Un caso molto personale di Alexandra_ph (/viewuser.php?uid=165023)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
UN CASO MOLTO
PERSONALE
Capitolo 1
Odiava quel
luogo. Odiava quell’attesa.
L’odore del
disinfettante impregnava
l’aria e non riusciva più a sopportare di non avere ancora notizie. I
medici
erano tutti scomparsi e con loro anche le infermiere.
Si alzò per
l’ennesima volta, poi si
risedette. Appoggiò la schiena, per cercare di distendere le gambe, ma
immediatamente cambiò idea: si rimise seduto e si prese la testa tra le
mani.
Da quanto tempo
era lì, ormai?
Probabilmente
non era passata neppure
mezz’ora. Ma a lui sembrava d’esser lì da giorni.
Una porta si
aprì alle sue spalle.
Sentendone il rumore, si voltò di scatto e guardò il volto del dottore
che vide
dietro di sé. Cercò di capire dall’espressione; si trattava, però, di
un
professionista, abituato a gestire certe situazioni. Tuttavia, quando
lo vide
distogliere per un attimo lo sguardo, capì che le notizie non sarebbero
state
buone.
Perché? Oh,
Signore, perché? No… non
un’altra volta…
Sentì gli occhi
inumidirsi di lacrime e
cercò di scacciarle con un rapido gesto: non era ancora il momento di
lasciarsi
andare al dolore. E poi non era ancora certo che… Eppure quello che
leggeva sul
volto del medico, non poteva lasciare dubbi.
Abbassò
la mano che era risalita agli occhi e
la vide ancora macchiata di sangue. Del loro sangue. Non resistette
più: doveva
sapere.
“Dottore…” la
sua voce, di solito molto
decisa, fu appena un sussurro.
“Mi spiace,
capitano…”
Aveva già
capito, ma non disse nulla.
Voleva sentire tutto quanto dalle parole del medico.
“Non siamo
riusciti a salvarle. Mi
spiace.” Il dottor Bellamy guardò quell’uomo provato dal dolore e pensò
che per
ogni buona notizia che dava, almeno il doppio, purtroppo, erano
cattive. E col
tempo non riusciva più a sopportare questo rapporto.
Una donna e una
bambina… Non erano riusciti a salvare nessuna
delle due. Né la madre, né la figlia.
“Sono… sono
morte entrambe?”
“Si. Prima la
madre, poi anche la piccola.”
Ecco: ora era
finita. Ora
quell’interminabile attesa era finita. Ora avrebbe potuto lasciare quel
luogo
che tanto odiava.
Avrebbe potuto
andarsene… Solo.
Sentì che non
sarebbe più riuscito a
resistere neppure per un minuto: guardò ancora una volta il medico e
poi
s’incamminò lentamente verso l’ascensore.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
La porta si aprì
e per poco non si
scontrò con due persone, un uomo e una donna.
“Harm.”
Sentì la voce
della donna pronunciare
il suo nome e gli sembrò un suono familiare. Cercò di portare
l’attenzione sul
volto della signora e realizzò che si trattava di sua madre.
“Mamma…”
“Harm. Come
stanno?” chiese Trish
Burnett.
Scosse il capo,
ma non riuscì a
ripetere quella parola: morte.
Vide sua madre
portarsi una mano alla
bocca, nel vano tentativo di soffocare un singhiozzo; il suo patrigno
le
circondò le spalle e la donna si rifugiò in quell’abbraccio.
Harm sentì una
mano di Frank anche
sulla sua spalla, ma non riuscì a fare come lei. Proseguì all’interno
dell’ascensore,
si voltò a guardarli per un secondo e poi, lentamente, premette il
tasto che lo
avrebbe portato a terra. Mentre le porte si chiudevano, sentì ancora
sua madre
chiamarlo, ma ormai era tardi: l’ascensore stava scendendo.
Trish rimase
immobile, a guardare le
porte chiuse di fronte a lei col cuore spezzato. Possibile che quel
figlio,
tanto dolce, tanto forte e tanto coraggioso, dovesse essere sempre
messo alla
prova così duramente dalla vita?
“Oh, Frank! Hai
visto il suo sguardo?”
chiese al marito.
“Si. L’ho visto.”
“Come farà a
sopportare anche questo
dolore? Ha solo trentotto anni, eppure… quante morti ci sono già state,
finora,
nella sua vita?”
“E’ un ragazzo
forte. Vedrai, riuscirà
a superare anche questa!”
“Si… ma la
bambina… è morta anche la bambina...”
“Lo so, cara. Lo
so.”
Frank Burnett
sospirò e si guardò
attorno, alla ricerca di una sedia per far sedere Trish.
“Siediti, cara.
Vieni qui. Vado a
cercarti dell’acqua” le disse, indicando un divanetto accanto ad una
finestra.
Quindi s’incamminò verso il banco delle infermiere.
Povera Trish!
Era sempre in pena, in un
modo o nell’altro, per Harm. E lui di conseguenza. Lo aveva sempre
considerato
come il figlio tanto desiderato e, purtroppo, mai avuto. Anche se era
figlio
del primo marito di Trish, il tenente della marina Harmon Rabb sr.,
disperso in
missione durante la guerra del Vietnam, la vigilia di Natale del 1969.
Harm era la
copia esatta del padre, sia
come aspetto fisico, sia per mille altre cose. E in ciò che non gli
assomigliava per natura, aveva fatto il possibile per assomigliare:
seguendo le
orme del genitore, anche Harm era pilota d’aerei militari, e come il
padre
aveva fama d’essere molto abile e coraggioso.
Già decorato ben due volte, la sua carriera come pilota di
F-14 era
stata stroncata da un difetto di visione notturna. Harm aveva
frequentato,
allora, la scuola di legge e da anni era un brillante e capace avvocato
della
Procura Militare.
Quando
Harm aveva intrapreso la professione
legale, Trish aveva tirato un sospiro di sollievo: non aveva mai
impedito al
figlio di diventare pilota come il padre, ma lei stessa aveva ammesso
che, ogni
volta che lo sapeva in missione, riviveva la stessa paura e angoscia
vissute
più di trent’anni prima col marito. Tuttavia, a quanto sembrava, anche
la vita
come avvocato non era esente da morte e dolore, per Harm.
Eppure, solo
pochi giorni prima era
talmente felice…
Alla fine
d’ottobre dell’anno
precedente, pochi giorni dopo aver compiuto trentott’anni, si era
finalmente
sposato con Mac, il colonnello Sarah MacKenzie, sua collega e amica,
della
quale era stato sempre innamorato, ma che aveva rischiato di veder
sposata con
un altro a causa della sua cocciutaggine.
Quando erano
venuti a conoscenza della
notizia, Trish era al settimo cielo! Le piaceva molto Mac ed era
felicissima
all’idea d’averla come nuora. Riteneva che, tra tutte le donne che il
suo bel
figlio avesse avuto, lei fosse certamente la più adatta ad un tipo come
lui. La
gioia alla notizia del matrimonio era stata ancora più completa, quando
era
stato comunicato loro che i futuri sposi sarebbero presto diventati
genitori.
Lui e Trish
erano venuti a Washington
per il matrimonio alla fine di ottobre e poi, dopo una lunga vacanza in
Sud
America, erano tornati proprio per star vicino ad Harm e Mac per la
nascita del
bambino.
E ora questo…
“Desidera,
signore?” Una voce femminile
lo distolse dai suoi pensieri.
“Dove potrei
trovare un bicchiere
d’acqua per mia moglie?”
“Aspetti, glielo
porto io” rispose
l’infermiera, prima d’allontanarsi.
Frank attese il
ritorno della giovane
donna in silenzio; poi, dopo aver preso il bicchiere che lei
gentilmente gli
porgeva, raggiunse sua moglie per starle vicino.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
Entrò
nell’appartamento vuoto. Si
guardò intorno, ma gli oggetti familiari non gli trasmettevano, quel
giorno, le
stesse sensazioni. Forse domani sarebbe andata meglio.
Si avvicinò al
telefono, sollevò la
cornetta e compose un numero: cominciava a ricordarselo a memoria. A
volte lo
aveva composto solo per fare due chiacchiere; altre, purtroppo, perché
ne aveva
bisogno. Questa volta era una di quelle.
Il telefono
squillò per qualche
secondo; poi la voce all’altro capo gli rispose.
“Parla Harmon
Rabb. Salve, capitano. Ho
bisogno del suo aiuto, ancora una volta.”
Attese la
risposta in silenzio. Quindi
annuì a qualcosa che l’interlocutore stava dicendo. Infine concluse:
“Ci
vediamo domattina, allora, alle undici. Sarò lì ad aspettarla” e chiuse
la
comunicazione.
Si sentiva a
pezzi.
Lentamente si
sbottonò la giacca della
divisa. Con un gesto automatico fece per togliersi il berretto, ma si
rese
conto che non lo aveva più. Non importava… Nulla sembrava importare.
Tolse la giacca,
si levò cravatta e
camicia e gettò tutto su una sedia. Si sedette per slacciarsi le
scarpe. Poi si
alzò, sbottonò i pantaloni e li fece scivolare a terra.
Non provava
nulla, in quel momento. Si
sentiva come un automa.
Scalciò da un
lato le scarpe e si tolse
anche le calze, restando in boxer. Quindi notò la solita coperta
ripiegata e
decise di non fare neppure lo sforzo di andare a letto. La prese, si
abbandonò
sul divano, gettandosela addosso, e chiuse gli occhi, sperando di
riuscire a
dormire.
Per dimenticare…
almeno per un po’.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
Il dottor
Bellamy si guardò attorno,
cercando un’infermiera. Vide solo una coppia di mezza età seduta su un
divanetto, accanto alla finestra. Si avvicinò e chiese loro:
“Scusate. Avete
visto un ufficiale
della Marina?”
La donna sollevò
lo sguardo e il medico
notò che aveva gli occhi lucidi.
“Harm? Sta
cercando Harmon Rabb?”
chiese.
“Si. Sto
cercando il capitano Rabb. Lo
conosce?”
“E’ mio figlio”
“Suo figlio? E sa dov’è, ora?”
“Se n’è andato”,
rispose la donna,
facendo un cenno in direzione dell’ascensore.
“Capisco…” disse
il dottore.
“Perché lo
cerca?” chiese quello che
doveva essere il padre del capitano.
“Cerco suo
figlio perché volevo
comunicargli che i corpi sono stati composti nell’obitorio, al momento,
nell’attesa d’altre disposizioni.”
“Non so dove sia
ora… d’accordo
dottore, glielo diremo noi.”
“Grazie, signor
Rabb.”
“Burnett.”
“Prego?”
“Sono Frank
Burnett, il patrigno del
capitano Rabb.”
“Mi scusi…
Grazie, signor Burnett” e il
medico fece per allontanarsi. Ma la voce della donna lo fermò.
“Hanno sofferto?”
“Come, scusi?”
chiese, voltandosi di
nuovo verso la coppia.
“Le ho chiesto
se hanno sofferto molto,
prima di morire.”
Il dottore non
sapeva cosa rispondere.
Avevano sofferto? Certamente. Ma come poteva dirlo a quella signora?
Cercò di
tergiversare, ma fu inutile. La donna aveva capito dal suo silenzio.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
Era stata una
giornata lunga e
faticosa. Prima in ufficio, con un problema dietro l’altro. Poi la
visita dalla
dottoressa. Infine l’incontro con Trish e Frank in ospedale e
quell’orribile
notizia.
Infilò la chiave
nella serratura e aprì
la porta: l’appartamento era al buio.
Chiuse
lentamente e si tolse il
cappotto. Quando fece per accendere la luce, sentì un rumore e capì di
non
essere sola. Si voltò verso il divano, da dove aveva sentito provenire
il suono
e lo vide: le luci della sera, che entravano dalla finestra, gli
illuminavano
il volto.
Era tornato a
casa.
Sospirò
lentamente, rilasciando tutta
l’ansia che l’aveva assalita non appena aveva saputo che era uscito
dall’ospedale, immediatamente dopo aver appreso che erano morte.
Lo osservò per
un attimo e notò quanto
il suo sonno fosse teso, agitato. Tolse le scarpe e gli si avvicinò
piano, per
non svegliarlo. Aveva bisogno di dormire. Si piegò verso di lui e
guardò quel
viso che amava fin dalla prima volta che lo aveva visto. Aveva la
stessa
espressione nervosa che gli aveva osservato ogni volta che si era
trovato di
fronte a violenza e morte.
Di solito non
aveva quell’espressione,
quando dormiva. In genere il suo volto era rilassato e beato, come
quello di un
bambino. Lei lo sapeva bene! Adorava osservarlo dormire, soprattutto
ultimamente, quando a causa della gravidanza, era sveglia almeno un
paio di
volte per notte per andare in bagno. Tornata a letto, rare volte
riusciva a
riaddormentarsi immediatamente; allora accendeva la luce fioca che
aveva fatto
mettere sul comodino, per ritrovare il sonno leggendo qualche pagina di
un
libro. Oppure osservava lui. Era solito dormire su un fianco, quasi
sempre voltato
verso di lei. Una mano sotto ad una guancia, l’altra abbandonata, più
spesso
allungata a cercare la sua. A volte si era svegliata accorgendosi che
la teneva
per mano. Qualche volta l’aveva sentito lamentarsi nel sonno, mentre
brontolava
qualcosa d’incomprensibile. E tempo prima era stata svegliata da un suo
grido:
stava sognando l’incidente aereo che aveva stroncato la sua carriera di
pilota,
anni addietro.
