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SALVE A TUTTI!
ECCO A VOI IL PRIMO CAPITOLO DI UN NUOVO RACCONTO! (scritto ieri notte alle due... siate clementi...)
E' UN ESPERIMENTO DI UN NUOVO STILE DI SCRITTURA, CHE HO VUOLUTO PROVARE. E' UN PO' DIVERSO DAGLI ALTRI MIEI LAVORI, MA SPERO CHE VI PIACCIA COMUNQUE!
Un ringraziamento a tutti coloro che mi hanno recensita fino ad adesso, sperando che i vostri commenti siano sempre di più!
Vi lascio alla lettura!
Baci
CENTO PASSI
Capitolo 1
-Ti ho cercata, sai? -
-Non abbastanza. -
Sei sempre la solita, Rigel. Mai un po' di diplomazia, mai un po' di delicatezza.
- Eppure ti ho trovata. -
E' vero, ci è riuscito. Ti ha trovata e ti ha portata lì, all'ombra di quel melo, per specchiarsi nuovamente nei tuoi occhi del colore dell'acqua.
- Dove sei stata tutto questo tempo? -
- In giro...come sempre -
Bugiarda.
Cento passi.
Li percorrevi tutte le mattine e quel numero tondo, perfetto, era la tua sicurezza.
Lo trovavi sempre lì, ad aspettarti e ti ci attaccavi come una bambina al seno della madre.
Solo cento passi ti separavano dalla sua porta, eppure non hai mai avuto il coraggio di bussare.
Hai affittato apposta quella stanza squallida, per saperlo vicino.
- L'ho lasciata, Rigel. L'ho fatto per te, ti rivoglio. -
Ridi. Quel suono cristallino sgorga dalla tua gola come una stilla d'acqua fresca.
Vorresti berne, vero Marfik?
Eppure lei non te lo concederà. Non più.
- Hai sbagliato a farlo. Io non appartengo a nessuno, sono libera come il vento. -
E' così, tu ti muovi come la brezza primaverile ma ferisci come la tramontana violenta.
Tu sei calda e avvolgente come lo scirocco eppure forte come la bora.
- E' un rifiuto? -
Pensaci un attimo, Rigel.
Vorresti dirgli di no, che non è un rifiuto.
Ma è più forte di te.
- Sì, lo è. -
Eppure sai che se solo lo abbracciassi, il sentiero si disegnerebbe chiaro e concreto davanti a te e tu non dovresti far altro se non percorrerlo.
- Lavorerai anche sta notte? -
- come sempre... -
- Allora è inutile che ti auguri buona fortuna. Sei sempre la migliore sulla piazza. -
- Lo so... -
Eppure vorresti smetterla, vero Rigel?
Non ce la fai più a fare il lavoro sporco per gli altri, vederli salire in alto mentre tu marcisci nell'ombra, assalita dai tuoi fantasmi.
- Hai lavorato anche per me. -
- Sì, è vero. -
- Facesti un ottimo lavoro. -
- Come per tutti. -
Silenzio.
Un attimo di silenzio che pesa, pesa, pesa e minaccia di tirarti giù con se.
- Allora io vado, Rigel. -
- Bene. -
- Vuoi che ti porti da qualche parte? -
Ma a te non serve stare seduta in sella, stretta a lui. In ogni caso non potresti farti vedere in giro vestita in quella maniera e soprattutto non con Marfik.
A te occorre che lui ti prenda per mano e ti accompagni nella vita, passo dopo passo.
Eppure, ironia della sorte, sei destinata a restare sola.
- No, grazie Marfik. Vai pure. -
Lui ti sorride.
Mette un piede nella staffa e sale sul suo stallone nero come un baratro.
Non ricordavi potesse essere così bello.
Digli di fermarsi, digli di restare ancora con te.
- Marfik! Aspetta! -
Marfik si gira. Tu ricambi il sorriso con uno dei tuoi, quelli ironici e un po' crudeli.
Ti avvicini con il tuo passo sicuro ed elegante, passo di ragno sulla sua tela, di tigre acquattata nell'erba.
- Mi devi ancora pagare, per quel lavoro. -
Marfik, sapevi che non poteva essere vero, eppure per un attimo ci avevi sperato, davvero.
Inarchi un angolo della bocca e sleghi la sacca delle monete della cintura, la tiri a Rigel, un po' arreso, un po' malinconico.
Non dici altro. Senza una parola sproni il tuo cavallo a partire.
Tu, Rigel, lo vedi allontanarsi tra i meli del frutteto.
Apri la borsa.
Cento, come pattuito.
Cento, come i passi che non hai mai avuto il coraggio di percorrere davvero.
La richiudi e anche tu ti avvii verso il cancello, verso l'entrata della città, già vestita per il lavoro:
pantalone nero di pelle e camicia dello stesso colore, dalle maniche svasate, stretta in vita da un corpetto altrettanto scuro.
Ti cali bene il cappuccio sugli occhi.
E in questo momento sai chi sei.
Sei solo l'assassino nero, il sicario più abile delle terre conosciute.
Nessuno conosce il tuo viso, nessuno sa se tu sia donna o uomo.
Solo Marfik è stato di più.
E' per questo che l'hai voluto rivedere, prima di sta notte; nonostante fossi riuscita a convincerti che anche lui non era stato nulla se non un committente, un nobile ambizioso come tanti altri.
Che aveva affidato a te i suoi nodi da sciogliere con la lama.
Ma l'hai voluto rivedere, prima di sta notte.
L'hai voluto rivedere, perchè ora che il sole è calato dietro ai colli di Juklel, lui è la tua preda.
Salve a tutti e benvenuti nel secondo capitolo di “cento passi”! Finalmente la storia sta prendendo una forma, mentre io continuo a sperimentare questo nuovo stile un po’ più conciso e incisivo del solito… Spero vi piaccia anche questo secondo capitolo! Ci terrei a ringraziare Angel_kiss, Damynex, Frisulimite e Londonlilyt , che hanno recensito il primo capitolo! Grazie mille per i complimenti, spero di soddisfarvi anche sta volta! Buona lettura!
Arwis
Rabbia. Perché la rabbia è tutto quello che riesci a provare, Rigel?
Chi è che odi così tanto, chi è che ti spinge a stringere i pugni a tal punto da far sanguinare i palmi?
Le strade di Faere sono buie stanotte, cieche persino alla luce delle stelle.
I tuoi passi non fanno rumore, ma i battiti del cuore sono assordanti.
Per chiunque li sappia ascoltare.
Vicoli, strade e ancora vicoli. Curve e vie, che in pochi si possono vantare di conoscere così bene. Ma tu ci sei cresciuta, nelle strade della capitale.
Sono la tua casa.
Ancora qualche passo, poi la meta.
Davanti a te si erge in tutta la sua magnificenza, il palazzo imperiale.
Marmi policromi, stucchi applicati ad arte.
Troppo per un uomo solo.
L’angolo accanto alla fontana, è li che hai l’appuntamento con il tuo committente.
Cali bene la ladresca sugli occhi, affinché di te sia visibile solo la bocca, seria.
Qualche passo e gli sei davanti.
- Ti aspetto da un po’. -
- Infine sono qui.-
- Ricordi dove devi eseguire il lavoro? -
Annuisci. Sai bene dov’è che riposa ogni notte la tua vittima, sai quali sono le sue abitudini. Hai studiato per giorni il tuo obiettivo, cercando di apprendere il modo migliore per eliminarlo.
La gola, un taglio netto. Poca sofferenza, non avrà neppure il tempo di guardarti negli occhi, prima di spegnersi.
- In tal caso questo è il saldo, come pattuito. -
Il cancelliere slaccia la borsa con i soldi dalla cintura e te la porge.
Tu ne hai già un’altra legata in vita: quella che ti ha dato Marfik, meno di un’ora fa.
I soldi sporchi dell’impero pesano, tra le tue mani.
Forse perché sono molti, forse perché sono intrisi della sofferenza da cui provengono.
Ma è danaro, ed è per questo che tu vivi.
Leghi la piccola bisaccia accanto a quella che ti ha lasciato Marfik e, sotto il tuo cappuccio pesante, ti sfugge un sorriso cinico.
E’ proprio vero che chi nasce ragno non può diventare farfalla.
- Domattina il consigliere Marfik di Arendal non vivrà più. -
Il cancelliere annuisce e sorride, soddisfatto.
Ma quella frase non l’hai pronunciata per lui, l’hai fatto per te.
Marfik ormai è un morto che cammina.
- Mi fido della tua abilità e discrezione. E anche l’imperatore Xaferas si fida di te.-
Ma tu, della loro fiducia, non te ne fai nulla.
Il cancelliere si volta e rientra a palazzo, come se nulla fosse successo. Le due guardie all’entrata spalancano il portone e in breve anche la schiena dell’uomo è inghiottita dal buio.
Il portone viene richiuso, e il rumore delle lance dei soldati, incrociate nuovamente, ti riscuote.
Sei stata pagata, Rigel. Il tuo lavoro inizia ora.
Non sei che un’ombra.
Il tuo passo lungo e controllato sembra scomparso, sostituito da una corsa leggera e veloce.
Un rumore, improvviso, inaspettato.
Con un balzo, sei scomparsa.
Una prostituta cammina ridendo, con un soldato ubriaco appoggiato a se.
In fondo, non siete poi così diverse, non è vero?
Entrambe vi vendete per soldi.
La donna e l’uomo entrano in una sudicia casupola e tu, come un pipistrello, scendi dal tetto della bottega, sul quale ti eri accucciata.
La tua corsa continua, dritta fino alla porta.
QUELLA porta.
Quella a cui non hai mai avuto il coraggio di bussare, quella dove ogni mattina ti conducevano i tuoi cento passi.
Marfik.
Ma nemmeno questa volta busserai, nemmeno questa volta entrerai da quell’uscio.
Le strade sono deserte, non c’è anima viva.
D’altra parte ti trovi nei bassifondi e ormai è notte inoltrata.
Ti aggrappi ad un mattone sporgente e scali il muro dell’abitazione; passo dopo passo, mattone dopo mattone.
Nera ed esile, come il più letale degli aracnidi.
Uno slancio della gamba destra e ti trovi sospesa tra il muro, un balcone e il vuoto.
Fai forza con le braccia e sei dentro.
Un respiro profondo, due, tre.
Stai iniziando a sudare.
Afferri il pugnale con la mano destra e, con la sinistra, apri la finestra.
Un alito di vento fa svolazzare la tenda leggera del baldacchino.
Ti avvicini piano, senza peso, come un’anima, immergendoti nell’oscurità lunare della stanza.
Lui è oltre quella cortina di tessuto, che a te sembra impenetrabile.
Gli omicidi vanno affrontati a sangue freddo, Rigel, come hai sempre fatto.
E come dovresti fare anche stavolta.
Non credi sarebbe meglio se per oggi tornassi a casa, e domani affrontassi il lavoro a mente fredda?
Tuttavia l’imperatore non accetterebbe le tue mere scuse, e in primo luogo saresti tu a non riuscire a concederti il perdono.
Una mano oltre il tendaggio e lo scosti. La seta grezza scorre stra le tue mani.
Uno spicchio di luna illumina il suo viso.
La camera è fredda, ma lui è avvolto in un torpore tranquillo, sereno.
Il pugnale.
Un colpo solo e sarà fatta, finita.
Accosti la lama alla sua gola, ma lui scatta.
Marfik si solleva a sedere, storcendoti il polso, il viso contorto dalla rabbia.
Come hai fatto a farti sorprendere così, Rigel?
Tu sei la migliore sul campo, l’infallibile sicario nero!
Una lacrima solca la tua guancia, lacrima di sconfitta, lacrima di bruciante vergogna.
Perché i morti si possono contare, ma l’umiliazione non ha numeri.
Marfik continua a storcerti il polso, fino a portare la tua testa all’altezza della sua bocca.
- sapevo che saresti venuta, cagna. – mormora a denti stretti – ti apettavo. -
- in molti mi aspettavate, sta notte… -
- chi ti manda? Dimmi chi ti manda, o per tutti gli Dei ti faccio arrestare. -
Perché proprio ora ti viene da ridere?
Perché il riso lotta così per uscire dalle tue labbra?
Marfik con un gesto fulmineo ti strappa il mantello.
- Guardami negli occhi, mentre mi uccidi. Fallo se sei il sicario che dici. -
Poi ti lascia il braccio.
