore rancido che gli risaliva l'esofago e s'impose di farsela passare. John era fuori e riconobbe senza difficoltà il taglio a caschetto della donna con cui stava parlando. Li raggiunse.

Dottoressa. –

Signor Holmes. –

Per lo meno evitava di nascondere l'aria tirata. Anzi, Sherlock notò come indugiava a lungo sul suo aspetto, catalogando a prima vista lo stato di salute. John certamente non le aveva ancora detto niente, ma poteva immaginare come dal momento della telefonata avesse rimuginato con ansia crescente sulle sue parole.

Ah... il tavolo. –

Sherlock e la dottoressa si voltarono verso John. Lui si mosse verso l'albergo e loro, dopo un'ultima occhiata, lo seguirono.

Lui lo sa? –

Sherlock strinse le labbra.

Sta attraversando la fase di rifiuto. – disse ironico.

E lei? – la Stapleton lo guardò francamente – A che fase è? –

Sherlock sapeva ammettere, per lo meno con sé stesso, quando non era in grado di rispondere. Per cui, non rispose.


La dottoressa non aveva fame e comunque aveva già mangiato qualcosa alla mensa del laboratorio. Sherlock, ovviamente non era in grado di trovarsi qualcosa sotto il naso senza correre a rigettare. John finì con l'ordinare solo per sé.

Dunque... vediamo di capire cosa è successo. –

Non c'è niente da capire. – intervenne Sherlock – È tutto perfettamente chiaro. –

La Stapleton alzò le sopracciglia e cercò aiuto con la sguardo verso John. Lui si limitò a stringersi nelle spalle e a continuare a masticare. Trovava decisamente confortante, in quel preciso momento, poter impegnare la bocca in qualcosa di utile che gli donasse la facoltà di non parlare.

Bene. – la dottoressa si schiarì la voce e si mosse sulla sedia, intrecciando le dita sul tavolo – Partiamo dal principio. Come ha capito il suo stato? –

Sherlock la fissò per un momento in silenzio. E John si strozzò con il proprio boccone, perché aveva capito che stava per partire con una delle sue analisi deduttive.

Appena dopo aver fatto la sua conoscenza, John ed io abbiamo avuto una discussione riguardo i miei modi d'interazione sociale. A suo parere, la mia totale mancanza di empatia, unita all'ostentazione di sicurezza, minavano in partenza il rapporto con i clienti o potenziali tali, o comunque andavano a complicare le indagini dei casi. –

John aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare quella discussione, e finalmente qualcosa riemerse dalla memoria.

Non era certamente il momento più adatto per mettersi a sottilizzare, ma pur di farlo tacere gli diedi momentaneamente retta. Gli chiesi dunque cosa suggeriva di fare e lui disse che non sperava che fossi una persona normale, ma che sarebbe bastato che facessi finta di esserlo. –

John batté le palpebre: – Ho detto così? –

Sì. – Sherlock lo degnò appena di uno sguardo – “Torna dentro e stringi la mano alla dottoressa, l'hai aggredita di domande senza nemmeno presentarti”. Queste sono state le tue esatte parole. –

E lei è rientrato. – la Stapleton annuì lentamente, un'espressione di allarmante consapevolezza che si faceva strada sul suo volto – E mi ha stretto la mano. –

Precisamente. Quello è stato l'unico momento in cui posso essere entrato in contatto diretto con la sostanza che stava testando sulle cavie. Non aveva i guanti, ma la sensazione al tatto era diversa da quella della pelle. Pellicola imbibita? Ma certo. Non c'è altra spiegazione. Non ha detto niente perché era certa che il dosaggio fosse talmente basso da non causare alcun effetto sugli esseri umani. D'altra parte non dava risultati positivi sui conigli, dunque perché preoccuparsi? –

Come fa a sapere... –

John scosse la testa, interrompendo la domanda della dottoressa con un vago cenno della mano.

Quell'informazione non era collegata al caso, dunque la misi da parte senza prestarvi la dovuta attenzione. In seguito iniziai ad accusare i primi sintomi, ma li imputai esclusivamente all'inalazione delle tossine del progetto HOUND. Avrei dovuto intuire che i sintomi erano ricollegabili a quello a cui stava lavorando lei, ma il mio stesso stato mentale non mi forniva la lucidità necessaria. Dunque dovettero passare due giorni, durante i quali la sostanza ebbe modo di fare effetto sul mio corpo, indisturbata, prima che mi accorgessi di qualcosa. Il che avvenne, precisamente, la mattina del terzo giorno. –

John ricordava fin troppo bene quella mattina. La confusione sul “sogno”, immediatamente messo da parte, dimenticato dalla propria coscienza. E quell'assurda discussione con Sherlock. E poi il silenzio, per tutto il viaggio di ritorno.

Naturalmente non avevo il minimo sospetto che fosse avvenuto un concepimento. –

A quella parola John si strozzò con il boccone – ancora, sì, stava diventando un rito ormai – facendo voltare su di sé gli sguardi costernati dei due.

I primi sintomi? – chiese la dottoressa.

Dopo due settimane. Nausea costante, vomito, sonnolenza. –

Potevano essere effetti collaterali delle tossine del progetto HOUND. – gli fece notare la Stapleton.

Giusta osservazione, ma John non presentava gli stessi sintomi e comunque il mio fisico aveva avuto tutto il tempo per smaltire le tossine. –

Poteva essere un'influenza o un'intossicazione alimentare. – insisté lei – Perché ha pensato proprio ad una gravidanza? –

John intercettò lo sguardo di Sherlock. Quella discussione era fin troppo simile al dialogo che avevano avuto quella stessa mattina.

Tre settimane sono troppe per un'intossicazione alimentare. Mentre l'influenza, che io sappia, dovrebbe implicare anche febbre, dolori articolari, tosse e raffreddore. –

E dunque... –

Sherlock posò i gomiti sulla tavola e unì le mani a piramide: – Dunque, escludendo l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità. –

John alzò gli occhi al cielo. Quanto gli piaceva sentirsi parlare...

Ha fatto un test? –

Dodici. – intervenne a quel punto – Ne ha fatti dodici. Ed erano tutti positivi. Li ho visti. –

La dottoressa saettò lo sguardo dall'uno all'altro. Si schiarì poi la voce e abbassò il capo, concentrata su qualche riflessione.

Non si strugga, Jaqui. – Sherlock inarcò un sopracciglio – Non diremo una parola. –

Ma è implicito che debba aiutarvi. – concluse lei con un sospiro.

Lui sgranò gli occhi in un'espressione comica: – Vorrebbe forse lasciare un povero ragazzo-padre a sé stesso? –

John serrò la mascella, trattenendosi dal lanciargli addosso qualcosa.


Camminare nel freddo di quel primo pomeriggio era decisamente meglio, per combattere la nausea, che stare rinchiusi tra le pareti di un ristorante.

Non posso semplicemente farvi entrare e usare i mezzi del centro per fare le analisi. Se scoprono cos'è successo, io sono licenziata e lei diventa una cavia da laboratorio. –

Era talmente prevedibile che Sherlock vi aveva pensato ancora prima di partire per Baskerville. E tuttavia non aveva ancora elaborato una soluzione. Anche ignorando il fatto che tutta quella faccenda dovesse essere tenuta completamente sotto silenzio, non si poteva girare attorno al fatto che le competenze della Stapleton e i mezzi a disposizione del centro fossero indispensabili per gestire ogni cosa.

John tirò fuori il cellulare e iniziò a digitare: – Chiamo Mycroft. –

Cosa?! No! –

Quel rifiuto categorico suonò così infantile dopo le sue argute deduzioni di poco prima, che persino la Stapleton lo squadrò con sorpresa. Sherlock non era pronto per dire una cosa simile a suo fratello. Non sarebbe mai stato pronto. Non voleva leggere la sua espressione di compassione e quella sfumatura da “te l'avevo detto”, come se si fosse sempre aspettato che prima o poi il suo pestifero fratellino avrebbe fatto un casino tale da aver bisogno del suo autorevole intervento. Era qualcosa che il suo ego semplicemente non avrebbe sopportato.

Alla sua esclamazione, John s'era fermato, con il cellulare in mano e un'espressione tesa in volto.

Hai un'idea migliore? –

No, Sherlock non aveva un'idea migliore. Eppure quella gli sembrava di gran lunga la mossa peggiore che potessero fare.

Alzò, tuttavia, una mano, in un gesto di seccato consenso. E John, dopo avergli lanciato un'ultima occhiata, riprese a cercare il numero di Mycroft sulla rubrica del suo cellulare.


Entrare nel centro di ricerca più protetto del Regno Unito con un pass valido, al seguito di Mycroft Holmes, è tutto un altro paio di maniche. Forse meno divertente che intrufolarsi senza autorizzazione, ma comunque a John piaceva anche la tranquillità. Giusto ogni tanto, eh.

Spero solo che lei abbia l'autorità per riuscire a tenere tutto questo nel più assoluto riserbo. – stava borbottando tesa la dottoressa mentre camminavano per i corridoi del centro e raggiungevano il suo laboratorio, fatto preventivamente sgombrare ed isolare dal sistema di sorveglianza delle telecamere.

Oh, io non ho dubbi che lei, invece, abbia tutte le competente del caso. –

Era impossibile non restare agghiacciati dal sorriso con cui Mycroft rispose a quell'affermazione.

Dottoressa Jacqueline Laura Stapleton, “Jacqui” per gli amici. –

Mycrof aveva messo da parte l'ombrello e aveva tirato fuori dalla tasca della giacca il solito taccuino, nonappena arrivati al laboratorio.

Classe '70, laureata a pieni voti a Cambridge, specializzata in ingegneria genetica. – lesse attentamente, mentre la Stapleton, irrigidita, sbiancava gradualmente – Interventi a conferenze internazionali almeno una volta all'anno e saggi pubblicati regolarmente sulle maggiori riviste di campo medico. Oh, questo ha un titolo interessante: Nuove frontiere per la fecondazione e la gravidanza nel cariotipo maschile umano. –

Mycroft le rivolse un sorriso soddisfatto e richiuse il taccuino, andando a riporlo nella tasca.

Devi sempre metterti in mostra. – sospirò Sherlock.

Ah, ma da che pulpito! Le sopracciglia di John schizzarono verso l'attaccatura del capelli.

Le tradizioni di famiglia vanno rispettate. – ribatté Mycroft.

Sherlock lo ignorò, rivolgendo tutta la sua attenzione alla dottoressa. “Allora?” diceva il suo sguardo. Lei si umettò le labbra, a disagio di fronte a quello sfoggio di battute Holmes. John la capiva fin troppo bene.


Noia.

Dover sottostare pazientemente a tutte quelle analisi superflue era noioso. I commenti scontati della Stapleton erano noiosi. Le domande ovvie di John erano noiose. Le battute prevedibili di Mycroft erano noiose – e irritanti.

Ammazzare il tempo davanti al distributore di snack – ipocalorici, imbottiti di conservanti e coloranti, certamente più deleteri di qualsiasi sostanza sintetizzata tra quelle mura – in attesa che un computer fornisse un risultato di cui già conosceva perfettamente la risposta senza scomodare alcun circuito né sprecare energia elettrica, era noioso.

E il fatto che adesso se ne stessero tutti e tre in silenzio davanti a quel dannato distributore, era assolutamente insopportabile. Lo era l'educata – e falsissima – indifferenza con cui Mycroft si metteva da parte in quel momento che avrebbe certamente definito con superiore ironia “di delicata attesa”. Lo era dover ammettere, per lo meno con sé stesso, che in quella situazione gli era indispensabile affidarsi al suo aiuto. Lo era la finta tranquillità con cui John pretendeva di concentrarsi sul suo caffè, inevitabilmente infranta nel momento in cui la dottoressa uscì dal laboratorio. Sherlock aveva le spalle rivolte alla porta e non la vide, ma gli bastò notare come gli occhi di John si dilatarono nel guardare dietro di lui e come divenne rosso nel buttare giù il resto del caffè ustionandosi la lingua.

Mycroft mosse le labbra e inarcò un sopracciglio, nel palese tentativo di reprimere una risata. Sherlock seguì la dottoressa nel laboratorio, sfidando con lo sguardo suo fratello a dire qualsiasi cosa.


Positivo. –

C'era qualcosa di profondamente sbagliato in quella parola. In quel contesto. In mezzo a quelle persone.

Mi scusi? – tossì John, battendo convulsamente le palpebre.

Te l'avevo detto. – sospirò Sherlock.

Mycroft sfoderò un inopportuno sorriso: – Congratulazioni! –

Panico. Totale, sacrosanto, assordante panico.

John si umettò le labbra: – Un momento... –

Le analisi parlano chiaro. – fece la Stapleton, posando con drammaticità sul tavolo i fogli sputati fuori dal computer.

John li prese in mano, li sfogliò, lesse qua e là termini che la sua formazione di medico riusciva a fargli comprendere perfettamente. Ma che continuavano a non avere – a non voler avere – il minimo senso per lui.

Potrebbe... – si schiarì la voce – essere un falso positivo. –

Guardò alternativamente i fogli, la dottoressa, ancora i fogli, Sherlock, Mycroft, i fogli. Nessuno parlava. A parte i fogli, con il loro rumore di carta e le sigle che parevano urlargli in faccia il loro significato.

No? – pigolò in un ultimo, disperato appello.

Questo tester vale cinquantamila sterline, dottor Watson. – la Stapleton indicò il macchinario con aria seria – Il termine “falso positivo” non fa parte del suo vocabolario. –

Il silenzio parve posarsi su di loro con teatrale clamore.

Dottoressa, posso parlarle un momento in privato? –

John registrò appena la domanda di Mycrot. E comprese troppo tardi ciò che implicava.

Oh, Mycroft... seriamente? –

La voce di Sherlock appariva quanto mai sferzante in quel momento.

Mycroft non rispose. Scivolò fuori dal laboratorio assieme alla dottoressa, distruggendo qualsiasi speranza per John di uscire mentalmente sano da quella situazione.


Cosa... che cosa facciamo? –

Oh, era così prevedibile. Compativa il cervello ordinario di John che ancora, nonostante ogni prova lampante fosse davanti ai suoi occhi, si ostinava a rifiutare quella realtà. Perché era palese come dietro quel “cosa facciamo” si stagliasse a lettere cubitali un terrorizzato “cosa vuoi fare”. Se avesse potuto, John sarebbe scappato a gambe levate, lasciando a lui la gestione di quella patata bollente. E quale sollievo avrebbe avuto nell'accontentarlo! Ma per loro sfortuna, Sherlock aveva già capito che il suo aiuto sarebbe stato indispensabile.

– “Facciamo”, John? Noi non facciamo niente. Io aspetto. –

Questo lo vedo. – sbottò lui.

Intendo, – sospirò lui – aspetto che Mycroft la finisca con i suoi giochetti e lasci che la Stapleton faccia il suo lavoro. –

La fronte di John si accartocciò sotto l'inumana pressione che quei pensieri stavano esercitano sulla sua povera psiche. Sherlock si figurava i neuroni che lampeggiavano allarmati.

Sherlock, forse non ti rendi conto della gravità della situazione... –

Ah, be', detto da lui era davvero esilarante!

Disse quello che fino a cinque minuti fa non accettava nemmeno l'idea. – fece sarcastico.

Dov'è finito il discorso “ognuno ha i suoi limiti” eccetera? – ribatté seccato, camminando nervosamente per la stanza.

La sua tensione non riusciva a fare presa su Sherlock. Più John isterizzava, più lui per contrasto sprofondava in una paradossale tranquillità. Accavallò le gambe, accomodandosi meglio sulla sedia.

John, il mio limite in questo momento siete voi. Tu e Mycroft, sì. – precisò davanti allo sguardo di stupita confusione che gli rivolse – Avrei potuto tranquillamente gestire questa faccenda da solo, senza la vostra interferenza, ma naturalmente... –

E come pensavi di gestirla, scusa? –

Il tono era pericolosamente calmo, il che gli dava la misura di quanto in realtà John si stesse avvicinando all'orlo di un crollo psicologico con i controfiocchi.

Nell'unico modo in cui la si può gestire, John. – sentenziò seriamente.

E avrebbe dovuto prevederlo che avrebbe frainteso del tutto. Era sempre così melodrammatico, John. Ci si crogiolava nelle catastrofi.

Tu vuoi... – lo vide annaspare, e quasi gli fece pena – Sherlock, non vorrai... –

Oh, per l'amor del cielo, John, no! – interruppe il suo balbettio, esasperato da quell'eccesso di sentimentalismo – Risparmiami la tua apologia contro l'aborto. Sei un medico o cosa? –

John gli si avvicinò di scatto. Sherlock lo guardò dal basso, senza scomporsi.

Essere medico non m'impedisce di avere una coscienza! – gli scandì in faccia, congestionato per la rabbia e l'emozione – E credo di poter affermare un certo diritto di voce in capitolo, se me lo permetti. –

Aveva il respiro irregolare. Doveva chiarire subito quella faccenda, prima che gli venisse un collasso.

Rilassati. Non ho intenzione di porre fine a questo esperimento. –

Qualcosa nel volto improvvisamente rigido di pallore di John gli fece venire il dubbio di aver detto la cosa sbagliata. Non sapeva cosa, visto che nella sua frase Sherlock non trovava niente di sbagliato. Ma certamente ci doveva essere un motivo se il respiro di John adesso non era più irregolare. Il respiro di John non era più e basta.

Esperimento? –

Esperimento, John. – Sherlock roteò appena la testa e strinse gli occhi, studiando la sua espressione – Sì. –

Lui si ritrasse, muto, pietrificato.

Cosa ti aspettavi? – saltò su, scrutandolo accigliato – Sono il primo maschio umano in stato di gravidanza, è un'occasione unica e irripetibile! –

Si sentiva sciocco a spiegargli una cosa talmente ovvia, ma evidentemente ce n'era bisogno.

Oh, santo cielo. – esalò, deglutendo a vuoto.

Ti giuro che sei l'essere più... più... – scosse la testa, alzò le mani, roteò su sé stesso – Ma come fai a vederlo come un esperimento?! Sherlock, quello è un bambino! È mio... nostro... quello è nostro... –

Ah, ma certo! John Hamish Watson e la sua romantica visione di una vita nascente, certamente influenzata da una rigorosa educazione borghese, concretizzata razionalmente dagli studi in medicina e solidificata senza appello dagli “orrori della guerra”.

Oh, ti prego! – Sherlock fece una smorfia di compatimento – E poi, John? Cosa farai, mi chiederai di sposarti? –

Il suo volto, se possibile, s'indurì ulteriormente. Sherlock provò per un momento ad immedesimarsi in lui, nella sua claustrofobica mentalità, e a chiedersi quale repulsione dovesse provare il suo tenero animo nel sentirgli fare dell'ironia su una questione di tale importanza. Se lo figurava bene, Sherlock. Ma non si sforzò di provare la minima empatia in merito. Era molto più facile affrontare John e i suoi bigotti scrupoli degradandoli in quel modo, piuttosto che ammettere che almeno in parte avesse ragione.

Sei un uomo d'onore, dopotutto, e vorrai rimediare certamente all'“oltraggio”. Purtroppo mamma non avrà la gioia di vedermi in bianco, ma le spose col pancione sono sempre così dolci... e poi tra qualche mese potrà consolarsi con il nipotino. O nipotina? Dovremmo iniziare a pensare al nome, John. Uno che stia bene con i nostri cognomi, ovviamente. A proposito, non ho intenzione di rinunciare al mio. Potremmo adottare quello doppio... Holmes-Watson, Watson-Holmes... il secondo suona meglio, sì. Ottimo. – Sherlock interruppe quel monologo stillante gratuita crudeltà – Che c'è? Perché quella faccia? Sei tu che vuoi giocare alla famigliola felice, John. –

John era a mezzo metro da lui, eppure appariva lontanissimo. Sherlock scoprì, con improvviso e inaspettato dolore, che non gli piaceva.

Lo sai, Sherlock, hai ragione. – il suo sguardo avrebbe potuto farlo a pezzi – Le parole sono importanti. –

Così importanti che quella frase restò sospesa nell'aria asettica del laboratorio e nella mente turbata di Sherlock, virgole e punti compresi, anche dopo che John uscì a grandi passi da lì, portando lontano da lui quello sguardo insostenibile.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Quattro ***


Tante domande e la struggente consapevolezza di non poter rispondere a nessuna di esse... non nei commenti, per lo meno. Ma nei capitoli sì, e spero che almeno questo inizi a dissipare un po' dei vostri dubbi.







Quattro

~

Di bivi ed altre scelte più o meno consapevoli


Anche se non lo sai,

tra proseguire dritto o deviare

spesso si gioca la tua esistenza,

quella di chi ti sta vicino.

Susanna Tamaro –



C'erano voci attorno a John. Mycroft poneva domande, la dottoressa Stapleton parlava, Sherlock commentava. Lui faceva finta di ascoltare. La parte analitica del suo cervello di medico prestava attenzione, la parte emotiva se ne stava rincantucciata a piagnucolare e leccarsi le ferite, odiando il resto dell'universo attorno a sé.

Era riuscito a scindersi in due, John, proprio come faceva durante gli scontri a fuoco nelle campagne desolate dell'Afghanistan. Devi imparare a mettere da parte il tuo lato più sensibile, proteggerlo dalle brutture del mondo, se non vuoi rischiare che resti ucciso.

Quello che per John era drammatico, era il fatto che non aveva preventivato, una volta tornato alla vita civile, di dover ricorrere a certi trucchetti di sopravvivenza. Non aveva preventivato di ritrovarsi, un bel giorno d'autunno, nel centro di ricerca più avanzato – e sinistro – del Regno Unito, ad ascoltare da una dottoressa in ingegneria genetica come lui fosse riuscito a mettere incinto il suo coinquilino. Non aveva preventivato niente di tutto ciò, John. E proprio per questo preferiva rinchiudere in un angolino quella parte emotiva di sé che non avrebbe fatto altro che asfissiarlo con domande tipo “come cazzo fa questo pezzo d'idiota a prendere tutto come una cosa normale?”.

