Un caso molto personale

di Alexandra_ph
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




UN CASO MOLTO PERSONALE




Capitolo 1


Odiava quel luogo. Odiava quell’attesa.

L’odore del disinfettante impregnava l’aria e non riusciva più a sopportare di non avere ancora notizie. I medici erano tutti scomparsi e con loro anche le infermiere.

Si alzò per l’ennesima volta, poi si risedette. Appoggiò la schiena, per cercare di distendere le gambe, ma immediatamente cambiò idea: si rimise seduto e si prese la testa tra le mani.

Da quanto tempo era lì, ormai?

Probabilmente non era passata neppure mezz’ora. Ma a lui sembrava d’esser lì da giorni.

Una porta si aprì alle sue spalle. Sentendone il rumore, si voltò di scatto e guardò il volto del dottore che vide dietro di sé. Cercò di capire dall’espressione; si trattava, però, di un professionista, abituato a gestire certe situazioni. Tuttavia, quando lo vide distogliere per un attimo lo sguardo, capì che le notizie non sarebbero state buone.

Perché? Oh, Signore, perché? No… non un’altra volta…

Sentì gli occhi inumidirsi di lacrime e cercò di scacciarle con un rapido gesto: non era ancora il momento di lasciarsi andare al dolore. E poi non era ancora certo che… Eppure quello che leggeva sul volto del medico, non poteva lasciare dubbi.

 Abbassò la mano che era risalita agli occhi e la vide ancora macchiata di sangue. Del loro sangue. Non resistette più: doveva sapere.

“Dottore…” la sua voce, di solito molto decisa, fu appena un sussurro.

“Mi spiace, capitano…”

Aveva già capito, ma non disse nulla. Voleva sentire tutto quanto dalle parole del medico.

“Non siamo riusciti a salvarle. Mi spiace.” Il dottor Bellamy guardò quell’uomo provato dal dolore e pensò che per ogni buona notizia che dava, almeno il doppio, purtroppo, erano cattive. E col tempo non riusciva più a sopportare questo rapporto.

Una donna e una bambina… Non erano riusciti a salvare nessuna delle due. Né la madre, né la figlia.

“Sono… sono morte entrambe?”

“Si. Prima la madre, poi anche la piccola.”

Ecco: ora era finita. Ora quell’interminabile attesa era finita. Ora avrebbe potuto lasciare quel luogo che tanto odiava.

Avrebbe potuto andarsene… Solo.

Sentì che non sarebbe più riuscito a resistere neppure per un minuto: guardò ancora una volta il medico e poi s’incamminò lentamente verso l’ascensore.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***





Capitolo 2


La porta si aprì e per poco non si scontrò con due persone, un uomo e una donna.

“Harm.”

Sentì la voce della donna pronunciare il suo nome e gli sembrò un suono familiare. Cercò di portare l’attenzione sul volto della signora e realizzò che si trattava di sua madre.

“Mamma…”

“Harm. Come stanno?” chiese Trish Burnett.

Scosse il capo, ma non riuscì a ripetere quella parola: morte.

Vide sua madre portarsi una mano alla bocca, nel vano tentativo di soffocare un singhiozzo; il suo patrigno le circondò le spalle e la donna si rifugiò in quell’abbraccio.

Harm sentì una mano di Frank anche sulla sua spalla, ma non riuscì a fare come lei. Proseguì all’interno dell’ascensore, si voltò a guardarli per un secondo e poi, lentamente, premette il tasto che lo avrebbe portato a terra. Mentre le porte si chiudevano, sentì ancora sua madre chiamarlo, ma ormai era tardi: l’ascensore stava scendendo.

Trish rimase immobile, a guardare le porte chiuse di fronte a lei col cuore spezzato. Possibile che quel figlio, tanto dolce, tanto forte e tanto coraggioso, dovesse essere sempre messo alla prova così duramente dalla vita?

“Oh, Frank! Hai visto il suo sguardo?” chiese al marito.

“Si. L’ho visto.”

“Come farà a sopportare anche questo dolore? Ha solo trentotto anni, eppure… quante morti ci sono già state, finora, nella sua vita?”

“E’ un ragazzo forte. Vedrai, riuscirà a superare anche questa!”

“Si… ma la bambina… è morta anche la bambina...”

“Lo so, cara. Lo so.”

Frank Burnett sospirò e si guardò attorno, alla ricerca di una sedia per far sedere Trish.

“Siediti, cara. Vieni qui. Vado a cercarti dell’acqua” le disse, indicando un divanetto accanto ad una finestra. Quindi s’incamminò verso il banco delle infermiere.

Povera Trish! Era sempre in pena, in un modo o nell’altro, per Harm. E lui di conseguenza. Lo aveva sempre considerato come il figlio tanto desiderato e, purtroppo, mai avuto. Anche se era figlio del primo marito di Trish, il tenente della marina Harmon Rabb sr., disperso in missione durante la guerra del Vietnam, la vigilia di Natale del 1969.

Harm era la copia esatta del padre, sia come aspetto fisico, sia per mille altre cose. E in ciò che non gli assomigliava per natura, aveva fatto il possibile per assomigliare: seguendo le orme del genitore, anche Harm era pilota d’aerei militari, e come il padre aveva fama d’essere molto abile e coraggioso.  Già decorato ben due volte, la sua carriera come pilota di F-14 era stata stroncata da un difetto di visione notturna. Harm aveva frequentato, allora, la scuola di legge e da anni era un brillante e capace avvocato della Procura Militare.

 Quando Harm aveva intrapreso la professione legale, Trish aveva tirato un sospiro di sollievo: non aveva mai impedito al figlio di diventare pilota come il padre, ma lei stessa aveva ammesso che, ogni volta che lo sapeva in missione, riviveva la stessa paura e angoscia vissute più di trent’anni prima col marito. Tuttavia, a quanto sembrava, anche la vita come avvocato non era esente da morte e dolore, per Harm.

Eppure, solo pochi giorni prima era talmente felice…

Alla fine d’ottobre dell’anno precedente, pochi giorni dopo aver compiuto trentott’anni, si era finalmente sposato con Mac, il colonnello Sarah MacKenzie, sua collega e amica, della quale era stato sempre innamorato, ma che aveva rischiato di veder sposata con un altro a causa della sua cocciutaggine.

Quando erano venuti a conoscenza della notizia, Trish era al settimo cielo! Le piaceva molto Mac ed era felicissima all’idea d’averla come nuora. Riteneva che, tra tutte le donne che il suo bel figlio avesse avuto, lei fosse certamente la più adatta ad un tipo come lui. La gioia alla notizia del matrimonio era stata ancora più completa, quando era stato comunicato loro che i futuri sposi sarebbero presto diventati genitori.

Lui e Trish erano venuti a Washington per il matrimonio alla fine di ottobre e poi, dopo una lunga vacanza in Sud America, erano tornati proprio per star vicino ad Harm e Mac per la nascita del bambino.

E ora questo…

“Desidera, signore?” Una voce femminile lo distolse dai suoi pensieri.

“Dove potrei trovare un bicchiere d’acqua per mia moglie?”

“Aspetti, glielo porto io” rispose l’infermiera, prima d’allontanarsi.

Frank attese il ritorno della giovane donna in silenzio; poi, dopo aver preso il bicchiere che lei gentilmente gli porgeva, raggiunse sua moglie per starle vicino.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***





Capitolo 3


Entrò nell’appartamento vuoto. Si guardò intorno, ma gli oggetti familiari non gli trasmettevano, quel giorno, le stesse sensazioni. Forse domani sarebbe andata meglio.

Si avvicinò al telefono, sollevò la cornetta e compose un numero: cominciava a ricordarselo a memoria. A volte lo aveva composto solo per fare due chiacchiere; altre, purtroppo, perché ne aveva bisogno. Questa volta era una di quelle.

Il telefono squillò per qualche secondo; poi la voce all’altro capo gli rispose.

“Parla Harmon Rabb. Salve, capitano. Ho bisogno del suo aiuto, ancora una volta.”

Attese la risposta in silenzio. Quindi annuì a qualcosa che l’interlocutore stava dicendo. Infine concluse: “Ci vediamo domattina, allora, alle undici. Sarò lì ad aspettarla” e chiuse la comunicazione.

Si sentiva a pezzi.

Lentamente si sbottonò la giacca della divisa. Con un gesto automatico fece per togliersi il berretto, ma si rese conto che non lo aveva più. Non importava… Nulla sembrava importare.

Tolse la giacca, si levò cravatta e camicia e gettò tutto su una sedia. Si sedette per slacciarsi le scarpe. Poi si alzò, sbottonò i pantaloni e li fece scivolare a terra.

Non provava nulla, in quel momento. Si sentiva come un automa.

Scalciò da un lato le scarpe e si tolse anche le calze, restando in boxer. Quindi notò la solita coperta ripiegata e decise di non fare neppure lo sforzo di andare a letto. La prese, si abbandonò sul divano, gettandosela addosso, e chiuse gli occhi, sperando di riuscire a dormire.

Per dimenticare… almeno per un po’.

 


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***





Capitolo 4


Il dottor Bellamy si guardò attorno, cercando un’infermiera. Vide solo una coppia di mezza età seduta su un divanetto, accanto alla finestra. Si avvicinò e chiese loro:

“Scusate. Avete visto un ufficiale della Marina?”

La donna sollevò lo sguardo e il medico notò che aveva gli occhi lucidi.

“Harm? Sta cercando Harmon Rabb?” chiese.

“Si. Sto cercando il capitano Rabb. Lo conosce?”

“E’ mio figlio”

“Suo figlio?  E sa dov’è, ora?”

“Se n’è andato”, rispose la donna, facendo un cenno in direzione dell’ascensore.

“Capisco…” disse il dottore.

“Perché lo cerca?” chiese quello che doveva essere il padre del capitano.

“Cerco suo figlio perché volevo comunicargli che i corpi sono stati composti nell’obitorio, al momento, nell’attesa d’altre disposizioni.”

“Non so dove sia ora… d’accordo dottore, glielo diremo noi.”

“Grazie, signor Rabb.”

“Burnett.”

“Prego?”

“Sono Frank Burnett, il patrigno del capitano Rabb.”

“Mi scusi… Grazie, signor Burnett” e il medico fece per allontanarsi. Ma la voce della donna lo fermò.

“Hanno sofferto?”

“Come, scusi?” chiese, voltandosi di nuovo verso la coppia.

“Le ho chiesto se hanno sofferto molto, prima di morire.”

Il dottore non sapeva cosa rispondere. Avevano sofferto? Certamente. Ma come poteva dirlo a quella signora? Cercò di tergiversare, ma fu inutile. La donna aveva capito dal suo silenzio.

 


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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***





Capitolo 5


Era stata una giornata lunga e faticosa. Prima in ufficio, con un problema dietro l’altro. Poi la visita dalla dottoressa. Infine l’incontro con Trish e Frank in ospedale e quell’orribile notizia.

Infilò la chiave nella serratura e aprì la porta: l’appartamento era al buio.

Chiuse lentamente e si tolse il cappotto. Quando fece per accendere la luce, sentì un rumore e capì di non essere sola. Si voltò verso il divano, da dove aveva sentito provenire il suono e lo vide: le luci della sera, che entravano dalla finestra, gli illuminavano il volto.

Era tornato a casa.

Sospirò lentamente, rilasciando tutta l’ansia che l’aveva assalita non appena aveva saputo che era uscito dall’ospedale, immediatamente dopo aver appreso che erano morte.

Lo osservò per un attimo e notò quanto il suo sonno fosse teso, agitato. Tolse le scarpe e gli si avvicinò piano, per non svegliarlo. Aveva bisogno di dormire. Si piegò verso di lui e guardò quel viso che amava fin dalla prima volta che lo aveva visto. Aveva la stessa espressione nervosa che gli aveva osservato ogni volta che si era trovato di fronte a violenza e morte.

Di solito non aveva quell’espressione, quando dormiva. In genere il suo volto era rilassato e beato, come quello di un bambino. Lei lo sapeva bene! Adorava osservarlo dormire, soprattutto ultimamente, quando a causa della gravidanza, era sveglia almeno un paio di volte per notte per andare in bagno. Tornata a letto, rare volte riusciva a riaddormentarsi immediatamente; allora accendeva la luce fioca che aveva fatto mettere sul comodino, per ritrovare il sonno leggendo qualche pagina di un libro. Oppure osservava lui. Era solito dormire su un fianco, quasi sempre voltato verso di lei. Una mano sotto ad una guancia, l’altra abbandonata, più spesso allungata a cercare la sua. A volte si era svegliata accorgendosi che la teneva per mano. Qualche volta l’aveva sentito lamentarsi nel sonno, mentre brontolava qualcosa d’incomprensibile. E tempo prima era stata svegliata da un suo grido: stava sognando l’incidente aereo che aveva stroncato la sua carriera di pilota, anni addietro.

