Geometrie Umane

di Dernier Orage
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Geometrie Umane ***
Capitolo 2: *** What I Need ***
Capitolo 3: *** I Soldati che Restano ***
Capitolo 4: *** I'm a stranger here and no one sees me 'cept you, yeah you. ***
Capitolo 5: *** Whatever happens, I love you ***
Capitolo 6: *** Rappelle-toi (1978) ***
Capitolo 7: *** Altrove (2027) ***
Capitolo 8: *** Il tatto nell'audacia (1981) ***
Capitolo 9: *** Quanto può essere profonda una persona per recitare così tanto? ***



Capitolo 1
*** Geometrie Umane ***






Geometrie Umane





Parigi, Novembre 1987

Morgan poggia le labbra sulla spalla sinistra di Ismael, può sentire sotto la lingua l’acromion, appuntito come un ago, ricoperto da pelle liscia e fresca e chiara.
Potrebbe disegnare una mappa di punti dolorosi nel corpo del suo amato. Il processo spinoso della vertebra prominente sul collo, se gli scosta i ricci disordinati, un altro bacio. Il processo mastoideo dell’osso temporale, se gli sussurra qualcosa dietro l’orecchio, un altro bacio.
Non esiste contrasto tra la sua pelle e le lenzuola, vuole avvolgerlo e ridisegnare la mappa. Vuole soffocarlo con un cuscino.
“Passerà” pensa tranquillo, “adesso è l’ora più buia, pochi minuti e sorgerà il sole e lo amerò e proteggerò di nuovo. Non distruggerò una cosa bella.”
Ama Ismael, ama il suo corpo perfetto, la massa muscolare allungata che in certi punti sfugge portando alla luce le creste e i processi sottocutanei, il viso ovale simmetrico che nei momenti di estrema stanchezza si declina in un leggero e quasi impercettibile tic alla palpebra sinistra, i capelli di un castano freddo, spirali perfette che ricorda di aver studiato mille volte, gli occhi ardesia caldi e lontani, le labbra morbide, chiare e la piccola cicatrice color madreperla.
Ama le sue giornate di buonumore e quelle in cui è spaventato. Le volte in cui sente l’aura e lo prega di non lasciarlo solo o di andarlo a prendere a lavoro. La totalità delle sue parole, dei loro discorsi. Il suo modo di inclinare i bicchieri di cristallo o di tenere le mani in tasca o di inarcare la schiena o di gemere o la coperta e la tazza di caffè bollente lasciate di nascosto nelle mani di un senzatetto o la sua pazienza o il lasciarsi cadere sul letto.
A volte fa fatica a comprendere certe sue motivazioni, non riesce a mettersi nei suoi panni da figlio di un impiegato ministeriale e la ricca famiglia materna. A Brest di nascosto dalla genitrice sono entrati nella vecchia casa dove abitava, i pavimenti di marmo, i camini in ogni stanza, consolle dagli specchi alti tre metri e stucchi dorati, Ismael si è portato via degli album di foto, un orologio da tavolo di ottone e le gocce del lampadario da quella che fu la sua camera. La sera suo padre ha controllato le sue traduzioni dal russo e mano nella mano della nuova compagna ha annunciato che si sposeranno in primavera. Ha invitato anche Morgan, dicendogli chiaramente che nessuno farà problemi se si presenteranno come coppia. Morgan ha sorriso a disagio e Ismael ha mantenuto lo sguardo perso.

Il becco dell’olecrano gli da sempre alla testa, grazie a lui se gli stringerà e ruoterà verso l’interno l’avambraccio per poi piegarlo dietro la schiena, gli spaccherà le articolazioni del gomito. Non urlerà e non piangerà. Prenderà aria mostrando il sangue che cola dal labbro che si è morso.











