Essere Molly Hooper e non morire nell'intento

di teabox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


Nota: questa era nata come una storia veloce, possibilmente divertente e soprattutto corta. Doveva essere una piccola raccolta di momenti fra Molly e Sherlock. Poi, non so cos’è successo.
Non so quanto mi sia riuscito di stare IC, spero solo di non essere andata troppo OOC.
Tre capitoli che includono, ma non si limitano a: domande indiscrete! Appuntamenti cancellati! Irene Adler! e, soprattutto, quella cosa scritta lì, all'inizio del capitolo!
Grazie mille a chi si ferma a leggere :)

→ La storia è immaginata da qualche parte dopo il ritorno di Sherlock.

Chiariamo una cosa fin da subito. Non c’era mai stato un piano e, francamente, anche se ci fosse stato, di certo non avrebbe implicato conoscere il nome di quella donna. Irene Adler.
E per quanto ci fosse qualcosa di fantascientifico nel fatto che Molly Hooper e Sherlock Holmes si fossero baciati, non c’erano dubbi che la cosa fosse avvenuta per caso. Un incidente. Punto e fine.

Più o meno.

*

«Molly.»
La Molly in questione si morse un labbro.
Nella sua testa, precisi e catalogati, erano raccolti i modi diversi con cui Sherlock pronunciava il suo nome, seguiti dai relativi significati. Per esempio, quel tipo di “Molly” che aveva appena usato era uno dei più frequenti. Era quello che lei amava definire ammonitorio-educativo: un conto-fino-a-tre-e-poi-ti-metto-in-castigo-Molly.
«Quei test non si eseguiranno da soli.»
«Si, giusto», replicò lei mettendosi al lavoro. Quando il liquido in una delle provette cambiò colore e si formò un precipitato verde, Molly sollevò la fiala per osservarla meglio. «C’è qualcosa che forse potrebbe interessarti.»
Sherlock alzò gli occhi dal microscopio e guardò la provetta che Molly gli stava mostrando. S'illuminò in viso.
Era leggermente deprimente sapere di essere meno interessante di una soluzione di solfato ferroso e idrossido di sodio.

*

«La caffeina?»
Sherlock non spostò gli occhi dallo schermo del computer. «Alcaloide.»
«Litri di sangue nel corpo umano?»
«Circa il 7,7% del peso corporeo.»
Molly porse a Sherlock un foglio con i risultati di alcune analisi. «Una domanda un pochino più difficile. Cos’è il principio di Le Chatelier?»
«Termodinamica chimica. Ogni sistema tende a reagire ad una modifica impostagli dall’esterno minimizzandone gli effetti.» Staccò finalmente gli occhi dallo schermo e prese il foglio. «Posso sapere cosa stai facendo?»
«Testo la vastità delle tue conoscenze», replicò Molly con un tono divertito. Si girò per sorridergli, e solo in quel momento si rese conto che lui si era voltato a guardarla ed era più vicino di quanto avesse immaginato.
«Soddisfatta?», domandò.
Qualcosa in quel tono di voce sembrava pretendere risposte sulla falsa riga di “no”, “ancora”, “di più” e “non smettere”. Molly arrossì. Fece un passo indietro inciampando in uno dei sgabelli. «Sì. Certo. Scusa.»
Non era sicura di cosa si stesse scusando, però.

*

«Lo stai facendo di nuovo, Molly Hooper.»
Ah, pensò lei. Ecco l’altro “Molly” che veniva pronunciato spesso e volentieri. Quello accompagnato dal cognome, quello che associava sempre a frasi come “siamo persone serie, adulte, comportiamoci come tali”. Il che, ovviamente, implicava il non fissare Sherlock Holmes.
«Giusto, scusa.»
Anche “scusa” era una parola che compariva con una frequenza allarmante nelle frasi di Molly, specialmente quando Sherlock era nelle vicinanze. Si schiarì la voce. Non amava i silenzi prolungati, soprattutto quando si trovava nell’obitorio. «Stavo solo pensando a qualcosa.»
Sherlock sollevò la mano del cadavere che stava esaminando. Ci mise cinque secondi buoni per rispondere, ma a stupirla fu soprattutto il fatto che avesse deciso di farlo. «Cosa?»
«Ah, ecco. Sì.» Le parole sembravano sempre nascondersi, quando si trattava di parlare con lui. «Mi domandavo se sei sempre stato così. Voglio dire, fin da piccolo. Sai, così intelligente e...e deduttivo.»
La frase suonò patetica alle sue stesse orecchie, ma Sherlock non sembrò farci caso. Girò attorno al tavolo per raggiungere l’altro lato del cadavere. «Immagino di sì.»
Molly intrecciò le dita delle mani, chiudendosi nelle sue riflessioni. Piegò appena la testa e lo guardò. Era difficile immaginarsi Sherlock da bambino, magari a sei anni, occupato a dedurre dal tempo di ebollizione del latte e dal bricco usato, che avevano comprato una marca diversa e che no, non gli piaceva e no, non lo voleva bere.
Era difficile, ma non impossibile.
«Molly Hooper», la richiamò lui all’ordine.
E Molly Hooper smise di fissarlo. Di nuovo.
Sorrideva, però.