Il tuo respiro è agitato, pesante. Lui ti fissa con i suoi occhi neri come la brace, i capelli scomposti e lucidi come ali di corvo.
Il suo petto si alza e si abbassa aritmicamente, anche lui è affannato.
Perché non agisci?
Perché tremi?
Marfik sorride e scuote la testa, poi scatta e ti afferra la mano destra, portando il pugnale vicino alla vena pulsante del suo collo.
- ammazzami. – sibila.
Fissi i tuoi occhi nei suoi e, mentre una seconda lacrima solca il tuo viso impassibile, premi il coltello contro la sua gola.
Ecco a voi il 3° capitolo di “Cento Passi”!
Vi devo confessare che mi sto affezionando sempre di più alla storia e ai personaggi, come spero anche voi!
Mi fa piacere constatare che sta piacendo abbastanza, è sempre una soddisfazione leggere una recensione, anche se ci dovessero essere delle critiche!
Finalmente sarà sciolto l’enigma: Marfik è morto?
Leggete, leggete!!
(e recensite!)
Un ringraziamento ha chi ha commentato il capitolo precedente: Cry 90, Rowina, Damynex eMOTIVe e Londonlylit. Spero vi piaccia anche questo!
Baci!
CAPITOLO 3
Gemma rossa
Un graffio sui nervi tesi del suo collo.
E’ tutto quello che sai fare, Rigel?
O forse è tutto quello che sai fare a lui.
Marfik ha tenuto gli occhi aperti, anche quando l’avresti potuto uccidere.
Li ha tenuti fissi nei tuoi, senza espressione.
Non ti stava implorando, non ti stava minacciando.
Ti guardava, semplicemente.
- Non lo vuoi più fare? -
E tu non sai cosa rispondere. Ti mordi un labbro, un segno di quella debolezza che avevi giurato di non far trapelare mai più dalle tue azioni.
La lama è ancora lì, sulla sua gola, mentre una goccia di sangue scorre sull’incavo del collo.
Una gemma rossa.
Scosti il pugnale e lo rimetti nel fodero.
Hai fallito.
Ti volti e già stai per fuggire dal balcone. Ma lui ti blocca.
Si alza di scatto e ti afferra da dietro, dalla vita.
E il tuo cuore ricomincia a battere.
- Lasciami, bastardo. Lasciami o ti ammazzo davvero. – ringhi.
Sembri una bestia ferita, Rigel.
- Se te ne vai ti metto nei guai. Ormai sei qui, non puoi più scappare.-
Marfik continua a tenerti stretta e tu sei inebriata dal profumo della sua pelle.
Come può credere di poterti tenere in gabbia? Non si può intrappolare la brezza del Nord.
I tuoi occhi di ghiaccio scattano da una parte all’altra, febbrili.
Ti tiene le braccia bloccate e sei troppo vicina a lui per dargli un calcio.
Avevi dimenticato quanto fosse forte la sua stretta, non è vero?
- sei meschino, Marfik. Avevo dimenticato che in giro c’era qualcuno più vendicativo di me, sai? -
- Hai fatto male. Mai dimenticare cose così importanti. -
Il suo fiato ti solletica il viso.
Ti volta verso di se e ti strappa la ladresca dalla testa.
Ti ha lasciato le braccia libere e tu agisci, meccanicamente.
Una ginocchiata nello stomaco e lui è a terra.
Ti metti su di lui, a carponi, con la furia del vincente.
- sarai anche vendicativo come me, Marfik. Ma non dimenticare che la migliore, sono io. - Sibili.
Lui sorride, graffiante.
E il tuo cuore batte un po’ più forte, sempre più forte.
Fino a farti sentire di nuovo viva.
Troppo viva.
Ti alzi e raccogli la ladresca stracciata da terra.
Lui rimane sdraiato e ti guarda, senza una parola, senza fermarti.
Esci di nuovo sul balcone, attraversando le tende mosse dal vento.
La luna illumina il tuo viso.
Luce notturna, luce traditrice. La luce degli amanti, la luce degli assassini.
Ma quella luce non è per te, tu non sei né l’uno né l’altro.
Ci vuole coraggio a vivere, Rigel.
Come ci vuole coraggio a uccidere.
E tu, stanotte, non ne hai avuto per nessuno dei due.
Salti sulla balaustra e resti lì, in bilico, una figura esile e forte allo stesso tempo che si staglia verso il cielo puntellato di stelle.
Marfik si è alzato da terra e viene verso di te.
Perché lo aspetti?
Vattene, Rigel!
Vattene via dalla città, prima che il sole sorga, prima che l’imperatore scopra che non hai fatto il tuo dovere.
Prima che sguinzagli contro di te i cani dell’esercito.
Lui è già di fronte a te, non sembra a disagio.
- Hai cercato di uccidermi, Rigel. E ora scappi. Non rimarrai neanche per stanotte? -
- No. Vai a cercare la tua promessa e dormi con lei. Non mi puoi costringere tra le tue coperte. -
Lui ride.
Una risata amara, una risata senza gioia.
Si sporge e ti prende il viso tra due dita.
- Come posso accontentarmi di una gazzella, quando ho conosciuto la leonessa? -
Tu ti divincoli e sputi sul suo viso pulito, disgustata.
Ma non da lui.
Disgustata da te stessa, disgustata dal tuo passato, dal tuo presente.
Il tuo futuro, però, sei ancora in tempo per cambiarlo.
Marfik si asciuga il viso con un avambraccio.
- Vattene, Rigel. Ora sono io a dire che te ne devi andare. -
- E tu non parlerai a nessuno del fatto che sono stata qui. O la mia lama colpirà più profondamente.-
-Non ho interesse a rovinare la tua fama.-
Sorridi di sbieco e salti giù.
Atterri con la grazia di un’aquila che scende dal suo volo e,in poco, sei scomparsa nel buio.
Marfik si appoggia alla balaustra e scuotendo la testa, sorride.
Sei sempre la solita, Rigel.
Non sei delicata, non sei diplomatica.
Ma, al contrario di ciò che cerchi di far credere, sai amare.
Sono lacrime queste stelle lucenti che cadono dietro di te, brillando sulla strada?
Ma tu non ci fai caso e corri, corri, fino a non avere più fiato.
Le lame dei pugnali sbattono contro le tue gambe.
Sono crudeli e ti ricordano che hai appena vissuto il tuo primo fallimento.
O forse cercano di chiamarti, di farti tornare indietro.
Ma il sole sta già sorgendo e l’aurora colora il tuo viso.
Corri fino ad uscire dalla città, e senza rendertene conto,sei di nuovo nel frutteto, sotto ai meli.
Ti siedi lì e chiudi gli occhi, scossa dai singhiozzi.
Non avevi giurato che non avresti più pianto?
Sei anche incoerente, Rigel.
Un’ assassina bastarda, neanche abbastanza forte da rinchiudere le proprie lacrime.
E stamattina, per la prima volta, sei anche una mediocre.
E’ per questo che sei sola come un cane.
Ti alzi e, lentamente, procedi verso il fiume.
Quando sei li, il sole è già alto nel cielo.
Ti spogli e ti immergi nell’acqua gelida, che trafigge la tua pelle, che risveglia i tuoi sensi, che lava via dalla tua pelle perlacea le sensazioni appiccicose che la notte ti ha lasciato addosso.
Immergi la testa e quando esci fuori, per prendere aria, i lunghissimi capelli neri sono tirati all’indietro, scoprendo quel viso che sempre nascondi.
Scoprendo quelle orecchie a punta che ti rendono quella che sei.
(Se ne vedranno delle belle… Spero vi sia piaciuta anche questa “puntata”! Rigel ed Arwis vi danno appuntamento al prossimo capitolo, dove finalmente si capirà “cos’è” Rigel! – ma è intuibile-…
Baci! Arwis)
Eccomi qui con il nuovo capitolo!
Finalmente scoprirete chi è Rigel e come è diventata “il sicario nero”!
Annuncio che i prossimi due capitoli saranno un flash back sul suo passato, poi riprenderà la vera e propria storia “attuale”.
E’ importante, per il seguito della vicenda, conoscere come Rigel è diventata ciò che è ora!
Vi lascio alla lettura, alla fine scriverò i debiti ringraziamenti!
Baci
Arwis
I cancelli del Tisenar
Ancora grondante d’acqua, ti avvii sulla strada del ritorno.
Immagino che non tornerai in quella casa a soli cento passi da quella di Marfik, vero?
Sarebbe solo un girare il coltello nella piaga.
Il sole è sorto e sembra voler mettere la parola “fine” a questa notte così diversa da tutte le altre.
Ma non ci riesce.
Il bagno nel fiume, i graffi che ti sei fatta con le unghie sulle braccia, non ti hanno lavato di dosso il suo profumo.
I vestiti ti si appiccicano sulla pelle bagnata, che tira.
Stai per arrivare, il disagio non continuerà a lungo.
Pochi passi e davanti a te c’è “la caverna”.
Sarebbe meglio chiamarla “il buco”, visto quanto è piccola e scomoda, ma è uno dei pochi luoghi che ti ricorda qualcosa.
Entri e ti siedi su un mucchio di paglia e foglie secche, abbracciandoti le ginocchia con le mani.
Queste pareti di pietra irregolare hanno la facoltà di scacciare ogni tuo pensiero dalla testa.
Ma ad un prezzo troppo alto.
Troppi ricordi sono legati a questa roccia scura, troppi ricordi sono legati a quell’armatura abbandonata in un angolo.
Perché ti sforzi di far finta di nulla?
Lascia che i pensieri scorrano davanti ai tuoi occhi… come ogni volta sai che, prima o poi, sarà l’influenza di questo luogo a vincere.
Ti abbandoni alle urla disperate, agli stridii dei tuoi ricordi.
E sogni.
Eri legata ad un palo.
Le tue mani erano strette da una corda dorata, come le tue caviglie.
Indosso avevi ancora la tua armatura, era così che ti avevano trovata, nelle stanze della regina.
Ma non piangevi. Figurarsi se avresti dato a loro questa soddisfazione.
Quindici, dietro a quel tavolo, ti osservavano. Parlavano tra loro e, anche non potendoli sentire, sapevi che stavano decidendo la tua pena.
- Il consiglio supremo concede a Rigel, figlia di Mither, la facoltà di difendersi. Cosa ha da dire a sua discolpa? -
Cercasti di raddrizzarti, di recuperare un po’ di dignità. La paura ti invadeva, ma tu non la lasciavi trapelare dai tuoi occhi glaciali.
Contraesti le labbra in una smorfia risoluta e sospirasti.
- Qualsiasi cosa io dica, la corte ha già decretato quale sarà la mia punizione. Non posso dire che quella notte non volessi uccidere la regina e so che la pena per questo è la morte. Posso solo avvertirvi che se chiuderete le porte del regno come lei ha deciso, sulle terre di Isilmandil si apriranno le ali nere della guerra. -
- Stia zitta, Rigel! Le abbiamo offerto la possibilità di difendersi, non di mettere in discussione le decisioni di Sua Maestà Nitharatien-Gatiel. Il provvedimento è già stato discusso in consiglio. -
- Voi non vi rendete conto! – urlasti allora, mentre le lacrime ti salivano agli occhi
– Ma un giorno ve ne accorgerete e sarà allora, quando le nostre armate dovranno scendere in campo, che capirete quanto la grande guerra sia stata misera, in confronto a quella che verrà! -
I consiglieri spalancarono gli occhi, scossero la testa, borbottarono tra loro.
-Ti rifiuti di collaborare, Rigel figlia di Mither. Non possiamo far altro che decretare la punizione che avevamo immaginato per te. Alla chiusura dei cancelli del Tisenar, tu rimarrai fuori. Per sempre. –
Ti stavano cacciando dalla tua terra, Rigel. Ti stavano annunciando che non avresti visto mai più quelli che amavi, mai più le bianche colonne del portico nei giardini reali.
Ma le lacrime, ormai, erano diventate vischiose come gocce di miele e non stillavano più dai tuoi occhi.
Li fissavi, ma non con odio.
Avevano fatto il loro dovere, avevano punito un’assassina.
Ricordi ancora la notte che seguì, non è vero?
Fu l’ultima che trascorresti nella tua casa, con tuo padre.
Lui non ti parlò. Neanche una parola.
