Parole

di Lue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo capitolo. ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo. ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo. ***
Capitolo 4: *** Quarto Capitolo. ***
Capitolo 5: *** Quinto Capitolo. ***
Capitolo 6: *** Sesto Capitolo. ***
Capitolo 7: *** Settimo Capitolo. ***



Capitolo 1
*** Primo capitolo. ***


Parole

- Primo capitolo -



A settembre di quell’anno avevo diciassette anni e rincorrevo senza troppo entusiasmo un ragazzo più grande, universitario, ma ogni volta che lui si avvicinava a me, io mi allontanavo, lasciando raffreddare l’interesse per noia, fino a quando non avessi di nuovo avuto voglia di vederlo.
Si chiamava Marco e lo lasciai in un giorno di sole, mentre le foglie degli alberi cominciavano a ingiallirsi e un leggero freddo soffiava sui tetti milanesi. Indossava un berretto rosso, e mi guardò un po’ confuso.
“Ma è colpa mia? Ho fatto qualcosa?”, si tolse il cappello e lo tenne tra le mani.
“No, figurati, tu non hai fatto nulla, è solo un periodo che... che voglio stare da sola. Ma non è colpa tua, giuro”.
Feci per andarmene, ma lui mi fermò.
“Vera, tu... noi... Mi chiamerai quando starai meglio, giusto?”.
“Ma certo, ti chiamo, promesso”.
Gli avevo rivolto un mezzo sorriso e poi me n’ero andata, lasciandolo sorpreso e, immagino, dispiaciuto col suo berretto rosso in mano, proprio in mezzo al marciapiede.
Così facevo con tutti: tempo tre settimane e la loro presenza cominciava a infastidirmi, erano noiosi, uguali, inutili. Mi vergognavo di loro, a un tratto tutti i loro difetti erano così lampanti, chiunque avrebbe potuto notarli e chiedermi, “Ma come puoi scegliere dei ragazzi così?”. Il fatto era che io non li sceglievo, li trovavo per caso: erano amici timidi che chissà come mi si dichiaravano, e io accettavo perché la loro sorpresa e adorazione per me avrebbero impedito loro di ferirmi.
Ero infelice e volevo un passatempo; solo ora capisco quanto fossi meschina nei loro confronti. Obbedivano alle mie richieste come dei cagnolini e io non avrei mai fatto nulla per loro, dopotutto non potevano certo permettersi di perdermi: non avrebbero mai più trovato una ragazza come me che fosse disponibile nei loro confronti. C’era però una condizione alla quale non potevano rifiutarsi: erano obbligati a mantenere il segreto, nessuno doveva sapere di “noi”. L’importanza del giudizio degli altri superava di gran lunga l’affetto che potevo provare per loro.
Non era colpa mia, è che non erano abbastanza, nessuno di loro lo era. Solitamente mancavano di bellezza, di spirito d’iniziativa, di una simpatia fresca, ma ciò che mi colpiva di più, negativamente, ciò che odiavo in loro erano le parole. Le infilavano a caso, senza cura alcuna e nessuno di loro ne capiva mai l’importanza fondamentale; così anche i loro silenzi divenivano fiacchi e inutili: degli intervalli che non interrompevano nulla.
Io invece le parole le sceglievo, me le annotavo su un taccuino, a volte scrivevo poesie. Non le ho mai fatte leggere a nessuno di loro perché per tanti – e a volte  irragionevoli – motivi io li disprezzavo e dentro di me sapevo che non avrebbero capito nulla delle mie parole.
Nemmeno altri ragazzi – più colti, più belli – mi interessavano, perché la loro arroganza li rendeva vuoti ai miei occhi e conquistarli mi sarebbe costato sicuramente un po’ d’impegno, per poi ottenere lo stesso risultato che con gli altri.
Finivo col farli soffrire tutti, quei ragazzi che mi si dichiaravano, riempiendoli di giuramenti e promesse che non avrei mantenuto, forse egoisticamente – e inconsciamente – volendo che provassero anche loro un briciolo dell’amarezza che mi affliggeva.
Ero infelice e non sapevo quel che volevo.
Lasciai Marco e cominciai a pensare a me stessa. Ora che non avevo più nessuno che fosse disposto a tutto per me, nessuno di cui infischiarmi, nessuno con cui potessi fingere di essere perfetta e superiore, tutte le crepe nella mia anima mi parvero voragini. Sentivo di aver dimenticato cosa si prova a essere innamorati, di non riuscire più a capire come si scelgono le persone, di aver toccato il fondo, perché a diciassette anni non si può essere stanchi della vita.
A volte la notte mi svegliavo di soprassalto, il cuore in tumulto, gli occhi colmi di lacrime e un’angoscia terribile che mi oscurava i sensi; un dolore fortissimo mi riempiva il petto e cercavo inutilmente di aggrapparmi a un barlume di luce: tutto era buio, fuori e dentro di me, e mi sentivo come uno specchio rotto, la mia anima era in frantumi. Non riuscivo a dare una risposta alla domanda che mi assillava la mente, di notte – sudata, infreddolita e terrorizzata nel mio letto –, come di giorno – sotto la luce del sole e gli schiamazzi dei miei compagni: “Perché mi succede?”.
Naturalmente non avevo mai raccontato niente di questo a nessuno, non perché gli altri non avrebbero capito, ma perché era una parte di me troppo sporca: faceva talmente tanta paura a me stessa che avrebbe atterrito e allontanato chiunque altro.
Pensavo che non sarei mai guarita, che avrei passato tutti i giorni della mia vita a letto, spaventata dalla realtà, che nessuno sarebbe mai riuscito ad amarmi.
Poi, in poco tempo, era cambiato tutto. Avevo cominciato a osservare le piccole cose, a gioirne, a prendermi il tempo che mi serviva per fare delle scelte. Ricominciavo a uscire più spesso, a parlare di più, ad ascoltare gli altri, a scrivere nuove poesie. Gradualmente, prima che me ne accorgessi, smisi di svegliarmi la notte, imparai a calmarmi quando succedeva e intanto, senza accorgermene, i tasselli tornavano al loro posto, lo specchio riprendeva a riflettere senza più increspature, integro.
All’inizio di novembre io stavo meglio, e mentre ormai le foglie degli alberi giacevano secche e scricchiolanti in terra, cominciò la nostra storia.