*

«Style...styme...stylomo», Molly sbuffò irritata. Era assurdo come certe volte la sua lingua sembrasse incepparsi su alcune parole. «Hetro...hetoro...o per l’amor del cielo.»
Sherlock le tolse il foglio di mano e lesse la parola. «Ripeti dopo di me. Sty-lo
«Sty-lo
«Me-con
«Me-con
«Stylomecon
Molly prese fiato. «Stylomecon
Sherlock alzò un sopracciglio quando la vide esultare. «Non è ancora finita. He-te-ro
«He-te-ro
«Phyl-la
«Phyl-la
«Ora rilassati, chiudi gli occhi e ripeti: stylomecon heterophylla
Molly fece come le era stato detto. «Stylomecon...heterophylla
«O papavero del vento, se preferisci.» Le riconsegnò il foglio.
L’angolo della bocca si era alzato appena - l’ombra di un mezzo sorriso - quando aveva visto dipinta sul volto di Molly tutta quella soddisfazione per qualcosa di così insignificante.
Molly Hooper era strana.

*

«Quindi è stato un delitto passionale?»
«Così parrebbe. Cosa c’è, Molly? Sembri quasi delusa.»
Molly alzò per un istante gli occhi dal microscopio. «No, no. Non credo. Solo che...»
Sherlock, intento a confrontare alcuni risultati al computer, la invitò a continuare. «Solo che?»
Molly curvò un po’ le spalle e sospirò. «Sembra un tale spreco di sentimenti.»
Sherlock si voltò a guardarla. «La passione, mi dicono, è una grande forza motrice.»
«Appunto!», replicò lei tornando a dedicarsi al microscopio. «Mi sembra sempre un tale peccato quando viene utilizzata così.»
Il silenzio si allungò tra loro due. Molly sostituì un vetrino con un altro. «Tu...» Esitò, abbandonando nuovamente il microscopio. «Tu hai mai provato passione?»
Sherlock tornò a fissarla. Allibito. «E’ la base del mio lavoro.»
Molly si lasciò sfuggire una risata nervosa. «Sì, no, certo. Giusto. Ma, insomma, volevo dire...passione per una persona.»
L’espressione di Sherlock divenne confusa. E vagamente allarmata. Per un attimo Molly credette che avrebbe risposto con un “errore 404, pagina non trovata”. Invece tornò a dirigere la sua attenzione al computer. «No.»
Silenzio.
Molly aggiustò le lenti del microscopio per adattarle al nuovo campione. «Neanche...neanche per quella donna? Sai, quella del cellulare.»
Non ci fu nessuna risposta immediata. «Iren-» Sherlock dovette interrompersi per schiarire la voce. «Irene Adler era una donna affamata di potere e dominazione. Ogni sua azione era pensata, calcolata e stabilita per ottenere quello che voleva. Cosa ti fa pensare che possa trovare attraenti questi aspetti?»
«Pensavo...pensavo che ti piacesse.»
«Mi piacciono molte cose, Molly Hooper, una delle quali è il silenzio.»
E Molly tacque. Stava comunque ancora assorbendo quelle informazioni e sapeva che una parte del suo cervello le aveva già catalogate sotto la voce “giustificazione”. Perché non era né più né meno di quello che Sherlock stava facendo, che se ne rendesse conto oppure no. Era come un adolescente intento a negare ai suoi amici la prima cotta, “no, davvero, non mi piace. Non la trovo nemmeno carina”.
Qualcosa nello stomaco di Molly si fece pesante.

*

«Ah, Molly, giusto te cercavamo.»
Molly non apprezzava quando Sherlock pronunciava il suo nome in quel modo. Finto interesse, ecco cos’era. Era il “Molly” che usava quando aveva bisogno di qualcosa e non era sicuro di riuscire ad ottenerlo semplicemente chiedendo.
Il sorriso di John, poi, confermava l’ipotesi. “Scusa, Molly”, diceva quel sorriso.
E lei non capiva. Sapeva che quando passavano dal laboratorio o dall’obitorio era perché c’era qualcosa di importante che andava fatto. Non c’era bisogno di pretendere. Bastava, davvero, solo chiedere.
«Finalmente qualcosa di davvero interessante», aveva continuato Sherlock passandole una busta con delle foto.
«E’ una persona inchiodata ad un albero, quella che sto guardando?», domandò lei indecisa tra il disgusto e l’interesse.
«Esattamente!»
C’era qualcosa di inquietante, ma allo stesso tempo assolutamente divertente, nell’assurdo entusiasmo che Sherlock provava davanti a certe cose. Ma del resto chi era lei per giudicare, quando buona parte del suo lavoro aveva a che fare con cadaveri?
«Se non fosse un problema, Molly», stava dicendo John. «Quando ti portano la salma, vorremmo esaminarla.»
Molly fece per rispondere, ma Sherlock la batté sul tempo. «Certo che non è un problema.»
«Non starebbe a lei dirlo?», fece notare John.
Sherlock guardò Molly. «E’ forse un problema?»
Lei sospirò. «No. Non credo.»
«Bene. Molto bene, Molly.»
E senza aggiungere una parola di più, uscì dal laboratorio esattamente com’era entrato. Di fretta.
Sulla porta, però, John esitò un istante. «Sai, c’è una cosa che ho capito di Sherlock», le disse sorridendo. «Quando dice “molto bene”, a volte quello che vorrebbe dire è “grazie”. Questa era una di quelle volte.»

Molly sorrise riconoscente.