La sperimentazione sui topi e i conigli ha dato risultati positivi, ma siamo solo all'inizio. – la dottoressa aprì una paio di schermate sul computer, mostrando loro grafici a torta e altre statistiche del genere, di cui a John fregava tanto quanto – L'applicazione sull'uomo è ben lontana. –

Sherlock alzò le sopracciglia nel leggere i dati: – Due anni? Be', a quanto pare le circostanze hanno accorciato i tempi. –

Ed è possibile che con una sola somministrazione avvenga la mutazione? – intervenne Mycroft.

Parrebbe di sì. –

– “Parrebbe”? –

Le ricordo che è tutto ancora in fase di sperimentazione. – ribatté la Stapleton, punta sul vivo – Posso fornirvi i dati completi dei test preliminari sui roditori, ma dubito che vi sarebbero di una qualche utilità. –

Quindi come... agisce? Che cosa fa, insomma? –

Era la prima volta che John parlava da quando aveva rimesso piede nel laboratorio. Mycroft lo osservò incuriosito, Sherlock non lo degnò di uno sguardo, apparentemente concentrato sui dati che quelle diavolerie tecnologiche stavano sputando fuori.

La Stapleton non si fece pregare. Iniziò ad aprire schermate a raffica, illustrando con una fiumana di parole tecniche tutto il progetto, la storia completa, dalla teorizzazione alle prime applicazioni sperimentali fino ad oggi. Spiegò come ormai da dieci anni i limiti per una gravidanza maschile fossero già superati, almeno da un punto di vista teorico: quello che mancava era una seria applicazione pratica. E dopo lunghi studi, si era giunti alla conclusione che indurre una momentanea intersessualità in un essere umano di cariotipo maschile fosse la soluzione migliore. Il grosso del lavoro, fino ad allora, era stato riuscire a sintetizzare un ormone in grado di creare una simile mutazione. Partirono quindi dagli ormoni prodotti dalla Lymantria Dispar, un lepidottero che durante il suo ciclo vitale presentava delle caratteristiche intersessuali.

John chiese cortesemente di specificare cosa intendesse per intersessualità e ignorò il sospiro di sufficienza di Sherlock. Era un medico, sì. E proprio per questo non poteva restare sul vago, aveva la necessità di chiarire nei dettagli tutta quella faccenda.

È molto semplice. – spiegò lei – La mutazione è portata dal citoplasma e implica la coesistenza in uno stesso individuo di caratteri maschili e femminili. Una sorta di ermafroditismo temporaneo, ma privo del difetto della sterilità. –

Mycroft fece una domanda, ma John non l'afferrò. Stava elaborando quelle informazioni al fine di fare in modo che il suo cervello riuscisse ad accettarle. Come medico, tutto quadrava, e la dottoressa era stata più che chiara. Eppure... eppure era difficile ingoiare quel concetto come se niente fosse.

Sta dicendo che in quel... momento lui era... – John si umettò le labbra e saettò lo sguardo verso Sherlock – un maschio ma anche una femmina? –

La Stapleton annuì: – Qualcosa del genere, sì. –

Puoi riprendere a respirare, John. – fece Sherlock con blanda ironia – La tua virilità è salva. –

Suo malgrado, John si accorse di aver effettivamente trattenuto il respiro. E arrossì. Ma no, non era quello. Non del tutto, per lo meno. Oh, al diavolo! Sì, era quello. Ma non per i motivi che credeva Sherlock.

Non aveva capito niente, tutto impegnato com'era a dedurre dettagli salienti senza tuttavia riuscire a collocarli nella trama emotiva in cui era intrappolato John. Era questa la più grande mancanza di Sherlock: cercava di sciogliere i nodi dell'anima nello stesso modo analitico con cui risolveva i suoi amati enigmi. E se falliva – come accadeva sempre in quei casi – non imputava l'errore a sé stesso, ma all'irrazionalità dei sentimenti.

John si appuntò mentalmente di fargli un discorsetto, più tardi.


Era definitivo: John soffriva di una permanente deficienza di ironia quando si trattava di certi argomenti. Sherlock decise di fare finta di niente e aspettare il manifestarsi del suo sfogo, che presto o tardi si sarebbe certamente abbattuto su di lui. Anche i nervi d'acciaio di un soldato hanno un limite, dopotutto. Ma per il momento, fortunatamente, John non l'aveva ancora raggiunto.

Sherlock si alzò dalla sedia e si mise un po' discosto dal gruppo, in riflessione. Non che riuscisse nel suo intento. Captava quei vaghi frammenti della fitta conversazione tra la dottoressa e Mycroft. Erano un continuo, fastidioso ronzio di sottofondo che lo distraeva dai suoi ragionamenti.

Ed è bastato che per una volta... oh, è stupefacente! –

Se non hanno usato metodi contraccettivi... –

Naturalmente. –

Che avevano tanto da parlare? Insomma, cosa mai c'era di così interessante sul momento del concepimento? Le cause per cui si era verificato erano già state abbondantemente sviscerate, e con ricchezza di particolari. Perché adesso si dovevano soffermare proprio su quell'insignificante dettaglio?

E Mycroft – santo cielo. Immaginava che non si sarebbe fatto gli affari suoi, ma non fino a quel punto. Secondo quali presupposti, poi, si lanciava in ipotesi sulla sua vita sessuale? Era alquanto fastidioso.

Non si aspettavano che potessero esserci conseguenze. –

Ma le malattie... dottor Watson, da lei mi aspettato un maggiore riguardo, visto il suo ruolo. –

Sherlock alzò gli occhi al cielo. Come facevano a non arrivarci? Era così lampante! Oltretutto conoscevano nel dettaglio gli avvenimenti riguardanti il caso HOUND.

La goccia che fece traboccare il vaso fu l'imbarazzato balbettio di John, che con un impacciato “Noi non...” tentava di iniziare a spiegare l'ovvio. Sherlock sospirò tra sé, ormai pienamente seccato da quel teatrino.

I ricordi del momento del concepimento sono alquanto... confusi. –

I tre si voltarono verso di lui.

Le tossine che avete inalato, senza alcun dubbio. – considerò con banalità la Stapleton – Magari avete anche bevuto dell'alcol. –

Sherlock alzò le sopracciglia in un'espressione di ovvietà. Mycroft appariva alquanto concentrato sull'analisi del linguaggio corporeo di John. John sembrava alquanto concentrato su una qualche riflessione interiore che aveva la capacità di provocargli, contemporaneamente, un feroce aggrondamento della fronte, un diffuso rossore su tutto il viso e una innaturale rigidità degli arti che lo tramutavano in una statua fatta di agitazione allo stato puro. Sherlock si ritrovò, del tutto inaspettatamente, a concentrarsi sul come e quando John avrebbe tirato fuori Il Discorso e sull'enorme peso che la sola idea rappresentava.

Come volete procedere? –

Sherlock batté le palpebre e rivolse la sua attenzione alla dottoressa. Domanda più che insidiosa. E poi perché parlava al plurale ma si rivolgeva solo a lui?

Guardò John. John guardò lui, la dottoressa, di nuovo lui, Mycroft e infine i propri piedi.

Come vogliamo procedere? –

John aveva appena passato la patata bollente a Sherlock.

Voglio proseguire. –

Sherlock era certo che Mycroft se lo fosse aspettato, mentre John, be', lui già era stato informato della sua decisione. Eppure furono i loro respiri strozzati che interruppero il silenzio del laboratorio seguito alla sua affermazione. La dottoressa appariva molto meno turbata da quella risposta.

Dunque, lei come procederebbe? – le chiese francamente.

Sherlock conosceva la direzione in cui voleva andare, ma non sapeva come arrivarci.

Il rischio di aborto spontaneo aumenta esponenzialmente ogni giorno. – lo informò cautamente.

Ci stava girando attorno, neanche se volesse evitargli trauma. Che tedio. Insomma, non era una madre in trepidante attesa che voleva scongiurare il rischio di perdere il tanto agognato pargolo. Lo volevano capire che tutto questo era molto di più?

Trovo eccezionale che l'embrione sia sopravvissuto fino a questo stadio, è un vero miracolo. –

Questa, poi!

Oh, per favore! – Sherlock sbuffò una risata – Mi era sembrato di capire che lei fosse una scienziata. –

Esattamente. – la sua espressione si fece seria – So identificare un miracolo quando lo vedo. –

Perfetto. –

Sherlock si avvicinò, prese una sedia e la ruotò, sedendocisi a cavalcioni. Era stufo di quel ciarlare.

Come gestirebbe questo particolare miracolo, dottoressa? – le chiese direttamente, sperando che non ricominciasse con i suoi voli pindarici, né che Mycroft o John s'intromettessero.

Ormoni. Un cocktail di gonadotropina corionica, progesterone, estrogeni e prolattina, per iniziare. Ne conviene, dottor Watson? –

Le labbra di Sherlock s'incresparono nel primo sorriso spontaneo di quella giornata, se non dell'intero mese. Finalmente si parlava di cose serie.


Ed ecco un'altra cosa che non era prevista. Ma John era un dottore e per conseguire la laurea in medicina aveva studiato anche tutta quella roba là e ricordava persino di quella volta, durante tirocinio, che gli era toccato fare un mese in pronto soccorso e una sera che c'era casino si era ritrovato a dover far partorire una donna lì, su un divanetto dell'accettazione dell'ospedale più sfigato di Kingston. Aveva appena ventitré anni e il solo ricordo gli faceva tremare le mani al pari degli incubi sull'Afghanistan.

Non sono un ginecologo, ma... – si schiarì la voce e annuì – sì, credo che sarebbe... uhm... adeguato. –

Sherlock si rivolse alla dottoressa: – Quando inizio? –

Lei allargò le mani: – Sono necessarie ulteriori analisi per calcolare il giusto dosaggio, a quel punto... –

Bene, me le faccia. – disse saltando su dalla sedia e parandosi davanti a lei.

La Stapleton lanciò uno sguardo interrogativo a John. Lui strinse le labbra e sospirò, preparandosi mentalmente il discorso che avrebbe stroncato parecchio dell'entusiasmo di Sherlock e che di conseguenza avrebbe provocato una catastrofe a livello globale.

Non è tutto qui. –

Sherlock si volse verso di lui con aria interrogativa. Sarebbe stato ancora più difficile spiegargli tutto con i suoi occhi puntati addosso, ma John aveva dato notizie peggiori a pazienti incontrollabili quasi quanto lui, per cui... per cui sarebbe stata una catastrofe e basta. Cazzo.

Una gravidanza extrauterina... e la tua è decisamente extrauterina... be', non ha lunga vita. –

Mio Dio, non poteva credere che stava seriamente parlando di questo.

Cercò aiuto nella dottoressa: – È esatto? –

Difficilmente l'embrione raggiungerà lo stadio di feto. – confermò lei – E se anche dovesse riuscirci, nei mesi successivi la sua conformazione fisica e i suoi tessuti non sarebbero in grado di adeguarsi per contenere la sua crescita. –

Dunque? – incalzò Sherlock.

Dunque verrà il momento in cui sarà necessario espiantarlo e... –

Espiantarlo? –

John non si accorse di aver parlato finché tutti, dopo la sua esternazione, non si voltarono verso di lui con sguardi attoniti. Forse la catastrofe non sarebbe arrivata da Sherlock, dopotutto.

Espiantarlo, sì. – ripeté la Stapleton.

Gli bastava l'immagine di ferri chirurgici associata al ventre di Sherlock e a ciò che conteneva per fargli salire un fiotto di nausea.

E per metterlo dove, scusi? – annaspò.

Incubatrice? – suggerì Mycroft.

La dottoressa fece un sorrisetto e andò al computer.

Qualcosa di meglio. – annunciò mentre cercava tra i files.


Tenersi da parte il piattoforte per sfoderarlo all'ultimo momento. Era così prevedibile. Chissà da quanto stava pregustando l'idea delle loro espressioni ammirate?

BAW? –

La Stapleton aprì la bocca per spiegare a John l'acronimo. Sherlock la batté sul tempo.

Biomechanical Artificial Womb. (*) – tradusse immediatamente.

Dall'espressione infastidita della dottoressa si poteva intuire come ci avesse preso in pieno. Che altro poteva voler significare, dopotutto?

È ancora in fase di sperimentazione, ma i risultati con embrioni di coniglio e di capra sono stati eccellenti. – stava illustrano, aprendo varie schermate.

Con tutto il rispetto, – intervenne John – ma qui non si tratta dell'embrione di un coniglio... o di una capra. –

Abbiamo appena ricevuto il via ufficiale per i test sui primati. – ribatté lei.

E nemmeno di scimpanzé. – si ostinò lui – Questo è un bambino. –

Oh, John, John, John...

Sherlock già prevedeva con drammatica precisione come si sarebbe sempre, sistematicamente, rifiutato di vedere tutto ciò per quello che realmente era: un brillante, irripetibile esperimento. Era una bella grana e se la sarebbe dovuta gestire interamente lui. Ah, quali sacrifici non era in grado di fare per amore della scienza!

Ne sono consapevole, dottor Watson. –

Davvero? Perché a me non sembra. – replicò con crescente irritazione – Abbiamo qualche... insomma, quali garanzie abbiamo che funzionerà? –

Silenzio.

Nessuna. –

Altro silenzio.

Il volto di John s'indurì in quella che Sherlock aveva ribattezzato l'espressione da “ecco-purtroppo-lo-sapevo”.

Grandioso. – batté un paio di volte le ciglia, scosse la testa, si umettò le labbra – E allora perché mai dovremmo rischiare? –

Perché non avete altra scelta. –

Sherlock intercettò l'espressione di Mycroft. Non gradiva quella sfumatura di compita consapevolezza. Adesso aveva la netta – spiacevolissima – sensazione che prima, quando aveva valuto parlare con la Stapleton, non l'avesse fatto solo per uno dei suoi giochetti psicologici.

Parliamoci chiaro. – la dottoressa si sporse dalla scrivania – Non c'è dubbio che sia fisiologicamente impossibile portare a termine questa gravidanza in maniera naturale. Anche mantenendo un dosaggio ormonale perfetto e monitorando lo stato del signor Holmes ventiquattro ore al giorno... non supererebbe la sedicesima settimana. –

Al pesante silenzio che seguì, Sherlock decise che non era certamente il caso di contribuire troppo. C'era già abbastanza inutile pathos in quella stanza, senza che fosse necessario aggravarlo ulteriormente.

Grazie per l'esaustiva spiegazione, dottoressa. – disse, cercando di mettere in quella frase di circostanza quanta più gentilezza possibile – Se adesso vogliamo procedere... –

La Stapleton fece un gesto come a dire “siete voi che comandate”.

Ci vorrà un po'. – li avvertì mentre preparava gli strumenti per le analisi.

– “Un po'”? – fece John, osservando le sue mosse con aria vagamente allarmata – In che senso “un po'”? –

Vi conviene prenotare una stanza. –

John abbassò la testa con aria sconfitta: – Chiamo l'albergo. –

Mi duole, ma non posso trattenermi oltre. – Mycroft aveva indossato il soprabito e ripreso possesso del suo ombrello – D'altra parte mi sembra di lasciarvi in ottime mani. –

Soddisfatto per la prima volta nella giornata, Sherlock si disfò del cappotto e prese ad arrotolare le maniche della camicia.

Addio Mycroft. –

Ci era voluto un intero pomeriggio di bla bla bla, ma per lo meno adesso, con suo fratello fuori dai piedi, sarebbe riuscito a fare qualcosa di utile.


La porta del laboratorio si richiuse alle loro spalle. Il corridoio vuoto, con le sue luci fredde che si riflettevano sulle pareti chiare, faceva da cornice alle due figure così diverse di Mycroft e John.

Dottor Watson. –

John fece finta di essere del tutto assorbito nella ricerca del numero dell'albergo sulla rubrica del cellulare. Ma sapeva che un Holmes non si può fregare facilmente, per cui, quando comprese che Mycroft non si sarebbe schiodato di lì finché lui non gli avesse prestato attenzione, si decise ad alzare lo sguardo su di lui.

Comprendo il suo disagio in questa... –

No. Non lo comprende, no. –

Si guardarono a lungo. O meglio, John lo guardò, mentre Mycroft aveva per lo meno il buongusto di abbassare il capo in segno di umiltà.

Mi dica cosa ha da dirmi, per favore. –

Mycroft rialzò la testa, la fronte corrugata in segno di preoccupazione, e si schiarì la voce.

Sia paziente con lui. – suggerì cautamente – Cerchi di comprendere che non ha a che fare semplicemente con una persona normale in una situazione anormale. –

Questo ha la premura di ricordarmelo ogni giorno suo fratello. – ribatté con una punta di triste ironia.

Quello che voglio dire... – Mycroft si accigliò ulteriormente nella ricerca delle parole, poi il suo volto s'illuminò – è che Sherlock non è dotato dello stesso spettro emotivo di una persona qualsiasi. –

Ma che novità! Sherlock non era dotato di spettro emotivo. E basta.

Immagino che parli per esperienza. – commentò, sondando il suo sguardo.

Mycroft inclinò la testa e inarcò le sopracciglia: – Diretta esperienza, dottor Watson. –

Non era normale, no. Non più di quanto lo fosse Sherlock. Gli Holmes erano questo e John ormai doveva averlo capito. O, se non altro, doveva essersi messo l'anima in pace, visto che a suo tempo aveva fatto una scelta consapevole. Nessuno lo stava obbligando con una pistola puntata alla testa. Eppure non pensava nemmeno lontanamente di andarsene, di lasciarsi alle spalle Sherlock. Neanche adesso – sopratutto adesso.

E cosa dovrei fare? – chiese, sinceramente stufo di dover scendere a compromessi e camminare sui vetri rotti quando si trattava di Sherlock – Come dovrei comportarmi? –

In nessun modo, se non come ha sempre fatto. Ovvero seguendo ciò che le dice il suo cuore. – Mycroft chiuse il cappotto – Mi creda, è la cosa migliore per tutti. In particolare per mio fratello. –

John sgranò gli occhi. Lo prendeva per il culo?

Non sto facendo dell'ironia. – lo avvertì con un tenue sorriso – Per quel che mi è dato sapere, lei lavora meglio col cuore che con il cervello. Ed è un complimento, nel caso se lo stesse chiedendo. –

E John non trovò nulla da replicare. Solo, seguì con lo sguardo la sua alta figura mentre si avviava lungo il corridoio.

Arrivederci, dottor Watson. – lo sentì salutare, prima di svanire dietro un angolo.


Il sangue avanzava denso, sotto l'aspirazione dello stantuffo, riempiendo lentamente la fialetta del suo rosso intenso, unica macchia di colore in mezzo a quel bianco asettico.

E questa è l'ultima. –

La Stapleton gli premette un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante sull'incavo del braccio e sfilò l'ago. Sherlock tenne una mano sul punto e piegò l'arto. La osservò attento mentre inseriva ogni fialetta in un diverso tester e avviava le analisi inserendo i codici nel computer.

Quanto ci vorrà? –

Domani mattina avrete i risultati. –

Sherlock si accigliò: – Avremo? –

La Stapleton alzò appena lo sguardo dal computer a lui.

Lei e il dottor Watson. – disse in tono ovvio.

Ah, ma certo. – borbottò ironico.

La dottoressa aveva già dimostrato, con i suoi commenti precedenti, di possedere un'inopportuna vena sentimentale, del tutto antitetica al suo lavoro.

Non siamo due sposini in trepida attesa. – le fece presente.

Possibile che dovesse ricordarlo a tutti?

Questo non cambia la realtà dei fatti, signor Holmes. – disse con aria pratica – Aspettate un bambino. –

Sherlock reclinò la testa sulla spalliera della sedia e sospirò nervosamente tra sé. E adesso cosa avrebbe dovuto fare? Distruggere le sue tenere convinzioni dicendole senza troppi giri di parole che quel “bambino” altro non era che un'irripetibile occasione? Una persona simile non era minimamente affidabile: come avrebbe gestito il tutto? Avrebbe certamente tentato d'interferire.

Non ho intenzione di cambiare linea solo per le sue discutibili convinzioni etiche. – le disse francamente.

Chi le dice che ho intenzione d'imporle le mie convinzioni? – ribatté lei – Sono una scienziata. Non sarei qui, adesso, se non avessi la capacità di scindere il mio personale concetto di etica dal lavoro che faccio. –

Sherlock inarcò le sopracciglia, sinceramente stupito. Con una frase era riuscita a ribaltare completamente le idee che si era fatto su di lei. Dopotutto, forse sarebbe stata affidabile.

E lei? –

Il momentaneo rilassamento che l'aveva colto, svanì immediatamente.

Lei ne è capace? – gli chiese.

Di fare cosa? –

La Stapleton ammiccò: – Lo sa. –

Sì, Sherlock lo sapeva. Aveva anche lui qualcosa da scindere, se voleva portare avanti quell'esperimento.

John capirà. – sentenziò con sicurezza, pur sentendosi progressivamente meno sicuro.

Oh, certamente. – commentò lei – Come ha sempre fatto, d'altra parte, no? –

Come aveva sempre fatto, già. Era inquietante il modo in cui la dottoressa aveva inquadrato il loro rapporto. Sherlock si morse l'interno della guancia, reprimendo quella debolezza che lo spingeva a chiederle un parere su come avrebbe dovuto comportarsi con lui.