Ma mai gli aveva visto un’espressione tanto tesa e sofferta. Avrebbe desiderato fargliela sparire, tuttavia sapeva che le sarebbe stato impossibile, finché lui stesso non lo avesse deciso. E ci sarebbe riuscito solo quando avesse messo le mani addosso a quell’assassino, a quell’essere spregevole che aveva stroncato due vite: quelle di una donna e di una bambina.

Gli accarezzò piano i capelli, per non svegliarlo, però Harm la sentì. Aprì gli occhi e la osservò per qualche istante, come per metterla a fuoco. Poi sollevò una mano verso il suo viso e l’attirò a sé, per posare le labbra sulla sua bocca. Sarah assecondò il suo movimento avvicinandosi a lui e rispose con tutta se stessa al quel bacio, mentre con le mani accarezzava delicatamente il suo torace nudo.

Adorava sentire sotto le dita quella pelle tanto liscia. Ogni volta che lo toccava, si chiedeva sempre sorpresa come potesse essere così morbido e caldo. Eppure tutto si poteva dire di Harm, tranne che fosse di aspetto delicato. Il suo fisico muscoloso sembrava scolpito e lei amava sentirsi stringere dalle sue braccia. Tanto che ora, che lui era molto più tenero quando la stringeva per non far male al bambino, le mancavano quei suoi abbracci così forti da toglierle il fiato.

Al tocco leggero di Sarah, il corpo di Harm reagì immediatamente. Si mise seduto, la osservò in silenzio e con lentezza, sempre in silenzio, iniziò a spogliarla. Aveva bisogno di lei, del suo corpo, del suo calore. Desiderava annullarsi completamente, amandola come desiderava fare ogni volta che le era vicino.

Per dimenticare.

Per dimenticare tutto l’orrore, tutto quel sangue, tutto quel dolore. Per sentirsi di nuovo vivo, tra le sue braccia.  Lei lo lasciò fare e Harm indugiò di nuovo sulle sue labbra, sulla pelle morbida del collo, finché non sentì le lacrime che gli bruciavano gli occhi.  Anche Sarah se n’accorse, perché sollevò una mano e la accostò al suo viso, cercando di asciugargliele con lo stesso gesto che aveva imparato da lui.

Quando lei lo capiva in quel modo, immediatamente, senza una parola, Harm sentiva di amarla ancora più di quanto già non l’amasse. E mentre lei lo abbracciò, si abbandonò finalmente al dolore.

Non fece l’amore con lei. Affondò il viso tra i suoi capelli e pianse tutte le lacrime trattenute fino a quel momento.

 


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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***





Capitolo 6


Il bambino si mosse e la svegliò. Sarah aprì gli occhi e scoprì che non era stato il suo cucciolotto a svegliarla, ma Harm, che le stava accarezzando il pancione.

“Ciao… pensavo che fosse il piccolo a disturbare il mio sonno. Invece sei tu!”

“Non solo io: anche lei si stava agitando” rispose Harm con un sorriso dolce sulle labbra. Sorrideva sempre così, ogni volta che parlava del loro bambino. E ogni volta, se lei si riferiva al bambino al maschile, lui rispondeva al femminile. Mentre se Sarah ne parlava come se parlasse di una femminuccia, Harm ribatteva riferendosi ad un maschietto! Nessuno dei due riusciva a decidersi su cosa avrebbero preferito avere, così continuavano ad alternare idee e continuavano a cambiare nomi.

Sembrava un poco più sereno, quella mattina. Ma lei sapeva che si trattava solo di quel momento. Lo sfogo della sera precedente lo aveva rasserenato un po’, ma sarebbe durato poco. Ormai lo conosceva quasi quanto conosceva se stessa.

“Stai meglio?” gli chiese, accarezzandogli dolcemente la guancia, dove l’ombra della barba le solleticava le dita. Da quando dormivano finalmente insieme, quello che preferiva, al momento del risveglio, era farsi solleticare la pelle dalle sue guance un po’ ruvide, poco prima che lui si alzasse per radersi, com’era solito fare ogni mattina.

Quello e… a dir la verità c’era anche altro che le piaceva, quando si svegliava!

“In questo momento sto benissimo…” disse Harm, mentre sollevava la sua t-shirt, che lei indossava come pigiama, per baciarle il ventre. Fece scivolare la bocca su di lei, lentamente.  Era fantastico percepire con le mani e con le labbra, oltre che con gli occhi, ogni minimo cambiamento del suo corpo. Harm scopriva ogni giorno qualcosa di diverso: il ventre che s’ingrossava, la pelle che si faceva più tesa, il seno più appesantito…

Suo figlio.

Dentro di lei stava crescendo suo figlio. Ogni volta che lo realizzava, gli sembrava sempre una sorpresa. Come la prima volta che Mac glielo aveva detto, più di sei mesi prima. Ormai mancava poco… neanche un mese, o forse ancora meno e finalmente avrebbe conosciuto suo figlio! O sua figlia! Durante l’ultima ecografia, la ginecologa di Sarah aveva chiesto se desiderassero sapere il sesso del bambino, ma Mac era stata categorica: voleva la sorpresa! Lui invece avrebbe pagato chissà quanto per saperlo. Continuava a pensarci e non sapeva decidersi se avrebbe preferito un maschietto o una bella bambina.

Una bambina…

L’orrore del giorno prima lo assalì all’improvviso e lo fece sussultare. Sarah capì immediatamente che i suoi pensieri erano tornati a ciò che era successo, non appena sentì il movimento inconscio di Harm: aveva smesso di baciarla e si era fermato, immobile, per qualche secondo. Poi, quasi per scacciare quei pensieri, aveva ripreso ad accarezzarla, ma lei sentiva che il suo tocco non era il solito. Gli fermò la mano e gli fece posare il capo sul suo seno, accogliendolo tra le braccia. Harm obbedì, senza protestare.

“Non so cosa avrei fatto se ciò cui ho assistito ieri fosse successo a te e al nostro bambino…” sussurrò appena, non riuscendo più a trattenere quel pensiero tra le labbra. Lo aveva tormentato fin dal primo istante, non appena i paramedici gli avevano strappato dalle braccia la piccola Darleen. La madre adottiva della bambina, invece, era stata caricata successivamente sull’ambulanza che lui stesso aveva immediatamente chiamato, non appena aveva scoperto madre e figlia orribilmente accoltellate.

 “Ssst… non pensare a questo, ora. Noi stiamo bene “ lo tranquillizzò, passandogli una mano tra i capelli.

“Perché le hanno uccise? Chi può essere quel bastardo che le ha ridotte in quello stato? ” chiese lui, con voce secca. Una voce che lei conosceva bene e che gli aveva sentito in altre occasioni, ogni volta che Harm si era trovato di fronte all’orrore di un omicidio.

Come quello della gemella di Darleen, Annie.

Era accaduto anni prima: il corpo della bambina, orribilmente seviziato, era stato rinvenuto nel distretto di Potomac. Harm, deciso come suo solito, aveva preteso dall’ammiraglio l’assegnazione a quel caso. Anche lei avrebbe voluto lavorarvi, ma purtroppo l’ammiraglio non aveva potuto togliere entrambi dai casi che stavano seguendo. Sarah, tuttavia, era sicura che il loro superiore avesse affidato l’indagine solo ad Harm perché li conosceva molto bene. Sapeva che lei non avrebbe retto emotivamente allo strazio di un caso che trattava la morte di una bambina di cinque anni, seviziata e brutalmente uccisa. Mentre l’ammiraglio stesso non sarebbe riuscito a far desistere Harm dal partecipare alle indagini. Quindi meglio permetterglielo ufficialmente. Inoltre conosceva le doti investigative del capitano Rabb e sapeva perfettamente che quando Harm prendeva a cuore un caso, sarebbe morto, pur di arrivare alla soluzione.

Lui era fatto così. Lui e le sue fissazioni! Ma Sarah lo amava anche per quello: per quella sua tenacia, quella sua cocciutaggine, che gli permettevano sempre di trovare una risposta a qualunque interrogativo.

Era come un segugio: quando fiutava la preda, non mollava, finché non l’aveva tra i denti.

E lei sapeva che anche questa volta sarebbe stato così. Ma questa volta lei voleva aiutarlo nell’indagine: solamente così avrebbe potuto essergli vicina e sostenerlo, affinché riuscisse a superare l’orrore e il dolore per la morte della piccola Darleen. E per essergli d’aiuto nell’indagine, doveva sapere quello che era successo.

“Raccontami cosa è accaduto.”

“No. E’ troppo orribile.”

“Harm, ti prego…”

“Non posso. Non ce la faccio.”

“Raccontamelo, Harm”.

Lui la guardò e vide la sua espressione decisa, quella che lui amava definire da “guerriera-Ninja” oppure da “duro Marine”. Adorava quando lei sfoderava quell’espressione: in altre circostanze, l’avrebbe presa in giro per qualche minuto; poi l’avrebbe costretta ad arrendersi ai suoi baci e avrebbe fatto l’amore con lei a lungo, come piaceva a lui. Infine l’avrebbe fatta arrabbiare dicendole che, nonostante l’espressione da dura, con lui non aveva scampo! Mac si sarebbe infuriata per un po’ e lui avrebbe cercato di farsi perdonare… Era un gioco che gli piaceva tantissimo fare con lei. Ed era sicuro che anche a Sarah piacesse molto inventarsi una miriade d’idee per permettergli di chiederle scusa.

Ma quello non era il momento per le loro schermaglie amorose.

Sospirando si allontanò da lei e si stese al suo fianco, fissando il soffitto della loro camera. E con lo sguardo perso nel vuoto, iniziò a rivivere tutto quello che era successo a partire dai tre giorni precedenti, quando tutta quella faccenda era iniziata.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***





Capitolo 7


A voler essere precisi, forse quella faccenda era iniziata anche prima.

Quel giorno il capitano Rabb era arrivato in ufficio e si era messo a sbrigare tutta quella serie d’incombenze burocratiche che lui odiava tanto, ma che era costretto a fare per archiviare i casi risolti.

Quella mattina, nonostante il lavoro che lo attendeva, era particolarmente allegro. La sera prima lui e Sarah erano riusciti a passare un po’ di tempo insieme, come non facevano da qualche settimana. Harm, per un caso che stava seguendo, era stato costretto ad andare sulla Coral Sea e Mac non lo aveva potuto seguire. La sua gravidanza ormai avanzata non le permetteva più certi spostamenti e l’ammiraglio l’aveva assegnata ad un incarico più burocratico.

Scartoffie, diceva lei, irritata dal fatto di non poter seguire Harm sulla portaerei.

Incarico da “avanzamento di carriera”, ribatteva sorridendo divertito lui, nel vederla così imbronciata.

L’indagine alla quale stava lavorando Harm aveva richiesto più tempo del previsto e lui era rimasto via quasi dieci giorni, prima sulla Coral Sea e poi a caccia d’indizi qua e là per il paese. Entrambi avevano sentito terribilmente la mancanza l’uno dell’altra. Harm aveva sorriso, ripensando alla sera prima, quando finalmente avevano potuto dedicare del tempo a loro stessi.

Avevano cenato a lume di candela, chiacchierando del caso e di tutto quello che era successo in ufficio mentre Harm era via. Poi si erano accoccolati sul divano, davanti al camino acceso, ascoltando un po’ di musica. Lui l’aveva accarezzata, passando le mani sul suo pancione, mentre il piccolo si faceva sentire con dei poderosi calci. Harm aveva parlato a suo figlio, mentre baciava il ventre della madre. Ma come spesso accadeva quando le era così vicino, a poco a poco la tenerezza aveva lasciato posto al desiderio e si erano ritrovati sul tappeto, a baciarsi come due adolescenti. Avevano riso come matti… il camino acceso a loro faceva spesso quell’effetto! Non era proprio lì, del resto, che avevano concepito il loro bambino?

Tra un pensiero a come si era conclusa la serata precedente e un fascicolo archiviato, quella mattina era quasi passata quando il telefono, stranamente muto fino a quel momento, era squillato improvvisamente, distogliendo il capitano Rabb più che dal lavoro, dai ricordi.

Aveva sollevato la cornetta e risposto, aspettandosi di sentire una voce all’altro capo dell’apparecchio. Invece niente.

“Pronto? C’è qualcuno?” aveva chiesto nuovamente.

