Perceval ou La fabuleuse quête du Calice

di Quainquie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - How quickly the glamour fades ***
Capitolo 2: *** Cap. I - The ropes have been unbound ***
Capitolo 3: *** Cap. II - This is a gift, it comes with a price ***
Capitolo 4: *** Cap. III - Kings and queens have all knocked on his door ***
Capitolo 5: *** Cap. IV - I’ve fallen out of favour, and I’ve fallen from grace ***
Capitolo 6: *** Cap. V - And the heart is hard to translate ***
Capitolo 7: *** Cap. VI - You're the silence in between ***
Capitolo 8: *** Cap. VII - So darkness I became ***



Capitolo 1
*** Prologo - How quickly the glamour fades ***


Dopo il mio piccolo esordio in forma di one-shot nel fandom di Merlin, ho deciso di provare a scrivere una storia più lunga. Non sono una persona costante, temo, tuttavia penso che forse la speranza di un seguito, anche esiguo, potrebbe aiutarmi a continuare l’impegno preso.

Visto che la mia precedente one-shot merliniana è incentrata quasi totalmente sul personaggio di Percival, ho pensato di continuare su questa linea. La storia che vi propongo prende decisamente le mosse da Your enemies are my enemies, soprattutto perché costruita su elementi della vita di Percival che ho inserito nella one-shot e che sarebbe utile conoscere per capire meglio lo svolgersi delle vicende e le dinamiche tra i personaggi.

La storia vede protagonisti Percival, Arthur e Merlin. Pairing dichiarati: Merthur e Percival/OC (a dire la verità, il personaggio in questione non è affatto originale, ma una rielaborazione libera di quello di Blanchefleur introdotto nel Roman de Percival di Chrétien de Troyes; data la sua assenza nella serie l’ho però catalogato come OC). Il titolo di ogni capitolo è citato dal testo di una canzone di Florence and the Machine. Ho sempre pensato che il brano Shake it out fosse la colonna sonora perfetta per la quarta serie di Merlin e di conseguenza mi sono lasciata ispirare dalle canzoni del gruppo britannico per buttare giù la mia storia.

Quindi che dire: buona lettura!

Quainquie




 

Prologo – How quickly the glamour fades
 

Florence + the Machine, Rabbit Heart (Raise It Up)

 

 

Merlin si mise le mani tra i capelli, il capo chino, le unghie affondate nel cuoio capelluto, come a volerlo strappare da quella zucca vuota che in quel momento era incapace di formulare un qualsiasi pensiero coerente o utile.

Tu, inutile zucca vuota!

Aveva sentito insulti simili fin dal primo giorno da parte di Arthur: pigro idiota, incompetente villano, pavido valletto, beone... In confronto le compilazioni di Geoffrey di Monmouth, il genealogista e bibliotecario reale, erano bozze striminzite. Non era stato l’insulto in sé, era stata l’inflessione della voce del giovane sovrano a essere diversa. Quelle poche parole, e l’enfasi data a quel pronome soprattutto, avevano fatto trasparire nitidamente, per la prima volta, un impetuoso disprezzo. No, si corresse Merlin silenziosamente, mordendosi disperatamente il labbro, non un impetuoso disprezzo qualsiasi. Il disprezzo di Arthur era indirizzato esclusivamente, inesorabilmente a lui. Gli occhi del Re avevano acquisito quel bagliore liquido e letale che Merlin aveva scorto sul suo viso, tremante e deformato dall’ira, soltanto un'unica volta, qualche anno prima. Ma stavolta, quelle iridi incandescenti erano puntate su di lui, e non su Uther. Il semplice pensiero che Arthur lo avesse paragonato a Uther, anche solo in modo inconscio, gli aveva provocato violenti conati di vomito.

Non aveva potuto sopportare quello sguardo su di sé. Era davvero soltanto un pavido valletto, pensò Merlin con rabbia, scosso da singulti senza lacrime. Piccolo, magrolino e patetico, incapace persino di controllare le sue emozioni più elementari. Dov’è il grande stregone adesso? aggiunse tra sé, schernendosi.

Tu…!

Quando Arthur si era lanciato su Uther, la spada sguainata e puntata sul cuore di suo padre, Merlin aveva saputo cosa dire. Aveva saputo consigliare il Principe, risvegliare in lui, sotto la rabbia e la disperazione e la paura, la ragione e l’umiltà di accettare le sue debolezze. In quell’istante, quando Arthur era crollato a capo chino accanto a suo padre, con il volto rigato di lacrime e il dolore della perdita di sua madre inciso in ogni smorfia, Merlin aveva sentito un calore nuovo all’altezza del torace. Certo, l’inganno di Morgause allora non aveva fatto altro che convincere Arthur della malvagità della magia e di coloro che ne facevano uso. Ma nonostante questo Merlin non si era sentito più distante da Arthur. Gli si era anzi sentito più vicino, perché aveva compreso di riuscire a leggere nel suo cuore e nelle sue emozioni come nessun altro. E per la prima volta, questo suo piccolo, inestimabile talento non era da attribuirsi al suo essere una creatura magica, bensì al suo essere una creatura che sapeva amare.

Merlin amava Arthur. Era così semplice nella sua mente. Anche se non fosse stato Emrys, destinato dalla notte dei tempi a guidare il Sovrano della Stirpe della Testa del Drago alla vittoria, Merlin sapeva che Arthur sarebbe entrato nella sua vita ugualmente e in questa avrebbe ricoperto la medesima importanza.

«Quanto-sei-patetico» sillabò Merlin, lasciando finalmente le lacrime libere di rigargli le guance.

Ma Arthur non lo amava. O lo amava in modo fraterno, il che era un modo gentile e vuoto per dire che non lo amava come Merlin avrebbe voluto. Arthur aveva scelto Guinevere, e Merlin non ne era stato invidioso: era il suo destino di Re generare degli eredi forti e degni del loro padre, i futuri sovrani della pacifica Albion. Merlin era invece destinato a proteggere e consigliare il giovane Pendragon, e nulla più. Il giovane stregone si era allora impegnato con tutte le sue forze affinché Gwen e Arthur potessero coronare il loro amore così tormentato. Aveva assistito alle loro nozze sinceramente felice, perché anche quel giorno era stato in grado di percepire, lui solo nell’immensa sala del trono gremita di principi, cavalieri e funzionari, le emozioni di Arthur. La gioia sul viso di Arthur non era neanche lontanamente splendente quanto quella contenuta nel suo cuore, e nemmeno Gwen avrebbe potuto accorgersene. E così, la vita di Merlin era proseguita per i dodici mesi seguenti: beandosi delle piccole cose, di quei momenti che trascorreva da solo con il Re, con l'intima consolazione di poter leggere dentro il cuore di Arthur meglio di chiunque altro.

Tu…!

Dai suoi precedenti e infruttuosi tentativi di conquistare Camelot Morgana aveva senza dubbio appreso qualcosa di importante: il potere era in realtà un’entità molto concentrata e fragile. Uther Pendragon era stato un grande re, forse più temuto che rispettato, ma era stato prima di tutto un padre, che aveva perso il senno quando la figlia gli aveva buttato in faccia tutto il suo rancore e che per Arthur avrebbe dato la propria vita senza indugi. Ogni sovrano di Camelot avrebbe sempre avuto un punto debole. Disgraziatamente, quello di Arthur era fin troppo visibile: aveva sposato Guinevere, elevando una serva al rango di regina consorte. Il suo amore per lei era diventato un’ossessione che lo avrebbe spinto ad infrangere qualsiasi ostacolo gli si fosse posto dinanzi. Morgana, Merlin gliene dava merito, non era affatto stupida. Avrebbe potuto attaccare di nuovo Camelot dall’esterno, assoldando altri mercenari: i Regni pullulavano di eserciti bramosi di battaglie sanguinose e di saccheggi. Ma si sarebbe rivelata una mossa incauta e prevedibile. No, Morgana aveva deciso di sconquassare la serenità del regno dall’interno, stavolta. E Merlin non aveva avuto la prontezza di accorgersene prima che accadesse l’irrimediabile.

Tu…!

Per celebrare il primo anniversario di nozze, Arthur si era rifiutato in modo categorico di organizzare grandi celebrazioni, balli o giostre. Avrebbe portato Gwen a trascorrere un’intera giornata nei boschi, che sarebbe poi culminata in una cena all’aperto, in ricordo del loro primo convegno amoroso lontano da occhi indiscreti – se si eccettuavano quelli di Morgana e Uther – di due anni prima. Anche in quest’occasione era valsa la regola che voleva la coppia reale in perfetta e totale intimità. Per cercare di smaltire la frustrazione Merlin si era rinchiuso nella bottega del fabbro con l’idea di far affilare una delle dannate spade di Arthur e di far riparare le placche della sua armatura, per poi rammentare con uno scatto di rabbia che Gwen era la figlia di un fabbro. Era come se la presenza dei colombi reali aleggiasse ovunque, e lui non potesse liberarsene.

Arthur aveva regalato alla moglie qualunque cosa lei avesse anche solo indirettamente menzionato come degna di interesse. Durante una visita ufficiale della delegazione di Caerleon, la giovane sovrana si era complimentata con la Regina Annis per la squisita fattura dei suoi gioielli. Conoscendo Gwen, che nonostante il titolo era rimasta la semplice ragazza di sempre, quei complimenti dovevano essere stati posti per cortesia, sincera, certo, ma pur sempre nel tentativo di compiacere l’importante ospite. Tuttavia il giovane Pendragon non aveva badato a spese e aveva commissionato agli artigiani più esperti di Caerleon una collana d’oro e rubini, i colori di Camelot. Il monile era di squisita fattura, Merlin non aveva dubbi in proposito; ma nel profondo di sé si chiedeva come Arthur potesse anche solo pensare che Gwen – che si era rifiutata di indossare nuovamente la tiara reale dopo il giorno dell’incoronazione – avrebbe gradito un gioiello tanto appariscente e ingombrante. Ovvio, Merlin sapeva la risposta: Arthur voleva essere il marito perfetto. Ma quel piccolo gesto dimostrava, nel suo romanticismo e nella sua ingenuità, quanto poco il sovrano in realtà sapesse del carattere della moglie.

Ma Gwen aveva accettato il dono con gioia, grazie al suo carattere dolce e paziente. Aveva anche ceduto, dopo qualche ragionevole protesta sul fatto che un gioiello di tale ricercatezza certo non si addiceva a una gita nei boschi, alle richieste di Arthur di indossarlo immediatamente.

Ed in quel momento Gwen era caduta in un torpore mortale.

Né gli strattoni disperati di Arthur né l’intervento risoluto di Gaius erano riusciti a risvegliare la giovane regina. Non era morta, ma non era viva; respirava appena, le palpebre pesantemente chiuse sulle iridi scure. Non appena Merlin era entrato nella stanza dove Guinevere giaceva inerte e Arthur piangeva disperatamente con il capo posato tra le braccia, aveva potuto percepire il palpito oscuro e inesorabile di un sortilegio molto potente provenire dalla collana che, una volta strappata dal collo esile di Gwen, era stata scagliata a terra.

Arthur era praticamente impazzito. La sua ira e la sua disperazione pervadevano ogni androne del castello. Aveva dato l’immediato ordine di catturare gli artigiani che avevano creato il monile e di estorcere loro una confessione, con la violenza, se necessario. Il cuore di Merlin si era spezzato in quel preciso istante: no, tutti i suoi sforzi e tutto il suo amore non potevano portare a questo. Se la minaccia di una nuova Grande Purga bastava a debilitare ogni sua forza fisica e mentale, quella di perdere il suo Arthur a causa della follia bastava a far desiderare al giovane mago di trovarsi al posto di Gwen.

In modo del tutto inaspettato, nel mezzo della disperazione che era piombata sul castello, sul regno e su tutti i suoi abitanti, l’unico ad aver agito con pacatezza ed autocontrollo era stato Sir Percival. Con la sua voce seria e profonda aveva preso la parola durante la seduta straordinaria del Concilio del Re, per sconsigliare ad Arthur di giustiziare degli innocenti. Se la situazione non fosse stata così drammatica, sia Arthur che Merlin, Gaius e gli altri cavalieri avrebbero trattenuto a stento le risa nell’udire il pacato fervore e la forbitezza piena di gravità con cui Percival, di solito taciturno, aveva osato infrangere il silenzio opprimente calato nella stanza.

«Sire, chiunque pratichi la magia da semplice popolano non potrebbe mai produrre un oggetto così potente. Chi ha incantato la collana deve essere eccezionalmente abile e dotato nelle arti magiche più oscure e complesse». Percival non aveva avuto bisogno di nominare ad alta voce il nome di chi avrebbe potuto essere in grado di incantare la collana. Tutti loro lo sapevano: Morgana.

Merlin si era ritrovato le ciglia imperlate di lacrime: come aveva potuto non accorgersene? Con fare fraterno, Gwaine e Percival gli avevano picchiettato le spalle, forse credendo che il sensibile valletto fosse ormai giunto al limite della sopportazione e fosse stato travolto dall'emozione. Ma nessuno di loro avrebbe potuto anche solo lontanamente comprendere quanto Merlin si sentisse in colpa. Soltanto lui tra loro avrebbe potuto percepire l’oscura potenza del gioiello, senza nemmeno toccarlo. Ma lui non era con Arthur e Gwen, era in una stupida bottega a martellare le piastre di un’armatura!

Tu…!

Aveva tentato di essere di supporto ad Arthur, ma ogni sua parola, ogni suo gesto sembravano unicamente seccare il sovrano. Finché una mattina, portando la colazione al Re che passava i giorni e le notti vagando tra il suo studio e le stanze dell’inferma, era inciampato. Che cosa stupida! Era incespicato in un gradino che si era sempre trovato lì, all’ingresso degli alloggi della Regina. Ma di fronte ad Arthur non avrebbe certo potuto azzardarsi a compiere magie per salvarsi dal capitombolo; si era limitato a schiantarsi sulle pietre, con uno spettrale frastuono di metallo e ceramiche infranti. Merlin si era risollevato un poco frastornato e con qualche sforzo, nella speranza che, come al solito, la sua goffaggine avesse suscitato in Arthur un’esasperazione venata di affetto, forse permettendogli un istante di allontanare la mente dal cupo dolore che la ingabbiava. Invece, quando Arthur aveva aperto la bocca, aveva instillato nella sua voce quanti più rabbia, disprezzo e disperazione possibili: «Tu, inutile zucca vuota!»

La cosa peggiore era stata la domanda che pareva essere stata sottintesa da Arthur a quello sfogo: perché Guinevere e non tu? Doveva esserlo stata. Perché altrimenti accanirsi così violentemente su di lui…?

Ora, solo nel cortile, Merlin inspirava profondamente, tentando invano di calmarsi. Le parole del Re erano le parole di un uomo impotente e disperato. Arthur era un uomo impotente e disperato. Merlin chiuse gli occhi, imponendosi di scindere i propri sentimenti dagli ultimi eventi. Nonostante lo avesse ferito, Arthur non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopravvivere a quell'esperienza senza di lui. E Merlin sapeva che non avrebbe potuto dimostrare il suo amore e la sua dedizione se non sacrificando ad Arthur tutto se stesso, come aveva fatto sino ad allora. Doveva trovare un rimedio alla maledizione che aveva colpito Gwen, e doveva trovarlo subito.

Con gambe incerte, il giovane s’incamminò verso la torre dove lui e Gaius erano alloggiati. Non vide Arthur seguire i suoi passi dal balcone della corte d’onore, lontano per la prima volta da giorni dalle stanze della moglie.


 

Il capitolo è decisamente introduttivo, introspettivo e, forse, un po' privo d'azione. Spero comunque di avervi intrigato.
Come sempre, critiche, annotazioni e pareri sotto forma anche di brevissime recensioni sono sempre benaccetti!

A presto!

Quainquie

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Capitolo 2
*** Cap. I - The ropes have been unbound ***


Carissimi,

eccoci al secondo capitolo di questo mio strambo tentativo di scrivere una longfic.
Ringrazio moltissimo chi mi ha lasciato una recensione: sono stata stupita dall'interesse suscitato da una storia Percival-centrica (ma non temete, anche in questo capitolo ci sarà una consistente dose del buon Merlin, e ci sarà sempre). Tenterò di essere al livello della fiducia concessami dai gentilissimi recensori.
Ora basta con le chiacchiere!

Buona lettura!

Quainquie

 

 

Cap. I – The ropes have been unbound

Florence + the Machine, Howl

 

 

Libri spalancati e rotoli di pergamena disfatti giacevano riversi su ogni superficie fruibile dell'alloggio del medico di corte. Merlin se ne stava inginocchiato sul pavimento di pietra, nel centro della stanza avvolta nella luce violacea del crepuscolo, con l'unica compagnia di una lente, di un pennino e di un lungo pezzo di pergamena ricoperto di appunti.

Aveva passato tutta la sera, la notte e la mattina precedenti a rovistare febbrilmente in ogni volume di Gaius, fosse questo di medicina o di magia, poco importa quanto vecchio, ammuffito o improbabile. Ma nessuno dei manoscritti da lui consultati aveva offerto anche solo un centesimo del risultato sperato. Il giovane stregone aveva ispezionato con precisione maniacale anche i risvolti di copertina di ogni volume, alla disperata ricerca di una nota o di uno schizzo appuntati da un precedente proprietario. Nulla. Nulla che potesse anche solo lontanamente assomigliare a una descrizione degli effetti della maledizione che aveva colpito Gwen, figuriamoci a un rimedio.

Affranto, Merlin posò il volume che aveva appena terminato di sfogliare. Gli dolevano le ginocchia a causa della posizione scomoda in cui era stato per tutta la notte e gli occhi gli si erano annebbiati per lo sforzo di decifrare i caratteri minuscoli e gli scarabocchi a bordo pagina annotati dai copisti. Ma un po' di stanchezza e qualche graffio non rappresentavano di certo il tormento più pressante per il giovane mago. Ogni volta che si trovava a richiudere un volume o a riavvolgere alla bell'e meglio un rotolo di pergamena con dita tremanti dalla frustrazione rivedeva con l'occhio della mente l'espressione angosciata e nel contempo spietata di Arthur, e quell'immagine lo spingeva a prendere tra le mani un altro volume, un altro rotolo, a ricoprire metri di pergamena con appunti su qualsiasi cosa potesse essere, anche se in misura insignificante, efficace per curare Guinevere.

La speranza di Merlin di trovare una soluzione tra quei tomi sciupati e mangiucchiati dai topi stava lentamente scemando. Avrebbe voluto recarsi alla radura per chiedere l'aiuto del Grande Drago, ma lasciare la cittadella si sarebbe rivelato arduo. Non che Merlin non avesse eluso la sorveglianza delle guardie altre volte, con evidente pericolo; ma stavolta era diverso. Non solo Arthur aveva raddoppiato i turni di ronda e le pattuglie di guardia ai territori nel tentativo di trovare Morgana, rendendo di conseguenza doppiamente più difficile sgattaiolare fuori dalle mura, ma aveva anche imposto un coprifuoco al calar del sole. Inoltre, pensò tra sé Merlin con sconforto, Gwen non era in pericolo di vita, non nel senso comune del termine. Era chiaro che Morgana non aveva voluto ucciderla, ma imprigionarla in una condizione in bilico tra la vita e l'oblio: la morte di una persona amata può segnare, ma in sua memoria coloro che restano possono andare avanti a vivere. Ma la situazione precaria ed incerta in cui Gwen era piombata avrebbe logorato Arthur giorno dopo giorno, mese dopo mese e, considerò Merlin con orrore, anno dopo anno, facendolo oscillare continuamente tra fugaci momenti di speranza e lunghi periodi di disperazione. No, Gwen non sarebbe morta dall'oggi al domani, Morgana stessa lo aveva impedito con il suo incantesimo. Merlin aveva due possibilità: poteva rischiare di farsi intercettare dalle truppe di guardia e dover mentire, o prendersi la notte per continuare le sue ricerche e architettare con Gaius, quando fosse rientrato con eventuali notizie o idee che potessero spiegare la situazione dell'inferma, una scusa plausibile per lasciare le mura all'alba, una volta terminato il coprifuoco, e trovare un tratto di bosco riparato tra le colline per convocare Kilgharrah. Avrebbe proprio agito così, decise, impugnando un altro volume e scostandone la copertina polverosa.

 

Il giovane mago si svegliò di soprassalto quando percepì un movimento alla sua sinistra. Accidenti, fu il primo pensiero che gli riuscì di articolare sollevando la testa dalle pagine maleodoranti sulle quali si era addormentato, il collo indolenzito dalla posizione innaturale. La boccetta di inchiostro che aveva usato per prendere appunti si era rovesciata sul pavimento davanti a lui, come la vistosa macchia e la sgradevole sensazione di umido che gli lambivano il ginocchio testimoniavano.

«Gaius...» mormorò ancora confuso e intontito dal sonno. «Cosa...?»

Ma quando la nebbia che gli impediva di distinguere i contorni degli oggetti che lo circondavano cominciò lentamente a dissolversi, Merlin capì di essersi sbagliato. Gaius non poteva essere così alto e così massiccio. Il giovane mago si stropicciò gli occhi con energia, tutto un fermento nel tentativo di identificare l'intruso. Poi si rilassò. Era soltanto Percival.

Ci mise qualche altro secondo a realizzare la portata della sua intuizione: Percival?

Con un balzo Merlin si tirò in piedi, di nuovo un fascio di nervi, alla vista di Percival che aveva raccolto uno dei rotoli di pergamena su cui il mago aveva preso degli appunti. E ora lo stava leggendo. Merlin se ne rimase lì impalato: Percival sapeva leggere? Non se l'era mai chiesto, ma dall'espressione concentrata era evidente che l'imponente cavaliere fosse perfettamente in grado di farlo. Ma la consapevolezza di questo fatto, anziché rallegrare il giovane mago, lo gettò improvvisamente nell'ansia: Percival stava leggendo i suoi appunti. Appunti che Merlin aveva copiato soprattutto da testi di magia messi all'indice dalle leggi del regno.

Quando il cavaliere alzò lo sguardo, la sua espressione non mostrava segni di stupore o incredulità, ma piuttosto di pacata rassegnazione.

«Ci sono notizie di Gwen? Gaius mi ha mandato a chiamare? Arthur...?» azzardò Merlin, ammucchiando tutti i libri e le pergamene che era riuscito ad afferrare sullo scrittoio di Gaius, in un disperato tentativo di portare i testi incriminati lontano dall'attenzione del nerboruto cavaliere.

Per tutta risposta, Percival gli tese la pergamena con un gesto di insospettabile eleganza per un uomo delle sue dimensioni.

Merlin fu assalito dal panico quando vide che sulla superficie liscia del rotolo pergamenaceo si trovavano non lettere sinuose ma simboli, abbozzati in forme geometriche e rozze, che non potevano essere altro che un modo d'espressione della magia. L'inchiostro vivido e brillante testimoniava quanto l'esecuzione dei tratti fosse recente, mentre gli appunti alfabetici posti a lato delle trascrizioni identificavano Merlin come il loro artefice. In ogni modo a Percival sarebbe bastato scorgere l'espressione colpevole e sconvolta del ragazzo per indovinare chi fosse stato l'autore della pergamena.

«Io...» cominciò Merlin in un sussurro.

«Hai trovato qualcosa di utile per guarire Guinevere?»

La bocca di Merlin si spalancò talmente da spingere Percival a ridacchiare nonostante la tensione. Poi l'uomo ripeté con voce pacata: «Hai trovato qualcosa di utile per guarire la regina?»

«Non...?»

«Merlin, credevo fossi io quello a parlare per monosillabi».

Cercando di controllare la voce il moro rispose sconsolato: «Non ho trovato nulla».

«Dove hai imparato a leggere la lingua dei Druidi? Te l'ha insegnato Gaius?»

Merlin esitò: non poteva coinvolgere Gaius. Con rassegnazione disse soltanto: «No. Per favore...! Io... ho fatto tutto da me. Da solo. Ho imparato tutto da solo».

L'altro disse semplicemente: «Quindi pratichi la magia». Non era una domanda.

«Io non pratico la magia. Intendo, non è una cosa che ho scelto di fare. L'ho sempre saputo fare» lo corresse Merlin.

Stranamente quella rivelazione non pianificata e capitata nel momento meno opportuno non provocò in Merlin quella sensazione di vuoto che si era aspettato, né suscitò la reazione di sgomento e incredulità tanto temuta dal giovane mago. Percival si limitava ad osservarlo con curiosità, come se si aspettasse che da un momento all'altro Merlin desse fuoco a tutte le pergamene a dimostrazione del fatto che era un mago.

«Non voglio che tu abbia paura di me» disse allora Merlin, per poi rendersi conto di quanto fosse ridicola quella preghiera alle orecchie di qualcuno che, ignaro del tema della discussione, si fosse trovato ad origliare. Un ragazzino smilzo e tutto nervi che tentava di convincere della propria innocuità un omone ben piantato a cui arrivava a malapena a solleticare il mento e che, notoriamente, non indossava né maglia di metallo né piastre protettive sulle braccia, giusto per ricordare ai suoi nemici che la possibilità di infliggergli una ferita era praticamente inesistente.

«Non ne ho, in effetti» Percival aggirò lo scrittoio di Gaius e prese a ispezionare i rotoli e i volumi ammucchiati da Merlin sul pianale.

«E tu come conosci la lingua dei Druidi?»

«Mio padre ha aiutato alcune colonie druide a stabilirsi nelle nostre terre dopo la Grande Purga» rispose placidamente il cavaliere, senza alzare lo sguardo dalle carte. «Io e i miei fratelli avevamo amici tra i giovani Druidi. Ci insegnavano qualche simbolo curativo ogni tanto».

«Quindi tu non credi che la magia sia malvagia?»

Percival si volse finalmente verso Merlin, ergendosi in tutta la sua altezza: «Merlin, anche se lo avessi creduto, ora avrei la prova che non è vero» Abbozzò uno dei suoi rari sorrisi. «Ma comunque no, non l'ho mai creduto» Quando vide che Merlin stava recuperando fiato per porgli un altro quesito lo anticipò: «No, non lo dirò ad Arthur. Non lo dirò a nessuno. Puoi fidarti. Poi non è che io sia proprio famoso per essere espansivo».

E finalmente Merlin sorrise. Non era uno dei suoi smaglianti e contagiosi sorrisi a tutta bocca, certo, però esprimeva un senso di sollievo che il ragazzo aveva temuto di non poter più provare.

«Altri lo sanno?»

Merlin, che non si sarebbe mai aspettato tanta loquacità dal cavaliere, preso alla sprovvista vacillò qualche secondo prima di rispondere: «Gaius. E Lancelot».

Una smorfia quasi impercettibile attraversò il volto di Percival al nome di Lancelot, tanto impercettibile che Merlin credette d'averla immaginata.

Il cavaliere chiese semplicemente, senza esternare di nuovo le proprie emozioni: «Come posso aiutarti a trovare un modo per guarire Guinevere?»

«Ancora non lo so» rispose Merlin con sincerità, facendo un gesto esasperato con le braccia, indicando la confusione di pergamene e inchiostro che lo circondava. «Non ho trovato nulla che potesse essere anche solo lontanamente utile o abbastanza potente. Nessuna formula, nessun oggetto dalle proprietà curative, nessun decotto» Il momento di sfogo fu subito sostituito di nuovo dall'apprensione: «Ti ha mandato Gaius con delle novità? O Arthur?»

«La situazione della regina è sempre la stessa» rispose mestamente il cavaliere. «Mi ha mandato Gaius, per controllare che stessi bene».

«Oh» Merlin si lasciò sfuggire un mormorio di delusione alla notizia che Arthur non aveva chiesto di lui. Certo che no, si ritrovò a pensare, non c'è spazio per l'inutile zucca vuota. Si pentì subito di aver anche soltanto formulato un tale pensiero, quando gli sovvenne il motivo per cui il sovrano l'aveva aggredito a quel modo. Gwen. Gwen. Doveva aiutare quel per aiutare Arthur! Ma come?

«Non è arrabbiato con te per davvero» La voce comprensiva di Percival interruppe il forsennato flusso di pensieri del giovane mago.

«Come?»

«Gwaine ha detto di portarti con noi al Rising Sun stasera» Quella frase, così diversa da quella che Merlin credeva d'aver udito pochi istanti prima, scaturì dalle labbra di Percival. «Voleva venire a prelevarti di persona, ma ho pensato che forse avresti voluto rimanere qui invece che essere portato in giro come un sacco di segale, per cui mi sono offerto di passare al posto suo».

Merlin annuì, grato. In un qualche bizzarro modo sentì di aver sempre sottovaluto Percival. Che ora è il primo dopo Gaius a conoscere il tuo segreto, rammentò a se stesso, non senza un certo stupore.

«Io raggiungo Gwaine e gli altri alla taverna» annunciò Percival dopo qualche secondo di silenzio sospeso, durante il quale entrambi avevano contemplato gli ultimi e lattescenti raggi crepuscolari sbiadire e far posto all'oscurità quasi completa. Il cavaliere si avviò verso l'uscio: «E se dovessi aver bisogno del mio aiuto, sai dove trovarmi».

Una volta che l'imponente sagoma fu svanita oltre la soglia, Merlin prese lentamente a raccogliere e risistemare tomi, richiudere boccette d'inchiostro e riavvolgere pergamene, per poi riporle sugli scaffali. Nonostante tutto, pensò, c'è ancora speranza. Per Gwen. Per Arthur. Per la magia.

E per me.

 

 

Mi scuso profondamente se la descrizione di Percival e del suo atteggiamento dovesse suonare poco adatta al personaggio. Si rifà in modo particolare al Percival che io ho immaginato nella mia precedente one-shot.

Come sempre, critiche, annotazioni e pareri sotto forma anche di brevissime recensioni sono benaccetti! E come sempre, mi scuso vivamente per qualsiasi errore in cui vi troviate ad incappare.

Essendo una novellina della scrittura in generale, le vostre impressioni mi aiutano davvero a migliorare. Quindi: senza pietà!

A presto!

Quainquie

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Capitolo 3
*** Cap. II - This is a gift, it comes with a price ***


Care/i compagne/i del fandom merliniano,

Rieccomi qui! Colgo anzitutto l'occasione per ringraziare tutte/i coloro che hanno dedicato un poco del loro tempo alla lettura di questa mia storia e che, soprattutto, hanno speso per me commenti, complimenti, critiche costruttive e incoraggiamenti. Non potrei essere più felice e soddisfatta di così. In cambio cercherò di soddisfare le aspettative dei miei lettori e recensori, e di fare senza dubbio tesoro dei consigli ricevuti!

Non voglio anticipare nulla del capitolo. Mi permetto soltanto di consigliare, stavolta fortemente, la lettura della mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies: da questo capitolo in avanti si dispiega l'azione e, all'interno di questa, la vita di Percival gioca un ruolo determinante. La one-shot fornisce una cornice più definita per inquadrare le azioni e i pensieri del buon Perce, che altrimenti potrebbero apparire un (bel) po' OOC. Chi l'ha magari già letta riuscirà sicuramente a spiegarsi molti aspetti di questo capitolo. Per quanto riguarda personaggi, ambientazioni e story-line principale: tutto quanto è di proprietà della BCC e degli autori di "Merlin".

Buona lettura!

Quainquie

 

 

Cap. II – This is a gift, it comes with a price

 

Florence + the Machine, Rabbit Heart (Raise It Up)

 

 

Il Rising Sun era una costruzione un po' sghemba, incerta. Abbarbicata alle spesse mura di pietra che separavano la città bassa dalla cittadella, la taverna dalla facciata di malta e mattoni corrosa dalle intemperie e dalle travi marcescenti si confondeva tra le case e le botteghe che la circondavano, quasi volesse nascondersi al viandante e acuire le pene del suo cammino. L'insegna di legno dipinto e ferro battuto cigolava sommessamente nell'aria notturna, segnalando in modo sinistro la presenza dell'edificio in quella nicchia tra le mura.

Nonostante la cittadella si fosse richiusa su di sé, in un silenzio impenetrabile tutto teso a riecheggiare lo strazio e il mutismo doloroso del suo Re, la vita nella città bassa proseguiva con ritmo immutato: i rigattieri, gli ortolani, i sarti, i fabbri, i tintori e tutti gli altri artigiani si levavano ogni giorno prima dell'alba per dare avvio alle proprie faccende, mentre le donne aprivano le imposte, pulivano l'uscio con una spazzola di crine e stendevano la biancheria in attesa che il sole la candeggiasse. Alla sera, poi, gli abitanti di Camelot trascinavano le loro membra stanche ai loro usci, nella speranza di un sonno breve ma ristoratore.

Molti però non disdegnavano una visita al Rising Sun. Nonostante il clima di austerità pervadesse tutto il regno, la taverna continuava a riscuotere l’abituale successo, forse perché rappresentava l'unica scappatoia alla cappa di mestizia che era calata su Camelot.

I cavalieri del Re non facevano eccezione a questa tendenza. Quando Percival riuscì a fendere la ressa nello spiazzo antistante la taverna – non che gli fosse difficile, considerata la sua mole prodigiosa – e a superare l'uscio si ritrovò a fissare Gwaine che, completamente ubriaco ma ancora ragionevolmente stabile sulle gambe, stava dando sfoggio della sua non proprio piacevole estensione vocale in piedi su un tavolo, accompagnato da versacci, applausi e occasionali scrosci di birra e sidro di mele da parte degli avventori.
 

Quando siamo alla taberna

Non ci curiamo più del mondo...

Ma al giuoco ci affrettiamo,

Al quale ognora ci accaniamo!
 

Leon comparve dalla calca e si avvicinò a Percival, che ancora fissava Gwaine con una certa apprensione mista ad un colpevole divertimento.

«Per fortuna sei arrivato» disse Leon in tono sollevato all'amico, dandogli una pacca sulla spalla. «Non credo che sarei riuscito a sopportarlo oltre» aggiunse, indicando Gwaine, che ora accennava qualche incerto passo di danza tutt'altro che aggraziato. «Ma non voglio farlo scendere dal tavolo. Intendo...» Come sua abitudine, Leon lasciò sospesa la frase, sperando che il suo interlocutore capisse da sé. La sua sensibilità tutta cavalleresca gli impediva anche solo di esprimersi su questioni troppo spinose, sebbene queste fossero ormai sulle labbra di ogni cittadino del regno.

Percival annuì con empatia. Come Leon, sapeva che l'ubriachezza era il modo con cui Gwaine esprimeva non tanto la sua gioia di vivere, come comunemente veniva ritenuto, quanto il suo senso di impotenza di fronte a situazioni insormontabili. Era un modo per distaccarsi da un presente difficile, per dimenticare circostanze che non potevano venire risolte o mutate. Tutto nella canzoncina apparentemente frivola di Gwaine comunicava a Percival il disagio e la tristezza profondi dell'amico: Quando siamo alla taberna, non ci curiamo più del mondo, cantava il moro cavaliere, e la sua voce gracchiante da ubriaco tradiva una speranza sobria, quella di riuscire a scrollarsi di dosso il peso dell'afflizione che avvolgeva Camelot e chi vi viveva.

Stancamente, Percival diede le spalle a Gwaine e con Leon si accostò al bancone tarlato. Con un cenno del capo il cavaliere ricciuto ordinò il loro solito – due boccali colmi di birra scura schiumosa – che Aldith, la moglie del proprietario del Rising Sun, pose loro dinanzi poco dopo.

Dopo che ebbero sorbito qualche sorso ristoratore Leon chiese sottovoce, l'apprensione palpabile: «Come sta Merlin?»

«Non bene, direi» replicò Percival in tono altrettanto cupo.