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Capitolo 2
*** What I Need ***






What I Need






Brest, Settembre 1999

Vederlo giù in strada era tremendo. La valigia lasciata sul marciapiede, sotto il lampione. Gli occhi ormai neri fissi sulla sua finestra, nessuna espressione. Immobile, camicia e pantaloni, la tempra corrotta dal tempo e dal peso delle aspettative. No, non riusciva a non correre da lui.
Poteva essere il gioco della seduzione o quello del bisogno. Stephane cercava le sue labbra con malcelata disperazione e senso di mancanza nel petto, non poteva accettare una nuova separazione dall’uomo, no, dalla persona che al mondo amava di più. Lo amava come se fosse stato la metà bella del suo organismo e della sua anima, lo amava come padre figlio gemello amico contemporaneamente. Qualcosa di strappato alla sua essenza. Il suo riparo e la sua ispirazione. L’unica persona al mondo da ventinove anni.
Lo aveva deluso col tradimento ma gli aveva dimostrato che non provava la stessa intensità di sentimenti, nei suoi occhi traditori aveva letto la condanna all’accettazione e all’assopimento, il fuoco si stava spegnendo poiché non attizzato.
- Hai portato l’adulterio nel nostro Shangri-La .- Il dolore era insostenibile perché aveva conosciuto il paradiso. Ismael non rispose ma salì in auto, aveva delle ombre violacee sotto gli occhi, lo sguardo cupo e perso nel vuoto.
Stephane guidò per minuti che parvero ore, in silenzio, illuminati ad intervalli regolari dai lampioni, fino al una costruzione diroccata in periferia. La porta aveva un lucchetto di qualche anno, era visibile che non era stato aperto ultimamente, passarono da una finestra sul retro, sollevando dai cardini uno scuro.
Ismael si guardava intorno nel buio, Stephane accese due candele con un fiammifero. Non era cambiato niente in quasi vent’anni. L’impiantito di legno, le cataste di pacchi e di stampe, la struttura della monotype derubata da gran parte degli ingranaggi.
Nascosto in uno scaffale angolare c’era un vecchio telegrafo a fili di ottone, lo scrittore lo sfiorò con la punta delle dita.
- Avevo imparato a battere i nostri nomi, lo facevo sempre, tu non capivi. TiTi TiTiTi TaTa TiTa Ti TiTaTiTi / TiTiTi Ta Ti TiTaTaTi TiTiTiTi TiTa TaTi Ti – Sussurrò con un sorriso amaro. Non scorse negli occhi dell’amato traditore una risposta o un barlume. Nella stanza attigua accese altre cinque candele e una sigaretta, la poggiò sulle labbra di Ismael accarezzandole leggermente.- Io non gioco più. Ho una famiglia e nei miei piani ne fai parte anche tu. Prendere o lasciare.-
Ismael inspirò profondamente, i tratti del viso si accigliarono per qualche millesimo di secondo. Tenendo in bilico la sigaretta accolse l’indice e il medio della mano destra di Stephane in bocca, gli occhi liquidi e fissi sulle sue labbra.











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Capitolo 3
*** I Soldati che Restano ***






I Soldati che Restano





A Kiki (Chiara, freakOUT, niko_andglam)     