Dall’altra parte ancora silenzio.

Harm aveva cercato di percepire qualche rumore, ma non aveva sentito nulla. Anziché riattaccare, aveva provato di nuovo:

“Chi è? Lo so che sei lì, sento il tuo respiro…” aveva azzardato e a quanto sembrava aveva avuto ragione, perché una voce appena sussurrata aveva domandato:

“Harm?”

Sorpreso, aveva cercato di capire chi fosse l’interlocutore, tuttavia non c’era riuscito. Gli era sembrato, dal tono di voce, che si trattasse di una bambina. Ma chi poteva essere?

“Si, sono Harm” aveva risposto “e tu chi sei? Come sai il mio nome? ”

Silenzio.

“Ci conosciamo?” aveva chiesto di nuovo, ormai del tutto incuriosito. Dopo una pausa, la vocina aveva risposto:

“Si.”

“Chi sei? Non vuoi dirmelo? Così anch’io ti riconosco.”

Altro silenzio.

“Bene, a quanto pare non vuoi dirmi chi sei. Non fa nulla. Almeno dimmi perché mi hai chiamato…” aveva chiesto ancora.

“Ho paura…” la frase era sembrata addirittura più sussurrata.

“Perché hai paura? Qualcuno ti vuole fare del male?” aveva domandato Harm, improvvisamente all’erta.

Un’altra pausa.

“Ho paura… viene da me e mi fa paura… è così… brutto…” aveva detto la vocina.

Harm aveva iniziato a sentirsi agitato: non sapere chi fosse quella bambina spaventata lo stava innervosendo.

“Tesoro, dimmi chi sei. Dimmi dove ti trovi, così vengo a prenderti e parliamo…” ma mentre diceva questo, aveva udito l’improvviso “click” della comunicazione interrotta ed era rimasto con il telefono muto in mano, a guardarlo. Quindi aveva riattaccato ed era subito andato nell’ufficio di Mac, per raccontarle della telefonata. Ma lo aveva trovato vuoto. Ovviamente, dato che lei quel giorno era rimasta a casa. Per tutta la giornata aveva continuato a ripensare alla telefonata e alla voce di quella bambina: era strano, ma aveva la sensazione d’averla già sentita. Eppure non riusciva ad associare alcun volto a quella voce.

Quella sera aveva raccontato tutto a sua moglie e anche lei era rimasta stupita dalla storia. Aveva cercato di rassicurarlo, dicendogli che magari quella bambina stava solo raccontando un suo incubo. Però Harm non ne era convinto e Sarah glielo aveva letto negli occhi. Il suo istinto gli diceva altro e lui difficilmente riusciva a far tacere il suo istinto. Tuttavia, visto che realisticamente non poteva fare nulla, aveva cercato di dimenticare quella telefonata. Gli impegni dei giorni successivi gliel’avevano cancellata del tutto dalla mente.

Finché, alcuni giorni dopo, non aveva rivisto la bambina cui era certo appartenesse quella voce.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***





Capitolo 8


“Harm, vieni un momento, per favore” lo aveva chiamato Mac, distogliendolo dal testo legale che stava sfogliando in biblioteca.

“Mhmm… non puoi resistere senza di me neppure per poco, vero?”

“Abbassa le ali, bel pilota! Non sono io a volerti.”

“Ah no?” le aveva detto abbracciandola e sfiorandole il collo con le labbra.

“Harm, smettila! Sai che se ci scopre l’ammiraglio… Tra l’altro c’è una donna che ti cerca.”

 “Un’altra?” aveva chiesto lui divertito.

“Spiritoso! E’ assieme ad una bambina. Mi sembra d’averla già vista…”

“Ti ha detto come si chiama?”

“Stevenson. Marie Stevenson. La conosci?”

“La bambina è sua figlia?”

“Di certo non sua figlia naturale. La signora Stevenson è bianca, mentre la bimba no. Potrebbe essere la figlia adottiva.”

“Darleen…”

“Darleen? Vuoi dire “quella Darleen”?”

“Si. La famiglia che l’adottò si chiamava Stevenson. E, se non ricordo male, la madre proprio Marie. L’ho letto sul rapporto di Jordan… Andiamo” e così dicendo si era precipitato ad incontrare madre e figlia.

“Buongiorno, signora Stevenson. Sono il capitano Harmon Rabb. Il colonnello MacKenzie mi ha riferito che mi cercava. Posso fare qualcosa per lei?” l’aveva salutata, porgendole la mano. Poi, vedendo la bambina che si nascondeva dietro la donna, aveva sorriso. Era proprio lei: Darleen. Più alta di come la ricordava, ma sempre troppo magra. E con gli stessi occhi tristi ed impauriti di allora. 

“Ciao, io sono Harm. E tu… tu sei Darleen, vero?”

La bambina lo aveva guardato e gli aveva sorriso, incerta. Marie Stevenson aveva ricambiato la stretta del capitano e si era voltata leggermente per far avanzare Darleen.

“Si ricorda di lei, capitano?”

“Certo. Io e Darleen siamo vecchi amici. Come stai, tesoro?”

Mac aveva osservato la scena e aveva capito immediatamente cosa passava nella testa di Harm. Lui l’aveva guardata per un secondo, prima di accucciarsi e parlare alla bambina. Era convinto che appartenesse a Darleen la voce che aveva sentito al telefono circa una settimana prima. La bambina non aveva risposto. Si era limitata a sorridere. La donna aveva continuato:

“Ho cercato di mettermi in contatto con il capitano Parker.”

“Signora, il capitano Parker…” ma non aveva continuato, quando si era accorto che Darleen lo fissava incuriosita a sentir nominare Jordan.

Harm aveva fatto allora un cenno a Mac, che immediatamente aveva capito:

“Darleen, vuoi una bella tazza di cioccolata? Vieni con me, mentre la tua mamma parla con il capitano”. La bambina aveva annuito e, anche se con un attimo di diffidenza, aveva seguito Sarah in cucina. Harm aveva fatto accomodare la signora Stevenson nel suo ufficio e l’aveva messa al corrente della morte di Jordan.

“Perchè cercava il capitano Parker?”, aveva chiesto infine.

Marie Stevenson, a quel punto, aveva assunto un’aria imbarazzata. Sembrava non sapesse più cosa dire. Aveva proseguito, raccontandogli una storia un po’ confusa, riguardo al fatto che era stata chiamata dalla scuola di Darleen perché l’assistente sociale, che l’aveva seguita dopo l’adozione, sosteneva che la bambina avesse ancora dei problemi d’adattamento. La signora Stevenson, allora, aveva pensato di rivolgersi a Jordan, poiché ricordava come la bambina le si fosse affezionata prima che loro l’adottassero. Non riuscendo a rintracciare il capitano Parker, aveva chiesto all’assistente sociale per avere notizie e lei aveva fatto il nome del capitano Rabb, come ulteriore riferimento.

Harm aveva ascoltato con calma la spiegazione, ma quello che Marie Stevenson gli aveva detto non lo convinceva per niente. Continuava ad avere in testa la voce di quella bambina che lo aveva chiamato al telefono, ed era sempre più convinto che quella voce appartenesse a Darleen. E quella voce era terrorizzata. Quello che gli aveva detto la signora Stevenson non chiariva quel punto. Però l’istinto gli aveva suggerito di non affrontare l’argomento con la madre della bambina. Avrebbe cercato il momento adatto e poi avrebbe provato a parlare con Darleen, per avere spiegazioni. Sperando che la bambina finalmente si aprisse.

“Mi spiace che abbia fatto tutta questa strada per nulla. Ora cosa farà?” aveva chiesto alla donna.

“Non lo so. Penso che tornerò a casa. “

“Suo marito non la raggiunge?”

“No… Mio marito è via…per lavoro “, aveva risposto la donna, con un attimo d’incertezza.

“Perché non si ferma qualche giorno? Potremmo incontrarci e mi spiegherebbe meglio cosa le hanno detto a scuola. Magari potrei parlare io con Darleen… un tempo si fidava di me…” aveva detto Harm. Voleva a tutti i costi trovare il modo di parlare con la piccola.

“Non saprei…” la donna aveva esitato. Era sembrata indecisa. Allora Harm aveva cercato di proporle una soluzione.

“Le trovo una camera d’albergo per questa notte, così potrete riposare. Poi, domani, se vuole ne riparleremo. Altrimenti potrà tornare. A Darleen farà comunque bene staccare un po’. Magari ha solo bisogno di un po’ di distrazione” le aveva detto, anche se era più che certo che alla bambina servisse ben altro che un po’ di distrazione.

“D’accordo”, si era lasciata convincere la signora Stevenson e Harm aveva chiesto ad Harriet se poteva organizzare il tutto. Quindi le aveva accompagnate in albergo per la notte. Durante il tragitto in auto, aveva osservato la bambina e l’aveva vista guardare fuori dal finestrino, assorta e con aria triste. Non aveva lo sguardo incuriosito di chi osserva un posto nuovo per la prima volta. Era anche vero che Darleen non vedeva quei luoghi per la prima volta. Forse erano solo i brutti ricordi a farle assumere quell’aria triste. Eppure…

Quando erano arrivati all’albergo, mentre la signora Stevenson era alla reception per la registrazione, aveva raggiunto Darleen. La bambina stava scendendo dall’auto e lui si era volutamente avvicinato, per cercare un contatto fisico che potesse farle capire che era intenzionato ad aiutarla. La reazione della bambina, quando Harm aveva cercato di prenderla in braccio, gli aveva fatto aumentare la preoccupazione nei suoi riguardi. Darleen si era ritratta rapidamente, non appena Harm aveva cercato di abbracciarla e nei suoi occhi lui aveva scorto la paura.

Quando aveva raccontato a Mac cos’era successo, lei lo aveva guardato assorta, ma non aveva detto nulla. Per Harm, il silenzio di Sarah era stato più eloquente di mille parole.

Il mattino successivo, prima di andare al Jag era passato a trovare sua madre e Frank. Aveva raccontato loro tutta la storia: da come aveva conosciuto, anni addietro, la bambina, mentre seguiva le indagini sulla morte della sua gemella, alla telefonata della settimana precedente e all’incontro del giorno prima. 

Da quando Trish e Frank erano tornati a Washington per assistere alla nascita del loro nipotino, Harm ogni tanto andava a trovarli.  Lei era molto felice: dopo anni passati lontano dal figlio, prima in missione sulle portaerei, poi a chilometri di distanza al Jag, passare del tempo con lui era molto piacevole. Il matrimonio aveva avuto effetti sorprendenti sul suo avventuroso figlio!

Anche Harm aveva cominciato ad apprezzare quei momenti trascorsi con sua madre. Parlare con lei gli stava facendo capire molte cose. Da quando, ancora adolescente, era partito per il Vietnam alla ricerca di suo padre, convinto che fosse ancora vivo, a quando in Russia era venuto a sapere della sua morte, gli era sembrato che tutta la sua vita fosse incentrata sull’assenza del genitore e sulla sua ricerca. E sua madre, in tutto quel periodo, era passata in secondo piano. Pur non impedendogli mai nulla, doveva aver sofferto parecchio, sempre in ansia per lui.

 Comprendere tutto ciò gli aveva fatto capire una cosa importante: il motivo per il quale si era innamorato proprio di Mac. Perché finalmente, con Mac, la sua ricerca era finita. Con lei era riuscito a provare gli stessi sentimenti che aveva sempre scorto negli occhi di suo padre, in quella fotografia che conservava da anni. La fotografia in cui papà abbracciava la mamma. Sarah lo amava come sua madre aveva amato suo padre e come amava lui: incondizionatamente. Senza pretendere di cambiarlo e accettandolo per quello che era.

Dopo il racconto della telefonata e dell’incontro con Darleen, aveva discusso con Frank e Trish dei suoi sospetti e anche loro concordavano con lui, nel ritenere che la bambina al telefono e la piccola, incontrata il giorno prima, potessero essere la stessa persona. A quel punto era sufficiente capire cosa, o meglio chi, spaventasse tanto la bambina. Anche se, a questo proposito, Harm nutriva già dei sospetti.

Avendo saputo che non erano ancora partite, a metà pomeriggio, terminata un’udienza in tribunale, aveva deciso di provare di nuovo a parlare con Darleen. Così era uscito prima dall’ufficio. Avrebbe raggiunto successivamente Mac per il controllo dalla dottoressa.

Giunto all’albergo, aveva chiesto della signora Stevenson all’impiegato della reception, il quale aveva chiamato in camera.

“Che strano. Non risponde” aveva mormorato, con aria perplessa. Le chiavi della camera non erano al loro posto ed era sicuro che la signora e la bambina non fossero andate da nessuna  parte, dopo essere risalite dal pranzo.

