Jar of Hearts

di Sparrowhawk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dimmi cos'è l'amore. ***
Capitolo 2: *** Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto ***
Capitolo 3: *** Perché proprio io? ***
Capitolo 4: *** Questo bivio mi impone di fare una scelta. ***
Capitolo 5: *** Non posso crederci, sono davvero qui. ***
Capitolo 6: *** Sesso ***
Capitolo 7: *** E quindi che cosa sono, io? ***
Capitolo 8: *** Non riesco a decidermi ***
Capitolo 9: *** I sogni si avverano sempre al momento sbagliato ***
Capitolo 10: *** Ti amo ***
Capitolo 11: *** Avrei voluto durasse di più ***
Capitolo 12: *** La musica è il nutrimento dell'anima ***
Capitolo 13: *** L'amore ha davvero definizione? ***



Capitolo 1
*** Dimmi cos'è l'amore. ***


Prologo: Dimmi cos’è l’amore.



Amore.

Il mondo pare girare attorno a questo perno.

È sulla bocca di tutti, è nel cuore di tutti, eppure nessuno, ma proprio nessuno, sa davvero che cosa esso sia.

Affetto, tenerezza e attaccamento sono solo alcuni dei sinonimi di questa grandiosa emozione e, per quanto ci forniscano un piano d’insieme per cominciare a studiarlo, ancora non riescono a farti intendere per bene che cosa è l’amore.

È troppo grande, no?

Troppo vario, nella sua interezza, per poter avere delle limitazioni o delle definizioni.

Noi ci proviamo ad imbrigliarlo, a capirlo, ma ogni nostro sforzo appare inutile.

Gli esseri umani non sono fatti per avere ogni conoscenza e, per quanto frustrante possa essere, questo è uno di quei misteri che mai troveranno una risposta.

Non una completa comunque.

Ricordo che una volta mi è stato chiesto che cosa ne pensassi, io, dell’amore.

In principio non dissi niente. Rimasi zitta, impassibile, e quando capii di non avere nulla da dire di preciso alzai le spalle, intrecciando le dita in una ciocca dei miei lunghi capelli. Faccio sempre così quando sono agitata, quando non so come ribattere a qualcosa. Lo detesto perché, quando succede, mi sento debole ed allo scoperto.

«Dai, dovrai pur avere una qualche idea a riguardo.» aveva continuato il mio inquisitore, sghignazzando sommessamente di fronte alla mia apparente ignoranza.

Non potevo biasimarlo visto che, a quei tempi, non avevo ben chiaro un concetto tanto difficile - e, a dire il vero, non ce l’ho chiaro neanche adesso - e la sola idea di dovermi cimentare in un discorso così filosofico mi dava quasi la nausea, ma non appena notai quell’accenno d’ironia nel suo sguardo, qualcosa si accese in me: m’infervorai, dimentica del mio indicibile odio verso un qualcosa che rende le persone deboli e più inclini all’infliggere dolore a qualcuno.

«L’amore è…» cominciai, fiduciosa della mia parlantina e sicura di me stessa.

Dovevo farcela. Ne andava del mio orgoglio.

«…è…»

Già, cos’era l’amore per chi, come me e mio fratello, era frutto di un rapporto che si basava su tutto meno che su quello?

Io non potevo rispondere, non potevo perché anche se di certo, alla mia età, già mi ero infatuata di qualcuno, non avevo l’assoluta certezza di essermi anche innamorata.

Infatuazione ed innamoramento sono due cose ben diverse, infondo.

Rimasi perciò a fissare il vuoto, conscia della mia totale sconfitta: una della mia risma non avrebbe mai saputo un fico secco su quell’argomento. Faceva troppo male, feriva troppa gente, e io avevo il terrore di provare dolore.

È allora che lo vidi.

In quel preciso istante, il primo giorno del mio primo anno di Liceo, durante quella che, lo sapevo, si sarebbe rivelata come la più noiosa delle mattinate, io vidi l’aspetto dell’amore e infine compresi.

Non puoi definirlo perché non hai più parole, una volta che ti scontri con lui.

Non puoi scriverne, discuterne, non puoi neanche raffigurarlo su carta o tramutarlo in musica perché non sarà mai come te lo senti dentro, nel petto.

E poi, ora che tutto mi era chiaro, ero anche assolutamente certa di un’altra cosa: l’amore è soggettivo poiché è diverso per ognuno di noi. Anzi, lo è poiché ha sembianze diverse per ognuno di noi.

Il mio aveva assunto quelle di un ragazzo alto, di bell’aspetto, dai capelli neri e lo sguardo sicuro.

Ma, forse, potevo riassumerlo anche in un’unica caratteristica: il mio amore risiedeva in due occhi grigi, profondi, nei quali mi sarei persa volentieri fino alla fine dei miei giorni perché, lì dentro, riscoprivo me stessa.



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Capitolo 2
*** Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto ***


Uno: Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto


Mi ero sempre comportata come se, l’unica persona importante al mondo, fossi io.

La condizione di vita degli altri esseri viventi, per quanto parte integrante della popolazione mondiale e degni di nota proprio come me, apparivano ai miei occhi come una sorta di spettri, fantasmi che avevano il permesso di condividere la mia stessa aria ma che, al contempo, avevano l’unica regola di starmi il più lontano possibile.

Alle volte ero io a cercare della compagnia.

Mi aggregavo ad una vecchia cerchia di amici e lì ridevo, parlavo, mi comportavo insomma come una normale adolescente. In quei momenti la me stessa cupa ed asociale tendeva a rintanarsi in un angolo della mia mente, al freddo, tenendo per sé ogni commento crudele ed ogni accenno di sarcasmo.

Ma quando non ne potevo più del continuo chiacchiericcio degli altri e il mio odio verso l’universo raggiungeva vette mai viste prima, allora tutto cambiava e quella parte di me veniva fuori all’istante, ostacolando ogni individuo ancora prima che avesse tentato di dirmi anche un semplice ‘ciao’.

Crescendo, quel mio essere tanto scorbutica, divenne una sorta di religione per me.

Arrivai alla soglia dei diciotto anni sentendomi completamente sola, se si considerava la mia non appartenenza a nessun gruppo preciso all’interno della mia classe o fra i miei coetanei, però ero appagata: l’unica cosa di cui mi importava era la scrittura, metodo attraverso il quale avevo imparato ad esprimere le mie idee senza difficoltà e, soprattutto, senza il timore che la mia voce non trovasse la forza di uscire dalla bocca.

Quando scrivevo ero forte, implacabile, ed ogni parola si imprimeva come a fuoco sulla carta, rimanendo indelebile per i giorni, forse perfino per i secoli, a venire.

Ero felice a questo pensiero, perché così una parte di me avrebbe continuato a vivere anche quando io, come è ovvio, non ci fossi stata più.

Inutile dire che, la lettura, fosse subito al secondo posto nella mia classifica di gradimento su ‘le cose che mi piace fare’.

Anche lì, sfogliando le pagine di un tomo pesante tanto quanto un mattone, mi chiudevo nel mio mondo senza permettere ad anima viva di intromettervisi.

Là, nella mia testa, immersa fino al collo nelle profondità della mia stessa fantasia, l’impressione che tutto fosse perfetto non mi abbandonava mai.

Era un sogno.

«Te lo avevo detto che l’avremmo trovata a leggere.»

peccato che, dai sogni, bisogna pur sempre svegliarsi.

Alzai lo sguardo piano, lentamente, ponderando ogni movimento con estrema accuratezza ed imprimendo nei miei occhi una sorta di luce fredda ed annoiata poiché, figuriamoci, già sapevo chi aveva osato interrompere la mia beneamata pausa.

Non biasimavo tanto uno dei due personaggi che si erano messi proprio di fronte a me, togliendomi la flebile luce del sole e mettendomi all’ombra nel grande cortile della scuola. Sapevo che era stato trascinato suo malgrado dal tifone che, entrambi, avevamo la sfortuna di chiamare amico, ma, pur pensandolo, non mi astenni dal proferire queste precise parole:

«Non avete niente altro da fare che andare in giro a tormentare delle povere anime pie come me?»

Detestavo essere interrotta così, senza motivo alcuno.

E, credetemi quando ve lo dico, ero praticamente certa che non ci fosse un valido motivo dietro a quell’interruzione.

«No.» rispose il primo che aveva parlato, alzando le spalle «Che cosa leggi?»

Chiusi il mio libro con un tonfo, riducendo gli occhi a due fessure.

«Non dirmi che sei venuto qui fuori, al freddo, portandoti dietro Sebastiano, solo per chiedermi cosa sto leggendo!»

«Ok, non te lo dico.»

«Seriamente?!»

«Che c’è?» sbottò lui, alzando le mani come a volersi discolpare «Sono stufo di tutte quelle ragazzine che mi girano intorno come api attratte dal miele, dovevo pur fare qualcosa!»

«E perché quel qualcosa deve comprendere l’infastidire me?»

«Forse è il tuo charme.»

«Emanuele, te lo ha mai detto nessuno che sei insopportabile?»

«E a te lo ha mai detto nessuno che quando ti arrabbi sei assolutamente adorabile?»

Arrivati a questo punto, io mi fermai, vinta come al solito da quelle sue stupide uscite: non avevo mai delle certezze con lui e, per quanto mi ci impegnassi, non riuscivo a capire se quando diceva quelle cose era perché le pensava veramente o perché mi vedeva come una delle tante, come una delle fan che cadevano a terra con gli occhi ridotti a cuoricini per una sciocchezza che all’apparenza poteva sembrare un complimento.

Presi a fissarlo con insistenza, serissima.

Solo quel ragazzo, nella sua infinita spavalderia, riusciva a darmi del filo da torcere.

«Ora che il nostro bel dibattito è finito…» continuò Emanuele, sistemandosi al mio fianco sulla panchina ed ignorando volutamente il mio sguardo di fuoco «…mi piacerebbe che tu rispondessi alla mia domanda.»

Io sospirai e mi allungai sul tavolo in legno di fronte a me, uno dei tanti sparsi per il cortile che, nei pomeriggi, quando faceva più caldo, usavamo per mangiarci sopra. Presi a guardarmi la punta delle dita delle mani come assorta, cercando dentro di me la forza di sostenere un altro inutile discorso con lui.

Era così evidente che stava lì solo per sfuggire a lei e non certo per un manipolo di galline che, di solito, o ignorava o premiava con occhiatine dolci. Magari avevano litigato e non aveva voglia di vederla. Poteva essere, visto che non è che il loro rapporto fosse tutto rose e fiori.

«…I racconti di Earthsea.» dissi infine, imprimendo poca gioia in quella risposta nonostante fossi stata entusiasta di quel libro da quando lo avevo comprato «Lo conosci?»

«Ne ho sentito parlare.»

«…vuoi che te lo presti?»

«Assolutamente no, figurati se mi metto a leggere un libro del genere! Ho altro da fare, io!»

In quel momento lo avrei preso a randellate ma, per mia enorme, enorme fortuna, c’era con noi un terzo personaggio che, come suo solito, aveva la facoltà di intervenire quando era più giusto farlo.

«Ehi, è il libro da cui hanno tratto il film che ti piace tanto? Sì, dai, quello di…di Goro Miyazaki.»

Sorrisi teneramente a Sebastiano mentre, alzando la testa, mi voltavo verso di lui.

Come gli volevo bene.

La sua presenza aveva per me lo stesso effetto della camomilla o di un cuscinetto salvavita: nel caso della camomilla, mi calmava, in quello del cuscinetto salvavita, mi impediva di ammazzare Emanuele quando l’impulso si faceva più che pressante.

«Esatto.» mormorai, tornando improvvisamente più vivace.

«Me lo hai fatto vedere a casa tua l’anno scorso, se non sbaglio. Mi era molto piaciuto.»

«Carino, vero?» ecco, adesso ero del tutto rianimata, una nuova luce mi riempiva gli occhioni scuri. Succedeva sempre così quando avevo la fortuna di incontrare qualcuno che la pensava come me su un film, un libro o qualsiasi altra cosa di cui mi intendessi «Pensa che qui, nel capitolo che sto leggendo ora, si scoprono le origi di Sparviere!»

«Adoravi quell’uomo! Mi hai fatto una testa così per tutta la sera.»

«Momento, momento, momento…»

Entrambi ci girammo a fissare il nostro amico che, per via del nostro entusiasmo, era stato tagliato fuori dalla conversazione nel giro di pochi attimi.

Aveva la fronte corrugata, lo sguardo torvo, e forse potevo scorgere una punta di dissenso sul suo viso.

«…quando è successa questa cosa?»

Noi due non rispondemmo di fronte a quella domanda tanto criptica.

Quando era successo cosa?

«Quand’è che vi siete incontrati a vedere un film di sera?»

«Un anno fa, l’ho ben detto.» esclamò Sebastiano, stringendosi nelle spalle.

«E come mai io non c’ero?»

«Guarda che ti ho chiamato» mugugnai io, incrociando le braccia al petto mentre mi chiedevo ancora come mai avesse quell’espressione addosso «sei tu che non sei voluto venire. ‘Un film troppo noioso, per me’, ricordi?»

«Io non ricordo niente.»

«Beh, è così che è andata.»

«Potevi insistere di più, così sarei venuto.»

«Io ho insistito visto che mi avevi promesso che saresti venuto.»

Zittendosi – non credete, rimarrà zitto solo per qualche secondo, il tempo di non pensare e dire la prima gastroneria che gli viene in mente –, Emanuele appoggiò il mento ai palmi aperti, sbuffando sonoramente.

«…secondo me ho ragione io, non ti sei impegnata, e questo perché in realtà volevi stare sola con Sebbolo.»

Probabilmente, sia io che il diretto interessato sgranammo gli occhi increduli.

«Come, scusa?» domandammo, all’unisono.

Non potevo parlare per Sebastiano, ma personalmente trovavo alquanto stupida quell’affermazione: era vero, il fatto che lui fosse di colore come me – ok, io sono sul caffelatte, ma è uguale – e che, quindi, mi comprendesse decisamente meglio di quanto avrebbe potuto fare chiunque altro per certi versi, lo rendeva il migliore degli amici che avrei mai potuto sperare di avere; mi metteva a mio agio, insomma, però la cosa finiva lì.

Arrivare a pensare che avessi voluto qualcosa di più dal nostro rapporto era…strano.

Non dico impossibile, solo strano.

«Hai capito bene.»

Oh, sul fatto che avessi capito non c’erano dubbi, il punto era che preferivo sostenere il contrario pur di non dovermi far scoppiare un embolo per colpa sua.

Respirai a fondo, stringendo le mani in due pugni.

«Stai…» al primo colpo non riuscii neanche a dirlo, tanto mi risultava assurdo «Stai insinuando che io ti abbia volutamente tenuto lontano quella sera – cosa che sappiamo non essere vera – solo per stare sola con il mio amore segreto, ovvero Sebastiano?»

L’altro annuì, fischiettando.

Non gli importava ciò che pensavo io, ormai si era convinto della veridicità dei suoi pensieri e questo, lo sapevano tutti, equivaleva al rendere vano ogni tentativo esterno di fargli capire il contrario.

«…sei un vero cretino.» sibilai, alzandomi di scatto in piedi ed allontanandomi da lui.

Camminai speditamente, senza voltarmi, salendo le scale e chiudendomi in bagno per un periodo di tempo che apparve infinito mentre, con la mano premuta sul petto, laddove batteva il cuore, e l’altra stretta al mio libro, cercavo di recuperare il fiato che stava svanendo per via della tachicardia. I sensi avrebbero potuto abbandonarmi da un momento all’altro ma io, con le lacrime a rigarmi il volto, mi aggrappai con tutta la forza che avevo al mio orgoglio: non sarei svenuta per una cosa del genere, non avrei permesso a quelle crudeli eppure ignare parole di ferirmi più di quanto già non facesse la sua sola esistenza.

Il mio problema al cuore, infondo, era complicato ma non invincibile.



Tornando in classe, qualche minuto dopo il suono della campanella, mi sorbii le parole piene d’ira del professore senza fiatare, la mente piena solo di domande circa la ramanzina che, ne ero certa, Sebastiano aveva sottoposto ad Emanuele.

Mi chiesi cosa gli avesse detto, come lo avesse rimproverato, e me lo domandai con ancora più insistenza quando lo sciocco venne a parlarmi poco prima della fine dell’ultima ora. Avevamo avuto ginnastica, entrambi stavamo in divisa, e siccome ero stata incastrata a mettere via del materiale lui si era fermato per darmi una mano, imponendosi come seconda scelta all’insegnante.

Per un po’ rimanemmo in silenzio, come sempre dopo che avevamo litigato, ma quando questo divenne insopportabile si decise a dire ciò che doveva, omettendo ovviamente la parte che più mi interessava sentire.

«Quel film…» disse «…lo voglio vedere anche io.»

Non si scusò, quindi, però non ne ero sorpresa.

Uno così non si sarebbe scusato mai, neanche di fronte all’evidenza delle sue cattive azioni.

«Noleggiatelo.»

E io non avrei mai lasciato correre questa sua mancanza, atteggiandomi a dura quando invece dentro ero molle quanto un budino.

«Voglio vedere proprio il tuo dvd, guarda il caso.»

«Ma davvero…?»

Sarcasmo.

Una delle mie armi migliori.

Lo sentii sbuffare e, nonostante non potessi vederlo in faccia, ne sorrisi. Era sempre bello sapere di averlo offeso e/o infastidito.

Suvvia, non guardatemi male, per lui era lo stesso!

«Sai bene cosa sto cercando di fare.»

«Per saperlo lo so, ma purtroppo non lo stai facendo come si deve ed io non ti capisco.»

Bisognava sempre spingerlo contro il muro, a quello, altrimenti col cavolo che diceva addio alla sua corazza di robot senza cuore cercando di venire incontro a quelle che erano le tue di esigenze.

Emise un altro piccolo sbuffo e poi, appoggiandosi allo stipite della porta, mise le mani in tasca prima di ricominciare a parlare. Iridi grigie incontrarono iridi marroni e allora, solo allora, percepii con distinzione il peso dei miei sentimenti verso di lui.

Pur non meritandoselo affatto, avrei continuato a perdonargli ogni torto, sempre, rimanendogli accanto come l’amica che mi vantavo di essere ma che, nella realtà dei fatti, risultava essere la peggiore delle mie mascherate. Questo non perché non fossi brava a mentire a me stessa e agli altri, fingendomi totalmente disinteressata nei suoi confronti, piuttosto perché vivere vicino a quel ragazzo come semplice amica mi metteva sempre nella condizione di doverlo vedere mentre se ne andava con un’altra.

Una persona che non ero io.

Una persona che non sarei mai stata io.

«…guardiamo quel film stasera, a casa tua.» disse alla fine.

«Non ho altra scelta?»

Scosse il capo.

«Chiamerò Seb-»

«No. Niente Sebbolo.» aveva una voce calma, vellutata, e in cuor mio sapevo che era lo stesso tono che usava quando voleva abbindolare qualcuna delle sue fangirl «Solo…io e te.»

Corrugai la fronte.

«Niente cuscinetto salva vita?»

«…che?»

«Cioè, volevo dire…» con le dita attorcigliate ad una ciocca di capelli, arrossii appena per via della mia stessa gaffe. Nessuno oltre a me sapeva di quel ‘soprannome’ per quanto anche un beota, a conti fatti, avrebbe potuto capire a chi mi riferissi esattamente. «Solo io e te?»

«Sì.»

«…a che ora?»



Inutile mentire, ero elettrizzata per ciò che sarebbe successo quella sera: lo sapevo da me, non era niente di eclatante per due comuni amici, però per me, quel ‘solo io e te ’, era una sorta di manna dal cielo, un regalo, un miracolo che mai mi sarei aspettata di poter godere. Non stavamo soli da mesi ormai, e ciò era da ricondurre al fatto che Emanuele, nella sua infinita demenza, aveva sempre dato la precedenza alle belle donne piuttosto che ai suoi amici. E ora, finalmente, dopo tutto quel tempo, avrei potuto stare di nuovo in sua compagnia.

Avrei potuto fare finta che esistessimo solo noi, al mondo, inebriandomi delle sue attenzioni e facendo con lui quella sequela di ironici commenti che, se sentiti dalle persone che osservavamo nella televisione, probabilmente avrebbero spinto alla depressione molta gente ma che avevano la facoltà di farmi ridere un sacco. Avrei accettato perfino le sue frecciatine, quella volta, tanta era la mia gioia.

Nei camerini feci la doccia e mi cambiai di volata, correndo poi per i corridoi come se avessi avuto alle calcagna un intero branco di lupi affamati, digiuni non da giorni, ma da anni.

Farlo aspettare era fuori discussione.

Ogni attimo era prezioso. Ogni istante, oro colato.

Correvo, correvo veloce come mai lo ero stata, ritrovandomi a chiedere scusa almeno cento volte a persone con cui non mi ero neanche mai intrattenuta.

Tutto per la stessa persona che, di lì a breve, mi avrebbe nuovamente delusa.

Fu infatti quando arrivai al piano terra, poco distante dall’entrata, che li vidi: Emanuele ed Alessia erano là, fuori dai portoni aperti della nostra scuola, a parlare tutti sorridenti di chissà che mentre io, a fissarli, recuperavo un poco del fiato perso nella corsa. Li osservai con un’attenzione chirurgica, studiando sin nei minimi dettagli ogni loro espressione, ogni movimento del corpo. Ero brava, in questo, e non mi sfuggiva mai nulla.

Le persone per me erano sì dei fantasmi, ma non opachi e senza forma, no. Erano fantasmi un poco speciali, che, quando facevo tanto di avvicinarmi, si tramutavano in una sorta di specchi: in quelle superfici rilucenti non mi specchiavo io, ma i loro pensieri e sentimenti.

Io li guardavo, annuivo, e poi mi allontanavo.

E lo avrei fatto anche questa volta se non fosse stato per il fatto che volevo sentirmi dire da lui ciò che già sapevo.

Lasciai che Alessia se ne andasse prima di affacciarmi all’uscita, seria in volto. Emanuele si girò e mi sorrise, gentile, cauto.

«Ho come la sensazione che tu debba darmi una cattiva notizia.» esordii io, ben sapendo che non avrebbe avuto il coraggio di cominciare da sé.

«Purtroppo mi sono ricordato di avere un impegno, oggi.»

Bugiardo.

«Non credo proprio di poter venire da te, per vedere quel film.»

Bugiardo…

«Questo è un vero peccato, volevo tanto vederlo e passare un po’ ti tempo con te!»

Bugiardo, bugiardo, bugiardo!

«Capisco. Sarà per la prossima volta.» queste parole uscirono dalle mie labbra, le stesse che si stavano stringendo in una smorfia di trattenuto astio «Ciao.»

Feci per andarmene, quell’andatura fiera e da valchiria che mi contraddistingueva a dare un tono alle mie movenze perfino in un momento in cui, le mie gambe, avrebbero preferito cedere per farmi accasciare in terra, fra i pianti. Se voleva mentire poteva farlo, però non poteva credere davvero che io mi bevessi le sue sciocchezze. Non io, non colei che smascherava sempre tutto e tutti. Il solo pensarlo gli avrebbe fatto capire di non conoscermi affatto.

«Ehi!» la sua voce mi fermò, anche se per breve tempo «Non mi fai nessuna scenata? Di solito mi salti addosso quando disdico un appuntamento.»

Di voltarmi non se ne parlava nemmeno, ma almeno rispondere potevo farlo.

«…e perché dovrei? Infondo non è colpa tua se hai dimenticato un impegno.» mi morsi un labbro andando avanti «Per questa volta ti perdono.»

E, detto ciò, proseguii per la mia strada, incurante dello sguardo che si era posato curioso sulla mia schiena.

La mano corse ancora al petto, ma stavolta non cominciai ad ansimare.

Se ne stava lì perché sì, il cuore batteva con una tale forza da farmi del male, tuttavia non così tanto da spingermi a preoccuparmi per il peggio. Da quando lo conosceva ero stata in quello stato tante di quelle volte, che ormai avevo perso il conto dei falsi allarmi che mi avevano portata a credere di stare per morire da un momento all’altro.



Arrivata a casa, chiusami la porta alle spalle, mi accasciai con la schiena su di essa, scivolando piano piano a terra, le ginocchia tenute vicino al petto.

Quello era diventato il mio posticino, l’unico che consideravo come zona neutrale: lì ero ancora in tempo a piangere per i dolori della giornata prima di cominciare con l’altra parte della mia vita, l’unica che mi desse una vera e propria soddisfazione; lì ero ancora la fragile ragazzina diciottenne perdutamente innamorata della persona sbagliata, e non una scrittrice di successo, pronta a fare il suo debutto nel firmamento dei più grandi pensatori di tutti i tempi.

Rannicchiata così, dunque, formulai il solito, odioso e dannatamente giusto pensiero.

Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto.”









La voce dell'Autrice: La demenza di Emanuele alle volte mi sconcerta...ma, siccome è un maschio, non posso fare altro che guardarlo dall'alto della mia superiorità di donna e cercare di passare oltre le idiozie che compie. ù.ù
Che poi, non posso biasimarlo. Se anche io fossi un ragazzo fare forse anche di peggio. *COFF COFF*

Aw, mi dispiace per Angela. Non so, è triste. Malata ed innamorata di un pessimo figuro quale quello là! Pessima accoppiata!
Chissà che ne verrà fuori... *come se lei non lo sapesse*

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Capitolo 3
*** Perché proprio io? ***


Due: Perché proprio io?


Anche la musica era sempre stata per me una grande passione.

Sin da piccola, assieme a mio fratello, mi ero iscritta a tanti di quei corsi per imparare a suonare un qualsivoglia strumento che, alla fine delle mie giornate, mi ritrovavo praticamente prosciugata di ogni energia. Da bambina era semplice seguire tante cose, interessarmi ad attività sempre diverse. Il tempo pareva costantemente dalla mia parte, ed ogni giornata era lunga quanto bastava per permettermi di darmi da fare e di godermi ogni singolo istante.

La scuola, gli amici, il ballo e, appunto, la musica.

Purtroppo non ho mai posseduto la giusta serietà per impegnarmi seriamente in ognuna delle cose in cui mi imbarcavo, però mi piaceva comunque provare cose sempre diverse, e sperimentare era per me una gioia continua. Negli anni della mia infanzia provai a suonare il flauto – come tutti, credo –, la chitarra ed, infine, il pianoforte. Ma mentre mio fratello diventava il migliore sia con uno che con l’altro, io mi riscoprivo ad amare una cosa in particolare della musica.

Certo, il suono di un piano era così dolce e suadente da farmi tremare le ginocchia alle volte, tuttavia c’era qualcosa di ancora più bello, per me. Qualcosa che mi mandava in estasi, che mi struggeva e affascinava di continuo.

Il canto era la massima espressione dei sentimenti umani, ai miei occhi.

Quando avevo modo di ascoltare qualcuno che si cimentava in un’esibizione, rimanevo totalmente rapita dalla sua voce, bella o brutta che la trovassi, e questo perché mi pareva talmente coraggiosa l’idea di imprimere ogni nostra emozione nella voce che alla fine mi ritrovavo incapace perfino di applaudire.

Volevo essere così anche io. Desideravo ardentemente di avere la possibilità di dire le cose che provavo al mondo, senza il terrore di essere derisa o schernita.

Parlare era sempre stato un arduo compito, per una come me, tanto introversa e con la testa fra le nuvole, eppure sentivo che perfino io avrei potuto far capire a tutti chi ero, cantando. In cuor mio sognavo che sarebbe bastata una canzone, una sola, e allora la mia psiche turbolenta e piena di incertezza sarebbe stata compresa da chiunque.

Serviva però la canzone per eccellenza, quella giusta.

Una melodia lenta, pacata, che sarebbe partita piano solo per finire in un maestoso crescendo. Le note di un pianoforte avrebbero accompagnato la mia voce con maestria, senza fallo e senza errori, ed una calda atmosfera avrebbe avvolto me e gli spettatori, unendo i nostri cuori e le nostre menti. Improvvisamente io non mi sarei più sentita diversa e gli altri, che fino ad allora avevano vissuto con una miriade di interrogativi a mio riguardo, finalmente avrebbero trovato le loro risposte.

Avremmo vinto tutti, insomma.

Era questo il mio piccolo, ingenuo desiderio.

A quel tempo mi sembrava la cosa più semplice dell’universo, ma crescendo capii che era decisamente più difficile trovare la canzone del cuore.

Che fosse stata creata da me o da un altro, non avrebbe dovuto avere importanza poiché ciò che contava realmente sarebbe stato il sentimento che avrebbe espresso. Doveva parlare di me, del mio animo, della vita che conducevo e, magari, di ciò che provavo verso gli altri.

Ma più andavo avanti nella mia esistenza e più mi convincevo che mai sarei riuscita in quella ricerca: diventavo grande ed il mio cuore si inaridiva, perdendo la capacità di affascinarsi per ogni cosa e anche quella di provare qualcosa di più dello sdegno e del risentimento.

Alla fine, compiuti diciotto anni, mi convinsi di non avere più speranze.



***



«Mi chiedo che canzoni faranno suonare alla banda quest’anno al concerto di Natale.»

Emanuele aveva fissato il proprio sguardo sul paesaggio oltre la finestra della nostra classe, quella che stava vicino al mio banco. Sia lui che Sebastiano si erano seduti vicino a me per l’intervallo, cosa che facevano senza il mio permesso e senza notare che io, magari, avevo la necessità di stare da sola.

Davvero, quei due mi davano un sacco di problemi, ormai la mia vita sociale era andata allo scatafascio per via del semplice fatto che avevo la fortuna – chiamala fortuna, per un caso in particolare – di essere loro amica: il più delle volte le altre ragazze o non mi parlavano o mi lanciavano frecciatine, insinuando cose che, lo avrei potuto giurare e spergiurare, non avevo neanche mai pensato di fare proprio con loro.

Sospirai, passando con noncuranza gli occhi sulla pagina del mio libro. Ero talmente abituata alle sue interruzioni che ormai sapevo leggere anche senza smettere di prestargli attenzione.

«Io mi chiedo come mai finiscono sempre col chiederti di suonare, al concerto, quando tutti sanno che non lo farai mai.»

L’altro sorrise appena, senza però smettere di guardare fuori.

«Perché sono il migliore, e lo sanno tutti.»

«Ah beh, mi pare evidente. Come ho potuto non pensarci da sola…?»

Sebastiano scoppiò a ridere di fronte alla mia totale insofferenza. Quando il nostro caro Emmy cominciava a lodarsi da solo, io scuotevo il capo e alzavo gli occhi al cielo, ricordandogli il famoso detto che recita ‘chi si loda si imbroda’. Questa volta avevo optato per dell’altro, ma di certo la mia nota di pungente sarcasmo non era mancata nel tono che avevo usato.

«Avrei giurato che ti chiamassero ogni anno solo perché tu li supplicavi in ginocchio di farlo, preso dalla smania di fare colpo su di noi!» disse, dandomi di gomito e facendo sorridere anche me «Sappiamo tutti che in realtà è questo il vero motivo.»

«Ma che spiritoso, il nostro Sebbolo! Davvero, sono basito! Hahaha.»

«A me è piaciuta, come battuta.»

«E certo, tu stai sempre dalla sua parte, figurati…»

Io non dissi niente, ignorando con estrema disinvoltura quella nuova, stupida frecciatina. Ancora non si era dato pace, quello, all’idea che i suoi due amici potessero avere una tresca. Avevamo tentato in ogni modo di fargli presente che non c’era assolutamente nessuna possibilità, per noi due, di metterci insieme, però lui non ne aveva voluto sapere. Era totalmente ignaro del fatto che ci vedessimo come un fratello ed una sorella, più che come un ragazzo ed una ragazza, e gli piaceva rimanere tale.

A volte è meglio far finta di non vedere le cose che ci stanno davanti al naso, e io ero di certo l’ultima a poterlo rimproverare per questa decisione.

Fra i presenti ero la prima a tenere nascoste, perfino a me stessa, tante piccole verità, sostituendole con bugie che mi rendevano la vita decisamente più semplice.

«Ok, ci hai scoperti.»

Mi voltai verso Sebastiano con sguardo interrogativo, senza capire cosa significasse quella risposta alla palese provocazione d’Emanuele.

«…siamo follemente innamorati. Angela ed io ci vediamo di nascosto da mesi, ormai, e durante le lezioni ci rivolgiamo sguardi carichi di parole non dette, attendendo con estrema difficoltà la ricreazione.» mi prese una mano, qui, sbattendo più volte i suoi occhioni «Non è vero, pucci pucci

Se non avessi compreso cosa stava cercando di fare e, soprattutto, se non fosse stato lui ma un altro esponente della categoria maschile, probabilmente avrei staccato la mano dalla sua e gli avrei mollato un ceffone sulla faccia, ma dato che ero sveglia e non mi perdevo mai l’occasione di prendere in giro Emanuele non feci nulla di tutto ciò e bensì giocai al suo stesso gioco. Mi avvicinai a lui e feci naso contro naso, ridacchiando mellifluamente.