Ma mai gli aveva
visto un’espressione
tanto tesa e sofferta. Avrebbe desiderato fargliela sparire, tuttavia
sapeva
che le sarebbe stato impossibile, finché lui stesso non lo avesse
deciso. E ci
sarebbe riuscito solo quando avesse messo le mani addosso a
quell’assassino, a
quell’essere spregevole che aveva stroncato due vite: quelle di una
donna e di una
bambina.
Gli accarezzò
piano i capelli, per non
svegliarlo, però Harm la sentì. Aprì gli occhi e la osservò per qualche
istante, come per metterla a fuoco. Poi sollevò una mano verso il suo
viso e
l’attirò a sé, per posare le labbra sulla sua bocca. Sarah assecondò il
suo
movimento avvicinandosi a lui e rispose con tutta se stessa al quel
bacio,
mentre con le mani accarezzava delicatamente il suo torace nudo.
Adorava sentire
sotto le dita quella
pelle tanto liscia. Ogni volta che lo toccava, si chiedeva sempre
sorpresa come
potesse essere così morbido e caldo. Eppure tutto si poteva dire di
Harm,
tranne che fosse di aspetto delicato. Il suo fisico muscoloso sembrava
scolpito
e lei amava sentirsi stringere dalle sue braccia. Tanto che ora, che
lui era molto
più tenero quando la stringeva per non far male al bambino, le
mancavano quei
suoi abbracci così forti da toglierle il fiato.
Al tocco leggero
di Sarah, il corpo di
Harm reagì immediatamente. Si mise seduto, la osservò in silenzio e con
lentezza, sempre in silenzio, iniziò a spogliarla. Aveva bisogno di
lei, del
suo corpo, del suo calore. Desiderava annullarsi completamente,
amandola come
desiderava fare ogni volta che le era vicino.
Per dimenticare.
Per dimenticare
tutto l’orrore, tutto
quel sangue, tutto quel dolore. Per sentirsi di nuovo vivo, tra le sue
braccia. Lei lo
lasciò fare e Harm
indugiò di nuovo sulle sue labbra, sulla pelle morbida del collo,
finché non
sentì le lacrime che gli bruciavano gli occhi.
Anche Sarah se n’accorse, perché sollevò una mano e la
accostò al suo
viso, cercando di asciugargliele con lo stesso gesto che aveva imparato
da lui.
Quando lei lo
capiva in quel modo,
immediatamente, senza una parola, Harm sentiva di amarla ancora più di
quanto
già non l’amasse. E mentre lei lo abbracciò, si abbandonò finalmente al
dolore.
Non fece l’amore
con lei. Affondò il
viso tra i suoi capelli e pianse tutte le lacrime trattenute fino a
quel
momento.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6
Il bambino si
mosse e la svegliò. Sarah
aprì gli occhi e scoprì che non era stato il suo cucciolotto a
svegliarla, ma
Harm, che le stava accarezzando il pancione.
“Ciao… pensavo
che fosse il piccolo a
disturbare il mio sonno. Invece sei tu!”
“Non solo io:
anche lei si stava
agitando” rispose Harm con un sorriso dolce sulle labbra. Sorrideva
sempre
così, ogni volta che parlava del loro bambino. E ogni volta, se lei si
riferiva
al bambino al maschile, lui rispondeva al femminile. Mentre se Sarah ne
parlava
come se parlasse di una femminuccia, Harm ribatteva riferendosi ad un
maschietto! Nessuno dei due riusciva a decidersi su cosa avrebbero
preferito
avere, così continuavano ad alternare idee e continuavano a cambiare
nomi.
Sembrava un poco
più sereno, quella
mattina. Ma lei sapeva che si trattava solo di quel momento. Lo sfogo
della
sera precedente lo aveva rasserenato un po’, ma sarebbe durato poco.
Ormai lo
conosceva quasi quanto conosceva se stessa.
“Stai meglio?”
gli chiese,
accarezzandogli dolcemente la guancia, dove l’ombra della barba le
solleticava
le dita. Da quando dormivano finalmente insieme, quello che preferiva,
al
momento del risveglio, era farsi solleticare la pelle dalle sue guance
un po’
ruvide, poco prima che lui si alzasse per radersi, com’era solito fare
ogni
mattina.
Quello e… a dir
la verità c’era anche
altro che le piaceva, quando si svegliava!
“In questo
momento sto benissimo…”
disse Harm, mentre sollevava la sua t-shirt, che lei indossava come
pigiama,
per baciarle il ventre. Fece scivolare la bocca su di lei, lentamente. Era fantastico percepire
con le mani e con le
labbra, oltre che con gli occhi, ogni minimo cambiamento del suo corpo.
Harm
scopriva ogni giorno qualcosa di diverso: il ventre che s’ingrossava,
la pelle
che si faceva più tesa, il seno più appesantito…
Suo figlio.
Dentro di lei
stava crescendo suo
figlio. Ogni volta che lo realizzava, gli sembrava sempre una sorpresa.
Come la
prima volta che Mac glielo aveva detto, più di sei mesi prima. Ormai
mancava
poco… neanche un mese, o forse ancora meno e finalmente avrebbe
conosciuto suo
figlio! O sua figlia! Durante l’ultima ecografia, la ginecologa di
Sarah aveva
chiesto se desiderassero sapere il sesso del bambino, ma Mac era stata
categorica: voleva la sorpresa! Lui invece avrebbe pagato chissà quanto
per
saperlo. Continuava a pensarci e non sapeva decidersi se avrebbe
preferito un
maschietto o una bella bambina.
Una bambina…
L’orrore del
giorno prima lo assalì
all’improvviso e lo fece sussultare. Sarah capì immediatamente che i
suoi
pensieri erano tornati a ciò che era successo, non appena sentì il
movimento
inconscio di Harm: aveva smesso di baciarla e si era fermato, immobile,
per
qualche secondo. Poi, quasi per scacciare quei pensieri, aveva ripreso
ad
accarezzarla, ma lei sentiva che il suo tocco non era il solito. Gli
fermò la
mano e gli fece posare il capo sul suo seno, accogliendolo tra le
braccia. Harm
obbedì, senza protestare.
“Non so cosa
avrei fatto se ciò cui ho
assistito ieri fosse successo a te e al nostro bambino…” sussurrò
appena, non
riuscendo più a trattenere quel pensiero tra le labbra. Lo aveva
tormentato fin
dal primo istante, non appena i paramedici gli avevano strappato dalle
braccia
la piccola Darleen. La madre adottiva della bambina, invece, era stata
caricata
successivamente sull’ambulanza che lui stesso aveva immediatamente
chiamato,
non appena aveva scoperto madre e figlia orribilmente accoltellate.
“Ssst…
non pensare a questo, ora. Noi stiamo
bene “ lo tranquillizzò, passandogli una mano tra i capelli.
“Perché le hanno
uccise? Chi può essere
quel bastardo che le ha ridotte in quello stato? ” chiese lui, con voce
secca.
Una voce che lei conosceva bene e che gli aveva sentito in altre
occasioni,
ogni volta che Harm si era trovato di fronte all’orrore di un omicidio.
Come quello
della gemella di Darleen,
Annie.
Era accaduto
anni prima: il corpo della
bambina, orribilmente seviziato, era stato rinvenuto nel distretto di
Potomac.
Harm, deciso come suo solito, aveva preteso dall’ammiraglio
l’assegnazione a
quel caso. Anche lei avrebbe voluto lavorarvi, ma purtroppo
l’ammiraglio non
aveva potuto togliere entrambi dai casi che stavano seguendo. Sarah,
tuttavia,
era sicura che il loro superiore avesse affidato l’indagine solo ad
Harm perché
li conosceva molto bene. Sapeva che lei non avrebbe retto emotivamente
allo
strazio di un caso che trattava la morte di una bambina di cinque anni,
seviziata e brutalmente uccisa. Mentre l’ammiraglio stesso non sarebbe
riuscito
a far desistere Harm dal partecipare alle indagini. Quindi meglio
permetterglielo ufficialmente. Inoltre conosceva le doti investigative
del
capitano Rabb e sapeva perfettamente che quando Harm prendeva a cuore
un caso,
sarebbe morto, pur di arrivare alla soluzione.
Lui era fatto
così. Lui e le sue
fissazioni! Ma Sarah lo amava anche per quello: per quella sua tenacia,
quella
sua cocciutaggine, che gli permettevano sempre di trovare una risposta
a
qualunque interrogativo.
Era come un
segugio: quando fiutava la
preda, non mollava, finché non l’aveva tra i denti.
E lei sapeva che
anche questa volta
sarebbe stato così. Ma questa volta lei voleva aiutarlo nell’indagine:
solamente così avrebbe potuto essergli vicina e sostenerlo, affinché
riuscisse
a superare l’orrore e il dolore per la morte della piccola Darleen. E
per
essergli d’aiuto nell’indagine, doveva sapere quello che era successo.
“Raccontami cosa
è accaduto.”
“No. E’ troppo
orribile.”
“Harm, ti
prego…”
“Non posso. Non
ce la faccio.”
“Raccontamelo,
Harm”.
Lui la guardò e
vide la sua espressione
decisa, quella che lui amava definire da “guerriera-Ninja”
oppure da “duro
Marine”. Adorava quando lei sfoderava quell’espressione:
in altre circostanze,
l’avrebbe presa in giro per qualche minuto; poi l’avrebbe costretta ad
arrendersi ai suoi baci e avrebbe fatto l’amore con lei a lungo, come
piaceva a
lui. Infine l’avrebbe fatta arrabbiare dicendole che, nonostante
l’espressione
da dura, con lui non aveva scampo! Mac si sarebbe infuriata per un po’
e lui
avrebbe cercato di farsi perdonare… Era un gioco che gli piaceva
tantissimo
fare con lei. Ed era sicuro che anche a Sarah piacesse molto inventarsi
una
miriade d’idee per permettergli di chiederle scusa.
Ma quello non
era il momento per le
loro schermaglie amorose.
Sospirando si
allontanò da lei e si
stese al suo fianco, fissando il soffitto della loro camera. E con lo
sguardo
perso nel vuoto, iniziò a rivivere tutto quello che era successo a
partire dai
tre giorni precedenti, quando tutta quella faccenda era iniziata.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo 7
A voler essere
precisi, forse quella
faccenda era iniziata anche prima.
Quel giorno il
capitano Rabb era
arrivato in ufficio e si era messo a sbrigare tutta quella serie
d’incombenze
burocratiche che lui odiava tanto, ma che era costretto a fare per
archiviare i
casi risolti.
Quella mattina,
nonostante il lavoro
che lo attendeva, era particolarmente allegro. La sera prima lui e
Sarah erano
riusciti a passare un po’ di tempo insieme, come non facevano da
qualche
settimana. Harm, per un caso che stava seguendo, era stato costretto ad
andare
sulla Coral Sea e Mac non lo aveva potuto seguire. La sua gravidanza
ormai
avanzata non le permetteva più certi spostamenti e l’ammiraglio l’aveva
assegnata ad un incarico più burocratico.
Scartoffie,
diceva lei, irritata dal
fatto di non poter seguire Harm sulla portaerei.
Incarico da “avanzamento di carriera”,
ribatteva sorridendo divertito lui, nel vederla così imbronciata.
L’indagine alla
quale stava lavorando
Harm aveva richiesto più tempo del previsto e lui era rimasto via quasi
dieci
giorni, prima sulla Coral Sea e poi a caccia d’indizi qua e là per il
paese. Entrambi avevano sentito terribilmente
la mancanza l’uno dell’altra. Harm aveva sorriso, ripensando alla sera
prima,
quando finalmente avevano potuto dedicare del tempo a loro stessi.
Avevano cenato a
lume di candela,
chiacchierando del caso e di tutto quello che era successo in ufficio
mentre
Harm era via. Poi si erano accoccolati sul divano, davanti al camino
acceso,
ascoltando un po’ di musica. Lui l’aveva accarezzata, passando le mani
sul suo
pancione, mentre il piccolo si faceva sentire con dei poderosi calci.
Harm
aveva parlato a suo figlio, mentre baciava il ventre della madre. Ma
come
spesso accadeva quando le era così vicino, a poco a poco la tenerezza
aveva
lasciato posto al desiderio e si erano ritrovati sul tappeto, a
baciarsi come
due adolescenti. Avevano riso come matti… il camino acceso a loro
faceva spesso
quell’effetto! Non era proprio lì, del resto, che avevano concepito il
loro
bambino?
Tra un pensiero
a come si era conclusa
la serata precedente e un fascicolo archiviato, quella mattina era
quasi
passata quando il telefono, stranamente muto fino a quel momento, era
squillato
improvvisamente, distogliendo il capitano Rabb più che dal lavoro, dai
ricordi.
Aveva sollevato
la cornetta e risposto,
aspettandosi di sentire una voce all’altro capo dell’apparecchio.
Invece
niente.
“Pronto? C’è
qualcuno?” aveva chiesto
nuovamente.
Dall’altra parte
ancora silenzio.