Parigi, Novembre 2037

- Non ricordo neanche che fiori gli piacessero…- Marc sente la camicia incollata al torso e ai fianchi per il caldo del camino e del whiskey che sta bevendo.- Forse il profumo dei gelsomini.-
- Giusto. Però visivamente amava i papaveri. Non lo avrebbe mai ammesso.- Stephane fa ruotare in senso antiorario il liquido ambrato nel bicchiere di cristallo.
- Diceva che i fiori gli ricordavano i camposanti. Tu gli porti mai dei fiori?- Sa già la risposta, è no. Sono passati già dieci anni, non sa quanto potranno ancora resistere. Guarda Stephane e vede i capillari rotti del naso e degli zigomi, le macchie violacee sotto gli occhi e gli occhiali da vecchio. Le mani tremano e deve schiarire spesso la voce per non farla risultare rauca. - I nipotini come stanno?-
- Ferenc viene ogni due giorni a suonare per me il piano. Lea non la vedo quasi mai.- Risponde senza particolari inflessioni.
- Mi dispiace…- Marc non ha avuto figli e neanche nipoti, però sa che Stephane non è mai stato così solo e lo sta distruggendo.
- No tranquillo, a me dispiace per Ferenc che spreca i suoi pomeriggi con un vecchio invece che uscire con degli amici o un ragazzo o una ragazza… quando suona guarda sempre quella sua foto.- Stephane la indica con la mano, poi riporta subito l’avambraccio vicino al petto e ricomincia ad inspirare dalla sigaretta.
Scrive ancora. Ogni tanto c’è una nuova ondata di lettori sempre più giovani e sempre più gente alle presentazioni dei libri. Si fa sempre accompagnare dalla figlia Michelle quando lo invitano a parlare nelle università. Ma il suo sguardo chiede solo “quanto manca, quando potrò stare di nuovo con lui, quando potrò andarmene da questa casa”, e questa volta Marc capisce che manca sempre meno, presto saranno di nuovo insieme in quel paradiso impossibile creato apposta perché la vita non può essere soltanto questo, e lui rimarrà fuori, come aveva promesso fin dall’inizio. Un rapporto aperto, poliamore lo chiamarono negli anni ’90.
- Marc?- Sussurra Stephane ricercando la sua attenzione.
- Dimmi caro.- Riporta lo sguardo sui suoi movimenti, a volte non riesce a guardarlo negli occhi. Vede solo i gesti pesanti e i bottoni allacciati male, le dita macchiate e la casa che cade a pezzi.
- Sono contento di non essere l’unico a sentire la sua mancanza.- Stephane sta sorridendo.









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Capitolo 4
*** I'm a stranger here and no one sees me 'cept you, yeah you. ***






I'm a stranger here and no one sees me 'cept you, yeah you.






Parigi, Marzo 1997

E’ passata una settimana e possono quasi affermare che la separazione non ci sia mai stata, sono riusciti a ricostruire la storia della loro vita, gli spostamenti, le vacanze e le conoscenze. Si sono rincorsi attraverso due paesi stranieri, le stesse reazioni alle notizie dei giornali, la stessa intensità di emozioni in avvenimenti definibili surrogati, quella ricerca nel volto degli sconosciuti e la lieve tensione nel petto, due esistenze parallele che forse cercano la spiegazione nel fato o nella ciclicità della storia. La stessa volontà utilizzata nel passato per non ritrovarsi ora è infinita nel voler appartenersi. Non resisteranno ancora a quei baci leggeri dati quasi per stupire che per essere ricambiati o agli abbracci nervosi che prendono alla sprovvista.
Una sera si ritrovano in salotto, sul tappeto, con due bicchieri di kirsch e le mani che temporeggiano sull’abbandonarsi, gli occhi che studiano i gesti, i respiri che piano piano si mischiano e sincronizzano, il tepore della vicinanza, il profumo di tabacco e delle arance lasciate sul camino, la ruvidezza del tappeto afgano.
Fare l’amore sarà dapprima una schermaglia indistinta dei sessi attraverso i vestiti, sarà come essere tornati a casa dopo una lunghissima vacanza e il leggero timore di non ambientarsi più, la paura di non essere all’altezza, di rovinare tutto con una parola o un gesto negato.
Sono inginocchiati uno davanti all’altro, dalla camicia di Ismael scivola sul parquet il pacchetto di Embassy, il rumore dell’accendino e delle sigarette all’interno viene soffocato poco dopo dalla maglietta di Stephane, le mani sugli addominali contratti nella torsione, accarezzano la peluria scura che dall’ombelico porta al bordo dei pantaloni, un leggero sfiorare alla sporgenza della cresta iliaca sui fianchi.
Ismael riconosce il suo corpo seguendo il solco della schiena con i polpastrelli, le palpebre abbassate fremono e l’ombra delle ciglia è tremolante sugli zigomi, il respiro affannoso sul collo di Stephane, non riesce a frenarsi dal baciargli e mordergli il mento e la mandibola e poi le labbra quando lo scrittore si decide ad abbassare i pantaloni e i boxer.