«Oh, ma certo, ciccino!» risposi, senza fare una piega «Le ore che ci separano sono per me causa di pena infinita, lo sai.»

«Che dolce, la mia caramellina

«No, tu sei dolce, zuccherino

«No tu lo sei di più.»

«No, tu.»

«Tu.»

«Tu.»

Continuammo così per circa due minuti, trattenendoci a stento dal ridere, perfettamente consci che saremmo potuti andare avanti anche delle ore se l’altro non ci avesse staccati a forza, sbuffando e lanciando improperi ad entrambi.

Non sapevo se gli desse fastidio il nostro essere così affiatati – sempre come amici, eh –, ma di certo non disdegnavo quel genere di reazioni da parte sua: gli unici attimi in cui sembravo esistere, per lui, nonostante passassimo insieme gran parte delle nostre giornate, era quando un altro ragazzo mi si avvicinava. Allora, bofonchiando, arrivava e liquidava chi mi gironzolava attorno con un paio di paroline affilate come rasoi, finendo poi col tenermi il muso per un tempo indefinito, come a volermi fare una colpa di aver anche solo osato dialogare con qualcuno che non fossero lui o Sebastiano. In pratica, dovevo avere solo due amici maschi e, se possibile, dovevo dimostrarmi più affezionata ad uno in particolare dei due, mentre all’altro dovevo limitarmi a rispondere cortesemente.

Queste cose le sapevo, conoscevo bene la sua gelosia senza fine, ed un poco me ne compiacevo.

«Mi fate proprio ribrezzo, quando vi comportate così.» esclamò, causando l’ennesimo attacco d’ilarità da parte nostra.

«Se non vuoi che ci comportiamo così prova a piantarla di dire stupidaggini, Emmy.»

«Io non dico stupidaggini…e non chiamarmi Emmy.»

«Le dici eccome…Emmy

Infuriandosi, cominciò a litigare con l’amico di sempre per quanto, nelle loro discussioni, non vi fosse mai niente per cui valesse la pena di preoccuparsi: erano così uniti, Sebastiano ed Emanuele, che sapevo per certo che non si sarebbero mai persi di vista neanche per un secondo. La loro era una di quelle amicizie che andava avanti per sempre, stretta, importante, unendoli perfino nelle vite a venire. Era un rapporto di cui mi piaceva parlare nei miei racconti, che trascendeva il tempo e lo spazio, impedendo ad ogni fattore esterno di interporsi fra chi aveva la fortuna di possederlo con un'altra persona.

Per un breve lasso di tempo mi persi a contemplarli, rapita da un simile comportamento – ed anche dal modo in cui Sebbolo riusciva a dire Emmy, dando sempre più fastidio al compagno –, quando, improvvisamente, nella classe arrivò tutto trafelato un componente della banda della scuola.

Sgranai gli occhi, incredula di fronte a quella coincidenza. Stavamo parlando di loro solo poco prima!

«Ci serve una cantante!» strillò il ragazzo, il quale non era neanche della nostra sezione «Quella che doveva fare da solista ha la voce fuori uso per troppo affaticamento, lo spettacolo è fra tre settimane ed il dottore le ha impedito di tornare per almeno quattro. Ci serve una cantante!»



Alla fine, il gruppo d’infelici musicisti dovette rifare i provini da capo, riducendo il tempo utile a trovarla al minimo storico. Erano già tutti convinti del fiasco dell’intero concerto e, perfino io, che mai mi ero curata della sua riuscita, cominciai a preoccuparmi seriamente per lo spettacolo. Perché ero sempre impegnata a pensare per me, però la musica la amavo e mi sarebbe dispiaciuto non potermi godere l’annuale rappresentazione.

Sapevo che la bacheca nella hall, su cui le candidate scrivevano i propri nomi, nella speranza di essere prese, si riempiva giorno dopo giorno di nuovi iscritti però, il che un poco mi rincuorava. Almeno c’era dell’interessamento, cosa non sempre presente nelle scuole.

«Come mai tu non ti iscrivi, Angy?» mi chiese ad un certo punto Sebastiano, mentre camminavamo tranquilli per i corridoi dell’istituto «Sei brava a cantare.»

«E tu che ne sai?»

Nel domandarlo non potei fare a meno di diventare rossa, abbassando lo sguardo a terra. Non sapevo come lui sapesse una cosa del genere, né sapevo quando mi avesse sentita cantare, ma di certo avevo già la risposta pronta per la sua domanda. Mi strinsi nelle spalle e lo dissi, senza tanti giri di parole.

«…e comunque non se ne parla. Io non canto con altri che possono sentirmi.»

«Ma…beh, una volta sono stato colpito da un momento mistico e sono andato in chiesa. Ti ho vista, là, sul palco, a cantare.»

E ti pareva, l’unica volta che davo ascolto alle mie cugine mi ritrovavo con un compagno a vedermi. È ovvio. Queste cose succedevano solo a me, dannazione.

Alzai le spalle, noncurante.

«Mi avevano costretta a farlo.»

«Ho capito, ma sei brava.» continuò lui, facendosi più vicino ed abbassando pure la voce. Forse aveva intuito il mio imbarazzo. «Dovresti provare. Almeno fai il provino, se poi non ti prendono…meglio.»

«No no.» mormorai, scuotendo forte il capo. «Non posso. Mi vergogno. Non ci riesco proprio, giuro.»

Sebastiano sospirò e, mettendomi una mano sulla nuca, mi scompigliò affettuosamente i capelli prima di annuire e posare il braccio sulle mie spalle.

«Va bene, allora. Non insisto.»

Gli fui grata di tanta discrezione e, in particolar modo, gli fui grata per la sua gentilezza.

Non mi obbligava mai a fare niente, se non volevo, e anzi tendeva a darmele sempre vinte. Un poco come Simon, mio fratello.

Ecco un altro dei motivi per cui, mi dissi, gli avrei voluto bene per sempre.

Vicino a lui mi sentivo contenta, ben voluta, totalmente libera da quel genere di fraintendimenti in cui è facile incorrere quando si possiede un’amicizia con una persona del sesso opposto: a guardarlo, sentivo nel profondo che mai nulla avrebbe potuto incrinare quel piccolo, importante rapporto che mi ero guadagnata a fatica dopo tutto quel tempo.

Riuscire ad avere una persona accanto che non mi suscitasse certe emozioni era stato un traguardo per me, una sorta di avvenimento straordinario. Mai nella vita mi ero ritrovata ad avere qualcuno a cui mi ero talmente affezionata, da considerarlo importante quanto lo sarebbe stato un parente vero e proprio.

Speravo davvero che nessuno mi portasse via questa piccola gioia.

Almeno quella, chi di dovere, avrebbe potuto lasciarmela.



«Chi…chi può aver fatto una cosa del genere?»

Rannicchiata a terra, con la testa fra le mani, me ne stavo sul terrazzo della scuola, continuando a ripetere quella domanda come un disco rotto, nella speranza che tutto d’un colpo la risposta mi comparisse cristallina nella testa.

Qualcuno, in un attacco d’infinita crudeltà – e di demenza –, mi aveva iscritta ai provini della banda senza dirmi nulla, impedendomi non solo di picchiarlo a sangue ma anche mettendomi nella posizione di doverlo scoprire così, per puro caso, la mattina appena entrata dal grande portone dell’edificio.

Alzandomi dal letto avevo già intuito che sarebbe stata una difficile giornata, ma non avrei mai potuto credere che sarebbe stato per colpa di un simile catastrofico avvenimento.

Scossi il capo, sconcertata.

«È finita.» dissi ancora «Questa è la fine. La mia

«Suvvia, non è una cosa tanto grave.»

Emanuele se ne stava in disparte, le mani in tasca, come suo solito, e pareva quasi non dare peso a tutta questa faccenda. Ma, ancora una volta, non me ne stupii molto. Anzi, forse non me ne accorsi neanche, tanto ero presa da ciò che mi stava accadendo. Avevo sempre saputo che le cose diventavano importanti, ai suoi occhi grigi, solo se lo riguardavano in primis. Se si parlava d’altri perdeva subito d’interesse.

«Mi pare che tu stia esagerando. Devi solo cantare, capirai che difficoltà.»

Non ebbi la forza di controbattere poiché, in fondo, sapevo benissimo che aveva ragione: nessuno mi aveva chiesto di sacrificarmi andando in pasto ad un grosso drago, non stavo rischiando la vita e non mi sarei fatta del male se mai – mettiamo il caso – mi avessero scelta. Ciononostante avevo come l’impressione di avere una sorta di cappio al collo e, quella corda invisibile comparsa dal nulla, stava minacciando di farmi mancare il respiro da un momento all’altro.

«Vorrei solo sapere chi…» chiesi ancora, sull’orlo di una crisi isterica «…o perché.»

«Su, Angy. Adesso respira e…e vedrai che una soluzione la troveremo.»

Sebastiano mi prese per mano e mi fece alzare in piedi, dandomi un buffetto con tutta la carineria che possedeva. Leggevo nel suo sguardo una sorta di inquietudine, un pensiero che non poteva rivelarmi e che, lo vedevo, lo stava lentamente divorando.

Avrei potuto metterlo sotto torchio all’istante, se solo lo avessi voluto, eppure non lo feci. Ora non ne avevo la forza o, se vogliamo, non avevo proprio la testa per farlo.

«Non posso sistemare!» urlai «L’iscrizione non si può ritirare, lo capisci?! Sono incastrata! Se anche non mi prendessero comunque dovrei cantare di fronte alla commissione…e io non ce la faccio!»

Il pensiero di lasciarmi andare e scoppiare in pianti era così pressante da farmi venire il mal di testa, però trattenni un simile impulso, cercando tutta la forza che, da qualche parte, tenevo nascosta per gli attimi più critici.

«Non voglio cantare. Non voglio stare davanti a tutte quelle persone a…a farmi vedere dentro.»

Lo avevo detto, no?

Arrivata a quell’età ogni mio desiderio di farmi capire era svanito, sormontato piuttosto dal terrore di essere fraintesa. Trovavo più facile parlare dietro ad uno pseudonimo piuttosto – come di fatti facevo per il mio libro – che affrontare un intero pubblico, in attesa o di essere mangiata viva o di essere insultata. La certezza che le cose sarebbero andate male non me la dava nessuno, ma per quanto mi ci stessi impegnando non vedevo proprio come la cosa potesse volgere al meglio per me.

Ero in trappola.

Dovevo proseguire per forza, ringraziando il genio che mi aveva cacciata in quel guaio.

Sospirando, passai una mano fra i capelli e mi diressi verso la porta, pronta a prendere le redini del mio destino per quello che mi rimaneva di decidere: una volta salutati con un cenno del capo Emanuele e Sebastiano, mi dileguai dietro alla porta, scendendo le scale e dominando con decisione la mia paura.

Certo, arrivata di fronte alla porta dell’atrio mi bloccai, però durò poco.

Presi un respiro profondo, entrai, e dopo il mio bell’inchino cominciai a cantare la prima canzone che mi venne in mente.

Se non sbaglio fu Heaven.









La voce dell'Autrice: Chi può essere stato? Chi? Cielo, a mio avviso è una cosa piuttosto ovvia, e siccome confido molto nella vostra dote di investigatori (?) credo che anche voi sappiate bene chi abbia osate compiere un simile atto sconsiderato.
Non ho molto da dire, qui. Al momento ho la testa piena di insulti e, rivelandoli, potrei fare spoiler per i prossimi capitoli. Hehe! XD Quindi sto zitta.

Al solito ringrazio la mia cuginetta - la madre di Emmy e Sebbolo - per avermi permesso di inserirli in questa storia ù.ù Love you, my dear

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Capitolo 4
*** Questo bivio mi impone di fare una scelta. ***


Tre: Questo bivio mi impone di fare una scelta.


Purtroppo, io e il coraggio, abbiamo avuto sempre un rapporto alquanto contorto. Ne possedevo da vendere quando si trattava di lottare per gli altri, ma quando si arrivava a parlare di me stessa la cosa cambiava ed io diventavo una pappa molle.

Il fatto che avessi un carattere debole era sempre stato alquanto ovvio, a dire il vero, eppure tutti sembravano stupirsi della facilità con cui mi arrendevo quando qualcosa o qualcuno mi remava contro, ponendomi di fronte a problemi che altri, probabilmente, avrebbero affrontato ad occhi chiusi. La cosa divertente, poi, se così possiamo definirla, era che tendevo e tendo ancora oggi a crearmi muri insormontabili anche da sola: non c’è mai stata una volta, sin da che ne ho memoria, in cui io non abbia avuto paura del futuro, paura di fare una qualsiasi mossa, fosse stata essa per andare avanti o, magari, per tornare indietro.

Il mondo è sempre stato troppo turbolento, per me, troppo pieno di cose che non comprendevo e che mi terrorizzavano.

Quando calava la notte e mi ritrovavo nel mio letto, sotto le coperte, a volte venivo colta da tanta di quell’ansia che dormire diventava praticamente impossibile. Ero assalita da mille dubbi, da cento domande, da idee che poi mi rimanevano anche durante il giorno impedendomi di godermi l’esistenza normale a cui tanto aspiravo.

Una delle mie domande preferite era “Perché vivere, se so che sono destinata a soffrire, in un modo o nell’altro?”.

Mi ponevo questo quesito in continuazione, senza sosta, quasi fosse un mantra.

Inutile dire che la risposta non riuscivo mai a trovarla e che, il mattino dopo, mi ritrovavo con due occhiaie spaventose e la prospettiva di una lunghissima giornataccia a scuola con gente che sorrideva allegramente mentre io, nella mia infinita stupidità, parevo essermi caricata di tutte le disgrazie della Terra.

Non capivo perché per tutti i miei coetanei, vivere, fosse semplice, quando per me era una simile condanna.

Non capivo perché dovessi pensare così tanto alle cose, piuttosto che passarci sopra con la solita noncuranza tipica degli adolescenti.

Non capivo perché, anche quando tutto e tutti mi venivano incontro e mi sostenevano, io mi sentissi in costante apprensione, come in attesa che qualcosa andasse male per forza di cose.

Così, anche l’unica volta in cui la mia intera classe mi dava coraggio per sostenere una difficile prova, me ne stavo là, in un angolo, a cercare di elencare nella mia testa le cose che mi avrebbero distrutta di lì a poco tempo.

Sapevo che ce ne stavano tante, me lo sentivo, e chiunque avesse provato a convincermi del contrario avrebbe ottenuto solo uno sguardo di totale dissenso da parte mia.



***



«Hai qualche suggerimento, per la canzone che dovrai cantare?»

L’insegnante che guidava la banda, un giovane ragazzo di massimo ventisette anni e dai capelli marroni, uscito con onore dall’Accademia di Musica della città, si avvicinò a me con il suo solito rassicurante sorriso, posando una mano sulla mia spalla e spingendomi un poco distante dagli altri, vicino ad una delle grandi vetrate dell’Aula che avevamo scelto per provare. Alzai gli occhi verso i suoi, scuotendo forte il capo sentendomi porre una simile domanda.

A dire la verità ancora non sapevo come ci ero arrivata, fra quelle persone, quindi l’idea che io mi fossi preparata pure delle scelte appariva alquanto assurda.

«Capisco.» disse allora lui, appoggiandosi al vetro freddo della finestra, alcuni spartiti stretti fra le mani «Non è una cosa semplice, eh?»

«…sinceramente...sono ancora scombussolata da tutto questo.»

Lui scoppiò a ridere, di cuore, donando anche a me un piccolo, innocuo sorriso.

«Ti abbiamo messa nei guai, mi dispiace.»

«Ma no, no…che va a pensare…» risposi «Piuttosto, spero di essere all’altezza delle vostre aspettative. Io non ho mai…trovato rassicurante l’idea di esibirmi di fronte a qualcuno.»

Cominciai a tormentarmi una ciocca di capelli, fissando il vuoto: al solo pensiero di ciò che sarebbe accaduto di lì a qualche giorno, una strana nausea mi saliva dallo stomaco, e la voglia di chiudermi in bagno a vomitare l’anima diventava così invitante che quasi speravo accadesse. Pur di non dover affrontare una simile impresa, perfino quella appariva come la migliore delle scelte.

«Se ti abbiamo scelta, un motivo c’è di sicuro, credi a me.»

Annuii, cercando in quegli occhi verdi un minimo di sicurezza in più.

Quel ragazzo la sapeva lunga, era ovvio, e la sua dolce espressione rendeva più facile ogni cosa. Era piacevole stargli accanto, ascoltarlo mentre parlava e ci rassicurava tutti, donando ad ognuno di noi la forza di andare avanti ed il coraggio di tirare fuori sempre nuove idee: io stessa, che di solito tendevo a tenere le cose per me, partorii proposte interessanti che contribuirono a rendere il nostro lavoro più facile e veloce.

Di cose da fare ne avevamo un sacco, questo era vero, però ce la cavammo egregiamente, ridendo come se, infondo, ci conoscessimo tutti quanti da anni. Era un poco come se stessimo facendo un gioco, al posto di un compito serio. Ci divertivamo così tanto che alle volte dimenticavamo addirittura l’ora e rimanevamo fino a tardi, con il professore, a provare, chiacchierare e quant’altro.

Dopo una settima, però, dovemmo cominciare a darci dentro seriamente, io in primis.

Gli altri cominciavano a spingermi per la scelta del brano ma, purtroppo, ancora non sapevo decidermi.

Era un saggio di Natale, mi dicevo, il che avrebbe dovuto restringere il campo a qualcosa di natalizio, ma più andavo alla ricerca di canzoni di quel genere meno riuscivo nell’intento di trovare qualcosa di interessante.

Prima o poi qualcosa doveva venir fuori, o altrimenti avrei mandato a monte l’intero spettacolo per colpa dei miei gusti difficili!

«Sono un vero impiastro.» esclamai un giorno, appoggiandomi alla spalla di Sebastiano «Non dovrebbe essere così complicato. È uno stupidissimo concerto, mica…chissà che!»

Lui non disse niente per un poco, sostenendo ancora lo stesso sguardo che gli avevo letto qualche tempo prima, il giorno della mia forzata audizione.

Da settimane ormai era sempre serio, silenzioso, e quando stavo con lui tendeva a non guardarmi negli occhi, quasi avesse paura che potessi scoprire qualcosa di indesiderato da quelle iridi a me tanto familiari.

Alzai un poco la testa, per guardarlo, e quando notai di nuovo il suo distacco mi misi in piedi di fronte a lui e lo fissai seria in volto.

Le mani sui fianchi, mi preparai a quella che sarebbe stata una bella strigliata da parte mia. Mi pareva strano doverla fare a lui e non ad Emanuele, ma come si suol dire “c’è una prima volta per tutto”.

«Adesso mi devi proprio dire che cosa c’è che non va.» cominciai «Cosa sono questi silenzi? Perché sei così distante, da un paio di giorni a questa parte? Ho fatto forse qualcosa di male senza rendermene conto?»

Al solo pensiero di averlo fatto soffrire od arrabbiare mi rabbuiai. Non mi andava l’idea che potesse avercela con me per un qualsiasi motivo. Come ho già detto, sentivo di avere un disperato bisogno di una cosa assolutamente certa, nella mia vita, e la mia amicizia con Sebastiano era una di queste: almeno lui doveva rimanere invariato nel corso del tempo, sempre pronto a darmi una mano, a farmi ridere, a farmi riflettere sulle cose per bene prima di dare di matto e combinare qualche guaio.

Io avevo bisogno della sua amicizia perché, da sola, sapevo già dal principio come sarei finita.

«Se…» sospirando, abbassai lo sguardo al pavimento, contemplando le mattonelle del corridoio di fronte alla porta della nostra classe. Una miriade di ragazzi lo stavano riempiendo per via della ricreazione ma, anche con tutto quel caos, io riuscivo comunque a sentire con distinzione il tempo scandito dai battiti del mio cuore. Avevo paura, tanta paura. «Se ti ho fatto qualcosa ti prego dimmelo. Ti chiedo scusa, anzi, subito. Non era mia intenzione ferirti.»

Solo allora l’altro sembrò riscuotersi e, alzandosi di scatto, mi prese per mano trascinandomi sulla rampa di scale d’emergenza, dove raramente qualcuno passava. Lì, dopo essersi guardato un attimo attorno, mi poso le mani sulle spalle e, serissimo, parlò.

«So chi ti ha iscritta alle audizioni.»

Corrugai la fronte, perplessa.

«…chi?»

L’arrabbiatura mi era passata, e così anche gran parte dell’ansia che avevo provato in principio – enorme bugia –, ma ad essere sinceri mi incuriosiva ancora quel grande mistero.

Chi aveva fatto una cosa del genere?

«Lo vuoi sapere davvero?»

«Direi…di sì. Insomma, tu non vorresti saperlo al posto mio?»

«Certo…ma non so se è una buona idea che io te lo dica.» continuò Seb, staccandosi e dandomi le spalle, una mano a riavviarsi i capelli «Ho passato queste settimane a scervellarmi, nella speranza di trovare un modo di dirtelo o, quanto meno, di comportarmi come se non ne sapessi niente…»

«Cosa che non ti è venuta molto bene.»

«Ecco appunto. Comunque...insomma, so per certo che sarai furiosa una volta che ti avrò detto chi è stato. Per questo sono stato zitto.»

Arrivata a questo punto la curiosità si fece ancora più grande.

Dovevo sapere, punto. Non c’erano più scuse per lui da poter usare.

Mi limitai dunque a guardarlo, tranquilla eppure implacabile.

«…ok, va bene.» disse, tirando un sospiro enorme «…è stato Emanuele.»

A sentire queste parole non emisi neanche un fiato, assolutamente esterrefatta. Non potevo credere a quell’affermazione, non potevo farlo pur rendendomi conto della totale crudeltà che quel nostro amico, alle volte, sapeva dimostrare. Avevo sempre saputo che non era un santo, ma mai avrei creduto possibile che quella sua malcelata cattiveria potesse riversarsi un giorno proprio su di me.

In un secondo caddi seduta su uno degli scalini, la mano che per un pelo riuscì ad attaccarsi al corrimano delle scale impedendomi di ritrovarmi lungo distesa a terra. Le gambe mi avevano ceduto e, ancora tremanti, sembravano riflettere la confusione che stavo provando dentro. Mi chiesi cosa avevo fatto per meritarmi un simile trattamento. Cosa, nel mio comportamento, lo avesse spinto a farmi un simile tiro mancino. Fra noi c’erano spesso dissapori, non lo avrei mai negato, però avevo sempre creduto che, infondo, tutto andasse per il meglio. Eravamo amici, e gli amici non si fanno del male fra di loro.

Evidentemente mi ero sbagliata.

«Sapevo che non avrei dovuto dirtelo.» piagnucolò Sebastiano, inginocchiandosi di fronte a me, preoccupato «Mi dispiace.»

Scossi il capo, lo sguardo perso nel vuoto.

«No tu…tu non hai nessuna colpa.» gli risposi, senza però guardarlo «Hai fatto ciò che reputavi giusto. Ti sei comportato da amico.»

Poi presi un respiro profondo, chiudendo gli occhi e passandomi una mano sul viso. Stavo raccogliendo le idee, indecisa sul da farsi: avrei potuto correre da Emanuele e vomitargli addosso tutta la mia rabbia, litigare con lui e magari non parlargli mai più, oppure potevo fare finta di niente, tenermi tutto dentro come se nulla fosse successo e come, del resto, facevo sempre quando si trattava di lui.

Mi ritrovavo insomma di fronte al solito, familiarissimo bivio.



Il giorno prima del concerto mi ritrovavo ancora a scuola, nell’aula magna, in piedi sul palco di fronte a dei sedili vuoti. Stavo provando da ore, cercando di immaginare come sarebbe stato cantare con tutte quelle persone a riempirli. Più ci pensavo più la voce mi si strozzava in gola, veloce, crudele, impedendomi di dare il meglio e di dimostrare ciò di cui ero capace.

Non riuscivo a concentrarmi, e questo non solo per la paura che mi attanagliava lo stomaco ma anche per ciò che Seb mi aveva detto.

Alla fine mi ero tenuta a distanza da Emanuele, sia per evitarmi un’inutile discussione – che sapevo non avrebbe portato a niente – che per salvaguardare lui ed i miei poveri nervi. Di tempo già ne avevo poco, se lo avessi speso a pensare alla mia rabbia non l’avrei più finita e avrei sprecato le mie giornate a crogiolarmi nella più nera apatia.

Sovrappensiero, piena di congetture tutte rivolte alla medesima persona, intonai una strofa senza errori o voce calante e, solo allora, udii il suono continuo e sicuro di alcuni passi. Subito alzai lo sguardo, corrugando la fronte. Pensavo di essere rimasta sola nell’edificio, ad eccezion fatta per i bidelli, ma forse avevo fatto male i miei conti.

Quando ebbi modo di riconoscere la persona che mi si stava avvicinando sospirai, scuotendo forte il capo prima di tornare a concentrarmi sugli spartiti che stringevo in una mano.

«Bell’accoglienza.» commentò lui, salendo con un balzo sul palco e facendosi sempre più vicino. «Io vengo a farti compagnia e tu neanche mi saluti?»

Non risposi. Anzi, lo ignorai proprio.

«Ah, già.» disse, alzando le spalle e cominciando a girarmi attorno «Dimenticavo che tu non mi parli più, da un po’ di tempo a questa parte. Come al solito ci sarà un motivo di fondo che mi sfugge totalmente.»

Ero felice che almeno fino a lì ci arrivasse. Insomma, ormai cominciavo a dare per scontato che la mente altrui fosse per lui un mondo a parte e difficilmente interessante, ma almeno per una volta era riuscito a mettere da una parte i suoi pensieri per cercare di capire cosa non andasse.

«Vediamo, da dove posso cominciare per spiegarti cosa non va?»

Improvvisamente mi sentii come rianimata, il desiderio di sotterrare l’ascia di guerra dimenticato, eclissato solo dalla voglia di rinfacciargli tutto il mio rancore.

Mi girai di scatto e, guardandolo dritto negli occhi, congiunsi le mani di fronte alle labbra, come uno di quei cattivi nei vecchi film di una volta, i quali erano pronti a dirne una davvero bella grossa.

«Forse sono arrabbiata con te perché sei un povero demente senza cervello, perché mi menti spudoratamente da quando ti conosco, perché mi dai costantemente buca senza pensare minimamente ai miei sentimenti…» cominciai, puntandogli un dito contro, i denti che piano piano si digrignavano sempre di più «O forse perché mi hai iscritta a quei provini senza neanche interpellarmi!»

Per un poco rimanemmo immersi nel silenzio, lui a sfidarmi con lo sguardo ed io decisa a non cedere di un solo millimetro, almeno per questa volta: esigevo delle risposte, volevo liberarmi di ogni dubbio ora che, come poche altre volte prima di allora, mi ritrovavo di fronte alla fonte dei miei problemi ricca di tutto il coraggio che mi serviva.

Sospirai, esibendo un’espressione stanca e oramai rassegnata.

«…perché?» domandai «Dimmi solo questo. Perché lo hai fatto?»

Emanuele, alzando gli occhi al cielo, scosse debolmente il capo di fronte a questa mia richiesta. Magari per lui appariva come una cosa ovvia, ma io faticavo ancora a comprendere che cosa lo spingesse ad agire a quei modi tanto astrusi e complicati.

«Puoi chiamarla gelosia, se ti va.» mi rispose, sicuro «L’ho fatto perché mi andava, ma soprattutto perché ultimamente sei sempre attaccata a Sebastiano e quasi non mi noti neanche.»

Se, ad una simile risposta, la mia mascella non si slogò per la sorpresa, ebbene, non avrei avuto più occasioni per un simile avvenimento.

Non potevo credere che si trattasse ancora di questo, di una cosa che non c’era e che, santo cielo, non ci sarebbe mai stata.

Io non ero innamorata di Sebastiano, come cavolo dovevo dirglielo!?

«Emanuele, per dio, leggi le mie labbra ed apri bene le orecchie: io non amo Seb!» urlai, gesticolando per bene come se la mia faccia già non esprimesse tutto il mio disappunto «Se gli sto così vicino è perché lui è il mio migliore amico, proprio come lo è per te! Cosa dovrei fare, ignorarlo solo perché a te non va bene che gli doni più attenzioni di quanto non faccia nei tuoi confronti? Ti rendi conto che mi hai punita per una stupidaggine del genere?!»

«Non è una stupidaggine, la mia è una convinzione.»

«Tu sei…sei completamente cerebroleso!»

Gli diedi le spalle e strinsi le mani in due pugni di fronte al petto, reprimendo la tempesta che, altrimenti, gli avrei volentieri scatenato contro: qualsiasi cosa facessi lui non capiva, non voleva saperne di capire ciò che io, nel profondo, provavo. Aveva completamente sbagliato persona e, se solo avesse saputo di chi io ero veramente innamorata, allora forse non ci sarebbe stato tutto questo caos in quel momento.

Fu allora che mi venne il lampo di genio.

Per togliermi d’impaccio bastava dire la verità, una volta per tutte e senza tanti giri di parole. Non dovevo mentire o nascondere i miei sentimenti, solo renderlo partecipe. Poco importava se mi avrebbe respinta. Ora come ora volevo solo uscire da quella situazione, dimenticare il grande equivoco ed andare avanti con la mia vita.

«Io…» aprii la bocca, sì, assolutamente intenzionata a parlare, ma quando mi rigirai per guardarlo, la sicurezza morì così come era nata ed io mi ritrovai ad abbassare lo sguardo «Io non…capisco come tu possa essere così egoista.»

«Come, scusa?»

«Pretendi che tutto il mondo giri attorno a te, ti comporti come se avessi il diritto di manipolare gli altri a tuo piacimento, costringendoli a fare solo ed unicamente ciò che desideri tu.» dissi «Beh, sai la novità? Non tutti sono disposti a darti il contentino, a viziarti come un bamboccio e a fare finta che tutto vada bene. Io non ne posso più dei tuoi capricci.»

L’altro aprì la bocca per ribattere, ma non gliene diedi il tempo.

Finalmente avevo cominciato a dire quello che pensavo senza trattenermi, non potevo permettergli di esercitare nuovamente il suo potere su di me.

«Sono stufa, Emanuele. Stufa. Nella tua testolina esiste solo ‘io, io, io’ ma, guarda un po’, intorno a te ci sono alcune persone che vorrebbero almeno provare a vivere la loro vita senza che tu crei loro problemi inutili e senza senso.» qui presi fiato e, risoluta, tornai a guardarlo «Da qui in poi abbiamo chiuso.»

«…chiuso?» lo vidi ridere, però non cambiai la mia espressione «Spero che tu non sia seria. Il mio era uno scherzo innocente.»

«Se solo mi avessi ascoltata di più, come un normale amico farebbe, avresti saputo che io…non volevo in alcun modo avere a che fare con tutto questo. Quindi il tuo scherzo innocente è per me un peso enorme.»

Emanuele fece un passo avanti, dimostrandosi ora più nervoso e poco a proprio agio.

Forse ero riuscita a smuoverlo.

«E quindi che dovrei fare?» continuò lui «Ignorarti da qui in poi come se non ti conoscessi?»

«Non lo so e non mi importa.» proferii io, muovendomi appena per dargli nuovamente le spalle ma venendo subito bloccata da lui. Mi prese per un braccio e mi trattenne lì, avvicinandosi ancora. Io lo fissai, fredda come il ghiaccio.

«Questo non è ciò che volevo.»

«Fatti tuoi. Avresti potuto pensarci bene, prima di fare lo stupido.»

«No, no, no…tu non puoi essere seria.» si sporse in avanti, ora preoccupato «Non voglio che non siamo più amici. Farò il bravo. Devi solo avere un po’ di pazienza in più.»

Lo guardai, senza sapere che cosa rispondere: con lui in fondo si trattava sempre e solo di questo, di avere pazienza, ma stava di fatto che io di pazienza non ne possedevo più. Ero così stanca, così affranta. Ero arrivata al punto di non sapere più per cosa stessi lottando.

«Non puoi lasciami andare e basta?»

Lo chiesi con un filo di voce, quasi senza fiato.

Dentro di me sentivo crescere uno strano sentimento, un’emozione trattenuta a forza per anni quando, invece, non avrei voluto fare altro che lasciarla esplodere come una bomba.

Lui strinse di più la presa sul mio braccio, guardandomi con una serietà quasi sconvolgente.

«No, non posso.» rispose, semplice e schietto «Puoi pensare quello che vuoi, ma per me non sei un giocattolo. Non lo sei mai stata. E voglio che tu mi rimanga accanto.»

«...vuoi, vuoi, vuoi...pensi sempre a te stesso.» esclamai allora io, sull’orlo delle lacrime «Mi fa male starti accanto, non lo capisci?»