*

«Nevica!»
«Quale brillante deduzione, Molly.»
Erano passate da poco le nove di sera, e Molly e Sherlock avevano appena lasciato il Barts. Uscendo, Molly non era stata capace di fermare l’entusiasmo nell’accorgersi che aveva preso a fioccare. Le piaceva la neve, le piaceva molto. E né il freddo glaciale o il sarcasmo di Sherlock avrebbero intaccato quella semplice felicità.
«Non ti piace la neve?», domandò ingenuamente.
Sherlock, intento a scrivere un messaggio al cellulare, non sollevò nemmeno gli occhi. «E’ un fenomeno meteorologico, Molly Hooper. Capita, e con frequenza, quindi cosa dovrebbe esattamente piacermi?»
«Be’, la neve è bella.»
Sherlock mise via il cellulare e lanciò un’occhiata alla strada, cercando un taxi. «No, Molly. E’ fredda, potenzialmente pericolosa e problematica.»
«Sembra che tu stia descrivendo quella donna, Irene Adler», replicò lei, rendendosi conto troppo tardi di quello che aveva detto. Il silenzio si protrasse in maniera imbarazzante. Molly si nascose dietro una debole risata. Sapeva, senza bisogno di guardarlo, che Sherlock si era voltato a fissarla. E non era contento.
«Sì, ecco», offrì fievolmente, senza sapere davvero cosa potesse dire. Ma la salvezza arrivò sotto forma di taxi. «Ah, guarda! Fermalo prima che sia troppo tardi. Sarà difficile trovarne altri in una serata come questa.»
Sherlock si avvicinò alla strada e fece segno al taxi di fermarsi. Aprì la portiera e si voltò per dirle qualcosa, ma Molly lo precedette. «Bene, io vado. Se corro, dovrei riuscire a prendere il treno delle nove e mezza.»
E corse. Almeno fino all’angolo. Appena imboccata la strada che portava alla stazione della metropolitana, si fermò e si appoggiò al muro. Cause più frequenti di arresto cardiocircolatorio, pensò cercando di riportare il cuore ad un ritmo normale. Aritmia, infarto miocardico, ipossiemia. E idiozia.
Il cellulare vibrò nella tasca del cappotto.

Cammina. Mi servi in salute, l’ipotermia accidentale non m’interessa. Per il momento. SH

Molly si staccò dal muro e si guardò attorno. Vide un taxi allontanarsi lungo la strada.
Ah, pensò avviandosi verso la St. Paul’s Station. E si trovò nella strana situazione di non sapere bene cos’altro aggiungere, dopo quel “ah”.
Si sentiva in imbarazzo, certo. Ma era anche felice, in qualche modo.

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Capitolo 2
*** II ***


Nota: grazie mille per i commenti gentilissimi e per esservi fermati a leggere!
Non so bene cosa pensare di questo capitolo, quindi lo lascio a voi sperando che sia okay.
Domani sono in viaggio tutto il giorno, quindi non avrò modo di mettere l'ultimo capitolo fino a dopodomani. Nel frattempo, ancora mille grazie per la vostra gentilezza!

*

*

*

La scoperta di un nuovo modo in cui Sherlock pronunciava il suo nome veniva sempre accolta da Molly con lo stesso entusiasmo di una brillante rivelazione scientifica.
Generalmente in quei casi Molly prendeva un foglio di carta e annotava quali lettere Sherlock avesse particolarmente stressato, l’inflessione nella pronuncia, il tono della voce, l’idea implicata.
Altre persone collezionavano francobolli, Molly Hooper collezionava il suo nome.

*

«Dactylopius coccus
«Eh?», replicò Molly non troppo brillantemente.
Sherlock era intento ad esaminare un campione di sangue al microscopio. «Cocciniglia del carminio. E’ un insetto.»
«Oh», disse lei esitando un istante, prima di tornare a mettersi il rossetto. Aveva un appuntamento, quella sera, e aveva permesso a Sherlock di entrare nel laboratorio solo dopo la debita promessa che non l’avrebbe fatta ritardare.
«E’ un parassita sessile. Incapace di movimento», continuò Sherlock senza staccare gli occhi dal microscopio.
Molly interruppe di nuovo quello che stava facendo. Era ufficialmente confusa. «E’ nel campione di sangue che stai analizzando?»
Sherlock alzò la testa e le rivolse uno di quei suoi strani sorrisi. «No davvero, Molly. E’ sulle tue labbra. Per essere precisi, l’acido che l’insetto produce. Lo estraggono dal corpo o dalle uova della cocciniglia e, tra le altre cose, lo usano come colorante per i rossetti. Pensavo lo sapessi.»
Per un istante o due Molly, incapace di fare o dire nulla, si limitò a fissare Sherlock. Quindi, molto lentamente, spostò lo sguardo sul rossetto che teneva ancora in mano. Deglutì. Lo chiuse con attenzione e lo ripose nella borsa. «Devo andare in bagno.»
«Ma sbrigati, o finirai per essere in ritardo per il tuo appuntamento», esclamò Sherlock con un tono di voce che sembrava leggermente divertito.

Per il resto della serata Molly non riuscì a fare altro che pensare a parassiti, uova di parassiti e acido di parassiti.
L’appuntamento fu un disastro.

*

«Trascorrerà la serata a raccontarti della sua ex-moglie, dicendo ancora “mia moglie”, per poi correggersi con una risata imbarazzata e qualche scusa patetica.»
Molly aveva fatto due errori. Primo: aveva detto a Sherlock che aveva un nuovo appuntamento. Secondo: gli aveva detto che usciva con un cardiologo del Barts. «Non sai nemmeno chi è», cercò di difendersi.
«Ah, Molly Hooper», replicò lui in quel tono sarcastico che sembrava sempre implicare un “lascia che ti illumini”. «E’ ovvio che so chi è. Ed è altrettanto ovvio che succederà esattamente quello che ti ho appena detto. Si è separato dalla moglie da meno di un mese, e non perché lui lo volesse, ma perché lei lo ha lasciato.»
«E tu come fai a saperlo?»
«La settimana scorsa è passato dall’appartamento. Voleva che indagassi su sua moglie. Ridicolo. Non è nemmeno morta, dov’è il divertimento?»
«Quindi...secondo te dovrei cancellare l’appuntamento?», domandò Molly con una nota di incertezza nella voce.
«Secondo me dovresti evitare questa cosa degli appuntamenti in generale. Non mi sembra che stia funzionando troppo bene per te. Ma fai quello che vuoi. E se quello che vuoi include passare due ore ad ascoltare un uomo parlare di quanto ami ancora la sua ex-moglie, di quanto sia perfetta e di come proprio non capisca come possa averlo abbandonato...allora vai, Molly Hooper. Vai e divertiti
Molly rimase in silenzio per un momento. «Non lo stai dicendo solo perché vuoi che ti aiuti con queste analisi stasera?»
Sherlock la guardò allibito. «Davvero, Molly. Non farei mai una cosa del genere.»
Molly non ne era del tutto sicura.
Cancellò comunque l’appuntamento.

