Historia Russiae - Così divenni grande di TonyCocchi (/viewuser.php?uid=28966)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La scoperta dei girasoli ***
Capitolo 2: *** La vita di allora ***
Capitolo 3: *** Tutto finì coi rintocchi ***
Capitolo 4: *** 1240: la barca, i fiori, la bimba, la gamba ***
Capitolo 5: *** Sorellina ***
Capitolo 6: *** La promessa di una vita ***
Capitolo 7: *** Un inchino per rialzare il capo ***
Capitolo 8: *** La Battaglia del Lago Ghiacciato ***
Capitolo 9: *** Come cresci, così sarai ***
Capitolo 10: *** Radiosa illusione ***
Capitolo 11: *** Visite proficue ***
Capitolo 12: *** Rivalità ***
Capitolo 13: *** Sogni caduti, realizzati, a venire ***
Capitolo 1 *** La scoperta dei girasoli ***
Hetalia - Russia (storia)
Un
caloroso “Ehilà a tutti!” dal sottoscritto ai lettori di questa mia nuova e
ambiziosa fic. Talmente ambiziosa che non so se riuscirò a portarla avanti con
costanza ora che tra breve ricominceranno i corsi alla mia università, ma spero
comunque che l’ispirazione e il tempo di scrivere non manchino e che il
risultato vi piaccia! ^_^
In
caso contrario, trasformerò la fic unitaria in una serie di one-shot; si vedrà…
Lo
spunto iniziale è la mia passione per il personaggio di Russia, di cui vorrei
proporvi (grazie wikipedia per le preziose informazioni) la sua storia, sin da
quando l’enorme e ambizioso Ivan Braginski non era che un figlioletto di uno
dei piccoli tanti stati della Russia di allora.
Buona
lettura, spero vi piaccia (anche perché per scrivere solo questo primo
capitolo, sei pagine di word, ci sono volute quasi tre ore! XD)!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS:
Colonna sonora consigliata per il capitolo: http://www.youtube.com/watch?v=7CbxBiPArkc
CAPITOLO 1 – La scoperta dei girasoli
I
larici si innalzavano rigogliosi e altissimi tutto intorno. Il sole riusciva a
giungere alla terra solo in sparute chiazze dai contorni frastagliati.
Un
tappeto di foglie, pigne ed aghi secchi si spandeva sotto di essi, dove quel
giorno, in cui la primavera aveva inizio, una donna portava il proprio
figlioletto in braccio attraverso il bosco, senza fatica e senza paura, verso
la sorpresa che gli aveva promesso.
Ad
ogni passo, un crepitio saliva su alle loro orecchie e a quelle degli alberi
più in alto ancora. Al suo passaggio, i lembi della tunica bianca e del
mantello di pelliccia carezzavano il suolo appena calpestato.
La
donna sembrava sapere così bene dove stava andando da non preoccuparsi
minimamente dei pericoli che potevano incorrere, tutti soli, racchiusi
nell’ombra e nel silenzio della foresta.
Era
fiducia. Fiducia nella terra che calpestava, e nella natura che la circondava.
Una
fiducia che venne onorata e ricambiata, poiché nulla turbò lei, o il bimbo,
lungo il faticoso tragitto. Gli abeti, signori della foresta, e le loro bianche
sorelle betulle sembravano farsi da parte al loro passaggio, scortarli,
guardarli con tenerezza e giurar loro protezione dai pericoli che dietro di
essi potevano star nascosti.
Lei
aveva l’aspetto di una chioccia, florida in viso e in corpo, con un sorriso
sempre presente tra le grandi guance; i capelli rossicci come foglie d’autunno
scendevano tortuosi dietro le sue spalle.
Le
braccia, altrettanto paffute ed altrettanto forti, reggevano un bambino che
nell’aspetto non aveva che pochi anni, coi capelli così chiari da sembrare più
bianchi che biondi. Si reggeva al vestito e alla spalla della madre, e
mostrava, al centro del viso innocente, il suo identico buffo nasone.
Oltre
al colore dei capelli, solo un altro dettaglio distingueva quella gigantessa e
il suo degno frutto: gli occhi di lui, curiosamente viola.
“Manca
molto?” chiese il piccolo.
“No,
la tua sorpresa è lì: dove gli alberi finiscono.”
Il
bambino guardò in avanti e socchiuse gli occhi, perché da lì la luce,
approfittando dell’ombra che si diradava e infine spariva, si divertiva a
fargli il dispetto di abbagliarlo con dei piccoli lampi.
“Che
sorpresa è?”
“Voglio
mostrarti qualcosa che ti piacerà.”
Cosa
poteva esserci di così bello da far decidere a sua madre di fare tutta quella
strada da nord? Non si era stancata? Meno male che non faceva più tanto freddo
in quel periodo, altrimenti coi suoi piedi scalzi avrebbe faticato molto di
più.
“Ecco.”
Proprio
allora, invece di spalancarli, strinse i suoi occhi, bruciati dall’improvviso
sbucar fuori dal bosco.
Allora
la mamma gli prese la mano dietro cui si era riparato e la scostò piano,
dicendogli dolcemente: “Guarda, Russia.”
I
suoi occhi si abituarono e il fiato del bimbo venne mozzato dallo scoprirsi in
cima ad un declivo, oltre il quale si stendevano ampie e verdi pianure fino
all’orizzonte, solcate da enormi fiumi di cui sembrava poter sentire il potente
rombo, e, portando di nuovo l’occhio vicino, appena sotto di loro, vide anche un
ondulante prato di alti steli, che terminavano in tante punte acuminate del
colore dell’oro.
“Ti
piacciono?”
“Che cosa sono?”
“Andiamo a vederli più da vicino, su!” disse iniziando ad avventurarsi con
cautela giù dalla pur dolce discesa, per raggiungere il campo con quegli strani
fiori.
Russia
però non guardava solo quei fiori, guardava tutto.
Non
aveva mai visto così tanta… luce.
Quando
per la prima volta gli avevano detto che il colore vero del cielo era l’azzurro
e non il grigio chiaro aveva pensato ad uno scherzo: vedeva quasi sempre il
secondo e quasi mai il primo dopotutto.
Quando
per la prima volta gli avevano detto che lontano c’erano persone che non
avevano bisogno di camini per sentire il caldo, si era sentito triste di essere
nato in un posto così gelato.
Ma
allora quanto si erano spinti lontano per vedere tutto ciò?
Il
freddo c’era ancora; il vento soffiava arrossandogli labbra e guance, dandogli
la sicurezza di essere ancora a casa; ma il cielo era dell’azzurro più bello
che avesse mai visto, l’erba, gli arbusti e le coltivazioni sotto quel cielo
erano di un verde così luminoso che sembravano brillare da sole, e la neve
sembrava solo un lontano ricordo.
Tutto
era così chiaro agli occhi, tutto così allegro e colorato.
Tornò
col naso all’ingiù e si vide circondato da quegli strani fiori, immerso sempre
più in quel laghetto giallo, via via che sua madre, Moscovia, avanzava
lentamente nel fitto degli steli.
Non
erano belli come i fiori che le bambine si facevano mettere nei capelli dai
genitori nei giorni di festa, scuri e pelosi dentro e tutti appuntiti fuori, ma
a lui piacevano.
“Che
cosa sono?”
“Si chiamano girasoli. Si chiamano così perché seguono il sole. Osserva: hanno
tutti la “faccia” rivolta verso di lui.”
Quel
dettaglio così strano lo fece di nuovo sospirare dalla sorpresa.
“Lo
seguono: sanno che sono vivi grazie a lui e quindi lo accompagnano per tutto il
suo tragitto di giorno. Poi vanno a dormire, e non appena lui rispunta si
svegliano e si voltano a salutarlo, contenti di rivederlo.”
Ormai
Russia aveva la certezza che nessuno di quei fiorellini che aveva visto fino a
quel momento potevano competere con loro, così grandi e così… vivi!
“Posso
prenderne uno? Voglio portarlo a casa! Però… Da noi il sole non c’è quasi mai…”
Moscovia rise: “Ma cosa dici?”
Lo posò a terra: “Raccoglilo pure.”
“Posso?”
“Avanti!”
L’aveva
portato lì per quello in fondo.
Russia
ne cercò con gli occhi uno speciale, e quando anche se era uguale a tutti gli
altri fu completamente certo di averlo trovato, lo afferrò con le mani avvolte
dai guanti senza dita e lo tirò fuori dal terreno.
Lo
guardò: era quasi più alto di lui.
Moscovia
si inginocchiò: “A lui il sole non mancherà, e lo sai perché?”
Russia,
abbracciato al suo primo girasole, fece no con la testa.
“Perché
siamo già a casa, non devi portarlo da nessuna parte. A te sarà sembrato
lontano, ma in realtà anche questa è la nostra terra. La tua terra.”
Incredulo,
Russia si guardò intorno, ma piccolo com’era, poteva vedere solo il fitto di
steli o farsi finire negli occhi le foglie.
Allora
lei lo sollevò, afferrandolo sotto le braccia, e gli mostrò nuovamente il
campo, il paesaggio che lo circondava, il bosco di sempreverdi da cui erano
venuti, il grande cielo sopra di lui.
“Tu
sei anche questo, Russia.”
Spazi
immensi. Vento che non da solo i brividi, ma spazza l’aria, la fa linda e
profumata, fa sembrare vivi alberi e fiori, danzare l’erba. Luce che brilla in
un modo che in quei paesi dove il sole picchia sempre e l’aria è sempre calda e
pesante non conoscono.
“Io…”
“Si…”
Lo
sistemò tra le sue braccia e lo baciò in fronte.
“Ascolta,
Russia…” –disse guardando negli occhi il bimbo- “Il fiore che hai in mano segue
sempre la luce, anche tu devi essere così. Per quanto possa fare freddo, per
quanto le nuvole e la pioggia possano tenerti al buio la maggior parte del tempo,
per quanto il posto dove vivi potrà sembrarti difficile e malvagio, o
insensibile, o addirittura morto, ricordati che dietro le nuvole il sole
c’è sempre, e vuole che tu lo segua. Perché da lui c’è la vita… il calore…
l’amore…”
Forse
Russia era troppo piccolo per quelle parole così difficili. Le aveva ascoltate
a bocca aperta, colto dai brividi, affascinato dal tono della sua voce e dal
misterioso e bellissimo messaggio che voleva trasmettergli, che forse avrebbe
presto dimenticato.
Sperando
non fosse così, Moscovia lo baciò di nuovo sulla fronte, e poi avvolse nella
sua enorme mano la manina che stringeva il girasole.
“Segui
sempre il sole.”
“Si,
mamma!”
La
abbracciò e poi, ridendo, ricominciò a guardarsi intorno, perché non ne aveva
ancora avuto abbastanza… di sé stesso! Per vedere meglio, chiese alla mamma di
sollevarlo sulle sue spalle.
Cominciò
a scrutare da tutte le parti, come una vedetta, mentre lo reggeva per le
caviglie e col robusto collo.
“…
Oh! Guarda!”
Si
girò verso sinistra e vide, nell’erba alta che si stendeva in quella direzione,
subito dopo i girasoli, una sagoma alta e slanciata farsi largo tra le spighe e
venire nella loro direzione. A quanto pare qualcun altro aveva approfittato
della bella giornata per andare a passeggio.
“Zio Kiev! È zio Kiev!”
“Che
sorpresa!” si rallegrò anche la mamma.
“Andiamo
da lui!”
“Va bene.”
Uscirono
dal campo e il mare brillante di fili, alcuni dorati, altri di tanti altri tipi
di verdi chiari, li carezzò al loro passaggio.
Infine,
arrivarono abbastanza vicini all’uomo da riconoscerne la lunga chioma bionda, i
lineamenti, e infine il sereno sorriso.
“Moscovia.”
la salutò, omaggiandola chinando di poco il capo.
Il
principato di Kiev, il più rispettato e potente tra coloro che abitavano la
Rutenia al di qua degli Urali, nonché suo zio preferito, nell’aspetto si
dimostrava per certi versi più giovane rispetto alla madre, per il volto
rasato, il candore della propria pelle, il fluire della chioma di fili d’oro,
simile a quella di una donna.
Ma
per altri, invece, come era in realtà, ben più vecchio: il bel viso aveva i
lineamenti maturi, decisi che sembravano scolpiti, era magro, ma molto alto, e
ben dritto, solenne, tutt’uno con la sua tunica verde scuro. Questa scendeva
dal collo ai piedi, tenuta in vita da una cintura di cuoio dalla fibbia
argentata, da cui solitamente, ma non quel giorno, pendeva una spada; sul verde
spiccavano vari inserti dorati, e gli orli delle maniche in pelliccia.
“Kiev.”
–si inchinò lei, più profondamente- “Mi fa piacere rivederti.”
Moscovia
si accorse che, esattamente come lei, il suo figlioletto stava ammirando con
gli occhi spalancati ciò che Kiev si era portato lì quel giorno al posto della
spada.
“Non
dirmi che quella che hai in braccio è tua figlia!” si congratulò la paffuta Moscovia.
Il
chiarore di Kiev lasciò il posto a un paterno rossore: “Lei è Ucraina.”
Moscovia
e il potente principato non si vedevano da un bel po’, e la novità la riempì li
gioia. La bimba, che nascondeva la faccia contro quella del papà, indossava una
veste bianca con una mantellina gialla, e portava calde scarpette di pelle come
quelle che era riuscita a comprare a Russia per il suo ultimo compleanno.
“Posso
vederla?” chiese proprio lui, scalpitando un po’ per far capire alla madre che
voleva si avvicinasse.
Come
lei fece un passo avanti, Russia iniziò già ad allungare una mano cercando di
toccarle una spalla; forse così si sarebbe girata, ma non ci arrivava.
“Ucraina,
dai, salutalo!” la incoraggiò il serafico Kiev, e la piccola si voltò.
Aveva
gli occhi grandi e azzurri, e i capelli di un biondo chiarissimo, come quelli
del bimbo; pallido in confronto all’abbagliante giallo del girasole che ancora
stringeva forte nella sua mano, ma capace di restituire agli occhi tanti
bellissimi riflessi grazie a quel sole primaverile così sfavillante. Erano
tagliati corti, e cadevano in avanti giù sulla fronte, e sui lati giù fino alle
orecchie.
Ad
Ivan sembrò che indossasse come una scodella d’oro per cappellino.
“È
la bambina più bella del mondo!”
“Oh,
ma sentitelo il nostro piccolo corteggiatore!” -rise Moscovia- “Perché non le
dai un bacino allora?”
Lui
era sulle spalle della madre, ma la differenza era colmata dall’altezza dello
zio e così, ben sorretto dalla sua mamma, poté sporsi per toccarle la guancia
con le labbra.
“Io
sono Russia.” si presentò prima del tocco.
Ucraina
non conosceva ancora molte parole per capire, o per esprimere i propri
sentimenti, ma doveva essere contenta quanto lui. Infatti sorrise, e poi tornò
a nascondersi.
“Bel
fiore quello che hai lì.” sviò il discorso Kiev, carezzando la testa alla sua
timidissima primogenita.
“Grazie!”
–sorrise Russia- “Con questo saprò sempre dov’è il sole, anche quando fuori c’è
la bufera!” –spiegò, agitandolo entusiasta.
“Russia,
adesso sarà meglio avviarci a casa: se non gli diamo acqua e un po’ di terra
seccherà.”
“Oh,
no! Non voglio che muoia!”
“Allora andiamo, che al villaggio potrebbero stare in pensiero. Saluta lo zio
ed Ucraina.” -disse, accomiatandosi con un secondo inchino.
“Ciao zio Kiev! Ciao ciao Ucraina!”
“Ciao
Russia. Buon viaggio Moscovia.” salutò il principato, mentre Ucraina provava ad
imitarlo, agitando la mano come faceva lui.
“Russia
sta crescendo bene, vero? Cresci presto anche tu, piccola mia.” disse
riprendendo la loro passeggiatina di inizio primavera.
Moscovia,
fattolo scendere dalle proprie spalle, lo caricò nuovamente sulle instancabili
braccia, ripercorrendo a ritroso i suoi passi.
Russia
continuava a guardarsi dietro le spalle, rattristandosi sempre di più mentre
Kiev tornava ad essere un lontano puntino.
Beati
loro, si disse, che sono ricchi e possono passeggiare quanto vogliono. Beati
poi perché vivevano più giù rispetto a loro, dove il tempo era un po’ meno
brutto.
Sentì
la madre sospirare e riprendere fiato dopo la salita che li aveva riportati in
cima al colle: il bosco di larici, smisurato, altissimo, avvolto nell’ombra, si
stendeva di nuovo dinanzi a loro.
Russia
diede un ultimo sguardo alla valle dietro di sé, ai suoi fiumi e ai suoi campi
coltivati, e mentre i suoi occhi si riabituavano alla poca luce, le iridi viola
si fissarono sul suo fiore.
Sembrava
lui stesso un piccolo sole.
Lo
guardò e sorrise, come fosse stato quello vero.
Anche
se era finita presto, era stata una giornata magnifica.
Aveva
visto per la prima volta i bellissimi fiori che seguono sempre la luce, e la bellissima
bimba con la coppetta dorata sulla testa, con cui non vedeva l’ora di giocare
insieme.
Aveva
scoperto che il mondo in cui viveva era tanto vario, e non sempre brutto e
freddo.
“Tu sei anche questo, Russia.”
Abbracciò
il suo girasole e chiuse gli occhi, addormentandosi subito, cullato dal rumore
dei passi di mamma Moscovia che si inoltrava nel fitto della foresta, sparendo
dietro i maestosi e irti alberi, diretta verso il camino di casa.
NOTE
STORICHE
Ci
troviamo nella Russia del XII-XIII secolo circa. Allora ovviamente, la “Rutenia”,
come la chiamavano in occidente, non era dominata da uno stato unitario, ma era
invece suddivisa in un numerosi principati. Tra questi il più forte era lo
stato di Kiev (l’odierna capitale dell’Ucraina), che per lungo tempo non fu
solo uno dei tanti, bensì, per la sua forza e il suo prestigio, esercitò una predominanza
su tutti gli altri. Questa sorta di primitiva confederazione di principati slavi
prendeva il nome di “Rus di Kiev”, esteso dal Mar Baltico fin quasi al Mar Nero,
dalla Polonia agli Urali; è proprio dal termine “Rus” che è derivata la parola “Russia”,
ovvero il nostro (per ora “piccolo”) Ivan Braginski.
Kiev
era allora una città fiorente e in stretti rapporti con l’ancora vivente Impero
Bizantino. Mosca invece, da cui sarebbe un giorno ascesa la Russia odierna, era
ancora una piccola e per nulla ricca città di un principato minore, chiamato Vladimir,
e in seguito Moscovia.
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Capitolo 2 *** La vita di allora ***
Ed
eccoci al secondo capitolo, cari lettori! In questi giorni ho modificato
leggermente l’introduzione e i generi di questa storia, non trovandoli chiari
appieno. In effetti, visto che EFP consente di scegliere solo tre generi, la
cosa mi ha messo un po’ in difficoltà, visto che questa fic, per come l’ho
progettata, avrà in sé momenti di vario genere (drammatico, comico,
introspettivo, storico, guerra, angst…).
Il
capitolo che vi apprestate a leggere ora, ad esempio, possiamo considerarlo
“Slice of life”, e ancora un po’ “Fluff”, come il precedente (avvisi che però
non ho potuto mettere nella descrizione volendo essere più generale); ma badate
bene che i prossimi capitoli saranno ben differenti!
Dopotutto,
conoscete bene com’è il nostro Russia in Hetalia, e che la sua giovinezza è
stata tutt’altro che facile!
Buona
lettura!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
CAPITOLO 2 – La vita di allora
Sopportò
la tensione per un istante e portò le mani più avanti lungo la fune, pronto ad
un nuovo strattone. Per darsi un po’ più di forza, e anche per evitare di
essere lui a venire sollevato anziché il secchio, prima di tirare piazzò un
piede contro il muretto di pietre che delimitava il pozzo. Ormai ce l’aveva
quasi fatta.
Un
uomo, appesantito da una cascina di legna dietro le spalle, passò in quel
momento per il centro della piazza: “Vuoi una mano, piccolo Ivan?”
“No, grazie!” –rispose subito- “Non si preoccupi.”
“Sicuro?”
Gli rispose stringendo i denti e compiendo un ultimo sforzo.
Il
secchio metallico, pieno d’acqua fin quasi all’orlo era ora arrivato in
superficie ma era troppo basso per sporgersi a prenderlo senza dover salire sul
ciglio del pozzo; si era dunque portato dietro un bastone da cui spuntava,
verso la fine, un ramo spezzato, abbastanza resistente da fare da uncino per
riuscire a prendere il manico del secchio e posarlo a terra, non senza
difficoltà.
“Visto?”
L’uomo
andò via senza dire altro e Russia fu contento di averlo aiutato.
Perché
nelle loro terre c’erano due modi per dare una mano alle persone: offrire loro
aiuto, e non accettarlo.
Quel
tipo stava certamente portando della legna alla sua famiglia per scaldarsi; veniva
dal bosco dove aveva lavorato duramente con la scure per proteggere sé stesso,
la moglie e i figli dal freddo, e probabilmente altro lavoro lo attendeva lungo
la giornata per procurar loro da mangiare. Meglio non stancarlo con qualcosa di
banale come tirar su un po’ d’acqua se poteva riuscirci anche lui con un
pochino di sforzo: di sicuro, come tutti, aveva già le sue fatiche e i suoi
problemi.
Provò
a sollevare il secchio, ma lo scoprì ancora più pesante di quando l’aveva
tirato su. Buttò un po’ d’acqua per terra e, quando il peso fu comunque tanto,
ma sopportabile, afferrò il manico con entrambe le mani e si avviò verso casa.
“Serve
aiuto?” chiese il conciatore quando passò dinanzi il tendone che gli faceva da
bottega.
“No.”
si sbrigò lui, altrettanto “gentile”.
Nel
loro villaggio, Mosca, si conoscevano quasi tutti, e lui e la mamma, la
fondatrice, erano sempre trattati con un occhio di riguardo, un occhio dal cui
sguardo Ivan si riparava sempre.
Gli
piaceva vedere di tanto in tanto quelle piccole scene d’altruismo, ma al
contempo si dispiaceva di dover essere tanto scostante per poterle ricambiare.
Purtroppo
erano nati lì e non altrove.
Pur
così piccolo, Russia era già capace di pensieri profondi, come arrivare a
capire che gli abitanti di un posto non possono che riflettere il posto stesso.
Se
la terra è fredda e difficile, la gente deve divenire necessariamente
altrettanto fredda per poter sopravvivere.
Se
ne era reso conto in quegli anni in cui gli inverni erano stati particolarmente
duri.
In quei periodo, spesso arrivavano da loro mercanti e gente semplice di
villaggi sia vicini che lontani, chiedendo di poter acquistare delle provviste,
anche a prezzi esorbitanti. Ed ogni volta li avevano rimandati indietro a mani
vuote.
Alcuni
di quei villaggi avevano superato il momento difficile, e nelle belle stagioni i
loro abitanti si univano ai loro per festeggiare insieme il nuovo raccolto, la
Santa Pasqua, o tornavano di tanto in tanto a vendere le loro merci come sempre
avevano fatto.
Gli
abitanti di altri villaggi invece non li avevano mai più rivisti; spariti, come
inghiottiti insieme alle loro case da un mostro crudele che aveva sempre
abitato tutto intorno.
E
se non fossero stati altrettanto crudeli, altrettanto spietati, forse sarebbero
spariti anche loro.
Quando
questo genere di pensieri affliggeva il grande cuore del piccolo Russia, lui subito
andava a ripescare nella sua mente il momento in cui sua madre gli aveva fatto
scoprire i girasoli.
Gli
bastava quel poco per ritrovare il sorriso e ricominciare a salutare coloro che
incrociava lungo la via.
“Serve
una mano con quel secchio, Ivan?” chiese una donna che vendeva pesce sotto sale.
“No,
grazie!” la rassicurò lui, tentato di accettare.
Era
vero, la loro vita non era facile come a sud: i loro popoli facevano
continuamente i conti con la neve, la grandine, le bufere, la terra durissima all’aratro,
e a volte avara, le carestie, gli orsi e i lupi, i predoni, che pure dovevano
vivere di qualcosa, a costo di rubarlo.
E
tanto altro ancora.
Ma
quel freddo era la stessa cosa che permetteva le calde riunioni davanti al
focolare insieme a sua madre e alle altre donne, dove insieme agli altri
bambini si incantava ad ascoltare tante belle fiabe e storie del passato; come
di quando Vladimiro il Santo, signore di Kiev, dovendo scegliere per il suo
regno tra la religione dei cristiani, quella degli ebrei e quella degli
islamici rifiutò subito con terrore quella di questi ultimi quando udì che
vietava di bere l’alcol.
“Bere
è la gioia dei Russi!” faceva sua madre, imitandone il vocione.
Quel
freddo era la stessa cosa che rendeva così festose e piene di risate le
riunioni degli adulti nelle taverne, dove ogni sera andavano a farsi diventare
il naso di uno sfavillante rosso che l’acqua non poteva dare.
Quel
freddo era la stessa cosa che gli faceva godere i momenti di caldo.
E
il caldo gli apparteneva proprio come il freddo, perché era nella sua natura, e
nel profondo in quella della sua gente.
Ora
che l’aveva capito, non era più così malinconico come prima.
Grazie
a sua madre, e a quel giorno, portava adesso stretta al cuore la speranza, così
infantile e ingenua, di non dover riflettere a tutti i costi un posto che non
era per forza così male come lo si dipingeva.
La
casa in cui vivevano era identica a tutte le altre, salvo per le dimensioni
maggiori: a un solo piano, fatta di legno e pietre e col tetto in paglia, poco
distante dal mercato e dalla chiesa. L’ingresso era protetto da una solidissima
porta di quercia con un batacchio in ferro, al quale era ancora troppo piccolo
per arrivare.
Scostò
un po’ di neve di troppo caduta dal tetto davanti l’uscio e picchiò col pugno
per farsi aprire.
“Mamma”
–chiamò- “Ti ho portato l’acqua.”
“Ma
quanta ne hai presa?” borbottò Moscovia non appena gli aprì.
“La
porto dentro io.”
“Perché
non lasci fare a me?”
“Sono io l’uomo di casa.” disse a denti stretti per lo sforzo.
Appena
si entrava ci si ritrovava in una grande sala rettangolare che costituiva quasi
tutta la casa. A parte quell’ambiente infatti c’erano solo uno sgabuzzino per
attrezzi, sulla destra, e solo altre due stanze più piccole, senza porta e
comunicanti fra loro, sul lato sinistro, quelle in cui dormivano.
Al
centro dell’ambiente, isolati in un cerchio di grossi sassi, stavano finendo di
ardere alcuni tizzoni. Sopra di esso, appesa a un gancio, c’era una pentola,
dove in quel momento però non bolliva nulla.
“Come mai hai ne hai presa così tanta?”
-chiese Moscovia tornando a fare ciò che stava facendo: avvolgere le provviste
nei fagotti di tela per il viaggio.
“Me
ne serviva un po’ per i miei girasoli.”
Russia
le passò accanto per prendere dal tavolo un boccale e andare poi a riempirlo
nel secchio che aveva appena portato.
“Capito…”
Se
gli serviva per annaffiarli però, come mai stava portando il boccale in camera
da letto?
Sospettosa,
lo seguì e si affacciò alla porta.
“Di
nuovo?!”
Colto
sul fatto a rovesciare l’acqua su un mucchietto di terriccio ammonticchiato a
un lato del suo letto, dal quale si alzavano due girasoli, girati verso la
finestrella in alto sulla parete.
“Ecco…
In questa stagione hanno freddo e…”
“Quante volte ti ho detto che non devi buttare terriccio per casa per
coltivarci i girasoli?!”
“Ma
stavolta sono in camera mia!”
“Non mi interessa, non si sporca in questo modo la propria abitazione.”
Russia
si chiese che male potesse fare: sotto lo strato di paglia su cui camminavano
non c’era forse altra terra?
Moscovia scosse la testa sospirando: “Al tuo prossimo compleanno ti compro un bel
vaso tutto tuo per tenerceli. Ora però, da bravo, vai a piantarli fuori. Penso
io a togliere il terriccio.”
Mormorando
deluso, Ivan tirò delicatamente via dal monticciolo di terra i suoi due fiori e
si avviò fuori dalla stanza, sotto l’occhio vigile della sua amorevole
chioccia.
“So
che ti piacciono, ma mi sembra un po’ esagerato volerli tenere sempre vicino a
te. Non sono mica giocattoli.”
“Lo
so, per questo li tratto con tanta più cura dei miei giocattoli.”
“Eh, già.”
“Uffa,
non prenderli in giro!” –protestò lui, facendola ridere- “Guarda che sono
bellissimi, e anche utili! Se trovassimo il modo per sfruttarli, potremo farci
un po’ di soldi.”
“Per
questo li pianti ovunque?” –lei non era certo uno dei principati più ricchi,
per questo il suo piccino, desideroso di trovare il modo di farli vivere meglio,
ogni tanto si improvvisava in idee produttive- “E sentiamo, come li venderesti?
Sono solo fiori.”
“Sono
fiori speciali! Unici! La gente potrebbe usarli per viaggiare senza perdersi:
indicherebbero l’est di mattina e l’ovest di pomeriggio.”
“Ci
sono già le bussole, Russia.” lo smontò, malgrado trovasse la sua fantasia
irresistibilmente simpatica.
“Però
questi sono più belli delle bussole. Piaceranno alle signore!”
“Ah, quando parli così mi ricordi tanto tuo zio Novgorod! Però, non farti
troppe illusioni: forse al massimo riesci a venderli come cibo durante le
carestie.”
“Mai!”
ribatté stringendo i suoi steli.
“Dai”
–lo carezzò- “Ora vai a piantarli fuori che più tardi partiamo!”
“Evviva!”
Bastava
toccare il tasto giusto e Russia ridiventava subito obbediente, e non c’era
tasto migliore di lei che lo portava con sé per un viaggio verso sud.
Ivan
aprì la porta, ma si ritrovò a sbattere contro un paio di gambe.
L’uomo,
colpito mentre andava ad afferrare il batacchio, per poco non perse il
colbacco.
“Oh!
Ciao zio Tver! Scusa, non ti ho visto.”
Forse l’aveva intesa come una infantile presa in giro per la bassa statura, o
forse era semplicemente venuto lì già di pessimo umore, fatto sta che rispose
al saluto con un sommesso grugnito. Non a caso lui non rientrava nel novero dei
suoi zii preferiti.
I
suoi preferiti ovviamente erano zio Kiev, perché era famoso e rispettato, e zio
Novgorod, che abitava più a nord, perché faceva il mercante ed aveva sempre
tanto da raccontare e mostrargli. Tver invece era corto di statura ed aveva
quella brutta barba rada che sembrava avesse le guance coperte di spine
pungenti.
“Tver.
Benvenuto.” –disse Moscovia avvicinandosi alla porta- “Perdona l’irruenza di
Russia.”
“Non
importa.” –storse la bocca quello- “Sbaglio o in giro ci sono ancora più
girasoli dall’ultima volta che sono venuto?”
“Si, il mio Ivan ha preso l’abitudine di piantarne ovunque ci riesca.”
“Eh eh eh!”
Non
sempre riuscivano ad attecchire all’inizio, ma con un po’ di costanza ormai era
già un piccolo esperto di come coltivarli.
“Gli ho insegnato a seguire sempre la luce, come fanno i girasoli, e lui si sta
proprio impegnando.”
Ivan gli alzò i girasoli vicino il muso, a volerglieli mostrare più da vicino: “Sai
zio, mamma mi ha fatto vedere che la nostra terra non è sempre come dicono
tutti: può anche spuntare il sole, e allora diventa bellissima!”
“Ah,
davvero?”
“Si! Il sole dietro le nuvole c’è sempre!” –seguitò a raccontare le sue così
belle scoperte- “E poi anche se fa freddo non importa, possiamo essere
benissimo caldi noi!”
Tver
scoppiò a ridere, ed era una risata tutta sgradevole, sia da vedere che da
ascoltare: “Gli hai fatto qualche bel discorsetto per bambini tutto pieno di
buonismi, vero? Non è un po’ troppo grande per questo?”
Ivan
abbassò piano le braccia e i girasoli si allontanarono dallo zio, che per
contro si abbassò a qualche palmo dal suo naso: “Ascoltami, piccolo Russia, la
nostra terra è esattamente come dicono tutti: dura e selvaggia. E in terre così
è già tanto se sono le bambine a potersi permettere di piantare fiori.”
A
giudicare dalla faccia che faceva adesso, doveva essere sceso di un altro
gradino nella sua lista degli zii preferiti.
“Ascolta:
sii esattamente come la nostra terra, sii forte, sii egoista, se serve sbatti
la porta in faccia anche ai tuoi parenti. Una nazione da queste parti non ha
altra scelta per campare a lungo.
“Tver!”
Si
scostò da suo figlio. Non che avesse paura delle donne, ma Moscovia era il
doppio di lui, e non era venuto lì per litigare; anche se un briciolo di
gratitudine per la lezione impartita al figlio poteva mostrarglielo.
“Mamma…”
“Non ci pensare: lo sai che i grandi la fanno sempre difficile. Va un po’ a
giocare fuori con i tuoi girasoli adesso, io e lo zio Tver dobbiamo parlare.”
“Va bene.”
Non
solo non salutò lo zio, scappò via da lì a gambe levate.
Sbattere
le porte in faccia ai propri parenti? Come avevano dovuto fare quando i
villaggi più poveri avevano chiesto aiuto? Non poteva essere quella l’unica
strada.
Lui
l’aveva vista quella terra così luminosa e generosa, non l’aveva sognata.
Si
ritrovò dietro una delle case al limitare del villaggio e lì scavò a mani nude,
con fatica, due buchette per i suoi girasoli, ricoprendole subito.
Si
guardò intorno e vide che, dietro la casa vicina, c’erano ancora quelli che
aveva piantato alcuni giorni prima; non erano al meglio della forma con la neve
che era caduta, ma resistevano ugualmente.
Contento,
salutò carezzando con le mani sporche e arrossate le due corone d’oro e se ne
andò a cercare qualcuno con cui giocare fino alla partenza, e non ripensò più
alle parole dello zio.
Alcuni
giorni dopo, una colonna di carri trainati da robusti buoi giunse a Kiev,
portando con sé l’ambasceria da Mosca.
La
città capitale del “Rus”, che dava il nome al principato e a suo zio, sorgeva
sulle rive del fiume Slavutič, che
però i greci chiamavano Boristene. Il fiume scorreva giù fino al Mar Nero, e i
mercanti di Kiev lo discendevano ogni estate; quando tornavano, in autunno, portavano
con sé cavalli, gioielli, spade, magnifici calici di vetro dai tanti colori,
tantissime cose che da lui non c’erano e che solo lì riusciva a vedere e altre
che c’erano ma non erano così belle da vedere.
Adorava andare a Kiev perché era enorme: mura
altissime, ponti lunghissimi, tantissime case, intere flotte di navi sempre a
caricare e scaricare, e nulla a che vedere con le loro barchette. Persino la
loro chiesa era alta almeno il doppio o il triplo di quella che avevano a casa!
E poi c’era ovviamente lo zio, e, da qualche tempo,
Ucraina.
Prima che comparisse, zio Kiev giocava sempre un
po’ con lui, ma aveva tanto da fare, era una persona importante, e il gioco
finiva sempre troppo presto. Ma adesso che c’era Ucraina, era diventato ancora
più bello arrivare fin lì, perché il gioco durava tutto il tempo che volevano.
“La principessa rapita è stata rinchiusa in una
buia capanna nella foresta più folta che c’è, e il vecchio orco Koshchay ha
messo un drago sputafuoco di guardia.” -narrò Katyusha, facendo saltellare
intorno a sé, sul pavimento di assi, un draghetto fatto di legno intagliato.
“Ma l’eroe ha l’arma giusta per liberarla!” –entrò
a sorpresa in scena Ivan, brandendo il suo girasole con più convinzione della
spadina finta nell’altra mano- “Grazie al suo fiore magico riesce ad
attraversare la foresta senza perdersi, a schivare i pericoli, e ad arrivare
alla capanna!”
“E il drago? Come fai col drago?” –chiese la bimba
che muoveva il giocattolo intagliato, “ruggendo” minacciosamente.
Cresciuta un pochino, la “scodellina d’oro” in
testa aveva lasciato il posto a una breve treccia che scendeva dietro il suo
collo e tra le spalle; in compenso, i suoi abiti candidi con bordi dorati la
rendevano brillante in confronto al bambino, coperto di vesti ben meno
appariscenti e dai colori ben più scuri.
“Un draghetto così piccolino non può competere con
me!” –esultò lui, sconfiggendo il mostro con un solo colpo di spada.
“Evviva! Però…”
Russia, credendo di averla già salvata, si fermò bruscamente: “Però?”
“Però ora devono scappare! L’orco Koshchay è
tornato!”
“Via!”
Le prese una mano e uscirono dritti filati dalla
stanza, gridando, ridendo, e pestando il piede a una delle guardie in piantone
nel corridoio. Ucraina era una bimba tanto tranquilla, eppure, quando il figlio
di Moscovia arrivava al seguito della madre, i membri della corte e i soldati a
guardia del palazzo del signore del Rus sapevano che la pace era finita. Almeno
fino alla sua partenza.
Tuttavia, quella di Ivan era un’intrusione ben tollerata,
specialmente dal padre: la piccola giocava raramente con altri suoi coetanei, e
forse grazie a quel discolo si sarebbe aperta un po’ di più.
Senza contare che loro due non erano bambini come
gli altri, e specialmente Russia, nato prima di lei, avvertì da subito la nuova
arrivata come speciale, ben più che una compagna di giochi come tante.
Aveva giocato con molti bambini che adesso si
facevano già insegnare dai propri padri a radersi, o che tornavano a casa coi
cervi abbattuti sulle poderose spalle, molte bambine che ora avevano un marito
e figli che giocavano con lui, per il momento.
Lui invece era diverso: non sapeva quando sarebbe
cresciuto, né quanto.
Ucraina invece era come lei. E se ora ormai, su a
Mosca, Vadim e Azaliya erano diventati nonni, Katyusha era sempre lì, sempre
uguale, ad aspettarlo per giocare insieme.
“L’abbiamo seminato?”
“Non ancora!”
Proprio in quel mentre passarono oltre una porta e
la bambina accorciò il passo, facendo inciampare a terra l’altro nel tentativo
di fare altrettanto.
“E allora perché ti fermi?” domando, indispettito dal tonfo.
“Sssh!”
Ivan si rialzò e si affacciò anche lui: lei si era
messa gattoni, così lui poteva guardare senza difficoltà.
Dentro la stanza, dalle pareti di legno odorose di
resina, come la gran parte degli ambienti del palazzo, c’erano due uomini,
seduti l’uno di fronte all’altro su due sedie. Uno era Kiev, lo riconosceva dai
capelli e dalla voce anche di spalle, l’altro invece lo vedeva chiaramente, ma
non aveva idea di chi fosse. Aveva i capelli ricci, scuri come i suoi occhi: di
certo non era un ruteno. Forse era un greco, qualcosa di lui gli ricordava i
mercanti che aveva visto in città in altre sue visite. Sopra la veste bianca,
una toga di tessuto color porpora, un simbolo di regalità. Guardò la sua mano e
sbalordì ancora di più vedendovi un anello con una gemma rosso scuro
incastonata.
“Chi è?” sussurrò ad Ucraina.
“È Bizantino. È uno dei soci di papà.”
“Sembra molto potente.”
“Lui è l’erede di Roma.”
“Roma?! Quel Roma?! Il guerriero più forte di tutti? Quello che conquistò il
mondo?”
“Shhh!”
“Davvero è lui? Accidenti! Tuo padre è una persona straordinaria: conosce
persone così… importanti!”
“Maledetti! Maledetti crociati! Ma lo sai che hanno
persino mangiato il leone domestico dell’imperatore? Perché avevano fame!”
“Beh, suppongo che volessero arrivare ben
rifocillati per combattere al meglio in Terra Santa.” –ironizzò Kiev, badando
di usare un tono abbastanza amareggiato da non offenderlo, lungi da lui farlo.
“Non hanno avuto alcun riguardo… Hanno trattato me
e la mia gente alla stregua degli infedeli che andavano a combattere!”
“Ormai è così che stanno le cose: lo scisma ha
spaccato in due la nostra santa fede. Per loro è come le chiese d’oriente non
siano neanche più cristiane. Ti hanno visto come nient’altro che un eretico, da
poter liberamente depredare.”
Resosi conto dell’insostenibile nervosismo
dell’amico al pensiero di ciò che gli era capitato, Kiev si alzò per porgergli
dell’acqua fresca da una coppa. Il tavolo era fortunatamente a ridosso del
muro, perché il greco avrebbe sfogato volentieri la sua frustrazione su di esso
l’avesse potuto raggiungere.
“Sono desolato, amico mio.”
“Anch’io per te, Kiev. Dopo quel duro colpo i nostri traffici commerciali si
sono andati assottigliando sempre di più… E io so che in questo periodo ne hai
un disperato bisogno.”
Kiev tacque e si servì a sua volta dalla brocca
Mentre beveva, l’occhio finalmente gli cadde sulla
porta.
“Ucraina.”
Vinto il brivido che l’aveva percorsa, sua figlia
uscì allo scoperto e chinò il capo: “Scusami, papà.”
Russia uscì fuori e si inginocchiò velocemente:
“Scusami, Zio Kiev, sono stato io a cominciare a spiare.”
“Ma non è…”
“Shhh!”
“Ucraina, piccola mia, andate a giocare altrove,
per favore.”
“Si. Vieni, Russia.”
Russia finse di perdere tempo per rialzarsi in
piedi: voleva ammirare ancora più da vicino l’erede di Roma in carne ed ossa.
Si arrischiò a fare un passo avanti verso la sua sedia, sperando che lo zio non
lo scacciasse subito.
Bizantino si lasciò fissare, incuriosito a sua
volta, da quegli sgranati occhi viola.
“Lei… Lei è Bizantino? L’erede del grande Roma?”
domandò.
Sorrise: “Si, sono io.”
Russia sentì di non essere stato mai così
emozionato da quella volta in quel campo di girasoli: colui che gli stava di
fronte discendeva dal più grande di tutti i tempi.
E la sua ammirazione fu tale da non fargli
accorgere di quanta malinconia straripasse fuori da quelle iridi così scure; quale
senso di inadeguatezza fosse celato dietro quello scintillante anello e quella
regale porpora.
“Russia, per favore vai.”
“Si, va bene.”
Poteva ritenersi soddisfatto ora, anche senza sfidare
ulteriormente la pazienza dello zio.
Kiev si risedette e guardò l’amico svuotare di un
sorso il bicchiere. Schioccò le labbra, come le avesse ancora secche.
“Che sciocco quel bimbo” –si sfogò mentre le sue
orecchie erano ormai lontane e non poteva più rovinargli con la realtà la gioia
che la sua sola vista gli aveva procurato- “È passato tanto tempo. Ormai, una
simile meraviglia nei miei confronti, è ben più che sprecata.” mormorò.
“Sono tempi difficili per tutti.” annuì Kiev,
bagnandosi a sua volta le labbra.
Fantastico: aveva visto di persona colui attraverso
cui continuava a vivere la nazione più potente mai esistita. Lui si che era un
bambino fortunato! Quando sarebbe cresciuto, voleva diventare come lui, anzi,
come tutti e due!
“A cosa giochiamo adesso?” chiese Katyusha una
volta tornati nella sua stanzetta e saltati nel suo lettino.
Ivan allora si alzò in piedi e buttò in fuori il
petto, e non contento si alzò sulle punte, e non contento ancora rese la sua
voce bassa e tonante (per quanto possibile a un bambino): “Adesso giochiamo che
io sono Roma!”
Ucraina lo osservò con attenzione e prese a ridere
rumorosamente.
“Ehi! Perché ridi?”
“Tu non puoi essere Roma!”
“Certo che posso! Guardami! Sono enorme! Potentissimo! Il più grande e forte di
tutti!”
“No! Tu non sei Roma!” lo prese in giro Ucraina.
“E perché?” chiese scendendo dalle punte.
“Sei piccolino!”
“Non è vero!”
“Si invece, sei piccolino come me.”
“Però sono meno piccolino di te!”
“Lo vedi che sei piccolino?”
“Uffa!” –urlò sbattendo i piedi- “Fammi giocare come voglio!”
“Ih ih ih!”
NOTE
STORICHE
Tver
è una città capoluogo dell’odierna russa, già all’epoca un centro di discreta
importanza sulle rotte commerciali che univano la Repubblica di Novgorod e gli
altri principati del nord della Russia con l’Impero Bizantino, anche se,
all’epoca in cui il personaggio appare, non era ancora a capo di uno stato
autonomo, come sarebbe avvenuto in seguito.
Il
fiume su cui sorge Kiev è oggi denominato Dnepr o Dniepr, il quale, in passato,
ebbe i nomi citati nel capitolo, usati rispettivamente dagli slavi (Slavutič) e dai greci (Boristene).
L’orco
Koshchay e Vladimiro il Santo sono autentici personaggi del folklore russo; il
secondo, realmente esistito come signore di Kiev, introdusse la religione
cristiana nel Rus (l’aneddoto della scelta), la quale però convisse a lungo col
paganesimo e si venne da subito a realizzare un intreccio di riti e tradizioni
tra le due religioni.
Bizantino,
qui presentato come l’erede di Roma nelle vesti di Impero Romano d’Oriente,
racconta degli avvenimenti della Quarta Crociata, avvenuta nel 1204, quindi la
storia è ambientata in un periodo certamente posteriore a questa data.
Nel
1204, i crociati diretti in Terra Santa dirottarono la spedizione verso
Bisanzio la quale fu saccheggiata, e il territorio dell’Impero venne suddiviso
in stati di dimensioni più piccole (Epiro, Trebisonda, Nicea), sicché i
Bizantini, ridotti al controllo più o meno della sola Grecia, dovettero
combattere per cercare di riconquistarli. Tuttavia, ormai frammentato e
indebolito, l’Impero Bizantino si avviava a diventare preda di un nuovo
inarrestabile impero, pronto a calare da oriente.
Ovviamente
ciò ebbe dure ripercussioni anche sulla prosperità di Kiev, che, come più volte
ricordato, aveva in Bisanzio il proprio principale alleato commerciale.
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Capitolo 3 *** Tutto finì coi rintocchi ***
Bentornati
cari lettori alla mia prima fic storica! Non è facile scrivere una fic storica:
andando a documentarmi sugli avvenimenti della storia russa (un doveroso grazie
a Wikipedia) ho scovato sempre più problemi che guastavano la realizzazione
delle scene e della sequenza di eventi che avevo in mente…
Quanto
è difficile voler essere accurati! Se poi si vorrebbe esserlo fino in fondo, ne
verrebbe fuori semplicemente “la” storia, non “una” storia, fatta di crescita e
sentimenti, come quella che ho intenzione di raccontarvi…
Qualche
piccola licenza artistica quindi me la concederò… Tra l’altro vi devo segnalare
pure l’errore di aver reso Russia il maggiore dei tre fratelli slavi: non
sapevo che la maggiore fosse Ucraina, chiedo venia… XP
Ad
ogni modo, eccovi un terzo capitolo che, finito di leggere, vi lascerà in bocca
un sapore ben diverso rispetto ai primi due.
Sarà
interessante leggere i vostri pareri su questo cambio di marcia…
Buona
lettura!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS: Link con la colonna sonora consigliata saranno inseriti lungo la storia
^_^
CAPITOLO 3 – Tutto finì coi rintocchi
“Zio
Kiev è veramente straordinario!”
Cinque giorni dopo, ben rifornitasi per il viaggio, l’ambasceria ripartì; la
fila di carri trainati da buoi avrebbe risalito il corso dello Slavutič e ne avrebbe seguito l’ampia curva
verso est, da lì in poi, per Mosca, bastava andare dritto.
Il tragitto era lungo, e un tempo molto più sicuro
e praticabile; e malgrado avessero altri parenti lungo la strada, non era
sicuro potessero dar loro una mano come potevano fare una volta: ognuno ha i
suoi problemi, come sapeva Russia e come sapevano tutti, con i periodi di magra
e con i cumani che si facevano sempre più audaci nelle loro razzie.
Ecco perché era necessario partire con buone
scorte.
Ma Russia ignorava ancora gran parte delle cose che
stavano accadendo intorno a sé, e in quel momento, non pensava ad altro che a
quello che aveva fatto o visto durante la visita appena trascorsa, fare
progetti per la prossima, e raccontare tutto alla mamma.
“Ha
fondato il Rus, gli altri zii lo considerano il loro capo, ha combattuto contro
i predoni e i nomadi un sacco di volte per proteggerci…”
Viaggiavano sullo stesso carro, di cui lei portava
le redini, seduti comodamente su delle coperte ripiegate. In caso di intemperie,
il carro, subito dietro i posti dei guidatori, aveva una tettoia di legno e
pelli di cervo e orso, dove si poteva riposare al riparo, una volta trovato il
proprio spazio tra i bagagli.
“E poi lui è sempre così tranquillo, e ha sempre
quell’aria sicura, a volte mi mette anche un po’ i brividi! E poi è anche
altissimo, va sempre in chiesa, ha ricchezze, ed è anche bello! Ogni volta che
passa sono sicuro le donne sospirano tutte! Gli altri zii invece, con quei
barboni…”
Malgrado il sole fosse già sparito in pieno giorno
dietro compatte nubi scure, e il sentiero vicino il fiume fosse avvolto in una
plumbea foschia, Russia sembrava troppo esagitato per farci caso e mettersi al
riparo nel carro, anche col nevischio che gli arrivava in faccia.
“Inoltre, proprio perché è così importante, anche i
paesi lontani lo conoscono e lo vogliono come amico. Ancora non riesco a
crederci che ho visto Impero Bizantino in persona, mamma! Certo che era molto
scuro, non solo i capelli e gli occhi, anche la sua pelle era diversa dalla
nostra: noi sembriamo fatti di formaggio in confronto a lui.”
Fece una pausa nel suo racconto per mettersi in
testa la coperta su cui era seduto, in modo da coprirsi tutto: “Si vedeva
subito che era un vero uomo che sa il fatto suo: portava quella veste rossa
tutta elegante, l’anello d’oro, e, non ho capito molto bene perché parlavano
piano e noi eravamo sulla porta, io e Ucraina dico, ma mi è parso di capire che
una volta si sia mangiato addirittura un leone! Un leone! Tu ci credi, mamma?”
Il carro sobbalzò in una buca.
“Beh, forse ho davvero sbagliato a sentire… Però è
stato straordinario lo stesso, anche senza il leone! Lo zio Kiev è in gamba, ma
quello lì è l’erede di Roma dopotutto; forse un giorno riconquisterà tutto il
mondo… Anzi, speriamo di no, non voglio conquisti anche zio Kiev e noi… Mamma?”
“Cosa?” rispose dopo un bel po’, come il suono
delle sua voce le fosse arrivato all’orecchio a bordo di una lumaca.
“Non mi stavi ascoltando!”
“Si, ti ascoltavo.” bofonchiò confusamente, come faceva
al mattino, quando lui si infilava nel suo letto per svegliarla.
Offesasi, la coperta parlante al suo fianco le
diede le spalle: “Non è vero!”
“Si invece, parlavi di zio Kiev, giusto?”
“Di Bizantino.”
“Però prima stavi parlando di zio Kiev, no?”
“Si.”
“Allora vedi che ti stavo ascoltando?”
Resasi conto che non riusciva a cadere in piedi sul
ghiaccio, gli sfregò la coperta sopra i capelli: “Scusami, Russia, tua madre
stava solo pensando un po’ per conto suo. Dai, vai un po’ al coperto ora, devo
fare attenzione alla strada.”
Si avvolse nella sua copertina e obbedì. Le altre
volte però la madre aveva fatto attenzione alla strada ma aveva anche ascoltato
quel che aveva da dire.
Moscovia lo seguì con gli occhi dietro le proprie
spalle e poi tornò a non badare alla via.
Avrebbe tanto voluto lasciare che la gioia di suo
figlio per quell’eccitante incontro la contagiasse; ogni volta udiva la sua
voce diventare così vivace, raccontarle i suoi giochi, le sue scoperte, gli
sembrava un furetto appena catturato che si agita nel sacco, che non può far
altro che ricordare quanto era bello fuori. E quella vitalità si trasmetteva in
lei, ed era come se il lungo tragitto, anziché rubarle tempo ed energie, gliele
restituisse.
Ma anche la madre più amorevole deve trovare la durezza
per ignorare le fantasie del proprio figlio quando ha pensieri ben più seri ad
appesantirle la mente.
“Entra.”
–le fece dire l’abitudine, visto che Tver aveva già varcato l’uscio da sé.
“Mi
auguro tu stia bene, Vladimir-Suzdalia.” salutò lui, rivolgendosi a lei per il
suo vero nome di stato.
La
padrona, chiusa la porta, si sprecò a buttare uno dei ceppi più corti nel
braciere al centro della sala e poi si riavvicinò alla tavola, dove stava
finendo di chiudere i fagotti di viveri.
“Questa
tua Mosca sembra stia venendo su bene, vero?” –disse guardandosi intorno come
fosse in piazza- “Una buona posizione per costruirci un avamposto commerciale.
Un po’ fuori mano, ma per questo ben difendibile. Se Dio ti assiste potresti
farne una bella città.”
Moscovia
intanto, preso un laccio di corda, lo strinse bene intorno alla tela,
impacchettando così parte delle sue scorte.
“Tutto
a posto con tuo figlio?”
“Si,
anche senza il tuo aiuto.”
Tver
strinse le labbra in uno sghignazzo.
“Tver,
smettila di cercare di imbonire il tuo ospite e vieni al dunque.” –disse,
decidendosi infine a guardarlo in faccia- “Come vedi sono in partenza per un
ambasceria, a Kiev.”
Al
pronunciare quel nome, notò un lampo nei suoi occhi, a significare che la
voglia di perdere altro tempo in chiacchiere gli era sparita del tutto.
“Kiev,
eh? Penso allora che dovresti riconsiderare le ragioni del viaggio.”
“E
perché mai?” chiese aggrottando la fronte.
“Non
fare la finta ingenua. Puoi arrivarci benissimo al motivo per cui potresti
benissimo risparmiarti questo viaggio, che è in parte anche quello per cui sono
qui.”
Moscovia
strinse ancora di più gli occhi, li chiuse del tutto ed espirò; anche quella
domanda era stata identica al suo “Entra” di poco prima, di pura circostanza.
Tver
aveva ragione, non era mai stata ingenua, e d’altronde era impossibile vedere
ciò che c’era da vedere.
“Vladimir-Suzdalia,
Kiev non è più quello di un tempo ormai. È sempre più debole, la sua autorità
sul Rus viene meno ogni anno di più.”
Un
declino lento, come quello a cui vanno incontro quasi tutti gli stati a lungo
baciati dalla buona sorte.
“Lo
stesso Rus è sempre più disunito e fragile. I nostri principi ci hanno aizzato
l’uno contro l’altro in continuazione, cercando di rafforzare i loro stati e
indebolire Kiev, e più Kiev si è indebolito, più i principi hanno potuto
continuare impunemente a farsi la guerra tra loro, per prevalere.”
Lo
seguiva con gli occhi mentre passeggiava per la stanza, e, alla fine del
discorso, era a due passi da lei a fissarla.
“Tu
stessa ti sei battuta con Kiev in passato...”
“È
il destino di noialtri: batterci, allearci, detestarci, tornare amici…”
Trovarsi
a combattere contro colui che era stato a lungo sua buona guida per le
ambizioni del proprio signore, ma essere accolta da lui con un sorriso in un
incontro fortuito mentre portavano a spasso i loro figli; la vita delle nazioni
è anche questo.
“Vladimir-Suz…
Moscovia…”
In effetti era un bene avesse deciso di farsi chiamare anche con quel nome, gli
faceva risparmiare tempo.
“Il
tempo del predominio di Kiev è agli sgoccioli. Presto il Rus si frammenterà del
tutto, e a quel punto, da quello sfacelo, altri principati potranno riuscire a
sorgere, altri di noi, che prima non lo
erano, diventarlo.” –le punte di barba che gli ricoprivano le guance si drizzarono
come la schiena di un riccio, in concomitanza col suo sorriso- “E non ti
nascondo che è precisamente ciò che spero di fare.”
Tver
era potente, ma non era ancora riuscito a diventare uno stato autonomo; ora
però che la malattia che consumava da tempo il buon Kiev peggiorava sempre più
velocemente, sapeva di poter vedere ben presto arrivare la propria occasione.
“E
tu, Moscovia? Per quanto cerchi di rimanere in buoni rapporti con lui, la sua
caduta è praticamente annunciata. Che progetti hai?”
Sbuffò:
“Io?”
Stavolta
fu lei a camminare e lui a seguirla coi suoi occhietti ambiziosi.
“I
conflitti dinastici tra i miei capi hanno indebolito anche me. Non ho la forza
di combattere in difesa dell’autorità di Kiev, né per insidiarla e conquistarmi
altro spazio.”
“Tu ti butti giù, mia cara, ma tu godi di un gran prestigio. Lo stesso capo di
Kiev non abita forse dalle tue parti adesso?”
Scrollò
le spalle, come fosse poca cosa.
“Dalle nostre parti?” -si corresse lui, che abitava nella regione praticamente
accanto alla sua- “Vladimir-Suzdalia, perché non rinunci a questa inutile
ambasciata e mi dai una mano? Siamo vicini di casa dopotutto: insieme, quando
Kiev cadrà, potremo formare una nazione di discreta forza. Non pensi?”
“Io
non ho intenzione di far cadere Kiev.” -disse, calando di un tono la voce, già
profonda di suo per essere quella di una donna.
“Nemmeno
io. Cadrà da solo. Si tratta solo di aspettare.”
“Allora
quando questo avverrà ci penserò.” –gli rifilò prontamente in risposta la
paffuta.
Tver
fece una smorfia: “Solo per metterti in viaggio…”
“Ho
viaggiato verso sud un sacco di volte. E poi, sai, mio figlio ci tiene.”
“Ah, si? Tuo figlio…”
Moscovia si morse le labbra. L’aveva buttata lì, come ulteriore argomento per
giustificare la sua partenza e riuscire finalmente a sbarazzarsi di lui.
L’ultima cosa che voleva era che Tver sviasse la discussione sul suo pargolo.
“Anche
lui sembra stia crescendo benino.”
“Grazie.”
“Anche
se non ho ben capito quella storiella dei girasoli. Cosa gli vai mai ad insegnare?
Per essere così esagitato, sono pronto a scommettere che delle condizioni dello
zio lui non sa nulla.”
“…”
“Appunto. E anziché dirgli la verità ti metti a parlargli di fiori e di quanto
è bella la nostra patria?”
Stavolta
toccava a lei metterlo a tacere: “Esatto.”
Tver
corrugò il mento, deluso, quasi scandalizzato dalla convinzione con cui gli
aveva risposto.
“Ho
voluto insegnare a mio figlio che anche se si vivono momenti difficili,
nuvolosi, si ha sempre qualche speranza se ci si ricorda che c’è anche il
sole.”
“Quanto
ottimismo…”
Moscovia incrociò le mani sotto il molle e ampio seno: “Ben detto: ottimismo!
Converrai con me che serva tanto più in terre come la nostra. Hai ragione anche
tu, ci sono un sacco di pericoli qui intorno, e bisogna essere duri per
farcela, testardi, anche egoisti. Ma se pensi solo a farcela, e perdi di vista
ciò che vuoi ti resti alla fine, quando l’inverno è finito, scoprirai di non
essere forte… solo povero. Povero dentro.”
Tver
sembrò indifferente. Prese a grattarsi una guancia; il prurito passò poi al
collo e risalì dietro la nuca. Alla fine, malgrado la grattatina, gli uscì
comunque un sospiro.
“Sono
parole che possono funzionare solo coi bambini.”
“Infatti.”
Spiazzato
nuovamente dalla rapidità e dalla schiettezza della risposta, Tver strinse i
denti e decise di averne abbastanza.
“Riguardo la mia proposta? Sei sicura di voler partire ugualmente?”
“Si, ne sono sicura.”
“Fa
come credi.”
“Mamma?”
Stavolta quella voce, a lei così dolce, arrivò alle
sue orecchie molto più velocemente.
“Dimmi, Russia.”
La sua testolina, ancora avvolta nella coperta, era
improvvisamente sbucata dal carro, apparendo sopra la sua spalla sinistra.
“Io crescerò, vero?”
“Certo che crescerai.”
“Pensi che potrò diventare un giorno come
Bizantino?”
“Non volevi diventare come lo zio Kiev? Alto, rispettato e bello?”
“Si.” –confermò subito lui- “Però, mi piacerebbe tanto anche che un giorno si
dicesse << Guardate! Quello è l’erede dell’erede del grande Roma!
>>”
“Vedo che le tue ambizioni si sono fatte improvvisamente
molto più grandi.”
“Già… Forse troppo…”
La madre allora gli strofinò di nuovo la mano
grassoccia sopra la testa: “Russia, se ti impegnerai duramente, crescendo,
potrai certamente diventare << l’erede dell’erede del grande Roma
>>. Chissà, forse sarai anche più forte e più bello di Roma in persona!”
Russia arrossì: “No, dai, così è troppo difficile!”
Vedendo che la madre era tornata, se non loquace,
quantomeno affabile, Ivan si risedette al suo fianco. Lo carezzò un’altra volta
e poi tornò ad alternare sulle redini strattoni e schiocchi.
Uno dei due buoi profuse in un lungo muggito,
mentre lei, accompagnata da quel suono, tornava a scendere nelle grotte della
sua memoria, fino al punto in cui era arrivata.
Tver
era arrivato sulla porta.
A
lei parve che dal loro dialogo non fossero emersi né vincitori né vinti, ma,
riguardando unicamente alla questione del povero Kiev, le aveva aperto gli
occhi.
Poteva
nasconderlo a Russia, ma presto suo figlio avrebbe cominciato a notare da sé la
realtà, che, al di là del prestigio che ancora possedeva per il suo passato,
non godeva più di tanta considerazione e potenza.