Non lo illuda. – dimostrando un'empatia sovrumana, la Stapleton gli risparmiò l'umiliazione di esporsi con una domanda diretta – Se proprio deve essere sé stesso, che lo sia fino in fondo. –

Le labbra di Sherlock si strinsero impercettibilmente.

Lui non era più del tutto sé stesso da quando aveva conosciuto John. Sarebbe stata un'imperdonabile mancanza di logica ignorare il lento cambiamento che s'era inesorabilmente fatto strada in lui dal momento in cui il dottor John Hamish Watson aveva accettato di condividere l'appartamento – e la sua intera vita – assieme a lui. Qualcosa che non aveva previsto, ma che stava accadendo e basta. E come avrebbe potuto prevedere quanti e quali altri cambiamenti stavano già avvenendo o sarebbero avvenuti in lui? Come poteva mantenere fede al sacrosanto avvertimento della Stapleton?






(*) Utero Artificiale Biomeccanico

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Cinque ***


Cinque

~

Di nuovi modi per dire cose che ancora non si possono dire


Che tu lo voglia o meno,

quando fai l'amore con qualcuno,

il tuo corpo fa una promessa.

Vanilla Sky –



Non fu una notte facile. L'insonnia aggredì John con la stessa velocità con cui il sonno prese Sherlock, sfiancato dal viaggio e dalle nausee e dai prelievi, risparmiandogli imbarazzanti mutismi che gridavano dubbi lapalissiani.

Non che tali dubbi l'avessero lasciato in pace. Ma per lo meno non aveva la presenza vigile di Sherlock ad ingigantirli tra di loro fino a farli diventare insopportabili.

Era riuscito a dormire cullato dalle deflagrazioni delle granate e dai colpi di mortaio, John, ma niente era paragonabile al silenzio assordante che si scontrava con la tappezzeria chiassosa di quella camera. La stessa camera. Era già buio, ma avrebbe potuto ugualmente osservare il medesimo scorcio dalla finestra, con quelle tende color amaranto di quella trama soffocante. La disposizione dei letti identica, il bagno a sinistra della porta d'ingresso. Le pieghe di quel copriletto scozzese, che faceva a pugni col resto dell'ambiente e con i suoi ricordi.

John si era svegliato per due mattine in quel letto. La seconda, la sua vita era stata appena stravolta, ma il suo subconscio aveva già deciso opportunamente di classificare il tutto come “sogno”.

Un sogno.

Un sogno e l'importanza delle parole. Fu allora che la parte emotiva di John decise che non ne aveva più voglia di stare rincantucciata.

Con uno scatto, scostò le coperte e si mise a sedere. La schiena contro la testiera del letto, il capo reclinato contro la parete, respirava l'aria ferma della stanza cercando di filtrare l'odore, di non farlo arrivare a quella parte di sé addetta al controllo dei ricordi.

John era dotato di una spiccata memoria olfattiva. L'odore del bourbon gli ricordava Henry, il profumo di echinacea gli faceva tornare in mente gli anni del college – le aiuole attorno al campus dove gli piaceva studiare erano infestate di quei fiori –, la polvere da sparo gli risvegliava contemporaneamente i momenti migliori del corso di addestramento e quelli peggiori vissuti in Afghanistan.

Adesso John doveva fare i conti con l'odore un po' muffito che si portavano appresso quelle pareti tappezzate, misto al profumo di deodorante per l'ambiente che impregnava col suo sentore di gelsomino tutta la stanza. E in sottofondo, quasi timido eppure perfettamente percepibile, il suo odore.

E non era sicuro di essere in grado di gestirlo. Proprio no.

Era peggio di quel “Positivo” sentenziato senza possibilità di appello dalla Stapleton. Perché non c'è come il silenzio e una stanza vissuta per sbatterti in faccia la realtà. Sono cose che parlano molto più delle prove concrete e altre puttanate simili. Non per niente gli avvocati vincenti dei thriller facevano leva sull'emotività della giuria, piuttosto che sulle evidenze.

In quel momento, l'evidenza ineludibile di aver messo incinto Sherlock, era clamorosamente eclissata dal fatto che ci avesse fatto l'amore. E che non ricordasse quasi niente.

Ripasso mentale: hai fatto l'amore con Sherlock e praticamente non lo ricordi. È chiaro, così?

Lampante.

Bene.

Quel pensiero era irreprimibile e angosciante. In particolare perché pareva ossessionare solo lui. Il respiro lento e costante di Sherlock accompagnava la presa di coscienza di John. Era abbastanza emblematico, a pensarci bene.

Quel che era successo la seconda notte, lui aveva sempre ricordato esattamente per ciò che realmente era – certo, per quel che le tossine e gli ormoni gli permettevano. Non si era perso in giochetti di subconscio e aveva affrontato ogni cosa. John ne era ammirato: c'era davvero bisogno di uno “spettro emotivo” differente per fare una cosa del genere. E per accettare senza scomporsi la definizione di “sogno” che gli era sfuggita il giorno prima, mentre erano in auto.

Che tipo di spettro emotivo sarebbe servito, a lui, per digerire il fatto che fare l'amore con il suo migliore amico era stato metabolizzato come un bellissimo, glorioso sogno irrealizzabile?

John si aggrappò alle coperte e batté la testa contro la parete, dondolandola affranto. Si lasciò sfuggire un patetico, disperato “Ohw”, quale ultimo segno di cedimento del suo già bistrattato orgoglio.

Ma non era la prima volta – no, non lo era affatto – che John faceva i conti con qualcosa di più grande della sua volontà. Generalmente era a questo punto che entrava in gioco il suo istinto di sopravvivenza. 'Ché essere un soldato non significava solo far sopravvivere il proprio corpo, ma innanzitutto la propria mente, ed era questa la prima cosa che t'insegnava la guerra.

Dio, ti prego, salvami” aveva pregato appena la pallottola gli aveva perforato la spalla. Ma non erano state le preghiere a riportarlo vivo tra i suoi compagni di plotone. Era stata una domanda: “Vuoi vivere?”. E una risposta: “Sì.”

In quel momento la sua sopravvivenza dipendeva da un'unica cosa. Un sussurro in mezzo all'accozzaglia dei ricordi. Qualcosa a cui la sua mente s'era sempre aggrappata, in quell'ultimo mese, proprio per convalidare l'idea che non era mai successo, che era stato solo un sogno. Reale o immaginario che fosse, John prese quel sussurro dal legittimo padrone e gli pose un punto interrogativo alla fine.

Lo ami?

John batté le palpebre nel buio che andava schiarendosi per le prime luci dell'alba. Rilasciò un sospiro che rilassò le membra e riportò il battito cardiaco nella normalità. La risposta arrivò e trovò posto dentro di lui con insospettabile facilità.

John Hamish Watson sarebbe sopravvissuto anche questa volta.


Aveva dormito poco e male, ma non lo nascondeva. Il silenzio era meno imbarazzato rispetto al giorno prima, anche se non del tutto naturale – ma Sherlock non poteva certo aspettarsi miracoli. Era sostanzialmente rilassato e appariva in qualche modo determinato, tanto da non scomporsi sotto la sua palese analisi.

Dunque John durante la notte doveva aver preso una qualche Grande Decisione riguardo la loro situazione. Una decisione della quale tuttavia non voleva renderlo partecipe. Questo fatto, tutto sommato, non lo preoccupava granché. Anzi, Sherlock era lieto del fatto che Il Discorso fosse stato rimandato: ciò gli facilitava decisamente le cose. Aveva tre mesi da pianificare assieme a lui: era indispensabile che fosse lucido e che non si lasciasse andare ad isterismi.

I pass lasciati da Mycroft avevano validità ancora per quella giornata. Comunque la Stapleton fornì loro scorte di ormoni per un solo mese, dicendo loro di tornare di lì a quattro settimane per un check-up completo e una nuova scorta dosata in maniera adeguata. Fece loro un milione di inutili raccomandazioni, comprese banalità quali “Non faccia sforzi eccessivi”, “Non si esponga in situazioni pericolose” e “Non faccia uso di alcol e sostanze stupefacenti”.

Compresa la nicotina? – volle informarsi John.

La Stapleton annuì: – Compresa la nicotina, ovviamente. –

Essendo in minoranza, Sherlock si limitò a sbuffare tra sé. Sarebbe stato un esperimento lungo e faticoso.

La dottoressa gli porse la prima dose: – Si lavi accuratamente le mani quando ha finito. –

Sherlock osservò con malcelato sospetto la bustina di gel.

Questo avevo e questo vi beccate. – aggiunse senza giri di parole – Per la prossima volta vedrò cosa posso fare. –

Era prevedibile: le iniezioni erano improponibili e tempo per creare ex novo delle compresse non ne avevano.

I primi tempi le daranno degli effetti collaterali. – lo avvertì mentre si toglieva la camicia.

Sherlock si rigirò la dose tra le mani, cercando l'apertura: – Questo è ampiamente preventivato. –

Hai preventivato tachicardia, nausea, gonfiore, parestesia, disturbi umorali, depressione e sbalzi della libido? – elencò John, togliendogli dalle mani la dose e aprendola per lui.

No, ma grazie per l'esaustiva descrizione di come il dottor Jekyll si tramuterà nel signor Hyde. – ribatté ironico.

Spremette la dose sul palmo della mano e iniziò a spalmarsela sul ventre. Era fredda e appiccicosa. Immaginava che avrebbe dovuto farci l'abitudine.

Ogni dose ha la sua data. – spiegò la Stapleton – Non sgarrate, non confondetele: un dosaggio sbagliato potrebbe compromettere l'intera gravidanza. –

Porse la mano a John: – Buona fortuna. –

Grazie. – fece lui, ricambiando la stretta.

Sherlock allargò le mani unte di gel e arricciò un angolo della bocca in segno di scusa.

A presto, dottoressa. –

Lei ricambiò con un cenno del capo e uscì dal laboratorio.

Cosa c'è? – sospirò dopo un lungo momento.

Io non ho detto niente. – si difese John.

Oh, sì che hai detto qualcosa. – ammiccò mentre andava a lavarsi le mani al lavabo d'acciaio – L'ha fatto il tuo muscolo buccinatore. –

John soffocò un risata.

Ah, sì? – decise di stare al gioco – E che cosa ti ha detto il mio muscolo buccinatore? –

Sherlock si asciugò e gettò la carta nel cestino dei rifiuti organici. Si fissarono un momento, ai capi opposti della stanza, lui con le mani ai fianchi, John appoggiato alla scrivania.

Che sono ridicolo. – ammise francamente.

Ridicolo? Chi, tu? – John mosse la mascella a nascondere un sorriso e si schiarì la voce – Mentre ti spalmi un cocktail di ormoni sulla pancia? –

Scoppiarono a ridere. E – Dio – quanto gli fece bene! Era troppo, davvero troppo tempo. Troppa tensione. Non che una semplice risata fosse capace di risolvere tutti i nodi che in quel mese si erano accumulati tra di loro. Ma non fece affatto male lasciarsi un po' andare.


Girava, girava e girava. Dietro le svolte di quella strada nebbiosa, ad ogni cambio di marcia, durante le lunghe fasi di mutismo della radio, mentre decelerava in prossimità di un incrocio o faceva partire i tergicristalli per scacciare quelle due gocce che talvolta il cielo plumbeo si decideva a spruzzare sul parabrezza, durante le soste nelle piazzole d'emergenza mentre teneva la fronte a Sherlock che rigettava. La domanda girava nella testa di John.

Come fai... com'è che tu ricordi tutto e io no? –

Nella sua mente, John gliel'aveva posta in cento modi diversi quella domanda. S'era masticato le parole per ore, spostando verbi, sostituendo pronomi, togliendo virgole. All'altezza di Warwick le aveva sputate fuori in quel modo e se n'era già pentito – ovviamente. Pregò solo che Sherlock non avesse voglia di fare il difficile.

Non ricordo tutto. Mi sono limitato ad unire i puntini. –

Non ricordava tutto. Se lo ripeté, giusto per cercare di rilassarsi un po': non ricordava tutto.

John grattò il volante con l'unghia del pollice: – Allora... –

Sherlock lo occhieggiò, in attesa che concludesse la frase.

Seriamente, John? Vuoi che parliamo di questo? –

No. – si schiarì la voce e scosse la testa – No, lascia stare. –

Oh, al diavolo... sì, , accidenti! Ne aveva bisogno. E no, non lo voleva! Santo Iddio, non riusciva ancora ad accettarlo, non poteva, non ne era in grado. Ma come faceva a lasciare ogni cosa in sospeso in quel modo e...

Oh, santo cielo! – Sherlock sbuffò – John, smettila di pensare, ti prego. –

John alzò una mano dal volante e gesticolò seccato: – Pensavi davvero che avrei messo da parte questa faccenda? –

Assolutamente no. Non sarebbe da te. – ribatté lui – Speravo, per lo meno, che potessi rimandare ancora. –

John rise per l'incredulità: – Sei troppo intelligente per credere che rimandare sia una degna soluzione. –

Quel silenzio lo allarmò. Le sopracciglia inarcate, guardò alternativamente la strada nebbiosa davanti a lui e Sherlock al suo fianco.

Non lo sei? –

D'accordo. John, abbiamo fatto sesso. – dichiarò atono – Sei soddisfatto, adesso? –

Asfalto bagnato, bassa visibilità: non era il caso d'inchiodare come gli veniva istintivo. Due giorni di colpi di scena erano serviti, dopotutto. Adesso i suoi nervi erano scattanti come e meglio che in Afghanistan.

John strinse il volante fino a far sbiancare le nocche e roteò la testa: – No, non lo sono. –

Cos'è che ti turba di più? –

Non lo stava guardando, John. Non ne aveva il coraggio. E in quel momento aveva l'atroce dubbio che non avrebbe mai più avuto il coraggio.

Che hai fatto sesso con un altro uomo? – insisté, poi abbassò la voce e si chinò appena verso di lui – Che hai fatto sesso con una specie di ermafrodita geneticamente modificato? Che l'hai pure messo incinto? –

John mosse la mascella e deglutì a vuoto. Di solito la verità fa male, e quel punto fermo era paradossalmente confortante. Ma quanto avrebbe fatto male quella verità? Quanto avrebbe fatto male a loro due?

Che ho fatto sesso con te. –

Era difficile non sentirsi addosso i suoi occhi mentre tornava lentamente a sedersi composto. Il fruscio del suo cappotto sullo schienale riempì l'abitacolo.

Abbiamo fatto sesso. – trovò la forza di ripetere – E non ero in me. –


E non ero in me. E nemmeno tu lo eri. E quel momento non si ripeterà mai più e noi ce ne porteremo appresso questi ricordi falsati e indegni senza poterci fare niente.

Sherlock lesse questo ed altro nel profilo accigliato di John, prima che una sorta d'improvviso pudore lo costringesse a distogliere lo sguardo. Per un momento si chiese se quel pudore aveva a che fare con John o con sé stesso, ma preferì non darsi una risposta.

Continuare a rimuginarci sopra non cambierà lo stato delle cose, John. – gli fece notare.

Lui schioccò la lingua: – Formidabile analisi, ma speravo che saresti andato un po' più in profondità. –

Ah, lo scudo del sarcasmo! Erano proprio a buon punto.

Accosta. –

L'espressione di John virò immediatamente sulla preoccupazione.

Devi vomitare? – gli chiese mentre rallentava.

No. – Sherlock sganciò la cintura e aprì la portiera nel momento stesso in cui l'auto si fermava, uscì con uno svolazzio del cappotto e si girò a sporgere la testa nell'abitacolo – Non voglio ripetere il rischio di un'inchiodata. –

John ci mise il suo tempo per uscire a sua volta. Tempo che diede modo a Sherlock di respirare a pieni polmoni l'aria umida del Warwickshire e vagare con lo sguardo tra la nebbia della brughiera attorno a loro, quasi cercandovi in mezzo le parole necessarie.

Ci sono andato in profondità, John. –

Gli cercò lo sguardo e non fece fatica a trovarlo.

Perché me lo stai dicendo? –

Perché hai bisogno di sentirtelo dire. –

Perché c'erano troppe cose non dette tra di loro, ed era meglio che restassero tali, certo, ma qualche paletto era necessario metterlo. Perché la cappa di dubbio che si portava appresso John era insopportabile e finiva continuamente col distrarlo. Perché Sherlock non poteva permettersi d'indugiare oltre su quella faccenda: distoglieva energie dal fulcro di quella situazione, ovvero l'esperimento. Perché, pur non volendolo – non potendolo – ammettere, c'era una parte di lui mortalmente spaventata da tutto questo. E perché quella domanda – l'ovvia domanda – che certamente John si era posto durante la notte e dalla quale era scaturita la Grande Decisione Misteriosa, se l'era fatta anche lui, ma non aveva trovato il coraggio di rispondersi e ciò lo metteva in seria difficoltà riguardo il discorso che gli aveva fatto la Stapleton.

E per te è chiusa qui? –

Le domande retoriche erano il suo forte, e Sherlock lo sapeva bene, ma ogni volta si stupiva della capacità che aveva John di tirarne sempre fuori una al momento opportuno. Neanche ce le avesse in tasca.

Non pretendo che per te lo sia, ma accetta per lo meno che sia così per me. –

Il silenzio di John e il modo in cui lo guardava fisso, posato al tettuccio dell'auto con le mani intrecciate, erano del tipo “non-mi-stai-convincendo-proprio-per-per-un-cazzo”.

Ti facevo più diplomatico, John. – commentò infastidito.

E io credevo che tu mi conoscessi. – ribatté lui.

Lo vide risalire in auto, il rumore metallico della portiera che sigillava senza appello quell'ultima dichiarazione. Oh, immaginava che sarebbe stato difficile, ma non così tanto.

Vorresti poter dire che abbiamo fatto l'amore e che lo volevamo entrambi e che è stato indimenticabile. – cantilenò Sherlock tutto d'un fiato, mentre apriva la portiera e si sedeva e si allacciava la cintura in un unico movimento – Vorresti poter raccontare un giorno al nostro bambino quale momento meraviglioso abbiamo condiviso quando l'abbiamo concepito. –

John partì con una sgommata. Ad ogni sua parola, il tachimetro mangiava miglia sotto l'acceleratore. Sherlock lo osservava senza fare una piega.

Be', non è così, John. Non sarà mai così. Fattene una ragione, per piacere, ed evitami questi isterismi. –

Ti eviterò questi isterismi quando tu mi eviterai la presunzione di sapere cosa sto provando. –

Ma io lo so. –

No, Sherlock. Non lo sai. –

Lo scambio di battute era stato così serrato che nessuno dei due s'era accordo dell'infittirsi della pioggia. John stava praticamente guidando alla cieca. Sherlock allungò una mano ad attivare il tergicristalli.

Mycroft ti ha fatto il discorso sullo “spettro emotivo”? – gli chiese stringendo gli occhi con sospetto – Il fatto che non provo quello che provi tu, John, non si significa che io non possa comunque capirlo. –

Oh, ma tu potresti anche capirlo, sì... se solo ti sforzassi di volerlo capire. –

Quello era un colpo ben mirato. Sherlock si trovò a sorpresa con il fianco esposto. Non credeva che John avrebbe scoperto così presto il suo gioco.

A te non importa cosa provo realmente. – incalzò – Ti basta potermi categorizzare e mettere da parte in una delle stanze del tuo Palazzo Mentale e per te è a posto così. –

No, John. Non è a posto così. Ma lo sarà per te, fidati.

Lo vedi? Stai isterizzando. – ribatté, mantenendo inalterata la facciata.

Certo che sto isterizzando! – sbottò gonfiandosi di stizza – E continuerò a farlo, se tu non la pianti con questa supponenza. –

Stava iperventilando. E... oh, cielo... eccolo. Il momento clou: rinfacciarsi le cose a vicenda. Doveva aspettarselo.

Avrei potuto metterti i bastoni tra le ruote, oppure darmela a gambe... ma no, ho tacitamente deciso di assecondarti in questa follia. Sto alle tue regole, Sherlock. Ma per favore, non venirmi a fare discorsi sull'emotività. Non li accetto. Non da te, no. E, detto per inciso, nemmeno da tuo fratello. –

Apri un discorso sull'emotività e rifiuti che io esprima il mio parere in merito? – replicò, seriamente dispiaciuto dalla sua mancanza di logica e sempre più convinto della dannosità dei sentimenti – È un po' contraddittorio, John. E infantile, a dirla tutta. –

No, Sherlock, non lo è. – dichiarò lui con fermezza – Prova un momento a fermarti a pensare a quello che hai appena detto e ti renderai conto da solo del perché. –

Bam! Effettivamente a Sherlock non ci volle molto per rendersene conto. Colto di sorpresa, sgranò gli occhi verso il biancore nebbioso ed emise un “oooh” pieno di sincero stupore.

No, non poteva essere. Oddio... lo era? Ma questo complicava ulteriormente le cose. Non era affatto contemplato: era sicuro che John si sarebbe concentrato sulla faccenda del “bambino”, senza insistere così tanto sul resto. E se lo conosceva almeno un po', Sherlock non se la sarebbe cavata con una risposta vaga.

Tu non vuoi il mio parere. – esalò, nascondendo a stento l'ansia che già stava iniziando a divorarlo – Tu vuoi... sapere... cosa provo? È questo? –

John ammiccò: – Benvenuto nel mio spettro emotivo, Sherlock. –


Non ti racconterò quello che ho provato quella notte, John. –

Era un'affermazione del tutto fuori luogo e d'una ambiguità tale da fargli mancare un battito. Possibile che fossero davvero così emotivamente lontani? Quei due pensieri schiacciarono John sotto una tenerezza inaudita quanto inaspettata, che rischiò seriamente di farlo andare fuori strada – figurativamente quanto materialmente.

Perfetto. – si schiarì la voce e alzò il mento – Non è quello che voglio. –

Dunque vuoi sapere ciò che provo adesso. – concluse lui.