“Come fa ad esserne certo?”

“Se le avessi viste, avrei certamente consegnato alla signora questo messaggio” rispose l’uomo, indicando ad Harm una busta che sporgeva dalla casella 128.

“Chi lo ha portato?” aveva domandato il capitano Rabb, improvvisamente sospettoso.

“Un ragazzo, quindici o venti minuti fa” aveva risposto l’impiegato.

“E lei non si è mai mosso da qui?”

“No… o meglio, si, ma solo per pochissimi minuti…”

“Quando?” un sospetto aveva cominciato ad insinuarsi nella sua mente.

“Ora che ci penso… poco dopo che hanno consegnato il messaggio…”, ma non era riuscito a continuare: Harm si era precipitato improvvisamente alle scale.

 L’uomo, sorpreso, lo aveva richiamato, però lui era già salito di corsa e stava cercando, lungo il corridoio deserto, la camera 128. Non appena aveva scorto la porta della camera socchiusa, aveva capito che era successo qualcosa. Cautamente l’aveva spalancata e poi era rimasto impietrito ad osservare la scena che gli si era presentata davanti agli occhi: madre e figlia giacevano a terra, in un lago di sangue.

Cercando di riprendersi, aveva chiamato immediatamente l’ambulanza. Poi si era avvicinato alla bambina, che era priva di sensi ma ancora viva. Il suo piccolo corpo straziato gli aveva rammentato quello della sorella. Aveva una brutta ferita all’addome e molti altri tagli ovunque. Harm aveva sfilato rapidamente il lenzuolo dal letto, per cercare di tamponare la ferita e stava per prenderla in braccio, quando aveva sentito un rumore provenire dal bagno. Istintivamente si era alzato e aveva spalancato la porta, senza neppure preoccuparsi d’essere prudente. La rabbia che lo animava avrebbe potuto distruggere qualunque cosa…

Aveva scoperto che il rumore sentito era quello dell’imposta che sbatteva: l’assassino era fuggito dalla finestra sul retro.

Era tornato dalle due vittime proprio mentre l’impiegato dell’hotel, che stava entrando in camera, si era immobilizzato accanto alla porta, inorridito da ciò che aveva visto.

“Chiami la polizia e spieghi l’accaduto” aveva detto all’uomo, più che altro per farlo reagire.

“Ma… l’ambulanza?”

“L’ho già chiamata” aveva risposto Harm, mentre si avvicinava alla donna, per vedere se respirava ancora. Tastandole il polso, aveva capito che sarebbe vissuta ancora per poco. Il battito era molto debole e dalla ferita alla gola continuava ad uscire sangue.

Mentre cercava di tamponare anche la ferita della donna, aveva sentito la sirena dell’ambulanza. Allora aveva preso in braccio Darleen ed era corso per le scale, fino all’ingresso dell’albergo. Due paramedici che si stavano accingendo a salire gli avevano strappato dalle braccia la bambina. Harm aveva gridato agli altri il numero della camera in cui si trovava la donna, prima di salire con Darleen su una delle due ambulanze.

Il tragitto verso l’ospedale non gli era mai sembrato tanto lungo. Eppure, nonostante il traffico del tardo pomeriggio, ci avevano impiegato meno di dieci minuti. Quando era entrato a seguito della barella, aveva intravisto Frank e sua madre.

Che ci facevano lì?

Mac… Avrebbe dovuto accompagnare Mac dalla dottoressa!

Sua madre e il suo patrigno si trovavano in ospedale perché Sarah aveva chiesto a Trish se desiderasse vedere l’ecografia del suo nipotino. E lei, ovviamente, aveva accettato entusiasta.

“Harm, cosa è successo?” gli aveva domandato sua madre, sconvolta nel vederlo sporco di sangue.

“Dov’è Mac?” aveva chiesto a Trish.

“L’ha appena chiamata la dottoressa. Dov’eri? Era molto preoccupata… Vai, sei in tempo per…”, ma lui non l’aveva lasciata finire, spiegando rapidamente la situazione, mentre anche la signora Stevenson stava entrando in ospedale sulla barella. Quindi si era piazzato all’uscita della sala operatoria. Per circa mezz’ora aveva atteso d’avere notizie, mentre mille pensieri si affollavano nella sua mente. Avrebbe voluto avere Mac accanto. Lei sapeva sempre come farlo stare meglio. Oppure avrebbe preferito essere con lei a vedere il loro bambino… Più volte aveva dovuto scacciare dalla mente l’orribile immagine di quella camera d’albergo. E per altrettante volte, quella di Sarah ferita, in un lago di sangue…

L’attesa era stata interminabile. E inutile. Frank e Trish lo avevano raggiunto quando ormai tutto si era concluso.

Dopo aver lasciato l’ospedale, era tornato all’albergo. Sapeva che avrebbe dovuto fornire la sua versione alla polizia. Si era sbrigato presto con il detective Johnson: del resto aveva ben poco da aggiungere a ciò che aveva già raccontato l’impiegato della reception.

Mezz’ora dopo entrava finalmente in casa, con lo strazio nel cuore al pensiero di Darleen.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***





Capitolo 9


Il capitano di corvetta Teresa Coulter si affacciò alla scaletta dell’aereo militare che l’aveva portata a Washington. Per qualche secondo si soffermò ad osservare la figura dell’uomo che la stava attendendo a terra. Cercò di analizzare le sue emozioni, ma poi si rese conto che era inutile. Come sempre, lui continuava a farle lo stesso effetto, anche quando lo osservava da lontano.

Sospirò e si fece coraggio mentalmente: sarebbe stato difficile anche quella volta reprimere tutte le sensazioni che si scatenavano in lei con la sua vicinanza. Quando sapeva che lo avrebbe rivisto, cercava sempre di convincersi che le sue emozioni erano dettate unicamente dalla mancanza di un uomo nella sua vita. Una mancanza che stava durando da troppo tempo. Ma ogni volta, puntualmente, doveva ricredersi.

Nessun altro riusciva ad emozionarla tanto. E non era solo a causa della bellezza di quell’ufficiale. Era qualcosa che lei avvertiva nell’aria non appena lui le si avvicinava: un semplice suo sguardo riusciva a suscitare in lei una specie d’elettricità e una sensualità primitiva che faticava a controllare.

Era stato così fin dal primo momento che lo aveva conosciuto…

Ricordava ancora l’attimo preciso in cui quello sguardo l’aveva ammaliata per la prima volta. Lui e la sua collega si erano rivolti a lei per un caso d’identificazione di spoglie umane ritrovate. Il problema riguardava un indiano Navajo e la sua gente non voleva permettere che fossero eseguiti esami scientifici per non profanare la sua anima. Avevano raggiunto la tribù per cercare di convincere i familiari, ed erano stati trattenuti per i festeggiamenti di una bimba nata da poco.

Durante la festa si era appartata, per mettere ordine nei suoi pensieri e lui l’aveva raggiunta. Avevano chiacchierato un po’, poi erano stati distratti dai rituali di benvenuto per la piccola. Mentre osservavano i genitori con la loro bambina tra le braccia, lei lo aveva visto rivolgere uno sguardo rapito alla giovane coppia e poi sorridere dolcemente a quell’immagine.

Proprio in quell’istante, di fronte a quello sguardo e a quel sorriso, si era sentita strana.

La sua tormentata adolescenza e l’avere un padre in carcere, accusato d’aver ucciso sua madre, avevano chiuso il suo cuore all’amore. Inoltre tutte le morti atroci che vedeva ogni giorno col suo lavoro l’avevano indurito definitivamente. In quel momento era stato come se il suo cuore si fosse improvvisamente sciolto davanti a quello sguardo. E a quel sorriso.

Era perfettamente consapevole d’essere l’unica a provare quelle sensazioni. Di certo lui non la ricambiava. Glielo aveva fatto capire gentilmente, quando gli aveva confessato quanto la sua vicinanza la turbasse. Nonostante ciò, erano diventati amici e lui l’aveva chiamata più volte sia per fare due chiacchiere, sia soprattutto per lavoro. Quando gli servivano informazioni che solo un patologo legale gli poteva fornire, a volte l’aveva convocata per un’ulteriore opinione. E lei era sempre stata felice d’aiutarlo. Del resto era stato proprio lui a permettere un suo riavvicinamento al padre, scagionandolo, dopo anni, dall’accusa dell’omicidio della moglie. Ostinato come sempre, era riuscito a convincerla che riteneva che il caso fosse stato trattato in maniera superficiale e che dovesse richiedere un ulteriore processo. In quel frangente aveva quasi messo a repentaglio la loro amicizia, ma nonostante tutto, era riuscito a dimostrarle d’avere ragione.

Sorrise, ricordando quanto l’aveva odiato in quei giorni! L’odiava perché la stava mettendo di fronte ad un passato che lei non aveva alcun’intenzione di affrontare. Ma l’odiava anche perché, nonostante la rabbia, ogni volta che le parlava le faceva provare anche un irresistibile desiderio di baciarlo… Desiderio che si era sempre vista costretta a reprimere.

Si fece coraggio e scese la scaletta dell’aereo. Con le mani infilate nelle tasche del cappotto, lui le si avvicinò lentamente.  Fece il saluto militare e si rivolse a lei in tono ufficiale:

“Salve, capitano”. Ma prima ancora di permetterle di rispondere al saluto, guardandola negli occhi le sorrise dolcemente. Quindi tese la mano e si rivolse a lei con un tono che le fece scendere un brivido lungo la spina dorsale.

“Ciao, Teresa…”

Lei ricambiò la sua stretta, assaporando per un attimo quella mano nella propria: era calda, esattamente come la sua voce. Pronta ad affrontare una nuova battaglia con le sue emozioni, lo guardò negli occhi e rispose:

“Ciao, Harm.”

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***





Capitolo 10


Odiava quel luogo ancora più di quanto odiava la sala d’aspetto dell’ospedale. Ma Teresa lo aveva chiamato in ufficio per dirgli di passare dall’obitorio. E se lo aveva fatto, era perché aveva delle notizie. Possibile che avesse già terminato l’autopsia?

“I tuoi sospetti erano fondati”, esordì il capitano Coulter, arrivandogli alle spalle.  Non l’aveva sentita avvicinarsi e la sua voce lo distolse improvvisamente dai suoi pensieri. Si girò di scatto, sorpreso.

“Oh! Scusami Harm… credevo m’avessi sentito arrivare. Non volevo spaventarti” disse Teresa con voce dolce e un sorriso, mentre gli appoggiava una mano sull’avambraccio.

“Cosa intendi?”

“La bambina aveva avuto rapporti sessuali.”

“Ne sei certa?” chiese con la voce quasi strozzata. Sperava che quel sospetto fosse infondato.

Teresa Coulter lo guardò e vide la sofferenza e il disgusto velare quegli occhi solitamente vivaci. Odiava sempre dover dare certe notizie, ma questa volta era ancora peggio: le stava comunicando ad un uomo che conosceva e che sapeva affezionato alla vittima. Lei stessa non riusciva a tollerare quello che aveva appena appurato.

“Si.  Non ci sono dubbi. Ci sono parecchi segni d’abuso, comprese alcune ferite all’interno delle cosce della bambina.”

“Recenti?”

“Recenti, però non risalgono al giorno dell’omicidio. Erano in via di guarigione. Potrebbero risalire ad una settimana, dieci giorni fa…”

Harm non rispose, ma voltò leggermente il capo. Lei lo vide stringere ancora di più le labbra, nello sforzo di trattenere l’ira.

“Perché avevi questo sospetto?”

Lui per un attimo non rispose, la guardò soltanto. Il capitano Coulter aspettò con pazienza la spiegazione che, ne era certa, sarebbe arrivata. Infatti Harm iniziò a raccontare le stesse cose che aveva raccontato a Mac.

“Che ne dici?”

“Che anch’io avrei pensato la stessa cosa. Ora sai che eri sulla strada giusta”.

“E’ una magra consolazione. Avrei voluto proteggerla…” rispose, con la voce leggermente incrinata.

Teresa Coulter non disse nulla. Si limitò a stringergli leggermente il braccio. Poi si voltò, per andarsene, ma Harm la fermò:

“Andiamo a cena. E’ il minimo che possa fare per te”.

“Sicuro di sentirtela?” chiese lei. Ma forse la domanda era rivolta più che altro a se stessa. Cenare con lui? Con lui in quelle condizioni? Quell’uomo la seduceva semplicemente con uno sguardo, figuriamoci cosa avrebbe fatto al suo cuore quel misto di rabbia, tenerezza e dolore che ora leggeva nei suoi occhi.