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Avevo pubblicato questa storia qualche tempo fa, poi per vari motivi l'ho cancellata.
Rieccola qua :)

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Capitolo 2
*** Secondo capitolo. ***


Parole

- Secondo capitolo -




 

Non ricordo la prima volta che ci siamo incontrati.
Ricordo vagamente di averlo intravisto innumerevoli volte in cortile, in mezzo a studenti schiamazzanti e avvolti dal fumo delle loro sigarette. Ricordo che una volta, forse ci eravamo già presentati, guardandolo mi ero irritata: senza sforzo aveva trovato molti più amici di quelli che avevo io, nonostante tutto il mio impegno per piacere ad arroganti e viziati rampolli delle famiglie della Milano bene. Ma poi col passare degli anni ero cresciuta, avevo coltivato le amicizie che si sarebbero rivelate le più importanti della mia vita, imparando a riconoscere le persone luminose e a fare tesoro del rapporto che avevo con loro.
A volte lo vedevo la mattina presto, appoggiato contro il muro grigio e decadente della nostra scuola con un libro in mano e una sigaretta in bocca; rimanevo lì a guardarlo senza essere notata, perché mentre leggeva non si curava di nulla intorno a sé. Così io intanto cominciavo a conoscere i suoi più piccoli particolari, un anello d’argento intorno al dito medio, forse un po’ troppo grande, l’increspatura delle sue labbra quando aspirava e il tentativo dei suoi occhi di non staccarsi dalle pagine bianche nonostante il fumo che li faceva lacrimare. Ma poi qualche compagno mi raggiungeva, cominciava a parlare, e io mi dimenticavo di lui.
Si chiamava Enea, aveva gli occhi azzurrissimi, e una notte lo sognai.
Eravamo a casa di un’amica comune, Ada, e lui, seduto su un letto disfatto accanto a me, aveva tirato fuori la chitarra e si era messo a pizzicar note. Le sue note avevano il sapore di parole ed erano parole che potevamo comprendere solo noi, la lingua di un sogno; mi aveva baciato piano sulle labbra e i suoi occhi azzurri mi avevano sorriso. Sarei voluta rimanere lì, ma un’onda di persone era irrotta nella stanza e mi aveva trascinata in una danza sfrenata e ora avevo il cielo sopra la mia testa e fili d’erba tra le dita dei piedi. L’avevo perso, non lo trovavo, e il mio sguardo vagava frenetico in mezzo ai corpi che si muovevano veloci. Quando la danza si era fermata mi ero trovata davanti agli occhi una fila di ragazzi, tutti i miei finti amori, i miei fidanzati inutili.
“No”, esclamavo ad alta voce ogni volta che gli amici me ne presentavano davanti uno, “No, non è nessuno, no, mai”. Lui era l’ultimo della fila e teneva la testa alta e lo sguardo luminoso. Il sorriso sulle sue labbra aveva tremato prima di spegnersi davanti alla mia incertezza, “No”, avevo sussurrato flebilmente, guardandolo mentre se ne andava.
Me n’ero pentita subito, e lo cercavo e volevo dirgli molte cose che avevano il sapore di note e parole e sorrisi e scuse e restiamo insieme non voglio lasciarti e mi piacciono i tuoi occhi e mi dispiace giuro che non scapperò, ma già scappavo perché non potevo dirglielo, non potevo permettere che avesse tutto quel potere su di me, e lui mi avrebbe ferito, avrebbe fatto a brandelli il mio cuore come aveva fatto un altro prima di lui e io avrei saputo che l’amore non esiste, è il sogno degli sciocchi e di coloro che hanno troppa paura e sono troppo deboli per rimanere soli.
Non l’avevo trovato più e pure avevo smesso di cercarlo, ma la mattina dopo, quando mi svegliai, il suo sapore era sulle mie labbra.
Mi ero accorta che già da qualche tempo Enea era entrato nella mia vita, a piccoli passi, lui che sapeva essere così rumoroso, con un sorriso quando ci incontravamo in corridoio, un “ciao” detto un po’ più forte quando ero lontana e non lo vedevo, due chiacchiere e tre risate perché avevamo gli stessi amici ormai ma la confidenza tra noi era ancora traballante, incerta. Avevo diciassette anni e mi piacevano i suoi capelli perché assomigliavano ai miei, così scuri, e il suono squillante della sua risata mi metteva allegria.
Cominciai a cercarlo tra le mani, i volti, le sigarette in cortile, tra le schiene e le teste degli studenti seduti a terra in palestra, durante le assemblee.
Volevo il suo sguardo su di me, un’attenzione in più, un contatto. Ma ancora non volevo ammetterlo a me stessa e ignoravo il mio interesse per lui come ignoravo volutamente le chiamate di Marco e i suoi messaggi che invocavano il mio ritorno, una seconda possibilità. Un giorno si presentò sotto casa mia, teneva tra le mani un fiore, e il berretto rosso faceva spuntare ciuffi castani sulla sua fronte.
“Mi manchi”, mi disse, e io mi spostai per far passare una vecchietta con le braccia piene di borse della spesa.
Lui le tenne aperto il portone e lei mi fece un sorrisino, “Che ragazzo gentile, tienitelo stretto”, ammiccò.
Alzai gli occhi al cielo.
Rimanemmo in silenzio per qualche istante, mentre ogni cellula del mio corpo invocava aiuto e non vedeva l’ora di sgattaiolare di sopra, nella mia camera, lontano da lui.
“Senti...”, cominciai.
“Io non lo so perché mi hai lasciato”, mi interruppe invece Marco, “e non ci riesco nemmeno a capirlo,  ma tu con  le persone non puoi comportarti così. Cioè, voglio dire, io pensavo di piacerti e poi salta fuori che non vuoi più vedermi, non è giusto. Io non... non sono mica SuperMario, che finisci gli ottanta livelli e spegni la play-station e non ci giochi più per un anno e poi magari ti torna la voglia e lo rifai dall’inizio, io non sono una cosa, non puoi mica buttarmi via, io... io mi son innamorato di te, cosa credi?”.
Era il discorso più lungo che gli sentivo fare da quando lo conoscevo e fu il mio turno di rimanere senza parole. Scosse la testa e mi porse bruscamente il fiore.
“Per te”, mormorò. Poi mi fece un cenno di saluto, e se ne andò.
Rimasi a guardarlo finché il suo cappello rosso non fu soltanto un puntino all’orizzonte, confuso tra le teste dei passanti fermi al semaforo.