*

La sera in cui Sherlock Holmes fece ritorno all’appartamento annunciando di aver baciato Molly Hooper, John quasi si strozzò con la birra che stava bevendo.

Quella stessa sera, quando Molly Hooper era entrata nel suo appartamento e aveva detto a Toby di aver baciato Sherlock Holmes, il gatto aveva a mala pena alzato la testa.

*

I particolari non erano mai stati rivelati. Persone erano morte per molto meno, aveva fatto notare Sherlock.
In generale la colpa fu data ad uno sgabello, in un classico esempio di “posto sbagliato al momento giusto”. O viceversa.
Si disse che Molly fosse inciampata. Si disse che Molly si fosse lanciata nelle braccia di Sherlock. Si disse anche che Sherlock non avesse fatto molto. E, forse, fra tutte le cose che si dissero, questa fu l’unica ad avvicinarsi un po’ alla verità.

*

Molly stava in piedi su di uno sgabello.
Non che trovasse la cosa particolarmente piacevole, stava solo cercando di aiutare Sherlock con un esperimento. Danni subiti da un cellulare caduto da una data altezza. Sperava sinceramente che il telefono che stavano usando per il test non fosse quello di John.
«Ferma così, Molly.»
Molly non si sarebbe mossa comunque. Era già un miracolo che non fosse ancora caduta da quel accidenti di sgabello.
«Ora alza il braccio ancora un po’», le disse Sherlock misurando l’altezza.
Molly cercò di fare del suo meglio.
«E ora...lascia!»
Aprì la mano e un istante più tardi sentì il rumore sordo del cellulare cadere sul pavimento. «Com’è andata?»
Sherlock raccolse il telefono e lo osservò. «Bene.»
Meno male, pensò lei sollevata. Non credeva che l’avrebbe voluto fare di nuovo. Si piegò con cautela sulle ginocchia e sul punto di muovere un piede, sentì la mano di Sherlock chiudersi sul suo braccio.
Stupidamente, Molly sussultò al contatto. Lo sgabello traballò. Lei perse l’equilibrio. Sherlock l’afferrò. Entrambi si trovarono per terra.

Le servì un attimo per capire cosa stesse fissando. Le labbra di Sherlock. Oh, pensò.
Le servì un altro attimo per capire dove fosse caduta. Esattamente sopra Sherlock. Oh, pensò di nuovo.
Anni di costosa educazione superiore e questo era il meglio che il suo cervello riusciva a produrre.
«Molly?»
La voce di Sherlock vibrò attraverso il suo corpo. Era una sensazione strana. Piacevole.
«Oddio, scusa, mi sposto subito», disse lei irrimediabilmente imbarazzata. «Ti ho fatto male?»
Inginocchiata al suo fianco, Molly guardò Sherlock mettersi seduto e portarsi una mano alla nuca. «Sto bene.»
«Peccato che l’esperimento non fosse sui danni subiti da una persona caduta da una data altezza», disse lei ridendo. Poi si ricordò, realizzò la gaffe e si portò le mani alla bocca. «Oddio, scusa. Non volevo dire...non volevo ricordarti...»
Sherlock, ancora intento a massaggiarsi la nuca, la guardò infastidito. «E’ decisamente improduttivo coprirsi la bocca con le mani quando si sta parlando. Soprattutto se vuoi che l’altra persona capisca quello che stai dicendo.»
Molly abbassò le mani. «Scusa.»
«Nessun problema», replicò lui con un mezzo sospiro.
Molly, sentendosi impacciata seduta in mezzo al laboratorio accanto ad un Sherlock che aveva travolto per terra, si alzò velocemente e raddrizzò il camice. Quando notò che anche Sherlock stava alzandosi, gli offrì una mano e lui, dopo un attimo di esitazione, decise di accettarla.
Il suo errore fu di non aver tenuto conto del cronico entusiasmo di Molly Hooper.

Così Molly lo aiutò ad alzarsi, ma lo fece con troppo slancio. E quando Sherlock si trovò in piedi, Molly stava ancora tirandolo per il braccio. Per un attimo ci fu una piccola confusione di braccia e gambe. Quindi, si ritrovarono intrappolati in un goffo abbraccio.
«Molly Hooper», esclamò Sherlock quasi esasperato. «Cosa accidenti-»
Abbassò lo sguardo e si pietrificò. Pupille dilatate, bocca socchiusa, rossore diffuso sulle guance.
Avrebbe voluto allontanarsi. Avrebbe voluto davvero. Non gli piaceva addentrarsi in territori sconosciuti senza un’adeguata preparazione. E quella situazione era La Madre dei territori sconosciuti per Sherlock.
Ma semplicemente non riuscì a farlo. O non abbastanza velocemente.
Avvertì Molly alzarsi sulle punte dei piedi e vide il suo viso avvicinarsi, gli occhi aperti ma il respiro trattenuto. Sentì una delle mani stringersi un po’ di più. Avvertì l’altra scivolare sul petto. Sentì la delicatezza e la morbidezza delle sue labbra. Un breve, veloce momento di abbandono.