I suoni ovattati e quasi in una dimensione mentale, rimarrà forse come sogno o come desiderio, i colori caldi della luce soffusa e ottenebrati dall’acquavite. Quando l’orgasmo esploderà Ismael terrà i palmi aperti sulle scapole di Stephane, a bloccarne le ali.








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Capitolo 5
*** Whatever happens, I love you ***






Whatever happens, I love you





Saint-Denis, Luglio 1990

- Neanche per questo vale la pena vivere?-
E’ proprio una bella giornata: per combattere l’afa del luglio parigino Marc ha portato Ismael al nord, in riva ad un lago. Hanno steso dei lenzuoli sull’erba, all’ombra dei platani. La luce dorata filtra attraverso le foglie, l’acqua non è limpida, appena ti immergi si solleva il fondale terroso e se non ti risciacqui subito alla fontanella rimani polveroso per tutto il pomeriggio. La banchina di legno è pericolante e delle corde coprono gli spazi lasciati dalle tavole mancanti. Come puntini piccoli nello spazio riescono a vedere altri tre gruppi di persone dall’altra parte del lago, dei bambini che giocano in acqua e dei vecchi.
- Una giornata in tua compagnia?- Ismael sembra così inappropriato, troppo bianco con il costume blu, le lunghe gambe piegate, le palpebre abbassate pesantemente e il sorriso leggero.- Sì, assolutamente sì.-
Marc si sente orgoglioso e pensa al sottile piacere che prova nel prendersi cura di lui. Lo conosce da cinque anni e lo ha amato a modo suo fin dal primo sguardo, nei dopocena nel circolo anarchico, un ragazzo giovanissimo che bevendo Calvados correggeva le corrispondenze con i gruppi italiani e spagnoli o traduceva ciclostilati sovietici e la sua presenza sfocava quella degli altri, li rendeva uno sfondo uniforme in tinte brune. Ismael odiava tutto, odiava la sua educazione classica e borghese, il piano, la scherma e la canne de combat, l’equitazione, stupidi vizi da pseudo aristocratici. L’ipocrisia di sua madre e la strana indifferenza che deformava l’immagine amorevole di suo padre.
La prima volta che è riuscito a parlargli è stato perché Ismael aveva la febbre ed era rimasto a casa, Marc non vedendolo seduto nel suo angolo aveva chiesto spiegazioni, quasi fosse stato per fargli uno scherzo, privarlo della vista di quel viso per due o tre ore, Morgan gli aveva lanciato le chiavi di casa e detto l’indirizzo, aggiungendo poi di riferirgli che sarebbe rimasto a dormire nella sua stanza, in un appartamento che condivideva con altri cinque studenti. Marc lasciò perdere la riunione, in sella alla moto arrivò fino sotto al suo portone, ripetendosi tra le labbra l’indirizzo come se fosse stato possibile dimenticarlo: 9 rue Deparcieux.
Ricordava ancora perfettamente i battiti accelerati, la gola secca e i colpi di tosse via via che saliva le scale fino all’ultimo piano. Il cigolio della serratura e dei cardini. Il profumo speziato e basso come un suono grave che proveniva dall’interno della casa. Con i polpastrelli accarezzò il montgomery blu notte appeso all'attaccapanni all’ingresso, appoggiato al muro c’era un ombrello di pesante tela cerata e il manico in legno. La luce soffusa proveniva da una porta alla fine del corridoio, si trattava di un’ampia sala con due poltrone, un divano, un piano verticale e il fuoco quasi spento nel camino. Ismael era seduto su una poltrona, avvolto in una coperta. Rimase con lui tutta la notte, curandolo e tenendogli compagnia. Preparandogli una spremuta e mescolandola con la camomilla. Cercando delle coperte da mettergli sopra o tamponandogli i polsi e la fronte con delle pezze bagnate. Avevano parlato un poco di musica classica, si era fatto promettere qualche pezzo della Sinfonia n.1 di Mahler al piano, dopo aver scoperto che era il preferito di entrambi, appena Ismael si fosse sentito meglio.
Il primo vero appuntamento fu in un bistrot vicino a Place Vendôme, allungato con una passeggiata sulla ghiaia dei giardini delle Tuileries. Ismael indossava una camicia bianca, un pullover blu e un cache-col, il collo bianco e sottile reclamava baci nascosto dalla seta bordeaux. Era bellissimo circondato dal fumo azzurrino nell’aria chiara di fine febbraio. Marc glielo disse che era bello come un attore e gli faceva un’impressione pazzesca, prendendogli una mano tra le sue e facendogli sentire l’effetto al cavallo dei pantaloni.