Mentre
meditava di iniziare a parlare a Russia del periodo difficile che stava
passando il suo zio preferito, la sua visita, aperta la porta per accomiatarsi,
si girò nuovamente verso di lei.
“Fai
attenzione, Vladimir-Suzdalia, Moscovia. Ci sono guai ben peggiori della
debolezza di Kiev che pendono su di noi.”
L’aveva detestato quando aveva visto quella
scintilla di ambizione, identica a quella di un corvo che aspetta appollaiato
la morte del cervo ferito dalla muta.
Ma quando le aveva rivolto quella frase, con quel
tono, aveva avuto non solo pietà di lui, ma anche di sé stessa.
“Cosa avrà mai voluto dire?”
Russia intanto aveva appoggiato la testa sul suo
braccio.
In effetti, il sole stava per calare; meglio fermare la marcia e riposare.
Come previsto, lungo la strada, a parte la notte
perché era troppo rischioso andare avanti nel buio, non furono fatte soste
inutili.
L’unica eccezione fu il passaggio vicino la casa di
quel lunatico un po’ matto dello zio Polotsk. Era un tipo silenzioso e burbero
con tutti, uomini, donne e bambini, ma non appena aveva saputo di sua madre
viaggiare per di là subito era corso ad offrirle di trattenersi da lui quattro
o cinque giorni, o quattro o cinque settimane, o anche quattro o cinque mesi,
gli avrebbe fatto ancora più piacere…
Rimasti alloggiati da lui un solo giorno (per non
offenderlo), erano subito ripartiti.
Nel frattempo, Moscovia aveva deciso di rimandare
il discorso al figlio a dopo il ritorno, per non guastargli il buon umore del
momento.
Senza forzare troppo le tappe, riuscirono infine a
giungere a Mosca, nella piazza del pozzo, molto prima del calar del sole:
sarebbe stato fastidioso dover nuovamente bivaccare e dormire su un carro a
così poca distanza da casa.
Ivan ovviamente, prima ancora che sua madre
scendesse dal carro, aveva già iniziato a dare una mano a scaricare i bagagli,
mentre alcuni volenterosi si avvicinavano al resto della carovana in arrivo per
provvedere anche agli altri veicoli.
Non poteva lasciare che fossero solo sua madre e
gli altri a far penare la schiena, anche se nessuno chiedeva mai direttamente il
suo aiuto.
“Sentiamo, che altro ti ha raccontato di
Bizantino?” -Moscovia ovviamente, badava di passare a suo figlio solo gli
oggetti più piccoli, alla portata della sua forza: otri di acqua quasi vuoti, i
recipienti di miele e la botticella di birra acquistati a sud, la scatola di
legno con le monete del ricavato delle loro vendite (a lui non interessavano ed
avrebbe di certo fatto buona guardia).
“Zio Kiev ha detto che è un uomo molto colto.” –Russia,
ancorché indaffarato, continuava a parlare; l’ammirazione rendeva, almeno la
sua lingua, insensibile alla fatica- “Infatti, quando il grande Roma è morto, è
stato lui ad ereditarne la sua famosa cultura, tutti i suoi papiri, e lui se li
è studiati tutti, per questo è così intelligente. Ha detto che senza di lui, i
barbari avrebbero fatto perdere per sempre un sacco di opere importanti.”
“Tu pensa…”
Lei stessa non era immune al fascino delle persone dotte: dalle loro parti del
resto erano solo monaci e chierici o quasi a sapere leggere e scrivere… Erano
gente semplice e indaffarata, si scusava lei, quando qualcuno degli zii con un
po’ più con del tempo da perdere le consigliava di imparare lei stessa.
“E cos’altro?”
Provò a passargli le loro coperte legate ed
arrotolate, sotto il cui peso Ivan dovette fare un paio di passi all’indietro,
prima di riuscire ad appoggiarle al bordo del pozzo.
“Bizantino è stato quello che convinto lo zio a
diventare cristiano. Quindi anche noi siamo diventati cristiani grazie a lui.
Però mi ha detto anche che non tutti i cristiani sono uguali, e che una volta
lui e questo tipo chiamato papa hanno…”
Si interruppe bruscamente. La madre del resto aveva
già smesso da un po’ di ascoltarlo, fermatasi, come ora faceva lui, per
concentrarsi su quel suono di campane, che da un acuto e impercettibile brusio
iniziava a diventare perfettamente chiaro.
E sempre più forte.
Si girarono nella direzione di quel coro di
battiti, e lo stesso fece la gente intorno a loro. Proveniva da est, e il
motivo per cui diventava più forte era il suo avvicinarsi.
Ogni chiesa di ogni villaggio, incitata dal vicino,
cominciava a sua volta a far risuonare le proprie campane.
Quell’asincrono concerto era convulso, incessante,
non una musica ma un continuo battere di colpi; alcuni suonavano vicini, alcuni
suonavano lontani, e non c’era secondo che non se ne sentisse almeno uno, anche
piccolo, mentre il torrente di echi si spostava verso di loro.
In quel lento crescendo ebbero tutto il tempo di
domandarsi cosa mai stesse accadendo, fino all’apparizione di un uomo sulla via
che entrava nel villaggio, da cui erano appena arrivati.
Consumava i suoi stivali in una corsa precipitosa;
sembrava potesse inciampare da un momento all’altro e, anche con la testa
rotta, rialzarsi e ricominciare a correre.
Quando Russia lo vide, crollò una delle sue erronee
convinzioni da bambino.
Quella sulla paura.
Aveva sempre pensato fosse una cosa che riguardasse
solo quelli piccoli come lui, ancora deboli, ancora vulnerabili, con ancora un
sacco di cose da imparare.
Lui aveva sempre creduto che i grandi non avessero
paura, che per loro fosse ormai passato quel tempo, come per il pianto.
Ma gli occhi di quell’uomo lo smentivano.
Era terrorizzato come un bambino al sentire per la
prima volta parlare di streghe, orchi e draghi.
Quel giorno, Russia imparò, nel più drastico dei
modi, che la paura non ha limiti di età.
“I MONGOLI!”
La corsa non gli aveva tolto abbastanza fiato da
impedirgli di lanciare quel disperato grido.
“I mongoli! Stanno arrivando! I mongoli!”
Ivan non seppe lì per lì perché gli si fosse gelato
il sangue. Quella volta fu solo contagiato da quell’uomo che correva verso di
loro, ma ben presto avrebbe imparato a farsi venire i brividi al suono di
quella parola esattamente come sua madre e tutti gli adulti intorno a lui.
Le donne iniziarono a gridare, e gli uomini fecero
altrettanto.
La piazza divenne come un formicaio appena
calpestato, con la gente a muoversi in tutte le direzioni e lui immobile ad
osservare senza capire.
Sua madre allora lo afferrò per le spalle: “Russia,
aiuta gli altri a raccogliere quante più provviste possono e falli andare via!”
“Andare via?”
La fermò afferrandole un lembo della gonna: “Mamma!
Dove stai andando?”
“A prepararmi.”
La manina di Russia non riuscì a trattenere
quell’enorme massa, a cui bastò iniziare a correre per liberarsi da quella
presa.
Giunta a casa, aprì la cassapanca di ontano che
conteneva la sua armatura, il suo elmo, il suo scudo e la sua ascia. Non li
indossò subito, ma trascinò la cassa, apparentemente senza sforzo, fino alla
piccola stalla sul retro della loro casa.
C’erano due cavalli.
Uno basso, pezzato, dalle gambe tozze e robuste, e
con una folta criniera color latte scompigliata sulla fronte e pure sugli
occhi.
Il cavallo per l’aratro.
Uno alto, marrone scuro, dalle gambe alte e
muscolose e col collo ben diritto.
Il cavallo da guerra.
Gli carezzò il muso e lo fissò negli occhi
battaglieri.
Adagiò mollemente il capo su di esso, come le sue
mura fossero crollate prima ancora dell’assedio e disperso l’esercito ancora
prima della battaglia.
La campana della chiesa del villaggio aveva altresì
cominciato a suonare.
“Dio, abbi pietà di noi.”
Le campane suonavano in tutta Kiev.
Quelle della cattedrale di Santa Sofia sopra tutte
le altre.
Da una finestra del castello, colui che prendeva il
nome dalla città non si era ancora rimesso la spada al fianco.
Osservava, attraverso il vetro ad ogiva, le navi
del molo sul fiume prendere immediatamente la corrente; da lì riusciva persino
a vedere una rissa scatenatasi su di una barca troppo piena per salpare.
Alla fine, il suo tracollo non sarebbe stato
indolore come aveva pensato.
Forse avrebbe perso ben più che il suo già solo
formale predominio sul Rus.
Chissà se ci sarebbe stato ancora un Rus, dopo di
lui.
“Papà?”
Si girò verso la figlia, il cui avvicinarsi non
aveva potuto notare.
“Perché suonano le campane?”
Come glielo avrebbe spiegato? Come avrebbe
resistito alla prova dei suoi impauriti occhi blu?
Poté solo diventare come la loro terra, e
mascherarsi coi propri dolori sotto un sottile velo di neve.
Sorridendo, le porse una mano: “Vieni, andiamo a
giocare.”
“… Va bene.” rispose lei, non ottenendo nessuna risposta.
Tre
anni dopo
Fortuna che negli ultimi tempi era riuscita a
crescere un pochino in altezza, almeno da sentirsi abbastanza sicura di
riuscire a prendere un cavallo.
O per lo meno, aveva creduto di riuscirci…
Raggiunta la stalla, non aveva tardato a rendersi
conto di non essere ancora abbastanza per quelli che montavano i grandi, e in
quel caso non poteva chiedere a nessuno di aiutarla a salire su quelle montagne
dotate di zoccoli.
Senza scoraggiarsi troppo, decise così di ripiegare
sul puledro. Lo sellò con una coperta ripiegata e riuscì, con un piccolo
sforzo, ad imboccargli il morso. Afferrate le redini, lo condusse a piccoli
passi fino alla porta che aveva lasciato semiaperta, e che scostò piano e solo quanto
bastava per riuscire a permettere a lei e alla sua cavalcatura di passare.
Non richiuse, temendo che il rumore avrebbe potuto
destare qualcuno. Il sole stava iniziando a sorgere e il momento del risveglio
era vicino: doveva far presto.
Guardò le poche case del villaggio nascosto nel
bosco dove aveva trascorso le ultime notti, fissandosi su ogni porta, pregando
che restassero chiuse.
Non voleva la fermassero, ma neanche voleva che
quella brava gente si preoccupasse: solo il tempo di andare e rassicurarsi, e
poi sarebbe tornata.
Ucraina, che mai aveva cavalcato da sola prima,
orientò la giovane bestia verso il sentiero che portava fuori dalla foresta e
con un colpetto sui fianchi riuscì a fargli avviare il passo.
A quell’ora il freddo era pungente e stordente il
silenzio del mondo esterno.
Mentre già soffriva per queste cose, e per il
timore di dover riuscire a condurre il puledro fino a Kiev e tornare sana e
salva, faceva già i conti con la preoccupazione per il padre.
L’aveva condotta lì, in quel villaggio che era di
fatto un nascondiglio, circa una settimana prima, chiedendole, con quella sua
irresistibile gentilezza, di non avventurarsi di fuori per un po’. Avrebbe
tanto voluto obbedirgli, come aveva sempre fatto; ma non quella volta.
Che lei ricordasse, non era mai stata tanto a lungo
senza sue notizie. Suo padre non era incosciente, ma non stava bene, si
affaticava facilmente, eppure stava facendo del suo meglio contro gli invasori.
Lei era solo una bimba, non aveva niente contro quella decisione di allontanarla
per un po’, ma perché, pur così premuroso, non le aveva mandato ancora nessun
messaggero a dirle che stava bene?
Perché, quando si erano separati, e lui si era
abbassato per baciarle la fronte, non le aveva scaldato l’orecchio col suo
tiepido sussurro, giurandole di tornare presto a riprenderla?
Gli alberi si diradarono, e Katyusha uscì allo
scoperto in una brulla semiluna di terreno, che si innalzava di poco sulla
pianura ondeggiante.
Perse qualche istante ad orientarsi e riuscì a
girare il suo animale verso la direzione giusta.
Il silenzio irreale che soffocava l’erba e i
cespugli venne rotto dal richiamo di un corvo che le fece alzare la testa.
Anche se volava verso la sua stessa direzione,
cercò di non lasciarsi sconfortare da quella tetra comparsa; forse era l’unica
vita lì attorno, oltre a lei e il puledro, perché per puro caso era stato più
mattiniero degli altri uccelli quel mattino, non doveva necessariamente
trattarlo come un presagio.
Abbassò la testa sul crine del cavallo, continuando
a condurlo al passo per un tempo che non poté definire, fin quando la luce del
sole non iniziò ad irrompere sulla pianura.
Fu solo allora che la mente tornò al corvo che
aveva visto volare uscita dal bosco, quando i suoi compagni iniziarono a
stagliarsi, nitidi, col loro inquietante colore, sul cielo che schiariva.
Il puledro superò un dosso e la vista migliorò
ancora. Ora la distingueva benissimo, anche se lontana, Kiev.
Quei punti neri muoversi in cerchio sopra il suo
cielo.
I fumi scuri che emanava in un ora del giorno in cui
non ci sono fuochi accesi.
La gola le si strinse e, dimentica di ogni paura di
cavalcare sola o gentilezza verso il suo trasporto, gli assestò un forte colpo
di talloni, lanciandolo in corsa senza troppi complimenti.
La città era ancora lontana dal punto in cui lo
aveva spronato al galoppo, e per il puledro era la prima corsa della sua vita,
sicché fece presto a calare di velocità, trascinandosi in uno stentato trotto.
Ucraina raggiunse e attraversò i campi che si
stendevano fuori della città, trovando ogni capanna di fango dei braccianti rasa
al suolo, ogni coltura abbandonata o già in cenere.
Giunse in vista del mastio con la porta d’accesso di
quel lato, trovandola sfondata e spalancata, e cominciò a vedere le sagome dei
soldati caduti distese intorno.
Giunta a cento metri da esso, il cavallino, scosso
quanto lei da quella vista, e dall’odore di fiamme che proveniva da davanti,
cominciò a rallentare, fino a fermarsi bruscamente. Provò con un altro
colpetto, ma stavolta si imbizzarrì, impennando.
Spaventata, lasciò le redine e attutì la caduta a
terra con le mani.
Lanciando un nitrito, la abbandonò lì per terra,
andando a sperdersi nella pianura, in direzione della riva del fiume.
Grazie al cielo non aveva commesso la pazzia di
prendere uno dei cavalli degli adulti: cadendo da lassù si sarebbe fatta molto
più male.
Katyusha si rialzò con le mani doloranti dentro i
guanti e il cuore che batteva all’impazzata per la caduta e per lo spettacolo.
Aveva visto già da molto lontano il portone
distrutto, ma ora poteva vederne i truccioli e le schegge fuoriuscire dai suoi
bordi infranti, come sangue da una ferita, e soprattutto poteva vedere quello
che c’era intorno.
Il cadavere di un soldato giaceva con tre frecce
nel petto ad alcuni passi da lei. Sotto le mura ve ne erano molti altri,
colpiti a morte nello stesso modo, e altri ancora riuniti in mucchi l’uno
sull’altro: li avevano gettati di sotto.
Alzò gli occhi sulle mura e vide mani, gambe e
busti penzolare dagli spalti merlati.
Aveva veduto funerali, vecchi e giovani spegnersi
nel proprio letto consunti di malattia, un uomo cadere dal tetto che riparava e
rompersi la testa, ma a nulla gli valse ricordare le precedenti esperienze che
aveva avuto con la morte, per riuscire a digerire tutto ciò.
La brina crepitava sotto i suoi passi mentre si
avvicinava all’uscio della sua città. Scomparve sotto l’ombra del mastio e
riemerse alla luce in un orrore ancora peggiore.
Case bruciate e altre che ancora bruciavano, tetti
crollati, porte distrutte, carri ribaltati, edifici dalle cui pareti di legno
sbucavano decine e decine di frecce, come rametti neonati, la cappella
trafugata della propria icona.
E anche qui morti, a iosa.
Sparsi per tutta la strada, e la maggior parte non
aveva un’armatura.
La maggior parte non aveva neanche la barba.
Alcuni erano interi, altri erano solo mani, gambe,
teste, pezzi.
La neve era colorata del loro sangue, sciolta dalle
loro ultime lacrime; e altra neve si era depositata su di loro durante la
notte.
La bocca di Katyusha si inondò di saliva, e sentì
il suo stomaco stringersi e capovolgersi.
Con dei profondi respiri riuscì a trattenersi e a
non fermarsi. Guardare peggiorava solo le cose.
Indossati degli immaginari paraocchi, cominciò a salire verso la parte alta
della città, in direzione del castello.
Giunse dinanzi la cattedrale, arrestando lì la sua salita.
Dinanzi ad essa, avevano trovato la morte combattendo
e pregando molti soldati e molte persone. L’edificio era ancora in piedi, ma
non aveva più una porta, ed altre ne erano
state create, aprendo brecce nelle sue mura di pietra. Vide per terra,
dinanzi l’ingresso abbattuto, un cerchio di corpi di donne e bambini fatti
addormentare in pace intorno a sé da un sacerdote con la gola sgozzata.
http://www.youtube.com/watch?v=M3aKFrsapjc
Si avvicinò alla chiesa, come attratta da un
terribile presentimento, e non dovette più proseguire oltre.
Lì stava suo padre, con gli occhi socchiusi rivolti
al cielo.
“Papà!”
Sollevò per la nuca la sua testa; scuotendolo, la
neve scivolò via dal suo volto e dal suo petto.
Cercava di tirarlo su, ma erano pesantissimo.
“Papà! Papà!” -gli urlò nelle orecchie.
Si sporse sul suo viso, e le sue iridi rimasero
immobili alla vista della sua amata figlia.
Allora le fu tutto chiaro, e la forza scorse via
dalle sue mani, sicché la nuca ricadde, morta, sulle sue ginocchia.
Dalla ferita sulla fronte, linee rosse erano
sgorgate fino al mento: sembrava avesse pianto sangue. Delle ferite sul petto
che gli laceravano la verde veste sembrava non ci fosse traccia, poiché il
sangue, rappresosi, si era fatto così scuro da confondersi con gli stessi indumenti.
Con quel suo sangue, Ucraina andò a macchiarsi le
mani e i vestiti, quando lo strinse a sé.
Una mano lo avvolgeva sotto il mento, l’altra
affondava nei suoi capelli; il resto del suo corpo giaceva disteso a farsi
coprire dalla neve che era già venuta e che sarebbe arrivata.
Il suo pianto si esternò in un lento respirare con
la bocca; il vapore che si generava saliva sulla sua faccia come una nebbia
pietosa, che aiutava le lacrime a celarle il mondo così orrendo che le stava
attorno.
Spinte dal tremore che la scuoteva, le lacrime
scesero giù, vibrando sulle guance gelate.
Il suo sguardo era fisso, la sua mente offuscata da
quella razione così improvvisa di dolore.
Suo padre era morto, riuscì a pensare prima di non
esserne più in grado.
La luce della ragione l’aveva quasi subito
abbandonata, una scelta dovuta, per impedirle di indugiare su cosa stesse
accadendo.
Su cosa stesse stringendo al suo petto.
Avevano distrutto ogni cosa.
Erano morti tutti.
I mongoli erano arrivati e li avevano uccisi tutti.
Il terreno ricoperto di ghiaia le martoriava le
ginocchia, su cui gravava la testa riversa del padre. Ad ogni respiro, il
nevischio nell’aria le entrava in gola, ferendola. Dalle labbra screpolate
continuava ad uscire, regolare, il sibilo del suo rantolio, che si perdeva ignorato,
nell’immoto silenzio di devastazione.
Poi ecco che un rumore di zoccoli in avvicinamento
le restituì un barlume di ragione.
Eccoli. I mongoli.
Erano arrivati per lei.
Avevano ucciso suo padre ed ora toccava a lei.
Gli zoccoli facevano sempre più rumore.
Stava per morire.
E morire significava dire addio così presto ai
giochi, ai canti, alle risate, al raccogliere fiori, alle storie dinanzi il
camino, al farsi prendere in braccio dal suo papà.
Sarebbe morta.
Anche lei sarebbe rimasta lì per sempre, a farsi ricoprire
dalla neve.
Stava per morire.
Gli zoccoli battevano così vicini da sentirsi
scuotere le viscere ad ogni colpo.
Sarebbe morta.
NOTE
STORICHE
I
cumani furono una popolazione nomade dell’area circostante il Mar Caspio.
Approfittando della debolezza dello stato kievita, compirono numerose
scorrerie, depredando le zone di confine del Rus, ma anch’essi soccombettero
all’inarrestabile avanzata dei mongoli.
I
mongoli, popolo nomade anch’esso, da primitivi abitatori delle steppe si
ritrovarono, grazie alla guida di Gengiz Khan, a dominare il più vasto impero
mai conosciuto dalla storia. Conosciuti per la loro crudeltà e la loro abilità
con l’arco, assoggettarono gran parte dell’Asia e, agli inizi del XIII secolo,
giunsero in Europa, abbattendo il Rus, sconfiggendo l’Ungheria, salvo poi
fermarsi. Le potenze dell’Europa occidentale sottovalutarono sempre la portata
della loro invasione, e non seppero mai dell’enorme e reale pericolo che
avevano corso.
Il
principato di Kiev, sorto intorno all’800 dopo Cristo, iniziò la sua lenta e
progressiva decadenza a partire dal XII secolo. Sconvolto da continue contese
dinastiche, dalle ambizioni di indipendenza dei principati al suo interno,
dalle incursioni dei cumani, che sconfissero ripetutamente le disunite armate russe,
vide perdere inesorabilmente la sua potenza ed importanza. Come accennato da
Tver, alla fine di una delle numerose guerre civili, il vincitore, anziché
stabilirsi sul trono di Kiev, la disdegnò al punto da lasciarla al fratello
minore e tornare al proprio principato, appunto Vladimir-Suzdalia.
I
mongoli, già da tempo protagonisti di occasionali scorribande, giunti in massa nelle
terre del Rus durante la fine degli anni trenta del secolo (1236-1237),
assestarono infine il colpo di grazia all’ormai malandato principato.
A
dispetto di quanto si possa dedurre leggendo il mio scritto quindi, la stessa
Moscovia (Vladimir-Suzdalia) è responsabile in parte del tracollo di Kiev; ma
dopotutto, anche Francia e Inghilterra nella serie hanno un rapporto
altalenante di ostilità e collaborazione. Tutte le nazioni si sono ritrovate,
nel corso della storia, tra loro a volte amiche a volte nemiche, e la volontà
di Moscovia di non infierire su Kiev, anche in virtù del bene che suo figlio
vuole allo zio, può voler mostrare questi continui rovesci, cui le nazioni prendono
parte a volte in maniera convinta, a volte combattuta.
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Capitolo 4 *** 1240: la barca, i fiori, la bimba, la gamba ***
Salve a tutti, cari lettori!
Comincio innanzitutto col ringraziare quelli di voi
che commentano, significa molto per me, perché in questa fic sto cercando di
“fare il salto di stile” se vogliamo, di trattarla più come un romanzo che una
fanfic. Spero di poter continuare a leggere i vostri pareri! ^__^
E ora un annuncio meno allegro: i corsi alla mia università infine riprendono…
Quindi il tempo tra gli aggiornamenti potrebbe allungarsi anche di parecchio,
staremo a vedere…
Il capitolo seguente sarà, se vogliamo, di transizione:
forse non importante per la trama come il precedente, ma vi garantisco non meno
suggestivo, e, soprattutto, commovente. Sarà dedicato all’illustre scomparso
dello scorso capitolo, all’inconsolabile figlia che ha lasciato dietro di sé… e
a un certo bambino che osserva il mondo cambiare immerso in mille pensieri.
Buona lettura!
PS: GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS: Link con la colonna sonora
consigliata per la lettura saranno inseriti lungo la storia ^_^
CAPITOLO 4 – 1240: la barca, i fiori, la bimba, la
gamba
“Ucraina!”
Sopra di lei si ergeva una bestia dal manto bruno e
dal lungo muso, dal quale con uno sbuffo fuoriuscì una vampata umidiccia a
spazzarle la faccia.
Ancora più in alto, sopra quella possente
cavalcatura, montava una specie di gigante, armato, avvolto in un pesante
manto, dotato di enormi e muscolose braccia strette sulle redini; i due esseri
sembravano un unico mostro.
I lunghi capelli della parte umana, gonfiati dagli
spifferi di vento, lo rendevano ancora più enorme e minaccioso.
Malgrado lo spavento, non aveva nulla da temere,
poiché il gigante era in realtà una donna, e da dietro la sua schiena sbucava
la testa raggiata di un girasole.
Tuttavia, la bimba sembrò non riconoscere la
familiarità di quel volto, né sentì alcun sollievo, pur dopo aver sentito la
vita in procinto di terminare, nel tempo di un sibilo di lama o freccia; rimase
impassibile, rafforzando la stretta delle mani tremanti intorno il collo e la
veste del caduto. I suoi occhi, sbarrati e arrossati, seguirono, senza però
vedere sul serio, Moscovia scendere con un balzo dal suo cavallo da guerra: la
testa e metà volto, incluso l’occhio destro, erano coperti da una fasciatura
bianca e macchiata di rosso, ma non notò neppure questo.
Il piccolo Russia scese anch’esso dall’animale con
un salto, attutendo l’urto della caduta con entrambe le mani. Oltre a loro,
c’era un gruppetto, quasi una decina, di soldati, alcuni appiedati, altri a
cavallo, ad osservare la scena.
Moscovia si chinò con l’occhio scoperto sulla bambina,
limitandosi a constatare in essa le più umane delle reazioni che quell’orrore poteva
procurare. Nel rivolgersi a lei non parve volere o riuscire ad usare pietà, né
gentilezza.
Si limitò a tenderle l’enorme mano: “Vieni,
dobbiamo andarcene.”
Ucraina continuava ad inghiottire l’aria gelata in
una interminabile serie di rantoli; la sua mente era ancora svuotata, a protezione
da una sofferenza tale che sembrava già averla messa sulla rotta della follia.
Moscovia tese ancora la mano: “Muoviti! È
pericoloso restare qui!”
Accortasi però che la bambina non riusciva neanche a capire le sue parole, si
risolse ad afferrarle un braccio; lo strattone con cui la costrinse ad allontanarsi
dal corpo del padre fu il suo unico gesto compiuto con un briciolo di dolcezza
nei suoi confronti, giusto per evitarle di farle male.
Afferratole anche l’altro braccio la rimise in
piedi, poi si rivolse a due dei cavalieri del ridotto e malandato seguito.
“Caricate il corpo.”
Avviandosi di nuovo al cavallo, sentì la mano
stringersi alla sua, ma era un’illusione pensare che si fosse improvvisamente
già ripresa: in quelle condizioni non si rendeva conto di nulla, avrebbe potuto
essere sua zia e portarla verso la salvezza o un mongolo in cerca di un buon
posto per darle la morte e lei l’avrebbe seguita ugualmente, nello stesso
identico modo. La donna la sollevò e, senza lasciarsi andare in carezze
rassicuranti sulla testolina ricoperta di fili d’oro che penzolava come molle
dietro la sua spalla, appoggiò piano la bambina sul dorso del cavallo:
probabilmente non sarebbe stata in grado di avvertirle.
Non sentendosi sicura, le afferrò le mani e le
poggiò sul pomo anteriore della sella e, fortunatamente, le dita si strinsero
di nuovo intorno ad esso.
Una presa non certo salda, ma era già qualcosa: tra
i mille rischi che correvano tutti loro non voleva aggiungerci la piccola
Ucraina che scivolava giù come un sacco dall’alto del suo stallone.
Il cavallo era robusto e la sua schiena ampia, sia
lei che i due bambini avrebbero trovato posto, malgrado la sua stazza. Colta di
sorpresa da quel pensiero, cercò intorno a sé Ivan.
Eccolo, dove se l’era immaginato: ad osservare,
impietrito, i suoi soldati eseguire l’ordine.
Portare via il corpo.
Il corpo.
Di quello che fu il suo amato e potentissimo zio;
un oggetto da caricare.
Stringeva il girasole, che non aveva rinunciato a
portarsi dietro nemmeno nel mezzo di quell’invasione, come tanti altri della
sua età facevano con i loro pupazzi e bambole preferiti nei momenti di paura o
sconforto.
Invasione? Apocalisse. Ecco cos’era stata, cosa
stavano vivendo.
Uno dei due uomini distese una coperta sul terreno
innevato e insanguinato, poi aiutò l’altro sollevando Kiev per i piedi, mentre
il compagno lo reggeva per le spalle. Adagiato il corpo sulla coperta, la ripiegarono;
non era abbastanza lunga per lui che era così alto, e la testa sbucava da una
delle estremità.
Su di essa fissò gli occhi colmi di lacrime il
piccolo Russia, e si perse, quando il corpo fu sollevato, nell’intrico della
sua chioma bionda, cascante verso il terreno, come pioggia. Il vento la faceva
ondulare in maniera impercettibile, eppure a lui, che si concentrava su quella amara
visione con tutto sé stesso, parve un qualcosa di ancora animato.
Ma erano solo capelli, un tempo lucenti e ora sporchi di fango e neve, che
penzolavano giù da una testa senza più vita.
Seguì infine, con gli occhi e i singhiozzi, i due
soldati nel sollevarlo sopra le teste e adagiarlo sulla schiena di un altro dei
cavalli.
Moscovia aveva tollerato fino a quel punto, sperando
di vederlo presto tornare in sé, ritenendolo più forte, forse solo perché
maschio; ma terminato il tutto lui ancora perseverava in quella incredula confusione,
e rimaneva lì, a stringere il girasole, e fissare la neve pestata nel punto in
cui l’avevano raccolto.
Allora la madre, temendo che il figlio potesse
ridursi come la nipotina, si decise ad adoperare la stessa mano, ferma e
sbrigativa, che aveva usato con lei.
“Russia, muoviti! Dobbiamo andarcene!”
Lo afferrò e lo tirò a sé così forte che, colto di sorpresa, lasciò
sbadatamente cadere il fiore.
“Mamma!”
“Non c’è tempo!”
Montò sul cavallo e, sollevatolo da terra con un
braccio solo, lo fece sedere dietro di sé, sull’estremità della sella. I
soldati intorno a lei la guardarono attendendo un ordine che non tardò ad
arrivare.
“Andiamo via.”
Russia si girò, per quanto possibile senza cadere,
per tornare a fissare il punto in cui si era fermato, dove aveva sentito per la
prima volta la morte come reale, vicina e dolorosa, e dove il suo povero
girasole era stato abbandonato al suo destino.
Sarebbe appassito solo e triste, sotto una coperta di neve.
Se avesse fiatato ancora al riguardo, sua madre
l’avrebbe sgridato; quello era l’ultimo dei loro problemi in fondo, ma come
rassegnarsi così facilmente all’unica cosa che, stretta nel suo pugno, gli
aveva dato almeno un briciolo di conforto dinanzi il volto congelato di zio
Kiev?
Eppure, dovevano pensare a loro stessi. Il pericolo
e la paura ghermivano i cuori, e sua madre, spinta nei gesti da quello stesso
terrore, gli aveva dato l’esempio da seguire, non piangendo una sola lacrima,
non dicendo una sola parolina buona alla sconvolta nipotina, non fermandosi un
istante per uno stupido fiore.
In fin dei conti, sua madre sapeva essere
paurosamente cinica e sprezzante come chiunque altro.
Cacciandosi in gola quel boccone amaro, si strinse
al mantello di pelliccia che aveva di fronte e vi affondò la testa, cercando di
non guardare più niente, per non pensare più a niente.
Lo stesso faceva, inconsciamente, Ucraina, i cui
occhi spenti non osservavano altro che il crine sul collo del cavallo smuoversi
ad ogni passo.
I soldati invece guardavano, senza poterne fare a
meno.
Nessuno di loro, provenienti tutti dal nord, come
la loro signora, aveva mai veduto Kiev, se non nella propria testa, nell’udirne
il racconto; e quante volte era loro sfuggito un sognante sorriso al pensiero
di quelle lande fertili, di quella città dalle bianche case, e dalla bianca
cattedrale sormontata da cupole verdi.
Il loro cuore piangeva per le vittime, per gli
strascichi l’inconcepibile crudeltà lì avvenuta a cui erano costretti ad
assistere in ogni via e vicolo, per l’essere nati troppo tardi per ammirare la
città, e colui che ne prendeva il nome, nello splendore dei loro giorni migliori.
Per loro era troppo tardi: Kiev ora non era differente
dall’ennesima cittadina o villaggio razziato. Mai avrebbero veduto l’allegra
frenesia delle sue strade, e per sempre avrebbero ricordato i corpi dei suoi
abitanti ricoprirle.
Kiev, la gloriosa, la dorata, la santa, la capitale
del Rus, era morta.
E il Rus con lei.
Il gruppetto di soldati, con la loro signora in
testa, uscì da un’altra delle porte della cinta muraria ed accelerò il passo,
perché nella pianura sarebbero stati troppo visibili; alla prima foresta, anche
impervia, vi si sarebbero inoltrati senza indugio.
Potevano essere ovunque, tutto intorno a loro.
E meglio la morte di stenti, o di lupi, che con
quei mostri.
Il sacerdote depose il sudario sul viso del
defunto. Sapeva che tale onore non sarebbe mai toccato a lui se l’apocalisse
mongola non avesse portato via il patriarca.
Si allontanò e si riunì agli altri nella preghiera.
La barca funeraria del possente Kiev aveva finito
con l’essere più simile a quella di un pescatore: lunga non più di qualche metro,
l’alta prua, a forma di testa di cavallo, era stata dipinta con una sola,
veloce, passata di bianco, senza altre decorazioni.
In quelle condizioni mancava sia il tempo sia la
manodopera per costruire una nave degna.
Il desiderio di renderla ugualmente magnifica in
coloro che erano convenuti lì al suo funerale, sulla riva dello Slavutič, aveva
fatto sì che l’intero fondo, da prua a poppa, fosse ricoperto di fiori di
biancospino, candidi, a rispecchiare la purezza in cui era vissuto, la guida
saggia che era stato, prima che loro stessi contribuissero al suo lento
declino, fino alla caduta.
Su quel morbido tappeto di petali bianchi stava
adagiato il suo corpo, pulito dal sangue con acqua piovana e vino d’uva nera,
come prescritto; con lui avrebbero dovuto esserci i suoi più preziosi effetti.
Ma poco o nulla era stato risparmiato dai razziatori. La sua spada era sparita,
né si erano potute cercare le fibbie d’oro e d’argento dei suoi mantelli e
delle sue cinture, né le collane che aveva regalato alla figlia, che ora adornavano
il collo un mongolo tra i tanti.
Tutto ciò che stava con lui, nella barca del suo
esito, erano il suo crocefisso ortodosso, i pochi altri oggetti che aveva
indosso quando era stato raccolto, e sua figlia stessa.
Per il funerale del padre, la bambina era stata
vestita con gli abiti regali, e le era stato fatto indossare il frontino d’oro,
ultimi tesori a lei rimasti, scampati per miracolo alle ingorde mani degli
invasori.
http://www.youtube.com/watch?v=im5CIpMFo4Q
Da sola, si era scostata dal gruppo dei parenti
bardati a lutto ed era salita nella barca: il letto di petali l’aveva sostenuta
come non avesse peso, e, raggiunta la gamba del papà, si era ad essa
abbracciata, e da lì non si era più mossa da quando la funzione aveva avuto
inizio.
La gamba era cuscino sotto la sua guancia. La veste
del morto, magnifica e nera, subiva la lenta pioggia che discendeva dai suoi
occhi.
Nessuno aveva avuto il cuore di trarla via da lì;
anche se molti si domandavano che significato avesse per lei la gamba. Come
mai, se desiderava salutarlo stringendolo a sé un’ultima volta, non si era
gettata al suo petto, o non si era distesa al suo fianco, da dove poteva
guardare il volto paterno, perdendosi in dolci ricordi.
Lì in basso invece, non avrebbe sentito altro che
la fredda carne sotto di sé.
“Papà,
fammi venire!”
“Ucraina,
per favore, lo sai che papà è un mercante e deve sempre incontrare persone per
fare affari.”
“Non
ti darò fastidio, lo prometto.”
“Ma
tu sei piccolina, nemmeno capiresti i nostri discorsi.”
Di
solito così obbediente, quel giorno però sembrava aver proprio deciso di non
rinunciare facilmente ai capricci: “Io non voglio sentire i discorsi, voglio
stare vicino a te, papà!”
“Ma
non puoi stare sempre vicino al tuo papà!”
“Si invece!”
Svelta
come un gatto, agganciò le braccine all’altezza del suo ginocchio.
“Ucraina, smettila adesso, su.”
“No!”
Provò
a scostare la gamba, ma sua figlia, continuando a stringergliela, la seguiva
con svelti passetti. Allora la sollevò un po’ da terra e vide che era tanto
determinata da avvolgersi a lui anche con le gambe e farsi sollevare a sua
volta!
“Voglio
venire insieme a te!”
Spazientito,
Kiev cominciò a camminare per la stanza, e lì in basso la sua principessina era
ben lungi dal mollare! Non ci volle molto perché capisse che così, più che
intimarle di lasciarlo, la stava praticamente portando a spasso; ma non ebbe
voglia di usare sistemi più bruschi con lei.
Era
divertente il modo in cui si appiccicava con la sua guanciotta, e come
combatteva con tutte le forze pur di non separarsi da lui.
La
passeggiata continuò ancora per un bel po’, tra le risate di tutti e due.
“E
se vado a farmi un bagno nel fiume?”
“Vengo con te anche lì!”
Arresosi,
le carezzò i capelli e si decise a portarla con sé, almeno per quel giorno,
presentandosi agli altri mercanti con un sorriso e la figlioletta attaccata
alla gamba.
Quel
giorno nacque un nuovo gioco, che divertì i due ogni volta come la prima.
Il vestito nero si bagnò di un’altra calda goccia.
Ucraina profuse in un lungo sospiro. Il soffio caldo
passò sulla stoffa umida, e nulla rispose sotto di essa. Quella gamba non
sentiva più il calore; quella gamba non si sarebbe più alzata per trasportarla
in giro per casa.
Né li avrebbe tenuti vicini, vicinissimi, per
sempre, come aveva desiderato.
Il pensiero aveva fatto ormai ritorno, e con esso
erano arrivati la consapevolezza del dolore, l’abbandono, la mancanza, la
preoccupazione per il futuro, il pianto adesso cosciente e non meno triste.
I quattro sacerdoti dalle lunghe barbe, intonata la
panikhida, avevano iniziato a compiere alcuni giri intorno la barca. Le
catenelle dei loro turiboli emettevano un sottile cigolio mentre i chierici li
facevano dondolare; da essi salivano bianchi vapori, immergendo la barca nel
rilassante e sacro aroma dell’incenso.
Quel nuovo profumo si mescolò a quello dei fiori su
cui erano adagiati, riempiendo le narici di lei, che intanto chiudeva gli occhi
e nascondeva il volto sul suo cuscino.
Il resto dei presenti sulla riva, ad alcuni passi
di distanza, osservava ben più composto il commiato al signore del Rus.
Tra questi faceva eccezione Ivan; incapace di
accettare tutto ciò, si lasciava fremere dalla rabbia, che riempiva anche ogni
suo pensiero, mentre fissava, assorto, la barca dentro cui Katyusha si era
rintanata a piangere, e dove avevano posto lo zio, col morbido sudario in viso,
e la croce stretta tra le mani.
Prima sembrava esistessero solo loro, e si stava
bene tra un guaio e l’altro, poi arrivavano i mongoli, e in così poco tempo tutto
era stato messo completamente sottosopra.
Ora, quel che restava della sua famiglia era lì
attorno, a domandarsi come lui se anche il proprio funerale sarebbe presto
giunto.
Sua madre, zio Novgorod, zio Tver, zia Galizia, zia
Volinia, zio Polotsk, zio Pskov, zio Smolensk, zio Pereslav, gli altri e le
altre…
Tutti loro erano stati sconfitti miseramente.
Alcuni erano morti.
Zio Kiev, il suo preferito, era morto.
La loro stessa casa, Mosca, era stata rasa al
suolo, e gli abitanti, che tra loro si conoscevano quasi tutti, erano stati
quasi tutti sterminati.
Tra i pochi, piccoli progetti per il proprio futuro
che aveva avuto occasione di pensare, non sarebbe mai potuto rientrare dover
assistere a quel funerale. Com’era possibile?
Non era lui il signore del Rus? Non era lui il migliore
tra loro? Anche stavolta li aveva guidati nella lotta, ma perché allora lui non
ce l’aveva fatta?
“Povero Kiev…”, “È stato un grande capo”,
“Indubbiamente”, diceva il vociare dei parenti sopravvissuti.
“Non poteva farcela.”
“Da tempo aveva una brutta cera.”
“È stata colpa nostra…”
“Non sarebbe cambiato nulla, credetemi.”
“Non poteva farcela, non contro di lui.”
“Hai ragione.”
Lui.
“Egli è troppo grande. Immenso. Come si può
opporglisi?”
Orda d’Oro.
“Sia maledetto!”
“Come si fa a battersi contro qualcuno così forte? Perché Dio ci ha scagliato
contro un simile flagello?”
Era quello il nome del responsabile. Ancora non
riusciva a credere esistesse qualcuno come lui, capace di dominare da un capo
all’altro di un continente, e anche oltre. In realtà non dominava tutto, ad
oriente erano i suoi tre fratelli ad esercitare il dominio, ognuno nella sua
zona. La parte occidentale dell’impero era quella che gli era toccata, e, anche
dopo la morte del suo capo, il vero conquistatore, non aveva voluto saperne di
voltare la testa ai cavalli dell’orda. Aveva proseguito, e il Rus, trovatosi
sul cammino degli zoccoli, era stato subito schiacciato.
Troppo grande. Pensò e ripensò a quelle parole.
Tutta lì era dunque la differenza tra quell’uomo
gentile lì nella barca e quello spietato barbaro? Nessuno aveva creduto sin
dall’inizio, dunque, a parte lui, che potesse farcela? A ripensarci, come crederlo
d’altronde, contro un intero continente, contro un qualcosa di tanto
inimmaginabile per dimensioni e forza.
Non era giusto. Non riusciva ad accettare che suo
zio dovesse morire “solo” per quell’incolmabile divario. Magari fosse stato
quello di un tempo, pur sconfitto, sarebbe rimasto vivo.
Ma che senso aveva chiederselo oramai? Zio Kiev era
morto, e per quelli che erano ancora lì, sotto quel grigio cielo di dicembre,
non restava che fare del proprio meglio per non sparire a loro volta; tempi
ancora più duri erano giunti, per quelle terre e i loro popoli, già abbastanza
provati.
Ma anche nel bel mezzo della fine del loro mondo, ancora
potevano riservarsi il lusso dell’altruismo e della pietà verso l’altro, almeno
per momenti come quello, in cui fermarsi, dimenticando le proprie case e averi
perduti, ad osservare i fumi d’incenso intorno una barca, e una bimba che
piange dentro di essa.
Il sacerdote che aveva deposto il sudario si
avvicinò senza far rumore ad Ucraina, ancora immobile sul tappeto bianco,
ancora stretta alla gamba del papà.
“Piccola, dovresti lasciarlo adesso.” disse
cercando in sé tutta la gentilezza che poteva usare per quell’innocente anima
addolorata.
Non vi fu risposta, così il prete guardò verso i
parenti in cerca d’aiuto.
Moscovia allora, parata in nero come tutti, uscì
allo scoperto e si sporse sulla barca.
“Vieni.” -sussurrò.
Le prese la vita e tirò via, ma piano, affinché le
sue mani scivolassero via lentamente dal corpo, come a darle, fino all’ultimo, la
possibilità di avvertirlo. Invero, ad Ucraina sembrò interminabile, come una
notte resa lunga da un sogno senza fine, prima del risveglio, nell’istante in
cui la punta dell’ultima delle dita volò via da lui, avvertendo il vuoto
intorno a sé.
Moscovia le baciò dietro la testa e la mantenne
sollevata, sicché lei, coi petali che si confondevano sul suo bianco vestito, potesse
vedere per l’ultima volta il viso del padre.
Tenendola per mano, la portò accanto gli altri zii,
ma solo zia Volinia e zia Galizia, che abitavano più vicine a lei e al papà,
mostrarono il loro affetto, baciandola e abbracciandola.
Gli altri, pur riservandole i loro sguardi pietoso,
continuavano ad assistere silenziosi alla cerimonia, chi con le braccia
conserte, chi lisciandosi la folta barba, tutti osservati dal nipotino con
invidia per la loro impassibilità. Aveva visto che i grandi potevano avere paura
come tutti, quindi forse soffrivano anche come tutti, ma erano così bravi a non
darlo a vedere… O forse non era poi un bene?
Ucraina, lasciata la mano di zia Moscovia si girò
verso la barca e si richiuse nell’immobilità e nel silenzio. Ivan, ritrovatosi
alla sua sinistra, la guardò a lungo, senza essere ricambiato..
La pena fu tale da vincere la rabbia.
I pugni si schiusero. Neanche il dispiacere è bello
da provare, ma almeno ti distoglie da te stesso, e così tornava a svelarsi ai suoi
occhi la sofferenza di colei che mai avrebbe voluto vedere piangere. Che ne
sarebbe stato ora di Ucraina?
E allora invidiò invece sua madre, capace tanto di
strapparla via, come aveva fatto a Kiev, quanto di sollevarla in quel modo,
come aveva appena fatto, senza lasciarsi soffocare dalla tristezza che emanava.
A lui sembrava così distante che solo pensare di
aprire bocca e parlarle gli stringeva il petto, come vi fosse stata succhiata
via l’aria.
Ad alcuni passi da loro, tra la riva del fiume e la
foresta alle loro spalle, era stato appiccato un fuoco, al quale vide alcuni
suoi zii accendere delle fiaccole.
Russia si sporse curioso oltre l’abbondante pancia
di sua madre per seguire la scena, mentre i quattro preti, concluso il rito, si
avvicinavano anch’essi al focolare, imbastendo un pacato diverbio con i parenti
del defunto.
“Bisognerebbe seppellirlo.”
“Il corpo deve tornare alla terra. Non mancategli
di rispetto.”
“No” –si fece avanti, tranquillo ma risoluto, zio
Novgorod, con in mano la propria torcia accesa- “Egli è venuto dal nord, e da
quelle parti si usa così rendere onore ai grandi uomini. Sono certo che lui
avrebbe desiderato questo.”
Lui, zio Tver, zio Polotsk e zia Volinia si
disposero ai due fianchi dell’imbarcazione, ciascuno munito di una torcia, mentre
alcuni servi si radunavano alla poppa della barca.
Udì zio Novgorod pronunciare alcune parole in una
lingua simile alla loro e poi chiudersi in un silenzioso saluto insieme agli
altri.
Poi, abbassarono le torce, dando fuoco alla barca,
mentre i servi la spingevano nel fiume.
Si avvicinarono tutti alla riva, meno i preti che si
stavano già allontanando, in modo da lasciare la famiglia contemplare in pace
l’ultimo viaggio del loro illustre defunto, una persona coraggiosa e pia che
non avrebbero mai dimenticato.
La forte spinta fece presto arrivare la barca al
centro del fiume. La corrente rallentò per non sottrarlo così presto alla loro
vista. Le migliaia di petali si raggrinzirono e si trasformarono in tanti
fiocchi di fuoco, fatti ballare nello scuro fumo come fiammelle di candele nel
buio.
Sembrò loro di poter continuare a sentirne il
bellissimo odore, al posto di quello soffocante del legno e della carne in
fiamme.
Così, ardendo, scompariva il Rus.
Il rosso dei bagliori screziò lo splendido blu
delle iridi di Ucraina e ballò sulle lacrime che sbucavano fuori dagli occhi di
lei e dell’altro bambino.
Tra i due stava Moscovia, silenziosa, e fiacca,
stanca come non mai di sopportare il suo stesso peso e quello della colpa.
La barca infine prese ad affondare, e le fiamme,
compiuto il loro dovere, si accomiatavano man mano nelle grigie acque.
Lei e i due piccoli ancora al suo fianco non si
mossero ancora, mentre, scambiandosi poche altre parole, gli altri principati
iniziavano ad allontanarsi nella foresta.
Solo poco dopo, Moscovia raccolse la mano di
Ucraina nella sua destra e quella del suo Russia nella sinistra, e li portò via
con sé.
NOTE
STORICHE
Il
7 dicembre del 1240 i mongoli giunsero a Kiev, annientandola: gli edifici
furono dati alle fiamme, la popolazione venne passata a fil di spada. Gli
abitanti, donne e bambini inclusi, difesero la città fino alla morte; quelli
che riuscirono a scampare al flagello mongolo si rintanarono nelle foreste,
sopravvivendo ai mongoli, ma ritrovandosi ad affrontare altri pericoli quali
gli animali selvatici o la carenza di cibo.
La
fanart che ha ispirato questa fanfiction:
http://browse.deviantart.com/?qh=§ion=&global=1&q=ukraine+1240#/d3hz67i
Lo
stesso identico destino subirono Mosca e tantissimi altri centri abitati, sia
piccoli che grandi.
Alcuni
di essi risorsero dalle proprie macerie, altri invece vennero cancellati per
sempre dalla carta.
Dal
vuoto lasciato da Kiev, sarebbero sorti alla ribalta altri principati che
avrebbero cercato di risollevare le sorti delle genti russe, anche ridotti sotto
il giogo mongolo.
La
cattedrale di Kiev, dedicata a Santa Sofia, è oggi ancora in piedi e possiede
delle caratteristiche cupole verdi: http://it.wikipedia.org/wiki/Cattedrale_di_Santa_Sofia_%28Kiev%29
Il
funerale qui presentato unisce di tradizioni scandinave e cristiane ortodosse:
per questi ultimi infatti sono vietate la cremazione e la sepoltura in loculi,
poiché il corpo deve tornare alla terra.
Gli
scandinavi, a dispetto di ciò che si apprende dai film, in realtà non bruciavano
sempre la nave con il defunto e i suoi effetti personali (tra cui anche i suoi
animali e i servi a volte…); molte volte, la nave funeraria veniva tumulata con
terra e pietre.
Il
personaggio di Novgorod, rappresentante di uno stato situato nel nord della
Russia di allora, e quindi più vicino degli altri ai luoghi d’origine di Kiev,
è chiaramente più a conoscenza dei riti funebri di quei popoli.
I
turiboli sono i contenitori metallici usati per bruciare l’incenso, quelli che
vediamo ancora oggi in alcune funzioni religiose cristiane.
La
panikhida è un canto in lingua greca intonato dai sacerdoti ortodossi ai
funerali.
La
croce ortodossa si differenzia da quella cattolica per l’avere non uno ma tre
braccia trasversali: uno per le braccia di Gesù, uno per il cartello con la
scritta “INRI”, e un ultimo in basso all’altezza dei piedi del Crocefisso.
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Capitolo 5 *** Sorellina ***
E
rieccoci qui, più velocemente del previsto, con un nuovo capitolo! In realtà è
venuto fuori in fretta perché più corto dei precedenti, ma io lo considero
importantissimo, per l’evento che racchiude in sé e di cui tra poco leggerete.
Finora
devo dire che sono soddisfatto da come sta venendo fuori la mia storia ^_^
Il contatore delle letture va benone e si alza ad ogni capitolo, anche se, non
so perché, commentano sempre e solo gli stessi quattro… O_ò
Nessun
altro ha voglia di venire allo scoperto per dirmi che ne pensa? XD
Senza
ulteriori indugi, rituffiamoci nella giovinezza di Russia e Ucraina nel suo
momento più difficile!
Buona
lettura a tutti!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS: Link con la colonna sonora consigliata per la lettura saranno inseriti
lungo la storia ^_^
CAPITOLO 5 – Sorellina
Ucraina non parlò per il resto della giornata, né in
quelle successive.
Braccate dai cavalieri dell’orda, le genti del Rus,
che già non esisteva più, cercavano di sopravvivere allontanandosi il più
possibile dalle pianure, cercando rifugi sulle colline, nelle foreste, persino
nelle paludi.
Allo stesso modo sua madre, presa momentaneamente con sé
Ucraina, si era diretta verso est: il luogo più sicuro non poteva che essere
laddove l’erba era già stata falciata dal loro passaggio, dove non c’era già
più nulla da saccheggiare. A loro si erano poi unite famiglie e gruppetti di
disperati, a cui era stata posta in mano una lancia per far sembrare che quegli
sbandati potessero ancora difendersi in qualche modo. Solo pochi erano soldati
veri, dopo che la maggior parte era morta o saggiamente fuggita solo alla vista
del nemico. C’era anche zio Polotsk, che aveva subito offerto il suo aiuto a
Moscovia per trovare un luogo sicuro e aiutarla con i pargoli, ora ben due, a
gravarle sulle larghe spalle.
Da sempre le foreste erano state un luogo amato e
temuto insieme: offrivano loro di che scaldarsi, costruirsi la casa, mangiare,
vestirsi, e rifugio, ma erano un mondo selvaggio, fatto di ombre e rumori
sconosciuti e pericoli nascosti, da attraversare con la giusta prudenza.
Il loro faticoso e cauto fuggire era continuato
finché, trovate in una radura delle isbe, probabilmente un accampamento
abbandonato di taglialegna o cacciatori su cui i mongoli non avevano infierito,
o che forse semplicemente non avevano scovato, avevano arrestato la loro
marcia, in attesa di altri eventi; altri dei suoi zii infatti avevano fatto
ritorno alle loro terre, più che per difenderle fino allo stremo, per
implorarne la salvezza.
Il posto somigliava al villaggio nella foresta dove
Kiev aveva nascosto la figlioletta, ma talmente piccolo che non lo si poteva
chiamare villaggio: non era che poche piccole casupole, interamente di legno,
in cui presero posto donne e bambini, gli uomini si sarebbero accontentati di
dormire per terra vicino ai fuochi.
Ivan, Ucraina e la madre ebbero un’isba tutta per
loro, più che altro per le accorate minacce di zio Polotsk, che tenne a bada,
sventolando in aria la spada, le proteste tanto degli uomini che pretendevano
dei posti al coperto, quanto delle donne che chiedevano che fosse condivisa per
non stare troppo stretti nelle altre.
Fu l’unico favore che (senza averli nemmeno
interpellati) Polotsk poté fare loro.
La solidarietà che tanto più è benedetta quando non si
è in condizione per darla, che Russia aveva avuto modo di ammirare a casa, in
quel frangente non venne minimamente interpellata. Ognuno doveva provvedere per
sé e coloro ai quali desiderava badare, per il cibo, per l’acqua, per le
coperte, per il fuoco; e i soldati e gli altri che non avevano famiglie o
fratelli e sorelle sulle spalle, dal cui fardello magari erano stati “liberati”
proprio dall’apocalisse, non erano per niente inclini a dividere il cervo o la
lepre catturata con fatica con chi aveva avuto meno fortuna, né coi suoi figli.
D’altro canto, nessuno osava lagnarsi.
Moscovia per prima, lasciati i due bambini nel caldo
riparo dell’isba, vi mancava la gran parte del giorno, tornando solo dopo
parecchie ore carica come un bue, di acqua, legna da ardere e selvaggina.
All’occhio destro, guaritole, si erano sostituiti ora i lividi per le cadute, i
graffi alle mani nel raccogliere bacche o radici commestibili.
Ivan si offrì volontario per andare a caccia al suo
posto o almeno a raccogliere legna una sola volta, e tanto bastò perché la
madre lo sgridasse così forte da non indurlo a riprovarci.
Tutto ciò che poteva fare, ancora una volta, era non
dare problemi, obbedendo e facendosi venire fame il meno possibile. Dopotutto,
non aveva mai avuto motivi per preoccuparsi per lei prima di allora; forse
dubitava semplicemente perché aveva ritenuto zio Kiev più forte di quanto fosse
in realtà, e non voleva ripetere lo stesso errore. Ma sua madre era ancora nel
pieno delle forze, ed era perfettamente in grado di sgobbare il doppio di
quanto faceva prima, e senza l’aiuto che si impegnava a darle sempre, al limite
delle proprie capacità.
Rivolse allora tutta la sua preoccupazione, come era
più giusto facesse, verso Ucraina.
Erano trascorsi due giorni da quando erano lì e ancora
non aveva parlato. Al massimo, quando Moscovia le si rivolgeva per salutarla
quando usciva o la spronava a mangiare, annuiva mormorando a bocca chiusa e, da
brava bambina qual’era, obbediva sempre, ma a parte quello niente più.
Ivan trascorreva le sue giornate ad aspettare, col
cuore pesante come un macigno. In ogni momento sperava giungesse quello in cui avesse
finalmente deciso di dischiudere le labbra, e poter così tornare a parlarle. Ma
il guscio di dolore che l’aveva isolata da tutti attendeva invano di essere
rotto; lei sembrava non riuscirci, e il piccolo Ivan restava immobile, incapace
di scalfirlo per primo.
Ucraina sembrava uno stoppino spento; nulla di lei
brillava più, né i suoi occhi, né i suoi capelli, e non certo per la poca luce
di quel periodo dell’anno.
Sarebbe mai tornata normale? Quella di prima, l’Ucraina
sorridente e luminosa, la sua compagna di giochi preferita, che aspettava
impaziente di poter rivedere per correre nei prati a caccia di fiori da portare
ai loro genitori, cantare girotondi, salvare principesse, abbattere draghi.
Più la ricordava e più faceva male la paura di non
rivederla mai più in quel modo; ma più la vedeva adesso e più si sentiva in
catene, bloccato da una inopportuna timidezza davanti una sofferenza così
grande.
Più aspettava, più quel timore lo appesantiva,
distanziandolo da lei ancora di più.
Durante il giorno non faceva nulla, e lui con lei.
La sera, a tavola per la cena, si sedeva al posto
accanto al suo; aspettavano silenziosi sua madre che cucinava vicino il camino
quel che era riuscita a trovare per poi porgere loro delle scodelline sempre
più piene della propria. Ivan aspettava sempre fosse Ucraina per prima ad
iniziare a mangiare, come riverente nei confronti di una principessa. Una
principessa ormai caduta, spogliata dei suoi tesori, dai più piccoli al più
grande, ed ora ad ingurgitare radici e rimasugli di lepre in un’isba neanche
poi tanto calda.
Quando cenavano con zio Kiev, aveva sempre qualcosa da
raccontare; sebbene Moscovia non fosse affatto una narratrice peggiore, il
silenzio regnava assoluto. Finito il pasto, Moscovia gettava con parsimonia
altra legna nel caminetto e poi tutti a letto.
Due giorni tanto insopportabili gli erano già bastati,
ma non sapeva come uscirne.
Anche quella sera, consumate le verdure che zio
Polotsk aveva trafugato chissà dove e portato loro di nascosto, Moscovia li
accompagnò munita di lumino nella stanzetta dove dormivano, praticamente un
quadrato con due pagliericci. Inginocchiatosi accanto al suo nel momento della
preghiera, Ivan recitò con la bocca e con la mente chiese di nuovo al Signore
di restituirle presto il sorriso di Ucraina, poi si gettò sul pagliericcio
aspettando il sonno.
Quella sera si assopì ancora più lentamente della
precedente; non che avesse paura del buio o del silenzio notturno (aveva
imparato c’erano cose ben peggiori), ma sperava che i suoi occhi pesti
potessero essere presto soddisfatti.
Il sonno era la tana ove gettarsi, al sicuro dai suoi
timori e dalla noia dei giorni fattisi così lunghi; ma essa stessa non accoglieva
i pur stanchi viandanti che non riuscivano a smetterla di tormentarsi da soli.
Rivoleva Ucraina. Rivoleva Ucraina felice. La rivoleva
presto. Quel desiderio lo gonfiava dentro al punto da non poter passare la
stretta entrata verso il temporaneo ma consolatorio mondo dei sogni, e l’unico
modo per sgonfiarsi era concentrarsi a zittire i propri pensieri. Di quel passo,
un altro paio di giorni e avrebbe finito con l’entrarci in tempo per doverci
uscire al mattino.
La pensierosa veglia si protrasse finché dei colpetti
non spezzarono il silenzio.
Il sonno glieli fece ignorare. Il loro protrarsi
ridestò piano la sua mente assopita; come uno spunto per distrarsi, li ascoltò
meglio, pensando ai passetti o allo squittire di qualche topo lì dentro l’isba.
D’un tratto tra i colpetti udì un suono più lungo,
chiaramente una voce, che scricchiolò e si rimpicciolì fino a spegnersi. Resosi
conto di quel gemito, riaprì gli occhi pesti e si alzò a sedere. Abituatosi
alla poca luce, riuscì a vedere la copertina sull’altro pagliericcio smuoversi
insieme coi colpetti. Senza stare a pensarci altro tempo si gettò coi piedi scalzi
sulle assi del pavimento, andando a svelare piano la coperta fino a far
comparire il viso arrossato di Ucraina, rigato dal pianto.
“Ucraina.”
Finalmente ottenne il tanto agognato sguardo e le
tanto attese parole; che lo delusero ricordandogli semplicemente ciò che già
sapeva e per cui ora soffriva tanto: “Il mio papà non c’è più!”
Altri singhiozzi squittirono nella stanza silenziosa.
Ivan avvertì gli occhi farsi umidi e reagì stringendo prontamente denti e
pugni.
Cosa piangeva lui? Era lei ad aver perso il padre! Che
vergogna che provava.
“Il mio papà è morto!”
Magari aveva pianto anche la notte prima, mentre lui
se ne stava rintanato; e ora, dinanzi le sue lacrime, tutto quello che gli
riusciva era farsi venire da piangere a sua volta. Che coraggio avrebbe mai
potuto trasmetterle in quel modo, se lui stesso si lasciava vincere da un
dolore che non era nemmeno il suo?
“Dai, non piangere.” –disse, ordinando alla propria
voce di non tremare.
Saltò in ginocchio sopra il lettino e le carezzò i
capelli. Piangeva tutta rannicchiata su sé stessa, con le mani congiunte e le
braccia strette davanti al petto che le scoppiava.
“Adesso che ne sarà di me? Chi mi salverà se Baba Yaga
verrà a prendermi?”
Ivan si guardò intorno, come se la malvagia strega
potesse già trovarsi lì intorno. Ancora una volta la paura e le angosce di lei
entrarono in lui, contagiandolo.