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:)
Le foto sono tratte da weheartit!
Lu.

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Capitolo 3
*** Terzo Capitolo. ***


Parole
- Terzo capitolo -



 

Quando all’inizio di novembre cominciò il corso di scrittura creativa a scuola, io mi presentai, seguita da una delle mie migliori amiche, Marinella, che da grande voleva fare la giornalista e viaggiare per il mondo su una moto verde, i capelli biondi sciolti nel vento.
Il corso era tenuto dal mio insegnante di Italiano, il prof. Ennio Boldini, un uomo magro ed elegante, sulla quarantina. Scriveva racconti per bambini, il Boldini, e ce ne leggeva uno ogni anno, l’ultimo giorno di scuola; erano racconti scritti per i suoi cinque figli e la cosa straordinaria era la perfezione e l’accuratezza che impiegava nelle singole parole, nelle frasi e nei periodi, rendendo quelle storie dei piccoli capolavori.
Al corso partecipava anche Enea, che aveva fatto del Boldini il suo modello da seguire e passava tutte le due ore del martedì pomeriggio ad appuntare minuziosamente ogni parola del professore, senza interromperlo per domandargli alcuna cosa. Io, invece, ascoltavo e mi guardavo intorno.
Vedevo Marinella scrivere su un foglio bianco con la sua calligrafia grossa e un po’ brutta, che sapeva contenere parole tanto belle; Ada che mangiucchiava una penna e ogni tanto faceva scattare la mano nell’aria per porgere domande con quel suo accento strano – che pareva si fosse mangiato i dialetti di tutta Italia – e si sistemava sulla sedia, ché era troppo bassa, e altrimenti non vedeva il prof.; Gaetano – simpatico ma pesante amico di Ada ed Enea – che seguiva sonnecchiando, la testa abbandonata contro il muro laterale dell’aula e il ciuffo biondo che gli copriva il viso.
Alla fine della lezione il Boldini si sistemò gli occhiali a mezzaluna sul naso, si schiarì la gola e alzò lo sguardo su di noi.
“Per la prossima settimana vorrei che mi portaste qualcosa scritto da voi: una poesia, un racconto, una canzone. Ognuno di voi lavorerà sul suo scritto fino alla fine del corso, taglierete, riscriverete, amplierete e poi raccoglierò i vostri lavori per formare una specie di... libro, che terremo tutti come ricordo”, sorrise, “Sono molto orgoglioso di farvi sapere che questa del libro è un’idea del mio più piccolo, che ha cinque anni”.
Soffocai una risatina davanti al suo sguardo raggiante, e cominciai a mettere via la mia roba.
Mentre mi avviavo verso l’uscita Enea mi si avvicinò.
“Ciao!”.
“Ciao”, sorrisi un po’ imbarazzata.
“Cosa pensi di portare per il lavoro del Boldini?”.
“Io...”, esitai, “Pensavo a una poesia”.
Lui mi guardò incuriosito.
“Tu a cosa pensavi?”.
“Sai, non ho mai scritto poesie, ma racconti sì, quindi immagino che gliene porterò uno... Posso leggere una delle tue poesie una volta?”, mi domandò a bruciapelo.
No, certo che non puoi.
“Va bene, se vuoi te ne posso far leggere...”.
Ragazzi!”, Ada irruppe tra di noi, interrompendo il nostro discorso; Enea mi rivolse un sorriso, come per scusarsi.
“Gaetano fa una festa a casa sua sabato prossimo! Siamo tutti invitati! Alle otto, vi farò mandare l’indirizzo! Vado a dirlo a tutti! Ah, Vera! C’è Marinella che ti aspetta giù!”.
Ada era un tornado: piccola, magra, velocissima, fumatrice accanita e confusionaria.
Io ed Enea ci scambiammo uno sguardo e scoppiammo a ridere.
“Scappo, allora, ragazzi, che quella mi uccide se la faccio aspettare ancora”.
“Verrai, non è vero?”, mi domandò svelto Enea. Le sue richieste mi coglievano sempre all’improvviso, erano lievi, imprevedibili, non riuscivo a evitare di rispondere.
“Sì, credo di sì”.
“Perfetto!”, esclamò Ada battendo le mani e scuotendo il caschetto biondo, “Allora a sabato, tesoro!”.
Uscii da scuola e trovai Marinella che mi aspettava appoggiata alla vetrina di un negozio, battendo ritmicamente il piede per terra; quando mi vide si mosse minacciosa verso di me. La fermai prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa.
“Ho fatto un sogno”, le dissi.
Lei alzò gli occhi su di me, si accese una sigaretta e mi fece un cenno.
“Racconta”.
 