Forse notando ciò che mi stava accadendo per colpa sua, Emanuele mi lasciò andare e, facendosi di un passo indietro, sembrò donarmi un poco della sua pietà, almeno per una volta.

«Qual è la cosa che ti farebbe stare meglio? Vuoi che ti lasci stare? Per...per sempre...?»

Una piccola parte di me stava dicendo “Sì, voglio questo. Desidero che tu mi lasci in pace una volta per tutte.”, però quando aprii la bocca per ripetere queste medesime parole non mi uscì neanche un fiato e, piuttosto, le mie mani tremanti andarono a prendere le sue, stringendole quasi inconsciamente. Alzai di poco il viso verso il suo e lo osservai per un tempo che mi parve interminabile prima che qualcosa di sensato uscisse dalle mie labbra.

«...stare senza di te mi farebbe stare meglio...ma...io... Vedi, io...ti...»

Non riuscivo a finire, non possedevo abbastanza coraggio.

Il mio destino era quello di rimanere nell’ombra per sempre, a sperare che un giorno, la persona che amavo, si accorgesse di me ed abbandonasse una volta per tutte il suo hobby di correre dietro ad ogni sottana che vedeva. Avrei passato così le mie giornate, sino alla fine della scuola, portandomi dietro la tenue speranza che, almeno il nostro ultimo giorno insieme prima del diploma, lui si sarebbe guardato nel cuore ed avrebbe capito di amarmi.

E alla fine, decisa a non vivere così la mia giovinezza, mi alzai sulle punte e, dando voce ai miei più reconditi desideri, posai un piccolo bacio sulle sue labbra. Confusa. Disperata. Ma anche stranamente appagata.

Volevo farlo da così tanto.

« ...io ti amo. Ti amo da morire.»

Ecco, dopo averlo detto avrei preferito che lui se ne andasse piuttosto di sentire le sue braccia a stringersi attorno alla mia vita. Già da sola pensavo d’essere un’inetta, una persona quasi spregevole nel mettere qualcuno in una orribile situazione con quelle due semplici paroline, con un “ti amo”. Non meritavo di essere abbracciata. O, più probabilmente, era lui a non avere alcun diritto di farlo.

«Io... scusami. Non mi ero reso conto che per te ero così... importante.»

Chiusi gli occhi a sentirlo.

Chiedeva scusa ma, guarda il caso, questa volta non mi sentii rincuorata.

Anzi, era un poco come se mi avesse appena tirato un pugno dritto nello stomaco.

E il peggio, lo sapevo, doveva ancora venire.

«Scusa se ora non ti amo. Tu sei... sei speciale, per me. Non capisco ancora come, ma sei speciale, e non voglio cancellarti.»

«...speciale però non basta più. Io voglio essere l'unica. Muoio quando ti vedo con lei...o con le altre.» sussurrai io, facendo leva sulle braccia e staccandolo da me, portandolo lontano. Avevo cominciato a dirgli ciò che provavo, tanto valeva continuare su quella strada. Ormai non c’era più la retromarcia. «Ti prego, piuttosto dimmi che mi odi. Che ti faccio schifo. Ti scongiuro.»

Ero seria. Per quanto assurdo, in quel momento ero dannatamente seria.

«Questo io non so se... se riesco a dirlo. Non è qualcosa che penso veramente, perciò non... non posso dirla. Io non ti odio. Non posso farlo e né mai lo farò.»

«Qui non c'entra più cosa vuoi tu. Preferirei sapere di...di non avere alcuna speranza piuttosto che averti qui, vicino, sentendo che in fondo un poco ti interesso.»

Lo vidi sussultare e, allora, trovai nuovamente la forza di guardarlo in volto. Quel bacio, lo stesso che poco prima mi ero concessa di dargli, anche se in principio era stato innocente, non era stato del tutto ignorato. Le sue mani, quelle grandi mani perfette che tanto adoravo, avevano sfiorato una mia guancia prima di scendere lungo i fianchi, in una stretta debole e leggera.

Sì, avevo capito che non gli ero indifferente.

Purtroppo lo avevo capito.

«...dimmi una bugia. Dimmela, ti prego...»

Emanuele prese un profondo respiro e si grattò un secondo la testa prima di donarmi ancora la sua attenzione. Abbozzò un sorriso, per quanto maligno potesse essere.

«...ebbene mi hai scoperto. Sei la prima che ha finalmente capito quanto mi piaccia tenere due piedi in una scarpa. Il mio problema non è l'odio. Come potrei odiarti quando mi soddisfi più di chiunque altra...?» mi sollevò il mento, tentennando per un breve lasso di tempo «In realtà non ho fatto altro che usarti... solo per divertimento. Tu per me non sei altro che un giocattolo.»

Rimasi senza niente da dire. Ero sconvolta, ferita certo, però non potevo lamentarmi. Avevo avuto ciò che avevo chiesto e, per una volta, Emanuele era stato capace di soddisfare una mia richiesta senza fare di testa sua compiendo un gesto che, alla fine, mi avrebbe resa ancora più schiava dei miei sentimenti per lui. Così, anche se conscia di averlo praticamente supplicato di dirmi quelle cose, potevo staccarmi da lui e magari dimenticarlo.

Sorrisi, le lacrime che solcarono nuovamente le mie guance.

«Bene…» dissi «Ora che abbiamo chiarito io...io devo tornare a provare. Sai il...c-concerto.»

Gli diedi le spalle e mi incamminai verso il microfono. Ai suoi piedi avevo abbandonato i fogli con i testi delle canzoni e, piegandomi in ginocchio, li tirai su distrattamente mentre piangevo come una povera bambina.

Quando lo sentii avvicinarsi, ma soprattutto quando si piegò vicino a me asciugando le lacrime con un fazzoletto, seppi di non avere più la forza di fuggire da ciò che rappresentava. Non potevo. Non potevo.

«Siccome sono un vero stronzo, verrò a vederti il giorno del concerto. E siccome sono stronzo il doppio applaudirò più forte degli altri.»

Singhiozzando, appoggiai la fronte alle ginocchia, stringendole al petto.

«...vieni, non venire...tanto la cosa non cambierà. Io continuerò a soffrire come un cane mentre tu, dall'alto della tua felicità, continuerai a vederti con lei. E con tutte le altre.»

«E allora lascia che stia anche con te.» rispose lui, quasi sconcertato. «È semplicissimo! Basta rimanere amici e tutto si sistema!»

«No che non è semplicissimo! Non lo capisci?! Devi lasciarmi stare!»

«Pronto...? Non voglio lasciarti.» rise «Ma mi spieghi che cosa stiamo facendo? Tu sei in lacrime e sembri disperata, mentre io cerco in tutti i modi di convincerti che sei speciale per me.»

Sollevai il capo e lo fissai, sconvolta. O non voleva capire o mi stava prendendo in giro.

«Io…ti amo. Ti amo tantissimo.» ripetendolo forse mi avrebbe compresa «Non voglio essere tua amica. Voglio…te. Solo te.»

Rimasta ancora una volta senza niente di furbo da dire, gattonai fino a lui e lo baciai di nuovo, quasi senza rendermene conto. Questo però non fu un contatto casto, anzi, si tramutò in un qualcosa di passionale, di sentito. Non riuscivo più a trattenermi ed Emanuele, che credevo essere il più confuso fra i due, ricambiò.

«Non lo capisci che voglio solo te…?»

«…anche io ti voglio. Davvero.» sospirò «…ma voglio anche Alessia e-»

«Va bene. Non mi importa.»

«Non ti importa?»

«No.»

Eccolo di nuovo, il mio bivio.

Stavolta una scelta dovevo farla, non potevo più optare per la scappatoia.

Baciandolo per la terza volta mi strinsi a lui e lo abbracciai, stretto, il cuore che mi batteva all’impazzata.

«…mi va bene anche…passare qualche ora con te.» ammisi infine, chiudendo gli occhi «Come se fossi la tua…ragazza. Non ti chiedo di lasciare Alessia. La ami.»

Qui mi staccai e, guardandolo, mi misi davanti a lui.

«Però se provi qualcosa per me…allora ti chiedo solo di dimostrarmelo.»

E quindi, sporgendosi verso il mio volto, stavolta fu Emanuele a baciare me. Mi strinse forte, costringendomi a farmi ancora più vicina mentre lasciavamo che tutta la passione che ci abitava il corpo venisse fuori in un colpo solo.

Sapevo che il suo non era amore, bensì desiderio, ma decisi di ignorarlo.

Per una volta ero stata coraggiosa anche se, lo ammetto, tremendamente stupida.








La voce dell'Autrice: Improvvisamente c'è la svolta. Mi viene da ridere a pensare a cosa accadrà dopo, e questo non perché sia una cosa esilarante - almeno, dubito lo sarà per chi sta leggendo questa serie - ma più perché i guai non faranno altro che aumentare. Ho sempre pensato che l'amore fosse una cosa complicata...però così tanto complicata non lo avrei mai detto.
Comunque! Almeno la fine di questo capitolo è dolce. In un certo senso. Diciamo che Angela fa di tutto per ignorare i propri errori, almeno quest'unica volta. Ci sarà infatti tempo, più avanti, per rendersi conto di tutto e pentirsi...ma non voglio rovinarvi la sorpresa ù.ù

Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Non posso crederci, sono davvero qui. ***


Quattro: Non posso crederci, sono davvero qui.


Solo ora, ripercorrendo in tutta onestà il mio cammino sino al mio presente, riconosco senza fallo tutti i piccoli errori che mi hanno portata alla totale disfatta e, in seguito nonché in modo del tutto inaspettato, ad un’esistenza che mai avrei potuto credere di vivere.

Oggi, arricchita da ogni esperienza fatta e piena d’amore per le persone che mi sono state accanto e che, ancora oggi, mi sopportano, posso definirmi come la persona più serena e felice di questo mondo. Ho trovato il mio posto, lo occupo senza sentirmi indegna, ma soprattutto ho la facoltà di guardarmi alle spalle con solo un grande sorriso ad incresparmi le labbra.

Potrei infatti dire di essermi pentita di aver detto quelle cose ad Emanuele, sul palco, il giorno in cui gli rivelai i miei sentimenti.

Potrei e, probabilmente, qualsiasi altra persona al posto mio lo farebbe, ma io non ci riesco.

Non posso pentirmi di ciò che dissi allora, con il cuore fra le mani, mentre, per la prima volta nella mia vita, baciavo un ragazzo che sentivo di amare sul serio.

Quelle parole, quel “ti amo”, per quanto sbagliate fossero e per quanto, dopo, mi abbiano portato gravi problemi, sono state per me, per noi, l’inizio di tutto.

Da quel giorno, così lontano eppure tanto nitido nella mia mente, cominciò un nuovo affascinante capitolo. Una fase della mia vita che non cambierei con nessun’altra e che, alla fine, ha contribuito a rendermi la persona che oggi sono.

Una moglie, una madre, una sorella ed un’amica migliore di quanto, prima, avrei mai potuto aspirare a diventare.

Ho parlato del coraggio, ma questa volta dovrò parlare dell’autoconvinzione.

Ignorando infatti quella solita e giusta vocina che urlava dentro di me un alquanto chiaro “Non farlo”, mi convinsi che ciò che stavo facendo era giusto. E non solo giusto per me, che consideravo il mio nuovo rapporto con Emanuele una sorta di ben apprezzato regalo inviatomi dal cielo come ricompensa per la mia pazienza, ma anche per tutti quanti gli altri.

Né io né lui, infatti, vedevamo con la dovuta serietà la marea di errori che stavamo commettendo e che, poi, avremmo commesso.

La strada da noi percorsa ci appariva facile, divertente perfino, però col tempo sarebbe divenuta tutta in salita. Ci avrebbe distrutti. Schiacciati. Annientati. Ci avrebbe inghiottiti, masticati e poi digeriti, lasciandoci infine senza la forza per andare avanti.

E, una parte di me, già le sapeva queste cose.

Già sapevo che avrei sofferto anche più di prima, così, ma feci finta di niente.

Ah, il potere dell’autoconvinzione…



***



«Emanuele…»

Sospirai quel nome sulle sue labbra, indecisa fra la possibilità di lasciarlo andare una volta per tutte e quella di dedicarmi ad un nuovo, meraviglioso bacio.

«…devo prendere tutto questo come un… “Sì, provo qualcosa per te?”»

Lui rise, accarezzandomi i capelli dolce come non mai.

«Non sono abbastanza chiare le mie azioni…?» chiese, baciando fra una parola e l’altra la mia bocca.

Sì. Le sue azioni erano chiare. Molto anche.

Così tanto che avevano la capacità di mandare letteralmente in pappa il mio cervello, obbligandomi a lasciarlo fare quando, a dire il vero, avrei dovuto rendermi conto del luogo in cui ci trovavamo: lì, nell’auditorium della scuola, chiunque avrebbe potuto entrare all’improvviso scoprendoci in quelle stupende effusioni, andando poi a dire ad Alessia cosa il suo caro ragazzo stava facendo con un’altra. Tutti, infatti, erano a conoscenza della sua storia con lei e, per quanto Emanuele fosse notoriamente un donnaiolo, nessuno aveva mai creduto alla possibilità che l’avrebbe mai effettivamente tradita con qualcuno.

Perché sì, amava fare sorrisetti alle altre, dare loro corda per un po’, ma non si era mai spinto oltre a questo.

Alessia era sempre stata la sua numero uno, la persona da cui tornava dopo…beh, dopo tutto.

Per un attimo mi domandai cosa, in tutto ciò che rappresentavo io, lo avesse spinto a compiere quel passo in più.

«Non…non trovo niente da dire di intelligente, ora come ora.» mormorai, permettendogli nuovamente di baciarmi come se fosse la cosa più normale del mondo.

Ogni pensiero si formulava e sfuggiva come sabbia fra le dita di una mano, quando lo avevo così vicino. Non facevo in tempo ad afferrarne uno che, questo, svaniva e non tornava più, lasciandomi confusa di fronte alle cose che mi stavano accadendo adesso.

Sarei potuta rimanere in quello stato per sempre però, per quanto in precedenza avessi sempre detestato il fatto di non ricordare a che stavo pensando solo poco prima.

Lì, fra le braccia di colui che un tempo era stato ‘solo’ un amico, mi sentivo appagata.

Felice anche, non lo nego.

«…non dire niente, allora. Tanto non preoccuparti, ho un modo molto più intelligente per occupare la tua bocca.»

Sorrisi, avvicinandomi prima di sentire il rumore di passi poco oltre il grande portone.

«Angela, sei qui?»

Veloce come la luce mi staccai da lui e, rossissima in viso, cercai di ricompormi. Quella voce, che conoscevo benissimo, apparteneva ad una persona che non volevo sapesse ciò che io ed Emanuele stavamo facendo.

«S-Sono qui, Sebastiano!»

Vidi spuntare la sua testa oltre l’entrata e ricambiai il suo sorriso per quanto, il mio, potesse forse apparire più titubante del suo.

Fattosi avanti di qualche metro, Sebastiano posò lo sguardo sul nostro comune amico e, portandosi le mani fra i capelli, sembrò sbiancare mentre correva anche lui sul palco, preoccupato che ci fossimo affrontati a duello per via di ciò che Emmy aveva fatto nei miei confronti.

Il povero ingenuo non sapeva che l’ascia di guerra era stata ormai seppellita. O bellamente dimenticata.

«Cosa ci fai tu qui?!» esclamò, mettendosi fra me e lui.

L’altro alzò le spalle e guardò a terra per qualche secondo, alla ricerca di una qualche scusa che gli permettesse di passarla liscia.

Ci eravamo alzati in piedi entrambi ma, almeno per il momento, stavamo cercando di non incrociare gli sguardi: io sarei potuta morire per l’imbarazzo e lui…a dire il vero non so come mai lui lo fece.

«Passavo di qui e…»

«…e ha deciso di tenermi compagnia.» conclusi io, tirando su gli spartiti ed i testi come se niente fosse, la mia calma che piano piano si ricomponeva pezzo dopo pezzo. «Cambiando discorso…Seb, tu verrai al concerto, vero?»

Voltandomi verso di lui decisi di dedicargli tutta la mia attenzione.

Era il mio più caro amico e quindi necessitavo davvero della sua presenza. La sua era quasi più importante delle altre.

«Ovvio che ci sarò.» mi scompigliò i capelli, affettuoso come suo solito «Non potrei mai perdermi la mia sorellina che canta davanti a tutta quella gente. Su un palco. Da sola.»

«E dai, non ricordarmi cose del genere…» scoppiai a ridere «Comunque farò in modo di riservarti il posto migliore. Avrò bisogno di uno sguardo amico, in mezzo alla folla, meglio ancora se sarà in prima fila. Così mi verrà più facile riconoscerti.»

Poi, sporgendomi oltre la spalla di Sebbolo, ebbi modo di osservare Emanuele. Un poco arrossii, nonostante tutti gli sforzi per trattenermi.

«E se…prima eri serio…» continuai «…terrò un posto anche a te.»

«Invita anche Massimo!»

«Hai ragione Seb, inviterò anche lui. Oh…e anche…Alessia.»

«Siccome mio padre verrà di sicuro, mi vedo costretto a venire anche io.»

Sebastiano si girò e lo fissò sconcertato, gli occhi pieni di dissenso.

«Guarda che tu venivi lo stesso, anche senza di lui. Sei suo amico e l’hai incastrata tu in tutto questo, ergo è tuo dovere esserci

«Non è mica detto.»

«Ma che…?»

«Ad ogni modo Alessia non ci sarà. Ha già dei programmi per quella sera. Una parente che viene dalla Cina o…qualcosa di questo genere.»

A sentire questa rivelazione quasi esultai ma, per mia fortuna, ebbi la prontezza di riflessi di non saltare allegra per aria sotto agli occhi dei due ragazzi. Trattenni dentro di me la mia felicità, immaginandomi già alla sera dello spettacolo con l’attenzione di tutte le persone cui volevo più bene.

Ora sì che avrei potuto farcela.

Il concerto non era più tanto orribile se visto con occhi tanto entusiasti.



Arrivati al grande giorno metà della mia spavalderia parve essersi letteralmente volatilizzata: ancora pensavo positivamente al complesso di ciò che mi attendeva, però, nonostante questo, non riuscivo ad evitare che le gambe mi tremassero con costanza mentre, il mio cuore, pareva aver preso la decisione di scoppiare lì, da un momento all’altro. Dietro alle quinte, ascoltando con orecchio ben poco attento gli altri che si esibivano prima di me, non facevo altro che camminare avanti ed indietro, torturandomi una ciocca di capelli e deglutendo ogni cinque minuti.

Ero agitata, non ci potevo fare nulla. Quella era in assoluta la prima volta che mi ritrovavo a compiere una simile azione. Per quanto, da bambina, avessi sognato una cosa del genere, sinceramente parlando non avrei mai creduto di arrivare davvero di fronte ad un pubblico deciso a sentirmi cantare.

La mia unica consolazione, ora come ora, era che il mio numero sarebbe stato l’ultimo, ovvero quello di chiusura, e quindi avrei avuto ancora del tempo per vomitare e/o svenire. Almeno, se avessi fatto adesso qualcosa del genere, gli altri avrebbero avuto il tempo di farmi riprendere o di darmi qualcosa di caldo da bere.

«Angela, sei più tesa di una corda di violino.»

Voltandomi, mi ritrovai faccia a faccia con il nostro insegnante che, come suo solito, era il più sereno di tutti. Mi sorrise, prendendomi per mano e portandomi lontano dalle luci della ribalta almeno per quel po’ di tempo che potevo permettermelo.

«Avanti, dimmi che cosa ti turba.»

Io guardai a terra, stringendo la mia mano alla sua manco fosse la mia unica ancora di salvezza.

«La verità è che…improvvisamente credo di aver commesso un grosso errore.» ammisi «Non penso di farcela. Io non…non sono abbastanza coraggiosa per affrontare tutto questo.»

Ed era vero, sin dalla tenera età avevo dimostrato grande forza e decisione per i problemi altrui quando, per quelli che affliggevano me, trovavo fosse meglio fuggire a gambe levate. Così era più semplice. Io non mi ferivo gravemente e le persone che mi stavano attorno credevano fossi fortissima.

«Ma dico, vuoi scherzare?» Max, il professore, scoppiò a ridere e mi mise di fronte ad una delle finestre del corridoio in cui eravamo approdati, indicando il mio riflesso con un dito mentre, l’altra sua mano, si posava delicata sulla mia spalla. «Guardati. Sei bellissima, stasera. In più ti ho sentita cantare e credimi se ti dico che non c’è assolutamente niente, nella tua voce o nelle tue capacità, che ti impedisca di fare un lavoro eccellente là fuori, su quel palco.»

Sospirai, cercando di vedere ciò che vedeva lui in quell’immagine riflessa.

I miei occhi scuri, di un marrone intenso, si scontrarono ben presto con la verità e, almeno per una volta, dovetti rendermi conto di quanto le mie paure tendessero a mandare all’aria tutto quello che di buono riuscivo a fare: Max aveva ragione, stavo davvero bene vestita così, indossando quella camicetta bianca con le maniche a tre quarti e quella gonna nera a vita alta che con l’orlo arrivava alle ginocchia; i capelli poi erano perfetti, lunghi ed adornati con quel fiocco rosso.

Non c’era niente in me che non andasse e, capendolo anche io, risi assieme a lui.

«Sono proprio una scema, eh?»

«Sei agitata.» rispose Max «Direi che è normale.»

«Anche fin troppo. Io sono sempre agitata.»

«Davvero?»

Annuii ma non stetti lì a spiegargli per quale oscuro motivo le mie giornate si ergessero su cumuli e cumuli di pensieri scostanti e tutti da ipocondriaca. Fosse stato per me mi sarei anche lasciata alle spalle certe congetture però, anche quando ci provavo seriamente ad essere positiva ed ottimista, finivo col tornare la me stessa di sempre, quella che per qualche oscura ragione riusciva a sentirsi a proprio agio solo facendo del sarcasmo e nascondendosi dietro al proprio pessimismo.

Insieme, dopo essere andati a prenderci qualcosa da bere, tornammo dietro le quinte dove, tutti, stavano aspettando proprio me.

La banda si stava preparando sul palco mentre il sipario rimaneva chiuso per permettere agli addetti di sistemare ogni singola cosa, rendendo l’insieme perfetto. Vedevo i ragazzi che avrebbero accompagnato la mia voce con i propri strumenti estremamente concentrati, con lo sguardo serio e le mani che, proprio come le mie, stavano tremando. Solo allora, abbozzando un piccolo sorriso, capii che non era la sola a provare un po’ di paura.

Le parole di Max non avrebbero potuto essere più vere. Era normale.

Quando il sipario si aprì il pubblicò applaudì leggermente ed io, facendomi forza, mossi qualche passo per raggiungere il centro dello stage. Nonostante fossimo già pronti, udii del chiacchiericcio andare avanti ma, col senno di poi, feci di tutto per ignorare quei maleducati, concentrandomi piuttosto su ciò che dovevo fare.

La musica partì, lenta, dolce, e nel momento in cui fu il mio turno cominciai a cantare normalmente. Ero serena, e anche se il cuore mi batteva in petto con eccessiva vivacità, nessuna delle immani catastrofi che mi ero immaginata accadde veramente.

C’ero io, c’era la banda e c’erano gli spettatori.

Niente di più.

Nessuno che fischiava, che sbadigliava, né tanto meno persone che si alzavano ed uscivano dall’auditorium.

Era tutto assolutamente perfetto, come me lo ero immaginato tanti anni prima, da bambina.



«Grazie!» esclamai, le lacrime agli occhi dalla commozione dopo il bis e dopo il gran finale con tutti gli appartenenti al nostro gruppo. Stavamo tutti sul palco, sorridenti, felici, contenti di aver reso la serata di quelle persone – che tra parentesi ci stavano applaudendo con una foga impressionante – più magica di quanto, altrimenti, non sarebbe stata. «Grazie a tutti e buon natale!»

Il sipario si chiuse nuovamente e noi, ridendo, ci ritrovammo a farci i complimenti a vicenda. Ci volle un po’ prima che mi rendessi conto della presenza dei miei tre invitati speciali.

«Wow, ma ci siete tutti!»

Andai da loro, abbracciandoli uno ad uno, stringendo fra le braccia il mazzo di fiori che Max, assieme agli altri, mi aveva regalato per ringraziamento.

«Sei stata grande!» disse Sebastiano, stringendomi così forte da lasciarmi praticamente senza fiato.

«Grazie!»

«Ci credi che mi sono messo a piangere?» mi voltai verso Massimo qui, ridendo con lui perché sapevo che quell’uomo, nella sua infinità bontà d’animo, possedeva la lacrima fin troppo facile «Sul serio, bravissima. Sapevo che te la cavavi, ma così tanto non lo avrei mai detto!»

Lo abbracciai di nuovo, annuendo.

«Io sono stupita di aver resistito fino ad ora senza svenire…»

A quel punto, lasciati Sebastiano e Massimo a ridere per la mia ultima uscita, incrociai lo sguardo d’Emanuele e, arrossendo appena, mi avvicinai a lui. Ero agitata, tanto, forse anche più di quanto non lo ero stata durante la mia esibizione.

«Sei venuto davvero…» mormorai, stringendomi a lui piano piano, quasi con timidezza.

L’altro ricambiò l’abbraccio e mi sorrise, affondando in viso nella mia spalla.

«…sei stata la migliore.»

«Addirittura...»

«Io dico la verità, che credi…?»

Gli diedi un piccolo bacio sulla guancia e poi, sentendomi più felice e soddisfatta che mai, mi allontanai per andare a prendere il giaccone, lasciato al mio arrivo non troppo distante dai camerini.

Per tutto il tragitto saltellai allegra, fermandomi di tanto in tanto per annusare i fiori. Nonostante fosse cominciato tutto come uno scherzo – di pessimo gusto – alla fine le cose erano andate per il meglio. Così tanto che mi stupivo anche adesso che era finita ogni cosa. Alla fine, per una stupidaggine compiuta da Emmy, avevo avuto modo di vivere un’esperienza straordinaria, divertente e bellissima.

Quel ragazzo non è del tutto inutile…”

Risi a quel mio commento acido, in tempo per sentire la mano di qualcuno stringersi alla mia. Subito abbassai gli occhi, ferma di fronte agli appendiabiti del corridoio, a contemplare la stranezza di quelle dita intrecciate e la sensazione che mi donavano. Non avevo modo di vedere il volto di chi si era avvicinato a me ma, santo cielo, non mi serviva neanche farlo.

Divenni nuovamente rossa.

«…e se qualcuno ci vedesse?»

Emanuele alzò le spalle, come suo solito.

«Siamo amici, noi due. Fra amici ci si tiene per mano.»

«Alle elementari, forse.»

«E noi lo facciamo anche adesso.»

«…senza contare che noi du-»

«Gli altri non ci leggono nel pensiero.» sbottò lui, fermandomi ancora prima che riuscissi a finire la mia frase. «Cose innocenti di questo tipo non possono di certo metterci nei guai.»

«Ah già, dimentico sempre che per te le persone sono tutte stupide e non sanno fare due più due.»

Entrambi scoppiammo a ridere e, proprio quando eravamo lì lì per scambiarci un nuovo bacio, Max spuntò da dietro l’angolo, obbligandomi a staccarmi subito da lui.

«Angela, eccoti!»

Mi venne incontro, agitando una mano per aria.

«Ti ho promesso che ti avrei accompagnata a casa…è già abbastanza tardi, non voglio che la gente pensi male.»

«Non sia mai, prof!»

«Dai andiamo.»

Voltandomi verso Emanuele gli donai un ultimo sorriso, proferendo un piccolo “Ci sentiamo.” mentre mi affiancavo al professore per uscire dall’edificio scolastico.

Allontanandomi sentii nel profondo di non essere per nulla soddisfatta da quel saluto ma, con un insegnante a guardare, non potevo permettermi nessun genere di debolezza o distrazione. Certo, volevo baciarlo, quello era un desiderio che non affievoliva mai in me quando avevo modo di vederlo – e soprattutto da quando mi ero permessa di farlo la prima volta – ma siccome sapevo in che posizione precaria mi trovassi non lo avrei mai fatto.

Comunque, per fortuna, Max era un compagno di conversazione talmente abile che, in un batter d’occhio, per la nostra intera passeggiata sino a casa mia, riuscii dimenticarmi delle mie pene d’amore. Parlammo di tutto, partendo dalla serata appena trascorsa sino ad arrivare alle nostre passioni, passando perfino per la storia delle nostre famiglie. Ovviamente non mi sbilanciai più di tanto, non amavo per niente il dovermi sbottonare circa il mio passato, però fui grata al cielo di aver scoperto in quell’uomo un simile ascoltatore, dallo sguardo gentile e comprensivo.

Forse addirittura un po’ troppo gentile e comprensivo, se vogliamo dirla tutta, ma in quel periodo ero fin troppo presa da ben altri pensieri per potermi accorgere del fatto che attenzioni simili non vengono donate proprio a tutti.

«Allora, ci vediamo domani al cinema?» mi chiese lui, tirando fuori un discorso che avevamo lasciato in sospeso ormai da qualche giorno.

Avevamo di fatti deciso di andare, con il resto della banda, a vedere un bel film horror giusto il giorno dopo il concerto, prima della fine della scuola per le vacanze di Natale.

Annuendo, gli sorrisi.

«Certo!» esclamai «Non vedo l’ora!»

«Bene.»

Max si grattò distrattamente una guancia poi, guardando in terra prima di posare di nuovo lo sguardo su di me.

«…te l’ho già detto che stasera sei stata bravissima?»

«Oh, beh…grazie. Insomma, io mi son vista normale.»

«Normale?» lui scoppiò a ridere, di gusto «Sembravi un angelo, con quella voce. No, anzi…una Dea.»

Qui non potei proprio fare a meno di arrossire di botto, accorgendomi come d’incanto che simili complimenti non me li aveva mai fatti nessuno, fatta ad eccezione per mio fratello. Senza esitare un secondo portai lo sguardo altrove e, balbettando, cercai di riprendermi dalla sorpresa.

«Esagerato.»

«Dico solo la verità. Sei adorabile.»

E mi scompigliò i capelli, salutandomi subito dopo.

Fissandolo, ebbi modo di notare ancora una volta quanto fosse assolutamente ed innegabilmente elegante nella sua persona, con una camminata sinuosa, i capelli legati in una coda da un nastro scuro, il giaccone beige che arrivava appena sopra il ginocchio ed un corpo decisamente invidiabile. Era ovvio che tutte le studentesse e gran parte delle professoresse morissero dietro ad un simile personaggio.

Insomma, era bello. Non potevo mica negarlo a me stessa.

Solo in quel momento mi accorsi di strani fruscii alla mia destra.

Girandomi di scatto fui felice nello scoprire che non c’era niente di strano a parte un certo strano movimento fra i cespugli. Mi feci vicino di qualche passo, cercando di scorgere magari un qualche animaletto intrappolato fra i rami.

«…spero che un gatto non si sia ficcato di nuovo là dentro.» mormorai, chinandomi sulle ginocchia «È pieno di ortiche. I versi dell’ultimo non mi hanno fatta dormire per tutta la notte, l’altra volta.»

Alzai le spalle e me ne andai a casa, pronta a chiudere occhio, svegliarmi l’indomani, andare a scuola e godermi una bellissima, bellissima giornata.



«Ma che cavolo avete fatto?»

Appoggiata com’ero alla finestra della nostra classe, ricominciai ad osservare le mani dei mie due amici quasi assorta, perplessa di fronte alla miriade di opzioni che mi aiutavano a spiegare come mai avessero quelle bolle bianche sui palmi delle mani.

«Come…avete fatto?»

Non ottenni risposta, ma questo solo perché notai Max a passare nel corridoio e, salutandolo, mi concentrai unicamente su di lui. Non lo feci con cattiveria, sia chiaro, solo che ormai riconoscevo in lui un amico più che un semplice professore.

«Tu sei fuori!» urlò Sebastiano, spaventandomi a morte mentre mi veniva vicino in tutta fretta, allontanandosi da Emanuele che, dal canto suo, aveva praticamente ribaltato un banco calciandolo.

«Ops.»

«Ops?! OPS?!» disse ancora Seb, sconvolto «Che cavolo ti fumi la mattina?! Che razza di droghe prendi per fare certe cose, si può sapere?!»

Emmy sorrise, mettendosi seduto al suo posto.

«Si chiama gelosia ed è molto più comune di quel che pensi.»

«Grazie tante! Per poco non mi facevi venire un infarto!»

«…adesso dovete proprio dirmi che vi prende, a voi due.» mormorai io, inclinando appena il capo da una parte. Cominciavo ad essere estremamente sospettosa, a dire il vero, e siccome ero abituata a trovare Sebastiano così agitato solo quando Emanuele ne combinava una delle sue indietreggiai, scuotendo la testa. «Cosa avete fatto? Dio, non un altro tiro mancino…ve ne prego, sono appena uscita dall’ultimo!»