Cosa poteva farci se le voleva così tanto bene? Come
rideva con lei, così piangeva con lei. Le carezzò ancora i capelli.
http://www.youtube.com/watch?v=y1Uw_7mw7pk
Voleva rivederli brillare, a tutti i costi.
Solo con la forza, come quella che aveva sua madre,
come quella che aveva zio Kiev, tutto sarebbe tornato come prima.
“Se Baba Yaga viene a prenderti… ti proteggo io!”
Ivan la cinse con le sue braccia, aspettando che il
singhiozzo smettesse di scuoterla.
Katyusha, sollevatasi, riuscì a vedere il viola dei suoi occhi sfavillare
nell’oscurità.
“Se quella megera viene a prenderti io la butto nel
suo stesso mortaio e poi col suo stesso pestello la riduco in farina e ci
faccio il pane!”
Ucraina calmò a poco a poco il respiro.
“Ci penso io a lei! Ci penso io a te!”
“Davvero?”
“Da questo momento… tu sei la mia sorellina!”
“Sorellina…” ripeté lei.
“Si! Io sarò tuo fratello e proteggerò la mia
sorellina da tutte le cose brutte!”
La luce riapparve anche nelle azzurre iridi di
Katyusha. I due si fissarono, tutti e due col fiato corto, tutti e due col
batticuore.
“Vuoi essere la mia sorellina, vero?” –chiese tornando di botto timido.
“Si!” –rispose subito Katyusha, abbracciando il fratello, che le scompigliava
ancora i capelli dorati.
Finalmente poté darle il sorriso rassicurante di cui
aveva bisogno: “Ora andiamo a dormire, dai.”
Gettò di nuovo per terra i piedi scalzi quand’ecco che
si sentì prendere e tirare per il cappuccio della tunica.
“Fratellino… Vuoi restare a dormire vicino a me?”
“Per la mia sorellina questo ed altro!”
Saltò nuovamente su e, rintanatosi con lei sotto la
coperta si addormentarono velocemente, avvolti nel loro stesso calore.
Il giorno dopo, Moscovia scoprì di avere una figlia in
più, o, più che altro, che Ivan adesso aveva una sorella; per la qual cosa si
impegnò nella caccia ancora più duramente; dopo cena, diede del suo meglio
anche nel raccontare di come Vassilissa mise nel sacco Baba Yaga, perché i due
bambini, anche dopo tutti i giochi della giornata, non volevano saperne di
andare a letto.
NOTE STORICHE
Baba Yaga (pronuncia
corretta “Baba-Yjgà”) è un personaggio
del folklore slavo, ricorrente in molte fiabe russe, tra cui quella di
Vassilissa la bella. È una strega, a volte cattiva, a volte fonte di consiglio:
ci sono storie in cui aiuta eroine ed eroi nelle loro ricerche ed altre in cui
rapisce i bambini per mangiarli. Si sposta volando su un mortaio magico, usando
il pestello come timone, cancellando i sentieri dei boschi con una scopa di
betulla.
(http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/45/Bilibin._Baba_Yaga.jpg)
L’isba è una tipica abitazione rurale russa, interamente costruita in
legno e senza chiodi: tutte le componenti dell'edificio venivano semplicemente
tagliate ed assemblate usando un'ascia.
(http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f0/Izba.jpg)
Naturalmente quelle che si vedono nella storia sono di aspetto più
“antico” rispetto a questa in foto.
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Capitolo 6 *** La promessa di una vita ***
Salve
a tutti! ^__^
Più scrivo questa fanfic e più mi piace, e mi rendo conto che l’impegno che ci
metto è ripagato da una qualità almeno un po’ superiore al mio solito. Al
contempo mi rendo conto dell’ambiziosità del progetto, del tempo che mi toglie,
del fatto che, se volessi, come ho progettato, arrivare fino alla nostra epoca,
sarebbe una cosa veramente lunga, ad aggiungersi al fatto che sia impegnativa
(non è una fic spensierata e non sempre è facile da scrivere)… Rifletterò se
magari darle una conclusione anticipata, ma per il momento vado avanti finché
posso!
Anche
stavolta, nel darvi un nuovo capitolo, spero che qualche altro lettore o
lettrice mi faccia sentire un suo commento oltre ai soliti “fedelissimi” ^__^
Con questo capitolo, viene a chiudersi se vogliamo il primo ciclo della vita di
Russia in questa storia, quello della giovinezza, che sta per essere segnata
dagli avvenimenti che tra poco leggerete.
La
vita di Russia sta per prendere la sua direzione, che lo porterà molto lontano ma
che finirà anche col plasmarlo più di quanto immagina.
Buona
lettura!
PS: GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS:
Link con la colonna sonora consigliata per la lettura saranno inseriti lungo la
storia ^_^
CAPITOLO 6 – La promessa di una vita
Moscovia
li trovò che stavano giocando.
Prima
era stato il turno di Russia, e i due si erano scatenati correndo e saltando
tra un lettino di paglia e l’altro; poi era toccato ad Ucraina scegliere cosa
fare, e Ivan se ne stava buono buono seduto per terra, mentre lei gli modellava
sulla testa, con quelle stesse ciocche di paglia che avevano sparpagliato per
mezza stanzetta, una vistosa acconciatura femminile con tanto di fiocchi.
“Domani
Orda d’Oro verrà a prenderti.”
La
bambina coi capelli di paglia li perse quasi tutti nel rialzarsi, l’altra non
si mosse affatto, se non per rivolgere gli occhi sbarrati alla massiccia figura
che copriva la porta.
Fino
ad allora, ogniqualvolta sua madre arrivava ad interrompere i suoi giochi, per
i pasti, per il bagno, per la messa, per quasi qualsiasi cosa, era un disastro.
Quello invece cos’era?
Nessuna
volta era equiparabile a quel momento e al contempo non era nulla di diverso
dal solito: il tempo per i giochi era terminato.
“Che…
Che significa?” sbraitò con la voce appena ritrovata.
Moscovia
commentò la sua prevedibilissima reazione con un battito di ciglia.
“Perché
Orda d’Oro dovrebbe prenderla?”
“Perché
è lui il nostro nuovo padrone ora.” –spiego con calma agghiacciante l’enorme
donna ai due cuccioli terrorizzati- “Ha deciso che noi principati resteremo in
vita, ma sottomessi a lui. Per Ucraina è diverso.”
Si
fermò un attimo, perché non era fatta di pietra: “Da adesso in poi lei è parte
del suo impero. Domani la prenderà con sé, e la ricondurrà a sud, dove ha
deciso di stabilirsi e dove lo servirà.”
Ad
Ivan bastò uno sguardo velocissimo perché rivedesse in lei il silenzioso e
disperato spettro che era stata fino a due giorni primo, distogliendosi
immediatamente da esso; proprio ora che era riuscito a farla tornare normale, a
restituirle la primavera nell’inverno più terribile della sua vita, cosa significavano
quelle parole così crudeli? Lei serva dell’assassino del suo papà?
Assolutamente no!
Non
avrebbe ceduto la sua sorellina a Baba Yaga, figuriamoci ad uno dei più vasti
imperi mai esistiti!
“No!”
–gridò contro la madre come non si era mai permesso prima di allora- “Lei è la
mia sorellina e non va da nessuna parte! Noi dobbiamo proteggerla, non
consegnarla a quel brutto mostro!”
“Russia, smettila!” –ribatté lei, tutto sommato paziente dinanzi ai suoi modi,
meritevoli di ben più di una scudisciata- “Non siamo più in grado di proteggere
nemmeno noi stessi! Orda d’Oro ci ha conquistati tutti. Tutta la Rutenia ora
gli appartiene, di nome… o di fatto.” –concluse, abbassando gli occhi su
Ucraina alle soglie del pianto.
Che
ormai avessero perso lo sapeva già da prima di recarsi a Kiev per sottrarre il
corpo del beneamato fratello ai corvi, ma sapere della decisione del vincitore
di tenere per sé Katyusha aveva duramente colpito anche lei. Ciononostante, non
appena le era stata comunicata, non aveva avuto un attimo di titubanza nel
decidere che sarebbe stata lei stessa a dirglielo.
Anche
le lezioni più aspre possono essere impartite col giusto tatto, ed era per
quello che era lì, a mettere alla prova la sua forza d’animo, la sua capacità
di sopportare, di ingurgitare le sofferenze, per l’ennesima volta; la vita
della madre, della zia, della donna, è tremenda pensò.
“Ivan,
Ucraina sarebbe comunque dovuta tornare a casa sua, come noi dobbiamo tornare a
nord: o pensavi saremmo potuti rimanere qui nascosti in eterno?”
“Restiamoci!”
–disse di quelle quattro baracche nel niente come dell’ultimo luogo ospitale al
mondo- “Ormai ha distrutto tutto, non c’è rimasto niente, e allora che si tenga
il niente e ci lasci stare!”
“Non
sai quello che dici.”
“Io
non lascio andare la mia sorellina!” –si buttò a terra, facendosi male sbattendo
sulle ginocchia pur di arrivare anche un solo secondo prima lei, per farle
scudo con un abbraccio che sembrava poter proteggere meglio di mille fortezze e
mille eserciti. Ucraina subito si aggrappò al braccio del fratello che la
stringeva a sé da dietro le spalle, scostando il più possibile il viso dalla
zia.
“Non
voglio andare!”
“Lei
da quel mostro non ci va! Non ci va!”
Tanta
spavalderia era pur sempre quella di un bambino, e bastò un solo passo della
madre a farlo vacillare, come avesse fatto tremare la terra sotto di loro.
Moscovia
vide Russia continuare ad affrontare il suo sguardo anche con le gambe molli
che gli eran venute: si sentì molto fiera di lui. Ma non per questo non staccò
via le sue braccia dalla sorellina, che si sentì subito scoperta e indifesa
contro il faccione rotondo e lo sguardo incattivito di zia Moscovia.
“Non possiamo dargliela!”
“Russia, stai zitto!”
Si
assicurò che quel piccolo difensore di cause perse facesse almeno un altro
passo indietro, poi, poggiò le grasse mani sulle spalle di Katyusha, che subito
si riparò alzando le braccia vicino al viso; sembrava fosse in attesa lei dei
ceffoni che il suo fratellino si era meritato col suo tono insolente.
Dal
canto suo, Moscovia non apriva bocca e Ivan temeva da un momento all’altro
potesse sollevarla, come un fagottino, una botticella, un sacchetto, un regalo
da consegnare all’assassino di Kiev. Ma passò un intero minuto e niente si
mosse; solo il suo viso cambiò, distendendosi triste, vinto infine dalla pietà.
“Io…”
–balbettò Ucraina asciugandosi gli occhi- “Io non voglio andare.”
“Si
che lo vuoi invece.” –rispose lei confondendo entrambi.
“Non
è vero!” rispose al suo posto Ivan.
“No,
non voglio!” le fece lei coro.
“Io
dico di si.”
“Perché?” –chiese, non riuscendo a capire perché sua zia sembrasse sapere
meglio di lei ciò che aveva in testa in quel momento.
“Ucraina,
guardami.”
Finì
di asciugarsi gli occhi e obbedì: “Voglio stare qui… con il mio fratellino…”
“Lo so che lo vuoi. Ma non è l’unica cosa che desideri. Devi ascoltare te
stessa.”
“Che
vuol dire?”
“Che se ti fermi ti accorgi che in realtà vuoi tornare a casa tua, anche se
significa dover stare sotto quel maledetto Orda d’Oro.”
Katyusha
abbassò la testa; i suoi occhietti si muovevano in tutte le direzioni, sul
pavimento, sulle sue scarpette, sulla zia, mentre provava ad “ascoltarsi”, non
capendo come fare. Tentava inutilmente di capire il senso di quel discorso con
cui la zia voleva farle accettare un fato così orribile e meschino.
“Ti
chiedi come lo so? Perché sei come me, come noi.” –finì guardando il
figlioletto- “Tu non sei una bimba come tutte, mia adorata piccola Katyusha.”
–disse coccolandola con le mani e con gli occhi- “Il principato di Kiev, il tuo
papà, non c’è più, ma c’è ancora la vostra terra, il vostro fiume, il vostro
popolo che vi voleva tanto bene. Per questo io so che sarai forte e tornerai
indietro: nessuno di noi, di quelli come me, te, Ivan, e tutti i tuoi zii può
resistere a lungo lontano dalla sua casa senza sentire il desiderio irrestibile
di rivederla, non può fare a meno di essa, non può rinunciarci nemmeno volendo.
Non ti manca?”
Ivan
aspettò la risposta in un crescendo di mal di testa e di preoccupazione.
“Si.”
–ammise la bimba.
“Ti
manca la tua casa, la terra da cui prendi il nome e a cui dai il nome, perché
quella terra è parte di te. Sei tu. Ed era il tuo papà.”
Ucraina
si lasciò sfuggire un altro singhiozzo, ma si portò anche subito la mano
all’occhio per far sparire la nuova lacrima sul nascere.
“Non
sei solo la terra, ma anche chi ci vive: qualcuno si è salvato, e sarà in
pensiero per te. Devi tornare da loro, da coloro che dicono “Noi siamo di
Kiev”, “Noi siamo ucraini”. Hanno bisogno di te.”
“Ma
io non sono papà…”
“No.”
–sorrise lei- “Sei ciò che è sopravvissuto di lui. Per questo ti ha nascosta
per impedire ti trovassero. Sei la sua speranza che la vostra bellissima
nazione non morisse con lui e potesse un giorno tornare a vivere libera. Devi
farlo anche per lui, per il tuo papà.”
Nel
seguire il filo di parole tesole da Moscovia, Ucraina aveva smesso di piangere,
eppure proprio quello era ciò che annodava lo stomaco di Ivan. Perché si era
calmata? Non stava sul serio pensando di arrendersi? Perché non gridava di no
insieme a lui? Volevano farle servire Orda d’Oro, abbandonarla al suo destino,
come faceva anche solo a starli a sentire?
“Ucraina…
Sorellina…”
Katyusha
lo guardò, fermo sul posto, a dirle di “no” con la testa, la bocca spalancata,
il labbro tremante.
Ma
Moscovia aveva usato parole troppo giuste. Il terrore c’era, la sofferenza
pure, tantissima; e c’era anche, nel profondo del suo cuore, il desiderio che
quelli come loro avvertono quando sono distanti.
Il
grande fiume, la steppa sconfinata, i vento che cavalca sulle spighe, il suo
papà che da prima ancora che lei nascesse osservava ogni cosa pieno di orgoglio
e gioia. L’orgoglio e la gioia che le aveva insegnato e trasmesso nelle loro
passeggiate, quando le mostrava ciò che era, come aveva fatto Moscovia col suo
fratellino, tanto tempo prima, in un campo di girasoli.
Moscovia lasciò che ci pensasse con calma, che prendesse da sé la decisione di
condannarsi, prima di domandare ancora.
“Ucraina,
cosa farai? Tornerai lì?”
Katyusha si voltò verso Ivan, ma in quel momento lui non poteva offrirle altro
che la sua silenziosa supplica; lo supplicò a sua volta, di accettare le sue
scuse.
“Si.”
“Sei
una bambina forte Katyusha. Veramente forte.”
Non
resistendo oltre, la abbracciò, facendola sprofondare nella calda e morbida
veste di pelliccia, come una madre orsa e la sua neonata, che con immenso
dolore era stata costretta a crescere così in fretta.
Quando
aveva dato la sua risposta, Ivan era stato scosso da un tremito, tanto
devastante che aveva rovesciato sul pavimento un altro po’ della stoppia che
gli era rimasta addosso quando il gioco si era concluso. Ne aveva ancora altra,
attaccata ai vestiti, nascosta tra le ciocche di capelli, dietro le orecchie,
intorno ai suoi piedi.
Ucraina invece non ne aveva più. Con l’aiuto delle carezze di sua madre l’aveva
spazzata via tutta di dosso.
Il
tempo del gioco era finito. Solo che lui ne portava ancora i rimasugli addosso,
invece Ucraina si era fatta forte, veramente forte, per seguire il proprio
destino di nazione, anche così piccola, anche così spaventata, anche sottomessa
all’ultimo di coloro che avrebbero meritato di regnare su di lei.
Sorellina?
Un
nome dolce, carino, minuscolo, un nome da carezzare, coccolare, difendere.
Eppure
ora si sentiva lui il “fratellino”, il poppante che aveva battuto i piedi e
alzato la voce, surclassato da una bambina capace di crescere tanto da
lasciarlo indietro, ad osservarla abbracciata a sua madre, con quello sguardo
da stoccafisso.
“Su
su.” –disse Moscovia, anche non sentendola piangere, mentre le poggiava una
mano in testa- “Vedrai, diventerai una nazione bella e dolce come il tuo papà.
E forse un giorno saremo tutti di nuovo liberi come un tempo, e potremo tornare
a vivere insieme, di nuovo uniti. Un giorno.”
Mentre
lasciava sprofondasse in lei, come il momento dei saluti fosse già giunto,
Moscovia non aveva certo dimenticato del figlio sporco di paglia che le stava
fissando sconvolto.
Sorridendo,
lo chiamò a sé con un gesto della mano.
Ma
Ivan non era in vena di abbracci. Per non sentirsi ancora di più un poppante, o
per esserlo fino in fondo, chinò il capo come un vitello in carica, uscendo a
passo svelto dalla stanza e poi dall’isba, bisognoso di sfogo.
Appena
uscito all’aria aperta sgranò gli occhi alla vista dei suoi zii, Polotsk, Tver
e Novgorod, riuniti a parlare vicino un paio di cavalli legati a un tronco.
Erano stati proprio Novgorod e Tver ad arrivare lì poco prima, a portare a
Moscovia la notizia delle decisioni di Orda d’Oro.
Ad
uno ad uno cercò i loro sguardi.
Zio Polotsk, come accoltellato allo stomaco, fece una smorfia, voltandosi amareggiato,
dispiaciuto, vergognato della sconfitta subita e delle conseguenze per tutti
loro.
Zio
Tver, come si era aspettato, si voltò pure lui: di certo con tutti i guai in
cui annegavano non gli andava di pensare pure a un moccioso e alle sue lagne.
Zio
Novgorod fu l’unico che non si tirò indietro alla sfida dei suoi occhietti
viola.
Sotto
la sua folta barba nera, le labbra non si arricciarono in un sorriso rassicurante,
né si creparono dal dolore, né si corrugarono per scacciarlo o zittirlo prima
ancora dicesse una parola.
I
suoi occhi, scuri, profondi, saggi, gli rivolgevano l’unico avviso che gli
serviva sul serio: accettalo. Non c’è altro che puoi fare.
Ivan,
dimenticato ormai di essere uscito per volersi sfogare, si sedette sull’uscio
dell’isba.
Uno
stelo di paglia gli cadde davanti gli occhi. Non lo tolse.
Da
quel giorno in poi, non ebbe mai più paura di Baba Yaga.
Come
Kiev, Orda d’Oro aveva “ucciso” anche lei. Come il buio, come il silenzio
misterioso della notte, era diventata semplicemente troppo sciocca, un niente
in confronto ai pericoli, alle paure e alle sofferenze che puoi vedere, subire,
sentire dentro da te, in qualunque attimo del giorno.
Era un mattino nebbioso. Sul villaggio abbandonato in cui sarebbe avvenuto
l’incontro incombevano nubi pesanti come macigni, e ogni cosa era scolorita nel
grigio e resa a indistinta dalla foschia.
La
famiglia dei ruteni, insieme con alcune guardie di scorta, aspettava il loro
arrivo all’ingresso del villaggio, tra le prime case e il ponticello sul
torrente che approvvigionava gli abitanti, ora finiti chissà dove. Aspettavano,
tutti vicini; non c’era silenzio, la vita nelle foreste e nel fiumiciattolo
poco distante proseguiva spensierata coi suoi soliti suoni, fruscii, scrosci.
L’unica voce che di tanto in tanto si udiva era quella della povera zia
Volinia, sofferente per la così giovane vittima di quel giorno, rimbeccata
continuamente dalla più salda sorella Galizia, che spegneva i suoi gemiti a
suon di gomitate.
In
prima fila c’erano Novgorod e Moscovia, il primo divenuto ormai il membro della
famiglia di maggiore importanza e prestigio con la scomparsa di Kiev,
principale interlocutore col loro nuovo capo.
Dinanzi
ancora, i due bambini.
Ivan
e Katyusha si tenevano per mano. Quando sentiva la paura della sorellina
crescere, stringeva più forte, e subito si calmava. Quando lei si girava verso
di lui, faceva il suo dovere di fratello rassicurandola con un sorriso, senza
smettere fino a quando non gliene rivolgeva uno anche lei. Subito dopo,
tornavano entrambi a fissare davanti a sé, in quel poco che lo sguardo riusciva
a penetrare.
Fu
una attesa lunga: molte volte gli alberi dietro le case rimandarono i forti
battiti d’ali di un uccello nel suo levarsi, molte volte le guardie tossirono o
sbadigliarono, molte volte i gemiti di Volinia vennero zittiti da Galizia,
molte volte i due bambini lasciarono perdere il niente che c’era e il niente
che arrivava per guardarsi l’un l’altro, senza aprire mai bocca.
Giunto
il momento, fu un rumore di zoccoli ad annunciare la fine dell’attesa; quei
piccoli gesti si interruppero tutti, e il tempo si congelò in un’allerta ancora
più snervante. Si sentirono tanti ravvicinati colpetti sulle assi di legno del
ponticello, poi il suono mutò quando le zampe dei loro animali tornarono a
colpire la strada, che proseguiva fin lì dove stavano loro.
Dalla
densa nebbia nacquero nere figure, sempre più grandi man mano che si
avvicinavano; spettri scuri, come fumo d’incendio, cavalieri, muti e terribili.
I
soldati corsero via dai loro posti, qualcuno lasciandosi dietro anche la
lancia, sparendo fra i boschetti di pini ai due lati del villaggio; tanto non
v’era un reale motivo per cui stessero lì, né la loro codardia interessò minimamente
i “lupi”, come anche li chiamavano, mentre sbucavano fuori uno dopo l’altro. Fendevano
la foschia, la quale si sfilacciava sui loro corpi come una ragnatela incapace
di contenerli.
Gli
arcieri a cavallo si suddivisero in due gruppetti, disponendosi alla destra e
alla sinistra della strada, che in quel punto si allargava e diventava uno
spiazzo sterrato, ora per gran parte occupato dalle loro inquietanti figure.
Ivan,
approfittando di poterne vedere alcuni fermi, prese a scrutarli attentamente.
Non
erano poi così “gialli” come gli avevano detto, ma forse li vedeva così per via
del cielo livido che mascherava tutti i colori. I loro occhi erano sottili, e
si domandava se ci vedessero bene con quelli, infossati tra le sopracciglia e
gli zigomi tondi e pronunciati.
Alcuni
di loro avevano barbe sottili e raccolte in trecce, altri lunghi baffi
altrettanto sottili, come lunghi vermi neri, nessuna barba folta a mascherarne
le fattezze. Alcuni avevano elmi piumati, ma una buon parte portava in testa
dei semplici cappelli, bassi e larghi, di feltro e pelo d’animale. Allo stesso
modo pochi di loro portavano delle armature complete, con corazze che
sembrassero solide almeno un po’ quanto quelle scintillanti dei loro soldati,
non che questo avesse impedito loro di batterli e sterminarli. Tutti invece portavano
un arco dalla strana foggia, fatto di tre curve, due sporgenti e una rientrante
tra di esse, e ben due faretre ben capienti.
Se
non li avesse visti, da una distanza sicura, riuscire a scoccare con tanta
efficacia mentre i cavalli correvano all’impazzata sotto di loro, non ci
avrebbe creduto.
Ad
un certo punto l’attenzione, e non solo la sua, si concentrò su uno di essi
che, infilata una mano sotto la sella, ne tirò fuori qualcosa che poi iniziò a
mangiucchiare distrattamente.
Ad
Ivan uscì subito una smorfia di disgusto.
Ed
ecco avanzare sul ponte altri zoccoli, condotti avanti lentamente.
Nella
nebbia si formò una nuova ombra, più imponente di tutte le altre.
Il
cavallo, nero, era di qualità decisamente migliore dei ronzini degli altri; il
suo collo ben alzato rispecchiava la fierezza del suo proprietario.
Il
cavaliere, indomito come la sua bestia, portava legato dietro la schiena un
arco enorme, alto forse quanto un uomo, e si rivestiva di un abito di pelliccia
chiara, molto folto intorno al collo. Anche lui aveva due lunghissimi baffi e
un serpentello di barba sul mento; gli occhi allungati, come i suoi guerrieri; i
lunghi capelli del colore dei corvi legati dietro la nuca, non intrecciati,
ricordavano la coda dei cavalli.
Così
si mostrava a loro, e a Ivan per la prima volta, Orda d’Oro.
Sfilava
tra due ali di quella che era una goccia dell’alluvione che lo serviva.
Procedeva
con assoluta calma, come chi non teme nulla, perché da nulla e da nessuno lì in
terra poteva essere impensierito.
Ucraina
tremò, e la stessa mano del fratello non era più salda.
Era
lui. Finalmente lo vedeva coi suoi occhi. Aveva ucciso suo zio e si era
stabilito con la sua gente nelle sue terre. Si sarebbe preso la sua sorellina.
E
non poteva fare nulla per impedirlo.
Più
avanzava e più le budella gli si torcevano. Dinanzi Orda d’Oro non c’era
mostro, folletto, orco, strega, drago che reggesse il confronto. Come aveva
ucciso Kiev, così ora li spazzava tutti via, così reale, così immenso, fatto
apposta per distruggere i sogni e le illusioni di chi non aveva ancora
conosciuto la brutalità del mondo.
Per
guardarlo in volto doveva sollevare il collo e neppure bastava; se le montagne
avessero saputo muoversi su dei piedi propri sarebbero state come lui.
Incontrastabili. Inavvicinabili. Da lassù guardava, bramava, prendeva, conquistava,
perché, semplicemente, poteva.
L’aveva
udito al suo funerale e ora gli rimbombava nella mente: troppo grande.
Semplicemente
troppo grande.
Russia
sentì il morso doloroso dell’impotenza dilaniargli il cuore: ecco da chi aveva
giurato di proteggere la propria sorellina. Come avrebbe potuto mai fare?
All’iniziale
paura e alla successiva frustrazione, non tardò ad aggiungersi lo sgomento.
Ecco
cosa significavano la forza e le dimensioni: erano lì davanti a lui, incarnate,
a lasciarsi ammirare. Se solo tutta quella potenza fosse stata in altre mani.
Le sue, così crudeli, erano così indegne di possederla.
Mentre
così pensava, si ritrovò anche a dover assistere a quella disgustosa scena.
Vederli
inchinare, dal primo all’ultimo: zio Novgorod, zio Tver, zio Pskov, zia
Galizia, zia Volinia, persino sua madre. Non appena Orda d’Oro aveva arrestato
il cavallo, la sua famiglia aveva volto mani e viso al terreno, dinanzi il
nuovo signore. In quello stato erano persino più bassi di lui.
Fu
così doloroso che fu Russia a ritrovarsi a stringere la mano di Ucraina, quasi
a farle male.
Orda
d’Oro li passò in rassegna come a volersi assicurare della profondità dei loro
inchini, ma in realtà con disinteresse. La sua attenzione era tutta sui due
bambini ancora in piedi. Riconobbe subito nella femminuccia le fertili lande
che aveva voluto tutte per sé, esclusivamente per sé, facendosi arricciare i
baffi e il pizzetto.
Levò
una mano, e guardando dritto nei suoi occhi, le fece segno di venire.
Con
le ginocchia che ancora si sporcavano nella terra umidiccia, Moscovia si
sollevò dietro le spalle di Katyusha, e le toccò la schiena: doveva andare ora.
Guardò
il fratellino stringere i denti e gli chiese ancora una volta, l’ultima, un po’
di coraggio. E lui glielo diede, lasciandole andare la mano.
Katyusha
e Ivan si abbracciarono forte, mentre Orda d’Oro, sceso dal suo cavallo, si
avvicinava, ignorato dai due che si salutavano, e tenuto d’occhio solo dagli
adulti dietro di loro, quando osavano alzare il capo quanto bastava per sbirciare.
“Tieni
duro, sorellina.”
Ucraina
strinse le sopracciglia, annuendo determinata, prima di decidersi finalmente ad
affrontare l’invincibile cavaliere.
I
mocassini sormontati da batuffoletti di pelliccia si incontrarono, dopo pochi
passi, con gli stivali fasciati che avevano percorso da vincitori l’intera Asia
prima di giungere fin lì.
Orda
d’Oro si piegò sulle ginocchia e, come una tartaruga, dilungò fuori il collo
per osservarla meglio. Ucraina, dubbiosa sul da farsi, si limitò a incrociare
le braccia davanti il corpo e a chinare la testa, più per timidezza che per
rispetto.
L’uomo
dagli occhi lunghi allargò le braccia: “Vieni!”
Le
sembrò quasi uno dei suoi zii, tornato da un lungo viaggio e ansioso si
salutarla stringendola a sé: una stretta da cui però non sarebbe stata
liberata.
Fece
un altro passo avanti e quelle braccia fameliche la avvilupparono con
inaspettata gentilezza.
“Non
ti farò alcun male. Da oggi mi appartieni.”
Ucraina
chinò nuovamente la testa.
Orda
d’Oro si rialzò e le porse la mano. Era calda, ma tanto ruvida, impossibile da
paragonare con quella del fratello.
Nel
frattempo, i ruteni si erano tutti sollevati per assistere alla scena della
loro congiunta portata via. Volinia scoppiò nuovamente in lacrime, badando di
lasciarsi andare in silenzio però, per non beccarsi altre gomitate da Galizia;
quest’ultima in realtà già piangeva a sua volta. Gli altri zii gettarono fuori
lunghi sospiri, di sollievo, e di rassegnazione.
Ma
se quest’ultima aveva ormai reso inoffensive le loro braci, non aveva ancora
spento quella candelina dagli occhi viola dinanzi a loro, ben piantata sui
propri piedi più degli stessi pini lì intorno sulle loro radici.
Chi
si credeva di essere per abbracciarla?
Chi si credeva di essere per condurla per mano in quel modo dopo quello che
aveva fatto?
Perché poteva andarsene via impunito?
La risposta la sapeva: perché lui poteva, in quanto forte e grande. Troppo
grande per lui, troppo grande per Kiev, troppo grande per ognuno di loro.
Orda
d’Oro, portatala fino al cavallo, la sollevò e la poggiò sulla propria sella:
da lì, Katyusha poté guardare negli occhi la sua famiglia, in particolare le
sue amate ziette in lacrime, Moscovia, così buona con lei, e, naturalmente, il
suo fratellino.
Sorrise
anche se non ne aveva motivo. Ivan pensò volesse rassicurarlo, ma non era così
che doveva andare. Era lui il fratellino, lui doveva consolare il suo pianto,
non il contrario.
Avrebbe
tenuto fede alla sua promessa di proteggerla da tutte le cose brutte, anche se
ora non era possibile. Avrebbe restituito l’orgoglio che gli spettava, e
l’orgoglio della sua famiglia, se non in quell’istante, certamente un giorno.
http://www.youtube.com/watch?v=JKJ6YXEcelA
Tra
loro non c’era confronto ora, ebbene lui l’avrebbe creato.
Ci
sarebbe arrivato, a tutti i costi!
“Russia!”
-gridò Moscovia col cuore in gola, nel momento in cui lo vide correre, a denti
stretti, verso il gigantesco impero. Gli altri zii tesero le mani, come a
poterlo fermare restando in ginocchio.
In
quel momento non gli importava della pena che avrebbe messo loro in corpo; gli
importava solo della povera Katyusha.
Per
lei, avrebbe preso, in quel giorno di umiliazione e di sconforto, una decisione
che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Per
lei, avrebbe diradato la nebbia con le sue urla.
“Io diventerò più forte di te!”
Orda
d’Oro si voltò. Gli altri mongoli, rassegnatisi a una giornata senza colpi di
scena, balzarono sulle selle. Decine di uccelli, spaventati dal forte grido si
levarono dai rami degli alberi con forte rumore d’ali. La nebbia si scostò da
lui, perché celarlo sarebbe stata impresa impossibile.
“Io
diventerò più forte te, più grande di te, e mi riprenderò Ucraina!”
L’immenso
cavaliere non batté ciglio.
“Hai capito bene! Crescerò ancora più di te e verrò a batterti!”
Gli
angoli della bocca dell’asiatico si sollevarono: “Ah, si? E che altro?”
Russia
riprese fiato e tanti altri uccelli ancora volarono via.
“Sarò più grande di chiunque altro!
Diventerò così grande e invincibile che nessuno oserà toccare me o la mia famiglia, e nessuno di quelli a cui voglio bene sarà mai più portato via!”
Inspirò
a voler per sé tutta l’aria del mondo in modo che non ne restasse per lui.
“LO GIURO!”
“…..”
Avendo
usato tutta l’aria del mondo nella sua promessa, non ve ne fu, per un po’,
altra attraverso la quale potesse essere udito qualunque altro suono.
Nemmeno
Golia sembrava voler reagire a quel Davide.
Il
silenzio fu rotto da Novgorod, il quale si sbatté una mano sulla fronte: “Oh,
bozhe moi!”
Certamente
la sua esclamazione contribuì all’inevitabile esplodere della risata dei
mongoli, fragorosa e senza freni. Presero ad indicarlo, a fargli il verso con
urla che non avrebbero smosso neppure i semi di un soffione, ma che loro
trovavano divertentissime e uguali alle sue.
Uno
dei cavalieri, incitato dai compagni, diede un colpetto di talloni e,
ridacchiando, si fece avanti con una mano pronta al fianco, dove teneva la
spada, aspettandosi di vederlo fuggire in lacrime al primo pollice di lama.
Parimenti,
al suo signore bastò un’occhiata sola perché tirasse a sé le redini di colpo,
fuggendo in fondo al suo gruppetto di compari che non avevano tardato a
zittirsi a loro volta: persino il suo cavallo era impallidito dalla paura.
Orda
d’Oro era stato l’unico a non ridere di lui. Tutt’al più, sorrideva soltanto.
Katyusha,
arrossita e a bocca aperta, guardava dall’alto della sella il fratello
riprendere fiato e dar sollievo alla propria gola seccata inghiottendo
continuamente. L’urlo si era comportato diversamente con lei: non aveva
perforato i suoi timpani, come invece era avvenuto col mongolo, ma si era
adagiato su di essi, come fosse stato la sua mano tornata a stringerla e
carezzarla. Stava ancora abbracciandosi alle parole della sua promessa
quand’ecco trasalì, vedendo il gigante dall’imponente arco fare alcuni passi
verso il suo fin troppo sfrontato fratellino, incombendo su di lui come una
quercia su un germoglio. Chiuse gli occhi e pregò il cielo, come stava facendo
anche Moscovia.
Ad
Ivan non restò che sperare che il suo tremare non fosse così evidente come
sembrava alle sue ossa, scosse come sonagli adesso che gli sembrava ancora più
grande da così vicino.
Cosa
voleva dire quel ghigno? Si prendeva gioco di lui come gli altri? Non dava però
quell’impressione; cosa voleva allora da lui?
“Niente
male come ambizione per un piccoletto. Ma fino ad allora, prostrati.”
“……”
Stretto
tra la disperazione dei suoi parenti e il sorriso della beffarda montagna che
aveva osato sfidare, il piccolo Russia capitolò in pochi istanti.
Anche
le sue ginocchia e la sua fronte conobbero lo sporco della terra fangosa. Anche
la sua nuca si rivelò, scoperta, al compiaciuto conquistatore del Rus.
“Però!”
–sbalordì quello- “Coraggioso e pure saggio. Forse un giorno riuscirai davvero
in ciò che hai detto, sempre se qualcuno non ti ammazza prima. Forse…”
Tornò
al proprio cavallo e vi balzò in groppa.
Si
rivolse allora agli interlocutori ben più ragguardevoli di quel moccioso
rimesso al proprio posto.
“Non
dimenticate di pagare i vostri tributi annuali.”
I
russi chinarono il capo, anche ben volentieri vista la piega ben peggiore che
avrebbero potuto prendere gli eventi.
“Andiamo
via.” –ordinò, e le due ali di cavalieri si misero in moto per disporsi intorno
a lui.
Russia
rialzò la testa e il suo sguardo si incrociò un’ultima volta con quello di
Ucraina; vide i suoi occhi tristi e il
suo sorriso grato; nessuna lacrima, e una manina aperta, che lo salutava, prima
che la guardia circondasse il loro cavallo, oscurandola alla sua vista.
I
cavalieri sparirono così nella nebbia da cui erano venuti, sciogliendosi in
essa, insieme con la sua sorellina. Fu dura trovare la forza di rialzarsi.
Diverso
fu invece per qualcun altro dietro di lui.
http://www.youtube.com/watch?v=XIQVHuTI6ps
Non
appena tutto tornò tranquillo, Moscovia non perse tempo: si diresse a passo
svelto lì dove si trovava, lo costrinse a voltarsi e suonò la mano contro la
sua guancia.
“Non
voglio mai più bravate del genere!”
Si
pentì molto presto di quello schiaffo. Non era il primo che gli rifilava, ma
questo arrivava forse nel momento peggiore di tutta la sua giovane esistenza.
Non
fu solo la guancia colpita ad imporporarsi, ma tutte e due; aveva ripreso a
succhiare altra aria come dovesse prepararsi a urlare di nuovo.
Poverino,
si disse, per quel giorno di umiliazioni ne aveva subite fin troppe: vedere la
propria famiglia umiliarsi, venire umiliato a sua volta, ridursi ad un inutile
fratellino che può solo guardare la sorellina che viene portata via...
Se
l’era portata via. Lei così coraggiosa e lui immobile a guardare, buono solo a
far promesse. Chissà cosa avrebbe passato ora. Chissà quando l’avrebbe rivista.
Con
quello schiaffo, era definitivamente andato in pezzi.
Esplose
in un pianto fortissimo, assordante e disperato quanto la promessa di poco
prima. L’immagine della manina di Katyusha che lo salutava si era stampata
dinanzi le pupille, e nemmeno nascondere gli occhi ad affogare nelle lacrime sotto
le palpebre gli dava rifugio da un dolore di cui, ingiustamente, si sentiva
colpevole, con il suo essere così com’era.
Piccolo dentro, in confronto ad Ucraina.
Minuscolo fuori, al cospetto Orda d’Oro.
Moscovia
sospirò: “Ma tu guarda un po’…”
Lo
prese in braccio e gli lasciò asciugare le lacrime sul soprabito che le
rivestiva la spalla. Con la faccia premuta contro di lei, Ivan continuò a
piangere, senza più pretendere di essere troppo cresciuto per farlo dinanzi i
suoi zii, o per non fare la voce grossa contro un avversario ben al di là della
sua portata.
Su
quel morbido cuscino, con l’aiuto delle carezze della mamma, il cerchio alla
testa iniziò ad allentarsi, ma i gemiti ancora non riusciva a trattenerli, e i
singhiozzi erano violenti come colpi di tosse.
“Smettila
di piangere ora.” –gli ordinò Moscovia- “Ti sei posto un obbiettivo molto in
alto, non è così che dimostri di esserti messo sulla via giusta per raggiungerlo.”
Ivan
affondo le unghie nelle vesti e nelle carni della madre, cercando la forza per
trattenersi.
Quella
promessa non era stata una semplice spacconata: ci credeva sul serio, e sua
madre aveva ragione, doveva dimostrarlo.
I
suoi zii e le sue zie, rimasti scossi dal giuramento del nipote, si erano
rimessi in piedi e volevano avvicinarsi, anche Tver e Polotsk, di solito tanto
scostanti, ma Moscovia fece segno di stare tranquilli; così, chi scuotendo il
capo e chi parlottando, chi sconcertato e chi fiero, si avviarono ai propri
cavalli.
Moscovia
mise giù Russia. Mentre si ripuliva dalla terra i pantaloni, si asciugò più
volte le lacrime, o le ricacciò dentro tirando col naso.
“Vieni,
Russia. Andiamo via anche noi.”
“Si,
andiamo.”
Mano
nella mano, salutati dalla nebbia che si diradava, la madre e il figlio si
lasciarono alle spalle l’amarezza di quel giorno, in previsione del duro lavoro
che li attendeva.
Una
casa distrutta e ancora da ricostruire era tutto ciò che restava loro.
Quello,
e una promessa da mantenere.
NOTE STORICHE
A seguito della conquista mongola del
Rus, i principati russi del centro e del nord rimasero formalmente
indipendenti, ma di fatto sottomessi al khan dell’Orda: ciascuno di loro doveva
versare ai padroni, i lupo venuti dall’Asia, ingenti tributi ogni anno, e la
loro stessa politica interna era da essi fortemente controllata. Addirittura
dovevano chiedere loro il permesso di difendersi in caso di aggressione di un
altro stato. I mongoli badarono bene, nel periodo del loro dominio, di fare in
modo che i russi restassero deboli e divisi, incoraggiando le lotte tra loro,
in modo che non potessero riunirsi e reagire al loro giogo.
Diversa sorte toccò alla parte
meridionale, corrispondente appunto all’odierna Ucraina: questi territori, dal
clima più mite e quindi di maggiore attrattiva, vennero inglobati completamente
nell’impero dell’Orda d’Oro, che vi pose anche la sua capitale, Saraj (nell’odierna
Russia caucasica, oggi non più esistente). Iniziò così la dominazione mongola
dell’Ucraina, che si protrasse, in alcune zone, fino XV secolo.
Il Khanato dell’Orda d’Oro fu uno dei
quattro imperi mongoli che si formarono dopo la morte del grande Gengiz Khan:
gli altri, i fratelli di Orda d’Oro in ambito “hetaliano”, furono il Khanato di
Persia, il Khanato Chagatai, e la dinastia Yuan che regnò per quasi un secolo
sulla Cina (cui apparteneva il Gran Khan Kubilai che conobbe l’esploratore
Marco Polo).
Il mongoli, cavalieri dei più abili mai
esistiti (tuttoggi), erano in grado di trascorrere gran parte della loro
giornata montati a cavallo. Molti di loro, per quando sarebbe venuta loro fame,
avevano l’abitudine di lasciar macerare, tra la sella e la schiena del cavallo,
delle strisce di carne, a mò di riserva di cibo; potevano anche tagliare una
vena al loro animale per succhiarne un po’ di sangue in caso di emergenza.
L’esclamazione di Novgorod, “Bozhe
moi!”, è l’equivalente in lingua russa più o meno dei nostri “Oh cielo!”, “Oh
poveri noi!”, “Oh mamma!” e simili…
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Capitolo 7 *** Un inchino per rialzare il capo ***
E
rieccomi cari lettori! Stavolta avete dovuto aspettare un po’ di più per il
seguito, e penso sarà così d’ora in avanti, ma non vi preoccupate, ci sono
ancora! ^__^
Ci ho messo più tempo anche perché nel frattempo ho scritto un’altra breve fic,
una parodia comica di Cenerentola coi nostri amati Hetalia: se ve la siete
persa, date un’occhiatina!
Con questo nuovo capitolo comincia diciamo una nuova “saga” della fanfic, in
cui ritroveremo un Ivan già non più di aspetto e carattere da bambino, che
muove i suoi primi passi più attivi nella difficile storia del medioevo russo.
È una novità rispetto a quello cui sono abituato a scrivere, perché ci saranno
molte più descrizioni e, in questo capitolo e nel successivo in particolare,
addirittura scene che definirei da “Signore degli Anelli”. Che dire, spero di
cavarmela, non vedo l’ora di sentire i vostri pareri!
Buona
lettura!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS: Link con la colonna sonora consigliata per la lettura saranno inseriti
lungo la storia ^_^
CAPITOLO 7 – Un inchino per rialzare il
capo
“Io diventerò più forte di te! Io
diventerò più forte te, più grande di te, e mi riprenderò Ucraina!”
Gli angoli della bocca dell’asiatico si
sollevarono: “Ah, si? E che altro?”
“Sarò più grande di chiunque altro!
Diventerò così grande e invincibile che nessuno oserà toccare me o la mia
famiglia, e nessuno di quelli a cui voglio bene sarà mai più portato via!”
Inspirò a voler per sé tutta l’aria del
mondo in modo che non ne restasse per lui.
“LO GIURO!”
Due anni dopo
“Chi
è stato?”
Alle
sue orecchie non giunse altro che lo sbuffo del cavallo sotto di sé.
“Chi è stato?” –urlò con ancora più rabbia.
Spinse
l’animale ancora più avanti tra le rozze e silenziose casupole di fango, pietra
e legno.
Alcune
di esse erano ancora lambite dalle fiamme, ma tra di loro erano distanziate e
non c’era vento, per cui terminavano di ardere in solitudine, sciogliendo il
manto di neve sul terreno intorno a loro.
Altre
capanne sembravano dei grossi falò estinti, dai quali i tronchi portanti,
piombati a terra, cercavano di scappare, anneriti ma tutto sommato ancora
integri.
La
maggior parte era tuttavia ancora in piedi, ed emanavano un silenzio tombale.
Intorno
per terra erano sparsi, come foglie morte dopo un giorno di vento, utensili,
vasellame, cappelli, frutta, sacchi vuoti, brandelli di panno e tanti altri
oggetti dei più svariati.
C’erano
tracce di sangue qui e là, ma nessun cadavere.
Il
cavallo, bianco, si fermò e scosse il capo, impaurito. Ivan gli carezzò il
collo e decise di non forzarlo. Scese e con le robuste cinghie di cuoio delle
redini lo legò alla staccionata di una porcilaia vuota.
Non
c’erano più nemmeno gli animali, né maiali, né cavalli, né vitelli, né polli;
poteva capire se li portassero via terminata l’opera, ma degli abitanti che ne
avevano fatto?
Non
li avevano davvero bruciati tutti su quella pira?
Era
ormai spenta ma la sua sagoma alta ed oscura era un pugno in un occhio in mezzo
a tutto quel bianco: era stato capace di vederla da molto prima arrivasse lì, sin
dalla cima del colle su cui sorgeva la foresta da cui era giunto, la quale,
discendendo lungo un lieve pendio da nord ad est e poi curvando, avvolgeva due
lati del villaggio come in un abbraccio, mentre le altre due direzioni erano
esposte all’ampia pianura imbiancata; la primavera era però già arrivata e
macchie ampie di steppa si stavano aprendo qui e là.
Anche
se quelle genti erano ancora dei primitivi, avrebbero dovuto avere l’accortezza
di innalzare una palizzata in quei lati così facilmente attaccabili.
Esaminò
la pira, senza avvicinarsi troppo per via del puzzo che emanava. Ad occhio e
croce non c’era che qualche decina di corpi legati ad essa. A qualche passo di
distanza era stata innalzata una croce di legno, più alta della pira stessa.
Ivan
scrutò con eccessiva attenzione le sottili aste scure che la componevano, fosse
solo per non dover più guardare la macabra scultura di legno e ossa
carbonizzate che imperava al centro dello spiazzo. Avevano fatto un buon
lavoro: nessuna traccia di altari tutto intorno, e, a qualche passo da essa un
idolo scolpito nel legno, forse rappresentante lo spirito della foresta vicina
forse qualcos’altro, forse benigno forse maligno, era stato gettato a terra,
sfigurato e decapitato.
Solo
la croce, la loro croce, con un solo braccio orizzontale, era rimasta,
innalzata a signora di quell’abbandono e firma del loro passaggio.
Un
merlo si poggiò su di essa. Fosse stato un corvo sarebbe stato certamente più
adatto, pensò Ivan. L’uccello emise un verso e svolazzò verso i boschi.
Il
rumore della soffice neve che cedeva ad ogni suo passo iniziò a snervarlo.
Aveva bisogno di sentire altro, versi di uomini se possibile.
“C’è
nessuno? Venite fuori!”
Si
guardò intorno e gridò di nuovo.
Sentì
qualcosa provenire da un carretto a mano ribaltato con le due ruote all’aria
contro il muro di una delle casette ancora integre; le ceste che trasportava
giacevano intorno ad essa, insieme a rimasugli di granaglie. Arrivato a un
passo, capì che gli orecchi non lo avevano ingannato: qualcuno di parecchio
spaventato si era rannicchiato lì sotto. Prese una delle stanghe e sottrasse al
fortuito nascondiglio un vecchio, il quale non tardò a implorare pietà con le
mani, abbassandole dopo aver visto che si trattava di un ragazzo.
“Che
cos’è successo qui?” –domandò senza perdere tempo.
Erano
mesi ormai che non facevano che giungere notizie di villaggi, tanto di pagani
quanto di cristiani assaltati e dati alle fiamme, da cavalieri occidentali che
pretendevano di portare ai senza Dio la vera fede: stufo di sentire i resoconti
di quelle violenze, e di vedere i loro stessi mercanti coinvolti in quelle
stragi, aveva deciso di lasciare Vladimir con un pugno di uomini per accertarsi
di persona.
“Che
cosa è successo?” –domandò nuovamente, imponendosi una maggiore gentilezza
verso l’anziano. Aveva gli occhi di chi di violenza ne ha subita fin troppa.
“Sono
stati… i cavalieri bianchi.”
Li
chiamavano anche così. Con quel nome così altisonante, da malvagi da fiaba, e
quelle imprese così spaventevoli da rasentare l’incredibile, le mamme del Rus
avevano imparato a usarli come spauracchio per i piccini cattivi.
Uno
spauracchio che faceva rabbrividire nello stesso modo anche i grandi, perché se
per i loro figli erano una eterea e lontana fantasia che non avrebbe fatto loro
del male se fossero stati buoni e obbedienti, per loro erano una vicinissima e
cruda realtà.
Già
da un po’ di tempo ormai, le notizie sulla loro avanzata si erano fatte sempre
più numerose e terribili, ma soprattutto vicine. Infine, si era deciso di
chiedere alla madre il permesso di mettersi in viaggio; così aveva toccato con
mano la cenere ancora calda in cui si erano trasformate le case dei livoni e
dei ciudi, così aveva veduto coi propri occhi le ruberie e le vessazioni nei
villaggi dei borussi, così aveva raccolto da terra le icone dei santi ortodossi
spaccate e coperte di sputi.
Provò
a rimettere in piedi il vecchio; non riuscendo questi a reggersi, lo mise a
sedere su una delle ruote del carretto.
“Dimmi
cos’è successo.” –lo pregò, dolce di voce ma duro in volto, piegato sulle
ginocchia per non sovrastarlo.
“Sono
venuti ieri. Hanno detto di essere giunti in nome del loro dio per donarci la
salvezza. Hanno dileggiato gli idoli della terra e del fiume, e ci hanno
ordinato di rinnegarli. Il sacerdote e il capo villaggio si sono opposti e… la
loro furia si è scatenata. Hanno iniziato a rubare, distruggere, uccidendo chi
provava a reagire.”
Il
pagano indicò con l’indice raggrinzito dai segni del tempo l’alta croce nera
“Volevano
farci adorare il loro simbolo. Volevano convertirci… “battezzarci” dicevano...
Alcuni sono riusciti a fuggire nei boschi. Molti, pur di salvarsi, hanno
accettato di sputare sugli idoli e venerare il simbolo. Il sacerdote e il capo
però non volevano rinnegare la terra, il fiume e la foresta, con cui da sempre
viviamo in amicizia. Allora, fattasi sera…”
Il
vecchio strinse le labbra e i pochi denti rimastigli.
“Li
hanno presi, insieme con coloro che non volevano accettare la loro fede, uomini
e donne, e li hanno legati alla pira. Li hanno bruciati vivi… Li hanno bruciati
vivi mentre cantavano gli inni al loro dio…”
Si
interruppe di nuovo.
“Hanno
bruciato anche dei bambini…”
Ivan
si gonfiò il petto con un lungo respiro e si rialzò in piedi. Non fece che due
passi verso la pira e la croce che udì altri rumori intorno a sé.
Portò
una mano alla cinta, dove teneva il coltello, ma come il vecchio si era calmato
appena lo aveva visto, così fece lui vedendo mettere fuori il naso, dalle
capanne mute che l’avevano accolto, gli altri abitanti. Probabilmente i suoi
vestiti bianchi erano bastati a indurli a rintanarsi, come animali alla vista di
altri predatori, fingendo di aver abbandonato il villaggio. Una recita
credibile la loro, non fosse stato per quel colpetto di tosse di quel vecchio
che non aveva fatto in tempo a nascondersi se ne sarebbe andato.
Alle
spalle del vecchio, dal bosco ad est, ne stava giungendo un altro gruppetto,
formato soprattutto da bambini e donne, con alla testa alcuni uomini che
brandivano, per nulla minacciosi, inutili roncole e accette da taglialegna.
Tornò
nello spiazzo. Distesi rivolti al cielo, una mano e un avambraccio carbonizzati
sbucavano dalla base della pira, come righe e macchie di inchiostro sulla
pagina bianca che era il terreno. A terra, poco distante, un medaglione di
metallo con un simbolo tanto innocuo e adorato da costare la vita a colui che
non aveva saputo rinunciarci.
Gli
abitanti del villaggio avevano aiutato il vecchietto a rialzarsi, ma solo
alcuni di essi lo degnavano di una qualche attenzione, preferendo
ricongiungersi ai cari tornati dalla foresta, che non aveva mancato di offrire
riparo a coloro che da sempre le avevano portato rispetto.
Quelli
che gli rivolgevano lo sguardo lo facevano con ben poca curiosità o interesse.
Non era uno dei cavalieri bianchi, né uno sciacallo, ma di certo non risolveva
i loro guai, con quell’aria infuriata da giustiziere ma solo e spaesato come un
allocco.
Non
avevano torto. Non poteva fare nulla per loro.
Avrebbe voluto dire che avrebbe fatto arrivare aiuti da casa sua, ma sarebbe
stata solo una pietosa inattuabile bugia. Quella gente era ancora pagana e non abitava
nemmeno nel loro principato; senza contare che gran parte delle loro risorse se
le prendevano i padroni mongoli. Non avrebbe mai convinto nessuno a fare la
carità per loro.
Il
villaggio era spacciato; non restava che raccogliere quel poco che ancora c’era
e mettersi in marcia verso una città o un villaggio nei dintorni, sperando di
non perire in parecchi lungo la marcia.
Afflitto
da quei pensieri, ignorato dalle vittime a cui si era presentato con una voce
grossa che, al guardarsi col senno di poi, gli sembrava fin troppo sprecata,
chinò il capo e cercò, sotto il proprio cappotto, il crocefisso che aveva al
collo.
Ma
con che fegato l’avrebbe mostrato in mezzo a quello scempio?
La
sua croce era diversa da quella alta e oscura che gettava la sua ombra sulla
nera pira, ma era pur sempre una croce.
Quel
vecchio, e la gente del suo villaggio erano primitivi, idolatri, da ammaestrare
e restituire alla luce, ma da sempre era stato convinto che in loro l’umanità
esistesse anche prima di entrare a far parte del popolo di Dio, come la loro
sofferenza chiaramente mostrava, prendendo anche lui.
Quei
bianchi cavalieri erano stati più svelti dei loro presbiteri purtroppo; non che
questi non sapessero avere mano ferma quando servisse, ma non aveva mai sentito
che bruciassero vivi degli indifesi e usassero la reticenza come scusa per
rubare.
Da
bambino il villaggio vicino al suo adorava la madre terra e i suoi figli
spiriti, ed era bastato trasformare quegli spiriti nei santi e la festa
rinascita della vita in primavera nella Pasqua per convincerli a diventare
fratelli e festeggiare insieme.
Vide
un uomo piangere davanti i resti di una baracca, con una croce di legno intorno
al collo: una cavezza che gli avevano messo addosso, nulla di più.
Certe
volte le soluzioni migliori passano inosservate.
Si
limitò a farsi di nascosto un segno della croce, e a tornare in silenzio verso
il suo cavallo, cercando di non intralciare le vecchie e le ragazze che, come
il convertito che aveva visto sciogliersi nel pianto, raccoglievano da terra le
cose che i cavalieri avevano sparso nella loro furia, per cercare meglio cosa
portar via o anche solo per puro divertimento.
La
rabbia in lui era incontenibile.
Erano
trascorsi due anni da quel giorno di nebbia in cui gli avevano portato via sua
sorella, senza rivederla mai più da allora.
In
così poco tempo, Ivan era cresciuto in una maniera assurda, magica si poteva
dire.
Il
suo corpo era passato da quello di un bambino a quello di un ragazzotto in un
tempo rapidissimo.
Un
ragazzo non così grande da doversi radere o aver assaggiato per la prima volta
l’acquavite, ma abbastanza da dare un valido aiuto agli adulti nei loro lavori
o poter cavalcare da sé. Era anche alto per quelli che erano i giovani dell’età
di cui aveva sembianza.
All’inizio
il prodigioso sviluppo del piccolo Ivan impensierì tutti, incuriositi e
desiderosi di dargli una spiegazione, per quanto, di fatto, la sua natura fosse
risaputamente fuori dal comune. Tuttavia, come molti saggi e non già sapevano,
la frusta della vita e il segno che ti lascia sanno renderti ben più vecchio di
quanto facciano i primi peli o le prime rughe; se la si pensava in quel modo,
si riusciva a capire benissimo come ma il suo corpo, dopo essere rimasto più o
meno uguale per così tante decadi, avesse deciso di crescere proprio in quel
momento.
L’apocalisse
mongola e la morte del Rus, con le sue conseguenze, che ancora strascicavano
come una ruvida coperta su tutta la vasta Rutenia, lo avevano cambiato
nell’aspetto, e inevitabilmente anche dentro.
Malgrado
la fissa per i girasoli non gli fosse passata, e malgrado l’entusiasmo e
l’incoscienza della primavera della vita fossero ancora vive in lui, Ivan aveva
finalmente imparato il realismo, la differenza tra ciò che sogni di avere e ciò
che hai, il divario tra le tue ambizioni e la tua condizione.
E
la sua condizione era delle peggiori.
I
mongoli avevano imposto il loro giogo su di lui e i suoi cari. Lo avevano
separato da Ucraina. Lo avevano costretto a rimettere su, mattone su mattone,
le sue povere città stuprate dall’orda, la stessa Mosca, in cui sua madre
avevano messo tanto impegno e amore nel farla sorgere, era stata rasa al suolo
e stavano ancora provando a rialzarla. Tutto ciò lo aveva convinto a darsi da
fare, vanga, martello e zappa alla mano, per aiutare il suo popolo a soddisfare
le loro pretese.
Adesso,
dopo tanti guai dall’est, veniva il turno dell’ovest.
I
cavalieri bianchi non erano briganti o semplici spauracchi. Erano dei religiosi,
pregavano e meditavano come i monaci, ma anche avventurieri, approvati dal loro
papa come crociati nelle terre del nord, dopo che la Terra Santa era stata
ormai perduta nuovamente. Avevano fatto sorgere un forte reame sulle rive del
mare ed ora erano pronti a continuare la loro espansione verso l’interno, verso
l’ormai debole e ferita Rutenia, tutta per loro da convertire e dominare,
spazzando via tanto gli ultimi pagani rimasti quanto gli ortodossi con la
medesima crudeltà.
Quel
villaggio era ancora lontano, ma di quel passo quanto ci sarebbe voluto perché
giungessero fino a casa?
http://www.youtube.com/watch?v=kpuaeZHtE6I&feature=related
Tutto
quel dolore, tutte quelle umiliazioni, e non poter fare altro che scalciare
nella neve, ripensando alla propria promessa, che in quello stato non aveva
avuto nemmeno il tempo di iniziare a mantenere…
Con
lo stomaco che gli si contorceva in quella palude di neri pensieri, iniziò a
sciogliere distrattamente le cinghie con cui aveva assicurato il cavallo alla
staccionata, così concentrato e distratto a un tempo da non far caso al coro di
zoccoli in arrivo. Solo quando questi si fermarono proprio la sua attenzione si
ridestò.
“Cos’hai
da essere così afflitto, ragazzo?”
Punto
da quel tono sprezzante, Ivan si voltò di scatto, e si vide puntare addosso,
dall’alto della sella, lo sguardo di un cavaliere dai fluenti capelli castani e
dalla corta barba ricciuta; notandovi un che di familiare, restò qualche
secondo a osservarlo, nella speranza di riconoscerlo.
“Sei
tu Ivan Braginski?”
“Si. Voi chi siete? Come fate a conoscermi?”
“Anche tu mi conosci. Sono Alexander, figlio del tuo signore.”
Alexander
era figlio del capo di sua madre e quindi anche suo, ma non era per niente
detto lo sarebbe diventato un giorno a sua volta: i mongoli avevano stabilito
che i futuri sovrani dei reami russi avrebbero comandato solo con la loro
approvazione, e, una volta morto il suo anziano padre, sarebbe stato il khan,
alla base del suo piacimento, a decidere se gli avrebbe succeduto o meno. Era
molto che non lo vedeva, e anche il cavaliere doveva ricordarsi di lui come di
un bambino se aveva avuto bisogno di chiedere per riconoscerlo. I due non si
erano mai parlati prima di allora, del resto Alexander preferiva vivere dalle
parti di zio Novgorod, di cui era amico e a cui aveva dato una mano in passato:
così, e solo questo, aveva sentito dire di lui.
“Cosa
ci fate qui?”
“Sono io a dovertelo chiedere Ivan: non è un po’ lontano per una passeggiata?
Almeno non portarti dietro uomini che possano essere utili ai tuoi signori.”
Ivan
riconobbe nel seguito di cavalieri del nobile quelli che aveva portato con sé
da Vladimir: ne avrebbe fatto a meno, ma sua madre aveva insistito perché non
viaggiasse da solo. Il seguito del nobile era più numeroso ma soprattutto ben
armato, con lance, alti scudi e corazze; in confronto i suoi sembravano
semplici compagni di viaggio più che una scorta.
“Ho
sentito delle atrocità dei cavalieri bianchi e volevo accertarmene.”
“E a quanto pare non ti piace ciò che hai visto.”
“No,
per niente!” –alzò la voce lui, la cui collera superava di gran lunga il contegno
che doveva al suo cospetto.
“Se
è vero lascia che te lo chieda di nuovo: cosa stai facendo qui? Perché te ne
stavi a guardarti la punta degli stivali? Perché tanto scoramento?”
“Signore,
chiunque si scorerebbe dinanzi a questo!”
“Sei più innocente di quanto pensassi allora.”