«Gwen è una sua carissima amica, è normale che prenda questa disgrazia tanto a cuore» rifletté Leon con fare meditativo. Il suo viso si rabbuiò ulteriormente quando aggiunse: «Ognuno di noi l'ha presa tanto a cuore».

Nonostante la gravità del discorso, Percival sorrise dentro di sé alle parole ingenue dell'amico. Un sorriso amaro, certo, che tuttavia esprimeva perfettamente l'incredulità di Percival nell'udire quelle esternazioni. In un certo senso, era sorprendente constatare come Leon, che aveva trascorso tutta la sua vita a Camelot e che conosceva Merlin da molti più anni di lui, non avesse ancora realizzato che la prostrazione del giovane valletto era causata soltanto in minima parte dalla situazione, seppur tragica, di Guinevere. Doveva esserci un qualche schema mentale a lui ignoto, rifletté, che impediva naturalmente a Leon di vedere che erano Arthur e il suo atteggiamento la fonte di tutto il dolore e la disperata lealtà di Merlin. Ciononostante non espresse i suoi pensieri e disse soltanto, con fare accondiscendente e laconico come sua abitudine: «Già».

I due tacquero per qualche istante, sebbene ciò passò perfettamente inascoltato nel trambusto che li circondava.
 

Qui nessuno teme la morte,

Ma per Bacco gettan la sorte:

Prima si beve a chi paga il vino,

Indi beve il libertino!
 

«Credi che Gaius troverà il modo di curarla?» fece Leon, la voce ora impercettibile. Aveva cambiato colore, impallidendo vistosamente.

«È questo quel che si può sperare» replicò Percival con fare ragionevole. «Ma penso che, se esiste, non sarà un metodo comune».

Leon spalancò gli occhi: «Che intendi?»

«Avanti, Leon» Percival abbassò la voce di qualche tono ancora, come se stesse parlando di una cospirazione ai danni del Re, «È Morgana ad averle fatto questo. E Morgana è una strega. Ciò che è inflitto con la magia va curato con la magia, o con qualcosa che le è collegato» Quando Leon sgranò ancor di più gli occhi già innaturalmente spalancati, Percival aggiunse sbuffando: «Lo so che è tradimento anche solo parlarne. Ma anche Arthur dovrà vedere come stanno le cose prima o poi».

L'amaro sorrisetto interiore di Percival riapparve, stavolta evocato dalla stupidità che il suo Sire sapeva elargire nelle stesse pantagrueliche quantità con cui dispensava il suo coraggio e il suo buon cuore. La fedeltà di Percival nei confronti di Arthur non era questionabile: ma allora quella di Merlin? Non poteva fare a meno di pensare che se soltanto Arthur fosse stato un poco più ragionevole nei confronti della magia, non si sarebbe mai arrivati a quella situazione: Gwen maledetta e l'unica persona in grado di salvarla ridotta allo stremo e alla clandestinità.

Leon parve rinsavire a quel commento aspro: «Ti capisco, Perce. Ma ricordati che è la magia che ha ridotto sua moglie in questo stato. E entrambi i suoi genitori sono morti a causa della magia. E Morgana, che lo ha tradito dopo aver scoperto la sua magia... No, non lo permetterà mai».

«Allora Gwen è destinata a rimanere così per sempre».

«Questo è tradimento, Perce!» esclamò Leon, sinceramente stupito dalla forza con cui Percival aveva formulato quella constatazione.

L'altro cavaliere lo ignorò e proseguì: «In ogni caso, non sappiamo quale possa essere un rimedio magico in grado di annullare una maledizione così potente e letale. Dobbiamo aspettare Gaius» Fece un sospirò e posò il boccale vuoto. «Speriamo che lui e Merlin trovino qualcosa. Magari, se a proporlo fosse una persona fidata come loro, Arthur permetterebbe l'uso della magia».

Leon ebbe un sussulto, come se si fosse ricordato qualcosa di importante. O almeno, così Percival sperava.

«Io non me ne intendo» continuò Percival, fingendo di non aver notato il turbamento fin troppo evidente nelle smorfie di Leon, «ma mi piace sperare che esista una formula, un oggetto, un animale, insomma un modo qualunque per guarire la Regina» Si maledì per aver calcato così tanto la mano, sfociando addirittura nel melenso, cosa che gli era capitato di fare soltanto sotto l'incantesimo della Lamia e che chiunque lo conoscesse bene avrebbe identificato come segno inequivocabile di menzogna da parte sua.

Tuttavia Leon pareva troppo concentrato sul contenuto delle parole che il suo amico aveva appena proferito per badare al tono con cui erano state espresse. Si alzò di scatto dallo sgabello, rischiando di rovesciare il fondo del boccale sulla cotta di maglia: «Devo andare dal Re» annunciò in tono spaesato e fermo insieme.

«A quest'ora?» lo questionò Percival con ostentata incredulità – di nuovo, nessuna compagnia itinerante l'avrebbe mai assunto per le sue doti di attore.

«È importante» tagliò corto Leon, gettando qualche moneta d'argento sul bancone. In men che non si dica, il cavaliere riccioluto aveva attraversato la stanza fumosa con grandi falcate, diretto alla porta, e dietro questa era sparito con un fruscio del mantello scarlatto.

Percival rimase solo al bancone, mentre Gwaine era ormai stato strappato a forza giù dal tavolo dall'oste Evoric e stava ora seduto su una delle panche, mormorando sottovoce ancora qualche strofa della canzoncina, mentre Aldith, con fare materno, cercava di sottrargli la bottiglia di sidro.

Percival frugò la stanza con lo sguardo e non si sorprese di non vedere Elyan. La situazione disperata in cui versava sua sorella lo aveva distrutto e soltanto raramente lasciava i suoi alloggi, solitamente su richiesta di Arthur.

Con un sospiro, Percival allontanò il boccale e si diresse verso Gwaine che, con la vista annebbiata, esclamò in tono festoso: «Perce! Che bella sorpresa! E Merlin? Dov'è Leon?» Tacque, forse in preda ad un attacco di smarrimento provocato dalla bevuta. «Ti va una pinta?» aggiunse, cambiano improvvisamente discorso, fissando con occhi supplicanti, da cucciolo, la povera Aldith, che era riuscita ad impossessarsi della bottiglia.

«Non se ne parla» borbottò Aldith imperiosamente; poi si rivolse con gentilezza a Percival: «Potete occuparvene voi, Sir?»

Il gigante annuì e, sordo alle proteste di Gwaine, lo sollevò senza tanti complimenti, ignorando i fischi di scherno degli altri avventori che erano, se possibile, ancora più ubriachi di Gwaine. Lo trasportò con qualche difficoltà – dovuta più che altro ai movimenti selvaggi dell'amico che al suo peso – fuori dalla locanda. L'aria fresca che li accolse parve avere un effetto calmante su Gwaine, che s'acquietò e si decise finalmente a promette che se lo avesse messo giù non sarebbe tornato di corsa all'interno del Rising Sun.

Percival ripercorse all'inverso le viuzze che portavano al castello, con Gwaine qualche falcata dietro di lui lo seguiva oscillando da un lato all'altro della strada. Entrambi erano concentrati sui propri pensieri: confusi e in qualche modo gaudenti quelli dell'uno, cupi e fin troppo nitidi quelli dell'altro.

 

*   *   *
 

Il giorno seguente, Percival si svegliò poco prima dell'alba, pervaso da un senso di febbrile attesa del tutto insolito in lui. Aveva trascorso ore immerso in un sonno liquido e inquieto, sperando che venisse interrotto da un momento all'altro. Si vestì con cura, si rasò la barba con maniacale attenzione; poi si sedette sul letto, cercando di riacquistare il suo abituale autocontrollo.

Finalmente apparve Leon. Aveva occhiaie profonde di chi non aveva posato il capo sul suo giaciglio, la pelle smunta e i capelli arruffati. Nonostante fosse evidentemente stremato, la sua espressione tradì tutto il suo stupore nel vedere Percival già sveglio e abbigliato di tutto punto.

«Il Re ci ha convocati nella Sala del Concilio» annunciò in tono solenne ma stanco.

Come se la notizia non gli importasse granché, Percival non rispose e si limitò ad annuire, come avrebbe fatto insomma in qualunque altra occasione analoga.

Quando lui e Leon arrivarono alla Sala del Concilio, Gaius, Merlin, Elyan e Gwaine erano già presenti. Nel caso di Gwaine, la presenza era puramente un fatto fisico: a confronto delle sue, le occhiaie di Leon sembravano soltanto leggermente accennate. Percival fece un cenno a tutti, poi un altro, meno marcato, rivolto a Merlin. Il giovane mago ricambiò e, dallo sguardo di approvazione di Gaius, Percival fu certo che fosse a conoscenza della conversazione avvenuta la sera precedente.

Prima che qualcuno potesse anche solo tentare di avviare una discussione sulla loro presenza lì, a quell'ora così insolita, e tradire il timore che fosse accaduto il peggio, comparve Arthur; o perlomeno, loro sapevano che quella figura pallida ed emaciata che aveva appena varcato il portone di quercia era davvero Arthur.

Il suo volto dai lineamenti tanto attraenti era ora una maschera di dolore: la barba non fatta ne accentuava la cupezza, mentre gli occhi fino a qualche giorno prima luminosi erano divenuti cisposi e stralunati, ricoperti dalla patina liquida e rossastra del pianto ininterrotto. Tuttavia, quando parlò, la sua voce era ancora quella chiara e risoluta dell'Arthur valoroso, dell'Arthur re, che nulla rivelava del suo tormento: «Cavalieri. Gaius. Merlin».

Percival vide lo sguardo già lucido di Merlin osservare con ostentata determinazione la punta dei suoi calzari, ignaro del fatto che Arthur lo stava fissando con crescente intensità: il sovrano distolse tuttavia lo sguardo quando si arrese all'evidenza che il valletto non avrebbe sollevato il proprio.

«Vi ho convocati oggi in ricordo del giuramento di lealtà che avete prestato alla Tavola Rotonda. Ora più che mai necessito della vostra lealtà e del vostro consiglio» esordì Arthur, stringendo lo schienale di una delle sedie poste attorno al tavolo circolare, rimando implicito alla Tavola. «Conoscete tutti la... situazione in cui si trova la vostra Regina» La voce si era quasi incrinata alla menzione di Gwen, ma fu con straordinaria rapidità che il sovrano proseguì: «Sir Leon mi ha raggiunto la notte scorsa, portandomi notizia di un espediente secondo lui in grado di curarla».

La sala fu percorsa da un impercettibile brusio di sorpresa. Gli occhi scuri di Elyan si erano riempiti di speranza al suono di quelle parole, una speranza tuttavia frenata dal tono serio e glaciale di Arthur.

Il Re fece cenno a Leon di farsi avanti e di prendere parola, mentre si lasciava cadere pesantemente sulla sedia foderata di velluto, come se il pronunciare quel pur breve discorso avesse prosciugato le sue forze.

«Anni fa facevo parte di una delle pattuglie di sorveglianza dei confini. Una volta capitò che, oltrepassando il confini del regno di Re Cenred, fummo attaccati dai suoi mercenari. Fu...» La voce di Leon si interruppe per il terrore del ricordo. «... una carneficina. Nessuno sopravvisse, tranne... tranne me. Fui salvato per miracolo dai...» Arthur gli fece un brusco cenno di continuare. «... da un gruppo di Druidi. Mi dissero che le mie ferite erano di mortale gravità, ma che mi avevano potuto salvare grazie alla Coppa della Vita».

A quel punto, le reazioni dei presenti nella stanza passarono dalla confusione alla speranza, dall'incredulità al timore. Percival tentò di rimanere impassibile e, per facilitare la riuscita del suo intento, osservò le reazioni altrui. Gwaine e Elyan, quest'ultimo specialmente, furono presi da evidenti sollievo e speranza; Gaius e Merlin invece si fissavano l'un l'altro, chiedendosi probabilmente come mai a nessun dei due fosse ritornata alla mente l'esistenza del Calice e temendo la reazione di Arthur nell'udire un tale suggerimento.

«Ti ringrazio, Sir Leon» disse stancamente Arthur, mentre Leon indietreggiava di qualche passo con rispetto. «Questo è quanto. Credo che tutti voi conosciate la Coppa della Vita, ed il suo ruolo nella presa di Camelot da parte di Morgana e Morgause» Attese un cenno d'assenso, più o meno convinto, dagli astanti. «Conoscete molto bene anche la mia avversione alla magia. Per questo vi chiedo, fedeli della Tavola, di consigliarmi quale via intraprendere».

La stanza piombò nel silenzio, finché qualcuno segnalò la propria intenzione di parlare con un sommesso colpo di tosse. Tutti gli occhi vennero puntati su Gaius che, su ordine del sovrano, avanzò nella luce tenue dell'alba e delle candele.

«Sire, la Coppa della Vita è un artefatto magico molto potente e certo potrebbe rivelarsi la soluzione alla... condizione di Sua Maestà. Tuttavia ci sono non pochi intralci a questa soluzione, mio signore, che vanno tenuti in debito conto» Dopo aver scambiato uno sguardo fugace con Merlin, il vecchio medico aggiunse con pacatezza: «Anzitutto, la Coppa è andata perduta dopo la battaglia di Camelot: potrebbe trovarsi ancora nel perimetro del castello o essere stata sottratta. Inoltre, questo tipo di magia è molto potente, e soltanto qualcuno particolarmente versato nelle arti magiche come i Druidi o le Sacerdotesse dell'Antica Religione potrebbero renderla efficace» Gaius tacque, incerto sul da farsi; ma poi decise di proseguire: «E da parte nostra, l'uso della Coppa non è gratuito. Essa non appartiene al mondo degli umani, Sire, ma delle creature magiche. Se la volessimo usare, dovremmo pagare un prezzo».

Arthur, che lo aveva ascoltato con morbosa attenzione, chiese secco: «Quale prezzo?»

«Il prezzo è sancito dall'uso che se ne farebbe, mio signore. Richiamare qualcuno dalla morte comporta il sacrificio di un'altra vita» Gaius tentò di sopprimere la commozione che si stava impadronendo di lui al ricordo dei fatti avvenuti sull'Isola dei Beati tanti anni prima. «Ma nel caso della Regina, non è di morte che stiamo parlando, e il prezzo potrebbe essere inferiore. Soltanto una creatura magica può rispondere in modo preciso a questa domanda, la stessa creatura che può dare vita ed efficacia all'incantesimo».

Arthur balzò in piedi e prese a camminare avanti e indietro.

«Tutto ciò non toglie, sire, potrebbe essere l'unico modo» concluse Gaius. «E pertanto vi consiglio di prendere in considerazione questa possibilità».

Inaspettatamente, Leon prese la parola e disse soltanto: «Sire, se fosse davvero l'unico modo, allora vale almeno il tentativo» Abbassò lo sguardo, con le sue usuali goffaggine e timidezza miste a dignità dipinte sul volto commentò: «I Druidi mi hanno salvato la vita con la Coppa. Porto loro un debito di riconoscenza pari quanto ne porto a Voi e alla stirpe dei sovrani di Camelot. Sono stati buoni con me, mi hanno offerto il loro aiuto in modo del tutto disinteressato. E sono certo che lo faranno anche con Voi e la Regina.».

Il sovrano passò lo sguardo azzurro sui volti dei presenti: Elyan si limitò ad annuire piano; Gwaine rinnovò il gesto con più vigore. Sempre mascherando i suoi sentimenti, Percival assentì a sua volta.

«Merlin?»

La voce di Arthur tradì per la prima volta la sua disperazione e la speranza che il suo valletto, come sempre, gli venisse in soccorso con le sue rassicuranti parole di sostegno. Il giovane moro sollevò il viso, ed ogni traccia di spensieratezza quasi infantile era svanita dal suo viso solitamente così gioviale: la sua espressione era intensa, come lo era stata tutte quelle volte in cui il sovrano di Camelot aveva chiesto il suo consiglio nei momenti più bui e cruciali della sua vita. Il viso di Merlin era un libro aperto, che esprimeva lealtà e perdono. E un'amorosa devozione il cui fervore non poteva certo passare inosservato: ma come Percival capì, soltanto tre persone nella stanza se ne erano accorte: lui, Gaius e Merlin naturalmente.

«Sire, seguite il vostro cuore» La voce di Merlin risuonò dolce, determinata e fiduciosa al tempo stesso. «Sapete che le cose non vanno sempre come ci aspetteremmo. Potremmo fallire, Sire, ma potremmo anche farcela. Non toglietevi questa speranza» La parola Arthur gli si accennò sulle labbra, ma non venne pronunciata e rimase un muto incitamento.

Dopo un tempo infinito, Arthur smise di camminare in cerchio e si rivolse ai presenti con voce determinata, una determinazione nuova, venata di speranza: «E sia» Inspirò profondamente e ordinò: «Voglio che il castello sia setacciato da cima a fondo. Che siano interrogati tutti i servitori e le domestiche. Che le abitazioni della cittadella vengano perquisite, che il bando di ricerca raggiunga ogni angolo del regno. Leon» aggiunse, rivolto al cavaliere ricciuto, «organizza il maggior numero di pattuglie possibili. Forse c'è ancora speranza di ritrovare un gruppo di Druidi nei territori a noi vicini. Dite loro che il sovrano di Camelot li cerca in pace» aggiunse, con intensità.

Percival vide il viso di Merlin illuminarsi; a quel punto fece un passo avanti e chiese con voce profonda: «Chiedo il permesso di organizzare le ricerche nel castello, nella cittadella e nella città bassa, Sire».

«Ti accordo questo permesso, Percival. Elyan, chiama il segretario della cancelleria reale, si occuperà lui dei bandi. Gwaine, raduna i messi e organizza le loro destinazioni. Gaius, Merlin, voi resterete con me» Per pochi istanti, tutta l'abituale energia contagiosa parve riprendere possesso di Arthur.

Merlin ribatté inaspettatamente: «Sire, preferirei invece andare con Percival. Credo che vi sarei molto più d'aiuto».

La lucidità con cui aveva pronunciato queste parole lasciò Arthur interdetto e, si sarebbe detto, ferito, come se fosse sorpreso del fatto che il suo servitore, così intenso e infiammato pochi attimi prima, gli avesse ora rivolto quel rifiuto che del tono affettuoso precedente conservava poco o nulla. Ciononostante il sovrano rispose, perdendo un poco della sua energia: «Va bene, Merlin. Ora andate».

Le disposizioni del Re furono seguite da un ennesimo attimo di silenzio: poi, ognuno si affrettò ad eseguire l'incarico affidatogli. Merlin e Percival scesero gli scaloni del castello, ora illuminati dalla fioca luce del sole nascente, camminando fianco a fianco in silenzio, diretti verso e le stanze dei servitori, nei meandri del castello che si stava risvegliando, ognuno perso nelle sue riflessioni.

Poi, d'un tratto, Merlin si ritrovò spinto violentemente in una nicchia oscura tra le mura.

Disorientato, il giovane mago cercò di capire come mai Percival lo avesse immobilizzato; ma la risposta gli venne poco dopo quando lo sentì sussurrare con urgenza ben percepibile: «Tu sai dove si trova la Coppa, vero?»

 


 

So che or ora molti di voi esigeranno che io venga linciata seduta stante. Ma chiedo clemenza: non temete, la soluzione per la pseudo-morte di Gwen non è altro che l'inizio della fine ufficiale dell'Arwen in questa storia!

Mi spiace di aver dipinto Leon quasi come un'idiota, ma era necessario ai fini della narrazione. Insomma, idiota, ma un idiota buono e sensibile! Spero anche che i collegamenti con la mia one-shot siano abbastanza intuibili e che il piano di Perce suoni logico e plausibile. Il finale è un po' strano, insoddisfacente, un po' meh, tuttavia nella serie Merlin mi ha sempre dato l'impressione di uno che non prende mai decisioni per caso, e queste, agli occhi di chi lo conosce, risultano spesso prevedibili. Tutto una sua spiegazione, lo prometto!

La canzone di Gwaine proviene, tradotta, dalla terza parte dei Carmina burana, i cosiddetti Carmina lusoria et potatoria. Dato che di solito non traduco mai i testi latini, mi sembra giusto fornire il link di chi ha tradotto il Carmen potatorium rispettandone addirittura le rime (che io mi sono limitata ad aggiustare in un unico caso): http://www.liceomarconi.it/Socrates2001-2002-classi/3F/italiano/carmina/in_taberna_quando_sumus.htm

Come sempre, critiche, annotazioni e pareri sotto forma anche di brevissime recensioni sono benaccetti e, diciamocelo, più che desiderati! Ho cercato di migliorare i dialoghi come suggeritomi, ma non sono sicura di averlo fatto con successo. Mi scuso per l'impaginazione, stavolta decisamente meno riuscita delle precedenti.

Come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore scopriate disseminato nel testo che, ahimè, stavolta è veramente lunghissimo.

 

A presto!

Quainquie

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Capitolo 4
*** Cap. III - Kings and queens have all knocked on his door ***


Carissime/i,

Siamo giunti al terzo capitolo e per questo vi ringrazio: è tutto merito vostro se mi sto applicando con costanza ad aggiornare in tempi ragionevoli e a scadenze regolari. Un grazie (che suonerà forse ripetitivo ma che è assolutamente imprescindibile) a tutte/i coloro che si sono ritagliati un po' di tempo per leggere la storia; il grazie decuplica per coloro che invece si sono prodigati a lasciarmi pareri, commenti e suggerimenti. Mi scuso per il lasso di tempo più lungo del solito che ho fatto intercorrere tra un aggiornamento e l'altro: l'università mi sta facendo impazzire. In compenso, vi sto per propinare la versione estesa del precedente capitolo – ossia un mattone.

Ripropongo il mio ritornello: vi consiglio caldamente la lettura della mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies. Prometto che da parte mia cercherò di includere man mano tutte le informazioni necessarie: tuttavia tengo molto al fatto che il lettore capisca le mie scelte di rappresentazione che, senza basi sul background di Percival, potrebbero parere quantomai balzane. Da ultimo: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC (e di una tradizione millenaria, su cui io fantastico un bel po' da anni).

Buona lettura!

Quainquie

 

 

 

Cap. III – Kings and queens have all knocked on his door

 

Florence + the Machine, My boy builds coffins

 

Merlin si divincolò, inutilmente: le braccia tornite e muscolose di Percival lo avevano inchiodato alla parete di pietra, creando una gabbia dalla quale era impossibile evadere secondo le leggi della natura – se non con la forza bruta, di cui il mago non disponeva di certo. Per un breve istante fu tentato di usare la magia per mandare il possente cavaliere a gambe per aria, ma qualcosa glielo impedì.

Fu questione di un istante. Percival stava torreggiando su di lui, il volto contratto in un'espressione di vorace intensità, le sopracciglia aggrottate da uno sforzo ingiustificato: dopo aver cercato di sfuggire alla sua presa, il giovane mago aveva disperatamente alzato il proprio sguardo per incontrare quello incandescente del cavaliere, in un muto tentativo di supplicarlo di lasciarlo andare. Rimase sconvolto alla vista di quegli occhi: le iridi grige e luminose di Percival esercitavano una sorprendente attrazione su di lui, fatale e inspiegabilmente intrigante, alla quale gli era impossibile sottrarsi. Sentì il desiderio insopprimibile di continuare a fissarle, per mandarne a memoria ogni pagliuzza argentata, come fosse un ricordo prezioso da riscoprire nei momenti di disperazione.

I lineamenti mascolini del cavaliere si affievolirono, piacevolmente, mentre i loro volti si avvicinavano. Anche quella presa, prima così impetuosa e implacabile, stava divenendo più gentile, quasi una sorta di abbraccio con cui il cavaliere lo attirava a sé, per vezzeggiarlo. Merlin chiuse gli occhi, soccombendo a quella sensazione di pura e semplice estasi, mentre le labbra di Percival, turgide e lievemente umettate, e il suo respiro tiepido gli lambivano il collo.

Emrys. Non mentire. Rendimi ciò che è stato sottratto.

Le palpebre di Merlin si socchiusero, e il giovane stregone si lasciò sfuggire un lamento, smarrito dalla forza delle sue percezioni, così selvagge, sensuali e brutali ad un tempo. Inaspettatamente fu scosso da un violento conato di vomito. Percival scattò all'indietro, mollando la presa sulle spalle del giovane mago, come se questi fosse divenuto incandescente.

Prima che le gambe lo tradissero, Merlin riuscì a gemere, con il sapore acido della bile che gli invadeva la bocca: «Cosa...?»

Il giovane mago cadde di peso in avanti, e le sue ginocchia ossute cozzarono ferocemente contro il pavimento sconnesso del sotterraneo. Sentì le ferite aprirglisi sulle rotule e il sangue colare lentamente attraverso il tessuto grezzo dei pantaloni. La voce incorporea e nel contempo splendidamente tonante, come la musica di un organo, invase di nuovo le sue orecchie, rombando come l'acqua che riesce a demolire gli argini che ne costringono il percorso.

Giurami che lo farai, Emrys. Sei la mia unica speranza.

«Io...» bofonchiò il moro, prostrato dalla potenza di quella voce che, come una miriade di spilli acuminati, gli perforava e infervorava le meningi, impedendogli anche soltanto di pensare senza provare un dolore fisico che metteva a seria prova anche il suo potere di mago.

Giuramelo, Signore dei Draghi. In cambio, io diverrò la tua unica speranza.

Quando non venne risposta dallo stregone, il dolore si fece ancor più lancinante e impietoso. Merlin si piegò ancora di più, aggrappandosi disperatamente ad uno spuntone della murata, ogni suo tentativo di rispondere a quell'attacco con la magia che s'annullava ancor prima di prender forma. Un soffio caldo, come una sensuale carezza, gli attraversò le labbra socchiuse e screpolate, e gli scese sul petto, facendogli rizzare i capelli alla base della nuca.

«Lo giuro!» urlò poi, stremato, quando quel bacio svanì in un rovente turbinio di spasimi, prendendosi la testa tra le mani, cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli premevano come tizzoni ardenti sulle ciglia. «Te lo giuro!»

D'un tratto, il senso di oppressione che lo aveva costretto ad accasciarsi al suolo scomparve, così come il dolore che lo aveva assillato. L'aria torbida e polverosa di quel recondito androne del castello gli parve pura senza eguali, più cristallina persino della brezza che risvegliava il villaggio di Ealdor nelle mattine d'estate. Tentò, con insuccesso, di inalare cospicue boccate d'aria, ma si ritrovò a tossire violentemente, la gola irritata dalla polvere.

Fu rimesso in piedi con un gesto deciso, eppure delicato: «Ti senti bene, Merlin?»

Percival lo osservava con curiosa apprensione, come se si aspettasse da un momento all'altro di vederlo compiere un gesto insensato, come quello di fracassarsi la testa contro il muro. Merlin riacquistò l'equilibrio con qualche difficoltà, strizzando gli occhi per mettere a fuoco la sagoma gigantesca del cavaliere.

«Ha ragione Arthur, avresti fatto meglio a stare con lui. Sei troppo stanco» continuò Percival, e il suo tono tradiva quella che pareva una sincera preoccupazione per la condizione del giovane mago, che ora stava sussultando in modo spasmodico.

«Cosa mi hai fatto?» sibilò Merlin, sconvolto.

«Niente» rispose Percival, la confusione più genuina dipinta sul volto. «Ti ho chiesto se sai dove si trova la Coppa. Poi sei caduto, e ti contorcevi...»

«Tu mi hai spinto contro la parete! E a terra! Tu mi hai fatto giurare...!» ribatté Merlin di scatto, con violenza, come se la sua mente rifiutasse anche la sola idea che il cavaliere negasse a bella posta quanto era appena accaduto tra loro in quelle segrete.

Percival si rabbuiò, vedendo che Merlin aveva proferito quelle accuse con la più pertinace convinzione: «Ti sbagli. Io non ti ho nemmeno sfiorato! E anche se avessi tentato di farlo» aggiunse, come ponderando la questione, «di sicuro la tua magia avrebbe potuto liberarsi di un ammasso di muscoli come me con molta facilità».

Merlin abbassò lo sguardo sulle proprie ginocchia, come a cercare le ferite che avrebbero potuto provare inconfutabilmente la validità delle sue accuse. Rimase pietrificato quando vide che il tessuto delle sue braghe era perfettamente integro; si tastò le rotule, e non trovò segni di lesioni, né macchie di sangue, né carne tumefatta da lividi. Una domanda prese a logorarlo: cos'era successo alla sua magia in quei brevi istanti di delirio? Perché non aveva potuto reagire? Perché non aveva voluto davvero reagire?

«Cosa diavolo ti succede?» lo sollecitò Percival con urgenza crescente, sempre più turbato.

Merlin scosse il capo e si decise a mentire in risposta: «Nulla» Si massaggiò le tempie e sorrise debolmente al cavaliere: «È solo... stanchezza, credo. Questa storia della Coppa mi ha messo un po' in soggezione» ammise poi, sentendosi improvvisamente molto stupido all'idea di aver anche solo pensato che quell'omone dall'espressione gentile e dal carattere affabile potesse avergli gettato un sortilegio, costringendolo a promettergli di restituirgli la Coppa della Vita. Il cuore continuava a martellargli nel petto come se volesse infrangere la cassa toracica e rimbombare indisturbato nel vuoto dei sotterranei, ma il suo sesto senso – quello magico, appunto, ora in apparenza del tutto ristabilito – rendeva Merlin completamente certo del fatto che ciò che aveva appena avuto luogo non aveva nulla a che vedere con Percival, ma con una creatura magica molto potente che, forse, si era impossessata del cavaliere. Una creatura che lo aveva legato ad un patto magico, realizzò il moro con sempre più sgomento. Si tastò il petto, ma nulla era rimasto di quella carezza infuocata se non un arrossamento appena accennato.

Percival gli mise un braccio intorno alle spalle per aiutarlo a reggersi in piedi e domandò nuovamente, sollecito: «Sei sicuro di non voler riposare? Posso chiedere a qualcun altro di aiutarmi a cercare la Coppa» Abbozzò un sorrisetto: «In fondo, è appena l'alba».

Merlin ricambiò il sorriso e scosse il capo, respingendo l'offerta di riposo: «Voglio aiutarti. Infatti io... io so dove si trova la Coppa».

Dalla sorpresa Percival lo lasciò quasi cadere. Scombussolato, il cavaliere chiese con una punta d'ansia: «Dici sul serio? Perché non l'hai detto al Re?»

Alla menzione di Arthur, il sorriso di Merlin si affievolì: «Non sarebbe stato saggio» dichiarò. Fece un sospiro che a Percival parve un lamento. «Dobbiamo andare agli alloggi di Gaius».

«No» rispose Percival in tono categorico. Il giovane mago lo fissò con malcelato stupore finché il cavaliere spiegò in tono ovvio, come se stesse insegnando agli inesperti bambini della città bassa a brandire uno spadone: «Io non sarò il più saggio di tutti, ma tu nemmeno. Non possiamo trovare subito la Coppa, senza nemmeno allertare la servitù che la stiamo cercando. Desterebbe sospetti nel Re. Dobbiamo fingere che l'abbiamo trovata durante le ricerche» Fece una pausa e guardò lo stregone con serietà: «E nel frattempo, tu hai tutto il tempo per spiegarmi come diavolo fai ad avere quella cosa, quella Coppa».

Impressionato dalla lucidità del cavaliere – che, doveva ammetterlo, non gli avrebbe mai dato credito di possedere in così copiosa quantità – Merlin annuì.

«Forza» lo incitò allora Percival, senza smettere di sorreggerlo nella discesa dalle scale, «andiamo» Annusò l'aria in direzione degli alloggi della servitù e poi commentò sorridente: «Senti questo profumo? Minestra di legumi e pane di spelta fragrante. Parrebbe proprio che siamo arrivati giusto in tempo per metterci a tavola. Scommetto che Gwaine vorrebbe essere al posto nostro».
 

*  *  *

Arthur si avvicinò al baldacchino dove Guinevere giaceva, immobile e meravigliosa nella sua vestaglia di seta.

I ricci della regina, che la sua dama di compagnia lavava e spazzolava ogni giorno con infinita e desolata devozione, formavano un diadema di raggi corvini sul cuscino damascato, incorniciando il viso ambrato che, da settimane, non restituiva altro che quell'espressione serena che il giovane sovrano aveva imparato ad associare soltanto alla morte, come se tutti i ricordi dei sorrisi di sua moglie, viva e splendente, si fossero ridotti soltanto a questo. La morte. Arthur si sedette sul bordo del letto e le posò un lieve bacio sulla fronte, pervaso scioccamente dal timore di poterla svegliare o disturbare.

Era trascorso un intero ciclo lunare da quando Leon lo aveva raggiunto nelle sue stanze per narrargli la vicenda della Coppa. La vita di palazzo non era nel frattempo mutata: i messi che aveva inviato ai quattro angoli del regno sarebbero probabilmente giunti a destinazione di lì a qualche giorno; Leon e alcune pattuglie ausiliarie stavano setacciando i confini, alla ricerca di un accampamento Druido, purtroppo senza esiti degni di nota fino a quel momento. Quanto alla Coppa della Vita, la speranza di ritrovarla all'interno delle mura della cittadella scemava sempre più. Percival si era presentato a lui quella mattina con l'espressione di compunto sconforto che aveva ostentato ormai da settimane, annunciandogli che le ricerche nell'ala ovest del castello, la più remota e l'ultima ad essere stata rimessa in sesto dopo la distruzione di Camelot da parte di Morgana e Morgause, non avevano portato ai frutti sperati.

Il giovane Re rimase a fissare la moglie per quelle che gli parvero ore, assalito dal rimorso e dal terrore di non poter porre rimedio a quell'assurda situazione. Guinevere non si sarebbe svegliata, e lui non avrebbe potuto nemmeno disturbarla nel sonno, stavolta. Non avrebbe potuto insinuarsi a forza in quel letto e possederla.

Con orrore si rese conto che, in quell'istante, la regina era ormai soltanto un oggetto, splendido forse, ma inanimato, il medesimo in cui lui la trasformava tutte quelle mattine durante le quali, preso da rabbia e frustrazione, sentiva il bisogno di farla sua. Anzi, di farlo suo. Di fare suo quell'oggetto che, con dolcezza e remissività, si schiudeva per lui e per le sue ossessioni.

Gaius, da molti giorni a quella parte, gli aveva preparato ogni sera un infuso di valeriana e passiflora per calmare il rimorso che gli impediva di prendere sonno e, addirittura, di riposare.

Sire, non dovete incolparvi per ciò che è accaduto.

Il vecchio medico non poteva essere più nel torto. Anzi, tutti coloro che quotidianamente cercavano di alleviare il suo fardello – nella fattispecie il povero Merlin, sul quale non poteva fare a meno di sfogare la sua frustrazione – non facevano altro, nella loro ignoranza, che aumentarne la mole. Era responsabile per tutto ciò che era accaduto a sua moglie. Sicuramente non poteva accollarsi la colpa di averla maledetta: Morgana poteva prendersene tutto il merito. Ma poteva e doveva tormentarsi nel sapere che sicuramente Guinevere, se mai si fosse ripresa, non avrebbe mai più potuto rivolgergli quello sguardo d'amorosa contemplazione che gli aveva riservato per anni, convinta com'era che lui fosse il più prode tra i cavalieri e il più nobile tra gli uomini.

Il giorno in cui si erano uniti in matrimonio – più di un anno prima, rifletté Arthur tormentando l'anello che portava alla mano sinistra – il giovane sovrano aveva davvero creduto che tutto si sarebbe risolto semplicemente con la celebrazione in pompa magna di quello sposalizio: aveva atteso anni per poter sposare Guinevere, per poterla avere, per poter dimostrare che non era lui ad essere nel torto, ma suo padre. Suo padre, e con lui il suo inflessibile amore per le tradizioni, che volevano i Re di Camelot convolati a nozze con fanciulle di nobili natali che avrebbero dovuto perpetuare la dinastia dei Pendragon in tutto il suo prestigio, come aveva fatto, sacrificandosi, Igraine de Bois. Ma suo padre ora, dal regno dei morti, stava certamente guardando a lui e alla sua testardaggine con compassione e, forse, scherno.