Harm aveva
cercato di percepire qualche
rumore, ma non aveva sentito nulla. Anziché riattaccare, aveva provato
di
nuovo:
“Chi è? Lo so
che sei lì, sento il tuo
respiro…” aveva azzardato e a quanto sembrava aveva avuto ragione,
perché una
voce appena sussurrata aveva domandato:
“Harm?”
Sorpreso, aveva
cercato di capire chi
fosse l’interlocutore, tuttavia non c’era riuscito. Gli era sembrato,
dal tono
di voce, che si trattasse di una bambina. Ma chi poteva essere?
“Si, sono Harm”
aveva risposto “e tu
chi sei? Come sai il mio nome? ”
Silenzio.
“Ci conosciamo?”
aveva chiesto di nuovo,
ormai del tutto incuriosito. Dopo una pausa, la vocina aveva risposto:
“Si.”
“Chi sei? Non
vuoi dirmelo? Così
anch’io ti riconosco.”
Altro silenzio.
“Bene, a quanto
pare non vuoi dirmi chi
sei. Non fa nulla. Almeno dimmi perché mi hai chiamato…” aveva chiesto
ancora.
“Ho paura…” la
frase era sembrata
addirittura più sussurrata.
“Perché hai
paura? Qualcuno ti vuole
fare del male?” aveva domandato Harm, improvvisamente all’erta.
Un’altra pausa.
“Ho paura… viene
da me e mi fa paura… è
così… brutto…” aveva detto la vocina.
Harm aveva
iniziato a sentirsi agitato:
non sapere chi fosse quella bambina spaventata lo stava innervosendo.
“Tesoro, dimmi
chi sei. Dimmi dove ti
trovi, così vengo a prenderti e parliamo…” ma mentre diceva questo,
aveva udito
l’improvviso “click” della comunicazione interrotta ed era rimasto con
il
telefono muto in mano, a guardarlo. Quindi aveva riattaccato ed era
subito
andato nell’ufficio di Mac, per raccontarle della telefonata. Ma lo
aveva
trovato vuoto. Ovviamente, dato che lei quel giorno era rimasta a casa.
Per
tutta la giornata aveva continuato a ripensare alla telefonata e alla
voce di
quella bambina: era strano, ma aveva la sensazione d’averla già
sentita. Eppure
non riusciva ad associare alcun volto a quella voce.
Quella sera
aveva raccontato tutto a
sua moglie e anche lei era rimasta stupita dalla storia. Aveva cercato
di
rassicurarlo, dicendogli che magari quella bambina stava solo
raccontando un
suo incubo. Però Harm non ne era convinto e Sarah glielo aveva letto
negli occhi.
Il suo istinto gli diceva altro e lui difficilmente riusciva a far
tacere il
suo istinto. Tuttavia, visto che realisticamente non poteva fare nulla,
aveva
cercato di dimenticare quella telefonata. Gli impegni dei giorni
successivi
gliel’avevano cancellata del tutto dalla mente.
Finché, alcuni
giorni dopo, non aveva
rivisto la bambina cui era certo appartenesse quella voce.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo 8
“Harm, vieni un
momento, per favore” lo
aveva chiamato Mac, distogliendolo dal testo legale che stava
sfogliando in
biblioteca.
“Mhmm… non puoi
resistere senza di me
neppure per poco, vero?”
“Abbassa le ali,
bel pilota! Non sono
io a volerti.”
“Ah no?” le
aveva detto abbracciandola
e sfiorandole il collo con le labbra.
“Harm, smettila!
Sai che se ci scopre
l’ammiraglio… Tra l’altro c’è una donna che ti cerca.”
“Un’altra?”
aveva chiesto lui divertito.
“Spiritoso! E’
assieme ad una bambina.
Mi sembra d’averla già vista…”
“Ti ha detto
come si chiama?”
“Stevenson.
Marie Stevenson. La conosci?”
“La bambina è
sua figlia?”
“Di certo non
sua figlia naturale. La
signora Stevenson è bianca, mentre la bimba no. Potrebbe essere la
figlia
adottiva.”
“Darleen…”
“Darleen? Vuoi
dire “quella Darleen”?”
“Si. La famiglia
che l’adottò si
chiamava Stevenson. E, se non ricordo male, la madre proprio Marie.
L’ho letto
sul rapporto di Jordan… Andiamo” e così dicendo si era precipitato ad
incontrare madre e figlia.
“Buongiorno,
signora Stevenson. Sono il
capitano Harmon Rabb. Il colonnello MacKenzie mi ha riferito che mi
cercava.
Posso fare qualcosa per lei?” l’aveva salutata, porgendole la mano.
Poi,
vedendo la bambina che si nascondeva dietro la donna, aveva sorriso.
Era
proprio lei: Darleen. Più alta di come la ricordava, ma sempre troppo
magra. E
con gli stessi occhi tristi ed impauriti di allora.
“Ciao, io sono
Harm. E tu… tu sei
Darleen, vero?”
La bambina lo
aveva guardato e gli
aveva sorriso, incerta. Marie Stevenson aveva ricambiato la stretta del
capitano e si era voltata leggermente per far avanzare Darleen.
“Si ricorda di
lei, capitano?”
“Certo. Io e
Darleen siamo vecchi
amici. Come stai, tesoro?”
Mac aveva
osservato la scena e aveva
capito immediatamente cosa passava nella testa di Harm. Lui l’aveva
guardata
per un secondo, prima di accucciarsi e parlare alla bambina. Era
convinto che
appartenesse a Darleen la voce che aveva sentito al telefono circa una
settimana prima. La bambina non aveva risposto. Si era limitata a
sorridere. La
donna aveva continuato:
“Ho cercato di
mettermi in contatto con
il capitano Parker.”
“Signora, il
capitano Parker…” ma non
aveva continuato, quando si era accorto che Darleen lo fissava
incuriosita a
sentir nominare Jordan.
Harm aveva fatto
allora un cenno a Mac,
che immediatamente aveva capito:
“Darleen, vuoi
una bella tazza di
cioccolata? Vieni con me, mentre la tua mamma parla con il capitano”.
La
bambina aveva annuito e, anche se con un attimo di diffidenza, aveva
seguito
Sarah in cucina. Harm aveva fatto accomodare la signora Stevenson nel
suo
ufficio e l’aveva messa al corrente della morte di Jordan.
“Perchè cercava
il capitano Parker?”,
aveva chiesto infine.
Marie Stevenson,
a quel punto, aveva
assunto un’aria imbarazzata. Sembrava non sapesse più cosa dire. Aveva
proseguito, raccontandogli una storia un po’ confusa, riguardo al fatto
che era
stata chiamata dalla scuola di Darleen perché l’assistente sociale, che
l’aveva
seguita dopo l’adozione, sosteneva che la bambina avesse ancora dei
problemi
d’adattamento. La signora Stevenson, allora, aveva pensato di
rivolgersi a
Jordan, poiché ricordava come la bambina le si fosse affezionata prima
che loro
l’adottassero. Non riuscendo a rintracciare il capitano Parker, aveva
chiesto
all’assistente sociale per avere notizie e lei aveva fatto il nome del
capitano
Rabb, come ulteriore riferimento.
Harm aveva
ascoltato con calma la
spiegazione, ma quello che Marie Stevenson gli aveva detto non lo
convinceva
per niente. Continuava ad avere in testa la voce di quella bambina che
lo aveva
chiamato al telefono, ed era sempre più convinto che quella voce
appartenesse a
Darleen. E quella voce era terrorizzata. Quello che gli aveva detto la
signora
Stevenson non chiariva quel punto. Però l’istinto gli aveva suggerito
di non
affrontare l’argomento con la madre della bambina. Avrebbe cercato il
momento
adatto e poi avrebbe provato a parlare con Darleen, per avere
spiegazioni.
Sperando che la bambina finalmente si aprisse.
“Mi spiace che
abbia fatto tutta questa
strada per nulla. Ora cosa farà?” aveva chiesto alla donna.
“Non lo so.
Penso che tornerò a casa. “
“Suo marito non
la raggiunge?”
“No… Mio marito
è via…per lavoro “,
aveva risposto la donna, con un attimo d’incertezza.
“Perché non si
ferma qualche giorno?
Potremmo incontrarci e mi spiegherebbe meglio cosa le hanno detto a
scuola.
Magari potrei parlare io con Darleen… un tempo si fidava di me…” aveva
detto
Harm. Voleva a tutti i costi trovare il modo di parlare con la piccola.
“Non saprei…” la
donna aveva esitato.
Era sembrata indecisa. Allora Harm aveva cercato di proporle una
soluzione.
“Le trovo una
camera d’albergo per
questa notte, così potrete riposare. Poi, domani, se vuole ne
riparleremo.
Altrimenti potrà tornare. A Darleen farà comunque bene staccare un po’.
Magari
ha solo bisogno di un po’ di distrazione” le aveva detto, anche se era
più che
certo che alla bambina servisse ben altro che un po’ di distrazione.
“D’accordo”, si
era lasciata convincere
la signora Stevenson e Harm aveva chiesto ad Harriet se poteva
organizzare il
tutto. Quindi le aveva accompagnate in albergo per la notte. Durante il
tragitto in auto, aveva osservato la bambina e l’aveva vista guardare
fuori dal
finestrino, assorta e con aria triste. Non aveva lo sguardo incuriosito
di chi
osserva un posto nuovo per la prima volta. Era anche vero che Darleen
non vedeva
quei luoghi per la prima volta. Forse erano solo i brutti ricordi a
farle
assumere quell’aria triste. Eppure…
Quando erano
arrivati all’albergo,
mentre la signora Stevenson era alla reception per la registrazione,
aveva
raggiunto Darleen. La bambina stava scendendo dall’auto e lui si era
volutamente avvicinato, per cercare un contatto fisico che potesse
farle capire
che era intenzionato ad aiutarla. La reazione della bambina, quando
Harm aveva
cercato di prenderla in braccio, gli aveva fatto aumentare la
preoccupazione
nei suoi riguardi. Darleen si era ritratta rapidamente, non appena Harm
aveva
cercato di abbracciarla e nei suoi occhi lui aveva scorto la paura.
Quando aveva
raccontato a Mac cos’era
successo, lei lo aveva guardato assorta, ma non aveva detto nulla. Per
Harm, il
silenzio di Sarah era stato più eloquente di mille parole.
Il mattino
successivo, prima di andare
al Jag era passato a trovare sua madre e Frank. Aveva raccontato loro
tutta la
storia: da come aveva conosciuto, anni addietro, la bambina, mentre
seguiva le
indagini sulla morte della sua gemella, alla telefonata della settimana
precedente e all’incontro del giorno prima.
Da quando Trish
e Frank erano tornati a
Washington per assistere alla nascita del loro nipotino, Harm ogni
tanto andava
a trovarli. Lei era
molto felice: dopo
anni passati lontano dal figlio, prima in missione sulle portaerei, poi
a
chilometri di distanza al Jag, passare del tempo con lui era molto
piacevole.
Il matrimonio aveva avuto effetti sorprendenti sul suo avventuroso
figlio!
Anche Harm aveva
cominciato ad
apprezzare quei momenti trascorsi con sua madre. Parlare con lei gli
stava
facendo capire molte cose. Da quando, ancora adolescente, era partito
per il
Vietnam alla ricerca di suo padre, convinto che fosse ancora vivo, a
quando in
Russia era venuto a sapere della sua morte, gli era sembrato che tutta
la sua
vita fosse incentrata sull’assenza del genitore e sulla sua ricerca. E
sua
madre, in tutto quel periodo, era passata in secondo piano. Pur non
impedendogli
mai nulla, doveva aver sofferto parecchio, sempre in ansia per lui.
Comprendere
tutto ciò gli aveva fatto capire
una cosa importante: il motivo per il quale si era innamorato proprio
di Mac.
Perché finalmente, con Mac, la sua ricerca era finita. Con lei era
riuscito a
provare gli stessi sentimenti che aveva sempre scorto negli occhi di
suo padre,
in quella fotografia che conservava da anni. La fotografia in cui papà
abbracciava la mamma. Sarah lo amava come sua madre aveva
amato suo padre e come amava lui: incondizionatamente. Senza pretendere
di
cambiarlo e accettandolo per quello che era.
Dopo il racconto
della telefonata e
dell’incontro con Darleen, aveva discusso con Frank e Trish dei suoi
sospetti e
anche loro concordavano con lui, nel ritenere che la bambina al
telefono e la
piccola, incontrata il giorno prima, potessero essere la stessa
persona. A quel
punto era sufficiente capire cosa, o meglio chi, spaventasse tanto la
bambina.
Anche se, a questo proposito, Harm nutriva già dei sospetti.
Avendo saputo
che non erano ancora
partite, a metà pomeriggio, terminata un’udienza in tribunale, aveva
deciso di
provare di nuovo a parlare con Darleen. Così era uscito prima
dall’ufficio.
Avrebbe raggiunto successivamente Mac per il controllo dalla dottoressa.
Giunto
all’albergo, aveva chiesto della
signora Stevenson all’impiegato della reception, il quale aveva
chiamato in
camera.
“Che strano. Non
risponde” aveva
mormorato, con aria perplessa. Le chiavi della camera non erano al loro
posto
ed era sicuro che la signora e la bambina non fossero andate da nessuna parte, dopo essere
risalite dal pranzo.