Nel frattempo Marc è diventato un medico, ha preso la specializzazione in pneumologie, come il padre, ha avuto qualche relazione importante, altre meno, si è sempre diviso tra varie storie, non ha mai tradito nessuno. E’stato vicino a Ismael quando Morgan si è ucciso, l’anno prima. Non lo ha mai abbandonato e scontrarsi con i suoi problemi e i suoi complessi di inadeguatezza attuali lo indispone. Hanno fatto l’amore e l’hanno chiamato fare sesso, hanno vissuto sotto lo stesso tetto per poco, certe volte sono pure riusciti ad andare in vacanza assieme oppure passavano settimane prima che l’uno o l’altro avesse bisogno di compagnia.
Rispecchia perfettamente la concezione di amore di Marc.





And when they've all said their piece
It's still you I love
NOW JUST LIKE THEN








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Capitolo 6
*** Rappelle-toi (1978) ***








Rappelle-toi. Toi que je ne connaissais pas. Toi qui ne me connaissais pas*






Brest, Maggio 1978

La sua prima malattia seria fu il tarlo dell’amore. Lo sconvolse, insinuandosi prima sotto le pieghe dell’endocardio e poi contaminarlo, attraverso le vene e i nervi, nel resto del corpo. Ogni tessuto, ogni organo, ogni vena e arteria. Depositato sui tessuti ossei venne assorbito fino al midollo.
L’ultimo fu il cervello, che reagì violentemente come punto da una spina. Negò tutto, cercando di spingerla fuori, schiacciando dapprima i bordi dell’amicizia quasi fraterna, poi quelli delle letture impegnative che si imponeva di affrontare, poi della sensibilità artistica, infine della fase preadolescenziale e i suoi cambiamenti ormonali; inutile dire che non ci riuscì.
Provò ad allontanarsi in modo discreto, quasi con un calcolo matematico decise quante ore al giorno concedersi insieme oltre a quelle scolastiche, per poi scoprire che i pomeriggi passati nel campo da calcio vicino ai magazzini del porto, con dei compagni di classe di cui conosceva a malapena il nome e il cognome e sicuramente non sarebbe riuscito a distinguerli controluce – con lui accadeva invece – non erano altro che la lenta agonia del sentire lo stomaco contorcersi in spire sempre più strette.
Aveva invitato una ragazza a bere qualcosa in un cafè di rue de Siam, era stato piacevole, lei arrossiva e chinava la testa, lasciava i lunghi capelli a nasconderle i lineamenti, indossava una camicetta smeraldo dai bottoncini dorati, era carina; poggiava distratta le labbra rosse sul vetro blu del bicchiere di succo di frutta, rideva leggera con la mano davanti alla bocca, aveva provato a parlarle di musica ma lei sembrò non capire, le aveva chiesto cosa le piaceva, lei aveva risposto questo pomeriggio, questo momento mi piace.
L’aveva guardata intensamente, poi aveva distolto lo sguardo e vagato sul bancone di legno e poi in fondo alla sala, dagli ultimi tavolini, divisi dai separé di vetro smerigliato, offuscati dalle volute di fumo.
E vide quella mano, bianca, ossuta, le nocche arrossate e ruvide, posata su dei lunghi boccoli biondi. L’aveva riconosciuta nel fremito, nello stringere tra le dita quei capelli che parevano morbidissimi, nell’avvicinare i visi per il bacio.
Si era alzato, non si era voltato indietro.
Nell’aria calda aveva strascicato qualche passo.