Mi presentai a casa di Gaetano seguita a ruota da Marinella e Leonor, un’altra delle mie amiche. La madre di Lea era una spagnola alta e prorompente, dai folti capelli neri e un marcato accento, ma Lea aveva preso tutto dal padre irlandese: non era altissima, portava una corta capigliatura rossa e la sua pelle chiarissima era spruzzata di lentiggini.
Gli altri erano già arrivati e io mi guardai intorno per cercare gli occhi di Enea. Era seduto al tavolo della cucina ed esaminava sei bottiglie di vino rosso.
“Chi cavolo ha comprato il vino? Non basterà mai per tutti!”, il suo sguardo sorpreso si spostò su di me, e io gli feci un piccolo cenno di saluto. Prima che lui potesse rivolgermi la parola, Gaetano mi strinse in un abbraccio stritolatore.
“Ciao Vera! Ciao Lea! Marì! Venite, vi faccio vedere dove mettere le giacche...”.
Quando ci fummo tutti sistemati in salotto, Ada stappò una bottiglia e ce la offrì.
Pochi minuti dopo, un sorso dopo l’altro, il vino era circolato nelle nostre vene e le nostre guance sopportavano paonazze il peso delle nostre risate.
Quando mi sembrò che la mia mente fosse abbastanza lucida, andai in cucina per cercare qualcosa da mangiare. Enea, appoggiato al lavello, stava aprendo un’altra bottiglia di vino rosso e scoppiò in una risatina quando mi vide.
“Vuoi?”, mi fece un cenno indicando prima la bottiglia e poi una sedia.
Presi posto di fronte a lui e bevvi un sorso di vino dalla bottiglia, mentre il sapore pungente mi macchiava di rosso le labbra.
Ci guardammo negli occhi, e i suoi erano così grandi e così azzurri, e i miei così scuri e profondi.
“Allora”, mormorò avvicinandosi, “Raccontami un po’ di te”.
Scoppiai a ridere, e cominciai a parlare.

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Sono super malata e super costretta a casa, mi sembrava doveroso aggiornare :)

 

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Capitolo 4
*** Quarto Capitolo. ***



Parole
- Quarto capitolo -



 

Quella sera passammo ore a raccontarci episodi, frammenti, legami che avevamo avuto nella nostra vita.
Gli raccontai che il mio più grande desiderio era di vivere scrivendo poesie, ma che sapevo quanto fosse impossibile, gli dissi tutto dei miei inutili fidanzati, e più parlavo più mi veniva da piangere.
“Hai mai amato qualcuno? Tanto da non volerlo lasciare mai?”.
“Un ragazzo, tempo fa...”.
Lui mi descrisse la sua famiglia, e ridemmo tantissimo immaginando la sua prozia ottantenne che voleva comprarsi un motorino e imparare ad andarci, e mi raccontò che suo fratello più grande era partito per l’America in cerca di fortuna e ora lavorava in un McDonald’s.
“Ho sempre avuto due paure grandissime, fin da quando ero bambina: il buio e l’abbandono”.
“Perché il buio?”.
“Quando è buio nulla esiste, è come se il mondo mi inghiottisse, non so come spiegarlo...”.
“E chi hai paura che ti abbandoni?”.
“Chiunque potrebbe farlo e lasciarmi sola”.
Disse che gli era capitato di stare con ragazze di cui non era innamorato, l’ultima volta aveva trascinato la cosa per settimane, finché la poveretta, esasperata dalla sua scarsa partecipazione, gli aveva comunicato che tra loro era finita.
“Perché non l’hai lasciata prima?”.
“Immagino perché le volevo bene, e pensavo che magari, col tempo...”.
“Il tempo non fa diventare un pomodoro una zucchina, scusa”.
“Giusto, ma io non potevo saperlo. Se non ci provi non lo saprai mai, no?”.
Ma io li avevo lasciati tutti senza esitazione.
“No, cioè, sì, ma è anche vero che se non lo senti subito, insomma, è difficile che tu ti possa innamorare, un po’ come SuperMario, e finisci gli ottanta livelli e, non lo so... Passami ancora vino”.
Mi raccontò che non riusciva a baciare delle ragazze sconosciute, incontrate alle feste.
Ma io sapevo di non essere una sconosciuta, e lo baciai.
Ci baciammo per molto tempo, e intanto la bottiglia di vino rotolava vuota per terra, un antifurto scattava giù in strada, e nella stanza vicina gli altri mangiavano una torta e bevevano birra.
Gli raccontai della mia migliore amica, Nina, di tutte le volte che avevamo litigato, di tutte quelle in cui pensavo di averla persa per sempre, di quelle in cui ci bastava un tè caldo, parlando del più e del meno, per essere felici. Nina aveva i capelli riccissimi e gli occhi gialli, come quelli di un gatto; lei insisteva nel dire che erano color nocciola, ma ogni volta che cambiava la luce loro cambiavano tonalità di colore: gialli, verdi, castani. Mi piacevano i suoi occhi e mi piaceva la sua compagnia, e nonostante tutte le nostre litigate, i bisticci, le cattiverie... Le braccia di una erano la casa dell’altra.
“Certe volte mi chiedo come facciamo a trovare le persone giuste per noi, gli amici, l’amore”.
“Mica le troviamo, le persone si scelgono”, ribatté lui prima di baciarmi di nuovo.
Tornai a casa sorridendo, frastornata dall’alcol e dal sapore di Enea sulle mie labbra, che scoprivo uguale a quello che avevo immaginato nel mio sogno.
Proprio come nel sogno una parte di me voleva scappare, non erano nemmeno passate due ore e mi dicevo: “Sei una stupida, cos’hai fatto!, è sbagliato, lui se ne andrà, scappa finché sei in tempo”. Ma poi chiusi gli occhi e mi addormentai e tutti i cattivi pensieri sparirono.
Mi ero innamorata una volta; avevo quindici anni e l’avevo conosciuto a un corso di canto: si chiamava Vittorio, era alto e magro e aveva una risata buffa, a singhiozzo; m’era bastato guardarlo negli occhi per capire che non l’avrei dimenticato più. Avevo bramato la sua compagnia per un anno, affascinata dalla sua personalità carismatica, dalla sua intelligenza, dai suoi occhi verde foglia.
Mi aveva baciato quattro minuti prima del saggio di canto, lasciandomi tremante, estasiata.
Mi presentò ai suoi amici, mi pagò una cena, disse che ero la cosa più bella che gli fosse mai capitata, e poi il giorno dopo mi lasciò. Non ci furono scuse né spiegazioni, ci fu solo il suo sguardo distaccato, quasi annoiato, le sue parole fredde che tagliavano come coltelli ed erano identiche a quelle che avrei rivolto io ai miei filarini inutili negli anni a venire.
Non avevo più avuto il coraggio di buttarmi di nuovo.
Fino a quel momento.
 