Ivan
arrossì; chiaramente non era il primo villaggio saccheggiato che vedeva in vita
sua, avrebbe dovuto averci già fatto il callo ormai.
Il
nobile guardò l’assembramento di gente radunata nello spiazzo con la pira
fissarli impauriti sotto le proprie coperte e fece cenno ad uno dei suoi militi
di avvicinarsi: “Prendi il gruppetto che ha accompagnato Braginski e conduci
quella gente al centro più vicino. Dategli le vostre razioni.”
Ivan
osservò con sollievo quei cavalli oltrepassarlo per andare a far ben più di
quanto avesse fatto lui venendo lì da solo a rodersi soltanto, prima di essere
nuovamente richiamato allo sguardo severo di Alexander, il vincitore della
Neva: “Sei amareggiato per la loro sorte?”
“Hanno bruciato vivi anche dei bambini…”
“Non
sono i primi, sai? Tanti altri villaggi sono stati distrutti e costretti alla
conversione.”
“Lo so… Li ho visti…”
“E
se li hai visti perché chini il capo?” –domandò, passando nell’arco di un
battito di ciglia dalla pietà per le vittime innocenti al rimprovero- “Non hai
intenzione di fare niente?”
“Ma cosa possiamo fare? I mongoli ci hanno soggiogato e questi stranieri
vengono a prendere quello che è stato risparmiato, approfittando della nostra
debolezza. È naturale, vanno dove c’è da guadagnarci, per la loro gloria e la
loro sacca.”
Il
suo cavallo scalpitò leggermente, ma una decisa e veloce tirata al capo delle
redini che aveva in mano bastò a calmarlo.
“Questo
siamo diventati… terreno di conquista, per stranieri che sono cristiani come
noi ma ci guardano dall’alto in basso, come eretici da spazzare via.”
Per
nulla incline a farsi contagiare o anche solo a tollerare il mesto tono con cui
parlava, gli rispose per le rime a pugno chiuso: “Se allora ti ribolle così
tanto il sangue allora vieni con me.”
“Dove?”
“A nord, a combatterli.”
“Combatterli?
Come…”
“Con l’esercito che sto mettendo insieme. Li affronteremo in campo aperto, e
fermeremo la loro avanzata.”
Ivan
strinse la presa intorno le briglie del proprio cavallo.
Combattere.
Esercito. Campo aperto. Quelle parole gli legavano un piede con le catene della
paura e gli scuotevano l’altro di febbricitante entusiasmo. Finora era stato
costretto a vedere, a fuggire, a subire; ora, per la prima volta, qualcuno
voleva offrirgli l’opportunità di agire, di difendersi, di infliggere. Si
guardò intorno, le palpebre battevano ripetutamente al ritmo ai lampi che
esplodevano nella sua mente.
Storse
le labbra, ripensando alla voce del vecchio, rotta nel racconto della sorte del
suo villaggio, la disillusione negli occhi dei suoi abitanti, la stessa che gli
diceva di non dare ascolto a quelle parole fin troppo sicure per i suoi gusti.
“Per
questo posto e tanti altri non c’è più nulla che puoi fare, ma se verrai con
me, giovane Braginski, potrai aiutarmi a dare a quei dannati la punizione che
meritano.”
Gli
occhi di Alexander e degli altri cavalieri erano puntati su di lui, appena
diventato ragazzo e già chiamato alla violenza della battaglia, ma, ora che
aveva imparato a ragionare prima che a cedere agli entusiasmi, suoi o altrui,
si rendeva conto di non avere così tanta voglia di seguirlo.
“Non
te lo chiederò una terza volta. Vieni con me, a combattere.”
Aveva
detto che avrebbero fermato la loro avanzata. Sempre che avessero vinto.
Infilò
un piede nella staffa e si tirò su, con ben poca convinzione; tanto bastò al
principe che, girato il cavallo verso la direzione da cui era venuto, ordinò,
senza altre parole, di seguirlo.
http://www.youtube.com/watch?v=Pfkm5aX3YXk
Il
campo dell’esercito di Alexander sorgeva su di un bassopiano, spoglio di
alberi, ad alcune miglia dal mare; non era trincerato, né difeso da alcuna cinta
o avamposto di sentinelle, era più come un muschio improvvisamente spuntata sul
vuoto pianoro. Appena giunti, consegnò il proprio cavallo a un servo e si
inoltrò con lui in quel caotico assembramento di uomini, bivacchi e falò. I
padiglioni colorati dei nobili e dei loro seguiti saltavano fuori come isolotti
al centro di laghi di basse tende fatte di pelli d’animali, intramezzate a loro
volta da sentieri larghi pochi metri attraverso cui poter camminare senza
correre troppo il rischio di calpestare qualcosa o qualcuno in quel disordine.
Ivan osservava tutto ciò su cui gli occhi si posavano, senza perdere di vista
il mantello scuro che gli faceva strada: al loro passaggio, gli uomini non
abbastanza indaffarati da non riconoscere il loro comandante salutavano con
inchini più o meno profondi, a seconda del rango. Fin quasi a terra un cencioso
che trasportava un mazzo di lance alle armerie, un cenno della testa un uomo
dal ricco cappotto nero occupato a sbranare un pezzo di carne con l’osso.
Man
mano che si approfondivano verso il cuore dell’accampamento, questo assumeva un
aspetto più ordinato: i sentieri ghiaiosi e ricoperti da sparute macchie di
nevischio si facevano più ampi, dritti e perpendicolari tra loro, mentre
diminuivano le tende e aumentavano i padiglioni.
“Allora,
che te ne pare del nostro esercito?”
<< Nostro? >> ebbe
l’impulso di chiedere, senza però aver tempo di aprire bocca.
“Sono
riuscito a mettere insieme cinquemila uomini. Il nemico sarà meno numeroso ma
meglio armato, dotato di una cavalleria pesante migliore della nostra. La
quantità contro la qualità.”
Se non altro sembrava conscio anche lui dei loro limiti.
“Aspetterò
rinforzi da nord e da Pskov ancora per un altro giorno, poi ci metteremo in
marcia verso ovest, andando incontro la loro spedizione.”
Ivan
vide un giovane uomo prendere in mano una spada con curiosità, un altro
provarsi l’elmo troppo stretto; lì vicino un pope offriva conforto in mezzo ad
un gruppetto di uomini inginocchiato intorno a lui con lunghe facce da
funerale. Altri ridevano sguaiatamente raccontandosi lazzi e porcherie finché
potevano.
Alexander
buttò l’occhio oltre la spalla e rallentò il passo, sperando di invogliarlo a
dire qualcosa.
“Vuoi
combattere i loro cavalieri con questa gente?”
Arrestò
il passo e lo invitò a continuare con mal celato fastidio per quella domanda.
“Mi
era sembrato di capire volessi anche tu sconfiggere i teutoni. Mi sono
sbagliato forse?”
“Questi
uomini… Non c’è cattiveria nei loro occhi. Non c’è fermezza. Molti sono
spaventati. Quanti di loro hanno combattuto prima d’ora?”
Ivan
strinse i denti, senza provare a trattenere un entusiasmo che era sparito
velocemente come era arrivato.
“Tra
loro c’è la mia druzhina, e ti assicuro sono guerrieri implacabili.”
“E
gli altri? Che mestiere fanno? Taglialegna? Bovari? Artigiani? Pescatori?”
“Molti
soldati sono morti contro i mongoli, e poche città sono state disposte a
lasciarsi sguarnite: sono tempi duri, lo sai. Ho fatto in modo che ogni uomo in
grado di combattere si mettesse a mia disposizione.”
Vero,
infatti era venuto a cercare un altro del tutto inesperto come lui pur di
averne anche solo uno in più tra le sue fila.
Ivan
scosse il capo afflitto: “Da quanto tempo si addestrano? Sanno tenere in mano
un’arma come si deve? I nostri nemici sono guerrieri di professione, maestri
della spada e della guerra, molti di questi che vedo invece non reggeranno
nemmeno la tensione dello scontro.”
Il
principe aveva gli occhi infuocati di chi non è disposto a tollerare un’altra
parola, ma Ivan aveva osservato, ogni cosa, ogni uomo da quando era arrivato
lì, e se era la sua opinione che voleva, fermandosi lì a fissarlo, gliel’avrebbe
data.
“Come
facciamo ad opporci così? Questi non sono soldati!”
“Sono
russi!” –lo zittì afferrandogli il cappotto.
Si
allontano, ristabilendo una rispettosa distanza.
“Sono tutti dello stesso popolo. Parlano tutti la stessa lingua. Alcuni di loro
ricercano ancora la benevolenza degli spiriti pagani, ma la stessa cosa fanno
anche parecchi di quelli che sono già stati battezzati. Non hanno ancora finito
di piangere i morti dei mongoli che quei sanguinari cavalieri vengono alle loro
case, pretendendo di comandarli. Sono germani, non sanno nulla della loro
storia e delle loro tradizioni, e neanche se ne importano: voglio solo vederli
tutti pregare come pregano loro e col capo chino dinanzi il loro papa. Perché
allora tu non sei motivato quanto loro?”
Sentendo
il principe scalpitare, alcuni si erano voltati.
“Li
vedi?”
Seguì
la sua mano spaziare tra le tende e i sentieri affollati, tra i servi carichi
come muli e i morituri che pregavano di avere la spada affilata e l’anima
tirata a lucido per quando sarebbe giunta l’ora.
“Guarda
come ti osservano. Non sanno chi sei, ed è un bene. Se sapessero cosa la loro
terra pensa di loro allora si che perderebbero ogni motivazione alla causa. Hai
ragione: non vedono l’ora di tornare alla all’aratro, alla sega, alla rete, ma invece
sono qui, forse perché hanno pensato che fosse meglio che restare nelle proprie
alcove ad aspettare.”
Russia
si soffermò su un guerriero abbastanza vetusto. Indossava una cotta di maglia
su cui cadeva la lunga barba bionda, schiarita dal tempo. Negli occhi la stessa
paura che aveva veduto in tutti gli altri, ma chi mai si avventura sul campo
sorridendo di gioia? Era così naturale tremare al pensiero di morire.
Gli
bastava farci caso adesso, ed anche Alexander, dall’aria tronfia del
condottiero, o i cavalieri, ricchi e potenti, covavano la stessa pena.
Eppure
erano pronti, i cavalieri, il principe e anche il vecchio, forse solo perché
convinto di aver vissuto abbastanza anni, a difendere tutti loro. Radunati
tutti uguali, contro chi veniva da fuori per costringerli a cambiare.
“Credi
forse che sia a corto di uomini? Che ti ritenga in grado di combattere meglio
degli altri? In grado di farci ottenere la vittoria? Sei qui perché devi
esserci, Ivan Braginski, devi. Ma se davanti al nostro esercito non sai far
altro che continuare a lagnarti, allora sei già sconfitto, e ciò che
rappresenti e incarni morto, prima ancora che questa battaglia sia iniziata.”
Sono
russi, si disse.
Stavano
andando a combattere per la Russia.
E
la Russia si piangeva addosso.
Ivan
si coprì il volto con un mano, artigliandosi la fronte.
Aveva
ricoperto di vergogna sé stesso e la sua promessa, sua madre, i suoi zii, e gli
slavi tutti.
“Cosa
intendi fare, Ivan Braginski?”
Il
giovane si piegò al suo cospetto, la fronte gettata sul proprio ginocchio.
“Mio
principe.” –lo riverì.
La
battaglia lo spaventava, la sconfitta lo terrorizzava. Era ancora colmo di
rabbia per ciò che aveva visto e udito, ma in ballo c’era ben più che la
vendetta, o il difendersi dall’invasione.
C’era
la sua dignità, già abbastanza calpestata negli ultimi anni senza che ci
mettesse di suo.
“Perdoni
la mia codardia. La prego, mi consenta di combattere al vostro fianco!” –gemette,
con tutta l’umiltà che aveva.
La
mano del condottiero gli strinse sopra la spalla e lo tirò su.
“Alzati,
giovane Ivan. Alza anche lo sguardo.”
Così
fece.
“Seguimi.”
–gli fece cenno sorridendo, avanzando nel sentiero che si inoltrava alla loro
destra tra i padiglioni e le baracche delle armerie.
Ivan
non si guardò intorno durante quel nuovo tragitto; mantenne alzato il capo,
come gli aveva ordinato, solo e unicamente per seguire la sua chioma e il suo
mantello, fino ad un altro padiglione, circolare, sufficientemente grande solo
per una o due persone. Accanto ad esso si stagliava un’alta asta sulla quale
svolazzava uno stendardo a lui familiare: due orsi neri rampanti ai due lati di
un trono d’oro in campo bianco e azzurro.
“Entra.
Troverai un regalo da tuo zio Novgorod.”
“Zio
Novgorod?” –sospirò meravigliato fissando il suo stemma.
Alexander
rise: “Si! Quel furbone di Dmitriy! È stato tuo zio a convincere quei testoni
dei suoi capi a richiamarmi dopo che mi avevano esiliato, ed è stato lui a
chiedermi di cercarti per farti partecipare a questa battaglia. È per lui che
sto andando a combattere.” –il giovane condottiero avanzò di un passo verso
Ivan- “E non solo lui.”
A
quelle parole provò a dire qualcosa, ma prima di riuscirci, il suo signore lo
afferrò per le spalle, e, come un padre fiero, gli diede un benevolo scossone:
“Quando ti ho incontrato non ero per niente convinto, ma ora mi rendo conto che
ho fatto bene a dargli retta. Il tuo esercito ti aspetta. Entra.”
Perplesso,
si avviò a passi circospetti, chiedendosi che regalo si era mai meritato con
quell’inchino.
Il
pavimento del padiglione era interamente ricoperto di morbide stuoie di pelle
di visone; avrebbe potuto camminarci sopra scalzo senza ferirsi e senza gelarsi,
sentendo anche una piacevole setolosa carezza sotto i piedi. Al centro dello
spazio, un solido tronco infisso nel terreno dava sostegno al telone insieme ad
altri pali e corde disposti al di dentro e al di fuori. Sul lato sinistro
ardevano delle pietruzze di carbone in un piccolo braciere di bronzo, con una
branda accanto ad esso. Sul lato destro v’era un treppiedi di vimini, sul quale
stavano appoggiate una candela e un foglio di carta arrotolato e sigillato con
un medaglione di cera rossa.
Quello
che però notò, prima di ogni altra cosa, era l’armatura, sostenuta su un asta
di legno a sua volta conficcata in un sostegno circolare per terra, con l’elmo
posto sulla cima.
Sembrava
indossata un guerriero invisibile.
Guanti,
bracciali, e un mantello dai bordi di pelliccia giacevano in ordine su di un
baule vicino.
Russia
era accecato dai bagliori del metallo appena lucidato, appesantito sulle spalle
da un peso che non aveva ancora indossato, stordito da quanto veloce il suo
tempo avesse preso a scorrere.
D’un
tratto, qualcosa che aveva sempre visto indossare ad altri, ai grandi, a quelli
che aveva ammirato, da sua madre ai suoi zii e ai suoi principi, veniva
regalata a lui.
Partivano,
accompagnati dalle lacrime dei loro cari, trasformatisi in eroi coperti di
invincibile ferro, al quale si affidavano per tornare lì ad asciugare quelle
stesse lacrime.
Possibile
fosse già giunto il momento di essere seguito dagli occhi lucenti bambini
meravigliati al proprio passaggio? Fino a due anni prima era un cagnetto che
abbaiava in faccia alla muta di lupi, fino a pochi minuti prima era stato
disposto a lasciar crollare di nuovo il proprio mondo senza reagire pur potendo,
e ora gli si seccava la gola attraverso la bocca spalancata, spinto ad
affrontare il proprio destino in quella stretta tenda.
Prese
dal tavolino la lettera e spezzò il sigillo.
Mio caro nipote
Se stai leggendo queste righe allora hai
compiuto il primo passo per la realizzazione della tua promessa.
Sono molto fiero di te.
Alexander è un mio caro amico, ed è un
brav’uomo, affidati a lui e seguilo senza timore.
Possano tutti i tuoi futuri signori
essere come lui, forti nel braccio e buoni nel cuore, e condurti sulla via che hai
deciso di seguire.
Ora indossa il tuo regalo e va.
Zio Novgorod
http://www.youtube.com/watch?v=xOOY1qrRsOI
Ivan
posò la lettera e tolse mantellina e cappotto, deponendoli sulla branda.
Al
loro posto, sopra la leggera tunica bianca dagli orli rossi, indossò il
giaccone trapunto, sopra il quale infilò la lunga cotta di maglia di ferro:
sulle braccia arrivava fin quasi ai gomiti; a protezione del tronco scendeva fin
giù all’inizio delle gambe. Per proteggerle, indossò il corto tabarro di cuoio
bollito e si strinse al di sopra di esso la cintura borchiata, al posto di
quella più sottile che portava.
Poi
venne il momento della corazza. Impiegò tempo, perché era difficile indossarla
senza uno scudiero. Si sedette sulla branda e, con pazienza, si assicurò il
pesantissimo corpetto di piastre metalliche, stringendo le cinghie di cuoio sui
fianchi. Dovette stringere parecchio per adattarla al proprio corpo, ma, anche
se non era robusto, era almeno alto quasi quanto un uomo fatto e finito;
ballava un po’, ma in compenso gli teneva ben fermo addosso l’ugualmente largo
giaccone. Se non altro poi avrebbe avuto forse più libertà di movimento pensò.
Si
rialzò piano e fece alcuni movimenti per abituarsi al peso aumentato; passò
quindi ai bracciali, piastre di metallo dorato e rivestite di cuoio
sull’interno, a protezione completa degli avambracci; infilò poi i guanti
d’arme, spessi e ruvidi, fatti apposta per non perdere la presa dall’arma.
Venne
la volta del mantello, di panno bianco, imbottito e con gli orli di pelliccia:
farlo girare dietro le proprie spalle si rivelò all’inizio inaspettatamente
faticoso, non sospettandone il peso, senza contare quello che già aveva addosso
e lo impacciava. Ne afferrò i lacci e li portò sopra il petto, agganciandolo
con una fibbia argentata.
Da
ultimo venne l’elmo, che era la parte che più l’aveva affascinato.
La
foggia era quella a cui era abituato, tipica delle armate dei ruteni, una
calotta dalla cima che si stringeva in una punta acuminata. L’orlo inferiore
era in rilievo e percorso, lungo la circonferenza, da piccole borchie. Dalla
parte posteriore e laterale scendeva un nucale di cotta di maglia, come un velo
a protezione delle orecchie e del collo.
Ma
ciò che più saltava all’occhio era la decorazione al di sopra dell’orlo, lì
dove stava la fronte.
Era
un semicerchio a sbalzo, scintillante, che Ivan notò incredulo essere fatto di
oro zecchino. Su questo semicerchio, stava in bassorilievo la figura di uno
degli arcangeli, seduto con la croce in una mano e la spada nell’altra,
circondato da raggi di luce; un capolavoro di arte orafa, che lui immaginò
essere costato allo zio più dell’armatura intera. Si specchiò meravigliato nella
figura sacra per qualche secondo, rivolgendo al cielo una silenziosa preghiera
ad occhi chiusi.
Sorrise
e si commosse, pensandolo come ad un augurio: come il valente arcangelo avrebbe
disperso ora e sempre le schiere infernali, così, con quella armatura
meravigliosa, avrebbe disperso ora e sempre coloro che avrebbero minacciato la
sua famiglia e tutte le famiglie che lo chiamavano “casa”.
Lo
appoggiò sopra la testa e sentì un’onda solleticargli sulla pelle del volto e
delle guance, scendere lungo il collo e su tutto il corpo, fino alle estremità.
Non
restava che l’arma. Era appoggiata anch’essa, in orizzontale, su un sostegno di
legno. Una spada dall’elsa a “u”, ricurva solo alla punta, senza particolari
decorazioni. La infilò nel fodero e se l’assicurò alla cintura.
Completata
la vestizione, tirò i bordi del mantello dietro la schiena ed uscì fuori a
calcare la neve dell’accampamento: venuto lì per guardare, e rimasto quale combattente,
tra i suoi fratelli.
Passò
le mani sopra la scabra superficie del corpetto e della cotta di maglia, poi su
quella liscia dei bracciali, come desideroso di fare la propria conoscenza.
Non
si gustò con superbia gli sguardi ammirati che i servi e i soldati dalle
armature ben più opache della sua gli rivolgevano, ma attese immobile, in
silenzio, come penitente appena confessato, il ritorno del suo principe.
Lo
riconobbe dal cavallo e dagli uomini della scorta ancora prima che dal suo
volto. Anche lui aveva indossato il proprio completo da battaglia; il suo elmo,
alto e dalle sgargianti decorazioni come il suo, era dotato di un nasale e di
un paio di occhiali, due spessi semicerchi di metallo che dai bordi laterali
del nasale risalivano su all’orlo dell’elmo per cerchiare le orbite e offrire
maggiore protezione al volto, nascondendone al contempo le fattezze.
Nessuno
avrebbe mai potuto leggere con chiarezza i suoi pensieri e il suo animo nel
verde scuro dei suoi occhi, nascosti all’ombra di quella maschera: un
imperscrutabile eroe, che l’aveva già conquistato nel momento in cui l’aveva
visto preoccuparsi degli abitanti di quel villaggio distrutto.
“Tuo
zio conosce dei fabbri davvero ottimi.”
Il
suo sorriso sicuro, fortunatamente non nascosto dall’elmo o dalla barba, era
per Ivan come una stretta intorno alla sua mano, che gli chiedeva di seguirlo.
“Prendi
il tuo cavallo e unisciti alla mia druzhina.”
“Si, mio signore.”
Lo
scudiero a cui aveva affidato all’ingresso nel campo il suo destriero si
avvicinò per porgergli le redini.
La
Russia montò e si affiancò al principe nel suo giro per l’accampamento, mentre
le grida dei capitani tutto intorno invogliavano gli uomini ad affrettare i
preparativi per la partenza del giorno seguente.
NOTE STORICHE
L’Ordine Teutonico fu un ordine
monastico-cavalleresco, al pari dei Templari e degli Ospitalieri. Dopo che le
ultime basi crociate in Terra Sante vennero perdute, cercarono una nuova
sistemazione in Europa, trovandola nel territorio degli odierni paesi baltici,
in cui sorse il loro potente regno. Con l’approvazione del papa, divennero una
sorta di crociati nelle terre fredde del nord, conquistatori, edificatori di
fortezze, terrore di pagani e ortodossi. Alla metà del tredicesimo secolo
avevano ormai raggiunto l’apice della loro potenza. Il loro simbolo era una
croce nera in campo bianco, che portavano sui loro vessilli e sulle vesti, da
cui l’appellativo con cui il vecchio si riferisce a loro.
(Stemma dell’Ordine Teutonico: http://www.imperialteutonicorder.com/sitebuildercontent/sitebuilderpictures/hochmeisterarmsteutonic.png)
I ciudi e i livoni, popolazioni delle
odierne Estonia e Lettonia, come anche i citati borussi, furono proprio da essi
sconfitti e cristianizzati.
Alexander Nevsky è oggi considerato
l’eroe nazionale russo. Figlio del principe di Vladimir (la futura Moscovia), appena
ventenne combatté per conto di Novgorod contro gli svedesi in una battaglia
presso il fiume Neva, respingendone l’invasione (anche loro volevano
approfittare della debolezza del Rus ormai finito per espandere i loro
territori). A seguito della vittoria, venne inneggiato con l’appellativo
appunto di “Alexander Nevsky”, ovvero “Alexander della Neva”. A Novgorod
acquisì un prestigio e un potere sempre maggiori, ma proprio per questo i
boiari della città, ovvero gli aristocratici, ottennero che venisse scacciato.
Però, quando il pericolò tornò alle porte,
con l’invasione dell’Ordine Teutonico, questi si sbrigarono a richiamare il giovane
ma abilissimo condottiero, il quale, senza perdere tempo, intraprese la sua
campagna contro i teutoni, riconquistando la città di Pskov e poi ingaggiando
battaglia aperta, nel tentativo di arrestare la loro avanzata verso l’est.
(Alexander Nevsky fra i suoi come rappresentato
in un film degli anni trenta: http://www.filmreference.com/images/sjff_01_img0020.jpg)
La “druzhina” era la guardia del corpo
del principe o del nobile slavo, formata da guerrieri scelti, abili sia in
corpo a corpo che con l’arco. Durante la campagna di Nevsky, il nerbo del suo
esercito era appunto costituito dalle druzhina propria e del fratello.
L’armatura indossata da Ivan ha i tipici
caratteri delle armature russe del medioevo (in primis l’elmo puntuto), la cui
foggia risentiva dei contatti con le culture orientali e scandinave (il nasale
e gli “occhiali” sono tipici degli elmi vichinghi: http://www.theknightshop.co.uk/catalog/images/105069.jpg).
La base per la descrizione dell’armatura
di Ivan è nel link seguente (quella che ha lui è quasi uguale):
http://www.webalice.it/g.paganelli/Altri/Soldatini/Soldatini/Principe%20Moscovita.jpg
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Capitolo 8 *** La Battaglia del Lago Ghiacciato ***
Salve
a tutti cari lettori. Stavolta voglio approfittare di questo spazio per una mia
riflessione su questa fanfiction.
Sin
dall’inizio, l’idea è stata quella di restare storicamente fedele agli
avvenimenti, ma già dai primi capitoli, man mano che elaboravo gli sviluppi
della storia, andando poi ad approfondire il reale corso degli eventi vedevo i
miei piani continuamente scombussolati, scene che volevo mostrare divenire non
fattibili, e mi rendevo conto di come essere storicamente accurati è difficilissimo.
Purtroppo “Hetalia” e la Storia, con la S maiuscola, sono parecchio lontani su
molti punti, come ho ancor più compreso con una “discussione” (finita in toni
amichevoli ^_^) con un’ucraina disegnatrice (su Deviantart) di un doujin sulla
vita di Katya, a cui avevo chiesto delle informazioni.
Io
sono un fanficciaro, non uno storico: voglio essere storicamente accurato (e
magari educativo), ma voglio anche scrivere una storia su Hetalia, con i suoi
personaggi, facendo ridere, appassionare, commuovere i lettori, ancora prima
che insegnare loro la storia della Russia. Quindi, sebbene cercherò,
specialmente nei capitoli futuri (per ora ci sono riuscito abbastanza
facilmente), di restare storicamente accurato (non ci saranno mai bugie da
parte mia), ho deciso di dare la priorità al racconto che alla verità storica,
e, se ci saranno delle licenze o forzature da parte mia, provvederò a chiarire
al meglio nelle note storiche il perché delle mie scelte narrative (e magari a
linkarvi alla cara wikipedia se proprio siete studiosi XP).
Detto
questo, vi lascio al capitolo, che contiene una novità: la mia prima battaglia!
*__* Fatemi sapere che ci tengo, eh? Buona lettura a tutti, e scusate la lunga
intro (e anche il capitolo lunghissimo XD)!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS: Link con la colonna sonora consigliata per la lettura saranno inseriti
lungo la storia ^_^
CAPITOLO 8 – La battaglia del lago
ghiacciato
5 Aprile 1242
L’etereo
spettacolo del lago dei Ciudi si stendeva dinanzi l’esercito schierato.
Le
luci dell’alba riverberavano sulle nevi e sul ghiaccio, ancora spesso, che
ricopriva le acque.
Il
lago era costituito da due bacini, uno settentrionale e uno meridionale,
collegati tra loro da un punto più stretto, come un canale che li metteva in
comunicazione. Dinanzi quel punto, Alexander Nevsky aveva disposto la propria
armata.
Ivan,
sul proprio destriero, si trovava appena due passi dinanzi la lunga fila di
scudi, lance ed elmi dei soldati della prima linea, tutti in piedi, ormai già quasi
da un’ora, a rispettare un agitato silenzio, fatto di apprensione per
l’avvenire, ma anche di gioia per il presente, per quelli che sarebbero potuti
essere gli ultimi raggi di sole della loro vita, gli ultimi momenti di pace,
serenità, silenzio.
Il
ragazzo, nervoso come tutti alle sue spalle, guardava dinanzi a sé, perso nel
bianco senza fine che aveva davanti. Stringeva forte le redini, su di esse si
concentrava per impedire ai nervi di cedere, ma era anche in parte contento di
quell’attesa: finché tutto restava com’era, la lotta, il dolore, il sangue, la
morte, non sarebbero giunti.
Non
ancora, finché non si vedeva altro che il bianco; non finché non si udiva che
il vento, lieve, soffiare sui fiocchi di neve caduti, quasi fosse una donna
assennata che riordinando casa spazza via la polvere, prima dell’arrivo degli
ospiti del marito.
Finché
tutto restava così, il mondo sembrava ancora innocuo e bellissimo, e
l’orizzonte così distante non sembrava essere in procinto di portare tempesta o
altri mali su lui e quegli uomini.
Qualcuno,
più nervoso degli altri, ancora allungava il collo per sbirciare oltre i
compagni davanti a sé e le punte dei loro copricapi; molti, ancora più dietro
nelle fila, chiedevano con insistenza cosa fosse in vista, come paurosi di
perdersi ciò che era a venire.
Ivan
osservò i giochi di luce sui lucidi bracciali della sua ancora immacolata
armatura; pensò che, con tutto quel chiaro metallo addosso, sarebbe sembrato
una stella lucente visto da fuori, e, del resto, non sono forse le stelle a guidare
chi è smarrito e in pericolo? Ripensò alla figura dell’arcangelo sopra l’elmo,
e carezzò l’idea di sfilarselo e osservarla di nuovo, sperando gli donasse la
stessa forza del primo momento in cui aveva posato gli occhi su di essa, in
modo da non aver paura di essere la stella del suo popolo, in trepidazione alle
sue spalle.
“Eccoli!”
“I
cavalieri bianchi!”
“Sono loro?”
“Ma cosa dite?”
Accesosi
quel vociare, Ivan aguzzò la vista, sulla piana e sui due specchi d’acqua,
cercando il nemico. Dalle file posteriori si iniziò a spingere, ad alzarsi
sulle punte dei piedi, a chiedere con maggiore assillo.
Per
tutto il lungo fronte dell’armata, le voci, alcune più giovani altre più
vecchie, discutevano con fervore, ponendo fine alla calma che aveva regnato.
“Ti
sei sbagliato!”
“Guardate
bene!”
“Non
c’è niente!”
“Osservate! Laggiù qualcosa si muove.”
“È vero! Vedo le punte delle lance!”
Ivan
capì presto il motivo di quei pareri discordanti: ammantati di bianco
com’erano, i teutonici, appena spuntati al limitare del loro sguardo, avevano
finito col confondersi col paesaggio altrettanto candido per la neve che lo
ricopriva.
“Sono
sbucati dal niente…”
“Sono spettri!”
“Sta zitto!”
Avanzando,
si resero sempre più chiari agli occhi fino a non lasciar più adito a dubbi, e
il silenzio piombò nuovamente sui russi, più angoscioso che mai.
A
render ragione del loro nome, i cavalieri teutonici giungevano a loro con la
cavalleria in prima fila, in pompa magna. Croci nere erano dipinte sui loro
stendardi e sulle tuniche che rivestivano le loro armature.
Non
v’era in loro altro colore, oltre al bianco, che il nero. Il contrasto tra i
due rendeva l’uno ancora più sfavillante e l’altro ancora più cupo e tetro.
I
loro elmi, che pur sembravano dipinti con una passata di pece, avevano una
forma come quadrata, e ricoprivano la testa e la faccia per intero, come dei
secchi di metallo con feritoie unicamente per gli occhi. Alcuni di loro li
portavano decorati di grosse corna di bue ai due lati, altri cinti di corone, altri
ancora avevano una croce o altre decorazioni sulla cima, piatta a differenza
dei loro, puntuta.
Non
sembravano umani, perché le loro fattezze erano completamente nascoste sotto
quelle fosche maschere, sicché molti si dicevano rabbrividendo che lì sotto
poteva celarsi qualunque maligno e mostruoso essere.
I
loro cavalli erano coperti tutti da manti bianchi, forati sugli occhi, che
lasciavano la bocca libera e scendevano alle caviglie delle zampe: sembravano
cavalcare appendici della stessa coltre nevosa. Le lance si alzavano al cielo
fitte, molte recanti svolazzanti bandiere, insegne e gonfaloni.
Conducevano
le cavalcature al passo, e, come furono anch’essi in vista del nemico,
innalzarono un sinistro coro, che sembrava la voce profonda di canne d’organo.
Miserere mei, Deus, secundum magnam
misericordiam tuam
Et secundum multitudinem miserationum tuarum,
dele iniquitatem meam
Quella
lingua sconosciuta fece accapponare la pelle a molti di coloro che
l’ascoltavano dall’altra parte, incluso Ivan. La loro nenia sembrava il preludio
di un rito funebre e la morte, esorcizzata fino ad allora, ricomparve
spaventosa nei cuori dei guerrieri. Ivan stesso, malgrado sapesse di non poter
morire facilmente, iniziò a pregare, trovando il suono della propria lingua
così dolce, così caro.
Otče naš
iže esi na nebeseсh
da svjatitsja imja Tvoe
da priidet сarstvie Tvoe
In quel momento, giunse al
trotto, affiancato da altri due della druzhina, Alexander, che gli si fermò
accanto e osservò con lui il nemico che prendeva posizione oltre la riva opposta
del lago.
“La tua prima vera battaglia,
giusto, Ivan?”
“Si, mio signore…” –rispose, interrompendo la sua preghiera anzitempo.
Aveva
veduto gli orrori dei mongoli, ma quelli erano saccheggi, assalti, nulla di
comparabile a quel giorno prima d’ora. Dava emozioni completamente diverse
vedere lo spettacolo di due masse di armati fronteggiarsi, con gli stemmi in
bella mostra: non ti piombava addosso all’improvviso, ma ti dava il tempo di
ammirarlo, prima che la violenza avesse inizio. Era stupendo, terrificante ma
stupendo; nessun racconto dei suoi zii, sulle loro gesta, l’aveva mai scosso
tanto. Adesso c’era lui, c’era davvero, corazzato, armato e alla guida di
migliaia di uomini.
“Vorresti essere a casa?”
“No.”
Alexander lo ricompensò mostrandogli i denti, contento di quella risposta così
rapida.
Un
corno squillò. Le fila dei teutoni profusero in grida d’acclamazione e
sollevarono lance, spade e stendardi al passaggio, dinanzi il loro
schieramento, di un cavaliere che, al medio trotto, su un possente stallone,
sfilava dinanzi a loro con la spada levata e il mantello svolazzante. Un
secondo cavaliere, probabilmente lo scudiero o un paggio, lo seguiva a
distanza, con la testa non celata da elmo, su un cavallo di stazza più piccola.
Per
darsi così tante arie, non poteva che essere il capo, pensò il giovane in prima
linea. Sbigottito, vide il cavaliere puntare il cavallo nella loro direzione ed
iniziare ad attraversare, insieme col suo piccolo assistente, il campo
ghiacciato che separava i due eserciti. Scioccamente, per un secondo solo,
pensò stesse già attaccando tutto da solo.
“Eccoli
che vengono a parlamentare. Vieni, Ivan.”
Batté
i talloni ai fianchi del destriero e si lanciò giù verso il lago ghiacciato;
Ivan, pur con non molta prontezza, spronò anch’egli l’animale e, datogli il
primo modo di raggiungerlo, cavalcarono insieme incontro i due cavalieri
bianchi.
La
neve caduta sui ghiacci del lago li rendeva più facili da calcare, ma
rallentarono ugualmente l’andatura, per scongiurare inopportuni scivoloni.
Giunti
a poche decine di metri, Ivan concentrò lo sguardo sull’imponente capo dei
teutoni: il suo elmo, scuro e coprente l’intera testa come quello degli altri,
era ornato, sui lati, anziché da corna, da due grandi ali di piume nere di
aquila, aperte a ventaglio sui due lati, che rendevano il cavaliere ancora più
gigantesco e inumano.
I
quattro cavalieri arrestarono il passo, gli uni di fronte agli altri: attraverso
la feritoia, stretta e orizzontale, non riuscì a intravedervi né occhi né
pelle, come fosse vuoto, come un mostro interamente di metallo mosso da chissà
quale sortilegio.
Teneva
levata la mano, guantata di cotta di maglia, in segno di saluto.
Il
suo principe lo imitò, presentandosi: “Sono Alexander, figlio di Jaroslav di
Vladimir. Comando l’esercito di Novgorod.”
“Ti
conosco di fama, Alexander Nevsky.” –disse una voce distorta dal metallo,
giungendo dai fori per l’aria aperti lì dove si trovava la bocca.
Il
cavaliere bianco rimosse il copricapo piumato e lo tenne ad un fianco, mentre
con l’altra mano si scuoteva i lunghi cappelli appiattitisi.
“Sono
Gerhard Von Malberg, Gran Maestro dell’Ordine Ospitaliero Teutonico.”
Il
Gran Maestro era un uomo che, malgrado l’espressione serena che aveva al
momento, comunicava un forte senso di rudezza, per i lineamenti duri,
squadrati, incorniciati da una crespa e folta barba, rossiccia come i suoi più
corti capelli; sotto le sopracciglia cespugliose brillavano due occhi azzurri.
Alexander
tolse a sua volta l’elmo che lo mascherava, rivelando il volto al nemico come
costui si era preso la briga di fare.
“Sono
qui per esporti le mie condizioni, che non dubito troverai interessanti,
soprattutto per te.” –proseguì il Gran Maestro.
“Tu
dici?”
Mentre
il discorso tra i due capi era iniziato, Ivan aveva spostato lo sguardo
sull’altro monaco-guerriero che era giunto con Von Malberg, scoprendo che si
trattava di un ragazzino. Se adesso lui sembrava avere, se non vent’anni,
almeno quindici, quel teutone non ne dimostrava più di dodici. Non aveva elmo,
ma era anche lui armato di una spada corta al fianco, e vestiva, sulla cotta di
maglia, la pettorina con la nera croce del suo Ordine. I suoi capelli erano
così splendenti al sole che sembravano più bianchi che biondi, ma ciò che lo
colpiva di più era il modo in cui ricambiava i suoi sguardi.
Come
a dire: “Cos’hai da guardare, spilungone?”
“Spilungone”
anche perché cavalcava un cavallo giovane e di bassa statura (senz’altro adatto
a lui quindi), e, dall’alto del proprio, Ivan lo sovrastava nettamente.
Strettosi
nelle spalle, tornò a girarsi verso Alexander e il Gran Maestro che
discutevano, accorgendosi però, con la coda dell’occhio, che riservava lo
stesso sguardo truce anche al suo principe. Per essere così piccolo sapeva già
come rendersi… odioso…
“E
se ti impegnerai a non opporre resistenza alla nostra causa, non soltanto avrai
riconosciuti i tuoi titoli, ma sarai anche investito della potestà sulle terra
della repubblica di Novgorod una volta che sarà caduta.”
Ivan
sbiancò. Stavano cercando di comprare Alexander?
“Governerai
ovviamente in nostra vece, ma ti sarà concessa la libertà di gestire i tuoi
nuovi domini come più vorrai. Naturalmente, dovrai anche giurare come noi
obbedienza e fedeltà alla Santa Romana Chiesa, e convertirti alla sua fede.”
Ti
pareva, pensò il ragazzo: erano davvero fissati con questa storia.
“Pensaci,
Alexander Nevsky. Sgomberando il campo e tornandotene a casa non soltanto
salverai le vite dei tuoi uomini, ma otterrai enormi ricchezze e poteri.”
Alexander
si girò verso il compagno, come sapesse che nella sua mente si stesse formando
l’irrazionale oltreché stupida paura che potesse accettare.
“Indubbiamente
è un’offerta generosa da parte di una potenza del calibro del vostro ordine.”
–sorrise sprezzante- “Ma se salvo la vita di questi uomini, molti di più ne
moriranno lungo la vostra avanzata: quindi non ha molto senso come offerta.”
Von
Malberg non si mostrò né sorpreso né contrariato, come se lo fosse aspettato e
prese a sorridere: mai che quel parlamentare servisse a qualcosa, o quantomeno,
mai che i cocciuti imparassero ad accettare fin quando potevano guadagnarci
qualcosina invece che perdere tutto.
“E
la tua vita, Alexander? Non vuoi salvarla?”
Stavolta
fu il russo a sorridere. Ivan invece non ci riusciva: le minacce che
provenivano da un sorriso erano di gran lunga le più pericolose. Colui che le
pronunciava lasciava intendere di non aver difficoltà né il minimo rimorso nel
farle avverare.
“Potrei
farti la stessa domanda, non credi, tedesco?”
“Come
osi rivolgerti al Gran Maestro con quel tono?!” –proruppe inaspettatamente il
piccolo monaco, su cui piombarono gli sguardi degli altri tre.
“Egli
è un sant’uomo che ti ha appena offerto una via per salvarti dall’Inferno che
ti aspetta, eretico!”
“Gilbert…”
–lo richiamò con fare annoiato il suo maestro.
“Dovresti
accettare la sua offerta… Finché puoi.”
“Gilbert!” –lo rimbeccò con più forza- “Stai zitto e resta al tuo posto.”
Gilbert
divenne rosso come i suoi occhietti: “Si… maestro… Mi perdoni…”
Che
buffo colore, gli venne in mente osservandoli. Del resto, anche i suoi, viola
com’erano…
“Vogliate
perdonare l’irruenza del mio giovane confratello Gilbert.” –disse Von Malberg
con una mano sul petto- “Ha una gran fede e un gran ardore e sarà senza dubbio
un valente cavaliere un giorno.” –aggiunse guardandolo con orgoglio- “Ma per
ora ha un po’ di difficoltà a contenere tanto fervente entusiasmo...”
Alexander
sorrise a sua volta, mentre Ivan ricominciò a fissarlo, fosse solo per dar
fastidio a quell’impertinente. Nemmeno lui sapeva poi bene come ci si rivolge a
chi è più in alto.
Il
Gran Maestro sospirò: “Vedo che anche il tuo aiutante qui è parecchio giovane,
però a differenza del mio sa comportarsi e mantenere il silenzio.”
Ivan
era istintivamente scattato petto in fuori, evitando però di incrociare lo
sguardo del tedesco, temendo di arrossire di soggezione. Tuttavia, malgrado il
suo tentativo, questi gli si rivolse di persona.
“Come
ti chiami?” –domandò, interessato a lui tutto a un tratto. Con l’armatura che
indossava, doveva certamente trattarsi di qualche altro principe.
“Ivan
di Vladimir, signore.”
Non
avendo mai sentito parlare di nessuno di conosciuto con quel nome, il Gran
Maestro tornò a girarsi, pronto a ricominciare il discorso.
“Russia.”
–lo presentò meglio Alexander.
Lo
sguardo del teutone si riaccese e fece fare al cavallo un passo verso di lui.
http://www.youtube.com/watch?v=zu93FnHm90g&feature=related
“Russia…”
–rise- “Dunque… Tu saresti per questa gente quello che Gilbert è per noi,
giusto?”
I
due giovani sbarrarono gli occhi l’uno sull’altro: erano simili? Era la prima
volta che Ivan incontrava uno come lui che non fosse slavo: quante emozioni in
un solo giorno.
“Russia…
Russia…” –masticò a fior di labbra il barbuto cavaliere, come assorto a
riflettere. Gilbert si scansò, mentre il maestro, girato di fianco il cavallo,
fece altri due passi, per scrutarlo in ogni dettaglio. Ivan stavolta fece del
suo meglio per sostenerne lo sguardo, anche se sentiva l’elmo reso
insolitamente pesante da tutta quell’attenzione rivoltagli.
“Russia…
Spero tu non sia troppo orgoglioso di quello che rappresenti, ragazzo.”
Il
tono, volutamente derisorio, servì a rialleggerirgli l’elmo.
“Russia.
Una terra indubbiamente vasta, ma così inospitale, fredda, selvaggia, e oscura,
popolata ancora da pagani. Pagani! O al massimo eretici.” –sbuffò ridacchiando-
“Ecco che cosa sei, figliolo. Non mi stupirei se alcuni di voi avessero ancora
il vezzo di abitare nelle caverne, mentre le nostre città e quelle dell’Europa
sono immensamente più grandi e prospere delle vostre.”
Guardò
le neve sotto le zampe del cavallo quasi fosse sterco: “Che cosa sei venuto a
fare qui insieme a costui e ai suoi? Cosa sei venuto a difendere? Lande di
ghiaccio desolate e genti rozze e senza Dio?”
Ogni
parola era come un pugno nello stomaco.
“Mi
rivolgo ad entrambi adesso. Abbandonate il campo. Avete solo da guadagnarci
nella nostra venuta. Noi portiamo la civiltà che ancora non vi ha raggiunto, e
la luce della Vera Fede.”
“La
civiltà…”
La
prima parola proferita da Ivan generò il vuoto intorno a sé.
“Bruciare
bambini sulle pire è civiltà? È questa la vostra “Vera Fede”?”
Alexander
si disse che aveva fatto bene a portarlo con sé: incrociò le braccia, pronto a
gustarsi ogni parola.
“Io
sono la Russia.” –ricominciò, sbloccando la morsa in cui si erano chiusi i suoi
denti- “Se permettete, io credo di conoscermi meglio di quanto possiate
conoscermi voialtri. E io non mi ritengo affatto così selvaggio e desolato come
dite. E del resto, neppure voi siete disgustati a tal punto, se avete così
tanta brama di conquistare le nostre terre, non è vero?”
“Ma
chi ti credi di essere?” –lo sbigottito Gilbert passò completamente
inosservato.
Von
Malberg ascoltava, impassibile come granito.
“Siete
venuti per saccheggiare e convertire con la forza genti cristiane come voi, ad
insultarmi e minacciare il mio principe. Se ora me lo concede, sarò io ad
esporvi le nostre condizioni.”
Alexander
porse la mano, in segno di via libera.
“Voltate
i vostri cavalli e lasciate in pace gli slavi. Altrimenti su questa stessa
terra gelida che voi avete disprezzato resteranno a congelare i vostri morti.”
“…..”
Ivan
puntava gli occhi azzurri del Gran Maestro senza timore. Il suo respiro era
rumoroso, il volto corrucciato tradiva una voglia di battaglia che nemmeno lui
pensava di riuscire a tirar fuori. Persino quel moccioso spaccone, Gilbert,
tremava sulla sella del suo puledro.
Von
Malberg voltò il cavallo e tornò dinanzi Alexander Nevsky, il quale, appena
finito il discorso della Russia, aveva riposto nuovamente sul capo l’elmo.
Il
teutone però, aspettò ancora un po’ prima di indossare anch’egli il proprio:
“Principe Nevsky, sono davvero queste le vostre condizioni? Pensaci bene: dalla
tua risposta dipende il destino tuo e dei vostri uomini.”
“In
Novgorod sono già abbastanza importante e potente senza che siate voi a
mettermi a capo lì come vostro vassallo, e il discorso del mio giovane amico
qui mi ha ulteriormente convinto della ragione della mia causa.”
“Sei
troppo sicuro; del resto sei giovane e incosciente anche tu. Noi siamo uomini
di spada e soprattutto uomini di Dio: su chi credete si poserà la sua
benevolenza quest’oggi?”
Gilbert
tornò nascostamente a ridacchiare. Alexander, chiusi gli occhi sotto l’elmo,
rivolse il viso al cielo.
“Dio
non è dalla parte del forte, è dalla parte del giusto.”
Il
tedesco annuì: “Così sia.”
Avendo
udito abbastanza, il Gran Maestro si ricoprì le sue sembianze con l’elmo
piumato e si volse indietro.
Il
suo scudiero guardò i russi con superbia: “Buon Inferno, eretici! Vi siete
appena condannati!”
“Gilbert!”
–lo chiamò il maestro, e il piccolo scudiero fece subito dietro-front.
Ivan
intanto aveva ricominciato a respirare normalmente, chiedendosi cosa gli fosse
preso. Ma a pensarci bene, non si pentiva di una sola parola: quello era stato
indubbiamente il miglior discorso della sua finora scialba vita, e anche
Alexander si complimentò, con una bella pacca sulla spalla.
“Ivan,
giovane amico mio, sei stato straordinario.”
“Grazie,
mio principe.”
“Forza, torniamo indietro anche noi.”
I
due spronarono i cavalli e in breve arrivarono dinanzi le loro prime file, dove
i popi stavano sfilando, tra benedizioni e assoluzioni, con le immagini sacre,
al cui passaggio i militi si toglievano l’elmo e si inchinavano. Non appena
però i due cavalieri fecero ritorno, i barbuti chierici si fecero da parte,
dirigendosi serafici verso le retrovie.
“Ascolta
Ivan, quelli sono cavalieri, e come hai visto, ben pieni d’orgoglio, un po’
come tutti gli occidentali. Non conoscono tattica migliore del caricare ed è
precisamente ciò che faranno.”
Richiamato
dal principe, un servente arrivò a prendere le redini al cavallo di Ivan, una
volta smontato.
“Comanderai
le fanterie. Dobbiamo resistere alla loro carica frontale, è l’unico modo per
ottenere la vittoria. A qualunque costo, fa in modo che gli uomini resistano.
Dovete resistere, hai capito?”
“Si,
mio principe!”
L’esercito
russo si aprì al passaggio di Alexander Nevsky e degli altri cavalieri della druzhina,
richiudendosi subito dopo. Richiusosi quel varco, Ivan prese posto tra due
soldati e chiese una lancia, che gli fu fatta arrivare da alcune file dietro di
lui.
Trascorsero
altri lunghi minuti, prima che si udisse ancora uno squillo di corno.
http://www.youtube.com/watch?v=o9DO1U1U5Rc
I
cavalieri bianchi iniziarono ad avanzare. Avevano tutti lo stesso passo,
sincronizzati, come mossi da un’unica mente. Poi quella perfezione andò
dissolvendosi man mano che la loro tranquilla avanzata si trasformava, dapprima
in un trotto leggero, e poi sempre più sostenuto.
Come
previsto da Alexander, avrebbero caricato verso il loro centro, attraversando
il lago ghiacciato nel suo punto più stretto tra i due bacini. Ancora una
volta, coloro che avevano la vista coperta dai compagni delle fila anteriori si
alzarono sulle punte o allungarono il collo per osservare.
Molti
di loro ancora non sapevano cosa significasse, una carica di cavalleria
pesante.
La
terra che trema sotto i piedi, ma soprattutto il rumore che si fa sempre più
vicino: innumerevoli colpi sordi di zoccoli, come violente martellate, pronti a
passarti sopra, il rombo di un torrente in piena che ti ingoierà, ti schiaccerà
a terra, ti impalerà sulle proprie aguzze lance, e nessun grido di uomini a
farti pensare tu stia combattendo qualcosa di diverso da un unico, gigantesco
mostro che ti viene addosso, sempre più veloce e rumoroso.
Ad
Ivan sembrò di vedere in tutto e per tutto l’avvicinarsi di una bufera; non solo
bianca, come la neve, ma anche pesante, come il duro ferro. Ivan ingoiò
parecchia saliva in quell’eternità in cui i cavalieri bianchi coprivano le
ultime centinaia di metri, ormai passati al galoppo.
Gli
sembrava di udire anche un altro suono, quello dei suoi compagni e fratelli
russi che tremavano nelle armature, come se lì dentro si fossero trasformati in
sacchetti di noci scossi dal terremoto. Percorse con gli occhi la prima linea
alla sua destra e alla sua sinistra, osservando le lance abbassarsi o ritrarsi.
Non andava bene. Non doveva essere così.
“RESTATE
FERMI!” urlò, come dovesse farsi sentire fino agli estremi dello schieramento.
Riprese
fiato: “Puntate quelle lance davanti a voi!”
Ripensò
a quei discorsi di grandi condottieri nelle storie dei suoi zii, capaci di
infervorare gli animi e decidere l’esito di battaglie e guerre. Trovandosi di
persona sul campo ora, non era certo che delle semplici parole avessero tutto
quel potere, nonostante questo, ripensò a come aveva accostato i suoi nemici a
una tempesta, ed aprì il suo cuore ai guerrieri vicini.
“Chi
di voi, mentre torna a casa, se è sorpreso dalla tormenta si lascia trascinare?
La affronta!”
Sbatté
il tacco ed artigliò il suolo con le punte dei suoi stivali, rivolgendo la sua
arma contro la bianca e roboante onda in avvicinamento: “Puntate i piedi! State
saldi! Tenute giù le lance! Resistete!”
I
cavalieri, giunti a poche decine di metri, lanciarono tutti insieme un forte
grido e abbassarono le punte delle lance contro il muro di appiedati che gli si
opponeva.
Ivan
urlò insieme ai russi e si tenne pronto, fino all’impatto.
Sebbene
si fosse ripromesso di non chiudere gli occhi, l’istinto fu più forte. Sentì il
legno della propria picca vibrare, scalpitare come un animale impazzito che
cercava di divincolarsi dalla sua presa, pensò fosse pronta a spezzarsi.
Riaprì
gli occhi: la punta dell’arma non aveva
che strappato il manto bianco del cavallo davanti i suoi occhi, senza ferire
l’animale, limitandosi ad infilarsi sotto il tessuto. Il cavaliere intanto
aveva appena fracassato il cranio del soldato alla sua destra con una mazza
ferrata, ed ora si voltava su di lui, pronto a fare lo stesso.
Ivan
con uno strattone tirò fuori la punta dal drappo e la spinse, alla cieca, verso
l’alto. Questa andò allora ad insinuarsi lì dove terminava l’elmo e iniziava il
mantello, affondando nella gola del cavaliere, il quale, appena il tempo di
portarsi una mano alla ferita, rovinò per terra morente. Il petto del cavallo
iniziò a spingerlo all’indietro, ma Ivan non poteva muoversi, perché gli scudi
levati della fila dietro la sua si facevano invece avanti: la ressa era
insopportabile.
Un
nuovo cavaliere prese il posto di quello appena morto. Ivan, come prima, spinse
avanti la lancia, ma questa impattò blanda sullo scudo del crociato: la sua
fortuna era già finita. Nel tirare indietro la lancia fece un passo indietro,
in un varco tra le fila che si scompaginavano, riuscendo così a venire mancato
dal fendete di spada che ne seguì. Subito dopo, un soldato alla sua sinistra
allungo la sua lancia contro il fianco scoperto dell’avversario, abbattendolo.
Ivan
avrebbe voluto ringraziarlo, ma quello si era già girato e avrebbe fatto meglio
a fare lo stesso: non c’è tempo per la gratitudine quando la tua vita è in
pericolo.
Le
fila ordinate, tanto dei cavalieri quanto dei russi, sparivano via via,
sostituite da una mischia sempre più confusa. Ivan mise mano alla spada e
subito, dall’alto del suo cavallo, un teutone prese a menar colpi con la
propria. Ivan parò, ma l’attacco fu insistente, e altri tre colpi furibondi
cozzarono sulla lama. Di quel passo si sarebbe rotta, o alla peggio sarebbe
stato il suo polso a rompersi.
Improvvisamente
però, qualcosa scosse il bianco cavaliere, che sparì dall’altro lato della sua
cavalcatura, tirato giù da un russo approfittando della distrazione e poi
finito da questi con la propria lancia. Avrebbe voluto ringraziare anche lui;
questi però non fu veloce a rialzare il capo quanto l’altro, e un attimo dopo
stramazzò a terra, colpito alle spalle.
Ivan
fece altri due passi indietro, cercando di tenersi vicino i suoi.
Un
cavallo alla sua destra impennava, rompendo mascelle a suon di zoccoli. Ivan,
richiamato a sé il coraggio, afferrò il cavaliere per un lembo della veste
cercando di disarcionarlo, ma ottenne solo di strappargliela. Parò un colpo del
teutone e riuscì infine a far finire almeno la punta della lama nel fianco. Non
ebbe il tempo di osservare le conseguenze del proprio colpo, poiché il cavallo
avanzò e il cavaliere, forse almeno ferito o forse illeso, cominciò a battersi
con un nuovo avversario.
Nel
cuore della confusione più totale, stranamente Ivan notò di non riuscire a
sentire più nulla. Uomini gridavano e morivano, spade e scudi battevano l’uno
contro l’altro, cavalli nitrivano impazziti, ma non udiva nulla di tutto
questo. Il mondo era diventato silente; il senso dell’udito non avrebbe fatto
altro che confonderlo, e, tenendo a lui, si era assentato. Doveva solo tenere
gli occhi aperti, e i nervi a fior di pelle: guardarsi intorno senza un attimo
di sosta, perché da un momento all’altro un nuovo avversario avrebbe potuto
attaccarlo, da davanti, da destra, da sinistra, da dietro. E anche se fosse
riuscito a vederlo, avrebbe dovuto evitare di farsi colpire, e colpire a sua
volta sperando di vincere, o quantomeno di convincerlo a passare oltre; di
russi da trucidare ne avevano in abbondanza. Era insopportabile.
Respirava
a pieni polmoni, congelandosi la bocca e la gola, ma non gli importava: quella
sensazione di gelo lo avrebbe tenuto sveglio e reattivo. Spinto dai compagni
che avanzavano da dietro, Ivan tornò a ritrovarsi pressato tra i due fronti;
riuscito grazie alla propria giovanile agilità a scivolare oltre un cavallo
senza cavaliere in sella, aiutò un compagno nel tentativo di disarcionarne un
altro, sostituendosi a quello che si era appena riversato a terra col petto squarciato.
Il cavaliere, fatto cadere, venne a sua volta soccorso da un confratello, che
uccise anche l’altro russo, prima di ingaggiare duello con Ivan. Riuscito a non
perdere la spada malgrado i forti colpi, il ragazzo si guardò rapidamente alle
spalle e, senza voltarsi, iniziò ad indietreggiare, insieme con molti altri che
facevano lo stesso.
La
massa russa, pur ancora abbastanza compatta, non faceva altro che perdere
terreno, e i cavalieri, singolarmente, o a gruppetti, si insinuavano tra loro,
divertendosi dall’alto dei loro destrieri a rompere elmi e travolgere corpi, o
continuando a combattere come furie bianche anche dopo essere stati appiedati.
Alexander
gli aveva detto di resistere, ma lui non ce la faceva più.
Una
mano lo afferrò per il mantello e un'altra per una spalla. Guardò il cielo in
cerca d’aiuto, ma questo era invece già in terra. Erano stati due dei suoi
soldati ad afferrarlo, tirandoselo dietro mentre altri si facevano avanti,
scudi alzati e spade sfoderate.
Stavano
dicendogli qualcosa, ma le loro voci non lo raggiungevano. Vide sulle loro
facce premura, per la sua giovane età, ma anche rispetto, perché se cavalcava
fianco a fianco del loro principe voleva dire aveva fatto qualcosa per
meritarselo, e il valore che aveva dimostrato finora, non certo passato
inosservato, lo confermava.
La
lotta andava avanti ad alcuni metri da lui, mentre cercava di riprendere fiato
ed energie. Voleva tornare lì, ma col passare del tempo non compì altro che
passi all’indietro, spinto dalla folla dei russi che ora lo attorniavano.
Era
la sconfitta dunque? Se arretravano allora i teutoni stavano avendo ragione di
loro. No, non poteva essere. Non voleva perdere. Non alla sua prima battaglia,
e contro quei disgraziati per giunta. Cercò nella rabbia una nuova fonte di
forza e spintono per farsi avanti.
Fu
allora che nuove grida presero a levarsi.
“Il
principe! Il principe attacca!”
“Attacca
coi suoi cavalieri!”
Ivan
spintonò ancora e si alzò in punta di piedi, oltre le spalle del robusto milite
davanti a lui, ma molti altri ancora c’erano tra lui e lo scontro. Le bandiere
riuscì a vederle però, quelle di zio Novgorod e di sua mamma, Vladimir, sbattere
nel vento come lingue di fuoco sulle loro aste, mentre rapide giungevano dalla
loro destra.
I
cavalieri della druzhina di Alexander Nevsky avevano fatto il loro ingresso sul
campo, prendendo al fianco i teutonici, ancora occupati a disperdere le
fanterie russe.
Il
clamore dello scontro era addirittura aumentato. Fattosi nuovamente avanti,
vide i cavalieri dagli scudi a mandorla e dagli elmi puntuti combattere nella mischia
insieme coi fanti: i teutoni non erano più una compatta bufera, e moltissimi di
loro si distinguevano dalla neve caduta solo per i punti neri che erano i loro
elmi, e le ampie macchie rosse che ne sporcavano le vesti immacolate.
Senza
riuscire ad ingaggiare un nuovo duello, osservò i nemici voltare i cavalli.
Intontito, subì passivamente le spinte e le espansive esultanze dei guerrieri
intorno a lui. L’arrivo di Alexander, dietro il suo enorme scudo e la maschera
dell’elmo, lo indusse a farsi avanti.
“Ben
fatto, Ivan. Avete resistito alla loro carica senza disperdervi. Ora i teutoni
battono in ritirata, verso la loro fine. Osserva.”
Distanziatisi
dai russi, i teutonici cercavano di serrare le fila: solo riorganizzandosi
avrebbero potuto riassestare un nuovo impetuoso attacco per cercare di
risollevare le sorti della battaglia a loro favore. Nel frattempo infatti,
cedute così tante vite nonché il proprio orgoglio, le loro riserve appiedate
venivano immediatamente messe in marcia per dar loro manforte nello scontro.
Ma
nel loro frettoloso riassestarsi, avevano finito inevitabilmente per ritrovarsi
sopra le acque gelate, troppo ravvicinati tra loro.
Si
udì uno schiocco, e il gemito di un cavallo. Furono solo i primi.
Alla
fine lo strato di ghiaccio non aveva retto al loro peso: tra cavalli, armi e
armature complete, ognuno di loro pesava anche il doppio di un cavaliere
avversario, e la crosta, già indebolita dalla prima carica, si frantumava
vistosamente, o si apriva sotto di loro, trascinandoli giù nell’acqua scura.
Accortisi
della trappola in cui erano finiti, il panico si impossessò di loro. Molti
lanciarono i cavalli al galoppo in varie direzioni, sperando di trovare zone di
ghiaccio più resistente, ma le loro bestie scivolavano e i cavalieri si
rompevano le ossa sulla gelida tavola, o scivolavano a loro volta nelle chiazze
sempre più ampie di acqua in cui i loro compagni cercavano invano di non
annegare.
Le
loro mani tornavano a galla un’ultima volta, disperate, prima di sparire per
sempre, senza un grido.