Quanto può essere grande la sprovvedutezza di un giovane, pensò Arthur affranto, nella penombra opprimente di quelle stanze riccamente decorate.

Di una cosa era stato certo sin dal giorno delle nozze: voleva dei figli da Guinevere, e non soltanto perché credeva che fondare una famiglia fosse uno dei valori fondamentali di un'unione o perché il sentimento che lo legava alla moglie era profondo. Sarebbe stato ipocrita da parte sua giustificare il proprio desiderio di avere un erede soltanto con l'amore che provava per la moglie o per le tradizioni. La dinastia dei Pendragon vantava numerose generazioni di cavalieri e condottieri risalendo nei secoli, e si era sempre distinta per l'eccellenza dei suoi membri, anche quando questi ancora non detenevano il titolo di Re di Camelot: eccellenza di cui Arthur andava fiero oltre ogni dire.

Dopo che il marito aveva visitato il suo letto, Guinevere soleva posare il capo sulla sua spalla e ascoltarlo raccontare per ore, prima di cedere al sonno, le avventure degli avi Pendragon, la cui menzione era ancora in grado di rendere sognanti gli occhi di Arthur, nell'intimo desiderio un giorno di essere annoverato tra questi. Ma a volte, con gli occhi socchiusi, sull'orlo del mondo del sogno, Guinevere si lasciava sfuggire un sospiro, a metà tra il faceto e l'incerto: «E se non fosse un maschio, un prode cavaliere?»

«Guinevere, oh, Guinevere!» scoppiò Arthur al ricordo di quelle intime conversazioni, il corpo scosso dai singhiozzi, mentre appoggiava la testa sulle braccia incrociate, il tessuto fresco dei lenzuoli che gli solleticava il viso senza procurargli alcun sollievo.

Ad Arthur non sarebbe sinceramente importato di quale sesso il bambino fosse stato. La domanda che lo assillava corrodendogli l'anima era un'altra: perché quel figlio o quella figlia non aveva mai fatto la sua comparsa?

Era trascorso un anno dalle loro nozze, e la regina non aveva manifestato alcun segno di gravidanza, nonostante Arthur visitasse il suo letto ogniqualvolta ne avesse l'occasione. Anche Gaius stesso, dopo ripetute rassicurazioni sul fatto che il concepimento era un evento che necessitava di tempo, pazienza e tenacia, aveva cominciato a manifestare dubbi sul fatto che Guinevere fosse in grado di generare.

Naturalmente questo era rimasto un tema avvolto dalla più spessa coltre di segretezza immaginabile: nessuno avrebbe dovuto apprendere o anche solo sospettare della sterilità della regina. E non soltanto i nemici di Camelot – sopra tutti, l'assenza di un erede non avrebbe fatto altro che ringalluzzire Morgana e i suoi propositi di vendetta – quanto i suoi presunti alleati, coloro che abitavano entro i suoi confini. La stabilità interna del regno dipendeva in larga parte dalla stabilità della famiglia regnante e dalla sua continuità dinastica: se Arthur fosse morto senza eredi legittimi, riconosciuti dai suoi consiglieri e dalla nobiltà del regno, l'equilibrio e la pace di Camelot sarebbero svanite, travolte da lotte tra le famiglie ottimatizie e da tentativi di acquisire il titolo regio, che certamente non sarebbero avvenuti senza spargimenti di sangue, soprattutto di quello del popolino. Uther Pendragon aveva reso la monarchia di Camelot una monarchia ereditaria, ma questa rimaneva tuttavia una tendenza minoritaria, in netta opposizione con quella dei regni confinanti, determinata per elezione. Gli aristocratici e i nemici del regno non si sarebbero fatti scrupoli a ritornare al vecchio sistema, se questo avesse potuto offrire loro il titolo di Re e i fertili territori di Camelot, ricchi di messi e miniere di ferro, nonché la possibilità di portare Guinevere nel loro letto per umiliare anche l'ultima sfera di potere, quella dell'intimità coniugale, detenuta dai Pendragon.

Nella sua giovinezza Arthur aveva biasimato il padre, provando la più profonda repulsione per la sua decisione di sacrificare Igraine in nome di un erede e della stabilità del regno.

Io amavo tua madre.

La voce di Uther risuonò supplichevole nella sua mente. Nel profondo dell'anima, non senza vergogna, Arthur aveva continuato a credere che il padre gli avesse mentito: certo, amava Igraine, ma aveva amato di più la concretizzazione delle sue speranze dinastiche e delle sue rivendicazioni territoriali. Ma ora il giovane sovrano era certo che il padre gli avesse mentito. E la certezza nasceva dalla sconvolgente coincidenza, brutalmente servita dal destino, che lo voleva nella medesima posizione di suo padre: giovane, sempre in balìa di rischi e avventure, sposato con una regina d'indole buona e generalmente amata, ma privo di eredi di sangue che potessero venire legittimati – eccettuata Morgana, che tuttavia non aveva mai indicato come legittima e che, per ovvi motivi, non avrebbe mai indicato come tale.

Arthur si convinse finalmente ad alzare il volto dalle braccia, tenendo gli occhi serrati per evitare di vedere sua moglie. Oh, Guinevere, pensò poi, che prezzo dovremo pagare?

Quando Gaius li aveva confrontati riguardo lo stato di salute della regina, Guinevere aveva saputo dimostrare tutta la regalità e la dignità che si addiceva al suo neo acquisito rango. Era impallidita, e le sue mani avevano preso a tremare in modo incontrollato, ma non aveva versato una lacrima: si era fatta stoicamente animo e per giorni aveva rivolto a Gaius numerose, assillanti domande, alla ricerca di un qualsiasi consiglio o rimedio che potesse aiutare la giovane coppia reale ad esaudire il suo più intimo desiderio. Arthur sapeva che Guinevere sarebbe stata disposta a compiere qualunque gesto pur di renderlo felice e temeva la possibilità, ormai non più remota, che un giorno lo supplicasse di ricorrere alla magia. Nonostante tutti gli sforzi di Gaius e la determinazione della giovane coppia, qualcosa tra loro si ruppe quando quella possibilità divenne una realtà: Arthur si rifiutò categoricamente di considerare qualsiasi soluzione potesse includere la magia, e Guinevere, ferita, parve perdere tutte le sue speranze e la sua abituale energia.

Arthur non si era più dato pace da allora. Tutto il suo dolore e la sua delusione, pur non essendo direttamente rivolti alla moglie, si rovesciavano su di lei come un fiume in piena, travolgendola e sfinendola. Il loro fare l'amore era divenuto un atto meccanico, privo di qualsiasi tenerezza o rispetto reciproci: la sensazione di pienezza e soddisfacimento era ormai relegata a quelle che sembravano lontanissime memorie spettrali dei primi mesi di vita coniugale, accantonata da quell'ossessione che pervadeva le loro menti e i loro corpi, rendendoli pari a bestie. Non importava quanto potessero ferirsi, fisicamente e spiritualmente, purché queste ferite portassero alla realizzazione di quell'ormai sicuramente inesaudibile desiderio.

E quel mite giorno della scampagnata nei boschi non aveva fatto eccezione, si disse Arthur con amarezza, premendosi le dita sulla fronte, come a voler lisciare le rughe di preoccupazione e afflizione che da mesi la solcavano profondamente. La mattina del loro anniversario si era recato nelle stanze della regina, forse convinto che quel giorno, quella ricorrenza, avrebbe potuto essere di buon auspicio per il concepimento di un erede. Aveva svegliato Guinevere quasi di malagrazia, l'aveva posseduta senza indulgere nella cura del suo piacere: nessun bacio, nessuna carezza, nessuna schiena arcuata dall'eccitazione dovuta all'attesa, febbrile e nel contempo procrastinata, del culmine. Soltanto un accoppiamento rapido, ansimante, ostacolato dallo stesso corpo di Guinevere, che non era pronto per ricevere quell'atto invasivo e violento di cui Arthur era il latore. Quando, dopo svariate manciate di minuti di silenzio sepolcrale, si sollevò pesantemente dal corpo minuto della moglie, il giovane sovrano fu sopraffatto dalla vista delle lacrime sul viso di Guinevere.

Oh, Guinevere, è questo il prezzo da pagare?

Per tutto il giorno aveva cercato di consolarla, assumendo il suo atteggiamento più brillante, ricoprendola di sorprese, carezzandola con dolcezza, prendendole la mano inaspettatamente, ricoprendola di stupidi regali, tra cui quella maledetta collana di rubini, perché voleva che lo sentisse vicino, che lo perdonasse per aver fatto scempio di lei e del sentimento che li legava. Ma non si recuperava una serenità così faticosamente costruita in un solo giorno dopo averla infranta, e Arthur lo sapeva bene – lui stesso aveva impiegato lungo tempo per perdonare a Guinevere di essere caduta tra le braccia del compianto Lancelot.

Con vergogna, Arthur doveva ammettere che vedere Guinevere in quello stato di mortale serenità era un sollievo. Non avrebbe potuto farle del male finché quel torpore le impediva di risvegliarsi. Ma quando e se si fosse risvegliata, quale sorte sarebbe toccata alla loro unione?

Il sovrano si alzò con qualche difficoltà e uscì dalle stanze della moglie. La dama di compagnia di Guinevere era seduta nell'anticamera antistante a queste, e stava ricamando dei fazzoletti. Quando lo vide uscire gli scoccò uno sguardo carico di compassione che, nella consapevolezza delle sue colpe, Arthur non era in grado di sopportare. Impedì alla donna di alzarsi dalla panca su cui era comodamente seduta per inchinarsi a lui; la donna, confusa e mortificata, ubbidì.

Fu allora che Merlin – le gote arrossate dalla frenesia e il fazzoletto cremisi che, come al solito, gli cingeva collo tutto sbilenco, ovvero i dettagli che in un qualche modo avevano sempre il potere di dare sollievo al giovane Pendragon – fece irruzione nell'anticamera, con il fiato corto e gli occhi straordinariamente scintillanti. Prima che Arthur potesse dire qualunque cosa, Merlin gli gridò, la voce tremante per l'emozione a stento contenuta: «L'abbiamo trovata, Sire! Abbiamo trovato la Coppa!»
 

*  *  *
 

Raffiche di vento procellose e taglienti spazzavano le distese avvizzite di rovo e erica che separavano il regno di Camelot da quello di Mercia. Lord Bayard, nel più cortese rispetto del trattato di pace con Camelot, aveva concesso alla truppa capitanata da Sir Leon – pretendendo in cambio, sempre alla luce del trattato, che essa non compiesse saccheggi – di varcare i confini del suo regno per scovare un accampamento di Druidi che, secondo la gente dei villaggi vicini, si era installato nella regione qualche luna prima.

Leon aveva spinto i cavalli al galoppo, a rotta di collo persino, dimentico di qualsiasi buonsenso di cavallerizzo provetto. L'immagine dell'esanime Regina, della dolce Gwen, non gli abbandonava la mente. Ricordava quanto Gwen fosse stata premurosa, persino amorevole, nei suoi confronti, e quando l'aveva aiutato ad evadere le terribili prigioni di Camelot – sebbene costringendolo ad indossare una di quelle spaventevoli gabbie di tessuti e ninnoli in cui le donne inspiegabilmente amavano trincerarsi. Ricordava bene anche la bambina dai ricci scuri e spessi con cui era cresciuto, che ora era diventata una giovane donna coraggiosa: il suo affetto per lei gli rendeva quasi insopportabile il pensiero di essere costretto a vederla in quello stato per il resto dei loro giorni.

Li troverò, si disse il cavaliere con ostinazione, scostandosi una ciocca di capelli madida di sudore dalla fronte, la fibbia del mantello che gli segava il collo. Fosse l'ultima cosa che faccio.

«La luce sta calando, Leon» gli rammentò Sir Brennis, il suo secondo, affiancando la propria cavalcatura alla sua, «presto saremo costretti ad accamparci» Scrutò il cielo plumbeo e le nuvole che vi turbinavano con inusitata ferocia: «Ritorniamo all'ultimo villaggio» suggerì poi, speranzoso, mentre gli altri due membri della pattuglia, Sir Cador e Sir Geraint, annuivano con fare meccanico.

«La luce non è ancora del tutto svanita, Bren» replicò Leon con un fare paziente che tuttavia non ammetteva repliche. «È nostro dovere continuare le ricerche ogni giorno, ben oltre il tramonto. Cosa direbbe il Re di questo tuo suggerimento?» aggiunse poi, dicendosi che un poco di sano terrore poteva essere infuso nei suoi tre pavidi gregari senza causare spiacevoli controindicazioni.

Il volto di Brennis divenne terreo alla menzione del Re e al sottinteso della sua rabbia alla notizia che Sir Brennis, Sir Cador e Sir Geraint, nati in alcune delle più illustri famiglie aristocratiche di Camelot, avevano osato anche soltanto suggerire di interrompere delle ricerche che avrebbero potuto salvare la Regina.

«Io... credo sia meglio continuare» farfugliò Sir Cador, quando Brennis rimase paralizzato nel suo stolido mutismo.

«Ne convengo, Sir Cador» replicò Leon, alquanto freddamente, badando di mettere un'enfasi particolare e ben percepibile sul titolo Sir. Da ragazzo aveva sinceramente creduto che il titolo di cavaliere fosse una naturale conseguenza della nobiltà di nascita: ora, di fronte a quei tre codardi somari, che a corte andavano in giro imbellettati e scintillanti nelle loro uniformi, vantandosi a sproposito del proprio titolo, sapeva che quella concezione era antiquata e ingiusta.

Un Gwaine ubriaco vale centro volte questi babbei, pensò il cavaliere riccioluto, e gli rincrebbe profondamente che né Gwaine e il suo chiassoso brio, né Elyan e il suo buon carattere, né Percival e la sua rassicurante pacatezza fossero lì con lui in quel ventoso crepuscolo.

Il quartetto procedette in silenzio, addentrandosi per l'ennesima volta in quei giorni in uno dei boschi che cingevano le brughiere. Le fronde degli alberi stormivano violentemente, coprendo il crepitio degli zoccoli sulle foglie morte e i nitriti inquieti dei destrieri stremati. La luce stava ora davvero svanendo a velocità allarmante; Leon intercettò con la coda dell'occhio un cenno di scherno compiuto da Cador nella sua direzione.

«Non ci fermiamo!» annunciò con cocciutaggine, ammettendo tuttavia nel proprio cuore quanto fosse insensato continuare le ricerche in quelle condizioni. Però... c'era qualcosa in quella selva che lo spronava a continuare, l'incrollabile certezza che proprio lì, e in nessun altro luogo, avrebbe potuto trovare i Druidi.

«Invece ci fermiamo» ribatté Sir Geraint con stizza, smontando da cavallo con foga per rafforzare il suo rifiuto. Cador e Brennis seguirono il suo esempio, discendendo dalle loro cavalcature con dei balzi aggraziati. Ignorandolo, i tre presero a disfare i rotoli di coperte issati alle selle, e a togliere pentole e viveri dalle sacche che si erano portati appresso.

Leon si sentì montare una collera bruciante nel petto ma, come sua abitudine, la represse. Invece propose, conciliante: «Allora sistemate il campo. Io farò un breve giro di ricognizione».

Spronò il suo purosangue che, con un nitrito stanco, eseguì il comando e si addentrò ulteriormente nella boscaglia, con il lugubre accompagnamento dello scricchio di rami infranti. Leon era soprappensiero: l'oscurità crescente e la vegetazione fitta non lo turbavano – dopo tutte le avventure con Arthur si trattava ormai di ordinaria amministrazione. La certezza di sapere dove stesse andando era invece molto più inquietante. Era come se stesse procedendo guidato da qualcosa di indipendente dalla sua volontà. Dalla magia, si rese conto con orrore, quando improvvisamente, superata un'incolta accozzaglia di roveti, si trovò dinanzi ad un chiarore etereo e argentato.

Il cavallo fece un'impennata, spaventato da quella luminosità inattesa. Leon perse l'equilibrio e cadde in malo modo, finendo a faccia in giù sui ramoscelli di rovo. Incurante dei tagli che gli si erano aperti sulle mani, si rialzò di scatto, lacerando il mantello scarlatto in più punti, e impugnò l'elsa della spada. La sfoderò, puntandola dritta davanti a sé, determinato a sfidare a fronte alta chiunque gli si fosse presentato alla vista.

«Abbassa le armi, Leon, figlio di Griflet» gli intimò una voce soave e profonda, che Leon riconobbe subito.

Lasciò cadere la spada con un clangore che infranse il silenzio della foresta, spezzato altrimenti soltanto dal suo respiro ansimante e irregolare. Il cavaliere rimase in piedi a fronteggiare la maestosa figura circondata da una tenue aura perlacea, mentre altre – donne, uomini, bambini, anziani, a giudicare dalla varietà delle loro corporature – facevano capolino dalla boscaglia, ugualmente pervase da quel pacifico lucore.

«Vengo in pace» disse Leon, inginocchiandosi ai membri della comunità Druida.

Una mano grande e ferma gli si posò sulla spalla e lo obbligò a risollevarsi. Il cavaliere incontrò lo sguardo trasparente e penetrante di Iseldir, una – se non la più eminente e saggia – delle Guide spirituali della comunità Druida, a cui Leon era debitore della vita. Il Druido era esattamente come lo ricordava; gli anni non avevano modificato il suo aspetto. Alto e dal fisico prestante, con folti capelli leonini e cinerei, l'espressione grave, cesellata da rughe di saggezza, che trasmetteva tuttavia serenità e equilibrio. Le palpebre cadevano sugli occhi azzurri e intelligenti, animati come sempre da una scintilla di compassione, due stelle d'inverno al di sopra di un naso piuttosto grosso e pronunciato. Era abbigliato alla maniera druida, con drappi di tessuto verde intenso che lo avvolgevano con eleganza.

Dato che il Druido non replicò a quella dichiarazione, Leon alzò il volto e proseguì: «Vi devo la vita, non dubitate della mia buonafede. Vengo in pace, sotto gli stendardi di Re Arthur Pendragon, figlio di Uther...»

La voce pacata di Iseldir lo interruppe con gentilezza: «Sappiamo già tutto, mio giovane cavaliere. Non c'è nulla della sventura che si è abbattuta sulla stirpe dei Pendragon che ci sia rimasto celato».

Rincuorato da quelle parole, Leon continuò, con foga: «Il Re ha disperatamente bisogno del vostro aiuto, mio signore, e della vostra saggezza in tutte le cose di questo mondo» Fece una breve pausa, tentando di calmare il battito furioso del proprio cuore: «Il mio Sire ha mantenuto fede al suo giuramento di mostrare nient'altro che gentilezza e misericordia al vostro popolo. È consapevole dell'avversione, dell'astio che provate nei confronti della sua stirpe...»

«Non c'è astio o avversione nei nostri cuori, giovane Leon» lo corresse Iseldir, sempre con la medesima cortesia, sollevando una mano per interrompere il flusso di parole del cavaliere, «soltanto tanta amarezza e tanta delusione per le azioni riprovevoli perpetrate da Re Uther. Ma nessuno, bada, nessuno più di noi nutre speranza nelle gesta del tuo Sire, Arthur della Stirpe della Testa del Drago».

Leon annuì, colpito dalla sincerità e dall'autorità che la Guida Druida infondeva con estrema naturalezza in ogni sua parola, in ogni suo gesto. Comprese che quella luce, perlacea e confortante, non era altro che il riflesso della purezza delle anime dei Druidi, anime buone, caritatevoli e sagge, che lo avevano guidato sino a loro, perché potesse parlare con loro e richiedere il loro aiuto.

«Il Re invoca il vostro aiuto, mio signore» La voce di Leon, ora ferma, risuonava chiara nel bosco. «La vita della Regina può essere salvata solo grazie alla vostra saggezza. Vi prego, mio signore: ella è un'anima dolce e buona, e tutto merita fuorché questa triste sorte» aggiunse il cavaliere riccioluto di sua iniziativa, fissando intensamente Iseldir negli occhi, sperando che questi fosse in grado di leggere nel suo cuore traboccante d'emozioni. «Il Re non potrà mai ricompensarvi abbastanza, per sua stessa ammissione, ma farà tutto ciò che potrà per proteggervi e riparare al torto che avete ingiustamente subito per anni. E per quanto possa valere... avete la mia parola, signore, che non mancheremo di gratitudine. Io devo la vita alla vostra generosità e alla vostra saggezza nelle arti magiche. Per quanto potrò, sarò il vostro alleato più fervente e fedele. Vi scongiuro».

Per tutta risposta, si alzò un mormorio dal gruppo di Druidi che circondava Iseldir. Con intimo ed estremo sollievo, Leon si accorse che non era un mormorio rabbioso, indisponente, da api infuriate a cui erano stati sottratti i fiori più dolci; era un dolce sussurro, l'espressione della solidarietà del popolo Druido alla sua causa – sua, e di Re Arthur. Senza rendersene conto, il cavaliere sorrise, anzi, quasi rise di gioia.

«Giovane Leon, il tuo cuore è pure e buono quanto quello della tua Regina e del tuo Re» rispose Iseldir, dopo aver consultato silenziosamente le figure che lo attorniavano. «Ti daremo il nostro aiuto; ma sia tu che il tuo Re sapete che il prezzo di questo aiuto non dipende da noi. Noi siamo solo il privilegiato tramite di una realtà infinitamente più potente. È pronto il tuo Re a questo?» aggiunse la Guida, lo sguardo ora talmente intenso da penetrare dritto nell'anima di Leon.

Senza esitazioni, Leon rispose: «Lo è, mio signore. Tutta Camelot lo è».

Iseldir gli diede lentamente le spalle, con un impercettibile fruscio della veste, e si rivolse ai membri della sua Famiglia. La sua voce risuonò risoluta ed inequivocabile: «Fratelli e sorelle miei, siate pronti: un lungo viaggio ci attende. Domani, all'alba, intraprenderemo il nostro Cammino verso Camelot».

Sopraffatto dalla propria eccitazione, Sir Leon non si accorse dell'intensità di quella che serpeggiava fra i Druidi. Se lo avesse fatto, si sarebbe reso conto che quel sentimento di esaltazione, vibrante eppure sereno, avrebbe fatto impallidire qualunque altra emozione: non c'era nulla che i Druidi potessero accogliere con più entusiasmo e gioia che l'inizio del Cammino verso Albion.

 

 

Dopo tanto rimuginarci sopra, ecco un capitolo per cui mi aspetto delle critiche, e non soltanto perché è evidentemente un capitolo 'noioso', 'di transizione'.

Ho riflettuto a lungo sul bivio narrativo che mi si era presentato davanti: da una parte, fare della ricerca del Calice il perno della narrazione, con annesso l'onnipresente Gwen in stato catatonico; dall'altra, salvare Gwen da subito e rendere la restituzione della Coppa il fulcro della vicenda. Quest'ultima scelta potrebbe non piacere, e ne sono consapevole, perché implica un rallentamento dell'azione: ma per me lo sviluppo del rapporto tra Merlin e Arthur è un passo cruciale. La loro relazione non avrebbe mai potuto essere messa alla prova in modo equo se Gwen, poveraccia, avesse avuto l'infausto privilegio di attirare le attenzioni del marito per via della sua condizione in bilico tra la vita e la morte.

Il fatto che Guinevere possa essere sterile non è naturalmente una mia invenzione: nel ciclo bretone la sterilità era naturalmente collegata con una regina adultera per evitare di dover trattare, nella letteratura di svago, di argomenti spinosi come l'illegittimità: Ginevra e Isotta sono tra gli esempi più illustri di regine sterili a priori (ossia prima addirittura di compiere l'atto adulterino). So che qualcuno potrebbe obiettare che nella serie Guinevere non è adultera per scelta. Ben detto: nella serie, non nella mia storia. State sintonizzate/i, mi raccomando!

Mi scuso inoltre per essermi dilungata sulle questioni dinastiche e di accesso al trono. Chi studia storia medievale sa che queste sono all'ordine del giorno in ogni famiglia aristocratica dell'epoca. Da brava e irrecuperabile medieval freak, non ho potuto esimermi dal menzionarle profusamente. Spero che alcune/i di voi saranno lieti di vedere che, se Leon in precedenza è stato dipinto come un tonto, ora è stato riscattato – mi auguro – a dovere.

Come sempre, critiche, annotazioni e pareri sotto forma anche di brevissime recensioni sono benaccetti e, diciamocelo, desideratissimi! Io sono una mezza calzetta nella descrizione dei sentimenti, per cui ogni commento a riguardo sarà trattato come parte integrante del tesoro della regina di Saba. Anzi, qualunque vostra perla di recensori sarà per me un tesoro.

Come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo.

A presto!

Quainquie

 

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Capitolo 5
*** Cap. IV - I’ve fallen out of favour, and I’ve fallen from grace ***


Carissime/i,

Eccoci al quarto capitolo-mattone, forse quello che da tempo ormai immemore aspettava di comparire. Ringrazio tutte/i coloro che hanno letto la storia (e che spero l’abbiano apprezzata); ma stavolta mi sento in dovere di citare per nome (o meglio, per nickhame) tutti coloro che mi hanno lasciato, sotto forma di recensioni che spesso mi hanno fatto emozionare, pareri, commenti e suggerimenti. In ordine strettamente cronologico: Elfin Emrys, Chibisaru81, Carin, Crownless, Dater, Samira77 e Lady Vivy. A voi un grazie infinito, davvero!

Vi consiglio vivamente, come sempre, la lettura della mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies, nel caso non l’abbiate già letta. Il motivo non sussiste nella mia megalomania (ahimè già accentuata di suo) ma nel fatto che la one-shot contiene elementi che saranno sicuramente ripresi in questa storia (e da brava smemorata, proprio non so se riuscirò a ricordarmi di inserirli tutti nella narrazione).Come sempre le dovute precisazioni: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC.

Buona lettura!

Quainquie

 

 

 

Cap. IV – I’ve fallen out of favour, and I’ve fallen from grace

 

Florence + the Machine, Falling

 

Per Gaius, Merlin e Percival il ciclo lunare che era intercorso tra la riunione nella Sala del Consiglio, durante la quale Arthur aveva dato l’ordine di intraprendere la ricerca della Coppa della Vita in ogni anfratto del castello, e il ritrovamento – se così poteva essere definito – di questa, era forse stato il più lungo delle loro vite – il che, nel caso di Gaius, era tutto dire.

L’anziano medico di corte non aveva risparmiato né a Merlin né al prestante cavaliere uno dei suoi perentori sguardi sghembi, le folte sopracciglia aggrottate dal disappunto, quando i due si erano presentati nei suoi alloggi dichiarando di sapere per certo che la Coppa si trovasse lì. Non tanto perché gli risultasse inedito che Merlin, a causa della sua indole generosa, potesse compiere gesti di spropositata insensatezza, quale era quello di celare un oggetto magico molto potente tra le boccette e i calici con cui soleva somministrare decotti e infusi ai pazienti, quanto perché quel giovane mascalzone si era arrischiato a compiere un tale gesto senza avvisarlo.

Era stato allora con un sospiro sconsolato, a metà tra il sollievo e la contrarietà, che aveva osservato il suo giovane apprendista dirigersi determinato verso una delle credenze incastrate in un angolo remoto e poco illuminato dei suoi alloggi, aprire le ante con meticolosità e cercare a tentoni, tra una miriade di boccette translucide, piatti, calici e bricchi dal beccuccio decapitato, la Coppa. Quando Merlin era riemerso vittorioso, la Coppa avvolta in un panno stretta nel pugno, Gaius aveva smesso di crucciarsi per il gesto sottaciutogli e aveva preferito invece concentrarsi su come far sì che la scoperta del Calice non desse adito a sospetti, specialmente a quelli del sovrano.

Gaius aveva considerato piuttosto assennato il consiglio di Percival di avviare le ricerche ugualmente, allertando la servitù. Dopo qualche breve calcolo, i tre avevano concordato che un ciclo lunare sarebbe bastato per dare a quel ritrovamento una parvenza di autenticità e casualità: anche se avessero portato immediatamente il Calice ad Arthur, esso non avrebbe fatto altro che accrescere l’ansia e il disappunto del sovrano, dato che per attuare l’incanto guaritore era necessario l’intervento dei Druidi, di cui ancora non si avevano avute notizie di sorta.

Dinanzi allo sguardo stupefatto di Gaius e Percival, Merlin si era poi messo a raccontare, con dovizia di particolari, del compito che Iseldir, la Guida Druida, gli aveva telepaticamente affidato quel giorno di due anni prima quando lui, Arthur e Gwaine avevano recuperato la Coppa della Vita: proteggere l’artefatto magico, come lui e la sua Famiglia avevano fatto sino a quel momento. Dopo un primo fallimento, avvenuto quando Morgause se ne era impossessata per rendere immortale l’esercito di Cenred, Merlin aveva deciso di conservare la Coppa presso di sé, e di nasconderla negli alloggi del medico di corte, dove difficilmente a qualcuno – nella fattispecie Morgana – sarebbe venuto in mente di cercarla. E per anni infatti la Coppa era rimasta, silente e scintillante, rintanata tra le carabattole impolverate di Gaius.

Al termine del racconto Percival aveva emesso un basso fischio, a metà di ammirazione, a metà di incredulità: «La Coppa della Vita in una credenza. Che…»

«… Gesto imprudente!» aveva completato Gaius senza che gli fosse stato chiesto, mentre il suo sguardo carico di rimprovero rimaneva fisso su Merlin, che aveva accennato uno dei suoi luminosi sorrisi nell’udire il tono entusiasmato del cavaliere.

Merlin e Percival si erano guardati di sottecchi, senza riuscire a trattenere il sorriso di fronte allo sdegno ribollente – tuttavia udibilmente venato d’orgoglio – dell’anziano medico di corte.

Meno divertente era stato celare ad Arthur l’euforia per il ritrovamento della Coppa. Ogni mattina Percival si era recato dal sovrano, come ordinatogli, per aggiornarlo sullo stato delle ricerche e ogni mattina, per la durata dell’intero ciclo lunare, aveva dovuto mentirgli. Nonostante la gravità della situazione, lui, Gaius e Merlin avevano trascorso dei piacevoli momenti al termine di quelle giornate cariche d’ansia e d’attesa in compagnia soltanto di loro stessi e di una candela mozza, a ridere e scherzare sull’insormontabile goffaggine in cui Percival incappava quando doveva cercare di controllare la propria mimica facciale. Merlin aveva trascorso ore a cercare di fargli assumere un’espressione di compunto sconforto, per poi decretare che sarebbe stato più semplice istruire un cavallo da tiro ad essere empatico.

Nonostante questi brevi e fugaci istanti di svago, tutti e tre agognavano segretamente l’ora in cui avrebbero potuto annunciare il ritrovamento della Coppa al giovane sovrano. E quando finalmente l’ora era giunta, Gaius e Percival, dopo aver osservato Merlin balzare fuori dalle stanze del medico per correre dal Re, si erano scambiati uno sguardo d’intesa, comprendendo forse per la prima volta con quanta trepidazione Merlin avesse atteso il momento in cui avrebbe potuto riportare, anche per vie traverse, il sorriso sulle labbra dell’adorato Arthur.

 

*  *  *
 

Il messo inviato da Leon arrivò qualche giorno dopo l’annuncio del ritrovamento della Coppa.

Sir Geraint, inzaccherato per le ininterrotte ore di cavalcata e per il tempo inclemente, madido di sudore e avvolto in un lezzo a stento ignorabile, giunse nella corte del maniero dei Re di Camelot verso il tramonto, che quella sera spaziava dall’arancio arroventato al violetto fulgente, come se l’arrivo del bel tempo volesse rispecchiare quello delle buone nuove.

Il Re, avvertito dalle sentinelle di vedetta del suo arrivo, si era affrettato a scendere dalle sue stanze per accogliere il cavaliere come si conveniva; dopo averlo ospitato alla sua mensa, imbandita come se si trattasse di un ospite di riguardo o di un diplomatico, e averlo ritemprato con un generoso ammontare del miglior vino di Camelot, Arthur lo sollecitò con velata impazienza, affinché riferisse i messaggi di Leon – che Geraint, sopraffatto dalla pantagruelica offerta di pietanze e bevande a cui non era più avvezzo da giorni, non pareva avesse fretta di comunicare.

Con sollievo palpabile di tutti gli astanti – Arthur, Merlin, Gaius e i cavalieri – Sir Geraint riferì che Leon stava scortando in quell’istante una colonia Druida attraverso il regno di Lord Bayard. Il loro arrivo a Camelot, se nulla avesse rallentato il cammino, sarebbe avvenuto di lì a una settimana: la Guida Iseldir aveva inoltre pregato il cavaliere di riferire al Re un suo messaggio, ossia la richiesta della grazia di ricevere ospitalità per tutta la sua Famiglia, allestendo uno spiazzo sufficientemente ampio che potesse accogliere l’accampamento Druido a Camelot. Arthur non indugiò un istante, incaricando Elyan di supervisionare personalmente la costruzione del nuovo attendamento, oltre il fossato ma sotto l’area vigilata dalle torrette di guardia, che avrebbe ospitato i Druidi, perché fossero costruite solide palafitte, raccolti viveri di prima necessità e convocati i migliori e più celeri artigiani del regno per produrre utensili e brande.

Con gli occhi scintillanti di commozione, Merlin osservò il sovrano impartire ordini, soverchiato dalla determinazione che Arthur aveva dimostrato quando Sir Geraint aveva osato obiettare che al popolo quell’accomodamento non sarebbe piaciuto affatto. Con sua estrema delizia, una volta che i cavalieri e il medico uscirono dalla Sala dei Banchetti, dopo essere stati congedati dal Re, Arthur lo richiamò: «Merlin, per cortesia, resta».

Il giovane valletto, che già stava seguendo Percival fuori dal portone di quercia con dei balzelli entusiasti, si volse di scatto, tutto un tremito: «Sire?»

Quando Arthur, che gli stava dando le spalle appoggiato al davanzale, non parlò, l’espressione di Merlin si ingentilì visibilmente, anche se il suo sovrano non avrebbe mai potuto scrutarne la dolcezza. Il giovane mago si diresse verso Arthur, e si accorse che le sue spalle, larghe e forti, erano scosse da leggeri ma inequivocabili tremiti, come se si stesse sforzando di non lasciarsi andare all’emozione. Quando Merlin si fu avvicinato tanto da poter intravederne il viso riflesso nel vetro alabastrino, gli fu impossibile non notare dal primo istante le lacrime che scaturivano dagli occhi del sovrano, nitide e luminose, e i solchi che gli screziavano le labbra, per il troppo mordersele. Se le circostanze non fossero state così tese e tragiche, Merlin avrebbe senz’altro accarezzato quel viso, per asciugarlo, e baciato quelle labbra, per renderle di nuovo tumide e rosse come le bacche estive. Se solo Arthur avesse saputo quanto quella manifestazione di fragilità di uomo e non di Re lo rendesse ancora più caro a Merlin, quanto risvegliasse nel suo valletto quel sentimento vigoroso e fiorente che s’ostinava a nascondere nel profondo delle sue membra!

«State facendo la cosa giusta, Arthur» disse il moro, scandendo lentamente quelle poche sillabe, infondendo nella propria voce, come solo lui riusciva fare con tale semplicità, la giusta dose di dolcezza e nel contempo di fermezza. «Seguite il vostro cuore, e tutto s’aggiusterà. Ve lo garantisco».