Seb si voltò verso di me, abbozzando un sorriso che non mi prese in giro neanche per un attimo.

«M-Ma no…non è niente. Non ti preoccupare. Il nostro Emmy ha bevuto troppo caffè questa mattina, tutto qui…»

«Non è vero, lo sanno tutti che non faccio mai colazione.»

L’altro si diede una manata sulla fronte, cadendo in silenzio mentre il ragazzo che mi stregava il cuore si alzò di scatto in piedi e mi puntò il dito contro. Io mi irrigidii, senza capire che cosa, stavolta, lo spingesse ad essere tanto su di giri.

«Tu!» esclamò, attirando l’attenzione dei nostri compagni di classe – o almeno quelli che ancora non avevano notato lo scatto d’ira del grande Emanuele – «Voglio sapere per filo e per segno qual è il rapporto che c’è tra te ed il professore!»

Diventai rossa all’istante, molto probabilmente.

Che razza di domande, proprio da lui!

«Non…non c’è assolutamente niente fra me ed il professore! Non capisco cosa ti venga in mente!»

«Non ascoltarlo…» questo era Seb che, sussurrando, cercava ancora una volta di placare i nostri bollenti spiriti.

Come al solito, però, nessuno ebbe la grazia d’ascoltarlo.

«Sei uno scemo! Cosa chiedi?» stavo cominciando a dare di matto per via dell’imbarazzo e dell’incredulità. Come poteva domandarmi una cosa del genere quando, glielo avevo detto solo due giorni prima, ero innamorata persa di lui?! «Perché devi essere così stupido?!»

Poi, additando a mia volta Sebastiano…

«E tu perché diavolo lo stai aiutando?!»

«…io?» anche lui si indicò «Io?? Guarda che mi ha costretto a-»

«A vedervi insieme subito ho pensato male.»

Emanuele lo interruppe, rivolgendomi uno sguardo contrito che, per una volta, mi convinse.

«Ti chiedo scusa.»






La voce dell'Autrice: In codesto capitolo, comincia la storia fra i due. Non ho molto da dire, se non che da qui in poi sarà per me un vero piacere continuare a scrivere.
La gelosia di Emanuele mi fa sempre sorridere, per quanto sia totalmente infondata. Fra i due, quella che si dovrebbe preoccupare, è certamente Angela, non lui, ma siccome quel ragazzo è scemo - sì, lo so, lo dico in ogni capitolo - non ci si può fare poi molto.
La loro dolcezza, però, mi fa sorridere. Sono carini, in fondo.

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Capitolo 6
*** Sesso ***


Cinque: Sesso


C’è poco da dire, chiunque sogna la propria prima volta.

Al mondo, anche adesso, ci saranno almeno un migliaio di adolescenti – equamente divisi fra maschi e femmine – che stanno cercando di figurarsi quel dato momento: immaginano forse la loro stanza piena di candele profumate, il salotto di una casa libera da sguardi indiscreti o, molto meno romanticamente, anche il retro di un’automobile; pensano di farlo con la persona amata, per gioco, per curiosità forse; sognano mille situazioni diverse e, in ognuna, quando con l’occhio della mente arrivano al fatidico momento, rimangono confusi ed inebriati dalla strana sensazione di non essere mai abbastanza vicini alla verità per poter fantasticare su qualcosa come il sesso anche solo con un briciolo di serietà.

Io non ero da meno, ai tempi dei miei diciotto anni.

Non potevo considerarmi fissata su un simile argomento come altri, questo no, però alle volte mi capitava di lasciarmi andare a simili congetture. Nella mia testa era sempre tutto perfetto, impeccabile, così romantico da lasciarmi senza fiato nonostante fosse solo un sogno ordito dal mio subconscio. Di complesso non c’era nulla, ma io lo trovavo comunque magnifico. C’era lui e c’ero io. Niente di più. Era la cosa più semplice del mondo, eppure la più bella.

Le domande che più spesso mi affollavano la mente erano le solite, quelle che probabilmente tutti si sono chiesti presto o tardi durante la propria govinezza.

Sarò capace di non tirarmi indietro, quando finalmente accadrà?

Sarò in grado di non dimostrarmi per la ragazzina impacciata che, a conti fatti, in realtà sono?

Sarà piacevole o, magari, troppo doloroso?

Ogni volta, poi, riuscivo a trovare diverse risposte. Nulla di sensato o di basato su verità assolute, ma che riuscivano a non farmi incaponire su quei quesiti che, se ancora non mi avevano rimbambita, lo avrebbero fatto presto come molte altre mie piccole fissazioni.

Il fatto era che mi conoscevo bene e sapevo che, arrovellandomi su problemi ancora da affrontare, mi sarei infine rovinata il tutto, una volta che fossi stata in grado di testare sulla mia pelle una nuova simile avventura.

Io, ad ogni modo, non avrei mai creduto che la mia prima volta con un ragazzo si sarebbe svolta come, in seguito, avvenne.

Tutto ciò che quel giorno mi travolse peggio di un treno in corsa mi apparve del tutto inaspettato… Anche se, forse, la persona cui donai la parte più importante di me era quella che, da sempre, aveva stregato i miei sogni e le mie speranze.



***



Quella mattina mi era stata mossa una pesante accusa da parte di qualcuno che, almeno a mio avviso, non avrebbe neanche dovuto avere dubbi su chi fosse l’indiscusso sovrano che dominava il mio povero cuore malaticcio e malfunzionante. Emanuele si era dimostrato un idiota – come sempre – e questo non solo perché aveva tratto conclusioni troppo affrettate come suo solito, ma anche perché aveva avuto la malsana idea di esporle in una maniera a dir poco barbara.

Additandomi lì, di fronte a tutta la classe, che per altro si era goduta uno spettacolo impagabile mentre io diventavo più rossa di un pomodoro e Sebastiano tentava di fracassarsi la testa contro al muro per l’imbarazzo, mi aveva messa nuovamente di fronte alla necessità di contemplare la sua innata, stupida, inconcludente gelosia. Già da semplici amici ne ero stata vittima. Il concerto era un chiaro esempio del livello cui quel ragazzo poteva giungere se mosso da un simile sentimento. Era arrivato a giocarmi un simile tiro mancino per una convinzione senza fondamenta, e ora che mi ero dichiarata a lui, concedendogli forse un certo controllo su tutto ciò che mi riguardava, cominciai a temere che quel suo problemino sarebbe solo peggiorato.

Prima ero la sua amica. Sua e di nessun altro, lo aveva ripetuto innumerevoli volte.

Adesso invece, adesso che ero diventata qualcosa di più, ci sarebbero stati ancora più problemi.

Mi poggiai sbuffando al muro esterno del cinema, guardandomi la punta dei piedi mentre attendevo l’arrivo dei miei compagni di banda e del professore. Non avevo alcuna voglia di pensare a certe cose, se davanti avevo la possibilità di divertirmi e di dimenticare, anche se per poco, i miei soliti crucci. La serata sarebbe dovuta essere all’insegna dell’allegria e io, con il muso che mi ritrovavo, avrei di certo portato tutt’altre emozioni all’interno del gruppo se non fossi stata capace di lasciarmi alle spalle quelle preoccupazioni.

Per cosa mi ero vestita di tutto punto se non per una bella uscita con gli amici?

Estrassi dalla tracolla uno specchietto e, osservando il mio riflesso, studiai sin nei minimi dettagli i tratti visibili del mio volto alla luce non troppo forte dei lampioni presenti sulla strada, poco distanti da me. Il fiore sintetico che avevo nei capelli, di un azzurro chiaro, faceva pendant con il vestito del medesimo colore, nascosto sotto alla giacca pesante che mi stava tenendo caldo dinanzi al vento gelido di quella sera. Non avevo un capello fuori posto, ero impeccabile. Solo la mia espressione lasciava un poco a desiderare.

Dai, stupida, sorridi” mi dissi, forzando un angolo della mia bocca ad alzarsi con la punta del dito indice.

La lasciai ben presto andare, ma questa non rimase al suo posto. Tornò volta all’ingiù, donando quel tocco triste che riuscivo ad assumere solo quando avevo qualche dissidio con Emanuele. Ancora non mi rendevo conto di quanto, lui solo, riuscisse ad influenzarmi con una semplicità spaventosa: se mi sorrideva, se mi trattava con dolcezza, allora ero così felice da poter quasi toccare il cielo con un dito; se discutevamo e mi prendeva in giro, mi arrabbiavo abbastanza con lui e anche con tutto il resto del mondo per un periodo che poteva andare da pochi minuti a qualche ora, ma perfino a diversi giorni.

«Angela, è da molto che aspetti?»

Tornando con i piedi per terra, misi via lo specchietto e posai lo sguardo su Max, il quale era arrivato da qualche secondo al mio fianco.

Scossi la testa, forzando un piccolo sorriso.

«No no, sono qui da poco.» risposi, avvicinandomi a lui e cercando, magari alle sue spalle, tracce degli altri «È arrivato qui da solo?»

Il professore annuì, girandosi a sua volta, una mano a massaggiarsi il mento privo di peluria.

«Sì. Ho cercato qualcuno della banda in giro, ma non ho trovato nessuno. O sono in ritardo loro o lo siamo noi.»

«Beh, se siamo noi in ritardo possiamo sempre andare dentro e cercarli in sala.» commentai io, alzando le spalle «Dubito che il nostro film venga proiettato in tutte quelle presenti nel cinema.»

Lo vidi annuire e, facendomi segno di seguirlo, entrai con lui all’interno dell’edificio.

Come ovvio non fummo in grado di vedere nessuno in mezzo alla ressa del venerdì sera, ma siccome nessuno di noi due aveva abbastanza voglia di perdersi in inutili ricerche decidemmo di prendere i biglietti, i pop corn, delle bibite, e di andare in sala ai nostri posti per goderci il film che avevamo atteso con tanta ansia.

In tutto il gruppo, io e Max eravamo gli unici ad avere una vera e propria passione per gli horror. Ne avevamo visti a bizzeffe, in passato, ed eravamo stati noi a convincere gli altri a seguirci in quella bella escursione al cinema. C’erano stati dissensi, alcuni avevano detto che sarebbe stato meglio vedere qualcosa di più normale, però alla fine tutti avevano convenuto sul fatto che vedere film di genere horror in compagnia era decisamente più divertente che vedere qualche commedia d’amore o un film d’azione. Non era forse il massimo quando un amico scoppiava ad urlare e faceva facce buffe al tuo fianco?



Solo quando uscimmo all’aria aperta, dopo quello che fu uno spettacolo deludente se si contavano gli ammontare degli spaventi accumulati – che equivaleva a zero, se volete saperlo –, ci ritrovammo finalmente con il resto dell’allegra combriccola. Ci eravamo persi per poco, a dire il vero, e a quanto pareva non eravamo neanche tanto lontani da loro nei posti, pur essendo incapaci di vederci nel buio della sala.

«Ragazzi, la prossima volta mettiamoci d’accordo un po’ meglio.» mormorò Max, ridendo.

«Ma no, prof, non dica così! Se fosse stato altrimenti non avrebbe avuto l’occasione di coronare il suo più grande sogno.»

Lui corrugò la fronte, confuso.

«Di che parli?»

«…non faccia il finto tonto. Sappiamo tutti che voleva stare solo con la sua pupilla!»

Tutti scoppiarono a ridere, meno noi che eravamo i diretti interessati. Se possibile le nostre guance divennero dello stesso colore, un rosso cangiante dovuto all’imbarazzo, ma fortuitamente quello che colorava le mia gote scomparve non appena ebbi modo di vedere chi stava solcando la soglia del cinema venendoci incontro.

Sorrisi all’istante, dimentica dalla rabbia che mi era stata tirata fuori solo qualche ora prima.

Emanuele era là, assieme a Sebastiano, e il mio cuore fece un balzo quando i nostri sguardi si incrociarono: a dire il vero lo vidi alquanto immusonito, ma siccome credevo di sapere a che cosa fosse dovuta una simile espressione non me ne curai molto visto e considerato che non c’era alcun motivo, per lui, di temere un mio coinvolgimento con Max. Non lo amavo di certo, e per quanto lo trovassi un uomo di bella presenza e con un carattere dolce e comprensivo, non avrei mai potuto provare ciò che invece sentivo nei suoi confronti. Perché Emmy lo amavo contando i suoi alti e bassi, passando sopra alle miriadi di difetti che gli si potevano trovare giorno dopo giorno standogli vicino.

Feci per andargli incontro, felice, però venni fermata da un piccolo, innocente bacio. Girandomi di scatto cercai il fautore di un simile atto e, notando poco distante dalla mia guancia il viso del professore, mi ritrovai costretta a corrugare enormemente le sopracciglia prima di indietreggiare di qualche passo. Non lo feci perché improvvisamente avevo paura di lui o perché ero indignata per ciò che aveva fatto. Semplicemente mi sentii così sorpresa che, per un attimo, una gamba mi cedette e mi ritrovai costretta a riequilibrarmi con quel movimento.

Lo fissai per un poco, interdetta, ma non ottenni alcuna risposta, nei suoi occhi, a tutte le domande che mi vorticavano nella testa.

«Ricorda sempre che sei il mio angioletto dalla voce cristallina.» disse, scompigliandomi affettuosamente i capelli «Questo non dimenticarlo.»

Un’ultima occhiata e poi mi diede le spalle, andando dagli altri e permettendomi di riprendere fiato. Nelle sue parole non c’era nulla di cui io dovessi preoccuparmi – non a primo acchitto almeno – ma nonostante ciò mi ritrovai sperduta per alcuni minuti. Studiai la sua andatura mentre si allontanava con il resto del gruppo, quasi non curandosi più di me, e notai una leggera tensione nelle mani, le quali si strinsero a pugno prima di infilarsi dentro alle tasche del giaccone.

Abbassai lo sguardo, incapace di fare altro.

Per tutto quel tempo ero stata così presa dalla mia non storia con Emanuele che, egoisticamente, non avevo neanche intravisto quel chiaro barlume d’interesse che sta nascosto nello sguardo di una persona quando è invaghita di qualcuno. Può essere amore o semplice apprezzamento, può essere un sentimento labile o fortissimo, ma quella luce è sempre la stessa. Quando si pensa ad una persona con abbastanza intensità da farti palpitare il cuore, il viso si illumina e chiunque, per quanto tu possa essere bravo a nascondere certe cose, prima o poi se ne rende conto.

Io invece, io che mi vantavo di essere così brava a capire chi mi stava accanto, non ne ero stata capace.

Bella osservatrice che ero.

«Sono tanto cattiva?» domandai, udendo i miei due cari amici farsi avanti alle mie spalle.

«Cattiva? Certo che no!» scrollandosi di dosso tutto il suo nervosismo, Emanuele cominciò a farmi capire la sua totale disapprovazione per Max «Quello cattivo è quello stupido del professore!»

Sebastiano alzò gli occhi al cielo e, con molto più buon senso del compagno, posò una mano sulla mia spalla prima di parlare.

«No, non ti preoccupare. Non ti eri minimamente resa conto di ciò che provava lui, vero?»

Scossi il capo. Venivo capita subito da quel ragazzo.

«…sei solo troppo ingenua, ecco tutto.»

Un po’ mi sentii rincuorata a sentirli parlare così. Fui felice di non essere stata presa per una sciupa maschi o roba simile. Sapevo da me che era strano il fatto che io non mi fossi accorta di niente, però non avrei retto a certe paroline tutte saccenti che alle volte uscivano dalle labbra di una persona a me ben nota.

Alla fine, comunque, accortami del fatto che qualcosa stonava in quella situazione, mi girai di scatto verso i due e li studiai per bene.

«Che ci fate, voi, qui?» chiesi ancora, le mani sui fianchi e lo sguardo severo «Seb, tu odi i film horror…e a te, Emmy, non sono mai interessati.»

Si scambiarono una breve occhiata, indecisi.

«Ma niente…»

«Mi ispirava il titolo.»

«Sebbolo voleva diventare più coraggioso.»

«Ad Emmy interessano improvvisamente. Però si è addormentato, perciò non ha seguito niente del film.»

«…lui invece se l’è fatta addosso.» e dicendo questo indicò i vestiti che l’altro teneva stretti al petto. Li osservai un secondo, accorgendomi subito del fatto che quelli non erano abiti normali, bensì due giacche pesanti, due capelli e…erano occhiali da sole, quelli? «Si è dovuto cambiare.»

«Ho…messo il doppio cappello perché avevo freddo alla testa.»

Se speravano di farla franca con scusanti così magre, ebbene, avevano decisamente sottovalutato le mie capacità cerebrali: non c’era modo, per loro, di nascondermi qualcosa già quando avevano escogitato piani abbastanza complessi, figuriamoci ora che era palese che non si erano minimamente impegnati a nascondere le loro stupidaggini. Sbattei piano le palpebre, assumendo un’espressione più che adirata. Non mi piaceva quando mentivano. O, forse, non mi piaceva che mi dessero apertamente della stupida.

«State mentendo.» esclamai, girando i tacchi e cominciando a camminare per andarmene a casa «E spudoratamente, anche!»



Con quella velocità non mi ci volle molto per raggiungere casa. Avevo adottato un passo talmente spedito che, molto probabilmente, anche il campione mondiale di marcia non sarebbe stato capace di starmi dietro. Il mio viso poi, nonostante a quell’ora tarda fosse facile per una ragazza sola incontrare brutta gente, avrebbe potuto scoraggiare anche il peggiore dei ladri o dei poco di buono.

Un motivo valido perché io fossi nuovamente così furiosa non c’era o, comunque, non era niente che avesse a che vedere con l’ennesima bugia dell’allegro duo. In fondo mi ero abituata a certe stramberie e non vedevo come una semplice menzogna potesse mettermi così di malumore. Forse però, a pensarci bene, non potevo neanche dire di essere veramente arrabbiata.

Feci scattare la serratura della porta e mi infilai piano dentro la mia dimora, sospirando mentre mi accorgevo di aver solo raccolto la prima occasione per fuggire dalla sua presenza, da ciò che rappresentava per me, dal peso enorme che mi opprimeva il petto quando gli stavo accanto: Emanuele era troppo da sopportare, tutto in una volta, e non necessariamente in senso negativo. Il punto era che quando mi guardava perdevo il controllo di me stessa, mi ritrovavo a sperare di affondare il viso nel suo petto facendomi abbracciare, di parlare con lui fino allo sfinimento o, ancora, di posare le labbra sulle sue. Ancora ed ancora, senza sosta.

L’affetto che provavo per lui era talmente bruciante da sconvolgermi.

Riflettendo su questo decisi di mettermi la camicia da notte, quella in tinta avorio che mia madre mi aveva regalato tanti anni fa ma che io, considerandola fin troppo succinta, mettevo assai di rado. Non mi piaceva l’idea di essere colta con quella addosso, sempre ammesso che qualcuno fosse venuto a farmi visita e io mi fossi ritrovata ad averla messa. Mi pareva di non essere abbastanza coperta e io, che ero solita vestirmi a cipolla, non sopportavo quel piccolo sgarro rispetto al solito. Fu proprio per questo che, maledicendomi per non aver fatto il bucato evitandomi così quella spiacevole situazione, corsi a prendere anche la mia felpa di Duffy Duck. Almeno le braccia, in quel modo, potevano dirsi riparate.

Nonostante fossero appena le undici di sera, non trovai niente di interessante alla televisione e quindi finii con l’andare a coricarmi, stringendo al petto uno dei miei tanti cuscini e riflettendo sul da farsi. Confidare ad Emanuele i miei sentimenti forse non era stata una mossa intelligente da parte mia, anzi cominciavo a credere che fosse stato il peggio che io avessi mai potuto fare. Non solo mi ero messa nella condizione di doverlo condividere con un’altra ragazza, ma mi ero anche ritrovata a dover far fronte ad un genere di gelosia ben più compromettente di quella che avevo sino ad allora sopportato.

TOC TOC!

Corrugai la fronte e, alzandomi seduta, voltai lo sguardo verso le finestre di camera mia, quelle che davano sulla strada sul retro. Fui sorpresa nel vedere il viso di Emanuele a comparirmi davanti, sorridente, tipico di quando faceva qualcosa di magistralmente geniale e si aspettava magari un complimento o una standing ovation.

Scossi il capo, scendendo dal letto ed andandogli incontro. Gli aprii solo dopo qualche attimo, come prendendo in considerazione l’idea di lasciarlo fuori a penzolare dal mio balcone. Anche se fosse caduto non si sarebbe fatto male, sotto di lui c’erano ampi cespugli ed il terriccio era umido per la debole pioggerellina caduta quella stessa sera.

Alla fine, piano, gli aprii.

«Hai tendenze suicide?» commentai, incrociando le braccia al petto.

«Volevo fare un’entrata figa. Tutto qui.»

«Ah beh.»

Ci guardammo per un poco, senza parlare, ognuno perso nella propria congettura.

Era sempre così. Da che lo avevo conosciuto, molte delle nostre conversazioni si erano svolte unicamente a quel modo: non muovevamo le labbra eppure ci intendevamo al volo, perché i nostri occhi sapevano esprimere ciò che sentivamo almeno cento volte meglio di quanto avrebbero potuto farlo le parole.

«Dimmi perché eri lì.»

La mia poteva essere una domanda, ma non ne aveva il suono.

Volevo la verità e la avrei ottenuta.

Emanuele si mise seduto con le gambe all’interno della stanza e, scompigliandosi i capelli, confuso, tentò di darmi una risposta.

«Io non…» si morse un labbro «Io non mi sono fidato del tutto delle tue parole. Non mi fidavo di quel professore che ti seguiva e ti faceva quei sorrisetti idioti tra un’ora e l’altra… Scusami. Non volevo dubitare di te, ma è nella mia natura comportarmi così.»

Gli mollai un pugno sulla testa e lo lasciai entrare, chiudendo alle sue spalle la finestra. Faceva freddo ed io non ero propensa a prendermi un raffreddore solo perché lui aveva voglia di interpretare la parte di Peter Pan.

«Stupido.»

«Me lo dici spesso.»

«Perché lo sei.» risposi, alzando le spalle «Forse è vero, io piaccio al professore ma a me…a me piaci tu. E dovresti saperlo.»

Dicendolo avrei voluto strapparmi la lingua da sola, ma stava di fatto che non potevo mentire a me stessa, fingendo ancora una volta di non provare niente nei suoi confronti. Era inutile, ormai non potevo tornare indietro rinnegando i miei sentimenti. Emanuele sapeva e non si sarebbe scordato mai, neanche volendo, le parole che gli avevo rivolto in auditorium il giorno prima dello spettacolo.

Tornai a guardarlo negli occhi, seria.

«Io non penso ad altri che a te. Sempre.» mi feci vicina e lo baciai «Sempre…»

Ancora una volta mi strinsi a lui e mi abbandonai a quel meraviglioso contatto, desiderando sempre di più man mano che i secondi passavano. Sentii la sua mano passare sui miei capelli, lenta, delicata, e staccandomi dal suo volto notai quel suo bel sorriso ad increspargli le labbra.

«Sempre, sempre, sempre…?»

Annuii.

«Scusami, allora.» stavolta fu lui a baciare me, passionalmente, come era solito fare. Fra i due quella dolce ero io, Emanuele si riservava ben altri modi.

«Perdonato.»

«Bene…» mormorò, già confuso per via dei baci, proprio come me «…bene…»

Tentò di farsi nuovamente vicino, stringendo i palmi sui miei fianchi, ma io, nervosa, mi ritrassi velocemente e mi misi seduta sul letto. Non c’era mai nulla di buono quando mi abbandonavo a quel ragazzo e, sapendolo, era meglio controllare i propri istinti e comportarsi da adulta. Un’adulta risoluta e concentrata.

«Ho cantato bene al concerto?»

Chiedendo la prima cosa che mi venne in mente, mi resi subito conto di aver posto una domanda quanto mai idiota. Già sapevo che aveva pensato durante la mia esibizione, me lo aveva detto lui stesso poco dopo, quando mi aveva raggiunto dietro le quinte con Massimo e Sebastiano.

«Mi…mi hanno detto che sembravo addirittura un angelo, su quel palco. Anzi, una dea!»

Risi, però non ebbi il tempo di godermi quel momento. Emanuele mi prese per un braccio e mi costrinse sotto di lui, serissimo, baciandomi subito dopo con rinnovata passione.

«…se non sbaglio è stato quel professore a dirti questo.» disse.

«Come fai tu a saperlo?»

Pensai di essere sorpresa, ma quando udii il resto del suo discorso probabilmente mi dovetti ricredere. Si avvicinò a me e sorrise, accarezzandomi una guancia.

«Il mio commento, ovvero quello più importante di tutti, è questo.» mi baciò ancora «Grazie a quella canzone, grazie a come hai cantato, credo di aver capito di essermi innamorato di te. Perciò brava, sono fiero delle tue azioni.»

Fece per avvicinarsi nuovamente, però lo bloccai, posando le mani sulle sue spalle.

Che aveva appena detto?

«Sei innamorato di me?»

«Ah-ah.»

«…e Alessia?» a porre quella, di domanda, mi si contorsero le budella. Era così doloroso il dover essere sempre l’unica a scontrarsi con la realtà, rovinandomi qualcosa che avrebbe potuto essere bellissimo. «Non amavi lei fino a qualche giorno fa?»

Emanuele mi osservò, colpito. Sapeva che avevo ragione a chiedere quelle cose, ma non capiva come potessi amarlo ed essere al tempo stesso così preoccupata per un’altra persona. Una persona che aveva ciò che io desideravo e che, di certo, non me la avrebbe lasciata facilmente.

«Sì, è vero. Io la amo. Però…» abbassò lo sguardo «Non posso ignorare quello che ho sentito l’altro giorno, allo spettacolo. Magari non è proprio amore, ma è un sentimento altrettanto forte.»

Si staccò da me, mettendosi in ginocchio sul materasso. Cominciò a scrutarmi con quelle sue iridi grigie, profonde e magnifiche.

«Sono confuso, perdonami.» continuò «In questo momento io voglio sia te che lei. Voglio entrambe le cose.»

Anche io mi misi seduta, ascoltandolo attentamente.

Eccolo là, il muro che tanto avevo atteso mi si era parato di fronte senza farmi aspettare troppo. Erano passati si e no quattro giorni da quando mi ero concessa un minimo di felicità e, guarda un po’, già dovevo scegliere di nuovo che cosa fare. Perché, era ovvio, stava tutto nelle mie mani. Io sola avevo il potere di porre fine a quella stupida faccenda salvando il suo rapporto con Alessia e la mia sanità mentale.

Conscia perciò di questo, mi affrettai a trasmutare i miei pensieri in parole.

«Una persona normale ti direbbe che così non va.» iniziai «Che se ami lei allora non dovresti essere qui, nella mia stanza, a dire di provare qualcosa anche per me.»

Detto questo però, le mie mani si mossero da sole e io lo attirai vicino a me, stringendolo al mio corpo prima di baciarlo quasi inconsciamente.

«…io però non sono normale.»

Abbassai le labbra sul suo collo, le dita che passarono veloci alle sue spalle e poi sulla lampo della sua giacca, aprendola e togliendogli di dosso quell’indumento freddo per via del vento gelido che aveva sferzato di fuori. Subito mi dedicai ai bottoni della sua camicia, osservando il lavoro delle mie mani con ostentato compiacimento. Era sbagliato, non avrei dovuto comportarmi così, però nonostante questo non riuscivo a pormi un freno.

«…ahi ahi, Angy, ahi ahi…» disse in un sussurro Emanuele, ridendo «…tu con una camicia da notte, io bellissimo…insieme, sullo stesso letto…»

«Fammi capire, tu sei bellissimo mentre io indosso solo una camicia da notte?»

Sorrisi, continuando a far uscire dalle asole quei bottoni, uno dopo l’altro. Lentamente.

«Se non mi trovi bella o attraente…davvero non mi spiego come mai tu sia qui.»

Gli levai anche quel secondo indumento e lanciando la camicia lontano – facendola atterrare sulla poltroncina poco distante da noi – passai le labbra sul suo petto nudo, stringendolo in un piccolo abbraccio.

«Oh, beh, un valido motivo c’è. Ti vedo così assolutamente e totalmente disperata, che non posso fare a meno di stare qui a darti ciò che vuoi.»

Mi irrigidii e, storcendo il naso, mi girai di scatto dandogli le spalle.

«Questa cosa non dovevi dirla.»

Tolsi la felpa e gliela lanciai in faccia, assai risentita. Riusciva a rovinare ogni cosa con quelle sue stupide battute.

«Sarò anche disperata, ma non per quello che pensi tu.» esclamai, muovendomi così repentinamente da far sì che una spallina della camicia da notte cominciasse a scendermi lungo la spalla. Me ne accorsi e ghignando la presi fra il pollice e l’indice. «Io posso resistere senza farlo…tu invece?»

La calai del tutto, scostando infine i lunghi capelli e portandoli tutti da una parte. Sentivo il suo sguardo su di me, percepivo perfino le sue mani a stringersi sulle coperte per via del desiderio che lo pervadeva.

«Questo…» si fece vicino e strinse il braccio attorno alla mia vita, baciandomi il collo e la spalla, abbassando anche l’altra spallina «…questo è barare, cara mia. Non è giusto.»

«Non è barare, è far sì che anche qualcuno di lento come te possa comprendere come stanno le cose.»

Tornai voltata verso di lui, cercando di comportarmi con fare totalmente disinteressato: avevo difatti detto che solo Emanuele, fra noi, aveva strane ideuzze per la testa, ma di sicuro non ero stata molto sincera. Pure io cominciavo a sentire la necessità di approfondire quelle carezze, quei baci, godendo di un genere di attenzioni che mi ero privata per la bellezza di cinque anni. Era infatti da quando lo avevo conosciuto che avevo iniziato a pensare a come sarebbe stato stare con qualcuno.

«Tu non sei qui a fare queste cose perché sono io ad offrirmi così spudoratamente – o disperatamente. Sei qui perché sei tu a volermi.»

«Ehi, cosa c’è di male, in questo? Ti voglio.» accarezzò il mio fianco «Ti voglio.» mi sospinse all’indietro, sdraiata «Ti voglio, ti voglio, ti voglio…è un crimine, forse?»

«No, non è un crimine.» - è solo moralmente sbagliato, mi dissi da sola, ignorandomi subito dopo aver formulato un simile pensiero - «…se mi vuoi così tanto, chi sono io per fermarti?»

Emanuele rise sommessamente e, probabilmente d’accordo su quella mia uscita, si dedicò con le mani al mio seno, il quale era rimasto scoperto dal tessuto di pizzo e cotone della mia veste quasi senza che io me ne accorgessi. Lo sfiorò appena, in principio, accertandosi che a me non desse fastidio il suo tocco, e quando fu certo che tutto fosse ok lo accarezzò con cura, bravura soprattutto, facendomi capire ancora una volta che non era nuovo a quel genere di atteggiamenti con una donna. Mi chiesi quanto e cosa avesse imparato nelle sue scampagnate con le tante ragazzine che gli andavano dietro e, perché no, anche con Alessia stessa, ma sentendo le sue labbra a premersi contro il mio petto dovetti concentrarmi su dell’altro, riscoprendomi affascinata da quella nuova azione. Era strano, poiché per anni mi ero dimostrata del tutto furiosa con madre natura per avermi donato un seno fin troppo prosperoso per una della mia età. Però, ora, tutto mi appariva diverso. A lui sembrava piacere e perciò, piano piano, cominciai ad apprezzarlo anche io.

Quando sentii il suo peso a scostarsi dal mio corpo, seppi di aver chiuso gli occhi, e allora tornai a posare la mia attenzione su di lui: era sceso dal materasso e si era levato i jeans neri, rimanendo in boxer anche se, in cuor mio, sapevo che quella condizione sarebbe durata per poco. Dedicandomi uno sguardo pieno di promesse e di velato divertimento, si sdraiò nuovamente al mio fianco e mi tolse di dosso la camicia, baciandomi appassionatamente nello stesso istante in cui decise di far fare la stessa fine del resto degli indumenti anche alla nostra biancheria.

Me lo ero immaginato spesso quell’attimo, chi ha letto dall’inizio forse potrà ricordarlo, e come questo potrà ricordare anche un’altra cosa: non ero preparata per ciò che stava accadendo, e questo non nel senso che non lo stessi apprezzando, quanto più perché ancora non riuscivo a credere che stesse succedendo per davvero. Era come essere immersi in una dimensione a sé stante, dove tutto era capovolto e dove, ciò che stavamo per fare, non avrebbe avuto nessuna ripercussione. In quel mondo c’eravamo sul serio solo io e lui, esattamente come avevo sempre sognato, ed era bello per quanto mi rendessi conto che qualcosa non andasse.