Dall’altra parte della strada c’era la sua bicicletta verde bottiglia.







* Jacques Prévert - Barbara

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Capitolo 7
*** Altrove (2027) ***








Altrove







Parigi, Novembre 2027

Così tanta gente non se l’aspettava in quella fredda mattinata di Novembre, un giovedì di nebbia densa e impenetrabile tra i viali alberati e le statue degli angeli. La lenta processione fino a raggiungere il lieve slargo tra le lapidi, conoscenti, amici, anime, persone di una vita, del passato lontano e di quello condiviso, dello ieri e nella speranza anche di un domani. Riflessi neri sui volti lividi, irriconoscibili attraverso le lacrime, dei presenti. Il barattolino bianco nella tasca del giaccone pesante dove Stephane cerca rifugio, avvolto in una sciarpa di lana nera come ulteriore difesa.
Rimane mentre la folla indistinta si mescola ad altre persone, altri attimi, tornano alla loro vita. Michelle lo abbraccia, cerca conforto sotto la sua ala, è così debole e sperduta, Stephane la bacia tra i capelli e la libera come una piuma, cercando qualche momento di solitudine.

Ismael Chalm 1964 – 2027


Dei fiori in ferro battuto, dei pezzi di puzzle, figurine, pendagli e collanine decorano il bianco giaciglio di una bambina. Stephane nota i colori intensi e vividi sopra quelli sbiaditi, quasi cancellature.
Gocce di pioggia. Un pennello bagnato che ripassa sopra gli acquarelli, più e più volte.
Singhiozzi trepidi. Le corde del cuore vibrate con lentezza estrema.
Tra le tante idee che gli affollano la testa il panico al pensiero di non riuscire a ritrovare il settore e il viale al ritorno al cimitero, oppure di non riuscire ad uscirne più. Un labirinto geometrico, a pianta romana.
Sorprendente come l’ossigeno si sia rarefatto, come la quiete si sia trasformata in ansia. Come il tempo sia diventato non attendibile, pleonastico e superfluo. Ore minuti secondi.
Incontrollabile.

Marc lo affianca, gli passa un braccio attorno alla schiena, lo stringe e lo sorregge. Non parla, il moto delle nuvole di vapore del respiro infranto contro l’aria gelida è continuo, lieve e lento.
- Non sono malato.- Mormora Stephane, lo sguardo stupito che vaga tra le foglie arancioni e segue il volo di un merlo. La nebbia è incastrata tra fronde più alte, come un soffitto ad un’immensa chiesa. Lontano, in fondo al viale vede le figlie, il passeggino con Lea, Ferenc che cerca di divincolarsi dalla stretta del padre e gli tende le manine.- Quasi li odio. Io qui non vivo, è prolungare la mia agonia. Devo raggiungere Mael e loro non me lo perdoneranno. Devo rimanere per loro e lasciare Mael. Non sono malato.-
- Ferenc e Lea sono ancora piccoli; Ismael li amava e avrebbe voluto che ci fossi tu con loro.- Marc lo sostiene, resistente e distrutto, un soldato al ritorno dalla sua guerra.
Sparsi al sole come pedine nell’arteria principale della necropoli, i familiari aspettano. I capelli argentati di Neven brillano sotto i raggi freddi, il cappello torturato tra le mani e le dita macchiate del discorso che si era scritto e non è riuscito a leggere.
Varca l’entrata della sua torre del silenzio e prevede i brandelli di pelle come vessilli.
Ferenc gli corre incontro e lo circonda con le braccia sottili, sorride cercando di infondere e ricevere del calore, guardandolo con le gemme grigie dei suoi occhi e Stephane, udendo come un tuono l’infrangersi di un sospiro tra i denti, spera che quel colore non cambi mai.