Arthur scosse il capo e borbottò, cercando di asciugarsi le lacrime e di riprendere controllo di sé: «Tu e il tuo inguaribile ottimismo!»

«È necessario che qualcuno ne possieda, Maestà. Qualcuno deve pur compensare il vostro brutto carattere asinino» replicò Merlin con fare gioviale, cercando di riportare un po’ di leggerezza nell’atmosfera pesante che opprimeva la stanza e che pareva solidificarsi tra loro. Quanto avrebbe voluto poterlo anche soltanto lambire con la punta delle dita…

Arthur abbozzò un mite sorriso e commentò: «Dovrei promuoverti a giullare di corte, Merlin. Pochi sanno essere ridicoli come te e dire sempre le cose sbagliate per confortare qualcuno».

«Ho trovato in voi l’ispirazione migliore, Vostra Maestà As…»

«Merlin!» sbottò Arthur, le guance ora asciutte.

«Voi siete troppo negativo, Maestà» lo redarguì l’altro, con finta serietà, senza dare peso al richiamo del Re, e percependo quella familiarità svanita tra loro riaccendersi, come la coda di una cometa. «Anche Percival riesce più spiritoso di voi, e dire che sa fare una sola espressione della faccia…»

Improvvisamente il viso di Arthur si adombrò, e le sue fattezze scolpite s'irrigidirono nella loro gravità. Il suo tono, quando interruppe il giovane valletto, era percettibilmente inquisitorio: «Hai trascorso molto tempo con Percival, negli ultimi tempi».

Merlin non riuscì ad inquadrare quell’affermazione, se di un’affermazione si trattava. La voce del sovrano era venata di sospetto, ma anche di speranza, o così a Merlin pareva. Sì, di una speranza tutta assorbita in quella lieve impennata che la cadenza aveva effettuato nella formulazione, lapidaria e ansiosa, di quel negli ultimi tempi, che rivelava con fare impietoso la natura interrogativa celata in quell’apparente constatazione di un dato di fatto. Sembrava quasi che Arthur volesse che Merlin smentisse, a costo di mentirgli, di aver trascorso tutto quel tempo in compagnia di Percival.

Preso alla sprovvista dall’intensità di quella domanda, Merlin rispose, senza abbandonare il proprio atteggiamento giocoso e leggero: «Siete voi che mi avete intimato di smettere di passare troppo tempo alla taverna con Gwaine, perché non sono in grado di sopportare il sidro di mele di Aldith…»

Anziché apprezzare il fatto che Merlin avesse implicato di aver seguito, con meticolosa dedizione, un suo consiglio, Arthur scosse il capo, e con fare tra lo stizzito e l'incredulo commentò: «Mi fa piacere che questa sia la questione più pressante per te, ora».

Merlin sentì la propria frustrazione salire rombando attraverso i vasi sanguigni del collo e imporporargli le guance solitamente pallide; tuttavia tentò di sfoggiare uno dei suoi sorrisi più concilianti: «Pensavo che togliervi dei fastidi potesse esservi d’aiuto, Sire».

E lo aveva pensato davvero, realizzò Merlin, dopo aver proferito quelle parole. Aveva trascorso ore a cercare un rimedio per la condizione di Gwen nella sterminata biblioteca di Gaius, nonché negli archivi reali. Geoffrey di Monmouth era accorso più di una volta, per svegliarlo di malagrazia, berciandogli insulti perché aveva fatto colare la cera di un candelabro su uno dei preziosi manoscritti di medicina custoditi nella Biblioteca Reale, rendendo vivida la possibilità non solo di rovinare irrimediabilmente le antiche pergamene, ma anche quella di dare fuoco all’intero maniero. Ma Merlin si era anche prodigato in molti altri modi perché Arthur dovesse sopportare quelle che erano da lui definite “manchevolezze del suo beone d’un valletto” il meno possibile: gli aveva portato dalle cucine i cibi preferiti ad ogni pasto, lucidato l’armatura ogni giorno, sempre con anticipo e puntiglio, sellato il destriero preferito ogni mattina all’alba, nel caso Arthur avesse voluto evadere, anche solo per un’ora, l’atmosfera asfissiante del castello con una cavalcata tra i boschi ricoperti di rugiada e silenzio. Tutto avrebbe compiuto il fido valletto, perché le pene di un sovrano forse troppo amato potessero essere alleviate, anche se in minima e insignificante parte.

Insignificante, pensò il giovane mago con rabbia, fissando l’espressione perentoria di Arthur. Qualunque cosa Merlin facesse, in qualunque modo si prodigasse, per Arthur era insignificante. L’amore e la fedeltà che segretamente gli aveva giurato, e che si traducevano tuttavia ogni giorno in migliaia di piccoli ma manifesti gesti, di sguardi e di consigli offerti con il cuore in mano, diventavano insignificanti per il nobile Arthur Pendragon e per la sua insensata ostinazione a voler imporre la sua volontà su tutto – come se questo bastasse a salvare sua moglie!

Con un’imperturbabilità che non riconobbe come propria, Merlin osservò con calma glaciale: «Evidentemente ero in fallo, Sire. Vi chiedo il permesso di ritirarmi. Domattina all’alba dovrò aiutare Sir Elyan e Sir Percival» aggiunse, calcando volontariamente il tono al nome del nerboruto cavaliere, «ad allestire il campo per i Druidi» Fece un piccolo inchino.

Il momento del calore e dell’intimità, dell’insicurezza e della consolazione era svanito com’era venuto: la coda infuocata della cometa s’era spenta, dopo aver illuminato l’oscurità per un lasso di tempo infinitesimale, lasciando il posto alla notte più cupa. Arthur tacque, con fare meditabondo e indecifrabile, ma poi rispose, in tono stanco: «Certo, Merlin. Ti ringrazio per…»

«Non è necessario, Sire» lo interruppe il giovane valletto, indietreggiando con il capo chino come da cerimoniale – cerimoniale che, da quando era entrato in servizio presso Arthur, mai si era curato di prendere eccessivamente alla lettera come in quel momento.

«Buonanotte, Merlin».

«Buonanotte, Vostra Maestà».
 

*  *  *


Il drappello venne avvistato con grande anticipo dalle sentinelle, grazie alla sua eterogeneità di andature e colori.

I mantelli scarlatti dei cavalieri di Camelot si stagliavano contro il cielo d’un azzurro abbagliante, sollevati dalla furia del vento, e le loro armature scintillavano, bagliori pungenti, sotto i raggi del sole caldo e infuocato che aveva preso il posto delle intemperie che avevano corroso le mura della cittadella in quell’ultima settimana. I tre cavalieri, sfavillanti d’argento e sangue vivo, erano seguiti da una miriade di figure abbigliate nelle tonalità più cangianti della terra e del mare.

La Famiglia Druida di Iseldir era un guazzabuglio, un affastellamento di colori e profumi: le vesti di lino e cuoio degli uomini, d’un verde che eguagliava in bellezza e intensità quello delle foreste rigogliose che circondavano Camelot, erano mescolate a quelle delle donne e dei bambini, screziate di sfumature fiordaliso, amaranto, pavone, melograno, pervinca. Gli anziani, invece, adagiati sui carri, chiudevano quella discreta parata di colori nelle loro semplici tuniche color mandorla, bronzo e ocra, splendido accompagnamento alla loro carnagione grinzosa e bruna, prova tangibile delle loro innumerabili estati. Il gruppo procedeva senza fretta, e nessuno rimaneva indietro. La figura alta di Iseldir, ammantata in una cappa d’inedito color zafferano, spiccava alla testa della Famiglia, slanciata e elegante, e procedeva con passo sciolto e costante al fianco di Sir Leon, che era smontato da cavallo per poter godere al meglio della conversazione.

I contadini interrompevano brevemente le loro occupazioni, sollevando la schiena dai campi per squadrare con sospetto il variopinto drappello, i visi riarsi dal sole coperti da striminziti cappelli di paglia, le mani abbronzate, vigorose e ricoperte di cicatrici, che tranquillizzavano i buoi da vomere con brevi carezze. Nonostante il Re avesse inviato messi ad ogni angolo del regno a divulgare esplicitamente a ogni fuoco che i Druidi godevano della protezione regia, era stato quanto mai arduo cercare di scalfire le placche di diffidenza e paura che Uther aveva forgiato, che avviluppavano il popolino in un’armatura di ignoranza da cui era apparentemente impossibile spogliarlo. I bisbigli degli abitanti dei villaggi abbarbicati intorno alla capitale, i gesti convulsi delle madri che si affrettavano con isteria a togliere i propri figli dagli usci e dalle strade, le canzoncine di scherno degli artisti itineranti davanti alle taverne, inseguivano, come uno strascico interminabile, il passaggio della Famiglia Druida. Gli stessi cavalieri di scorta – Sir Brannis e Sir Cador – si guardavano bene dall’avvicinarsi più del necessario ai Druidi: ma forse era nella loro connaturata superbia di rango, più che nel timore superstizioso, che andava ricercata la causa di tale astio.

Merlin e gli altri cavalieri seguirono l’arrivo pacifico e nel contempo straordinario della Famiglia di Iseldir dalla torre di vedetta, ognuno silenzioso e perso nei suoi pensieri. Arthur si era rifiutato di unirsi a loro, dicendo che il suo compito era quello di accogliere Iseldir come un suo pari, attendendolo nella corte d’onore del palazzo per poterlo guardare negli occhi, non di scrutarne l’arrivo come un falco pellegrino, altezzoso, dall’alto di una torre inespugnabile. Quella constatazione aveva strappato a Merlin un mezzo sorriso che però, considerato il recente battibecco, velato di cerimoniosità inutile, che era avvenuto tra loro, si era prodigato di non mostrare del tutto al proprio sovrano. Nondimeno, il fatto che Arthur ammettesse che l’autorità – politica, naturalmente, non magica – di Iseldir era addirittura pari alla propria era un passo avanti notevole nello sviluppo di una qualsiasi relazione tra il popolo scevro di magia e quello Druido.

Arthur si trovava infatti in attesa ai piedi della scalinata, segno tangibile della sua volontà di accogliere Iseldir quale suo eguale. Rispetto all’ultima visita ufficiale, quando la principessa di Nemeth si era recata a Camelot, i toni dell’evento erano volutamente attenuati, quasi intimi, familiari. Il sovrano, pur non astenendosi dall’indossare tessuti di ottima fattura e qualità degni del suo rango, aveva rinunciato al mantello purpureo bordato d’ermellino delle grandi occasioni, così come alla corona a piastre d’oro smaltate, tempestata di perle e pietre preziose provenienti da ogni provincia del regno, che era rimasta rinchiusa nelle camere del Tesoro Reale. La chioma dorata, scintillante di riflessi perlacei nella luce del mattino, e lo sguardo limpido e ceruleo del giovane sovrano risplendevano quel giorno come i più preziosi tra gli ornamenti, e superavano di gran lunga i tesori della Corona; la sopravveste damascata, dai colori di Camelot, e i calzoni scuri esaltavano il suo fisico atletico, pur non dando sfoggio di eccessivi sfarzo e ostentazione.

Quando Iseldir, Leon e la Famiglia Druida, dopo un tempo che parve infinito, varcarono l’arco più maestoso del maniero, che separava la corte d’onore dalla cittadella, una folla di curiosi aveva fatto in tempo ad accalcarsi nello spiazzo arenoso, per lo più contro le massicce mura. Percival, Merlin e Gwaine si tenevano rispettosamente ritti alle spalle di Arthur, il capo appena sollevato per poter osservare i nuovi venuti. Sir Elyan, in quanto fratello della Regina, aveva l’onore di trovarsi alla sinistra di Arthur, mentre Gaius alla sua destra, essendo la figura che più si avvicinava a quella, autorevole e ancora vacante, del Gran Consigliere del Re.

Leon s’inginocchiò al cospetto di Arthur e lo salutò con discreta deferenza, benché la sua voce fosse udibilmente vergata dall’emozione: «Vostra Maestà».

Arthur gli fece cenno di raddrizzarsi e lo abbracciò, dandogli dei colpetti vigorosi ma affettuosi sulle spalle: «Sir Leon, bentornato». Quando il cavaliere riccioluto, impataccato dalla testa ai piedi ma soddisfatto, ebbe presto posto tra Gwaine e Percival – ricevendo vigorose pacche di apprezzamento che avrebbero mandato per aria un uomo ben più corpulento di lui – il sovrano si rivolse a Iseldir, che aveva osservato con serafiche pazienza e approvazione l’interazione affettuosa tra Arthur e Leon: «Mio signore, vi do il benvenuto a Camelot» Chinò il capo, imitato immediatamente da tutta la corte.

Iseldir gli sorrise con cortesia e gli afferrò le braccia, come a volerlo rincuorare: «Siamo noi a ringraziare voi, Arthur della Stirpe della Testa del Drago» Quando Arthur lo guardò con vistosa confusione, la Guida Druida proseguì: «Abbiamo avuto occasione di verificare di persona la gentilezza che ci avete usato e l’impegno che avete profuso nella costruzione di una sistemazione, seppur provvisoria, per la nostra gente. Di questo vi ringraziamo».

E, alla maniera Druida, si sporse per stringere la mano sinistra di Arthur.

Un silenzio pieno di soggezione piombò nella corte d’onore al seguito delle parole pacate del Druido e del suo amichevole gesto, silenzio che scaturiva dalle più disparate emozioni che vorticavano, atone ma ineluttabili, in quello spazio sorprendentemente così angusto e affollato. Il popolino, accalcato contro le mura, non riusciva a distogliere gli occhi, sgranati dal timore superstizioso e dalle paure più primordiali, dalla Guida Druida; i cavalieri scrutavano la Famiglia in silenzio, emanando un alone quasi solido di compattezza e onore; Gaius osservava quietamente il proprio sovrano e la Guida, le loro mani intrecciate in segno di pace, come ponderando le conseguenze di quel semplice gesto; Merlin aveva il fiato mozzo per l’emozione indescrivibile causatagli dalla percezione dell’aura magica intensa sprigionata dai Druidi, onde di saggezza e bontà; Arthur, invece, fissava Iseldir con i suoi occhi d’azzurro liquido, sperando che la Guida vi leggesse tutta l’urgenza, la supplica, il rimorso, come se la sua magia ancestrale e pura potesse farli svanire.

Ma lo sguardo di Iseldir, nonostante tutta la pressione e le aspettative che lo circondavano, rimase luminoso e penetrante. Sempre stringendo saldamente la mano del sovrano, esordì: «Il viaggio è stato lungo e spossante, Arthur Pendragon. Chiedo a nome della mia Famiglia il permesso di ritirarsi nell’accampamento a lei adibito, mentre noi discuteremo delle questioni più urgenti».

La voce della Guida, così profonda e nel contempo chiara, e la sua presenza, così straordinariamente intensa, rendevano quella richiesta praticamente un ordine cortese, che era impossibile declinare senza commettere la più ingiuriosa delle offese. Arthur fece cenno a Sir Cador di scortare, con il resto della Guardia Reale, la Famiglia Druida fino all’accampamento, e di far defluire il popolino.

Una volta che il drappello fu svanito dietro la saracinesca della cittadella, nella corte erano rimasti soltanto Arthur, Merlin, Gaius, Leon, Percival, Elyan e Gwaine – gli unici membri della Tavola Rotonda – di fronte ad Iseldir, che aveva trattenuto presso di sé soltanto un’esile figura ammantata da una veste color pervinca, il cui viso era coperto da uno spesso cappuccio. In risposta allo sguardo interrogativo dei presenti, Iseldir disse soltanto: «Non temete: costei è la migliore Guaritrice della nostra Famiglia. Mi aiuterà ad adempiere al meglio il compito di cui mi sono fatto carico».

Il gruppo così formato risalì la scalinata e si addentrò nel castello, tirato a lucido per l’occasione. Iseldir parve non badarvi: il suo sguardo chiaro e sereno stava fisso di fronte a sé, come raccolto in una vigile meditazione, e mai una volta si abbassò ad osservare il percorso inedito che i suoi piedi stavano compiendo, come se conoscesse a menadito la forma di ogni gradino, le crepe di ogni lastra di pietra. La figura ammantata gli camminava accanto, silenziosa e aggraziata, e le loro vesti frusciavano sul pavimento, quasi all’unisono – se solo fosse stato possibile al fruscio di una veste d’essere melodico e corale – come se volesse contrastare il clangore delle cotte di maglia dei cavalieri.

Le stanze della regina erano dominate dalla penombra, com’era stato sin dal giorno della fatalità. La dama di compagnia di Guinevere spalancò loro le porte di legno pregiato, affrettandosi poi a socchiudere tende e finestre. Un tenue raggio di sole si posò, impalpabile, sul viso della regina, non potendo purtroppo interromperne il sopore, mentre i cavalieri indietreggiarono rispettosamente, per permettere ad Arthur di chinarsi su Guinevere con ogni agio e di baciarle la fronte. Gaius, nel frattempo, aveva estratto dalla sua sacca di cuoio un fagotto di tessuto. Pochi istanti dopo, la Coppa della Vita sfolgorò nella luce pur timida della stanza, liberata dal panno di tela scadente che l’aveva fino ad allora celata: Gaius la posò sulla superficie liscia e rilucente della specchiera della regina, perché tutti potessero contemplarla.

Arthur esordì, lasciando per la prima volta trasparire, sotto la gloriosa maschera di sovrano, tutta la sua ansia: «Vi prego…»

Iseldir lo interruppe: il suo tono era ora inflessibile, completamente diverso da quello cortese che aveva impiegato fino ad allora: «Arthur Pendragon, non è necessario che ci supplichiate. Siete perfettamente a conoscenza degli straordinari prodigi che la Coppa della Vita può elargire, e altrettanto consapevole che essi non sono né gratuiti né alla mercé del mondo degli uomini. Noi siamo solo il privilegiato tramite di una realtà infinitamente più potente, grazie alla quale la Coppa ha visto la luce agli albori di questo mondo: pregarci e riverirci non basterà ad estinguere il debito che contrarrete con essa» Tacque, per permettere ad Arthur di comprendere a fondo le sue parole e forse, a se stesso, di calmare il proprio tono di voce. Infatti proseguì, con meno enfasi: «Ciò che vi chiediamo, giovane Re, e che non esitiamo a chiedervi nuovamente, è se siete pronto ad assumervi le conseguenze dei vostri desideri e delle vostre azioni».

Arthur non ebbe esitazioni e replicò con forza appassionata, come se Iseldir avesse attentato al suo onore, implicando la sua umanità: «Farei qualunque cosa per salvare mia moglie!»

«Il punto non è cosa siete disposto a fare, giovane Re, ma cosa siete disposto a perdere» lo blandì Iseldir, con placida fermezza, come se Arthur si fosse comportato troppo scioccamente, rispondendo con tale energia.

La replica di Arthur, tuttavia, non mutò: «Qualunque cosa».

Merlin passò con apprensione lo sguardo dall’uno all’altro, temendo nel profondo del proprio cuore, che gli stava implodendo nel petto, che Iseldir, di fronte alla richiesta che era stata formulata da Arthur con la testardaggine e la disperazione di un giovane innamorato anziché con la pacata lungimiranza che si addiceva ad un potente sovrano, si rifiutasse di aiutare Gwen. Tuttavia i suoi dubbi – quanto mai assurdi, avrebbe riflettuto negli anni a venire, conoscendo la bontà infinita di Iseldir – vennero fugati quando la Guida Druida annuì brevemente e fece cenno alla figura incappucciata di avanzare e rendere manifesto il proprio volto.

Fu solo quando sentì Percival, che si trovava talmente vicino a lui da sfiorarlo con un braccio possente, irrigidirsi percettibilmente che il giovane mago si costrinse a distogliere lo sguardo da Iseldir e a degnare la figura d’attenzione. E rimase incantato.

Le mani esili e bianche che avevano scostato il cappuccio avevano rivelato il volto di una giovane donna. A parte l’espressione molto seria, che non era in ogni caso sufficiente per adombrare il volto diafano ed etereo, era una ragazza dall’aspetto singolare, nulla che Merlin avesse mai incontrato a Camelot. Non perché fosse particolarmente avvenente, considerò il mago esaminandone il profilo del volto, dai lineamenti sì aggraziati, ma tondi e comuni, il naso impercettibilmente spruzzato di efelidi, le labbra sottili e gli occhi di un castano chiaro in sintonia esotica e curiosa con il biondo caldo dei capelli. No, non possedeva certo la bellezza sfolgorante che Morgana aveva avuto negli anni migliori, ma c’era qualcosa in lei che lo aveva attratto dal primo istante. Qualcosa che lo intrigava più di qualsiasi sorriso incantevole o fattezza aggraziata del viso. La ragazza s’inchinò ad Arthur, poi si volse verso Merlin e i presenti, per salutarli con un cenno del capo.

Fu allora che la selvaggia ondata d’estati che lo aveva sopraffatto settimane prima nei sotterranei del castello si ripresentò, ancora più pungente, nitida e invincibile. La drammatica e famigliare sensazione di avere degli aghi che gli perforavano impietosamente la pelle e le meningi prese possesso delle sue membra, e la stanza cominciò a svanire, una mescolanza cangiante e opaca di suoni e colori. E poi, dal profondo della sua mente, riemerse rombando una voce squillante, femminea e terribile.

Ricorda ciò che giurasti, Signore dei Draghi.

Merlin sussultò, sconvolto, e cozzò contro la massiccia figura di Percival. Quando la stanza ritornò a fuoco, si aspettò che Arthur o Gaius lo riprendessero per il suo mancamento o per il suo strambo comportamento, come Percival aveva fatto tempo addietro. Ma, con sua massima sorpresa, nessuno parve essersene accorto. In quell’istante Iseldir stava articolando dei suoni, che soltanto con grande sforzo Merlin fu in grado di decifrare: «Costei è Blanche, figlia di Gurnemanz, una delle ultime Sacerdotesse dell’Antica Religione, inviata nella nostra Famiglia da Dindrane, la Somma Sacerdotessa dell’Isola delle Mele».

La giovane donna s’inchinò nuovamente ad Arthur, e il movimento della sua chioma fu accompagnato dal tintinnare leggero di un sottile pendente di almandini dalla singolare forma a mela, simbolo della sua provenienza magica, che portava intrecciato tra le ciocche: «Mio signore» Quando si raddrizzò rimase talmente immobile che il pendente divenne quasi un filo a piombo, ricalcando la verticalità del suo collo e portando l’attenzione su una spessa cicatrice che partiva al di sotto della mandibola, per scomparirle nel tessuto della veste. «Sono qui in nome della Mia Signora, e sono latrice di una sua semplice richiesta. Vi chiedo di rendere ciò che è stato sottratto alle Sacerdotesse, in cambio della guarigione della Regina Guinevere».

Arthur parve piacevolmente stupito dalla richiesta, come si fosse atteso qualcosa di sicuramente più arduo. Con lentezza, come a cercare conferma che il suo intelletto non lo avesse tradito, chiese: «Quindi ciò che chiedete in cambio è di compiere una ricerca?»

Blanche sorrise amabilmente e replicò, come a voler dare risposta positiva alla sorpresa del sovrano: «Ciò che vi chiediamo, Sire, è che la Coppa della Vita, dopo avervi reso un servigio di tale potenza, torni in nostra custodia, dalla quale è stata trafugata molti anni orsono. Voi sarete l’ultimo ad aver richiesto un servigio alla Coppa; dalle vostre mani, e dal vostro sangue, il Custode della Coppa dovrà riceverla».

Merlin non riusciva proprio a sovrapporre quella voce argentea e venata di paziente dolcezza con quella detonante e disumana che per ben due volte gli aveva attraversato la mente, prostrandolo. Nessuno degli astanti, nemmeno Gaius, di solito molto perspicace, aveva dato segno di aver notato nella ragazza Druida atteggiamenti sospetti, o di aver provato sensazioni insolite. Anzi, Gwaine aveva dato a intendere, grazie alle sue occhiate interessate e a vari ammiccamenti, che la ragazza non gli era affatto indifferente. Percival e Leon, uno rigido come un palo, l’altro troppo pieno di senso dell’onore per lasciarsi andare a tali pensieri in un così drammatico frangente, tenevano il proprio sguardo rispettosamente a terra, mentre Elyan aveva occhi solo per la sorella.

Il flusso di pensieri di Merlin venne interrotto quando Arthur si piantò in tutta la sua altezza di fronte a Blanche: «Vi renderò quanto vi è stato tolto, mia signora» La sua voce risuonò vibrante e chiara. Per suggellare il proprio impegno, il biondo sovrano si inchinò di fronte alla Sacerdotessa. «Prendo questo impegno sul mio onore».

Dopo aver scambiato un fuggevole sguardo con Blanche, Iseldir si diresse al tavolino da toeletta della regina e sollevò la Coppa dorata: Merlin non poté evitare di notare che Iseldir la reggeva con la punta delle dita, come se fosse incandescente, le labbra serrate come a trattenere un gemito. La Guida Druida consegnò il prezioso Calice alla Sacerdotessa che, sotto gli sguardi attoniti dei presenti, dopo averlo sollevato dinanzi a sé, le ampie maniche della veste che ricadevano verso terra, si avvicinò al capezzale di Guinevere. Arthur fece uno scatto malfermo, come se improvvisamente si fosse pentito della promessa appena proferita e volesse impedire alla Sacerdotessa di praticare un qualsivoglia incantesimo sulla regina.

«Butan þæt cwalu. Hrðe þon aidlian. Hrðe þon eðian. Bot ond tile».

La voce della Sacerdotessa divenne incorporea, mentre le sue iridi castane si infiammavano. La Coppa divenne incandescente, e i simboli cesellati sul bordo baccellato si fecero incredibilmente manifesti: un vapore bluastro e sibilante cominciò ad affiorare dall’interno del recipiente, sempre più denso, finché improvvisamente il silenzio esterrefatto della stanza venne infranto da un gorgoglio sommesso. Blanche si chinò su Guinevere e le posò una mano candida dietro la nuca, sollevandole il capo ed accostandole il calice alle labbra. Fu solo allora che i presenti si resero conto che nel calice era comparsa dell’acqua, o qualcosa che tale sembrava, dall’aspetto perlaceo e fumante. La Sacerdotessa fece inghiottire il liquido alla regina a poco a poco, badando che Guinevere lo ingerisse del tutto; poi, con un tovagliolo che Iseldir le aveva offerto, asciugò le labbra della regina, tamponandole con delicatezza. Infine indietreggiò rispettosamente, tenendo in grembo la Coppa, che ora aveva perso il suo fulgore, ritornando ad essere all’apparenza un calice ordinario.

Seguirono istanti di pesante silenzio, carico di sgomento e attesa, d’incredulità e panico. Arthur, che aveva tenuto la mano di Guinevere stretta tra le sue per tutta la formulazione dell’incantesimo, se la portò sul viso, coprendosi gli occhi, già lucidi di lacrime, la testa china nel terrore che anche quell’ennesimo tentativo di guarigione fallisse.

Poi la voce flebile e arrochita di Guinevere lo raggiunse, ancora avvolta dalla coltre di nebbia del torpore e del sonno: «Arthur…?»

 

 

Ed eccoci anche al termine di questo capitolo.

So che molti amano il rapporto tra Merlin e Arthur, ma sentivo di dover rimanere fedele alla storia: faccio fatica ad immaginare un Arthur che non venga scalfito minimamente dalle esperienze più dure della vita, che scherzi e rida e dia pan per focaccia a Merlin come accadeva nei periodi più luminosi. Stesso discorso per Merlin: sarà sempre il valletto gioviale, ma mi rifiuto di accettare l’idea che il suo rapporto con Arthur, ad un punto come questo, sottoposto alla pressione di eventi tragici, possa limitarsi ad un po’ di banter. Insomma: voglio di più per questi due, ma mi sembra più realistico se questo “di più” sarà frutto di un percorso che implica sofferenze e incomprensioni. E di… cadute dalla grazia, per rimanere in tema.

A livello estetico, per amor di precisione: so che la corona che ho descritto potrebbe sembrare pesante e femminile, e fin troppo pittoresca. Tuttavia quella specie di corona da Sagra che il povero Arthur aveva in testa il giorno della visita della delegazione di Nemeth causa in me un senso di repulsione non indifferente. Descrivendo la corona in questo capitolo mi sono ispirata alla Corona del Sacro Romano Impero, conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna (http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/7c/Weltliche_Schatzkammer_Wien_%28190%292.JPG : arco, croce e cappello di velluto sono aggiunte decisamente posteriori: non lo dice soltanto Wikipedia, ma anche la mia professoressa di storia medievale, per cui potete benissimo immaginarvela senza). Mi sembrava sempre migliore di quella… cosa di cartone dorato che hanno messo in capo ad Arthur nella serie.

Altre annotazioni generali: il titolo di ‘Somma sacerdotessa’ ricorre nel Ciclo di Avalon di Marion Zimmer Bradley (o perlomeno, nella sua traduzione italiana). Mi è sempre sembrato il più calzante dei titoli, più che altro perché non cacofonico come ‘Eminentissima Sacerdotessa’: intendetelo, se possibile, come un omaggio alla scrittrice che mi ha avvicinato sin da piccina alla materia arturiana. Naturalmente, le sacerdotesse della mia storia, anche per ragioni di diritto d’autore, non hanno nulla a che spartire con l’eccellente e complessa costruzione gerarchica ideata dalla Zimmer Bradley (Casa della Foresta, Casa delle Vergini e via dicendo, insomma, per chi è famigliare con la serie).

Infine: la formula utilizzata dalla Sacerdotessa per guarire Guinevere è la medesima usata da Iseldir per salvare il nostro prode Sir Leon nella serie. Poiché pur amando il latino medievale e il Mittelhochdeutsch non possiedo conoscenze sul Middle English, ho preferito non inventare formule impronunciabili e assurde.

Ma lascio a voi lettori il verdetto sul mio operato! E come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo.

Da ultimo: care/i lettrici e lettori – esonerati le/i mie/i fedelissime/i che mi lasciano sempre le loro stupende recensioni – vi prego: so che ci siete, o almeno lo spero. Lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, i vostri commenti (non sono particolarmente forte nella caratterizzazione dei personaggi, sia canonici che inediti, e questo capitolo in particolare mi ha dato dei problemi: una vostra opinione, anche breve, mi aiuterebbe molto, soprattutto ora che la quête ha finalmente avuto inizio). Insomma un vostro aiuto “verbale” mi spronerebbe, più che a scrivere, a migliorare, perché diciamocelo: le persone che scrivono e pubblicano, nonostante spesso dicano di farlo per sé, in realtà lo fanno per condividere qualcosa di sé con gli altri. Mi piacerebbe avere un dialogo con tutte/i voi!

A presto! E… Buona Pasqua, naturalmente!

Quainquie

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Capitolo 6
*** Cap. V - And the heart is hard to translate ***


Carissime lettrici, carissimi lettori,

Ho approfittato delle vacanze pasquali per proseguire un po' più celermente (rispetto al solito) con il capitolo (non mi sembra vero: io che scrivo un quinto capitolo!). Come sempre, devo dei ringraziamenti profondi, sinceri e entusiasti a tutte/i coloro che hanno letto e soprattutto recensito la storia.

Vi consiglio vivamente, come sempre, la lettura della mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies, nel caso non l’abbiate già letta, perché altrimenti stavolta sarà davvero arduo. Il capitolo è piuttosto denso, anche se breve (è il risultato di una suddivisione in due parti di un capitolo ancora più pesante e indigeribile) e per una precisa ragione: da domani il mondo universitario tornerà ad essere la mia priorità assoluta per le prossime due settimane, e ho pensato allora di lasciarvi qualcosa di consistente su cui riflettere in cambio del lasso di tempo in cui non potrò aggiornare.

Infine: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC.

Che dire: vi auguro una (non troppo s-) piacevole lettura!

Quainquie

 

 

 

Cap. V – And the heart is hard to translate

 

Florence + the Machine, All this and heaven too

 

Percival fece una smorfia quando un raggio di sole, tenue e polveroso, riuscì ad oltrepassare uno dei battenti pericolanti che sprangavano le finestrelle del suo alloggio e a lambirgli il viso, ruvido di barba non fatta. Ma non ne era contrariato, in realtà. Quel lieve calore, che lo solleticava dolcemente, senza fretta, gli rammentava la carezza dei capelli di una donna: sericeo, privo d’invadenza, dorato. Tenendo gli occhi chiusi, il cavaliere si portò una mano al volto, per impedire alla luminosità del sole nascente, sempre più intensa, di svegliarlo completamente.

Come la carezza dei capelli di una donna, si ritrovò a pensare con nostalgia, quando quel lieve tocco sul volto, più intimo di qualunque altro gesto, non scemò con il passare dei minuti.

Ma quella sensazione, piacevolissima dapprima, sospetta poi, lo fece allarmare. Spalancò gli occhi, annaspando. Fu allora che lo vide. Li vide. Guizzi di rosso tizianesco – intenso, corposo, come le cangianti sfumature di un buon vino – ed oro – caldo, inebriante, venato di rosa come le dita dell’Aurora che lambivano ogni mattina i selvaggi paesaggi che circondavano Camelot. Guizzi che non erano incorporei, ma vivi, filanti, sottili come dei capelli, appunto. Smarrito, il cavaliere fece per alzarsi dalla sua branda, ma una forza incredibile glielo impedì. Il rosso aveva preso possesso dei suoi occhi, altro non scorgeva che lui; da lontano, gli parve di udire una voce che lo chiamava, risoluta, implacabile, tonante, mentre un tocco infuocato gli lambiva la fronte. Poi, l’oppressione rossa svanì, repentina com’era venuta. Al suo posto, una pioggia dorata, delicata, che gli si posava sulle labbra, senza invadenza. Un bacio, aureo anch’esso, che risvegliò in lui un desiderio che di delicato nulla possedeva.

Percival emise un gemito sonoro, balzando a sedere sulla branda, che scricchiolò paurosamente. Si prese la testa tra le mani, cercando di calmare il tremore che lo pervadeva e nel contempo di sedare quel pungente senso d’ansia e smarrimento che continuava, roboante, a fargli pulsare le tempie. Quando gli occhi smisero di bruciargli, s’azzardò a perlustrare la stanza. Nulla.

Il cavaliere si alzò e, ignorando risolutamente i fremiti delle proprie membra, spalancò la finestra e i battenti, permettendo all’aria fresca del mattino di invadere lo spazio angusto della sua stanza. Poi, con la meticolosità che lo distingueva, s’appressò alla bacinella di rame che teneva sul tavolo, e, con un panno di lino pulito, prese a rinfrescarsi. La toeletta mattutina era l’unico vizio che Percival si fosse mai concesso da quando era entrato in servizio presso Arthur: non aveva voluto nuove armi, né cotte di maglia in soprappiù, né il trattamento di favore presso il Rising Sun e il Blisse, la locale casa di piacere, che il sovrano concedeva talvolta ai suoi più valorosi cavalieri – e di cui naturalmente Gwaine faceva man bassa. Percival era consapevole del fatto che il servo assegnato ai dormitori della Guardia Reale guardava con malcelato sospetto alla frequenza con cui faceva uso di acqua ed essenze profumate, probabilmente dubitando della sua virilità. Il cavaliere non prendeva affatto in considerazione i commenti sibilati del servo quando questi la sera gli consegnava la bacinella e il panno: non tanto per superiorità, quanto perché in quei momenti i ricordi lo assalivano in modo doloroso, mettendo in secondo piano quegli improperi del tutto irrazionali borbottati a mezza bocca.