Una
brutta fine, ma meritata, pensò Ivan, non volendo provare compassione.
http://www.youtube.com/watch?v=8y9OHpZd12s&feature=related
Gli
uomini intorno a lui iniziarono ad inneggiare il loro condottiero, ma questi li
zittì con un gesto della mano.
“La
battaglia non è ancora finita. Non tutti i teutoni sono finiti in acqua, e le loro
riserve, anche se terrorizzate, sono ancora illese.”
Abbassò
gli occhi su Russia: “Ivan, se pensi di potercela ancora fare, corri a prendere
il tuo cavallo, e raggiungici nella mischia. A me la mia druzhina!”
Il
giovane lo osservò con occhi lucidi, ferendosi le pupille con la superba vista
della sua spada innalzata che sfavillava al sole, mentre conduceva l’ultimo,
definitivo assalto, contro i teutoni ormai allo sbaraglio.
Certo
che poteva ancora farcela, per un signore come quello avrebbe combattuto fino
al calar della notte, e anche oltre.
Rinfoderò
solo momentaneamente la sciabola e corse verso le retrovie; lungo il suo
passaggio, i russi si aprivano in due ali intorno a lui, come avevano fatto con
il prode Alexander Nevsky.
Trovato
il servente a cui l’aveva affidato, si fece ridare il cavallo, balzò in groppa,
e lo spronò subito al galoppo, ansioso di tornare a farsi valere; incoraggiati
dalla sorprendente tempra di quel così giovane eroe, i russi si gettarono
avanti con lo stesso entusiasmo per fronteggiare le riserve di tedeschi, ciudi
e livoni, più che mai esitanti a farsi avanti.
Russia
resisteva agli scossoni del galoppo tenendo ben strette le gambe sui fianchi
del cavallo bianco e la presa della mano che aveva le redini: nell’altra teneva
alzata la sciabola, come il nemico fosse già lì a due passi. Lanciatosi in
quella frenetica carica solitaria, riuscì a coprire il vuoto tra le postazioni
russe e la mischia dei cavalieri in brevissimo tempo. Il giovanissimo arcangelo
sparì così all’interno del confuso groviglio di bestie e uomini, in cui i
teutoni salvavano il proprio onore combattendo furiosamente malgrado il
fallimento del loro assalto e lo sconforto dell’aver dovuto guardare i loro
confratelli annegare senza poter far nulla.
Non
era più sordo come lo era stato nella mischia precedente, e udiva un corno
gridare, imperioso, nel tentativo di richiamare intorno a sé i suoi; vicini
avrebbero resistito molto meglio che dispersi.
Erano
come il cinghiale ferito accerchiato: proprio quando sembravano non avere
speranze, la rabbia e l’istinto di sopravvivenza li rendevano ancora più
pericolosi.
Lo
scontro che era andato a cercarsi non tardò ad arrivare. Incrociò due volte le
spade con uno dei tedeschi, ma riuscì per primo ad assestargli un fendente al
fianco.
Senza
osservare nemmeno in quel caso se l’avesse ferito o meno, lanciò oltre il
cavallo dritto contro un teutone rimasto appiedato, travolgendolo e buttandolo
a terra.
Ivan
si guardò intorno: i cavalli, montati o ormai rimasti soli, schizzavano
velocemente davanti i suoi occhi in ogni direzione, confondendolo. Cercò
qualcosa che fosse abbastanza fermo da dargli un punto di riferimento, ora che
anche il corno aveva smesso di risuonare, e lo trovò in una lancia che si
innalzava più delle altre, oltre i gruppetti di combattenti, sulla quale
sventolava la bandiera dalla croce nera.
Cercando
di evitare altri scontri, riuscì ad avvicinarsi abbastanza affinché si ritrovassero.
Fu
lui il primo a vedere lo spesso casco di metallo ornato dalle alte ali nere:
non aveva dubbi che fosse lui.
Pochi
istanti dopo, la feritoia, posatasi per caso sull’elmo dalla fronte dorata, prese
a puntarlo minacciosa. Anche Von Malberg l’aveva riconosciuto.
Aveva
nella destra la sua spessa picca da cavaliere, e nella sinistra la spada.
Intorno a lui, e a suoi più fedeli accoliti, i corpi senza vita di tanti prodi
cavalieri slavi.
Si
fissarono, come non esistesse alcuna battaglia: i drappi, scuri o bianchi che
svolazzavano nello spazio tra di loro non distraevano più nessuno dei due.
Fu
il tedesco il primo a muoversi contro l’altro.
Ivan
batté i talloni e sollevò la spada, buttandosi a capofitto nella sfida che gli
era stata lanciata.
Non
ci mise molto ad accorgersi dell’errore che aveva commesso.
Von
Malberg non solo era certamente più abile di lui, ma con la portata della
lancia lo avrebbe senz’altro raggiunto per primo, e se anche fosse riuscito ad
evitare quel primo colpo, avrebbe dovuto vedersela con la sua spada. Quando
arrivò a realizzarlo, si rese conto di quanto drammaticamente corta fosse la
distanza tra i due, e quanto i loro animali lanciati in avanti la stessero
restringendo istante dopo istante. Non ce l’avrebbe mai fatta a fermarsi o
scappare, anche solo provarci avrebbe significato essere raggiunto e trafitto
in un batter d’occhio.
L’aquila
dalle nere piume avrebbe ghermito l’incosciente arcangelo, ponendo fine alla
sua battaglia.
Come
poteva fare? Come poteva colmare quello svantaggio e salvarsi dal colpo di
picca?
Mai
pensò così a lungo in un tempo così breve. Né prese decisione più sofferta.
Diede
uno strattone alle redini, con tutte le sue forze.
Il
cavallo impennò, e il teutone, non riuscendo a fermare la propria corsa, gli
trapassò il petto con la lancia.
Ivan
si era tenuto pronto, e non appena aveva sentito l’urto si era gettato giù a
terra, perdendo l’elmo ma riuscendo ad atterrare in piedi.
Il
pianto del suo cavallo gli squarciò i timpani e il cuore.
L’aveva
portato con sé da casa per farlo finire sacrificato in una lotta in cui non
centrava niente, di cui non sapeva niente, innocente creatura che non intendeva
parola, figuriamoci una così orrenda come “guerra”.
Ma
Ivan non ebbe il tempo di elaborare tutti quei pensieri, che gli sarebbero
venuti solo più tardi, quando tutto fu finito.
Si
era salvato, a caro prezzo, ma ce l’aveva fatta. Gettatosi di proposito dal
lato opposto alla mano in cui il Gran Maestro aveva la spada, Ivan impugnò la
sua con entrambe le mani e, nel mentre che, sgomento, cercava di sfilare l’arma
dal petto dell’animale morente, il giovane russo gonfiò il petto e caricò fin
oltre le sue spalle un colpo che si abbatté con spaventosa forza contro la sua
pancia insieme al suo furioso urlo.
Una
macchia rossa comparve sull’addome del cavaliere bianco, che per la violenza
del fendente cadde all’indietro dalla sella, battendo la schiena e la testa sul
terreno.
Il
Gran Maestro, salvatosi il cranio dalla caduta grazie all’elmo, lo tolse per
poter respirare e tossire meglio. I polmoni gli erano stati svuotati, ma la
corazza e la cotta avevano impedito che la ferita fosse profonda.
Russia
si erse più dritto che poté, mentre il tedesco, steso al suolo ai suoi piedi,
rantolava, tenendosi premuta la ferita. Colui che l’aveva insultato era caduto,
e quel letto di neve sarebbe stato il fondo della sua bara, con il cielo quale
tetto e i corvi quali vermi.
Si,
così sarebbe andata. Quel mostro che si era dato così tante arie sarebbe morto
lì, per mano sua, monito per tutti quelli che, come lui, sarebbero giunti lì a
minacciare la vita e la fede del suo popolo. Lo vide tentare si alzarsi su una
mano e poi scivolare giù, e non provò che soddisfazione.
Si
avvicinò.
Un
fendente giunto da chissà dove sibilò un po’ sotto il suo naso, facendolo
balzare indietro.
Tra
lui e il Von Malberg si era interposto un minuscolo scudiero dagli occhi rossi.
“Stagli
lontano!”
“Gilbert!”
–gridò tra i colpi di tosse.
“…..”
Il
piccolo Gilbert, avvolto nella sua mantellina crociata, lo stava minacciando
col suo corto spadino, tenendolo con ambo le mani malgrado le dimensioni, e
rivolgendo la punta verso l’alto, nell’improbabile tentativo di mirare alla sua
gola.
“Non
ti avvicinare a lui, dannato eretico!”
“Vattene
subito, Gilbert! Vattene!” –gridava il tedesco a terra, incurante delle atroci
fitte che provenivano dalla pancia aperta.
Ivan fece un passo avanti.
“Lascialo stare!”
Diceva
così, però indietreggiava. E vedeva chiaramente le lacrime di paura nei suoi
occhi, e le gambe malferme e gelate dalla neve profonda che gli mordeva le
caviglie.
Lo
batteva in tutto, in determinazione, in forza, in dimensioni più di ogni altra
cosa.
Era
così piccolo… Avrebbe potuto troncargli di netto la testa con un solo colpo.
Sarebbe stato davvero facile riuscirci.
Fece
un passo avanti, e lui rispose indietreggiando ancora.
Lo
trovava davvero divertente, notò.
Sollevò
la spada, godendosi il buffo spettacolo di quella testolina bianca lì in basso,
mangiata dalla sua ombra, che provava a minacciarlo con un bastoncino di ferro.
Bastava
un colpo, e il responsabile di tante atrocità, il capo di quegli uomini che non
risparmiavano ai bambini la lenta fine del rogo, sarebbe stato tutto suo, da
finire.
Bastava
un colpo, e poi un altro.
“Vattene,
sciocco! Vattene!”
“Stai
indietro!” –pianse Gilbert allungando lo spadino senza arrivargli nemmeno al
petto.
Un
colpo, e poi un altro.
“Ivan!”
Impennando
il cavallo, il principe Nevsky si fermò a un paio di metri di fianco a lui.
“La
battaglia è vinta. Puoi abbassare la spada adesso.”
Gli
sembrò di svegliarsi da un sogno. O era un sogno quello che era appena
cominciato? La battaglia era vinta. La Russia aveva vinto.
L’incubo
teutonico era finito.
“Ivan?”
Rinfoderò
l’arma.
Gilbert
corse al proprio maestro e prese a singhiozzare sul suo petto, mentre questo,
lo rimproverava aspramente per la sua idiozia, fingendo di tirargli i capelli.
Ivan
si sentì svuotare, e i muscoli divenire flaccidi: doveva imporre alle sue gambe
di tenerlo in piedi.
Osservò,
verso la sponda occidentale del lago, i nemici che si allontanavano: la loro
riserva non aveva combattuto che pochi minuti prima di ritirarsi,
demoralizzata, mentre molti dei loro cavalieri sopravvissuti, alleggeritisi di
elmi e scudi, condividevano i propri cavalli con i feriti, ritirandosi con
cautela malgrado la premura di ritrovarsi a calcare al più presto un suolo che
non cedesse sotto di loro.
“Siete
stati sconfitti, Von Malberg. Ma voi vestite la croce, e la venerate come noi.
Non inseguirò il vostro esercito, ne vi prenderò come prigioniero. Farò venire
dei guaritori e una volta che vi avranno medicato, potrete tornare nel vostro
regno insieme al vostro scudiero. Spero un giorno la vostra gente ritorni nelle
nostre terre da amici.” –così parlò Alexander, disponendo poi affinché i suoi
ordini fossero eseguiti.
Nel
girarsi, ricevette un ultima occhiataccia da parte di Gilbert.
Si
rivolse allora verso il suo stanco amico: “Vieni, Ivan.”
Si
avviò verso le proprie linee, mentre Russia indugiò ancora un po’, guardandosi
intorno in cerca del proprio elmo. Recuperatolo da terra, preferì non
indossarlo, lasciando che l’aria fresca gli desse sollievo con gelidi brividi
tra i capelli sudaticci e schiacciati. Seguitolo a piedi, si fermò tra i
soldati sparpagliati, mentre i chierici e i serventi già si occupavano di morti
e moribondi.
“Nevsky!”
–gridò una voce, trascinandone molte altre con sé.
Anche
i cavalli nitrirono forte, come a unirsi a quelle acclamazioni che si levavano
sulla sponda del lago che non aveva ceduto al loro nemico.
“Nevsky!
Nevsky! Nevsky!”
Dio
aveva dunque decretato.
In
futuro si sarebbe cantato e scritto che lì, sul ghiaccio del lago dei Ciudi, il
valoroso Alexander Nevsky aveva fermato l’avanzata dei teutoni, che i russi
avevano fermato l’avanzata dei teutoni.
Si,
si disse. Era finita e avevano vinto.
La
sua prima grande battaglia era stata vinta.
“Nevsky!
Nevsky! Nevsky!”
Ogni volta quelle migliaia di voci pronunciavano quel nome, a Russia sembrava
di udire il suo, e capì di non sbagliarsi.
Colmo
di gioia alzò il pugno e si unì al grido.
“Nevsky!”
NOTE STORICHE
La Battaglia del Lago Ghiacciato, o del
lago dei Ciudi, come allora era chiamato (“ciudi” è l’antico nome degli estoni),
si combatté il 5 aprile 1242 tra i cavalieri teutonici e l’esercito di
Novgorod, comandato da Alexander Nevsky.
La Repubblica di Novgorod, trovandosi
più a nord rispetto agli altri principati russi, risentì meno dell’invasione
dei mongoli, che non si spinsero in profondità nei suoi territori, sicché in
quel periodo era divenuto lo stato russo più potente, ma non per questo non
insidiato dal suo altrettanto potente vicino teutonico, che dominava gli
odierni paesi baltici.
Dopo aver liberato Pskov, presa dai
teutoni poco prima, Alexander riuscì a trovare lo scontro in campo aperto.
Il luogo della battaglia è l’odierno
Lago Peipus, al confine tra l’Estonia e la Russia odierne. I russi riuscirono a
resistere alla carica dei cavalieri tedeschi e, con una manovra a sorpresa, li
costrinsero a ritirarsi sulla superficie ghiacciata del lago; il ghiaccio però,
essendo ormai giunto aprile, non resse al peso delle loro possenti armature e
moltissimi cavalieri trovarono la morte sprofondando in acqua.
Immortalata negli anni trenta in un
famoso film del regista Ėjzenštejn,
largamente sfruttato dalla propaganda sovietica, non fu in realtà una battaglia
particolarmente sanguinosa, visto il numero relativamente ridotto di forze in
campo (i teutoni non persero più di 500 uomini).
Malgrado ciò, la
sonora sconfitta segnò la fine dell’espansione teutone verso est, e la decadenza
dello stato dell’ordine monastico-cavalleresco sarebbe iniziata solo di lì a
poco, sicché l’evento è di importanza vitale nella storia della Russia, con una valenza
culturale e politica che sconfinò ben oltre il valore strategico.
Il canto dei
teutonici prima della battaglia è ovviamente in latino ed è il “Miserere”,
ovvero “Abbi pietà”, con cui invocano Dio del perdono dei peccati. La preghiera
di Ivan è invece il classico Padre Nostro in lingua russa.
Immagine dei
cavalieri teutonici con i caratteristici elmi: http://www.g-rava.it/opere/medio_evo/56.jpg
Elmo con la
“corona” di piume nere del Gran Maestro: http://www.preisvergleich.org/pimages/Teutonic-Knight-Tannhausen-13th-Century_203__13420_40.jpg
Fonti storiche:
http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_del_lago_ghiacciato
http://www.mondimedievali.net/medioevorusso/nevskii.htm
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Capitolo 9 *** Come cresci, così sarai ***
E
rieccomi qui! ^__^
Anche stavolta mi sono fatto aspettare con il nuovo capitolo (il solito studio,
e poi varie altre robe, sapete com’è… XP). La cosa curiosa però è che anche se
passa una settimana o più prima di postare, alla fine il capitolo viene fuori
comunque in pochissimo tempo (un giorno o due al massimo, più il tempo di
correggerlo): da un lato è positivo, dall’altro mi fa pensare “non è che sono
io che bighellono anziché mettermi al lavoro?” XD
Nello
scorso capitolo, Russia ha affrontato la prima battaglia importante della sua
storia. Quali saranno le sue impressioni? Ma soprattutto, che impressioni avrà
suscitato in altri con le sue gesta, audaci certo, ma che, verso la fine dello
scontro, hanno lasciato intravedere delle ombre che la violenza dello scontro
ha permesso si affacciassero fuori?
Non
solo, in questo capitolo si rivedrà cosa sta accadendo frattanto a un altro
personaggio molto importante in questa storia…
Mentre
vi auguro buona lettura, eccovi qualche link con i disegni e gli schizzi da me
realizzati su questa storia, in cui potete vedere anche il design di alcuni dei
miei personaggi secondari!
http://tonycocchi.deviantart.com/#/d4u8f8h
http://tonycocchi.deviantart.com/gallery/?catpath=scraps#/d4uaozk
http://tonycocchi.deviantart.com/gallery/?catpath=scraps#/d4uanmo
http://tonycocchi.deviantart.com/gallery/?catpath=scraps#/d4uapap
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS:
Link con la colonna sonora consigliata per la lettura saranno inseriti lungo la
storia ^_^
Capitolo 9 – Come cresci, così sarai
Il
sole finiva di tramontare, mentre Ivan finiva di leccarsi le dita unte dal
delizioso pesce arrosto appena finito.
L’esercito
di Novgorod, vinta la battaglia era tornato alla vicina città di Pskov, casa di
un altro suo zio, catturato dai teutoni ma presto liberato poco prima di unirsi
che la sua avventura avesse inizio. Lui e il suo popolo li avevano accolti con
tutti gli onori, con un occhio di riguardo ovviamente per il loro coraggioso
signore, l’ormai già illustre vincitore della Neva, salvatore ancora una volta
delle sorti della Rutenia e dei suoi popoli.
Alexander
era entrato in città da trionfatore, sul suo cavallo, vestito dell’armatura
completa, e, come sempre accade, raccolse lui più acclamazioni di tutti loro
messi assieme, che pur l’avevano seguito e come lui avevano combattuto, chi
distinguendosi di più, e chi di meno.
Anche
il vescovo, venutogli incontro in processione, aveva benedetto lui, Alexander
Jaroslavic di Vladimir, il Nevsky, senza indugiare su chi era con lui, come se
per i soldati non ci fosse altra gioia e benedizione che la luce riflessa delle
lodi al loro principe.
Succede
sempre così; parecchi muoiono, e che si vinca o si perda quelli ricordati negli
annali saranno sempre e solo i capi.
Ma
a chi importa degli annali e del ricordo dei posteri? L’importante, se trionfo
è, è che vi sia la festa, è così fu.
L’armata
era stata fatta accampare appena fuori dalle mura nord della città, tra queste
e le fattorie coi campi, che a breve sarebbero stati nuovamente liberi dalla
neve.
Qui
i combattenti avevano ricevuto la loro giuste ricompense: riposo per le membra
stanche, tanto cibo per lo stomaco, tanto alcol per il morale.
La
popolazione, grata, e comunque volente o nolente, aveva aperto i propri
magazzini, affinché non mancasse nulla ai loro salvatori, né a quelli fuori le
mura intorno ai falò, riforniti da un continuo via vai da dentro a fuori le
mura, né ai loro capi seduti dinanzi i grandi camini nelle sale all’interno di
esse.
Il
giovane Russia, in prima fila quando il vescovo aveva benedetto Alexander,
inginocchiato dinanzi le sacre icone che avevano concesso loro la vittoria,
aveva poi preferito restare di fuori all’aperto, non che il Nevsky non gli
avesse concesso il privilegio di sedergli accanto, insieme con suo zio padrone
di casa e gli altri signori.
Lui
era ancora giovane dopotutto, e sarebbe stato fuori posto: meglio non montarsi
la testa per aver combattuto e vinto una sola volta.
Non
che non si sentisse fiero come non mai, se era vero che, anche fattasi ormai
sera, non aveva ancora tolto di dosso l’armatura, già più vissuta ora, con
qualche ammaccatura in più.
Solo
le sentinelle del campo ancora andavano in giro armate, ma al massimo con
l’elmo in testa o una cotta messa su frettolosamente e nient’altro, alcuni con
la lancia in una mano e un boccale nell’altra, e tutte intente a parlare e
ridere tra loro piuttosto che scrutare l’orizzonte o pensare ai turni nella
notte ad attenderli.
Russia
invece, malgrado tutto quel metallo addosso pesasse, oltre a gelargli la pelle
nonostante gli abiti imbottiti che indossava al di sotto, ancora non sentiva la
voglia di togliersela. Semplicemente non ne avvertiva ancora il bisogno.
Aveva
tolto solo il mantello e l’elmo: lo teneva appoggiato accanto a sé, sopra lo
spesso e lungo tronco che, insieme con altri tre uguali, attorniava l’alto e
divampante fuoco intorno a cui si era seduto a mangiare.
Non
era mai stato vanitoso, ma gli sarebbe piaciuto uno specchio per vedersi, o
rivedersi, mentre, degno di zio Kiev, respingeva gli invasori venuti a portare
la guerra alle persone che amava.
In
effetti lo aveva, ed erano gli altri soldati.
All’inizio
infatti, Ivan era stato titubante anche nell’unirsi ai loro festeggiamenti,
provando a riempirsi la pancia tenendosi un poco in disparte, ad ascoltare
racconti e risate ridendo a sua volta, ma sempre a qualche passo di distanza.
Un
po’ schivo, al di fuori dei suoi familiari o amici, lo era sempre stato, senza
contare che, maturando un pochino, aveva pure cominciato a perdere la sua
esuberanza da fanciullo. Di fatto, fu solo dietro continue insistenze che
riuscirono a convincerlo a prendere posto in mezzo a loro, tra quella gente con
cui non aveva mai parlato, di cui non conosceva i nomi, ma con cui aveva
condiviso la parte più dura e aspra di quel lungo giorno, uno dei momenti più
importanti della sua vita, forse il più importante fino a quel momento. In
fondo, lo doveva anche a loro.
Del
resto poi, come avrebbero fatto quelli a dimenticarsi mai di quel giovanotto
sbarbato, in quell’armatura scintillante, con l’arcangelo d’oro sull’elmo, che
aveva combattuto fianco a fianco con loro, e che, stanco dalla mischia, aveva
cavalcato, spronando il cavallo fino allo sfinimento, pur di continuare a
battersi?
Certo,
se l’armatura l’avesse tolta come tutti, forse non l’avrebbero riconosciuto
alla prima occhiata in qualunque parte dell’accampamento provasse a passare…
Nessuno
di loro sapeva del confronto con Von Malberg: la voce che fosse stato Alexander
stesso a batterlo era stata messa in giro e nessuno aveva avuto difficoltà a
ritenerla vera. Che fosse stato lo stesso Alexander, o chi per lui per
ingigantirne il valore, Ivan ne era contento: era già abbastanza al centro
dell’attenzione senza essere anche colui che aveva abbattuto, da appiedato, il
Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici in persona, scaraventandolo giù dal
destriero con un sol colpo.
Quasi
a compensazione, aveva preso presto a girare anche la voce, vera, che fosse
nientemeno che il nipote del loro Dmitri, il quale gli aveva donato la
principesca armatura come augurio di grandezza. La loro voglia di conoscerlo crebbe
fino vincere la sua timidezza, e Ivan si ritrovò seduto prima intorno un fuoco,
e, riuscito a divincolarsi dopo un paio di cosciotti e tante chiacchiere,
intorno ad un altro, con altri uomini, giovani e vecchi, curiosi e ammirati, a
tempestarlo di domande, in gran parte già postegli.
“È
vero che sei nipote di Dmitri? Il vecchio Novgorod?”
“Quindi sei nipote anche di Kiev il grande, giusto?”
“È
vero che sei la nostra patria?”
“È
vero che quelli come voi crescono solo quando lo decidono loro?”
“È
vero che non invecchiate?”
“È
vero che siete immortali?”
“No.”
–quando gli posero quella domanda, rispose molto più in fretta delle altre-
“Possiamo morire. Non come muoiono tutti, ma moriamo. Io stesso ho visto il
cadavere di mio zio, il grande Kiev, riverso nella neve, quando ero ancora
bambino.”
“Raccontaci.”
“Non
sono nato in tempo per vederlo nella sua autentica grandezza, sebbene anche nel
suo declino, riuscì a farmi pensare che fosse ancora il potentissimo signore
del Rus. Potrei raccontarvi solo i ricordi di un bambino ingenuo che voleva
bene a suo zio.”
“Dicci
di lui ugualmente. Com’era la sua città? Quasi nessuno qui l’ha ammirata.”
Cercò
di soddisfarli, senza però dilungarsi troppo nelle sue spiegazioni e racconti,
sicché, non soddisfacendo mai appieno la loro meraviglia, le domande e il
parlottio intorno a sé continuavano incessanti.
“Se
sei la Russia, allora non dovresti essere più importante dei principi?”
“No” –si schernì ridendo- “Non lo sono affatto. Non ho alcun potere, né reale
né straordinario: sono simile a qualunque altro ragazzo che abbia l’età che
mostro ora. Non sono nemmeno una vera nazione, come zio Novgorod o mia madre, e
anche loro, in quanto tali, devono obbedire ai loro capi. È nella nostra
natura, non possiamo disobbedirgli.”
Non
che, delle volte, non volessero.
“Secondo
me sei stato tu a farci vincere! Perché eri al nostro fianco!”
“Ti ha mandato Dio per salvarci?”
“Oh,
cielo… Non saprei…” –borbottò ridendo ancora.
Ore
intere trascorsero così, ma per fortuna non fatte unicamente di domande. Riuscì
anche a ridere, a scherzare, a mangiare a sazietà, e ad ascoltare, perché,
grazie al cielo, non era stato lui solo a battersi con coraggio quel giorno, e
anche altri volevano narrare le loro gesta, e i loro compagni smontarli sul più
bello per ridere insieme, mentre i boccali cozzavano.
“Quindi
fino a due anni fa eri un bambino?”
“Ah, se anche i miei marmocchi crescessero così in fretta: mi darebbero una
mano a sfamarli.”
“Posso
avere l’onore di sfidare la Russia a braccio di ferro?” –gli chiese a un tratto
un colosso barbuto con la pelata.
“Sarà anche la Russia, ma non è poi questo sansone!” –fece un altro, tirandogli
per scherzo un osso spolpato e mangiucchiato.
“Attento,
lo sai che la nostra è una terra piena di insidie!” –lo ammonì un terzo.
“Potrebbe
inghiottirti in una tempesta di neve.” –alzò le braccia un quarto.
“Se avessi saputo farlo ci avrei inghiottito i teutoni non credete?” –scherzò il
giovane, ricevendo complimenti per la bella risposta.
Il
tipo seduto accanto a lui sul tronco, ridendo, si era inzaccherato la barba di
vino e gliene aveva sputacchiato un po’ sugli stivali.
Gli
si rivolse, con la palpebra pesantuccia, ponendo anche lui la sua domanda: “Dì
un po’, ma quelli come voi li fanno pure… le sconcezze? Come li fate i bambini?”
“Siamo
un mistero anche per noi stessi in fin dei conti.” –rispose guardando altrove,
lasciato irrisolto il quesito…
Finalmente,
molte domande e molto altro spirito dopo, la stanchezza aveva vinto via via
tutti, mettendo freno alle lingue e ai giochi. Sparite così la calca e
l’entusiasmo intorno a lui, e ritrovata così un po’ di pace, aveva deciso di
chiudersi lo stomaco con un ultimo merluzzo arrostito.
Si
guardò le dita inzaccherate di saliva, chiedendosi dove pulirle: di certo non
le avrebbe strusciate sull’armatura di cui andava così fiero.
Uno
dei servi si avvicinò con un barilotto di acquavite, ma Ivan diede segno di no,
chiedendo invece che gli riempisse la coppa di acqua.
Dissetatosi,
e pulitosi le dita nello stesso bicchiere, fissò lo sguardo nel fuoco e
sospirò: finalmente era libero di pensare un po’ per conto suo.
Non
poteva resistere al bisogno di farlo. Così tante cose erano successe in così
pochi anni, e tante solo in quel giorno. Ma più che alla battaglia, alla sua
furia e all’orripilante silenzio della mischia, più che al grido del suo
cavallo straziargli i timpani, e più che al borioso Von Malberg che si
contorceva tenendosi la pancia, gli veniva da pensare a ciò che era successo
prima.
Alle
parole di sprezzo che gli aveva rivolto il tedesco tentando di fargli abbassare
una cresta che neanche aveva provato ad alzare. La sua battaglia era cominciata
in quel momento, poiché la paura di non riuscire a rispondere era di un tipo
diverso e ben peggiore di quella che aveva provato dinanzi la carica.
Inospitale,
selvaggio, rozzo. Genti primitive su lande ghiacciate e desolate.
Dunque
così lo vedevano coloro che vivevano fuori, oltre il suo mondo ancora così
piccolo; quella la loro verità, che lo aveva acceso di rabbia e schiacciato di
vergogna, e mai prima si era vergognato di ciò che era.
In
essa si era rivisto, come in un lago le cui increspature erano sprezzanti
risate al suo volto che si affacciava, e aveva temuto di non poter ribattere
nulla.
La
sua battaglia sarebbe finita lì, se non fosse stato per quel giorno, tanti anni
prima, la cui meraviglia aveva squarciato il velo nero dei suoi pensieri.
Cosa
ne sapevano i teutoni, e quelli che la pensavano come loro, di un bimbo in un
campo di girasoli? E di sua madre, “selvaggia” e “rozza” come lui, che lo tiene
per mano e gli insegna che da sempre il sole batte anche sulle loro teste?
Non
appena tornato a casa, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata
ringraziarla, poiché proprio quel giorno l’aveva salvato da chi voleva imporgli
una realtà non falsa, ma neppure vera.
Con
quel giorno, gli aveva fatto il dono più grande di tutti: la coscienza di sé
stesso.
Nessuna nazione può andare avanti senza di essa.
Senza
di essa, quel mattino sarebbe rimasto muto.
Adesso
l’avvertiva, la speranza di poter continuare a crescere, perché ne era sicuro:
di essere slavo, di avere i suoi credi e le sue tradizioni, di essere fatto di
una terra e di un cielo dal brutto carattere ma in fondo buoni e pieni di
sorprese, di uomini e donne che tanto patiscono ma sono pronti a darsi una mano
per farsi calore a vicenda. Di voler combattere per proteggere tutto ciò,
contro ogni nemico, più forte o più debole.
Sospirò,
contento.
Forse
il primo passo verso la realizzazione della sua promessa era stato appena
compiuto.
“Ivan.”
Giratosi,
vide una figura ammantellata emergere dal buio. Accortosi che si trattava del
suo signore, sobbalzò e fece per alzarsi e riverirlo, ma questi, con un gesto
della mano lo tenne inchiodato al tronco su cui era seduto.
“Cosa
ci fate qui, mio principe? Non dovreste essere al banchetto?”
“Ti
stavo cercando.” –fece segno ai due robusti uomini della sua guardia del corpo
che lo seguivano di lasciarli soli e questi si allontanarono, senza una parola.
“Posso
sedermi?”
“Certo.”
–si affrettò a rispondere, imbarazzato che un principe gli chiedesse il
permesso di far qualcosa.
Dall’altra
parte del focolare, su un altro tronco, c’erano ancora tre uomini, ma erano troppo
intenti a giocare a dadi per far caso all’arrivo tra loro del Nevsky. Nessuno
lì attorno, a meno di non avvicinarsi troppo, lo avrebbe notato, perché erano
tutti sfatti dai festeggiamenti, sparpagliati, distratti. Un sommesso ma brioso
mormorio faceva da sottofondo insieme con lo scoppiettare della legna, coprendo
i brusii della notte nella campagna che si stendeva oltre il limitare del
campo.
“Ti
sei distinto alquanto oggi, Ivan.”
“Grazie,
signore, anche voi.”
“Se
ripenso a quante storie hai fatto quando sono venuto a prenderti.” –ridacchiò-
“Adesso sembri avere l’aria di chi è pronto ad affrontare un armata tutto da
solo anche subito.”
“State
un po’ esagerando.”
“Hai
combattuto e vinto la tua prima battaglia, è normale essere fieri di sé dopo
una così difficile prova.”
Il
giovanotto biondo scostò il viso imporporato: “Se è così signore, e senza
peccare di superbia, vi dirò che avete ragione, e che sono fiero di aver
dimostrato il mio valore; sono fiero di tutto quello che ho detto e fatto
oggi.”
“Tutto?”
Ivan
si ricompose, non aspettandosi di veder sparire, così tutto a un tratto, la
gentilezza dal volto di Alexander.
“Anche
di ciò che stavi per fare?”
Il
tono di voce era completamente mutato. Se prima il suo principe gli era
sembrato un amico giunto a complimentarsi, ora sembrava diventato un padrone
severo, prodigo di aspri rimproveri per il suo cattivo servo.
“Non
so cosa intendete, mio signore.” –disse, sentendosi nuovamente assetato.
“Intendo
quando ho visto te, Ivan, pronto ad infierire sull’ormai caduto Von Malberg,
come sul suo piccolo aiutante.”
Spostò
gli occhi sul fuoco: quello che si rifletteva negli occhi scuri di Alexander
bruciava troppo sulla sua pelle.
“Era ormai a terra, ferito gravemente, incapace di difendersi, poi ecco
arrivare quel discolo a fingersi suo salvatore, e tu, che li guardi entrambi
dall’alto in basso, senza un briciolo di pietà. Mi sbaglio? Sono andate così le
cose, non è vero?”
Ivan
strinse i pugni: “Quell’uomo… meritava di morire!”
Alexander
non rispose subito; fissò a lungo Ivan come a suggerirgli di meditare sulle sue
stesse parole.
“Per
la prima volta hai assaggiato la violenza della guerra, e il suo sapore ti ha
ubriacato più degli altri; è normale succeda, da alla testa anche a chi ci è
abituato. Forse non potevo aspettarmi mantenessi il controllo dinanzi a colui del
cui operato avevi visto gli orrori, e che ti aveva insultato in tal modo. Ma di
quello scudiero che mi dici? Era praticamente un bambino. Tremava. Piangeva.
Provava a salvare una persona orribile, ma a cui voleva bene. Come te non si
ergeva per conquistare, ma per proteggere. Ma tu non hai pensato a provare un
po’ di compassione per quel piccoletto dal gran fegato; avresti abbattuto la
lama su di lui, senza alcun rimorso, se non ti avessi fermato.”
Ivan
sciolse la stretta della dita sul legno. Un altro discorso al quale sentiva di
non poter ribattere, e non poteva appunto, perché grazie al cielo sua madre non
gli aveva insegnato che la Russia è una terra violenta come lupo e senza pietà
per i deboli.
“Io…”
Faceva
meglio a star zitto, si disse. Ripensò all’ombra che Orda d’Oro proiettò su di
lui quando osò sfidarlo; diventare appena un po’ più grande, di pochissimo, già
aveva significato stritolare nella propria oscurità su chi non era alla sua
altezza.
“Mi
perdoni. Non ci ho visto più.”
“Ivan,
tuo zio ha insistito perché ti cercassi e ti facessi combattere, e quando ho
iniziato a conoscerti, anch’io ti ho voluto ad ogni costo: la Russia stessa, al
mio fianco, il mio paese che si batte insieme a me…” –disse come a corto di
fiato, sentendo di nuovo l’emozione che gli aveva fatto accapponare la prima
volta che gli era balenato quello stupendo pensiero- “Ma non certo per vederti
levare la spada contro un bambino.” –scosse il capo, tornando a rivolgersi a
lui.
I
due si guardarono intorno. I tre giocatori di dadi proseguivano tra alterne
fortune; lische di pesciolini giacevano ammonticchiate vicino l’orlo di pietre
del falò sempre vivo; di tanto in tanto un frastuono di risate, sganassoni,
strumenti musicali e rutti si udiva tra le tende, da coloro che ancora non ne
avevano avuto abbastanza.
Il
sole era sceso giù tutto dietro l’orizzonte, e il cielo era di un viola scuro,
come il colore degli occhi di uno dei due giovani.
“Ascolta,
non devo dirti io che non sei come gli altri. Porti un nome, Russia,
altisonante e sconfinato. Potresti essere la potenza di un qualcosa che sarà a
venire. E se sarà così, sarebbe bello se tu rappresentassi solo il meglio di
noi russi: la voglia di vivere malgrado le avversità, l’amore per il bere, la
musica, i balli, la fede, il duro lavoro…”
Tutte
cose che aveva potuto apprezzare nei suoi compagni d’arme, durante la loro
compagnia.
“Ma
quando ti ho visto oggi, pronto a uccidere senza pietà un bambino e un ferito a
terra… mi si è gelato il sangue.”
Gelo.
La prima parola che veniva in mente quando si pensava o si udiva parlare di
loro e di dove vivevano.
Il
suo principe, il vincitore della Neva, il loro salvatore dai Teutoni, aveva
lasciato uscire i suoi dubbi e le sue ansie apposta per lui: si sentiva onorato
e colpevole, lui ad averle provocate e lui ad ammirarle, mentre l’eroe della
giornata smetteva, almeno dinanzi a lui, di essere senza difetti, senza
emozioni negative quali la paura, come vogliono cronache e fiabe.
In
quel momento, in cui aveva osservato, indeciso se lasciar fare fino all’ultimo
o intervenire prima che fosse troppo tardi, aveva anche lui avuto davvero paura
che lo straniero non si fosse sbagliato sulla sua terra.
“Affronterai
molte altre battaglie e sfide, vedrai molti altri orrori: scriveranno la tua
storia e ti plasmeranno. Lo stesso faranno anche i momenti belli. Ma loro
purtroppo non lasciano un segno profondo quanto quelli brutti, quindi devi fare
attenzione a non lasciarti forgiare unicamente da loro. Fai attenzione al tuo
cammino, da esso dipenderà che uomo e che nazione diverrai.”
Mentre
Ivan stringeva le guance, corroso dalla colpa, Alexander gli poggiò una mano
sulla spalla, guardandolo dritto negli occhi.
“Non
fare in modo che la nostra terra diventi un gigante senza cuore, pronto a
schiacciare i deboli.”
“Non
diventare mai… gelido.”
“Non
voglio diventarlo.”
Tolse
la mano, e Ivan buttò fuori il petto, rassicurando il suo signore di voler fare
tesoro di quell’ammonimento.
Alexander
allora poggiò le mani sulle ginocchia e si rimise in piedi con un sospiro.
“Te
lo auguro, vivamente.”
Le
due guardie del corpo si riavvicinarono: anche loro, come il principe e quasi
tutti i soldati, avevano rimosso le scomode armature, lasciandosi solo dei ben
affilati coltelli nascosti sotto i lunghi drappi di telo.
“Credo
che in città si stiano domandando dove sia finito il loro eroe. In quanto a te
Ivan, mangia, bevi, divertiti, stiamo festeggiando, no? E pensa che tra qualche
giorno, a Novgorod ci riserveranno un accoglienza forse ancora più grandiosa!”
Calcato
qualche passo nella neve, si voltò: “A questo proposito, sarà meglio te la
conservi un po’ per allora la tua bella armatura, non trovi?”
I
due si salutarono alzando una mano, e il principe si avviò verso la porta di
Pskov, passando, come all’andata, tra le ombre che circondavano i tanti falò
accesi.
Ivan
restò seduto dov’era, vinto nuovamente dalla voglia di pensare.
A
distrarlo furono delle risate femminili.
Alzò
gli occhi e vide i tre giocatori di dadi in compagnia di altrettante donzelle,
contadine a giudicare dagli abiti.
Si
guardò intorno ed intravide altre donne, intrattenersi e intrattenere gli
uomini del campo, senza far storie per una, due, tre, o anche quattro
toccatine.
Se
scampi alla morte, hai più voglia di vivere, e l’uomo non vive di solo alcol,
neppure il russo.
Mentre
si alzavano dal tronco per andar chissà dove, uno dei tre, con un braccio
intorno la spalla della sua contadinella (e la mano sopra un seno), ridendo e
ammiccando gli fece cenno di avvicinarsi e unirsi al divertimento, trovandosi
qualcuna anche lui.
Un
altro di loro indicò allora una tipa bella grossoccia, anche lei in cerca di
compagnia, la quale, ancheggiando e ondeggiando le sue morbide e scese
protuberanze, gli lasciava intendere che era proprio di suo gradimento.
Ma
Ivan era ancora troppo giovane e troppo candido per certe cose.
E
poi, se lei avesse visto com’era il suo aspetto appena due anni prima…
Sorridendo
e scuotendo la testa, rifiutò con educazione i loro inviti, e i tre, per nulla
dispiaciuti, si avviarono con le loro compagnie, mentre anche la signora cicciona
(che un po’ gli ricordava sua madre e anche per questo non aveva avuto dubbi a
rifiutare) se la rideva, acuta come un uccellino, avendo trovato qualcuno
desideroso di stringere tutto quel suo ben di Dio.
Quella
sera un bel po’ di meretrici avrebbero guadagnato, un bel po’ di giovinette
sarebbero divenute donne, e un bel po’ di mariti avrebbero avuto il capo come
quello dei cervi…
Divertito,
Ivan si alzò e provò a stiracchiarsi: come prevedibile, il peso dell’armatura,
portata per tutto il giorno, aveva indolenzito ogni suo muscolo.
Ora
si che era arrivato il momento di toglierla, anche perché, sentendo di aver
festeggiato a sufficienza, pensava di ritirarsi nel suo padiglione e andare a
dormire.
Dato
un ultimo sguardo al fuoco, mise l’elmo sottobraccio e si incamminò, ma per la
via più lunga.
Si
sgranchì le gambe allungandosi fuori dal campo, nella buia campagna che
attorniava la città, allontanandosi fin quasi a non sentire più i rumori della
festa, chiassosa anche nel suo spegnersi, ora che il buio era calato.
La
luce della luna e delle tante stelle picchiettava sul soffice manto di neve,
illuminandolo quel po’ che bastava a non fargli metter male un passo ed
inciampare.
Si
fermò col naso all’insù, immergendo la faccia assonnata nel rilassante
spettacolo del cielo serale.
Prima
di seppellirsi sotto le pellicce della sua branda, voleva un attimo per pensare
alla sua sorellina, l’unica, al termine di quel lunghissima giornata, che
potesse spegnergli tanto l’orgoglio per la sua impresa che la preoccupazione
per il monito di Alexander.
Sussurrò
il suo nome, malinconico.
Non
la vedeva da due anni. Di lei sapeva solo che pagava tributi ancora più duri
dei loro a quel maledetto Orda d’Oro, lavorando per conto suo dei campi che le
appartenevano di diritto, lontana dal sostegno dei suoi parenti, e dall’amore
del suo fratellino.
Quel
che prima gli era sembrato tanto, adesso gli pareva veramente poco: sconfiggere
i teutoni aveva salvato lui e gli zii, non Katyusha. Vero, la strada per
diventare grande e abbastanza forte da strapparla via a quel mostro era stata
imboccata, ma quanto tempo avrebbe richiesto percorrerla?
Nel frattempo, a lui non restava che augurarsi che, nonostante le condizioni in
cui versasse, stesse bene.
Chissà
cosa le stava accadendo. Chissà cosa le sarebbe accaduto, prima di riuscire a
rivedersi.
http://www.youtube.com/watch?v=dYhRGV8-kMw&feature=related
La
yurta in cui Orda d’Oro accoglieva i suoi sudditi venuti a presentargli i
tributi dovuti era tanto grande da sembrare la sala grande di un palazzo
piuttosto che una tenda.
La
superficie era tutta ricoperta da stupendi tappeti, rossi, ocra, porpora, dai
complicati motivi, geometrici e floreali, uno più prezioso dell’altro.
Ricordo
della Persia, abbattuta e sottomessa qualche tempo prima del loro arrivo nel
Rus.
Su
quei tappeti, anch’essi, nel loro stesso trovarsi lì, simbolo di una forza che
non conosce ostacoli al suo passaggio, stavano inginocchiati i ruteni del sud,
con la fronte a toccare terra, mentre un consigliere mongolo, vestito di seta,
dava lettura, accanto al trono dove sedeva il loro padrone, di quanto gli
avessero portato: soprattutto frumento e prodotti della terra, la più calda e
fertile del Rus, per sfamare il suo numeroso popolo, ma anche lino, canapa,
luppolo, pellicce, gioielli.
In
prima fila, tra quelli inginocchiati a una decina di metri dal trono, tale era
la distanza da mantenere a meno di non essere chiamati da lui stesso, stava la
bambina che due anni prima aveva portato via, affinché lo servisse. Ogni anno,
venuto il momento di pagare il tributo, si recava a lui, seguendo gli altri
rappresentanti del suo popolo nel loro viaggio fino alla sua Saraj, da dove
stendeva il suo braccio fino al Caucaso, a sud, fin oltre gli Urali, ad est, e
ad ovest, lì dove stavano gli altri ruteni, suoi vassalli.
Poggiato
con un gomito su uno dei bracciali del trono, Orda d’Oro, il quale aveva come
altro nome Altan, che nella sua lingua voleva appunto dire “oro”, ascoltava
senza battere ciglio. Gli altri dignitari mongoli stavano alla sua destra e
alla sua sinistra, distanziati di qualche passo dai ruteni inginocchiati;
mentre lungo il perimetro dello spazio della yurta stavano le guardie, coi
micidiali archi. Lo imitavano nel silenzio e nell’immobilità, sicché tutto il
tempo della lettura trascorse come un lungo attimo di sospensione tra un
respiro e l’altro.
Ucraina
poteva sentire i suoi accompagnatori deglutire alle sue spalle.
Quando
il consigliere richiuse la pergamena e si allontanò con un inchino, allora la
bambina, senza staccare le ginocchia dal tappeto, alzò piano la testa.
“La quantità di grano che mi avete tributato lo scorso anno era
considerevolmente maggiore.” –non aveva il tono di una lamentela, e proprio per
quello fece li tremare ancora di più. Non serve sempre corrucciare la fronte o
inasprire la voce per intimorire.
Mentre
dietro di lei, uomini ben più vecchi stentavano a prendere parola, Ucraina
prese un bel respiro e si spiegò.
“L’inverno
è stato rigido e si è protratto a lungo, padrone. Abbiamo trattenuto una parte
delle scorte per sfamare i nostri contadini. Mi scusi.”
Orda
d’Oro poggiò anche l’altro braccio sul trono e drizzò il capo.
“Mi
scusi.” –ripeté Ucraina, sprofondando nuovamente con la testa sul tappeto.
Tra
l’indifferenza delle guardie e la tensione degli altri capi mongoli, Orda d’Oro
si chiuse nuovamente in uno statuario silenzio; la tensione era tale che non il
minimo parlottio, sussurro o sibilo osò levarsi.
Orda
d’Oro si alzò.
“Ho
capito. Avete agito bene: se i contadini muoiono di fame, chi coltiverà i
campi? Non ho nulla da biasimarvi.”
“Grazie,
padrone. Mi scusi ancora.”
“Naturalmente,
mi aspetto che negli anni a venire riuscirete a produrre abbastanza per
sfamarvi e darmi al contempo quanto mi spetta. In fondo, se ti ho presa al mio
servizio, è proprio perché so che la tua terra è parecchio generosa. Non è
forse vero?”
“Si,
padrone.”
Grazie
al cielo Orda d’Oro non era un sovrano così tremendo come lo descrivevano le
sempre esagerate cronache. Era potente, bramoso, ma tutto sommato saggio, e non
così facilmente incline a punire con teste mozzate, devastazioni e incendi. E
comunque, erano riusciti a rispettare il pagamento degli altri tipi di tributi,
con qualche aggiunta, per invogliarlo ancora di più ad essere comprensivo: non
gli era di sicuro sfuggito.
“Potete
ritirarvi allora. A tra un anno, puntuali.”
“Si,
grande signore.” –rispose, aprendo bocca per la prima volta, uno degli inviati
più attempati.
Porse
una mano alla bambina e l’aiutò a rialzarsi.
I
delegati ruteni uscirono dalla yurta, e velocemente si prepararono a far
ritorno a casa: prima si allontanavano da quel posto così pieno di mongoli e
meglio era.
Saraj,
sorta dal nulla per essere il cuore dell’impero di cui erano entrati a far
parte.
Per
ora era ancora un conglomerato di yurte, ma già le prime case di legno e pietra
avevano fatto la loro comparsa, mentre la cinta muraria era già a buon punto. I
mongoli, nomadi da sempre, avevano intenzione di mettere radici purtroppo, e
numerosi com’erano, presto in quel luogo sarebbe sorta una città delle più
grandi e brulicanti mai vedute, più immensa di Kiev, laddove da ovest anche i più
rispettati e potenti dei loro popoli si sarebbero recati, per inchinarsi.
Senza
incrociare nessuno sguardo, i russi del sud spronarono cavalli e carri di buoi,
giunti pieni e ora vuoti, ansiosi di ritrovarsi nella steppa, anche se sempre
protetti da una scorta di arcieri a cavallo.
Katyusha
ricevette ben più di una carezza, in premio dell’inaspettato coraggio con cui
una creatura tanto piccola e delicata avesse saputo rivolgersi al loro enorme
signore, sempre in difesa del popolo che amava e che l’amava, come aveva amato
suo padre prima di lei.
Lei
non aveva paura tanto di Orda, ma di quello che poteva fare loro se mai fossero
incorsi nella sua ira. Si sarebbe scusata e umiliata, faccia a terra, anche
mille volte perché li lasciasse in pace, sotto il suo tallone, ma vivi e
incolumi.
Purtroppo
quello non sarebbe stato l’ultimo inverno rigido, e il prossimo, per quanto ne
sapevano, poteva essere ancora peggiore. Stavolta i santi Atanasio ed Agata, i
loro protettori, avevano intercesso per loro affinché il mongolo avesse l’animo
ben disposto, ma dubitava Altan avrebbe dato loro ascolto una seconda volta.
Non
voleva ripresentarsi nuovamente con le mani non piene, ma neanche poteva
lasciare la sua gente senza cibo.
Sentiva,
come i suoi accompagnatori, la punta affilata di quel monito non direttamente
pronunciato dal mongolo spingere dietro la schiena. Le loro fatiche sarebbero
dovute aumentare purtroppo.
Ucraina
però non poteva lasciarsi prendere dallo sconforto.
Doveva
dare una mano sul serio, doveva aiutare la sua gente se era vero che il
destino, privandoli di suo padre, li aveva affidati a lei.
Risoluta,
lungo la via del ritorno decise che appena tornata a casa, con l’inizio della semina
primaverile, non si sarebbe limitata a portare acqua a chi era stanco o a
recuperare le spighe abbandonate tra la paglia dopo la trebbiatura insieme alle
altre bambine e bambini: avrebbe preso anche lei la zappa, avrebbe imparato a
maneggiarla, avrebbe lavorato i campi e condiviso la fatica del sopravvivere
con tutti loro, e li avrebbe aiutati a soddisfare le richieste del loro padrone.
“Cosa
ti è saltato in mente?”
Una
delle anziane del villaggio, che le facevano da “nonne”, le stava medicando le
sbucciature su gomiti e ginocchia con un impacco fatto di piante di bosco
macerate.
Ucraina
singhiozzava. Aveva provato a prendere la zappa da una delle capanne in cui gli
agricoltori lasciavano gli attrezzi, ma questa, lunga più del doppio di lei,
l’aveva sbilanciata ed era finita a terra, rischiando persino di ferirsi con le
falci.
“Lavorare
un campo è un lavoro molto duro. Non è qualcosa che una bambina dovrebbe o
potrebbe fare.”
“Mi
dispiace…”
Da
quando era arrivata tra loro, umili contadini della regione d’intorno l’un
tempo fiorente Kiev, ora abbandonata, la principessina, divenuta serva, aveva
stupito tutti per la sua docilità, che talvolta esternava in forme eccessive o
buffe. Già dopo aver trascorso un po’ di tempo insieme a loro ad esempio,
Katyusha aveva preso la buffa abitudine di scusarsi per ogni cosa.
Persino
per mancanze da nulla o che nessuno le avrebbe mai imputato, come far cadere il
secchio con l’acqua per gli animali, starnutire durante la messa, o non essere
in grado di reggere da sola attrezzi che non le toccava maneggiare.
Annodata
la fasciatura, la vecchia le passò una mano in faccia per far sparire via le
lacrime.
“Volevo
essere d’aiuto…”
“Ma
tu sei solo una bambina. Vieni via su, se vuoi ti insegno a cucire, così potrai
aiutare i grandi quando farà freddo facendo loro delle calze.”
“Ma
io voglio aiutarli nei campi. Dobbiamo produrre abbastanza per noi ed Orda
d’Oro.” –piagnucolò mentre la conduceva fuori dall’isba tenendola per mano.
“Ah,
Katyusha, sei una bambina così premurosa… Ma non serve che ti sforzi tanto se
anche impegnandoti non puoi farcela, piccola come sei. Chissà, forse quando
crescerai…”
Nel
cuore dell’estate, Ucraina afferrò il forcone e raggiunse il campo senza alcun
problema.
Era
bastata una stagione ed era stato come avesse vissuto alcuni anni per conto suo.
I
primi giorni furono i più duri, non abituata ad ore intere sotto il sole
cocente e gli schiaffi del vento: malgrado l’energia con cui cominciava, finiva
sempre nel solito modo, col sentirsi dire di non sforzarsi non così tanto, quando
inevitabilmente, stremata, era costretta a fermarsi.
Alle
contadine erano riservati i compiti meno faticosi, come pungolare i buoi che
tiravano l’aratro condotto dai loro mariti, legare in fascine il grano man mano
che veniva tagliato, rastrellare e raccogliere in mucchi il fieno dopo la
falciatura.
Katyusha
invece, oltre ad eseguire tutti questi compiti, non si tirava indietro dall’impugnare
di persona la falce, e percorrere campi interi, centinaia di metri, fino a
farsi sentire i crampi alle braccia, che il giorno seguente la costringevano al
riposo forzato.
Riuscirono,
con sfoggio di autorevolezza, ad impedirle di aiutarli così tanto, almeno nella
sua prima estate.
Trascorsero
altre primavere ed altre estati.
Era
occorso del tempo, ma semina dopo semina, raccolto dopo raccolto, Ucraina notò
che non si stancava più così presto come prima, e cominciò a reggere sempre meglio
il ritmo di quei più robusti contadini uomini, che dicendosi di non poter
essere da meno della loro Katyusha, come ispirati da un nobile e coraggioso
condottiero, non si concedevano riposo se non era prima lei a cedere.
Ogni
sera tornava a casa stanca morta, ma il mattino dopo era sempre tra i primi a
recarsi a lavoro. Arrivò presto, ascoltando con passione chi aveva più
esperienza, ad imparare tutti i segreti di quell’attività che alcuni definivano
umile e sottovalutavano, ma che invece senza la giusta tempra, che certo mai
avrebbero avuto, non sarebbero mai riusciti a fare.
Negli
anni seguenti, il tributo arrivò sempre puntuale e nella quantità richiesta, e,
scherzosamente, i ruteni del sud ebbero a dire che, vistili in difficoltà, la
loro terra aveva dato loro una mano.
Nulla
di più vero.
Fertile,
rigogliosa, e soprattutto gentile e amorevole, la piccola Ucraina era cresciuta
apposta per loro, diventando una ragazza bellissima e dotata di una forza
straordinaria che non proveniva dai suoi muscoli.
Una
forza che non si sarebbe mai detta per una donna, specialmente una così
abituata a chinare il capo e chiedere scusa ad ogni effimero motivo di
dispiacere altrui, prodiga di attenzione più per i fastidi degli altri che per
i propri.
Anche
quando il suo corpo crebbe, e divenne simile a quello di una giovinetta in età
da marito conservò quella sua infantile abitudine, che la condizione di
sottomessa le aveva portato. Eppure, malgrado tutta quell’insicurezza, non
c’era giorno che non portasse a termine il proprio lavoro, e che non si
scusasse per non aver potuto fare di più.
Una
volta si scusò persino di essere donna e non uomo…
Ma
forse era solo un po’ di imbarazzo dovuto al fatto che, la sua improvvisa
crescita si era manifestata ancora più evidente in una certa parte del corpo, e
non era riuscita ad abituarcisi da subito.
Gliel’avevano
anche detto, le anziane, una sera mentre filava la tela con loro, dinanzi il
camino.
“Fai
attenzione agli uomini d’ora in poi, Katyusha.”
“Perché?”
“Perché ora che non sei più la loro “piccola” Katyusha, potrebbero guardarti
con occhi diversi. E i loro occhi si poserebbero proprio lì.” -disse la sua
“nonna” più premurosa indicando con l’indice ossuto.
Ucraina
poggiò le mani sul petto come a volersene accertare: “Ma… Non è poi così
cresciuto.” –provò a sminuire.
“Ma continuerà a farlo, e già adesso è grandicello per quelle che mostrano la
tua età.”
“Lo
è sul serio?”
“Guarda
dove si posano gli occhi degli uomini quando ti parlano o quando ti chini a
raccogliere il fieno e lo saprai!” -le rispose ridendo la più maliziosa,
lasciandola non poco spaventata…
In
fondo, se era nella sua natura ricalcare le terre che rappresentava, quale modo
migliore per dire al mondo che nel Rus non ve n’erano di più “prosperose”?
Il
ciclo delle stagioni si ripeté ancora e ancora, ognuna coi suoi compiti, ma la
sua preferita restava l’estate, con il suo infinito carico di lavoro da compiere
sotto il sole che picchiava.
Ucraina,
dal ciglio del dolce colle su cui sorgeva il villaggio, si fermava ogni mattino
ad ammirare i campi che la attendevano.
Era
un paesaggio di due colori, uno più magnifico dell’altro. Se alzava gli occhi,
si perdeva in un azzurro profondo, limpido, pulito, se li abbassava si
spandevano le spighe del frumento pronte da falciare, un tappeto di fili giallo
splendente che ogni anno tornava a promettere loro fatica e ricompensa.
Sarebbe
stata felicissima di avere una bandiera con quei colori, anche senza nessuno
stemma complicato a impreziosirla.
In
effetti uno stemma lo aveva: anche se alcuni dicevano che fosse un falco in
picchiata, ma a lei piaceva di più pensare fosse un forcone, come quello che
aveva imparato ad usare con maestria senza farselo cadere addosso. Senza offesa
per la falce che aveva in mano in quel momento, ma come strumento evocava
immagini un po’ troppo cupe…
Si
specchiò in quel paesaggio e si sentì felice.
Nulla
come osservare il grano salutarla in un mattino dolcemente ventoso le faceva
dimenticare le disgrazie che le erano capitate e la miseria in cui ora viveva.
Miseria?
Come poteva essere miseria?
Aveva
così tante cose di cui essere felice: aveva ritrovato in quei contadini una
nuova casa e una nuova accogliente famiglia adottiva, aveva ammirato la
bellezza del mondo come era veramente e non come la si apprezza dalle mura di
un palazzo o da una città, aveva scoperto la soddisfazione che sa darti un duro
lavoro quando sai che lo hai portato bene a termine; aveva imparato tante cose
nuove, a usare la zappa, a condurre l’aratro e l’erpice, a curare la vigna, i
metodi giusti per la trebbiatura, riconoscere e separare la paglia e la pula…
Ma
prima fra tutte, aveva appreso una nuova dote.
L’umiltà,
senza la quale una nazione non può arrivare a capire che sa chi è, e che
cos’ha, può essere felice anche senza essere potente.
Compì
qualche passo tra le spighe, carezzandole e lasciando la carezzassero,
annusando a pieni polmoni come fossero una distesa di fiori.
Neanche
il pensiero di suo padre era più motivo di nostalgia e tristezza, perché ora le
era chiaro il suo desiderio di continuare a viverle accanto per sempre, quando,
molto tempo prima, l’aveva portata in giro sulle sue spalle, proprio in quei
campi.
“Sei davvero bellissima Ucraina, non è
vero?”
Ora
capiva il senso di quelle parole e l’insegnamento che allora era troppo piccola
per capire, ma che ora avrebbe portato dentro di sé per sempre.
Ora,
ogni volta che le veniva da sorridere, quando ammirava un campo rigoglioso come
quello, sentiva che anche suo padre era felice.
Strinse
nel pugno sinistro un mazzetto di grano e col falcetto nella destra tagliò a
due terzi dell’altezza: le spighe sarebbero servite a sfornare del buon pane,
mentre la stoppia sarebbe stata passata col falcione più tardi per fornire foraggio
ai loro animali.
Avrebbe
finito solo al tramonto, quando, rincasando esausta, avrebbe trovato il riposo
e la compagnia delle sue amiche e delle sue nonne infinitamente dolci.
La
servitù non è poi così male, pensò, e la gloria passata non deve per forza
corroderti dentro coi suoi rimpianti se non vuoi, se hai qualcosa che consideri
ben più importante del semplice orgoglio.
Ormai,
l’unico tesoro che le era rimasto, di quelli che la gente non esita a definire
tali, era il frontino d’oro che aveva indossato al funerale di suo padre, che
indossava sempre per tenere sistemata la frangia.
Quando
quell’anno venne il Natale, riuscì ad offrire al suo villaggio e a quelli
vicini un banchetto coma mai se ne aveva ricordo, con doni per grandi e
piccini, tanto riuscì a ricavare dalla sua vendita.
Il
nastro azzurro con cui l’aveva sostituito le piaceva molto di più, specie per
il modo in cui il suo colore si intonava col biondo dei suoi capelli.
Come
facevano il suo cielo e la sua terra.
NOTE STORICHE
Al termine della battaglia del Lago
Ghiacciato, gli armigeri russi furono accolti trionfalmente nella vicina Pskov,
importante città alleata di Novgorod, precedentemente ripresa dagli stessi
teutoni, capitale di un piccolo principato.
Con la vittoria, Alexander Nevsky, che
ormai godeva di un prestigio indiscusso,si assicurò il ruolo di principe di
Novgorod ancora per molti anni: tale carica infatti, essendo lo stato una
repubblica, non era ereditaria, bensì veniva conferita per chiamata a un
importante figura straniera e, nel caso il suo operato non risultasse gradito,
poteva essere ripudiato e cacciato dalla popolazione. Era insomma un ingaggio a
termine, la cui prima e più importante funzione era quella di capo
dell’esercito.