Si vergognava di avere una figlia come te, o forse si vergognava di se stesso.
Per quanto ti sforzi di dimenticarlo, sai che non potrai mai.
Il suo viso severo rimarrà impresso nella tua mente che non perdona, per sempre.
Mither, l’uomo che ti aveva fatta nascere, era tra coloro che ti avevano condannata.
Era un membro del consiglio supremo.
Quando la luna era già alta in cielo e brillava come sapeva fare solo nei cieli del regno degli elfi, uscisti in giardino.
Sembrava che quella che sarebbe arrivata sarebbe stata una giornata come tutte le altre.
L’erba era verde, come sempre e le rose bianche si arrampicavano sulle statue e sulle colonne, avvinghiandosi come se quella pietra fosse la loro ultima speranza.
Al centro dello spiazzo, la fontana.
Ti sedesti sul bordo di marmo e immergesti una mano nell’acqua.
I tuoi capelli neri, mai tagliati, abbeverarono le loro punte nel cielo che si rifletteva sullo specchio d’acqua e così fece anche la manica svasata della tua veste candida.
Un velo, sulla tua pelle. Perché mai avevi indossato il vestito più bello che avevi, incrostato di perle e gemme, sontuoso come uno di quelli che indossava la regina?
Forse perché era l’ultima volta che avevi occasione di farlo. Volevi essere bella, per l’ultima notte nella foresta del Tisenar.
Dormisti all’aperto e quando il sole sorse, da sola, ti avviasti con la tua veste da sovrana e il portamento che solo le donne del popolo alto sanno avere, verso i portoni del regno.
I consiglieri erano schierati lì davanti, impassibili.
Erano quattordici, Mither non si era presentato.
Fu un vigliacco, Rigel, solo un vigliacco. Non ebbe la forza di affrontare le proprie scelte.
Uno dei consiglieri ti porse una nuova armatura e una spada.
Indossasti quel ferro pesante sopra il vestito, rendendo i tuoi occhi inespressivi e non emettendo il minimo suono. Pendesti l’arma in mano.
Un altro consigliere recitò un breve incantesimo e poi, con una delicatezza insolita che profumava di rimpianto, ti condusse oltre il cancello.
Ti voltasti, per vedere casa tua, l’ultima volta.
I portoni del regno degli elfi si stavano già chiudendo, lentamente.
Tu sentivi la magia del tuo popolo fluire via dalle tue membra, tornare alla terra che l’aveva generata.
Le figure intarsiate nel cristallo sembravano ammiccare, perfide.
Un rumore ovattato, e tu fosti fuori.
Per sempre.
Ci fu l’epoca del viaggio nelle terre dell’impero, alla ricerca di un luogo che ti soddisfacesse, mentre la nostalgia di squarciava l’animo.
Poi arrivasti a Faere, una notte.
E capisti che era lì che avresti dovuto vivere.
Bussasti a molte porte, spacciandoti per un mendicante.
Nella tua sacca era nascosta una veste elfica e l’armatura più resistente che l’impero avesse mai visto. Gli umani erano così stolti, da non accorgersi neppure che davanti a loro c’era l’unico membro del popolo alto rimasto sulle loro terre.
Molte porte ti furono sbattute in faccia e tu conoscesti l’umiliazione di vivere in un luogo che non ti apparteneva.
Non potevi immaginare che per gli abitanti della capitale tu non fossi null’altro che una ragazzina di quindici anni circa, cenciosa e affamata.
Loro non potevano immaginare che tu fossi un essere nato secoli prima, quando l’impero ancora non esisteva.
Ma forse era meglio così.
Trascorresti giorni interi nell’ombra, mendicando nei vicoli di Faere.
Quella mattina il sole era sorto da poco, quando lui ti passò davanti.
Doveva avere un’età vicina a quella che dimostravi tu.
Correva, e un’orda di altri ragazzini lo seguiva, le spade di legno sguainate.
Lo guardasti e lui si bloccò.
- Sei nuova, da queste parti, vero? Che ci fai qui nei bassi fondi? Sei una prostituta? -
Scuotesti la testa.
-Sei muta? –
- No. -
- Non hai una casa? -
- no. -
- Come ti chiami? -
- Rigel. -
Il ragazzo annuì, poi riprese la sua corsa.
Tu pensasti che gli umani erano inutili, Rigel.
Tante domande, che non avevano alcun fine.
Arrivò la notte e poi il giorno dopo.
Piccoli furti e poi ancora fuggire. Erano tutte così, le tue giornate.
Dell’elfo che eri, non era rimasto quasi nulla.
Senza magia, senza bellezza, senza ricchezze, senza una casa.
Urtavi la gente nei vicoli, con una mela in mano.
Correvi, perché il fiato non ti sarebbe mai mancato.
Non sapevi se il negoziante ti stesse ancora inseguendo, ma quella mela l’avresti tenuta.
Avevi fame, fame, fame.
Improvvisamente qualcuno piantò un piede davanti ai tuoi e tu cadesti.
La mela rotolò via, rossa e lucida, e andò a finire in un canale di scolo melmoso e puzzolente all’inverosimile.
Alzasti gli occhi, ma non facesti in tempo a capire chi fosse lui.
Ti prese in braccio e raccolse la mela da terra.
Scalciasti, lo mordesti e provasti a graffiarlo.
Inutile.
La sua presa era ben salda.
Stava tornando indietro, verso la bancarella del contadino. Quando vi fu davanti, lo vedesti che restituiva il frutto che tu avevi sottratto.
- Perdonate la bambina, signore. E’ giovane e ha fame. -
Il contadino alzò un sopracciglio con un’espressione dubbiosa, poi sorrise, scoprendo una fila di denti marci.
Ma la mela, non te la lasciò.
Un uomo nero, alto e forte come una montagna.
Il suo viso era coperto da un cappuccio che teneva calato sugli occhi, e non sembrava curarsi del fatto che tu eri ancora in braccio a lui.
Non avevi più paura, vero?
Sapevi che sarebbe stato lui a regalarti una nuova identità.
Sarebbe stato lui a farti diventare il sicario nero.
Grandi colpi di scena, eh?
Complimenti per essere arrivati fin qui!
Mi fa piacere vedere che ci sono dei lettori che seguono assiduamente questa storia, è bello sapere che c’è qualcuno che aspetta di vedere come andrà a finire… (il bello è che non lo so neppure io!)
Questa storia sta essendo una sorpresa anche per me.
Ora i debiti ringraziamenti a tutti coloro che hanno recensito il capitolo precedente: Camilla 94: Mi hai chiesto di leggere e commentare le tue storie e io l’ho fatto ben volentieri! Spero che anche tu continuerai a leggere le mie! Frisulimite, Londonlilyt, Damynex : Ma che bello, mi recensite capitolo per capitolo! Mi fa piacere avere dei “lettori affezionati”! EMOTIVe, +Rhodry+: che teneri che siete, venuti dal forum “LANDS & DRAGONS” apposta per leggere le mie storie! Speriamo vi piaccia anche quest’altro capitolo!
***Credo di aver finito…***
Alla prossima!
Arwis
Eccomi qui con un nuovo capitolo della storia di Rigel.
Continua il suo flash back, che prevedo (al contrario di ciò
che avevo detto nel capitolo precedente) durerà più dei tre capitoli che avevo
inizialmente pensato.
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno recensito il
capitolo precedente della storia, ovvero:
Deda,
Obsession,
Londonlylit,
+rhodry+,
frisulimite,
Angel_kiss,
Damynex.
Mi fa piacere che seguiate la storia, ragazzi, e vi
ringrazio per i complimenti, sperando di soddisfarvi anche sta volta.
Vi ricordo che è molto importante che recensiate, perché solo
con i vostri complimenti e con le vostre critiche posso capire cosa va e cosa
non va nella storia e nel mio modo di scrivere!
Alla prossima!
Un abbraccio
Arwis
IL COMPROMESSO
La testa ti girava, ricordi Rigel?
Quel dondolio, quel vedere il terreno muoversi al ritmo
dei suoi passi, ti costrinse a serrare gli occhi.
L’odore dell’uomo era penetrante: sudore, sangue,
tabacco, foglie di coca e chissà cos’altro.
Nemmeno il tuo odorato di elfa, nemmeno i tuoi sensi
acuti riuscirono a distinguere tutti i fetori che caratterizzavano il tuo
accompagnatore.
Ti teneva sulla spalla come un sacco, non parlava, la sua
espressione era nascosta dal cappuccio calato sul viso.
E tu non chiedevi, Rigel, perché sapevi bene che se non
si vogliono davvero delle risposte, è meglio non fare domande.
Eccoci qua, signorina! – esclamò infine, con la sua voce
roca e profonda.
Spalancasti gli occhi e lui ti mise giù.
Davanti a te, c’era la caverna.
La caverna, quella dove ti trovi ora, quella dove torni
quando ti senti perduta.
-D’ora in poi dovrai venire qui, quando avrai qualche
dubbio. Qui tutte le ombre verranno dissipate.-
Tu annuisti, pur non capendo, e lui si abbassò il
cappuccio, entrando nella grotta.
Pelle scurita dal sole, occhi dorati come il grano,
incorniciati da due sopracciglia bianche e spettinate. Lunghi capelli bianchi e
rughe attorno alla bocca sottile, tutto lasciava immaginare che quell’uomo
avesse ormai superato i sessant’anni umani, ma la sua forza, la semplicità con
cui ti aveva portata sin lì, era quella di un giovane.
Lame di tutte le forme, di tutte le taglie, pendevano dal
suo cinturone, che tirò su assieme ai pantaloni con un gesto rozzo.
Si guardava intorno, con un mezzo sorriso sulle labbra.
Allora iniziasti a guardarti intorno anche tu.
La grotta era abbastanza ampia da starci comodamente in
piedi e, a destra, si apriva su un tunnel basso e stretto, ma non così tanto da
doverlo oltrepassare a carponi.
-Gli altri ragazzi non ci sono ancora. Dovremo aspettare un
po’. Dimmi di te, ragazza. Ciò che Hamal mi ha raccontato non mi basta mica! –
Ti parlò con
voce gioviale, come se per lui fosse scontato che tu fossi lì, come se per lui
fosse normale averti presa dalla strada e portata in quella caverna soffocante.
Lo osservasti,
cercasti il modo di scrutare nel suo animo. Ma lui si celava troppo bene,
dietro a quel sorriso di denti mezzi marci.
Lui sembrava
esperto del mondo e dei suoi costumi e tu eri sola.
Fu forse per
quello che decidesti di parlare, infine.
-Mi
chiamo Rigel. –
-Lo
so. Dimmi di più, Rigel. Da dove vieni? –
Da dove venivi,
Rigel?
Non lo sapevi
neppure tu.
Dov’era quel
luogo dove ti eri ritrovata, dopo la chiusura dei cancelli?
Dov’era la
foresta del Tisenar, dove si trovava rispetto alla capitale dell’impero?
-
Vengo dalla foresta del Tisenar. -
L’uomo rise,
tenendosi la pancia e buttando indietro il capo. Tu restasti seria, in guardia.
-Per
la miseria, ragazzina! La tua fantasia è fervida! Invero, non esiste luogo con
quel nome, nelle terre conosciute! –
Ti mordesti il
labbro.
Tisenar.
Nome troppo
elfico, nome con troppa musica per essere conosciuto da un umano.
Ti chiedesti
quale fosse il nome che davano i mortali alla foresta degli elfi.
-Io
non so da dove vengo, signore. –
-Questa
risposta è più plausibile, ragazzina. E tu sai chi sono io? –
Scuotesti la testa e involontariamente ti accostasti
di più al muro, cercando di diventare più piccola, cercando di renderti
invisibile agli occhi di chi ti stava davanti.
-
Puoi chiamarmi Gudush, ragazzina. E’ così che mi chiamano tutti nella capitale,
anche se sono più conosciuto come ‘gil maestro’h. Immagini il motivo per cui ti
ho presa dalla strada? -
Di nuovo
scuotesti la testa, spalancando gli occhi.
Ti sentivi
impotente, ti sentivi un cane al guinzaglio.
La roccia ti
faceva male alla schiena e l’odore di stantio di quel luogo ti iniziava a far
venire la nausea.
-Sei
così forestiera, dunque? Io prendo i ragazzi come te dalla strada e li faccio
diventare come me. Capisici? –
Come lui.