Sua madre che gli toglieva i pidocchi. Sua madre che insisteva perché si lavasse, ogni giorno, nell’acqua del fiume, sorda alle sue proteste di bambino…

Percival scosse il capo con vigore, come se i ricordi potessero venire allontanati come una mosca particolarmente inopportuna. Si fece la barba con particolare attenzione e si assicurò che i capelli non si fossero allungati e infoltiti troppo; poi ripescò tunica e calzoni dallo schienale della sedia e se li infilò. Dopo qualche istante di meditazione decise che, se proprio doveva dare battaglia, avrebbe dovuto farlo abbigliato da combattente. Indossò il gambesone e la cotta di maglia, allacciandone le asole in pelle sul petto e il cinturone di cuoio spesso, considerando seriamente l’ipotesi di continuare a stringerlo finché non avesse interrotto le sue funzioni vitali, ma ci rinunciò. Terminò la vestizione calzando gli stivali e buttandosi il mantello scarlatto dietro le spalle.

Il castello era decisamente animato, quel mattino. Il risveglio della regina era stato festeggiato la sera precedente con la più grandiosa delle celebrazioni: nonostante Guinevere fosse ancora spossata dalla sua recente condizione, Arthur aveva voluto indire un memorabile banchetto all’aperto, nella corte d’onore, affinché la gratitudine che provava nei confronti dei Druidi fosse manifesta ad ogni cittadino di Camelot. Il banchetto era stato tuttavia soltanto il culmine di festeggiamenti che erano durati per giorni interi e che avevano messo a dura prova la tempra e la pazienza della servitù che, anche quella mattina, si trovava costretta ad affannarsi per disfare tutti gli addobbi e per ripulire i saloni al piano nobile dai resti di quella nottata di forsennati bagordi.

Se solo fosse bastata una festa a convincere la cittadinanza della bontà d’indole dei Druidi! L’ostilità del popolino nei confronti della Famiglia di Iseldir era già sfociata in atti al limite della tolleranza nell’ultima settimana – tende incendiate, strappate, divelte dal suolo, messaggi minatori incisi sulle mura che davano verso l’accampamento, canti di scherno e infuocate prediche contro il malocchio riferite esplicitamente ai Druidi. Arthur, confrontato per la prima volta con il problema di un’eventuale reintegrazione del popolo Druido con quello scevro di magia in tutta la sua drammatica concretezza, aveva più volte dovuto organizzare ronde aggiuntive della Guardia per impedire a quelle provocazioni di divenire manifestazioni di violenza collettiva e inarrestabile. Percival, personalmente, guardava a quelle misure con scetticismo: la situazione all’interno del perimetro delle mura era piuttosto tesa, e l’accampamento dei Druidi provvisorio, poco solido e autonomo, e quindi inadatto a proteggere i suoi occupanti. L’allontanamento preventivo della Famiglia dalla città era l’unica soluzione plausibile e sicura nell’opinione del cavaliere. I Druidi erano un popolo estremamente pacifico, estraneo a qualunque forma d’aggressività, anche a quella dettata dalla legittima difesa: questa loro intrinseca natura, per quanto degna d’elogio, era a dir poco irrealistica, se non addirittura antiquata, se confrontata con la barbarie e l’ignoranza che correvano di quei tempi.

Se Arthur era davvero intenzionato a riportare la magia al suo antico splendore a Camelot e a tutelare tutti i cittadini del suo regno indipendentemente dalla loro appartenenza alla popolazione magica, e determinato senza ripensamenti a raggiungere tali scopi, avrebbe dovuto cominciare da lontano – dall’accettarla lui stesso, ad esempio, ragionò Percival tra sé, mentre il ghiaietto misto a fieno del cortile gli crepitava sotto i piedi, gli stivali bagnati di rugiada. Spingere il popolo a riconsiderare, seppur gradatamente, l’armatura di pregiudizi nei confronti della magia che Uther gli aveva forgiato e imposto si sarebbe senza dubbio rivelato un processo lungo e irto di difficoltà; ma esso non avrebbe mai avuto inizio se il re Pendragon non avesse rivalutato, primo tra tutti, la propria percezione della magia e delle creature ad essa legate.

Percival attraversò la corte d’onore, superò le mura possenti che separavano la cittadella dalla città bassa, e poi s’avventurò senza fretta alcuna lungo la via maestra che portava al barbacane. Le forti piogge delle settimane precedenti avevano fatto marcire i fiori che solitamente adornavano qua e là le vie della città: le corolle erano ormai deturpate da macchie, i petali svelti, e un odore di muschio e di boccioli deteriorati aleggiava nell’aria fresca a pungente. Non era un lezzo nauseabondo, piuttosto un profumo sottile e nel contempo lancinante di qualcosa di perduto, che pareva riflettere l’atmosfera stagnante che fino a pochi giorni prima s’era aggirata per la città, discretamente. E la medesima discrezione si rispecchiava nelle guarnizioni floreali che la servitù si stava affrettando a rimuovere dalla sala dei banchetti: corone di mirto, corbezzolo, alloro, con accenni di lillà, tratti di verde e violetto semplicemente accostati.

Quando l’imponente cavaliere giunse nelle vicinante dell’accampamento Druido non si sorprese di trovarvi Gwaine. Il gioviale cavaliere dalla fluente chioma scura, buttata al solito distrattamente sugli occhi, e dalla barba malandrina, in cui faceva spesso e volentieri la sua comparsa il suo ormai leggendario sorriso, stava chiacchierando con fare disinvolto – un po’ troppo, secondo Percival – con delle ragazze di ritorno dal lavatoio, come le ceste colme di biancheria da sbiancare testimoniavano. L’attenzione di Gwaine era riservata in modo particolare ad una ragazza mora, dai capelli acconciati in un’intricata pettinatura di trecce, che risultava spropositatamente ingombrante e inadatta alla sua corporatura gracile come quella di un uccellino. Dalle vesti che indossava – drappeggi di un morbido color pesca, che nessuna ragazza della città avrebbe indossato nella quotidianità – Percival dedusse che si trattava di una ragazza Druida.

Il possente cavaliere fece un profondo sospiro: Gwaine possedeva un’abilità prodigiosa che lo portava a invischiarsi irrimediabilmente nelle questioni più spinose. Nonostante la capacità di Gwaine di instaurare sin dal primo istante un rapporto di limpide fiducia e vivacità fosse senz’altro encomiabile, le circostanze alquanto irrequiete che incombevano sul rapporto tra cittadini di Camelot e Druidi imponevano di usare una speciale cautela. Senza indugio il cavaliere raggiunse Gwaine, che si era portato un filo d’erba alla bocca nell’intento di risultare ancora più attraente, e il gruppetto di ragazze. Le fanciulle presero a tubare come colombelle, un cicaleccio di risate argentine e bisbigli eccitati, quando si accorsero che un altro cavaliere, e notoriamente quello più riservato, si era interessato a loro.

«Perce, amico mio!» lo salutò Gwaine entusiasta, dandogli una sonora pacca sulla spalla, come se l’espressione truce di Percival fosse il più incoraggiante dei sorrisi di saluto. «Posso presentarti queste incantevoli e gentili donzelle?» Ammiccò spudoratamente, ricompensato dai risolini lusingati e striduli delle ragazze. «Cadi, Heledd, Lowri e Braith. Mie signore, questo è il Gigante della Guardia Reale di Camelot, Sir Percival».

Braith, la ragazza mora e mingherlina, emise un rantolo atterrito, come se la vista di quell’uomo muscoloso l’avesse fatta piombare nell’agonia. Il cesto di giunco le scivolò dalle dita minute, fasciate in più punti, graffiandole l’avambraccio coperto di scure lentiggini, e la biancheria andò a finire rovinosamente sul suolo limaccioso. Ma la giovane donna non parve badarci: s’inginocchiò tremando in modo convulso, le vesti color pesca che s’inzaccheravano sempre più, mentre sul volto affilato e sgraziato, in cui baluginavano due sbiaditi occhi celesti, si dipingeva la più atroce delle sofferenze. Pareva che avesse veduto una creatura mostruosa o demoniaca, o l’anima d’un morto ritornata dalle Terre dell’Oltre. I cavalieri e le ragazze rimasero pietrificati a quella vista, mentre una folla di popolani curiosi si radunava intorno a loro, al medesimo tempo attratta e raccapricciata dai contorcimenti della giovane Druida.

«Braith!» boccheggiò la ragazza più bassa e pienotta del gruppo, Heledd, senza tuttavia muovere un passo. «Cosa ti succede? Per gli dei!»

Quando Braith prese a prostrarsi nel fango, battendo i pugni e la fronte sul selciato fino a farli sanguinare e borbottando parole smozzicate e sconnesse, Percival si decise ad intervenire, pur non sapendo bene che fare. Si inginocchiò allora accanto alla ragazza e l’afferrò saldamente per le spalle scheletriche, nel tentativo di immobilizzarla perché non si procurasse ulteriori lividi.

«Lasciatela, cavaliere».

Una voce autoritaria raggiunse il gruppetto sbigottito. La Sacerdotessa dell’Isola delle Mele, comparsa da chissà dove con la rapidità e la sinuosità di una faina, stava ritta dinanzi a loro, le mani raccolte elegantemente sotto il seno. Un’ancella, abbigliata e pettinata allo stesso modo di Braith, la seguiva mansueta a una distanza di circa sei, sette passi, con le braccia abbandonate lungo i fianchi privi di femminilità e lo sguardo puntato con determinazione a terra. Quando Percival alzò le mani in segno di resa, lasciando il corpo tremante di Braith, la Sacerdotessa si volse verso la sua ancella e la esortò con dolcezza: «Ebba, accompagna Braith alla tenda, per favore».

Non appena Ebba riuscì a sollevarla, sorreggendola con un braccio dietro le spalle, Braith rivolse alla Sacerdotessa uno sguardo liquido e disperato ed emise un lamento: «Mia signora…»

Blanche le si avvicinò e le carezzò una guancia, il fare imperioso svanito con la medesima rapidità con cui era apparso: «Lo so, Braith. Ma ora va’ e riposa».

Braith si rilassò a quelle parole, come se contenessero, celati nelle loro apparenti semplicità e impenetrabilità, dei significati rassicuranti quanto inesorabili, ai quali non valeva neppure la pena di opporre resistenza. La ragazza, spettinata e cenciosa, annuì con vigore, lasciandosi poi condurre via da Ebba. Nessuna di loro si diede la pena di raccogliere la biancheria inzaccherata.

Gwaine, incapace di trattenersi, chiese, ancora scosso: «Mia signora, cosa…?» Per una qualche balzana ragione, il cavaliere non terminò la formulazione di quel quesito. Non tanto per confusione o mancanza di parole adatte – raramente infatti Gwaine ne rimaneva privo – quanto per mostrare, pure in quel momento inopportuno, il proprio – vero o presunto – legame con Blanche.

Nel corso dell’ultima settimana Gwaine non aveva nascosto l’interesse e la attrazione che provava nei confronti della bionda Sacerdotessa, corteggiandola in modo fin troppo esplicito: durante i giorni di festa indetti dal Re non soltanto aveva richiesto il suo favore per combattere alla giostra, ma l’aveva invitata a danzare in numerose occasioni e, in caso di cortese declino, l’aveva intrattenuta con la sua parlantina brillante e irriverente, ponendosi puntualmente al centro dell’attenzione dell’intera corte. Leon e Elyan avevano scherzato sull’infatuazione fulminea quanto improbabile di Gwaine, ma Percival non ci aveva trovato assolutamente nulla che potesse essere commentato con spirito: il trasporto con cui l’amico faceva la corte alla Sacerdotessa non pareva affatto un sentimento transitorio, anzi.

D’improvviso Percival comprese, con una fitta di fastidio, che quella mattina assolata Gwaine non era sceso all’accampamento per chiacchierare amabilmente con una ragazza Druida qualsiasi.

E come dargli torto, ammise a se stesso, osservando la figura minuta della Sacerdotessa che gli si parava dinanzi. Pur non possedendo un’avvenenza esemplare, emanava un fascino indiscutibile, dovuto per la maggior parte all’esoticità dei suoi colori, che ricalcavano tutte le sfumature dell’oro, e alla sua provenienza magica. Le vesti di un profondo color zafferano, dalle ampie maniche orlate di ricami dorati a mele e fiori di guado – i simboli della sua Isola – la cingevano con grazia, mentre un’abbondante cappa di lana grezza non tinta le copriva la parte superiore del torso e delle spalle, celando tuttavia a malapena lo sfregio roseo che dalla mandibola scendeva impietoso sino al seno. Blanche non sembrava curarsene: i capelli biondi, che avrebbero potuto tranquillamente occultare la cicatrice, erano gettati dietro le spalle, spettinati, e il pendente a forma di mela la indicava con precisione quasi paradossale, come a volerla esibire, sfavillando nel sole del mattino.

«Visioni, messere» replicò la Sacerdotessa, che aveva riassunto la sua posizione composta, in tono misurato e gentile. «Braith possiede una potente capacità di Vedere sin dall’infanzia» Di fronte allo sguardo meravigliato di Gwaine, Blanche aggiunse in tono giocoso: «Non è insolito per molte Apprendiste, cavaliere. Anzi, oserei dire il contrario. Braith tuttavia…» I suoi occhi ambrati si posarono su Percival, che poté leggervi con facilità una buona dose di rimprovero, «… possiede un’inclinazione particolarmente marcata alla suggestione. Il vostro compare, messere, deve avere suscitato in lei sentimenti tanto vigorosi da scatenarle una visione».

Prima che Percival potesse replicare, Gwaine intervenne, con una vena di divertita ma evidente apprensione: «Temo che sia io il colpevole, mia signora. Ho presentato Percival come il Gigante di Camelot. È stato questo a turbare Braith, credo».

Inaspettatamente, Blanche rise di cuore, un suono simile allo scrosciare della pioggia in un secchio già colmo: «Il Gigante di Camelot!» ripeté incredula, ma piacevolmente stupita. «E voi che pensate di quest’appellativo, Sir Percival?» Lo sguardo della Sacerdotessa, ora inequivocabilmente malizioso, si conficcò in quello del possente cavaliere che, nonostante un certo imbarazzo, lo sostenne.

«Che sia di spropositata grandezza, mia signora» replicò poi, contrariato. «Ma credo che lo sapeste ancora prima di pormi questo interrogativo. Non è caratteristica delle Sacerdotesse anche quella di leggere nei pensieri più reconditi della mente di un uomo?»

La Sacerdotessa smise di sorridere, ma era palese che le parole taglienti del cavaliere non avevano risvegliato in lei alcun sentimento di sdegno o di sbalordimento: il suo viso aveva invece assunto un’espressione concentrata, come se stesse valutando la bontà delle parole di Percival. Infine riconobbe, in tono garbato e privo della precedente ironia: «Parlate poco, messere, ma mai senza effetto. Chi avrebbe mai sospettato un tale acume?» Stavolta il sorriso che le affiorò sulle labbra era sincero. «Ho un’udienza con il re a breve. Accompagnatemi, Sir Percival. Voglio ancora approfittare della vostra impensata perspicacia per qualche minuto» Senza attendere l’assenso del cavaliere, la Sacerdotessa gli si avvicinò e lo prese sottobraccio; a quel tocco improvviso, Percival s’irrigidì vistosamente. La donna non vi fece caso, o almeno finse di ignorare il suo disagio: si rivolse invece a Gwaine, il cui orgoglio virile era stato chiaramente ferito come l’espressione disorientata del suo volto attraente testimoniava, e gli disse, con leggerezza e diplomazia: «Sir Gwaine, spero che possiate farmi la cortesia di portare la biancheria al mio padiglione. Braith potrà sicuramente rallegrarsi del vostro buon carattere, messere» Quando vide che Gwaine osservava i drappi sparsi sul selciato con sospetto, come se potessero rianimarsi a mo’ di serpente, Blanche aggiunse, come se stesse cercando di vezzeggiare un bambino riottoso: «Al mio ritorno brinderemo alla vostra galanteria cavaliere, e parleremo, come vostro desiderio».

Rincuorato dalla prospettiva di gustare il tanto decantato sidro dell’Isola delle Mele e l’ospitalità della Sacerdotessa, ma con ancora un barlume di indignazione nello sguardo, Gwaine raccolse quelli che poco tempo prima erano stati immacolati teli di lino freschi di bucato – che ora non erano altro che un morbido groviglio spruzzato di fango – e si diresse verso l’accampamento, voltandosi di tanto in tanto per gettare uno sguardo impaziente a Blanche. Questa aveva pero già rivolto la propria attenzione al castello e ai vessilli rosso e oro che strepitavano sulle torri difensive, stagliandosi contro il cielo azzurro.

«Non dovresti promettergli ciò che non gli potrai mai dare» Una volta che Gwaine si fu allontanato, la voce profonda di Percival la distolse dalla contemplazione, talmente bassa da perdersi nel chiacchiericcio sommesso e nei rumori della strada, ma abbastanza nitida da essere udita senza rischio di fraintendimenti.

Blanche gli strinse il braccio e osservò, badando che il cipiglio dei propri occhi non si estendesse all’interezza del suo viso: «Colgo una certa gelosia nella vostra voce, mio signore».

Percival scosse il capo: «Non essere sciocca, non ti si addice proprio. Come sta tuo padre? E tuo zio Gornemant?» chiese poi, sempre sottovoce, cercando di infondere nelle proprie parole una cadenza neutra e nel proprio portamento un’apparenza cavalleresca, perché nessuno dei due tradisse la sensazione di familiarità che il tocco del tessuto della veste di Blanche e il delicato profumo di gelsomino e ambra grigia emanato dai suoi capelli avevano ridestato in lui.

«Gurnemanz è morto anni orsono, e con lui gli ultimi vassalli del regno. Il mio amato zio rispetta ancora il suo giuramento alla corona, ma la resistenza contro i Barbari è ormai troppo fioca, mio signore» Nonostante la donna avesse proferito quelle parole come una cantilena, Percival poté leggere nella fissità dei suoi occhi castani il dolore per la perdita del padre. Sentì le mani sottili stringersi intorno al suo avambraccio, e per un istante desiderò di non aver indossato il gambesone e la cotta di maglia. «Mia madre, gli dèi la maledicano, è diventata la sgualdrina del Barbaro usurpatore» Blanche fece un sospiro rabbioso, ma poi si ricompose. «Come potete vedere, vostra sorella mi ha accolta, nonostante io sia stata dichiarata illegittima da Hengest. Le devo molto».

Nell’apprendere della morte di Gurnemanz, Percival si era accorto suo malgrado di avere gli occhi velati dalla bruma rovente delle lacrime. Tuttavia, sempre guardando fermamente dinanzi a sé, disse con voce monocorde: «Blanche, tu sei la figlia del Duca delle Isole Bianche. Non parlare come se Dindrane ti avesse usato un gesto di grande carità nell’accoglierti tra le Sacerdotesse. Saresti stata la sua sovrana, se uno dei miei fratelli fosse sopravvissuto, e mia sorella lo sa».

Alla menzione del proprio glorioso destino in veste di regina consorte del regno di Listenoise, ormai irrealizzabile, Blanche era impallidita e aveva rimbeccato con forza, abbandonando finalmente la cortesia con cui si era rivolta a lui sino ad allora: «E tu non dovresti parlare di tua sorella in tali termini, Percival. Per te lei è la più potente e saggia tra le Sacerdotesse, la Madre dell’Isola delle Mele. Faresti bene a non dimenticarlo».

«Altrimenti mi scaglierai un sortilegio?» ribatté Percival, ma stavolta l’inflessione della sua voce era udibilmente divertita.

Blanche rispose al sorriso: «Non sfidarmi».

Erano giunti in cima allo scalone della corte d’onore. Blanche si discostò da Percival, riassumendo quell’aggraziata posizione delle braccia – le mani intrecciate sotto il seno – che al cavaliere ricordava tremendamente sua sorella. In silenzio Percival la scortò all’interno del mastio e, quando giunsero alla Sala del Consiglio, si andò a piantare dietro al seggio intarsiato sul quale era già accomodato Arthur. Gaius, date le gambe malferme, era seduto alla destra del sovrano, mentre Sir Leon e Merlin se ne stavano quietamente in piedi dietro di loro.

Arthur si alzò per accogliere la nuova venuta: «Mia signora».

Blanche fece un lieve inchino, poi accettò la galanteria di Arthur, che le aveva scostato una sedia dal rotondo tavolo di rovere, e si sedette con compostezza. La Coppa della Vita si trovava nel bel mezzo del tavolo, accanto ad una dettagliata carta geografica dispiegata in tutta la sua lunghezza. In quei giorni il Calice fatato era rimasto sotto la vigile sorveglianza di Arthur in persona.

«Come sta la regina, Sire?» chiese Blanche, senza tuttavia mostrare una profonda empatia.

«Sta recuperando le forze, mia signora. E per questo io vi devo la mia gratitudine e la mia fiducia» rispose Arthur in maniera solenne e appassionata. Dal giorno della guarigione miracolosa di Guinevere – o perlomeno, miracolosa e stregonesca agli occhi della corte e del popolo – il sovrano Pendragon non aveva lesinato lusinghe alla giovane Sacerdotessa, che però non s’era lasciata ammaliare né dalle parole di gratitudine e stima né dai ricchi doni che le erano stati consegnati e che aveva sempre puntualmente respinto.

«La vostra gratitudine dovrebbe andare a tutti coloro che, sacrificandosi, hanno permesso all’antica tradizione delle arti magiche e guaritrici di perdurare nei secoli, anche in quelli bui come questo» rispose la Sacerdotessa, in tono sommesso ma risoluto. «Ma la apprezzo, Arthur Pendragon».

Imbarazzato dalle parole della donna, l’aura di potente sovrano scemata per un istante per permettere a quella di giovane uomo passionale e ancora inesperto delle cose del mondo di fare la sua comparsa, Arthur chinò il capo biondo e annuì. Poi disse: «Domani la nostra missione avrà inizio, mia signora. Ti ho chiamata per avere la tua benedizione».

Blanche lo fissò negli occhi, leggendovi senza sforzo le emozioni vorticose e contrastanti, i desideri muti e pressanti, e lo rimproverò con asprezza inaudita quando comprese la vera natura di quell’udienza: «Signore di Camelot, non credere che la magia possa porre rimedio a qualsiasi avversità che il fato ha posto sul tuo cammino! Conosco le tue paure: temi questo viaggio, temi di perirvi e di non avere eredi che possano raccogliere il tuo lascito» Fece una pausa, abbassando la voce, mentre Arthur, furente e mortificato al tempo stesso per aver abbassato la guardia, aveva chinato lo sguardo sulle proprie ginocchia, uomo ora, e non re. Blanche riprese a rivolgerglisi con la forma di cortesia precedentemente abbandonata a causa dello sdegno pungente che s'era impossessato di lei: «Mi avete chiesto di salvare la vita della vostra graziosa consorte, e così ho fatto. Non otterrete altro».

Arthur tremava visibilmente, le nocche sbiancate; Merlin gli si avvicinò d’istinto, tendendo la mano come volesse posargliela sulla spalla muscolosa, ma poi se ne astenne, perché la Sacerdotessa aveva ripreso implacabile a parlare: «Vi siete sposato per amore, raccontano i cantori della mia Isola. Se è davvero così, giovane Pendragon, perché volete infierire sul corpo della donna che dite d’amare?»

Merlin, Leon e Percival si scambiarono degli sguardi disorientati; Gaius invece aveva inclinato la testa di lato, lievemente, le sopracciglia cespugliose aggrottate nella rassegnazione e nel turbamento. Arthur respirava rumorosamente, gli occhi iniettati di sangue, spalancati, la tempia che gli pulsava in maniera incontrollata: ma tutta il suo sbigottimento era ammutolito di fronte all’autorità e alle parole con cui la Sacerdotessa lo stava rimproverando.

«La regina Guinevere non concepirà vostro figlio. Non lo farà questa notte, non lo farà negli anni che verranno» terminò Blanche, inflessibile, come se quelle parole fossero le ultime che desiderava spendere, pur a malincuore, su quell’argomento. «Voi mi avete giurato solennemente di rendere la Coppa della Vita alla mia signora. E oggi sono qui per questo. Non c’è altro argomento di discussione che intendo udire».

Il sovrano si prese il capo fra le mani, annichilito, e finalmente Merlin riuscì almeno ad avvicinarglisi. Sir Leon, oltraggiato da quella mancanza di rispetto e sconvolto dalla rivelazione di particolari così intimi che riguardavano l'unione dei suoi sovrani, aveva posato la mano sull’elsa della spada, ma Percival lo aveva fermato, stringendo le labbra in modo eloquente.

«Sovrano della Stirpe della Testa del Drago» riprese Blanche, stavolta con dolcezza. «Anche se potessi, non vi aiuterei ad esaudire il vostro più intimo desiderio. Voi stesso ne conoscete il prezzo. Vi supplico, mio signore, in nome di tutta quella fiducia che dite di riporre in me: non siate cieco come chi vi ha preceduto, se davvero provate affetto per la vostra regina» La donna si alzò con un fruscio di vesti e andò a chinarsi sulla testa di Arthur, che il sovrano teneva appoggiata sui pugni serrati. Poi, con delicatezza, gli affondò le mani tra i folti capelli fulvi e gli sussurrò, in modo che solo lui potesse udirla: «Abbiate fede».

In quell’istante Arthur ebbe un sussulto e nella mente vide chiaramente baluginare il volto acceso e appassionato di Merlin, e le sue labbra delicate e sensuali che proferivano quelle esatte parole: Abbiate fede. Un brivido d’intenso e rassicurante piacere scaturì dal punto in cui la Sacerdotessa aveva posto le sue mani bianche, e Arthur sentì acuirsi, in modo del tutto inspiegabile, la gratitudine. Si rese conto con nostalgia che avrebbe voluto che fosse Merlin a ripetere, per lui solo, quelle parole confortanti. Ma poi si rese conto che l’aveva già fatto, il giorno in cui aveva estratto la spada dalla roccia… Abbiate fede, aveva detto. E io avrò fede, pensò Arthur, d’improvviso. Quando sollevò il capo, Blanche stava ritta dinanzi al trono. Aveva forse sognato? S’era distratto? E Merlin dov’era? Gioì intimamente quando lo vide al proprio fianco, in atteggiamento di protettivo, un piede posto dinanzi all'altro come se fosse lì lì per attaccare. Se solo l’atmosfera fosse stata più leggera, Arthur ne avrebbe riso: Merlin, con il volto rincagnato per tentare di risultare inquietante, era davvero uno spettacolo buffo… Ma non aveva tempo per pensarci.

La sua voce risuonò chiara e umile insieme, cogliendo di sorpresa Gaius, Leon e Merlin: «Perdonatemi, mia signora».

«Io non devo perdonarvi. Il vostro dolore vi rende umano, e il vostro cuore è animato da giustizia, bontà e onore» rispose la Sacerdotessa sommessamente, tornando a sedere con un movimento aggraziato. «Ed è questa la ragione per la quale vi seguirò in questo viaggio, Sire. Non avrete la mia benedizione, ma avrete le mie conoscenze magiche al vostro servizio, Arthur Pendragon».

Il sovrano annuì con fare definitivo, la stanchezza e la delusione incise profondamente sul volto, dal quale tuttavia non traspariva del rancore, rassegnata accettazione semmai. Indicò il percorso, segnato da pedine rosse, che aveva tracciato, con il provvidenziale aiuto di Gaius e Leon, sulla mappa pergamenacea che ricopriva una buona metà della tavola: «Il viaggio che intraprenderemo sarà lungo, mia signora, e non privo di pericoli di molteplice sorta. Voi siete una donna…»

«E una Sacerdotessa, Sire, che deve tornare a casa» completò Blanche, inclinandosi sulla mappa per osservare con attenzione il tragitto pianificato dal sovrano di Camelot. «Non posso tenermi lontana dalla mia Isola troppo a lungo» Gettò un’occhiata significativa a Percival, che però non diede segno di prenderla in considerazione.

«E sia» sospirò Arthur, accettando il fatto che la volontà della giovane Sacerdotessa sarebbe stata irrevocabile. «Partiremo domani all’alba, mia signora. Dirò agli stallieri di prepararvi la migliore cavalcatura possibile» Il sovrano fece una pausa, poi ripeté il percorso che aveva accuratamente preparato con Gaius, i cavalieri e Merlin, affinché la Sacerdotessa ne avesse una conoscenza sommaria: «Impiegheremo circa un ciclo completo di luna di marcia per raggiungere la Terra dei Laghi. Ma non sarà affatto semplice attraversarla senza destare scompiglio o sospetto: dall’uccisione di Re Pellinore e dei suoi figli per mano di Cenred, raramente viandanti stranieri vi si avventurano, e quando lo fanno sono sempre notati dalle vedette» Arthur puntò il dito su una torre stilizzata, localizzata su un promontorio a strapiombo sul Grande Lago, anch’esso rozzamente abbozzato sulla pergamena: «Hengest, il Re Barbaro, si è insediato nella capitale Listenoise dopo la devastazione inflittale da Cenred. La posizione della città permette di scorgere i viandanti nei bassopiani a leghe e leghe di distanza. Cercheremo pertanto di muoverci nelle foreste ai limiti delle campagne, e soltanto quando sarà inevitabile ci arrischieremo a battere gli spazi aperti. Tenteremo poi di imbarcarci per le Isole Bianche; e allora mi affiderò a voi, signora, per raggiungere l’Isola delle Mele, se è vero che si cela magicamente tra queste».

Blanche rispose con fermezza, nonostante la mano che teneva appoggiata sul tavolo tremasse lievemente: «Prima dell’invasione barbara della Terra dei Laghi, i Re di Listenoise e i Duchi delle Isole Bianche si sono sempre prodigati per proteggere al massimo delle loro forze e capacità l’Isola delle Mele e le Sacerdotesse custodi della Coppa, che ivi dimorano da tempo immemore. Credete davvero che sarebbero morti per difendere un luogo di fantasia, Sire?»

Percival avrebbe desiderato intervenire, ma un fugace sguardo d’ambra infuocata di Blanche lo indusse a non farlo. Il cavaliere comprendeva perfettamente i sentimenti che s’erano accesi nella giovane donna nell’udire quella seppur plausibile insinuazione: rabbia, e rammarico per i parenti amati e perduti. Cercò con gli occhi una tarlatura del legno sul pavimento e prese a fissarla con determinazione quando si accorse che Merlin lo stava fissando intensamente.

«Vi aprirò le porte dell’Isola delle Mele, Arthur, e lì incontrerete la mia signora, Dindrane, figlia di Re Pellinore, l’ultimo Re di Listenoise. Sino ad allora, vi prego di avere fede» disse allora Blanche, riacquistando completamente padronanza di sé. «Abbiate fede nella magia, Sire, e diverrete il Re che è stato e che sarà, e con Emrys, il più grande della nostra specie, riporterete la pace ad Albion».

Arthur sollevò lo sguardo dalla carta e chiese, senza sapere che quella semplice domanda avrebbe dato vita alla più longeva delle leggende: «Chi è Emrys, mia signora?»

 

 

Ed anche questa è fatta.

Temo sia un’accozzaglia di informazioni stavolta: scusate se vi ho travolte/i non ho fatto apposta (o perlomeno, senza l’intento di uccidervi). Non sono affatto soddisfatta del capitolo (anzi lo trovo terribile), anche se ho potuto dedicarmi un po’ più approfonditamente al mio riverito Perce! Sono piuttosto ansiosa di avere la vostra opinione a riguardo, perché il capitolo si discosta decisamente dai precedenti a livello di contenuti, essendo Percival-centrico. Ma dato che è il protagonista della storia con Merlin e Arthur, ho pensato fosse legittimo dedicargli un capitolo, in cui dimostrare che anche lui possiede una sua sfaccettata profondità. Il capitolo è bruscamente interrotto, monco: come anticipato, l’originale era davvero troppo lungo per essere postato, e ho preferito dividerlo, destinando il capitolo V a Percival e il VI per intero al rapporto tra Merlin, Gwen e Arthur. Per i fan Merthur sarà un capitolo deludente, ma fidatevi, anche per me è stato frustrante. Spero che apprezziate comunque, e che lo possiate intendere come una possibilità di conoscere un po’ meglio Percival, le sue origini e il suo rapporto con Blanche. Ribadisco: è davvero un capitolo di transizione, perdonatemi!

Come al solito, vi lascio qualche annotazione più tecnica. So che Arthur sembra troppo nobile anche solo per pensare di dare licenza ai suoi cavalieri per frequentare una casa di piacere. Tuttavia non ci vedrei niente di strano, se si libera l’epoca d’ambientazione dai parametri della serie televisiva, che è pensata essenzialmente per un pubblico di ragazzi (anche se insomma, la scena tra Gwaine e Morgana qualche dubbio me l’ha inculcato). Il nome sarebbe una traduzione in inglese medievale (spero corretta, non sono un’esperta) del termine latino Felicitas, un omaggio esplicito a Pompei e ai ritrovamenti archeologici ivi scoperti. Il Corpus Inscriptiorum Latinarum purtroppo non è completamente online: la segnatura sarebbe comunque CIL IV 1454, se non erro.

Il fatto che l’acqua e una pulizia molto frequenti tramite essa nel Medioevo fossero guardate con sospetto, data la credenza diffusa che l’acqua fosse portatrice di malattie, non credo sia per voi una novità.

Gurnemanz è un personaggio del Parsifal di Wagner e nel dramma è rappresentato come un vecchio cavaliere, custode dei misteri del Sacro Graal. Gurnemanz (nella mia storia padre di Blanche) è la trasposizione wagneriana di Gornemant (nella mia storia zio di Blanche, e fratello di Gurnemanz), che compare nel Perceval di Chrétien de Troyes nel ruolo di mentore di Percival: i due sono essenzialmente lo stesso personaggio. Ora ci si potrebbe chiedere perché io abbia introdotto questo astruso stratagemma narrativo che vuole due fratelli con un nome molto simile, tanto da poter essere confuso. Non c’è una vera spiegazione, o una plausibile, ma se avete familiarità con la leggenda arturiana saprete che questi scioglilingua parentali sono piuttosto frequenti: Balin e Balan (fratelli, entrambi soprannominati “il Selvaggio”), Morgana e Morgause (nipote e zia), Vortigern e Vortimer (padre e figlio), Owain/Ywain e Ywain il Bastardo (entrambi figli, in alcune versioni omonimi, di re Urien). Insomma, che persona complicata sarei se non sfruttassi questo precedente? Infatti eccovelo servito: i fratelli Gurnemanz e Gornemant, rispettivamente padre e zio di Blanche. Ultima annotazione di onomastica: il principale compito di Arthur nella leggenda è quello di liberare la Britannia dalla minaccia dei Sassoni. Hengest è il nome di uno dei più antichi, leggendari condottieri anglosassoni, e dato che ha sempre avuto una certa attrattiva su di me, ho pensato di usarlo in modo del tutto libero per uno dei miei personaggi.

Per quanto riguarda i riferimenti geografici, mi rammarico di non poter essere esaustiva. La collocazione della fortezza di Camelot non è individuata con precisione dagli autori della materia arturiana. Ci sono varie ipotesti a riguardo, ma nessuna migliore o più convincente dell’altra. Non si sa nemmeno se situarla a sud o a nord del Vallo di Adriano. Per cui mi sono presa la licenza di inventare una locazione a mio gusto (scusate l’eresia).

Il tema abusato del Rex quondam, rexque futurus lo adoro, per cui l’ho inserito nella storia. Per me non contano le volte che è spuntato a tradimento nel telefilm: ho semplicemente pensato che una creatura magica potesse conoscere il destino di Arthur, e quindi pronunciare l’espressione senza anacronismi o problemi. Non ricordo onestamente se Arthur sia a conoscenza dell'esistenza di Emrys o del suo ruolo come Re eterno nella serie. Quando ho scritto il capitolo ero fermamente convinta che non ne fosse a conoscenza, per cui tutta la storia si basa su questo presupposto; perdonatemi se è errato, e vi supplico, prendetelo comunque per buono.