I territori dell’Ucraina di oggi erano
in larga parte sotto il diretto dominio del Khanato dell’Orda d’Oro: benché i
mongoli fossero una popolazione nomade, a partire da questo periodo iniziarono
a divenire maggiormente stanziali, come dimostra anche la fondazione della loro
capitale, Saraj, che finì per diventare un popolosissimo e importantissimo
centro sulla via della seta.
Le “yurte” sono le case mobili tipiche
delle popolazioni nomadi dell’Asia, ancora oggi in uso: http://it.wikipedia.org/wiki/Yurta
L’agricoltura nel medioevo era una delle
attività principali: senza le moderne di oggi, la resa dei terreni era
relativamente bassa e il rischio di carestia era sempre in agguato.
I cereali (grano, segale, orzo, farro…)
erano il principale tipo di coltivazione. La semina avveniva in due periodi
dell’anno, una in autunno (varietà “invernali”) e una in primavera (varietà
“primaverili”, che richiedono più irrigazione ma producono meno raccolto
rispetto al tipo invernale), e la maturazione del raccolto avveniva in estate,
che era il periodo dell’anno più faticoso per il contadino, sia per la mole di
lavoro, sia per le condizioni climatiche.
Nei paesi freddi, come appunto quelli
della regione russa, si sfruttava la neve come coperta durante l'inverno e come
acqua nel periodo primaverile garantendo cosi raccolti abbondanti; l’Ucraina
comunque godeva e gode tuttora di un clima molto più mite rispetto alle regioni
settentrionali (la Russia appunto), ecco perché è da sempre stata il “granaio”
della regione, come l’Egitto lo era per l’Impero Romano.
La prosperità della terra ucraina è
stata intelligentemente resa dall’autore della serie Hetalia dando al
personaggio in questione un grande seno, risaputo simbolo di fertilità sin dai
tempi antichi…
Lo stemma della nazione ucraina a cui fa
riferimento Katyusha è appunto un forcone (o secondo altri un falco in
picchiata): http://www.symbols.net/flags/_img_nations5/ukraine_coa.png
Fonti sull’agricoltura medioevale:
http://www.cde-bagnoaripoli.it/cde/agromidage2/buoni/ara1.htm
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Capitolo 10 *** Radiosa illusione ***
Ciao
a tutti, rieccomi qui!
Passata
una buona Pasqua? Mangiato parecchio? Io si… XP
Ovviamente
ho fatto un po’ di festa anch’io dallo scrivere, per questo il nuovo capitolo
si è fatto attendere, non che non mi abbia dato dei grattacapi, come del resto
questa fanfic in genere: è molto impegnativa sapete, anche nell’organizzare i
capitoli e le scene da inserire o da tagliare per evitare di abbuffare la
povera testa del lettore con nomi, date, eventi, tutti rigorosamente che hanno
a che fare con la Russia… Per me che mi sto documentando di continuo ormai
manca poco perché mi metta un colbacco in testa e mi attacchi alla bottiglia di
vodka… >__>
Venendo
al sodo, il precedente capitolo ci ha fatto un po’ riposare, ma la sabbia nella
clessidra del tempo riprenderà ora a scorrere. Ivan si sente forte e sicuro
insieme ad uno dei migliori capi che mai gli siano capitati e gli capiteranno:
che la resa dei conti con il terribile Orda d’Oro non sia poi così lontana?
Buona
lettura!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
CAPITOLO 10 – Radiosa illusione
Dopo
la battaglia del Lago Ghiacciato, la stella di Alexander Nevsky continuò a
splendere, negli anni sempre più fulgida.
Forte
del servizio reso alla repubblica e del prestigio conquistato presso il suo
popolo, restò capo di Novgorod ancora per molti anni dopo quel grande giorno,
durante i quali continuò a rafforzare i confini del nord-ovest: fece la pace
con la Norvegia, e gli svedesi, meno inclini a trattare, vennero nuovamente
respinti.
Quel
ragazzo dai ricci bruni che a soli vent’anni era divenuto il vincitore della
Neva, in breve tempo divenne anche l’eroe dell’intero Rus, un esempio e una
speranza in quell’epoca oscura di teste chine e vessazioni.
Quando
suo padre, il vecchio Jaroslav morì, si aprì la contesa che lo avrebbe portato
a divenire anche principe della sua terra natia.
Suo
padre, come gli altri principi ruteni, non aveva potuto che sottomettersi ai
mongoli per salvare sé stesso, le sue città e il suo popolo; il che avrebbe
significato anche la sua rinuncia, e quella dei futuri sovrani, a decidere i
propri eredi.
Alexander
e suo fratello minore Andrey si appellarono entrambi a Batu, il khan di Altan,
Orda d’Oro, affinché si stabilisse chi dei due sarebbe divenuto nuovo principe
di Vladimir.
Il
favorito di Batu era Alexander, la cui fama si era spansa fino a lui, e che stimava
per la forza e le capacità dimostrate nel difendere le “sue” terre dalle mani
dei teutoni.
Ma
il Gran Khan dei mongoli, colui che sedeva nell’oriente più lontano, da dove il
flagello aveva avuto inizio, al quale era rimessa la decisione finale, scelse
Andrey.
E
soltanto per fare uno sgarbo a Batu, che non sopportava.
In
seguito però, i tentativi di Andrey di cospirare con le nazioni dell’occidente
ai danni degli stessi che lo avevano insediato arrivarono alle orecchie di
Sartak, il figlio di Batu: egli giunse prontamente con un potente esercito da
Saraj, per deporlo e insediare al suo posto il fratello maggiore.
Quest’ultimo
divenne fratello di sangue dello stesso Sartak, “anda”, nella lingua del suo
popolo, fratello dunque di colui che sarebbe divenuto nuovo khan, e a sua volta
lo stesso Batu lo riconobbe come figlio, per il legame che lo univa al suo
erede, per le qualità in lui che ammirava, e per la lealtà dimostrata.
Tale,
da fargli denunciare la sua stessa carne, Andrey, a Sartak.
Solo
chi gli era più vicino, come Ivan e sua madre, seppe di quanto gravosa fu per Alexander
tale decisione.
Ma
entrambi non esitarono a mostrargli sostegno, ribadendogli di aver preso la
giusta decisione, per sé stesso e per tutti.
Vladimir-Suzdalia,
stringendogli forte la mano in un momento di sconforto, arrivò a confessargli
che, potendo decidere da sé, lo avrebbe preferito mille volte ad Andrey come
proprio capo: era più abile di lui nel comando, era amico fraterno del futuro
khan, ascoltato e rispettato quindi, oltre che da tutti i russi, anche da quei
barbari che con tanto sdegno solitamente guardavano i loro vassalli.
Da
coloro che avrebbe governato e da coloro per conto dei quali avrebbe comandato.
In
fondo poi, il fratello maggiore era lui: quel trono gli era sempre spettato,
oltre ad esserselo ampiamente meritato, gli disse.
Nessuno
gli avrebbe mai rinfacciato la sua decisione di tradire il traditore, anche se si
trattava di suo fratello, anche se chi voleva tradire erano i loro nemici.
Con
l’appoggio e la benevolenza di Sartak e di suo padre, Alexander ottenne così il
consenso al trono, lo yarlik.
Con
quella parola, i mongoli designavano chi aveva il ruolo di riscossore dei
tributi; senza di esso nessun figlio di principe avrebbe mai raccolto il
lascito di suo padre.
Fu
così che ad Alexander Nevsky venne concesso di prendere il posto che gli
spettava a Vladimir, dove egli venne infine incoronato, col titolo di Gran
Principe.
In
quanto yarlik, avrebbe avuto la responsabilità che i russi del suo regno, dal
più nobile al più umile, pagassero all’Orda quanto dovuto ogni anno, e, in
quanto Gran Principe, sarebbe stato responsabile anche per tutti gli altri al
di fuori.
E,
checché ne pensassero loro, superiore ad essi.
Fu
così che Ivan vide il suo amico, un giovane intrepido come lui, trasformarsi in
un maturo e assennato principe: rampollo incerto pure di ereditare il suo
stesso trono, divenuto ora il punto di riferimento di tutti i suoi zii, di
tutti i russi.
Era
contento; non avrebbe potuto sperare in un futuro migliore il giorno in cui
l’aveva conosciuto. Restò al suo fianco, se non come consigliere, data la sua
inesperienza, almeno quale amico fidato e membro di spicco della sua druzhina.
I
due si esercitavano insieme con la spada, andavano spesso a caccia insieme nei
boschi, o cavalcavano affiancati nelle steppe nel bel tempo dell’estate;
durante una di queste battute, Alexander gli fece conoscere il suo anda,
Sartak.
Questi,
in barba alla fama del suo popolo, si dimostrò una persona posata e socievole,
che si offrì persino di insegnargli, come aveva fatto col suo principe, a
tirare frecce direttamente dalla sella, anche col cavallo al galoppo.
Fu
la prima volta che Ivan dovette cercare di rapportarsi in maniera amichevole
con un mongolo: malgrado i tentativi (non voleva mettere in imbarazzo il suo principe),
Alexander avvertì a pelle la forzatura a cui si sottoponeva anche solo nel
cercare di parlare al suo fratello di sangue, e resosi perciò conto che forse
era troppo presto per lui, evitò ulteriori incontri tra i due.
Per
gli affari di stato invece, il punto di riferimento del Gran Principe restava
sua madre, la saggia “grande Olga” come la chiamava lui, in riferimento al suo
ritrovato potere, ma anche, con scherzosa affettuosità, al suo ampio girovita.
Fu
a cominciare dal periodo in cui fu suo capo che Vladimir-Suzdalia divenne,
anche più di Novgorod, che restava più ricco ed esteso rispetto a lei, il
principale tramite tra Orda d’Oro e i suoi vassalli russi, ed ogni volta che si
recava a Saraj, era lei ad accompagnarlo, mentre Ivan restava a badare alla
loro casa durante la loro assenza.
Malgrado
Alexander riuscisse ad imbastire rapporti tanto amichevoli, il giogo a cui
erano sottoposti continuava a pesare. Suo zio Chernigov ad esempio si era
ritrovato a piangere il proprio principe, Mikhail, martirizzato dai mongoli
perché aveva acconsentito di inchinarsi dinanzi al loro khan, perché gli pareva
giusto in quanto suo vassallo, ma non al fuoco e alle effigi del khan Genghiz,
perché era cristiano e non idolatra.
In
compenso, grazie a lui la sua famiglia, sul punto di frantumarsi dopo
l’apocalisse del 1240, e anche prima di quel momento, aveva ritrovato unità,
stringendosi sotto la sua guida.
Il
Rus di suo zio Kiev non esisteva più, ma quello del Gran Principe Nevsky non
voleva farlo rimpiangere, anzi dava da pensare che il Rus non fosse mai stato
abbattuto o addirittura fosse già ritornato, forte e dorato come una volta.
Ci
volle del tempo perché Russia realizzasse che anche quella non era che una
delle tante illusioni che così facilmente finché sei giovane ti costruisci e
stringi a te, fin quando sei nel tempo dei sogni, in cui ogni desiderio è
realizzabile e non senti limite a ciò che il tuo fuoco può bruciare.
Alexander
invece, a differenza sua, aveva natura di uomo, e la sua gioventù era già
finita da un pezzo quando capì di dover ammansire quella fiamma che troppo si
era alzata in lui a causa sua.
Due
guardie spalancarono i pesanti battenti della porta; agli inviati mongoli si
presentò così la sala grande del palazzo di Vladimir, dove erano attesi. Era
poco più lunga che larga, rischiarata da grandi finestroni su un unico lato. Il
trono era situato sul fondo, opposto alla porta, in cima a due gradini rialzati
rispetto al pavimento.
Dinanzi
ai gradini, sull’attenti, due robuste guardie in cappotto di pelliccia armate
di ascia e scudo.
Al
di sopra di essi, al fianco del Gran Principe stavano i suoi due possedimenti,
nonché più fidati consiglieri, alla sua destra Vladimir-Suzdalia, alla sua
sinistra Novgorod.
Disposte
all’in piedi in due ali che lasciavano libero il passaggio fino al Gran
Principe, una trentina di persone: boiari, anche degli altri principati,
scrivani ed altri funzionari, oltre ad alcuni diaconi in rappresentanza del
metropolita. A costoro, Ivan aveva ceduto i primi posti, tenendosi dietro come
nascosto, per rispetto e per modestia, ma grazie alla sua altezza non aveva molte
difficoltà a scorgere cosa accadeva oltre le punte dei cappelli dinanzi a sé.
Erano
lì presenti poi, anch’essi più avanti rispetto a lui, altri dei suoi zii,
venuti al seguito dei propri boiari. Come ogni volta che giungeva il tempo di
pagare i dovuti tributi, i più importanti dei russi erano convenuti lì per
accogliere ed ascoltare i messi di Orda d’Oro: da quando c’era il Gran Principe
Nevsky a fare loro da illustre portavoce, i suoi parenti avevano preso a farsi
vedere più spesso dalle loro parti, per simili importanti occasioni o eventuali
altre udienze, e anche questo era uno dei meriti che gli attribuiva, potendo
passare più tempo con loro.
Zio
Tver era appena qualche passo da lui (sebbene non ne vedesse che la punta del
colbacco, basso com’era), mentre dalla parte opposta riusciva ad adocchiare,
l’una accanto all’altra, inseparabili come sempre, zia Galizia e zia Volinia,
l’una con la sua solita aria da gallina arcigna, e l’altra tranquilla e
rilassata nel suo abituale perdersi con lo sguardo un po’ dove le capitava.
Lo
sbattere degli stivali degli araldi inviati da Altan sbattevano risuonava con
baldanza sul pavimento, smorzato un poco dal tappeto rosso che faceva loro
strada verso il trono. Come la gran parte degli edifici delle loro città,
eccetto quelli difensivi del cremlino, anche la residenza del sovrano era
costruita quasi interamente in legno, e in ogni stanza, sala o corridoio ai
passi rispondevano i dolci, quasi sonnolenti tonfi delle assi di abete o di
castagno. Di legno erano anche le colonne decorative, intagliate e colorate,
che sostenevano i soffitti, dai quali pendevano pesanti lampadari indorati,
simili a quelli altrettanto grandi e stupendi che adornavano le loro cattedrali
ortodosse. Colorate e simili alle loro chiese erano anche le pareti, sulle
quali stavano dipinti santi e principi del passato, i cui occhi si aggiungevano
a quelli degli altri spettatori nel seguire i loro mal sopportati esattori passare
in mezzo a loro.
Erano
cinque, e uno di loro, che si distingueva per il colore giallo acceso delle
vesti e per un alto cappello di pelle colorato allo stesso modo che portava sul
capo, riverì velocemente il signore dei russi prima di parlare.
“Orda
d’Oro ci manda a te, yarlik Alexander, per prendere quanto gli è dovuto.”
“I
tributi di Vladimir e degli altri principati sono già stati raccolti ed
approntati.” –rispose la grande Olga, autorizzata, come il fratello, a parlare
in suo nome- “Vi verranno consegnati quanto prima affinché possiate ripartire e
portarglieli.”
Di
solito, a meno di non esservi importanti notizie da riferire a una parte o
all’altra, agli inviati non restava che anticipare il compiacimento di chi li
aveva mandati con qualche salamelecco e ritirarsi, approfittando
dell’ospitalità fin troppo generosa che avrebbero dovuto concedergli durante il
loro soggiorno.
Si
fece avanti un secondo mongolo, più anziano e vestito di verde smeraldo, che
cominciò a parlare non badando a reverenze: “Egli ci manda a riferire a te che
controlli i suoi russi le sue nuove richieste.”
I
“suoi” russi? Il solito gradasso, pensò Ivan. Come se non ne fosse già stato
abbastanza indispettito, si domandò subito cosa fossero queste “nuove
richieste”: forse riteneva di non sfruttarli ancora abbastanza?
Vladimir-Suzdalia
scambiò un’occhiata con Novgorod e, tenendo a freno la lingua, fece
implicitamente cenno al messo di proseguire.
“Egli vuole che i russi gli consegnino almeno cinquecento puledri dei migliori
per le mandrie del suo esercito, e chiese che il tributo in oro, a partire da
quest’anno e per i prossimi cinque, salga di altre duecento libbre.”
Già
ad “oro” le persone intorno a lui avevano portato le mani tra i capelli,
sgranato gli occhi e spalancate le bocche. Già prima di “trecento”, la sala si
era riempita di uno sconvolto mormorio, che continuò a salire di intensità.
Ivan nascostamente diede un pugno alla colonna che aveva accanto: come
previsto, quel bastardo aveva avuto un aumento d’appetito, e non era certo la
prima volta che accadeva.
“Dovrai
riunire quanto richiestoti entro la fine dell’anno.” –proseguì il mongolo
vestito di giallo- “Alcuni di noi resteranno qui ad attendere il compimento del
tuo dovere di yarlik. In cambio di questo atto di fedeltà potrai continuare a
servirti dei suoi arcieri a cavallo nei tuoi eserciti, e promette di aiutarti
nella ricostruzione e l’espansione delle vostre città.”
Fedeltà?
Sottomissione semmai. Un boiaro particolarmente infuriato per poco non gli
pestò un piede nello sbattere gli stivali a terra. I diaconi intorno a lui si
coprivano il volto o lanciavano preghiere al cielo. Alexander al contrario
rimaneva seduto, assorto e silenzioso. La sua preoccupazione maggiore in quel
momento non gli dovevi venirgli da Saraj, ma piuttosto da casa sua, dove gli
animi si stavano scaldando sempre di più, dato ch su di lui ricadeva il peso di
far accettare e rispettare quell’ennesima iniquità a tutti loro.
“Come
fate a non avere abbastanza animali voi che praticamente ci vivete sopra?”
“Non
vi basta tartassarci, volte anche umiliarci, non è così?”
Incautamente
i due mongoli che avevano parlato non davano adito all’umore nero che li
circondava, continuando a rivolgersi unicamente verso il Gran Principe, unico
interlocutore che dovevano considerare degno di vedersi rivolta parola.
“Sono
richieste che potete affrontare per qualche anno.”
“Rammenta
che anche se sei nelle grazie di Batu, egli non perdona chi disattende le sue
aspettative.”
“Come
osate minacciare il Gran Principe, maledetti cani!”
“Quegli
altri non si sono neppure inchinati al suo cospetto!”
Ivan
ricevette un’altra spinta involontaria: il fatto che gli emissari continuassero
ad ignorarli non faceva che peggiorare il nervosismo. Purtroppo, quando il
mongolo in giallo si decise a darvi adito, sbagliò completamente parole.
“Yarlik
Alexander” –disse facendo un passo avanti- “Ti consiglio di tenere a freno il
tuo popolo prima che arrechi un offesa grave al tuo signore.”
A
quel punto il piccolo Tver uscì dalla ribollente fila di russi, dirigendosi
sprezzante verso gli ambasciatori: “E chi dice che a noi non dispiaccia
offenderlo?”
Si
udì una risata alla quale il mongolo provò a ribattere, ma si morse la lingua
vedendo i loro “riverenti vassalli” iniziare ad avvicinarsi. I cinque si strinsero,
cercando di farsi scudo gli uni con gli altri, e il verde e il giallo capirono
di aver dato a vedere di non tenere troppo alle loro vite, sia con parole tanto
sprezzanti, sia lasciando fuori gli arcieri della loro scorta.
I
diaconi si erano fatti da parte addossandosi alle pareti, lasciando che fosse
chi aveva un po’ meno a cuore di loro i comandamenti ad occuparsi di loro.
“Maledetti!”
“Schifosi!”
Tver
puntò il dito contro i cinque disgraziati, continuando ad aizzare: “Al diavolo
loro e il loro khan! Altro che oro: mandiamogli indietro le loro teste!”
Ivan
sorrise: zio Tver non gli era mai stato tanto simpatico come in quel momento.
Peccato
per loro, ma se l’erano cercata dopotutto. Dal canto suo, sarebbe rimasto lì
dov’era ad assistere, braccia incrociate, come davanti a uno spassoso
spettacolo di giullari o giocoliere, il cruento ma mirabile inizio della sua
riscossa.
Avevano
invaso la sua famiglia, lo avevano fatto soffrire, lo avevano costretto a piegarsi
e pagare, ma ora basta: quelli sarebbero stati i primi, e dopo di loro ogni
altro invasore sarebbe stato ricacciato nei deserti da cui provenivano.
Stavolta li avrebbe affrontati di persona, avrebbe affrontato Orda d’Oro di
persona, e non aveva tremato armato di parole, perché farlo ora che sapeva
impugnare una spada?
Il
cerchio intorno a loro si faceva sempre più stretto, e Ivan anche restando
fermo avvertiva la volontà in quelle mani di stringere, colpire e farsi
giustizia come fosse la propria, che cresceva ogni secondo. Non sapeva se era
la folla a contagiare lui o la Russia a contagiare la folla.
“Abbasso
il khan!”
“Linciamoli!”
Sparita
la capacità di mantenere la calma, restò solamente il Gran Principe a poter rialzare
gli argini di quel fiume di odio e ira che sentiva finalmente di poter
straripare.
“Fermi!”
Le
mani si ritrassero e i mongoli non riuscirono a credere di star respirando
ancora.
“Chiunque
oserà toccarli verrà immediatamente messo a morte!”
I
russi si allontanarono, ridistribuendosi ai due lati della sala, seguiti dal
minaccioso sguardo del Gran Principe, come pastore adirato in procinto di
bastonare le sue capre indisciplinate. Qualcuno guardò verso il soffitto, come
se i candelieri fossero stati scossi dalla sua voce e avessero preso a
penzolare.
Si
risedette sul trono e con un cenno fece avvicinare Novgorod al quale mormorò
qualcosa in un orecchio. Il mercante annuì e si allontanò.
Il
Gran Principe rivolse un sorriso ai suoi sgraditi ospiti, i quali vi si
aggrapparono come alla speranza di una mano a toglierli dal ciglio del
crepaccio sul cui fondo li attendevano cani affamati.
“Le
richieste dell’Orda saranno eseguite dai suoi vassalli russi come è loro
dovere: essi aspirano affinché vi sia sempre benevolenza dal vostro popolo al
loro.” disse parlando anche per quelli che avevano agitato pugni e mostrato i
denti fino a un attimo prima.
Novgorod
risbucò e si avvicinò ai cinque con altrettanti sacchetti di cuoio tra le
braccia, invitandoli a porgere la mano per consegnarglieli.
“Spero vogliate riferire al vostro signore, quando tornerete da lui, che il
vostro soggiorno qui sia trascorso gradevolmente e senza incidenti di alcun
tipo.”
Così
dicendo, Novgorod invitò con un sorriso il timoroso vecchio mongolo in verde a
prendere il suo sacchetto. Questi, constatato il rumore tintinnante, e
soprattutto il peso, scambiò una rapida occhiata coi suoi compagni di viaggio, che
subito annuirono; il mongolo in giallo si rivolse il Nevsky, ricordandosi un
piccolo inchino: “Non è successo nulla di spiacevole per noi, Gran Principe.”
Tver
gonfiò la bocca facendosi l’uno dopo l’altro di tutti i colori.
Ivan
osservò con disgusto quelle cinque facce giallastre gioire per il pericolo
scampato e il guadagno inaspettato.
Che
ne era della loro giusta ribellione? Come poteva Alexander mettere a tacere la
volontà della sua gente di torcer loro il collo con qualche manciata di denaro?
Che ne era del suo riscatto?
I
mongoli, congiunte le mani e piegata la testa, tutti e cinque insieme,
voltarono i piedi e uscirono, con malcelata fretta, dalla sala.
Andati
via, gli occhi dei presenti non erano che per colui che anziché mettersi alla
loro testa era rimasto fermo.
“Perché, mio principe?”
“Perché non avete respinto le loro richieste?”
“Siamo stufi dei loro soprusi!”
“Basta!”
“Fate
silenzio!” li zittì Moscovia, unica donna lì con l’autorità di rimettere a
posto gli uomini, affinché Alexander potesse parlare.
“I
mongoli non fanno altro che fare ciò che qualunque conquistatore farebbe coi
conquistati: chi vince ottiene ciò che vuole da chi è sconfitto, ed è così ovunque,
da ovest ad est e da nord a sud. Se dunque non hanno commesso nulla di
inconsulto, che motivo abbiamo di offenderci?”
“Signore,
il nostro oro, i nostri cavalli…”
“Ne
troveremo dell’altro e ne faremo nascere degli altri. La ragione del forte è
sempre la migliore e non si discute.”
“Mio
principe…”
“Non
è giusto!”
Alexander sollevò con noncuranza una mano: “Ritiratevi ora, se volete
continuate a lamentarvi, fatelo fuori di qui.”
La
ragione del forte, come aveva appena detto, non si discute, e il Gran Principe
era lui.
Ivan
fu uno degli ultimi a rassegnarsi a lasciare la sala, aspettando si
allontanassero per primi i boiari, tutti preoccupati per l’alleggerirsi delle
loro tasche, portandosi via le loro interminabili lagne. Cosa avrebbero dovuto
dire gli agricoltori a cui ogni volta veniva portato via quasi tutto quel po’
di ricchezza che possedevano?
Voltatosi,
notò Tver e Galizia avvicinarsi a sua madre, e non sapeva dire quale dei due
avesse la faccia più scura.
Non
sentiva cosa dicessero, ma dai gesti sembrava volessero invitarla a parlare
altrove.
Toltosi
gli stivali per fare meno rumore, Russia camminò sulle punte delle sue lunghe
calze di feltro rosse-amaranto, compiendo un largo giro tra i corridoi per
raggiungere un buon posto da cui sentire i loro discorsi.
Quando
arrivò a posizionarsi dietro l’angolo del muro, i toni non erano già dei più
posati.
“Il
tuo principe è un codardo, Vladimir-Suzdalia!”
Si
sporse un attimo. Con la coda dell’occhio vide il mantello di sua madre e, di
fronte a lei, suo zio Tver e le sue due zie, Galizia e Volinia, che
costituivano insieme un unico principato.
La
prima, ogni volta la squadrava, e non era l’unico ad avere la stessa
impressione, gli ricordava in tutto e per tutto una gallina o qualche altro
uccello: aveva un naso ricurvo a mò di becco, le guance scavate e gli occhi
piccoli ma penetranti, ravvicinati tra loro e sempre con un cipiglio come
infastidito. A farla sembrare ancora più un volatile (del resto ne aveva uno
sulla propria bandiera) ci si metteva il collo, sottile e lungo, che sbucava
dal colletto impellicciato della giacca bruna, indossata sopra una veste bianca
che scendeva a terra fino ai piedi con una cintura nera.
Sua
sorella Volinia era completamente diversa: il suo sguardo era pacato,
perennemente socchiuso, come avesse sonno. Il suo viso era più rotondo e le sue
forme meno spigolose. Non aveva cappotto, solo una veste azzurra dalla cintola
gialla, e tra le mani teneva un cappello coi copri-orecchie in pelliccia,
inutile al caldo riparo nel palazzo. Se la sorella maggiore poi non rinunciava
mai ad appellarsi in ogni momento ad ognuno dei tanti motivi che avevano per
essere orgogliose, lei, nella sua apparente indifferenza, faceva un maggiore
sfoggio di umiltà d’animo.
Si
assomigliavano solo nel biondo chiaro dei capelli, sciolti quelli di Galizia,
riuniti in due trecce ai lati del viso e una più grande e lunga dietro la
schiena quelli di Volinia.
A
dare del codardo ad Alexander era stata la prima, dotata dalla natura dell’aspetto
perfetto per le prediche, nonché di quegli occhietti da civetta che la rendevano
spaventosa quando li spalancava.
“Se
non sbaglio voleva che la chiamassimo Moscovia, sorella.” –la corresse Volinia,
che pur trovandosi lì non lasciava trasparire alcuna voglia di litigio, anche
per come provava a sviare il discorso.
Ma
Galizia andò avanti senza preoccuparsi di simili minuzie: “Ha paura di venire
sloggiato dal suo trono, ecco come stanno le cose!”
“No, non è affatto così.” –rispose a tono Moscovia, molto più calma- “Ha solo
valutato i rischi.”
“Si
è lasciato umiliare! Ci ha umiliati tutti schierandosi dalla loro parte! Andrey
invece…”
“Andrey
era uno sciocco, un incauto. Ci avrebbe condotti alla rovina.”
“Ma
almeno lui un tentativo di mettersi contro i mongoli lo ha fatto c’è da dire.”
“Non
siamo pronti ad affrontare di nuovo Orda d’Oro! Verremmo nuovamente sconfitti e
le nostre genti massacrate, Alexander lo sa, per questo vi ha impedito di
uccidere quegli emissari.”
Tver
spezzò il discorso con una risata: “Macché, Nevsky fa solo ciò che farebbe
chiunque nella sua condizione dopotutto: tenersi stretto il potere. In fondo è
comprensibile: se si ribella ai mongoli rischia di prenderle e di ritrovarsi
schiavo o peggio morto, se lecca loro i piedi resta bello che vivo a fare da
balia ai russi per conto loro.”
Vladimir
aveva cercato di far sfoggio di calma sperando questa conquistasse anche loro,
ma Tver come sempre aveva un vero e proprio dono nel farle perdere le staffe:
“Se ci tieni tanto ad andare a combattere Orda d’Oro fai pure, stupido nano!
Sappi però che al tuo funerale non sarò lì a piangere la tua stupida morte!”
Tver
le rivolse una smorfia, mentre Volinia si nascondeva la bocca.
“Un
traditore! Un traditore bello e buono!” –starnazzò Galizia.
“Lui
non è un traditore! È un buon capo e fa ciò che pensa sia meglio per i russi
che gli sono stati affidati.”
“E affidati da chi? Dai mongoli stessi!” –fece sprezzante Tver, voglioso di
sputare per terra tanto era nauseato- “È solo un cane da guardia che si tiene
stretto il suo osso, ma a me non la fa con quella sua aria da bravo principino!”
“È
un uomo cento volte migliore di te!”
“Guardatela
come lo difende!” –sghignazzò Galizia alzando il naso adunco con sprezzo-
“Ovvio che lo faccia: è grazie a lui che è diventata la più importante di tutti
noi, no? La più prestigiosa, la più forte, l’unica che Orda d’Oro sta a
sentire…” –le fece il verso guardandola dall’alto in basso.
La
vocina di Volinia la interruppe, riprovando, se non a fermare la discussione,
almeno ad affrontarla in toni più tranquilli: “Forse è vero che il Gran
Principe non vuole correre rischi, ma è anche vero, sorella Moscovia, che da
quando c’è lui stai ricevendo un trattamento di favore dai padroni. Non che
voglia insinuare qualcosa, ma sai com’è, con tutti questi benefici che ne stai
traendo è naturale che qualcuno qui abbia da ridire…”
E
chi meglio di lei sapeva che l’orgogliosa sorella era facile da far arrabbiare?
“In
altre parole il peccato che mi imputante è che Alexander sia nato da me e non
da voi, Volinia? Potrà anche favorirmi, ma ha cuore ognuno di noi. Senza di lui
vi andrebbe molto peggio.”
“Tenerci
tutti sotto il loro giogo per tenersi e rafforzare il proprio potere, ecco che
cosa gli sta a cuore.” finì il piccoletto barbuto.
“No!
Non è vero!”
“Forse
è vero…” –intramezzò Volinia che guardava il soffitto facendo finta di non seguire
il discorso.
Galizia
tornò a incalzarla: “Sorella Vladimir-Suzdalia, se mi sforzo arrivo anche a
capire le paure del Gran Principe, ma non è seppellendo la nostra dignità e
facendo ogni cosa ci dicono che cambierà qualcosa! Di questo passo non ci
libereremo mai di loro!”
“Anche lui desidera come voi che i russi siano liberi, ma non è ancora il
momento! Non ci libereremo mai di loro se continueremo a litigare fra noi
piuttosto!”
“Smettila
con questa sceneggiata, Vladimir-Suzdalia.” –ringhiò Tver- “Ammetti piuttosto
che il tuo santo principe è un uomo come tutti gli altri. Dal canto mio io non
sono più disposto ad accettare che sia tu la più importante di noi solo perché ti
è toccato avere per capo quel bellimbusto.”
Si
rassettò la sciarpa e drizzò il collo: “Io reclamo per me il titolo di gran
principato!”
“Tu?
Non essere ridicolo, Tver!” –ribatté Galizia, sbiancata anche lei quando il
fratello l’aveva sparata tanto grossa- “Il titolo di gran principato spetta
solamente a me e a mia sorella! Noi due abbiamo da sempre vissuto più vicine a
Kiev di chiunque altro, e molto di quello che era suo è passato a noi.”
“In
effetti poi il nostro sovrano è discendente dell’ultimo gran principe di Kiev.
Sarebbe giusto fosse lui il Gran Principe, no?” –fece notare Volinia.
“Tsk, vorreste assumere la guida del Rus solo perché eravate sue vicine di
casa?”
“Pensa
ad espanderti un po’ prima di dire scemenze. Il Rus, l’eredità di Kiev, è semplicemente
nostro diritto, e sai anche che io e mia sorella abbiamo la forza per
reclamarlo!”
Tver
le rise in faccia: “A me sembra una gara ancora aperta invece, non trovi,
Vladimir-Suzdalia?”
Moscovia
più che arrabbiata sembrava invece sofferente: constatava con impotenza che le
sue parole, che non erano ordini, come suonavano alle loro ottuse orecchie, ma
preghiere, non venivano ascoltate.
I
suoi fratelli, corrosi dall’invidia, accecati dalla prospettiva di poter essere
il nuovo Kiev, non riuscivano a capire, ma forse in fondo nemmeno volevano.
“Eredità
di Kiev… Ma cosa state dicendo? Vi sembra questo il momento di mettervi a
battibeccare su chi sia il più importante e chi no? Se ci dividiamo facciamo il
gioco dei mongoli!
“Già,
mi sa per l’appunto che tu abbia tutto da guadagnarci a fare il gioco dei
mongoli, vero, sorella?”
Moscovia
si morse un labbro; se almeno Novgorod fosse stato lì a darle una mano, ma lui
aveva chiarito di non voler essere coinvolto in quella bega.
“Cosa
vi prende? Perché mi date della traditrice? Non ho subito anch’io le vostre
stesse umiliazioni? Non pago anch’io i tributi come voialtri?”
Tver
scrollò le spalle: “Macché traditrice… Ipocrita semmai. Fai tanto la buona e
vorresti dirci cosa è bene o male per noi, ma intanto ti servi dei mongoli per
accrescere la tua influenza. Né tu né il tuo principe mi incantate, te l’ho
detto, ma come ho anche detto ritengo sia una cosa normale pensare prima a sé
stessi. Sapete che è quello che ho sempre fatto, no?”
Persino
Galizia e Volinia furono concordi nella loro occhiata di disprezzo.
“Non
guardatemi così voi due: lo sapete che sono un tipo rude, uno che bada alla
sostanza, non ai sentimentalismi.”
Tver
puntò il viso dell’ormai affranta e rassegnata sorella con due occhietti
affilati come pugnali: “Non ti permetterò di essere l’unica a guadagnarci da
questo sfacelo, è arrivato il momento che mi prenda anch’io la mia parte di
gloria, sorella. Alla fine si vedrà chi sarà il vero liberatore e chi comanderà
sui russi.”
Galizia
si batté il petto: “Noi ovviamente! Chi se non noi due?”
“Meglio
non ostentare tutta questa sicurezza, sorella…”
Tver
si incamminò in una direzione, senza saluti o commiati; subito dopo, Galizia si
avviò nell’altra, invitando la sorella a sbrigarsi a seguirla.
Vladimir-Suzdalia,
rimasta sola a vederli allontanarsi, sentì una fitta nel petto, un anticipo di
ciò che sapeva doveva aspettarsi dai tempi a venire.
A
quanto pareva, la sua famiglia non era poi così unita come gli era sembrato…
Ivan,
appiattitosi contro la parte per evitare di essere visto dallo zio al suo
passaggio, tornò sui suoi passi, sperando di trovare gli stivali dove li aveva
lasciati… Come avrebbe potuto dar torto al povero servo di passaggio se avesse
deciso di approfittare della sbadataggine del tipo che aveva lasciato
abbandonato un così bel paio?
Con
sua sorpresa, vicino ad essi trovò pure Alexander.
“Ti
diverti a fare la spia di palazzo, Ivan?”
Arrossito,
Russia si inginocchiò, approfittandone per allungare una mano verso gli stivali.
“Non
è un gesto dei più nobili ascoltare le conversazioni altrui.”
“Non
stavate allora spiando voi stesso me che spiavo, mio signore?”
Alexander rise: “Appena ti ho visto sono subito tornato qui ad aspettarti, non
ti ho spiato, né disturbato visto quanto eri intento.”
Infilò
gli stivali e chinò il capo per prendere commiato, ma il suo principe lo fermò
subito.
“Ivan.
Cosa vuoi dirmi?”
Inutile tentare di divincolarsi dal discorso insomma. Prima o poi comunque
sarebbe morto dalla voglia di farsi spiegare i tanti perché che gli avevano
riempito la testa, e inevitabilmente sarebbero stati faccia a faccia, come in
quel momento.
“Perché,
mio signore? Perché avete accettato i nuovi tributi?”
Dinanzi
al suo scuotere la testa, Russia reagì come insultato.
“Per
quanto ancora quei dannati dovranno governarci a bacchetta? Voi siete il Gran
Principe, se prenderete le armi contro di loro tutti gli altri vi seguiranno
nella lotta!”
“Una
lotta che ci costerà altri lutti, altri campi bruciati, città rase al suolo,
massacri, e forse neppure questo prezzo basterà alla vittoria. Orda d’Oro è
ancora troppo forte per noi in questo momento.”
Troppo
forte, troppo grande… Quante volte l’aveva sentito? Era più che sconfortato,
era deluso, deluso che anche Alexander Nevsky, dopo tante epiche imprese,
decidesse di fermarsi lì, a un passo dall’essere il più grande di sempre.
“Ti
ricordi quando combattemmo al lago dei Ciudi?” -gli domandò.
“Certo.”
“Mi
dicesti che Dio era dalla parte del giusto, non del forte.”
“È
così. Ma anche il più giusto degli uomini, se si infila nella tana di un orso,
difficilmente ne esce vivo. Il Signore ha a cuore il popolo russo che soffre e
lo libererà. Ma non adesso! È troppo presto Ivan, le cicatrici dell’ultima
invasione devono ancora rimarginarsi.”
Avrebbe
dovuto esserne conscio visto che quei segni di cui parlava, per la sua natura
straordinaria, gli sarebbero sempre rimasti, dentro come fuori, per sempre
vivi. Ma Russia si era così intestardito da non aver paura di soffrire ancora,
pur di lanciarsi in quell’impresa, pur di non essere più lo schiavo di un
simile arrogante.
“Troppo
presto? Le loro pretese aumenteranno ancora! Arriveranno a prendersi anche
l’aria che respiriamo di questo passo prima che facciamo qualcosa! Sei
Alexander Nevsky, hai tenuto insieme il Rus, lo hai fatto tornare forte, perché
non ti decidi a salvarlo? Dobbiamo combattere! Dobbiamo scacciarli!”
“Ivan!”
Non
avrebbe dovuto rivolgerglisi con il “tu”; con il trascorrere degli anni, era
capitato gli sfuggisse, più arrivava a vederlo come un amico e un fratello
piuttosto che un capo. Alexander comunque tollerava lo facesse di tanto in
tanto, visto che vedeva lui nello stesso modo.
Proprio
perché erano arrivati a capirsi così bene, sapeva cos’altro c’era, oltre alla
voglia di riscatto come nazione, oltre alla promessa a cui si era votato,
dietro quel suo ribollire e scalpitare, come un cavallo che ricevuto il colpo
di redini vorrebbe scattare, lanciarsi alla carica con tutte le sue forze, ma
non può per il cappio che lo tiene legato al palo.
Il
suo viso si rilassò, divenendo gentile, ma velato di quella pacatezza che viene
dalla tristezza, dall’impotenza: “Tu vuoi che sia io, non è vero?”
“……”
“Vuoi che sia io a liberarti. Che sia io a condurre te e i tuoi zii contro Orda
d’Oro ancora una volta.”
Sorrise
e ridusse di un passo la distanza tra loro due: “Vorresti rivedermi come quel
giorno, sul mio cavallo, con il cimiero sul capo, guidarti alla carica verso il
tuo riscatto e un nuovo splendore, non è così?”
Gli
occhi di Ivan si fecero lucidi. Avvicinandosi riusciva a vedere quanto
velocemente l’uomo di quel giorno lontano fosse cambiato.
La
sua barba era più folta, i suoi capelli ingrigiti, i suoi occhi aggrottati, e
nel campo che era la sua fronte l’aratro del tempo aveva già impresso i suoi
primi leggeri solchi.
Gli
carezzò la testa: “Ivan, amico mio, patria mia… Il tuo giorno arriverà. Ma non
sarò io a farlo arrivare. Sarai libero, potente, manterrai le tue promesse e
soddisferai ogni aspettativa, ma sarà qualcun altro e non io a far ciò che
accada. Orda d’Oro è troppo forte adesso: non lo sarà per sempre, ma continuerà
ad esserlo per molto, molto tempo. Più tempo di quello che il Signore mi
concederà di vivere.”
Ivan
lasciò uscire un unico singhiozzo prima di sforzarsi a ricacciare dentro tutte
le lacrime.
“È
troppo presto Ivan, mi spiace.”
Gli
carezzò ancora il capo e poi il Gran Principe di Vladimir si accomiatò,
lasciandolo solo a fissare le punte dei propri stivali.
No,
non ce l’avrebbe mai fatta. Lui era ancora debole, i suoi familiari erano
ancora divisi, e l’Orda era perciò doppiamente insuperabile per lui.
Era
passato ancora troppo poco tempo.
Ed
Alexander era arrivato troppo presto.
Tutto
qui.
Gli
anni che seguirono scorsero, tranquilli o quasi, sotto lo splendore della sua
guida e sotto l’ombra dell’Orda, sempre presente sopra di loro come un falco
arrogante e affamato, ma servirono ugualmente ai russi per riprendersi dalle
devastazioni subite. Alexander si impegnò a restaurare la prosperità
precedente, ricostruì fortificazioni e chiese distrutte, dettò leggi nuove e
fece rispettare quelle vecchie, esercitò la giustizia cercando di essere paciere
tra occupati e occupanti, di ridurre per quanto possibile le loro pretese, di
ottenere sempre il meglio che poteva da quelli per il suo popolo.
Finché
si avverò come aveva detto.
Era
l’anno del Signore 1263, e Ivan, salutatolo mentre partiva insieme a sua madre
alla volta Saraj, attese sulle mura il suo ritorno con gli abiti neri del
lutto.
Anche
l’araldo che lo aveva anticipato a Vladimir piangeva nel riferire la notizia.
Lungo
la via del ritorno, a Gorodets, Alexander, ammalatosi, era spirato.
Quando
il feretro giunse in città, una gran folla lo accolse e lo seguì, spargendo
fiori davanti il suo passaggio, fino alle soglie della Chiesa della Natività
della Santa Madre di Dio, laddove per sempre avrebbe riposato il santo principe.
Si
è spento il sole sulla terra russa: così il metropolita Cyril aveva annunciato
dall’altare a tutto il popolo.
Caso
aveva voluto che la sciagura avvenisse d’inverno, proprio quando il sole è così
flebile e lontano da sembrare sul punto di spegnersi dietro le nubi, come
l’ultimo tizzone ancora rosso in mezzo al nero della cenere.
La
fiamma che ardeva lassù in cielo sarebbe tornata a splendere come sempre in
primavera, ma non Alexander, che non era stella, solo ramo robusto, destinato
non ad ardere in eterno ma a divenire prima o poi semplice cenere, spenta per
sempre.
Non
ci sarebbe stato mai più un principe come lui, disse anche, mentre diaconi,
monaci, poveri, nobili, servi e liberi chinavano il capo, riconoscendo che ciò
era vero.
Dai
finestroni i giochi di luce sembravano voler mantenere tutto nel buio fuorché
la bara e i chierici che cantavano e pregavano intorno ad essa.
Nei
primi banchi della chiesa stavano seduti vicini Ivan e Vladimir-Suzdalia.
Appena dietro di loro sedeva zio Novgorod: Alexander aveva avuto la mano
pesante con lui per tenerlo, insieme al suo riottoso popolo, unito con lui alla
guida del Rus, ma nonostante tutto, il buon vecchio Dmitriy l’aveva sempre
stimato, e la sua riconoscenza per le volte in cui l’aveva aiutato e salvato
dai pericoli andava oltre i torti subiti in seguito.
Ivan
discostò gli occhi dalle spirali dei fumi dell’incenso che il metropolita
spargeva intorno alla bara, rivolgendosi alla madre.
“Che
cosa succederà ora? Che ne sarà di noi?”
Vladimir-Suzdalia
gli afferrò una mano e lo strinse, svelandogli, come un’indovina, ciò che
sarebbe accaduto.
“Senza
Alexander, il Rus cesserà di esistere, stavolta sul serio. I tuoi zii
inizieranno a litigare tra di loro per accaparrarsi il gran principato, in
cerca di potere e prestigio per riunire a sé i russi, e intanto Orda d’Oro
cambierà di continuo alleanze per alimentare ancora di più l’astio. Quelli di
loro più deboli invece dovranno lottare per sopravvivere, perché altri
stranieri, come i teutoni, non mancheranno di gettarsi su delle prede facili. In
quanto a me, i fratelli e i figli di Alexander faranno la stessa cosa: ognuno
di loro andrà da Batu a cercare di farsi riconoscere lo yarlik sui suoi domini,
e combatteranno tra loro per mantenerli o ampliarli. Ci aspettano tempi molto
complicati, Ivan.”
Somministratagli
l’amara medicina, gli lasciò la mano, di modo che meditasse, e traesse le sue
conclusioni.
Si
era lasciato prendere troppo dai suoi primi successi, illudendosi di poter
mantenere la sua promessa nell’arco della vita di un solo uomo, seppur così
grande.
In
un certo senso, gli aveva fatto bene; ora che l’entusiasmo era passato sapeva
come stavano realmente le cose.
La
sua strada come nazione, la sua storia, non era che appena cominciata.
Non
sapeva se l’avrebbe percorsa gloriosamente o in sordina, se la grandezza lo
avrebbe ricompensato o se avrebbe trovato solo delusione e dolore.
Non
sapeva dove lo avrebbe portato, ma sapeva che sarebbe lunga, ancora molto
lunga.
NOTE STORICHE
Sartak, figlio del khan Batu e in
seguito khan anch’esso dell’Orda d’Oro, è ricordato per la sua profonda amicizia
con Nevsky, e si dice che costui fosse anche riuscito a convertirlo al
Cristianesimo.
(http://upload.wikimedia.org/wikipedia/en/4/45/%D0%90%D0%BB%D0%B5%D0%BA%D1%81%D0%B0%D0%BD%D0%B4%D1%80_%D0%B8_%D0%A1%D0%B0%D1%80%D1%82%D0%B0%D0%BA.jpg)
Alexander Nevsky, finito il suo mandato
come principe a Novgorod, continuò a controllare la repubblica attraverso il
fratello, Vassily, praticamente imposto come principe in sua vece. Questo
scatenò però il malcontento della città, sicché Nevsky fu costretto a
intervenire con la forza in più di un’occasione contro Novgorod.
Nevsky, assicurandosi uno stretto
controllo su due degli stati più prestigiosi e potenti della Russia del dopo
Kiev, e una predominanza morale sugli altri, voleva forse impedire un’eccessiva
frammentazione dei resti del Rus di Kiev (che sarebbe giunta in seguito), che
avrebbe permesso ai mongoli di comandare i russi ancor meglio.
Non si conoscono per certo le ragioni
della sua decisione di tenere la Russia sotto il dominio dell’Orda, senza
accennare ad alcun moto di opposizione.
Per alcuni egli scelse saggiamente di
non trascinare il suo popolo in una lotta da cui sarebbero scaturite nuove
distruzioni, dopo quelle già subite nel 1240, contro un nemico ben oltre la sua
portata.
Per altri la sua scelta fu dettata
semplicemente dall’interesse personale di mantenere saldamente le sue conquiste
mettendosi al servizio dei mongoli, compiacendoli per aumentare il proprio
potere e il prestigio della sua Vladimir.
Quale che fosse la verità, durante il
suo ultimo viaggio a Saraj, ritornando dal quale si ammalò e mori nel novembre
del 1263, si era recato lì per chiedere, ottenendolo, che venissero ridotte le
imposte che gravavano sui russi; né mai, pur avendo combattuto per l’Orda
numerose volte, levò per loro la spada contro altri della sua gente.
I mongoli non avevano un particolare
interesse verso la Russia, considerandola una zona marginale del loro impero:
l’importante era che in quanto vassalli non mancassero mai di versare i tributi
richiesti, e che lo facessero era responsabilità degli “yarlik”, ovvero coloro
che avevano la facoltà di riscuotere i tributi per conto dell’Orda nei vari
principati.
In altre parole era come una “patente”
per governare, un sistema con il quale i mongoli tenevano in pugno le sorti del
Rus, sicché senza la quale nessun principe era tale, e non poteva ottenerla se
non prostrandosi a loro, i veri capi.
Il titolo di “Gran Principe” (“Velikij
Knjaz”) implicava, quantomeno in maniera formale (per dirla alla latina “primus
inter pares”, primo tra pari), la supremazia sull’intero Rus, e appartenne per
secoli a Kiev, fino alla sua decadenza.
Già prima del 1240 tale titolo,
prestigioso e ambitissimo, era divenuto oggetto di contesa, e i principati più
potenti che si avvicendarono nei secoli seguenti lo arrogarono per sé, bramosi
di farsi portatori dell’eredità di Kiev e guida delle sorti russe.
Tra la fine del XIII e il XIV secolo emersero
in particolare i principati di Galizia-Volinia (sorto in regioni delle odierne
Ucraina e Bielorussia), di Vladimir/Moscovia, e di Tver, che del secondo fu
acerrimo nemico e al quale arrivò a strappare il gran principato in più di
un’occasione…
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Capitolo 11 *** Visite proficue ***
h
“Priviet”
a tutti, cari lettori! Si, ormai ho studiato storia russa al punto di salutarvi
in russo… XD
Bentornati
alla nostra appassionante (si spera, faccio del mio meglio, eh? XP) biografia
dello psicopatico più amato di Hetalia! Questo capitolo sarà più che altro una
tranquilla (per Ucraina un po’ meno…) transizione rispetto ai precedenti, cui
seguirà nel prossimo un salto temporale. Questi ultimi saranno più frequenti in
effetti man mano che si andrà avanti (vi risparmio i periodi più noiosi XD): ci
sono un sacco di bei momenti storici da raggiungere, nemmeno troppo lontani
^__^
Andiamo
quindi a vedere un po’ cosa bolle nel pentolone della Russia medioevale: faremo
la conoscenza approfondita di un altro importante zietto, e le varie domande
della serie “Che fine ha fatto?” sui vari personaggi avranno le loro risposte
(ci sarà pure un cameo di alcuni altri personaggi della serie!).
E
se siete appassionati di anime e manga e avete voglia di vedere un po’ Napoli,
non mancate al Napoli Comicon questo fine settimana (io da un po’ di anni non
me lo perdo mai)! ^__^
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS: Link con la colonna sonora consigliata per la lettura saranno inseriti
lungo la storia ^_^
CAPITOLO 11 – Visite proficue
Furono
tempi veramente duri da vivere.
Oscuri,
faticosi, pericolosi. Per coloro la cui vita scorse attraverso di essi non
furono che la normalità da accettare, la realtà delle cose così come l’avevano
conosciuta, tremenda e non di rado ingiusta.
Quelli
che sarebbero venuti dopo al solo pensiero si sarebbero ritenuti fortunati; ma
ancora più di loro quelli come lei, che avrebbero vissuto intatti pure i secoli
futuri, guardandosi indietro, si sarebbero resi conto, sul serio, di quanto quelle
epoche fossero state un profondo abisso, nel confrontare quel passato con i nuovi
presenti in cui si erano ritrovati.
Ignoranza,
superstizione, carestie, pestilenze, ma soprattutto guerre, razzie, violenza senza
fine.
Molti
trascinati alla sofferenza per l’ambizione di pochi.
Coloro
che erano deboli potevano tenersi lontani da tutto ciò, benedetti dalla fortuna
con un’esistenza di povertà, ma quieta, come potevano anche esserne divorati,
prede facili dei forti, che tutto comandavano, tutto avevano e tutto bramavano,
e quando volevano, prendevano.
Tempi
in cui nascendo era già deciso il tuo futuro: se avresti mangiato, o se avresti
lottato per avere da mangiare, e per non farti mangiare a tua volta.
Tempi
in cui molte nazioni ancora fragili come lei perirono di morte violenta, mentre
quelle che sopravvissero accumularono cicatrici su cicatrici, ricordi uno più
doloroso dell’altro.
Vennero
all’improvviso. Il rintocco delle campane della chiesa li precedette e li
accompagnò nel loro giungere, falciando la pianura coi loro cavalli, veloci
come uno sciame di locuste.
Calpestarono
i campi, abbatterono staccionate, sfondarono usci per tirarne fuori le persone,
uccisero chi accennava a resistere, di modo che nessuno potesse avere la stessa
idea.
Una
volta scaraventati fuori, dall’alto dei loro cavalli li osservavano mentre si
contorcevano come formiche calpestate in preda al terrore, con occhio attento e
metodica crudeltà, e sceglievano, come si sceglie il grano buono dalla crusca,
quelli che facevano al caso loro, segnandone la sorte.
Non
che quella di coloro che venivano risparmiati fosse migliore: non una delle
loro preghiere giungeva alle loro orecchie lì in alto, né una delle loro
lacrime a quegli occhi indifferenti, mentre li privavano dei loro cari.
Impotenti
ma resi coraggiosi dalla disperazione, tentavano di avvicinarsi, di farsi udire
in quel frastuono di urla, botte e pianti, di raggiungerli e arrivare a
toccarli; e venivano spinti via, malmenati, bastonati con la stessa identica violenza
che si trattasse di un uomo come di una bimba o di una vecchia. Cercavano di
stringere le loro mani, tirarli via per le vesti, ma queste sarebbero scivolate
via da loro, stracci fatti volare via da un vento troppo forte per loro.
Chi
cercava la fuga si vedeva quasi subito sbarrare la strada da uno o più cavalli,
che nitrendo, impennando e scalciando, lo ricacciavano indietro vicino agli
altri.
La
spietatezza dei padroni si rifletteva nelle cavalcature contagiati dallo stesso
male.
Identici
a mandriani, li conducevano e li radunavano in un unico punto, tutti vicini;
frastornati, terrorizzati dalle urla, confusi dai cavalieri che giravano in
cerchio, arco alla mano, ad impedire tanto nuove fughe quanto che gli altri si
avvicinassero, si guardavano intorno in quella gabbia e sembravano più animali
che uomini.
Quelli
più robusti venivano resi innocui rinchiudendoli in gogne di legno che ne
bloccavano la mani e il collo, o legati ai polsi con ruvide corde, o al collo
l’uno con l’altro, affinché avessero sempre le gambe libere di modo che a
portarli via fossero i loro stessi passi.
Bestie
che facevano bestie di altri uomini. Disgraziati, condannati alla schiavitù.
“Lasciateli
stare!”
Katyusha
gridava tra gli altri e stringeva il suo forcone, senza puntarlo contro
alcunché, tenendolo semplicemente vicino al petto, come volesse nascondersi
dietro quel bastoncino con tre punte. Si disse che doveva gettarlo: nessuno
faceva caso a lei, occupati com’erano, ma se si fossero accorti dell’attrezzo
che “brandiva”, avrebbero potuto intenderla come una ribellione e attaccarla.
La paura di quell’eventualità ebbe il sopravvento; buttatolo per terra, iniziò
a correre verso il punto in cui avevano radunato il loro gregge di sventurati,
rischiando subito di venire travolta da un cavallo in corsa, incurante, come il
suo cavaliere, di dove metteva i piedi e chi calpestava.
“Fermatevi!
No! Fermatevi subito!”
Nel momento in cui un altro cavallo le passò velocemente dietro le spalle, avvertì
un qualcosa che le si avvolgeva intorno al collo. Il suo primo istinto fu
quello di dar fiato alla bocca ma nello spazio di un attimo una brusca stretta
le tolse la parola. Avvertì un forte strattone tirarla in dietro, strangolarla
e toglierle l’equilibrio, poi un nuovo strattone, stavolta verso avanti, che la
fece cadere a terra sulle quattro zampe, sbattendo dolorosamente gomiti e
ginocchia nel terreno fangoso.
Tossì
e affamata d’aria iniziò a succhiarne il più possibile attraverso la gola
dolente. Girò la testa e seguì il bastone a cui era legato il cappio che le era
stato messo collo fino all’estremità opposta, nella mano del mongolo in groppa
al suo sbuffante bestione.
“Sta
al tuo posto.” –scosse di nuovo bastone e, chiusa nel cappio, la testa di
Ucraina sbatté a destra e a sinistra. I capelli, sporcatisi nella caduta,
ricadevano scompigliati su tutta la faccia. La ragazza però non osava alzare la
testa e mostrarla; di lei si facevano avanti solo le mani tremolanti, che
pregavano clemenza.
“Scusi…
Mi scusi…”
Era
uno dei baskak, i governatori locali con cui Orda d’Oro controllava le sue
regioni, lo riconosceva dall’armatura diversa rispetto a quella dei suoi
soldati, con un elmo dalla cui cima svolazzava un lungo crine nero di cavallo.
“V-vi
prego…”
Mangiò
altra aria: non l’avrebbe mai sentito da lassù se parlava così piano. Strinse i
denti come da essi potesse spremerne un po’ più di coraggio.
“Vi
prego… Lasciateli stare… Prendete tutto quello volete…”
“Quello
che vogliamo possiamo già prendercelo da noi.”
A
conferma della sua lapidaria risposta, accanto ai due passò tutto contento un
altro mongolo che, con un bastone col cappio identico a quello che imprigionava
Katyusha, si stava portando via il loro maiale più grasso.
Che
se lo portassero pure, pensò, che si prendessero anche tutte le loro scorte:
vivendo in quelle condizioni aveva anche imparato che un po’ di fame ogni tanto
la devi sopportare.
Che
si portassero via il cibo, via anche tutti gli oggetti che possedevano, via
anche le loro case se avessero voluto smontarsele pezzo a pezzo, ma non potevano
prendere delle persone.
A
una ventina di passi da lei avevano appena finito di radunarli, e ancora più di
loro aveva pietà di quelli che sarebbero rimasti: orfani senza mamma, anziani
genitori senza figli al letto di morte.
“No!
Vi prego… Lasciateli! Lasciateli!”
Il
cavaliere pensò di strattonarla ancora un po’, ma se ne guardò, non tanto per
pietà, quanto perché non era la cosa più saggia dato che sapeva di chi si
trattava. Lei era un possedimento di Orda d’Oro in persona, e non poteva certo
malmenarla più del necessario come fosse roba sua.
“Hai
compassione di questi altri?” –domandò notando il modo in cui ogni volta
puntava gli occhi sui vecchi e i bambini in lacrime, se ne distogliesse subito.
“Se
è così possiamo ucciderli tutti in modo che non soffrano per la perdita.”
Ucraina
si portò le mani alla bocca, graffiandosi le labbra, come colpevoli di aver
peggiorato la situazione.
“Così
ti sentiresti meno afflitta? E sia. Dimmi che è questo che vuoi e ti
accontenterò.”
E
dal tono di voce capì che avrebbe preso molto sul serio le sue parole:
ucciderli o non ucciderli per lui era del tutto uguale.
“È
questo che vuoi?”
“No! Mi perdoni! Mi perdoni! Mi… perdoni…”
Soddisfatto
delle sue scuse, con un gioco di polso il mongolo sfilò il cappio dal collo
arrossato della ragazza.
I
cavalieri si disposero tutto intorno il loro bottino, celandolo agli adii della
gente che restava rassegnata a guardare le loro schiene allontanarsi; non più
veloci, come erano arrivati, ma rallentati dal passo strascicato degli uomini e
delle donne al loro interno, come una pancia piena che fa lento e ciondolante
il sazio. Ci volle molto perché sparissero oltre la portata degli occhi, e per quelli
che vollero osservarli fino all’ultimo fu un penoso strazio che non voleva
saperne di finire e che sembrava aggiungere il sapore acre della beffa.
Ucraina,
ferma dove l’avevano gettata, si
riempiva la testa delle loro facce. Quanto avrebbe voluto non conoscerli uno
per uno, non saperne i nomi, né il mestiere, né il numero di bambini e bambine
per i quali si toglievano il cibo da bocca ogni giorno: non sarebbe stato così
terribile, forse.
E
per i loro parenti e i loro amici? Quanto soffrivano più di lei?
E
il villaggio? Ora che le loro braccia migliori non erano più lì per aiutarli
nei campi di che si sarebbero sfamati?
Ricominciò
a divorare l’aria con lunghi sibili: l’umiliante cappio era ancora lì a
bruciarle sul collo e a toglierle il fiato.
Alle
sue spalle, nella strada rimasta vuota, arrivò trascinandosi una delle sue
nonne. Si era sentita chiamare da lei, come la luce del fuoco attira a sé le
falene, ed era subito arrivata.
Facendo
forza sul bastone, si piegò lentamente in ginocchio nel fango; afferratole il
viso, la fece girare e la lasciò piangere sul proprio scialle.
“Mi
dispiace… Mi dispiace…”
Rieccola,
pensò la vecchia: sempre a scusarsi di tutto quel che accadeva. Per cosa
stavolta? Che nel mondo esisteva il male? Cosa centrava lei se i forti, anziché
proteggere, vogliono solo dominare?
“Perdonatemi…”
“Non
devi scusarti. Non è stata colpa tua.”
“Si,
invece!” –alzò la voce, stringendo lo scialle tra le unghie- “Sono il vostro
paese… e non sono nemmeno in grado di proteggervi!”
Le
poggiò una mano in testa, ma non si azzardò a risponderle, ad opporsi a quella
sua così desolante convinzione dicendole che non era vero, per quel che valeva
l’opinione di una vecchia.
Rimase
zitta, come a volerle dare ragione, conscia che a volte è meglio così.