Stare nudi, uno sopra all’altra, costrinse ogni particella del mio corpo a svegliarsi, ogni muscolo a contrarsi, e quando la mano di lui scivolò lungo il mio ventre fino ad approdare ancora più in basso, ebbi la strana reazione di muovere appena le ginocchia per chiuderle: mi ritrovavo indecisa fra il serrarle veramente, schiacciandolo, e la possibilità di agire come se non ci fossero, permettendogli di fare ciò che voleva con me.

«Ormai è tardi per tornare indietro, eh?»

«…se vuoi posso fermarmi.»

Scossi il capo, socchiudendo gli occhi. Ero agitata, questo era evidente, però non volevo che si fermasse.

«Angela…lascia fare a me.» sussurrò, abbassandosi fino al mio orecchio.

«Ok…» gli lasciai campo libero, la voce che mi si era ridotta a poco più di un pigolio «…ricordati di essere gentile, anche se sappiamo entrambi che ti riesce male esserlo.»

«Sarò gentilissimo.»



Le sue dita sprofondarono in me, esplorandomi, e quando cominciai a non capire più niente per via del piacere che stavo provando, arrivò un dolore intenso ed inaspettato: un dolore acuto, ma che passò velocemente dopo che lui mosse i fianchi per allontanarsi e riaffondare fra i miei.

Sentii un piacere sconosciuto, più di quello provato precedentemente e solo pochi istanti prima. Era diverso, molto, eppure così appagante da lasciarmi senza fiato. E sebbene sapessi che non erano solo le sue spinte a causarmi il respiro corto, decisi di ignorare la fragilità del mio cuore, concedendo mente, anima e corpo al ragazzo che amavo. Non avrei permesso a niente e nessuno di intralciarmi, non ora, non adesso che io e lui eravamo una cosa sola.








La voce dell'Autrice: Ordunque, finalmente siamo approdati al gran momento. *tossicchia* Non so quanti di voi abbiano cominciato a pensare che Emanuele sia un gran pezzo di BIP, come d'altro canto non so chi se ne sia perdutamente innamorata - sempre ammesso che sia possibile, visto tutte le cattiverie che combina - ma so per certo che questo capitolo vi ha sconvolte. Non ve lo aspettavate che Angela compisse un simile passo, ah? AH? ...nemmeno io. Cioè, sapevo che sarebbe successo, però continuo a pensare che forse è successo troppo presto e che, poco ma sicuro, lo ha fatto accadere per i motivi sbagliati.
Come al solito vi invito a recensire, se ne avete voglia. Alla prossima!

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Capitolo 7
*** E quindi che cosa sono, io? ***


Sei: E quindi che cosa sono, io?


Non sono certa se ci sia un detto o meno, ma sono sicura che sia comune a tutti l’espressione “quando ti sembra che tutto vada bene, ecco che arriva la mazzata”. Succede sempre così, dopotutto. Tu sei convinto di aver appena toccato il cielo con un dito e poi, guarda il caso, ecco che ti ritrovi a sprofondare per metri e metri sotto terra. Sei impantanato, immobilizzato, quasi ti manca il respiro, e dentro di te cerchi di aggrapparti all’ultima cosa che ti ha fatto stare bene nella speranza che quella possa bastare a farti stringere i denti ancora una volta, per sopportare anche questa nuova, orribile prova.

Cosa succede, però, quando quell’ultimo barlume di luce nasce da una cosa che mai, mai sarebbe dovuta capitare?

Cosa, se cerchi di sopravvivere con in testa uno dei principali motivi che ti ha fatto arrivare tanto in basso?

Ebbene, invece di lottare con efficacia contro al marasma che minaccia di schiacciarti, ti ritrovi ad annaspare ancora di più, agitando braccia e gambe nel disperato tentativo di riuscire infine a vedere l’alba di un nuovo giorno. E magari ci riesci anche. Magari trovi quel tanto che basta per riuscire a farlo, solo che quando poi ti guardi intorno capisci di non avere molto tempo prima che tutto si ripeta. Perché quando compi un atto tanto sciocco quanto cattivo, sai per certo di non avere scampo dalla tua coscienza.

E così avvenne anche per me.

Non ebbi neanche il tempo di crogiolarmi nella mia contentezza che, il giorno dopo, fui subito messa di fronte alla cruda realtà dei fatti. Non avevo conquistato niente di importante la sera prima, permettendo ad Emanuele di entrare in possesso non solo del mio cuore, ma perfino del mio corpo. Avevo solo affrettato i tempi, sigillando un destino infame e che di attrattivo aveva ben poco. Da stupida sognatrice pensavo che bastasse dire “ti amo” a qualcuno, e magari farglielo capire con qualcosa di più dei baci, per riuscire ad averlo tutto per me. Ma mi sbagliavo.

L’unica cosa che guadagnai, dopo quell’avventura con lui, fu solo una montagna di disprezzo verso me stessa e di rammarico. La mia prima volta, pur avendola desiderata davvero tanto, si era consumata in un modo che non poteva di certo rendermi orgogliosa. Mi ero lasciata guidare dal desiderio e non dal buon senso, e questo mi avrebbe per sempre segnata. Giorno dopo giorno non avrei fatto altro che pensare a cosa ero stata capace di fare per ottenere le attenzioni di un ragazzo, a cosa avevo rinunciato per poterlo rendere mio.

Dopo la mia prima volta non avevo perso solo la verginità, bensì qualcosa di più.

Qualcosa che mi sarebbe mancato nei giorni a seguire e che, poi, mi avrebbe resa ancora più schiava della sua presenza.



***



Arrivata a scuola, l’indomani, riuscii a sorridere solo per un breve lasso di tempo.

Salendo di fatti le scale ed arrivando poco distante dalla porta della mia classe, mi ritrovai di fronte ad una scena che sarebbe rimasta indelebile per il resto della mia vita all’interno della mia mente: vedere Emanuele stretto ad Alessia, intento a ridere insieme a lei come se nulla fosse successo fra di noi, solo qualche ora prima, segnò un momento molto importante dell’esistenza che avevo condotto sino ad allora. Grazie a lui non ero più una ragazzina, ero una donna, e dopo aver perso l’innocenza che comunque gli avevo donato spontaneamente, mi aveva portato via anche un altro genere di candore: la bambina che ero stata – quella che sognava un principe azzurro e una storia a lieto fine tipica delle favole – era morta in quel preciso istante, guardandolo mentre abbracciava un’altra, rimpiazzata da una persona che era stata felice per un po’. Solo un po’.

Sorrisi appena, abbassando lo sguardo e riavviandomi i capelli scuri con una mano. Ancora una volta non mi aveva sorpresa. Sin dal principio avevo saputo di non essere veramente importante per lui, ed Emanuele stesso mi aveva detto di essere intenzionato a tenersi sia me che la sua effettiva ragazza, ma forse avevo sperato in qualcosa di più di una sola nottata passata insieme.

Ah, guarda un po’ cosa sono diventata…” pensai, cercando di convincere quella piccola vocina ostinata, che ancora cercava di mettermi la pulce nell’orecchio, che l’altra non era Alessia bensì ero io “…sono l’amante?”.

Attraversai la porta della classe e mi misi al mio posto, vicino alla finestra, posando la tracolla sul banco e ostentando una forza d’animo che in quel preciso istante poco mi apparteneva. Non volevo far vedere a nessuno che una parte di me si era appena distrutta, disintegrata dal fuoco della passione che mi aveva travolta e che ora mi aveva semplicemente abbandonata, liberandomi dell’incantesimo che aveva stravolto il mio giudizio. Ogni più piccolo muscolo era in tensione, ogni nervo sul punto di cedere, ma ancora avevo abbastanza forza per resistere fino a fine giornata. Una volta tornata a casa avrei avuto modo, se proprio dovevo, di accasciarmi sul letto e tornare ad onorare una delle mie più antiche abitudini: il pianto a dirotto causato da un amore impossibile e sbagliato.

«Va tutto bene, sorellina?»

Sussultai appena nel sentire la voce di Sebastiano alle mie spalle. Girandomi di scatto mi ritrovai a specchiarmi nelle sue iridi scure, di tanto simili alle mie, e sorridendo nervosa tentai in qualche modo di mascherare i miei sentimenti. Lui mi capiva sempre, anche quando non volevo, mi leggeva dentro quasi come se fossi stata un libro aperto. Di solito mi andava bene, ero felice che almeno qualcuno mi comprendesse nonostante il mio essere tanto complicata, ma ora non era il caso che io glielo permettessi. Se avesse saputo, cosa avrebbe pensato di me?

Seb prese una sedia e si mise davanti a me, appoggiando i gomiti al mio banco.

«Hai qualche problema? A guardarti sembra che sia successo qualcosa.»

«No no, va tutto bene.» mentii e subito dopo cercai di aggrapparmi ad una piccola verità, come a voler placare il mio nuovo senso di colpa. «Dopodomani saremo in vacanza di Natale. Finalmente tornerà mio fratello! Non vedo l’ora, sai?»

Lo guardai un poco, inclinando il capo da una parte.

«Sono emozionata, non stiamo insieme da tanto tempo…sarà quello che mi rende diversa dal solito.»

Ci fu una pausa, qui, e nonostante quegli occhi mi scrutassero con interesse e saggia diffidenza, ebbi il coraggio di sostenere il suo sguardo senza difficoltà. Quando Sebastiano parlò di nuovo, la sua voce era seria ed affettata. Non mi credeva, come d’altro canto avevo già messo in conto facesse.

«…ok, va bene. Come vuoi.» disse «Farò finta che la tua versione sia quella ufficiale.»

«Ma…è la verità.»

O, per lo meno, una parte di ciò che mi era uscita dalle labbra lo era.

Sospirai e, abbassando il volto per un secondo buono, mi ritrovai infine nuovamente in piedi, camminando a passo lento verso di lui. Senza attendere oltre mi misi seduta sulle sue gambe e nascosi il viso nella sua spalla, cercando un contatto pieno d’affetto che solo il mio migliore amico poteva donarmi e di cui avevo un tremendo bisogno. Lo strinsi a me delicatamente, dalla bocca una piccola richiesta – “Lascia che rimanga così solo per un po’…” – ad uscire sommessamente. Avrei voluto dirgli tutto, sputare il rospo e togliermi di dosso quel terribile peso, però c’era un freno ad impedirmi di farlo.

Non avrei mai smesso di considerarmi fortunata, comunque, nell’avere a fianco una persona come Sebastiano. Lui non proferì parola né protesta, mi abbracciò solamente, in silenzio, cullandomi fra le sue braccia forti eppure tanto gentili. Sentiva che avevo da dire qualcosa di difficile e, quindi, non si sarebbe mai azzardato a mettermi fretta. Era davvero una brava persona. Un bravo amico, soprattutto.

«Stai tranquilla.» mormorò, piano «Qualsiasi cosa ti turbi, magari non pensarci per un po’. E poi, se vorrai parlarmene, io ci sarò sempre per te. La nostra amicizia va ben oltre a certe cose.»

A sentirlo mi salirono le lacrime agli occhi.

«…ho…ho fatto l’amore con Emanuele.» le mie mani si strinsero di più sulle sue spalle. Lo sentii irrigidirsi, ma non potevo dargli torto. La sorpresa doveva essere molta. «L’ho fatto anche se non mi ama davvero. L’ho fatto perché lo volevo così tanto…io lo amo…così tanto…»

Cominciando a piangere sul serio, pregai affinché i nostri compagni non mi notassero. Non volevo dare spettacolo, non adesso che ero così fragile.

«So di aver sbagliato! Sono orribile, orribile!»

«Shh shh… Ora stai calma. Fai un bel respirone profondissimo.» accarezzò i miei capelli, parlando «Non hai fatto nulla di male. Ascoltare il proprio cuore e lasciarsi andare per una volta è segno di essere normali. Tutto qui.»

No, non riuscii a convincermi di quell’affermazione.

Lui era mio amico e se diceva quelle cose era, in parte se non totalmente, per tirarmi su di morale. Chiunque avesse avuto un po’ di cuore non avrebbe infierito su una persona che poteva considerarsi praticamente già morta, ma siccome ero ben conscia di aver errato nel mio comportamento non avrei mai potuto dargli ragione. Ero dura con me stessa perfino in momenti come quelli, quando stavo soffrendo da morire.

Mi staccai e asciugai le lacrime, abbozzando un debolissimo sorriso. Il cuore mi faceva male, ma essendo lui all’oscuro della mia malattia dovetti inventarmi una nuova scusa per l’improvvisa assenza cui dovevo far fronte.

«…scusa devo…devo andare in bagno a ricompormi.»

Congedandomi lo vidi perplesso, ma non mi fermai. Dovevo correre in infermeria dove, la dottoressa, avrebbe potuto darmi le medicine di cui avevo bisogno per calmare il mio battito. Scioccamente avevo dimenticato le mie a casa e, ora che ne avevo necessità, dovevo mendicare il rimedio da un addetto della scuola.

Uscendo mi scontrai con qualcuno, però, visto che stavo tenendo lo sguardo basso, non capii di chi si trattasse.



«Angela, piccola mia, non puoi essere così sbadata.»

La Dottoressa Salvatore scosse forte il capo mentre, con lo stetoscopio, faceva alcuni controlli. Avevo la camicia bianca aperta e stringevo fra le mani il cardigan blu della divisa, mugugnando di tanto in tanto per via del fatto che quel marchingegno era sempre fin troppo gelido. Quella donna non era cattiva, ma dire che la esasperavo era dire troppo poco. Non è che andassi da lei per ogni nonnulla, ma trovavo divertente sfruttare la mia malformazione cardiaca per andare a perdere tempo nel suo piccolo regno. Di solito mi accoglieva alzando gli occhi al cielo, braccia conserte e tono deciso, dicendo che alle volte pensava che io fossi più che altro afflitta da pigrizia piuttosto che da qualcosa di più serio. Io ridevo e mi sedevo su un lettino, dondolando le gambe e cominciando a chiacchierare allegramente.

Tuttavia stavolta non stavo ridendo e non avevo voglia di chiacchierare. Il dolore che sentivo era vero, anche se non tutto da attribuire al mio povero e debole cuore.

«…la prossima volta mi porterò dietro il flaconcino di medicinali. Non si preoccupi.»

«Riposa.» rispose l’altra, comprendendo che non tirava aria al momento.

Posò una mano sulla mia testa e la accarezzò debolmente prima di allontanarsi.

Mentre mi mettevo sdraiata, chiudendo gli occhi, sentii i suoi passi farsi sempre più distanti e la porta dell’infermeria aprirsi e chiudersi. Presi dei respiri profondi, scacciando dalla testa tutto ciò che avrebbe potuto ricondurmi ad Emanuele col pensiero. Volevo solo abbandonarmi ad un riposo senza sogni, un sonno oscuro, simile di molto a quello che immaginavo essere il sonno eterno. Una notte continua e senza fine, dove la mente, ahimè, non è più capace di congetturare alcun che.

Ecco cosa bramavo. La capacità di escludere ogni singolo pensiero.

«Ehi. Tutto bene?»

Corrugai la fronte, aprendo piano piano le palpebre. Ero incapace di dire con certezza quanto avessi dormito – o se avessi dormito –, ma di certo qualche ora doveva essere passata visto che il sole si era spostato dalla posizione in cui lo avevo visto l’ultima volta, attraverso il vetro della finestra. Subito ebbi modo di scontrarmi con gli occhi grigi di una conoscenza a me tanto cara ed odiata al tempo stesso, e tirandomi su a sedere lo fissai.

«…tutto bene.»

«Dici davvero?» Emanuele si concentrò su di me, incapace di darmi fiducia «Eppure, se non sbaglio, sei uscita in lacrime dalla classe. Ah, e poi c’è il fatto che Sebastiano non mi parla, perciò immagino che lui sappia qualcosa che io non so. Ma non è di questo che volevo parlare…»

Capii subito che la persona contro cui ero andata a sbattere uscendo trafelata dall’aula, era lui, e capii anche che Seb non si era mostrato molto magnanimo con Emmy tanto quanto lo era stato con me.

«Sei sicura di stare bene?»

«Sto bene. Se piangevo era solo perché…mi faceva mal di pancia.»

Con fare affrettato chiusi la camicia e abbottonai i bottoni chiari, stringendomi nelle spalle quando sentii il suo sguardo a studiare le mie mosse: sapevo che era pieno di dubbi, sapevo che era turbato come me, ma sapevo anche che non avrebbe mai capito cosa provavo. Era ancora troppo infantile ed egoista per riuscire a farlo.

«…credevo ti sentissi male per via di ieri…»

«…ieri…è stato bello.»

Ed era vero. Non potevo negare a me stessa il piacere che avevo provato nel diventare sua, ma forse ora avrei dovuto fare buon viso e cattivo gioco, recitando la parte dell’ingrata e della donna vissuta per riuscire ad allontanarlo da me. Quella mattina, se c’era una cosa che avevo capito, era proprio che la nostra storia non poteva avere un futuro, non così. Io ero innamorata persa, e probabilmente mi sarei anche accontentata di essere solo la sua amante, ma fino a quel momento non avevo capito che esserlo avrebbe significato prendere in giro un’altra persona. Presi quindi un respiro profondo, le dita a giocare con il lenzuolo candido del mio lettino.

Potevo farcela, mentire non era mai stato un problema per me.

«Ti ringrazio per avermi fatta divertire.» cominciai, sorridendo malignamente «Ma ora temo proprio che sia il caso di finirla qui.»

Lui mi guardò, sorpreso.

«È tutto quello che sai dirmi?» chiese, alzandosi in piedi per scendere dal lettino che stava vicino ed infilarsi nel mio. Si sdraiò accanto a me, ricambiando il sorriso che gli avevo appena fatto io con uno dei suoi, così accattivanti da lasciarti senza fiato. «Beh, abbiamo tempo. Vediamo se ti viene in mente qualche motivo per cui…l’idea di finirla qui non sia poi tanto brillante.»

Sbuffai e, alzandomi a mia volta, cercai in tutti i modi di mettere distanza fra di noi. A stargli vicino era evidente che sarei ricaduta nella stessa “trappola” della sera prima e perciò non dovevo in alcun modo sfiorarlo o lasciarmi sfiorare. Uscii quindi di filato dal letto, le guance un poco rosse, camminando decisa verso le mie scarpe per cominciare a rimettermele.

«Volevo togliermi lo sfizio e l’ho fatto. Ora posso dedicarmi ad altro.»

«Ad altro, tipo?» sbottò lui, sforzando un mezzo sorriso «Vuoi uscire con Max, il tuo grande ammiratore? Direi che è un po’ troppo grande, per te.»

«E io direi che non sono affari tuoi.»

Non potevo vederlo in faccia, però sapevo di aver colpito nel segno con questa mia ultima uscita. Scese anche lui dal letto e si mise le mani in tasca, incapace di staccare gli occhi da me. Lo stavo confondendo troppo, evidentemente. Continuavo a mandargli segnali differenti e, per quanto me ne rendessi conto, non potevo comportarmi in altro modo.

«Ok, ho capito.» disse «Il mal di testa mi è passato. Torno in classe.»

«Sii gentile e dì al professore che sto arrivando anche io.»

«E se lo faccio che cosa mi dai in cambio?» domandò allora, serissimo nonostante entrambi sapessimo cosa volesse da me per quel piccolo, innocuo favore.

Io non risposi subito, specchiandomi in quelle iridi grigie piena di risolutezza e anche di velato distacco: qualsiasi cosa avessi fatto adesso, se si fosse trattato di un bacio o di una carezza, avrei mandato a monte il mio grande piano facendogli capire che no, in realtà non volevo staccarmi da lui per nulla al mondo.

«…la mia eterna gratitudine.» esordii poi, sghignazzando, la voce ridotta ad un tono fin troppo sarcastico.

Emanuele sbatté appena le palpebre e, sospirando, si girò andando ad aprire la porta dell’infermeria. Ogni suo movimento era secco, particolarmente violento, e io che lo stavo osservando non potei fare a meno di riconoscere il ragazzo con cui avevo a che fare da ormai cinque anni: la dolcezza che mi aveva riservato in quei giorni, per via del nostro piccolo gioco, era totalmente sparita e adesso stava dando sfogo alla sua rabbia come lo avrebbe fatto un bambino piccolo una volta che i genitori gli proibiscono un piacevole passatempo. In quel momento mi chiesi se sarebbe mai cresciuto, se, improvvisamente, avrebbe capito cosa avevo cercato di fare quel giorno in quella stanza.

Avevo forti dubbi a riguardo.



L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie era per noi studenti un grande avvenimento. O, per lo meno, lo era per chi aveva la fortuna di portare avanti una storia d’amore con qualcuno. Verso l’ultima ora – ma anche prima a dire il vero – se giravi per i corridoi non potevi fare altro che vedere ragazzi e ragazze che si scambiavano pacchettini, lettere, baci ed abbracci, e chi ovviamente non faceva parte di questa cerchia si ritrovava a desiderare che il mondo implodesse pur di non dover assistere a scene tanto melense. Era un po’ come un altro San Valentino, a dirla tutta, solo che questo aveva l’effetto di rovinarti tutte le vacanze se non avevi un partner.

Io di solito, arrivata a questo giorno, mi nascondevo in classe sino a che non ero certa che i più se ne fossero andati, ma siccome quest’anno avevo un valido motivo per svignarmela prima – un motivo che se ne stava alle mie spalle, dietro al mio banco – non esitai un secondo a schizzare fuori dall’aula non appena sentii suonare la campanella. Misi tutto nella mia tracolla, mi alzai in piedi, salutai chi dovevo salutare e mi diressi verso l’uscita a grandi passi, decisa, neanche fossi in procinto di fare qualcosa di dannatamente importante e difficile. Personalmente non vidi neanche coloro che mi stavano attorno. Limitandomi a fissare il pavimento mentre mi dirigevo verso l’uscita, non ebbi modo di notare quante persone stavano sorridendo e quante, come me, avevano l’umore sotto alla suola delle scarpe.

«Angy!»

Sospirai, corrugando la fronte. La voce di Seb non la potevo mica ignorare, lui non aveva fatto niente di male né a me, né a nessun altro…e probabilmente non avrebbe mai fatto del male a nessuno, santo com’era. Presi a voltarmi con estrema lentezza, neanche volessi dimostrargli di non essere proprio dell’umore per una felice chiacchierata fra amici, ma quando mi fui girata completamente mi ritrovai Emanuele fra le braccia dopo che era stato spinto da Sebastiano. Diventammo rossi entrambi e, quando lui chiese scusa e se ne corse via, io rimasi inebetita a stringere fra le mani qualcosa che prima non ricordavo di aver avuto.

Guardando il piccolo pacchettino azzurro feci tanto d’occhi, sorpresa.

«…è da parte di Emmy.» mormorò Sebastiano «Si vergognava a dartelo e allora gli ho dato una piccola spinta. Nel vero senso della parola.»

Intorno a noi tutti avevano preso a vociferare, pensando erroneamente che quel dono fosse da parte del giovane che avevo di fronte, e mentre quest’ultimo si imbarazzava da matti negando a destra e a manca ogni suo coinvolgimento con qualsivoglia presente, io mi stringevo nelle spalle sperando che ciò che era appena accaduto fosse solo un bruttissimo sogno. Strinsi il regalo al petto, confusa, dovendo chiudere le palpebre per trovare l’equilibrio che ora mi mancava del tutto. Avevo la mente talmente affollata di quesiti che per un poco non parlai, sopraffatta da una miriade di emozioni differenti.

Forse non ero stata abbastanza cattiva, in infermeria.

Forse avrei dovuto usare termini più espliciti per fargli capire che non volevo più andare avanti così, che preferivo fare finta che lui non esistesse.

Forse avrei dovuto rendere la mia recita più eclatante.

o forse, ormai, non avevo più scampo da ciò cui io stessa avevo dato inizio.

«Non dovresti darci corda, Seb.» bisbigliai, contrita «Sai bene quanto me che ciò che stiamo facendo io e lui non è giusto.»

Lui tornò a posare lo sguardo su di me e, sorridendo dolcemente, scosse piano il capo.

«Io non credo.» rispose «Voi due siete fatti per stare insieme, solo che siete troppo cocciuti per capirlo.»

Avrei potuto fargli notare che non spettava di certo a lui irrompere nelle nostre vite per spingerci l’uno fra le braccia dell’altra, tuttavia me ne rimasi zitta e cominciai a correre nella stessa direzione in cui era svanito Emanuele. Tanto, ora più che mai, sapevo di essere irrimediabilmente invischiata con lui in quella storia nata sbagliata. Lo amavo, lo amavo tantissimo, ed il mio cuore così fragile si era sobbarcato anche qualcosa di nuovo dal giorno prima. Desiderio. Passione. Necessità, quasi, di sentirlo vicino a me con costanza. Non potevo scappare, per quello era tardi. L’unica cosa che potevo fare era corrergli dietro, raggiungerlo, e sperare che magari un giorno avrei avuto l’occasione di percorrere un tratto di quel lungo percorso che è la vita al suo fianco.



Una volta giunta alla porta che dava sulla terrazza della scuola mi fermai a prendere fiato, esausta. Quel ragazzo aveva corso come un forsennato senza meta per dei minuti, e questo potevo dirlo per via del fatto che avevo chiesto informazioni su chi lo avesse visto, ritrovandomi infine a vagare come una scema per l’intero Istituto.

Il battito cardiaco era veloce, ma tentai di non farci caso. Se avessi dovuto preoccuparmi anche di quello oltre a tutto il resto, allora sì che avrei dato di matto nel giro di breve tempo. Ancora faticavo a credere che la mia vita fosse così complicata, e per quanto fossi certa che al mondo c’erano persone che stavano peggio di me, non potevo non riflettere sul fatto che la mia condizione fosse alquanto precaria. Non sapevo neanche come mai gli ero andata appresso. L’unica cosa di cui ero certa era che la sua presenza nel mio quotidiano cominciava a dare seri problemi.

Sistemandomi un secondo, aprii la porta lentamente, udendo subito questa frase:

«Davvero non capisco…perché sono scappato a quella maniera?! Ah, sono un’idiota!»

Io sorrisi mestamente a sentirlo.

Chiusi la porta alle mie spalle e parlai, veloce.

«Un poco lo sei, sì.»

Lo vidi guardarmi pieno di sorpresa e di imbarazzo, però tentai di non fare caso alla dolcezza che mi trasmetteva quell’espressione. Ero lì per dire una cosa importante, dovevo farlo senza fermarmi una volta tanto!

«Rispondi sinceramente: pensi davvero che l’avermi come amante sia ciò che vuoi?»

«…se a te ancora interessa…sì.» qui sospirò «So perché mi hai detto quelle cose prima, e vorrei che tu sapessi che…tra noi due quello peggiore sono io.»

Probabilmente era stato Seb a dargli l’imbeccata, ma lì per lì decisi di ignorare anche questo.

«Sì, tra noi due…» mi corressi subito «O meglio, tra noi tre perché conto anche Alessia, il peggiore sei assolutamente tu. Sei cattivo, egoista e mostruoso…»

Arrivata qui abbassai lo sguardo.

«…però, sempre fra noi tre, quella più stupida sono io perché nonostante tutto non posso fare a meno di amarti.»

No, non potevo smettere di provare quei sentimenti per lui. Dopo quell’ennesimo tentativo era chiaro che dovevo solo alzare bandiera bianca e rassegnarmi, lasciando che la corrente mi trasportasse ovunque volesse. Mi sentivo un po’ come se non avessi più potere decisionale su ciò che riguardava la mia esistenza e, forse, in fondo era davvero così. Vivere in funzione di un’altra persona era, per quanto la si amasse o detestasse, in egual modo nocivo. Così non potevi mai essere lucido, le tue decisioni non erano più tue poiché erano tutte prese in base a quel lui o quella lei che ti occupava prepotentemente il cuore.

Con rinnovata tranquillità aprii il suo pacchettino e ne estrassi un bellissimo ciondolo di giada: era un pendente dalla forma particolare, dipinto di blu scuro – il mio colore preferito – ed inserito in una cordicella nera. Abbozzai un sorriso mettendomelo.

«Che ne dici» chiesi «me lo puoi dare un bacio?»

Emanuele non proferì parola, ma si avvicino. Posando una mano sulla collana spostò una ciocca dei miei capelli, sorridendo anche lui.

«Ti sta d’incanto, lo sai?» disse, prendendomi il viso fra le mani e baciandomi dolcemente «…buon Natale…»

Tornò a baciarmi, stavolta con più passione, e per quanto i miei pensieri non fossero proprio tutto rose e fiori, io non mi ritrassi e anzi mi feci più vicina a lui, alla ricerca di una sicurezza che al momento mi mancava totalmente. Sin da piccola mi ero vista fin troppo incerta circa ciò che volevo dalla mia vita. Ero piena di idee, di sogni, ma sapevo anche che non sempre avrei avuto il coraggio per portare a termine determinate cose e che, anzi, con tutta probabilità avrei finito col mettere da parte ogni aspirazione. Il fatto era che da sola mi sentivo incapace di fare ciò che volevo e, di conseguenza, continuavo ad appoggiarmi a chi mi stava attorno.

Questa volta, per quanto sbagliato lui potesse essere come appiglio, avevo scelto Emanuele. Quel ragazzo era il punto focale di ogni mia ansia, di ogni mio piacere, e come tale era divenuto anche l’unico capace di salvarmi dal marasma di guai in cui minacciavo di cadere.

Il problema però stava nel fatto che aveva anche la capacità di spingermici dentro.

«Ti amo tanto…» dissi alla fine, staccandomi e guardandolo in volto «…non dimenticarlo mai.»

Dopo un altro sorriso quanto mai sforzato, ebbi la forza di andarmene e lasciarlo per conto suo: di sotto, in cortile, sapevo che Alessia lo stava aspettando per andare magari a casa insieme e io, proprio perché avevo appena acconsentito a diventare l’amante del suo fidanzato, non potevo proprio permettermi di farmi vedere insieme a lui. Non ora. Non subito. Conveniva giocare d’astuzia e tenere nascosto tutto quanto.

Di lì in poi, me ne rendevo conto, non avrei più potuto vederlo fuori casa senza la presenza almeno di Sebastiano. Serviva un certo contegno per tenere nascosta la nostra relazione, e né io né Emanuele eravamo abbastanza in gamba per incontrarci senza che la forte attrazione che oramai provavamo l’uno per l’altra si manifestasse.



Arrivata a casa mi ritrovai a sospirare, tirando un enorme sospiro di sollievo. Improvvisamente capivo la necessità di Superman d’avere tutta per sé la Fortezza della Solitudine: io che avevo solo diciotto anni e di certo non tutte le sue preoccupazione, non sapevo proprio come avrei fatto ad andare avanti senza la mia adorabile, bellissima casetta, in cui vivevo in solitaria e dove potevo ragionare sui miei guai con calma prima di lanciarmi a capofitto in una nuova, difficile giornata.

Abbandonando a terra la mia tracolla, feci tanto di levarmi la giacca e le scarpe quando, con mia grande sorpresa, notai che i festoni di natale erano stati appesi nell’ingresso. Subito mi irrigidii perché, sappiatelo tutti, io non sono il tipo che bada a queste cose. Mi limito ad arredare l’albero e anche questo accade minimo due giorni prima il 25.

Era dunque chiaro che qualcuno era entrato in casa.

Deglutii, afferrando un ombrello.

«C’è…c’è qualcuno?» domandai, sentendomi una di quelle povere galline che, nei film horror, ritrovandosi in una casa buia non trovavano niente di meglio da fare che porre la mia stessa domanda, aspettandosi magari che il cattivo di turno venisse fuori esordendo con un “Sì, ci sono io, sai com’è ti voglio uccidere!”.

Feci qualche passo avanti, titubante, e quando mi affacciai all’entrata del soggiorno un ragazzo alto e con indosso un cappello da Babbo Natale mi si parò di fronte, causandomi un maledetto infarto – come se già non avessi guai da sola con il cuore, eh.

«Sorpresa!»

«Simon! Mi hai…mi hai spaventata a morte!»

Simon alzò le spalle, correndo ad abbracciarmi. Lo sentii ridere mentre mi stringeva a sé con la sua solita delicatezza. Io mi adattai subito, gettandogli le braccia al collo. Avevo registrato solo ora chi era colui che avevo di fronte e, scoppiando a ridere, chiusi gli occhi assaporando il momento.

«…fratellone!» esclamai «Credevo saresti arrivato la settimana prossima!»

«E secondo te mi perdo l’opportunità di stare con la mia sorellina più tempo? Giammai.»

Mi staccai da lui e lo presi per mano, saltellando allegra verso il grande divano sotto alla vetrata della zona giorno. In un batter d’occhio mi misi seduta, trascinandolo al mio fianco.

«Che sorpresa magnifica!»

«Eh. Ovvio che è una sorpresa magnifica. Io sono magnifico ergo anche la mia sorpresa lo è.»