Mi scuso davvero per qualsiasi tipo d’errore reperiate nel testo; come sempre, se sono orrori colossali, vi prego di segnalarmeli, l’aspetto e la correttezza linguistici sono fondamentali per me: oggi sono stanchissima, inoltre, e credo di averci fatto scappare qualche erroraccio che di solito, da sveglia, acchiapperei.

Al solito, mi raccomando: lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, oppure per farmi notare qualche errore chiamiamolo “storico” (non pretendo di calare verità assolute nelle note di fine testo, per cui se vedete errori grossolani… segnalatemeli senza indugio!).

 

Al prossimo aggiornamento, geschätzte Leserinnen und Leser!

Quainquie




Da ultimo: care/i lettrici e lettori – esonerati le/i mie/i fedelissime/i che mi lasciano sempre le loro stupende recensioni – vi prego: so che ci siete, o almeno lo spero. Lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, i vostri commenti. Insomma un vostro aiuto “verbale” mi spronerebbe, più che a scrivere, a migliorare, perché diciamocelo: le persone che scrivono e pubblicano, nonostante spesso dicano di farlo per sé, in realtà lo fanno per condividere qualcosa di sé con gli altri. Mi piacerebbe avere un dialogo con tutte/i voi!

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Capitolo 7
*** Cap. VI - You're the silence in between ***


Carissime/i,

Dopo questa imperdonabilmente lunga pausa – segnata da impegni accademici quali esami e preparazioni della tesi e gite viennesi e milanesi per archivi polverosi – rieccoci qui con il sesto capitolo. Sappiate che ho fatto incetta di paramenti, gioielli e palazzi asburgici e di letture a tema, per cui ignorate le mie future digressioni ornamentali, potrebbero essere altamente letali. Ringrazio infinitamente i miei lettori e soprattutto i miei recensori: siete un costante motore per dare forma in carta e inchiostro alle mie idee balzane! Spero che il capitolo sia abbastanza buono e denso da farmi ottenere il vostro perdono, considerati i due mesi di assenza (purtroppo non previsti).

Rinnovo al solito il consiglio di dare una lettura propedeutica alla mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies, anche a costo di essere tacciata di monotematismo. E ora le dovute precisazioni: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC (e, in primis, della leggenda arturiana).

Buona lettura!

Quainquie

 

Cap. VI – You’re the silence in between

Florence + the Machine, No light, no light

 

«Chi è Emrys, mia signora?»

Dopo essersi innalzata con fiera curiosità nel suo slancio interrogativo, la voce di Arthur si spense improvvisamente, lasciandosi dietro uno strascico di silenzio che il sovrano sperava potesse essere colmato dalla risposta della Sacerdotessa delle Mele. Ma se si fosse dato pena di gettare uno sguardo intorno a sé, di porre un’attenzione più intensa alle sue percezioni, si sarebbe certamente accorto che il silenzio che lo circondava era ben lungi dall'essere un tutt'uno con il proprio, che era venato di semplice e insistente interesse: era invece un guazzabuglio di silenzi che esprimevano con forza le emozioni del rispettivo proprietario. Percival non era mai stato particolarmente abile a rendere manifesti i propri sentimenti o le proprie idee, ma si riconosceva una certa prontezza di spirito nella percezione degli stati d’animo altrui, forse perché per lui, così taciturno, il silenzio si realizzava in distinte e familiari sfumature, piene e sfuggenti.

Gaius s’era limitato, al solito, a mantenere quell’espressione di lucida e nel contempo vibrante calma che lo contraddistingueva, le mani solcate da rughe profonde intrecciate e celate alla vista dalle pieghe ancor più profonde della sua veste purpurea. La labbra serrate disegnavano una linea lievemente storta nel volto vizzo, che tradiva sia il sospetto che l’anziano medico di corte nutriva nei confronti della Sacerdotessa sia l’abituale compostezza che tentava di fungere da barriera ai suoi pensieri.

Alle spalle della seggiola sulla quale Gaius aveva accomodato la sua fragile figura di vecchio, proprio accanto a sé, Percival sentì Leon irrigidirsi dallo stupore, mentre la sua armatura emetteva un puntuale e impercettibile scricchiolio, i sottili anelli della cotta che si frizionavano appena. Lo sbigottimento di Leon non avrebbe potuto essere più evidente nemmeno se l’avesse urlato: i suoi occhi chiari, già innaturalmente grandi, si sgranarono ancora di più, saettando inquieti dalla figura snella della Sacerdotessa alla testa bionda di Arthur, che appena spuntava dallo schienale del seggio intarsiato.

Proprio di fronte a loro, ritta e esile come un giunco, stava Blanche. Percival non avrebbe avuto nemmeno bisogno di scrutarne con attenzione le fattezze per poter cogliere nel suo silenzio tutto il vanto della consapevolezza, che degradava in modo inesorabile nella presunzione. Non era presunzione personale, quella di Blanche, bensì il marchio che Dindrane, la Somma Sacerdotessa, le aveva impresso, trasmettendole la vanagloriosa convinzione che le creature magiche, nella loro superiorità di sensi e percezione, grazie all’immenso potere concesso loro dalla Visione di ciò che è stato e ciò che dovrà venire, erano latrici di volontà universali. Il possente cavaliere si ritrovò a pensare con nostalgia alla bambina dalle trecce bionde appuntate alla nuca che suo padre gli aveva indicato con discrezione dall’alto dello spalto del Re molti anni prima, informandolo in tono orgoglioso che quella era la figlia del Duca delle Isole, la promessa sposa di suo fratello, il Principe Aglovale. All’epoca Percival non aveva avuto troppo interesse per quella ragazzina bionda e lievemente lentigginosa, ma ora ne rimpiangeva l’innocenza.

Scacciando silenziosamente il proprio rammarico, Percival volse il proprio sguardo a Merlin, che ancora stava ritto in piedi accanto al suo sovrano, e dovette imporsi di mantenere tutta la propria padronanza di sé per impedirsi di imprecare. Gli occhi del giovane valletto erano spalancati dalla sorpresa, dalla confusione: tuttavia il guizzo di speranza che li animava era chiaramente percettibile, almeno quanto il desiderio misto a sofferenza con il quale fissava il sovrano. Speranza, desiderio che finalmente Arthur sapesse? No, era assurdo, rifletté Percival, i pensieri così vorticanti nella sua mente da annebbiarla. Merlin si era sempre prodigato oltremisura per nascondere ad Arthur la sua natura magica, con tutta probabilità in attesa del momento più appropriato a una rivelazione di tale portata. Figurarsi poi se avesse voluto confessare non solo di essere un mago, ma di essere Emrys, lo stregone che tutto il mondo della magia attendeva dall’alba dei tempi, colui che avrebbe portato pace e concordia sulle terre di Albion! In un attimo di panico genuino Percival si sentì smarrito; ma quando Merlin posò con fermezza un passo dinanzi a sé, iniziando a sollevare le mani come a voler sfiorare la schiena robusta e leggermente arcuata di Arthur, il cavaliere comprese.

Non stava fissando Arthur. Stava fissando Blanche. Che lo fissava di rimando. D’improvviso, la mente di Percival non dovette più consumarsi alacremente per comprendere gli avvenimenti che negli ultimi tempi erano rimasti inspiegati e inspiegabili. Le allucinazioni di Merlin nei sotterranei del castello. Il desiderio carnale, pungente e tormentoso, che lo aveva risvegliato quella stessa mattina, circuendolo a mo’ di avvertimento.

Senza indugiare oltre il cavaliere avanzò, aggirando il seggio ornato di Arthur con due falcate ampie e rapide. Fu l’istinto, non la ragione, a guidarlo: e se ne pentì in parte quando si rese conto che lo spostarsi della sua mole aveva sì provocato sorpresa tra tutti gli astanti, che si erano rivolti verso di lui, ma che d’altro canto non aveva una ragione plausibile per essersi mosso così repentinamente, andando inoltre a cozzare con la testa, in modo del tutto involontario e fragoroso, contro uno dei due lucernari che incombevano sulla tavola e che illuminavano con un languore palpitante le carte dispiegate. Il colpo fu abbastanza secco, considerato l’impeto con cui il cavaliere si era mosso, e i punti gialli e violacei che si diffusero liquidi sul suo occhio sinistro, accompagnati da una pulsazione dolorosa sulla tempia, glielo dimostrarono.

«Percival…?» La voce di Arthur risuonò impensierita piuttosto che irritata, la cadenza interrogativa che esprimeva benissimo il suo sconcerto.

«Io… volevo vedere meglio le carte, Sire, il percorso» buttò là il cavaliere, portandosi una delle grandi e nerborute mani alla testa, il tono a metà tra il riottoso e l’imbarazzato. Aveva proferito la prima, sciocca scusa che gli era venuta in mente, e ora avrebbe voluto farsi piccolo per la vergogna: ma se nel caso di altri era già impossibile, figurarsi nel suo, un gigante!

Arthur gli scoccò un’occhiata desolata: «Avresti semplicemente dovuto chiedere, non te l’avrei negato».

Evidentemente il Re si stava interrogando sulla sanità mentale del suo cavaliere, rifletté Percival: un colosso che apriva bocca soltanto di rado, per di più soltanto per pronunciare frasi brevi e ponderate, che solitamente tendeva a tenersi in disparte, proprio a causa della sua stazza inusuale, all'improvviso si era messo ad agire con leggerezza, senza un motivo valido, cercando di distruggere i lampadari del castello e accampando giustificazioni eccentriche!

Tuttavia, da quanto fu in grado di scorgere a dispetto del martellare della sua tempia, il contatto visivo tra la Sacerdotessa e Merlin si era interrotto. Il giovane valletto aveva dipinta sul volto la medesima espressione di doloroso e crucciato disorientamento che aveva avuto nei sotterranei del castello tempo addietro: era indietreggiato di scatto e si era guardato intorno in modo cauto e febbrile insieme, come temendo che qualcun altro nella sala si fosse accorto del suo stato di rapimento. Percival pensò che era una precauzione inutile, considerato soprattutto il fatto che i presenti avevano appena avuto il diletto di essere intrattenuti da un gigante dal piede pesante e la battuta per nulla pronta.

«Emrys è il più potente stregone di tutte le ere trascorse, imminenti e future, mio signore» esordì allora Blanche, come se volesse ad ogni costo riprendere il discorso dove era stato in malo modo interrotto, nonostante il pathos fosse stato irrimediabilmente infranto. «Le mie genti attendono il suo arrivo con impazienza e con fervida speranza: con il re della Stirpe della Testa del Drago, Emrys è destinato a riportare pace, unione e prosperità nelle terre di Albion».

Arthur la fissò frastornato; poi replicò, adombrandosi: «Temo che le tue genti non abbiano interpretato i segni correttamente stavolta, mia signora».

Gli occhi ambrati della Sacerdotessa baluginarono di fronte a quel vacillamento: «Dovete ascoltarmi, Re Pendragon. Abbiate fede».

Il sovrano scosse il capo, con fare rassegnato, ma fu con voce lucida che affermò: «Quale stregone vorrebbe mai allearsi e dare la sua fiducia al figlio del Re Purgatore? E il popolo non comprenderebbe mai una tale alleanza, mia signora: e un Re non è tale senza l’appoggio dei suoi sudditi».

«Un Re non è tale se non ha il coraggio di seguire il suo cuore, Arthur Pendragon» replicò lapidaria la Sacerdotessa delle Mele. «Gli antichi possono sbagliare, questo è indubbio. Ma la Cometa Vermiglia a tre punte che ha preceduto la vostra nascita, mia signore, aveva un unico possibile significato: voi siete il Re che riporterà con Emrys la pace ad Albion» La donna fece una pausa e poi recitò, in tono trasognato: «E in un lampo sorgeranno i mari e le ceneri degli antichi verranno ristabilite».

«Nessuno mi ha mai parlato né di un tale fenomeno né di una tale profezia!» rispose allora Arthur con forza, sulla difensiva, per poi posare gli occhi sull’anziano medico di corte, che si limitò a scuotere il capo in segno di ignoranza.

La donna addolcì allora l’espressione e aggiunse in tono condiscendente: «Mio signore, non è il talento più grande dei mortali quello di frugare il cielo e di interpretarne i segni. Essi sono incapaci di elevarsi così in alto e di abbandonare i loro affari terreni» Ritornò seria. «Arthur Pendragon, se non avrete fede non potrete mai posare piede sul suolo dell’Isola delle Mele né compiere il sacrificio che dovete dalla Coppa. E allora le conseguenze per voi e il vostro regno saranno terrificanti».

Il medesimo silenzio che aveva avvolto la sala poco tempo prima piombò di nuovo, sempre opprimente, e sempre sfaccettato. La Sacerdotessa non parve curarsene: con grazia si lisciò le increspature della veste color zafferano e si riaggiustò la cappa di lana grezza sulle spalle, cercando di sistemare gli effetti dell’impeto con cui prima aveva domato i desideri del Re e poi riferito la profezia della Cometa Vermiglia. Fece un inchino appena accennato, evidentemente di cortesia, ad Arthur, il pendente che sfavillava nel tenue chiarore dei lucernari: «Con il vostro permesso, mio signore, mi ritirerei presso la mia tenda. È mio desiderio equipaggiarmi in modo conveniente per la spedizione».

Arthur le prese la mano e delicatamente vi posò un bacio: «Come credete, mia signora».

Quando la Sacerdotessa ebbe varcato il portone con un fruscio di vesti e un rumore attutito di calzari ricamati, Arthur si volte verso Gaius e ordinò, in tono leggermente scosso: «Gaius, per cortesia, raggiungi il bibliotecario reale. Voglio che consulti tutti i documenti degli archivi e che trovi il maggior numero di notizie, anche esigue, sulla Cometa e su questo fantomatico Emrys».

Il medico di corte s’inchinò con fare riverente e, non prima di aver scoccato a Merlin un’occhiata d'intesa, rispose con voce misurata: «Sarà fatto, Sire».

«Eccellente» Arthur gettò uno sguardo sulle carte geografiche e sul percorso ivi tracciato. «Leon, Percival, controllate per bene la nostra attrezzatura ancora una volta. E andate a riprendere Gwaine alla taverna: mi sembra indecente anche per lui ubriacarsi a quest’ora del mattino» I cavalieri avevano appena fatto in tempo a chinarsi e a avviarsi verso l’uscita che il Re aggiunse, l’ombra di un sorriso malizioso perfettamente visibile sulle sue labbra ben disegnate: «Ah, e Percival. Attento ai lucernari» Rise di gusto quando il gigantesco cavaliere grugnì in assenso; poi si rivolse al suo valletto: «Merlin, controlla il mio vestiario e fa in modo che la lama della mia spada sia perfettamente arrotata. Provvedi inoltre che non venga disturbato: vado a cercare la Regina».
 

*  *  *
 

Il cortile interno del palazzo, con i suoi cespugli frementi e il delicato profumo di fiori reso ancora più intenso dalle recenti piogge, era il luogo che Guinevere aveva più caro in tutto il palazzo reale. La Regina, che indossava un semplice abito color malva dal tessuto lucido e pesante – Arthur aveva sempre amato quel colore su di lei, diceva sempre che si sposava perfettamente con la sua carnagione olivastra e con il mogano intenso dei suoi capelli – era intenta al ricamo, seduta su una sedia imbottita di cuscini di piume. Il Re era stato molto sollecito, in quegli ultimi giorni, e aveva esaudito ogni sua richiesta: tuttavia Guinevere non riusciva a riacquistare quell’allegria venata di dolcezza e di pacatezza e quell’ottimismo che fin a poco tempo prima erano stati i suoi pregi, le sue peculiarità più apprezzate.

Le caratteristiche che la rendevano cara agli occhi di Arthur stavano svanendo. Sarebbe scomparso anche il suo amore?

Le sue piccole dita abili stavano ricamando, sulla superficie lucida di un lenzuolo, il drago fiero e rampante dei Pendragon. Era un lavoro semplice e relativamente rapido, per una ricamatrice esperta. Gwen aveva appreso da sua madre, figlia di sarti e tessitori, i trucchi per eseguire i ricami più belli di tutta Camelot: chiunque li contemplasse poteva giurare di riuscire a scorgere, tra i punti che componevano draghi, unicorni, fiori e soli, dei guizzi, che rendevano vive le figure ricamate di fili cangianti. Eppure sarebbe bastato un minimo errore per rovinare senza rimedio un ricamo che fino a pochi istanti prima era stato iridescente e perfetto. E Guinevere non poteva esimersi dal pensare che l’amore che la legava ad Arthur aveva tutte le caratteristiche di un ricamo che aveva avuto un potenziale di perfetta e completa felicità, mandato poi in frantumi dalle mani pesanti di un ricamatore alle prime armi. Ma chi era quell’essere maldestro? Il Fato? Arthur? Lei stessa?

Abbassò gli occhi sul suo lavoro. Il piccolo drago era sfolgorante d'oro, gli artigli aguzzi, la coda ritta con fare imperioso. Aveva iniziato quel ricamo quasi un anno prima, quando tutti i suoi sogni parevano essersi realizzati. Il suo caro Arthur era finalmente suo marito: nulla e nessuno li avrebbe potuti separare. O così almeno aveva creduto allora.

Improvvisamente fissò l'ago al tessuto, affinché non potesse sfuggire, e appoggiò il ricamo di malagrazia sul muricciolo accanto alla seggiola. Si alzò, inspirando profondamente il profumo dei fiori e delle erbe che la circondavano – menta, mughetto, salvia, alloro e edera – come se ciò potesse lenire il dolore e il tormento del suo cuore. Si avviò con passi lenti, pesanti, verso giardino, nel cui centro una fontana riccamente ornata a motivi di draghi e di gigli emetteva un mesto getto d'acqua. Il liquido grigiastro scorreva stancamente lungo le figure marmoree, senza guizzi di vivacità e freschezza. Guinevere distolse lo sguardo da quello spettacolo desolante; si strinse lo scialle di lino intorno alle spalle e si chinò con grazia – o almeno tutta quella di cui era capace, data la fiacchezza che ancora le gravava sulle membra – per raccogliere una foglia d'edera, di cui osservò le venature chiare alla tenue luce del sole, che ora brillava alto nel cielo.

Si chiese se la riunione del concilio fosse già conclusa. Arthur era stato molto vago a riguardo; accampando giustificazioni e scuse di diverso genere, aveva sviato l'attenzione della moglie. Ma a giudicare dal fermento che aveva animato il castello, la Regina aveva indovinato che preparativi per un qualche evento erano in corso: forse un'altra giostra o un altro banchetto in onore di quella Sacerdotessa che, a detta di tutti coloro che avevano assistito all'incantesimo, le aveva usato un grande atto di bontà riportandola dal Regno dell'Oltre. Guinevere strinse la foglia d'edera tra le dita in modo così convulso da ridurla in briciole di un verde carico e risentito.

A Guinevere non piaceva sentirsi in debito con una donna come quella. Nonostante non nutrisse sentimenti ingiustificatamente ostili verso la magia, Guinevere era consapevole che Blanche non era una creatura magica qualunque. In quanto Sacerdotessa, apparteneva a quell'Antica Religione e a quell'Antico Ordine che avevano condotto Morgana oltre le soglie della ragione, condannandola ad una vita di solitudine e livore. Senza contare che ricordava perfettamente l'effetto che una donna poteva suscitare in un uomo attraverso i propri stratagemmi di fattucchiera: così come la Lamia era riuscita a piegare al proprio oscuro fascino i migliori cavalieri di Camelot, quella Blanche era riuscita a mettere sotto scacco l'intera corte con le sue parole argute e diplomatiche e quella risata tra l'argenteo e l'arrochito. Gwaine ne era un esempio lampante: da sempre un uomo e un amante facile al corteggiamento e all'amore che s'infuocava ancor prima di consumarsi, dinanzi alla Sacerdotessa era divenuto docile come un agnellino. Nessuna delle cortigiane – che abbondavano sia nella corte che nella Città Bassa – era riuscita a conquistare la sua attenzione da allora: era come sotto l'influsso di un incanto indissolubile. Anche Percival, solitamente così compito e serio, mostrava segni perlomeno d'inquietudine quando la Sacerdotessa era nei pressi. Arthur stesso pareva pendere da quelle labbra rosee, come se un Re qual era dovesse avere il consenso d'una forestiera per prendere le sue decisioni! Guinevere era certa che, per una ragione a lei oscura, la Sacerdotessa stesse incantando gli uomini più valenti di Camelot.

Forse per prendere il mio posto? Per mettere un erede dal sangue magico sul trono di Camelot, per beffare l'opera folle di Uther? furono le domande che, silenziose, si modularono sulle sue labbra. La Regina fu pervasa da un panico pungente e improvviso. Osservò l'edera sbriciolata sul suo palmo: se soltanto fosse stato altrettanto semplice sradicare l'influsso che quella donna aveva su Arthur e sui cavalieri! Ma, al pari dell'edera, quel fascino pareva avere radici robuste, e estirparlo sarebbe stato un inutile gesto, condito inoltre da incresciosi tormenti. Pensò con sollievo che Merlin, come già accaduto con la Lamia, sembrava essere immune a quelle malie e, anzi, diffidente nei confronti della nuova venuta. Avrebbe potuto senz'altro chiedergli avviso...

«Guinevere...?»

La voce amabile e esitante di Arthur la raggiunse, facendola sobbalzare. La giovane Regina si affrettò ad avvicinarglicisi, la veste che a contatto dell'erba corta del chiostro produceva un fruscio dolce e modulato come quello della sua voce quando pronunciò, sporgendosi per baciargli la guancia ruvida di barba non fatta: «Marito».

Arthur le prese la mano, un gesto improvviso, seppur delicato. Guinevere sobbalzò a quel tocco così inaspettato, che le portava alla mente momenti vividi, in cui Arthur aveva sostituito la dolcezza con la medesima urgenza che aveva pervaso quel gesto... Scacciò quei pensieri stringendo a sua volta la grande mano di suo marito. Si lasciò guidare remissivamente alla seggiola, dove Arthur la fece sedere, per poi accomodarsi a sua volta sul pericolante muretto del chiostro.

«Come stai oggi, Guinevere?» le chiese lui con fare quasi casuale, cauto, come se temesse di far scoccare una scintilla che avrebbe potuto scatenare un pandemonio.

Guinevere s'infervorò e si strinse le mani in grembo: sembrava Gaius, con quell'accondiscendenza tipicamente maschile, quella solerzia troppo vergata di cortesia per essere ritenuta sincera!

«Va sempre meglio, Arthur» replicò suo malgrado con tiepida dolcezza. «Gaius mi ha prescritto un infuso di zenzero contro la stanchezza. Mi è stato di molto aiuto. Ti ringrazio...»

«Hai tutto ciò che ti occorre?» replicò Arthur con improvvisa e inspiegabile irritazione, quasi avesse preferito che lo accusasse di scioperataggine.

«Arthur» rispose Guinevere, sempre modulando la voce con dolcezza e pazienza, posando di nuovo la propria mano su quella del marito. «Sei stato davvero premuroso in questi giorni e io te ne sono infinitamente grata» Poi, improvvisamente, sentì se stessa pronunciare queste parole, in tono quasi invitante: «Soltanto tu mi manchi, marito mio. Vorrei che visitassi le mie stanze, stasera: dobbiamo passare del tempo insieme».

Quando l’aura di irrealtà che aveva pervaso queste parole svanì, Guinevere si rese conto di aver pronunciato le parole che Arthur aveva più temuto. Il sovrano si affrettò a scostare la propria mano da quella della giovane moglie e a portarsela sulle cosce muscolose.

«Nel tuo stato, Guinevere, credo sia meglio attendere, prima di compiere avventatezze» Il tono di Arthur era apparentemente piatto e ragionevole, tuttavia venato di un sentimento più profondo e personale: pietà. Così lo comprese Guinevere, non senza che le guance le s’imporporassero d’imbarazzo e incredulità: suo marito aveva compassione di lei!

«Non potremo mai avere un bambino, Arthur, se non tentiamo di…» cominciò, con evidente affanno, ma Arthur la interruppe con voce spenta e monocorde: «Non avremo mai un erede. Non lo concepirai né questa notte, né negli anni che verranno».

La mortificazione di Guinevere divenne vibrante, intensa, tanto da sfociare in un tono di voce più stridulo del solito, che spinse alcune colombelle, che finora, celate alla vista, avevano tubato dolcemente negli intarsi profondi della trabeazione, a volare via con uno sdegnoso frusciare d’ali: «Gaius non ci ha negato ogni speranza!»

«Ma la Sacerdotessa dell’Isola delle Mele lo ha fatto» ribatté Arthur in quel tono testardo e definitivo che adottava quando non intendeva più essere contraddetto. «Lei vede il futuro, Guinevere!» aggiunse in tono quasi lamentoso, a mo’ di giustificazione. «Mi dispiace».

«E ti fidi di una donna, una strega, che hai appena conosciuto?» gridò Guinevere, senza più frapporre, tra i suoi pensieri e le sue labbra, la barriera delle delicatezze e delle cortesie femminili che era solita impiegare. «E che altro ti ha rivelato? Di lasciarmi e di rimpiazzarmi per avere l’erede tanto desiderato?» Fece un sospiro esasperato, mentre lacrime salate le premevano contro le ciglia. «Arthur, quella donna è un’incantatrice, potrebbe persuaderti a credere a qualunque cosa attraverso la magia. Guarda come ha incantato i cavalieri! Addirittura Percival pende dalle sue labbra, come se fossero vecchi intimi, anziché perfetti estranei! Sii cauto».

Arthur scosse il capo, disorientato da quello sfogo inaspettato, poi replicò, con una freddezza che non gli era propria, ma che si manifestava quando riacquistava quell’orgoglio che tanto era stato tipico di Uther: «La Sacerdotessa non ha suggerito nulla del genere, Guinevere. Mi ha invece pregato, in virtù dell’amore che ci unisce, di sopportare la nostra sfortuna e di avere fede. Dove sono finite la tua fiducia e la tua avversione ai pregiudizi? È inaccettabile che la Regina di Camelot sia ostile al Popolo Magico, proprio quando con tutte le mie forze sto cercando di fare ammenda per le azioni di mio padre!»

La Regina rispose con pacata durezza: «Non esistono soltanto persone buone, né nel Popolo Magico, né in quello scevro di ogni magia! Stai facendo la cosa giusta, Arthur, cercando di rendere giustizia a coloro che sono stati iniquamente perseguitati da Uther. Ma nella Sacerdotessa mi è impossibile riporre fiducia senza riserve» Inspirò lentamente l’aria profumata del cortile: «Arthur, ti prego, fa controllare i cavalieri da Gaius, prima che cada anche tu sotto l’incanto di quella Sacerdotessa. Io so cosa si prova ad essere incantati, potrei…»

Seppe all’istante di aver toccato un nervo scoperto. Arthur si alzò di scatto, con un impeto talmente forte da quasi squarciare il mantello scarlatto, impigliatosi in uno spigolo del muretto: «E questo che ti spinge a formulare queste accuse? Ancora quella storia del fantomatico incanto che ti avrebbe spinto tra le braccia di Lancelot? Temi che voglia ignorare i tuoi timori sulla Sacerdotessa solo per farti un torto? Per finire incantato e tradirti a mia volta?» Si rabbuiò e la sua espressione fosca contrastò profondamente con l’oro dei suoi capelli, infiammato dal vivace sole del mattino: «Non riapriamo vecchie ferite inutilmente, Guinevere, soltanto per rimpiangere di averlo fatto» Tornò a sedersi sul muretto, aggiustando la spada che gli cingeva il fianco, gli anelli d’oro e rubini che scintillavano quieti e letali sulle sue dita.

Improvvisamente, Guinevere comprese. Il mantello scarlatto; la spada che aveva sfilato senza sforzo dalla roccia appesa alla cintura; gli anelli a forma di drago del Tesoro della Corona. Ora che osservava il marito, poté accorgersi senza difficoltà del collare d’oro massiccio che gli poggiava maestosamente sul petto ampio, sulle spalle larghe. Lo squisito motivo a draghi che si attorcigliavano era incandescente alla luce del sole; i rubini del pendente, grossi e squadrati, emettevano un sinistro bagliore sanguigno.

«Perché stai per convocare il Gran Concilio?» chiese Guinevere al marito in tono rotto, scandendo bene ogni parola, come se temesse che porre quel quesito con maggior speditezza l’avrebbe fatta scoppiare in singulti. Aveva riconosciuto quelle insegne, con le quali Arthur era solito adornarsi per mostrarsi ai Maestri dei Mestieri e ai membri della Guardia Reale in occasione di comunicazioni di vitale importanza per Camelot.

«Ero venuto proprio per dirtelo» replicò Arthur con evidente mestizia. «Domani, alle prime luci dell’alba, mi metterò in viaggio per raggiungere la Terra dei Laghi».

Guinevere balzò in piedi a sua volta e gli posò le mani avvolte in pugno sul petto: «Non voglio che tu te ne vada! Non puoi lasciarmi…»

Arthur si scostò da lei con gentilezza; le carezzò una guancia, una carezza che pareva quella di un pastore che voleva convincere, ingannandola, una capretta bizzosa a desistere dal suo belare disperato: «Sono un uomo d’onore, Guinevere. Ho promesso che avrei restituito la Coppa della Vita alla Signora dell’Isola delle Mele e che avrei così compiuto il sacrificio richiesto in cambio della tua guarigione. E così farò» Un’altra carezza per rabbonire la giovane tremante che gli stava dinanzi.

«È stata la Sacerdotessa a chiedertelo?» chiese improvvisamente la Regina in tono beffardo e disperato insieme.

«No. È stata la Coppa a esigerlo» la corresse Arthur, con molta più pazienza di quella che in realtà possedeva. «Non stare in ansia, mia Regina. La nostra separazione non si protrarrà per più di tre cicli di luna. Sarò accompagnato da una scorta di valenti cavalieri pronti come sempre a difendermi».

Guinevere non parve soddisfatta e insistette, stringendo le labbra, le dita tremanti, segnalando tutta la propria incertezza passando il peso da un piede all’altro: «E dalla Sacerdotessa, immagino».

Arthur scosse il capo, la stanchezza incisa sulla sua espressione desolata: «Ho promesso che l’avrei riaccompagnata a casa. È il dovere di ogni buon cavaliere rispettoso del codice» Posò un bacio sulla fronte di Guinevere, che si rilassò percettibilmente: «Devi rimetterti in forze, Guinevere. E quando sarò di ritorno, forse potremo avere il nostro bambino».

«Hai appena detto che è impossibile!» reagì la Regina in tono disperato, non scostandosi tuttavia dal corpo solido e rassicurante del marito, lacrime cristalline che gli imperlavano la giubba.

«La Sacerdotessa l’ha affermato, è così. Ma forse la Somma tra le Sacerdotesse potrebbe essere disposta ad aiutarci».

Sorridendo tra le lacrime, Guinevere annuì, sentendo un confortante calore svilupparsi all’altezza del cuore, mentre Arthur la stringeva forte e le colombe avevano ripreso a tubare nella quiete del mattino.


*  *  *
 

Quando Arthur giunse nelle sue stanze, si lasciò cadere, stremato, sulla sedia foderata di velluto cremisi che stava leggermente scostata dallo scrittoio, come se lo attendesse con ansia.

Si era rivelata una giornata intensa, frenetica. La spedizione verso l’Isola delle Mele aveva trovato una forte opposizione nei membri del Gran Concilio. I Maestri dei Mestieri non avevano mancato di sottolineare quanto fosse sconsiderato, da parte sua, lasciare Camelot senza un Pendragon che vivesse nel palazzo, a simboleggiare che, nonostante l’assenza del corrente monarca, la stirpe era ancora presente sul territorio, a monito per tutti coloro che, con malizia, si fossero illusi del contrario. Arthur aveva obiettato che Guinevere, in quanto sua regale consorte, poteva agevolmente ricoprire quel ruolo di rappresentanza; con un moto di delusione e stizza però dovette arrendersi quando i Maestri dei Mestieri gli risposero che non avrebbero accettato un compromesso del genere.

Ora, nel silenzio tombale delle sue stanze, Arthur poteva sentire rombare il proprio sangue dalla testa alle gambe, un suono martellante. Non hanno ancora accettato Guinevere come legittima consorte di un Pendragon! pensò il giovane sovrano. Per quanto potesse esserne amareggiato, doveva ammettere di condividere e comprendere quella valutazione dei fatti: non avendo partorito l’erede che le si esigeva, Guinevere non poteva sperare nell’appoggio dei Maestri, che perlopiù erano una schiatta affaccendata nei commerci, munita perciò di una concretezza che non si sarebbe fatta muovere a compassione dalla disperata situazione intima dei sovrani. I Maestri avrebbero dato il loro appoggio soltanto a una figura maschile, un condottiero che s’intendesse di dazi, commerci e armi, e che potesse impegnarsi anima e corpo nella difesa della comunità in assenza del sovrano. Considerati inoltre i tumulti provocati negli ultimi tempi dalla presenza dell’accampamento Druido, Arthur accettò la proposta dei Maestri di nominare un luogotenente. Sir Leon, in quanto membro più anziano della Guardia, fu scelto senza esitazione per ricoprire quel ruolo. Il cavaliere riccioluto aveva a stento trattenuto lacrime di orgoglio e felicità quando il suo Sire l’aveva investito della sua missione, appuntandogli una spilla d'oro e rubini sul petto, poiché, implicitamente, Arthur gli stava affidando il compito molto più delicato e personale di proteggere la Regina, di vegliare sulle sorti della famiglia reale in sua assenza. E di ciò, Leon era visibilmente onorato. La gestione amministrativa e politica del regno invece, come sempre nei periodi di assenza del sovrano, sarebbe divenuta un’incombenza di Gaius e dell’anziano bibliotecario e genealogista Geoffrey di Monmouth. La Guida Iseldir invece aveva acconsentito, su richiesta del sovrano, di badare affinché i membri della Famiglia Druida si comportassero in maniera consona: era una mera formalità, naturalmente, perché i Druidi erano un popolo pacifico, estraneo a ogni barbarie; necessaria tuttavia perché il diffidente popolo di Camelot accettasse la permanenza del Popolo Magico entro i suoi confini. Arthur non ebbe in nessun caso bisogno di consigli da parte di terzi né di attimi per riflettere sulle sue scelte; e se si fosse fermato a riflettere, forse, avrebbe compreso che qualcosa in lui stava lentamente mutando.

Il sovrano aveva inoltre deciso, senza ripensamenti, di mettersi in viaggio nel modo più discreto possibile: il drappello sarebbe stato poco numeroso, per attirare meno l’attenzione, e i vessilli di Camelot, così come i mantelli rosso e oro dell’uniforme della Guardia Reale, sarebbero stati rimpiazzati da un equipaggiamento più sobrio e modesto, decisamente meno appariscente, atto a celare la sua identità di monarca a eventuali pellegrini. I rimanenti cavalieri della Tavola Rotonda e Merlin, che ricopriva al solito l’ingrato ruolo polivalente di servitore, cuciniere e medico, si sarebbero uniti alla spedizione. Tali deliberazioni avevano incontrato lo sdegno dei membri anziani della Guardia Reale: tuttavia, dopo lunghe discussioni, Arthur era riuscito a spuntarla.

Mentre si sfilava con un gesto convulso di piedi gli stivali di cuoio spesso, il giovane sovrano si ritrovò a pensare, con nostalgia, che da principe ereditario aveva avuto senza dubbio un potere decisionale maggiore rispetto all’epoca presente, in cui la pesante corona di perle e gemme traslucide gravava sul suo capo. Ora doveva giustificare ad ogni membro della corte e del regno le proprie decisioni: alla Guardia Reale, a Gaius, ai Maestri dei Mestieri, a Geoffrey di Monmouth, ai cittadini, ai cavalieri, a Guinevere…

D'improvviso un bisogno indefinito, serpeggiante, lo percorse. Voleva vedere Merlin. Probabilmente l’unica persona sulla faccia del mondo conosciuto alla quale non avrebbe dovuto giustificare le proprie decisioni, perché ne conosceva i motivi reconditi ancora prima che il sovrano aprisse la bocca.