Poi Molly Hooper si rese conto di quello che aveva fatto.

In breve successione: si staccò da Sherlock mortificata. Si portò una mano alla bocca e mormorò uno “scusa”. Abbassò la mano e mormorò di nuovo “scusa”. Aggiunse quindi un “oddio”. Arretrò di un paio di passi. Allungò un braccio in direzione di Sherlock. Cambiò idea e abbassò il braccio. Disse qualcosa che suonò come “cosahofattooddiocosahofatto”. Quindi, finalmente, decise di tacere.
Con grande sollievo di Sherlock.

Il silenzio, tuttavia, si rivelò imbarazzante. E scomodo. Sherlock si schiarì la voce. «Penso che sia ora di andare a casa.»
Molly annuì. «Sì. Giusto. Andiamo.» Arrossì imbarazzata. «Voglio dire, ognuno a casa sua. Non insieme. Non nella stessa casa. Tu vai al tuo appartamento, io vado al mio. Separati. Totalmente separati.»
«Esattamente, Molly Hooper», replicò lui innervosito.
«Esattamente.» Molly esitò ancora un istante, come se volesse aggiungere qualcosa - e Sherlock davvero non vedeva cos’altro si potesse aggiungere a quel punto - quindi cambiò idea e si tolse il camice velocemente. Raccolse le sue cose e raggiunse Sherlock alla porta del laboratorio.
Uscirono dall’ospedale senza scambiarsi nemmeno una parola e fu solo sul marciapiede, sul punto di andare ognuno per la sua strada, che Molly tornò a rivolgersi a Sherlock.
«Nessuno lo deve sapere», dichiarò, piuttosto inaspettatamente.
Sherlock alzò appena un sopracciglio. «Ovviamente.»
Molly sembrò rilassarsi. Era ancora visibilmente imbarazzata, ma non molto più del solito. «Allora...buona serata.»
Sherlock non rispose, ma Molly non si era comunque fermata ad aspettare una risposta.

*

Entrando nel 221B, quella sera, Sherlock non disse “buona sera, John” o “cosa c’è da mangiare, John”. No. Sherlock disse “ho baciato Molly Hooper”.
Forse avrebbe dovuto aspettare che John finisse la sua birra, pensò poi in un secondo momento, ma la sensibilità tempistica non era mai stata il suo forte.

*

Toby non era sembrato particolarmente impressionato. Era un gatto, del resto.
Molly avrebbe dovuto imparare da lui.

*

«Maturità emotiva di un cucchiaino da tè», mormorò Molly.
«I cucchiaini da tè non hanno maturità emotiva», le fece presente Sherlock.
Molly arrossì. «L’ho detto ad alta voce? Immagino di sì. Be’, comunque è proprio quello il punto. Nessuna maturità emotiva. Voglio dire, nemmeno un po’. Pensa ch-»
«Molly.»
«Oh. Lo sto facendo di nuovo, giusto?»
«Giusto», rispose Sherlock pacatamente.
Molly smise di parlare e si concentrò sulla capsula di Petri che le stava davanti. Una coltura di batteri. Oh gioia, pensò sarcastica. Perché era capace di sarcasmo, solo che nessuno sembrava capirlo. Con la coda dell’occhio guardò Sherlock. Dopo “l’incidente” si era aspettata che Sherlock iniziasse ad evitarla, o quanto meno l’insorgere di alcuni momenti di imbarazzo. Invece non era successo nulla del genere. Era disorientata.
«Chi ha la maturità emotiva di un cucchiaino da tè?», domandò all’improvviso Sherlock.
Molly, pipetta in mano e pronta a dare l’assalto ai batteri, si girò stupita a guardarlo. «La persona con cui sono uscita ieri sera.»
Sherlock le passò un vetrino senza muovere gli occhi da un altro che teneva in mano. «Ah. Ancora questa cosa degli appuntamenti.»
«E’ normale», replicò lei piccata.
Sherlock non provò nemmeno a mascherare il sarcasmo. «E’ normale che metà degli appuntamenti non vadano oltre il primo, e che l’altra metà vengano cancellati anche prima che inizino?»
Molly abbandonò pipetta e batteri. Incrociò le braccia, invece. «Be’, vengono cancellati per colpa tua
«Oh, vedo», replicò lui continuando con il sarcasmo. «Stai dicendo che la mia esistenza influenza la tua vita sentimentale.»
«Esattamente», replicò lei soddisfatta. La soddisfazione scomparve nell’istante in cui si accorse di quello che aveva detto. «No. Non era questo quello...voglio dire, tu non influenzi...non in quel senso. Cioè, non la mia vita sentimentale.»
Sherlock le passò un altro vetrino. «Se mi basassi soltanto sul numero di appuntamenti che accetti, dovrei trovarmi d’accordo con la tua inadeguata osservazione.»
«Mi piace uscire. Gli esseri umani sono animali sociali, Sherlock Holmes.»
«Apparentemente, Molly Hooper.»