Risi. «Ok, Simon, come dici tu.»

«Allora, cosa racconti al tuo redivivo fratello – poiché reduce dagli esami – appena tornato all’ovile?»

Chiaramente non potevo raccontargli delle ultime svolte che aveva preso la mia vita, nonstante avessi desiderato un parere esterno per riuscire a fare chiarezza dentro alla mia testa. Tentai in ogni modo di non dare a vedere l’agitazione che mi animava quando ebbi la forza di dire “non è successo niente di rilevante”.

«…niente?» continuò lui «E questa? È nuova?»

Prese fra le mani il mio ciondolo ed io, rabbuiandomi forse un poco, inclinai leggermente il capo.

«Un regalo.»

«Un regalo…che non ti ha portato molta gioia, a quanto vedo.»

«No è che…» esitai.

«…ho capito. Non ne vuoi parlare.»

«Già.»

Simon si alzò in piedi e, sogghignando, andò in cucina per mettere su l’acqua per un bel thè. Prima di raggiungere la cucina, però, si voltò a guardarmi.

«Emanuele ha buon gusto, eh?»

Diventando rossa, spalancai la bocca e lo lasciai andare.

Come cavolo faceva a sapere sempre tutto?!







La voce dell'Autrice: Che dire di questo capitolo se non che io stessa sono confusa dalle azioni della protagonista? Prima sì, poi no, poi di nuovo sì...e la cosa diventerà anche peggiore!
In realtà posso anche comprenderla, una situazione del genere è tutto fuorché semplice da gestire, e considerando che lei stessa ha già molte cose a cui pensare non oso immaginare quale immane CASINO stia diventando la sua vita. Quindi, in definitiva, un pò di confusione mentale gliela posso anche abbuonare.
Che ne pensate voi? Fatemelo sapere! Adios

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Capitolo 8
*** Non riesco a decidermi ***


Sette: Non riesco a decidermi



Una cosa bella nel mio rapporto con Simon, era che nonostante avessimo ben sette anni di differenza entrambi riuscivamo a capirci e sostenerci senza mai andare troppo in disaccordo. Avendo perso nostra madre quando ancora eravamo “piccoli” ed avendo un rapporto con nostro padre che definire caotico era poco, eravamo sempre stati noi due contro tutto il resto del mondo. Ci capivamo al volo, forse alle volte anche quando uno di noi - o entrambi - non voleva che ciò accadesse.

Il periodo che seguì il mio ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie, ebbe modo di mettere in luce il fatto che non sarei mai stata capace di tenergli nascosto qualcosa: per tutto il tempo che lui rimase, per quanto facessi del mio meglio per non dare a vedere la mia angoscia o la mia ansia, seppi mantenere il mio segreto senza però dargliela a bere. Simon non mi chiese nulla, preferendo che fossi io a parlargli per prima dei miei problemi, e quando purtroppo arrivò il momento, per lui, di tornare all’Università, fra noi rimase aperta quell’unica piccola incomprensione.

Avrei tanto desiderato potermi aprire con lui, magari anche di poco, necessitando di un parere che non venisse da Sebastiano – che comunque aveva il giudizio annebbiato, poiché amico di entrambe le parti in gioco – ma da qualcuno che fosse assai più schietto di lui. Simon, di fatti, non era mai stato capace di dirmi la sua senza staccarsi un attimo dal suo ruolo di fratello maggiore: se una cosa non era giusta, me lo diceva, eliminando dal suo discorso i fronzoli o i giri di parole. Era dell’idea che le erbacce andassero estirpate subito, limitando quei danni che, altrimenti, continuando a fare finta che il problema in questione non esistesse, avrebbero potuto danneggiare tutta la nostra vita.

Il più delle volte consideravo questo suo atteggiamento poco obbiettivo e decisamente cinico, ma questa volta era chiaro che fosse quel genere di pensiero ad essermi più utile.

Io, ormai, non ero più in grado di decidere per il meglio. L’amore ed il desiderio mi avevano trascinata in un mondo diverso, distorto rispetto a quello in cui avevo vissuto per la bellezza di diciotto anni. Ora me ne stavo semplicemente lì, immersa nei miei pensieri e nei miei folli sentimenti, ad attendere che il giorno del giudizio universale riversasse su di me ogni punizione.



***

Dopo aver parlato un po’, Simon cominciò a chiedermi della patente.

Ero molto fiera di me visto che finalmente ero riuscita a superare tutti i test, aggiudicandomi quel piccolo pezzo di carta che, un giorno, mi avrebbe consentito di guidare la mia prima automobile. Rispondendogli quindi con fare trionfante, scoprii alla fine che non avrei dovuto attendere molto affinché il mio sogno diventasse realtà: portandomi alla finestra del soggiorno, quella che dava sul parcheggio nel piazzale sottostante casa nostra, lui mi indicò una macchina e mi disse solennemente “Quella è tua. Trattala bene.”

Inutile dire che la mia reazione fu tra il frastornato e l’entusiasta. Cominciai a ricoprirlo di baci, stringendolo fra le braccia mentre, piano piano, mi rendevo conto del regalo che aveva voluto farmi.

«Santo cielo, ma tu sei fuori di testa!» esclamai ad un certo punto, saltellando attorno alla poltrona su cui Simon si era seduto «Insomma, mi hai comprato un’auto!»

«Niente di più, niente di meno.»

«E con che soldi?»

«Sai, quelli che mamma ci ha lasciato, assieme a quelli del nonno, sono abbastanza da permettermi di fare una spesa così folle…»

Abbozzai un sorriso a sentirgli dire “mamma” e “nonno”. Quelle erano due persone che non avrei mai dimenticato e che, fra tutta la disperazione cui io e Simon avevamo dovuto far fronte, mi avevano sempre donato sorrisi e dolcezza. Perfino ora che non c’erano più riuscivano a fare tanto.

«Accidenti… Devo dirlo al fratellone

A sentirmi, Simon corrugò la fronte, cercandomi con lo sguardo. Mi seguì per tutto il tragitto che mi condusse dalla sua poltrona, al telefono cordless posizionato poco distante su ripiano vicino alla televisione. Per un po’ non disse niente ma, considerandomi forse un poco frastornata per via della grande sorpresa, si alzò in piedi avvicinandosi subito a me.

«Ehm… Guarda che io sono qui.» disse «So cosa ti ho regalato. Appunto perché sono stato io a comprare quell’auto…lo so.»

C’era insicurezza nella sua voce e io, ridendo, mi girai velocemente prima di spiegargli cosa intendessi con quel “fratellone”. Sì, perché nella mia vita, come se già non fosse stramba di suo, mi ero ritrovata ad avere ben due fratelli: uno di sangue, che al momento mi stava proprio di fronte al naso, ed uno conosciuto poco tempo prima con cui avevo stretto un legame che dire stretto era dire poco. Composi il numero di Sebastiano sui tasti bianchi del telefono, rivelando l’arcano mistero al mio confusissimo parente. Questo, annuendo, tirò un enorme sospiro di sollievo e se ne ritornò al suo posto, accendendo con fare svogliato la tv.

«Angy!»

Come al solito Sebastiano mi accolse con una risata, facendomi sentire ancora una volta la persona più fortunata del mondo nell’averlo come amico.

Sorrisi, emozionata.

«Oddio, Seb, non crederai mai a ciò che mi è successo!» esultando come una matta ripresi a saltellare, stavolta sul posto, mostrandomi per la sciocca che ero agli occhi di Simon, il quale mi stava guardando divertito «Il grande capo è tornato e, indovina un po’, mi ha regalato una macchina!»

«No, mi stai prendendo in giro.»

«Sono serissima!»

«Una macchina?! Ma stai scherzando?!»

Feci una pausa, alzando gli occhi al cielo.

«…non ritirerai mica fuori la storia del tuo motorino, adesso.»

«Era nuovo di zecca, i freni funzionavano benissimo…e tu sei riuscita a spaccarlo comunque.»

«Beh, è diverso adesso: non ho mai detto di saper guidare quell’affare, invece per la macchina ho fatto la patente. C’eri anche tu quando l’ho ritirata! Non è di certo colpa mia se non hai avuto la prontezza di spirito di chiedermi se avessi avuto esperienza con moto e affini.»

Vinto dalla mia logica schiacciante – ma rimanendo dell’idea che fossi un pericolo pubblico – Sebastiano sospirò e, tornando del suo solito umore solare, cominciò ad elencare con me i posti in cui saremmo potuti andare insieme di lì in poi. Finalmente non c’era più bisogno degli adulti, potevamo prendere e fare ciò che volevamo o, per lo meno, potevamo sognare di farlo. Era sempre bello avere qualcosa per cui sperare.

«Visto che il Giappone è ancora troppo lontano» asserì lui, ad un certo punto «direi che possiamo limitarci a viaggetti un po’ più corti.»

Risi. «Lo penso anche io.»

«Comunque non mettiamo via un sogno tanto importante. Il Giappone ci chiama, sorellina.»

«Ah, lo so.» poi, come colta da un’idea sensazionale, aggiunsi dell’altro «Senti, perché non vieni qui da me, oggi? Le vacanze iniziano domani e perciò abbiamo la mattina per dormire. E se facessimo un pigiama party? Uno dei nostri, pieno di schifezze da mangiare, film fino a notte fonda e chiacchiere sotto alle coperte.»

A sentirmi Simon si alzò di scatto ed andò a controllare nel frigo se avevamo abbastanza roba da mangiare: Seb era conosciuto da tutto il mondo per la sua fame insaziabile, cosa che lo rendeva sì molto simpatico agli occhi della gente, ma anche molto costoso quando lo si voleva invitare a cena a casa propria. Non molto tempo prima, dopo aver passato anche solo qualche ora da me, mi ero ritrovata senza nulla di sostanzioso da mangiare per la sera.

«Vengo subito!» disse il ragazzo, esultando all’altro capo del telefono «Sarà il miglior pigiama party/festa per la nuova macchina mai visto prima!»

«Probabilmente è anche l’unico che è stato mai fatto…»

Improvvisamente sentii degli strani rumori, dalla cornetta, ed acuendo l’udito – per quanto fossi nota per la mia quasi totale sordità – cercai di capire se ciò che sentivo fosse un disturbo dovuta alla linea o a qualcosa che stava capitando al mio povero amico. Fu allora che mi resi conto di conoscere la voce che accompagnava la sua.

Emanuele stava con Sebastiano e, ora, aveva sentito ciò che avevamo intenzione di fare quella sera. Come al solito avrebbe frainteso, ingelosendosi per non si sa quale motivo e rendendo poi la vita impossibile sia a me che a Seb. Non sapevo neanche se dovevo cominciare a preoccuparmi, scrivendogli magari un messaggio con il cellulare per scusarmi di non averlo invitato, o altro.

Pur volendo essere buona, non avevo molta voglia di chiamare anche lui, e questo non perché fossi arrabbiata, quanto più perché non avevo la forza di affrontarlo: solo qualche ora fa avevo accettato di diventare la sua amante, ruolo che sapevo già in partenza non mi si addicesse molto, e che, anche questo già lo sapevo, avrebbe portato ad entrambi tanti di quei problemi che metà ci sarebbero bastati per tutta la vita. Se Emanuele fosse venuto, mi sarei dovuto gettare a capofitto nella mia ben consueta inquietudine e, almeno per un giorno, avrei tanto desiderato evitarmelo.

Una sola giornata passata con Simon e con Sebastiano non poteva certo dargli troppo fastidio.

«Scusa, Angy…»

La voce di Seb mi riportò alla realtà e sentendolo a chiedere scusa, non potei fare a meno di domandarmi se non mi fossi persa una parte del discorso, per via del mio continuo pensare.

«Scusa per cosa?»

«Per le idiozie che avrai sentito dire a quello scemo di Emmy.»

Lui calcò sulla parola scemo, e io immaginai che l’altro fosse abbastanza vicino da sentirlo e mettere il muso.

Ne sorrisi, sinceramente divertita. Vederli bisticciare – o anche solo sentirli – era un po’ come osservare una coppia di vecchietti, innamorati l’uno dell’altra, tuttavia troppo orgogliosi e rimbambiti per riuscire a passare sopra alle pessime abitudini del consorte. Abitudini che, nonostante tutto il tempo passato assieme, non erano riusciti minimamente a cambiare.

Ancora faticavo a decidere chi fra i due interpretasse la parte della moglie, però come esempio ci stava tutto.

«A… A dire il vero non ho ascoltato, stavo pensando a tutt’altro.» rivelai infine «Scusami tu.»

Per un secondo avevo perso forza nella voce e, al solito, lui non aveva potuto ignorare tale fatto. Percepii il suo spostamento e quando cominciò a sussurrare seppi per certo che si era andato a nascondere da Emanuele.

«Ti ha fatto per caso qualcosa…?» mi chiese «…qualcosa in più rispetto a ciò che mi hai raccontato stamattina, intendo. Perché se così fosse, giuro che stavolta lo prendo a pugni.»

«Ma no, no, che vai a pensare!» agitando le mani, neanche potesse vedermi, mi affrettai a spiegargli la situazione «Non ha fatto niente di male, credimi. Prima, sul tetto, ci siamo parlati e…abbiamo fatto pace. Ti parlerò dei dettagli più tardi.»

«Se avete fatto pace, come mai ha-…»

«È solo che non pensavo a lui da quando sono tornata a casa, visto che Simon mi ha tenuta occupata, ma…» abbassai anche io il tono della voce, temendo che mio fratello stesse origliando dalla cucina «…non appena vi ho sentiti parlare… Non appena ho sentito lui, tutto mi è tornato addosso e mi è mancato un battito.»

«…capisco.»

In un battibaleno scoppiai a ridere, cercando di risollevare una conversazione che, altrimenti, per via dei soliti stupidi motivi, minacciava di rovinarsi per sempre. Stavano organizzando una mini festicciola, o era stata solo una mia impressione?

«Ti aspetto qui per cena, Seb.» esordii, tagliando corto.

«Ok. Ci vediamo dopo!»

Dopo aver riattaccato, andai da mio fratello e, uscendo con lui di casa, decidemmo di fare un po’ di spesa. Di roba ne avevamo, ma chissà come mai pensavamo entrambi che non sarebbe bastata…



Tornati a casa, cominciammo subito a darci da fare, sistemando le provviste appena prese e preparando la tavola mentre, nel forno, cuoceva qualcosa di delizioso. Il profumo dell’arrosto, il quale si stava dorando perfettamente, si era sparso per tutta la cucina, infiltrandosi anche nella sala da pranzo. Io me ne stavo seduta lì, annusando di tanto in tanto l’aria con sguardo sognante, pronta ad inforcare qualsiasi cosa mi venisse messa nel piatto purché avesse quello stesso, splendido odorino.

Le gambe accavallate, le mani strette ai bordi della sedia, sorridevo tranquilla in attesa o che suonassero alla porta o che il timer del forno trillasse.

In ambedue i casi sarei stata enormemente felice.

«Sono contento…» mormorò Simon, asciugandosi i capelli bagnati con l’asciugamano che teneva sulle spalle. Girando il volto verso di lui gli sorrisi, cercando di capire cosa lo rendesse felice «…sono riuscito a farmi una doccia prima che venisse Seb.»

«Questo è motivo per essere contenti?» domandai.

«Certo che sì.» rispose l’altro, sedendosi vicino a me, a capotavola «Voglio avere modo di parlargli un po’, prima che tu prenda possesso di quel povero ragazzo impedendomi di dire anche solo “Ciao”.»

«In effetti non lo vedi da tanto, e lui ti è sempre stato molto simpatico.»

Immediatamente mi chiesi chi, al mondo, potesse avere in antipatia Sebastiano ma, volendo evitare simili domande cosmiche, decisi di tenere quello sciocco quesito solo per me.

«Appunto. Ecco spiegato come mai ti ho chiesto di guardare l’arrosto mentre io andavo a farmi bello.»

Annuii, decisa a non approfondire ulteriormente quello stupidissimo discorso. Trovavo infatti che fosse assurdo il fatto che mio fratello mi facesse la scenata per via del fatto che monopolizzavo i miei amici. Quando era lui a portare qualcuno a casa, ignorandomi completamente, io non facevo storie e mi mettevo a leggere, a scrivere, o tutt’al più a guardare la televisione. Lui, invece, principe dell’egocentrismo – sempre dopo Emanuele, comunque – non poteva fare a meno di mettersi al centro dell’attenzione, tentando magari di mettermi in imbarazzo con chi di dovere.

Stavolta però, visto e considerato che c’erano questione ben più importanti di quelle che solitamente Simon riusciva a tirare fuori, non gli avrei permesso di dare troppo fiato alla bocca. Purtroppo per me Sebastiano era così sincero che, anche volendo tenere un segreto per via di una promessa, si capiva subito quando stava omettendo di dire qualcosa di importante: bastava guardarlo negli occhi, quegli occhioni scuri tanto simili ai miei, eppure totalmente incapaci di portare rancore. Era così che io scoprivo cosa aveva combinato Emmy di solito, ed era così che, nel bene e nel male, mi ritrovavo a pormi domande sulla sua dubbia morale.

«Scusa ma… Non doveva venire solo Seb?»

Tornando a posare la mia attenzione su Simon, notai che si era rialzato e si era diretto verso la grande vetrata della sala da pranzo. Mi alzai anche io, curiosa di capire di che accidenti parlasse, ora, ma quando arrivai al suo fianco desiderai di non aver mai compiuto quel breve viaggio.

Là fuori, davanti al cancello di casa, vidi Sebastiano ed Emanuele a parlare fitto fitto, nascosti parzialmente da uno degli alberi del giardino.

In un attimo non seppi più che fare, dire o pensare. La mia mente andò in tilt. Probabilmente, se in quel preciso istante fossi stata attaccata ad una di quelle macchine ospedaliere con gli encefalogrammi, il mio segmento sarebbe stato assolutamente piatto.

«Oh, ma quello è l’altro tuo amico…»

Strinsi le mani in due pugni e, per un secondo, ebbi lo spiacevole impulso di dire tutta la verità a mio fratello: se lo avessi fatto di certo si sarebbe arrabbiato con me ma, di sicuro, avrebbe riversato tutta la sua ira sulla persona che mi aveva spinta fino a quel confine. Avrebbe picchiato Emanuele, intimandogli di non avvicinarsi più a me, di non farmi più soffrire, e io finalmente avrei potuto respirare, lavandomi le mani di quella situazione spiacevole una volta per tutte. Subito dopo aver formulato quest’ipotesi, però, mi sentii un mostro. Non era Simon a dover porre rimedio ai miei errori. Avevo diciotto anni e forse era arrivato il momento, per me, di sistemare da sola certe cose.

«Torno subito.» mormorai, correndo all’entrata e prendendo la prima giacca che mi capitò a tiro.

Corsi di sotto, fermandomi appena in tempo per udire l’ultima parte della conversazione dei miei due compagni di classe.

«Dio, alle volte non ti sopporto proprio, Emanuele.»

Mi sporsi un poco oltre il muretto, cercando di intravedere almeno il viso di uno di loro.

Ironia della sorte, riuscii a scorgere proprio l’espressione di Emmy.

Si era fatto serio, quasi impaurito, e mentre cominciava ad impallidire lo vidi stringere un mazzo di rose blu – erano per me? – con una mano sola, cercando, con quella libera, la spalla dell’amico.

«Ti prego, promettimi che rimarrai mio amico per sempre.»

«…Non saprei. Se non darai più colpi di testa… Forse

«Sebastiano, io ho bisogno del tuo appoggio. E ne avrò bisogno sempre. Quindi, ti prego… Rimani mio amico per sempre, qualsiasi cosa faccia.»

Sebastiano lo fissò stranito, corrugando la fronte in modo curioso. Quando era perplesso, gli compariva una strana ruga in mezzo alla fronte, piccolo particolare che non mancava di farmi sorridere. Perfino ora, ad origliare una conversazione all’apparenza tanto importante, non potei fare a meno di abbozzare un sorrisetto divertito.

«Da come stai parlando, sembra quasi che tu sappia di essere in procinto di fare qualcosa di assolutamente inaudito.» cominciò a dire Seb, inclinando il capo «Qualcosa di più stupido del tradire la propria ragazza con la propria migliore amica.»

«Io sono solo previdente.»

«Emmy, tu me lo devi davvero spiegare adesso…» sbottò Sebastiano «Credo di sapere chi preferisci tu, fra le due. E se ci sono arrivato io, che la vedo da fuori questa cosa, mi pare impossibile che tu non abbia capito dove ti portino i tuoi sentimenti. Ti stai comportando come un bambino, e nel mentre stai distruggendo un rapporto molto importante. Dovresti smetterla.»

«Le voglio tutte e due. Che posso farci se è così?»

«Sì, ok, ma chi vuoi di più?»

«Non… Non lo so.»

«Adesso… Chi desideri di più?»

«…forse… Forse voglio-…»

«Ciao ragazzi.»

Decisi di uscire solo allora, repentinamente, correndo verso di loro come se fossi appena uscita dal portone della mia dimora. Non avevo la forza, ora, di sentire la verità. Ero propensa a credere che il cuore di Emanuele appartenesse ad Alessia, non a me, e sicura di questo non avrei mai potuto sopportare di sentirglielo dire proprio adesso che ero ridotta a quel modo per colpa sua.

Lo amavo e, per una volta, ero io a non voler vedere la verità.

I due si girarono verso di me e Seb avvicinandosi mi sorrise. Forse si stava chiedendo cosa avessi sentito del loro discorso, tuttavia, essendo io un’attrice ben più talentuosa di lui, non avrebbe mai potuto capire niente guardandomi. Non stavolta.

«Ciao!» esclamò.

«Vi ho visti dalla finestra e ho deciso di raggiungervi.»

«Hai fatto bene. La conversazione langue. Sai com’è, Emmy non è un grande interlocutore.»

Risi di gusto, ad ascoltarlo. «Devo sempre venire a salvarti, eh?»

«Chiaro.»

Mi strinsi nelle spalle, dondolando sul posto. Ancora stavo esitando ma, non appena alzai lo sguardo da terra, incontrai gli occhi grigi di Emanuele. Gli sorrisi, cercando di dimostrarmi coraggiosa e sicura quando invece era tutto il contrario, come al solito se si trattava di lui.

«Seb, mio fratello ti sta aspettando di sopra. È tutto emozionato perché finalmente ti può rivedere.»

«Dici davvero?»

«Ah-ah.»

«Non è che invece vuoi sbaciucchiarti con quel povero mentecatto…?»

Arrossendo scossi il capo, irrigidendomi. Sapevo che stava cercando di mettermi in difficoltà e, lasciandolo andare, aspettai ancora un attimo prima di avvicinarmi al mio “non riesco più a chiamarti amico”. Il nostro comune compagno se ne era andato e nessuno di noi, quindi, aveva una spalla cui potersi appoggiare per dialogare in modo normale.

Ci guardammo per un poco, senza proferire parola, e anche quando il disagio prese il sopravvento fummo totalmente incapaci di dire un alcun che. Agitata per ciò che stava accadendo – o che non stava accadendo – presi a fissare il mazzo di fiori che lui stringeva fra le mani, quasi fosse in procinto di spezzare gli steli delle rose in due per via della forza che ci stava mettendo in quella presa ferrea.

«Quelli sono per me…?»

Indicai i fiori, sfiorandoli subito dopo aver parlato. Le rose avevano dei petali soffici, delicati, e il profumo dei miei fiori preferiti raggiunse in un attimo le mie narici, sostituendo il ricordo dell’arrosto che, in cucina, stava ancora cuocendo.

«Sì, vedi…» lui si grattò una guancia «Volevo chiederti scusa. Scusa per come sono venuto oggi a scuola. O meglio, per ciò che mi hai visto fare…a scuola.»

Ero incapace di comprendere cosa lo avesse spinto a tirare fuori quel discorso proprio adesso. Non sapevo nemmeno che mi avesse visto, quella mattina, visto quanto era impegnato a stringere e ridere con la sua adorata Alessia. Un po’ ero felice che mi avesse notata, ma dall’altra propendevo per la tristezza: non lo avevo incolpato di aver dedicato del tempo alla sua ragazza, né tanto meno per ciò che era accaduto fra noi due in quei giorni.

Certe cose si fanno in due.

«Scusa se ti ho fatta stare male. Mi sento in colpa per quello che ti ho fatto.»

«Emmy, io…»

«No, ti prego fammi finire.»

Lo guardai negli occhi, sconcertata. Se avesse cominciato a chiedermi scusa di tutto, avrei avuto la forza di non scoppiare a piangere?

«Quello che è successo ieri sera…» continuò «Sono contento di averlo fatto. Volevo sul serio che tu fossi mia, perché tu… T-Tu…»

Emanuele scosse il capo e allora mi diede il mazzo di fiori, sospirando.

«…ecco tieni. Buon Natale.»

C’era tanta desolazione in quelle parole, nei suoi gesti, e perfino nel suo sguardo. Se avessi potuto farlo, di certo avrei optato per la fuga in quel momento.

Mi avvicinai titubante a lui e, stringendo al petto le rose, posai anche io il mio sguardo a terra. Non ero sicura di ciò che avrei dovuto dire, a dire il vero. Non sapevo se essere felice per ciò che mi aveva rivelato, o magari sentirmi offesa per chissà quale altro motivo. Mi aveva appena definito come una persona di cui non poteva fare a meno? Oppure mi ero ritrovata ad interpretare non la parte dell’amante, che già di per sé trovavo alquanto triste, bensì quella dell’amante-passatempo, ovvero della bambola votata a soddisfare unicamente i piaceri sessuali di un adultero?

Boh. Ormai non ci capivo più niente neanche io.

«Grazie.» riuscii a sussurrare, allungando una mano verso di lui.

Sfiorai con la punta delle dita la sua giacca, sforzandomi di non alzare ancora gli occhi per incontrare i suoi. Se lo avessi fatto avrei finito col baciarlo e allora, quell’attimo tanto delicato e chiaramente dedicato alle confessioni, sarebbe scoppiato come una piccola bolla di sapone.

«Io…»

Anche lui fece per accarezzarmi, però all’ultimo si fermò, lasciando cadere il braccio lungo il corpo.

«Prego.»

«Senti, io non ero arrabbiata per ciò che pensi.» esordii infine, scuotendo poi energicamente il capo «Anzi io… Io non ero neanche arrabbiata. Al massimo dispiaciuta. Sapevo dall’inizio di non avere chance contro di lei. Alessia è la tua ragazza ed è normale che voi passiate del tempo insieme. Quella da tenere nascosta sono io, non lei.»

«Perché sei…l’amante.»

«Perché sono l’amante, sì.»

Sorrisi, stringendomi nelle spalle.

Non c’era motivo, per me, di negare ciò che ero. Un po’ mi dava fastidio, ma tanto valeva prendere le cose migliori di quello che mi stava succedendo, smettendola, una buona volta, di vedere tutto in negativo.

«Certo. E tutto questo non ti pesa né ti sconvolge.» mi accarezzò, toccando appena l’angolo della mia bocca, perplesso «Sul serio, come accidenti fai a sorridere ancora?»

Dicendo questo si prodigò in un abbraccio e io, sconvolta da un simile comportamento da parte sua, non seppi che altro fare se non drizzarmi malamente sulla schiena.

«Sono un mostro, vero?»

Non risposi.

«Scusami.»

Chiunque gli avrebbe risposto “Sì, sei un mostro.”, ma ribadendo il mio concetto, ovvero il fatto che in quel genere di situazioni ci si finiva per colpa di due persone e non di una sola, non avrei mai proferito simili ipocrite parole. Ero da biasimare tanto quanto lui e poi, giusto per puntualizzare una cosa, era molto facile capire come mai ancora riuscivo a sorridere.

Ricambiai perciò il suo abbraccio, ridendo sotto ai baffi mentre mi stringevo con tutta tranquillità a lui.

«…sorrido perché, in mezzo a tutto questo dolore, tu ci sei ancora.» lo guardai, sicura «Fino a che avrò te, come amico, amante o quello che vuoi, del resto non mi importa. Ti amo e anche se tu da me vuoi solo una cosa… Non mi importa.»

Lo avevo sorpreso, lo capii subito dalla sua espressione mezza sconvolta. Io stessa mi stavo sconcertando vista la facilità con cui lui avrebbe potuto usarmi a suo piacimento: improvvisamente fui grata al cielo di non essermi mai innamorata, visto e considerato che mi donavo anima e corpo fin troppo a colui che mi aveva rubato il cuore. Al contempo, però, pregai affinché Emanuele non mi riducesse troppo male, con quella storia.

Un po’ ne sarei rimasta bruciata, era chiaro, ma speravo non troppo.

«Mi ami tanto, eh?» disse, sorridendomi mestamente «Ne sono felice.»

«Non te lo avevo già detto cento volte, quanto ti amo?»

«Di certo ti accontenti di poco.»

«Questo si chiama amare incondizionatamente.» bofonchiai io «Altresì detto “essere stupidi”.»

Emmy alzò gli occhi al cielo, corrugando la fronte. «Ora…devo andare.»

«Oh. Già te ne vai…?»

Feci qualche passo indietro, dondolando sul posto. Il distacco era sempre stato difficile, quando si trattava di lui, ma chiaramente, ora che in qualche modo stavamo insieme, la cosa era ancora più complicata. Non avrei mai voluto separarmi da Emanuele, neanche se ne fosse dipesa la mia vita. Era così bello stargli accanto, anche quando mi faceva impazzire dalla rabbia. Un po’ mi completava, mi faceva dimenticare tutte le mie paranoie, i problemi del mio passato, le ansie per il futuro…

La testa mi si riempiva solo di lui.

«Sì, è meglio che vada. Massimo non sta tanto bene dalla sera del concerto. Si è preso una bronchite, mi sa.»

«Povero Massimo! Mi dispiace che stia male.»

Veloce estrassi una rosa dal mazzo e, porgendola al ragazzo che avevo dinanzi, abbozzai un altro dei miei sorrisi indecisi.

«Dalla a tuo padre e digli che spero guarisca presto.»

«Va bene, lo farò.»

Emanuele mi guardò di sbieco, come volesse aggiungere dell’altro, ma forse qualche suo pensiero glielo impedì.

«Noi…ci vediamo…»

«Ciao.»



Ritornata dentro casa notai subito che Sebastiano mi guardava in modo strano.

Per la maggior parte del tempo decisi di non dar peso ai suoi sguardi, neanche fossi ancora convinta di meritarmi almeno un giorno di normalità come tutti gli altri esseri umani del mondo. Mi godetti quindi la cena in compagnia dei miei due fratelloni – per così dire – e poi, in camera da letto, decisi di affrontare la sua evidente preoccupazione con la mia rinnovata tranquillità.

«Allora, mi vuoi dire che cosa c’è?» chiesi.

Lui non rispose e, anzi, si rigirò sul suo lettino, dandomi le spalle.

Beh, almeno sapevo che, se aveva qualcosa, quel qualcosa non era niente di insignificante.

«Ok, visto che non vuoi parlare sarò costretta a dare fiato alla bocca a vanvera fino a che non avrai la decenza di rispondermi.» dissi io, osservando il soffitto «Sai, credo che questa storia con Emanuele non finirà bene.»

Pensai al mio cuore, alla facilità con cui poteva affaticarsi, e ridendo della mia stessa debolezza dissi una cosa come un’altra.

«…forse morirò di crepacuore prima della fine dell’anno.»

Ovviamente non c’era malizia nelle mie parole. Davo per scontato che Sebastiano non sapesse della mia malattia e, non appena lo vidi scattare seduto a corrermi poi incontro capii che forse, invece, qualcosa la sapeva.

Prendendomi per le spalle esibì un viso preoccupatissimo, quasi sconvolto.

«No, tu non puoi morire di crepacuore!» esclamò «Se muori poi noi come facciamo? Non puoi morire, non tu!»

Sgranando gli occhi come mai avevo fatto prima d’allora, inclinai leggermente il capo, fissandolo senza capire.

«Cosa…cosa ti prende, si può sapere?» domandai «Mi spaventi se fai così.»

«Ho… Ho reagito in modo troppo esagerato. Scusami.»

Si staccò e mi sorrise, ma quel riso non aveva niente a che vedere con le sue solite dolci espressioni.

«Tuo fratello mi ha detto del tuo piccolo problemino al cuore.»

A sentirlo mi morsi un labbro, condannando Simon alla peggiore delle sventure per aver osato rivelare un simile segreto a qualcuno che mi stava vicino: per anni non avevo detto niente a nessuno, convinta che così facendo tutto sarebbe stato più semplice e nessuno avrebbe mai deciso di trattarmi con pietà solo perché mi ritrovavo ad essere leggermente più debole degli altri. Non volevo passare per la “poveretta” di turno, quella che tutti devono compatire ma a cui nessuno importa davvero.

L’unica cosa che però, adesso, mi pareva importante era un’altra:

«Ti prego, non… Non dirlo ad Emanuele.»