Arthur sorrise fra sé. Inspirò profondamente l’aria pervasa da un tenue profumo di aghi di pino e poi urlò a pieni polmoni: «Merlin!»

Qualche istante dopo, con un terribile clangore d’accompagnamento, Merlin comparve ansimante sulla soglia delle stanze regie. Il fazzoletto rosso si era sfilato dalla casacca e cadeva di sghimbescio sul petto sottile che si abbassava e alzava in un movimento frenetico, irregolare. Il valletto stringeva una spazzola in una mano e un secchio colmo di sabbia nell’altra.

«Dove diavolo eri andato a finire?» chiese Arthur con studiata noncuranza, la tipica e ostentata aria villana impressa nel suo viso dai lineamenti scolpiti.

Merlin annaspò e rispose: «La vostra cotta di maglia e la vostra armatura vanno lucidate, Sire».

Ad Arthur non poté sfuggire l’enfasi posta da Merlin su quella titolatura, Sire. Il tono del valletto era privo della solita gaiezza, l’esuberanza delle sue fattezze delicate e fanciullesche sostituita da una maschera di stanchezza. Arthur si sentì lievemente in colpa, come sempre gli accadeva, nonostante la sua farsa di Re incontentabile gli impedisse di dar voce alla propria apprensione. Improvvisamente si sovvenne di quanto tesi erano stati i rapporti tra lui e Merlin in quegli ultimi mesi. Capì che Merlin, di solito così disposto a dimenticare ogni regio oltraggio alla sua persona, stavolta doveva averne avuto abbastanza. E per questo trascorreva la maggior parte del suo tempo con Percival, sussurrò una voce insolente nella mente del biondo sovrano. Perché la questione gli desse così tanto fastidio, Arthur proprio non avrebbe saputo spiegarselo in maniera razionale. Il suo stomaco, che di solito mostrava eccellente resistenza alle sue ansie e emozioni, si contorse sgradevolmente al pensiero di Merlin e Percival che... che facevano cosa? Si bevevano una pinta al Rising Sun? Che scempiaggine!

«E che mi dici dei miei stivali, eh?»

Lo stomaco di Arthur si accartocciò come le pergamene usate e grattate all’usura di Geoffrey di Monmouth. Come aveva potuto uscirsene con un’affermazione del genere, quando era ben altro che voleva da Merlin? Voleva il suo appoggio, la sua approvazione, il suo perdono!

La risposta a tono non si fece attendere: «Se non foste un asino quale ahimè siete, sapreste di certo che gli stivali non si lucidano con la sabbia, ma con la cera».

Arthur afferrò il primo oggetto che gli capitò a tiro – un pennino spuntato – e lo lanciò contro il suo servitore: il pennino andò a sbattere contro il secchio che Merlin, con prontezza di riflessi, si era portato dinanzi al corpo per evitare di essere colpito in pieno petto. Fiero della propria agilità, Merlin fece esattamente ciò che Arthur aveva sperato che facesse: rise. Per il sovrano quel suono argenteo e sincero fu come balsamo per tutte le ferite – al cuore e all’orgoglio – che aveva ricevuto impietosamente quel giorno.

«Merlin» ordinò poi, in tono di melodrammatica autorità, dando le spalle al valletto, «Aiutami a togliere le onorificenze. E non essere goffo come al tuo solito, sono preziose» aggiunse, quando sentì le mani di Merlin tremare leggermente vicino alle sue spalle, rendendo l’aria crepitante.

Arthur si ritrovò a trattenere scioccamente il fiato quando finalmente le mani di Merlin, delicate, si posarono su di lui, facendo scattare le fibbie dorate sulle sue spalle e rimuovendo la sottile catena di maglia. Merlin lo aggirò con passo felpato per sfilargli più agevolmente il mantello scarlatto, che mandava lampi infuocati alla luce dei candelabri, e Arthur si rese conto – dandosi nel contempo dello stupido, beninteso – di quanto sinuoso fosse il fisico del valletto e felpato il suo passo quando non si muoveva con la grazia di un cavallo da tiro nella camera del Tesoro Reale. La familiare sensazione di disagio tornò ad attanagliare lo stomaco del sovrano, strappandogli un mormorio di insofferenza e costringendolo ad abbassare il capo sul petto.

«Dovete stare ritto, Sire, o non riuscirò mai a spogliarvi» La voce modulata e gentile di Merlin lo rampognò bonariamente.

Arthur sollevò lo sguardo, incontrando quello azzurro e scintillante come la superficie del Lago del valletto, che bofonchiò soddisfatto, mentre rimuoveva le spille che tenevano il collare fermo sulle spalle. Il sovrano pensò che, se Merlin avesse saputo il vero motivo per il quale con urgenza aveva dovuto sollevare lo sguardo da terra, lo avrebbe ritenuto un pazzo, incline perlopiù a fantasie innominabili.

Le gambe di Merlin erano molto diverse da quelle di Guinevere. L’osservazione era insolita, tuttavia gli si era parata dinanzi con chiarezza allarmante. Le gambe del suo valletto erano sottili, dalle caviglie alle cosce, e piene di mistero, sempre celate dai calzoni di tessuto grezzo. Ciò che lo colpiva di più, tuttavia, erano l’eleganza e la tranquillità con cui Merlin poggiava su quelle gambe: i suoi movimenti erano privi di fretta, nonostante il suo fisico minuto gli desse la possibilità, all’occorrenza, di scattare con impressionante rapidità. I piedi erano ben piantati a terra nei calzari di cuoio scuro, e il valletto non soleva mai, nemmeno nei momenti di maggior imbarazzo o pericolo, passare il proprio peso da una gamba all’altra, come invece soleva fare Guinevere durante le loro liti, ormai frequenti e spesso futili. Sì, le gambe di Guinevere erano prive di mistero e di grazia.

Merlin è straordinariamente stabile, rifletté Arthur, osservando i capelli scuri del servo, lucidi dal riverbero della luce delle candele, che era ora chino sul suo petto, mentre si apprestava a sganciare, con meticolosità, gli anelli del collare. Merlin è fedele, aggiunse il sovrano fra sé, e si irrigidì pensando all’impudenza con la quale Guinevere quella mattina aveva fatto riferimento a Lancelot.

«Qualcosa non va, Sire?» chiese subito Merlin, allarmato dal contrarsi dei muscoli del petto che aveva gonfiato per un istante il tessuto vellutato della casacca di Arthur.

«Va tutto bene, Merlin, continua e basta» replicò il sovrano in tono secco. Rimase oltremodo sorpreso quando sentì che le dita di Merlin, anziché occuparsi di sganciare definitivamente il collare dal suo petto come ordinato, si erano fermate sulle gemme e i motivi aurei a dragoni che lo componevano, sfiorandoli quasi con venerazione. Con affetto, persino.

Quando parlò, la voce di Merlin aveva assunto quell’intensità incredibile cui Arthur poche volte aveva avuto il privilegio di assistere: le fattezze infantili del volto che ora si era alzato verso di lui erano andate perdute; gli occhi azzurri mandavano saette: «Cosa vi turba, Arthur?»

La mano bianca di Merlin era venuta a appoggiarsi sul petto del sovrano, come se volesse infondergli, attraverso quel semplice gesto, la calma serafica di chi lo compiva. Una voce parve risuonare nella mente di Arthur, femminea e invitante: Abbiate fede, Arthur Pendragon. Il sovrano fissò le labbra di Merlin, aspettandosi di veder formarvisi le parole che aveva udito. Ma le vide soltanto per quello che erano: labbra, sottili e rosee, appena dischiuse, umide.

Decise di non rispondere alla domanda che Merlin gli aveva posto, ma di continuare a trarre beneficio di quella confortante sensazione che tutto, nella vista del suo stabile servitore, gli trasmetteva. Appoggiò la fronte contro quella di Merlin, incerto; quando percepì la mano del servitore posarsi con fermezza alla sua nuca leggermente china, le sue dita sottili affondare nei capelli, come a volerlo sostenere e nel contempo rassicurare del perdono per tutti i torti che gli aveva inflitto, Arthur si sentì libero infine di far naufragare il proprio viso bagnato di lacrime e la propria disperazione nel collo di Merlin, che, in un silenzio interrotto solo dal crepitare delle candele, lo strinse forte.


 

Ed eccoci come di consueto alle prolisse precisazioni e note a fine capitolo (altrettanto prolisso e infinito, in parte per rifarmi del ritardo immondo).

Come anticipato, il capitolo è dedicato al triangolo Guinevere-Merlin-Arthur. In realtà la mia mente malata vuole farne un quadrato, ma non temete, attenderò il vostro nullaosta (ho appena finito di scrivere un lavoro su Eleonora d'Aquitania e il presunto adulterio da lei perpetrato con Raimondo di Poitiers ai tempi della Seconda Crociata, di cui ho studiato le implicazioni politiche per l'autorità regia di re Luigi VII soprattutto a seguito del matrimonio con Enrico II d’Inghilterra, e diciamo che di materiale per un quadrato ne ho a bizzeffe). In ogni caso, questo capitolo è dedicato a voi, fan del Merthur (e perché no, anche dell'Arwen, visto che sto cercando di tenere a guinzaglio la mia componente sadica e di rendere giustizia alla povera Gwennie). Ho voluto però dedicare uno spezzone più o meno intenso (e spero abbastanza divertente) anche al mio amato Percival. Attendo tuttavia con ansia la vostra opinione sul rapporto tra i nostri due beniamini: per me è stata dura – insomma, come si fa a rendere conto dell’amore tra i due quando quell’asino di Arthur ha avuto la geniale idea di sposarsi con Guinevere, infrangendo, a suo dire, ogni tradizione in nome del suo supposto amore eterno? – e non sono del tutto soddisfatta del risultato. Spero che Crownless abbia colto e apprezzzato l’accenno alla parte del corpo di Merlin che entrambe preferiamo in assoluto (strizza l’occhio con fare d’intesa)!

So che sono estenuante, ma di nuovo devo ripeterlo: il mio più grande timore è che nella serie la riunione tra popolo fatato e popolo scevro di magia sia rapida, indolore, troppo fiabesca per essere plausibile. Per questa ragione, amo molto riflettere sulle implicazioni politiche e culturali della questione, sui risvolti, anche truci. Da questa passione – spero condivisa da alcuni – nasce sia il rifiuto di Arthur di credere nella sua alleanza con Emrys (di cui ignora di essere già parte attiva), sia la sua riflessione sul consenso politico del regno.

Solitamente non chiedo mai “aiuti del pubblico”, perché penso che sia bello sorprendere i lettori, invece che farli scannare tra di loro per suggerimenti. Tuttavia vi chiamo in causa, o prodi, per la questione sopraccennata del quadrilatero. Farebbe troppo soap-opera? Mi trovo anche costretta a scusarmi per gli epiteti (specie per “Re Uther il Purgatore”, altisonanti e boriosi, ma io… li adoro troppo!

La citazione profetica proferita da Blanche è tradotta, in modo piuttosto grezzo per rimanere aderente, dalla versione originale delle profezie di Merlino contenute dal libro settimo dell’Historia regum Britanniae di Geoffrey di Monmouth, già presenti nelle sue Prophetiae Merlini: In ictu radii exsurgent aequora et pulvis veterum renovabitur. In inglese viene tradotto così solitamente: The seas shall rise up in the twinkling of an eye, and the dust of the ancients shall be restored. Dato che il mio inglese è dichiaratamente osceno e non sono proprio convinta della fedeltà (o almeno, a me suona poco: pulvis soprattutto a me ricorda più le polveri o le ceneri che le nebbie) vi prego umilmente di accettare la mia sghemba traduzione, perché anche se scorretta, sarà funzionale allo svolgimento della storia. Citerò spesso la profezia di Geoffrey, perché adoro davvero il suo linguaggio mistico e incantato, che può essere interpretato abbastanza liberamente. E la prossima volta sarà Merlin stesso a pronunciarne una!

La storia della cometa rossa a tre punte è frutto di una deformazione professionale. Stavo preparando un lavoro sull’arazzo di Bayeux, in cui compare la cometa di Halley, interpretata come segno di buona sorte per la conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore. L’ho inserita perché mi sembrava calzante: anche Uther è detto aver adottato il nome di “Pendragon” dopo aver scorto una cometa. Insomma, cometa di qui, cometa di là, basta che ce ne sia una! L’idea del chiostro, invece, non so da dove m'è venuta, ma sicuramente la fontana ha un'eco boccacciano (dall'Amorosa visione). Niente citazioni colte, soltanto... nell'Amorosa visione la fontana ha un ruolo simbolico, il che mi è sempre piaciuto, e l'ho perciò adottato (chiedo venia, Giovanni).

So che Guinevere pare un poco, come dire... castigata e puritana in questo capitolo. Ma nella mia mente questa è una conseguenza logica: insomma, non riuscendo a partorire un erede al trono, mi sono immaginata che potesse diventare più rigida, in un certo senso insicura, paranoica e invidiosa. Spero non sia stato troppo. La discussione tra lei e Arthur è piuttosto estrema: a mia difesa devo ammettere che ho preferito mantenere Arthur più o meno IC (ossia insicuro, testardo, passionale, cavaliere sino alla fine) che Guinevere. Non che io la veda come una “piagnona”, però ho pensato che visto il turbamento emotivo e fisico che le ho fatto patire potesse essere plausibile che perdesse un po’ le staffe. Volevo darle insomma quel po’ di quel carattere che, secondo me, la serie le ha negato, rendendola svenevole, docile come un agnellino e tutta un “Arthur! Io ti amo! Qualunque cosa faccia, ti amo!”. So inoltre che è stato meschino ritirare fuori la storia del povero Lance buonanima, ma dato che nella serie l’incanto del bracciale non è mai stato portato alla luce... Tutti mezzi più o meno leciti per cominciare a approfondire l’attrito a favore del Merthur! In ogni caso, chiedo nuovamente venia agli eventuali estimatori di Gwen.

Non do quasi mai anticipazioni sui capitoli a venire, dato che cambio linee guida continuamente, ma di sicuro ci sarà un innalzamento del rating.

Come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo. So che il capitolo è straordinariamente lungo e descrittivo, ma se siete arrivati fin qui, che dire… vi adoro più degli epiteti altisonanti!
 

Da ultimo: care/i lettrici e lettori – esonerati le/i mie/i fedelissime/i che mi lasciano sempre le loro stupende recensioni – vi prego: so che ci siete, o almeno lo spero. Lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, i vostri commenti. Insomma un vostro aiuto “verbale” mi spronerebbe, più che a scrivere, a migliorare, perché diciamocelo: le persone che scrivono e pubblicano, nonostante spesso dicano di farlo per sé, in realtà lo fanno per condividere qualcosa di sé con gli altri. Mi piacerebbe avere un dialogo con tutte/i voi!

 

A presto!

Quainquie

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Capitolo 8
*** Cap. VII - So darkness I became ***


Carissime/i,

So che il capitolo giunge di nuovo con qualche settimana di ritardo, ma si è rivelato per me un osso duro: in parte per la lunghezza – consistente – in parte per la mole di informazioni contenute, che ho dovuto addirittura elencare in un quadernetto per essere certa di non scordarne nessuna. Ma ora, eccolo qui! Ringrazio infinitamente i miei fedeli recensori: le vostre ultime recensioni, così particolareggiate, mi hanno caricato talmente da non poter star seduta! Quindi ecco qui il capitolo in cui ho catalizzato tutta l’energia. Spero sia di vostro gradimento! Naturalmente un pensiero va anche a tutti coloro che la storia la leggono, ma che si tengono i loro pensieri per sé. Spero che prima o poi farete sentire la vostra voce, sono sempre pronta a ricevere consigli!

Stavolta non mi limiterò, come le scorse volte, a rompervi le scatole rinnovando l’invito di dare una lettura propedeutica alla mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies, ma aggiungo anche un’informazione vitale: comincia da qui, lentamente ma inesorabilmente, a salire il rating. Ammetto che solitamente sono molto cruda (eufemismo), e di certo spararmi due volte di seguito la serie sui Borgia di Canal + con la scusa di migliorare il francese non ha aiutato: però cercherò di fare le cose gradualmente, una volta tanto. Un arancione brillante potrebbe andare, come inizio!

E ora le precisazioni di rito: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC.

Buona lettura!

Quainquie

 

Cap. VII – So darkness I became

Florence + the Machine, Cosmic love

 

Listenoise, con le sue basse casupole di pescatori e il suo un onnipresente, fastidiosamente acre odore di acqua lacustre, non avrebbe mai potuto, agli occhi esigenti di Morgana, competere con la maestosa solidità di Camelot.

Le strade erano invase da fanghiglia e resti di marciume quotidiano; i ciottoli che una volta le avevano uniformemente tappezzate erano finiti nelle mura portanti delle casupole, oppure erano spuntati qua e là dal selciato, sospinti disordinatamente dal terreno gravido d'acqua e liquame, come funghi di pietra, nei quali il viandante poco accorto era destinato a inciampare. Nonostante il crepuscolo avesse appena raggiunto la sua pienezza di tinte luminose – che spaziavano dal prugna all’arancio tra screzi di lampone, malva, rosa e lilla – gli usci delle casette che fiancheggiavano la via principale erano tutti sprangati, le piccole aperture quadrate che fungevano da finestre chiuse da massicci scuri. Neppure una luce tremula filtrava dagli infissi; soltanto talvolta Morgana riusciva a cogliere, al suo passaggio, il richiudersi secco di un battente ch’era stato fino ad allora socchiuso, unica testimonianza della presenza di esseri viventi all’interno degli edifici.

L’aria emanata dal Grande Lago era, nel suo tanfo dolce, abbastanza fresca da risultare piacevole, ma non così gagliarda da riuscire a scostare le pesanti ciocche scure dal volto pallido della giovane donna. Nonostante l’apparenza sfatta e il mantello nero che le donavano un’intrigante aria selvaggia, Morgana recava ancora, grazie all’esuberanza della sua piena maturità fisica e magica, tracce di quell’antica e ingenua bellezza che l’aveva caratterizzata da ragazza: gli occhi d’un verde perlaceo, ombreggiati da lunghe e folte ciglia scure vezzosamente inarcate all’insù, erano incastonati sugli zigomi alti; la bocca carnosa, socchiusa per lo sforzo di risalire la strada, pareva perforare, con il suo rigoglio rosato, la pelle trasparente. Tale bellezza, a vedersi innocua, si accompagnava tuttavia ad una sensuale e selvaggia sfrontatezza – che trovava il suo apice nei seni divenuti ormai alti e abbondanti, nello sguardo di vivace indifferenza e nell’ondeggiare seducente dei fianchi – acquisita quasi naturalmente in quegli ultimi anni, trascorsi nel folto delle foreste.

La strega si fermò in quella che doveva essere stata, all’epoca del suo massimo splendore architettonico, la più bella delle piazze della capitale, certamente l’unica pianeggiante in quel guazzabuglio di tane di tassi. Si volse indietro a rimirare freddamente il crepuscolo ormai inoltrato, prima di abbassare il cappuccio sformato e di alzare gli occhi sulla costruzione di mattoni rossi che incombeva, ben visibile anche nell’oscurità crescente, sulla piazza limacciosa.

La rocca dei Re di Listenoise – ora funerea dimora di Hengest e dei capi Barbari che con lui erano discesi dalle terre del settentrione – possedeva una curiosa struttura, quasi incespicante, come se chi l’avesse abbozzata fosse un vecchio dalla mano tremante: i sei muraglioni merlati, per meglio aggrapparsi allo spuntone di roccia sul quale il regio palazzo era venuto a posarsi, avevano formato un esagono di proporzioni sghembe e grottesche, privo di quel parallelismo, quella simmetria e quella armonia di struttura che caratterizzavano invece il castello dei Pendragon. Due torrioni, uno dalla forma cilindrica e snella, l’altro rettangolare, più basso e largo, si fronteggiavano, silenti nella notte, dai due angoli strutturali che davano sulla piazza. La gente del posto li chiamava il Chiodo e il Tozzo, come a voler sbeffeggiare il loro alterco di pietra destinato a rimanere insoluto. Dai due scaturivano due muraglioni portanti, i quali però, stupidamente, non s’incontravano per formare un angolo ulteriore: come se i muratori che le avevano erette avessero sbagliato le misure di addirittura quattro falcate, le due mura erano state costrette a non incontrarsi mai, ad essere parallele nel migliore dei casi, e a venire unite, in modo maldestro, da due mura più piccole, che andavano a formare una rientranza angolare dove era stato ficcato, possente nei suoi decori a croci e leopardi, il portone che conduceva alla corte interna.

Morgana non si sorprese affatto di constatare che le fiaccole ai lati del portone erano totalmente assenti, e che nessuno stava di sorveglianza agli ingressi: evidentemente la ferocia dimostrata negli anni precedenti da Hengest e dagli altri Barbari rappresentava una deterrenza efficace da qualsiasi forma di ribellione che gli abitanti avrebbero potuto ideare, con i loro poveri mezzi di pescatori e tintori. Morgana risalì la breve scalinata e spinse senza cerimonie il portone, che non oppose resistenza alcuna se non quella di un lugubre e prolungato gemito di legno e pietra.

La corte interna, invasa da gramigna e rami spezzati, non offriva una vista migliore della piazza. La sfolgorante residenza che aveva ospitato i cortigiani di Re Pellinore vegetava in completa decadenza: numerose lastre alabastrine che separavano gli ambienti interni da quello esterno erano fracassate, e ne erano sparsi frammenti sul selciato del cortile; alcune pareti di mattonelle erano scrosciate fragorosamente a terra, mentre quelle rimaste intatte erano messe a dura prova dalla corrosione provocata dalle violente intemperie che battevano il Grande Lago in ogni stagione. Morgana attraversò lentamente lo spiazzo, badando a evitare gli ammassi di mattoni, drappi e tegole che lo invadevano, affidandosi completamente al proprio istinto magico per destreggiarsi nell’oscurità asfissiante che era seguita allo svanire del crepuscolo. Salì un’altra ripida rampa di scale dai gradini semicircolari, che si diramava poi in altre due, altrettanto ripide, che portavano ai ballatoi dei piani superiori, sormontati da balaustre di legno intagliato. Morgana si fermò sul pianerottolo dove partiva diramazione delle scale; avvicinò la mano ad una cascata d’edera che si stava impossessando della parete e la scostò, brusca. Un grande affresco sbiadito raffigurava uno stemma – del quale s’indovinava ancora lo scintillio della lamina d’oro che ne componeva il fondo – affiancato a destra da uno più piccolo, obliquo. La vista di Morgana non avrebbe potuto, nel buio, scorgerne i motivi con esattezza; ma la sua mente, abituata sin dall’età più tenera ad apprendere a menadito le formalità necessarie per vivere da gentildonna, avrebbe potuto riprodurli all’istante. Sfondo dorato disseminato di croci azzurre; sfondo purpureo disseminato di croci dorate, sovrastate da un leopardo argentato. Gli scudi di Pellinore, Ultimo Re della Terra dei Laghi, e di suo figlio Aglovale.

Morgana conosceva piuttosto a fondo le vicissitudini che avevano portato alla fine di quell’antico regno di pescatori, poiché per anni era stata promessa al secondo figlio del Re, un ragazzo esile e malaticcio di nome Lamorak, prima che Uther scoprisse che Pellinore, nelle fasi più virulente della Grande Purga, aveva prestato soccorso ad alcune colonie Druide e ad alcuni gruppi di poveri disgraziati appartenenti al Popolo Magico, invitandoli a stabilirsi nelle sue terre. I rapporti tra di due regni si era ulteriormente guastati quando Uther si era rammentato, in uno dei suoi usuali e atroci attacchi di follia, del fatto che ogni figlia maggiore dei Re della Terra dei Laghi veniva affidata sin dall’infanzia alle cure delle Sacerdotesse dell’Isola delle Mele, per divenire Somma Sacerdotessa, titolo tramandato di zia in nipote da generazioni: a quel medesimo ordine era appartenuta, ora Morgana lo sapeva, Nimue, che aveva permesso il concepimento di Arthur barattandolo con la vita di Igraine. Accecato da malvagità e pregiudizio Uther aveva troncato ogni relazione con Pellinore, che era stato accusato di alto tradimento verso Camelot e il suo sire; e quando Cenred, assoldato da Hengest in persona, aveva invaso la Terra dei Laghi, mettendola a ferro e fuoco, sterminando interi villaggi e devastando la capitale, Uther non aveva risposto alle richieste d’aiuto degli ambasciatori del suo reale corrispettivo. Si era limitato a stare stravaccato sul suo trono, senza mostrare il benché minimo rincrescimento per le sorti della famiglia reale che una volta era stata sua alleata, schioccando le dita con un sorriso sardonico ogniqualvolta i messi gli notificavano, con rughe mortifere incise sui volti stremati dalle corse a rotta di collo nei territori in fiamme, la morte di uno dei suoi membri.

Morgana lasciò ricadere l’edera e imboccò la gradinata alla sua sinistra: sulle assi del primo ballatoio si riverberavano, nell’oscurità liquida, dei guizzi di fiamme, di candelabri, forse. Un sorriso, più simile a una smorfia di compiacimento, sformò, fugace come un lampo, il viso della giovane, quando si accostò ad uno degli ingressi che davano sul ballatoio. Voci maschili, baritonali e rauche, quasi afone nei loro gemiti, inframmezzate da risate argentine, miste a lamenti troppo sfrenati e acuti per essere considerati di autentico piacere. Morgana spinse l’anta dell’ingresso, e si fermò nella semioscurità, in attesa, le fiamme blande dei candelabri che, infiacchite dalla corrente d’aria lacustre, baluginarono, minacciando di estinguersi.

La stanza doveva essere stata, un tempo, una sala di ricevimenti diplomatici: le pareti erano ornate di arazzi istoriati con complicati motivi narrativi di battaglie, che recavano tuttavia ampie porzioni mancanti, utilizzate per creare sghembi e angusti cubicoli, ai quali non garantivano intimità alcuna. Il soffitto a cassoni istoriati era sorprendentemente basso, come a voler opprimere l’onta causata a quell’antica sala dal nobile uso da quell’improvvisato bordello di mercenari e barbari.

Morgana avanzò con leggerezza attraverso i cubicoli sussultanti, senza prestare attenzione alle scene di violenta lussuria che talvolta le si paravano dinanzi. Raggiunse l’alcova più ampia, addossata alla parete, e scostò un lembo di tappezzeria che celava alla vista ciò che già la sua mente aveva indovinato: Hengest, il Re Barbaro, impegnato a montare, con colpi di bacino disarmonici e privi d’ogni grazia d’amante raffinato, una delle sue sgualdrine. Questa aveva superato il fiore della propria bellezza da anni innumerevoli: i seni erano cadenti e flaccidi, ondeggianti sotto le spinte animalesche dell’uomo irsuto come un cinghiale che la possedeva; le cosce erano grosse, tipico delle donne nobili non avvezze ad interrompere la loro attività contemplativa di signore pigre e sempre assise se non per soddisfare i desideri carnali del consorte.

«Morgana!» la voce ansimante di Hengest la raggiunse, gioviale nonostante l’evidente sforzo che gli costava compiere quell’atto che di erotico, agli occhi della giovane donna, nulla possedeva.

«Fai pure con calma, Hengest» replicò Morgana con asprezza adamantina, mettendosi a sedere su un cassettone ai piedi del groviglio di coperte che costituiva la rudimentale alcova. «Anche se ho ragione di sperare che non durerà a lungo» soggiunse, mentre la smorfia di cinico sbeffeggiamento ritornava a modellarle le fattezze celestiali.

Hengest rispose con un sorriso che voleva essere malizioso, ma che venne all’istante spezzato da un latrato sonoro, seguito da un ansimare che cresceva in intensità, al pari delle grida stridule della donna: Morgana rimase seduta senza battere ciglio, aggiustandosi le vesti e tentando di liberarsi del fango che le aveva impietosamente inzaccherate, mentre un orgasmo sciorinato travolgeva Hengest, dissolvendosi nei gemiti degli altri amplessi morbosi che in quel momento raggiungevano il culmine in quella stanza gretta come i suoi occupanti.

Dopo essersi rotolato nelle lenzuola, abbandonando le natiche cascanti che fino a quel momento lo avevano ospitato, il Re Barbaro si rizzò, carezzandosi il membro con fare soddisfatto, come a volersi complimentare dell’operosità con la quale questo aveva adempiuto ai suoi doveri. Con lentezza esasperante s’infilò degli spessi calzoni di canapa e una tunica di lino; con un brusco cenno della mano congedò la donna con cui si era sollazzato che, con fare ubbidiente, raccolse le sue vesti e s’eclissò dietro un lembo d’arazzo.

«In cosa posso esserti utile, Morgana?» chiese Hengest con tranquillità, versandosi una copiosa quantità di acquavite dal profumo acre in un boccale dall’orlo sgretolato.

L'espressione di Morgana s’incupì di fronte a quel tono canzonatorio e accondiscendente, che le ricordava il debito d'ospitalità che aveva contratto con il Barbaro quando ne aveva richiesto i servigi.

Dopo il ritorno di Arthur sul trono il regno di Camelot era divenuto per Morgana un territorio colmo di insidie e ricordi terribili. Aveva sperato – ingenuamente, se n’era resa conto – che il suo fratellastro concentrasse tutte le proprie energie in quella farsa che sarebbero stati il matrimonio e l’incoronazione di Gwen; ma pareva divenuto un uomo di rara avvedutezza, o perlomeno un sovrano sostenuto da consiglieri più accorti di lui. Dopo avere bandito Morgana dai territori di Camelot, Arthur aveva diramato tramite i suoi messi più veloci un mandato di cattura in ogni angolo del reame, con la promessa di una lauta ricompensa per chicchessia l’avesse portata al suo cospetto, viva. Ovviamente, pensò Morgana con tetro furore: la magnificenza di sentimenti e la liberalità di cuore di Arthur Pendragon avrebbe dovuto riecheggiare luminose in ogni remoto anfratto dei Territori Abitati: i cantori avrebbero intonato nei millenni a venire le gesta del Re dal cuore nobile e generoso che aveva graziato la sua povera ed animosa sorellastra, che perlopiù recava nel suo spirito nero tracce del male incurabile della magia.

In circostanze a lei congeniali non avrebbe nutrito esitazione alcuna a sfidare il ridicolo bando di Arthur; ma a seguito del loro ultimo scontro le sue condizioni fisiche e spirituali erano troppo fragili per correre un rischio di tali proporzioni. Aveva allora vagato nei boschi dei Regni confinanti a Camelot, confusamente, incapace di servirsi della luce polverosa che filtrava esile dalle chiome degli alberi per orientarsi, di distinguere la notte dal giorno grazie al sommesso e penetrante grido crepuscolare delle civette. E si sarebbe spenta nel buio, come una fiammella percossa da una folata di vento, se non fosse stato per quella creatura nitida e nivea che, con un tramestio d’ali e di foglie secche, aveva infuso in lei il soffio rovente e benefico del suo respiro. Il ricordo risvegliava in lei sentimenti che aveva creduto sopiti e sepolti: gratitudine, speranza, eccitazione.

Quella creatura – un drago, si annotò mentalmente per l’ennesima volta, cercando di accettare, a scapito dello sbigottimento che l’aveva investita, l’identità magica del suo salvatore – era la prova che qualcuno, o qualcosa, credeva nei suoi propositi di ristabilire l’egemonia delle arti magiche, o che perlomeno era riuscito a leggere nel profondo delle sue azioni. Da Morgause aveva appreso che i draghi non erano, al contrario di ciò che narravano le credenze popolari con cui era cresciuta, esseri selvaggi, brutali ed indomabili, ma creature estremamente raziocinanti, che assecondavano con intense devozione e ubbidienza la volontà del loro Signore. Il pensiero, fremente di speranza e di desiderio, che da qualche parte, nelle terre della Britannia, il Signore dei Draghi, l’ultimo della sua stirpe gloriosa, avesse seguito nello spirito le sue orme errabonde e disperate – con solidale apprensione, forse – e avesse deciso di inviarle quella creatura alata dal respiro rovente e prodigioso perché le impedisse di spegnersi nell’umida solitudine del sottobosco nebbioso, aveva sostenuto Morgana nei cicli di luna a seguire, l’aveva spronata a rimettersi in forze, aveva alimentato il suo bisogno di giustizia per tutte le creature del Popolo Magico costrette a vivere ai margini di ogni civiltà e affetto, evitate come gli appestati.

Guarita la debilitante ferita all’addome, Morgana aveva atteso, con una pazienza così insolita per la sua tempra fervente, che il suo corpo si riprendesse, vivendo perlopiù nei boschi, cibandosi di bacche, radici e cortecce, facendo sosta talvolta presso la capanna di uno dei tanti legnaioli che popolavano quelle foreste ricche di legna pregiata e solida per chiedere un po’ d’acqua di fonte. Nei giorni più propizi il taglialegna in questione aveva una moglie o una figlia che si preoccupavano di allevare oche, galline o capre: e allora la buona gente le offriva, senza chiedere nulla in cambio, latte e formaggio, uova e carne insaporita da cipolla selvatica.

La giovane si era in seguito diretta verso settentrione, virando leggermente verso occidente: man mano che il suo solitario viaggio proseguiva, i boschi s’infittivano, paludi e acquitrini che emettevano un lezzo insalubre comparivano copiosi, mentre la terra secca e solida dei Territori meridionali lasciava spazio a quella umida e densa delle terre del settentrione. In un mattino impregnato d’uggia e di bruma talmente spessa da farle dubitare della sua natura acquea Morgana era stata svegliata da un odore intenso, inconfondibile e sgradevole d’acqua lacustre. Aveva allora compreso di aver raggiunto, dopo tanto peregrinare smarrito, la Terra dei Laghi: la superficie ai suoi occhi immensa e immota dello specchio d’acqua – ma che in realtà era infranta dagli uccelli pescatori che, saettanti, s’abbassavano inaspettatamente per afferrare nei becchi uncinati una trota – le si era parata dinanzi, grandiosa e lugubre come il cielo plumbeo che la sovrastava. Nei giorni a seguire lo stupore causato da questa massiccia e greve visione sarebbe scemato, perché essa si sarebbe rivelata la prima di molte, tutte medesime e altrettanto cupe. Le capanne dei taglialegna erano state sostituite da catapecchie di fango e sasso abbarbicate con palafitte pericolanti alle rive del lago, nelle quali dimoravano per la maggior parte dell’anno i pescatori, povera gente dalla pelle tirata e grigiastra e dalle mani callose.