*

Il quadro era magnifico, nulla da dire. E anche il racconto di Sherlock su come fosse riuscito ad ottenere il permesso dal British Museum per sottoporlo a certe analisi era affascinante e divertente. Quindi non era che Molly non volesse ascoltare. Aveva semplicemente altro per la testa. Ed era quel genere di "altro" che rimaneva costantemente sullo sfondo di tutto il resto, come un leggero mal di denti o un piccolo mal di testa. Fastidioso. Impossibile da ignorare.
Doveva fare qualcosa. Doveva sapere. Doveva chiederglielo. 
«Ti ha dato fastidio?», domandò allora velocemente, prima di cambiare idea.
Sherlock la guardò sorpreso. «Cosa, chiedere l'aiuto di Mycroft? Non più delle altre volte.»
«No, no. Non quello.»
«Allora di cosa stai parlando? Stai bene, Molly? Oggi sembri più strana del solito.»
Molly sorrise nervosamente. «Sto bene, grazie. Sì, comunque, mi riferivo...mi riferivo, sai, al bacio. Ecco. Se ti ha dato fastidio. Mi chiedevo.»
Sherlock alzò appena un sopracciglio. «Ah.»
Molly aspettò per qualche istante che aggiungesse dell'altro, ma quando si rese conto che non l'avrebbe fatto, cercò di coprire l'imbarazzo con una risata troppo allegra. «Domanda sciocca, scusami.»
«Stavo pensando», replicò Sherlock lentamente.
Molly si fece silenziosa e attese.
«Non penso che mi abbia dato fastidio», disse Sherlock alla fine.
Lei si morse un labbro. Aveva molte altre domande che avrebbe voluto chiedergli - com'è stato? Ti è piaciuto? E la più ridicola di tutte, posso farlo di nuovo? - ma le tenne per se stessa. Istinto di preservazione, si disse. E comunque sentiva che quella risposta era già un successo. A modo suo. Forse.

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Capitolo 3
*** III ***


Nota: GRAZIE MILLE per le vostre parole. Non so neanche quante volte, mentre scrivevo la storia, avevo voglia di sbattere la testa al muro chiedendomi "cosa sto facendooo?!". Quindi, davvero, mille mille mille grazie.
Vi lascio all'ultimo, sperando di non aver fatto qualche scemenza catastrofica e che, in generale, vada bene. Di nuovo, grazie infinite!

*

*

*

«E’ una tecnica molto semplice da imparare, ma molto difficile da padroneggiare.»
Molly guardò Sherlock dubbiosa. «Cosa devo fare?»
«Immaginati una stanza vuota.»
«Di che colore?»
Sherlock s’innervosì. «Del colore che vuoi, non ha importanza.»
Molly cercò di fare come le era stato detto, ma era difficile con Sherlock intento a fissarla.
«Per l’amor del cielo, Molly», mormorò lui spazientito. Le afferrò i polsi e li strinse non troppo delicatamente. «Rallenta le pulsazioni. Rilassati. Chiudi gli occhi. Concentrati sul tuo respiro.»
Molly chiuse gli occhi e inspirò profondamente.
«Ora immagina una stanza vuota.»
Lei cercò di creare uno spazio nella sua testa. Qualcosa di semplice, regolare.
«Ora», disse la voce di Sherlock. «Inizia con una cosa facile. Aggiungi una sedia.»
Molly immaginò una delle sedie della sua cucina.
«Ora visualizza qualcosa su quella sedia, qualcosa che vuoi ricordare.»
Un piccolo sorriso le aleggiò sulle labbra quando vide comparire Toby.
«Bene. Ora aggiungi un’altra sedia e pensa a qualcos’altro che vuoi ricordare.»
Le labbra di Molly si schiusero appena, in un’espressione indecisa tra lo stupore e il piacere.
Sherlock le lasciò i polsi immediatamente.
Molly aprì gli occhi d’impulso.
«Non mettermi accanto al tuo gatto, Molly Hooper.»
Molly arrossì.

*

«Sher-lock», mormorò Molly nel silenzio dell’obitorio vuoto. “Vuoto” se non si contava il cadavere che aspettava pazientemente l’autopsia.
«Sher-lock», ripeté a voce più alta, facendo suonare la seconda parte del nome come uno schiocco di lingua. Era strano, rifletteva, come una metà suonasse dolce e l’altra metà secca. Lei era sempre stata una parola sola, mai divisa a metà, Molly senza trattini. Al massimo Mols. Sherlock era l'unico che riusciva a pronunciare il suo nome come qualcosa di diverso, adattabile alla necessità, mai semplicemente Molly.
Prese i documenti arrivati con la salma e firmò in fondo all’ultima pagina. Si fermò un istante ad osservare il suo nome. Non sapeva per certo quando avesse iniziato a firmare così, ma doveva essere stato all’incirca due settimane dopo aver conosciuto Sherlock. Dopo aver notato che entrambi i loro cognomi iniziavano per “h”, l’eterna adolescente che aveva residenza in qualche parte del suo cervello aveva pensato che fosse semplicemente geniale iniziare a firmarsi “Molly H” - dove quell’acca nella sua testa non stava per “Hooper”, ma per “Holmes”.
Quell’adolescente va sfrattata, pensò distrattamente.

*

Molly era ancora sorpresa di come nessuno se ne fosse ancora reso conto. Che esistevano due Sherlock Holmes, s’intende.
In un brillante momento di illuminato sarcasmo Molly li aveva battezzati “Sherlock a.C.” e “Sherlock d.C.”, in omaggio soprattutto a quella vena di onnipotenza che, francamente, era una delle caratteristiche più evidenti dell’uomo in questione.
Sherlock avanti-Caduta era quello che compariva quasi sempre. Era il Sherlock che non conosceva la fine arte del comportarsi in modo “normale” con altre persone, che non sapeva quando smettere, che non capiva perché certe cose non si potevano dire e/o fare.
Sherlock dopo-Caduta compariva raramente, ma compariva. E quei momenti Molly li trasformava in ricordi da mettere al sicuro nel suo “monolocale della mente”. Era la tazza di caffè che una volta Sherlock le aveva portato. Era una mezz’ora in cui con pazienza l’aveva ascoltata parlare di suo padre. Era la volta in cui le aveva appoggiato una mano sulla spalla prima di lasciare il laboratorio.
C’erano due Sherlock o forse ce n’era uno solo. Non le importava davvero molto, in fondo. Le piacevano entrambi.