“La tua compagnia mi farà bene” le disse con un sorriso. Poi s’incamminò verso l’uscita e a lei non restò che seguirlo. Come resistergli?

Durante il tragitto, lui le fece altre domande sui risultati dell’autopsia. Quando fermò l’auto e scesero, Teresa si guardò attorno, perplessa.

“Ma… questa non è casa tua, vero?”

“No. Andiamo a cena da Mac.”

Dal colonnello MacKenzie. Giusto. Si trattava di una cena di lavoro. Cosa s’era aspettata?

Quello che non si aspettava, tuttavia, fu di vederlo aprire il portone d’ingresso e poi la porta di casa con un paio di chiavi, probabilmente sue.

“Accomodati. Vado a chiamare Mac. Sarà felice di vederti”.

Ma non fu necessario: Sarah li aveva sentiti arrivare ed era comparsa dalla cucina.

“Salve, capitano Coulter. Ciao Harm”.

“Salve, colonnello. Piacere di rivederla…” e il saluto le si fermò tra le labbra, nel vedere Mac.  Poi il suo imbarazzo accrebbe quando vide il capitano Rabb avvicinarsi alla donna incinta e salutarla con un abbraccio e un dolcissimo “Ciao, tesoro.”

Mac guardò la loro ospite con un sorriso: “Non le aveva detto nulla?” disse, riferendosi ad Harm.

“No. Congratulazioni, colonnello.”

“Chiamami Sarah. O Mac, se preferisci”.

“D’accordo Mac. E tu chiamami Teresa” rispose il capitano Coulter, mentre la sua mente non riusciva a scacciare l’immagine del capitano Harmon Rabb con un bambino tra le braccia: sarebbe stato favoloso.

“Signore, concedetemi mezz’ora e vi stupirò con la mia abilità di cuoco” disse Harm, togliendosi il cappotto e dirigendosi in cucina. Solo allora Teresa notò la fede che brillava all’anulare sinistro del colonnello MacKenzie e si disse che forse era meglio così.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***





Capitolo 11


“Grazie, detective”.

Lentamente Harm riattaccò, con la mente ancora concentrata sulla telefonata appena conclusa.

“Allora?” chiese Mac, distogliendolo dai suoi pensieri. Si girò e rimase ad osservarla per un istante, mentre lei stava tamponando i capelli bagnati. Il movimento aveva aperto l’accappatoio che indossava e aveva scoperto quasi completamente una gamba. Harm fece un pigro sorriso, lasciando che per qualche istante la sua mente indugiasse su immagini ben diverse da quelle che continuavano a tormentarlo. Ne avrebbe mai avuto abbastanza di lei?

“Harm?”

“Scusami, dicevi?”

“Che hai?”, chiese lei dolcemente, avvicinandosi.

Eh, no! Se si avvicinava anche… Decise che era meglio distrarla, e distrarre se stesso, prima che la voglia che aveva di stare di nuovo con lei, lo costringesse all’ennesima sfuriata dell’ammiraglio sui suoi ritardi delle ultime settimane. Finché anche Mac andava in ufficio, arrivavano sempre puntuali, nonostante tutto.  Ma da quando lei s’era presa qualche settimana di riposo e si presentava in ufficio nel pomeriggio, oppure non si presentava affatto, la sua situazione era peggiorata. Proprio durante l’ultimo discorsetto, l’ammiraglio se n’era uscito con l’invocazione: “Speriamo che il colonnello torni presto al lavoro!”. Fortunatamente Chegwidden sorrideva, mentre lo strapazzava.

“Era il detective Johnson. Mi ha riferito che hanno appena arrestato il signor Stevenson.”

“Allora è stato lui?”

“Così pare. Dopo le informazioni che gli ho dato, relative agli abusi sessuali subiti da Darleen, la faccenda della telefonata e tutto il resto, il detective ha concentrato le indagini in particolare su Bill Stevenson. Non ha un alibi, per l’ora dell’omicidio, anche se mi sembra strano: se non ricordo male, sua moglie mi aveva detto che era via per lavoro… Ad ogni modo, nulla che abbia trovato conferma. Inoltre è stata trovata in casa l’arma del delitto. A quanto pare, gli indizi portano a lui. ”

“Come mai quest’aria dubbiosa? Non eri convinto anche tu?”

“Sì. E lo sono ancora. Ma sembra tutto troppo semplice. Inoltre Teresa non ha ancora terminato l’autopsia sulla signora Stevenson. Quello che ci ha detto ieri sera, riguardava solo Darleen.”

“Pensi che ci possa essere altro?”

“Non lo so… ma sai che, prima di farmi un’idea definitiva, voglio essere al corrente di tutto. Prima di pranzo vedrò il detective Johnson e nel pomeriggio passerò da Teresa, così avrò tutte le informazioni necessarie. E se è stato quel bastardo, lo inchioderò.”

“Non potrai essere tu a farlo.”

“Oh, si. Quell’uomo è un militare. Il caso passerà al Jag.”

“Già, dimenticavo… Quindi oggi andrai da Teresa?”

“Sì, prima di tornare a casa. Pensavo di invitarla di nuovo a cena, che ne dici?”

“Per me non ci sono problemi. Ma sei sicuro che a lei stia bene?”

“E perché non dovrebbe? L’altra sera m’è sembrato…”

“Oh, Harm! Il capitano Coulter è innamorata di te. Possibile che non te ne sia accorto?”

“Ma che dici?”

“Perché non le hai detto di noi due? E del bambino?”

Harm la guardò di sottecchi, poi si arrese e le sorrise.

“Certo, la capisco…”, disse Sarah, avvicinandoglisi lentamente, “qualunque donna s’innamora di te…”

“Sarah, arriverò in ritardo, se non fai la brava!”

“Ma io sono bravissima!”, rispose con finta aria ingenua.

“Mac…” Harm cercò di fermarla, mentre lei aveva iniziato a sbottonargli la camicia, indossata da poco.

“Mac? Mhmm… stai cedendo, capitano!”

“L’ammiraglio mi ucciderà…”

“Ma ne varrà la pena!” disse lei, maliziosa.

Sì, decise Harm. Ne sarebbe valsa la pena.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***





Capitolo 12


“Dannazione!”

L’imprecazione del capitano Rabb fece voltare più di una persona negli uffici del Jag.

Era tornato dall’aula di tribunale, entrando nel suo ufficio come una furia. La cartella in una mano e una pila di fascicoli sotto l’altro braccio, aveva attraversato la stanza, seguito a ruota dal colonnello MacKenzie, rapida come sempre, nonostante l’avanzato stato di gravidanza.

“Calmati, Harm”.

Lui si voltò con aria truce e replicò: “Calmati un bel niente!”. Poi le chiuse letteralmente la porta in faccia.

Tiner, che aveva assistito alla scena, rimase ammutolito per qualche secondo, aspettando la reazione del colonnello. Che giunse immediatamente. Sarah MacKenzie spalancò la porta dell’ufficio del marito, entrò e se la richiuse alle spalle, sbattendola ancora più forte.

“Ci siamo”, pensò Tiner. “Povero capitano Rabb…”. Sorrise, immaginando dai movimenti dei due ufficiali, che la battaglia sarebbe stata all’ultimo sangue. Era inutile: quei due erano fatti per amarsi e… per litigare in continuazione, in ufficio. Eppure erano una squadra imbattibile. Come facevano ad andare tanto d’accordo nella vita privata, per Tiner era ancora un mistero. Ora era sufficiente attendere l’esito del confronto: l’avrebbe spuntata il colonnello o il capitano? Oppure si sarebbero rappacificati? Restava un’ultima ipotesi… ma accadeva raramente. Ossia che non si parlassero più fino al giorno successivo. Mentalmente puntò sul colonnello: il capitano non avrebbe tenuto il broncio a sua moglie incinta.

“Chiudimi un’altra volta la porta in faccia e vedi dove ti faccio dormire…”, stava dicendo il colonnello.

Harmon Rabb decise d’ignorarla e continuò a sistemare le carte fuoriuscite dai fascicoli che aveva scaraventato sulla scrivania. Odiava quello che l’ammiraglio l’aveva costretto a fare. Perché? Dannazione, perché? Per quale motivo gli aveva affidato la difesa del tenente Stevenson? Quell’uomo aveva ucciso Darleen e a lui sarebbe toccato fare il possibile per difenderlo.

“Ogni imputato ha diritto alla miglior difesa possibile, anche se colpevole. Dovrebbe saperlo, capitano” aveva replicato l’ammiraglio, quando aveva cercato di spiegare le sue ragioni. “Sarà il titolare e il colonnello l’aiuterà. Lei il miglior difensore del Jag. E non posso affidare l’incarico al colonnello, nel suo stato”.

“Ma signore…” aveva cercato di ribattere. Però l’ammiraglio era stato irremovibile: il capitano Turner e il tenente Roberts sarebbero stati l’accusa, lui e Mac la difesa.  Avrebbe dato qualunque cosa per essere al posto di Sturgis ed essere lui a mettere il cappio al collo all’imputato, facendolo condannare. Invece l’ammiraglio gli aveva ordinato di difenderlo. 

Era inutile. Si era sforzato di fare del suo meglio, ma al secondo giorno del processo aveva compreso che non sarebbe mai riuscito a trattarlo come un semplice “caso”.

Quello stava diventando un caso troppo personale.

Mac, come sua partner nel collegio di difesa, lo aveva appena rimproverato di non aver fatto tutto quello che ci si sarebbe aspettati da lui, durante il contro interrogatorio di un testimone dell’accusa.

Aveva ragione. E questo aveva aumentato la sua rabbia.

“Capitano! Mi guardi, quando le parlo.”

Non era più sua moglie, a parlare. Ma il tenente colonnello MacKenzie, ufficiale per pochi mesi più anziano di lui. Prima di sollevare il capo dalle carte e mettersi sull’attenti, le labbra gli si piegarono in un sorriso: quando Sarah non sapeva più che pesci pigliare con lui, ricorreva all’autorità di superiore!

L’avrebbe preso a schiaffi, vedendolo assumere la posizione sugli attenti, con l’ombra di un sorriso negli occhi. Ma fece finta di niente, anche se le fu difficile. Capiva perfettamente il suo stato d’animo. Era già furioso per l’incarico assegnatogli; in più lei aveva rincarato la dose, sottolineando che non aveva dato il massimo nell’interrogatorio del teste. Ma non poteva lasciar correre: se l’avesse saputo l’ammiraglio, lo avrebbe trattato peggio. Lei stava solo cercando d’aiutarlo a dominare la sua rabbia, affinché riuscisse a portare a termine l’incarico nel migliore dei modi. Tra l’altro, osservando certi particolari con maggiore obiettività, aveva colto qualche discrepanza nella testimonianza della signora delle pulizie. L’inserviente dell’hotel sosteneva d’aver visto l’imputato bussare alla camera 128 mentre stava entrando nella camera 175 per pulire. Ma Sarah ricordava dalla piantina che la camera 175 si trovava dalla parte opposta, in un lato del corridoio che piegava ad angolo… secondo lei, la donna aveva solo sentito bussare, senza, tuttavia, vedere nessuno. L’aveva detto ad Harm, ma lui, nel contro interrogatorio, aveva sorvolato sul particolare.

Harmon Rabb voleva quell’uomo in carcere e, non potendo essere l’accusa, aveva deciso, inconsciamente o consapevolmente, di non difenderlo. O meglio, di non difenderlo al meglio delle sue capacità. Se l’accusato l’avesse ricusato per negligenza, Harm avrebbe avuto la carriera rovinata. Ma lei non lo avrebbe permesso. Lo guardò severa, mentre lui, sull’attenti, sorrideva sornione. Non era facile restare impassibile di fronte a quell’aria da cucciolo disobbediente finalmente pentito, ma decise di tenerlo ancora sulle spine.

“Si azzardi ancora a trattarmi a quel modo, capitano, e dovrò fare rapporto all’ammiraglio.”

“Sissignora.”

Era inutile, non riusciva a restare in collera con lui per più di cinque minuti.

“Harm… se continui in questo modo, l’ammiraglio ti sbatterà a pulire i bagni.”

“Scusami per la porta…” le disse, avvicinandosi lentamente.

“Non credere di cavartela come al solito…” Ma non riuscì a terminare la frase: lui l’aveva raggiunta e l’aveva stretta tra le braccia.

“Non ce la faccio, Mac. Non riesco a difendere quel bastardo…”

“Devi farcela. E’ in gioco la tua carriera.”