John inarcò le sopracciglia: – Brillante deduzione, signor Holmes. –

Il breve silenzio che seguì non gli piacque per niente. Cosa aveva da pensare, adesso? Non c'era niente da pensare, c'era solo da sentire. Ma forse quello era un concetto troppo difficile per Sherlock.

Niente in particolare. –

Ok, questo era troppo. E John non inchiodò, come era suo sacrosanto diritto, solo perché erano al casello di uscita dell'autostrada e rischiavano un un tamponamento a catena.

Abbiamo... noi abbiamo fatto sesso. – annaspò, come se ripetere quel concetto che già si stagliava tra di loro, riempiendo tutto l'abitacolo e rendendo l'aria irrespirabile, potesse essere in qualche modo utile – E tu adesso sei incinto. E questo... questa cosa andrà avanti per un bel pezzo e ce lo ricorderà ogni giorno. E tu non provi niente di particolare? –

Si guardarono.

Precisamente. –

Prima o poi anche una persona di mondo come John Hamish Watson – medico, ex soldato, blogger e assistente di un consulente detective – giunge a quell'umiliante punto in cui la scorta delle argomentazioni si esaurisce. Non c'è più nemmeno da grattare il fondo. E cosa resta, a quel punto? L'onorevole fuga del silenzio.

Mi spiace che la mia risposta non corrisponda alle tue aspettative. – fece Sherlock.

John accostò al casello e abbassò il finestrino per pagare il pedaggio.

Sei un robot. Sei fottutissimo robot del cazzo. – dichiarò con stanca irritazione – Litigare con una cassa automatica è più produttivo. –

Se preferisci vederla così... –

Uno non può non provare niente! – incalzò, sentendosi alquanto ridicolo a continuare a battere su quel discorso – Non è qualcosa di umano! –

Sherlock sospirò con fastidiosa aria di sufficienza: – John, non è che mi hai “rubato l'innocenza” o che so io... insomma, è stato un rapporto sessuale. Punto. –

Con me! – precisò sull'orlo di una crisi di nervi – Accidenti, Sherlock, l'hai fatto con me! –

Dio, non poteva credere di essere caduto così in basso! Era umiliante. Dannatamente umiliante. Non voleva crederci.

Vuoi sentirti dire che è stato speciale? – lo sbeffeggiò – Sei davvero a questi livelli di sentimentalismo? –

E siamo punto e capo. – ringhiò stringendo il volante – Non sai quello che mi voglio sentir dire. E vuoi sapere una cosa buffa? Non voglio che tu mi dica quello che vorrei sentirmi dire. Voglio che tu mi dica la verità. –

La verità. – ripeté Sherlock.

Senza la minima esitazione, John annuì.

Non sei pronto per la verità, John. –

Vero, verissimo. Ma non poteva certo cavarsela così. E poi che discorso era? Nessuno era mai pronto per la verità. Ma mica ci si poteva fermare per questo. Non era così che andava il mondo.

Questo lascialo giudicare a me. –

Lo sguardo fisso sul marciapiede che scorreva fuori dal finestrino, Sherlock parlò lentamente: – E se ti dicessi che forse non sei l'unico a non essere pronto per la verità? –

John batté le palpebre un paio di volte e fu con voce strozzata che disse: – Sei... tu sei disposto a portare avanti una gravidanza, ma non sei pronto per... –

Esattamente. –

Un'occhiata. Gli sguardi che tornano in fretta a scrutare la strada trafficata davanti a loro.

Fammene una colpa, se questo può farti sentire meglio. –

Prima ancora che finisse la frase, John si scoprì a scuotere la testa.

Non te ne faccio una colpa. No. – strinse la mascella e deglutì a vuoto – A dirla tutta, avevi ragione. – si schiarì la voce – Sul non essere pronto, intendo. –

È un modo per dire che il discorso è rimandato? –

John sospirò sonoramente. E infine annuì.


Sherlock non aveva bisogno di eliminare dal suo database cerebrale qualche informazione per fare spazio, né di creare una nuova stanza nel suo Palazzo Mentale. Perché non era nel cervello che quelle nuove informazioni dovevano trovare il loro posto. Scoprì, piuttosto, di avere lo spazio adatto in un'altra parte di sé, di recente costruzione. Lì andarono a finirci, e in maniera del tutto autonoma, le seguenti informazioni.

Il modo in cui entrambi, con il loro fare impacciato e totalmente fuori dagli schemi con cui gestivano sempre il loro rapporto, erano riusciti sistematicamente, per tutta la giornata, a dichiararsi l'un l'altro quello che provavano, esattamente mentre tentavano di non farlo.

Lo sguardo di John quella mattina: la totale, innocente assenza del benché minimo tentativo di celare come aveva passato la notte.

La domanda che si erano posti entrambi.

Le risposte che restavano sospese.

L'espressione di John, nell'esatto momento in cui aveva detto che non era pronto.

La riluttanza con cui si adeguava quella situazione: mille volte più preziosa del fatto stesso che accettasse tutto questo.

Il proprio senso di colpa che lo divorava nel sapere quanto stavano rischiando entrambi in tutto questo.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sei ***


IMPORTANTE: ho modificato il periodo in cui si svolgono i fatti... semplicemente, mi sono accorta di aver sbagliato mesi: come si può leggere in The Blog of Dr. John H. Watson, a Baskerville ci sono stati in Marzo, per cui ho dovuto rivedere le date. Tutto qui.

Noterete subito un cambio di registro narrativo: è momentaneo, giusto tre capitoli... ma penso che lo troverete interessante. ;)






Sei

~

Di un mese dantesco


Dolce color d'orïental zaffiro,

che s'accoglieva nel sereno aspetto

del mezzo, puro infinito al primo giro.

Divina Commedia, Canto I, v 15 –



Primo dei post a lettura privata che John Hamish Watson, al fine di documentare gli eventi che intercorsero tra la primavera e l'estate del 2011, scrisse e pubblicò regolarmente sul suo blog ogni settimana.


THE PERSONAL BLOG OF

Dr. John H. Watson


20 Aprile


Quinta settimana: Inferno


Giorno uno.

L'assunzione della prima dose di ormoni è andata a buon fine. Ancora nessun effetto collaterale riscontrabile, per il momento. Prima di cena ho eseguito un rapido esame dello stato di salute del paziente: appare nella norma, pur soffrendo ancora di una lieve disidratazione causata dal vomito e dai prelievi del sangue. Prospetto che gli ormoni faranno presto svanire questo sintomo, comunque gli ho somministrato un antiemetico.


Giorno due.

L'assunzione della seconda dose pare che sia andata a buon fine. Dico “pare” perché il paziente non ha voluto che assistessi, adducendo come spiegazione l'inutilità della mia presenza e lanciandomi dietro un vecchio barattolo di Spam riempito di unghie umane nel cacciarmi dalla sua stanza. Rilevato immediatamente un massiccio cambio d'umore. Ragionevole dubbio: è imputabile agli ormoni o mi trovo davanti al solito imbecille? Il check-up serale è stato quanto mai difficoltoso. Sotto la minaccia di scavalcare il cornicione, ho preferito esaminare Sherlock da lontano e annotare mentalmente quanto potevo. Gli strilli di paura della signora Hudson mi hanno fatto venire il mal di testa.


Giorno tre.

Giornata confusa. Sherlock ha suonato dalle tre di notte fino a mattina inoltrata. Ringrazio il cielo che fosse un sabato: addormentarmi in ambulatorio sta diventando una fastidiosa abitudine. Gli sbalzi umorali del paziente sono peggiorati: questa volta ha imposto che assistessi all'assunzione della terza dose. Ma prima ha ripetutamente preteso che controllassimo che la data fosse esatta. Il sospetto che abbia assunto della nicotina a mia insaputa si è rivelato del tutto fondato quando, con l'aiuto della signora Hudson, sono riuscito a trovare i cerotti usati in fondo al cesto della biancheria sporca. Il check-up è stato la sagra dell'ipocondria: ha sistematicamente ribattuto ad ogni mia conclusione sul suo stato di salute con argomentazioni tratte dalla Medical Encyclopedia WebMD. Dopo cena ho provato a somministrargli un blando sedativo, ma ha capito che glielo avevo nascosto nel the e ha scambiato le tazze.


Giorno quattro.

Non potrò mai ringraziare abbastanza il Signore per avermi regalato questa giornata. Sherlock ha dormito tutta la mattina e gran parte del pomeriggio. La dose di ormoni ho dovuto somministrargliela io stesso (ovviamente dotandomi di guanti monouso). Non ha aperto gli occhi nemmeno mentre lo svestivo. Per puro scrupolo l'ho svegliato all'ora di pranzo e sono riuscito a fargli mangiare qualcosa. La sera era talmente intontito che si è fatto fare il check-up mentre guardava la TV e ha criticato solo tre volte le deduzioni della Fletcher.


Giorno cinque.

Dal New Oxford Dictionary of English:

Incubo [ìn-cu-bo] s.m.

  1. Sogno angoscioso che provoca un forte senso di oppressione. Avere un i.

  2. fig. Pensiero molesto e angoscioso. Vivere nell'i. della guerra; Liberarsi dall'i. degli esami.

  3. fig. Di situazione o persona estremamente molesta. Questa cena è stata un vero i.; Quando è nervoso diventa un i.

Errata corrige: Quando è nervoso diventa un i. Sherlock Holmes.

Per amore della professione medica riferisco che la dose è stata somministrata e che il check-up è stato eseguito: a parte dei reiterati episodi di vomito imputabili al tailandese da asporto che il paziente ha preteso di mangiare a pranzo, appare in salute (per lo meno fisicamente). Risparmio ai posteri ulteriori delucidazioni sulla giornata appena trascorsa.


Giorno sei.

Si è verificata una fuga del paziente. Mea culpa: era un'azione prevedibile da parte del soggetto, in particolare visto che aveva minacciato di farlo più volte nei giorni precedenti. Panico momentaneo, lo confesso. Fortunatamente Lestrade ha provveduto a riportarlo indietro prima che si rendesse ridicolo davanti a tutta Scotland Yard. Ormoni somministrati in ritardo, ma comunque entro le 24 ore. Al chuck-up è risultato che il paziente è riuscito ad assumere una dose di caffeina di gran luna superiore a quella consigliata. È rimasto vigile e iperattivo fino alle due di notte, ora in cui è crollato in stato semi-incosciente, sbavando sul tappeto del soggiorno. Spero che questa esperienza gli abbia fatto capire che non è consigliabile bere dieci lattine di Red Bull di seguito.


Giorno sette.

Dose regolarmente somministrata. Il paziente ha lamentato per tutto il giorno, ininterrottamente, chiamandomi più volte sia sul cellulare sia al numero dell'ambulatorio, i seguenti sintomi: gonfiore agli arti, emicrania, vista appannata, appetito insanabile, colpi di sonno nel pieno di qualche attività, difficoltà di concentrazione, sudorazione eccessiva e conseguente prurito localizzato accompagnato da parestesia diffusa. Al mio ritorno, giaceva nudo sul proprio letto, cosparso di quello che dall'odore ho capito essere borotalco e canticchiando qualcosa dei Depeche Mode. Alla fine del check-up ero tutto imbiancato.


11 commenti


Erano i Talking Heads, John. Psycho Killer, singolo tratto dall'album del '77. Fatti una cultura musicale. Francamente, mi chiedo quale metodo d'indagine tu stia usando, vista la palese mancanza di accuratezza nelle tue rilevazioni. Non andremo da nessuna parte in questo modo, John.

Sherlock Holmes 20 Aprile 9:16


Non accetto critiche da qualcuno che rifiuta sistematicamente l'assistenza del proprio medico.

John Watson 20 Aprile 12:39


Perché non stai pranzando con Sarah?

Sherlock Holmes 20 Aprile 12:41


Non cambiare discorso, Sherlock.

John Watson 20 Aprile 12:47


Sei in pausa, altrimenti non potresti perdere tempo al computer. E l'ora suggerisce che tu stia mangiando. Infatti le tue risposte sono lente, anche più dei tuoi standard, quindi hai le mani impegnate. Ma non risponderesti affatto ai miei commenti se fossi in compagnia. In particolare, se fossi in compagnia di Sarah. Ergo, stai pranzando da solo. La domanda è: perché? Sarah non è fuori città o avresti il doppio turno e stamattina, prima di uscire, mi hai detto che saresti rientrato al solito orario. Certo, questo non esclude un contrattempo sorto senza preavviso. Ma ciò implicherebbe, ancora una volta, che tu ricopra i suoi pazienti, cosa che non avverrà visto che non ti sei premurato di telefonare a casa per avvertirmi (e sopratutto per avvertire la signora Hudson in modo che mi tenesse d'occhio). Qualsiasi impegno di Sarah si riduce al solo orario del pranzo. Dunque ha un appuntamento. Oppure avete litigato, delle due l'una. O forse entrambe?

Sherlock Holmes 20 Aprile 12:50


Fingerò di non aver letto.

John Watson 20 Aprile 12:55


Risposta insensata. John, perdi ogni giorno di più la tua già scarsa logica.

Sherlock Holmes 20 Aprile 12:56


Oh, e nella definizione di “incubo” hai dimenticato di inserire i tuoi concerti notturni.

Sherlock Holmes 20 Aprile 12:57


Questo era un colpo basso anche per uno come te, Sherlock.

John Watson 20 Aprile 13:02


Sono gli ormoni, John. Non vorrai farmene una colpa, vero? Ricordati che se sono in questo stato è solo per opera tua.

Sherlock Holmes 20 Aprile 13:03


Perché ho abilitato i commenti?

John Watson 20 Aprile 13:08


~


Appunti vari tratti da fogli sparsi, block notes, margini di libri e il portatile personale di Sherlock Holmes, datati approssimativamente dal 21 al 27 Aprile 2011.


Ho chiesto ed ottenuto di poter suonare il violino. L'ho fatto per molte ore e alcuni giorni di seguito. E mi sono beato delle espressioni di forzata serenità sui volti del mio coinquilino e della mia (facciamo finta che non sia) governante.

Nausea: gradualmente diminuita fino a limitare la propria comparsa solo al mattino.

Ipersensibilità agli odori: trovo ormai insopportabile l'odore della cucina della signora Hudson, in particolare il suo roastbeef. Non ho più avuto l'impellente necessità di mangiare tailandese, ma da due giorni non faccio che sognare carote.

Vomito: non si sono più verificati episodi dal picco del 18/04/2011

[aggiunto a margine: (voce mantenuta per scrupolo: dalla prossima settimana cancellata)]

Sonnolenza: incostante. Non rilevo particolari che possano ricondurre ad un preciso ritmo.

Minzione: la frequenza è aumentata di 1/3 rispetto alla settimana scorsa (½ rispetto al normale).

Temperatura: sui 37°C, costante.

Gonfiore: lieve ma persistente in tutta la zona pelvica, occasionalmente agli arti.

Parestesia: costante, ma se non vi faccio caso non la percepisco. Si accentua la sera, suppongo per via delle manipolazioni cui mi sottopone John per il check-up. È insopportabile durante la doccia.

Sbalzi d'umore: dubito che irritazione e noia siano imputabili a sbalzi d'umore come vorrebbe farmi credere John.

Sbalzi della libido: una polluzione notturna. Nella norma. John è stato fin troppo allarmistico.

Tre chiamate perse da Lestrade. Cinque sms da Mycroft. Ignorati entrambi. Se anche avessi per le mani dei casi interessanti, John non mi permetterebbe di occuparmene, per cui in effetti meglio così, sarebbe uno spreco inutile. E francamente non saprei nemmeno dire se avrei la luci-

[testo mutilo a causa dello strappo della pagina]

Adrenalina. Nel mio stato, sono costretto da chi mi sta attorno i miei carcerieri a farne a meno. Di seguito una lista dettagliata di ciò che al paziente prigioniero è vietato (tutto) e cosa gli è permesso (niente):

  • Al paziente (sì, John mi chiama “paziente”, con buona pace di decenni di femminismo che vorrebbero demedicalizzare lo stato di gravidanza... complimenti John!) è vietato: uscire di casa, salvo per la sua passeggiatina giornaliera in rigorosa compagnia del medico; maneggiare armi da fuoco, sostanze chimiche reagenti, parti anatomiche in vari stadi di putrefazione; decidere di farsi la doccia quando è da solo in casa (eventualità per altro remotissima) e comunque deve avvertire prima; fare uso di qualsiasi cosa contenga della nicotina o altri stimolanti; fare qualsiasi cosa sia anche solo lontanamente interessante.

  • Al paziente è concesso: mangiare, molto e spesso (superfluo); bere, molto e spesso, tranne le bevande alcoliche (noioso); leggere libri e riviste che ha già letto e riletto un considerevole numero di volte; bruciare i suoi preziosi neuroni guardando la TV; navigare tra le meraviglie del web (perché ci sono così tanti siti di porno e nessun database decente sui pollini del Galles occidentale?); innaffiare piante della cui esistenza era felicemente ignorante fino a ieri; riordinare cassetti il cui contenuto ha già trovato una sua alchemica sistemazione senza alcun intervento esterno; fare qualsiasi cosa sia altamente inutile e sopratutto tediosa.

Ho mostrato a John i miei appunti sui cambiamenti che sto progressivamente subendo. Ovviamente non è apparso minimamente interessato. Potrebbe per lo meno dimostrarsi utile e spiegarmi come distinguere i sintomi della gravidanza dagli effetti collaterali degli ormoni. E invece si sta rivelando del tutto incapace di gestire una così semplice richiesta. Ad ogni mia domanda, le sue risposte sono vage e completamente insoddisfacenti. Ogni sera la stessa storia. Tragico, ma mi è stata più utile la consultazione incrociata di Wikipedia e PregnancyForum.co.uk. Il che risulta comunque insufficiente. Ho bisogno di maggiori dati.

Gel di ormoni, check-up serale, mangiare e dormire, fare attenzione a non prendere freddo, riposarmi. Questo è quanto di entusiasmante ha riempito questa sesta settimana. Stasera John mi visiterà e mi dirà che procede tutto bene (grazie tante, John, potevo arrivarci anche da solo). Non capisce che non è questo il punto? Si vanta di possedere tutta quell'empatia, ma quando si tratta di comprendere le mie esigenze non ri-

[righe illeggibili a causa della grafia scomposta e della ripetuta cancellazione tramite scarabocchi]

Cosa non darei per una sigaretta.

Ha chiamato il nuovo post “Non sapevo che il biglietto fosse di sola andata”. Ed è anche convinto di essere originale. Il contatore di presenze prosegue la sua crescita e io ancora mi chiedo quale sia la grande attrattiva rappresentata da quei suoi riassunti rabberciati e superficiali. Un medico dovrebbe possedere un certo spirito di analisi. John, come faccio a fidarmi di te, con tutta questa approssimazione? Per lo meno può procurarmi i medicinali adatti senza costringermi a ricorrere a tediosi espedienti. Certo, previa sua approvazione. John sa essere fin troppo ligio alle regole, quando vuole. Il fatto drammatico, al momento, è l'aver coinvolto la signora Hudson. Gioco pericoloso, a mio dire. Ma John ama giocare pericolosamente (sempre saputo). Almeno in questo siamo simili.

Non ragioniam di loro, ma guarda e passa” [in italiano nell'originale]

La mia vita è un abisso d'inedia. Mi limito a nutrire la blanda speranza che alla fine di questo scriteriato mese, quando torneremo a Baskerville, la Stapleton sappia darmi quelle risposte per le quali il suo master appeso in bella mostra troverebbe giustificazione.



Terzo dei post a lettura privata che John Hamish Watson, al fine di documentare gli eventi che intercorsero tra la primavera e l'estate del 2011, scrisse e pubblicò regolarmente sul suo blog ogni settimana.


THE PERSONAL BLOG OF

Dr. John H. Watson


4 Maggio


Settima settimana: Purgatorio


Giorno uno.

La dose giornaliera è stata assunta come al solito, ovvero tra i borbottii contrariati del paziente. Notevole il fatto che non si lamenti mai degli effetti collaterali, ma solo di quanto sia seccante dover assumere gli ormoni con questo metodo. Gli ho chiesto se per caso non soffrisse di omfalofobia e lui mi ha risposto che non c'è niente che non va nel suo ombelico, che dovrei piantarla di riempirmi la bocca di termini dei quali a stento conosco il significato e che se non uscivo immediatamente dalla stanza mi avrebbe somministrato di nascosto gli ormoni tramutandomi in “Joanna”. Al momento del check-up serale sono stato mandato affanculo (sono comunque riuscito a fare un controllo superficiale mentre dormiva, grazie al cielo la sonnolenza persiste).


Giorno due.

Dose assunta, check-up serale eseguito. Tutto nella norma. Ciò che mi ha perplesso è ben altro. Cause immotivate hanno spinto il paziente a tartassarmi di sms dal contenuto indecifrabile (“Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”...? Suppongo che sia italiano e proprio per questo non ne comprendo il significato). Rientrato a casa, alla mia domanda su cosa gli fosse preso ha risposto che era annoiato, ma qualsiasi mio tentativo di conversazione al fine di distrarlo si è arenato davanti alla sua totale... come posso definirla? Mancanza di senso sociale? Troppo raffinato. Diciamo che ha fatto lo stronzo. Sherlock, non se l'unico a cui infastidisce essere ignorati!


Giorno tre.