La mattina dopo fui svegliata dal bip del mio telefono: era Enea, e il mio cuore fece una capriola.
Mi chiedeva di uscire, in modo un po’ imbarazzato e confusionario; accettai senza pensarci due volte.
Decidemmo di incontrarci in un piccolo locale in cui ci trovavamo a volte coi nostri amici, era in una zona centrale e l’atmosfera che vi regnava pareva quella degli anni Ottanta.
L’appuntamento era alle sette e io mi trovai, alle quattro del pomeriggio seduta sul divano di casa mia, già pronta per la serata, con lo smalto lasciato ad asciugare sulle unghie.
Ero terrorizzata.
Ora che ci penso mi capitò molte altre volte di essere tremendamente spaventata prima di un nostro incontro, anche dopo mesi, anche dopo anni: la sua presenza mi mandava in confusione, e ogni volta si manifestava in me la paura che lui potesse stufarsi di me, lasciarmi sola.
Mi avvicinai al locale, e tremavo tutta dall’agitazione.
Lui era già lì, fuori, ad aspettarmi. Quando mi sorrise gli si formarono due minuscole rughe ai lati degli occhi.
“Ciao Vera, ti va se entriamo?”.





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Eee la storia cominciò davvero!
:)

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Capitolo 5
*** Quinto Capitolo. ***


Parole
- Quinto capitolo -

 

Enea mi baciò di nuovo quella sera, e le nostre mani e le nostre labbra si cercavano e gli occhi ridevano, eravamo felici.
Uscimmo ancora nelle settimane dopo, camminammo moltissimo e la luce dei lampioni illuminava i nostri passi per le strade del centro, ci raccontammo ogni cosa e ridemmo moltissimo, perché per la prima volta entrambi avevamo trovato quel qualcuno, e l’avevamo scelto.
“Mia madre vorrebbe che io facessi l’avvocato, come lei e papà”, mi rivelò un pomeriggio mentre sedevamo sulla panchina fredda di un parco, “Ma io all’università vorrei fare Fisica...”.
“E poi, dopo l’università?”.
“Vorrei insegnare, al liceo magari”.
Scoppiai a ridere: “Saremmo una coppia fantastica: il professore scienziato e la scrittrice!”.
“Saremmo fantastici anche se fossimo dei barboni, io e te”.
“Io di sicuro, tu forse ci devi lavorare ancora un po’”, scherzai. “Sai, mio padre ha un negozio d’antiquariato, fa il restauratore, ma non si interessa di grandi opere, preferisce gli oggetti, tutto ciò che è appartenuto a qualcuno e ha una storia dietro. Lui e mia madre sono un po’ così: raccolgono storie senza raccontarle”, sorrisi.
“Cosa fa tua madre?”.
“Ha una piccola libreria, magari ti ci porto un giorno... Anzi, magari ti ci porto anche adesso!”, mi alzai e lo presi per mano, “Andiamo?”.
Enea si alzò, strinse la mia mano e sorrise: “Andiamo”.
Per la prima volta volevo dire a tutti che ero fidanzata, volevo presentare Enea a tutti i miei amici, a mia nonna, ai miei vicini di casa, ai passanti che ci camminavano vicini per strada.
Lui e mia madre parlarono di libri per ore, mentre io sfogliavo i volumi sugli scaffali, ed ero un po’ gelosa che qualcun altro si accorgesse di che persona splendida fosse Enea.
Naturalmente non era tutto rose e fiori: certe volte quand’ero sola cominciavo a pensare a noi e mi dicevo che stavo sbagliando tutto, che con Enea sarebbe stata la stessa cosa che con tutti gli altri, che dovevo scappare finché potevo. Quando mi capitava andavo nel panico, e allora componevo sul telefono il numero di Nina o di Marinella, e le chiamavo.
“Nina, Nina, io non posso farlo, stamattina mi è successa una cosa e non va bene...”.
“Calmati. Cosa ti è successo?”.
“Praticamente, stavo pensando a lui e... ho cominciato a sorridere! E mi batteva il cuore! Fortissimo!”, esclamai una volta, spaventata.
Sentii Nina scoppiare in una risatina; era buffa Nina, e lei e Marinella mi conoscevano meglio di quanto conoscessi me stessa.
“Di solito, Vera, quando succedono queste cose significa che tieni a una persona, che ti stai innamorando”.
“Ma è impossibile”, continuai io testarda, “Vedi, non sono passate nemmeno sei settimane, di solito a questo punto io mi stufo, non mi innamoro”.
“E allora vorrà dire che sta volta è diverso! Va bene!?”, cominciò a scaldarsi lei, “E adesso, passando alle cose serie, c’è un concerto a cui vorrei andare a marzo e tu devi venire con me...”.
Quando raccontavo a qualcuno del rapporto tra me ed Enea, mi piaceva specificare che io avevo lottato per lui. Non contro una famiglia avversa alla “nostra unione”, non contro una rivale in amore particolarmente insistente, ma contro me stessa, contro quella bambina impaurita che viveva nel mio cuore ed era restia ad aprirsi con gli altri, e così io grazie ad Enea ero cresciuta, avevo imparato a rischiare per le cose e le persone che ne valgono la pena.
Anche lui aveva lottato insieme a me, mi aveva impedito di scappare grazie ai suoi sorrisi disarmanti, le domande a bruciapelo, quel suo raccontarmi ogni cosa, i suoi occhi grandi, le sue parole, così misurate, che si incastravano perfettamente tra le mie. Non c’erano silenzi, tra di noi. C’erano parole parole parole e in mezzo baci, perché ogni volta c’era qualcosa di nuovo da dire, e se non lo potevi dire lo lasciavi lì sulla punta della lingua, e l’altro lo ascoltava con le sue labbra.
 