Ma chi fosse
lui, tu non lo sapevi.
Era un vecchio,
era un uomo forte, era uno che copriva il suo volto.
E allora la
lingua fu più rapida del cervello, come lo era stata durante il processo.
Questa tua
temerarietà ti aveva cacciato in troppi guai, eppure ne andavi quasi fiera.
-E
chi sei, tu? –
-Ah,
allora sai parlare, Rigel! Eh, chi sono io’c Io sono uno a cui non interessa se
qualcosa sia bene o male. Io agisco per chi ha paura e loro mi pagano. Io
insegno ai giovani cosa fare e anche loro vengono pagati e più loro sono in
gamba, più soldi arrivano a me. –
-Un
mercante? –
-Un
mercante di vite, scricciolo. –
Un sicario.
Quello che nel
Tisenar ti avevano accusata di essere.
Eppure tu non
eri stata pagata e tu sapevi distinguere tra bene e male.
Tu non eri un
sicario, Rigel.
-Siamo
molto diversi, noi due. Grazie per la proposta, ma non credo che accetterò. –
-Questa,
poi! Stavi morendo di fame, in quella strada. Hai rubato una mela, per giunta
bacata e ti sei fatta prendere subito. Come credi di poter sopravvivere
nell’impero? Sei senza memoria, senza soldi, senza casa. Io ti posso dare tutto
questo, Rigel. E poi di certo non ti lascio andare, ora che sai qual è la mia
faccia. –
Gudush poggiò
una mano enorme, grossa e dalle unghie nere, sull’elsa di uno dei suoi pugnali,
quasi casualmente.
Dicono che chi
ha paura, ha voglia di vivere ancora e benché da giorni ti stessi ripetendo che
la tua vita non ti importava più, quella morsa allo stomaco non poteva che
essere terrore.
Non avevi un
posto, non avevi una casa.
E la tua
memoria?
Quella c’era, ed
era dolorosa.
Ma non era una
memoria adatta all’impero degli uomini.
E allora hai
ceduto, perché non avevi altro luogo dove andare.
E allora hai
ceduto, perché con Gudush avresti avuto un posto per te, avresti trovato una
nuova te stessa.
Un sospiro e la
vergogna schiacciante.
-Rimango.
–
Gudush sorrise e
annuì.
Alzò la mano dal
pugnale e ti scompigliò i capelli.
Tu sussultasti e
scattasti all’indietro.
Che avesse visto
le tue orecchie appuntite? Che sapesse cos’era la sua nuova allieva?
-
Allora vieni con me, ragazzetta. -
No, a quanto
pareva no.
Si voltò e imboccò
il cunicolo che si apriva su una parete della grotta, dovendo curvarsi per
entrarvi.
Tu sfioravi il
soffitto con la testa e dovevi tenere le ginocchia un po’ piegate, attenta a
non battere il capo contro la roccia.
Pochi metri e il
cunicolo finì, aprendosi su una grotta ben più grande.
Una casa.
Giacigli di
paglia, dieci circa, erano disposti, debitamente distanziati, su tutta la
circonferenza della stanza di roccia e accanto ad ognuno c’era un piccolo
tavolino, dove chiunque dormisse in quei giacigli aveva poggiato le proprie
cose. Sotto ad alcuni c’erano dei vestiti piegati, stivali e qualche pugnale.
Al centro della grotta, il soffitto alto era bucato e da quel foro entrava la
luce del sole.
Dei resti di un
fuoco erano sul pavimento, in corrispondenza dell’apertura.
-
Uno di questi letti è per te. -
Letti.
Mucchi di
paglia, più che altro.
Nulla a che
vedere con i morbidi triclini imbottiti su cui tu e tuo padre mangiavate, nulla
a che vedere con i cuscini morbidi come nuvole su cui poggiavi il capo, che
sorreggevano i tuoi sogni.
Ma questo non
sarebbe stato un problema, per te non ci sarebbero più stati sogni.
-
Quale? -
-
Quello sul cui tavolino non c’è nulla. -
Lo individuasti
subito e ci rimanesti davanti per un po’, osservandolo. Ti chinasti a carponi.
Quelle coperte
ruvide puzzavano e per giunta, appesi vicino al tuo letto, c’erano dei formaggi
e dei salami messi ad essiccare.
L’avevi quasi
dimenticato, che gli uomini mangiano i cadaveri degli animali.
Soffocasti un
conato di vomito.
-
Sono salami, ragazzina! Mica mostri! Scommetto che sta sera un po’ di questo
ben di Dio susciterà in te ben altro che conati di vomito. -
Mai mangiata
carne.
Il tuo popolo
non lo faceva.
Ma era ancora il
tuo popolo, quello che ti aveva scacciata?
Ormai il regno
degli elfi non era altro che una terra il cui ricordo si sarebbe perduto nei
secoli, sarebbe diventato una fiaba per i bambini e poi sarebbe stato
dimenticato anche da loro.
Il tuo popolo,
ora, erano gli umani.
-Ora vatti a lavare. Ti porto i vestiti puliti. Sbrigati,
prima che arrivino gli altri. –
-Dove, signore? –
Gudush rise di gusto, come aveva fatto quando
gli avevi detto di provenire dalla foresta del Tisenar.
- Lì! -
Indicò un angolo dell’ampia grotta, su cui si apriva un’apertura ancora
più piccola da quella da cui eri entrata.
Annuisti e, tremante, la raggiungesti.
Ti inginocchiasti e vi entrasti.
Il buio fu totale per pochi secondi, le pareti ti opprimevano.
Ti sentivi quasi soffocare, allora accelerasti il passo e finalmente ti
rimettesti in piedi.
C’era un’altra grotta, piccola più o meno come la prima in cui eri
entrata, al centro della quale c’era una pozza d’acqua, poco più che una polla.
Sul bordo di roccia, erano posate delle stoffe, uguali a quelle che
ricoprivano i giacigli.
‘gQui c’è una vera a propria organizzazione’h pensasti ‘gGudush non fa
vivere i suoi allievi all’arrembaggio. Qui ci sono delle regole e delle
abitudini. Potrebbe essere qui, il mio futuro.’h
Ti togliesti gli abiti logori e ti immergesti nell’acqua.
Fredda.
Era gelata, come la neve d’inverno. Tanti pugnali di ghiaccio, che
sembravano voler trafiggere la tua pelle, che si arrossò subito.
I tuoi capelli erano unti e pesanti e non appena furono immersi
nell’acqua si allargarono, occupando quasi tutta la superficie della polla,
come una nuvola di inchiostro.
I seni bianchi, appena accennati, emergevano appena e sotto i tuoi
piedi delicati, non abituati alla fatica, sentivi la superficie mucillagginosa
del fondale.
Spostasti un piede in avanti, mentre iniziavi ad abituarti alla
temperatura.
Il vuoto, e acqua ancora più fredda accarezzò minacciosa la tua
caviglia sottile.
Il tuo cuore ebbe un sobbalzo: oltre il punto dove eri tu, al centro
del minuscolo lago, si apriva un baratro.
‘gChi sa quale sorta di creature sono nascoste lì sotto! Qui non c’è la
protezione della regina degli elfi contro le creature maligne e la mia natura
le attirerà di sicuro’h.
In fretta, mentre il tuo cuore batteva veloce come quello di un cervo
braccato da un cacciatore, ti issasti di nuovo sul bordo, da immersa fino alle
spalle che eri, e ti copristi con uno degli asciugamani ruvidi, quasi spinosi.
Se non avessi saputo che era impossibile, saresti stata convinta che
quel tessuto stesse ferendo la tua pelle bianca.
In quel momento, sentisti un rumore di stoffa che cadeva, un tonfo
sordo, e ti voltasti di scatto.
Gudush aveva fatto rotolare, oltre l’apertura nella roccia che portava
alla stanza della polla, un involto di vestiti.
Finisti di asciugarti e li prendesti in mano.
Erano gli stessi che indossava quel ragazzino che il giorno prima ti
aveva parlato per strada.
Hamal. Doveva essere lui, il ragazzino che aveva parlato di te a
Gudush.
Ti vestisti in fretta, incurante dell’acqua che continuava a gocciolare
dai tuoi capelli, bagnando gli abiti che avevi in dosso.
Lunghi pantaloni ampi, blu scuro, e una casacca altrettanto ampia,
bianca.
E poi una cintura marrone, con delle logge per i pugnali e una più
grande, forse per una spada.
Oddio, già 6... non credevo che ci sarei mai
arrivata e soprattutto non credevo ci sarei mai arrivata con dei
lettori!
In ogni caso ci siete e vi ringrazio ancora per
avermi seguita fino a qui, chiedendovi di continuare a farlo!
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo di flash-
back, poi ricomincerà la storia vera e propria, nel corso
della quale ci saranno altri “ritorni al passato”, in ogni caso.
Ora i soliti ringraziamenti:
Rowina: Mi fa piacere che tu sia tornata a
commentarmi... Le tue recensioni chilometriche mi danno sempre
soddisfazione, mi fanno sentire apprezzata in tutti gli aspetti della
mia scrittura , come mi fa piacere che passi e che tu mi legga! Dei
complimenti sono sempre ben accetti, ma se vengono da un' “esperta”
come te... ANCORA DI PIU'!
damynex, londonlilyt, obsession, frisulimite ed
eMOTIVe : voi mi leggete da un po', oramai... ma vi ringrazio
perchè siete carinissimi a commentare capitolo per capitolo:
dei suggerimenti da qualcuno che ha seguito la storia dall'inizio
sono utilissimi! Spero che vi piaccia anche questo!
Carlos Olivera: Mi ha fatto molto piacere la
tua recensione dettagliata. E' vero, prendo spunto dalla mia
educazione “classicista” per molte battute e per molti dei
dialoghi interiori, che bello che te ne sia accorto! Mi fa molto
piacere che anche tu sia passato a leggermi e grazie per i tuoi
complimenti! Spero che ti possa piacere anche quest'altro,
modestissimo capitoletto!
Deda: un'altra nuova lettrice, che dice di
aver letto la storia tutto d'un fiato... GRAZIE MILLE! A volte se
vedo che ci sono delle fic già iniziate mi scoraggio e non ce
la faccio a leggerloe da primo capitolo, ma ti ringrazio tantissimo
per aver letto dall'inizio alle fine e non solo il primo o l'ultimo
capitolo!
Un bacio a tutti quanti e al prossimo capitolo!
Arwis
“RIGEL,
TOCCA A TE.”
Hai finito,
ragazzina? -
La voce di Gudush
attraversò il buco che portava alla stanza della polla.
Ti desti un'ultima
occhiata, poi strisciasti attraverso il minuscolo tunnel, e fosti di
nuovo nella stanza principale.
Gudush era in piedi di
Fronte a te, le mani sui fianchi, come una gigantesca anfora.
Ti aspettava.
Tu ti rimettesti in
piedi e lo guardasti negli occhi, senza dire una parola.
Tuo padre ti diceva
sempre che nessuno può guardare negli occhi un elfo senza
avere reazioni, ma quell'uomo gigantesco sembrava fare eccezione.
Ah, Rigel! Sei la
prima donna ad indossare questi abiti, sai? -
“un privilegio,
immagino. “ pensasti.
Gudush si avvicinò
e ti mise una mano sulla spalla.
Tu trasalisti e
abbassasti lo sguardo, mentre lui ti accarezzava il braccio.
Gli umani, gli umani.
Quante donne del tuo
popolo hanno annientato per il proprio desiderio?
Quante hanno perso il
loro orgoglio, quante sono state private della loro voluttuosa
bellezza da un umano, tra lacrime e sangue?
Ma la carezza di Gudush
non era una carezza del genere.
Fu una carezza che ti
diede coraggio, un gesto che misteriosamente fu capace di dissipare
le tue ansie, la tua nostalgia.
E' difficile,
ragazzina. Lo so. Ma anche noi dobbiamo trovare il nostro posto, al
mondo. -
Alzasti la testa, di
scatto.
Lui era ancora davanti
a te, ma già aveva tolto la grossa mano dal tuo braccio,
iniziando ad allontanarsi.
Nostro? - chiedesti
improvvisamente, presa da una sensazione di necessità che ti
serrava la gola.
- Nostro. Di noi membri
dei popoli perduti. -
Gudush.
Lui sapeva.
Era come te, Rigel?
No, non lo era.