Abbassai lo sguardo e strinsi le mani sul piumino, chiudendo gli occhi mentre ricordavo cosa era successo lì sopra solo il giorno prima. Là, in quella stanza, mi ero sentita viva. Viva per la prima volta da tempo. La mia salute non mi aveva causato problemi e avevo potuto godere di una cosa che reputare magnifica sarebbe stato troppo poco. Io ed Emanuele eravamo diventati una cosa sola, ci eravamo uniti e amati per tutta la notte, soffocando gemiti l’uno sulla pelle dell’altro.

Era stato magico, tuttavia sarebbe bastato quell’inutile informazione a rovinare tutto.

«Io non sono niente, per lui, questo lo so, ma quando abbiamo fatto l’amore mi sono sentita importante e desiderata. Ho capito di essermi conquistata un posticino nel suo cuore, anche se piccolo ed insignificante, e anche quando mi tratta a pesci in faccia so per certo che è sincero. So che le parole che mi rivolge sono frutto dei suoi veri sentimenti e non…dovuti alla pietà.»

Tornando a guardare il mio amico mi dimostrai supplicante, quasi sull’orlo del pianto.

«Se tu ora glielo dici, cambierà tutto.»

«Ma… Angela, lui dovrebbe saperlo.»

«No no, non deve.» mi allungai verso il comodino e dal cassetto estrassi due lettere, legate insieme da un elastico rosso. Gliele porsi, titubante «Tanto io… Io non resterò qui ancora per molto.»

Sebastiano prese le lettere e, leggendole, parve illuminarsi, dimenticando i crucci di poco prima.

«Hai…vinto una borsa di studio per Yale?!» esclamò «E… Ti pubblicano il libro! Accidenti!»

Sorrisi, ma senza gioia.

«Vedi? Non ha senso parlargli, dirgli che ho un cristallo al posto del cuore. Me ne andrò comunque, uscirò dalla sua vita molto presto quindi… Fammi stare con lui ancora un po’. Solo un po’.»

Ci fu una pausa, qui, molto pesante e carica di aspettative.

Quando lui sospirò, seppi per certo che stava per pormi un quesito molto importante, uno di quelli che mi avrebbe posto di fronte all’ennesima difficile decisione.

«Fammi capire, Angela…» disse «Vuoi andare avanti con questa storia, pur sapendo che non ha nessuno sbocco? Se sai che te ne andrai, significa che non hai nessuna intenzione di combattere per averlo tutto per te.»

«Che senso avrebbe farlo, Seb? Emanuele non mi ama.»

«Io sono sicuro che nel cuore di Emmy c’è più di un posticino per te, sorellina. Se si tratta di te, là dentro c’è un posto vero. Lui deve solo rendersene conto.»

«…non capisco come tu possa esserne sicuro.»

«Lo conosco da molto prima di te. Inoltre so anche che prima che lui si accorga di amarti, tu farai in tempo ad andare e tornare dall’America.»

Abbandonandomi sul letto mugugnai appena, maledicendo il mondo intero.

Quindi, a conti fatti, ero da capo.

Era meglio lasciar perdere quella storia oppure no?





La voce dell'Autrice: Ah, come vorrei che le cose da qui in poi diventassero più semplici...e invece no, temo che questo non succederà poi molto presto - o addirittura MAI.
Insomma, alla fine qualcuno ha scoperto il grande segreto di Angela, ovvero la sua malattia. Sebastiano ne è rimasto sconvolto, come d'altro canto trovo giusto che sia. Mi chiedo come reagirà Emanuele una volta scoperto che Angela non sta bene. Mah. Chi lo sa?
Ancora una volta mi stupisco per l'amore che lei prova nei confronti di Emmy. Non so bene come descriverlo a parole - bella scrittrice che sono! - ma credo di ammirare, in un certo senso, questo affetto genuino. Non le porterà niente di buono, ok, però è qualcosa di vero. Qualcosa di veramente importante.
Beh, alla prossima!

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Capitolo 9
*** I sogni si avverano sempre al momento sbagliato ***


Otto: I sogni si avverano sempre al momento sbagliato




Prima che tutto avesse inizio, avevo fatto in modo di programmare la mia vita prestando attenzione ad ogni più piccolo dettaglio, perfino a quello che, all’apparenza, sarebbe potuto sembrare trascurabile. Dopo essermi resa conto che la mia malattia era degenerativa, infatti, capii anche che non avevo tutto il tempo del mondo per raggiungere i miei sogni, viverli e dirmi soddisfatta come invece accadeva per tutti quelli della mia età. Dovevo concentrare le mie abilità nel periodo di maggiore fioritura psicologica e fisica, ovvero durante la mia adolescenza. Quindi, rinunciando alle terapie dell’ospedale per un fine che consideravo superiore, mi dedicai anima e corpo a ciò che meglio mi veniva: la scrittura.
Le polemiche furono molte quando, a soli quindici anni, dissi no ai medici. Loro volevano aiutarmi, fare in modo che io vivessi e che non mandassi a monte la mia esistenza, ma siccome ero caparbia non li ascoltai mai e decisi di trovare un modo per farcela da sola. Perfino mio fratello tentò di dissuadermi, anche se inutilmente.
Iniziai a scrivere, notte e giorno, studiando come una matta mentre il resto delle ragazze, almeno quelle che potevano permetterselo, coltivavano una vita sociale assai più interessante della mia. Non uscivo la sera, non mi mettevo nei guai, continuavo imperterrita a sviluppare la storia che avevo nella mente, certa che un giorno qualcuno avrebbe riconosciuto il mio talento, assicurandomi un contratto per riuscire a fare un libro.
Le probabilità erano poche, io stessa me ne rendevo conto e non avevo mai fatto mistero, a Simon, dei dubbi che ancora mi tormentavano. Il giorno in cui però quelle due lettere comparirono in casa mia, seppi per certo di non aver buttato all’aria tutto quanto.
Ricordo che piansi di gioia nel leggerle, seduta nel mio salotto con quelle carte strette al petto, neanche fossero due peluche morbidissimi e da cui non potevo assolutamente staccarmi. Per la prima volta dopo anni, lasciai che le mie lacrime scendessero orgogliose dagli occhi, dicendomi a gran voce “Ce l’hai fatta!”.
Ed era così. Ce l’avevo fatta, avevo vinto contro ogni prognostico, battendomi arduamente per qualcosa che era assolutamente ed innegabilmente giusto.
Certo, lungo il cammino avevo dovuto rinunciare ad una vita sana – ma soprattutto lunga – tuttavia non riuscivo a pentirmene.
…Anzi, meglio dire che non me ne pentii fino a che non rivelai i miei sentimenti ad Emanuele.
Improvvisamente l’idea di andarmene non mi pareva più tanto buona o, per lo meno, non era più l’unica soluzione valida.
Improvvisamente desideravo vivere, ma non per me stessa, bensì per qualcun altro.
Improvvisamente Yale era troppo lontana, e il mio libro, ora così vicino, un peso troppo grande.
 

***

 
Passò una settimana da che Sebastiano venne a sapere della mia malattia e, per mia enorme fortuna, decise di mantenere il segreto e di non dire niente ad Emanuele. Gli fui grata del suo silenzio in quanto sapevo fino a che punto, il non dire niente al proprio migliore amico, lo avrebbe distrutto. Il loro rapporto era speciale, lo avevo capito dal primo istante in cui li avevo visti parlare insieme, e io, in un certo senso, lo stavo incrinando.
Era spiacevole essere la causa di così tante evoluzioni dall’aspetto poco simpatico, all’interno della vita di coloro che mi stavano attorno: non solo rischiavo di essere il motivo per cui una coppia avrebbe rotto definitivamente, stavo diventando perfino la ragione per cui due amici non avrebbero più potuto fidarsi l’uno dell’altro senza pensare “E se mi stesse nascondendo qualcosa?”.
Sospirai, camminando per le strade del centro con fare leggermente assorto, lo sguardo fisso a terra e le mani, coperte dai guanti, dentro alle tasche della giacca. Ad ogni passo una nuvola bianca usciva dalle mie labbra, espandendosi nell’aria per poi sfumare e svanire del tutto, lasciandomi con la spiacevole sensazione di aver perso qualcosa nel tragitto che mi aveva portata da casa al bar poco distante.
L’inverno, ormai, si faceva sentire, e nonostante le mie vacanze fossero appena cominciate già avevo addosso una strana tristezza, mista a rassegnazione. Simon mi aveva lasciata di nuovo, tornandosene all’Università per gli ultimi esami prima di essere libero di venire nuovamente da a festeggiare il Natale. Ero rimasta sola ancora una volta e, come se non bastasse, i mille tormenti che Seb mi aveva messo in testa non facevano che aggravare la mia già precaria situazione. Mi sarebbe piaciuto spegnere il cervello, ogni tanto, eppure qualcosa me lo impediva sempre. Perfino quando non ero io ad interpretare la parte della mia peggior nemica, mi ritrovavo a sbattere la faccia contro ad ostacoli insormontabili.
Quel giorno, però, avrei finalmente avuto uno svago con cui distrarmi.
Aprii le porte del bar e ringraziai il cielo per aver inventato i termosifoni quando, l’aria calda che impregnava i muri di quel delizioso locale, mi colpì in viso. Rimasi un istante lì, ancora leggermente intorpidita, attendendo che le mie membra riacquistassero scioltezza e voglia di muoversi.
«Fa molto freddo, fuori?»
Una voce femminile mi colse impreparata e aprendo gli occhi di scatto, fissai il mio sguardo oltre il bancone che avevo di fronte.
Abbozzai un sorriso imbarazzato, annuendo piano come a rispondere positivamente alla domanda che quella donna mi aveva posto. Lei ricambiò, facendomi segno di mettermi seduta.
«Forza, scegliti un tavolo e aspettami. Non appena sarai pronta ad ordinare sarò subito da te.»
Costringendo le gambe a muoversi, mi diressi verso la panca più vicina, sedendomi con ben poca grazia o eleganza. Mi buttai là sopra come fossi un peso morto, un corpo svuotato della vita in pratica.
Se ero in quel posto, a quell’ora del mattino, era solo perché avevo ricevuto una chiamata da quello che sarebbe stato il mio futuro editor e che, dopo aver letto le bozze del mio libro, aveva deciso di darmi appuntamento in un luogo a me familiare per potermi parlare a quattr’occhi.
Normalmente sarei stata elettrizzata per un simile incontro, ma si dava il caso che questa volta non fossi propriamente entusiasta di dovermi dare da fare. Avevo consumato il cervello per creare una storia che potesse piacere e che al tempo stesso non si allontanasse troppo dalle prime bozze, però adesso ogni sforzo sembrava vano se paragonato al casino in cui mi ero cacciata da qualche tempo a quella parte.
Emisi un altro sospiro prima di rendermi conto che cominciavo a somigliare ad un treno a vapore.
Prendendo in mano il menù lo posizionai di fronte a me, scorrendo con gli occhi l’elenco delle bevande calde mentre, piano piano, mi levavo guanti, sciarpa e cappello. In verità sapevo da principio cosa volevo prendere – sono una persona alquanto abitudinaria, io – però era sempre bello osservare le immagini invitanti che stavano sopra ai menù. Le fotografie dei cibi – o in quel caso delle bevande – mi mettevano sempre di buon umore.
«Salve.»
Non alzai neanche lo sguardo, benché mi fossi accorta subito che la voce che mi stava parlando non era la stessa della donna che mi aveva accolta. Scossi solo il capo, mostrandomi indecisa.
«Mi dispiace, ma non ho ancora deciso cosa ordinare…»
«Ehm… Veramente non sono qui per prendere la tua ordinazione.»
Smisi di togliermi il giaccone e, fermandomi con un braccio disteso per aria, mossi pianissimo la testa fino a poter vedere in volto il mio interlocutore: rimasi sbalordita non appena compresi che quello non era un comune mortale, bensì un Dio greco od uno di quei vampiri usciti dall’ennesimo libretto per teenager drogate di romanticismo e situazioni impossibili.
Deglutendo appena appena corrugai la fronte, fissando tutte le splendide caratteristiche del ragazzo.
Occhi azzurro cielo, capelli neri e un poco mossi, sguardo acuto accompagnato da un sorriso ammagliante e dolcissimo. Due spalle larghe, braccia forti, un paio di mani grandi ma dalle dita lunghe ed aggraziate. Possedeva un corpo statuario, e il suo gusto nel vestire riuscì a strapparmi almeno cento punto nella mia lista di gradimento.
Sì insomma, era bello ed affascinante, ma arrivati a questo punto sorgeva spontanea una domanda: che diavolo ci faceva, uno così, al mio tavolo?
«Sei Angela?»
Inutile dire quanto rimasi sorpresa nel sentirgli dire il mio nome.
«…sì?»
Lui rise, inclinando leggermente il capo da una parte.
«Ah, se non lo sai tu, figurati io.» esclamò, allungando una mano verso di me «Io mi chiamo Ian Zardetto, piacere di conoscerti.»
Solo allora, arrossendo come una povera scema, mi resi conto di aver sentito in precedenza la sua voce. Mi affrettai ad afferrare la sua mano, prodigandomi in mille scuse mentre cominciavo a fare la conoscenza del mio nuovo – nonché primissimo – editor.
Fu bello scoprire che, oltre ad essere bello ed affabile, Ian era anche intelligente. Conversammo amabilmente per la prima ora della nostra così detta “riunione”, dimenticandoci del reale motivo per cui avevamo deciso di incontrarci lì. Nessuno dei due appariva conscio del tempo che passava e, minuto dopo minuto, mi riscoprivo sempre più affascinata da quella nuova conoscenza. Quando poi cominciammo a fare le cose per bene, discutendo del mio libro e su come potevo migliorarlo prima dell’effettiva stampa, non potei fare a meno di farmelo apprezzare ancora di più.
«Sai, non mi aspettavo che una ragazza tanto giovane potesse creare una storia ricca di così tante sfaccettature.» disse ad un certo punto, assaporando la sua seconda tazza di tè «Hai appena diciotto anni…»
«In realtà ne compirò diciotto ad Agosto, ma fa lo stesso.»
«…ecco, appunto.» rise «Hai diciassette anni e, quando leggo ciò che mi hai mandato, rimango totalmente sconvolto. C’è molto di te, in quelle righe.»
Annuii, sebbene inconsciamente. Essendo una persona piuttosto restia a parlare di me stessa, un poco mi bruciava che qualcuno riuscisse a conoscermi per quella che ero in realtà – soprattutto se tale sconosciuto lo faceva proprio ora che non avevo poi un’opinione molto alta di me -, tuttavia per questa volta avevo deciso di fare un’eccezione. Ogni scrittore mette a nudo i propri sentimenti, quando compone, e io, pur essendo alle prime armi, non rientravo di certo in una cerchia differente.
«Per questo mi piace la tua storia. Non ci sono fronzoli o chissà cos’altro, non tenti di ingraziarti il lettore inserendo montagne e montagne di inutilità solo per far sì che le cose, poi, vadano dove vuoi tu. Tutto è distinto, lineare, e ad alcuni potrebbe apparire poco fantasioso, ma non è assolutamente così.»
«Da come parli, sembra che tu abbia studiato il mio racconto sin nei minimi dettagli.»
Ian alzò le spalle, con fare noncurante. «In pratica… è così.»
Mi sorpresi nel sentirglielo ammettere con tanta facilità.
«Volevo conoscerti meglio e almeno fino a qualche tempo fa, l’unico modo che avevo per farlo, era leggere la tua opera.»
«...e quindi mi hai inquadrata?»
«Si può dire di sì.»
«Mi chiedo se ciò che hai scoperto non ti abbia deluso…»
Lui scoppiò in un’altra fragorosa risata e, pulendosi le labbra con un fazzoletto di carta, tornò a posare la sua attenzione su di me. Scosse piano il capo, lasciando che le risa si consumassero piano piano all’interno della sua gola.
«Deluso? Non direi proprio.» commentò «Ho visto solo molta fragilità, questo sì.»
Fragilità. Curiosa scelta di termini, non c’era che dire.
Apparivo davvero così fragile, al mondo? Assurdo pensare che anche non sapendo nulla dei miei problemi cardiaci, tutti si sentissero comunque in dovere di salvarmi e/o darmi una mano. Da cosa, poi, ancora dovevo capirlo.
«Non fraintendermi, nei tuoi personaggi ho notato molta caparbietà, forza d’animo ed intelletto, però…»
«Però…?»
«Ecco, sono anche molto sensibili. Ne hanno passate così tante, e ancora ne dovranno passare, eppure tentano in ogni modo di mascherare il proprio disagio ostinandosi ad interpretare la parte dei duri. Una cosa lodevole da una parte, ma triste dall’altra.»
Lo vidi mentre abbassava lo sguardo, appoggiando il mento al palmo della mano destra. Aveva addosso una strana espressione, una di quelle che io riconoscevo come “modalità pensatore”. Evidentemente ero un grosso enigma per lui. Io come i miei poveri personaggi.
«…dei ragazzini non dovrebbero mai essere protagonisti di simili situazioni.»
Ian si stava riferendo al mio libro ma io, intendendo come al solito le parole degli altri a mio piacimento, non potei fare a meno di notare quanto quella frase si adattasse perfettamente anche a me. Nessuno dovrebbe mai essere al centro di problemi tanto grandi, in un periodo delicato come quello dell’adolescenza, ciò nonostante però erano in molti a vedersi invischiati in qualcosa di più grande di loro. Qualcosa che forse neanche si erano cercati. Qualcosa che era arrivato da solo, nascendo dal nulla, pronto a distruggere ogni loro sforzo.
«Sei molto profondo.» gli risposi ad un certo punto, tornando dal mondo dei sogni.
«Già, peccato che non sia mai riuscito a mettere per iscritto i miei pensieri. Altrimenti sai quanti soldi?»
Sorridendo decisi che sì, quello era il partner ideale per me. Mi avrebbe aiutata veramente, dandomi consigli giusti ed azzeccati.
Insieme, ne ero certa, avremmo fatto un ottimo lavoro.
 
Quando finalmente uscii, notai con rinnovata allegria che eravamo stati insieme fino alle 7.00 di sera. Era strano per me uscire con persone mai viste prima e trovarle subito tanto simpatiche. Di solito, quando non conoscevo qualcuno, difficilmente ci facevo amicizia. Stavolta, invece, era stato tutto il contrario. D’altro canto era complicato non entrare in sintonia con Ian.
Saltellando per il marciapiede, presi il telefono dalla tasca del giaccone e controllai l’ora. Non ci volle molto affinché cominciassi a digitare il numero di cellulare di Emanuele, neanche fosse la prima delle persone cui io volessi far conoscere il mio successo. Solo qualche ora prima mi ero soffermata sul pensiero di troncare ogni rapporto con lui, facilitandomi poi la partenza per Yale dopo l’estate, ma ormai ero talmente abituata agli alti e bassi di quel rapporto che non facevo neanche più caso ai miei continui colpi di testa.
Portandomi il telefono all’orecchio attesi che lui mi rispondesse, carica di ottimismo e buone intenzioni. Ci volle un po’, affinché lo facesse.
«…sì?»
«Ciao!» sorrisi, camminando per la strada con un’andatura strana, quasi come se fossi ubriaca «Ho una super-iper-stratomitica-bella notizia da darti.»
«Ah sì…?»
Feci finta di non notare il suo velato disappunto. Forse lo avevo colto nel mezzo di qualcosa di importante, ma per una volta avrebbe dovuto darmi ascolto: prima ancora di essere il ragazzo che amavo, era sempre stato anche mio amico, no? Beh, era arrivato il momento che si comportasse come tale.
«Pubblicheranno il mio libro!» esclamai «Sono così felice! Talmente tanto che potrei fare pazzie, guarda!»
Finalmente lo sentii cedere e, quando anche Emmy si mise a ridere, riuscì a riprendere fiato.
Era inutile, adoravo la sua risata.
«Ricordi con chi stai parlando, vero? Affermazioni del genere potrebbero tirare fuori il peggio di me, lo sai.»poi, ricordandosi del punto più importante «Sono contento per te, dico davvero. Ti meriti una cosa del genere, visto e considerato quanto impegno ci hai messo.»
«Wow, grazie.»
«Di niente.»
«Non mi aspettavo simili affermazioni da te…» lo stuzzicai un po’ «…Mr. “Il mondo gira attorno a me, voi altri dovete solo accettarlo”.»
«Ehi, qualche volta anche io sono caritatevole! Di fatti, stavo per chiederti se ti va di venire a cena a casa mia, così da poter festeggiare insieme.»
L’idea di vederlo mi piaceva, a dirla tutta, però temevo quello che sarebbe potuto succedere stando sola con lui. L’ultima volta avevo detto addio a ben più del mio orgoglio.
«…Massimo sta un po’ meglio, ma sta sempre chiuso nella sua stanza perché è ancora completamente intasato e gli è passata la voglia di vivere fra le persone. Quindi, se venissi, non solo potremmo festeggiare, mi faresti anche un grande favore. Almeno avrei della compagnia.»
Risolto il problema “stare sola o meno con Emanuele”, mi presi solo un istante per rispondere.
«Ok, arrivo. Tu aspettami, eh.»
 
E così mi ritrovai a correre per le strade della città, incespicando nei miei stessi passi e tenendo a bada un cuore fin troppo debole mentre, con la mia solita sbadataggine, finivo contro alla maggior parte dei passanti. Non sapevo neanche io che mi prendeva quando dovevo vederlo. L’unica cosa a cui riuscivo a dare peso, nel caso straordinario in cui finalmente riuscivo a ritagliarmi del tempo per stare sola con lui, era Emanuele stesso: la mia mente veniva sopraffatta da mille pensieri, tutti volti a farmi notare quante cose del suo aspetto – e sì, perfino del suo pessimo carattere – adorassi.
Mi piacevano i suoi capelli, le sue mani, e anche il modo in cui mi guardava quando lo prendevo in giro. Apprezzavo il tono della sua voce, il modo in cui pronunciava il mio nome, la facilità con cui sapeva dimostrare al mondo intero le sue mille abilità. Trovavo stupendo il fatto che sapesse suonare così bene il pianoforte, straordinaria la sua intelligenza e peculiare la sua attitudine nel rendere le cose difficili per ogni essere umano, semplici.
Ma, più di tutto, amavo alla follia i suoi occhi. Quelle iridi che alle volte, con la luce giusta, sembravano due perle. Le amavo e Dio solo sapeva quanto quegli occhi fossero bastati ad intrappolarmi per sempre nel suo sguardo.
Eppure, anche così, sapevo che la nostra “eccentrica visione” dello stare insieme non poteva comunque durare. Nonostante io lo amassi così tanto da farmi male, non potevo negare a me stessa i mille dubbi che ogni ora riuscivano a tormentarmi. Non c’era stata più pace per me, da quando mi ero concessa a lui. Quelle poche settimane si erano susseguite prive di un significato e io, seduta nel mio soggiorno, avevo passato le giornate continuando a chiedermi a che cosa avrebbe portato il nostro rapporto, a che genere di fine saremmo approdati e quanto, poi, saremmo riusciti a resistere.
Avrei potuto dire di non conoscere la soluzione che mi avrebbe liberata da quel dannato problema, ma, purtroppo, la conoscevo eccome. Avevo solo deciso di ignorarla, beandomi della stessa ignoranza che per anni avevo cercato di evitare ad ogni costo. Le persone che facevano finta di non vedere certe cose mi avevano sempre dato fastidio e ora, ironia della sorte, mi ritrovavo ad essere una di loro.
Prima non riuscivo a trovare scuse per questo genere di comportamento, ma trovandomi dall’altra parte, adesso sapevo per certo che alle volte non si ha altra scelta. Soprattutto quando si ama. Soprattutto quando cuore, anime e mente sono totalmente assorbiti da un unico soggetto.
«A…Accidenti…»
Cercai di prendere fiato, appoggiandomi con la schiena al cancello di casa Lazzeri.
Forse non era stata una grande idea arrivare sino a lì correndo, viste le mie condizioni, però qualche attimo prima quella era apparsa come l’unica delle possibilità. Stupidamente avevo dimenticato di possedere un portafogli abbastanza gonfio da permettermi di pagare la corsa di un taxi.
Alzando gli occhi verso l’alto presi ad osservare la facciata di quella gigantesca casa, ricordandomi che nel caso in cui le dimensioni fossero così esagerate, una dimora non veniva più definita “casa” bensì si usava un termine più consono, più suggestivo, ovvero “villa”.
Sì, Emanuele abitava in una villa.
Era sconcertante pensare che tutte le fortune capitavano a qualcuno di così sconsideratamente egocentrico e poco altruista. Un po’ come dare le perle ai porci, se ci si rifletteva su per bene.
Mi presi qualche istante per sistemarmi - aggiustandomi il cappello e scacciando della polvere immaginaria dalle spalle – prima di cliccare il pulsante del citofono con il dito indice. Attesi, dondolando sul posto.
«Chi è?»
Io sorrisi. «Consegna pizze.»
«Oh, mi dispiace, non ho ordinato nessuna pizza.»poi, prevenendo una mia qualsiasi risposta «…però se nella consegna è previsto uno spogliarello, potrei decidere di farla salire comunque.»
«Accidenti, sono desolata d’informarla che un simile trattamento è riservato ai clienti affezionati, non agli occasionali amanti della pizza.»
«Ehi, potrei anche rimanerci male, sa…?»
«Allora, la vuole sì o no questa pizza?»
Non rispose nessuno e io, confusa, mi avvicinai di più all’altoparlante, nella speranza di recepire un qualsiasi suono. Quando, da poco più in là, udii il rumore del portone che si apriva, vidi all’orizzonte Emanuele in persona, il quale mi stava venendo incontro con indosso il migliore dei suoi sorrisi. Rimasi leggermente sconvolta – o magari la parola giusta è affascinata – e lo lasciai avvicinare, imbambolata.
Lui aprì il cancello e mi prese per mano, trascinandomi proprio di fronte a sé, vicinissima.
«…la voglio.»
Deglutii. «Parli… Parli ancora della pizza, vero?»
«Forse.» mi rispose Emmy, chiudendo il cancello alle mie spalle e lanciandomi un’ultima occhiata carica d’aspettative prima di voltarsi e portarmi dentro.
Misi da parte la possibilità che con quel “la voglio” parlasse di me, rivolgendomisi con la forma di cortesia come avevamo fatto solo un attimo prima per gioco. Se ero lì era per festeggiare la pubblicazione del mio libro, non certo per riportare a galla certe pratiche sessuali che con tanta fatica avevamo entrambi accuratamente evitato le poche volte che ci eravamo visti – sempre in compagnia di Sebastiano, tra l’altro. Sapevo che le parole di Emanuele erano sempre da leggere in chiave doppia, però stavolta dovevo fare finta di niente.
Potevamo essere ancora in tempo, in fondo, ci si presentava l’opportunità di mettere da parte ciò che avevamo fatto e, magari, ricominciare da capo. Tornare amici, lui a preoccuparsi della sua ragazza e io del mio libro, nonché di Yale.
«Dobbiamo fare piano.» disse ad un certo punto Emanuele, tenendo la mia mano ancora stretta mentre mi conduceva dentro casa «Massimo sta dormendo e non vorrei mai che si svegliasse per colpa nostra.»
Annuendo mi zittii, guardandomi in giro con occhi curiosi. Scoprii così, arrivando in soggiorno, che lui aveva abbandonato in malo modo il joystick della sua console solo per venire ad aprirmi. Ne sorrisi, incapace di trattenermi dal pensare che, a dirla tutta, quella era una cosa che faceva spesso: non mi era mai capitato di aspettare per dei minuti interi fuori dal cancello, con Emmy in casa che non mi apriva non appena gli suonavo solo perché era troppo pigro per arrivare alla porta d’ingresso. Ogni volta che andavo da lui, con o senza Seb, trovava la forza di correre da me e di aspettarmi sull’uscio.
Almeno questo, di lato positivo, dovevo concederglielo.
«Come hai intenzione di festeggiarmi, oh mio egregio compagno?»
Lo sentii ridere e, voltandomi verso di lui, lo guardai per un attimo prima di mettermi seduta sul divano. Emanuele svanì nel corridoio, correndo verso la cucina per prendere due lattine di Coca Cola, porgendomene poi una.
«Non saprei.» rivelò «Penso che un “mi complimento vivamente con te” sia anche abbastanza, no?»
«No.»
«Lo immaginavo…» fece una smorfia e si scolò un po’ della sua bevanda, ponderando per bene i propri pensieri «…se vuoi posso cucinarti qualcosa.»
«…perché, sai cucinare?»
«Per tua informazione e regola sì, ne sono capace!»
In qualche modo mise il muso, somigliando come suo solito ad un bambino di sei anni anziché ad un diciottenne nel pieno della crescita. Inutile dire che scoppiai a ridere, a vederlo, quanto bastava per farlo innervosire ancora di più.
«Non capisco come mai tutti si stupiscono tanto quando dico di saper cucinare!» esclamò «Mio padre non è onnipresente, ogni tanto perfino lui non c’è a pranzo o a cena per un qualsivoglia motivo. E di certo il cibo non si fa da solo!»
«Ma sì, ma sì… Ti credo.»
«Sono sicuro che invece ancora non mia dai fiducia!»
«Ehi, io sono una di quelle persone che fino a che non vede con occhio mantiene vivo il proprio scetticismo.»
«Bene allora.» alzandosi in piedi mi lasciò fra le mano la sua lattina «Ora ti cucinerò una cena eccezionale. Sarà divertente vedere la tua faccia stupita non appena avrò finito. Non ti darò niente di quello che vedrai in tavola, e dovrai pregarmi in ginocchio per poter mettere qualcosa sotto ai denti.»
Alzandomi in piedi a mia volta gli feci il verso, muovendo la mano libera a mo’ di bocca approfittandomi del fatto che lui non potesse vedermi. Sapevo che notando il mio gioco infantile se la sarebbe presa maggiormente e, in quel caso, avrei potuto dire addio alla serata tranquilla che progettavo di godermi in sua compagnia. Certo, prendersi gioco di Emanuele era sempre un grande piacere – e sfido chiunque a dire il contrario – ma stavolta non volevo rovinare le cose. Né per la forza dell’abitudine che mi spingeva a farlo arrabbiare, né per i motivi già sopracitati e vagliati più e più volte.
In quel momento cercavo solo calma, semplicità, l’appuntamento che desideravo vivere con lui da anni ma anche mai, per un motivo o per l’altro, ero riuscita ad avere.
Così, per il resto del tempo, decisi di tenere per me i miei commenti ironici e mi limitai - da brava osservatrice quale mi vantavo d’essere - a guardarlo: in effetti, dopo aver indossato quello che per me era il più colorato dei grembiuli, Emanuele dimostrò di sapersi destreggiare perfettamente nell’ambiente della cucina. Prendeva padelle, mestoli e coltelli come nulla fosse, sbizzarrendosi con le piroette e le idiozie giusto per farmi notare quanto fosse bravo. Ammisi di essermi sbagliata nello stesso istante in cui, forse per pietà, mi permise d’assaggiare la sua Carbonara. In vita mia, parola di scout, mi era capitato poche volte di apprezzare la Carbonara “non di famiglia”. Ero cresciuta con quella di mia madre, che ancora oggi reputo la migliore, e dopo la sua morte ero passata a quella di Simon o alla mia stessa, ma da quel giorno seppi che anche quella di Emanuele non era certo da buttare.
«…sono proprio un uomo dalle mille risorse, io.» commentò lui, standomi vicino di fronte al lavandino. Mi ero offerta di dargli una mano a pulire visto che, per quanto riguardava tutto il resto, aveva fatto da solo. «Ammettilo. Sono da sposare.»
«Da sposare…? Addirittura?»
L’altro si strinse nelle spalle, socchiudendo gli occhi con fare orgoglioso. «Certo. Sono intelligente, pieno di talenti, cucino da dio e, non dimentichiamolo, sono bello da togliere il fiato.»
«Oh beh, come potevo dimenticarmi di questo particolare…»
«Non ci si può dimenticare del fatto che sono bello come il Sole.»
Ed eccolo là, pronto a ripartire in quarta con i suoi autoelogi. Davvero, c’era da chiedersi se non si stancasse mai di sentire solo la sua voce. Io, poco ma sicuro, quando cominciava a fare così spegnevo tutte le mie capacità uditive e mi perdevo nei miei sciocchi pensieri, ritrovandomi, questa volta, ad osservare con interesse la schiuma bianca che mi rimaneva sulle mani dopo aver immerso i piatti nell’acqua.
Emanuele parlava e io facevo le bolle. Lo ignoravo, insomma.
«…ehi.»
Non sentii che mi stava chiamando.
«Guarda che parlo con te. Hai sentito ciò che ho detto?»
Anche qui non risposi, troppo presa da quell’interessante gioco.
«…»
Purtroppo non gli ci volle molto per decidere di vendicarsi sulla sua povera amica, troppo interessata alle proprie mani insaponate per potergli dare retta. prese un bicchiere – appena pulito dalla sottoscritta – e lo riempì d’acqua, lanciandomi poi addosso il contenuto. Quando quella, freddissima, venne a contatto con la maglietta ed infine con la pelle, trattenni il respiro, sgranando gli occhi dalla sorpresa. Lo fissai, incredula.
«Ma che diavolo ti salta in mente?!»
«Ecco cosa succede quando non mi ascolti, pivella
Lui rise, compiaciuto e divertito da ciò che aveva fatto, ma io non feci lo stesso. Seguendo il suo esempio gli lanciai anche io dell’acqua che però, visto che il lavello dalla mia parte era pieno di detersivo per piatti, lo bagnò e riempì di schiuma al tempo stesso.
Questa volta toccò a me ridere.
«Ben ti sta, bamboccio
Emmy mosse in modo strano il mento e, modellando la schiuma con le dita, si fece due baffi e la barba.
«Bamboccio a me?» disse «Signorinella, non vede con che grazia porto la mia folta barba? Ah, i giovani d’oggi…»
Scoppiai in una ancora più fragorosa risata a sentirlo e, con le mani strette sulla pancia, mi piegai in due mentre lui continuava a fare quella sciocca imitazione di un uomo d’almeno settant’anni.
Lì, in quell’attimo preciso, seppi di aver perso qualcosa di molto grande il giorno in cui mi ero dichiarata. Io ed Emanuele non passavamo una giornata così da tanto, forse troppo tempo. Improvvisamente non c’erano più dissapori, non c’erano più problemi, c’eravamo solo noi due, amici e nemici, come da principio.
Non sapevo cosa ci avesse portato a quel punto, cosa, di preciso, ci avesse permesso di riassaporare un po’ di calma in mezzo alla tempesta che noi stessi avevamo cercati e in cui ci eravamo gettati ad occhi chiusi, ma sapevo che ero grata al cielo di avermi regalato quel momento.