Finimmo il liceo insieme e ci accorgemmo, a vent’anni, di non riuscire più a contare e ricordare tutti i nostri sabati sera con gli amici. Una mattina di fine agosto ci ritrovammo tutti in un caffè – faceva incredibilmente caldo – a parlare del nostro futuro.
Ada, i capelli lunghi fitti di treccine, fu la prima a proferire parola, tenendo tra le mani una tazza di tè freddo.
“Ragazzi”, iniziò, con la sua voce colorata, “Io me ne vado a Parigi con Charles”.
Un brusio si alzò da tutto il tavolo.
“Chi cazzo è Sciavl?”, domandò Gaetano, dando voce ai dubbi che abitavano le menti di tutti noi.
“È un ragazzo francese che ho conosciuto quest’estate”, spiegò Ada, “E fa il pittore”.
L’artista maledetto”, scandì Marinella teatralmente, “Vivrete da clochard perché lui non avrà abbastanza soldi nemmeno per prendere in affitto un bilocale, e i vostri sei figli e il vostro cane...”.
Ada la interruppe con una risata: “Veramente suo padre è un banchiere, ci ha comprato un appartamento a Montmartre”.
“Minchia”, sussurrò ammirato Gaetano, rendendo di nuovo pubblici i pensieri di tutti.
“E tu, Gaetano, rimarrai qui a Milano?”, gli sorrise Ada.
“Certo, proverò il test di Medicina a breve, e se non lo passo vado a fare il barista”, fece spallucce, azzannando un pezzo di brioche, “Sono uno che si adatta, io”.
Marinella ci rivelò che sarebbe andata a fare un viaggio in Africa con Edoardo, il suo fidanzato storico, prendendosi un anno sabbatico prima di cominciare Lettere Moderne all’università.
Io invece avrei iniziato quella stessa facoltà a breve, e intanto avrei lavorato nella piccola libreria di mia madre, continuando a scrivere poesie, con la speranza che in futuro sugli scaffali ci sarebbero state le mie raccolte.
Enea voleva passare – e naturalmente passò – il test di Fisica, e già cominciava a informarsi sulle modalità dei concorsi per diventare professore.
Nina, che se ne stava sempre zitta, annunciò che stava per cominciare una scuola di cinema, voleva lavorare dietro le quinte, lei, fare parte della creazione di quel mondo che amava tanto, e Leonor disse che non aveva ancora deciso, c’era tempo per stabilire cosa fare da grandi.
“Grandi” noi già ci sentivamo, dall’alto dei nostri diciannove-anni-e-mezzo-quasi-venti, e pensavamo di poter stabilire il corso della nostra vita, seduti in un bar in una giornata di fine agosto, senza renderci conto che i nostri piani erano come dei birilli, tutti in fila, perfetti, finché qualcosa non li avesse scaraventati a terra.
E io l’avrei scoperto molto presto.
“Vera?”, una voce lontanamente familiare mi chiamò.
I miei amici tacquero e guardarono qualcuno dietro di me, incuriositi.
Un ragazzo dai folti capelli castani mi rivolgeva un timido sorriso.
“Sono Marco, ti ricordi di me?”.




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Tadadadaaaaa!
:)
 

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Capitolo 6
*** Sesto Capitolo. ***


Parole

- Sesto capitolo -



All’inizio del secondo anno di università io ed Enea cominciammo a pensare di andare a vivere insieme nel piccolo appartamento che era stato di mio nonno materno e che mi era stato lasciato in eredità qualche mese prima.
Intanto non avevamo perso i contatti con gli altri: Ada ci venne a trovare verso ottobre e ci vide durante la sistemazione della casa. La facemmo accomodare tra due scatoloni dell’Ikea e poggiammo le tazze di tè su una pila di libri, un tavolino improvvisato. Ada era rimasta incinta e Charles l’aveva abbandonata, lasciandole in mano duecento euro, che erano bastati giusto per il viaggio di ritorno in Italia. Lei, come sempre, non perdeva la speranza e voleva tenere il bambino, nonostante sua madre non volesse saperne di aiutarla economicamente.
Io ed Enea ci scusammo per qualche secondo e uscimmo sul balcone per parlare della situazione: Ada era da sempre una nostra grande amica, e non potevamo certo abbandonarla anche noi.
“Senti Ada”, Enea cercò il mio sguardo come conferma, io gli strinsi la mano, “Io e Vera pensavamo che puoi stare da noi per un po’, naturalmente dobbiamo ancora sistemare tutto e ci vorrà qualche tempo, però...”.
Ada passò le ore seguenti a ringraziarci e cercare un lavoro su internet, perché su una cosa era irremovibile: voleva contribuire, pagando bollette e affitto.
Così cominciò la nostra vita da coinquilini e il passare delle settimane era scandito dall’ingrossarsi della pancia di Ada. Lei saltellava per casa, mettendo a posto tutto ed entrando all’improvviso nelle stanze, cantando e dando così luogo a situazioni imbarazzanti. Per me non era un problema, ma dopo un po’ Enea cominciò a soffrire della perdita dei suoi spazi, ed era innegabile che la nascita del bambino avrebbe complicato tremendamente le cose.
Poi, un giorno, Ada trovò una casa.
“A quanto ho capito potrò trasferirmi tra un mesetto, finalmente Charles si è dato una svegliata e ha capito che deve contribuire anche lui...”.
Quella sera decidemmo di andare tutti e tre a festeggiare; io li avrei raggiunti al ristorante perché era il mio turno di chiudere la libreria.
Abbassai la saracinesca, mi voltai, e mi trovai davanti Marco.
“Allora mi hanno detto bene, lavori qui”.
Gli rivolsi un debole sorriso, incamminandomi verso la macchina.
“Eh sì, ti hanno detto proprio bene. Ora dovrei andare però, scusa, ho una cena...”.
Lui mi fermò, spingendomi contro la macchina. Non indossava più il berretto rosso di una volta, e premette le labbra screpolate sulle mie.
Lo schiocco della mia mano sulla sua guancia fu udibile per isolati.
“Ma che cazzo fai!?”, lo spinsi indietro, cercando di infilare la chiave nell’automobile, febbrilmente.
“Vera, io non ti ho mai dimenticata”, si avvicinò a me e io lo respinsi di nuovo. Lui alzò le mani in segno di resa: “Me lo dovevi”.
“Io non ti dovevo proprio niente!”, urlai, entrando in macchina, “E sono passati quattro anni! Fatti una cazzo di vita!”.
Guidai fino al ristorante col cuore che mi scoppiava nel petto: avevo avuto paura delle mani di Marco sul mio viso, paura che sfiorasse e così rovinasse la mia felicità che era un foglio di carta velina, così fragile.
Enea mi aspettava fuori dal ristorante, fumando una sigaretta, e quando mi vide così sconvolta corse verso di me.
“Vera, cosa c’è? Cos’è successo?”.
Gli raccontai tutto, “Mi ha baciato lui, ma ti giuro, l’ho respinto”.
Lui si allontanò da me, e io non capivo.
“Perché me lo stai raccontando se tu non hai fatto nulla? Hai la coscienza sporca?”, mormorò cupamente.
“Cosa... No!”, esclamai incredula, “Certo che no, come ti viene anche solo in mente...”.
“Va tutto a puttane, Vera, ci mancava solo questo, viviamo in tre in un buco, io non trovo un lavoro, forse dovresti stare con lui”, mi interruppe Enea, buttando in terra la sigaretta.
Gli afferrai il viso tra le mani.
“Guardami”, lo costrinsi ad alzare gli occhi su di me. “Io sto facendo del mio meglio, abbiamo scelto insieme tutto questo...”.
“Beh, forse non era quello che volevo! Forse mi aspettavo un futuro più... più semplice!”, si scostò lui.
“Questo non ti dà il permesso di prendertela con me! Non è colpa mia se non abbiamo soldi, almeno abbiamo una casa...”.
“Ed è naturalmente merito tuo, giusto?”, sputò amaramente, “Tu ci hai messo la casa, tu hai un lavoro fisso, i tuoi esami stanno andando bene...”.
“È questo il problema, allora!? Odi il fatto di non sentirti all’altezza? Forse se io ho cose che tu non hai è perché io me le merito e tu no!”, sapevo che era una cosa tremenda da dire, che lo avrebbe ferito, ma glielo urlai contro comunque.
“Vaffanculo, Vera, sei la solita egoista. Cresci un po’”, mormorò mentre se ne andava.
SEI TU CHE DEVI CRESCERE!”, gli gridai dietro mentre i passanti mi fissavano e lui si allontanava.
Mi asciugai le lacrime ed entrai nel ristorante. Ada mi aspettava già seduta al tavolo, con un sorriso sulle labbra.
“Enea?”, mi chiese e una parte di me lottò contro l’altra per non correre in strada e inseguirlo e baciarlo.
“Lo ha chiamato sua madre ed è dovuto andare da lei, ci aspetta a casa”.
 