Con
i bambini ci si affanna a consolarli, a dire sempre che non è niente, e si fa
tutto il possibile per farli smettere di piangere: ora era cresciuta, e dunque
era tempo, se tenevano al suo bene, che nessuno le dicesse più quando si stava
sbagliando, ma che decidesse da sé quando aveva ragione e quando colpa.
Non
serviva rassicurarla: non avrebbe che spento ancora una volta quella rabbia e
quella frustrazione che aveva dentro, e che anche a un cuore puro come il suo possono
servire per aprire gli occhi, e crescere.
Meglio
lasciarla piangere, lasciarla pensare per conto suo, e decidere da sé quel che
era e quel che invece voleva essere, la nazione che desiderava per tutti loro.
Meglio
lasciarla scusarsi quanto voleva, ora che non aveva mai sentito così forte il bisogno
di farlo.
Sarebbe
stato ancora una volta il suo solito scusarsi a vuoto, o ne sarebbe uscito
qualcosa di buono, sentiva domandarsi da ogni lacrima di sua nonna nel caderle
tra i capelli.
Da
quel giorno orrendo, da quella pesante colpa che si era attribuita, Ucraina
avrebbe dovuto trovare tutta da sola la forza di scuotersi, e usarla per
cambiare quel destino troppo duro da sopportare anche per lei.
In quel momento certo lei ignorava tutte queste cose: era solo un semino, che
innaffiato dal dolore, ancora non sapeva in cosa sarebbe germogliato.
Ma
forse, finalmente, avrebbe incominciato a farlo.
L’azzurro
chiaro del cielo e le poche nuvole bianche promettevano una stupenda giornata.
Peccato che così a nord, anche nei giorni più belli e assolati, il clima
dovesse metterci la mano per dimostrarsi all’altezza della sua fama.
Il
vento di quel giorno non era particolarmente forte, ma particolarmente gelido;
serpeggiava vivace come un ruscello d’acqua di neve per i viottoli e le vie,
tra le case, le botteghe e i mercati dell’imbiancata Novgorod.
La
città di suo zio era più grande e più bella di Vladimir, e la loro ancora
giovane Mosca non era nemmeno paragonabile.
In
fondo c’erano altre città con chiese tanto alte e mura così robuste, ma ancora
non ne aveva veduta una che fosse così attiva quanto quella, la cui vitalità lo
colpiva ogni volta aveva occasione di passarvi. E dire che non erano nemmeno i
suoi anni migliori.
Velikij
Novgorod era stata costruita sul fiume Volchov, nel punto in cui nasceva dal lago
Il'men'. Le navi che volevano
giungervi dal Baltico dovevano compiere dunque un lungo tragitto, risalendo
prima il corso della Neva fino al Ladoga, e poi da esso immettersi nel Volchov
e risalirlo fino alla città.
Non era una zona delle più belle: non solo era appunto
parecchio a nord, dove il clima non dava quasi mai tregua, ma era anche
circondata da acquitrini, che seppure la difendevano dai nemici, non
concedevano molta terra da cui trarne da vivere con l’agricoltura o con
l’allevamento.
Ma allo zio i campi non erano mai interessati: lui
aveva il cervello fino, così dicevano tutti in famiglia. Si era dedicato al
commercio ed aveva rapidamente avuto fortuna. Dopotutto la sua era la terra in
cui “gli animali da pelliccia piovono dal
cielo”, e di pellicce, pregiate o meno che fossero, ce n’è sempre bisogno;
anche quella che indossava sua madre l’aveva acquistata da lui (con un forte
sconto per parenti).
Ma
la città non viveva solo di pellicce: ferro, cera, miele, colla, pece, il
preziosissimo sale, tutto poteva essere trovato lì, e venivano a fare acquisti
anche da fuori della Russia, dalla Scandinavia e dalla Germania. Coi soldi che
guadagnava, e aiutandosi con la pesca, suo zio riusciva a sfamare la sua gente,
ed era riuscito a diventare importante e rispettato, senza dover fare a botte
con nessuno, se non per difendersi. Era proprio grazie alla sua attività di
mercante che sapeva così tante cose, apprese incontrando sempre genti nuove, il
che ne faceva anche un ottimo cantastorie, con sempre qualche racconto nuovo o
fatto curioso sugli stranieri da tirar fuori dalla tasca per strabiliarlo: non
a caso, dopo Kiev, era sempre stato lui il suo zio preferito.
Per
gli stessi motivi però era anche un tipo molto indaffarato.
Per
un po’ di tempo erano stati più vicini visto che c’era stato Alexander a
comandare sia su di lui che su sua madre; ora però era sparito di nuovo,
assorbito dai suoi tanti affari, ed era passato un sacco di tempo dall’ultima
volta che si erano incontrati senza qualche occasione particolare, tanto per
parlare tutto il tempo che volevano.
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/e/e8/Novgorod_torg.JPG/800px-Novgorod_torg.JPG
Per
raggiungere casa sua, Ivan doveva passare per il mercato principale: una volta
attraversatolo, avrebbe trovato il ponte che univa le due parti della città,
quella commerciale e quella fortificata, con il cremlino e la cattedrale. Sulla
piazza antistante ad essa, in cui, al suono della campana si riuniva la veče, abitava in una solida casa di
pietra il vecchio Dmitriy il mercante, ovvero, la Repubblica Mercantile di
Novgorod (il suo nome completo).
Ivan
non era un tipo frettoloso, ma il pensiero di trovarsi al più presto al riparo
sotto un tetto incitava i suoi passi attraverso la folla che ghermiva le
strade, attorniate da botteghe e bancarelle, a volte completamente tappata da
carri o palchetti su cui i commercianti presentavano, sgolandosi, il meglio che
avevano da offrire ai fortunati acquirenti che passavano di lì.
Il
motivo della premura non erano altri che il vento, che sapeva avergli reso la
punta del naso rossa come una bacca di pungitopo. Il cappotto era pesante, ma
gli spifferi si prendevano gioco di lui camminandogli impunemente dentro il
colletto e infilandosi sotto la stoffa, accapponandogli la pelle ogni volta il
soffio diveniva più forte.
Dannato
il freddo, ora e sempre; e non era nemmeno inverno. Di quel passo la sua gola
sarebbe stata troppo malridotta per le lunghe chiacchiere che si profilavano.
Giunto
in vista del ponte, prese la decisione di avvicinarsi ad una promettente
bancarella, dietro la quale una signora ossuta con un fazzoletto colorato
legato intorno la testa, invitava i passanti ad osservare le sue stoffe.
Cercò
un po’ e trovò una sciarpa che faceva al caso suo. Si tolse un guanto per
verificarne la qualità, ed era indubbiamente buona. Anche il colore chiaro gli
piaceva e gli venne pensare, improvvisandosi un attimo signorina, che si
sarebbe abbinato bene col colore dei suoi capelli. Intanto, la donna dietro la
bancarella non gli toglieva gli occhi di dosso, nel caso il ragazzo con
quell’aria così raccomandabile fosse un malandrino deciso a filarsela con la
sua mercanzia. Sembrava non vedesse l’ora, nel caso, di avvisare il marito, un
nerboruto impellicciato che contrattava a due passi da lei su alcuni metri di
panno con un altro cliente. Gli venne da ridere: in effetti non era per niente
carino star lì ad accarezzare quella striscia di lino color latte così a lungo
senza poi comprarla.
Forte
del fatto di aver accumulato un po’ di risparmi negli ultimi tempi, riempì la
mano della signora di moneta sonante, con la quale comprò, oltre alla sciarpa, il
suo cordiale saluto.
Avvolse
la sciarpa nuova intorno al collo martoriato dal vento e questa si adagiò sulla
pelle, morbida, promettendogli che il freddo non sarebbe stato più un problema
d’ora in avanti.
Doveva
vestirne più spesso si disse.
Attraversò
il posto di guardia all’ingresso della città fortificata è arrivò così nella Yaroslavovo Dvorishche, la Corte di Yaroslav.
La veče fortunatamente non era in
seduta al momento: sarebbe stato difficile attraversare lo spiazzo gremito di
gente di ogni risma ad occuparne la gran parte.
Suo zio Novgorod infatti, a differenza di sua madre
e tutti gli altri suoi zii non era un principato. Per la verità, un principe ce
l’aveva, ma aveva poco potere e, se si comportava male o si dimostrava
incapace, era suo zio stesso a buttarlo fuori a calci… A comandare da lui era
quindi l’assemblea cittadina, dove vi partecipavano non solo i boiari, ma anche
i mercanti, e poteva capirlo, e persino i semplici cittadini.
Gli suonava strano come sistema, ma lì sembrava
funzionare bene…
Là,
tra gli edifici religiosi, governativi e militari della Corte, si trovava anche
una casa in pietra, molto grande e a un solo piano, messa su in un’ottima
posizione: non era che a due passi tanto dalla chiesa la domenica, quanto dal
lavoro i giorni in cui il campanile richiamava i cittadini a consiglio.
Afferrò
il battente e picchiettò tre colpi, su ciascuno dei quali un po’ di neve gli
cadde in testa dal tetto spiovente.
“Arrivo.”
–fece una voce familiare dall’interno.
Novgorod
era un uomo di mezza età, molto alto e dagli occhi verdi, il cui viso era
incorniciato da una lunga e folta barba nera, che dalla mandibola risaliva
davanti le orecchie unendosi alle basette, le quali ancor un po’ più su
sparivano sotto un berretto verde di feltro con il bordo di pellicciotto.
Dell’identico verde scuro del cappello era anche il suo cappotto, stretto in
vita da una cintura, da sotto il quale spuntavano le punte nere dei suoi
stivali.
Non
appena vide il nipote, le sue labbra si spalancarono, mettendo in mostra, come
sempre succedeva quando rideva, una grande bocca e un sorriso ampio che, in
mezzo a tutta quella barba scurissima, sembrava per contrasto brillare.
“Russia!
Nipote mio! Ce l’hai fatta vedo!”
“Priviet, zio!”
http://tonycocchi.deviantart.com/art/APH-Ancient-Russia-OC-Ivan-s-uncles-292646177
Nell’abbraccio,
le guance rosse sferzate dal vento del ragazzo dovettero vedersela con quelle
ben più ruvide dello scaltro mercante, e dovette stringere un po’ i denti per
resistere a così tanto affetto!
“Entra,
avanti! Stavo lavorando, ma l’ospite prima di tutto! Specie se si tratta del
mio bravo nipote.”
Spazzatosi
via la neve dalla testa e dai bordi degli stivali, Ivan entrò, poggiando gli
occhi un po’ qui e un po’ là.
“Siediti
pure, io torno subito.”
La
sala in cui si entrava era molto grande, rettangolare, con la porta sul lato
più lungo. Vi spiccava un enorme pilastro squadrato di legno, vicino al quale
stava uno spesso tavolo di noce dalle gambe intagliate. Dietro il tavolo e
vicino la finestra un mobile con cassetti e ripiani stipati di fogli, libri e
oggetti in disordine. Ben più attenta era la disposizione delle cose sul suo
banchetto da lavoro. Stava in un angolo sulla destra, vicino a una finestra che
dava la luce sul leggio; solo la piuma d’oca, posata frettolosamente accanto al
calamaio, faceva da dettaglio fuori posto, e gli dimostrava che era rimasto all’opera
fino a un attimo prima di sentir bussare.
Voltandosi
verso la sua sinistra, la sala proseguiva ben lunga, finendo in un grande
camino di pietra, ampio mezza parete, e continuandosi poi a destra in altre
stanze; Ivan non si spinse ad esplorare, aspettando nei pressi del tavolo lo
zio che raccoglieva l’occorrente per riceverlo degnamente, ingannando l’attesa
dando un’occhiata alle sue cose. Tra i suoi cimeli adocchiò un libretto, forse
un vangelo, le cui lettere greche sulla copertina ne attestavano la provenienza
dalla lontana Bisanzio, una coppa d’argento con decorazioni in rilievo a forma
di ghirigori e draghi, e addirittura un elmo squadrato da cavaliere teutonico.
“Questa
è la prima volta che vieni da me tutto solo, senza tua madre; si vede proprio
che ormai ti sei fatto grande. E visto che ormai sei un uomo, meriti che io ti
accolga come un uomo: ecco qui!”
Poggiò
sul tavolo una bottiglia di vetro e due bicchieri un po’ svasati, invitando nel
frattempo con frettolosi segni il nipote a prendersi la sedia che gli stava
accanto.
“Avrai già cominciato a bere qualcosina ogni
tanto, no?”
“Veramente ancora no…” –ammise timidamente.
“Ma
come? Ancora no? Allora è proprio il caso di rimediare!”
Ridendo,
riempì generosamente uno dei bicchierini e glielo piazzò davanti. Ivan,
guardatolo un secondo, lo prese ed annusò, storcendo il naso all’inconfondibile
odore dell’alcol, ma restando al contempo colpito dall’aroma che emanava, del
tutto nuovo alle sue narici, e a primo acchitto gradevole.
“Avanti,
assaggia e dimmi! Fatti grande, nipote mio!”
Ivan
sorridendo alzò il boccale e poi se lo portò alla bocca: dopotutto aveva
ragione, era giunto anche per lui il momento di bere qualcosa “da grandi”. Il
battesimo alcolico gli provocò svariati colpi di tosse, ad ognuno dei quali
Russia aveva l’impressione di star sputando fuoco.
“Che…”
–tossì- “Che cos’è?”
“Un
distillato che si fa con la fecola delle patate. Lo fanno dalle parti della
Polonia. Si chiama vodka.”
“Vodka.”
–ripeté lui tossendo di nuovo.
“Tutto
bene? È solo che non ci sei abituato tutto qui. Ecco perché dobbiamo
provvedere: bevine un altro po’.”
“Veramente…”
–cominciò Russia, vedendo il liquido chiaro e limpido riempire nuovamente il
suo bicchierino.
“Abituati
nipote, abituati. Dai che ne prendo un po’ anch’io!”
“Alla salute allora!” –si arrese lui davanti il suo sorriso e finendo in tre
sorsi anche il secondo giro.
Dell’acqua
aveva solo l’aspetto, constatò il giovanotto stringendo le labbra per non
saltare dalla sedia.
Novgorod
gli diede una pacca sulla spalla: “Direi che può bastare: non voglio certo
farti vomitare o peggio svenire sul pavimento: sarebbe un brutto ricordo della
tua visita qui.”
“Però
devo dire… che non è poi troppo male… Forse un po’ diluita…” –disse con la voce
flebile di chi cerca di riprendersi dopo una batosta.
Novgorod
portò via la vodka e l’andò a posare nell’armadietto con la neve in cui la
teneva alla giusta temperatura. Tornato nel salone, prese un piccolo braciere
di bronzo, ne aprì il coperchio per buttarci dentro qualche altra pietra di
carbone e, richiusolo, lo poggiò sul tavolo. Mentre lo zio andava a sedersi davanti
a lui, Ivan approfittò della sua ospitalità per togliersi i guanti e scaldarsi
un po’ le mani.
“Allora,
Russia, come sta tua madre? Ancora euforica?”
Ivan
sorrise. Da quando Daniil, il più piccolo dei figli di Alexander era riuscito
ad ottenere dai mongoli lo yarlik sulla città di Mosca, era riuscita ad
assumere di diritto il nome che le stava tanto a cuore, Principato di Moscovia.
“È
contentissima: finalmente può dedicarsi anima e corpo a far crescere la sua
città.”
“Ci
è veramente affezionata.” –annuì lo zio- “L’ ultima volta che la vidi era un
insieme di casupole nella foresta senza nemmeno le mura. Ne avrà fatta di
strada da allora.”
“Un po’, ma deve ancora crescere.”
“Non
è un po’ faticoso per lei badare a due principati? Chi si occupa di Vladimir?”
“Beh,
ci sono io e poi, come sai, a darle una mano ci si è messo anche un certo
piccolo rospo rompiscatole…”
Novgorod scoppiò a ridere: “Ah, quel Tver! Il fatto di essere un bassotto non
ha mai rimpicciolito le sue ambizioni. Bisogna riconoscere che è un gran
temerario.”
“Avresti
dovuto vedere che faccia ha fatto davanti alla mamma quando il suo principe ha
ottenuto anche lo yarlik su Vladimir… Disgustoso! Ma sai che ti dico? Può pure tenersela
per un po’ Vladimir e credersi il nostro capo, nel frattempo a noi basta Mosca.”
“Sarebbe
un gran smacco per lui se riusciste a farla diventare un giorno Gran
Principato.”
“Per
ora lo smacco lo ha fatto lui a noi…” –si rabbuiò Ivan, costretto ad ammettere
che Tver, l’attuale Gran Principato, era un avversario temibile, anche con la
loro potenza così aumentata negli ultimi anni. Inoltre si vergognava un po’ al
pensiero che per il momento quello che più si opponeva concretamente all’Orda
era proprio lui, come dimostravano le brutte fini che facevano i suoi principi…
“Sono
vicinissimi e anziché allearsi bisticciano di continuo: non c’è dubbio, questa
storia della successione di Kiev li ha proprio presi.”
“Tu
sei potente zio, e molto importante, perché non…”
Lo
bloccò facendo una smorfia: “Oh, tienimi fuori da queste storie! Non ho alcuna
intenzione di spendere energie e pecunia a rincorrere il Gran Principato come
un cane rincorre l’osso. Lo lascio a quei due questo onore di riunificare la
nostra patria. Però chissà, non si dice che tra i due litiganti il terzo gode?
O dovrei dire le terze?”
“Zia
Galizia e zia Volinia?”
“Il
loro è un regno grande e potente, sono sempre state molto legate a Kiev, e per
l’appunto le nazioni in occidente considerano loro due le regine del Rus.”
Ivan
fece una smorfia ancora più disgustata: “Figuriamoci! Quelle due… E poi che
importa quello che pensano gli stranieri?”
“Non
sottovalutarli: il mondo va ben oltre i nostri confini, e farai bene a mettertelo
presto in testa, Russia: non puoi pensare che basti sapere quel che ti succede
dentro casa per vivere beato, senza mai guardare dalla finestra, come più o
meno abbiamo fatto finora. I mongoli sono venuti da fuori, no? Nel caso delle
tue zie, che vanitose sono ma sciocche no, avere a che fare coi loro vicini
gioca tutto a loro favore: hanno dei buoni rapporti con Lituania, e sta
diventando parecchio forte quello lì.”
Uno
come Novgorod, abituato ad osservare attentamente con chi aveva a che fare, non
poté non notare comunque qualcosina scattare in Russia nel momento in cui aveva
pronunciato quel nome.
“Vedo
che Lituania ti fa un certo effetto. Sei dispiaciuto per Polotsk, vero?”
“Non posso ancora credere che se ne sia andato…”
Il
burbero zio Polotsk si era dimostrato all’altezza del suo nome: un po’ di tempo
dopo l’invasione, si era sottoposto spontaneamente a Lituania, per potersi
salvare da Orda d’Oro e dai suoi tributi. Era stata una delusione enorme per
lui, soprattutto dopo che, con tutto l’aiuto che aveva dato a lui, sua madre e
Ucraina durante l’Apocalisse, aveva iniziato a pensare che sotto quella
silenziosa scorza ci fosse un uomo premuroso.
“Si
è chinato a quel pagano perché ha avuto paura di condividere la nostra sorte.”
Novgorod
abbassò la testa: era dispiaciuto anche lui che suo fratello li avesse piantati
in asso, ma con più anni sulle spalle sapeva anche leggere meglio nelle scelte
delle persone.
“Ha
semplicemente fatto ciò riteneva fosse il meglio per sé e per sua… la sua
gente. Ognuno di noi ha una certa dose di responsabilità.”
Ivan
rivolse il suo sguardo arrabbiato alla finestra.
“Russia, non considerarlo un traditore o un codardo. Polotsk è un uomo buono. Chi
ti dice non gli pesi l’averci abbandonato?”
Si
domandò se vi fosse un modo per allontanarsi da quella piega scabrosa del
discorso e magari risollevare un po’ l’immagine del fratello agli occhi di
Russia.
“Sai…”
–si avvicinò a lui spingendosi in avanti sul tavolo, parlando più sottecchi-
“Ho il sospetto che avesse un debole per tua madre.”
Russia
sgranò gli occhi. Aveva ovviamente notato come cambiasse di personalità con lei
in giro, ma aveva avuto sempre un po’ timore di approfondire.
“Davvero?”
–si finse sorpreso.
“Pensa che una volta, dopo essersi ubriacato, le ha chiesto di sposarlo.”
Forse
gli ci voleva un altro sorso di vodka per mandar giù la cosa… Un fratello che
vuol sposare la sorella… Orrendo…
“E
che è successo?” -chiese, curioso suo malgrado.
“Più
che altro le barcollava intorno cercando di rendere comprensibili i suoi
borbottii, però quando gli ha fatto la proposta lo abbiamo sentito tutti.”
“E come è finita?”
“Tua madre all’inizio sembrava spaventata; poi divertita e anche un po’ lusingata
dalla sua insistenza; poi non appena è passato dalle parole al poggiare le mani
dove non doveva, tua madre gli ha rotto il naso con un solo pugno.”
Fu
Russia a quel punto a scoppiare a ridere, e Novgorod, contento, si diede
mentalmente una stretta di mano: niente di meglio che una bella storiella di
famiglia quando la discussione si fa pesante.
“Chissà,
forse nemmeno a lui, come me, interessavano tutte queste stupide discussioni
tra parenti.”
In
fondo era sottomesso come lo erano loro, solo che qualunque padrone, pagano per
pagano, sembrava meglio di Orda d’Oro.
“Forse
saranno stupide, ma senza un Gran Principe come si deve a guidarci come faremo
coi mongoli?”
Novgorod
storse il naso, vedendo ricascare giù, pensieroso, il viso del nipote.
“Se
ci fosse ancora Kiev, o se almeno qualcuno di noi fosse forte come lui,
riusciremmo a non essere più così divisi, e potremmo attaccare Orda d’Oro e
riprenderci Ucraina.”
“Hai
notizie di lei?”
“Zia Galizia e zia Volinia abitano vicino le sue terre, di tanto in tanto
ottengono il permesso di andarla a trovare.”
Ivan
si appoggiava col gomito al tavolo, nascondendo sotto di esso, alla vista dello
zio, un pugno ben stretto poggiato sulla gamba.
“Non
se la passa bene… I mongoli la tartassano, e la costringono a lavorare per loro
continuamente…”
“Tutti
devono lavorare, Ivan.”
“Per
sé stessi e i propri cari semmai, non per qualcuno di così abbietto!”
Dispiaciuto
di aver alzato la voce contro di lui, cercò di distrarsi avvicinando le mani al
bracierino e concentrarsi per qualche secondo sul calore che emanava, sperando
di rilassarsi un po’. Ma quel tentativo era inutile, il pensiero di Ucraina ridotta
a una cenciosa serva non lo abbandonava.
“Mentre
noi stiamo a qui a decidere chi è il più forte, Ucraina continua a soffrire
ogni giorno. Io voglio liberarla, ce la devo fare ma non so come!”
Novgorod
avvicinò anche lui le mani allo scaldino al centro del tavolo.
Dopo
un po’ aprì bocca: “Russia, ascolta, è vero che nella nostra famiglia siamo
spesso in disaccordo, da quando non c’è più Kiev molto più che un tempo. Però
ti svelerò una cosa: c’è un punto su cui tua madre e tutti noi tuoi zii ci
troviamo d’accordo.”
Ivan
alzò gli occhi viola, aspettando la risposta.
“Sul
fatto che siamo fieri di te.”
Ivan
provò in quell’istante la buffa sensazione di sentirsi il viso più caldo delle
mani a pochi centimetri dal bronzo arroventato.
“Nessuno
di noi ha potuto dimenticare la tua promessa di quel giorno, il modo in cui hai
guardato negli occhi il tuo nemico, la grandezza che emanavi pur essendo un
bambino. Anche Tver, quel piccolo rospo, si è sentito ancora più piccolo in
confronto a te.”
Altro
che la vodka: per lui suo nipote era diventato un vero uomo già allora.
“La
battaglia contro i teutoni me l’ha confermato, e anche gli altri sanno di come
ti sei comportato magnificamente; ma al di là di quell’episodio, siamo tutti
colpiti da come stai venendo su bene: hai coraggio, forza, cuore e un obiettivo
nobile a sferzarti, la tua sorellina. Tutto quel che ti serve a fare strada,
ragazzo mio! Non ti scoraggiare.”
“Non mi scoraggio, anzi, sono lusingato, però da solo non riuscirò a…”
“Non
sei solo, hai tua madre: ha un gran carattere e te lo sta trasmettendo tutto.
Ma se vuoi che ti dica la mia, piantala di pensare a noialtri, che non siamo
altro che litigiosi caproni che badano solo ai fatti propri. Ti basti da solo
alla tua promessa, Russia. Sono più che convinto che il giorno in cui riabbracceremo
la nostra piccola Ucraina, sarà stato solo grazie a te.”
I
due allontanarono le mani ormai rosse, e il discorso si chiuse in un ritrovato
buonumore.
“Beh,
anche un po’ grazie a te.”
Visto
che insisteva a dargli dell’importanza, perché non prenderseli si disse il
mercante, mettendo in magazzino la modestia: “In effetti ricordo che un certo
regalo di un certo tuo zio ha avuto una particina non proprio piccola
all’inizio della tua saga.”.
“Non ti ringrazierò mai abbastanza zio; è stupenda. Quando l’ho vista non ho
avuto più dubbi ad indossarla.”
“In fondo resta sempre un
armatura. Dì la verità, è stata la mia lettera ad ispirarti, non è vero?”
“Ecco…”
“Uno
dei miei scritti migliori, senza dubbio! Cosa hai provato sentendoti rivolgere
quelle così belle parole?” -gli strinse una spalla, invogliandolo a parlare- “Sei
rimasto di stucco, vero? O ti sei anche un po’ commosso? Su, non vergognarti
davanti a tuo zio, e poi un mercante deve saperle usare bene le parole, che non
sono utili solo ad invogliare il cliente all’acquisto. Alla fine si è visto che
hanno avuto proprio un bell’effetto su di te.”
“Zio,
io non so ancora leggere.”
“……”
Ivan
tossì, a bocca chiusa, per rompere il silenzio venutosi a creare. Nel folto
della barba dello zio sbucava il rosso della sua bocca spalancata dalla
delusione come un ponte levatoio.
“Non
sai leggere?”
“Sai, ho sempre parecchio da fare, per la mia promessa eccetera, e così non ho
tempo per mettermi ad imparare. Ho provato a capire quel che c’era scritto
almeno…” –provò a rifarsi in qualche modo- “In effetti però mi ha ispirato
anche la lettera un pochino, credo...”
“…
Ah… Vorrà dire che vedrò di insegnarti un po’ durante questi giorni in cui ti
tratterai qui. Dove sono le tue cose?”
“Alloggio in un monastero nell’altra parte della città.”
“Sciocchezze:
puoi stare benissimo qui, ho tutto lo spazio che vuoi.”
“Mi
piacerebbe in effetti.” –era sempre stato affascinato dall’attività di zio
Novgorod, e stando da lui tutto il giorno avrebbe avuto occasione di vederlo per
bene all’opera. Ma quello sembrava intenzionato a farlo tornare a casa con
tutt’altro bagaglio di nuove conoscenze.
“In
questo modo potremo studiare un po’ di alfabeto. Sai almeno come si tiene in
mano la penna?”
Doveva
essersela proprio presa per quella storia della lettera…
Novgorod
si avvicinò al suo banchetto da lavoro, ma lungo i suoi passi si bloccò davanti
la piccola finestrella quadrata in alto sulla parete. Osservò in cielo
l’altezza del sole e si grattò il mento barbuto: “Si, direi che potrebbero
essere già arrivati.”
Ivan
si alzò a sua volta e restò ad aspettare lo zio raccogliere un mazzo di chiavi infilate
ad un anello di ferro prima di fare strada: “Vieni Ivan, ti porto con me al
molo.”
“Al molo?”
“Si, al molo sul fiume: entro oggi è previsto l’arrivo di alcuni miei soci
d’affari e ci tengo ad essere presente al loro arrivo. Così vedi un po’ tuo zio
all’opera.”
“Oh, quale onore!” –scherzò il ragazzo seguendolo e facendosi da parte mentre
dava tre mandate alla massiccia porta di legno dell’abitazione.
“Vieni.”
–gli poggiò una mano sulla spalla, stringendolo come un figlio- “Lungo la via
apri bene le orecchie, ti spiegherò qualche trucchetto del mestiere. Forse non
diventerai una repubblica mercantile come il sottoscritto, ma se avrai uno
stato tuo senza commercio non funzionerà di certo.”
Russia ebbe i brividi: uno stato suo… era troppo presto per parlarne! Era
ancora giovane lui, aveva appena iniziato a bere… Per fortuna lo zio aveva una
gran voglia di far sfoggio della sua conoscenza, in quel campo imbattuta e
indiscutibile, e sia lui che il nipote, assorto nell’ascolto, si dimenticarono
di quell’accenno, mentre prendevano la via per uscire dalla cittadella.
http://www.youtube.com/watch?v=_pGaz_qN0cw
Di
molo, sull’argine del fiume nel lato commerciale della città ce n’era
ovviamente più di uno visto il numero delle navi che giungevano in un porto
così importante, senza contare la flotta peschereccia e commerciale della
repubblica stessa.
Appena
passato il ponte, i due svoltarono a destra e tramite un viottolo in discesa
arrivarono alla banchina: da lì, distanziati tra loro di alcuni metri per
permettere alle navi di affiancarsi, i moli si allungavano come le dita di una
mano di legno sul blu scuro dell’acqua.
“Ora
ti insegno un’altra cosa, Russia: quando vuoi vendere un carico di merce o
anche un pezzo singolo a qualcuno, assicurati di chiedere un prezzo molto alto,
molto di più di quello che speri di ricavare.”
“Ma perché zio? Così l’acquirente si arrabbierà.”
“Infatti, e insisterà per abbassare il prezzo, mentre tu invece insisti per
tenerlo alto, ma cedendo a poco a poco. Alla fine, quando arriva più o meno al
guadagno che speravi di fare, allora l’affare è fatto: così tu hai guadagnato
quanto volevi e il tipo se ne andrà convinto di essere un bravo contrattatore e
di aver fatto anche lui un buon affare, e sarà certo più propenso a tornare da
te per farne altri. È semplicissimo se ci pensi.”
“In effetti…”
Nel
mentre Novgorod finiva di istruirlo, erano arrivati all’ultimo molo. Tempo
alcuni minuti e di lontano, grazie al vento che aveva pulito l’aria, si
riuscirono a scorgere tre lunghe imbarcazioni: avevano la prua molto alta e le
loro vele erano colorate con righe verticali bianche e rosse. Quando furono
ancora più vicini, Russia si accorse le prue erano scolpite in modo da
raffigurare delle strane bestie, come dei draghi quali quelli sulla tazza
d’argento.
“Vieni,
stanno per attraccare.”
“Zio, ho sentito storie non molto lusinghiere sul conto dei vichinghi. A quanto
ne so io, sono pirati e saccheggiatori.”
“Si
che lo sono, ma mica possono dedicarsi sempre e solo a quello. Avanti, nipote,
vieni.”
Strettosi nelle spalle, e mormorati gli scongiuri che conosceva, Russia ne
calcò le orme e si mise al suo fianco ad aspettare che i lavoratori del porto
attaccassero ai pali le loro cime. Dalla fiancata della barca che guidava in testa
le altre due venne abbassata un’ampia passerella di legno, sulla quale evitò di
bagnarsi gli stivali un tipico nordico, dagli scompigliati capelli biondo
acceso e gli occhi azzurri. Doveva trattarsi del capo della spedizione, pensò
Russia, notandone l’atteggiamento ben più che sicuro di sé.
“Novgorod!
Vecchio furbone!”
“Danimarca, fatto buon viaggio?”
“Dipende
da quanto saranno piene le mie tasche quando me ne ripartirò.” –scherzò lui
stringendogli la mano- “Chi è questo?”
“Lui è Russia, mio nipote.”
“Oh, hai trovato qualcuno a cui lasciare il mestiere vedo.”
“Macché!” –rise lui del suo nipote che non sapeva nemmeno leggere e scrivere-
“Gli sto giusto insegnando qualcosina.”
“Buongiorno.”
–salutò, sentendosi un po’ ridicolo.
“Giorno
a te!” –sorrise il nordico, notando quanto fossero tutti belli alti in
famiglia- “Novgorod, dammi il tempo di scaricare la merce e sbrigare le solite
formalità e potremo parlare di affari.”
Si
voltò e, come se la barca fosse al centro del fiume e non a qualche metro,
portò le mani alla bocca e cominciò a urlare: “Ehi, voi due, animo! Non battete
la fiacca!”
“A me pare che qui quello che batta la fiacca sia tu.” –rispose uno dei marinai
che stava ammainando la grande vela rettangolare. Anche lui era biondo, più
basso e dall’aria più tranquilla rispetto al suo esagitato capo.
“Forza
anche tu Berwald: già parli poco, almeno lavora, se non tanto, il giusto, no?”
Il
secondo marinaio non aprì bocca, e scese obbediente nella stiva.
Intanto,
sulla banchina, Russia e Novgorod si erano allontanati di qualche passo. Il
primo aveva preso un paletto di legno a mò di sedile ed osservava silenzioso,
insieme allo zio, i lavori di scarico delle tre navi. La voce altisonante di Danimarca
non smetteva di incoraggiare i suoi uomini, che d’altro canto non sembravano
averne bisogno anzi. A un certo punto questi prese a lamentarsi col marinaio
piccoletto sul tono indisponente che adoperava, ma questo continuava a lavorare
ignorandolo senza ritegno. Predoni grossomodo simpatici, pensò.
“Russia,
tu sai chi era Rurik, vero?”
“Si, zio: il fondatore del Rus.”
“E
sai anche che non era esattamente delle nostre parti.”
“Si.”
–rispose qualche secondo dopo- “So che è venuto da fuori, dal nord.”
“È venuto dalla loro terra.” –disse, indicando con un ampio cerchio della mano
i tre nordici al lavoro sulla prima delle tre barche.
“Era
a capo di una delle loro tribù, i variaghi. Secoli addietro giunse dal mare,
proprio qui dove ci troviamo noi, e insieme alla sua famiglia e al suo popolo
si stabilì nelle nostre terre, giurando di proteggerle. Lui fu il primo capo di
Kiev, quando era ancora un ragazzino, e fu anche primo capo mio.”
Russia
non aveva mai sentito suo zio narrare con così tanto trasporto, né ricordava di
aver mai avuto così tanti brividi nell’ascoltarlo; forse aveva dato troppo per
scontato di conoscere la storia delle loro origini, e lo stesso Novgorod doveva
aver dato per certo che quella per lui fosse materia conosciuta vista
l’importanza. Ovvio che il nipote sapesse chi fosse Rurik, ma con la sua
veneranda età, che tornava indietro fino a quei tempi leggendari, quante cose
poteva dirgli che scontate non erano affatto.
“Quella
fu l’epoca in cui noi tutti nascemmo.”
Rivolse uno sguardo carico di orgoglio alle cupole che si innalzavano oltre il
fiume, sopra la cinta muraria.
“Il
Rus è nato quando le loro genti si unirono a quelle che già abitavano la grande
pianura rutena, che da quassù arriva fino al Mar Nero, gli slavi appunto: i due
popoli presero a unirsi in matrimonio sicché divennero ben presto uno solo. In
me, in Kiev, in tua madre e tutti i tuoi zii, e quindi anche in te, Russia, c’è
sangue scandinavo.”
Ecco
un punto di vista su cui non aveva mai meditato a fondo. Russia, affascinato,
si guardò il polso, come potesse sentire realmente il sangue che gli scorreva
dentro parlargli e dare ragione allo zio.
“In
un certo senso quei tre, che tu da sciocco qual sei avevi persino timore di
incontrare di persona, sono nostri parenti. Potresti pensare a loro come dei
lontani cugini, ecco.”
I
suoi cugini intanto, messa da parte la comicità, stavano lavorando sodo per
portare tutte le loro merci sul molo, facendosi aiutare da uno scrivano, sul
proprio banchetto portatile, a farne l’inventario.
“I
popoli del mondo si danno dei nomi per distinguersi gli uni dagli altri:
nordici, russi, tedeschi, polacchi, mongoli... Certo, così ci si sente uniti e
si ha coscienza di chi si è, ma in fondo, se torni indietro, fino a tempi
dimenticati, scopri che tutti i popoli, tutti, sono imparentati tra loro,
alcuni più, alcuni meno.”
Si
girò di nuovo verso il nipote: “E se siamo tutti parenti allora mi chiedo,
perché farci la guerra? È così sciocco se ci pensi. Perché combattere per la
terra, l’onore o qualunque altra stupidaggine se Dio ha voluto esistesse il
commercio? Magari alcuni di noi non si troveranno mai simpatici, ma con esso
possiamo conoscerci, imparare che la pace è più redditizia della guerra, e che
possiamo benissimo accordarci per ottenere tutto quello che ci serve per vivere... O
anche qualcosa in più se come il sottoscritto ci sai fare!” –aggiunse subito
dopo facendo tintinnare il borsellino stracolmo di monete che aveva alla
cintura, riempiendo l’aria con la sua fragorosa grossa risata.
Voleva
ben dire, si schernì Ivan, unendosi alla sua allegria.
Forse
aveva avuto fin troppo timore in effetti: tutti i popoli combattono e possono
darsi al saccheggio se serve, ma, quando possono, tutti i popoli sanno anche
rivolgersi tra loro in maniera amichevole.
Si
alzò e si avvicinò alla barca. Il più grosso dei marinai, quello che aveva
sentito aver nome Berwald, camminava cautamente sulla passerella, schiacciato
dal peso di un grosso barile.
Scacciò
pregiudizi e timidezza e gli rivolse la parola: “Serve una mano?”
“…..”
Si
sarebbe aspettato per lo meno un rifiuto, visto che doveva comunque essere
abituato a quelle fatiche; ma stranamente il nordico, sporgendo la testa oltre
il barile, prese a fissarlo senza dire nulla. Era biondo anche lui ovviamente,
ed era anche bello alto, più di lui e anche un po’ più di zio Novgorod, ma
soprattutto era illeggibile nelle espressioni. Russia, intimorito, provò per
quei lunghi secondi a cercare di capire se l’avesse offeso chiedendogli aiuto,
e il perché di quello sguardo che non sapeva se dire minaccioso o indifferente
o altro visto che restava muto e fermo.
Alla
fine decise di rimanere nel dubbio e allontanarsi, mentre il gigante
equilibrava il peso del barile ad ogni passo.
Affrettato
dall’imbarazzo, Russia tornò da zio Novgorod, che nel frattempo si era
distratto a parlare con lo scrivano del porto riguardo l’inventario.
“Non
sembra molto socievole quel “cuginetto”.”
“E
credo di saperlo io il perché del suo broncio.” –scherzò quello appena vide di
chi si trattava. Forse c’erano stati dei precedenti, pensò.
Alleggerite
le navi, Danimarca si avvicinò sfregandosi le mani: “Allora Novgorod, possiamo
cominciare a parlare di affari?”
“Ti
dirò Danimarca” –inarcò le sopracciglia il russo ridando il foglio con
l’inventario allo scrivano- “Le aringhe sotto sale non sono molto di mio gusto
di questi tempi.”
“Ma se mi hai confessato che sono il tuo pesce preferito!”
“Infatti: proprio perché sono il mio pesce preferito e li mangio sempre me n’è
venuta a noia. Logico non trovi?”
Danimarca
sollevò il naso per aria: “Ah, Novgorod, il solito affabulatore: fai lo
sdegnoso per farti fare uno sconto come al solito. Ma stavolta non me la farai!”
Alle
orecchie di Ivan giunse subito sottobanco il commento del marinaio nordico più
piccolo: “Lo frega ogni volta. Quello è troppo esperto e lui si crede troppo
bravo.”
“Mh.”
–annuì a bocca chiusa l’altro nordico.
Quindi
sa parlare, pensò Russia, assistendo accanto a loro alle contrattazioni.
Ivan
trascorse a casa dello zio i successivi due giorni, accompagnandolo ovunque
andasse, cercando di capire il più possibile dall’ascolto dei suoi discorsi coi
boiari e i membri delle corporazioni che incontrava ogni giorno: un po’ di
dimestichezza in più con la politica e con l’economia non gli avrebbe fatto
male. Il pomeriggio e la sera assecondava per almeno un’oretta il suo desiderio
di insegnargli a leggere e a scrivere, ribadendogli di continuo quanto fossero
abilità fondamentali per tanti di quei motivi che a lui risultò faticoso
crederci; comunque, tornato a casa avrebbe stupito sua madre mostrandogli i suoi
esercizi e, sempre non si fosse scordato tutto strada facendo, come si leggevano
quei segnetti tremolanti…
La
mattina del terzo giorno, aveva programmato la sua partenza, accordandosi con
un gruppetto di mercanti di pelli che si recavano a sud, a cui “la città” aveva
concesso una buona scorta per evitare problemi.
Caricata
la merce in vaporosi e lucenti mucchi suddivisi per la qualità e la grandezza
delle pelli, i mercanti non ebbero che da aspettare fin quando la porta della
casa si aprì: “È stato un vero piacere averti qui.”
“Anche
per me. Ora so molte più cose.”
“Non
abbastanza. Promettimi che ti eserciterai con quelle che tu osi chiamare
lettere.”
“Io… Non posso promettertelo zio.”
Novgorod
portò rassegnato i pugni sui fianchi: “Prima o poi dovrai deciderti: leggere e
scrivere distingue i dritti dai bifolchi qualsiasi.”
“Prima
o poi…”
Il
mercante sospirò e si rivolse ad uno dei suoi mercanti: “Saveliy, è tutto
pronto?”
“Si signor Dmitriy: abbiamo caricato tutti i carri.”
“Bene,
non vendere nulla a meno di quanto ti ho detto. E bada che mio nipote arrivi a
casa intero, altrimenti te la vedrai con me: questo giovanotto ha un bel po’ di
grandi imprese da compiere, guai a te se me lo perdi.” –lo ammonì, autoritario
nella voce verso di lui e scherzoso in volto di fronte al nipote.
Non
faceva che ribadire tutte quelle aspettative nei suoi confronti, e la cosa un
po’ lo turbava. Certo era che il saggio Dmitriy raramente si sbagliava nei suoi
“investimenti”, e l’ultima cosa che voleva era che si cominciasse a dire che
stava perdendo colpi con l’età a causa di un nipote sopravvalutato.
“Sai
zio, ho ripensato molto a quel tuo discorso sui popoli e sulle famiglie.”
Novgorod
drizzò le orecchie, sentendo di doversi aspettare da Russia un discorso degno
del suo.
“Noi
russi siamo un popolo, una famiglia, e le famiglie devono restare unite ed
essere felici. Quindi mi impegnerò con tutte le mie forze affinché sia così. Restituirò
il Gran Principato alla mamma, e la aiuterò a diventare sempre più importante:
se gli altri zii vedranno in lei” –e nel suo brillante figlioletto, aggiunse
nella sua mente- “una speranza anziché una minaccia, anziché ostacolarla le
daranno una mano e ci libereremo per sempre di Orda d’Oro. E quando anche
Ucraina sarà tornata insieme a noi allora tutto si sarà aggiustato, e saremo
finalmente tutti insieme come è giusto che sia.”
“Un
po’ di ottimismo non guasta, però se i tuoi zii ti stimano, non vuol dire siano
anche disposti a starti a sentire, non tutti almeno.”
“Lo
so che non sarà così facile, ma se per eliminare le lotte bisognerà lottare un
po’, allora non mi tirerò indietro. Anche se io voglio comunque sperare che non
ve ne sarà bisogno... Non è bello, anche se è per il bene della famiglia…”
Commercio
e prestigio erano attraenti e potevano fare la loro parte, ma non sempre sono
efficaci nel convincere senza pure una grossa spada al fianco pronta da
sguainare…
Sentendosi
il dente avvelenato, Russia proseguì e morse: “Certo però che nel caso zio Tver
non mi spiacerebbe “unirlo” alla mamma… Se vuoi diventare potente un territorio
più grande non guasta.”
“Ehi, che non ti venga in mente di conquistare anche me, eh?”
“Ma
no!” –lo rassicurò ridendo.
Fattagli
dimostrare la sua determinazione, Novgorod si decise a porgergli finalmente il
regalo che teneva sotto un braccio da quando erano usciti.
“Tieni,
Russia.”
Russia
aprì la scatola di profumato legno d’abete e vide, adagiate su un letto di
paglia, due bottiglie di un liquido che aveva la purezza dell’acqua fresca e la
forza del divampante incendio, il cui nome gli era entrato in testa molto più
dell’ordine delle lettere nell’alfabeto cirillico.
“Una
bottiglia per te e una per tua madre.”
“Ne
bastava una; lei non beve così tanto, e nemmeno io.”
“Sciocchezze! Ti sei bevuto due bicchieri di questa roba ed era la prima volta
che trangugiavi alcol, e hai detto pure che ti è piaciuta. È un chiaro segno: devi
coltivare questa tua nuova passione.”
“Spero
non ti spiaccia se la diluirò un po’, sai, per abituarmici, come hai detto tu.”
Russia richiuse la scatola e salutò con un
abbraccio lo zio, il quale, prima di farlo andar via ebbe prima da complimentarsi
per la bella sciarpa, e il modo in cui gli stava bene.
Salì
sul carro mentre la porta della casa di Dmitriy il mercante tornava chiusa; stesosi
accanto ai suoi bagagli, approfittò del carico per coprirsi un po’ e farsi un
cuscino con una stuoia di zibetto.
Avvoltosi
al caldo, alzò il nasone verso il cielo, chiaro come quando era arrivato, limpido
come le acque del Volchov sul cui ampio ponte procedeva il carro.
Per
essere appena stato da un mercante, uno che compra, vende e scambia, gli veniva
da pensare, mentre tornava a casa, a quante cose gli erano venute nelle tasche per
le quali non aveva chiesto nulla in cambio.
A
cominciare da un paio di bottiglie di cristallino liquore. Poi i rudimenti
dello scrivere e del leggere (che già lo facevano sentire parecchio più
intelligente di quando era arrivato). Poi il racconto delle sue origini e
quello ancor più emozionante dei rami dell’albero del mondo, che sono tutti
intrecciati ma se ne dimenticano.
Il
sapere che molti occhi nella sua famiglia erano puntati su di lui, non solo
quelli della sorella che con ansia lo aspettava.
Il
sogno di far tornare indietro il tempo, e trovarsi nuovamente tutti uniti,
senza più screzi, a scherzare e festeggiare come doveva essere.
La
sciarpa.
Quella
l’aveva pagata in effetti, ma anche per quella era contento di essere venuto
lì.
Il
carro ebbe un piccolo sobbalzo sopra un sasso, mentre scendeva dal ponte e si
inoltrava nell’affollato mercato.
Ivan
però aveva le tasche davvero troppo piene per dargli un’altra occhiata.
Continuò a fissare il cielo, provando a dormire.
NOTE STORICHE
Ci troviamo tra la fine del 200 e
l’inizio del 300.
Le notizie sulla crudeltà dei mongoli
sono state spesso ingigantite dai cronisti medioevali che cercavano darne un
quadro il più oscuro possibile: in realtà non erano affatto un popolo selvaggio
o barbarico, ma dotato di un proprio sistema di leggi, una propria cultura, ed
essendo di natura nomade non colonizzò forzatamente i territori conquistati, e
i contatti diretti con i sudditi erano pochi, sicché questi poterono mantenere
il loro abituale stile di vita.
Ciò non vuol dire che la loro triste
fama sia del tutto immeritata, e non erano certo padroni dei più benevoli.
Si recavano a caccia di schiavi,
talvolta anche tra le popolazioni sottomesse all’interno del loro stesso impero,
inoltre non mancavano di ricordare ai vassalli russi il loro stato di
asservimento, compiendo regolarmente saccheggi e raid punitivi, umiliando,
anche pubblicamente, i principi inadempienti le loro richieste o che avevano accennato
atti di disobbedienza o ribellione.
La città di Novgorod (Velikij Novgorod,
ovvero “Novgorod la Grande”), oggi capoluogo di un omonimo distretto della
Russia, fu per gran parte del medioevo la capitale di una potente repubblica mercantile
sulla fiorente rotta commerciale del mar Baltico, snodo tra la Rus e il resto
dell’Europa settentrionale.
Qui il principe era solo un generale con
un incarico a tempo, mentre il vero governo era esercitato dalla “veče”, una sorta di parlamento che riuniva
rappresentanti di tutti i ceti, e dal “posadnik”, un sindaco scelto tra i
boiari della città. Fu un centro molto rinomato anche dal punto di vista
culturale: molti capolavori dell’arte russa furono prodotti lì, in particolare
icone religiose; arte che risentiva, come anche l’architettura, degli influssi
dello stile bizantino. Il livello di scolarizzazione inoltre doveva essere alto
per l’epoca, come testimoniano numerosissimi testi scritti su corteccia di
betulla.
Durante la propria storia, Novgorod si
scontrò spesso con gli svedesi, oltre che con i crociati teutoni (Alexander
Nevsky ebbe a che fare con entrambi), e più in seguito dovette cominciare a
guardarsi anche dagli stati della russa meridionale che acquisivano sempre
maggiore potere, mentre anche per la repubblica iniziava una fase di lento
declino.
Intorno all’862 giunse a Novgorod Rurik,
un capo variago, popolazione scandinava, che si dice sia stato il fondatore del
Rus.
Il termine stesso “Rus” infatti (che in
origine voleva dire “uomo del timone”, a sottolineare che si trattasse di
popoli di navigatori quali i vichinghi) designerebbe alcune di queste
popolazioni nordiche migratrici che si stabilirono nelle terre dell’odierna
Russia, la quale quindi sarebbe nata dall’unione di popolazioni slave autoctone
e scandinave migratevi e ben presto amalgamatesi alla cultura locale.
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/15/Prizvanievaryagov.jpg
A Rurik si fa risalire la dinastia dei
Rjurik, la quale stabilì il proprio centro di potere a Kiev, e da lì mantenne
il controllo della Russia per secoli. Dopo il 1240, la dinastia sopravvisse in
altri principati tra cui la Galizia-Volinia, ma anche i principi di
Vladimir-Suzdalia potevano vantare tale discendenza.
Il principato di Galizia-Volinia
(originariamente due diversi principati) in questo momento è, insieme con la
repubblica di Novgorod e il principato di Vladimir-Suzdalia, uno dei maggiori
stati derivati dallo sfaldamento del Rus di Kiev, nonché uno dei più potenti
stati di tutto l’est europeo. I suoi sovrani, discendenti dell’ultimo principe
di Kiev, a lungo reclameranno il loro predominio su tutta la Russia, cercando
di farsi riconoscere l’eredità spirituale e politica della grande Kiev.
A differenza degli stati più
settentrionali, intrattenne rapporti più stretti con le nazioni occidentali,
configurandosi come uno spartiacque tra l’Europa e i mongoli che premevano ai
suoi confini.
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Capitolo 12 *** Rivalità ***
Priviet
a tutti! Tutti quelli che sono sopravvissuti al lunghissimo capitolo
precedente, ovvio! XD
Vi
faccio le mie scuse, ma quando mi vengono in mente certe scene che mi piacciono
particolarmente devo darci il giusto spazio, e poi c’e lo schema della fic da
seguire… Ad ogni modo tranquilli, questo è più breve! ^__^
Come
notate dal titolo si parla di rivalità, perché in questo periodo Russia ne ha
davvero parecchi di acerrimi avversari.
E
non parlo solo del sempre ostico zio Tver o del ben conosciuto e crudele Orda
d’Oro: sta per fare il suo ingresso in scena un nuovo personaggio della serie
originale, e anche lui come vedrete darà i suoi pensieri al povero Ivan…
Buona
lettura!
LINK
DI IMMAGINI (disegnate da me) SULLA FANFIC!
http://tonycocchi.deviantart.com/art/APH-Yesterday-and-today-299309140
(la
scena con Polotsk e Moscovia dello scorso capitolo! XD)
http://tonycocchi.deviantart.com/gallery/?catpath=scraps#/d4vemc1
(sketch
non finito del piccolo Russia con sua madre)
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
CAPITOLO 12 – Rivalità
Era
sempre un compito ingrato per lui recarsi a Saraj, constatarne ogni volta la
continua crescita, l’inarrestabile prosperità.
Una
prosperità costruita sui tributi della sua gente.
La
megalopoli si espandeva non solo in ampiezza, ma anche in altezza da quando i tartari
si erano convertiti all’islam e le sottili ma imponenti e aguzze torri dei
minareti avevano preso a svettare sul profilo delle case e degli edifici.
Quando
giungeva lì, Russia si guardava intorno il meno possibile e puntava dritto al
palazzo con ampi passi, senza far nulla per nascondere il suo sprezzo per quel
luogo, la sua impellente voglia di completare la sua missione e andarsene via;
se il viaggio non fosse stato così lungo sarebbe ripartito anche il giorno
stesso. Affrontare miglia e miglia di cammino, tra intemperie, il pericolo di
ammalarsi, di incontrare animali selvaggi e subire attacchi di banditi, e la
gran ricompensa che lo aspettava per tutto ciò era rivedere quel suo brutto
muso.
Figurarsi
se doveva essere lui, Orda d’Oro, a scomodarsi a venire da loro; no, se ne
restava laggiù, sul basso Volga, ad aspettare nella scintillante città che si
era costruito, seduto su un comodo trono da cui pretendeva di comandarli, senza
mai farsi vedere, ma sempre pronto a inviare migliaia e migliaia di arcieri a
cavallo se ci si dimenticava che il padrone era lui.
Due
guardie vistolo arrivare, perquisitolo e toltegli le armi, gli aprirono la
porta.
Eccolo,
lì dove l’aveva lasciato l’ultima volta.
Lì
convocava i russi a sé, e guai a chi non rispondeva alla sua chiamata; lì
dovevano recarsi quando c’era da parlargli, supplicarlo, riceverne rimproveri e
condanne, osannarlo e fargli le feste come cagnolini per ottenere o conservare la
sua benevolenza.
Una
mano era poggiata sul suo elmo, ornato di piume, su uno dei bracciali del
trono, e sembrava carezzarlo come un animale domestico. L’altra mano sfiorava
il mento, come chi è intento a pensare.
Chissà
che cosa gli passava per la testa, si domandò Ivan.
Non
parlò, e probabilmente non avrebbe aperto bocca finché non sarebbe stato lui a
fare ciò che stava aspettando facesse.
Prepotente
e sfrontato oltremodo pur senza apparirlo: di sicuro sarebbe rimasto lì fermo
ancora a lungo, un continuo e tacito invitarlo ad abbassarsi all’unico gesto,
lo spettacolo da lui più atteso, con cui avrebbe ottenuto la sua attenzione, e
si sarebbe pure risparmiato una dura punizione.
Tanto sapevano entrambi l’avrebbe fatto.
Gli
si inchinò innanzi, ancora una volta.
Come
sempre il ragazzo doveva metterci tempo, pensò Orda d’Oro, sorridendogli contro.
“Uscite
tutti.”
Le
guardie del corpo, i servi e le serve e i visir, senza battere ciglio, li
lasciarono soli: quando stavano l’uno di fronte all’altro, chiunque altro era
di troppo, come un pazzo che si infila tra due duellanti.
Era
ogni volta come una battaglia, intesa in modi diversi dai due contendenti.
Per
l’uno una sfida a quanto riusciva a far stare al suo posto l’altro, per l’altro
a quanto poteva spingersi a mancargli del rispetto dovuto, per esempio
sfidandolo con lo sguardo prima di rassegnarsi all’inchino, o non aspettando
alcun permesso per rialzarsi in piedi.
L’uno
cercava di far capire quanto poco significato reale avesse il suo prostrarsi,
l’altro di mettergli in testa quanto poco contasse per lui quel suo atteggiamento
ribelle, per esempio tenendolo lì sulle spine fino a vederlo piegare le
ginocchia, o ridendo del suo volersi fare grande dinanzi a lui.
“Allora,
cosa vuole Moscovia da me adesso?”
A
ripagarlo dell’attesa di prima, Russia finse di cercare delle parole che già
aveva bene in mente.
“Spero
sia importante.”
Vedendolo
picchiettare le dita sull’elmo, intese il gesto come una vittoria e parlò;
anche perché di quel passo sarebbe dovuto restare lì ancora a lungo, e per
quanto adorasse, per quanto possibile senza rischiare grosso, dargli sui nervi,
era anche vero che detestava profondamente ogni singolo istante passato in
quella sala con lui.
“Mia
madre mi manda a chiedervi nient’altro che il vostro sostegno.”
Le dita si fermarono: “Sostegno? Tutto qui?”
“Ha bisogno di fortezze più robuste e di un esercito più grande: ti chiede
denaro per costituirlo, cibo per sostentarlo, buone armi e corazze con cui
farlo combattere.”
Anche
se di pochissimo, le parti si stavano invertendo: ora erano più lui l’unico a
poter chiedere. Fu doppiamente contento vedendo quanto in fretta era riuscito a
lavargli via la boria dal viso.
“L’ho
già nominata riscossore dei miei tributi su tutti i russi, ho fatto della
carica di Gran Principe di fatto un’esclusiva dei suoi capi… Comincia a
sembrarmi Moscovia stia facendo fin troppe richieste.”
“Tutte
queste richieste, signore, sono necessarie a noi come a voi. Non vi chiediamo
maggior potere per nulla: ne abbiamo bisogno per la lotto contro Tver.”
Orda
d’Oro sbuffò e si stiracchiò sul trono, palesando una smorfia annoiata: “Voi
due e queste vostre beghe con Tver mi state venendo a noia. Se volete litigare
tra di voi fatelo pure, ma almeno evitate di causarmi fastidi. Ricordi quello
che combinaste un po’ di tempo fa?”
Andava
a rinvangare uno degli episodi più brutali della loro faida, che ormai, da
quando erano riusciti a tornare in possesso del Gran Principato e a divenire,
non che la cosa lo riempisse di gioia, i più fidati riscossori di Orda d’Oro,
non conosceva tregua.
Una loro spia si era precipitata ad
informarli della trappola, e la loro corsa era stata ancora più veloce, ma
inutile. Una volta arrivati, il loro principe giaceva già a terra.
“Jurij!”
“No!”
Moscovia aveva raccolto fra le mani il
capo dell’uomo, ponendogli un dito sotto le narici per individuarne anche il
minimo respiro, ma i suoi occhi sbarrati e il sangue che ancora gli fluiva via
delle ferite non lasciava spazio a speranze.
Tver, due passi più in là, con tutta
calma, ripuliva il pugnale con un panno.
Russia, macchiatosi anche lui calzari e
pantaloni del sangue del suo signore, si era alzato di scatto, ansioso di
averlo tra le mani: “Dannato assassino!”
“Indietro!” –gli urlò contro lo zio, fendendo l’aria davanti a lui con la lama,
costringendolo a fermarsi all’istante. Digrignava i denti come un lupo
rabbioso.
“Il vostro principe ha fatto uccidere il
mio e io l’ho vendicato!”
Attirati dal rumore, le guardie del
palazzo piombarono sul luogo del misfatto, bloccando i presenti ad uno ad uno,
con modi non certo gentili, nemmeno per sua madre, che ebbe appena il tempo di
chiudere gli occhi al principe Jurij.
“Non ho intenzione di cedere nulla alla
Moscovia! Nulla!” –gridò Tver, ribollente di odio, mentre veniva arrestato e
portato via con loro.
“Le
macchie di sangue sui pavimenti sono dura prova per i servi: ancora non si sono
tolte del tutto, sai?” –provò a ironizzare l’asiatico sul suo trono.
Fu
un giorno triste per lui, ancora di più per sua madre, incapace di capire come
il rapporto con uno dei suo fratelli avesse potuto marcire a tal punto, e per l’ostinazione
di chi dei due.
Per
aver sparso del sangue tra le mura del palazzo imperiale, a poche stanze dal
khan in persona, vennero riservate frustate a Tver come anche a loro due. In
seguito, l’uomo che aveva armato la mano di suo zio, il suo principe, venne
anch’egli punito con la morte.
Ma
non fu di alcuna consolazione un altro nobile russo martirizzato: ve ne erano
stati già troppi da quando tutto era cominciato, e in quel clima di
cospirazione e odio, di brame e sotterfugi, l’incubo sembrava ben lontano dal
poter finire.
“Allora
dimmi, perché dovrei continuare ad appoggiarla in queste scaramucce? Sono anni
che va avanti e ancora non è riuscita a piegare quel riottoso nanerottolo. Non
farei meglio a passare dalla sua parte allora? Ha già ricoperto il ruolo di
riscossore altre volte dopotutto, e se gli riconferissi il titolo potrebbe
finirla con queste sue stupidi ribellioni contro di me. In fondo, a me che
importa di chi di voi due sopraffarà l’altro? A me importa solo finisca.
Avanti, giovane Ivan, dimmi perché dovrei continuare a preferire voi a lui.”
“Perché
noi siamo da anni vostri fidati sostenitori.”
Si
sarebbe strappato la lingua da solo.
“E
soprattutto, perché Tver sta entrando sempre più nelle grazie di qualcuno
davvero potente, che amico non vi è certo.”
“Di
chi parli?”
“Di Lituania ovviamente.”
Le
sopracciglia di Altan ebbero come uno scatto. Russia osservava ogni suo piccolo
gesto, cambio d’espressione, movimento; dall’alto della sua condizione, in
quella sua cieca sicurezza, magari eccessiva, di essere più potente di tutto
ciò che lo circondava, il suo odiato padrone restava calmo e imperturbabile
dinanzi la maggior parte delle cose, svettando con indifferenza sui problemi
altrui e propri.
Per
questo, ogniqualvolta c’era un cambiamento, nella posizione in cui sedeva o
anche impercettibile nella tensione delle rughe sul suo volto, significava che
era riuscito a pungerlo, e che era quella la strada giusta su cui puntare.
“Lituania
è sempre più forte ad occidente, mio signore.”
Aveva stretto i denti: altro buon segno.
“Tver
inoltre è ancora molto influente, e la sua potenza sta rifiorendo; ed ora che
si è alleato con lui, potrebbe sul serio sconfiggere mia madre, accerchiata
com’è tra loro due e i vostri continui (e un po’ esosi) tributi.”
“Continua.”
“Si,
come avete detto in questo modo la contesa sarà risolta, come desiderate, ma
che lo sia con la vittoria di Tver… No, non è quello il vostro autentico
interesse.”