“Come fa ad
esserne certo?”
“Se le avessi
viste, avrei certamente
consegnato alla signora questo messaggio” rispose l’uomo, indicando ad
Harm una
busta che sporgeva dalla casella 128.
“Chi lo ha
portato?” aveva domandato il
capitano Rabb, improvvisamente sospettoso.
“Un ragazzo,
quindici o venti minuti
fa” aveva risposto l’impiegato.
“E lei non si è
mai mosso da qui?”
“No… o meglio,
si, ma solo per
pochissimi minuti…”
“Quando?” un
sospetto aveva cominciato
ad insinuarsi nella sua mente.
“Ora che ci
penso… poco dopo che hanno
consegnato il messaggio…”, ma non era riuscito a continuare: Harm si
era
precipitato improvvisamente alle scale.
L’uomo,
sorpreso, lo aveva richiamato, però
lui era già salito di corsa e stava cercando, lungo il corridoio
deserto, la
camera 128. Non appena aveva scorto la porta della camera socchiusa,
aveva
capito che era successo qualcosa. Cautamente l’aveva spalancata e poi
era
rimasto impietrito ad osservare la scena che gli si era presentata
davanti agli
occhi: madre e figlia giacevano a terra, in un lago di sangue.
Cercando di
riprendersi, aveva chiamato
immediatamente l’ambulanza. Poi si era avvicinato alla bambina, che era
priva
di sensi ma ancora viva. Il suo piccolo corpo straziato gli aveva
rammentato
quello della sorella. Aveva una brutta ferita all’addome e molti altri
tagli
ovunque. Harm aveva sfilato rapidamente il lenzuolo dal letto, per
cercare di
tamponare la ferita e stava per prenderla in braccio, quando aveva
sentito un
rumore provenire dal bagno. Istintivamente si era alzato e aveva
spalancato la
porta, senza neppure preoccuparsi d’essere prudente. La rabbia che lo
animava
avrebbe potuto distruggere qualunque cosa…
Aveva scoperto
che il rumore sentito
era quello dell’imposta che sbatteva: l’assassino era fuggito dalla
finestra
sul retro.
Era tornato
dalle due vittime proprio
mentre l’impiegato dell’hotel, che stava entrando in camera, si era
immobilizzato accanto alla porta, inorridito da ciò che aveva visto.
“Chiami la
polizia e spieghi
l’accaduto” aveva detto all’uomo, più che altro per farlo reagire.
“Ma…
l’ambulanza?”
“L’ho già
chiamata” aveva risposto
Harm, mentre si avvicinava alla donna, per vedere se respirava ancora.
Tastandole
il polso, aveva capito che sarebbe vissuta ancora per poco. Il battito
era
molto debole e dalla ferita alla gola continuava ad uscire sangue.
Mentre cercava
di tamponare anche la
ferita della donna, aveva sentito la sirena dell’ambulanza. Allora
aveva preso
in braccio Darleen ed era corso per le scale, fino all’ingresso
dell’albergo.
Due paramedici che si stavano accingendo a salire gli avevano strappato
dalle
braccia la bambina. Harm aveva gridato agli altri il numero della
camera in cui
si trovava la donna, prima di salire con Darleen su una delle due
ambulanze.
Il tragitto
verso l’ospedale non gli
era mai sembrato tanto lungo. Eppure, nonostante il traffico del tardo
pomeriggio, ci avevano impiegato meno di dieci minuti. Quando era
entrato a
seguito della barella, aveva intravisto Frank e sua madre.
Che ci facevano
lì?
Mac… Avrebbe
dovuto accompagnare Mac
dalla dottoressa!
Sua madre e il
suo patrigno si
trovavano in ospedale perché Sarah aveva chiesto a Trish se desiderasse
vedere
l’ecografia del suo nipotino. E lei, ovviamente, aveva accettato
entusiasta.
“Harm, cosa è
successo?” gli aveva
domandato sua madre, sconvolta nel vederlo sporco di sangue.
“Dov’è Mac?”
aveva chiesto a Trish.
“L’ha appena
chiamata la dottoressa.
Dov’eri? Era molto preoccupata… Vai, sei in tempo per…”, ma lui non
l’aveva
lasciata finire, spiegando rapidamente la situazione, mentre anche la
signora
Stevenson stava entrando in ospedale sulla barella. Quindi si era
piazzato
all’uscita della sala operatoria. Per circa mezz’ora aveva atteso
d’avere
notizie, mentre mille pensieri si affollavano nella sua mente. Avrebbe
voluto
avere Mac accanto. Lei sapeva sempre come farlo stare meglio. Oppure
avrebbe
preferito essere con lei a vedere il loro bambino… Più volte aveva
dovuto scacciare
dalla mente l’orribile immagine di quella camera d’albergo. E per
altrettante
volte, quella di Sarah ferita, in un lago di sangue…
L’attesa era
stata interminabile. E
inutile. Frank e Trish lo avevano raggiunto quando ormai tutto si era
concluso.
Dopo aver
lasciato l’ospedale, era
tornato all’albergo. Sapeva che avrebbe dovuto fornire la sua versione
alla
polizia. Si era sbrigato presto con il detective Johnson: del resto
aveva ben
poco da aggiungere a ciò che aveva già raccontato l’impiegato della
reception.
Mezz’ora dopo
entrava finalmente in
casa, con lo strazio nel cuore al pensiero di Darleen.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo 9
Il capitano di
corvetta Teresa Coulter
si affacciò alla scaletta dell’aereo militare che l’aveva portata a
Washington. Per qualche secondo si soffermò ad
osservare la figura dell’uomo che la stava attendendo a terra. Cercò di
analizzare le sue emozioni, ma poi si rese conto che era inutile. Come
sempre,
lui continuava a farle lo stesso effetto, anche quando lo osservava da
lontano.
Sospirò e si
fece coraggio mentalmente:
sarebbe stato difficile anche quella volta reprimere tutte le
sensazioni che si
scatenavano in lei con la sua vicinanza. Quando sapeva che lo
avrebbe rivisto,
cercava sempre di convincersi che le sue emozioni erano dettate
unicamente
dalla mancanza di un uomo nella sua vita. Una mancanza che stava
durando da
troppo tempo. Ma ogni
volta,
puntualmente, doveva ricredersi.
Nessun altro
riusciva ad emozionarla
tanto. E non era solo a causa della bellezza di quell’ufficiale. Era
qualcosa
che lei avvertiva nell’aria non appena lui le si avvicinava: un
semplice suo
sguardo riusciva a suscitare in lei una specie d’elettricità e una
sensualità
primitiva che faticava a controllare.
Era stato così
fin dal primo momento
che lo aveva conosciuto…
Ricordava ancora
l’attimo preciso in
cui quello sguardo l’aveva ammaliata per la prima volta. Lui e la sua
collega
si erano rivolti a lei per un caso d’identificazione di spoglie umane
ritrovate. Il problema riguardava un indiano Navajo e la sua gente non
voleva
permettere che fossero eseguiti esami scientifici per non profanare la
sua
anima. Avevano raggiunto la tribù per cercare di convincere i
familiari, ed
erano stati trattenuti per i festeggiamenti di una bimba nata da poco.
Durante la festa
si era appartata, per
mettere ordine nei suoi pensieri e lui l’aveva raggiunta. Avevano
chiacchierato
un po’, poi erano stati distratti dai rituali di benvenuto per la
piccola.
Mentre osservavano i genitori con la loro bambina tra le braccia, lei
lo aveva
visto rivolgere uno sguardo rapito alla giovane coppia e poi sorridere
dolcemente a quell’immagine.
Proprio in
quell’istante, di fronte a
quello sguardo e a quel sorriso, si era sentita strana.
La sua
tormentata adolescenza e l’avere
un padre in carcere, accusato d’aver ucciso sua madre, avevano chiuso
il suo
cuore all’amore. Inoltre tutte le morti atroci che vedeva ogni giorno
col suo
lavoro l’avevano indurito definitivamente. In quel momento era
stato come se il
suo cuore si fosse improvvisamente sciolto davanti a quello sguardo. E
a quel
sorriso.
Era
perfettamente consapevole d’essere
l’unica a provare quelle sensazioni. Di certo lui non la ricambiava.
Glielo
aveva fatto capire gentilmente, quando gli aveva confessato quanto la
sua
vicinanza la turbasse. Nonostante
ciò,
erano diventati amici e lui l’aveva chiamata più volte sia per fare due
chiacchiere, sia soprattutto per lavoro. Quando gli servivano
informazioni che
solo un patologo legale gli poteva fornire, a volte l’aveva convocata
per
un’ulteriore opinione. E lei era sempre stata felice d’aiutarlo. Del
resto era
stato proprio lui a permettere un suo riavvicinamento al padre,
scagionandolo,
dopo anni, dall’accusa dell’omicidio della moglie. Ostinato come
sempre, era
riuscito a convincerla che riteneva che il caso fosse stato trattato in
maniera
superficiale e che dovesse richiedere un ulteriore processo. In quel
frangente
aveva quasi messo a repentaglio la loro amicizia, ma nonostante tutto,
era
riuscito a dimostrarle d’avere ragione.
Sorrise,
ricordando quanto l’aveva
odiato in quei giorni! L’odiava perché la stava mettendo di fronte ad
un
passato che lei non aveva alcun’intenzione di affrontare. Ma l’odiava
anche
perché, nonostante la rabbia, ogni volta che le parlava le faceva
provare anche
un irresistibile desiderio di baciarlo… Desiderio che si era sempre
vista
costretta a reprimere.
Si fece coraggio
e scese la scaletta
dell’aereo. Con le mani infilate nelle tasche del cappotto, lui le si
avvicinò
lentamente. Fece il
saluto militare e si
rivolse a lei in tono ufficiale:
“Salve,
capitano”. Ma prima ancora di
permetterle di rispondere al saluto, guardandola negli occhi le sorrise
dolcemente. Quindi tese la mano e si rivolse a lei con un tono che le
fece
scendere un brivido lungo la spina dorsale.
“Ciao, Teresa…”
Lei ricambiò la
sua stretta,
assaporando per un attimo quella mano nella propria: era calda,
esattamente
come la sua voce. Pronta
ad affrontare
una nuova battaglia con le sue emozioni, lo guardò negli occhi e
rispose:
“Ciao, Harm.”
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10
Odiava quel
luogo ancora più di quanto
odiava la sala d’aspetto dell’ospedale. Ma Teresa lo aveva chiamato in
ufficio
per dirgli di passare dall’obitorio. E se lo aveva fatto, era perché
aveva delle notizie.
Possibile che avesse già
terminato l’autopsia?
“I tuoi sospetti
erano fondati”, esordì
il capitano Coulter, arrivandogli alle spalle.
Non l’aveva sentita avvicinarsi e la sua voce lo distolse
improvvisamente dai suoi pensieri. Si girò di scatto, sorpreso.
“Oh! Scusami
Harm… credevo m’avessi
sentito arrivare. Non volevo spaventarti” disse Teresa con voce dolce e
un
sorriso, mentre gli appoggiava una mano sull’avambraccio.
“Cosa intendi?”
“La bambina
aveva avuto rapporti sessuali.”
“Ne sei certa?”
chiese con la voce
quasi strozzata. Sperava che quel sospetto fosse infondato.
Teresa Coulter
lo guardò e vide la
sofferenza e il disgusto velare quegli occhi solitamente vivaci. Odiava
sempre
dover dare certe notizie, ma questa volta era ancora peggio: le stava
comunicando ad un uomo che conosceva e che sapeva affezionato alla
vittima. Lei
stessa non riusciva a tollerare quello che aveva appena appurato.
“Si.
Non ci sono dubbi. Ci sono parecchi segni d’abuso,
comprese alcune ferite
all’interno delle cosce della bambina.”
“Recenti?”
“Recenti, però
non risalgono al giorno
dell’omicidio. Erano in via di guarigione. Potrebbero risalire ad una
settimana, dieci giorni fa…”
Harm non
rispose, ma voltò leggermente
il capo. Lei lo vide stringere ancora di più le labbra, nello sforzo di
trattenere l’ira.
“Perché avevi
questo sospetto?”
Lui per un
attimo non rispose, la
guardò soltanto. Il capitano Coulter aspettò con pazienza la
spiegazione che,
ne era certa, sarebbe arrivata. Infatti Harm iniziò a raccontare le
stesse cose
che aveva raccontato a Mac.
“Che ne dici?”
“Che anch’io
avrei pensato la stessa
cosa. Ora sai che eri sulla strada giusta”.
“E’ una magra
consolazione. Avrei
voluto proteggerla…” rispose, con la voce leggermente incrinata.
Teresa Coulter
non disse nulla. Si
limitò a stringergli leggermente il braccio. Poi si voltò, per
andarsene, ma
Harm la fermò:
“Andiamo a cena.
E’ il minimo che possa
fare per te”.
“Sicuro di
sentirtela?” chiese lei. Ma
forse la domanda era rivolta più che altro a se stessa. Cenare con lui?
Con lui
in quelle condizioni? Quell’uomo la seduceva semplicemente con uno
sguardo,
figuriamoci cosa avrebbe fatto al suo cuore quel misto di rabbia,
tenerezza e
dolore che ora leggeva nei suoi occhi.