Ormoni assunti regolarmente: ormai il paziente è nel pieno della routine, per quanto non manchi mai di lamentarsene. Inaspettata di visita di Mycroft. Sherlock si è innervosito (più per il fatto che non ci avesse pensato che per la sua presenza in sé). Ho dovuto mantenere una certa fermezza per evitare situazioni spiacevoli. Le domande di Mycroft sono state inopportune e insistenti. Appunto: dobbiamo essere più cauti, la signora Hudson sta iniziando ad avere die sospetti. Complessivamente, è stata la giornata delle domande e ne siamo usciti entrambi sfiancati. Forse è per questo che alla fine, durante il check-up, Sherlock ha evitato la solita pioggia di domande. Silenzio appagante come non ne sentivo da secoli.


Giorno quattro.

Crisi inaspettata. Fortunatamente era domenica e ho potuto provvedere personalmente, senza coinvolgere la signora Hudson. Con la scusa di farsi la doccia prima della dose, il paziente si è rinchiuso in bagno e non ne è voluto uscire per le tre ore successive. Mi sono trovato costretto a forzare la porta. La temperatura all'interno della stanza era di almeno 10 gradi maggiore a quella esterna. Ho trovato Sherlock accucciato nella vasca, che disegnava schemi sulle piastrelle della parete con la schiuma da barba. Non è stato facile farlo uscire e asciugare e obbligarlo a prendere gli ormoni. Non ha voluto vedere nessuno per il resto del giorno. Check-up ovviamente impossibile da eseguire: per lo meno mi ha detto come si sentiva da dietro la porta della sua stanza e mi ha concesso di lasciargli qualcosa da mangiare fuori.


Giorno cinque.

Il vassoio vuoto fuori della sua stanza mi ha informato che ad un certo momento della notte ha ceduto alla fame. Ha anche accettato il the che gli ho preparato prima di andare al lavoro, ma non sono stato certo che abbia assunto la dose di ormoni fino alla sera, quando sono rientrato a casa e ho trovato la confezione vuota nella spazzatura. Sherlock non si è comunque fatto vedere né sentire per il resto del giorno e non ho osato intercettarlo durante le sue frequenti visite al bagno. Ma la notte non ha chiuso la porta a chiave, per cui non mi sono fatto scrupoli a visitarlo sommariamente mentre dormiva.


Giorno sei.

Questa giornata è stata sfiancante, la tensione ha rischiato seriamente di mettermi fuori gioco. Il comportamento del paziente è stato assurdo. Era già sveglio alle sette del mattino: l'ho trovato lavato e vestito in soggiorno. Suonava. Appariva in salute (persino colorito) e di buon umore. Quando gli ho chiesto se avesse preso gli ormoni, ha risposto con una blando “Certo che sì” e ha ripreso a suonare (confermo che li ha presi). Tornato dal lavoro, stava ancora suonando e la signora Hudson mi ha riferito che l'ha fatto per quasi tutto il giorno. Ha mangiato e bevuto regolarmente, senza lamentarsi. A dire il vero non si è lamentato mai, nemmeno durante il check-up (confermo che non ha fatto uso di alcuna sostanza). Alla fine della visita mi ha posto una domanda (più un'affermazione che una domanda vera e propria) di carattere personale, alla quale ho cercato di rispondere in maniera naturale. I suoi discorsi erano comunque poco coerenti.


Giorno sette.

Il paziente ha preteso mangiare fuori. Lo dico come prima cosa per il semplice fatto che è stata la prima cosa che mi ha detto al mattino, presentandosi in camera mia alle 6 vaneggiando che aveva già prenotato da Angelo. Ho accettato solo perché mi lasciasse in pace e poi mi sono rigirato nel letto. La prospettiva della cena fuori l'ha galvanizzato a tal punto che si è comportato diligentemente per tutto giorno (non ai livelli agghiaccianti del giorno prima, ma quasi). Ha preso la sua dose con entusiasmo persino eccessivo, si è sforzato di mangiare ai pasti e ha limitato le domande durante la visita serale. La signora Hudson ha riferito che mentre ero al lavoro non ha tentato di fare cose strane e ha suonato il violino per sole 4 ore. In compenso, non ha smesso di parlare dal momento in cui siamo usciti di casa per andare da Angelo e fino a quando non è crollato addormentato all'una di notte. Confesso di avergli concesso un paio di bicchieri di vino (non lo uccideranno... non più di quanto non stia già facendo quel micidiale cocktail di ormoni).


17 commenti


Versi 71 e 72 del I canto del Purgatorio della Divina Commedia. Nel primo è Virgilio che parla a Catone Uticense, riferendosi a Dante “cercatore di libertà”. Nel secondo, invece, parla del suicidio di Catone stesso. Dante elogia il suicidio di Catone in virtù dello scopo eroico di libertà politica che esprime il gesto.

Sherlock Holmes 5 Maggio 02:45


È un modo per dirmi che quel giorno hai contemplato il suicidio?

John Watson 5 Maggio 02:52


Non solo quel giorno.

Sherlock Holmes 5 Maggio 02:52


E saresti così gentile da darmene il motivo.

John Watson 5 Maggio 02:55


È stata una settimana noiosa.

Sherlock Holmes 5 Maggio 02:56


Ma se ti ho anche portato al cinema!

John Watson 5 Maggio 02:59


A vedere l'ultimo film di J.J. Abrams. In 3D. John, ho capito come finiva Lost alla quarta puntata della terza stagione e tu mi porti a vedere un film di J.J. Abrams? Ho pagato 7 £ per farmi una dormita con addosso degli occhiali da hipster.

Sherlock Holmes 5 Maggio 03:01


Non hai dormito tutto il tempo: ogni tanto ti sentivo commentare.

John Watson 5 Maggio 03:04


Parlavo nel sonno.

Sherlock Holmes 5 Maggio 03:05


Tu non parli mai nel sonno.

John Watson 5 Maggio 03:08


E tu come lo sai?

Sherlock Holmes 5 Maggio 03:09


John? Come sai che non parlo nel sonno?

Sherlock Holmes 5 Maggio 03:10


Sono le 3 di notte, Sherlock. Vai a dormire.

John Watson 5 Maggio 03:13


Abbiamo condiviso la stessa stanza per sole 3 notti non consecutive. Anche ipotizzando che in quelle notti io non abbia parlato nel sonno o non l'abbia fatto a voce abbastanza alta da svegliarti, non puoi ragionevolmente supporre che io non lo faccia mai. Dunque, cosa ti fa pensare che io non parli nel sonno? Devi avere delle prove in merito, ma a meno che tu non ti sia messo a guardarmi mentre dormo come fanno i vampiri stalker dei romanzi young-adult, non vedo come tu possa affermare una cosa del genere.

Sherlock Holmes 5 Maggio 03:16


Tutto questo è ridicolo. Sto per disattivare i commenti.

John Watson 5 Maggio 03:19


Lo sai cosa si dice dei censori, John?

Sherlock Holmes 5 Maggio 03:20


Buonanotte, Sherlock.

John Watson 5 Maggio 03:23



Appunti vari tratti da fogli sparsi, block notes, margini di libri e il portatile personale di Sherlock Holmes, datati approssimativamente dal 5 al 11 Maggio 2011.


Ho bisogno di distrarmi. Non c'è niente niente niente tra queste mura che possa essere utile allo scopo. Mi trovo incastrato negli stessi ragionamenti e non mi fa bene. Due giorni sul divano, in contemplazione del paziente lavoro di un ragno alle prese con la costruzione della sua ragnatela. Il mio lato di entomologo è soddisfatto. Mi è venuta nostalgia di Moriarty. Sfortunatamente, il mio cellulare è stato requisito da John, con la scusa che tanto non sono mai da solo in casa. Non posso nemmeno contattare Lestrade per elemosinare dei casi minori con cui giocare a distanza.

[aggiunto a margine: Sì, sono ridotto a questo. La noia. Il tedio. I REALITY SHOW IN TV. Un giorno me la pagherai, John!]

Gli occhi di John sono blu. Non vi avevo mai fatto caso (non aveva alcuna importanza, rilevato e cancellato). Sono blu, screziati di nocciola attorno all'iride. Gliel'ho detto durante una delle sue visite, perché quando me le fa è abbastanza vicino e posso vederlo. Gli ho detto che sono- [riga in parte illeggibile perché cancellata] Mi ha risposto “Sì, lo so”. Gli ho chiesto se non gli desse fastidio. Mi ha risposto “Ci sono nato, perché dovrebbe darmi fastidio?”. Gli ho detto che io mi sentirei a disagio se tutte le volte che mi guardassi allo specchio fossi scrutato da quegli occhi.

[lungo tutto il bordo della pagina: Non bene? Sono stato offensivo? Un po', sì. Lo sono stato. Perdonami, John.]

Nausea: eccettuato un episodio sporadico al mattino del 06/05/11, non si è più presentata.

[aggiunto a margine: (voce cancellata dalla prossima settimana)]

Ipersensibilità agli odori: si mantiene costante, tuttavia non è forte quanto le scorse settimane. Posso riprendere a mangiare il roastbeef della signora Hudson.

Sonnolenza: sta gradualmente diminuendo.

[aggiunto a margine: (non arriverà mai troppo presto il momento in cui svanirà)]

Minzione: ogni due ore sono costretto a recarmi in bagno. Seccante.

Gonfiore: si è ormai stabilizzato alle pelvi, ci sto quasi facendo l'abitudine.

Parestesia: il borotalco è inefficace sul lungo termine. Si sta rivelando utile l'abbandono di qualsiasi indumento, ma pare che i dirimpettai non condividano questa soluzione. Ho detto a John che possono anche chiudere le tende invece di spirare i vicini e lui ha risposto che non sarebbe una buona difesa contro un'accusa di atti osceni.

Sbalzi d'umore: se scatti d'ira a causa di questi reiterati fastidi sono da considerarsi sbalzi d'umore, allora io ne soffro costantemente, per quanto lo ritenga in certo senso una contraddizione.

Sbalzi della libido:4 polluzioni notturne. Nettamente sopra la media. Mi chiedo se abbia a che fare con la parestesia e con il check-up di John. So che la sua stupida pruderie lo spinge a far finta di non notare gli effetti che mi provocano le sue manipolazioni, e questo è l'unico motivo per cui ancora non gli ho chiesto se è da ritenersi nella norma un tale aumento del desiderio sessuale: non sarebbe in grado di rispondere con l'onestà che gli impone la sua professione.

Sono consapevole che il clou dell'esperimento è ancora lontano, ma la mia pazienza ha un limite. Fortunatamente, a breve ci sarà la blanda distrazione del viaggio a Baskerville. Spero che la Stapleton sia riuscita a procurare delle pillole: quel gel freddo e appiccicoso è indicibilmente seccante da usare. Sarebbe meno fastidioso se fosse John a-

[testo illeggibile a causa dello stato in cui versa la pagina, presumibilmente accartocciata e/o bruciata]

Ha davvero disattivato i commenti sul blog.

Quando gli ho chiesto a quale riferimento culturale pop avrebbe attinto questa volta per il nome del post, ha risposto che probabilmente lo chiamerà “Il Danno di Cerbero”. Cerbero = Mastino = H.O.U.N.D.? È questo, John? Il danno di Baskerville? Non molto sottile, ma efficacie. Certamente notevole da parte tua. Non so se ritenerlo un complimento o un'offesa. Confesso che sul momento mi ha inspiegabilmente ferito (terminologia che non ho mai compreso fino in fondo, eccetto in quell'istante: John, saresti fiero dei miei progressi nello spettro emotivo) (io non ne sono fiero)

[scritto a margine, cancellato e poi riscritto: (io mi sento vulnerabile)]

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Sette ***


Sette

~

Di quando Sherlock iniziò a non pensare e John iniziò a pensare troppo


Our knowledge has made us cynical.

Our cleverness, hard and unkind.

We think too much and feel too little.

The Great Dictator –



Appunti vari tratti da fogli sparsi, block notes, margini di libri e il portatile personale di Sherlock Holmes, datati approssimativamente dal 12 al 18 Maggio 2011.


Siamo tornati da Baskerville con un blister da 30 giorni di pillole ormonali, un nome ridicolo per l'esperimento e una considerevole quantità di domande irrisolte. Grazie al cielo, la Stapleton è riuscita a procurarmi delle pillole da assumere per via orale. Devo precisare che sono dir poco entusiasta di poter abbandonare il gel? Per quanto riguarda il nome, l'ispirazione è venuta a Mycroft: c'era un disegno della figlia della Stapleton appeso alla bacheca del laboratorio. Una farfalla. Il collegamento è stato ovvio. Quindi evviva! Io sono sano, l'embrione cresce, Mycroft assicura che non c'è alcuna fuga di notizie, e siamo tutti felici e contenti. (John un po' meno, ha costantemente l'espressione di chi non ha digerito il polpettone della sera prima. Ma anche con quella faccia è assolutamente ador-

[testo mutilo a causa dello strappo della pagina]

Ipersensibilità agli odori: notevolmente diminuita.

[scritto a margine: (voce cancellata dalla prossima settimana)]

Sonnolenza: fortunatamente si sta diradando, conto entro due settimane di non soffrirne più.

Minzione: la frequenza è in fastidioso aumento.

Gonfiore: stabile, praticamente sempre presente, ormai non vi faccio più caso (per quanto risulti fastidiosa quando indosso i pantaloni: mi serve una taglia in più).

Parestesia: in diminuzione, ma temo che il decorso non sarà così veloce e prevedibile come per la sonnolenza.

Sbalzi d'umore: per quanto John non sia affatto d'accordo, ritengo che siano del tutto svaniti (se mai si sono verificati).

Sbalzi della libido: il ritmo è salito ad una polluzione notturna. Fastidioso, ma credo di aver trovato un'efficaceme risoluzione al problema.

Io mi libero di quel dannato gel e John cosa pensa bene di fare? Rifilarmi una cosa altrettanto unta e appiccicosa e indisponente! Il mio rifiuto è stato categorico, ovviamente. No, non m'interessa se è un toccasana per i miei tessuti. No, non ha alcuna rilevanza il fatto che abbia un profumo piacevole (e farei notare che è una questione gusti). Non mi spalmerò addosso l'olio di mandorle. Non sono una dolce mammina in attesa che scambia pareri con le amiche su come curare la propria pelle. Sono un consulente detective, dannazione!

Ich habe keine Lust mich nicht zu hassen / Hab’ keine Lust mich anzufassen / Ich hätte Lust zu onanieren / Hab’ keine Lust es zu probieren / Ich hätte Lust mich auszuziehen / Hab’ keine Lust mich nackt zu sehen

[in tedesco nell'originale, traduzione a fondo capitolo *]

Mi piacciono le mani di John. Mi sono sempre piaciute. Non posso dirglielo, ovviamente. Escluso. Ma mi piacciono e dubito fortemente che, nonostante la sua scarsa propensione nel cogliere anche gli indizi più palesi, non abbia ancora notato ciò che mi provoca ogni volta che mi tocca. “Imbarazzante, poco professionale” penserebbe questo. Forse lo pensa già. Lo pensi, John? E non me lo dici per non alterare il mio equilibrio in questo delicato momento? Se io fossi una donna lo pens-

[righe illeggibili a causa di ripetute cancellature]

Forse dovrei inserire queste riflessioni nella voce “Sbalzi della libido”.

[aggiunto a margine: O forse no? Sono gli ormoni? Se non fossero gli ormoni. Se fossi io. Se fosse lui. Se fossimo noi? Il punto di domanda è retorica pura. Non voglio pensarci. Non pensarlo (ma devo)]



Sesto dei post a lettura privata che John Hamish Watson, al fine di documentare gli eventi che intercorsero tra la primavera e l'estate del 2011, scrisse e pubblicò regolarmente sul suo blog ogni settimana.


THE PERSONAL BLOG OF

Dr. John H. Watson


25 Maggio


Decima settimana


La settimana è passata senza che nessun incidente rilevante turbasse i ritmi del paziente. E sottolineo: i ritmi. Solo quelli non sono stati turbati. Se non fosse già abbastanza chiaro, riassumo le puntate precedenti: le nostre vite sono completamente sballate.

Sono quasi certo che la signora Hudson abbia intuito parte della verità. Di certo ha capito che c'è di mezzo un bambino: ho trovato riviste di puericultura sul tavolo dell'ingresso e l'ho vista sferruzzare quella che era inequivocabilmente una tutina da neonato.

Ma abbiamo problemi più urgenti da risolvere. Mycroft, per esempio. Dall'ultimo viaggio a Baskerville è diventato sempre più invadente. Comprendo che la sua presenza sia inevitabile per la sua indispensabilità, ma questo equivale anche ad una sempre maggiore ingerenza da parte sua in un frangente di per sé precario. È già abbastanza difficile gestire Sherlock normalmente, se in più me lo mettono sotto ormoni e con il fratello sempre intorno, rischio veramente di perdere il controllo della situazione.

Sherlock ha ormai preso la malsana abitudine di tenermi aggiornato minuto per minuto sul suo stato di salute, elencandomi dettagliatamente ogni sintomo (o presunto tale) che accusa. Io faccio finta di ascoltarlo. Non dirò che è utile per “dare completezza al solito check-up”, come vorrebbe pretendere lui. Se così fosse, i sintomi corrisponderebbero alle eventuali cause che riscontrerei quando lo esamino, ma di cause non ce ne sono. Sherlock, sei un ipocondriaco e basta, fattene una ragione.

Il paziente risulta fin troppo sano e vitale, a mio parere. Di buono c'è che mangia regolarmente e dorme a sufficienza, di cattivo ci sono il suo umore costantemente altalenante e la sua iperattività repressa che è sfociata in tre tentativi di fuga per andare da Lestrade. Ho dovuto diffondere la voce che ha preso un virus tropicale per convincere gli altri a riportalo a casa senza fare tante storie. L'ultima volta è tornato accompagnato da Anderson: si è presentato in tuta e mascherina. Ricordo che siamo alla fine di Maggio. Se non altro è stato esilarante. Tragico, ma esilarante.

La fine appare sempre lontana, ma comunque devo ammettere che complessivamente si sta rivelando un mese più facile da affrontare rispetto al precedente. Lo dobbiamo al rodaggio delle scorse settima, senza dubbio. E al fatto che a fine mese ci aspetta un aggiornamento non da poco, al quale persino Sherlock ha dimostrato un entusiastico interesse.

Tutto sta nell'arrivarci, alla fine del mese.


19 commenti



Perché hai abbandonato il format diviso per giornate? Era l'unica cosa che dava una parvenza di logica ai tuoi post settimanali.

Sherlock Holmes 25 Maggio 21:34



Fammi un esempio – solamente uno – della presunta mancanza di logica dei miei post.

John Watson 25 Maggio 21:37



Devo proprio? Va bene. Ma ricordati che me l'hai chiesto tu, John.

Partiamo dall'ovvio. Non ti sei mai soffermato a spiegare esattamente come siamo giunti al mio stato di gravidanza. Di tutte le spiegazioni forniteci dalla dottoressa Stapleton (che francamente erano lacunose nei punti fondamentali e ridondanti in quelli superflui, questo te lo concedo) non hai mai fatto cenno. Frammentariamente e del tutto per caso hai detto qualcosa in proposito a delle fantomatiche ricerche. Forse si potrebbe anche intuire che ciò riconduca vagamente agli studi condotti per arrivare a sintetizzare gli ormoni e al fatto che al momento si stia ancora sperimentando sui conigli (ovviamente a livello ufficiale). Naturalmente, nemmeno un lontanissimo accenno al BAW.

Questo è quanto. In sostanza, John, se speri che in un prossimo futuro questi tuoi resoconti siano di una qualche utilità alla scienza, allora devo darti una delusione.

Sherlock Holmes 25 Maggio 21:39



Ti odio.

John Watson 25 Maggio 21:42



Oh, e ti sei dimenticato di menzionare l'episodio più divertente della settimana!

Sherlock Holmes 25 Maggio 21:43



Non me ne sono affatto dimenticato, Sherlock. Piuttosto, gradirei che non ne facessi menzione.

John Watson 25 Maggio 21:46



Nemmeno qui?

Sherlock Holmes 25 Maggio 21:47



Sopratutto qui! Dio non voglia che qualche hacker annoiato decida di ficcare il naso nel blog.

John Watson 25 Maggio 21:50



Mi sembra una possibilità alquanto remota. E anche se accadesse, ti farei notare che ci dovremmo preoccupare di ben altro.

(Oltretutto, dimentichi Mycroft.)

Sherlock Holmes 25 Maggio 21:51



(Il pensiero che Mycroft legga quello che scriviamo non fa che terrorizzarmi ulteriormente.)

Al momento m'interessa solo evitare che tutto il web venga a sapere cosa ho visto ieri sera, grazie. Ci sono già abbastanza voci in giro. Sei famoso (maledetto il giorno in cui ho deciso di scrivere dei casi sul blog!). La gente parla di te. E purtroppo anche di me.

John Watson 25 Maggio 21:54



Non credo che il contenuto di questi post o dei nostri commenti potrebbe battere la fantasia delle fanwriters. Lo sai che ho trovato una fanfiction che racconta di una situazione incredibilmente simile a quella che ci è capitata l'altro giorno? E la tua reazione era sorprendentemente IC!

Sherlock Holmes 25 Maggio 21:55



Hai trovato cosa? Sherlock di che diavolo stai parlando?!

John Watson 25 Maggio 21:58



Una fanfiction, John. Vai su Wikipedia a leggere la definizione.

Sherlock Holmes 25 Maggio 21:59



Hai fatto?

Sherlock Holmes 25 Maggio 22:02



John, sei vivo?

Sherlock Holmes 25 Maggio 22:05



Mio Dio, la gente è malata.

John Watson 25 Maggio 22:08



E si può sapere perché ti metti a leggere cose del genere?!

John Watson 25 Maggio 22:10



Sto tutto il giorno a casa da solo. Mi annoio.

Sherlock Holmes 25 Maggio 22:11



Devo sequestrarti il computer.