Non poteva essere un
elfo, non aveva nulla della delicatezza, della bellezza morbidamente
efebica degli uomini del tuo popolo.
Non aveva le guance
lisce e non aveva il cuore colmo di onore cavalleresco.
Che fosse...
Siete un demone,
Signore? -
Gudush si passò
una mano tozza accanto agli occhi e comparve, sotto ad uno strato di
colore che la copriva, una macchia rossa.
Una parte di quella
banda vermiglia che tinge palpebre e tempie del popolo dei demoni.
L'uomo subito tirò
fuori da una tasca un barattolo e coprì di nuovo quella zona
di pelle rossa, dandoti appena il tempo di guardare.
Il tuo spirito di
osservazione si stava affievolendo, non avevi notato neppure le sue
pupille verticali, al buio della caverna.
Ma... ma i demoni
sono tornati da tempo a vivere nelle proprie terre!-
Anche gli elfi,
Rigel. Da quanto credi che non se ne vedano più in giro, di
quelli come te? -
Facesti un calcolo
rapido.
Un mese. Un mese circa
doveva essere trascorso da quando eri stata bandita dalla foresta del
Tisenar.
Un mese, forse? -
Gudush scoppiò a
ridere di nuovo, quella risata che sembrava voler far crollare la
caverna.
Un mese! Dovevo
immaginare che nelle terre della tua gente avessero infilato qualche
diavoleria del genere! Cento anni, Rigel. E' un secolo che le porte
degli elfi sono state chiuse. -
Un secolo...
Cento anni, giorno dopo
giorno, ora dopo ora sono trascorsi e tu non te ne eri neppure resa
conto.
Per quanto avevi vagato
nella foresta, fuori dalle tue terre?
Quanto erano durati i
tuoi sonni?
Scorreva così
velocemente il tempo, nel mondo dei mortali?
Eri più vecchia
di un secolo, ma nulla era cambiato dal giorno del tuo processo, nel
tuo corpo.
Poi ti torna alla
mente.
La benedizione.
Quelle parole che i
consiglieri hanno pronunciato mentre tu ti allontanavi.
Non si davano
benedizioni agli esiliati.
Il fuoco cieco della
rabbia ti avvolse e la furia si risvegliò in te.
E non sentisti più
dolore, non sentisti più paura, non temesti che le fibre del
tuo corpo si lacerassero
semplicemente volevi
non tornare mai più a pensare, volevi continuare ad urlare
nella caverna, a prendere a calci le pareti a cadere in ginocchio, a
sentire il sapore salato delle lacrime in bocca.
Nuovamente perdesti la
cognizione del tempo, anche se avevi paura che succedesse di nuovo
come fuori dal cancello del Tisenar.
Poi una mano forte ti
si premette sulla bocca e senti ancora quell' odore nauseante.
Ti liberasti dalla
presa e ti piegasti in due, vomitando a terra qualcosa che non era
cibo, ma che aveva un sapore insopportabilmente acido.
Cadesti sdraiata e
l'odore, pian piano, si affievolì.
Sempre meno, sempre
meno, sempre meno.
Fino sparire.
L'hai presa, maestro?
-
La vedi, no? Non ti
avvicinare, tu! Lasciala riposare! -
ma è vero che
è un' elfa? -
Ma non dire
stupidaggini, scemo di un ragazzino. Piuttosto, tutti voi, andatevi
a dare una lavata che oggi pomeriggio ci si allena con la nuova
arrivata. -
Ma sa usare le armi?
-
Se è come
credo, meglio di tutti voi messi in insieme. -
Le voci pian piano si
calmarono, gli schiamazzi si affievolirono, fino a diventare solo una
flebile eco attutita ulteriormente dal muro di pietra.
“Devono essere nella
sala della polla”.
Apristi gli occhi e
vedesti la roccia, sopra di te.
Ne fosti quasi
sorpresa., ma ancor di più sti sorprese capire che ti trovavi
su uno di quei giacigli che disegnavano il perimetro della caverna e
che la tua sacca era sotto al tavolino, vicino a te.
Ti sei svegliata,
finalmente! -
Riconoscesti la voce di
Gudush e la coscienza ti tornò in corpo come un' ondata di
acqua salata, facendoti rinsavire improvvisamente.
Ho dormito? -
chiedesti, alzandoti a sedere di scatto.
Per Athbasar! Più
di due ore! Nel frattempo i ragazzini sono tornati, ora si stanno
lavando. -
Maestro... Cosa...
Che cosa intende per allenamento? -
Cos'è
l'allenamento al tuo paese, Rigel? qui è lo stesso.-
Ma non era vero. Non fu
lo stesso.
Usciste fuori dalla
caverna, sulla collina.
Gudush portava tra le
braccia quattordici spade nelle loro fodere e le distribuì a
tutti.
Quella che tu tenevi in
mano pesava moltissimo, rispetto a quelle di fattura elfica.
Quelle sembravano fatte
di cristallo, erano leggere come l'aria e taglienti come il vento
d'inverno.
L'oggetto che tu avevi
in mano, più che un spada, sembrava un blocco di ferro non
ancora lavorato.
Uno di fronte
all'altro! - tuonò Gudush.
Di fronte a te si mise
un ragazzo talmente magro da essere quasi ombra, con i capelli biondo
cenere legati in una coda e una frangia spessa davanti agli occhi.
La sua faccia era piena
di lentiggini, ma i suoi occhi sembravano bonari, allegri, quasi
stonavano con l'arma che aveva in mano.
Avresti voluto, avresti
dovuto sorridere, ma eri rapita dai tuoi pensieri, mentre il sole
iniziava il suo percorso verso il tramonto.
Via! -
La voce di Gudush
risuonò per un attimo ancora, poi il ragazzo lentigginoso
partì all' attacco, assestando un fendente dall'alto che quasi
ti colpì.
Tu rotolasti a terra e
impugnasti meglio la spada.
Gudush voleva che tu
combattessi?
E allora avresti
combattuto.
Alla maniera del tuo
popolo.
Una danza, più
che una lotta, e la spada, null'altro che uno strumento per fare
musica fendendo l'aria.
Il ragazzino stentava a
parare i tuoi colpi e tutto preso nella sua strategia di difesa,
dimenticò di attaccare.
E tu continuavi,
incurante della fatica, continuavi ad assestare quei colpi ritmati
dal fiatone del tuo avversario.
Non ti rendesti neppure
conto che tutti gli altri avevano finito, che nessuno combatteva più.
Tutti, in cerchio
attorno a voi, vi osservavano.
Il ragazzino cadde a
terra, improvvisamente.
Basta, maestro! -
supplicò – non ce la faccio più! -
Gudush si fece avanti e
lo fece rialzare in piedi, ammaccato e debole come forse non era mai
stato.
Tu ti stagliavi contro
il tramonto, riconoscente in cuor tuo a Gudush, che ti aveva regalato
la prima delle tue vittorie.
Rientrate tutti,
ragazzi. Rigel, Eralo. Voi restate. -
Eralo si guardò
attorno, come a sincerarsi che Gudush si stesse rivolgendo proprio a
lui. Poi scostò la frangia sudata dagli occhi e, zoppicante,
si avvicinò a te.
Sei brava, Rigel. Io
mi chiamo Eralo, sei davvero una furia! -
Tu annuisti,
sforzandoti di sorridere, almeno quella volta.
Glie lo dovevi, dopo
averlo ferito e umiliato.
Sì, è
brava. - Intervenne Gudush – e tu fino a ieri eri il
migliore dei miei allievi. Sei ancora il più in gamba tra
tutti gli altri, per questo voglio che le insegni un po' di cose che
forse non sa, del nostro lavoro. -
Veleni, frecce,
pugnali...? -
Esatto, ragazzo. E
voglio che tra un mese esatto, lei sia in grado di andare in
missione. -
Ma maestro! Solo io e
pochi altri abbiamo affrontato vere missioni, fin ora e lei... lei è
appena arrivata! -
Eppure ti ha battuto,
Eralo. Fai come ti dico, iniziate da sta sera. -
Sì, maestro. -
E tu Rigel? Non hai
nulla da dire? - chiese Gudush, guardandoti con aria inquisitoria.
Grazie. -
Quella sera, Eralo
sedette al tavolo grande della sala principale, dopo cena, e ti fece
segno di raggiungerlo.
In un sacchetto aveva
qualche erba e in un altro teneva delle boccette piene di strani
liquidi.
Tutti gli altri ragazzi
schiamazzavano attorno a voi, presi dalle loro chiacchiere o dai loro
giochi, altri ancora che continuavano ad allenarsi.
Gudush dov'è?
- Chiedesti tu, non vedendolo ormai da quasi un ora.
Lui la sera lavora. -
rispose Eralo. - due di noi sono andati con lui. E tra poco toccherà
a te. Devo istruirti al meglio, perchè finchè non avrò
finito con te, non potrò andare in missione neppure io. -
Ci teneva così
tanto, quel ragazzino, ad uccidere?
Ci teneva così
tanto al riempirsi di sangue e di sporco oro le mani?
Ma non era così.
Tutti quei ragazzi che
ridevano, attorno a te, erano stati allevati, raccolti e amati come
figli da Gudush.
Tutti loro avevano
trovato il loro posto grazie a lui.
E anche tu, ora, ti
sentivi quasi a casa.
Nei giorni successivi,
quando la nostalgia ti prendeva alla gola, scacciavi i ricordi dalla
tua testa, ripetendo spasmodicamente che ormai nulla aveva senso, che
oramai erano passati cento anni e più.
Ormai c'erano solo
Gudush, Eralo, gli altri ragazzi e le lezioni.
Poi arrivò il
giorno.
Il sole sorse e il
primo raggio che passava dal buco sul soffitto ti colpì agli
occhi come durante tutte le albe delle ultime settimane.
Qualcosa dei sensi del
tuo popolo ti era rimasto, perchè capisti subito che quella
non sarebbe stata una giornata come tutte le altre.
Ci furono le lezioni,
il pranzo, gli allenamenti.
Ci fu il bagno con gli
altri ragazzi, senza più vergogna, perchè loro non ne
avevano.
Questa
volta sono stata super veloce ad aggiornare, mi stupisco addirittura
di me stessa!^^
Sta
mattina mi sono svegliata e improvvisamente, mentre facevo colazione,
mi è venuta l'ispirazione e allora mi sono subito messa
davanti al PC, altrimenti ero sicura che in poco avrei dimenticato
tutto...
Mi
scuso per gli errori che c'erano nel precedente capitolo: ho notato
che c'erano degli spazi messi a casaccio anche a metà delle
parole, purtroppo ho avuto dei problemi con il nuovo sistema
operativo che uso, per quanto riguarda l'HTML (ho fatto un
macello...)
Comunque
ho risolto la cosa ed eccomi qui!
Allora,
carissimi, chiudo con il mio usuale monologo di inizio capitolo con i
ringraziamenti a chi ha commentato il precedente capitolo:
Come
al solito siete stati gentilissimi a regalarmi ancora un po' del
vostro tempo!
Un
bacio grandissimo
Arwis
(ALIAS: DEAR N°1*°*°GACKT FOR LIFE!)
*°*
IL FIUME DEL PERDONO*°*
Strisciavi
nel buio e sapevi che lui era dietro di te.
Gudush
ti seguiva, da lontano, mimetizzandosi nel buio come solo i demoni
potevano fare e tu, benché sentissi la sua presenza, eri sola.
Eri
sola, e il senso di insoddisfazione continuava ad opprimerti il
petto, in una cacofonia di urla che solo tu potevi sentire:
“Non
ce la farai”.
Ma
tu odi perdere, Rigel, ed era così anche allora.
Nata
per uccidere: non eri riuscita a farlo con la regina del tuo popolo,
ma il tuo destino si ripresentava davanti a te: il tuo futuro era
nella lama.
Ogni
volta che ci pensi, ancora oggi ti vengono i brividi, vero?
Ti
arrampicasti su per quel palazzo e con un balzo fosti in quella
stanza.
Loro
dormivano, in che modo avrebbero potuto difendersi, in che modo
avrebbero potuto sapere che la loro vita stava finendo?
Non
avrebbero avuto neppure il tempo di raccomandare la propria anima
agli Dei.
Avrebbero
voluto fare tante altre cose, quell'uomo e quella donna.
Forse
lasciare degli eredi.