“La tua
compagnia mi farà bene” le
disse con un sorriso. Poi s’incamminò verso l’uscita e a lei non restò
che
seguirlo. Come resistergli?
Durante il
tragitto, lui le fece altre
domande sui risultati dell’autopsia. Quando fermò l’auto e scesero,
Teresa si
guardò attorno, perplessa.
“Ma… questa non
è casa tua, vero?”
“No. Andiamo a
cena da Mac.”
Dal colonnello
MacKenzie. Giusto. Si trattava di
una cena di lavoro.
Cosa s’era aspettata?
Quello che non
si aspettava, tuttavia,
fu di vederlo aprire il portone d’ingresso e poi la porta di casa con
un paio
di chiavi, probabilmente sue.
“Accomodati.
Vado a chiamare Mac. Sarà
felice di vederti”.
Ma non fu
necessario: Sarah li aveva
sentiti arrivare ed era comparsa dalla cucina.
“Salve, capitano
Coulter. Ciao Harm”.
“Salve,
colonnello. Piacere di
rivederla…” e il saluto le si fermò tra le labbra, nel vedere Mac. Poi il suo imbarazzo
accrebbe quando vide il
capitano Rabb avvicinarsi alla donna incinta e salutarla con un
abbraccio e un
dolcissimo “Ciao, tesoro.”
Mac guardò la
loro ospite con un
sorriso: “Non le aveva detto nulla?” disse, riferendosi ad Harm.
“No.
Congratulazioni, colonnello.”
“Chiamami Sarah.
O Mac, se preferisci”.
“D’accordo Mac.
E tu chiamami Teresa”
rispose il capitano Coulter, mentre la sua mente non riusciva a
scacciare
l’immagine del capitano Harmon Rabb con un bambino tra le braccia:
sarebbe
stato favoloso.
“Signore,
concedetemi mezz’ora e vi
stupirò con la mia abilità di cuoco” disse Harm, togliendosi il
cappotto e
dirigendosi in cucina. Solo allora Teresa notò la fede che brillava
all’anulare
sinistro del colonnello MacKenzie e si disse che forse era meglio così.
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Capitolo 11
“Grazie,
detective”.
Lentamente Harm
riattaccò, con la mente
ancora concentrata sulla telefonata appena conclusa.
“Allora?” chiese
Mac, distogliendolo
dai suoi pensieri. Si girò e rimase ad osservarla per un istante,
mentre lei
stava tamponando i capelli bagnati. Il movimento aveva aperto
l’accappatoio che
indossava e aveva scoperto quasi completamente una gamba. Harm fece un
pigro
sorriso, lasciando che per qualche istante la sua mente indugiasse su
immagini
ben diverse da quelle che continuavano a tormentarlo. Ne avrebbe mai
avuto
abbastanza di lei?
“Harm?”
“Scusami,
dicevi?”
“Che hai?”,
chiese lei dolcemente,
avvicinandosi.
Eh, no! Se si
avvicinava anche… Decise
che era meglio distrarla, e distrarre se stesso, prima che la voglia
che aveva
di stare di nuovo con lei, lo costringesse all’ennesima sfuriata
dell’ammiraglio sui suoi ritardi delle ultime settimane. Finché anche
Mac
andava in ufficio, arrivavano sempre puntuali, nonostante tutto. Ma da quando lei s’era
presa qualche
settimana di riposo e si presentava in ufficio nel pomeriggio, oppure
non si
presentava affatto, la sua situazione era peggiorata. Proprio durante
l’ultimo
discorsetto, l’ammiraglio se n’era uscito con l’invocazione: “Speriamo
che il
colonnello torni presto al lavoro!”. Fortunatamente Chegwidden
sorrideva,
mentre lo strapazzava.
“Era il
detective Johnson. Mi ha
riferito che hanno appena arrestato il signor Stevenson.”
“Allora è stato
lui?”
“Così pare. Dopo
le informazioni che
gli ho dato, relative agli abusi sessuali subiti da Darleen, la
faccenda della
telefonata e tutto il resto, il detective ha concentrato le indagini in
particolare su Bill Stevenson. Non ha un alibi, per l’ora
dell’omicidio, anche
se mi sembra strano: se non ricordo male, sua moglie mi aveva detto che
era via
per lavoro… Ad ogni modo, nulla che abbia trovato conferma. Inoltre è
stata
trovata in casa l’arma del delitto. A quanto pare, gli indizi portano a
lui. ”
“Come mai
quest’aria dubbiosa? Non eri
convinto anche tu?”
“Sì. E lo sono
ancora. Ma sembra tutto
troppo semplice. Inoltre Teresa non ha ancora terminato l’autopsia
sulla
signora Stevenson. Quello che ci ha detto ieri sera, riguardava solo
Darleen.”
“Pensi che ci
possa essere altro?”
“Non lo so… ma
sai che, prima di farmi
un’idea definitiva, voglio essere al corrente di tutto. Prima di pranzo
vedrò
il detective Johnson e nel pomeriggio passerò da Teresa, così avrò
tutte le
informazioni necessarie. E se è stato quel bastardo, lo inchioderò.”
“Non potrai
essere tu a farlo.”
“Oh, si.
Quell’uomo è un militare. Il
caso passerà al Jag.”
“Già,
dimenticavo… Quindi oggi andrai
da Teresa?”
“Sì, prima di
tornare a casa. Pensavo
di invitarla di nuovo a cena, che ne dici?”
“Per me non ci
sono problemi. Ma sei
sicuro che a lei stia bene?”
“E perché non
dovrebbe? L’altra sera
m’è sembrato…”
“Oh, Harm! Il
capitano Coulter è
innamorata di te. Possibile che non te ne sia accorto?”
“Ma che dici?”
“Perché non le
hai detto di noi due? E
del bambino?”
Harm la guardò
di sottecchi, poi si
arrese e le sorrise.
“Certo, la
capisco…”, disse Sarah,
avvicinandoglisi lentamente, “qualunque donna s’innamora di te…”
“Sarah, arriverò
in ritardo, se non fai
la brava!”
“Ma io sono
bravissima!”, rispose con
finta aria ingenua.
“Mac…” Harm
cercò di fermarla, mentre
lei aveva iniziato a sbottonargli la camicia, indossata da poco.
“Mac? Mhmm… stai
cedendo, capitano!”
“L’ammiraglio mi
ucciderà…”
“Ma ne varrà la
pena!” disse lei,
maliziosa.
Sì, decise Harm.
Ne sarebbe valsa la
pena.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Capitolo 12
“Dannazione!”
L’imprecazione
del capitano Rabb fece
voltare più di una persona negli uffici del Jag.
Era tornato
dall’aula di tribunale,
entrando nel suo ufficio come una furia. La cartella in una mano e una
pila di
fascicoli sotto l’altro braccio, aveva attraversato la stanza, seguito
a ruota
dal colonnello MacKenzie, rapida come sempre, nonostante l’avanzato
stato di
gravidanza.
“Calmati, Harm”.
Lui si voltò con
aria truce e replicò:
“Calmati un bel niente!”. Poi le chiuse letteralmente la porta in
faccia.
Tiner, che aveva
assistito alla scena,
rimase ammutolito per qualche secondo, aspettando la reazione del
colonnello.
Che giunse immediatamente. Sarah MacKenzie spalancò la porta
dell’ufficio del
marito, entrò e se la richiuse alle spalle, sbattendola ancora più
forte.
“Ci siamo”,
pensò Tiner. “Povero
capitano Rabb…”. Sorrise, immaginando dai movimenti dei due ufficiali,
che la battaglia
sarebbe stata all’ultimo sangue. Era inutile: quei due erano fatti per
amarsi
e… per litigare in continuazione, in ufficio. Eppure erano una squadra
imbattibile. Come facevano ad andare tanto d’accordo nella vita
privata, per
Tiner era ancora un mistero. Ora era sufficiente attendere l’esito del
confronto: l’avrebbe spuntata il colonnello o il capitano? Oppure si
sarebbero
rappacificati? Restava un’ultima ipotesi… ma accadeva raramente. Ossia
che non
si parlassero più fino al giorno successivo. Mentalmente puntò sul
colonnello:
il capitano non avrebbe tenuto il broncio a sua moglie incinta.
“Chiudimi
un’altra volta la porta in
faccia e vedi dove ti faccio dormire…”, stava dicendo il colonnello.
Harmon Rabb
decise d’ignorarla e
continuò a sistemare le carte fuoriuscite dai fascicoli che aveva
scaraventato
sulla scrivania. Odiava quello che l’ammiraglio l’aveva costretto a
fare.
Perché? Dannazione, perché? Per quale motivo gli aveva affidato la
difesa del
tenente Stevenson? Quell’uomo aveva ucciso Darleen e a lui sarebbe
toccato fare
il possibile per difenderlo.
“Ogni imputato
ha diritto alla miglior
difesa possibile, anche se colpevole. Dovrebbe saperlo, capitano” aveva
replicato l’ammiraglio, quando aveva cercato di spiegare le sue
ragioni. “Sarà
il titolare e il colonnello l’aiuterà. Lei il miglior difensore del
Jag. E non
posso affidare l’incarico al colonnello, nel suo stato”.
“Ma signore…”
aveva cercato di
ribattere. Però l’ammiraglio era stato irremovibile: il capitano Turner
e il
tenente Roberts sarebbero stati l’accusa, lui e Mac la difesa. Avrebbe dato qualunque
cosa per essere al
posto di Sturgis ed essere lui a mettere il cappio al collo
all’imputato,
facendolo condannare. Invece l’ammiraglio gli aveva ordinato di
difenderlo.
Era inutile. Si
era sforzato di fare
del suo meglio, ma al secondo giorno del processo aveva compreso che
non
sarebbe mai riuscito a trattarlo come un semplice “caso”.
Quello stava
diventando un caso troppo
personale.
Mac, come sua
partner nel collegio di
difesa, lo aveva appena rimproverato di non aver fatto tutto quello che
ci si
sarebbe aspettati da lui, durante il contro interrogatorio di un
testimone
dell’accusa.
Aveva ragione. E
questo aveva aumentato
la sua rabbia.
“Capitano! Mi
guardi, quando le parlo.”
Non era più sua
moglie, a parlare. Ma
il tenente colonnello MacKenzie, ufficiale per pochi mesi più anziano
di lui.
Prima di sollevare il capo dalle carte e mettersi sull’attenti, le
labbra gli
si piegarono in un sorriso: quando Sarah non sapeva più che pesci
pigliare con
lui, ricorreva all’autorità di superiore!
L’avrebbe preso
a schiaffi, vedendolo
assumere la posizione sugli attenti, con l’ombra di un sorriso negli
occhi. Ma
fece finta di niente, anche se le fu difficile. Capiva
perfettamente il suo stato d’animo. Era già furioso per
l’incarico assegnatogli; in più lei aveva rincarato la dose,
sottolineando che
non aveva dato il massimo nell’interrogatorio del teste. Ma non poteva
lasciar
correre: se l’avesse saputo l’ammiraglio, lo avrebbe trattato peggio.
Lei stava
solo cercando d’aiutarlo a dominare la sua rabbia, affinché riuscisse a
portare
a termine l’incarico nel migliore dei modi. Tra
l’altro, osservando certi particolari con maggiore obiettività,
aveva colto qualche discrepanza nella testimonianza della signora delle
pulizie. L’inserviente dell’hotel sosteneva d’aver visto l’imputato
bussare
alla camera 128 mentre stava entrando nella camera 175 per pulire. Ma
Sarah
ricordava dalla piantina che la camera 175 si trovava dalla parte
opposta, in
un lato del corridoio che piegava ad angolo… secondo lei, la donna
aveva solo
sentito bussare, senza, tuttavia, vedere nessuno. L’aveva detto ad
Harm, ma
lui, nel contro interrogatorio, aveva sorvolato sul particolare.
Harmon Rabb
voleva quell’uomo in
carcere e, non potendo essere l’accusa, aveva deciso, inconsciamente o
consapevolmente, di non difenderlo. O meglio, di non difenderlo al
meglio delle
sue capacità. Se l’accusato l’avesse ricusato per negligenza, Harm
avrebbe
avuto la carriera rovinata. Ma lei non lo avrebbe permesso. Lo guardò
severa,
mentre lui, sull’attenti, sorrideva sornione. Non era facile restare
impassibile di fronte a quell’aria da cucciolo disobbediente finalmente
pentito, ma decise di tenerlo ancora sulle spine.
“Si azzardi
ancora a trattarmi a quel
modo, capitano, e dovrò fare rapporto all’ammiraglio.”
“Sissignora.”
Era inutile, non
riusciva a restare in
collera con lui per più di cinque minuti.
“Harm… se
continui in questo modo,
l’ammiraglio ti sbatterà a pulire i bagni.”
“Scusami per la
porta…” le disse,
avvicinandosi lentamente.
“Non credere di
cavartela come al
solito…” Ma non riuscì a terminare la frase: lui l’aveva raggiunta e
l’aveva
stretta tra le braccia.
“Non ce la
faccio, Mac. Non riesco a
difendere quel bastardo…”
“Devi farcela.
E’ in gioco la tua
carriera.”