Quando tornammo a casa, Enea era seduto sul bordo del letto in camera nostra. Io mi inginocchiai di fronte a lui e lo guardai negli occhi.
“Mi dispiace”, sussurrai, “Mi dispiace per le cose che ho detto e mi dispiace di non essermi accorta prima di quanto poco tu sopportassi questa situazione. Ma Enea, io ti amo, non ti ho tradito”.
Una lacrima gli scese lungo la guancia.
“È questo il problema”, pianse, “Io l’ho appena fatto”.




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Tadadadaaaa!
Alla prossimaa ;)
Lu

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Capitolo 7
*** Settimo Capitolo. ***


Parole

- Sesto capitolo -




 

Non ho pianto molte volte per Enea, nella mia vita.
La prima volta fu la nostra prima estate, l’unica che passammo interamente separati. La mia famiglia mi aveva obbligata a seguirli in campagna, nel piccolo e desolato paesino dove avevamo la casa. Mi ero fatta prestare da Nina una ventina di Dvd e passai tutta la settimana sul divano di camera mia, a guardare film.
Enea era partito con Gaetano, Ada e alcuni amici per Berlino, e il terrore che mi dimenticasse cresceva dentro di me ogni giorno che passava.
Una sera guardai un film, Remember me, e osservando i personaggi prendersi e lasciarsi sullo sfondo di una New York degli anni Duemila, cominciai a realizzare davvero quanto stessi investendo nel rapporto con Enea.
Mentre Robert Pattinson scagliava un estintore fuori dalla finestra di un’aula, io piangevo calde lacrime sul mio computer, immaginando il mio cuore al posto di quella finestra, frantumata da un estintore.
La seconda volta piangemmo insieme, seduti su un divano a casa di Ada. Eravamo brilli e felici e ci sussurrammo il nostro primo “Ti amo”, mentre gli altri schiamazzavano e ridevano nella stanza. Nonostante tutto fu uno dei nostri momenti più intimi, ci guardammo negli occhi e piangemmo allegramente, ché sapevamo che era la verità quella che ci stavamo rivelando.
Poi, a un tratto, piansi molto per lui, e non so quante volte perchè le mie lacrime erano così tante che si confondevano.
“È questo il problema. Io l’ho appena fatto”.
Mi alzai da terra e mi tolsi la giacca.
“Me l’avevi promesso”, mormorai, “me l’avevi promesso. Avevi detto che non mi avresti fatto del male”.
“Mi dispiace, ero arrabbiato...”.
“Hai detto che non stai più bene in questa casa. Perfetto, puoi andartene”.
Gli voltai le spalle e uscii dalla stanza. In corridoio mi trovai davanti Ada, e abbassammo entrambe gli occhi.
Mi chiusi in bagno e scoppiai in lacrime.
Quando mi decisi ad uscire, Enea se n’era andato e i suoi libri erano scomparsi dagli scaffali.
“Ada” chiamai, e la mia voce era roca e strozzata. La sentii accorrere, mi avvolse in un abbraccio e io avvertii il rigonfiamento del suo pancione sfiorare il mio bacino.
“Se n’è andato davvero”, percepii le lacrime scendere lungo le mie guance, “Enea se n’è andato”.
Trattenni i singhiozzi e le urla che giacevano nella mia gola, e rimasi lì con Ada, a farmi accarezzare i capelli, pregando che fosse tutto solo un brutto sogno.
 