“Al diavolo la mia carriera. Tu non le hai viste là, a terra, in un lago di sangue. Continuo a rivedere quella scena, ogni volta che lo guardo in faccia, ogni volta che gli parlo, ogni volta che si rivolge a me…”

Lei lo abbracciò in silenzio, sapendo che la sua sarebbe stata una dura lotta interiore.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***





Capitolo 13


Qualcosa non quadrava. Continuava a riguardare quei referti, e qualcosa non quadrava. Era una sensazione che aveva già avuto altre volte, nel corso della sua carriera d’avvocato. E ogni volta quella sensazione si era rivelata esatta.

Era più di un’ora che rileggeva il referto dell’autopsia di Darleen e della signora Stevenson e, fin dall’inizio quella sensazione non l’aveva abbandonato. Eppure, nei giorni precedenti, non l’aveva mai sentita. Cos’era cambiato ora?

Forse, semplicemente, aveva provato a fare davvero l’avvocato difensore.

La sfuriata di Mac del giorno precedente gli aveva fatto capire che, se non avesse compiuto fino in fondo il suo dovere, non avrebbe mai avuto pace. Perché se il signor Stevenson fosse stato dichiarato colpevole solo a causa della sua negligenza nel difenderlo, egli sarebbe vissuto sempre col dubbio che potesse essere innocente. E che l’assassino potesse essere qualcun altro, rimasto impunito. Se, invece, dopo un’accusa, l’imputato fosse ricorso in appello con la motivazione di mancata difesa, e in appello fosse riuscito a cavarsela, sarebbe stato ancora peggio.

Così aveva cercato di non pensare a chi fosse una delle vittime, e aveva cercato di concentrarsi solo ed esclusivamente sul caso. Non appena aveva cambiato atteggiamento, era iniziata quella sensazione. Ma non riusciva ancora ad afferrare cosa non quadrasse.

“C’è un figlio naturale”, esordì Mac, entrando nel suo ufficio, con un foglio tra le mani.

“Cosa? Sei sicura?”

“Guarda” e così dicendo gli porse il foglio. Aveva richiesto all’anagrafe un semplice certificato che le serviva da allegare ad altri documenti di prassi per un’eventuale scarcerazione, e aveva scoperto una cosa che sarebbe dovuta uscire fin dall’inizio.

“Diciott’anni. Figlio di Bill Stevenson e Linda Parker… E come mai il nostro signor Stevenson non ce ne ha mai parlato? E dov’è, questo… William Paul Stevenson?”, chiese Harm.

“Ottime domande, avvocato”, replicò Mac.

“Sturgis ne è al corrente? ”, chiese di nuovo lui.

“Non lo so. Forse non lo considera importante. In fondo, se non è un testimone per l’accusa…”

“Già, ma io mi domando una cosa: come mai il signor Stevenson non ne ha fatto cenno? E come mai il figlio non è mai andato a trovare il padre?”

“Forse vive con la madre e sono in pessimi rapporti?”

“Può essere… “

“Che hai?” chiese Sarah, quando vide che era sprofondato in un’espressione pensierosa.

“Nulla…” rispose, con un cenno della mano, come a scacciare un pensiero fastidioso che s’era insinuato nella mente. Ma continuava ad avere quell’espressione.

“Nulla? Sicuro?”

“Si tratta del referto dell’autopsia. C’è qualcosa che non quadra, lo sento. Eppure non riesco ad afferrare di cosa si tratta…”

“Ridammi il foglio che ti ho dato, Harm. Prima di tornare a casa, passo in carcere a farlo firmare al nostro assistito. Così ho preparato tutte le carte che servono. Dovresti farmi un bel regalo, questa sera: ti ho levato dai piedi tutte quelle incombenze burocratiche che tu odi tanto!”

“Ti adoro, lo sai”, rispose Harm, con un sorriso. Ma guardandola si accorse che era stanca. Non avrebbe dovuto strapazzarsi così, proprio verso la fine della gravidanza. Quel caso aveva coinvolto anche lei.

“Lascia a me questo documento. Passo io da Stevenson. Così provo a chiedergli del figlio. Tu vai a casa, fatti un bel bagno e aspettami. Quando torno ti preparo una cena coi fiocchi! E magari anche un… dessert. Che ne dici?”

“Dico che non potevi farmi proposta migliore.”

“Ah no? E invece n’avrei una…”

“Dopo il bagno, caso mai. Ora non riuscirei a prenderla in considerazione. Sono a pezzi…”

“Dopo il bagno e la cena te ne fili a letto. A dormire. Hai un’aria davvero affaticata, Sarah. “

“Ai suoi ordini, capitano” disse con un sorriso, prima d’uscire e lasciarlo di nuovo solo con le sue strane sensazioni.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***





Capitolo 14


La casa era quella. Posteggiò l’auto, prese il berretto dal sedile di fianco e scese, chiudendo lentamente la portiera. Aveva un sacco di pensieri per la testa che continuavano a tormentarlo.

Attraversò la strada e si diresse verso la villetta.

Finalmente, la sera precedente, aveva capito cosa non riusciva a far quadrare: Bill Stevenson non era l’assassino di Darleen e di sua moglie. Ormai ne aveva l’assoluta certezza. Quando gli aveva fatto firmare il documento che Mac aveva preparato, tutte le sensazioni strane che lo avevano tormentato durante la giornata avevano trovato risposta di fronte a qualcosa che avrebbe dovuto osservare già prima, se solo non fosse stato tanto coinvolto emotivamente in quel caso.

Bill Stevenson era mancino.

Ecco perché quello che leggeva sul rapporto di Teresa non gli quadrava nella testa! Probabilmente il suo inconscio aveva già registrato quel particolare, ma la sua parte razionale non lo aveva ancora collegato alle informazioni ricavate dall’autopsia sulle due vittime.

Il rapporto del capitano Coulter non parlava di un assassino mancino e lui era assolutamente certo che la miglior patologa legale che avesse mai conosciuto non si sarebbe fatta sfuggire un particolare tanto importante. E se anche aveva avuto dei dubbi, Teresa glieli aveva definitivamente risolti quando le aveva telefonato per avere una conferma: i colpi inferti alle vittime provenivano da una persona alta tra il metro e sessantacinque e il metro e ottanta che impugnava il coltello con la mano destra. E questo escludeva l’imputato. Quando, tornato a casa, n’aveva fatto parola a Sarah, lei aveva sospirato, quasi lo sapesse già. Harm l’aveva guardata sorpreso e le aveva domandato come mai, se nutriva il sospetto che il loro assistito non fosse l’assassino, non glielo avesse detto.

“E mi avresti ascoltato?”

“Certamente…”

“Harm, sono in procinto di partorire, non di perdere la ragione! Quando mi avresti ascoltato? Quando ho sollevato obiezioni su come avevi condotto l’interrogatorio all’inserviente dell’hotel? Oppure quando mi hai sbattuto la porta in faccia? Ammettilo, Harm: in quel momento tu eri ancora furioso con l’ammiraglio per averti costretto ad occuparti della difesa di Bill Stevenson. E odiavi lui, perché convinto che avesse ucciso Darleen. Il tuo unico obiettivo era quello di dimostrare che era colpevole, non cercare di capire se lo fosse sul serio e provare a difenderlo.”

“Non mi perdonerai mai quella porta in faccia, vero?” aveva chiesto lui, teneramente, avvicinandosi per abbracciarla e per chiederle ancora una volta scusa. Sapeva che lei non gli rimproverava quel gesto. Era lui che non riusciva a perdonarsi. Per la porta chiusa, ma soprattutto per essersi lasciato trasportare dall’ira e per non averle dato ascolto.

Il particolare che aveva appurato poteva fargli vincere la causa, ma per Harm non si trattava più di vincere o perdere una causa. Lui, ormai, era determinato a scoprire chi fosse realmente l’autore di quel crimine. L’accusa, tra l’altro, avrebbe potuto insinuare il dubbio nella giuria che l’imputato potesse essere ambidestro. Non sarebbe stato l’unico. Poteva anche essere un valido appiglio: del resto, gli investigatori stessi non avevano prestato attenzione a quel particolare. Un particolare, oltretutto, che non aveva riscontri scientifici assolutamente certi. Teresa stessa gli aveva ricordato che, a volte, non si poteva essere sicuri al cento per cento. Quella era la sua opinione, dettata da anni d’esperienza e di quell’opinione era certa. Ma un abile avvocato dell’accusa avrebbe potuto mettere in dubbio la sua ipotesi. Inoltre c’erano altri indizi che riconducevano all’accusato.

Eppure, l’atteggiamento stesso del signor Stevenson confermava sempre più la sua teoria: perché non aveva fatto parola del figlio e della ex-moglie? Una loro testimonianza poteva confermare che non aveva mai avuto atteggiamenti violenti. Per quale motivo sembrava accettare il suo destino senza dargli alcun indizio per cercare di scagionarlo? Neppure quando non lo stava difendendo come avrebbe dovuto, aveva avuto da ridire.

Aveva discusso anche di questo, la sera prima, con Mac, ma non erano riusciti a venire a capo di nulla. Avevano fatto solo alcune ipotesi, ma nessuna sembrava più di tanto plausibile.

Si avvicinò alla porta d’ingresso della villetta e suonò al campanello, mentre tutti questi pensieri continuavano a girargli in testa, senza che riuscisse a far luce su quanto fosse realmente accaduto. Poi, mentre la porta si apriva e sulla soglia si stagliava una figura che lo osservò e chiese chi fosse, Harm si rese conto che tutte le domande trovavano risposta e ogni tassello di quella vicenda andava al posto giusto.

Aveva di fronte a sé l’assassino di Darleen.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***





Capitolo 15


“Obiezione, vostro onore”, esclamò il capitano Turner alla richiesta della difesa di presentare altri due testimoni.

“Signori, avvicinatevi” disse il giudice con un cenno della mano. Entrambi gli avvocati dell’accusa si avvicinarono, seguiti dagli avvocati della difesa.

“Vostro onore”, esordì il capitano Rabb, “solamente l’altro giorno siamo venuti a conoscenza dell’esistenza di una prima moglie e di un figlio naturale del nostro assistito. Il ragazzo ha diciotto anni e, assieme alla madre, potrebbe testimoniare sul carattere dell’imputato…”

“Non vedo come questo possa migliorare la situazione del suo cliente, avvocato. Le prove contro di lui sono schiaccianti”, replicò il capitano Turner.

“ Se pensi questo, non vedo perché porre obiezioni”, disse Harmon Rabb, rivolgendo un sorriso al suo compagno d’accademia.

“Si tratta di etica professionale: hai già presentato la lista dei testimoni, così come l’accusa ha presentato la sua…”

“E dai, Sturgis, l’avresti fatto anche tu, per un tuo assistito. Inoltre non ho ancora ascoltato tutti i miei teste…”

“Signori avvocati”, li interruppe il giudice, “ritengo che questa decisione spetti a me”.

“Sissignore!”, risposero entrambi.

“Ebbene, capitano Rabb, può chiamare a deporre i suoi testimoni, ma l’avverto, non esageri!”

“Grazie, vostro onore” rispose Harmon Rabb. Quindi, tornando al posto, seguito dal colonnello MacKenzie, rivolse un sorrisino compiaciuto in direzione del capitano Turner.

L’interrogatorio della signora Parker fu condotto da Mac, che fu molto abile nel porre all’ex-moglie dell’imputato domande sui suoi rapporti con l’uomo accusato di violenza su una bambina e di duplice omicidio. Sarah si era accuratamente preparata le domande, dopo aver consultato una psicologa specializzata in casi di pedofilia e maltrattamento di minori. La dottoressa aveva tracciato un profilo psicologico di un soggetto a rischio e degli atteggiamenti più evidenti: certe anomalie nel comportamento sessuale con adulti, tendenza alla violenza, particolare attenzione a bambini e adolescenti… La signora Parker rispose a tutte le domande, tese a stabilire il carattere dell’imputato che fu delineato come un uomo normale, non violento, spesso lontano per lavoro. Aggiunse anche che la loro unione aveva risentito proprio di questa lontananza, finché, di comune accordo, si erano separati.

Mentre Mac interrogava la signora Parker, Harm osservava l’imputato: sembrava tranquillo, ma Harm era certo che non lo fosse realmente. Quando la teste era stata chiamata al banco Bill Stevenson, che non era stato avvertito della testimonianza dell’ex-moglie, era parso sorpreso e molto nervoso. Si era guardato più volte attorno, come alla ricerca di qualcuno. Poi, a mano a mano che ascoltava la testimonianza della donna, era sembrato rilassarsi. Harm, fra poco, l’avrebbe sorpreso di nuovo.