John Watson 25 Maggio 22:14




Pagine accartocciate e in parte strappate, fittamente riempite della grafia di Sherlock Holmes, ritrovate casualmente da John Hamish Watson nella spazzatura, in data 1 Giugno 2011.


Il motivo? Potrei dedurlo, ne sarei capace. Il fatto è che non posso. D'accordo posso, devo, ma non voglio. Volontà: il motore dell'azione. In questo caso essa manca (difetto di coraggio). Senza motore non si va da nessuna parte. Senza volontà non sarei andato da nessuna parte. Senza coraggio Non c'entra il coraggio. Non è mai stata una questione di coraggio. Curiosità (forse, magari all'inizio (c'è stato un inizio? quando? collocazione temporale incerta)), noia (no questo mai), desiderio (ovviamente, sicuramente). Ma non coraggio. Il coraggio è del tutto concettuale, va bene per le definizioni e per i pensieri, i discorsi. Va bene per John. Come definirei John? Coraggioso e stupido, eppure dotato di volontà ferrea. Unica eccezione che conferma la regola (come sempre), perché ovviamente l'azione non dettata dalla volontà ha poco di coraggioso e molto di stupido, dunque John esce dallo schema.

Ma non è un discorso relativo a John, ovviamente.

Stupido e incoerente, dicevo. Slegato al filo logico di un progetto di maggiore entità.

Esempio 1: ignorarlo deliberatamente per giorni, fingere di vivere da solo, e poi, d'improvviso, senza alcun nesso logico riconducibile alla nostra routine, imporgli di aiutarmi a fare la doccia.

Esempio 2: infilarsi nel suo letto una notte. Due notti. Tre. Alla quarta è una cosa veramente stupida.

Esempio 3: fare finta di niente la mattina dopo e tutto il giorno. Sperare che la sera arrivi in fretta. E poi daccapo. Ma il tempo è relativo, il suo scorrere è relativo (la teoria della relatività, avrei dovuto studiarla più a fondo a scuola) (rettifica: no, a cosa mi servirebbe in questo caso?)

Stupido quanto indugiare (intere ore irrimediabilmente perse a discapito di faccende ben più pressanti) su dettagli infinitesimali che non si ripeteranno mai più. Filtrarli attraverso l'insulsa gamma di riflessioni sentimentali, ancorarsi ad essi e riviverli in loop fino allo sfinimento, fino ad averne nausea, fino all'inevitabile decontestualizzazione che li rende finti, piatti, ombre pallide e insignificanti. La freschezza delle prime sensazioni, perduta per sempre. E poi ricominciare.

Masturbazione mentale ad libitum. Prima, adesso, dopo. Adesso, ancora.

Il modo in cui evita di guardarmi in faccia quando mi aiuta a lavarmi (è doloroso e bellissimo e non si accorge nemmeno di quanto rimarca la tensione).

Bagna la spugna sotto il getto, prende il flacone di sapone, ne spreme un po' sulla spugna, la strizza. Schiuma. Una nuvola bianca tra le dita che affondano nel giallo della spugna. Giallo e bianco contro il blu delle mattonelle e le dita di John in mezzo.

Gli avambracci scoperti dalle maniche arrotolate. L'acqua saponata che dalle mani scorre in rivoli fino ai gomiti. Rivoli accanto ai solchi delle cicatrici della guerra. La pelle d'oca che non ha niente a che fare con l'acqua.

Il suo volto al contrario. Tutto al contrario, mentre con la testa reclinata all'indietro lo guardo dal basso quando lui mi fa accucciare nella vasca (John è più basso di me di 15 centimetri, inevitabili un po' di manovre) per potermi sciacquare lo sciampo.

Le sue dita in mezzo ai miei capelli.

La vergogna di dover tirare fuori pretese infantili mascherate da impulsi dettati dagli ormoni. Una bugia dietro una bugia pur di nascondere la verità più lapalissiana. Per avere questo, per giustificare tutto. Per godere di qualcosa che abbiamo deciso di negarci fino a prova contraria.

[scritto a margine: Che io (io io IO) ho deciso di negarci. Onestà: difetto anche in questo, a volte. Spesso.]

14 atti al minuto: la frequenza respiratoria di John nel sonno. Sale a 22 quando sta facendo un incubo.

Tira fuori la lingua e si umetta le labbra: ha sete. Da 20 secondi a 3 minuti perché si svegli e scenda a bere un bicchiere d'acqua.

Come sfrega i piedi sul materasso quando gli scivolano via i calzini.

Mettersi a pancia in giù e stritolare il cuscino è la sua posizione preferita per dormire, passerebbe tutta la notte così.

[scritto a margine: inconcepibile desiderio di trasformarmi in un cuscino]

Ma cambia posizione ogni tanto (in media 4 volte all'ora) e così facendo smuove l'aria, permettendomi di catalogare gli odori della notte. Sapone da bucato (pigiama, lenzuola), amido (John usa l'amido per lavarsi, ce n'è un barattolo nel vano della doccia), menta (dentifricio), sudore, saliva.

La sua mano sul mio sedere. Ragione per cui è finita lì: non pervenuta. Ragione per cui sto cercando una ragione: superflua, inutile (cancellata). La curva del palmo che combacia perfettamente, neanche mi avesse modellato il sedere con le sue mani, neanche Dio avesse creato le sue mani appositamente per stare lì. La pelle calda che scivola via lasciandomi solo freddo e assenza (se n'è accorto e si è ritratto per la vergogna? l'ha fatto nel sonno? stava sognando di toccarmi? quanto c'è di volontario e quanto di consapevole? quando smetterò di ripensare alle sue dita? come farò a sopravvivere al suo prossimo check-up?)

La ruga che gli si forma in mezzo alla fronte un attimo prima di svegliarsi. Tutto il dramma di un risveglio inadeguato in un mondo inadeguato (con una persona inadeguata a fianco? in una situazione inadeguata?) concentrato in quel solco di pelle.

[scritto a margine: è normale trovare attraente un uomo appena sveglio?]

L'erezione mattutina che non si scomoda di nascondere (l'erezione mattutina che mi permette di nascondere cause innominabili).

L'innocenza con cui riesce a guardarmi per tutto il giorno. Dio, se fa male.

[scritto lungo tutto il bordo dell'ultima pagina:

Tutto è normale. Non lo è? Non è forse così? È quello che insegnano ai bambini. “Non sei diverso, non c'è niente di sbagliato in te”. Non c'è nulla di sbagliato in me. E se anche ci fosse, posso sempre dare la colpa agli ormoni. Sembra facile. Per te è facile, John. Lo sarà anche per me. (ipocrisia: chiamiamo le cose con il loro nome)]



Post scritto da John Hamish Watson e mai pubblicato, tenuto ad esclusiva lettura dell'admim, cui Sherlock Holmes riuscì ad accedere crackando la password del suo blog, in data 8 Giugno 2011.


THE PERSONAL BLOG OF

Dr. John H. Watson


1 Giugno


Titolo


Questo non è un post sull'andamento del Progetto Butterfly. Non parlerò dello stato di salute di Sherlock. Forse parlerò del mio stato di salute. O forse no, non lo so. Non so di cosa parlerò, infatti non ho messo alcun titolo. Sto scrivendo a flusso di pensieri continuo (se è così che si chiama, mai preso più di 6 in letteratura). Probabilmente una volta finito lo cancellerò.


Ho bisogno di sfogarmi e non ho altro modo per farlo. L'unica persona con cui ho abbastanza confidenza, è il soggetto e la causa di questo mio sfogo. Non posso e non voglio confidarmi con Sherlock, benché sia l'unico essere al mondo con cui in questo momento vorrei e potrei parlare. E forse sarebbe anche maturo da parte mia, ma sto subendo una pesante regressione di maturità.

A mia discolpa, posso dire che non sono poi tanto sicuro che parlargli sarebbe la cosa migliore per lui, al momento. Ma, certo, se non lo faccio non potrò mai saperlo. Ottima deduzione, dottor Watson.

A mia seconda discolpa (ho una variegata rosa di discolpe, vivere con Sherlock implica un costante allenamento a discolparmi di colpe non mie), posso aggiungere che a suo tempo abbiamo stabilito di rimandare il discorso a data da destinarsi e non ci sono ragioni per riaprilo proprio adesso. Discolpa labile, sì, va bene.

D'accordo, tagliamo la testa al toro e diciamo che parlargliene non sarebbe la cosa migliore al momento per me. Atteggiamento poco maturo, ma ho già sottolineato la mia regressione. E poi ammetterlo non mi conferisce forse una certa maturità retroattiva? Mettiamola così e chiudiamo questo discorso, ecco.

Andiamo avanti. Andiamo al punto, analizziamo il problema.

Sherlock sotto ormoni? È questo il problema? Vorrei che fosse questo, lo vorrei davvero. Ma sarebbe riduttivo.

Il problema sono io. La mia inettitudine sentimentale nel gestire questa situazione, nel gestire lui che non sa gestirsi e quindi mi ritrovo a dover gestire sia lui che me. Troppo peso sulle mie spalle? Ci sono abituato, non dovrebbe essere così difficile. Ma lo è. Lo è per svariate ragioni, ma principalmente per una: rimandare il discorso non lo chiude.

Osservazione banale, d'accordo. Forse – sicuramente – per Sherlock è più semplice: l'avrà messo da parte in una delle stanze del suo Palazzo Mentale e non ci avrà pensato più. Io non ne sono capace, non ne sarò mai capace. E un giorno se ne renderà conto anche lui e non ci sarà più un discorso da riaprire, ci sarà solo un discorso già chiuso in partenza e niente altro. Un punto.

(Ecco, è quando arrivo a questi livelli di pateticità che penso che parlargli sarebbe la soluzione migliore. Poi mi rendo conto del suicidio relazionale a cui andremmo incontro e mi do dell'idiota.)

Dicevo, il discorso. È sempre lì, sempre aperto. Mi asfissia con la sua presenza silenziosa quando sono con lui, mi segue come un'ombra qualsiasi cosa faccia e ovunque vada, anche quando non ci penso sbuca tra i pensieri nei momenti meno opportuni. È una costante con la quale quasi stavo riuscendo a convivere. No, onestamente, togliamo pure il “quasi”. Diciamo che ci stavo lavorando su, mi stavo impegnando seriamente. Ed era facile fare finta di non badarci, di averlo accettato, un po' come a suo tempo ho accettato organi sotto formalina sparsi per la cucina e il suono del violino alle 3 di notte e l'eventualità di finire nelle grinfie di un supercriminale ad ogni caso e, in generale, la convivenza con Sherlock Holmes. È stato facile fingere, insomma. Lo è stato fino ad oggi.

Mi ci sono volute due settimane per metabolizzare quel che è successo e riuscire a formulare l'intenzione di metterlo per iscritto (la mia analista sarebbe fiera di me). La sola idea di descrivere quello che sta succedendo, mi paralizza le dita.

Non c'è un momento esatto in cui tutto questo è diventato ingombrante e non più ignorabile. Si è semplicemente sviluppato da solo, senza che ce ne accorgessimo. Sherlock ha iniziato ad imporre certe sue esigenze e io non sono stato in grado di arginarlo. Per questo sarebbe riduttivo incolpare gli ormoni. Lo sarebbe anche incolpare il discorso è basta. È riduttivo perché non tiene conto del fatto che ci sono anche io. Anche io sono una variabile in gioco e se non mi calcolassi sarebbe un errore madornale.

La variabile John non è stata in grado di arginare le pretese di Sherlock per i seguenti motivi:

  1. salvo rarissime ed eccezionali occasioni, dacché lo conosce non è mai – e ripeto MAI – stato in grado di arginare alcuna delle sue pretese;

  2. uno Sherlock sotto ormoni, in stato di gravidanza e annoiato per l'assenza forzata di casi, è decisamente più implacabile di uno Sherlock normale (se di normalità di può parlare);

  3. dal punto di vista sanitario, è consigliabile assecondare le esigenze di Sherlock, qualora queste si dimostrino sostanzialmente innocue e non mettano in pericolo la sua salute e/o quella del bambino.

E tutto quello che ho appena elencato è ciò che io definisco un mucchio di stronzate.

La variabile John si è data le scuse sopra elencate (e tante altre ancora) per soffocare le sacrosante remore e assecondarlo. Perché la variabile John non è stata in grado di arginare le pretese di Sherlock per un solo motivo: gli piacciono le pretese di Sherlock, in particolare quando queste consistono in prolungato contatto fisico che sfocia in una vicinanza emotiva mai provata prima.

Il altre parole: coccole.

Perché un giorno si sappia: non sto facendo uso di droghe.

Provo a spiegare esattamente la situazione.

Potevo passare sopra a tutto, qualsiasi cosa, davvero. Potevo continuare ad ignorare come mi guarda quando gli faccio il check-up serale. Lo riconosco quello sguardo: l'ho visto abbastanza spesso. Sempre sul volto di una donna, un attimo prima di decidere in quale appartamento finire.

Ma lui non si è limitato a quello (che per altro era già destabilizzante di suo).

Da due settimane Sherlock dorme con me. Compare in camera mia in orari inaspettati e si mette sotto le coperte senza chiedere il permesso, svegliandomi con i suoi piedi eternamente freddi. Vorrei essere sempre svegliato dai suoi piedi freddi (oh, Cristo, l'ho scritto davvero!). Mi si accuccia addosso spingendomi la testa contro. Mi cerca e non posso sfuggirgli neanche un momento, nemmeno per cambiare posizione. Resta tutta la notte e non dice niente la mattina dopo, anche se lo colgo in flagrante.

Da due settimane, Sherlock impone di essere aiutato quando si fa la doccia. Perché nonostante le paperelle di gomma appiccicate sul fondo della vasca, potrebbe comunque scivolare... un mancamento, chi lo sa? Ripetermi ogni volta che per anni ho fatto la doccia assieme ai miei commilitoni, dimostra che le mie esperienze passate in merito a promiscuità maschile non hanno alcun peso (Sherlock, saresti davvero fiero delle mie deduzioni), piuttosto rimarcano il fatto che ogni secondo speso a passargli la spugna sulla schiena è un piacevole incubo dal quale non so se riuscirò ad uscirne vivo. E questo ogni sera. Ogni. Dannata. Sera.

È un'intesa fittizia che nasce con la notte e muore col mattino. Un'intesa nata dagli ormoni e da un discorso mai concluso, che sta pesantemente sconfinando nel morboso.

E niente – niente – mi fa pensare che ci sarà una fine. Ma ci sarà, com'è inevitabile. Accadrà e io me ne accorgerò troppo tardi e non ci sarà niente da fare. Intanto, sto qui a farmi del male.



Messaggio scritto e mai inviato, salvato in “Bozze” in data 8/6/11


Non è più semplice per me, John. Non c'è alcuna stanza nel mio Palazzo Mentale per contenere questo. (non è il posto adatto). L'ho messo da un'altra parte e la chiave adesso ce l'hai tu. Ma non lo sai (non vuoi saperlo). È ridicolo e allo stesso tempo perfetto e infatti non potrebbe essere altrimenti. Forse è ridicolo proprio perché perfetto.


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:07

Non è più semplice per me, John. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:10

Perché questo mi spaventa ancora di più? – JW


Messaggio inviato il 8/6/11, alle ore 01:11

Stai cercando di razionalizzare qualcosa che non può essere razionalizzato. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:14

Detto da te, è ridicolo. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:15

Ridicolo è il fatto che tu abbia capito che ho letto il tuo post e non sia ancora piombato in soggiorno per insultarmi. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:18

No, Sherlock. Ridicolo è il fatto che tu abbia dovuto crackare il mio blog per capire tutto questo. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:19

L'unica cosa che dovevo capire era se avevi letto i miei appunti e stavi solo facendo finta di niente, oppure se, come ormai appare chiaro, il tuo senso morale aveva prevalso e non li avevi letti affatto. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:22

Non posso credere che tu l'abbia fatto intenzionalmente. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:23

Tiro fuori scuse per portarti sotto la doccia con me e m'infilo nel tuo letto senza chiederti il permesso. Davvero ti turba tanto un po' di aggressività passiva? – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:26

Non sei più te stesso, Sherlock. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:27

Continua a ripetertelo, forse un giorno te ne convincerai. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:30

Ne sono già convinto. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:31

Il tuo post dice esattamente il contrario. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:34

Il mio post dice esattamente quello che dice. Se non ti è chiaro il concetto, cracka anche la nuova password e dai una ripassata. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:36

Il tuo post dice che temi di finire a letto con me ancora una volta solo per colpa di sostanze che alterano la nostra volontà. Dice che non te lo perdoneresti mai se accadesse di nuovo una cosa simile. Dice che vorresti che lo volessimo davvero, la prossima volta. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:37

E più di ogni altra cosa, dice che hai paura. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:39

Non c'è niente di male, John. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:41

Lo so che non c'è niente di male. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:42

Allora dillo. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:47

Sono spaventato. – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:50

Lo sono anch'io. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:52

Davvero? – JW


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:55

Non sono mai stato così spaventato in vita mia. – SH


Messaggio inviato il 9/6/11, alle ore 01:58

Vieni a letto, Sherlock. – JW






*

Non ho nessuna voglia di non odiarmi
Non ho nessuna voglia di toccarmi
Avrei voglia di masturbarmi
Non ho nessuna voglia di provarci
Avrei voglia di spogliarmi
Non ho nessuna voglia di vedermi nudo

[Rammstein – Keine Lust]

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Otto ***


ATTENZIONE: pericolo di fluff ingannevole e colpi di scena!

La citazione l'ho presa dalla bellissima I Am Not A Robot di Marina and the Diamonds. Un consiglio: ascoltatela, e magari leggetevi il testo, perché dalla prima all'ultima strofa è una vera e propria ode al nostro Sherly.






Otto

~

Di due grandi uomini schiacciati da una sola piccola cosa


It’s okay to say you’ve got a weak spot
You don’t always have to be on top
You’re vulnerable
You are not a robot
You’re lovable
But you’re just troubled

Marina and the Diamonds –



Quel che dovevano dirsi – o non dirsi – se l'erano ormai detto e non c'era avanzato più niente. E andava bene così, per cui semplicemente non ne parlarono più. John non ne sentiva l'esigenza e non ci fu bisogno di ulteriori dimostrazioni di aggressività passiva da parte di Sherlock.

Era un'intesa silenziosa, un patto mai pronunciato. John non avrebbe mai saputo dire esattamente in che modo ci riuscirono, ma accadde. Quello che invece seppe fin dall'inizio, era che non sarebbe durata a lungo. Fu facile decidere di piantarla con le paranoie e godersela finché poteva.

Le giornate scorrevano come al solito: con esternazioni più o meno fastidiose di noia cronica da parte di Sherlock, e reazioni a metà strada tra la pazienza granitica e l'esasperazione totale da parte di John. Si stabilì un rituale collaudato che ogni sera rispettavano diligentemente.

John lo aiutava a lavarsi, dopo eseguivano il check-up – tra i borbottii contrariati del paziente che come al solito protestava per l'olio di mandorle. Il tutto si chiudeva con Sherlock che sgattaiolava in camera sua ad orari improbabili. Con gli occhi intorpiditi di sonno, John alzava la coperta e lo accoglieva nel calore del letto, ricoprendo entrambi, seppellendoli in quella tana che gli aveva preparato. John spegneva quindi l'abat-jour, mettendo così ufficialmente fine ad un'altra giornata e dando inizio ad un'altra nottata fatta di gambe intrecciate e di riccioli che in qualsiasi posizione si mettessero riuscivano a fargli il solletico. Si addormentavano in un religioso silenzio che sapeva di respiri lenti e mani calde e mandorle.

Semplice, lineare. Da infarto miocardico.

Con reciproca diplomazia, entrambi non badavano al pulsare sordo che premeva nelle loro mutande. Era la stessa diplomazia che usava John quando gli succedeva ancora di trovare la porta del bagno socchiusa. Sì, proprio come quella volta. Per buona norma si ricordò sempre di bussare e questo gli evitò di trovarsi di nuovo davanti ad una scena che difficilmente avrebbe più rimosso dalla sua testa, alimentando improbabili fantasie.

Gli anni nell'esercito l'avevano abituato a fare finta di niente quando dal letto accanto al suo provenivano cigolii e sospiri soffocati sul cuscino, con la consapevolezza che quella cortesia sarebbe stata ricambiata la notte dopo con altrettanta solerzia. Ma adesso John non era più nell'esercito e non si trattava del commilitone che si spara una sega con la testa sotto le coperte e la torcia accesa contro le foto dell'ultima Playmate. Si trattava di Sherlock in preda a sbalzi della libido causati da ormoni. E, per quanto John avesse contemplato con notevole entusiasmo l'idea di risolvere a modo suo quel problema, il loro silenzioso accordo prevedeva l'astensione da qualsiasi contatto sessuale tra di loro.

Il risultato di questa politica, in quei giorni di metà giugno del 2011, si concretizzò in un'assidua frequentazione del bagno del 221B di Baker Street.


Sherlock estrasse il pass dalla tasca interna del cappotto e se lo rigirò tra le dita. Lo strisciò: la lucina rossa divenne verde e la porta si aprì automaticamente con un “clack”.

John saettava gli occhi da lui all'ambiente alieno che li circondava. Si era sempre sentito a disagio in quella struttura. Sherlock avrebbe potuto elencare con precisione i dettagli del linguaggio corporeo che gli raccontavano come entrasse in assetto da battaglia ogni volta che varcavano i cancelli del centro di ricerca di Baskerville.

Sei pronto? –

Oh, John. Quanta ingenuità è necessaria per farmi una simile domanda?

Non era stato un viaggio spiacevole quello da Londra, ma era stato in qualche modo inficiato dalla consapevolezza che prima o poi John gli avrebbe posto quella domanda. E d'altra parte lui avrebbe dovuto prevedere la sua risposta. No, sicuramente l'aveva prevista, ma per qualche ragione si era sentito in dovere di porgliela comunque.