Ada rimase a vivere con me nei mesi seguenti, e mi fece da madre, usando come scusa il fatto che: “Devo cominciare ad abituarmi, devo capire come si allevano i pulcini”.
Io mi tagliai i capelli a caschetto e mi comprai una bicicletta; andavo a trovare i miei vecchi amici, e a volte mi fermavo nel bar di Gaetano, che aveva fallito per quando riguardava la medicina, ma aveva avviato un’attività commerciale e il suo locale cominciava a diventare uno dei più frequentati in tutta Milano.
Una mattina, quattro mesi dopo che Enea se n’era andato, ad Ada si ruppero le acque. Corremmo in ospedale, io le tenni la mano e urlammo insieme e ridemmo di gioia quando, dopo ore, il bambino finalmente uscì.
Ada lo chiamò François. Aveva gli occhi di un colore chiaro, acquoso, era grassottello e aveva una voce potente.
 
Vera,
mi manchi. Sono a Dallas da Roberto, mio fratello, e lo sto aiutando: ha aperto una libreria, come quella di tua madre, ogni volta che ci entro penso a te.
Ricordo che volevi che io ti portassi in America con me, e la mattina presto, nel dormiveglia, fingo che tu sia accanto a me nel letto, e vorrei carezzarti i capelli e baciarti.
Ho ricominciato a scrivere, sai? Scrivo racconti per bambini, assomigliano un po’ a quelli del Boldini, te lo ricordi il nostro prof di Italiano? C’è una bambina che appare sempre nei miei racconti, è simpatica e intelligente, ma anche un po’ scontrosa, le ho dato il tuo nome.
Qui a Dallas ho finalmente conosciuto i miei nipotini, ti piacerebbero tantissimo, probabilmente sono gli unici tre bambini americani che non sono obesi o stupidi. È una cosa cattiva verso i poveri bimbi americani, ma è anche innegabile.
So che se ti mandassi questa lettera probabilmente non mi risponderesti e la stracceresti prima di leggerla, perciò la terrò qui con me.
Mi sento inutile, Vera, e ricordo il tuo viso come fosse ieri l’ultima volta che ti ho visto.
Mi dispiace per quello che ti ho fatto, ma mi dispiace ancora di più per non aver lottato, per non essere rimasto, quella sera, per non aver preso a pugni la porta, finché tu non mi avessi ripreso con te.
Sono un codardo, Vera, ma sono un codardo che ti ama.
Enea


 

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Caro Enea,
non so perché ti scrivo. O meglio, so chi mi ha convinto a farlo: Ada. Ha appena partorito e mi ha spedita a casa, perché dice che non posso passare un altro giorno con lei in ospedale senza lavarmi. Questa cosa ti farebbe ridere, lo so.
Comunque, Ada mi ha dato questo compito: dice che devo scriverti una lettera, perché sono passati quattro mesi e sono ancora più incasinata che in quella sera, e l’unico modo per sbrogliare questo gomitolo che è il mio cuore è mettere nero su bianco i miei pensieri.
E, oddio, non è per niente facile come immaginavo.
Mi vengono in mente tantissime cose: quella volta che pioveva e ci siamo fatti tutta via Torino a piedi, dal Duomo alle Colonne ché il tram non passava, e diluviava ed è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Quella volta in cui mi hai preparato la cena ma hai bruciato tutto e così siamo andati a mangiare al McDonald’s più vicino, e tu hai pensato a tuo fratello e mi hai raccontato che aveva trovato un altro lavoro, lì in America. I nostri baci, come mi mancano.
Torna, Enea, ti prego torna perché io lascio ancora lo spazio per le tue scarpe, nel bagnetto, e certe volte che sono sovrappensiero apparecchio la tavola per tre, e Ada, perché io non mi senta in imbarazzo, dice che penso già al bambino, per quando verrà a casa con noi.
Mi mancano i tempi del liceo, avere diciassette anni e pensare davvero che sarei diventata una poetessa. La vita ci ha smontati tutti, non è vero? Io, te, Ada, Gaetano, siamo tutti poveri in canna, coi nostri sogni che si riempiono di polvere e i nostri vent’anni che pesano come se fossero sessanta.
Recentemente ho rivisto anche Marinella, Nina e Leonor. Marinella è tornata dall’Africa e non sa se ripartire, per l’India magari, o cominciare finalmente l’università.
La professoressa di Nina, quella di critica cinematografica, la porta a Venezia al prossimo Festival del Cinema, e lei è emozionatissima. Mi ha chiesto di andare con lei, io non so che dirle, ho sempre questa paura folle che tu tornerai e io non sarò a casa ad aspettarti.
Leonor forse è la più felice tra tutti noi, lei che non si aspettava niente dalla vita ha trovato un posto da segretaria in uno studio di avvocato, e guadagna più di me e Ada insieme.
Torna, te l’ho già detto? Torna, Enea, mi sento così sola.
Tua, Vera
 
Tornai a casa dall’ospedale come mi aveva chiesto – ordinato – Ada, sarei poi tornata a prenderla nel pomeriggio in macchina. Cominciai a mettere a posto e pensai a come sarebbe cambiata la vita mia e di Ada ora che avremmo avuto un piccolo ospite.
Quando il campanello suonò, alzai gli occhi al cielo e pensai che avrei davvero ucciso Ada: testarda com’era, era sicuramente tornata a casa dall’ospedale coi mezzi, senza aspettare che io la andassi a prendere.
“Ada, santo cielo, hai appena partorito...”.
Enea portava uno zaino sulle spalle e un borsone di libri tra le mani. Si era abbronzato un po’ e i capelli neri gli erano cresciuti.
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Enea mi si avvicinò.
“Mi dispiace, Vera, ho fatto una cazzata, e sarei dovuto tornare a casa prima e...”.
“Puzzi di sudore”, lo interruppi, prendendolo per mano, “Entra, fatti una doccia, e poi ne parliamo”.
La porta si richiuse alle nostre spalle.







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Ecco che questa storia giunge alla fine :) Ringrazio di cuore tutti coloro che l'hanno letta, seguita e recensita, grazie davvero.
Alla prossima, spero!
Un bacio,
Lu.

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