“A lei la teste”.

Mentre tornava a sedersi di fianco all’imputato, Mac rivolse un cenno ad Harm, che le rispose con un sorriso. Aveva fatto un ottimo lavoro. Il loro obiettivo era quello di sottolineare come l’omicidio fosse strettamente collegato alla violenza sessuale subita dalla bambina. Harm era più che certo che il movente fosse proprio quello. O meglio, il fatto che la signora Stevenson avesse scoperto le violenze subite da sua figlia adottiva e avesse deciso di chiedere aiuto per la bambina. Chi aveva maltrattato la piccola era anche l’assassino. Riuscire a far sorgere il dubbio che l'imputato non potesse essere un molestatore di bambini, ma un normale e affettuoso padre e marito, era fondamentale anche per far sorgere il dubbio che avesse ucciso lui moglie e figlia.

“Grazie, signora Parker”. Il tenente Roberts aveva terminato di contro interrogare la testimone.

Harm si alzò in piedi non appena la signora fu tornata al suo posto.

“Chiamo William Paul Stevenson”.

Non appena pronunciò quel nome, vide l’imputato voltarsi di scatto, mentre la porta dell’aula si apriva e l’ufficiale di guardia faceva entrare il ragazzo. Dopodiché l’imputato alzò lo sguardo su di lui e Harm capì da quello sguardo di essere sulla strada giusta.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***





Capitolo 16


“In che rapporti è con suo padre?” chiese Harm al ragazzo sul banco dei testimoni.

“Buoni, direi”, rispose Paul Stevenson, sfidandolo con la stessa aria spavalda con cui lo aveva accolto il giorno precedente sulla soglia di casa. Aveva risposto con lo stesso tono a tutte le domande che gli erano state rivolte fino a quel momento. Era stato interrogato sui rapporti con la defunta signora Stevenson e con la piccola Darleen e, Harm doveva ammetterlo, era stato in gamba: sicuro di sé, ma senza essere insolente. E, soprattutto, senza essere, neppure una volta, sulla difensiva. Un atteggiamento fin troppo corretto, per la sua età, decise Harm.

“E perché, allora, non è mai andato a trovarlo in carcere?”

“Questo dovrebbe chiederlo a lui” rispose il ragazzo, esitando solo un attimo.

Bene, bene, si disse fra sé Harm, cominciamo ad essere meno spavaldi, vero? Lo guardò e sorrise. Poi aspettò qualche secondo, osservandolo. Finché il ragazzo si rilassò e sorrise a sua volta, sicuro d’aver soddisfatto l’inquisitore.

Allora Harm colpì basso: “E’ a lei, signor Stevenson, che lo sto chiedendo. E da lei pretendo una risposta”.

Il ragazzo lo sfidò di nuovo con lo sguardo. Poi, vedendo che lui non cedeva, ricercò la figura del padre, quasi a chiedere aiuto.

Era solo un ragazzo, ma Harm non riuscì a provare pietà per lui. Cercò di non lasciar trasparire l’odio che lo animava, perché era ancora troppo presto. Ma non gli fu semplice mantenere la calma… Aveva indagato sul ragazzo e aveva scoperto cose che non gli erano piaciute affatto. Dopo aver capito che era lui il molestatore e l’assassino di Darleen, si era sforzato di trovare qualcosa che potesse giustificarlo. Ma non aveva trovato nulla. Solo arroganza, spavalderia e cattiveria. Era un ragazzo che, a parte il divorzio dei genitori, avrebbe potuto avere tutto dalla vita: la madre era di famiglia molto ricca e dopo la separazione dal marito l’aveva cresciuto nell’agiatezza di una vita di privilegi e opportunità.  Eppure, o forse a causa proprio di quest’agiatezza, era cresciuto viziato, ribelle e malvagio. I compagni lo detestavano e quei pochi amici che aveva erano teste bacate come lui. A scuola eccelleva in tutte le discipline sportive e in qualunque tipo d’attività che lo portasse nell’ufficio del preside almeno una volta la settimana. Era spesso violento con i ragazzi più indifesi e infastidiva costantemente le ragazzine più giovani. Fumava e probabilmente faceva anche uso di droghe. I genitori erano stati avvertiti più volte ma, a quanto sembrava, non erano riusciti a fare granché. Avevano sempre cercato di coprirlo e proteggerlo. Proprio come stava facendo ora suo padre.

“E’ stato mio padre a dirmi di non andare a trovarlo. Forse non voleva che lo vedessi in carcere”, rispose finalmente.

“Capisco…” disse Harm, poi continuò, determinato a farlo cedere: “Pensa che suo padre sia un assassino e uno stupratore di bambine?”

“Obiezione, vostro onore!” Il capitano Turner s’era alzato in piedi. “Richiede un’opinione.”

“Accolta. Capitano Rabb, le ricordo che la mia pazienza ha un limite”, lo avvertì il giudice.

“Mi scusi, vostro onore, cambio la domanda.” E, rivolto di nuovo al testimone, chiese: “Ha mai visto suo padre molestare Darleen?”

“No”, rispose il ragazzo.

“Ha mai visto suo padre picchiare la signora Stevenson?”

“No”.

“Suo padre l’ha mai picchiata?” lo incalzò di nuovo Harm.

“Si… una volta.”

“Una volta. E come mai?”

Il ragazzo non rispose immediatamente, allora Harm domandò di nuovo: “Allora, signor Stevenson… le ricordo che è sotto giuramento.”

“Mi aveva sorpreso a fare… qualcosa che non avrei dovuto” rispose, quasi sussurrando.

“Che cosa?”

“Vostro onore, per favore!” l’interruppe il capitano Turner. “L’avvocato sta molestando il teste. E’ un altro signor Stevenson l’uomo sotto processo!”

“Capitano Rabb, dove vuole arrivare?”, chiese il giudice con aria severa.

“Se mi concede di proseguire, vostro onore, lo dimostrerò presto”

“Sta percorrendo un terreno pericoloso, capitano. E’ sicuro di sapere quello che sta facendo?”, domandò di nuovo il giudice.

“Credo di si, signore”, rispose Harm, fissandolo negli occhi. Il giudice restò un attimo in silenzio, poi disse: “Prosegua”.

“Ma, vostro onore…”, cercò di ribattere Sturgis Turner, ma fu zittito da un “Potrà contro interrogare il teste, capitano. E concederò anche a lei ampia libertà”.

Rassegnato, Sturgis si sedette e Harm continuò.

“Allora, Paul, ricordi la domanda? Ti avevo chiesto per quale motivo tuo padre ti ha picchiato”.

Il ragazzo esitò, come non volesse rispondere. Ma poi capì che non avrebbe potuto rifiutarsi.

“Stavo… stavo fumando.”

“Stavi fumando. Capisco. E tuo padre ti avrebbe picchiato per una sigaretta?”

“Non era una sigaretta normale…”

“Droga?”

Il ragazzo annuì, ma Harm lo costrinse a rispondere: “Si, droga. Si trattava di uno spinello… nulla di serio. Ma mio padre è un militare. E’ molto rigido per queste cose…”. Harm lo vide riacquistare l’aria spavalda e sicura di sé: era certo d’aver trovato un argomento convincente.

“E poi?” lo incalzò Harm.

“E poi cosa?”

“Avrai smesso, suppongo?”

“Si, certo…” la domanda l’aveva colto di nuovo di sorpresa. Perché quell’avvocato non la smetteva di fargli domande? Cosa c’entravano gli spinelli con la difesa di suo padre?

“Strano, a me non risulta. I tuoi insegnanti mi hanno riferito che continui. Tu padre lo sa, questo?”

“Obiezione, vostro onore! L’avvocato sta davvero esagerando. Non capisco dove voglia arrivare…”

Il giudice calmò immediatamente il capitano Turner, accogliendo l’obiezione.

“Ritiro la domanda, vostro onore” disse Harm, poi proseguì: “Conosci l’Hotel Splendor di questa città?”

“Si… di nome. Non è dove sono state uccise…”

“Esatto. E sei mai stato lì?”

“No.”

“Sicuro?”

“Vostro onore, il teste ha già risposto!”, obiettò di nuovo l’accusa.

“Vostro onore, prima di lasciar contro interrogare il teste, chiedo di poter richiamare sul banco dei testimoni l’addetto alla reception dell’hotel Splendor”, chiese Harm al giudice.

 Il giudice fermò con la mano l’ulteriore obiezione che stava per uscire dalle labbra del capitano Turner e fissò per un momento il capitano Rabb e il ragazzo. Purtroppo stava iniziando a capire dove voleva andare a parare l’avvocato della difesa. Rabb spesso agiva fuori dagli schemi, lo sapeva bene. Ma conosceva anche il suo intuito ed era perfettamente a conoscenza che, se non avesse avuto validi motivi per tormentare un ragazzo di diciotto anni, non l’avrebbe mai fatto. All’inizio del processo, era stato quasi certo che avesse delle reticenze a difendere l’imputato, probabilmente perché lo considerava colpevole. Ma da una settimana il suo atteggiamento in aula era cambiato e negli ultimi giorni era tornato ad essere convincente. Qualcosa doveva essere cambiato. Decise di dargli fiducia: la verità, soprattutto in un caso come quello, meritava la priorità su tutto. Anche su eventuali regole di procedura penale. Tra l’altro, non avendo ancora concluso con le testimonianze, la difesa aveva tutto il diritto di richiamare un suo teste.

“Proceda, avvocato.”

“Grazie, vostro onore.”

Sul banco dei testimoni si sedette il signor Mitchell, l’addetto alla reception che, assieme ad Harm aveva trovato madre e figlia in fin di vita.

“Signor Mitchell, le ricordo che è ancora sotto giuramento”, esordì il capitano Rabb, prima di porgli la domanda per la quale lo aveva richiamato.

“Certo, lo so”, rispose l’uomo.

“Signor Mitchell, ha mai visto l’imputato?”

“No signore. O, almeno, non prima di vederlo in tribunale.”

“Grazie per la precisazione, signor Mitchell. E mi dica, riconosce, in quest’aula, qualcuno già visto prima, ossia prima di questo processo?”

“Sì.”

“Chi, signor Mitchell?”

“Il ragazzo…”

“Intende Paul Stevenson, il figlio dell’imputato?”

“Proprio lui.”

“E dove e quando l’avrebbe visto?”

“All’hotel. Quel giorno… poco prima che lei arrivasse.”

“Ne è sicuro, signor Mitchell?”

“Sicurissimo. Fu il ragazzo a darmi la busta per la signora Stevenson.”

“Quella che lei mise nella casella 128? Poco prima d’alzarsi per andare in bagno, come disse nella sua testimonianza?”

“Esatto.”

“Grazie, signor Mitchell. Può andare. Richiamo William Paul Stevenson.”

Il ragazzo tornò al banco. Harm ammirò il suo sangue freddo: non aveva abbassato gli occhi neppure per una volta. Forse le cose gli erano sfuggite di mano, forse non era sua intenzione uccidere. Questo non giustificava la violenza alla bambina, ma avrebbe voluto dargli ancora una possibilità. In fondo si trattava di un ragazzo di diciotto anni…

“Signor Stevenson, ora ricorda d’esser stato all’hotel Splendor?”

“Sì. Lo ricordo.”

“E ricorda anche perché ci andò?”

“Dovevo consegnare una busta ed è quello che ho fatto.”

“E per chi era il messaggio?”

“Per la moglie di mio padre” rispose il ragazzo. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: “Fu lui a consegnarmela.”

“Vuol forse dire che fu suo padre a chiederle di consegnare quel messaggio?”

Harm si appoggiò con entrambe le mani al banco degli imputati, scrutando negli occhi il testimone. Quel ragazzo non aveva scrupoli. D’accordo, suo padre aveva cercato di coprirlo, addossandosi una colpa che non aveva commesso. Poteva capirlo: era suo figlio e lui l’avrebbe protetto fino alla morte, nonostante tutto. Ma ora si trattava d’altro. Ora era il ragazzo che stava cercando d‘incastrare, e consapevolmente, il padre.

Non rispose, allora Harm proseguì, deciso a metterlo alle strette. Non aveva più nessuna pietà per lui.

“Non fu invece lei, signor Stevenson, a seguire la sua matrigna, a consegnare il messaggio per vedere il numero della camera in cui alloggiava con Darleen, aspettare il momento buono, un attimo in cui l’impiegato della reception non fosse al suo posto e salire in camera, per uccidere entrambe?” La voce di Harm risuonò nell’aula di tribunale e zittì tutti i presenti.

Tutti, tranne l’accusa.