Faceva parte della natura binaria del loro rapporto. Entrambi erano perfettamente consapevoli di come l'altro avrebbe desiderato che si relazionasse con lui. E nonostante questo si ostinavano a restare nei propri schemi. Sherlock intuiva che era questa la chiave del loro equilibro. Se si fossero adeguati l'uno all'altro, sarebbero naufragati. Un fallimento totale. Rimanere sé stessi, con tutte le loro idiosincrasie, era l'unico modo per restare uniti.

Perché non dovrei? –

Sai cosa intendo. –

Ovviamente. – ribatté Sherlock atono.

Questa volta, John si limitò a lanciargli un'occhiata di traverso, le labbra strette e la testa appena inclinata in segno di rassegnazione.

Questo – la rassegnazione – era una maschera che Sherlock aveva individuato fin dai primi casi risolti insieme. Beninteso, John era condiscendente con lui, lo era quel tanto sufficiente da rendere sopportabile la loro convivenza. Ma la rassegnazione – quella vera – non faceva parte del suo animo. Sarebbe stata incompatibile con la sua natura di medico e soldato. Ma quel suo modo più o meno conscio di mettere da parte le sue ragioni e sfoderare una rassegnazione che non possedeva, era una delle caratteristiche che avevano irretito Sherlock come un adolescente alla sua prima cotta.

Siete in anticipo. –

La constatazione, di per sé retorica, appariva perfino ridicola considerata la fonte da cui proveniva.

Mycroft. –

Fermo davanti all'ingresso del laboratorio della Stapleton, suo fratello li salutò con cenno del capo. Aver previsto la sua inopportuna presenza non gli tolse il fastidio di sentirsi costantemente monitorato da qualcuno che riteneva di saper gestire i suoi affari meglio di lui.

Ti vedo pallido. – commentò, si rivolse poi a John – Gli stai somministrando le vitamine? –

Come se non lo sapesse.

Sono un medico. – si limitò a fargli notare John.

Sherlock si lasciò sfuggire un sorriso.

Il volto di Mycroft si deformò in un tronfio sogghigno: – E sa quello che fa, naturalmente. –

John divenne inspiegabilmente paonazzo. Sherlock si chiese se e come estromettere suo fratello dall'intera faccenda senza che ciò implicasse problemi riguardo la copertura dell'esperimento. Decise che ci avrebbe riflettuto adeguatamente dopo la visita.

Signor Holmes, dottor Watson. – li accolse la Stapleton.

Gli rivolse un cenno e Sherlock andò a spogliarsi dietro un paravento di tela azzurra. Ridicolo, ma faceva parte del teatrino. Certe consuetudini – come inventarsi momentanei pudori davanti al proprio fratello, al proprio medico e all'uomo che ti ha messo incinto – sono tanto inutili quanto radicate.

Non faceva freddo. All'interno del laboratorio la temperatura era tarata per restare sui 25 gradi costanti. Eppure aveva la pelle d'oca. Cercò di non darsi la spiegazione più logica, ma gli sguardi di John riflettevano il suo umore e quelli non erano facili da ignorare.

Autopsia dell'anima: di solito era lui a farla agli altri. Scoprì che non era divertente trovarsi dall'altra parte.

Steso sul lettino, Sherlock subì l'assalto delle mani inguantate della Stapleton senza fiatare. Non c'era niente di nuovo, procedeva tutto nella norma, e lo capì ben prima che la dottoressa si sfilasse i guanti con uno schiocco e facesse il riassunto ai presenti.

Direi che possiamo procedere con l'ecografia. –

Sherlock si mosse nervoso sul lenzuolo medico, attirando uno sguardo incuriosito del fratello. Lo ignorò. Improvvisamente rigido, focalizzò l'attenzione sui movimenti della dottoressa.

Lei postò l'attrezzatura, posizionata su un carrello, fino ad avvicinarla al lettino. Prese da un cassetto un tubetto dell'apposito gel. Si sedette su uno sgabello. La noce di gel che gli spremette sul ventre era fredda e appiccicosa – gli fece risucchiare la pancia per i brividi. Ricordò il disagio delle prime dosi ormonali e questo non lo aiutò mentre cercava d'isolarsi dai presenti. Ma era incastrato in una bolla, messo sotto una lente d'ingrandimento. Era un oggetto di studio e non gli piaceva, per quanto ne comprendesse l'inevitabilità.

Nessuno parlava mentre la Stapleton accendeva l'apparecchiatura e posizionava la sonda sulla sua pelle. Sherlock si sforzò di focalizzare l'attenzione sul ronzio lieve delle ventole elettriche e sullo schermo nero.

Un flash, due. Il cono bianco apparve, distorto e inframmezzato. Sherlock poté sentire John trattenere il respiro. Non si vedeva ancora assolutamente niente di significativo e lui già andava in crisi: fra non molto avrebbero dovuto somministrargli un sedativo.


Era tutto sommato tranquillo. Davvero, ce l'avrebbe potuta fare. Non era certo la prima ecografia a cui assisteva. E Sherlock era così rilassato. Non poteva fare la figura della donnetta isterica. Non adesso, per la miseria.

Oh, eccoti qui... – mormorò la Stapleton.

Dove? – chiese qualcuno.

Lì. –

La mano della dottoressa si mosse sullo schermo a racchiudere una zona. Con una certa fatica, John ripescò da qualche anfratto della memoria le informazioni mediche necessarie per identificare quello che stava guardando.

La camera gestazionale. – spiegava la Stapleton – Si è formata nella cavità retto-vescicale. Interessante. –

Cosa... cos'è questo? –

John percepì bene la propria voce, ma ebbe come l'impressione che provenisse da molto lontano. Anche il dito che puntava allo schermo: era il suo? Davvero?

La testa. – disse la dottoressa con ovvietà.

John batté le palpebre un paio di volte e deglutì a vuoto, scoprendo con disappunto di avere la gola secca.

La testa? – le fece eco stupidamente.

La testa? – si ripeté ancora, come se quelle due parole potessero rendere meno surreale l'intera situazione.

Ma non... ma è già... così? –

Lo sguardo che gli rivolse la Stapleton fu alquanto significativo.

Dottor Watson, è un feto alla dodicesima settimana, direi che sarebbe preoccupante se la testa non fosse già visibile. – gli rispose con la calma forzata di chi si rivolge ad una persona mentalmente instabile.

Giusto. Sì. – si umettò le labbra e annuì, cercando di assumere una parvenza di professionalità e naufragando miseramente nella sua stessa agitazione – Uhm... è solo... niente. Bene. –

A quel punto Mycroft si sentì in dovere d'informarsi se stesse bene. John era già abbastanza provato senza che ci si mettesse anche un Holmes di troppo e aprì la bocca per ribattere gentilmente di farsi gli affari suoi.

La voce stentorea di Sherlock risuonò tra le pareti del laboratorio: – Santo cielo, volete tacere?! –

L'effetto dell'ammonimento fu immediato e John non poteva certo lamentarsene.

Sherlock esordì poi con un lapidario: – Mycroft. – e puntò uno sguardo accigliato sulla figura irrigidita del fratello.

Qui non c'è nessuno da impressionare, per cui per una volta puoi farci la cortesia di trattenere il tuo ego e astenerti dall'applicare i soliti giochetti psicologici su John. E sì, hai sentito bene, non è una gentile richiesta in forma interrogativa, ma un ordine inappellabile in forma affermativa. – si rivolse quindi alla Stapleton – E si può sapere perché lei se ne sta lì ad illustrare ovvietà? È un medico strapagato e dotato di apparecchiature ai limiti della legalità: mi dica qualcosa che non so. O per lo meno mi dica qualcosa. –

John non avrebbe saputo dire cosa fosse più comico, se il cipiglio da dama oltraggiata concentrato sul volto paonazzo di Mycroft o il pallido “Ehm” emesso da una impacciatissima Stapleton. Decise che non era niente di tutto quello. Era Sherlock l'elemento più comico della situazione. Sherlock mezzo nudo, steso su un lettino d'ospedale e sporco di gel, con una sonda ecografica puntata sulla pancia, eppure dotato di tutta la dignità umanamente ed inumanamente possibile. L'espressione di seccante superiorità con cui riusciva a squadrarli dall'alto in basso nonostante in quel momento fosse fisicamente ad un livello inferiore rispetto a loro. Era del tutto comico, sì, e anche dannatamente tenero. E questo riuscì a smorzare per un momento la tensione di John, strappandogli un sorriso.

Dopo un notevole lasco di silenzio, Sherlock indicò un valore che lampeggiava nell'angolo in alto dello schermo.

È il battito cardiaco? – chiese con l'aria di chi poteva anche fare a meno di porre la domanda.

La dottoressa non fece in tempo ad annuire che lui sentenziò: – È troppo rapido. –

Vagamente esasperata, lei inarcò le sopracciglia e obiettò che rientrava perfettamente nella norma.

Rientra a pelo. – ribatté Sherlock.

S'era nuovamente accigliato. E John notò anche quella contrattura del mento, quella che gli veniva quando era agitato per qualcosa. Era una sorta di broncio che gli conferiva un'aria infantile.

Perché? – incalzò con voce petulante – È evidente che si tratta di un'anomalia. –

Signor Holmes, – sospirò nervosamente la dottoressa – qualsiasi anomalia sarebbe già stata rilevata dalle analisi precedenti. –

Oh, per favore! – sbottò gesticolando nervosamente – Queste strumentazioni sono tanto costose quanto inaffidabili. Seriamente, come si può condurre un esperimento in condizioni... –

Dicono che lei sia dotato dell'orecchio assoluto. – lo interruppe infastidita – Se non si fida dei costosi strumenti del governo, ascolti lei stesso. –

Con un dito pigiò un interruttore e quello fece click e dalle casse dell'apparecchiatura uscì un suono. Lieve, quasi indistinto.

John capì cos'era ancor prima che la Stapleton, aumentando il volume, rendesse perfettamente udibile quel ritmico wosh-wosh. Faceva proprio così: wosh-wosh. Veloce, lì, sotto strati tessuti e muscoli, sangue e liquido amniotico, passava attraverso il sonar dell'ecografo, era sintetizzato dai circuiti e fuoriusciva dalle casse, riempiendo il laboratorio.

Wosh-wosh.

John ci sbatté il muso con violenza inaudita su quel wosh-wosh e sentì semplicemente tutta l'aria spremuta fuori dai polmoni. Sentì il cuore accelerare fino a raggiungere un ritmo che poteva concorrere con il nuovo battito che risuonava tra di loro. Sentì un crescente tremore che gli sconvolgeva ogni fibra del corpo. John Watson sperimentò tutto questo mentre finalmente realizzava con implacabile realismo quello che stava succedendo. Quello che loro stavano facendo. Quello che si sarebbero trovati per le mani di lì a ventotto settimane.

Era una plateale responsabilità alla quale, concentrato com'era su questioni che adesso apparivano ridicole, era riuscito a sfuggire così a lungo. Adesso ne era schiacciato. Ma, cosa forse anche più agghiacciante, capì all'istante di essere, da quel momento e per sempre, inesorabilmente conquistato da questa cosina non ancora nata che già faceva sentire la sua voce.

E l'unica cosa che riuscì a fare in quel momento di atroce consapevolezza, fu emettere un flebile, disperato “Oh, Dio”.


Sherlock Holmes non era esattamente ferrato nelle questioni sentimentali. E di questo erano perfettamente consapevoli tutti – lui stesso compreso. Ma in questo caso non si trattava solo di assenza di empatia e scarsa propensione ai rapporti umani. In questo caso si stratta di incapacità di gestire le proprie reazioni emotive.

Oh sì, nemmeno questa era era novità. Naturalmente. Ne aveva avuto ampia dimostrazione negli ultimi mesi di convivenza con John. Certo, la loro situazione, di per sé già ambigua e al limite del socialmente accettabile, era stata ulteriormente aggravata da 1) la casuale gravidanza cui erano incappati, 2) la conseguente assunzione di ormoni cui Sherlock s'era dovuto sottoporre. Tuttavia queste variabili in gioco, per quanto avessero il loro peso, non modificavano in alcun modo la portata della questione-base. Il nocciolo attorno al quale tutto era andato costruendosi.

Che, appunto, Sherlock Holmes non era in grado di gestire le proprie emozioni. Non sapeva che farsene, ecco. Le aveva sempre ritenute un inutile peso, se non un difetto. Per cui, seguendo lo schema più logico, ne aveva sempre applicato una soppressione. Per quanto, purtroppo, non fosse un Vulcaniano, dunque non era mai riuscito del tutto nel suo intento.

Questa sua totale mancanza di rapporti con la sfera emotiva, aveva atrofizzato il suo cuore – metaforicamente parlando, è ovvio, 'ché fisiologicamente lui era perfettamente sano. Fino ad indurre sé stesso e la gente intorno a lui a crede di essere incapace di provare quegli umani sentimenti che per la gente comune erano così scontati.

Ma Sherlock non era privo di emotività. Sherlock, semplicemente, era fuori allenamento. E non è che il modo migliore per rimettersi in forma forse ritrovarsi di colpo con un pseudo-amante dalle inclinazioni sessuali confuse e una gravidanza in atto. Ma era così e basta e per un po' lui riuscì a gestirsi. Ce la fece fino a quel pomeriggio di inizio giugno, a Baskerville.

Erano presenti – in ordine crescente d'importanza – tre persone: la dottoressa Jaqueline Stapleton, suo fratello Mycroft Holmes e il suo coinquilino barra collega barra blogger barra pseudo-amante barra inseminatore casuale, il dottor John Hamish Watson. Sherlock era proprio certo che vi fossero solo loro quando era entrato nel laboratorio. Adesso, nel contatto empirico con qualcosa che il suo cervello aveva saputo essere sempre presente, si era reso conto che no, non c'erano solo loro. C'era una quinta presenza in quella stanza.

Era dentro di lui. L'aveva sempre chiamata “esperimento”. Si era rapportato ad essa come un oggetto di utilità scientifica. Ed era inconcepibile come adesso, per il solo, banale ascolto del suo battito cardiaco, gli fosse impossibile continuare imperterrito su quella linea.

In due minuti e mezzo dal momento in cui si aveva preso consapevolezza del suo stato di prossimo genitore, era riuscito ad elaborare, nell'ordine: un'ipotesi ottimistica – ma comunque altamente plausibile data l'obbiettiva avvenenza fisica di entrambi i genitori – sull'aspetto fisico del nascituro; un'ipotesi un po' meno plausibile e alquanto azzardata, dettata principalmente da aspettative personali, ma comunque probabile, sul carattere e le inclinazioni intellettuali del futuro nascituro; sette possibili combinazioni di nomi maschili e sette possibili combinazioni di nomi femminili che suonassero bene con il doppio cognome Holmes-Watson; futili fantasie ad alto contenuto glicemico su quadretti familiari cui mai si sarebbe sognato di volersi dipingere; inopportune fantasie erotiche su un John in versione figura paterna che, proprio sapeva spiegarsene il motivo, trovava estremamente eccitante.

Era un problema. Un grosso problema. Niente di tutto questo era stato contemplato nello schema dell'esperimento. La sua intera vita sconvolta dalla presenza di un figlio? No. No davvero. Non lo augurava a sé stesso e tantomeno al figlio in questione. Sherlock possedeva invidiabili competenze in numerosissimi ambiti, ma non nella puericultura.

La soluzione sarebbe stata ovvia, ma John l'avrebbe certamente rifiutata. Poteva immaginarsi perfettamente la sua espressione orripilata nel caso in cui gli avesse comunicato come mettere fine ad un esperimento che si era fatto troppo ingombrante.

No, non era fattibile. Adozione, ecco cosa. Come aveva fatto a non pensarci? Mycroft avrebbe certamente risolto anche quel cavillo e lui e John sarebbero tornati alla loro vita di sempre. Era così perfetto e lineare, che dovette trattenersi dal comunicarlo subito a John.

La sua reazione all'ecografia era preoccupantemente emotiva. Naturalmente la sua decisione era presa, ma poteva ragionevolmente supporre che se l'avesse comunicata a John adesso, lui avrebbe opposto un'infantile rifiuto.

Oh, be'. Ci avrebbe pensato più avanti. Al momento era impegnato in ben altro. Per la precisione, tornando al nocciolo della questione, era impegnato a gestire le proprie reazioni emotive.

Mancava ancora almeno un mese e mezzo all'espianto, dopo il quale l'intero esperimento sarebbe passato nelle mani della Stapleton, sollevandolo da ogni responsabilità. E nel frattempo? Come poteva uscire da quel loop emotivo in cui era malamente caduto? Come sarebbe riuscito a ridimensionare nuovamente il tutto, facendo tornare ogni cosa nello schema che si era prefissato? Se non poteva più fornire la definizione che gli aggradava a quella situazione, come avrebbe fatto a rapportarsi ad essa?

In questo inaspettato frangente, i sentimenti apparivano quantomai svantaggiosi. Doveva sradicarli, epurarsene. Riprendere il controllo.

Doveva farlo subito. Doveva farlo adesso.

Sherlock si chiuse istantaneamente, come un riccio impaurito. Rigido nella sua cocciuta ostinazione, non si rendeva conto che quello da cui credeva di doversi difendere non si trovava all'esterno ma all'interno di sé. E questa volta non sarebbe riuscito a liberarsene come credeva.


Poteva percepirlo distintamente, neanche fosse apparsa una scritta al neon che lampeggiava tra di loro il messaggio inequivocabile.

Era finita. L'intesa, il patto, o qualsiasi cosa ci fosse stata negli ultimi giorni, era finita. Silenziosamente, così come era iniziata – così come l'aveva sempre immaginato. Morta nell'aria ferma dell'abitacolo dell'auto e nel ronzio sordo del motore che faceva da sottofondo ai suoi pensieri.

Solo, non era stato preventivato che accedesse così: appena dopo la presa di coscienza più difficile della sua vita.

Ma negli ultimi tempi c'erano tante cose che John, nonostante la sua accortezza, non era riuscito a preventivare. Come già si era ritrovato a riflettere un paio di mesi prima: niente di tutto questo era stato preventivato. Come il principio di ogni cosa – di loro.

Fin dal momento in cui Mike Stamford, senza stare a rifletterci troppo, pensò a Sherlock quando lui gli disse che era in cerca di un posto, di una casa. Un ponte casuale gettato tra due esistenze qualsiasi in mezzo ad altri sette miliardi. Poi John prese quella decisione: che non era una cattiva idea lanciarsi in un'indagine per omicidio assieme ad un tizio conosciuto da un paio di giorni. Forse Sherlock l'aveva preventivato, lui no. Non aveva nemmeno preventivato di uccidere un uomo entro la sera pur di salvarlo da un presunto pericolo di morte.

John sterzò dolcemente e accostò. Fermò l'auto nella corsia d'emergenza. Sherlock non parlò, né si mosse.

A John non piaceva quel silenzio.

Esistevano vari gradi di silenzio tra di loro. Per esempio il silenzio che si creava mentre si occupavano insieme di un caso e riflettevano sulle stesse cose: quello sapeva d'intesa, meccanismi combacianti alla perfezione, come un ingranaggio che solo in quel preciso istante poteva funzionare di un ritmo accurato e inimitabile. Poi c'era il silenzio con cui John accompagnava il suo violino: erano piccoli momenti, cammei di pace nella frenesia della loro vita. C'era infine il silenzio che arrivava con la sera: quando Sherlock non era troppo annoiato o seccato e John era abbastanza stanco da accettare le sue bizzarrie e il divano diventava una piccola alcova dove non era inopportuno se Sherlock gli posava la testa in grembo e lui gli passava le dita tra i capelli mentre facevano finta di seguire un programma in tv. E ce n'erano altri, molti altri, tutti unici e a loro modo bellissimi.

Questo non era bellissimo – affatto. Questo era un silenzio brutto. Molto brutto. Era la pecora nera dei silenzi.

Questo, John ormai lo sapeva bene, era il silenzio delle parole non dette. Se gli altri silenzi erano quelli delle parole superflue, delle parole che avrebbero rovinato la perfetta intesa del momento, questo era il silenzio delle parole che premevano per uscire e che se ci fossero riuscite avrebbero potuto distruggere ogni cosa.

Il brutto silenzio si prolungò fino ad esaurire la scorta di speranza di John e infine venne spezzato dalla suoneria del cellulare di Sherlock.

Se hai bisogno della mia consulenza per quell'omicidio-suicidio, come è ovvio, sappi che sono fuori città. Comunque, segui il gatto e cerca fra i suoi gomitoli. –

Chiuse poi la chiamata e ripose il cellulare nella tasca.

John si voltò verso di lui, le labbra contratte quanto lo stomaco.

Gli vennero in mente le lunghe discussioni e le soste per farlo vomitare durante i viaggi da e per Baskerville. Gli vennero in mente le futili rivelazioni su un rapporto che era già palesemente in bilico dal primo giorno di convivenza e che aspettava solo una spintarella da un lato o dall'altro. Gli venne in mente come avessero avuto bisogno di una momentanea mutazione genetica e di un gas allucinogeno per fare quello che avevano voglia di fare da mesi. E sopratutto gli venne in mente come fossero riusciti ad accettare quello che provavano l'uno per l'altro solo mettendoci in mezzo un figlio.

Gli venne in mente che quel silenzio era brutto e che era giusto che così fosse, perché – pensò mentre rimetteva in moto – non poteva essere più adatto. Loro erano così e basta e non c'era niente, proprio niente, che John potesse farci.

Non gli venne in mente, invece, come fosse sospetta la facilità con cui si rassegnò a queste constatazioni. Non si rese conto, immerso com'era nelle sue nuove paura, che forse anche Sherlock non si sentiva più così sicuro. Chiuse così quella porta: con una rassegnazione eccessiva della quale un giorno si sarebbe pentito.