“Al diavolo la
mia carriera. Tu non le
hai viste là, a terra, in un lago di sangue. Continuo a rivedere quella
scena,
ogni volta che lo guardo in faccia, ogni volta che gli parlo, ogni
volta che si
rivolge a me…”
Lei lo abbracciò
in silenzio, sapendo
che la sua sarebbe stata una dura lotta interiore.
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Capitolo 13
Qualcosa non
quadrava. Continuava a
riguardare quei referti, e qualcosa non quadrava. Era una sensazione
che aveva
già avuto altre volte, nel corso della sua carriera d’avvocato. E ogni
volta
quella sensazione si era rivelata esatta.
Era più di
un’ora che rileggeva il
referto dell’autopsia di Darleen e della signora Stevenson e, fin
dall’inizio
quella sensazione non l’aveva abbandonato. Eppure, nei giorni
precedenti, non
l’aveva mai sentita. Cos’era cambiato ora?
Forse,
semplicemente, aveva provato a
fare davvero l’avvocato difensore.
La sfuriata di
Mac del giorno
precedente gli aveva fatto capire che, se non avesse compiuto fino in
fondo il
suo dovere, non avrebbe mai avuto pace. Perché se il signor Stevenson
fosse
stato dichiarato colpevole solo a causa della sua negligenza nel
difenderlo,
egli sarebbe vissuto sempre col dubbio che potesse essere innocente. E
che
l’assassino potesse essere qualcun altro, rimasto impunito. Se, invece,
dopo
un’accusa, l’imputato fosse ricorso in appello con la motivazione di
mancata
difesa, e in appello fosse riuscito a cavarsela, sarebbe stato ancora
peggio.
Così aveva
cercato di non pensare a chi
fosse una delle vittime, e aveva cercato di concentrarsi solo ed
esclusivamente
sul caso. Non appena aveva cambiato atteggiamento, era iniziata quella
sensazione. Ma non riusciva ancora ad afferrare cosa non quadrasse.
“C’è un figlio
naturale”, esordì Mac, entrando
nel suo ufficio, con un foglio tra le mani.
“Cosa? Sei
sicura?”
“Guarda” e così
dicendo gli porse il
foglio. Aveva richiesto all’anagrafe un semplice certificato che le
serviva da
allegare ad altri documenti di prassi per un’eventuale scarcerazione, e
aveva
scoperto una cosa che sarebbe dovuta uscire fin dall’inizio.
“Diciott’anni.
Figlio di Bill Stevenson
e Linda Parker… E come mai il nostro signor Stevenson non ce ne ha mai
parlato?
E dov’è, questo… William Paul Stevenson?”, chiese Harm.
“Ottime domande,
avvocato”, replicò
Mac.
“Sturgis ne è al
corrente? ”, chiese di
nuovo lui.
“Non lo so.
Forse non lo considera
importante. In fondo, se non è un testimone per l’accusa…”
“Già, ma io mi
domando una cosa: come
mai il signor Stevenson non ne ha fatto cenno? E come mai il figlio non
è mai
andato a trovare il padre?”
“Forse vive con
la madre e sono in
pessimi rapporti?”
“Può essere… “
“Che hai?”
chiese Sarah, quando vide
che era sprofondato in un’espressione pensierosa.
“Nulla…”
rispose, con un cenno della
mano, come a scacciare un pensiero fastidioso che s’era insinuato nella
mente.
Ma continuava ad avere quell’espressione.
“Nulla? Sicuro?”
“Si tratta del
referto dell’autopsia.
C’è qualcosa che non quadra, lo sento. Eppure non riesco ad afferrare
di cosa si
tratta…”
“Ridammi il
foglio che ti ho dato,
Harm. Prima di tornare a casa, passo in carcere a farlo firmare al
nostro
assistito. Così ho preparato tutte le carte che servono. Dovresti farmi
un bel
regalo, questa sera: ti ho levato dai piedi tutte quelle incombenze
burocratiche che tu odi tanto!”
“Ti adoro, lo
sai”, rispose Harm, con
un sorriso. Ma guardandola si accorse che era stanca. Non avrebbe
dovuto
strapazzarsi così, proprio verso la fine della gravidanza. Quel caso
aveva
coinvolto anche lei.
“Lascia a me
questo documento. Passo io
da Stevenson. Così provo a chiedergli del figlio. Tu vai a casa, fatti
un bel
bagno e aspettami. Quando torno ti preparo una cena coi fiocchi! E
magari anche
un… dessert. Che ne dici?”
“Dico che non
potevi farmi proposta migliore.”
“Ah no? E invece
n’avrei una…”
“Dopo il bagno,
caso mai. Ora non
riuscirei a prenderla in considerazione. Sono a pezzi…”
“Dopo il bagno e
la cena te ne fili a
letto. A dormire. Hai un’aria davvero affaticata, Sarah. “
“Ai suoi ordini,
capitano” disse con un
sorriso, prima d’uscire e lasciarlo di nuovo solo con le sue strane
sensazioni.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Capitolo 14
La casa era
quella. Posteggiò l’auto,
prese il berretto dal sedile di fianco e scese, chiudendo lentamente la
portiera.
Aveva un sacco di pensieri per la testa che continuavano a tormentarlo.
Attraversò la
strada e si diresse verso
la villetta.
Finalmente, la
sera precedente, aveva
capito cosa non riusciva a far quadrare: Bill Stevenson non era
l’assassino di
Darleen e di sua moglie. Ormai ne aveva l’assoluta certezza. Quando gli aveva fatto
firmare il documento
che Mac aveva preparato, tutte le sensazioni strane che lo avevano
tormentato
durante la giornata avevano trovato risposta di fronte a qualcosa che
avrebbe
dovuto osservare già prima, se solo non fosse stato tanto coinvolto
emotivamente in quel caso.
Bill Stevenson
era mancino.
Ecco perché
quello che leggeva sul
rapporto di Teresa non gli quadrava nella testa! Probabilmente il suo
inconscio
aveva già registrato quel particolare, ma la sua parte razionale non lo
aveva
ancora collegato alle informazioni ricavate dall’autopsia sulle due
vittime.
Il rapporto del
capitano Coulter non
parlava di un assassino mancino e lui era assolutamente certo che la
miglior patologa
legale che avesse mai conosciuto non si sarebbe fatta sfuggire un
particolare
tanto importante. E se anche aveva avuto dei dubbi, Teresa glieli aveva
definitivamente risolti quando le aveva telefonato per avere una
conferma: i
colpi inferti alle vittime provenivano da una persona alta tra il metro
e
sessantacinque e il metro e ottanta che impugnava il coltello con la
mano
destra. E questo escludeva l’imputato. Quando, tornato a casa, n’aveva
fatto
parola a Sarah, lei aveva sospirato, quasi lo sapesse già. Harm l’aveva
guardata sorpreso e le aveva domandato come mai, se nutriva il sospetto
che il
loro assistito non fosse l’assassino, non glielo avesse detto.
“E mi avresti
ascoltato?”
“Certamente…”
“Harm, sono in
procinto di partorire,
non di perdere la ragione! Quando mi avresti ascoltato? Quando ho
sollevato
obiezioni su come avevi condotto l’interrogatorio all’inserviente
dell’hotel?
Oppure quando mi hai sbattuto la porta in faccia? Ammettilo, Harm: in
quel
momento tu eri ancora furioso con l’ammiraglio per averti costretto ad
occuparti della difesa di Bill Stevenson. E odiavi lui, perché convinto
che
avesse ucciso Darleen. Il tuo unico obiettivo era quello di dimostrare
che era
colpevole, non cercare di capire se lo fosse sul serio e provare a
difenderlo.”
“Non mi
perdonerai mai quella porta in
faccia, vero?” aveva chiesto lui, teneramente, avvicinandosi per
abbracciarla e
per chiederle ancora una volta scusa. Sapeva che lei non gli
rimproverava quel
gesto. Era lui che non riusciva a perdonarsi. Per la porta chiusa, ma
soprattutto per essersi lasciato trasportare dall’ira e per non averle
dato
ascolto.
Il particolare
che aveva appurato
poteva fargli vincere la causa, ma per Harm non si trattava più di
vincere o
perdere una causa. Lui, ormai, era determinato a scoprire chi fosse
realmente
l’autore di quel crimine. L’accusa, tra l’altro, avrebbe potuto
insinuare il
dubbio nella giuria che l’imputato potesse essere ambidestro. Non
sarebbe stato
l’unico. Poteva anche essere un valido appiglio: del resto, gli
investigatori
stessi non avevano prestato attenzione a quel particolare. Un
particolare,
oltretutto, che non aveva riscontri scientifici assolutamente certi.
Teresa
stessa gli aveva ricordato che, a volte, non si poteva essere sicuri al
cento
per cento. Quella era la sua opinione, dettata da anni d’esperienza e
di
quell’opinione era certa. Ma un abile avvocato dell’accusa avrebbe
potuto
mettere in dubbio la sua ipotesi. Inoltre c’erano altri indizi che
riconducevano all’accusato.
Eppure,
l’atteggiamento stesso del
signor Stevenson confermava sempre più la sua teoria: perché non aveva
fatto
parola del figlio e della ex-moglie? Una loro testimonianza poteva
confermare
che non aveva mai avuto atteggiamenti violenti. Per quale motivo
sembrava
accettare il suo destino senza dargli alcun indizio per cercare di
scagionarlo?
Neppure quando non lo stava difendendo come avrebbe dovuto, aveva avuto
da
ridire.
Aveva discusso
anche di questo, la sera
prima, con Mac, ma non erano riusciti a venire a capo di nulla. Avevano
fatto
solo alcune ipotesi, ma nessuna sembrava più di tanto plausibile.
Si avvicinò alla
porta d’ingresso della
villetta e suonò al campanello, mentre tutti questi pensieri
continuavano a
girargli in testa, senza che riuscisse a far luce su quanto fosse
realmente
accaduto. Poi, mentre la porta si apriva e sulla soglia si stagliava
una figura
che lo osservò e chiese chi fosse, Harm si rese conto che tutte le
domande
trovavano risposta e ogni tassello di quella vicenda andava al posto
giusto.
Aveva di fronte
a sé l’assassino di
Darleen.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Capitolo 15
“Obiezione,
vostro onore”, esclamò il
capitano Turner alla richiesta della difesa di presentare altri due
testimoni.
“Signori,
avvicinatevi” disse il
giudice con un cenno della mano. Entrambi gli avvocati dell’accusa si
avvicinarono, seguiti dagli avvocati della difesa.
“Vostro onore”,
esordì il capitano
Rabb, “solamente l’altro giorno siamo venuti a conoscenza
dell’esistenza di una
prima moglie e di un figlio naturale del nostro assistito. Il ragazzo
ha
diciotto anni e, assieme alla madre, potrebbe testimoniare sul
carattere
dell’imputato…”
“Non vedo come
questo possa migliorare
la situazione del suo cliente, avvocato. Le prove contro di lui sono
schiaccianti”, replicò il capitano Turner.
“ Se pensi
questo, non vedo perché
porre obiezioni”, disse Harmon Rabb, rivolgendo un sorriso al suo
compagno
d’accademia.
“Si tratta di
etica professionale: hai
già presentato la lista dei testimoni, così come l’accusa ha presentato
la sua…”
“E dai, Sturgis,
l’avresti fatto anche
tu, per un tuo assistito. Inoltre non ho ancora ascoltato tutti i miei
teste…”
“Signori
avvocati”, li interruppe il
giudice, “ritengo che questa decisione spetti a me”.
“Sissignore!”,
risposero entrambi.
“Ebbene,
capitano Rabb, può chiamare a
deporre i suoi testimoni, ma l’avverto, non esageri!”
“Grazie, vostro
onore” rispose Harmon
Rabb. Quindi, tornando al posto, seguito dal colonnello MacKenzie,
rivolse un
sorrisino compiaciuto in direzione del capitano Turner.
L’interrogatorio
della signora Parker
fu condotto da Mac, che fu molto abile nel porre all’ex-moglie
dell’imputato
domande sui suoi rapporti con l’uomo accusato di violenza su una
bambina e di
duplice omicidio. Sarah si era accuratamente preparata le domande, dopo
aver
consultato una psicologa specializzata in casi di pedofilia e
maltrattamento di
minori. La dottoressa aveva tracciato un profilo psicologico di un
soggetto a
rischio e degli atteggiamenti più evidenti: certe anomalie nel
comportamento
sessuale con adulti, tendenza alla violenza, particolare attenzione a
bambini e
adolescenti… La signora Parker rispose a tutte le domande, tese a
stabilire il
carattere dell’imputato che fu delineato come un uomo normale, non
violento,
spesso lontano per lavoro. Aggiunse anche che la loro unione aveva
risentito
proprio di questa lontananza, finché, di comune accordo, si erano
separati.
Mentre Mac
interrogava la signora
Parker, Harm osservava l’imputato: sembrava tranquillo, ma Harm era
certo che
non lo fosse realmente. Quando la teste era stata chiamata al banco
Bill
Stevenson, che non era stato avvertito della testimonianza
dell’ex-moglie, era
parso sorpreso e molto nervoso. Si era guardato più volte attorno, come
alla
ricerca di qualcuno. Poi, a mano a mano che ascoltava la testimonianza
della
donna, era sembrato rilassarsi. Harm, fra poco, l’avrebbe sorpreso di
nuovo.
“A lei la teste”.