Per quanto Sherlock a.C. sapesse essere terribilmente scortese.

*

Quando si trattava di analizzare i caratteri, Sherlock leggeva le persone come libri aperti. Ma quando si trattava di cogliere le cose più semplici, quelle più ovvie, era praticamente dislessico.
Ovviamente Molly non se n’era resa conto solo quel giorno. Quella era storia antica, una delle prime cose che aveva capito di Sherlock.
Eppure quel giorno particolare, entrando nel laboratorio e trovandolo in compagnia di una donna, la cosa fu ovvia più del solito.
Quando per la prima volta vide Irene Adler dal vivo - aveva ovviamente già cercato il suo nome su Google e trovato il sito e visto le foto - il primo pensiero di Molly non fu “allora questa è Irene Adler”. Molly pensò, questa è la donna che Sherlock ha riconosciuto da nuda.
Pensava che fosse morta. Così le era stato detto. Ma immaginò che con Sherlock non si poteva essere sicuri di nulla, nemmeno della morte. E lui era il primo a darne esempio.
Molly notò che Irene Adler l’aveva guardata con un’espressione deliziata e divertita, prima di dedicare lo stesso sguardo a Sherlock. «Introducimi a questa giovane dottoressa, Sherlock.»
«Non ce n’è bisogno», replicò lui secco. «Lei non è nessuno che ti riguardi. Andiamo, abbiamo finito qui.»
Irene scosse la testa con finta esasperazione. «Questi uomini», disse a Molly con pretesa complicità.
Sherlock afferrò Irene per un braccio e la spinse fuori dal laboratorio. Non salutò Molly. Non la guardò nemmeno.
Un attimo più tardi, quando sentì le porte del laboratorio chiudersi alle sue spalle, Molly aveva ancora nelle orecchie la risata divertita di Irene.

Fu un’ora dopo che Irene Adler fece nuovamente ingresso nel laboratorio.
Non era nella natura di Molly essere scortese, quindi fu la prima a sorprendersi quando si trovò ad usare un tono di voce freddo. «Come posso aiutarla?»
Irene sorrise, composta e rilassata. «Non ho bisogno di nessun aiuto, ma grazie comunque. Ero solo curiosa.»
«Curiosa di cosa?», domandò Molly difensiva.
«Ma di te, ovviamente. Ho sempre pensato che fossi un pezzo interessante, nella scacchiera di Sherlock.» Le sorrise di nuovo. «Non ti nascondo che la prima impressione è stata ben diversa da quello che mi ero aspettata. Ma del resto il caro Sherlock è quasi sempre imprevedibile.»
Molly iniziò ad irritarsi. «Ho del lavoro da sbrigare. Quindi, se non le dispiace, dovrei chiederle di andarsene.»
Irene rise. «Ma che cosina carina che sei, Molly Hooper. Mi sono domandata perché Sherlock avesse tutta questa premura nel tenerti nascosta al resto del mondo...o quanto meno, al resto del suo mondo. Ma ora vedo. Vedo bene.»
«Non so di cosa stia parlando», rispose Molly infastidita. «Ma le posso dire due cose. Non sono una “cosina carina” e Sherlock non mi tiene nascosta al mondo, suo o di chiunque altro.»
Le labbra di Irene si piegarono in un sorriso ironico. «Oh, tesoro, io non ne sarei così sicura. Non ti sei chiesta perché non ha voluto presentarmi, prima? Probabilmente teme che ti infetti, o chissà cosa. E poi, cara, come ti spieghi che so tutto di Mrs. Hudson, del caro dottor Watson, perfino di Lestrade, ma quasi nulla di te?» Fece un gesto noncurante con la mano. «Comunque ho visto quello che volevo vedere, quindi vado e ti lascio al tuo...lavoro da sbrigare.»
Si avvicinò all’uscita, ma sulla soglia del laboratorio bloccò la porta prima che si chiudesse. «Un’ultima cosa, Molly tesoro. Non so se lo sai, ma Sherlock protegge sempre quello che gli appartiene, anche quando si tratta di pezzi minori. Anche quando si tratta di un pedone come te.»

*

Sherlock entrò nel laboratorio. Molly non disse nulla.
Sherlock dichiarò che aveva bisogno di analizzare alcuni campioni di terra e vegetazione. Molly non disse nulla.
Sherlock annunciò che lui e John avevano tra le mani un caso interessante. Molly, di nuovo, non disse nulla.
Fu a quel punto che Sherlock realizzò che c’era qualcosa di sbagliato. «Sei più silenziosa del solito, Molly. Quale sembra essere il problema?»
Lei fece passare un istante, prima di rispondere. «Nulla.»
Lui la guardò vagamente annoiato. «Non te lo chiederò una terza volta. Cosa c’è?»
«Nulla», disse di nuovo lei.
«Bene», fu la risposta secca di Sherlock.
«Bene», fu la risposta indispettita di Molly.

Un’ora più tardi John, trafelato, incontrò Sherlock in uno dei corridoi del Barts. «Qual’è il problema?», domandò con il fiato ancora corto. «Nel messaggio hai detto che era urgente.»
«E’ Molly», rispose Sherlock con un tono di voce che John riuscì a definire solamente come lamentoso.
«Le è successo qualcosa? Sta bene?»
«Sì e no. Per questo sei qui.»
John lo guardò confuso. «Come?»
«Sì, le è successo qualcosa e no, non sta bene. Ma si rifiuta di dirmelo. Anzi, si rifiuta di parlare», disse Sherlock irritato. «Si sta comportando in modo irragionevole. Ho bisogno che tu vada lì dentro e le parli. Risolvi la cosa. Non posso lavorare così, è snervante.»
John si prese un attimo per assorbire la notizia. «Le hai detto qualcosa, Sherlock? O le hai fatto qualcosa?»
«Oh, per l’amor del cielo, John!», esclamò lui arrabbiato. «Non mi sono comportato né più né meno di come mi comporto tutti i giorni! Ora vai dentro e fai qualcosa!»