“Obiezione!”, esclamò il capitano Turner, alzandosi in piedi.

Ma il capitano Rabb non ascoltò neppure. Anzi, continuò imperterrito.

“Non è forse vero, Paul, che tuo padre ti scoprì mentre molestavi la bambina? E non è forse vero che fosti tu, tempo dopo, a sentire la telefonata che Darleen mi fece, chiedendo aiuto?”

“Obiezione!”.

“E non fu per quello che, quando scopristi che la tua matrigna stava portando qui la bambina, per timore che tutto venisse alla luce, decidesti di ucciderle? Tu non volevi bene a Darleen, come hai fatto credere a noi tutti durante la tua testimonianza. Tu l’odiavi. Lei viveva con tuo padre e aveva il suo affetto…”

“Vostro Onore! Il capitano Rabb sta passando ogni limite!” Sturgis Turner cercò di fermare l’ondata di domande cui Harm stava sottoponendo il teste. Ma non riuscì nel suo intento.

Harm era stato abile a portare il ragazzo all’esasperazione. Infatti, con quell’ultima frase, ottenne proprio ciò che voleva: prima ancora che il giudice potesse riprenderlo per l’evidente comportamento fuori regola che stava tenendo nella sua aula, il ragazzo reagì come Harm si era aspettato.

“Sì, sì, sì!” gridò, alzandosi in piedi. “Io la odiavo! E odiavo anche quella donna che aveva preso il posto di mia madre! Ogni volta che andavo da mio padre, lei mi guardava con quegli occhioni imploranti… e io la odiavo sempre più. Mio padre voleva che la facessi giocare, che instaurassimo un rapporto come fossimo davvero fratelli. Fratelli! Io e una sporca negretta!”

“Era una bambina… una bambina dolcissima, che aveva già sofferto molto nella sua breve vita”. Harm non riuscì a trattenere il disgusto di fronte a quelle parole e a quell’odio. Nulla poteva giustificare un odio simile, neppure la gelosia. Quel ragazzo, di certo, era cresciuto con un concetto molto distorto del bene e del male. Quale ne fosse la causa, sarebbe stato capace di far del male anche ad altre persone, se ne avesse avuto motivo. Non aveva scrupoli, non aveva morale. L’errore di suo padre, quando aveva scoperto cos’aveva fatto alla bambina, era stato quello di proteggerlo, sentendosi in colpa per com’era diventato.

“Anche lui lo diceva”, continuò il giovane, rivolto verso il padre. Bill Stevenson si era preso il volto tra le mani, per nascondere le lacrime e la vergogna. “Non era vero, invece. Non aveva ancora sofferto abbastanza! L’ho fatta giocare, come voleva mio padre…” terminò la frase con un sorriso sarcastico.

Il capitano Turner aveva ascoltato ogni parola del ragazzo in piedi, pronto ad obiettare per l’ennesima volta. Ma alle ultime parole del testimone, non disse nulla e si risedette.

Non c’era più nulla da dire.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***





Capitolo 17


“Come hai capito che era lui?”, chiese Teresa. Aveva assistito alle ultime battute del processo, curiosa di vederlo agire di nuovo in tribunale. Già una volta le era capitato di vederlo in azione ed era un’esperienza che, sebbene mettesse a dura prova i suoi sentimenti, valeva la pena d’affrontare.  Ma non s’aspettava di assistere alla resa dei conti.

Harm non rispose subito e continuò a ritirare i fascicoli relativi al processo nella cartella, mentre Mac e Teresa l’osservavano. Avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto: aveva vinto la causa, aveva trovato l’assassino di Darleen ed era riuscito a darlo in pasto alla giustizia. Eppure, più che soddisfatto, si sentiva sfinito. Aveva visto l’odio e la violenza in molte persone e in diverse circostanze. Lui stesso, a volte, era stato costretto dagli eventi ad uccidere. Ma quello che aveva letto negli occhi di quel ragazzo quel giorno, lo aveva turbato forse più delle sue stesse crisi di coscienza dopo che, in azioni militari, o per difesa personale, s’era visto costretto a togliere la vita a qualcuno.

“Quando l’ho visto”, rispose. “Quando l’ho visto sulla soglia di casa della madre, ho riconosciuto immediatamente il ragazzo descritto dall’impiegato della reception. Non so come mai. In fondo è un ragazzo abbastanza comune. Ma ricordavo, dalla prima testimonianza del signor Mitchell, quella che io solo avevo sentito, mentre la forniva alla polizia, come aveva descritto lo sguardo di quel ragazzo che aveva consegnato la busta. Quando mi ha aperto la porta e mi ha visto, aveva lo stesso sguardo, come se volesse sfidarmi. Stavo rimuginando su quello che avevo scoperto la sera prima, sul fatto che il signor Stevenson è mancino e che non poteva essere l’assassino. Mi stavo chiedendo, per l’ennesima volta, come mai non avesse voluto parlarci del figlio e della prima moglie… tutte quelle domande sembravano i pezzi di un puzzle sparsi sul tavolo. Erano tutti lì, mancava solo di trovare il posto giusto ad ogni pezzo. Mentre mi parlava, sentii che il puzzle si ricomponeva da solo…”.

Guardò Teresa: chissà se avrebbe capito? Mac, n’era certo, l’aveva compreso. Lei lo conosceva, conosceva il suo istinto e certe sue sensazioni. Ma Teresa?

“Hai agito d’istinto, come fai sempre, e hai avuto ragione”, commentò il capitano Coulter.

Harm guardò sua moglie, che gli sorrise: anche lei aveva ragione. Teresa lo conosceva bene… più di quanto lui stesso riuscisse ad immaginare. Mac avrebbe detto perché lo amava. Forse non aveva tutti i torti.

Preferì non indagare troppo nei meandri della mente femminile, altrimenti non avrebbe più avuto il coraggio di coinvolgere Teresa quando n’avesse avuto bisogno, per lavoro o come amica. In fondo, poteva ancora contare sull’insensibilità tipicamente maschile per svicolare, come spesso aveva fatto, di fronte a certe situazioni che faticava a gestire.

Era ora di andare a sistemare i documenti relativi al processo e preparare un rapporto per l’ammiraglio: salutò Teresa e diede un rapido bacio a sua moglie.

Mentre si accingeva a lasciare l’aula del tribunale, chiese in tono leggero:

“Ci vediamo a casa, signore? Sarai nostra ospite, vero, capitano?”.  Poi rivolse loro un sorriso e se ne andò, senza nemmeno attendere risposta.

In fondo, a quel sorriso, aveva abituato entrambe.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***





Capitolo 18


Chiamò l’ascensore, ma non riuscì ad aspettare che arrivasse: usò le scale, salendo i gradini a due a due.

Quando il cellulare era squillato, mentre si trovava dall’ammiraglio, un’ora dopo aver lasciato Mac e Teresa in tribunale, aveva risposto quasi di malavoglia. Non voleva essere disturbato, perché desiderava tornare a casa al più presto, per gustare una cena tranquilla con sua moglie e con un’amica, prima di salutarla e mettere definitivamente una pietra sopra a quel caso che l’aveva coinvolto in maniera tanto personale.

Spalancò la porta di servizio e si ritrovò, a distanza di soli dieci giorni, di nuovo in una sala d’aspetto dell’ospedale. E ritrovò immutate le stesse sensazioni d’ansia e di paura. Sperava solo che la situazione non finisse come la volta precedente.

Quando aveva risposto al telefono, la voce di Teresa Coulter l’aveva colto di sorpresa: perché lo chiamava? Non era andata a casa con Sarah?

“Harm, sono in ospedale. Ho accompagnato Mac…”. Non aveva atteso che terminasse la frase: si era alzato, aveva farfugliato qualcosa all’ammiraglio ed era corso in macchina il più rapidamente possibile. Ricordò d’aver maledetto più volte di non essere alla guida di un F-14, anziché di un’auto…

“Teresa…” quasi non riusciva a pronunciare il suo nome, quando la vide.

“Vai, è oltre quella porta. Ti sta aspettando” gli disse, con una voce dolce, quasi materna. Una voce che si accorgeva di usare solo con lui.

“Ma… sta bene? “

“Starà meglio tra poco.”

“E’… è il bambino?”

“Certo che è il bambino! Cosa credevi che fosse?”

“Temevo si fosse sentita male, che fosse caduta… Ma, non è troppo presto, per il bambino? Sarebbe dovuto nascere fra 15 giorni…”

“Si vede che è ansioso di conoscervi. Ora vai, ha bisogno di te.”

“Grazie, Teresa”, le disse, abbracciandola.

Il capitano Coulter restò in piedi a lungo, nello stesso posto, persa nel ricordo di quell’abbraccio. Poi, come ritornando alla realtà, s’incamminò verso l’ascensore e uscì dall’ospedale.

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***





Capitolo 19


Non riusciva a smettere di guardare suo figlio.  

Lucas Rabb era nato da appena ventiquattro ore e aveva già conquistato tutti. Sua madre e Frank continuavano a transitare davanti alla nursery o a far la spola in camera di Mac, ad ogni poppata, pur di vederlo. Harriet e Bud erano già passati a trovarlo ben due volte. Persino l’ammiraglio aveva chiesto il permesso alla neo-mamma per prenderlo in braccio.

Sarah era molto felice. Nonostante il travaglio fosse stato faticoso, non appena aveva avuto il bambino tra le braccia, era sembrata rinascere. E lui non riusciva ancora a capacitarsi di come fosse riuscita a riprendersi tanto rapidamente, dopo come l’aveva vista soffrire durante il parto. Ma, a quanto pare, le madri hanno risorse interiori che un padre non riesce mai a comprendere fino in fondo.

Guardò ancora una volta suo figlio, che dormiva nella culla. Era un neonato molto grande, rispetto alla media, eppure a lui sembrava così piccolo e indifeso… Mac aveva avuto ragione, quando sosteneva, durante la gravidanza, che sarebbe diventato un gigante come suo padre, per come gli sentiva i piedi mentre scalciava in pancia! Quando lo aveva visto, aveva voluto subito guardargli i piedini e poi gli aveva detto, ridendo: “Vedi che avevo ragione?”

“Ciao…” La voce del capitano Coulter lo riscosse dai suoi pensieri.

“Oh, ciao, Teresa”, la salutò con un sorriso. “Dove sei andata, ieri sera? Ti ho cercato, dopo la nascita di Luke, ma eri sparita. “

“Sono tornata in albergo. Oggi ho terminato tutte le pratiche di mia competenza relative al caso e sono pronta a partire. Sono passata a farvi gli auguri e a salutarvi. Ho già visto Mac. E’ stata lei a dirmi che t’avrei trovato qui”.

“O sono con lei, o sono con lui…” rispose, voltandosi di nuovo a guardare suo figlio. Si stava svegliando e l’infermiera gli fece un cenno con la mano.

Si voltò verso Teresa e le disse: “Sanno che attendo il momento in cui si sveglia per prenderlo un attimo in braccio e mi avvisano. Se non venissi qui, non riuscirei quasi a vederlo! Quando lo portano a Mac, c’è sempre qualcuno che lo vuole coccolare e non riesco neppure ad accarezzarlo. Così vengo qui. All’inizio le infermiere non volevano farmelo prendere in braccio, ma le ho convinte…”

“E immagino anche come!”, disse lei, con un sorriso. “Le avrai incantate con il tuo fascino!”.

“Queste sono peggio di certi Marines… non si lasciano incantare dal mio fascino.”

“Ma come? Se ne hai sposato uno, di quei Marines!”

“Ma è stata lei ad incantare me”, rispose lui, divertito. Poi continuò: “Ad ogni modo, ho dovuto ricorrere a ben altro che un sorriso per intenerire questi gendarmi…”

“Certo, come no!”. Teresa lo guardò e pensò che non lo aveva mai visto tanto felice.

L’infermiera aprì la porta della nursery e chiamò il capitano Rabb con un sorriso. Lui la seguì, indossò il camice sterile e si avvicinò alla culla del piccolo Rabb. Si fermò un istante ad ammirare suo figlio, prima di prenderlo delicatamente in braccio ed avvicinarsi al vetro, per mostrarlo al capitano Coulter.

Teresa lo osservò e si abbandonò ai sentimenti che provava per quell’uomo: in fondo, faceva del male solo a se stessa. Ma l’emozione di vederlo con in braccio suo figlio, valeva quella stretta allo stomaco che provava al pensiero che non sarebbe stato mai suo, neppure più nei suoi sogni. Le rimaneva una sola consolazione: aveva avuto ragione anche in quello.

 Harmon Rabb era davvero fantastico con un bambino tra le braccia.

FINE

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