Tu
non ti sentivi nessuno, per privarli di tutto questo, per una causa
che neppure conoscevi.
Ma
come aveva detto Gudush “I sicari non sono che macellai. Vendiamo
la carne al miglior committente.”
Lui
doveva essere fiero di te, perchè solo quando saresti stata
sicura di essere LA MIGLIORE e nulla di meno, allora saresti stata
sicura di aver trovato il tuo posto.
Tutti
dicevano che la prima volta che avresti ucciso, il sangue sarebbe
rimasto appiccicato alle tue mani, che saresti stata colta dai
tremori, che avresti desiderato morire a tua volta.
Eppure
non fu così.
Non
provasti nulla, quando la tua lama tagliò le loro gole e il
sangue caldo e scuro si infilò tra le tue dita.
Nemmeno
li udisti che esalavano il loro ultimo respiro e, nel profondo, eri
consapevole di avergli fatto quasi un favore.
Avevi
fatto un favore a quel bambino che mai sarebbe nato: provavi pena per
i bambini umani.
Non
volevi che nessuno di loro soffrisse come sapevi che gli umani
soffrivano.
Le
lenzuola bianche furono in breve rosse e tu osservasti il sangue
allargarsi sulle coperte.
Mentre
uscivi di nuovo dalla finestra, ti passasti le mani sul viso,
dimentica che erano sporche della vita strappata di qui due sposi.
Il
tuo viso dalla pelle bianca come neve fu rosso di morte.
Fu
rosso di morte e allora iniziasti a vivere.
Gudush
ti aspettava sotto il balcone, appoggiato ad un muro.
Era
così scuro che occhio umano non avrebbe saputo distinguerlo
nell'ombra.
La
strada era silenziosa, tanto che ogni tuo passo sembrava troppo
pesante, sacrilego.
-hai
finito?-
-Sì,
Gudush. -
Ricordi
come ti guardò, allora?
Era
un misto di orgoglio e di rassegnazione, era pena eppure era
sollievo.
-Come
ti senti?-
Alzasti
le spalle e gli porgesti il pugnale inzuppato di sangue fino
all'elsa.
Una
goccia cadde sul selciato e tu fosti certa che mai avresti udito
rumore più forte.
-Come
prima. Non sento nulla di tutto ciò che Eralo mi aveva detto.-
Gudush
sorrise, allora.
Ne
fosti sicura.
Ti
poggiò una mano sulla spalla, in quel gesto che ti faceva
sentire sempre così sicura, così a posto.
-Meglio
così. Te la sei cavata benissimo, anche se era una missione
facile. Non hai avuto paura, Rigel. -
“Non
ho avuto paura, perchè ho già visto la morte.”
-Ora
dobbiamo andare in un posto, ragazzina. Dovrai imparare ad andarci da
sola, d'ora in poi, ogni volta dopo che avrai ucciso. Un giorno io
non sarò più a guidarti e tu dovrai sapere come essere
d'appoggio a tutti i tuoi compagni. Sono stato chiaro? -
-Ma
io non sono che l'ultima arrivata, tra voi. Non sarebbe giusto che a
prendere il tuo posto fosse Eralo o Hamal o Kaidan? -
Gudush
non ti rispose, ma svoltò in un vicolo.
Rimase
in silenzio ancora un po' camminando dritto per una strada che
sembrava conoscere bene.
Tu
non osasti chiedere di più, ma la risposta alla tua domanda,
arrivò comunque.
-Vedi,
Rigel, se un uomo ha molti cavalli, cerca di allevarne ognuno al
meglio e ce ne sono sempre alcuni che sono più forti, veloci,
resistenti degli altri. Allora l'uomo sa che se dovesse andare in
battaglia porterebbe uno di quelli. Ma se una mattina trovasse un
drago accucciato davanti alla sua porta, nonostante non smetta di
amare i suoi cavalli, porterà lui, in guerra con se. Così
eviterà ai suoi cavalli di morire e saprà, che quando
qualcuno vedrà volare in cielo quel drago, allo stesso tempo
qualcuno si ricorderà di lui. Quando io non ci sarà
più, Rigel, voglio continuare a vivere attraverso voi ragazzi.
Non c'è nessuno che, meglio di te, mi possa fare questo
regalo. -
Gudush
ti aveva donato fiducia, dignità, Gudush ti aveva regalato una
vita, ti aveva fatto rinascere.
Ora
ti stava porgendo il maggiore onore che ti fosse mai stato permesso
di sfiorare e tu non sapevi come sentirti.
Onorata,
spaventata, ansiosa, orgogliosa?
Mai,
nel Tisenar, una tale tempesta di sentimenti ti aveva investita.
Era
forse vero ciò che si diceva tra la tua gente?
Era
forse vero che gli uomini provavano le emozioni con un intensità
superiore, che confondevano gioia e dolore, che avevano il cuore
costantemente stretto da una morsa?
Ma
non aveva più alcuna importanza, cosa dicevano gli elfi degli
uomini.
Perchè
Rigel, da quella notte, avevi deciso di non essere più un
elfo.
-Se
è così, Gudush, ne sono onorata. -
L'uomo
sorrise di nuovo, mentre la strada si trasformava in campagna.
Avevate
oltrepassato il centro della città e dei bassi fondi tagliando
per dei vicoletti che forse non erano altro che vie di fuga per topi
di fogna: ladri, assassini...tu.
La
marcia verso il luogo che Gudush ti voleva mostrare continuò
ancora un po', finchè davanti a te fu una specie di parete di
roccia, bassa, oltre alla quale intravedevi un ruscello che si
allargava in un piccolo laghetto, dove l'acqua continuava a scorrere.
-Siamo
arrivati, Rigel. A destra c'è un cunicolo che ti porterà
di nuovo alla caverna, quando avrai finito. -
-Ma
cosa... -
Gudush
era già scomparso, lasciando dietro di se nient'altro che il
suo odore a cui ti eri abituata e il fruscio del suo mantello.
Ti
avvicinasti alla polla e immergesti una mano nell'acqua limpida.
Iniziasti
ad amare quel piccolo corso d'acqua, che non si fermava mai, né
per la notte né per il giorno, che non si fermava per la
stanchezza e non era toccato dal dolore.
Capisti
perchè Gudush ti aveva portata sin lì e fu naturale per
te immergerti in quel gelido specchio.
Poco
più avanti c'era una cascatella e tu, con i vestiti bagnati,
che ti si appiccicavano addosso nel gelo della notte, che ti
trafiggevano carne e spirito, arrancasti con l'acqua sino alle
ginocchia, che scorreva in senso contrario al suo cammino, finchè
non vi fosti sotto.
L'acqua
iniziò a cadere sui tuoi capelli di pece, iniziò a
picchiarti con violenza la testa, come se ti volesse punire, perchè
non eri capace di provare dolore e rimorso.
Era
fredda, fredda, fredda.
Era
fredda come te.
Solo
quando il tuo corpo fu intorpidito da quel gelo, solo quando non
sentisti più le dita, in viso, le gambe, allora uscisti dal
ruscello.
“il
fiume del perdono”. Sarebbe stato quello, il suo nome.
Non
avevi più il sangue sulle mani, sotto le unghie. Il tuo viso
era di nuovo bianco.
E
a te piaceva pensare che lo fosse di nuovo anche il tuo cuore.
Delitto
si addizionò a delitto e la tua vita fu vissuta nell'ombra.
Eppure
non eri sola.
C'erano
loro, accanto a te, rimasero accanto a te per tutti i due anni a
seguire, eri l'unica donna, eri una madre per loro.
Una
famiglia, finalmente capivi cos'era una famiglia.
Avere
delle responsabilità, amare incondizionatamente, avere sulle
spalle la vita di altri oltre che la tua.
Erano
così, le tue giornate.
Ma
la notte, non eri nient'altro che il sicario nero.
Iniziarono
a chiamarti così già dalla tua seconda missione: amavi,
la mattina dopo qualche lavoro, scendere in città e sentire i
bardi urlare sempre la stessa frase, con piccole variazioni solo nei
nomi:
“Udite
udite! Il sicario nero ha colpito di nuovo! Il sicario nero ha ucciso
il consigliere Feldor nel suo letto, questa notte! Udite Udite,
popolo di Faere!”
Ricordi
come eri felice, sapendo che quelle comunicazioni che facevano di
sottofondo alle chiacchiere delle donne al mercato, erano solo per
te?
Eri
felice, perchè se tu non avessi ucciso, il tuo nome non
sarebbe mai stato pronunciato da nessuno.
“E'
ciò che facciamo in vita che ci permette di vivere dopo la
morte.”
Era
da poco che ci pensavi, alla morte.
Non
ne avevi mai avuto occasione, perchè nel Tisenar nessuno
considerava il morire come un'evenienza reale.
Ma
tu non pensavi già più come gli elfi.
Avevi
smesso di farlo più di cento anni prima, quando i cancelli si
erano chiusi dietro di te.
Non
consideravi che tutto ciò che avevi in quel momento sarebbe
stato mangiato dal tempo vorace, ma che tu saresti vissuta oltre le
ere e tutti i tramonti.
Non
consideravi che ti saresti potuta trovare con nient'altro che un
pugno di sabbia.
La
folla ti spingeva da tutti i lati e il sole era quasi allo zenit.
Dovevi
tornare alla caverna, o non avresti fatto in tempo a cucinare per gli
altri ragazzi.
Ti
voltasti e cercasti di farti spazio tra i vestiti voluminosi delle
nobili e i gioielli dei politici, finchè qualcosa ti strinse
alla vita.
Di
riflesso sfoderasti il pugnale da sotto il mantello e lo puntasti
alla gola di chi ti stava abbracciando.
-Non
ti conviene, ragazza. Ho un lavoro per te, ma devi seguirmi. Metti a
posto il pugnale e prendimi il braccio. Fa finta che sia naturale,
come una coppia. -
-U...Una
coppia?-
-Sì,
sicario nero. Una coppia. -
Quell'uomo
sapeva chi eri.
Non
ti riuscivi a capacitarti di come avesse potuto fare a scoprire quale
fosse il viso del sicario nero: quell'uomo doveva morire.
Ma
poi c'era di mezzo un lavoro e soldi, tanti soldi.
“Prendo
i soldi dopo il lavoro e poi eliminerò anche lui. Nessuno deve
sapere chi sono, Gudush non fa altro che ripetrmelo”
Il
pranzo per qual giorno, l'avrebbe preparato Eralo.
Rinfoderasti
il pugnale e ti voltasti cautamente.
Prendesti
il braccio di quell'uomo e, sbirciando da sotto il tuo cappuccio, lo
guardasti in viso.
Era
alto, almeno tutta la testa più di te.
Era
vestito come un nobile ma aveva il corpo snello e muscoloso dei
guerrieri.
Teneva
la testa alta, come chi ha a dispetto tutto il mondo e tutti i suoi
abitanti, fiero come un leone che sa di essere temuto da tutti gli
animali della foresta.
Il
suo profumo egoista ti forzava perchè lo imprimessi nella tua
memoria e i capelli leggeri gli ricadevano sugli occhi neri come
tizzoni di un fuoco acceso, vivace.
Il
naso dritto, perfetto, la curva delle labbra così belle da
sembrare quasi quelle di una donna.
Non
doveva avere molto più dell'età che dimostravi tu,
Rigel.
Si
voltò verso di te e ti sorrise.
Come
faceva ad avere quel sorriso tranquillo? Era sotto braccio con il più
pericoloso assassino di tutta Faere, ma non aveva paura.
Per
la prima volta, Rigel, fosti tu ad avere paura.
Allora,
avete capito chi è?
Sono
sicurissima di sì, dai...
Il
prossimo capitolo viene da se che sarà un po' “rosa”,
anche se succederà una cosa che nessuno si aspetta (neanche io
mi aspettavo che la mia mente la partorisse) e che farà uscire
qualche lacrimuccia..
Sono stata davvero immersa di cose da fare fino al collo, non ho proprio avuto tempo per aggiornare...é_é
Avrei voluto davvero farlo prima!
Comunque alla fine eccomi qui.
Prima di passare ai ringraziamenti ho una notizia da darvi:
Mi ha contattato la segreteria di un premio a cui ho partecipato e inseriranno la mia poesia con tanto di foto e curriculum in un'antologia! ^_^
Non ci potevo credere*_*!!