Quando John uscì dal laboratorio, Sherlock capì immediatamente che la situazione non era stata risolta. Caso mai era solo peggiorata. I messaggi inviati dal corpo di John erano inequivocabili. Quanto meno lui non si chiudeva in silenzi irrazionali, preferiva di gran lunga dirgli le cose in faccia.
«Irene Adler era qui?», domandò John freddamente.
Ah, pensò Sherlock.
«Irene Adler, viva, era qui», continuò John. Gli sfuggì una breve risata sarcastica. «Perfetto. Geniale. Posso almeno sapere come ha intenzione di rovinare le nostre vite, questa volta? Dato che non hai ritenuto importante dirmi che è ancora viva.»
«Era una questione di sicurezza», rispose Sherlock pacato.
Di nuovo, John rise sarcastico. «Non dovrei più stupirmi con te, eppure continuo a farlo. E sai una cosa, Sherlock? Molly ha perfettamente ragione ad essere arrabbiata. E vuoi sapere anche qualcos’altro? Questo è un tuo problema e lo risolvi da te.»
Con stupore, Sherlock guardò allontanarsi un John molto, molto arrabbiato.
Dislessia, ecco cos’era. Dislessia comportamentale.

*

Era difficile spiegare come si fossero chiariti. O se lo avessero fatto del tutto, a dire il vero.
Il giorno in cui Sherlock si era ripresentato al laboratorio, lui e Molly erano rimasti chiusi nel rispettivo silenzio per almeno cinque minuti. Poi Molly, improvvisamente, aveva detto  qualcosa, ma l’aveva detto tutto d’un fiato ed era quindi risultato incomprensibile.
«Scusa?», aveva domandato Sherlock confuso.
«Non sono uno dei tuoi pedoni», ripeté lei più lentamente. «O una cosa carina
«Non ho mai pensato che tu lo fossi», replicò Sherlock lentamente.
«Non avevo finito», disse Molly seccata. Ignorò il nodo alla gola che la risposta di Sherlock aveva creato. «Non sono uno dei tuoi pedoni. O una cosa carina. Non ho bisogno di essere protetta o nascosta. Non sono alta e fatale e...e qualsiasi altra cosa Irene Adler può essere. Io non sono lei. Non voglio essere lei.»
Sherlock non rispose subito. In parte stava ancora analizzando le sue parole, in parte voleva essere sicuro che Molly avesse finito. «Non potresti mai essere lei, comunque.»
Dallo sguardo ferito che le comparve negli occhi, Sherlock capì che Molly aveva frainteso. O forse era lui che non era stato nuovamente capace di spiegarsi. «Quello che voglio dire», disse piano, quasi misurando le parole, incerto su quali usare e dove trovarle. «Tu sei una persona completamente diversa, Molly. Quello che fa di Irene Adler quello che é, non troverebbe mai spazio dentro di te.» Si lasciò sfuggire un tono frustrato. Sembrava incapace di arrivare dove voleva. «Irene Adler é una donna con priorità diverse. Per lei tutto è un gioco o un’opportunità da girare a suo vantaggio, o entrambe le cose. Anche un bacio verrebbe contorto e manipolato fino a trovare il modo di usarlo per qualche scopo. Tu, invece, sei all'estremo opposto. Tu non faresti mai nessuna delle cose che Irene Adler é capace di fare. Come ti ho già detto, mi fido di te. Nella tua vita, forse, ci sono troppi sentimenti, ma io non sono la persona giusta per dirti se é sbagliato oppure no. E comunque immagino che se i sentimenti sono abbandono, allora sia più saggio abbandonarsi ad essi con qualcuno che ne avrà cura. Qualcuno come te.»
Molly rimase in silenzio per qualche istante. Cercò di dire qualcosa un paio di volte, ma i pensieri sembravano essersi incastrati in qualche angolo della sua testa. «Grazie», riuscì a mormorare alla fine.
Forse non era quello che avrebbe voluto davvero dire, ma era sicura che Sherlock avrebbe capito. Capiva sempre.

*

In seguito, Molly ripensò alle parole di Sherlock spesso. Probabilmente anche troppo spesso, per il suo stesso bene.
Ma a parte questo particolare, tutto il resto era tornato a scorrere in maniera normale. Sherlock e John passavano dal laboratorio o dall’obitorio ogni qualvolta avevano bisogno. Molly continuava ad accettare appuntamenti, che spesso non andavano oltre il primo o che Sherlock trovava modo di farle cancellare. Ogni tanto lui diceva qualcosa che la feriva o la faceva arrabbiare, ma la maggior parte delle volte trovava anche il modo non tanto di farsi perdonare, ma piuttosto di far scordare a Molly l’incidente.
C’erano state altre feste, compleanni e nuovi motivi per festeggiare tutti insieme. Alcuni erano andate bene, altri meno bene.
Non c’erano stati, però, altri baci tra Molly e Sherlock.
Da qualche parte nelle teste di entrambi, la cosa era stata dovutamente chiusa, sigillata e archiviata per sempre. Punto e fine. 

O almeno fino ad un glorioso giorno di pioggia, mesi e mesi dopo.

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