“No?”
“No. Non ci avete forse appoggiato in questi ultimi anni perché tenessimo in
ordine i russi per vostro conto? Se la Lituania continua ad avanzare, sostenuta
da Tver, noi russi finiremo tutti per esservi portati via, mio signore. Alla fine
chi ci rimetterà sarete voi, poiché perderete tutti i vostri preziosi vassalli.”
Il
vostro borsellino da cui attingere, avrebbe potuto anche dire.
Russia
sorrise e, per propria maliziosa soddisfazione, aggiunse un pizzico di
bruciante sale all’arrosto che cuoceva su quella graticola in cui aveva
trasformato il suo trono.
“Egli
non vi teme, mio signore.”
Espressioni
di quel genere su quel viso sempre sicuro di sé lo deliziavano sempre.
“Forse
vi considera troppo lontano… Ma intanto sta già iniziando a sottrarvi dei
territori, forse anche mentre parliamo.”
“Non
ha ancora capito con chi ha a che fare…”
“Ma allora perché scomodarvi direttamente quando potreste lasciarci difendere
da noi stessi? Date a noi altra forza. Metteteci in condizione di difenderci da
soli da questi nuovi invasori. Riducete i nostri tributi, e magari finanziate le
nostre armate.”
Orda
d’Oro riassunse la posa pensosa di quando era entrato. Quel ragazzino stava
parlando troppo e lui troppo poco; non gli piaceva, era come essere in balia di
qualche visir affabulatore e chiacchierone, a cui per vincere la paura del suo
tremendo padrone basta il pensiero del guadagno che da esso spremerà.
E
purtroppo, come avveniva coi visir, anche lui sembrava avere tutte le ragioni
di questo mondo.
Puoi
essere potente quanto vuoi, ma l’interesse personale, si sa, traina gli uomini
più di ogni altra cosa, e quelli che hanno il cervello a posto sapranno
servirti di te, senza costringerti a nulla se non ad agire “per il tuo bene”.
“Certo,
se voi continuerete a prosciugare le nostre casse e il vostro popolo continuerà
a lanciare raid sulle nostre terre, per noi russi sarà difficile resistere,
così indeboliti. Sicuro che non vi convenga agire al riguardo? Dopotutto, come
vi ho appena fatto notare, è nel vostro interesse che i vostri umili sottoposti
siano forti abbastanza da badare a sé stessi, non è vero?”
“Zitto.”
Russia
obbedì con piacere: la sbrigatività dell’ordine gli faceva pregustare la sua
vittoria. Forse la prima di tutte le volte che, al seguito della madre, si era
recato lì.
“Farò
cessare i raid. E vi lascerò tenere quanto vi serve per ricacciare indietro
Lituania.”
Ivan
si inchinò, e fu ancor più di prima una presa in giro: “Siete un capo saggio,
come volevasi dimostrare. Sono sicuro che mia madre gioirà al sapere delle
vostre decisioni.”
“Tua
madre… O tu?”
Russia
si tolse il sorriso dalle labbra. Adorava stuzzicarlo, e per lui era il minimo
che meritasse quel pallone gonfiato, ma non si era instupidito. Sapeva bene
della potenza immane che ancora possedeva; ed era quello il motivo per cui, a
differenza di Tver, avevano deciso di usare il cervello e di giocare ad essergli
fedeli.
Le
acute fessure che erano gli occhi del mongolo sembravano, più che nei suoi
occhi, poggiate sulla sua gola.
Era
tornato come prima, immobile e dalla voce ferma, lenta; ogni parola una
minaccia.
“Ascoltami
bene, ragazzino.”
A ficcargli
in testa che ancora lo considerava poco più che il moccioso dalla lingua troppo
incauta che lo aveva tanto divertito al loro primo incontro.
“Cosa
credi? Io so bene a che gioco stai giocando. So bene che a portarti qui non è
tua madre ma la tua ambizione. Tu mi sfrutti semplicemente, mettendoti al mio
servizio e ricevendo il mio sostegno solo per accrescere la tua forza ed
espanderti. E la cosa mi sta bene, perché anche io, allo stesso modo, sfrutto
te, per riscuotere i miei tributi e impedire che voi, i miei servi, mi veniate
sottratti.”
Russia
sostenne il suo sguardo.
“Sei
diventato forte perché IO l’ho voluto. Se Mosca non è più un tugurio in mezzo
ai boschi ma il Gran Principato è solo perché IO l’ho consentito. Allo stesso
modo, se deciderò che non mi servi più, o mi volterai le spalle, ti schiaccerò
di nuovo.”
Il
potere non gli aveva ancora offuscato la mente: conosceva bene il valore delle
promesse, e dell’amore verso i propri cari, e non aveva mai smesso di tenerlo
d’occhio.
Rideva
di lui, e non voleva smettere di farlo per aver sottovalutato la promessa di un
bambino di farlo cadere, lui, il più immenso di tutti, nella polvere.
Parole
di monito gli sibilarono tra le zanne: “Non tirare troppo la corta, ragazzino.”
Russia
sorrise e si inchinò.
Non
che non la tiro troppo, gli disse nella sua mente mentre gli dava le spalle.
La
tiro piano. A poco a poco.
Zio
Tver sbagliava con la sua sempre aperta ostilità, per questo falliva.
Lui
invece avrebbe fatto sì che fosse lui stesso ad armare il proprio carnefice.
Col
suo aiuto interessato aveva già mosso i primi passi, e presto avrebbe avuto i
mezzi per accrescere la sua potenza sempre di più, con o senza il suo
“permesso”. Solo allora avrebbe dato uno strattone, e la corda intorno al suo
collo lo avrebbe finalmente strangolato.
Ti
strangolerò, orrida bestia, aspetta e vedrai.
Russia
aprì da solo le porte: prima le guardie, guardandolo storto, e poi i visir e
gli altri consiglieri tornarono dal loro impero. Russia aspettò che gli
passassero oltre, come un rivolo d’acqua intorno un sasso sporgente dalla
superficie, rimanendo nello stesso punto finché le porte non furono richiuse.
Sospirò,
lasciando uscire le emozioni più forti che gli sbattevano nel petto, buttando
fuori quelle più terribili che lo abbruttivano, cercando di lasciarsi dentro
solo un attimo di pace da godersi tutto da sé.
In
fin dei conti, nei confronti di zio Tver non poteva provare semplicemente
disprezzo. Pur piccolo e bramoso di potere, sebbene anche lui per un certo
periodo avesse provato a tenersi buono Orda d’Oro, ora continuava ad affrontarlo
a testa alta.
E
sua madre, e con lei lui stesso, che invece avevano deciso di percorrere
un’altra strada verso la libertà e la gloria, si erano ritrovati a combatterlo,
uno della loro stessa stirpe, per conto del loro tiranno.
In
certi momenti, aveva addirittura pensato di ascoltare suo zio, abbandonare sua
madre e aiutarlo, prima che la razionalità tornasse immediatamente in lui.
Aveva già tradito abbastanza, soprattutto sé stesso, per farlo.
Vero,
grazie a quel sistema Moscovia si ingrandiva sempre di più, ma a quale prezzo?
Ormai le speranze di aggiustare le cose con Tver erano sparite del tutto, e il
pensiero di essere scesi a compromessi col nemico di sempre lo rodeva dentro
ogni volta che gli tornava in mente. Com’era possibile che per riprendersi da
mille umiliazioni dovesse umiliarsi in maniera ancora peggiore?
Prima
o poi qualcuno avrebbe prevalso, Tver su Moscovia o Moscovia su Tver, ma poi
gli altri lo avrebbero ascoltato? O Orda d’Oro avrebbe continuato a giocare,
schierandosi prima con l’uno e poi con l’altra in quella che ormai era
diventata una infinita lotta a due su chi avrebbe dovuto, si sperava, divenire
l’eroe che lo avrebbe scalzato dal trono. Chissà quanto ci rideva sopra.
E
adesso, come se non bastasse, ci si metteva Lituania.
Aveva
cominciato a premere ai loro confini occidentali, a ingrandirsi sempre di più,
ad una velocità e con una semplicità che non credeva possibili.
Dalla
sua non aveva solo la spada, ma anche la parola: lui si sfiancava contro Tver
da decenni, lui sottometteva città senza spargere una sola goccia di sangue.
C’erano
russi che davano ascolto più a lui che a sua madre, che continuava a sudare
quattro camice per unirli intorno a sé, eppure parecchi le preferivano quello
straniero, ancora pagano per giunta. Polotsk purtroppo non era stato l’unico a
cercare rifugio da lui, per sottrarsi alle vessazioni dei tartari.
Si
poggiò al muro e gli venne voglia di colpirlo se fosse stato certo che quelli
di casa non avrebbero fatto tante storie come per le macchie di sangue lasciate
dal suo vecchio capo.
Non
lo poteva sopportare. Lo invidiava. Lo odiava. Non lo aveva ancora conosciuto
di persona ma solo sentirne il nome gli faceva prudere dappertutto.
Soprattutto
nell’orgoglio…
La
sua promessa. La sua spinta. La sua ambizione. La sua ragione di vita.
A
che punto era? Aveva fatto sul serio dei passi avanti? Non stava forse agendo
in senso contrario facendo il cane da guardia dell’Orda?
Intanto,
Ucraina ancora lo stava ancora aspettando, e nel frattempo, Lituania, stava
facendo per lei molto più di quanto avesse ancora potuto fare lui.
Sbatté
il pugno contro il muro, gemendo.
http://www.youtube.com/watch?v=cSH-_ScN6G0
Quelle
voci erano presto giunte anche alle sue orecchie. Come le campane, che
annunciando il male in arrivo, si sentono rintoccare sempre più forti, così le
notizie sulle sue gesta si facevano sempre più vicine e sempre più favolose.
Il
suo popolo ferveva d’entusiasmo, sentendo di questo cavaliere e del suo esercito,
un po’ di balti un po’ di slavi, che osava senza paura contestare ai mongoli il
loro comando sulla Rutenia; le campagne e le città che ancora non lo avevano
visto pregavano il suo arrivo, come del liberatore dalle loro sofferenze.
Ucraina
continuava la sua impegnatissima vita di tutti i giorni, senza però esprimersi
al riguardo, senza mostrare né entusiasmo né preoccupazione, schivando ogni
volta il discorso; forse perché timida, o cauta, forse semplicemente in attesa.
Il
giorno in cui lo incontrò di persona, lei stava in riva a un fiume, con altre
donne, a lavare tovaglie, panni, vestiti dei loro mariti, mentre le bambine,
alle loro spalle, giocavano a rincorrersi tra l’erba e a raccogliere i fiori di
papavero.
(Vestiti di Ucraina allora: http://static.zerochan.net/full/13/37/649363.jpg
http://browse.deviantart.com/?q=ukraine%20traditional&order=9&offset=48#/d2uwvp7)
A
un certo punto, mentre, a maniche rimboccate, strigliava un lenzuolo nell’acqua
fresca, la ragazza accanto a lei era balzata in piedi e aveva preso a
indietreggiare. Alzati gli occhi, Katyusha perse il respiro alla vista di un
gruppo di uomini a cavallo, pesantemente armati, che si dirigevano al passo verso
di loro, discendendo la corrente.
Dapprima
sorpresa, Ucraina si tirò su, si asciugò le mani sulla gonna e, mentre tutte le
altre donne si facevano indietro o portavano via le proprie figlie e sorelline,
lei restò ferma dov’era, com’era sua responsabilità.
Non
sapeva se questo Lituania era davvero così buono come si diceva; in qualunque
caso, suo dovere come nazione era trovarsi tra lui e la sua gente, per quanto
potesse farsi valere una contadinella disarmata.
Un
cavaliere in cima alla colonna alzò la mano fermando tutti gli altri: doveva
trattarsi di lui. Si separò dagli altri, seguito unicamente da quello che
portava il suo stendardo.
I
due fermarono le cavalcature davanti a lei. L’enorme bandiera rossa, ferma per
l’assenza di vento, aveva nel suo centro l’immagine di un cavaliere che agitava
in alto la spada, mentre il cavallo sotto di lui, bianco, rampava audacemente,
pronto all’attacco.
(Antica bandiera della Lituania: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Flag_of_Lithuania_%28state%29.svg)
Vide
che a reggerla non era un soldato, ma un ragazzino biondo vestito di blu,
decisamente giovane a giudicare dalle linee del viso, probabilmente un paggio.
Come
non bastasse la sua espressione seriosa, sentiva il peso dello sguardo del suo
capo, da sotto l’elmo, poggiato su di lei. Il nasale si allargava in un ampio
triangolo con la punta verso il basso a protezione della faccia; malgrado la
maschera a celare ogni altra fattezza, e grazie alla vicinanza, riuscì a
distinguere il colore dei suoi occhi, verdi, brillanti come gemme. Tutto quel
brillare non le piaceva: le ricordava il modo in cui aveva visto illuminarsi
gli occhi di Orda d’Oro quel lontano giorno di nebbia in cui era venuto a
prenderla, e quel cavaliere veniva nelle sue terre per lo stesso motivo. Cosa
poteva mai dirgli? Doveva presentarsi? O era maleducazione per una donna farlo
per prima? Forse doveva cominciare con lo scusarsi per non saperlo?
Lituania
allora si rivelò: il suo aspetto era molto più giovanile rispetto a quello del
suo padrone, e infinitamente più rassicurante. I suoi occhi scintillavano, ma
più che ambiziosi li avrebbe definiti semplicemente belli; aveva una chioma
castana che cadeva ai lati della testa e dietro fino alle spalle, coperte da un
mantello dello stesso colore degli occhi; un paio di ciocche scendevano anche
giù sulla fronte; il dettaglio che più le allentò la tensione fu comunque il
fatto che le stesse sorridendo.
Anche
Orda d’Oro aveva giocato a fare il rassicurante con lei al loro primo incontro
però; forse non avrebbe dovuto lasciarsi incantare solo dal fatto che non era
un nomade della lontana Asia ma un giovanotto dall’aria gentile.
“Il
mio nome è Lituania. Tu sei Ucraina, giusto?”
Ucraina si guardò rapidamente alle spalle: le sue amiche e le loro bimbe erano
ancora lì, anche loro tutt’altro che impaurite dopo averlo visto togliersi
l’elmo.
“Si,
sono io.”
“Sono
contento di conoscerti finalmente.” –disse chinando un po’ il capo e mettendosi
una mano sul cuore in segno di reverenza verso la donzella- “Vengo a chiederti
di accettarmi come tuo nuovo signore.”
“Nuovo
signore? Io… Vede… Cioè, mi scusi, non è che voglia mancarle di rispetto, so
che ha fatto un lungo viaggio per il disturbo di incontrarmi, non voglio
offenderla…” –aveva un padrone che in caso di offesa non aveva la mano leggera
e non sapeva di che genere fosse quello che aveva di fronte dopotutto…- “Però…
Così su due piedi…”
Il
paggetto roteò eloquentemente gli occhi davanti la sua risibile insicurezza.
Forse aveva passato troppo tempo ad obbedire e servire e adesso doveva aver
perduto un po’ di dimestichezza nel trattare con altre nazioni come lei. Anzi,
quando mai l’aveva avuta? Quando era bambina se ne occupava il suo papà. Era un
banco di prova quello, doveva riuscire a vincere l’imbarazzo.
“Signor
Lituania, io un padrone ce l’ho, ed è un uomo terribile: averci a che fare
potrebbe essere pericoloso per lei…”
“Mi
meravigli: premurarti così di qualcuno che hai appena incontrato. Ma puoi stare
tranquilla: sono venuto qui apposta per dirti che con me i mongoli non ti
daranno più alcun problema.”
Era
davvero sicuro di sé.
E
le sue parole spazzavano via la paura di quell’ombra lontana che da troppo
tempo la schiacciava al suolo.
No.
Non era questo che doveva succedere. Non era così che doveva andare.
“Io diventerò più forte te, più grande
di te, e mi riprenderò Ucraina!”
Non
era la premura, che comunque realmente provava, il motivo per cui non riusciva affatto
ad essere contenta del suo arrivo.
Non
era lui colui che aveva aspettato tutto quel tempo.
Che
ne sarebbe stato di suo fratello e della sua promessa? Lei rivoleva la sua
famiglia, non un nuovo padrone, anche se migliore: significava semplicemente
pagare le tasse per uno anziché per un altro.
“Signore,
io non sono sicura di volere essere… salvata proprio da lei. Mi scusi!” –si
affrettò ad aggiungere abbassando la testa.
“So
che non deve essere semplice. Del resto sono anche un pagano e…”
“No, no, non è per quello…” –chiarì arrossendo.
“Ucraina,
so che devi avere trascorso anni terribili sotto i mongoli: devi solo
permettermi di porvi termine.” –continuò lui, sicuro di convincerla come che il
sole sorge al mattino- “I tartari sono ancora numerosi nelle tue terre, ma
presto li avrò scacciati tutti. Intanto, io ti restituisco Kiev.”
Sgranò gli occhi: “Kiev?”
“Si,
la tua amata città. Ho sconfitto i mongoli e l’ho riconquistata. Ora puoi
tornare e renderla bella come era un tempo.”
La
casa di suo padre, casa sua, la sua capitale che aveva visto ridotta in cenere.
Sembrava
una bugia, che se per chiunque altro sarebbe stata se non altro bella da
credere, per lei aveva unicamente l’effetto di una stretta allo stomaco.
Ciò che aveva sempre creduto e le aveva dato forza in tutti quegli anni non era
accaduto, e ora all’improvviso, da un perfetto estraneo, le veniva detto che i
tempi bui per lei stavano già infine volgendo al termine senza che se ne fosse
accorta, mentre era ancora intenta ad aspettare, con fiducia, il suo amato
fratello.
Dov’era
lui? Perché non poteva riabbracciarlo e ritornare lì dove erano stati così
felici, insieme, mai più separati?
“Non
sarai solo al sicuro sotto il mio scudo, potrai anche tornare insieme alla tua
famiglia.”
“Come dite?” –chiese, scusandosi subito dopo per il balbettio.
“Parlo
delle tue due zie: anche loro ora sono sotto la mia protezione.”
La sicurezza di Lituania, intatta fino a quel punto, iniziò a vacillare nel
chiedersi il perché della sua faccia all’udire quelle parole; sembrava
tutt’altro che contenta.
“Anche…
le mie zie…”
“È stato terribile, zia! Se li portavano
via, e io non potevo fare niente per loro!”
Volinia le aveva offerto il proprio
grembo per sfogarsi un po’, facendole forza con timide carezze tra i capelli,
ripetendole di non piangere, anche se aveva gli occhi lucidi quanto i suoi.
Galizia, scuotendo il capo alla solita
dabbenaggine della sorella, fin troppo incline a lasciarsi contagiare dal
piagnisteo altrui, restava solida nella sua rinomata alterigia, osservando
l’umile casa in cui sua nipote viveva, non sapendo se essere più disgustata
dagli attrezzi riposti in un angolo o dal pavimento di paglia.
“Non è in un tugurio simile che dovrebbe
vivere la figlia del grande Kiev.”
Si avvicinò, ed Ucraina sentì la sua
sola presenza come un invito a rialzare il viso rosso e sconvolto dalle gambe
dell’altra zia.
“Ti ridaremo la dignità che meriti.
Riprenderemo tutte le tue terre dai mongoli e verrai a stare insieme a noi.”
Si inginocchiò, gesto a lei così ostico,
e, come trasformatasi nella sua più emotiva sorella, la baciò sulla testa.
“Resisti, bambina mia. Penseremo noi a te.”
Zia Galizia e zia Volinia le avevano voluto bene in modo speciale; da sempre,
più di tutti gli altri zii; ma anche loro, così potenti, erano cadute sotto di
lui.
Suo
fratello, le sue dolci zie: tutti quelli che le avevano fatto promesse erano
stati surclassati da quel cavaliere dagli occhi verdi.
Questi,
all’oscuro di tutto, stemperava la propria perplessità guardandosi rapidamente
intorno: “Non ti va di stare insieme a loro? Forse non sei in così buoni
rapporti con…”
“No,
no, anzi!” –lo corresse velocemente un'altra volta- “Voglio loro molto bene,
ero solo… sorpresa.”
Ucraina
si voltò; anche altri contadini erano arrivati e stavano ancora arrivando,
richiamati dalle donne. Accorrevano all’opportunità di vedere quanto bello e
potente fosse il loro possibile salvatore.
Fossero stati al loro posto, non avrebbero perduto un secondo a gettarsi ai
suoi piedi. Lei, Katyusha, era la loro nazione: aveva responsabilità su ognuno
di loro, ma finora non aveva mai potuto aiutarli all’in fuori dei campi, e
quando si era trattato di salvarli dai soprusi, aveva potuto solo piangere, su
di loro come su sé stessa.
Non
sapeva nulla di Lituania, la sua opinione su di lui si limitava a qualche prima
impressione, e quelle sono fatte per fuorviare il più delle volte.
Voleva
tornare libera e stare con la sua famiglia, ma aveva il dovere di rendere
felici i suoi amici contadini, metterli al sicuro dalle scorribande di quei
tartari senza cuore. Maledì ancora la sua sorte, anche se ora girava nel suo
verso, poiché per farlo avrebbe dovuto accettare quella mano, quella sbagliata,
che le veniva ora tesa.
“Mi
scusi se mi ha fraintesa, io la ammiro per essere riuscito a sconfiggere i
mongoli e… Sono sicura che sareste un padrone molto migliore di loro.”
Lituania
guardò il proprio paggio, che di rimando gli sorrise.
“Questo
significa che mi accetterai?”
Guardò
verso nord, chiedendo scusa.
“Si.”
Scusami, Russia.
NOTE STORICHE
Il primo principe di Mosca, quando
ancora era una piccola città fuori mano, fu Daniil, figlio minore di Alexander
Nevsky.
Originariamente Mosca e Vladimir erano
due principati separati, con a capo due principi diversi. Tuttavia ben presto
la distinzione si perse, e i sovrani di Mosca diventavano automaticamente
sovrani di Vladimir (le due città erano comunque molto vicine).
Col passare del tempo, man mano che l’importanza di Mosca si accresceva, andava
diminuendosi invece quella di Vladimir (il metropolita ortodosso la abbandonò
per trasferirsi a Mosca nel 1327), e fu così che il principato “figlio” finì
per assorbire il principato “genitore”. Vladimir-Suzdalia divenne così
Moscovia.
La scena della storia russa nel trecento
è dominata dalla rivalità tra la Moscovia e Tver per la supremazia sulla Russia.
I mongoli dal canto loro marciarono su
questa rivalità, passando sovente da un lato all’altro, nominando Gran Principe
(e quindi collettore dei tributi, “yarlik”, un gradino sopra gli altri
principati russi) prima il principe di Tver e poi quello di Moscovia.
Da un certo momento in poi tuttavia,
l’Orda inizierà a fare riferimento esclusivamente a Mosca, sostenendola nella
sua espansione e assegnandole definitivamente il ruolo di Gran Principato,
sfruttandola per mantenere l’ordine tra i propri vassalli e proteggerli da
invasori esterni (la Lituania in primis).
È in questo periodo che comincia l’ingrandimento
della Moscovia, e con esso la futura unificazione della Russia, secoli dopo.
Tver invece si dimostrò sempre ostile
nei confronti dei dominatori: diversi principi di Tver, ancora oggi tra i più
amati, perirono condannati a morte dai mongoli e furono per questo santificati
dalla chiesa ortodossa.
Il Granducato di Lituania nel trecento
si trovava nella posizione ideale per sottomettere a sé la Russia. La sua
espansione fu dovuta non solo a successi militari contro i mongoli e i divisi e
deboli ruteni, ma anche alla diplomazia. Molte città (come Polotsk) si
sottomisero spontaneamente, vedendo nei lituani dei padroni migliori; persino
città sotto l’orbita moscovita vollero diventare vassalle dei lituani.
Nel 1362, nella Battaglia delle Acque
Blu, il re lituano Algirdas e i suoi alleati ruteni sconfiggono in battaglia
l’Orda, riconquistando Kiev.
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/79/Lithuanian_state_in_13-15th_centuries.png
Prima della fine del secolo, la Lituania
è un paese gigantesco, che domina praticamente tutta la Bielorussia, l’Ucraina
e la Russia occidentale.
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Capitolo 13 *** Sogni caduti, realizzati, a venire ***
Priviet
a tutti, e scusate anche stavolta l’attesa ^__^
Il
periodo degli esami è vicinissimo (ne ho uno la settimana prossima, fatemi gli
auguri vi prego ç_ç), per questo gli aggiornamenti sono sempre lenti, però
chissà, se riesco ad ottenere dei buoni risultati magari potrebbero aumentare
invece!
Questo
è stato un capitolo che mi ha dato molti grattacapi dal punto di vista storico,
dovendo informarmi non solo su date e avvenimenti, ma anche su strutture di
città, col rischio di sbagliare a dare il giusto aspetto nel periodo in cui si
svolge la storia… In poche parole, un grandissimo casino.
Tralasciando
i miei soliti grattacapi da scrittore, veniamo alla storia!
Sarà
un capitolo di introspezione, in cui saranno sondati i cuori di vari
personaggi, ma ci sarà della sana e vivace azione: ogni ambizione richiede le
sue lotte, e bisogna sempre farsi trovare pronti per difenderle.
Buona
lettura a tutti!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS:
Link con la colonna sonora consigliata per la lettura saranno inseriti lungo la
storia ^_^
CAPITOLO 13 – Sogni caduti, realizzati,
a venire
Essendo
una donna dotata di gran pazienza, dono forse concessole dal cielo come a
compensazione delle perenni smanie della sorella sempre accanto, Volinia non
aveva alcun problema con i compiti che duravano a lungo, anzi, svolgeva con
piacere mansioni che richiedevano tempo; trovava la rilassassero più che
stancarla.
In
tutta calma finì di togliere la polvere dalla lunga tavola e da ciascuna delle
sedie, come già aveva fatto dal resto della stanza, arazzo incluso, poi, posato
il piumino su uno sgabello, fece a cambio con un panno; lo inumidì nel secchio
d’acqua al centro del salone e strizzatolo passò ad occuparsi delle tre
armature da torneo allineate sul lato destro della sala.
Ansimò
sul pettorale della prima e iniziò a ripassarlo con movimenti circolari: una volta lucidate a dovere facevano proprio
un bell’effetto, mostrandosi degne del proprietario di quel bellissimo
castello, uno dei tanti che sorgevano, anno dopo anno, sul suo territorio
sempre più vasto.
Alla
fine le davano sempre una gran soddisfazione, però intanto l’avrebbero pure
distolta dalla sua visita per altro tempo, e non era educato farla annoiare con
le mani in mano.
“Mi
daresti una mano, sorella? Così sarò più in fretta da te.”
Galizia
si alzò in piedi, avvicinandosi al secchio pieno d’acqua già un poco torbida:
lo fissò dall’alto e di sbieco, come un nobile volatile a cui viene chiesto di
beccare lombrichi come un pollo qualsiasi.
Si
prese tutto il tempo necessario ad una doverosa preparazione d’animo, dopodiché,
mormorando tra i denti parole ben poco auliche e rimboccandosi le maniche della
veste, si abbassò e intinse nel secchio la striglia: le pareti erano della
stessa ruvida pietra delle mura e dei forti, ma il pavimento, almeno nelle sale
signorili, era stato ricoperto da mattonelle di cotto di un rossiccio scuro,
che avevano per l’appunto bisogno di una bella lavata.
Anche
senza voltarsi, per Volinia era facilissimo immaginare l’espressione della
sorella, tanto come l’avesse esattamente davanti gli occhi: lì a gattoni sul
pavimento, che lo guardava come ad incenerirlo. Non era tanto l’umiltà del
compito, quanto lo star lavando la casa di qualcun altro. Era quella la novità
a cui pian piano stava prendendo e doveva prendere l’abitudine, come ben più
facilmente aveva fatto la sorella.
Le
due, a dispetto delle apparenze, non erano delle scansafatiche, né inesperte in
quel tipo di faccende e si davano certamente da fare come prima di finire alle
dipendenze di altri; l’ansimare di Volinia sulle piastre di metallo si inseriva
di tanto in tanto, come un accompagnamento, sul continuo sottofondo dello
strofinio delle dure setole per terra, senza inutili chiacchiere o soste.
Finché,
finita la prima armatura: “Allora… Com’era quella faccenda di noi due che ricostituivamo
il Rus?”
Il fruscio si fece di colpo più energico: “Oh, chiudi il becco!”
Galizia,
che l’udito l’aveva buono, e che la conosceva bene come l’altra conosceva lei,
si accorse subito della reazione della sorella a quelle sue parole, anche se cercava
di far finta di niente: “Vuoi fare anche tu una battuta sul mio naso?”
“Sarebbe una cosa fin troppo scontata, non ti pare?”
“Invero…”
Galizia
se ne toccò la punta, come a volerne verificare l’affilatezza, riprendendo poi
a raspare e strigliare, con un’energia che di solito chi odia il proprio lavoro
non mostra. A meno che non abbia bisogno di sfogarsi.
Di
quel passo più che pulire il pavimento l’avrebbe grattugiato.
“Non ti prostrare tanto, sorella.” –disse la pacata Volinia, aprendo la celata
alla seconda armatura e soffiandoci dentro per farci uscire la polvere- “Siamo
state conquistate ma ci è andata benino. I nostri padroni sono vicini di casa e
in rapporti abbastanza buoni.” –nello specifico, buoni da quando erano riusciti
a mettersi d’accordo su di loro: una per ciascuno…- “Quindi siamo separate ma è
come se non lo fossimo. O quasi.”
“Fai presto a dire cose del tipo << Poteva
andarci peggio >>, Volinia!” –disse l’altra, venuta a farle visita e
finita a fare l’aiuto-domestica- “Almeno a te è toccato quello buono dei due!”
“Quello
buono?”
Galizia
rivolse al soffitto un sospiro e uno sguardo eloquentissimi, che reclamavano, e
suscitavano, un po’ comprensione: “Quel tizio è insopportabile! Il carattere,
il modo di parlare… Sembra più una ragazzina vanitosa che un uomo… Come non ci
si mettesse anche il suo aspetto o come si veste a farlo sembrare un deviato!”
“Forse
dovrebbe farsi crescere un po’ di barba.” –continuò a scherzarci su Volinia.
In
effetti conveniva sul fatto che, almeno in termini d’aspetto, il suo signore
fosse ben più “virile” di quello della sorella: le aveva raccontato che
chiedeva spesso di aiutarlo ad acconciare al meglio i capelli, e in quello
poteva perderci tempo quasi quanto una donna.
Sciacquò
e strizzò il panno, badando di non schizzare la sorella, per terra lì vicino, e
passò all’ultima armatura. Non sentiva più frusciare.
“Noi
non dovremmo neanche averli i padroni. Non doveva finire così.”
Eccola
che ricominciava, pensò nell’abbassare occhi e pezza verso terra.
“Se
solo Andrey e Lev non fossero morti quel giorno, Dio maledica la sporca razza
mongola!”
“Siamo
state un po’ sfortunate, ecco tutto.” –provò a chiudere in fretta quel
discorso.
“Se
solo avessimo avuto un altro erede ora i nostri capi non sarebbero degli
stranieri! Perché per i ruteni sono secoli non ne va una giusta?”
Non
le bastava le dessero anni in più per via del suo viso, doveva pure fare la
nostalgica bisbetica: passa il fiore dei tuoi anni e non sai fare altro che
recriminare su ogni rimpianto grande o piccolo, e infastidire il prossimo con
la tua rabbia per quello che credevi ti spettasse, non avendo capito che nella
vita nulla ti è dato per certo, e quante volte l’aveva messa in guardia al
riguardo sentendosi dare dell’apatica e della senza nerbo.
Come
se solo perché era conosciuta come la menefreghista delle due a lei non
piangesse il cuore ogni volta che disseppelliva cose che comunque non sarebbero
cambiate. Ricominciò a lavorare, lasciando tutto le scorresse addosso su uno
sperimentato guscio di indifferenza.
“Doveva
rivivere attraverso di noi.”
In
un moto d’orgoglio, Galizia fece scivolare la striglia fino al secchio, non
desiderando altro che averla lontana da sé; come se le parole che le
scalpitavano dentro non potessero fuoriuscire altrimenti.
“Dovevamo
essere noi a far risorgere il suo Rus; non era solo nostro diritto, era il
nostro destino!”
Non
solo una brama, ma un dovere.
“Dovevamo
riunire i nostri fratelli e le nostre sorelle e con loro scacciare via i
mongoli.”
Non
solo per sé stesse, ma per la loro gemma più cara.
“Dovevamo
riprenderci Ucraina, ridarle la felicità, renderla la nazione che merita di
essere. E un giorno sarebbe stata lei a prendere il nostro posto, e il posto di
suo padre, a capo di tutti i russi… Era così che doveva andare!”
“Abbiamo
fallito, sorella. Senza mezzi termini.”
Aprì
la celata dell’ultima armatura e soffiò. Indifferente fino in fondo, non si era
neppure girata per dire quelle cose. Tanto, come prima, conosceva esattamente
le reazioni della sorella, dietro le sue spalle: furiosa, avrebbe respirato
rumorosamente, due o tre volte, nella sala ammutolita, poi, chiusi gli occhi e
chiuse le ali, sarebbe tornata per terra, avrebbe guardato, per qualche
secondo, fissa, la striglia, e la propria mano fredda e bagnaticcia intorno il
manico, e avrebbe ricominciato a pulire.
Non
appena sentì il fruscio ricominciare, privato della foga offerta dalle sue inutili
recriminazioni e rimpianti, riprese a sua volta da dove era rimasta.
Se
prima lo starnazzo di Galizia le aveva dato sui nervi, ora nemmeno il silenzio assoluto
le dava pace. Perché al di là della posa che sempre ostentava, era sempre stata
lei la più emotiva nei confronti delle sofferenze altrui, e la sua boriosa sorella
era speciale.
Avevano
vissuto insieme più che con qualunque altro dei loro congiunti, fino a
diventare una cosa sola; un solo principato, unite nel quale, se erano arrivate
tanto lontano, prima che il fato voltasse loro le spalle, era stato solo grazie
a lei, allo smisurato orgoglio e all’intraprendenza che aveva avuto per tutte e
due.
Metterla
in guardia dal volare troppo in alto, con la testa sempre a dorati futuri, non
era servito a risparmiarle il dolore della delusione, ma lei pure era stata
felice lassù; ora, per ringraziarla di averle fatto ammirare il cielo tanto da
vicino, toccava a lei, la vera “gallina” tra le due, presentare la terra all’aquila,
e fargliela piacere, che ci tenesse o meno.
Passò
al pettorale: “In fondo non siamo poi così sfortunate tu ed io. Pensa in
positivo, come diceva sempre Moscovia. Non dobbiamo più vedere le brutte facce
dei tartari, né sborsar loro più nulla; facciamo parte di un regno forte e
prospero; e ora possiamo vedere Ucraina tutte le volte che vogliamo. E soprattutto,
lei sta bene. Non sei contenta di questo?”
Rifletté
un attimo, e il cuore le tornò a battere: “Si. Hai ragione, ora sta bene.”
Essere
contenta per lei era l’unico pensiero che riuscisse a ridarle la forza di
tenersi in piedi.
La
loro amata nipotina ora non aveva più paura dei saccheggi: coltivava i suoi
campi in pace, al sicuro, sotto un padrone che non le chiedeva mai più di
quanto potesse dare, che le permetteva, dopo essere stata strappata alla sua
famiglia per così tanto tempo, di riabbracciare le sue zie qualora lo
desiderasse.
Chissà,
a pensarci bene era meglio così, si disse Galizia, spostando il secchio vicino
la finestra: che anziché la fatica e il sangue della guerra fosse stata invece
la triste sottomissione a restituir loro l’amata nipotina. Sembrava il prezzo
da pagare per un lavoro svolto da altri al loro posto; però era vero, sogni di
gloria andati in pezzi a parte, non si stava poi così male.
“E
per quanto riguarda riunire i russi, se ci tieni così tanto alle sorti della
nostra patria, non dimenticarti che abbiamo anche un certo nipotino che a suo
tempo dimostrò di avere ambizioni ancora più grandi delle nostre.”
“Sarà
pure, sono sempre stata un po’ scettica su Ivan…” –disse colei che su di sé
invece dubbi non nutriva mai e poi mai…
“Hai
visto come si è fatto alto? È un giovanotto bello e forte, e ha alle sue spalle
una grande donna come tutti i grandi uomini.”
Galizia,
da sempre esile come un chiodo, gonfiò le guance, come a confermare l’aggettivo
“grande” riferito a sua sorella.
L’”addormentata”
Volinia assunse un’espressione sognante: “Forse lui riuscirà dove abbiamo
fallito: ci libererà da Orda d’Oro, e riformerà il Rus. E poi…”
“Poi?”
“Verrà
a riprendere la sua sorellina, come ha promesso: la riabbraccerà, la farà
sedere sul trono con lui, e la renderà felice e forte come voleva il suo papà.”
Davanti
a tanta commozione, la sorella non trovò di meglio che compensare con un po’ di
egoistica ironia: “Speriamo si ricordi di noi due quando sarà il momento. Noi
non eravamo mica incluse nella promessa, o sbaglio?”
“Io dico che dobbiamo avere fiducia in Ivan. Non solo perché, a questo punto, non
ci resta altro da fare: io sento sul serio che può farcela.”
Fu
Galizia quella volta, con ritrovata lucidità, a lasciarsi scivolare di dosso le
parole. Sporse il collo per guardare fuori dalla finestra, poi tornò all’opera,
mormorando parole cupe come l’acqua sporca dentro il secchio.
“Sempre
se Lituania non sconfigge anche lui prima che abbia il tempo di fare alcunché.”
Chiusasi
la gola, all’altra non restò che abbandonare le fantasticherie e ricominciare a
lucidare; ma ormai era distratta e passava e ripassava sempre sullo stesso
punto.
Guardò
anche lei fuori dalla finestra: un cielo ostile in cui un’altra aquila più
giovane di loro, praticamente un pulcino, avrebbe dovuto a imparare a volare,
senza farsi trascinare a terra dalla lunga mano del gigante, per finire
rinchiuso, come loro due, in quella bella aia.
Si
appoggiò al muro: era pure alto, ma come ultima speranza era davvero piccolo.
http://www.youtube.com/watch?v=dJ-QLl5qjLg&list=FLMQtAPmjyT8_b9w7iSreydw&index=2&feature=plcp
La
decisione di sostituire le palizzate di quercia con una cinta muraria si era
rivelata non soltanto saggia, ma anche presa in tempo.
Le
nuove mura del cremlino, in candida pietra, si eran fatte trovare pronte quando
i lituani vennero a svezzarle: le frecce picchiettavano sui bastioni, come
fastidiosi insetti che si ostinavano a pungere il coriaceo carapace di una
tartaruga, le pietre scagliate dai mangani si abbattevano sulla spessa barriera,
finendo in pezzi facendo in fondo pochi danni e un grande baccano.
Un
ennesimo colpo, col fragore di una frana, mandò in frantumi uno dei merli:
sassi, pietruzze e polveri volarono dappertutto, rimbalzando sugli scudi e le corazze
dei russi rannicchiati dietro gli spalti, accecando momentaneamente i più
vicini. Alzavano di tanto in tasto la testa per tenere d’occhio i movimenti
nemici, chi poteva metteva mano all’arco, ma era ogni volta un rischio
sporgersi e si scoccava, pressoché alla cieca, unicamente dalle feritoie. Poi,
dopo averli tempestati di colpi tutto il tempo, gli attaccanti interruppero
improvvisamente il tiro delle armi d’assedio.
“Scale!”
-urlò qualcuno.
I
compagni dalla torre più vicina scagliarono frecce contro i portatori, mentre i
lituani facevano lo stesso verso le mura, sui pronti difensori che si
rialzavano, cessando solo quando le scale furono in posizione.
Un
piccolo drappello, avuta notizia del punto del nuovo attacco stava già correndo
lì in rinforzo, guidato da un arcangelo.
“Muoviamoci.”
Ivan
arrivò in tempo per vedere i suoi tirare i pezzi dei merli distrutti contro gli
arditi che tentavano la scalata. Sguainata l’arma, raggiunse per primo gli
scalini, salendoli a due a due malgrado il peso dell’equipaggiamento.
Messo
piede sul camminamento delle mura, ampio circa tre metri, si ritrovò subito di
fronte a un primo avversario. Parato il
primo colpo del lituano, glielo restituì prima che potesse ripararsi dietro il
piccolo scudo.
Altre
mischie si svilupparono immediatamente intorno a lui, lungo un’ampia zona del
camminamento: l’assalto alle mura poteva farti risparmiare tempo, ma era sempre
la via più sanguinosa per prendere una città, per ambo le parti. L’importante
era non dare tregua e dar loro modo di assestarsi, permettendo agli altri che salivano
le scale di raggiungere indisturbati e più in fretta la sommità.
Un
nuovo lituano stava sopraggiungendo dalla scala a lui più vicina; gli assestò
un colpo al volto col tacco dello stivale, e quello si trascinò con sé il
compagno che saliva dietro, a cui si era afferrato. Due in un colpo. Si girò
subito, prima che gli venisse all’orecchie il suono del loro schiantarsi: non
bisognava concentrarsi solo su chi saliva, ma anche su chi riusciva ad arrivare
e poteva prenderti alle spalle. Aveva oramai imparato a tenere sempre alta
l’attenzione, a non abbassarla nemmeno per un secondo.
Sparita
la paura e subentrata l’esperienza, Ivan era diventato uno dei guerrieri più
tumuti: la sua prestanza fisica, l’abilità nel corpo a corpo, e la bellezza
ispiratrice della sua armatura infondevano sicurezza a chi gli stava vicino,
sicché la sua sola presenza rendeva ogni russo intorno a lui ancora più forte.
Stesone
un altro con un pugno in viso, e un altro ancora, dopo uno scambio di colpi,
ferendolo alla coscia, l’avversario successivo lo attaccò con barbarica foga,
ma Ivan aveva smesso di lasciarsi vincere dalle emozioni. Puoi martellare un’incudine
quanto vuoi, ma non la vedrai mai in frantumi.
Parati
tutti i suoi colpi, Ivan lo attaccò a sua volta, venendo però respinto dal suo
scudo. Non appena questi uscì dal nascondiglio e allungò la spada, Ivan la
colpì con la sua mettendoci tutta la forza. Il colpo fu tale da spingere via
arma e braccio e fargli scoprire il fianco, che subito venne squarciato dal suo
veloce fendente di ritorno.
Il
tempo di voltarsi e ne arrivava un altro, già tanto vicino da vederne il bianco
degli occhi. Ma aveva la spada alta, e prima che potesse abbassargliela addosso,
Ivan gli si gettò incontro, tenendo bassa la sciabola e colpendo verso l’alto
(come si dovrebbe dare una buona pugnalata). La punta gli trapassò il ventre ed
uscì dalla sua schiena puntando il cielo. Il corpo dell’uomo sbatté contro
quello del russo, la sua testa si accasciò sulla sua spalla; per qualche fugace
istante aveva potuto vedere i suoi occhi sbarrati, l’agonia sul viso, lo
sgomento del colpo subito, la consapevolezza della morte imminente.
Ivan
lo spinse via e tirò al contempo a sé l’arma, estraendola.
Alle
sue spalle tre soldati dei suoi stavano riversi a terra, anche se uno ancora si
muoveva; oltre loro, ne cadeva un altro; oltre ancora, il responsabile che si
avventava sul quinto.
Mentre
questo veniva ferito, Ivan era riuscito ad arrivare alle spalle del nemico, ma
quello, forse uditi i suoi passi veloci, non si fece sorprendere, roteando la
spada nel voltarsi. Ivan, che aveva riflessi altrettanto buoni, parò il colpo,
iniziando poi, sgomento, un veloce scambio. Questo qui si che era il più
irruento di tutti. Ed anche il più basso di tutti.
Ad
un fendente, il suo avversario lasciò la propria lama scorrere fino a terra,
per poi indietreggiare con un fulmineo passo, prima che potesse attaccare
ancora. Forse voleva mettere un po’ di distanza, o forse, piccolo com’era, non
riusciva a opporre troppa forza ai suoi colpi, per questo aveva lasciato cedere
la sua arma, una spada alquanto corta ed esile, su misura per lui.
Il
soldatino, sotto il cui elmo con nucale in cotta si intravedevano dei capelli
biondi, serrò i denti e riprese ad attaccarlo, ed Ivan lo lasciò fare,
difendendosi indietreggiando, con un po’ di difficoltà. Non appena vide in
arrivo un colpo dall’alto al basso ne approfittò: grazie alla maggiore altezza parò
con assoluta facilità e con uno scatto della mano sinistra, che aveva libera,
gli afferrò il polso destro, in cui aveva la spadina. Stritolò un po’ e quello,
gemendo, lasciò cadere l’arma.
Sorrise:
si era dimostrato alquanto temerario per star affrontando uno grosso il doppio,
non se lo sarebbe aspettato.
Come
non si era aspettato il successivo calcio negli stinchi…
Quell’attimo
di sorpresa fu fatale al russo: mentre lui era ancora occupato a fare una smorfia,
il piccoletto gli si gettò contro con tutto il proprio peso, schiantandosi con
la spalla nella bocca del suo stomaco.
Col
fiato mozzo, cadde all’indietro, perdendo l’elmo ma non solo: nell’impatto,
l’arcangelo aveva commesso l’errore da principianti di lasciarsi sfuggire la
presa intorno la spada.
Dopo
che la pietra ebbe arrestato la sua caduta, Ivan riaprì gli occhi e vide il
cielo grigio oscurato da una nube ben più vicina e minacciosa.
Il
soldatino aveva tirato fuori un pugnale dalla cintola e gli era saltato
addosso, mettendogli la mano libera alla gola per tenerlo giù. Ma più che quel
braccio, in fondo esile, a tenerlo immobile erano quegli occhietti blu,
tremolanti nelle orbite, come quelli del cane da caccia che freme prima
dell’attacco al cerbiatto intrappolato. Sembravano potergli trapassare il
cranio, acuminati come il pugnale che teneva sollevato nell’altra mano, anche
lui che si scuoteva in essa dal desiderio di fare la conosceva della sua gola.
Ad
Ivan venne da pensare a quanto era stato ridicolo prima a farselo risultare
simpatico, per non dire buffo, solo perché doveva sempre guardare verso il
basso per affrontarlo; alla fine guarda un po’ in che situazione si era
ritrovato quello grande e grosso dei due.
E
guarda un po’ quanta paura gli faceva quello sbarbatello. Si, una paura folle.
I denti stretti, il respiro corto che sibilava tra di essi e arrivava rovente
sulla sua faccia, quegli occhi.
Non
osava nemmeno pensare di muoversi, ancor più che per l’arma puntata contro di
lui e pronta a scattare, per quello sguardo, assassino, spiritato, pazzo.
Quand’ecco
uno squillo di tromba.
Il
giovane soldatino sbarrò gli occhi e alzò la testa, guardando oltre gli spalti.
Gli squilli decretavano la fine dell’attacco, anche quella volta fallito.
Ivan
non ebbe il tempo di rendersi conto di ciò che accadeva e provarne sollievo,
perché subito quello si girò nuovamente verso di lui, con l’identica terribile
espressione.
Addio
gola.
Ma
alla fine, con l’insistere degli squilli, il piccoletto, lanciatagli solamente
un’occhiata di sprezzo, gli si tolse di dosso e si calò giù per la prima scala
disponibile.
Ivan
restò lì a contemplare il cielo. Sembrava prepararsi un temporale. Di certo
non sarebbe stato brutto come quello che
aveva appena avuto davanti la faccia fino a un attimo prima.
Si
rialzò, affacciandosi agli spalti insieme con gli altri soldati russi. La gioia
per l’aver resistito ancora, per essere sopravvissuti ancora, c’era in lui come
in tutti loro. Ma nessuno esultava o festeggiava: intorno a quei fuochi in
lontananza, i cui fumi vedevano alzarsi al cielo, i nemici tornavano a
riposare, a rifocillarsi, a ordire nuovi piani d’attacco.
Da
giorni martoriavano la fortezza e le si lanciavano contro, e non sembravano
fiaccati dai loro fallimenti: sapevano di essere più potenti e numerosi, e che
il tempo gioca sempre a favore di chi è fuori le mura.
Così
era l’assedio, più che l’azione ti annientava l’attesa; l’attesa, senza riposo,
che arrivasse finalmente la volta buona: che giungesse infine il sospirato
mattino in cui, guardando da lassù, li avrebbero visti smontare il campo. Fino
ad allora, non esisteva riposo, né sollievo.
Con
passo trascinato scese quegli stessi gradini che aveva saltato spada in pugno
per proteggere la sua città. Alcuni di quelli che erano saliti dietro di lui
col medesimo coraggio venivano portati giù di peso, per essere guariti o seppelliti.
La
cittadella era ben difendibile grazie al fiume che ne copriva un lato, ma
ritrovarcisi a combattere significava che il resto della città era già stato
lasciato in balia degli aggressori. Una parte della popolazione era riuscita a
trovare scampo in essa; l’altra parte l’avevano affidata alla clemenza del Signore.
Anche
quello era l’assedio, aveva imparato: non si trattava solo una questione di
spazio, non si poteva salvare tutti, assolutamente no. Troppi non
indispensabili civili sarebbero stati solo altre bocche da sfamare e dissetare.
Di
ritorno dalle mura, sin dai primi edifici vide la gente indaffarata a prestare
conforto e soccorso ai soldati, per i quali già dovevano innanzitutto togliersi
il pane di bocca ogni giorno: chi avrebbe difeso la città se non stavano in
forze? Loro erano indispensabili.
Malgrado
tutto, almeno finora, gli assedianti non erano riusciti ancora ad aprire brecce
nelle porte o a oltrepassare le mura, e il rischio della fame, della sete, o
peggio, delle malattie, gravava pure su di loro: non puoi mantenere troppo a
lungo un’armata numerosa che chiede ogni giorno di essere sfamata e pagata.
Si
tirò indietro i lunghi capelli sporchi e si rese conto che aveva camminato a
vuoto, come privo di coscienza; sentiva la testa così svuotata da aver smarrito
da essa perfino la stanchezza e il bisogno di riposare.
Si
fermò in mezzo alla strada, cercando di svegliarsi un po’ e orientarsi, ancora
frastornato dai rumori e dal via vai.
“Mamma!”
–la chiamò vedendola arrivare dalla direzione opposta alla sua.
Corse
verso di lei, che invece mantenne il suo stesso passo, alla testa di un gruppo
di armati.
“Mamma,
stai bene?”
“Non
sono ferita se è questo che intendi.” –rispose la donna a proposito del sangue
che aveva addosso, come si ribatte a un’insinuazione- “Cos’è tutta quest’ansia?
Di che ti preoccupi? Non combatto forse da prima che tu nascessi?”
Ivan
le chiese scusa con un sorriso: “Hai ragione…”
Moscovia
proseguì verso il tratto di mura che il figlio aveva appena contribuito a
difendere: c’era da controllare i danni e le vittime, trovare un posto per i
feriti, disporre le sentinelle sulle torri, e il tutto dopo aver appena combattuto
e respinto l’assalto anche nella sua zona.
Il
fatto che le voleva bene non doveva fargli dimenticare chi fosse correndo verso
di lei in quel modo, come il bravo figlioletto con la madre stanca e bisognosa
di aiuto; era una donna forte come un toro, una guerriera dalla volontà
incedibile, che mai aveva visto vacillare, salvo una volta.
Durante
la caduta di Vladimir, al tempo dell’Apocalisse, mentre i mongoli prendevano la
città e lei lo carezzava sulla testa. La sua capitale bruciava, ma il suo unico
problema erano gli occhi del figlio che non smettevano di fissare la sua ascia,
lasciata per terra, grondante il sangue di un corpo appena un po’ più in là.
“Vorrei non ti ci abituassi mai…” –gli
aveva detto, per poi proseguire singhiozzando- “Ma so che non sarà così.”
La
prima volta che aveva sentito delle gocce di sangue, forse di lei, forse di
qualcun altro, sporcargli la faccia.
Stringeva
ancora la spada nella mano destra, si rese conto.
Si
rimise sui suoi passi senza meta, fino a trovare un posto su cui sedersi e dar
sollievo alle cedevoli gambe. Appena sedutosi, usò un pezzo di straccio, che
per caso aveva trovato e raccattato da terra, per pulire per bene la lama dal
sangue rimasto, prima che si seccasse ed incrostasse, rovinando il metallo.
Qualche
passata e poté accartocciare e gettar via lo straccio: la spada era tornata di
nuovo innocente e scintillante e poteva finalmente riporla nel fodero. Attorno
a lui le solite scene del “dopo”: vedove che piangevano sui mariti portati via
dai becchini come sacchi, giovani che riabbracciavano le amate che avevano
potuto rivedere ancora una volta.
Passò
qualche minuto e sua madre lo raggiunse.
Posò
l’ascia sulla neve e con un sospiro gli si sedette vicino. Ora che la calma era
tornata, anche se logora e sfatta, Moscovia era tornata come amava vederla, dei
suoi soliti colori; Ivan da sempre, dalla prima volta che l’aveva vista
imbracciare le armi, aveva l’impressione che, nei momenti in cui sua madre si
trasformava nella gigantessa guerriera capace di tenere in riga qualunque uomo,
non solo il suo carattere, ma tutto di lei si incupisse. Le vedeva i capelli,
del colore delle foglie d’autunno, perdere la loro luce, gli occhi viola celati
da un velo d’ombra, la pelle farsi di un rosa sbiancato, proprio come un
paesaggio che non può svelare la sua vera natura sotto la pioggia, o forse la
rivela proprio sotto di essa.
Ora
invece, seduta accanto al figlio, riprendeva fiato, colore, sorriso.
Russia
si domandava se non capitasse la stessa cosa anche a lui, ogni volta.
“Stai
bene?”
Lei si che invece poteva fargli simili domande: “Si, sto bene mamma.”
“Anche
oggi quelli che ti hanno visto combattere mi han fatto sentire di quanto sei
stato bravo.” –ridacchiò- “Il loro “arcangelo”, come ti hanno chiamato.”
Russia,
anche lui tornato il giovane schivo di sempre, si scostò dai complimenti
guardando altrove.
“Anche
oggi ce l’abbiamo fatta, Ivan.”
“Quanto
ancora durerà?”
“La solita domanda da assedio.” –ironizzò lei- “Pensa solo a resistere.”
“Lo so. Devo.”
Il
ragazzo si poggiò coi gomiti sulle gambe, nascondendosi metà del viso tra le
mani, tormentato dalla paura di esaurire le energie prima di Lituania. Solo
resistere, l’unica cosa a cui deve pensare un assediato: alla tensione, alla
fame, al dolore, al pericolo, alla paura. Il suo primo confronto con il
famigerato Toris Laurinaitis si era rivelato una lunga e prostrante
dimostrazione di pazienza.
“Non
possiamo cadere anche noi.”
“Non
cadremo infatti, Russia.”
“Zio Tver combatte con Lituania contro di noi, zio Polotsk si è sottomesso a
lui, zia Galizia e zia Volinia sono state conquistate… Anche zio Novgorod si è
messo in affari con lui per essere protetto!” –raccontò con le mani tra i
capelli- “Uno per uno ci sta…”
“Russia,
calmati.”
“Scusami…
Non dovevo lasciarmi sconfortare, ho sbagliato.”
“Sono
i miei fratelli e le mie sorelle, è difficile anche per me.”
“Lo
so.”
“Se
riuscissimo a ritrovare la nostra unità, nessuno di loro si sognerebbe di
rivolgersi a qualcun altro per risolvere i nostri guai: basteremmo noi stessi.
Invece andiamo alla deriva ognuno per conto proprio, è questo che mi fa
rabbia.”
Fece
una pausa, smuovendo un po’ la neve col piede. Poi si schiarì la voce: “Però
ora non c’è tempo per pensare a queste cose, lo so: devo pensare prima di tutto
ai guai che abbiamo là fuori.”
“Ma
sentilo! Non credere che solo perché ti hanno dato un bel soprannome mi serva
un soldo di cacio come te per salvare la mia Mosca.”
Russia
accorciò subito il collo, mentre la madre di contro lo alzò.
“Sappi
che questa città non la cedo né a Lituania né a nessun altro; l’adoro troppo
per permettere che me la conquistino!”
Russia
ritrovò il sorriso: eccome se lo sapeva. Anche ora sembrava lanciare con gli
occhi stanchi una carezza per ciascun tronco o asse che innalzava da terra
case, botteghe, magazzini e chiese.
“Sai
perché adoro Mosca e ho deciso di chiamarmi come lei?”
“Perché
Vladimir era troppo un nome maschile?”
“Esatto,
e anche a volerlo usare per intero, Vladimir-Suzdalia, diventava troppo lungo!”
La
donna lo toccò sulla spalla, dicendogli di guardare insieme a lei, vedere ciò
che vedeva lei: “Questa città sono io: l’ho desiderata, l’ho fatta nascere,
l’ho vista crescere, venire distrutta, l’ho rimessa su e fatta ricrescere di
nuovo. Questa non sarà l’ultima volta che dovrò rimetterla in sesto, ma lo farò
tutte le volte che sarà necessario. Non mi ha dato solo un nuovo nome, ma anche
una nuova forza. È il sogno che sono riuscita a realizzare: una casa grande,
bella e accogliente per me e mio figlio. La difenderò con le unghie e coi denti
da chiunque voglia farle del male, come tu difendi i tuoi girasoli dalla neve e
dai topi.”
Era
da un po’ che non andava a controllare come stavano… Un assedio riempie le tue
giornate, accidenti.
Come
avesse indovinato a cosa il figlio stesse pensando, Moscovia si rialzò.
“Io
vado a controllare un po’ le nostre scorte. Tu cerca di riposare un poco.”
In
altre parole, torna a casa dai tuoi fiori, che per quante volte ti avrò detto
che sembri ancora un bambino, continui a coltivarli con lo stesso amore di
quando ti prendevo in braccio.
“Sei
straordinaria.” –disse, e il passo di lei si fermò- “Veramente straordinaria.
Sono fiero di essere tuo figlio.”
“Anche
io sono contenta essere tua madre, Russia.”
Guardò
le sue spalle allontanarsi. Con poche parole gli aveva ricordato il valore
della perseveranza e tolto lo sconforto dal cuore.
Nessun
uomo reggeva il confronto, e chissà per quante altre donne, forse tutte, valeva
quella frase.
Era
fiero di sua madre, del suo coraggio, dell’amore che dimostrava alle persone e
alle cose a cui teneva.
Voleva
renderla fiera, doveva riuscirci.
Lei
adesso portava il nome di quella città, le cui bianche mura finora non aveva
deluso nessuno se non i suoi ambiziosi nemici che ne invidiavano il successo.
Lui
portava un nome ben più ampio di quello di una semplice città, o di un banale
principato, perciò le sue imprese dovevano essere ancora più grandi. Al
momento, era il nome di una terra afflitta e divisa; non avrebbe reso onore più
grande al sé stesso e alla propria famiglia che unirla.
Spianare
le differenze, seppellire i dissapori, far sì che tutti loro tornassero a
guardare, a testa alta, verso un’unica direzione.
Gli
serviva solo un’occasione; ma era dura trovarsela barricato com’era tra le mura
di casa.
Ivan
non lo sapeva ancora, ma quella occasione che tanto desiderava, sarebbe presto
giunta sul serio.
Presto,
ma non subito. Arrivò il momento tanto atteso in cui Lituania tolse l’assedio,
e tutto tornò tranquillo per un anno intero.
Quello
successivo, lui era di nuovo lì fuori, in tutta la sua potenza, a mettere
ancora a dura prova la loro tenacia e il loro destino già in bilico.
NOTE STORICHE
La stella del principato di
Galizia-Volinia, sebbene luminosa (territorio vasto e i suoi sovrani erano
riconosciuti in occidente col titolo di “Re di Russia”) ebbe vita breve.
Con la morte senza eredi degli ultimi sovrani
Rjurik (Andreij e Lev, fratelli) in battaglia contro i mongoli, nei primi
decenni del trecento cominciò il declino.
La Lituania e il suo vicino, la Polonia,
si spartirono lo stato: la Volinia, con Kiev (definitivamente strappata ai
mongoli nel 1362), andò alla Lituania (1352-1366), la Galizia andò alla Polonia
(1349).
Cessò così il sogno della
Galizia-Volinia (una prima antica Ucraina) di essere riconosciuta erede del Rus
di Kiev.
In corsa per la riunificazione delle
terre russe restavano la Moscovia e Tver.
Come la Moscovia era sostenuta
dall’Orda, così Tver cercò di guardarsi le spalle stringendo un’alleanza con la
Lituania.
Questa, che puntava a strappare ai
mongoli il dominio sulla Rutenia, rispose all’appello d’aiuto di Tver: Mosca fu
cinta ripetutamente d’assedio, nel 1368, nel 1370 e nel 1372, ma resistette in
ciascuna occasione.
La città di Mosca, sulle rive del fiume
Moscova, si trova molto nell’entroterra, in una zona allora circondata da
foreste, lontana dal mare o da laghi che possano mitigarne il clima: gli inverni
sono rigidi e lunghi, le estati brevi, ma talvolta molto calde.
Si sviluppò, come molte città medioevali,
come una serie di anelli di mura concentrici attorno al centro storico, man
mano che l’abitato aumentava di popolazione e quindi di dimensione.
Il cuore di ogni città russa era il
cremlino, la cittadella fortificata in cui si trovavano i più importanti
edifici militari, amministrativi e religiosi.
Ben cinque cremlini sono considerati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO; ma il
Cremlino per antonomasia resta quello moscovita, in cima alla collina
Borovickij, con un lato protetto dal fiume.
Il Cremlino allora: http://www.ermaktravel.com/Europe/Russia/Syani/apollinary-vasnetsov-the-moscow-kremlin-in-the-time-of-grand-prince-st-dmitri-donskoi-undated%5B2%5D.jpg
Il cremlino oggi: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d5/Kremlin_birds_eye_view-3.jpg
In esso si trova oggi la celebre
Cattedrale di San Basilio, da sempre simbolo della città (che però, all’epoca
dei fatti del capitolo, non è stata ancora costruita).
La cattedrale di San Basilio: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/49/RedSquare_SaintBasile_%28pixinn.net%29.jpg
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