Erano ormai trascorsi numerosi cicli di luna dall’ultimo scontro che aveva avuto con Arthur. Ma ora che si trovava lontana da lui e da Camelot, il livore vendicativo e cieco che le aveva consunto le membra si era trasformato radicalmente, si era fatto più sfaccettato e latente, senza tuttavia perdere né in vigore né in acuità. Ciò che invidiava ad Arthur non era il fatto che lui fosse un sovrano potente, come molte sue azioni, di cui ora deplorava l’avventatezza e la stolidità, avevano condotto a pensare i più, bensì il privilegio, accordatogli da chicchessia lo circondasse, di essere accettato e perdonato incondizionatamente, nonostante la sua immaturità e la sua superbia, in passato, lo avessero portato a compiere errori, anche al limite dell'irrimediabile. Morgana aveva creduto che tale accettazione e tale perdono scaturissero dal potere regio che Arthur aveva acquisito in quanto erede di un regno ricco e vasto: a quel potere aveva ricondotto la reverenza che ogni cittadino, nativo o straniero, dimostrava ad Arthur, convincendosi che si trattasse non tanto di un sentimento spontaneo, genuino, quanto di un timore ossequioso indotto dal potere temporale incontrastato del sovrano di cui il suo fratellastro era investito. La donna aveva compreso, a suo tempo, di essere stata in fallo: e lo aveva appreso percorrendo la via più oscura, dura e amara. Aveva occupato il trono di Camelot per ben due volte e, nonostante il potere che le derivava dalla corona posta sul suo capo, era stata rigettata, rimandata nei boschi come una fiera pericolosa e rabbiosa. Non soltanto dal popolino ignorante, dai nobili e dai cavalieri del popolo scevro di magia: anche Iseldir, la Guida Druida, le aveva negato ospitalità presso la sua Famiglia. Il cuore di Morgana, aveva detto con un rammarico insopportabile, era troppo nero d’odio per contaminare qualcosa di così puro come il popolo Druido.

In quei mesi trascorsi in una solitudine quasi completa, ma di certo carica di riflessioni, attimi di sollievo e di bieca disperazione, Morgana aveva apprezzato la lontananza di quel mondo terreno fatto di giostre e ambizioni, e nel contempo aveva provato, nel profondo di sé, una fitta di nostalgia, il desiderio vivido di avere accanto esseri umani a lei simili, che condividevano le sue speranze, le sue paure, le sue amarezze. E di colpo, folgorata, aveva compreso perché Arthur era così amato e riverito nonostante tutte le sue pecche: perché viveva tra uomini e donne che come lui commettevano errori e che come lui speravano nella completa assoluzione. Che, come lui, avevano paura della magia, e che non sarebbero mai stati disposti a perdonare Morgana con lungimirante immediatezza per ciò che era, semplicemente perché Uther, nella sua stolida malevolenza, aveva insegnato loro a temere ogni creatura che manifestasse poteri sovrannaturali. Il mondo in cui era nata, aveva compreso inoltre Morgana, percuotendosi il petto per liberarlo dalla morsa del panico, non era il mondo in cui avrebbe potuto vivere con tranquillità e comprensione.

Quante cose le aveva fatto comprendere quel semplice battito d’ali, quell’alito caldo e salutare!

Carica di nuove consapevolezze si era diretta verso la Terra dei Laghi, appunto, alla ricerca di esseri a lei consimili. Morgause le aveva parlato a lungo, con sospiri pieni di aspettativa, dell’Isola delle Mele e delle Sacerdotesse che ivi abitavano, raccolte nella quiete della meditazione e dell’erudizione, grazie alla quale apprendevano ogni segreto della natura. Morgana all’epoca non aveva compreso perché la sorella anelasse a una vita di volontaria reclusione; ma ora, sola nelle selve incolte, con la cognizione che i suoi straordinari poteri nulla avrebbero potuto contro l’abbandono in cui viveva, riconosceva nei propri occhi, quando occasionalmente si specchiava sulla superficie acquea ed eterea di uno dei Laghi, il medesimo desiderio.

Le Sacerdotesse erano giovani donne, come lei, che vivevano coltivando i propri poteri, per apprenderne ogni uso, per entrare in contatto con ogni profonda fibra magica che la natura aveva loro elargito: erano rinomate orefici e guaritrici e apprendevano le arti del canto e della musica, della poesia e della danza. Era risaputo che, nei tempi passati, molte fanciulle di nobili natali, provenienti da tutta la Britannia, venivano condotte sull’Isola per ricevere un’eccellente educazione nelle arti femminee, di cui avrebbero fatto tesoro dopo il loro ritorno in patria e dopo aver intrapreso la vita coniugale: la seduzione, l’eleganza, la grazia, la capacità di intrattenere vivacemente gli ospiti. Alcune di loro non avrebbero mai più fatto ritorno nella civiltà, ma avrebbero preso i voti presso la Somma Sacerdotessa, per dedicare la propria vita al servizio dell’Antica Religione.

Con la speranza di poter a sua volta entrare nell’ordine Morgana aveva raggiunto l’arcipelago delle Isole Bianche. Quando i suoi piedi, sanguinanti a causa dei calzari troppo stretti e provati dal lungo e tormentoso viaggio, si erano appoggiati sull’arenile candido, puntinato di scintillanti granelli di ghiaino finissimo, erano sprofondati in un calore tiepido e invitante. La superficie del lago era una lastra di ossidiana, immota e silente, coronata di bruma opalina. La giovane, che di fronte a tale terribile e nel contempo superbo paesaggio aveva provato un inspiegabile e serpentino guizzo di inadeguatezza, si era inginocchiata sulla sabbia mite, tendendo le braccia dinanzi a sé, i palmi rivolti verso l’alto, la fronte imperlata di sudore e sudiciume che attirava i sottili grani d’arenaria, come a invitarli a cingerle il capo con una povera corona. Morgana aveva atteso per ore che accadesse qualcosa, ma invano. L’acqua lacustre era rimasta immota, e dolce, in stridente contrasto con le lacrime salate di rabbia e inadeguatezza che le rigavano il volto. Dopo due giornate di intensa e fervente meditazione – o almeno, la luce pallida del sole al di sopra della bruma diamantina pareva essersi risolta in due archi distinti agli occhi stanchi e brucianti di Morgana – un brusio si era finalmente levato dal lago; l’acqua era ora striata di rosso scuro e intenso come il sangue di un innocente, una lastra di ematite, attraente e gagliarda, e la bruma era divenuta grigiastra, compatta.

Due figure erano emerse dal lago, minute e perfettamente in equilibrio su di una rudimentale zattera di tronchi d’albero intrecciati con una spessa corda fibrosa, che scivolava sinuosa sulle acque che, stranamente, non producevano il morbido e familiare gorgoglio delle onde. La prima delle due figure, di cui s’indovinava la corporatura fragile e ingobbita anche attraverso le vesti ampie che le ricadevano addosso in pieghe increspate e scomposte, reggeva il remo di governo. La seconda era esile e elegante; la veste color zafferano a intricati motivi di mele e fiori di guado, così come il pendente a forma di mela intrecciato tra le ciocche, in una sinfonia quasi cacofonica di oro e bronzo, avevano permesso a Morgana di identificarla all’istante come Sacerdotessa, nonostante la bruma si fosse ora decisamente fatta più densa e grigiastra.

Morgana aveva sollevato appena il capo, il cuore che le riecheggiava ritmicamente nel petto quasi a voler sostituire le onde assenti, quando aveva veduto la Sacerdotessa smontare con un lieve balzo dalla zattera attraccata ad uno spuntone di roccia che, solitario, occupava la riva. Aveva atteso che, come da costume ospitale, la Sacerdotessa le tendesse una delle mani bianche e le offrisse rifugio.

Ma la richiesta non era venuta.

Morgana si era infine sollevata, mentre lacrime d’ira e d’umiliazione avevano ripreso a striarle le guance: com’era misera, e mostruosa, rispetto alla donna d’oro che, con le mani raccolte sotto il seno, la fissava con i suoi occhi gelidi, simili a quelli di una faina, dorati anch’essi. Nei tempi andati, quando era stata la pupilla di Uther, Morgana avrebbe di certo superato e mortificato con la propria sfolgorante e passionale bellezza l’avvenenza aristocratica e delicata di questa giovane donna. Tale convinzione, vana ma consolante, si era consolidata in Morgana quando s'era accorta dello sfregio roseo che deturpava la mandibola della Sacerdotessa, scendendo implacabilmente sino al seno.

La voce di Morgana, arrochita per le interminabili lune di silenzio, aveva allora lacerato l’aria: «Vi prego, sorella, abbiate pietà di me. Portate la mia richiesta alla vostra Signora, perché ella possa venirmi in soccorso».

La Sacerdotessa aveva scosso lievemente il capo in segno di diniego e replicato, in tono glaciale: «Morgana Pendragon, con quale alterigia ti presenti a questi liti?» Come a voler sottolineare la solenne asprezza con la quale la Sacerdotessa aveva proferito queste parole, l’accompagnatrice sbilenca e grigia come la nebbia cinerea che le circondava aveva mosso bruscamente il remo nell’acqua, producendo uno sciabordio infastidito. Dopo che questo si era chetato, la Sacerdotessa aveva proseguito: «La Somma Sacerdotessa non intende accordarti il permesso di solcare queste acque sacre. Ma anche se volesse, le ceneri degli antichi hanno espresso con forza il loro rifiuto, che non può essere revocato neppure dalla Somma tra le Sacerdotesse dell’Isola delle Mele».

Morgana aveva scosso la testa, violentemente, incapace di comprendere: «Sono una figlia dell’Antica Religione, sorella…!»

La Sacerdotessa l’aveva fissata con straordinaria durezza, il bagliore aureo dei suoi occhi quasi pungente: «Sorella, mi chiami, quando né tu né la scellerata sorella tua di sangue avete portato rispetto per le sacre vestigia di quest’isola?» Non aveva atteso la supplichevole replica di Morgana, i cui occhi folli tradivano l’ignoranza di cui, seppur con amarezza, si trovava vittima in quel frangente: «Hai fatto uso della Coppa della Vita, iniquamente e vilmente sottratta a queste terre! E per cosa? Non certo per la causa di quella che tu definisci la nostra comune Religione. Avidità ti mosse, Morgana, avidità di potere terreno, meschino e frivolo, destinato a svanire ancor prima di consolidarsi. E questo tu chiami amore fraterno? Perciò di nuovo ti chiedo: con quale alterigia ti presenti a questi liti?»

I singhiozzi di Morgana l’avevano costretta a terra, un fagotto nero scosso da singulti violenti, incontrollati. La Sacerdotessa aveva atteso con pazienza una risposta che non era venuta; poi si era voltata con grazia e aveva teso la mano alla zattiera, affinché questa l’aiutasse a salire agevolmente sulla sottile imbarcazione.

«Non conoscete la pietà, voi isolane?» La voce di Morgana, isterica, era prorotta rabbiosa. «Io farò qualunque cosa, qualunque cosa!» aveva poi aggiunto, con più risolutezza, nonostante gli occhi verdi fossero iniettati di sangue pallido. «Qualunque cosa per il perdono della Signora e per la grazia della vostra ospitalità».

Come se avesse atteso con ansia quelle parole, la giovane Sacerdotessa era tornata a volgersi verso Morgana.

«Vedi le ceneri dinanzi a te, Morgana?» le aveva chiesto, in tono sorprendentemente dolce, cadenzato come i suoi passi aggraziati sulla battigia. Aveva indicato la densa bruma grigiastra e aveva incalzato la giovane donna mora: «Vedi queste ceneri?» Al cenno di diniego di Morgana, che null’altro scorgeva che una nebbia umida e insistente, la Sacerdotessa aveva proseguito, come se la sua interlocutrice le avesse risposto affermativamente: «Appartengono agli antichi. Esse rappresentano la barriera che protegge, meglio di qualunque armata terrena, la nostra Isola, e nel contempo l’unico varco che ne permetta la comunicazione con il mondo scevro di magia. Si manifestano ai figli dell’Antica Religione, e a coloro che con loro sono in cammino, quando questi solcano queste spiagge deserte in cerca di protezione e ristoro, ma ad una condizione: essi devono essere loro totalmente devoti, anzi, devono condurre una vita devotamente esemplare» La giovane donna aveva fatto una pausa. «Non è il perdono della Somma Sacerdotessa che devi ottenere, Morgana, ma delle antiche ceneri. Ma non basteranno di certo le lacrime e le grida di disperazione con cui hai profanato la tranquillità di questi luoghi a renderti degna di tale indulgenza, considerato l'impudente peccato che hai commesso».

Morgana aveva ascoltato, con rapita attenzione, mordendosi le labbra, ogni parola. Ma più il tono della Sacerdotessa si faceva freddo, più una pietra greve e acuminata sprofondava nel suo petto ansante.

«Tuttavia… » La Sacerdotessa aveva lasciato che la propria voce rimanesse sospesa, densa di aspettative, come la bruma cinerea che le circondava: se Morgana avesse posto più attenzione a quella cadenza carica d’attesa ed esitazione, avrebbe compreso che essa in realtà rasentava la malizia. «Puoi tentare di ottenere la grazia, Morgana, rendendo ciò che è stato sottratto all’Isola con l’inganno dall’avarizia degli uomini».

Gli occhi dell’altra erano divenuti due fessure baluginanti di speranza: «Dovrei quindi riportare la Coppa della Vita agli antichi?»

La Sacerdotessa aveva abbozzato un cenno d’assenso con un gesto elegante delle sue affusolate mani bianche, facendo ondeggiare l’ampia manica della veste: «Se riporterai umilmente la Coppa della Vita alla Somma Sacerdotessa, dimostrando che sei pentita di averne fatto uso in modo così avido, gli antichi te ne saranno grati. Essi ti offriranno in cambio la possibilità di dialogare con loro, per poi avere accesso all’Isola, dove potrai trovare finalmente la tua pace».

Morgana aveva taciuto per qualche breve istante, poi aveva chinato il capo con un’obbedienza genuina che le era stata, per molti anni, estranea: «Farò tutto ciò che mi è richiesto per ottenere il perdono delle ceneri dei nostri antichi. Soltanto… » La fermezza della sua voce era tornata ad affievolirsi: «Non so quale sia stato il destino della Coppa, sorella».

La Sacerdotessa le aveva allora concesso una risata argentina, che in realtà fungeva, Morgana lo aveva subito compreso, da implacabile cenno di congedo: «Morgana, non puoi pretende di ottenere ciò che desideri senza caparbia e sacrificio. E, inoltre, non ho mai detto che la tua impresa è destinata ad avere buon fine, o che essa verrà compiuta in tempi brevi».

«Ti prego… »

«L’Isola ha già udito le tue preghiere, Morgana. Se il fato lo vorrà, ci rincontreremo per divenire sorelle di spirito» Inaspettatamente il piglio della bionda Sacerdotessa s’era ingentilito. Con un movimento aggraziato, aveva posato le mani sulla chioma insudiciata di Morgana e le aveva ingiunto, dolcemente: «Abbi fede, Morgana».

Un calore intenso, piacevole e rassicurante, era scaturito dal punto in cui la Sacerdotessa aveva posto le sue mani candide, e Morgana aveva percepito una fitta di pace e gratitudine pervaderla. Aveva chiuso gli occhi, lasciandosi cullare dallo sciabordio dell’acqua e da quell’inebriante calore. Quando s’era risvegliata – minuti, ore, giorni dopo? – la Sacerdotessa e la zattiera erano svanite. Le acque era ridivenute immote, di nuovo luminose come ossidiana, scintillanti nella luce timida che cercava invano di farsi strada nella bruma. Nelle ceneri, aveva rammentato Morgana, rammaricandosi di non poterle ancora distinguerle come tali.

Aveva tentato di mettersi alla ricerca della Coppa della Vita nel modo più rapido e efficiente possibile, e di ottenere, invano, informazioni preziose dai pochi e discutibili alleati che le erano rimasti nei Regni – mercenari, perlopiù, o guaritori ciarlatani. Nonostante Morgana avesse tentato di mantenere la propria apparenza di crudeltà e sicurezza, man mano che le lune passavano ed alcuna notizia della Coppa giungeva, aveva cominciato a provare irrequietezza e disperazione. Sospettava, in realtà, che la Coppa si trovasse a Camelot: tuttavia il bando emesso da Arthur e la propria debilitazione, stavolta di natura spirituale, l’avevano indotta, di nuovo, a desistere di recarvisi di persona.

A quei momenti di buia incertezza risaliva la sua alleanza con Hengest. Non che il Re Barbaro offrisse servigi di tale prestigio da risultare alleato imprescindibile per Morgana: non era un condottiero di particolare acume militare e neppure un compagno piacente. Tuttavia i territori sui quali spadroneggiava erano gli unici a essere sottoposti alle leggi barbare. Dopo la caduta del regno di Listenoise, infatti, ogni alleanza civile tra questo e i rimanenti Regni della Britannia s'era dissolta, permettendo ai mercenari di Hengest di imporre il proprio arbitrario volere. Il regno era diventato un ricettacolo non solo di soldati e prostitute al loro seguito, ma anche di personaggi d'infima e meschina risma – strozzini, ladruncoli, briganti, ciarlatani, assassini e stupratori, traditori – che ivi vivevano indisturbati e dediti alle peggiori dissolutezze. Non era forse il luogo che Morgana aveva desiderato per se stessa – poiché ben lontano dalla pace meditativa dell'Isola delle Mele – ma rappresentava un rifugio sicuro: a nessuno di quei manigoldi importava se lei era stata la figlia traditrice di Uther, che aveva tentato di usurpare per ben due volte il trono di Camelot. In realtà, a nessuno importava in primo luogo di una donna, specie se posseduta da manie di grandezza e potere. Nessuno l'avrebbe venduta ai Cavalieri di Camelot, perché nessuno di loro la identificava come pericolosa per i propri affari: sapeva che, di sottecchi, Arthur era oggetto di dileggio, poiché con i suoi bandi aveva dato a vedere di temere una donnicciola.

La corte di Hengest, barbara anch'essa, disgustava Morgana, che tuttavia si era adeguata alle usanze praticatevi di buon grado. S'era rassegnata a tentare di sedurre Hengest, ma con sollievo intimo s'era accorta che, su di un barbaro delle montagne, la sua bellezza procace e sensuale, tutta dispiegata, messa in mostra, non sortiva alcun effetto: i Barbari preferivano, per ragioni a Morgana oscure, donne longilinee e secche, dagli occhi felini e dai visi aguzzi e sgraziati, solitamente giovinette che lavoravano nei campi e che erano ancora acerbe come il loro fisico.

Morgana s'era allora accostata a Hengest come guaritrice: ossessionato dalla paura di invecchiare e di perdere la sua selvaggia virilità, non era stato difficile convincerlo ad essere curato da rimedi magici efficaci anziché decotti disgustosi che non sortivano alcun effetto. Mentre i pochi, fidi messi di Morgana andavano e venivano dalla Terra dei Laghi portando notizie di scarsa rilevanza, questa tentava di ingraziarsi Hengest, nel caso il momento propizio si fosse presentato.

Hengest si era subito accorto dei vantaggi che un'alleanza con Morgana avrebbe comportato. Da quando si era insediato a Listenoise da regicida, l'Isola delle Mele gli era stata preclusa, così come le sue ricchezze e il suo appoggio politico – ciò non era affatto sorprendente, aveva riflettuto Morgana, considerando che Hengest aveva sterminato la famiglia della Somma Sacerdotessa. Tuttavia, aiutare Morgana a riportare la Coppa della Vita all'Isola avrebbe potuto rappresentare concretamente una svolta per i rapporti tesi tra le Sacerdotesse – che non avrebbero potuto rifiutarsi, per cerimoniale, di rendere omaggio a Hengest nel caso questi avesse riportato loro il prezioso Calice – e Hengest – che abbisognava dell'appoggio dell'Isola per mantenere il proprio controllo sugli abitanti dei territori della Terra dei Laghi. Forte dell'appoggio del Re Barbaro – che aveva inviato spie in ogni angolo della Britannia non appena gli accordi tra loro erano stati formulati – Morgana aveva permesso a se stessa di sperare nel successo di quell'impresa.

Una mattina uggiosa – fatto non insolito per la Capitale – una delle spie di Hengest aveva varcato trafelata il portone sbilenco della saletta delle udienze, divenuta ormai più che altro una sala di piacere e giochi di carte, portando notizia di un attentato alla vita della giovane Regina di Camelot. Le voci a riguardo si rincorrevano come puledri imbizzarriti per i Regni, bisbetiche e cangianti: la Regina Guinevere, si diceva, era caduta vittima di un potente incanto mortifero al tocco di una collana d'oro e rubini. Ogni tentativo di guarire la sventurata sovrana s'era rivelato inconcludente.

Morgana si era sorpresa di non aver provato alcuna gioia nell'apprendere la notizia. Non aveva d'altro canto neppure provato compassione per Arthur o per la sua serva, perché ancora non aveva loro perdonato l'incapacità di comprendere quanto desiderasse essere sostenuta ed accettata: anche se le sue stesse azioni erano state deplorevoli e spesso la sua collera cieca e ingiustificata, Morgana sapeva che Arthur non aveva ancora legalizzato la magia a Camelot, pur esercitando i poteri regi nella loro forma più completa e pur vantandosi d'essere un Re aperto e giusto. Come poteva essere diverso da Uther, se non aveva neppure il coraggio di infrangere le catene con cui questi aveva avviluppato il popolo magico? O anche solo di dare inizio a tale liberazione? E Gwen, la graziosa consorte, perché non aveva intercesso presso il marito per ottenere giustizia per gli oppressi, lei ch'era la figlia di un povero fabbro, ucciso dalla bigotteria di Uther?

La giovane donna aveva inoltre rimuginato per lunghe ore, trascorse nella solitudine del palazzotto ai limiti della Capitale che Hengest le aveva adibito, sull'identità di colui o colei che aveva eseguito quell'incanto tanto potente sul monile. Non c'era dubbio che si trattava di una creatura magica potente: quel maleficio era praticamente indissolubile senza far ricorso alla magia, il che testimoniava la grandezza di chi lo aveva eseguito. Morgana conosceva soltanto un altro stregone che fosse abbastanza talentuoso per poter riuscire in una simile impresa, a parte se stessa: Emrys, che tuttavia non aveva nessun motivo per scagliarsi contro Arthur, del quale era protettore. A meno che... e se fosse stato a sua volta deluso della codardia del giovane Pendragon? Stanco di attendere una risoluzione? Quale che fosse la ragione, Morgana non ne sarebbe venuta di certo a capo da sola. Ma se Emrys fosse davvero divenuto ostile ad Arthur, forse sarebbe potuto divenire alleato di Morgana: e tale pensiero bastava a inebriare in modo eccitante e convulso la mente della giovane strega.

Morgana aveva però allontanato dalla mente tutta la vicenda poiché, credeva, essa non avrebbe potuto aiutarla nella sua ricerca. O almeno, aveva continuato a crederlo finché le spie di Hengest non avevano cominciato ad accorrere sempre più concitate da Camelot, portando notizie degli sviluppi che circondavano la condizione di Gwen. Le notizie erano sempre piuttosto inattuali, considerata la distanza notevole tra i due regni, nonostante l'impegno incessante delle staffette: perciò, quando aveva appreso che Arthur aveva emesso numerosi bandi affinché la Coppa della Vita venisse portata al suo cospetto, Morgana si era sentita svenire, assalita da rabbia e disperazione: se la notizia giungeva alla corte di Hengest ora, Arthur era in vantaggio di quasi una luna nella ricerca. I suoi timori furono confermati una luna di agonia dopo, quando notizie del ritrovamento della Coppa e dell'arrivo di una Famiglia Druida a Camelot erano giunte a Listenoise. Chiacchiere volevano anche la presenza di una Sacerdotessa dell'Isola delle Mele nel drappello, alle quali Morgana dava però poco credito, considerato che le Sacerdotesse in carica potevano lasciare l'Isola soltanto nel caso dovessero contrarre un matrimonio politico su ordine della Somma Sacerdotessa. Ma tali occasioni avvenivano in pompa magna, e Morgana non ne aveva avuta notizia alcuna.

Hengest aveva mostrato un'insospettabile lucidità caratteriale nell'apprendere quelle nuove così infauste per la loro causa, Morgana gliene aveva dovuto dare merito. Non tutto era perduto come appariva, le aveva fatto notare, sfatando il mito della burina ignoranza dei Barbari: se Arthur aveva richiesto l'uso della Coppa per salvare la sua consorte, avrebbe dovuto pagarne, come voleva la legge che tutte le cose del mondo governava, il prezzo. Quale fosse, era a Hengest ignoto; ma i Druidi, considerati i frequenti abusi avvenuti in quel secolo ai danni della Coppa, avrebbero senz'altro pregato il sovrano di Camelot di ricondurla alla Sacra Isola sulla quale era stata forgiata. Con un poco d'accortezza strategica avrebbero potuto intercettare il drappello di Camelot nei territori di Listenoise, che non offrivano alcun riparo alla vista delle vedette, sopraffarlo con la superiorità di uomini e mezzi e appropriarsi della Coppa.

Era proprio lo sviluppo di quel piano che Morgana intendeva discutere quella sera. La donna si stizzì quando vide che Hengest, ancora accaldato dal suo amplesso, pareva dimentico dell'importanza di convenire i dettagli finali del recupero.

Morgana s'impose di rispondere con voce carezzevole, ignorando il petto villoso di Hengest che ancora si abbassava e alzava convulsamente: «Non ho più ricevuto tuoi messaggi, Hengest. Il drappello di Camelot è partito da ormai una settimana, e ancora non sappiamo come agire».

Hengest soppesò distrattamente le parole di Morgana, trincò un sorso d'acquavite e rispose con voce roca: «Dai tempo al tempo, bambina» Morgana sussultò a quel nomignolo cantilenante, che suscitava in lei il più profondo ribrezzo. «Le vedette non hanno ancora avvistato nulla. Magari Arthur e le sue donnette sono più lenti e inesperti di quel che si crede» Ridacchiò, soddisfatto della propria valutazione dei fatti. «Nessuno di loro conosce queste terre. Saranno rallentati, con le loro bestiacce» Lo sdegno tipico dei Barbari per le cavalcature delle terre meridionali trasparì da quella considerazione. «Oppure sono sprofondati in una palude... » La risata divenne gutturale e isterica.

Morgana s'infervorò, sporgendosi in avanti, gli occhi verdi divenuti due fiamme oscure: «Tu, pezzo di zotico! La Coppa deve giungere in queste terre integra, e non finire in una qualche palude dimenticata dagli dei assieme ad Arthur e i suoi!»

Hengest contrasse i muscoli del viso, posando il boccale. Morgana sentì una fitta di desiderio pervaderla, suscitata dalla fisicità, violenta e animalesca, emanata dal Re Barbaro. Quando questi parlò, la sua voce risuonò bassa e carezzevole: «Morgana, ci sono cose che non sono di tua competenza. Tu farai la tua parte, io la mia» Si sollevò pesantemente. «C'è altro che possa fare per te, stanotte, Morgana?»

Morgana si morse un labbro. A chicchessia sarebbe parso un gesto sensuale; esso esprimeva invece una profonda preoccupazione, che la donna si affrettò a celare: «Voglio una promessa, Hengest» esordì infine. «Non voglio inutili spargimenti di sangue».

Hengest emise un breve fischio di scherno, allontanandosi: «Paura delle Sacerdotesse, mia povera bambina? Oppure è il tuo rimorso patricida? Se quelle streghe ti hanno offerto una possibilità dopo tutto il sangue inutile che hai versato, perché non dovrebbero continuare a farlo per una qualche altra goccia?»

Morgana rimase sola nell'alcova affollata di ombre e gemiti, mentre una fitta la colpiva allo sterno. Nonostante tentasse di convincersi che tutti i segni puntavano a suo favore – cos'altro potevano significare l'avvelenamento di Gwen e il ritrovamento della Coppa, così provvidenziali? – qualcosa di indefinito, per la prima volta da molti anni a questa parte, la turbava.

Non ho mai detto che la tua impresa è destinata ad avere buon fine.

Le parole della Sacerdotessa d'oro risalirono, vorticando, dagli anfratti della sua memoria. Improvvisamente la testa prese a girarle in modo vorticoso, preannunciando una visione, e un intenso e lancinante dolore le esplose nella fronte, familiare e terribile. Senza farsi attendere, una voce femminea e tonante, che pareva provenire da un altro mondo, costellato di bruma, gridò, imperiosa, stordendola.

Morgana la Fata, rendi ciò che è stato sottratto.

Morgana cadde in avanti, lacerandosi le vesti. Si aggrappò senza successo alle coperte dell'alcova, annaspò alla ricerca d'aria pulita. In preda all'isteria, la giovane donna attraversò la sala, avanzando a tentoni e inciampando più volte.

Sei la mia unica speranza. Giurami che renderai ciò che è stato vilmente sottratto!

L'aria fredda e umida della notte si infranse sul volto contratto di Morgana quando questa raggiunse il ballatoio. Inspirò rumorosamente, aggrappandosi alla staccionata. Rinnovò per l'ennesima volta il proprio giuramento, e poi svenne, cogliendo nel vasto cielo oscuro che la sovrastava, cieco e dimentico della dolcezza del crepuscolo, un fulmineo frammento infuocato: la scia di una cometa a tre punte, di un carico color vermiglio.

*  *  *

A molte leghe di distanza, avvolto nel tepore del sonno, Merlin rinnovò a sua volta, con voce impastata, il medesimo giuramento, mentre guizzi di rosso e d'oro gli danzavano dietro le palpebre serrate, in una danza incalzante e primitiva.
 

 

Ebbene sì, il capitolo si concentra sul personaggio del ciclo arturiano che amo di più: Morgana. Non riesco ancora a capacitarmi di come gli autori di Merlin l’abbiano trasformata in una megera, dai capelli unti e dalle strane tendenze sadomaso (vogliamo davvero parlare delle scene della quarta stagione in cui fa “cantare” Gwaine? No? Concordo) e, come se non bastasse, schiumante di rabbia verso ogni cosa che respira. Credo che avessero per le mani un personaggio abbastanza complesso, che certo meritava più di caratterizzazione (ma dopo Guinevere la Piatta tale negligenza non mi sorprende). Ho voluto tentare di ridarle spessore: se davvero la vogliono tutta vestita di nero e con dei capelli che sono quasi dei rasta, va bene. Ma ci metto del mio per salvarla dallo scempio. Per dirla alla Barney Stinson: challenge accepted. Aspetto impaziente i vostri pareri sul risultato: la grande difficoltà è consistita, per me, appunto nell’introdurre e tematizzare Morgana in modo plausibile.

Grazie alla comparsa di Morgana ho potuto inoltre fornire una biblica digressione sul regno di Listenoise, verso il quale la nostra cricca amatissima è diretta. L’ho ritenuto necessario, in parte perché ora l’azione si sta decisamente spostando e a me davvero urta quando il lettore viene messo di fronte a scenari troppo sfumati: preferisco fornire un buon background, particolareggiato, anche per ragioni di credibilità (insomma, nessuno di noi amerebbe Tolkien, Martin o la Zimmer Bradley se non fossero precisi nelle descrizioni di luoghi e personaggi. Non che voglia mettermi al loro sommo livello, per carità: ma un discepolo fedele prende sempre esempio). Una seconda ragione che giustifica tutta questa digressione è data dal fatto che il personaggio principale – Percival – proviene da questo ambiente; Blanche e le Sacerdotesse, che decideranno della sorte di Arthur, pure. Anche in questo caso vige la norma, mia personalissima, di non far balzar fuori ambienti o personaggi dalle pagine scritte come se venissero dal nulla. Come si vedrà più avanti, la Coppa è legata personalmente a tutti questi personaggi e sarebbe sciocco tralasciare la descrizione dell’ambiente in cui operano. Una terza ragione concerne la struttura della fabula: ogni dramma ha bisogno di un cattivone dichiarato. Qui ne abbiamo due: Hengest e Morgana, la strana coppia. Insomma, mica pensavate che la quête dei nostri eroi sarebbe stata facile? Insomma, fatemi sapere cosa ne pensate nel complesso! O almeno, ditemi se vi è suonato plausibile. Diventerò molto meno prolissa nel caso me lo chiediate.

Gli stemmi che Morgana ricorda nel cortile del castello, quelli di Pellinore e Aglovale, non sono naturalmente una mia invenzione. Nei codici miniati ogni cavaliere del ciclo è perfettamente riconoscibile, anche quando coperto dall’armatura, proprio in virtù di questi stemmi. Il motivo disseminato a croci è ovviamente un riferimento cristiano; in questa sede l’ho tuttavia omesso, mi farò venire un’idea quando tematizzerò – se lo farò – lo stemma di Perce, che a sua volta è disseminato di croci.

Quanto alla fugace apparizione di Aithusa, nei ricordi di Morgana, l’ho percepita come necessaria. Nel corso della storia tenterò di dare la mia spiegazione al suo salvataggio di Morgana. Perché se la mia prima reazione vedendo Aithusa gorgogliare tutto allegro a Morgana è stata “Wtf?”, la seconda è stata: “Potenziale narrativo!”. Smisurato, per altro. State sintonizzati.

Scusatemi inoltre se ho eliminato – forse in modo affrettato e inadeguato – tutta quella ridicola storia del “Voglio diventare la Regina di Camelot, subito!”. Anche lavorando fervidamente d’immaginazione, non riesco proprio a concepire come, a quell’epoca, una donna potesse avanzare pretese su un trono nel modo in cui gli autori della serie ci hanno presentato: nel caso di Morgana è ancora più difficile, perché non solo è una donna, ma per di più una figlia illegittima, senza basi giuridiche quindi per pretendere il trono di Camelot. Neanche a inventarle suonerebbero plausibili! Come ho già detto, la storia di Morgana schiumante di rabbia la posso accettare: però preferisco inquadrarla in una dimensione più umana (il problema ricorrente dell’accettazione della magia e del fatto che Morgana, in quanto essere magico, è emarginata socialmente) e meno politica. Spero di aver liquidato degnamente il nonsense dinastico degli autori di Merlin. Fatemi sapere che ne pensate!

Nel complesso il capitolo non mi soddisfa affatto, ma siete voi lettori a doverlo giudicare con la severità che merita: spero che la struttura narrativa vi risulti solida. Spero inoltre di aver aggiunto un po’ di polpa misteriosa alla vicenda della Coppa e dell’avvelenamento di Guinevere. Poi, siccome sono una fan sfegata delle voci misteriose, ci tengo a sottolinearne il gradito ritorno! Vi ricorda qualcosa?

So che la mancanza di Arthur, Merlin e Percival farà probabilmente scendere il rating di gradimento del capitolo e della storia. Ma il capitolo era davvero lungo e denso di funzioni narrative (introdurre Morgana, Hengest, addensare il plot) così com'era, non me la sono sentita di allungarlo ulteriormente. Se è una schifezza, vi prego, ditemelo gentilmente.

Come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo, e vi prego di segnalarmelo in maniera impietosa!

Credo che il prossimo aggiornamento non si farà attendere così a lungo. Per rassicurarvi, vi comunico che le linee guida dei capitoli VIII, IX e X sono già state stese e che gli elementi narrativi sono stati “incastrati” tra loro il meglio possibile; unica pecca è che, con il procedere della storia, sento sempre più l’assenza di brainstorming e l’aumento dell’ansia da errore, per cui tendo a rielaborare il tutto mille volte. Ma tutto sommato manca solo la stesura, il che mi fa ben sperare per un aggiornamento in tempi ragionevoli!

Il prossimo capitolo sarà dedicato totalmente a) all'azione (un po' di budella qua e là, finalmente!); b) all'interazione tra i nostri beniamini. A questo riguardo ringrazio tutti coloro che hanno commentato l’idea del quadrato amoroso, e annuncio che ormai è un pentagono.

Recensori (e lettori): vi adoro, vi amo, vi venero!

 

Da ultimo: care/i lettrici e lettori – esonerati le/i mie/i fedelissime/i che mi lasciano sempre le loro stupende recensioni – vi prego: so che ci siete, o almeno lo spero. Lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, i vostri commenti. Insomma un vostro aiuto “verbale” mi spronerebbe, più che a scrivere, a migliorare, perché diciamocelo: le persone che scrivono e pubblicano, nonostante spesso dicano di farlo per sé, in realtà lo fanno per condividere qualcosa di sé con gli altri. Mi piacerebbe avere un dialogo con tutte/i voi!

 

A presto!

Quainquie

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