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Capitolo 8
*** Il tatto nell'audacia (1981) ***









Novembre 1981.
Ismael in quel tardo pomeriggio di fine Novembre, il cielo scuro e nuvoloso, si ritrovò a chiudere i libri di scuola e i quaderni ed a rileggere per la millesima volta uno degli articoli nella bacheca di sughero dietro la scrivania.
6 Ottobre 1976 – bomba su un aereo della Cubana de Aviacion, 73 morti tra i quali l'intera squadra giovanile di scherma cubana.
Lo ricordava bene per la fugacità della notizia, insabbiata pragmaticamente dai telegiornali e riassunta in un misero trafiletto in un’unica edizione di un giornale, per l’aver considerato i giovani come colleghi e aver immaginato un duello e soprattutto l’attesa di un duello, in un palazzetto dello sport anonimo, tra gli spalti e le bottiglie di vetro dei succhi di frutta, i borsoni dei vestiti e mille lingue diverse. Spagnolo, russo, francese, italiano, inglese, tedesco, portoghese, ungherese.
Altri ritagli verbosi di giornali autogestiti d’ispirazione marxista sul crollo della dittatura dei Somoza, sottolineati con foga e stropicciati. Ormai li conosceva a memoria, come il drappeggio della bandiera rossa e nera del Frente Sandinista de Liberación Nacional, le ombre, le onde impolverate e l’alone sbiadito. Il parquet graffiato sotto la sedia, il volume preciso del mangianastri per coprire il cigolio del letto quando facevano l’amore, l’odore di legno e stoffe ruvide, raramente di incenso. Gli stati di calma indotti, il sonno languido.
Suo padre sceso dal taxi, comparso davanti alla porta di casa. Ismael titubante aveva provato a porgergli la mano destra, erano tre anni che non lo vedeva.
Jean Jacques l’aveva stretta e se lo era tirato contro per abbracciarlo.
- Sei cresciuto, ti sei tagliato i capelli… come stai Mael?- Gli aveva chiesto tra i capelli, riempiendogli i vestiti dell’odore dei sigari, della pipa e quello chimico dei solventi per l’inchiostro.
- Sto bene.- Ismael rimase immobile nell’abbraccio. Non coinvolgendosi, non fremendo per scappare. Non era soffocante, era sconosciuto.
- Sono stato a Johannesburg questi mesi.- Mormorò a mo’ di scusa Jean Jacques, richiamando un linguaggio familiare, un gioco del passato.
Johannesburg era il luogo segreto, inviolabile. Non era una bugia, era una scusa.
- Non me lo puoi dire?- Chiese conferma Ismael, guardandolo severo.
- Non posso.- Confermò il padre allargando le braccia in segno di resa.
- Sono stati anni, non mesi.- Lo accusò Ismael, temendo di pentirsene dopo poco, ma non avvenne. Il fratellino di Ismael comparve dal corridoio e vide il padre, gli corse incontro, abbracciandolo.
- Papà! Sei tornato!- Esclamò Neven, felice di poter vantarsi il giorno dopo con i compagni di classe del ritorno del padre, quel padre moderno, non violento e non padrone, quasi amico e spesso assente. Era come se non fosse mai cresciuto, come se Neven fosse rimasto un bambino libero di fare i capricci, di ricevere doni, battute, in cambio dei lunghi periodi di lavoro all’estero.
Jean Jacques da sopra la testa del figlio minore seguì le espressioni nel viso di Ismael, lo sguardo deluso e carico di recriminazioni.
Un rapporto scucito.