Mentre tornava a
sedersi di fianco
all’imputato, Mac rivolse un cenno ad Harm, che le rispose con un
sorriso.
Aveva fatto un ottimo lavoro. Il loro obiettivo era quello di
sottolineare come
l’omicidio fosse strettamente collegato alla violenza sessuale subita
dalla
bambina. Harm era più che certo che il movente fosse proprio quello. O
meglio,
il fatto che la signora Stevenson avesse scoperto le violenze subite da
sua
figlia adottiva e avesse deciso di chiedere aiuto per la bambina. Chi
aveva
maltrattato la piccola era anche l’assassino. Riuscire a far sorgere il
dubbio
che l'imputato non potesse essere un molestatore di bambini, ma un
normale e
affettuoso padre e marito, era fondamentale anche per far sorgere il
dubbio che
avesse ucciso lui moglie e figlia.
“Grazie, signora
Parker”. Il tenente
Roberts aveva terminato di contro interrogare la testimone.
Harm si alzò in
piedi non appena la
signora fu tornata al suo posto.
“Chiamo William
Paul Stevenson”.
Non appena
pronunciò quel nome, vide
l’imputato voltarsi di scatto, mentre la porta dell’aula si apriva e
l’ufficiale di guardia faceva entrare il ragazzo. Dopodiché l’imputato
alzò lo
sguardo su di lui e Harm capì da quello sguardo di essere sulla strada
giusta.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Capitolo 16
“In che rapporti
è con suo padre?”
chiese Harm al ragazzo sul banco dei testimoni.
“Buoni, direi”,
rispose Paul Stevenson,
sfidandolo con la stessa aria spavalda con cui lo aveva accolto il
giorno
precedente sulla soglia di casa. Aveva risposto con lo stesso tono a
tutte le
domande che gli erano state rivolte fino a quel momento. Era stato
interrogato
sui rapporti con la defunta signora Stevenson e con la piccola Darleen
e, Harm
doveva ammetterlo, era stato in gamba: sicuro di sé, ma senza essere
insolente.
E, soprattutto, senza essere, neppure una volta, sulla difensiva. Un
atteggiamento fin troppo corretto, per la sua età, decise Harm.
“E perché,
allora, non è mai andato a
trovarlo in carcere?”
“Questo dovrebbe
chiederlo a lui”
rispose il ragazzo, esitando solo un attimo.
Bene, bene, si
disse fra sé Harm,
cominciamo ad essere meno spavaldi, vero? Lo guardò e sorrise. Poi
aspettò qualche
secondo, osservandolo. Finché il ragazzo si rilassò e sorrise a sua
volta,
sicuro d’aver soddisfatto l’inquisitore.
Allora Harm
colpì basso: “E’ a lei,
signor Stevenson, che lo sto chiedendo. E da lei pretendo una risposta”.
Il ragazzo lo
sfidò di nuovo con lo
sguardo. Poi, vedendo che lui non cedeva, ricercò la figura del padre,
quasi a
chiedere aiuto.
Era solo un
ragazzo, ma Harm non riuscì
a provare pietà per lui. Cercò di non lasciar trasparire l’odio che lo
animava,
perché era ancora troppo presto. Ma non gli fu semplice mantenere la
calma…
Aveva indagato sul ragazzo e aveva scoperto cose che non gli
erano piaciute affatto. Dopo aver capito che era lui il
molestatore e l’assassino di Darleen,
si era sforzato di trovare qualcosa che potesse giustificarlo. Ma non
aveva
trovato nulla. Solo arroganza, spavalderia e cattiveria. Era un ragazzo
che, a
parte il divorzio dei genitori, avrebbe potuto avere tutto dalla vita:
la madre
era di famiglia molto ricca e dopo la separazione dal marito l’aveva
cresciuto
nell’agiatezza di una vita di privilegi e opportunità.
Eppure, o forse a causa proprio di
quest’agiatezza, era cresciuto viziato, ribelle e malvagio. I compagni
lo
detestavano e quei pochi amici che aveva erano teste bacate come lui. A
scuola
eccelleva in tutte le discipline sportive e in qualunque tipo
d’attività che lo
portasse nell’ufficio del preside almeno una volta la settimana. Era
spesso
violento con i ragazzi più indifesi e infastidiva costantemente le
ragazzine
più giovani. Fumava e probabilmente faceva anche uso di droghe. I
genitori
erano stati avvertiti più volte ma, a quanto sembrava, non erano
riusciti a
fare granché. Avevano sempre cercato di coprirlo e proteggerlo. Proprio
come
stava facendo ora suo padre.
“E’ stato mio
padre a dirmi di non
andare a trovarlo. Forse non voleva che lo vedessi in carcere”, rispose
finalmente.
“Capisco…” disse
Harm, poi continuò,
determinato a farlo cedere: “Pensa che suo padre sia un assassino e uno
stupratore di bambine?”
“Obiezione,
vostro onore!” Il capitano
Turner s’era alzato in piedi. “Richiede un’opinione.”
“Accolta.
Capitano Rabb, le ricordo che
la mia pazienza ha un limite”, lo avvertì il giudice.
“Mi scusi,
vostro onore, cambio la
domanda.” E, rivolto di nuovo al testimone, chiese: “Ha mai visto suo
padre
molestare Darleen?”
“No”, rispose il
ragazzo.
“Ha mai visto
suo padre picchiare la
signora Stevenson?”
“No”.
“Suo padre l’ha
mai picchiata?” lo
incalzò di nuovo Harm.
“Si… una volta.”
“Una volta. E
come mai?”
Il ragazzo non
rispose immediatamente,
allora Harm domandò di nuovo: “Allora, signor Stevenson… le ricordo che
è sotto
giuramento.”
“Mi aveva
sorpreso a fare… qualcosa che
non avrei dovuto” rispose, quasi sussurrando.
“Che cosa?”
“Vostro onore,
per favore!”
l’interruppe il capitano Turner. “L’avvocato sta molestando il teste.
E’ un
altro signor Stevenson l’uomo sotto processo!”
“Capitano Rabb,
dove vuole arrivare?”,
chiese il giudice con aria severa.
“Se mi concede
di proseguire, vostro
onore, lo dimostrerò presto”
“Sta percorrendo
un terreno pericoloso,
capitano. E’ sicuro di sapere quello che sta facendo?”, domandò di
nuovo il
giudice.
“Credo di si,
signore”, rispose Harm,
fissandolo negli occhi. Il giudice restò un attimo in silenzio, poi
disse:
“Prosegua”.
“Ma, vostro
onore…”, cercò di ribattere
Sturgis Turner, ma fu zittito da un “Potrà contro interrogare il teste,
capitano. E concederò anche a lei ampia libertà”.
Rassegnato,
Sturgis si sedette e Harm
continuò.
“Allora, Paul,
ricordi la domanda? Ti
avevo chiesto per quale motivo tuo padre ti ha picchiato”.
Il ragazzo
esitò, come non volesse
rispondere. Ma poi capì che non avrebbe potuto rifiutarsi.
“Stavo… stavo
fumando.”
“Stavi fumando.
Capisco. E tuo padre ti
avrebbe picchiato per una sigaretta?”
“Non era una
sigaretta normale…”
“Droga?”
Il ragazzo
annuì, ma Harm lo costrinse
a rispondere: “Si, droga. Si trattava di uno spinello… nulla di serio.
Ma mio
padre è un militare. E’ molto rigido per queste cose…”. Harm lo vide
riacquistare l’aria spavalda e sicura di sé: era certo d’aver trovato
un argomento
convincente.
“E poi?” lo
incalzò Harm.
“E poi cosa?”
“Avrai smesso,
suppongo?”
“Si, certo…” la
domanda l’aveva colto
di nuovo di sorpresa. Perché quell’avvocato non la smetteva di fargli
domande?
Cosa c’entravano gli spinelli con la difesa di suo padre?
“Strano, a me
non risulta. I tuoi
insegnanti mi hanno riferito che continui. Tu padre lo sa, questo?”
“Obiezione,
vostro onore! L’avvocato
sta davvero esagerando. Non capisco dove voglia arrivare…”
Il giudice calmò
immediatamente il
capitano Turner, accogliendo l’obiezione.
“Ritiro la
domanda, vostro onore” disse
Harm, poi proseguì: “Conosci l’Hotel Splendor di questa città?”
“Si… di nome.
Non è dove sono state
uccise…”
“Esatto. E sei
mai stato lì?”
“No.”
“Sicuro?”
“Vostro onore,
il teste ha già risposto!”,
obiettò di nuovo l’accusa.
“Vostro onore,
prima di lasciar contro
interrogare il teste, chiedo di poter richiamare sul banco dei
testimoni
l’addetto alla reception dell’hotel Splendor”, chiese Harm al giudice.
Il
giudice fermò con la mano l’ulteriore
obiezione che stava per uscire dalle labbra del capitano Turner e fissò
per un
momento il capitano Rabb e il ragazzo. Purtroppo stava iniziando a
capire dove
voleva andare a parare l’avvocato della difesa. Rabb spesso agiva fuori
dagli
schemi, lo sapeva bene. Ma conosceva anche il suo intuito ed era
perfettamente
a conoscenza che, se non avesse avuto validi motivi per tormentare un
ragazzo
di diciotto anni, non l’avrebbe mai fatto. All’inizio del processo, era
stato
quasi certo che avesse delle reticenze a difendere l’imputato,
probabilmente
perché lo considerava colpevole. Ma da una settimana il suo
atteggiamento in
aula era cambiato e negli ultimi giorni era tornato ad essere
convincente.
Qualcosa doveva essere cambiato. Decise di dargli fiducia: la verità,
soprattutto in un caso come quello, meritava la priorità su tutto.
Anche su
eventuali regole di procedura penale. Tra l’altro, non avendo ancora
concluso
con le testimonianze, la difesa aveva tutto il diritto di richiamare un
suo
teste.
“Proceda,
avvocato.”
“Grazie, vostro
onore.”
Sul banco dei
testimoni si sedette il
signor Mitchell, l’addetto alla reception che, assieme ad Harm aveva
trovato
madre e figlia in fin di vita.
“Signor
Mitchell, le ricordo che è
ancora sotto giuramento”, esordì il capitano Rabb, prima di porgli la
domanda
per la quale lo aveva richiamato.
“Certo, lo so”,
rispose l’uomo.
“Signor
Mitchell, ha mai visto
l’imputato?”
“No signore. O,
almeno, non prima di
vederlo in tribunale.”
“Grazie per la
precisazione, signor
Mitchell. E mi dica, riconosce, in quest’aula, qualcuno già visto
prima, ossia
prima di questo processo?”
“Sì.”
“Chi, signor
Mitchell?”
“Il ragazzo…”
“Intende Paul
Stevenson, il figlio
dell’imputato?”
“Proprio lui.”
“E dove e quando
l’avrebbe visto?”
“All’hotel. Quel
giorno… poco prima che
lei arrivasse.”
“Ne è sicuro,
signor Mitchell?”
“Sicurissimo. Fu
il ragazzo a darmi la
busta per la signora Stevenson.”
“Quella che lei
mise nella casella 128?
Poco prima d’alzarsi per andare in bagno, come disse nella sua
testimonianza?”
“Esatto.”
“Grazie, signor
Mitchell. Può andare.
Richiamo William Paul Stevenson.”
Il ragazzo tornò
al banco. Harm ammirò
il suo sangue freddo: non aveva abbassato gli occhi neppure per una
volta.
Forse le cose gli erano sfuggite di mano, forse non era sua intenzione
uccidere. Questo non giustificava la violenza alla bambina, ma avrebbe
voluto
dargli ancora una possibilità. In fondo si trattava di un ragazzo di
diciotto
anni…
“Signor
Stevenson, ora ricorda d’esser
stato all’hotel Splendor?”
“Sì. Lo ricordo.”
“E ricorda anche
perché ci andò?”
“Dovevo
consegnare una busta ed è
quello che ho fatto.”
“E per chi era
il messaggio?”
“Per la moglie
di mio padre” rispose il
ragazzo. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: “Fu lui a consegnarmela.”
“Vuol forse dire
che fu suo padre a
chiederle di consegnare quel messaggio?”
Harm si appoggiò
con entrambe le mani
al banco degli imputati, scrutando negli occhi il testimone. Quel
ragazzo non
aveva scrupoli. D’accordo, suo padre aveva cercato di coprirlo,
addossandosi
una colpa che non aveva commesso. Poteva capirlo: era suo figlio e lui
l’avrebbe protetto fino alla morte, nonostante tutto. Ma ora si
trattava
d’altro. Ora era il ragazzo che stava cercando d‘incastrare, e
consapevolmente,
il padre.
Non rispose,
allora Harm proseguì,
deciso a metterlo alle strette. Non aveva più nessuna pietà per lui.
“Non fu invece
lei, signor Stevenson, a
seguire la sua matrigna, a consegnare il messaggio per vedere il numero
della
camera in cui alloggiava con Darleen, aspettare il momento buono, un
attimo in
cui l’impiegato della reception non fosse al suo posto e salire in
camera, per
uccidere entrambe?” La voce di Harm risuonò nell’aula di tribunale e
zittì
tutti i presenti.
Tutti, tranne
l’accusa.
“Obiezione!”,
esclamò il capitano
Turner, alzandosi in piedi.