Esattamente, John. Noi siamo così e basta.

Gli dava un retrogusto amaro quella constatazione, ma Sherlock sapeva che era vera. E da amante della verità quale lui era, non poteva non esser lieto di esserci arrivato.

Allora cos'era quel disagio?

Oh... oh, John. L'hai fatto.

Si era rassegnato.

Se da un lato Sherlock sapeva che questo avrebbe facilitato il distacco, dall'altro tramutò inevitabilmente quell'amarezza in dolore. Un dolore sordo e pulsante che, senza sapersene spiegare il motivo, lo faceva sentire in colpa.

Sherlock provò a metterlo da parte e in un certo senso ci riuscì. Nella sua ingenuità, si può dire che ebbe successo. Era ancora troppo inesperto di sentimenti per capire che certe cose non le si può mettere da parte.

Ebbe una certa durata, quindi. Ore, giorni, settimane. Il tempo di tornare a Londra e ritrovarsi in una forzata routine che non apparteneva più a loro. Odiare quella routine e perdersi in reminiscenze di quella appena abbandonata. Accorgersi che quello che aveva messo da parte era sempre lì che aspettava ed ostinarsi a rifiutare di accoglierlo com'era suo diritto.

Il tempo – tre settimane e due giorni, per la precisione – di constatare che le cose belle, spesso, finiscono per nostra esclusiva volontà. Mentre altre finiscono ancor prima di rendersi conto – di accettare – quanto siano belle.

Il tempo di svegliarsi in piena notte con la sensazione di un ago arroventato che gli rovistava nel ventre. Cercare di sollevarsi e ricadere sul materasso e urlare senza sapere di farlo, mentre iniziava a divorarlo un dolore che non aveva niente a che fare con quel sintomo e con il significato che si portava appresso e al quale si rifiutava di pensare.

Il tempo di vedere John sulla porta, immobile e pallido. E capire che non solo non era riuscito a mettere da parte un cazzo, ma adesso – proprio adesso che stava per perdere tutto – tutto questo era l'unica cosa a cui non avrebbe mai voluto rinunciare.

Il tempo di sentire le mani calde di John tastargli piano il ventre e poi sollevarlo di peso, portandosi dietro una coperta. La stanza attorno che si muoveva e il panico innominabile che lo assaliva, attutito appena dalla voce di John che gli vibrava addosso. La carta da parati delle scale che gli scorreva davanti e poi il freddo della notte, il sedile di auto e il chiudersi della portiera. E poi più nulla. Più nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Nove ***


Nove

~

Di segnali stradali assenti


Non quiete del sonno, ma della breve morte:

quando il dolore è eccessivo,

bisogna morire un po' per andare avanti.

Susanna Tamaro –



Adesso.

Così abbozzolato nel lenzuolo bianco, sembrava un pallido, triste bruco, con due gocce livide a decorare il muso e una calotta di irti aculei neri attorno al capo.

Il bruco restava immobile sotto i suoi occhi e John restava immobile sulla poltroncina. Nessuno aveva avuto il coraggio di fargli notare l'ovvio. Che vegliarlo ininterrottamente per ore, ignorando le proprie elementari funzioni vitali, non avrebbe influito in alcun modo sulla situazione attuale.

John era un medico, certe cose le sapeva. Ma sopratutto, sapeva di non sapere certe cose. Ed una cosa che in quel momento era assolutamente certo di non sapere, era il perché stargli vicino fosse indispensabile. Tutto quel che sapeva, era di doverlo fare e basta.

John percepiva, in un anfratto molto lontano e confuso, che glielo lo doveva. Lo doveva a lui, a sé stesso. Lo doveva a loro, dove quel “loro” era inteso come qualcosa di ancora indefinito e difficilmente quantificabile.

Deboli scuse ritardatarie per compensare una colpa solo intenzionale che lo stava divorando – che l'avrebbe divorato ancora, per sempre. Le intenzioni posso essere più micidiali delle azioni compiute.


Dodici ore prima.

Non c'era tempo. Non c'era più tempo.

Era a malapena in grado di formulare questo pensiero mentre sentiva la vita scivolargli di dosso a ondate, lasciandolo ogni attimo più vuoto. Emorragia interna. La sentenza era arrivata da chi? Sapeva che aveva importanza, ma non riusciva a mettere a fuoco l'identità. Non riusciva a mettere a fuoco niente.

Mani. Quelle di John, sostituite poi da altre, estranee. Odori. Acqua di colonia, cuoio, carta da parati, inchiostro, azalee. Casa di Mycroft.

L'accordo. Dovevano aver fatto un accordo, lui e John. La telefonata, prima, in auto. Le parole secche di John contro il microfono del cellulare. Erano d'accordo e lui ne era all'oscuro. L'avevano scavalcato. Sorpresa, delusione, rabbia. Poteva dedurlo, ma non l'aveva fatto. Perché? Gli ormoni, la fiducia incondizionata, le emozioni. Le emozioni.

Fottute emozioni.

Era in piedi o era steso? La percezione dell'equilibrio era sfalsata.

Sherlock mosse il braccio che gli avevano afferrato – o almeno credette di farlo. La presa non si allentò. L'ago penetrò la pelle senza che lui ne avvertisse il dolore. Tutti i recettori erano sovraccarichi. L'ultimo sprazzo di dolore arrivò direttamente dal ventre e si diluì nel percorso da lì al cervello. Perduto, annichilito. L'orrore di stare perdendo anche il dolore.

Davanti agli occhi ciechi, si stagliava con la chiarezza di una proiezione cosa stavano per fargli. L'aveva chiaro e, per quanto disperatamente cercasse di mantenersi vigile, sapeva che il sedativo avrebbe fatto effetto in minuti, secondi.

Ora. Stava facendo effetto ora. E lui non avrebbe potuto impedirlo. Lo stavano esautorando dalla sua stessa vita, impedendogli di prendere la decisione.

Non potevano farlo.

No.

No.

John, no.

Diglielo, digli di no.

Digli di no, John.

John.

Glielo dirai, vero?

John?

Ti prego.


Adesso.

Fu un odore. Venne trascinato fuori da quella distorta dimensione onirica e catapultato nella realtà materiale del mondo da un odore. Dal sistema limbico ripescò la memoria a lungo termine associata a quell'odore e per un momento si trovò a chiedersi se non si fosse addormentato nuovamente davanti alla tv con la testa posata sulle gambe di John.

Non era così, ovviamente.

Il sistema limbico registrava adesso altri odori, meno familiari. Meno piacevoli. Quello asettico delle lenzuola sterilizzate. Quello pungente dei detersivi per pavimenti. Quello basico del disinfettante.

Fu allora che il sistema limbico lasciò il posto al telencefalo. Ricordò gli eventi della notte prima e mise a fuoco dove si trovava. E Sherlock sperimentò una variegata gamma di emozioni cui non ebbe la forza di sottrarsi. Alla sua destra un bip-bip la cui frequenza aumentava esponenzialmente, alla sua sinistra un respiro strozzato e un rumore di stoffa sfregata. La pressione di una mano calda sulla spalla, la preoccupazione di John che superava la barriera dei sedativi investendolo di tutta la sua emotività.

Sherlock deglutì un sapore metallico e sospirò. Di sottrarsi a questo, non solo non aveva la forza. Non voleva. Era l'unica cosa che lo faceva sentire almeno un po' vivo in mezzo ai quei tubi e agli elettrodi e all'assenza chimica del dolore.

Fece volentieri a meno dell'ultimo dei sensi. Fingere un'opportuna cecità lo aiutava a superare il trauma che gli causava quella momentanea menomazione. Era semplicemente agghiacciante non possedere il completo controllo delle facoltà mentali e fisiche. Non poter constatare empiricamente cosa gli avevano fatto. Cosa gli aveva permesso di fare.


Dodici ore prima.

Valutazione, decisione, azione.

John era fuori allenamento, ma certe cose ti s'incidono nel cervello, nel cuore, in ogni singola cellula. Una di queste cose, incisa profondamente in John, era il tempo. Quando devi schivare una pioggia di proiettili, quando devi arrestare un'emorragia, impari l'importanza dei secondi. La vita è un buon metro di misura per il tempo. E di situazioni in cui cronometrare il lasso tra vita e morte, John poteva affermare di averne collezionate un buon numero.

Ma un paio di volte era successo di peggio. Un paio di volte, si era trovato costretto a cronometrare il lasso tra due vite e la morte certa di una delle due. A decidere con una valutazione breve, insufficiente e passabile di errori, quale dei due soldati avesse più probabilità di essere salvato. A decidere quale dei due uomini fosse una superflua perdita di tempo da curare.

Aveva fatto anche questo, John. Sono cose che capitano in guerra e lui non si era tirato indietro. Aveva scelto. Aveva scelto e non si era pentito, perché sapeva che in una tale situazione, con mezzi e tempi così precari, non avrebbe potuto fare di meglio. Aveva scelto ed era confortante potersi dare tutte quelle belle scusanti. Non sarebbe stato suo il compito di spedire a casa la medaglietta accompagnata da una lettera.

Così John scelse rapidamente e con insospettabile sangue freddo. Era, se possibile, anche più facile del previsto. Non c'era da stare a valutare granché. Le possibilità erano alquanto limitate e lui conosceva le sue priorità. Le opzioni si erano ridotte ad una sola, non trattabile.

Disse loro cosa fare. Lo disse con la consapevolezza esatta di quello che avrebbe implicato. Lo disse e ritrovò nelle espressioni intorno a lui pieno appoggio. Non avrebbe potuto essere altrimenti.

Afferrò il braccio di Sherlock e lo tese, esponendo la pelle diafana alle dita inguantate di lattice del paramedico. L'ago entrò nella vena con un movimento fluido. Era bravo e veloce. Non avrebbe sofferto.

Era il momento di lasciare il suo braccio. Stava stringendo anche troppo. Era il momento di lasciarlo andare.

Il letto di mosse e John alzò la testa verso la sala operatoria di fortuna fatta attrezzare da Mycroft. Scorse le luci abbaglianti, il pavimento di mattonelle disinfettate, gli strumenti lucidi ben allineati sul carrello.

Il letto si arrestò sull'ingresso.

Vuole assistere? –

Voglio assistere?

Lo stomaco gli si contrasse fino a minacciare un rigetto.

No. – disse qualcuno (Mycroft? Sherlock? Lui stesso?).

Una stretta ricambiata. E la disperata debolezza di quella stretta gli fece girare la testa. Se non lo guardava adesso, non ne avrebbe avuto il coraggio. Mai più. Se lo guardava adesso, avrebbe fatto qualche puttanata. Garantito.

In seguito, John si sarebbe chiesto per molto tempo se quello che sentì fu pronunciato davvero o se fu solo uno scherzo del suo cervello inondato di adrenalina. Ma sul momento capì solo “No”. Ancora “No”.

Ce l'aveva davanti agli occhi, scritto su ogni centimetro di quella sala asettica. Ce l'aveva nelle orecchie, che rombava assieme al sangue che il suo cuore si ostinava a pompare nelle vene. Ce l'aveva sotto le dita, mutuato dalla pelle fredda di Sherlock.

John sentì quel “No” farsi strada dentro di lui, fino ad incrinare ogni sua certezza. Lo prese per quello che era e ancora una volta decise. Una scelta. Un bivio.

La scelta – illogica, assurda, controproducente – fu “No”. Più tardi avrebbe avuto tutto il tempo di pentirsene.


Adesso.

Il bruco si muoveva nella sua crisalide. Troppo debole, fragile.

John staccò l'elettrocardiogramma. Aveva le mani e gli occhi e poteva usare quelli. Poteva prendere il polso sottile di Sherlock e contarne le pulsazioni, sentirle reali sotto i polpastrelli. Sangue che scorreva. Poteva posargli una mano in fronte e avvertirne la temperatura.

Va tutto bene. –

Parole scontate contro occhi sigillati, labbra chiuse, pelle fredda. Era tutto chiuso e lontano da lui, così lontano. Si sentì afferrare da un senso di disagio e inutilità che gli ricordava il suo rapporto con Harry.

Sono qui. –

Lui deglutì. Anche John deglutì.

Hai sete? Ma certo che hai sete. –

Parole, ancora parole. John non sapeva più dire da quanto tempo fossero diventate inutili le parole tra di loro, eppure continuava ad usarle per riempire i loro silenzi. Gli servivano da rifugio di fortuna per non perdersi in quell'uragano che erano loro due.

Cercò dell'acqua e la trovò, una bottiglietta posata sul carrello di fianco al letto. Versò un bicchiere.

Ecco qua. – mormorò sostenendogli il collo e accostandogli il bicchiere alla bocca.

Sherlock bevve. E sigillò nuovamente le labbra. Anche John sigillò le labbra.

Gli scostò i capelli appiccicati di sudore e fece scivolare le dita sul collo. Un sospiro. Due. Veloci, come a voler reprimere qualcosa. John picchiò duro contro quel palese rifiuto, come se non l'avesse percepito fin dal principio. Contrasse la mascella e chinò testa. La mano restò ancora lì per un momento, uno di quei lunghissimi momenti in cui si resta incastrati nel patetico loop di come uscire da una situazione in bilico.

Ebbe infine il coraggio di abbandonare l'incavo caldo. Allora il bruco ruppe il bozzolo, ma solo un po'. Il tanto giusto perché una zampa uscisse fuori e afferrasse la mano prima che si allontanasse.

Era solo un baluginio d'azzurro, un frammento quasi impercettibile. John lo scorse tra le fessure di quella crisalide e non disse niente. Perché non c'era niente da dire. Non c'era modo di riempire quel silenzio, stavolta.

Le ali erano ancora appannate, ma già si distendevano. John restò a contemplare quel miracolo. Ogni gradazione, ogni sfumatura del ritorno alla coscienza di Sherlock. L'azzurro gli vibrò addosso, per poi nascondersi dietro le ciglia per un attimo, solo un attimo. La fronte contratta e un sospiro tremulo tra le labbra, le sue dita conficcate nella mano.

Mi hai sentito. –

A John si spezzò il fiato in gola.

Forte e chiaro. –

Le ali tornarono a vibrare.


Dodici ore prima.

Sta scherzando? –

No. Direi di no. –

Avevamo un accordo. –

E io l'ho rispettato. Adesso non c'è più posto per gli accordi. –

Sherlock non registrò altro.

La dimensione ovattata dei sedativi lo accolse nelle sue soffici spire. Ci si abbozzolò, l'anima ripiegata su sé stessa in infiniti strati. Chiuse fuori il mondo esterno in quella labile barriera. Ci si chiuse e lì rimase, nel blando, disperato tentativo di difendere loro due.

Gli viveva dentro, ancora per un poco. Una crisalide dentro la crisalide. Era troppo fragile per proteggerlo da solo e troppo disperato per lasciarlo andare. C'erano solo loro due e il resto del mondo che remava contro. Dolore, più straziante di quello fisico. L'inutilità della chimica.

Non aveva mai pregato, Sherlock. E nemmeno stavolta lo fece. Restando perfettamente in linea con la sua natura pragmatica e votata alla logica, il suo ultimo pensiero cosciente lo rivolse all'unica persona che, più di una qualche divinità astratta, aveva il potere di cambiare le cose.

Sherlock pensò a John.


Adesso.

Un gomito puntellato sul letto e la testa posata sulla mano. Gli occhi di John gli scivolavano addosso mentre i sedativi smaltivano lentamente il loro effetto. Era come la nicotina, ma in qualche modo peggio. Le sinapsi di Sherlock avevano riacquistato sufficiente lucidità da permettergli di focalizzare quel momento come non avrebbe mai potuto.

Il loro respiri irregolari. La barba malrasata di John. La sua mano sul suo polso, il pollice che tracciava distrattamente cerchi sulla pelle scoperta. Quella sfumatura nello sguardo, la voglia di sentirsela sempre addosso.

Se la stava facendo sotto, Sherlock. Quello era l'uomo che l'aveva messo incinto e lui se le stava facendo sotto. Di brutto.

La sua voce: – Lo so che non è il momento più adatto. –

Non rispose niente. Aveva di nuovo la gola secca.

E continuò a non dire niente mentre le dita di John abbandonavano il suo polso per raggiungere il volto. Le sentì sulla tempia e poi più giù, a seguire il contorno dell'orecchio, danzando tra un riccio e l'altro. Gli facevano il solletico. Sherlock socchiuse gli occhi e l'osservò attraverso le ciglia.

La stava prendendo alla larga. Era lo sport preferito di John e non si smentì nemmeno questa volta. Lasciò che indugiasse ancora, prima con lo sguardo, poi con le dita. Lasciò che le nocche tracciassero il percorso della mascella fino al mento. Che il pollice si soffermasse lì, sulla fossetta, indeciso, e che infine premesse, tirando la pelle a schiudergli le labbra. Che lo sguardo assaggiasse prima della bocca.

Iniziò cauto e attento, John, gli occhi ancora aperti e le mosse gentili. I corpi un po' più vicini e i respiri mescolati e uno sfiorare di carne quasi impercettibile.

E poi si stavano baciando.

Umido, caldo, morbido. John mosse le labbra sulle sue e Sherlock si trovò a rispondere, inseguendolo. Gli succhiò il labbro, gli fece trovare la lingua. Seguì quel movimento lento che gli stava sciogliendo i lombi di un calore bagnato. Ci provava a respirare normalmente, ma si arrese presto. Si stava facendo tutto meno soffice e più penetrante. Quando John gli infilò la lingua sotto il labbro, esplorando piano la mucosa, riuscì solo ad ansimargli addosso e aggrapparsi alle lenzuola.

Disturbo? –

Sherlock serrò gli occhi mentre John lo liberava da quella dolce morsa.

Mycroft.

Vide John ruotare appena il capo, impacciato da un imbarazzo che non sapeva affatto di vergogna.

Si schiarì la voce e alzò la testa: – Sì. –

Fuori dai piedi, Mycroft. – aggiunse per lui.

C'era un bel silenzio, adesso. Era tutto nuovo e Sherlock si scoprì a gustarlo.

Dicevamo? –

John lo stava guardando. L'imbarazzo era ancora palpabile tra di loro e la persistente assenza di vergogna gli dava un brivido che era superfluo – superfluo, santo cielo – definire.

Si umettò le labbra, virando subitaneamente la sua attenzione.

Che non sarebbe il momento più adatto. –

Gli sorrise, John. Due fossette ad increspargli le guance e quelle rughe sottili attorno agli occhi capaci di mutarlo in gioia pura ed essenziale. Sherlock contrasse le dita sulla sua mano e lui gliele aprì, una alla volta, delicatamente, infilandovi le sue in mezzo.

Calore, presenza. Presenza. Presenza.

Quando mai c'è stato un momento adatto? –

John chinò la fronte sulla sua spalla e sospirò. La fatica di alzare il braccio fu ricompensata dalla consistenza dei capelli sotto il suo palmo e dal brontolio sordo di John che apprezzava il gesto. Aveva le dita bloccate nelle sue e una spalla immobilizzata dal peso della sua testa.

Mi hai incastrato. – constatò.

Non aspettarti che ti sposi. –

È già difficile soffocare una risata da soli, figuriamoci in due.


Dodici ore prima.

Qualcuno gli chiese qualcosa, che John non afferrò. Non rispose. L'emicrania pulsava violenta dietro gli occhi. Si premette le mani sulle tempie, in silenzio. Poi un rumore metallico attirò la sua attenzione. C'era un bicchiere sul tavolino davanti, con tante bollicine che partivano dalla pastiglia sul fondo e andavano a morire sulla superficie dell'acqua.

Acido acetilsalicilico. Era quasi certo che ci fosse qualcosa di più forte nella farmacia domestica di Mycroft, ma evitò diplomaticamente di commentare.

Bevve d'un fiato, con le bollicine che gli raschiavano la gola. Posò il bicchiere e si stropicciò gli occhi.

Grazie. –

Mycroft sedette nella poltrona di fianco, allentandosi il nodo della cravatta. Del gessato con cui l'aveva accolto ore prima, erano sopravvissuti solo i pantaloni, la camicia aveva le maniche arrotolate sugli avambracci, un ciuffo di capelli era sfuggito dall'impeccabile ordine cui era costretto.

Erano le cinque del mattino e fuori iniziava ad albeggiare. Le luci erano fredde e tenui.

Vorrei poterle dire qualcosa d'incoraggiante. –

Vorrei poter dire che me ne fregherebbe qualcosa. –

John intrecciò le dita sotto il mento e lo guardò stancamente. Mycroft ricambiò lo sguardo, l'espressione di curiosa concentrazione e il capo lievemente inclinato in quella posa così da Holmes.

Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, dottor Watson. –

Avevo nove in fisica, ma grazie per il ripasso. – ribatté, sforzandosi di esprimere un sarcasmo del quale non sentiva realmente l'esigenza.

Li hai salvati, John. Entrambi. –

In qualche modo l'aveva saputo. Fin dal momento in cui era entrato nella stanza, l'aveva saputo. Ma quella puntualizzazione, accompagnata dal “tu”, ebbe il bizzarro effetto di spaventarlo.

Tu me l'hai lasciato fare. – rispose, studiando la sua reazione.

Mycroft piegò un angolo della bocca e distolse lo sguardo.

Avevo scelta? –

Avevo scelta?

La scelta se l'erano negata quattro mesi prima, ma John se n'era accorto solo adesso. Avevano superato un bivio senza rendersi conto che era un punto di non ritorno: non c'era nessuna segnalazione. John si era incastrato ed era una gabbia stretta quella in cui si era cacciato. Scoprì che non avrebbe voluto essere da nessun'altra parte.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=954649