A parte ciò, passiamo alle cose più inerenti alla storia OVVERO:
RIGRAZIAMENTI:
Innanzi tutto a tutti coloro che stanno leggendo e che non si sino stufati di aspettare
Malu kuku, lemonade, Shining Grint: Grazie per l'entusiasmo! Mi fanno sempre piacere nuovi lettori! Spero che continuerete a seguirmi...
frisulimite, Londonlilyt, obsession, damynex: PERDONO!!!!! chiedo ancora perdono per il mostruoso ritardo! Prometto che aggiornerò piu spesso!ç_çmano sul cuore...
Ora direi che posso smettere di ammorbarvi con i miei sproloqui e lasciarvi alla lettura!
Buon divertimento!
°*°NON C'è TEMPO PER PIANGERE°*°
- Gudush... Maestro, sono tornata! -
Ma non c'era nessuno, nella grotta.
Posasti a terra la sacca di tela che avevi riempito al mercato e ti gurdarsti intorno.
Qualche allenamento, di sicuro.
L'avevi perso, ma eri sicura che Gudush avrebbe preferito sentire quale lavoro ti eri procacciata piuttoscto che arrabbiarsi per quell'allenamento mancato.
Ti buttasti sul tuo letto, su quel mucchio di stoffa che poco tempo prima non ti saresti azzardata a chiamare neppure giaciglio.
Chiudesti gli occhi.
Ma non fu il buio ciò che ti trovasti davanti, allora rialzasti le palpebre e le tue pupille si strinsero fino a diventare capocchie di spillo.
Ancora una volta provasti a chiudere gli occhi, ma quella figura si poneva sempre davanti a te, come se si stesse facendo beffe di quella ragazza così ostinata.
Marfik.
Ti aveva detto che il suo nome era Marfik.
E non era nient'altro che un committente.
Un committente come tantissimi altri, come tutti quelli che avevi incontrato fino a quel momento.
E poi tu non avevi tempo per quelle cose, vero Rigel?
Ti alzasti di scatto e con passo deciso ti dirigesti verso la sala della polla.
Le tue membra si gelarono al contatto con l'acqua ghiacciata, ma era di quello che avevi bisogno.
Il consigliere Marfik ti aveva detto che avevi una settimana di tempo per prepararti al tuo lavoro, poi vi sareste di nuovo incontrati e gli avresti dovuto esporre la modalità con cui avresti agito.
Gudush ti aveva sempre raccomandato di non mostrare il tuo viso ai committenti, ma l'avevi dimenticato, quella volta.
Era stato Marfik a trovarti e ora non dovevai far altro che impegnarti, per mostrare ancora una volta di essere la migliore.
Ti avvolgesti in un asciugamano ruvido e poi ti vestisti con gli abiti scuri che indossavano tutti gli allievi di Gudush, pronta a iniziare a preparare la cena per tutti gli altri ragazzi.
Quando uscisti dalla sala della polla davanti te, seduti sui loro giacigli, c'erano Eralo, Hamal e quasi tutti gli altri compagni, che ridevano, mentre toglievano gli stivali pesanti.
- Ah, siete tornati! Siete stati ad allenarvi? -
-No, Rigel... Non siete tornati a casa nè tu nè Gudush, allora abbiamo pensato che per questo pomeriggio potevamo stare un po' liberi in città. -
- Non è tornato Gudush? Ma quando è uscito? -
- Stamattina. Prima di te, ha detto di dirti che per oggi avresti dovuto fare da sola. -
- Maledizione, e voi non mi avete detto nulla? Magari non avete neppure mangiato, vero? Vi siete lavati? -
- Abbiamo fatto tutto, Rigel, non ti agitare! Piuttosto, tu dov'eri? Qualche incontro galante per il sicario nero? - scimmiottò Hamal, facendo finta di lanciare dei baci a Eralo.
- Ma che dite! - scoppiasti a ridere tu - Ho trovato un lavoro particolarmente importante, tutto qui. -
- E non ci dirai chi è il committente? -
- Sapete che non posso, ragazzi. Dai, ora accendetemi il fuoco così cucino. -
Cercavi di essere allegra, ma una morsa strana ti stringeva il cuore.
Cercavi di seppellire il disagio, ma quello che non poteva essere nulla se non un presentimento, continuava a farsi strada in te.
Il sole calò completamente e la cena fu servita nei piatti di legno.
La porzione di stufato di Gudush rimase sul tavolo, fumando sempre meno, finchè non fu completamente fredda.
Le stelle si alzarono in cielo e la notte coprì il cielo, ma Gudush non tornava ancora.
-Rigel, iniziamo a preoccuparci. Dove sarà mai Gudush? Di solito anche quando sta fuori tutto il giorno torna sempre prima del tramonto. -
-Non state in ansia, avanti. Gudush sa quello che fa, nessuno può ferirlo. Ricordate cosa ci ha raccontato? -
- Sì... ricordiamo.-
Ma quelle parole non rassicurarono nè te nè nessun altro.
L' ansia continuava a soffocarti e ormai eri sicura che fosse successo qualcosa.
Tutti i tuoi compagni andarono a dormire, pian piano.
Uno dopo l'altro si addormentarono, fidandosi delle tue parole.
Se Gudush fosse scomparso, loro avrebbero avuto ancora te a guidarli, ma se Gudush fosse davvero scomparso, tu saresti stata da sola.
Attendesti che il silenzio fosse sceso sulla caverna, che anche l'ultimo dei respiri dei ragazzi fosse diventato lento e regolare e poi, calcato il mantello sulle spalle, uscisti dalla caverna.
Scendesti dalla collina e entrasti nel cunicolo che portava al fiume del perdono.
Gudush mi ha sempre detto che quando ho paura devo venire qui, che la paura passa. Ma io ho troppa paura, stavolta.
Ti guardasti un attimo attorno, poi togliesti le scarpe e immergesti i piedi nell'acqua gelida, sentendo i sassi che premevano contro le tue piante.
Quell'odore, nonostante la vicinanza dell'acqua, ti arrivò alle narici e invase la tua testa come del vino versato in un bicchiere.
Erano due odori che appartenevano a Gudush, due odori che portava sempre addosso.
L'odore forte della sua pelle e quello di sangue.
Ma quella volta il secondo odore prevaleva sul primo, quasi come se prepotentemente cercasse di nasconderlo.
Spalancasti i tuoi occhi che sapevano vedere nel buio e iniziasti a seguire la scia dell'odore.
Per quante volte avessi sperimentato che è meglio non cercare ciò che non si vuol trovare, non riuscivi a farne a meno.
Dovevi sapere.
Dovevi sapere se eri rimasta sola.
L'odore si fece sempre più forte, finchè non fu insopportabile.
Allora, Rigel, se fossi stata capace di piangere, l'avresti fatto.
Gudush era sdraiato a terra, inerme come mai era stato, reverso in una posizione innaturale.
Aveva le mani legate dietro la schiena da uno spago e gli occhi spalancati, vacui.
Quante volte, Rigel, avevi visto la morte?
Quante volte avevi visto degli occhi bianchi come quelli?
Eppure sembrava la prima volta.
Ti sembrava come se fossi stata tu ad ucciderlo, ti sentivi sporca e improvvisamente percepivi addosso a te tutto il sangue delle tue vittime, caldo e appiccicoso, che cercava di entrarti in gola e soffocarti.
Cadesti in ginocchio e sciogliesti le mani del tuo maestro, abbracciandolo.
E' stato un sicario come me, a fare questo? E Tu, Gudush, perchè non ti sei ribellato? Sei morto qui, con la gola tagliata come un criminale qualsiasi, sulle rive del fiume del perdono. E' inutile che ti illudi, Gudush, nessuno ti perdonerà, anche se sei morto qui. Noi siamo stranieri al mondo, nessuno perdona i nostri atti.
Oggi ho trovato un buon lavoro, Gudush. Ne saresti stato fiero.
Sai, ora non posso più farlo, ma... Avrei tanto voluto chiamarti padre, anche solo una volta.
Lasciasti delicatamente il cadavere a terra e ti avviasti verso la caverna, per svegliare i ragazzi.
Sapevi che sarebbe stato meglio aspettare fino alla mattina successiva, lasciarli dormire tranquilli almeno per quella notte, ma non volevi stare da sola.
Ti sentivi egoista, ma non ce la facevi.
Non potevi piangere, sembrava che le tue lacrime si fossero pietrificate dietro ai tuoi occhi.
Non eri più tu a trattenerle stoicamente.
Entrasti nella caverna e suonasti la campana che Gudush faceva rintoccare tutte le mattine per svegliarvi.
A quel suono profondo seguì un attimo di silenzio e poi i mormorii di tutti i ragazzi, che si stropicciavano gli occhi pigramente.
- E' già mattina? - chiese Eralo, con voce impastata.
- No. Vestitevi e lavatevi, poi devo parlare a tutti voi. -
- E' tornato Gudush? -
Silenzio.
- Sì. E' tornato. Sbrigatevi. -
Ricordi come fu, quando glielo dicesti?
Ricordi come anche i più rozzi, i più coraggiosi tra loro scoppiarono in lacrime?
Ricordi i loro visi perduti, i loro occhi dolenti?
Allora ti accorgesti che non li potevi tenere con te, come Gudush aveva chiesto.
Lui voleva che quei ragazzi trovassero un loro posto nel mondo, voleva che diventassero coraggiosi, che non avessero paura.
Ma tu non potevi dargli tutto questo.
Tu non appartenevi più a quel posto, senza Gudush e avevi paura.
Come può un mendicante donare casa? Comq può un povero distribuire denaro?
Lo seppelliste sotto il salice accanto al fiume del perdono e poi pregaste per lui per ore, fino all'alba.
Permettesti ai ragazzi di non allenarsi, il giorno successivo, ma tu non avevai tempo da perdere.
nascondesti il dolore sotto la pietra del dovere e iniziasti a documentarti per il tuo lavoro.
In quella settimana riuscisti anche a decidere cosa fare dei tuoi giovani compagni.
La priorità, in quel momento, era fare di nuovo ordine dopo la tempesta.
Come
al solito più mi riprometto di aggiornare in fretta, più
sono sommersa
di
cose da fare e meno tempo ho per scrivere...
Comunque
alla fine eccomi qui con questo nuovo capitolo, l'ultimo dei flash
back...
Grazie
a tutti voi che leggete quello che scrivo!
E
commentate, mi raccomando!
___Arwis___
*°*Artigli
d'acciaio*°*
-Quanti?-
-Dodici.-
-E'
la madre?-
-No.-
-Di
chi sono figli?-
-Orfani.-
Lo
scriba alzò gli occhi dal foglio e con due dita lunghe e
ossute, quasi degli artigli, ti osservò da capo a piedi.
Vestita
come una donna di paese, i capelli tirati su in una coda di cavallo e
gli occhi di ghiaccio, sembravi un'accozzaglia di elementi nobili e
plebei.
-Dodici
orfani? Converrà con me che non è qualcosa che si vede
ogni giorno.-
-Neanche
le loro capacità lo sono.-
-Le
ricordo, signora, che l'accademia dell'arma imperiale non è un
colleggio dove lasciare pargoli scomodi.-
-E
io ho l'ardire di insistere. - rispondesti allora tu, sorridendo
acuta come una faina, addolcendo quegli occhi che avrebbero fatto
cadere ai tuoi piedi tutti e tre i regni celati. - Sono sicura
che accettando la loro iscrizione renderà un servigio non
indifferente e Sua Maestà. -
Lo
scriba si accomodò meglio sulla sedia e sistemò ancora
una volta gli occhialini. Quasi un tic, osservasti.
Era
nervoso. O eccitato. O entrambi.
Gli
uomini in quello stato erano facili da piegare al proprio volere.
-Sa
come funziona, qui?-
-So
che addestrate combattenti per l'impero.-
-Sa
che per i tre anni dell'addestramento i suoi...ragazzi non potranno
mettere piede fuori di qui? E sa che non possono cambiare idea fino
al giorno in cui verranno ricoperti delle loro cariche militari?-
-So
che saranno in grado di sopportare l'allenamento meglio di chiunque
altro.-
Lo
scriba si schiarì di nuovo la gola e afferrò meglio la
penna.
Tu
non riuscisti a trattenerti dal sorridere ancora. Avevi vinto.
Avevi
vinto, ma mai nessuna vittoria sarebbe parsa a qualcuno più
penosa della tua.