Ma il capitano
Rabb non ascoltò
neppure. Anzi, continuò imperterrito.
“Non è forse
vero, Paul, che tuo padre
ti scoprì mentre molestavi la bambina? E non è forse vero che fosti tu,
tempo
dopo, a sentire la telefonata che Darleen mi fece, chiedendo aiuto?”
“Obiezione!”.
“E non fu per
quello che, quando
scopristi che la tua matrigna stava portando qui la bambina, per timore
che
tutto venisse alla luce, decidesti di ucciderle? Tu non volevi bene a
Darleen,
come hai fatto credere a noi tutti durante la tua testimonianza. Tu
l’odiavi.
Lei viveva con tuo padre e aveva il suo affetto…”
“Vostro Onore!
Il capitano Rabb sta
passando ogni limite!” Sturgis Turner cercò di fermare l’ondata di
domande cui
Harm stava sottoponendo il teste. Ma non riuscì nel suo intento.
Harm era stato
abile a portare il
ragazzo all’esasperazione. Infatti, con quell’ultima frase, ottenne
proprio ciò
che voleva: prima ancora che il giudice potesse riprenderlo per
l’evidente
comportamento fuori regola che stava tenendo nella sua aula, il ragazzo
reagì
come Harm si era aspettato.
“Sì, sì, sì!”
gridò, alzandosi in
piedi. “Io la odiavo! E odiavo anche quella donna che aveva preso il
posto di
mia madre! Ogni volta che andavo da mio padre, lei mi guardava con
quegli
occhioni imploranti… e io la odiavo sempre più. Mio padre voleva che la
facessi
giocare, che instaurassimo un rapporto come fossimo davvero fratelli.
Fratelli!
Io e una sporca negretta!”
“Era una
bambina… una bambina
dolcissima, che aveva già sofferto molto nella sua breve vita”. Harm
non
riuscì a trattenere il disgusto di fronte a quelle parole e a
quell’odio. Nulla
poteva giustificare un odio simile, neppure la gelosia. Quel ragazzo,
di certo,
era cresciuto con un concetto molto distorto del bene e del male. Quale
ne
fosse la causa, sarebbe stato capace di far del male anche ad altre
persone, se
ne avesse avuto motivo. Non aveva scrupoli, non aveva morale. L’errore
di suo
padre, quando aveva scoperto cos’aveva fatto alla bambina, era stato
quello di
proteggerlo, sentendosi in colpa per com’era diventato.
“Anche lui lo
diceva”, continuò il
giovane, rivolto verso il padre. Bill Stevenson si era preso il volto
tra le
mani, per nascondere le lacrime e la vergogna. “Non era vero, invece.
Non aveva
ancora sofferto abbastanza! L’ho fatta giocare, come voleva mio padre…”
terminò
la frase con un sorriso sarcastico.
Il capitano
Turner aveva ascoltato ogni
parola del ragazzo in piedi, pronto ad obiettare per l’ennesima volta.
Ma alle
ultime parole del testimone, non disse nulla e si risedette.
Non c’era più
nulla da dire.
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Capitolo 17
“Come hai capito
che era lui?”, chiese
Teresa. Aveva assistito alle ultime battute del processo, curiosa di
vederlo
agire di nuovo in tribunale. Già una volta le era capitato di vederlo
in azione
ed era un’esperienza che, sebbene mettesse a dura prova i suoi
sentimenti,
valeva la pena d’affrontare. Ma
non
s’aspettava di assistere alla resa dei conti.
Harm non rispose
subito e continuò a
ritirare i fascicoli relativi al processo nella cartella, mentre Mac e
Teresa
l’osservavano. Avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto: aveva vinto la
causa, aveva
trovato l’assassino di Darleen ed era riuscito a darlo in pasto alla
giustizia.
Eppure, più che soddisfatto, si sentiva sfinito. Aveva visto l’odio e
la
violenza in molte persone e in diverse circostanze. Lui stesso, a
volte, era
stato costretto dagli eventi ad uccidere. Ma quello che aveva letto
negli occhi
di quel ragazzo quel giorno, lo aveva turbato forse più delle sue
stesse crisi
di coscienza dopo che, in azioni militari, o per difesa personale,
s’era visto
costretto a togliere la vita a qualcuno.
“Quando l’ho
visto”, rispose. “Quando
l’ho visto sulla soglia di casa della madre, ho riconosciuto
immediatamente il
ragazzo descritto dall’impiegato della reception. Non so come mai. In
fondo è
un ragazzo abbastanza comune. Ma ricordavo, dalla prima testimonianza
del
signor Mitchell, quella che io solo avevo sentito, mentre la forniva
alla
polizia, come aveva descritto lo sguardo di quel ragazzo che aveva
consegnato
la busta. Quando mi ha aperto la porta e mi ha visto, aveva lo stesso
sguardo,
come se volesse sfidarmi. Stavo rimuginando su quello che avevo
scoperto la
sera prima, sul fatto che il signor Stevenson è mancino e che non
poteva essere
l’assassino. Mi stavo chiedendo, per l’ennesima volta, come mai non
avesse
voluto parlarci del figlio e della prima moglie… tutte quelle domande
sembravano i pezzi di un puzzle sparsi sul tavolo. Erano tutti lì,
mancava solo
di trovare il posto giusto ad ogni pezzo. Mentre mi parlava, sentii che
il
puzzle si ricomponeva da solo…”.
Guardò Teresa:
chissà se avrebbe
capito? Mac, n’era certo, l’aveva compreso. Lei lo conosceva, conosceva
il suo
istinto e certe sue sensazioni. Ma Teresa?
“Hai agito
d’istinto, come fai sempre,
e hai avuto ragione”, commentò il capitano Coulter.
Harm guardò sua
moglie, che gli
sorrise: anche lei aveva ragione. Teresa lo conosceva bene… più di
quanto lui
stesso riuscisse ad immaginare. Mac avrebbe detto perché lo amava.
Forse non
aveva tutti i torti.
Preferì non
indagare troppo nei meandri
della mente femminile, altrimenti non avrebbe più avuto il coraggio di
coinvolgere Teresa quando n’avesse avuto bisogno, per lavoro o come
amica. In
fondo, poteva ancora contare sull’insensibilità tipicamente maschile
per
svicolare, come spesso aveva fatto, di fronte a certe situazioni che
faticava a
gestire.
Era ora di
andare a sistemare i
documenti relativi al processo e preparare un rapporto per
l’ammiraglio: salutò
Teresa e diede un rapido bacio a sua moglie.
Mentre si
accingeva a lasciare l’aula
del tribunale, chiese in tono leggero:
“Ci vediamo a
casa, signore? Sarai
nostra ospite, vero, capitano?”. Poi
rivolse loro un sorriso e se ne andò, senza nemmeno attendere risposta.
In fondo, a quel
sorriso, aveva
abituato entrambe.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Capitolo 18
Chiamò
l’ascensore, ma non riuscì ad
aspettare che arrivasse: usò le scale, salendo i gradini a due a due.
Quando il
cellulare era squillato,
mentre si trovava dall’ammiraglio, un’ora dopo aver lasciato Mac e
Teresa in
tribunale, aveva risposto quasi di malavoglia. Non voleva essere
disturbato,
perché desiderava tornare a casa al più presto, per gustare una cena
tranquilla
con sua moglie e con un’amica, prima di salutarla e mettere
definitivamente una
pietra sopra a quel caso che l’aveva coinvolto in maniera tanto
personale.
Spalancò la
porta di servizio e si
ritrovò, a distanza di soli dieci giorni, di nuovo in una sala
d’aspetto
dell’ospedale. E ritrovò immutate le stesse sensazioni d’ansia e di
paura.
Sperava solo che la situazione non finisse come la volta precedente.
Quando aveva
risposto al telefono, la
voce di Teresa Coulter l’aveva colto di sorpresa: perché lo chiamava?
Non era
andata a casa con Sarah?
“Harm, sono in
ospedale. Ho
accompagnato Mac…”. Non aveva atteso che terminasse la frase: si era
alzato,
aveva farfugliato qualcosa all’ammiraglio ed era corso in macchina il
più
rapidamente possibile. Ricordò d’aver maledetto più volte di non essere
alla
guida di un F-14, anziché di un’auto…
“Teresa…” quasi
non riusciva a
pronunciare il suo nome, quando la vide.
“Vai, è oltre
quella porta. Ti sta
aspettando” gli disse, con una voce dolce, quasi materna. Una voce che
si
accorgeva di usare solo con lui.
“Ma… sta bene? “
“Starà meglio
tra poco.”
“E’… è il
bambino?”
“Certo che è il
bambino! Cosa credevi
che fosse?”
“Temevo si fosse
sentita male, che
fosse caduta… Ma, non è troppo presto, per il bambino? Sarebbe dovuto
nascere
fra 15 giorni…”
“Si vede che è
ansioso di conoscervi.
Ora vai, ha bisogno di te.”
“Grazie,
Teresa”, le disse,
abbracciandola.
Il capitano
Coulter restò in piedi a
lungo, nello stesso posto, persa nel ricordo di quell’abbraccio. Poi,
come
ritornando alla realtà, s’incamminò verso l’ascensore e uscì
dall’ospedale.
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Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
Capitolo 19
Non riusciva a
smettere di guardare suo
figlio.
Lucas Rabb era
nato da appena
ventiquattro ore e aveva già conquistato tutti. Sua madre e Frank
continuavano
a transitare davanti alla nursery o a far la spola in camera di Mac, ad
ogni
poppata, pur di vederlo. Harriet e Bud erano già passati a trovarlo ben
due
volte. Persino l’ammiraglio aveva chiesto il permesso alla neo-mamma
per
prenderlo in braccio.
Sarah era molto
felice. Nonostante il
travaglio fosse stato faticoso, non appena aveva avuto il bambino tra
le
braccia, era sembrata rinascere. E lui non riusciva ancora a
capacitarsi di
come fosse riuscita a riprendersi tanto rapidamente, dopo come l’aveva
vista
soffrire durante il parto. Ma, a quanto pare, le madri hanno risorse
interiori
che un padre non riesce mai a comprendere fino in fondo.
Guardò ancora
una volta suo figlio, che
dormiva nella culla. Era un neonato molto grande, rispetto alla media,
eppure a
lui sembrava così piccolo e indifeso… Mac aveva avuto ragione, quando
sosteneva, durante la gravidanza, che sarebbe diventato un gigante come
suo
padre, per come gli sentiva i piedi mentre scalciava in pancia! Quando
lo aveva
visto, aveva voluto subito guardargli i piedini e poi gli aveva detto,
ridendo:
“Vedi che avevo ragione?”
“Ciao…” La voce
del capitano Coulter lo
riscosse dai suoi pensieri.
“Oh, ciao,
Teresa”, la salutò con un
sorriso. “Dove sei andata, ieri sera? Ti ho cercato, dopo la nascita di
Luke,
ma eri sparita. “
“Sono tornata in
albergo. Oggi ho
terminato tutte le pratiche di mia competenza relative al caso e sono
pronta a
partire. Sono passata a farvi gli auguri e a salutarvi. Ho già visto
Mac. E’
stata lei a dirmi che t’avrei trovato qui”.
“O sono con lei,
o sono con lui…”
rispose, voltandosi di nuovo a guardare suo figlio. Si stava svegliando
e
l’infermiera gli fece un cenno con la mano.
Si voltò verso
Teresa e le disse:
“Sanno che attendo il momento in cui si sveglia per prenderlo un attimo
in
braccio e mi avvisano. Se non venissi qui, non riuscirei quasi a
vederlo!
Quando lo portano a Mac, c’è sempre qualcuno che lo vuole coccolare e
non
riesco neppure ad accarezzarlo. Così vengo qui. All’inizio le
infermiere non
volevano farmelo prendere in braccio, ma le ho convinte…”
“E immagino
anche come!”, disse lei,
con un sorriso. “Le avrai incantate con il tuo fascino!”.
“Queste sono
peggio di certi Marines…
non si lasciano incantare dal mio fascino.”
“Ma come? Se ne
hai sposato uno, di
quei Marines!”
“Ma è stata lei
ad incantare me”,
rispose lui, divertito. Poi continuò: “Ad ogni modo, ho dovuto
ricorrere a ben
altro che un sorriso per intenerire questi gendarmi…”
“Certo, come
no!”. Teresa lo guardò e
pensò che non lo aveva mai visto tanto felice.
L’infermiera
aprì la porta della
nursery e chiamò il capitano Rabb con un sorriso. Lui la seguì, indossò
il
camice sterile e si avvicinò alla culla del piccolo Rabb. Si fermò un
istante
ad ammirare suo figlio, prima di prenderlo delicatamente in braccio ed
avvicinarsi al vetro, per mostrarlo al capitano Coulter.
Teresa lo
osservò e si abbandonò ai
sentimenti che provava per quell’uomo: in fondo, faceva del male solo a
se
stessa. Ma l’emozione di vederlo con in braccio suo figlio, valeva
quella
stretta allo stomaco che provava al pensiero che non sarebbe stato mai
suo,
neppure più nei suoi sogni. Le rimaneva una sola consolazione: aveva
avuto
ragione anche in quello.
Harmon
Rabb era davvero fantastico con un
bambino tra le braccia.
FINE
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