Toc toc.
- E’ aperto.- Urlò Ismael non curandosi dell’ora tarda.
- Ciao, cosa leggi?- Accennò il padre muovendo qualche passo nella camera da letto del figlio, tra la polvere sulle bandiere e sulle medaglie dei campionati regionali di scherma. Ismael chiuse con uno schiocco un libro e gli allungò una pila di due volumi. Jean Jacques si rigirò tra le mani la copertina bianca e gialla di Nuit Glacée di Ba Jin e quella di cartoncino beige di Les Enfants Terribles di Jean Cocteau, distrutti anni prima dalla furia del parrocchetto alessandrino di suo suocero.- Li hai portati in legatoria?-
- Ho fatto da me.- Mormorò Ismael appoggiando i gomiti sul materasso e lasciandosi sprofondare tra le coperte.
- Sei bravo.- Si complimentò il padre, chiedendosi quali materiali avesse utilizzato il figlio per rilegare quei libri, notando degli aloni pallidi dove il solvente aveva cancellato le macchie rugginose lasciate dal filo, i bordi delle costole completamente ricostruiti. Un lavoro accurato.
- Non devi dirlo per forza.- Brontolò Ismael abbassando le palpebre.- Piuttosto, per il réveillon de la Saint-Sylvestre posso andare alla casa di campagna con degli amici?-
- Stephane?- Domandò Jean Jacques posando i libri sulla scrivania e sollevando dei ritagli di giornale per leggere quelli sotto.- Charlotte? E’ ancora la tua fidanzatina?-
- Sì, lo è. Verranno entrambi e anche Maurice. E no, non disturberemo la vicina, non utilizzeremo il trattore, non andremo sul lago ghiacciato, non metterò incinta Charlotte.- Rispose Ismael infastidito, rimanendo immobile sul letto.
- Andate pure. Mi fido.- Acconsentì leggermente il padre.
- Solo perché ti senti in colpa, papà.- Sentenziò Ismael per avere l’ultima parola e rigirare idealmente il coltello, lentamente, in un movimento asciutto e pieno d’attrito.



Il tatto nell'audacia, è sapere fino a che punto ci si può spingere troppo avanti.
(Jean Cocteau)










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Capitolo 9
*** Quanto può essere profonda una persona per recitare così tanto? ***









Dicembre 1982.
Dominic gli rivolge uno dei suoi sguardi luminosi e gli chiede:- Dunque, Ismael, hai la ragazza?-
Il lungo tavolo nella sala da pranzo è apparecchiato con classe. Cena di fine anno dell'ufficio di Jean Jacques Chalm, l'unica regola è non parlare di lavoro.
- Charlie.- Risposta affermativa, un nome. Undici paia di occhi puntati addosso. Perché? Una provocazione, una piccola provocazione. Charlie o Charlotte. Stephane o una ragazza qualsiasi. Una bugia che si porta dietro da anni, senza motivo, forse, la paura, soprattutto, la mancanza di voglia di dare spiegazioni, anche. Ismael guarda il fratello strozzarsi con lo champagne, vede Dominic scuotere la testa con il sorriso congelato in viso.
- Charlotte!- Esclama suo padre ridendo e battendo il polso sul tavolo ritmicamente.- E’ la nipote del giudice Debon, una brava ragazza.-
Gli invitati capiscono e cercando di sembrare meno stupidi seguono il padrone di casa nelle risate.

Dominic Faure ha il passo veloce e la presa sicura sui due bicchieri di whiskey. Raggiunge Ismael nel salotto, davanti alla finestra. Gli porge un bicchiere e fa scivolare le dita nei pantaloni a prendere l’accendino, una fiammella incendia la sigaretta di Ismael.
Differenza d’età? Quindici, no. Vent’anni, circa.
Ismael non lo ascolta, beve e gli allunga il bicchiere vuoto, sprezzo, gli sfila dalle dita l’altro bicchiere, butta giù. Sente addosso il suo sguardo lucente, l’insofferenza e la leggera voglia di mordergli le labbra fino a farle sanguinare. Odio. Quanto può essere profonda una persona per recitare così tanto?
Dominic parla di religione, di abitudini non rispettate, di educazione non ricevuta.
Di religione, soprattutto.
- Sono circonciso, se è questo che ti interessa.- Soffia Ismael con la fronte corrucciata, il sorriso tirato e innaturale quando i bicchieri si infrangono sul marmo lucido del pavimento.






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