Avevi
vinto la possibilità di restare da sola, la possibilità
di essere indipendente e di lasciarti alle spalle l'unico passato che
davvero aveva significato qualcosa per te.
Sembrava
quasi una maledizione.
Ogni
volta che la felicità inondava il tuo cuore, eri costretta a
dimenticare.
E
non sapevi che sarebbe stato così tante, tante altre volte.
-Nomi,
signorina!-
Ti
riscuotesti dai tuoi pensieri e iniziasti ad elencare i nomi dei tuoi
compagni. Dei tuoi fratelli. Dei tuoi figli.
Sembrava
quasi un macabro appello, come quelli che facevano i giudici in
piazza prima delle esecuzioni.
Ogni nome, sapevi,
significava due cose. Un futuro per loro e il non rispettare la
promessa fatta a Gudush.
La
mattina dopo, i dodici ragazzi erano già davanti ai portoni
dell'accademia.
Nessuno
di loro, neanche uno, piangeva.
Ti
fissavano con i loro occhi traditi, impauriti.
Pieni
di risentimento per essere costretti ad affrontare un cambiamento
inaspettato e soprattutto indesiderato.
Facesti
finta di nulla, mentre sistemavi le sacche con i pochi averi di
ognuno sulle loro spalle.
Li
guardasti andare via, mentre nessuno di loro si voltava a salutarti
per l'ultima volta.
Nessuno.
Tranne
Eralo.
I
suoi occhi baluginarono in un'espressione a metà tra la rabbia
e il dolore.
Un'espressione
piena di aspettative tradite, di promesse infrante.
“Tienimi
con te” chiedevano quegli occhi “Almeno io. Sai che sono
abbastanza in gamba per stare con te, aiutarti. Tienimi con te”.
Tu
però scacciasti quella voce dalla testa, mentre i portoni
dell'accademia si chiudevano.
Il
nome di Eralo era stato il primo che avevi dettato allo scriba
dell'esercito.
Rigonfia
della sensazione di sollievo di chi sa che ormai tutto è stato
compiuto, volgesti le spalle al grande edificio, per tornare alla
caverna. Per prendere le tue cose e per andare via di li.
Per
andare a vivere in quella casa che avevi trovato, per vivere
tranquilla, almeno durante il giorno.
Per essere, prima che il sole
tramontasse, da quel momento in poi, non il sicario nero ma solo
Rigel.
Ogni
cosa, nella caverna, era al suo posto.
Era
solo un po' più spoglia, un po' più silenziosa, ma
tutto era come i ragazzi l'avevano lasciato.
Il
giaciglio di Gudush era ancora lì, in un angolo. Ma lui non
sarebbe mai tornato a riposarvi.
E
neppure tu.
Poche
cose, infilasti nella sacca. Un vestito normalissimo che, oltre a
quello che avevi indosso, ti aveva donato il tuo maestro, qualche
boccetta di veleno per armi e un paio di pugnali diversi.
Frecce,
guanti e gli artigli di ferro, l'unica arma che non avevi ancora
usato.
Osservandone
il metallo lucido, ricordasti una cosa.
Gli
abiti che indossavi quando eri arrivata, tanto tempo prima.
Dove
erano? Dove li aveva nascosti Gudush?
Si
trattava di rivedere solo una volta degli oggetti appartenenti a due
vite prima.
L'istinto
ti portò all'angolo dove erano le cose di Gudush.
Nulla.
Sollevasti
la paglia del materasso e un paio di insetti-forbice sgusciarono via,
inaspriti da quell'affronto alla loro tranquillità.
Sotto
quel mucchio di paglia marcia, c'era un'asse mobile, inserita nella
pietra.
La
sollevasti.
Come
credevi, sotto c'era un sacco nero.
Era
pesante e freddo.
Lo
uscisti dal suo giaciglio e lo apristi.
Il
metallo degli elfi rilucette ancora una volta, colpendo occhi e
anima.
I
ricordi si riversarono nella tua mente, amari, antichi.
Erano
così diversi, i tuoi desideri, all'epoca.
Erano
così diversi da essere quasi irriconoscibili.
Prendesti
l'armatura e uscisti dalla caverna grande, coprendone l'entrata con
una pietra pesante, sfinendoti per farla rotolare da un'angolo fino a
li.
Della
casa degli allievi di Gudush non sarebbe rimasta che la piccola
caverna che faceva da entrata, nascosta dalle edere.
Abbandonasti
in un angolo l'armatura e uscisti, sicura che quelle erbe che
coprivano l'ingresso, ti avrebbero accolta ogni volta che ne avresti
avuto bisogno, come le braccia di una madre.
Sentivi
il cuore stranamente leggero.
La
tua vita era quasi distrutta, non ti era rimasto nulla.
Tuttavia
avevi il cuore leggero, mentre ti avviavi verso la tua nuova casa, in
periferia della città ma sempre più centrale della
caverna.
Quella
casa che avevi preso in affitto da quella vecchia signora del
mercato.
Quella
casa piena di muffe, piccola, che cadeva a pezzi, che contrastava
terribilmente con le ville dei governanti che abitavano lì
intorno.
Quando
apristi la porta, quell'odore di muffa e di chiuso ti parve aria
fresca e corresti a spalancare anche la finestra, perchè
entrasse la luce.
Se
ti alzavi sulle punte dei piedi, potevi vedere anche la casa di
Marfik. A soli cento passi.
Cosa
avrebbe detto, Gudush?
Che
lui era morto e tu avevi già dimenticato il dolore?
Che
ti comportavi non come una professionista ma come una ragazzina
innamorata?
Che
eri un'egoista, dimentica delle tue radici?
Tuttavia
il dolore non era stato dimenticato, giaceva lì in un angolo,
pronto ad esplodere appena possibile.
Forse
avrebbe solo sorriso, scuotendo la testa in segno di disapprovazione,
lasciandoti libera di fare ciò che credevi meglio per te.
-E
lei qui che ci fa, signorina? Questa casa è abbandonata da
tempo e non è certo il posto adatto ad una come lei. -
Trasalisti,
udendo quella voce, e ti voltasti di scatto.
Era
tutto così prevedibile, ormai... Tu eri diventata prevedibile,
la tua vita era diventata prevedibile ed era prevedibile che lui
sarebbe arrivato.
Eri
così in gamba a far arrivare anonime informazioni a chi
intendevi... non per nulla sei il sicario nero.
-No,
Signore. Cosa ci fa lei se permette. Questa da oggi è la mia
casa. -
-Potrebbe
permettersi di meglio, sa?-
-Le
altre zone della città non sono di mio interesse.-
-E
cosa la porta ad essere interessata proprio a questa zona, Signora?-
Marfik
era anche acuto, a quanto pareva. O forse dimenticava che anche se in
quel momento eri solo una bella donna, poche ore dopo i vestiti di
pelle da lavoro avrebbero fasciato stretto il tuo seno e ti avrebbero
trasformata in una macchina da omicidio?
-Si
vede bene la città, da qui. -
Marfik
si era avvicinato e si era poggiato alla finestra, accanto a te.
-Posso
invitarla da me, questa sera?-
Tu
scoppiasti a ridere e lui alzò un sopracciglio.
La
tua risata era cristallina e pura come quella degli elfi, eppure
forte come quella del più rozzo degli uomini.
Asciugasti
due lacrime dagli angoli degli occhi, e recuperato un po' di contegno
fissasti lo sguardo beffardo nel suo.
-Stasera
ho dei lavori da sbrigare, sa?-
-E
che razza di lavori sono più importanti di una cena di lavoro
con il consigliere Marfik?-
-Quei
lavori che il consigliere Marfik stesso mi ha affidato.-
-E
allora esegua quei lavori e poi venga da me per il pagamento.-
-Odorerò
di sangue e la pelle nera stringerà stretti i miei muscoli,
fino a farmi sembrare un'ombra.-
-Non
serve essere belle, per ritirare un pagamento.-
-allora,
Signore, a stanotte.-
Marfik
sorrise e mise due dita davanti alle sue labbra, per poi poggiarle
sulle tue.
Si
riavvolse nel mantello e uscì dalla camera.
Tu
chiudesti la porta dietro la sua schiena e iniziasti a disporre tutte
le armi sul tavolo al centro della piccola sala.
Se il consigliere sperava in
uno sconto, sbagliava di grosso.
Poche
ore dopo infilasti i pantaloni di pelle e li allacciasti stretti sui
fianchi.
Infilasti
il corpetto nero con gli inserti di acciaio in corrispondenza degli
organi vitali e stringesti forte anche quello, fino a che non diventò
lui stesso parte del tuo corpo.
Legasti
due maniche svasate alle spalline e infilasti in testa la ladresca.
Poi
prendesti in mano le srmi che avresti usato.
Il
veleno nelle logge del cinturone, un paio di coltelli e alle dita gli
artigli di acciaio.
L'unica
arma di cui ancora non avevai avuto esperienza.
Era
il primo lavoro da quando Gudush era morto.
Lo
avresti onorato con un'esecuzione perfetta.
Come
una danzatrice.
La
vittima non soffrì neppure. Due artigli si infilarono nel suo
cuore e due fiotti di sangue bagnarono le coperte.
Estraesti
il metallo dal suo corpo e, come facevi sempre, pulisti le armi sulle
coperte.
Tu
uccidevi nel sonno, come la morte che scende dal cielo. Eppure sapevi
anche combattere, come la morte portata dagli uomini.
La
morte e tu, Rigel, siete molto simili. Non dimenticarlo mai. Mai.
Era
ora di riscuotere il tuo pagamento.
Con
un balzo uscisti dalla finestra e corresti più veloce che
potevi, mischiandoti alle ombre delle case e volando sui tetti come
una nuvola che porta tempesta, non rompendo neppure, con l'ombra del
tuo corpo, l'armonia della luce della luna.
Arrivasti
finalmente davanti alla casa di Marfik.
I
muri erano candidi e la finestra della sua stanza, a cui avevi
rivolto più volte lo sguardo passandovi vicino, era
spalancata, con le tende fruscianti che, sospinte dal vento, ti
invitavano ad entrare.
Lui
ti stava aspettando.
Eppure
tu fosti silenziosa perchè, quando ti vide stagliata contro il
cielo sulla balaustra del balcone, Marfik trasalì.
Sorridesti
a quella sue espressione sorpresa ed entrasti nel buio della sua
stanza.
-Hai
compiuto il lavoro?-
Mostrasti
gli artigli ancora leggermente sporchi di sangue.
-Ti
avevo detto che sarei stata intrisa dell'odore del sangue, quando
sarei arrivata.-
Marfik
annuì e si avvicinò a te. Fece qualcosa che non ti
saresti mai aspettata. Ti abbracciò e fece in modo che tu
potessi affondare la tua testa nel suo petto.
-Cosa
ti ho fatto fare? Sapevo che eri la migliore, ma in fondo sei solo
una ragazza...una donna...hai avuto paura?-
Ti
divincolasti.
-Tu
hai paura quando parli alle masse? No, è il tuo lavoro. Così
io non ho bisogno di pietà, per il mio.-
-Sei
così decisa... Ma qual'è il tuo vero nome?-
Tentennasti.
Il
nome è qualcosa di privato, che un assassino non rivela
mani...eppure l'ora del lavoro era trascorsa. Ora eri solo una donna.
-Rigel.
Mi chiamo Rigel.-
E
quel nome era un assenso, e lui ti liberò dei tuoi abiti di
pelle che opprimevano la donna che eri.
Tu
non avevi mai saputo che sapore aveva un bacio e ti parve il sapore
più dolce che mai avessi assaggiato, più dolce dei cibi
degli elfi, più dolce dell'acqua per chi è perso nel
deserto.
Tra
quelle coperte morbide, fosti solo Rigel e non il sicario nero.
In
quel momento l'assassino era lui che, lentamente, ti stava uccidendo.
Ti
stava uccidendo perchè era già promesso a una donna e
tu lo sapevi bene.
E quella donna, era la figlia
dell'imperatore.
La
mattina dopo, quando il sole sorse, non avevi voglia di ri-indossare
i tuoi abiti.
Lui
dormiva ancora accanto a te e tu, controvoglia, infilasti quei
vestiti neri che quasi stavi odiando, ripromettendoti di tenerti
lontana da lui, ora che sapevi quanto poteva essere pericoloso.