La voce dell'Autrice: Ebbene, in questo capitolo non è successo poi molto. O meglio, qualcosa è successo, ma nulla che lasci intendere una totale ripresa per questi due poveri ragazzi.
Mi dispiace dover sempre rompere le uova nel paniere, però non sarei io se non vi annunciassi che le cose non sono MAI come sembrano nelle mie fanfiction. Vorrei poter dare loro un pò di tregua, ma non lo farò. Sono ancora ben lungi dal poter raggiungere il loro lieto fine. E non è neanche detto che questo sarà un lieto fine per entrambi.
Cosa vi attenderà nella prossima puntata (?), miei cari lettori - come se la seguissero in ventimila -? Lo scoprirete solo vivendo...o leggendo!
Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Ti amo ***


Nove: Ti amo




Il vero problema della mia relazione con Emanuele era che, con lui, anche come semplici amici si poteva passare dall’estasi più totale, alla più nera disperazione.
Quel ragazzo non pensava mai – o forse è meglio dire che pensava, però nel modo sbagliato –, agiva solamente, e anche se magari il cinquanta per cento delle volte le sue azioni non necessariamente si ripercuotevano su chi aveva attorno, per il restante cinquanta per cento chi gli voleva bene rimaneva sempre inevitabilmente ferito. Per anni credetti che lo facesse apposta. Che la sua non fosse mancanza di tatto, ma vero e proprio desiderio di fare del male. Era più semplice credere a questo, piuttosto che rendersi conto della sua assoluta incapacità nel pensare prima agli che a sé stesso.
Invece mi sbagliavo e di molto anche.
Emanuele non solo faceva certe cose, tanto sciocche quanto crudeli, consciamente. Alle volte se le preparava pure. Studiava i suoi piani malvagi sin nei minimi dettagli, lasciandoti con un palmo di naso quando poi, quelli, diventavano purtroppo un’infausta realtà.
L’amore che si provava per lui veniva messo perciò costantemente sotto pressione. Non importava infatti quanta pazienza uno possedesse, arrivati ad un certo punto si desiderava ucciderlo per forza di cose, rimproverandosi di non averlo fatto prima. Ti portava ad un livello tale di disperazione che era quasi inevitabile non odiarlo.
Eppure, nonostante tutto, certe persone ancora gli stavano accanto.
Massimo, suo padre, era sempre lì, pronto a dargli una mano, deciso a non lasciarlo solo neanche durante i suoi periodi più neri. Lo aiutava sempre, consigliandolo sul da farsi ed aspettando il giorno in cui, magari, avrebbe cominciato a capire che ad ogni reazione corrisponde un’azione e che, di conseguenza, non ci si poteva stupire se poi gli altri si allontanavano da lui.
Sebastiano, amico di sempre nonché più accanito sostenitore della frase “c’è del buono in tutti”, non lo avrebbe mai lasciato a se stesso, conscio del fatto che da solo sarebbe stato anche in grado di fare cose ben peggiori di iscrivere un’amica ad un concorso di nascosto per gelosia.
E io…
Beh, io non ero stata lì dall’inizio e, con tutta probabilità vista la mia bassa aspettativa di vita, non sarei rimasta ancora a lungo, però sentivo che dentro di me c’era una parte pronta a non lasciarlo mai solo. Quella parte non poteva farlo, e questo non solo perché lo amavo davvero, ma anche perché, in un certo senso, mi rivedevo in lui.
A quei tempi ancora non conoscevo gli oscuri retroscena del suo passato, tuttavia mi sentivo affine ad Emanuele in tutto e per tutto. Desideravo stargli accanto non per poter essere la sola a poterlo amare, bensì per essere una di quelle persone che avrebbero potuto aiutarlo.
Vedevo tanto del dolore che io stessa provavo ogni giorno, nei suoi occhi, e questo, per me, era un chiaro segno del destino.
Se ero lì, se lo avevo conosciuto e se poi lo avevo amato, era per guarire le sue ferite.
…e magari anche le mie.
 

***

 
Nonostante quel momento fosse stato assolutamente magico per entrambi, venni costretta a tornare alla realtà dall’improvviso cambio d’espressione del mio compagno. Mi asciugai una lacrima - che impavida aveva solcato il mio viso mentre venivo presa da quell’eccessivo attacco d’ilarità - e cominciai a guardarlo, sorpresa.
«Qualcosa non va?» chiesi, avvicinandomi.
Lui arrossì e, distogliendo lo sguardo, puntò vagamento l’indice su di me. Corrugai la fronte, fissando la punta di quel dito con rinnovata curiosità, alla ricerca di una spiegazione atta a farmi capire cosa esattamente non andasse. Non potevo di certo credere di aver fatto qualcosa di male nel lasso di mezzo minuto, quando poi, in fin dei conti, non avevo fatto altro che ridere. Perciò, inclinando leggermente il capo, aprii bene le orecchie.
«…sì?» lo incitai ancora, notando che al momento Emanuele faticava anche solo a dire “BA”.
Sospirò, chiudendo gli occhi.
«Scusa, Angela…» disse «…ma ti si vede tutto.»
Abbassai gli occhi sul mio petto, ritrovandomi di fronte ad una di quelle scene che avrei proprio voluto evitarmi, almeno – se non soprattutto – se mi ritrovavo di fronte a lui. La maglietta azzurro cielo che avevo indosso si era completamente inzuppata, e questo non sarebbe stato tanto sconvolgente se poi il tessuto non avesse cominciato a diventare trasparente, facendomi come da seconda pelle: il reggiseno che avevo sotto, nero e con il pizzo, si sarebbe ora intravisto anche da una distanza di cinque metri.
No, ma che dico, forse anche di cento!
Inevitabilmente arrossii, incapace di trattenermi, e non fu una sorpresa notare che perfino Emmy stava facendo lo stesso. Tutto quel tempo speso a comportarci come se nulla fosse, ricominciando ad essere gli amici di una volta, e ora capitava quell’inconveniente a ricordarci che sì, io ero una ragazza, lui un ragazzo, e che eravamo anche dannatamente attratti l’uno dall’altra.
Purtroppo notai subito con che difficoltà stava cercando di non guardarmi, quasi a volermi evitare ulteriore imbarazzo o, molto più semplicemente, a volersi evitare “spiacevoli” azioni avventate.
«Scu-Scusami tu.» riuscii a dire infine, girandomi di scatto per dargli le spalle «Non…non me ne ero accorta. Perdonami.»
«Fa niente.» mentì lui «Vado…»
Sentendolo sospirare rassegnato, feci in tempo ad udire i suoi passi prima farsi vicini e poi, veloci, un poco più lontani.
Aveva tentato di avvicinarsi a me?
«…vado a prenderti qualcosa per cambiarti.»
Avevo seri dubbi che, in una casa in cui vivevano solamente due uomini, ci fossero abiti adatti ad una ragazzina di diciassette anni, ma con il senno di poi decisi di non dare peso a simili piccolezze ed attesi impaziente che Emanuele si facesse il più lontano possibile, così da poter ricominciare a respirare. Quando la porta della sua camera sbatté al piano di sopra, sciolsi i muscoli del corpo e mi strinsi nelle spalle, mordendomi un labbro per l’assurdità del momento. Mi stavo chiedendo cosa ci fosse di imbarazzante nel vedermi così quando, solo poco tempo prima, aveva avuto occasione di adocchiare ben più della mia biancheria intima. Chiaramente sapevo qual era la fonte di tanto disagio, tuttavia ancora cercavo di negarla a me stessa, convinta di poter essere in tempo per risolvere tutto con la mia semplice forza di volontà.
Bastava far finta di niente. Bastava quello e avremmo sistemato tutto, anche quell’ultimo piccolo inconveniente.
«Eccomi.»
Quasi non lo avevo sentito scendere le scale per tornare lì, in cucina, ma trovandomelo proprio dietro alla schiena feci in tempo a sussultare appena appena prima di girarmi di scatto per vedere che cosa mi avesse portato. Teneva ben saldi fra le mani una felpa, delle calze e i pantaloni di una vecchia tuta.
Alzai lo sguardo ed incrociai le sue iridi grigie, perplessa.
«Sai…dubito seriamente che quei pantaloni mi vadano.»
Tenevo le braccia conserte di fronte al petto, evitando così che fosse semplice vedere il mio decolté, ma anche premurandomi a quel modo sapevo che per Emanuele risultava ancora più impossibile non lasciar cadere lo sguardo proprio là.
«Erano tuoi…?»
«S-Sì.»
«A maggior ragione, allora, confermo la mia teoria.» presi dalle sue mani la felpa, rassicurandomi mentalmente sul fatto che quella, da sola, mi avrebbe coperta dalla testa alle ginocchia. Non ero tanto minuta, intendiamoci, però se con i vestiti di Emmy valeva la stessa regola che vigeva con quelli di Simon, allora non avrei avuto problemi nel nascondere i tratti del mio corpo in quegli indumenti.
«Ho fatto ciò che ho potuto.» bofonchiò l’altro, quasi risentito.
«Me ne rendo conto.»
«Beh…sai dov’è il bagno, no?»
«Certo.»
Feci per andare, quando lui mi fermò, prendendomi per un braccio.
Non lo guardai nonostante sentissi a pelle i suoi occhi su di me. Quello sguardo mi bruciava la pelle, come sempre, il che mi rendeva complicata l’azione di ignorarlo, per quanto mi era possibile.
«…mi dispiace. Non avrei dovuto bagnarti.»
Tirai un sospiro di sollievo nel sentirgli dire solo questo. Avevo creduto che avrebbe esordito con qualcosa di molto, molto peggio – almeno dal mio attuale punto di vista.
Subito sorrisi, scuotendo il capo,
«Adesso non diventarmi troppo gentile, altrimenti potrei cominciare a pensare che gli alieni ti hanno rapito.»
«Sai cosa voglio dire.»
«So solo che non c’è motivo di chiedermi scusa per una cosa del genere. Di certo non sono in procinto di morire per un po’ d’acqua.»
«Ok, ma…»
«Niente “ma”. È tutto ok.»
Un altro sorriso e poi corsi al bagno, togliendomi di dosso la maglia incriminata e prendendo il primo asciugamano che mi capitasse a tiro. Con attenzione tamponai il petto, asciugando come meglio potevo l’acqua che era riuscita a passare attraverso il tessuto, bagnando anche i bordi del mio reggipetto. Ero solita parlare fra me e me durante gli attimi più strani della mia vita, ma questa volta non lo feci. Anzi, credo addirittura di non aver pensato a niente mentre mi prodigavo in una cosa tanto facile. Più tardi avrei dato per scontata la possibilità che il mio stesso cervello, in un atto di enorme umanità e benevolenza verso di me, avesse preso l’autonoma decisione di non farmi più pensare a niente. Non se aveva a che fare con Emanuele e non se lo avevo congetturato già in più di un’occasione.
Almeno così mi evitavo di rimuginare su qualcosa per più di dieci volte, il che già non era tanto normale.
 
Notare che perfino i pantaloni si erano bagnati non mi fece di certo stare meglio con me stessa, anzi, ebbi la sensazione che il mondo – se non addirittura Dio in persona – si stesse prendendo spudoratamente gioco di me.
Una volta uscita dal bagno, rossa in viso come poche altre volte ero stata, mi diressi in soggiorno con in mano maglia e jeans, sperando che almeno Emanuele non decidesse di fare una delle sue battutine, guardandomi poi come se fossi sbucata da chissà quale campo profughi. Sapevo che era una speranza vana, e mi rendevo anche conto che lì il problema rischiava di essere un altro e di ben altra portata, però lo stessi formulai quella richiesta a qualche sconosciuta potenza dei cieli.
«Stai cercando di dirmi qualcosa, per caso?»
Non feci neanche in tempo ad arrivare sulla soglia, che lui già mi aveva vista, dando fiato alla bocca come solo Emmy poteva fare.
Lo fissai stralunata, stringendo al petto i miei – fradici – indumenti.
«Credevo che solo la maglia fosse bagnata.»
«Se fosse così non mi sarei mai presentata in queste condizioni.»
«Quindi non è un velato accenno allo spogliarello richiesto poco prima…»
«Direi proprio di no, pervertito
Trovavo vagamente affascinante la velocità con cui passava dall’essere preoccupato per me, al totale menefreghismo verso le altre forme di vita che lo circondavano. Insomma, solo un secondo prima si era dimostrato dispiaciuto fino all’inverosimile per avermi spruzzata, e adesso, magia!, gli era passato tutto.
Sospirando mi diressi verso il divano, cercando almeno di non dare peso alla miriade di emozioni che mi si stavano scatenando in petto: avrei decisamente evitato di rappresentare una simile provocazione per lui, tanto più che ora come ora mi sarei volentieri sparata pur di non dover incrociare il suo sguardo. Ne sarei rimasta schiacciata. Intuire quali pensieri stessero affollando la sua mente mi avrebbe fatto fin troppo male.
Sedendomi lo vidi fare lo stesso, stando però bene attento a non sfiorarmi neanche con un dito.
«…andiamo, non essere tanto acida.» esordì, un braccio a penzoloni oltre la testiera del divano «Hai detto tu che non c’è niente che non va. Devo cominciare a preoccuparmi?»
«No.»
«E allora sorridi, dai.»
Mossi il capo, con fare esasperato, ma alla fine cedetti.
«…lo farò solo se tu ripeti l’imitazione del vecchio di poco fa.»
Lui rise svogliatamente, scompigliandosi i capelli corvini con una mano.
«Devo proprio?»
«Se vuoi che io ti sorrida, sì.»
Non se lo fece ripetere due volte e, assumendo una strana, stranissima espressione – teneva un occhio semichiuso, quasi non ci vedesse bene, e la bocca era un poco aperta, sbilenca addirittura – cominciò a parlare come aveva fatto in cucina, elencando tutte le cose che non andavano nella gioventù d’oggi giorno e facendomi sbellicare dalle risate. Me la stavo ridendo a tal punto che, tutto d’un tratto, dovetti fare i conti con una violenta fitta al petto.
Veloce mi incurvai su me stessa, prendendo respiri profondi, la mano che si stringeva alla felpa laddove sentivo battere il mio cuore da quattro soldi. Stava cercando di darmi un segnale, credo. Qualcosa come “piantala di mettermi sotto sforzo, sciocca, non lo sai che posso cedere da un momento all’altro?”.
«Accidenti…» commentai, sorridendo «…il mio stomaco oggi fa le bizze.»
Guardandolo capii all’istante di averlo messo in agitazione, però in qualche modo riuscii a rimediare. In un baleno si fece più vicino, portando una ciocca dei miei capelli dietro all’orecchio, prima di stringermi forte fra le braccia. Per un po’ se ne rimase zitto – come d’altro canto feci io, sconcertata -, accarezzandomi piano piano, il mento poggiato al mio capo.
«A forza di ridere deve essermi venuto un crampo…» sussurrai, imbarazzata.
«Sei proprio una barba se riesci a stare male quando ti diverti.»
Non potevo dargli torto, purtroppo.
«Stai un po’ meglio? Vuoi che ti porti qualcosa di caldo?»
Scossi il capo, stringendomi quasi inconsciamente a lui. Se volete saperlo non capitava spesso che mi coccolasse a quel modo. Da che lo conoscevo lo aveva fatto forse tre, massimo quattro volte. E tutte per motivi ben più gravi di un semplice malore momentaneo, che era passato più veloce di quanto lo avessi sentito. Era una cosa che faceva di mala voglia e che, probabilmente, lo metteva più a disagio di quello che si pensasse.
Perfino in questo potevo capirlo.
«No…ora va bene.» gli risposi, cercando il calore del suo abbraccio «Le… Le coccole funzionano sempre, credo.»
«Le mie o parli in generale…?»
«Io adoro le coccole, ma non necessariamente le tue. Mi piace farmele fare.»
«…o magari ti piaccio io, per questo stai già meglio dopo che ti ho stretta a me.»
A questo non risposi, mi limitai a stringere la presa a lui, emettendo un appena udibile sospiro.
Certo che mi piaceva. Dubitavo che ai più fosse sfuggito questo punto, arrivati fino a qui.
«Emanuele…»
«Andiamo, Angela, si può sapere che cosa stiamo facendo?» mi chiese, staccandosi un attimo ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, le mani a coprirgli il volto «Io… Io credo di stare impazzendo per poterti baciare. Dico sul serio. Se mi sono trattenuto sino ad ora è solo perché so cosa vuoi fare, ho capito che vuoi dimenticare quello che abbiamo fatto e…e sono d’accordo con te…»
«Se sei d’accordo allora perché stai dicendo queste cose?»
«Perché… Perché è la verità, accidenti!»
Scattò in piedi, prendendo a camminare davanti a me pieno solo di frustrazione. Appena raggiungeva un capo della stanza si fiondava nell’altro verso, sempre più nervoso.
«So che dimenticare, fare finta che nulla sia mai successo fra noi, è la cosa giusta da fare…però so anche che non voglio farlo.»
Mi si colmarono gli occhi di lacrime, così, come se nulla fosse. Lo guardavo e mi si struggeva il cuore, lo ascoltavo e mi trovavo completamente d’accordo con lui.
«…e allora cos’è che vuoi fare, si può sapere?»
Emanuele si fermò di colpo e, inginocchiandosi al mio cospetto, mi prese le mani fra le sue, baciandole delicatamente.
«Vorrei solo…che tutto sparisse.» mormorò «Vorrei che il mondo si annientasse, proprio come quando siamo stati insieme. Quel giorno finalmente c’è stato silenzio nella mia vita, calma assoluta. E questo non succedeva da troppo, davvero troppo tempo.»
Poi, tornando ad osservarmi, accarezzò la mia guancia, posando un piccolo bacio a fior di labbra sulla mia bocca. Chiusi gli occhi, affranta eppure dannatamente felice che lo avesse fatto. Ancora una volta ero venuta meno ai miei buoni propositi, ma almeno il viaggio verso i più bassi meandri dell’Inferno mi veniva introdotto con il più dolce dei contatti.
«Io voglio te.»
Avrei dovuto rispondere “Non mi importa”. Avrei dovuto guardarlo, staccarmi da lui e dirgli “Dobbiamo smetterla di farci del male stando vicini, crogiolandoci nella gioia di un minuto per poi passare il resto della vita immersi nella vergogna”. C’erano così tante cose da poter fare, in un momento come quello, che per un attimo il cervello parve in procinto di scoppiare sotto al peso di tutte le giustissime repliche che mi stavano balenando in mente. Era mio compito respingerlo, rinnegare definitivamente i miei sentimenti per permettere ad entrambi di voltare pagina, ma quando mi trovai a tanto così dal farlo mi bloccai e riuscii solamente a piangere ancora.
Scossa dai singhiozzi, la sola cosa che fui capace di dire fu la più sbagliata.
«…anche io voglio te…»
E lo volevo disperatamente, costringendomi a quel continuo dolore pur conoscendo il facile rimedio che mi avrebbe resa libera. Libera da tutto l’amore che provavo per lui, nonché dal senso di colpa che come un tarlo attanagliava il mio spirito giorno dopo giorno.
Emanuele non aggiunse altro, commosso lui stesso nel vedermi ridotta in quello stato a causa sua. Con tutta la dolcezza di cui era capace tornò a baciarmi, tenendo per sé le sue stesse lacrime e spingendomi sdraiata sul divano, le mani ad accarezzarmi il viso, il quale veniva ricoperto dall’ennesimo frutto di quella relazione tanto sbagliata: piangevo, vinta dalla disperazione, sconfitta dal desiderio.
Ero stata battuta sotto ogni punto di vista, e mentre speravo di mettere da parte ogni cruccio permettendo alla persona che tanto amavo di spogliarmi, non potei fare a meno di notare la straordinaria perfezione di quel preciso istante. Lui aveva ragione, quando stavamo insieme il tempo non esisteva e io, persona con la testa particolarmente sulle spalle, riuscivo finalmente a lasciarmi un po’ andare. Potevo scacciare l’insofferenza, la desolazione e la tristezza dal mio quotidiano, calandomi in un piacere che se anche non sarebbe durato a lungo, di certo mi avrebbe ripulita di tutta la sozzura di cui mi ero ricoperta.
Perché fare l’amore con lui voleva dire anche questo. Mi epurava.
 «Vado…»
Annuii semplicemente, tralasciando l’agitazione che come la nostra prima volta mi aveva resa sua schiava. Non appena lo sentii affondare dentro di me allungai le braccia, cingendo il suo corpo con più delicatezza di quanta non credessi di possedere. Appoggiai la fronte alla sua spalla, inalando il suo buon profumo di lavanda mentre Emanuele, facendo perno sulle braccia, si ritraeva per poi ripercorrere i propri passi. Lo sentivo spingere con più decisione mano a mano che il tempo passava, e io, dalla mia posizione, mi beavo della sua espressione rapita, del suo accarezzarmi e baciarmi così tanto. C’eravamo davvero solo noi due al mondo, adesso. Vedevo quell’idea riflessa nel suo sguardo, così come lui, molto probabilmente, poteva vederla riflessa nel mio.
Stare lontani era impossibile.
Smettere di amarci, alla faccia di una ragazza che era stata presente nella sua vita prima e più a lungo di quanto non lo avessi fatto io, ugualmente inaccettabile.
Dovevamo stare insieme.
Dovevamo.
Continuai a ripetermelo, ignorando volutamente la vibrazione del cellulare di lui, segno che qualcuno stava cercando di chiamarlo da una decina di minuti buoni.
Neanche a farlo apposta sapevo per certo chi lo stesse facendo, riuscivo a figurarmi, con gli occhi della mente, l’espressione imbronciata d’Alessia. Ero sicura che quando finalmente le avesse risposto, lo avrebbe riempito di insulti. E lui, prodigandosi in mille scuse, mi avrebbe messa nuovamente da parte.
Sapevo tutto questo e perciò, gelosa di quel “nostro attimo”, attirai di più a me Emanuele, ricambiando ogni suo bacio con la stessa passione con cui lui me li donava, decisa a non fargli distogliere l’attenzione da me neanche per un solo, singolo istante.
 
Quando tutto finì e lui mi strinse fra le braccia, sdraiandosi al mio fianco sul suo divano, chiusi un secondo gli occhi prendendomi del tempo per pensare. Le sue mani mi accarezzavano i capelli, dolci, attente, e mentre quel po’ di calma che ero riuscita a conquistare facendo l’amore con lui veniva sormontata nuovamente da mille dubbi, dentro di me cresceva il desiderio di non staccarmi più da Emanuele neanche a costo della vita.
Lo amavo. Lo amavo davvero e per questo mi ero spinta ad azioni che mai mi sarei reputata in grado di compiere se solo avessi avuto modo di pensarci qualche mese prima. Il livello della disperazione cui ero giunta era tale, ora come ora, d’avermi permesso non solo di calpestare in continuazione il mio importantissimo orgoglio, ma anche di mentire spudoratamente ad una persona che non mi aveva mai fatto nulla di male.
Certo, Alessia aveva la fortuna – o la sfortuna, a seconda dei casi – di essere la ragazza di Emmy, tuttavia non lo era diventata per fare un torto a me. Era successo. Si erano piaciuti e si erano messi insieme, ignari di ciò che sarebbe potuto accadere nel loro futuro.
Mi morsi un labbro a quel pensiero, realizzando, ancora una volta, di non essere io quella dalla quale alla fine lui sarebbe tornato. Perché io ero l’altra. Ero quella alla quale avrebbero lanciato i pomodori – se non di peggio – e rivolto parole d’offesa non appena la nostra storia fosse venuta a galla. Ero quella che i genitori avrebbero guardato male, nonché quella che i nostri compagni di classe avrebbero biasimato. Per me, in un mondo in cui la coppia “Alessia ed Emanuele” ancora esisteva, non c’era spazio né per fare da martire, né per attrarre simpatia.
«Si sta facendo tardi…» mormorai, scansando lentamente la coperta con cui ci eravamo nascosti e mettendomi seduta «Devo andare.»
Emanuele non disse niente, limitandosi per un secondo a guardarmi. Di certo fuori era buio, però ancora non voleva lasciarmi andare. Con una mano, passando le dita sulla mia spina dorsale, si premurò di ricordarmi quanto anche io, nella realtà dei fatti, fossi restia a separarmi da lui. Mille brividi mi percorsero la schiena in un lasso di tempo molto corto.
«…potresti rimanere.» azzardò, mettendosi seduto ed imprigionandomi fra le sue braccia. Tornò a coprirmi con la coperta, posando le labbra sul mio collo. «Resta a dormire qui. Con me.»
«E tuo padre…?»
Lo chiesi con risolutezza, ma il mio viso, in quel momento, era tutto fuorché sicuro. Avevo le guance rosse, me lo sentivo, talmente tanto che riuscivo a percepire il loro calore anche senza posarci sopra i palmi.
«Cosa c’entra mio padre?» lui rise «Se ne sta buono buono in camera sua, tossendo e starnutendo di tanto in tanto… Dubito che abbia qualcosa da dire se ti fermi da noi. Lo hai già fatto altre volte.»
«Non così.»
«Così come…?»
«Io…» perché non mi lasciava andare, accidenti?! Stavo facendo i salti mortali per spiegarmi senza balbettare ad ogni singola, stupidissima parola! «…non abbiamo mai…dormito insieme, nello stesso letto. Quando venivo qui c’era sempre anche Seb e di certo non…non facevamo certe cose
Un’altra sua risata ed io, finalmente, trovai la forza di staccarmi da lui, coprendomi il petto con la coperta. Ero ancora tutta rossa, ma le sue risate mi avevano dato lo sprint necessario per appoggiarmi al mio leggero risentimento. Che ci trovava di divertente in ciò che stavo dicendo?!
«La vuoi piantare di ridermi dietro?» sibilai, alzandomi in piedi alla ricerca dei miei vestiti.
«Oh, suvvia!» rispose lui, per nulla imbarazzato nell’essere rimasto nudo come un verme di fronte a me. Io al posto suo sarei morta. «Ti stai facendo tanti di quei problemi assurdi! È chiaro che mi viene da ridere!»
Afferrai i miei pantaloni – che grazie a Dio nel frattempo si erano asciugati – e lo guardai dritto negli occhi.
«Beh, scusami tanto se io penso alle cose, a differenza di te!»
«Anche io penso alle cose, Angela!»
«No, invece, tu non ci pensi. Se lo facessi non mi chiederesti di restare da te quando sai bene che se tuo padre per puro caso entrasse in camera tua e mi trovasse sotto alle lenzuola con te, nuda, come minimo si porrebbe qualche domanda.»
«Cielo, sei così mal fidata. Chi ti dice che saresti nuda? Potremmo benissimo dormire e basta.»
Mi immobilizzai e scossi il capo, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure. Perfino un passante senza relazioni con noi due avrebbe saputo che sì, se mai avessi avuto la malsana idea di accettare la sua proposta mi sarei ritrovata a dover dare sfogo ad ogni sua più piccola perversione. Il fatto che ancora mi credesse tanto ingenua mi urtava alquanto.
«Ok, ok… Magari avevo intenzione di farlo ancora con te.» ammise infine lui «…però, anche se me la metti sotto questo punto di vista, non capisco cosa ci sia di male nell’averti chiesto di restare.»
Di male c’era che di quel passo ci saremmo distrutti a vicenda, ecco cosa.
«Senti, magari un’altra volta… No, ma che dico? Questa…questa dovrà essere l’ultima volta che...»
«L’ultima?» parve spaesato.
«Sì, l’ultima.»
Afferrandomi per un braccio si caricò tutto il mio peso, più gli indumenti che stringevo al petto, sulla spalla. Camminò tranquillo verso il piano superiore e lì, aperta la porta di camera sua, se la richiuse alle spalle poco dopo avermi praticamente gettata sul letto.
Lo fissai ad occhi sgranati, sconvolta.
«Ma che diavolo ti passa per la testa, si può sapere?!» strillai, in tempo per farmi chiudere la bocca da un suo bacio. Mi spinse sdraiata, lo sguardo più che sicuro. «Ti ho detto che…!»
«So benissimo che cosa hai detto.»
Sorrise, togliendomi di dosso la coperta.
«…voglio solo mostrarti un motivo valido per cui la tua decisione è da lasciar perdere.»
Detto questo, abile come solo lui poteva essere, riprese a baciarmi con decisione, stringendomi a sé nell’ennesimo abbraccio da cui io non riuscivo mai a trovare scampo. Riempii quella stanza di sospiri, maledicendomi per la sottomissione che dimostravo nei suoi confronti.
La verità era che non mi riconoscevo, in sua presenza. Diventavo così piena di insicurezze e talmente tanto confusa che anche la più normale delle parole, ovvero un secco “NO”, non poteva venire fuori dalla mia bocca. Gli permettevo di fare ciò che voleva, sminuendo la mia autorità ed aumentando il suo già smisurato ego. E anche se me ne rendevo conto, abborrandomi da sola, le cose non cambiavano comunque.
Ero ancora là, ridotta a poco più di una bambola fra le sue mani, innamorata persa di una persona che forse nella realtà dei fatti non mi ricambiava neanche.
Perché, non credete, il dubbio lo avevo. Non ero per niente certa che Emanuele si stesse comportando così per le ragioni che un’ora prima mi aveva elencato, e anzi pensavo che si trattasse dell’ennesimo svago da manuale, dell’ennesima truffa ben riuscita. L’idea di essere diventata una delle tante che loro malgrado erano cadute preda del suo fascino mi faceva rabbrividire, o forse il termine più adatto era arrabbiare.
«Che sciocchina che sei…ancora non capisci quanto sei importante…?»
…poi però se ne usciva con frasi del genere, e tutto il mio rancore andava a farsi benedire.
Poteva dire certe cose senza pensarle davvero? Poteva prendere in giro me, la sua migliore amica, proprio come aveva fatto con centinaia di altre ragazze?
Non lo sapevo. Purtroppo, questo, pur possedendo un fine intelletto, non potevo constatarlo senza mettergli una sonda nel cervello. Avrei voluto chiederglielo, fidandomi ciecamente della risposta che mi avrebbe dato, ma anche quello era impossibile. Avevo visto talmente tante persone rimanere ferite dalle sue azioni, che ormai io stessa trovavo difficile dargli credito nelle cose più importanti.
In fondo mi aveva già mentito. Svariate volte aveva dato buca a me – nonché a Sebastiano – per seguire i proprio stupidi e bassi istinti. Innumerevoli erano quelle in cui aveva giurato e spergiurato di non aver fatto una cosa, quando invece era proprio lui il fautore del tiro mancino che ero costretta a subire.
Come dare un peso effettivo alle sue parole, quindi?
«…importante…» ripetei, tenendo gli occhi chiusi nel sentirlo così vicino «…io non sono importante. Sono…m-materiale sacrificabile.»
Emanuele scosse il capo, baciandomi le spalle con desiderio.
«No che non sei sacrificabile. Tu…sei l’unica che mi capisce, Angela. L’unica
A sentirlo non potei fare a meno di guardarlo, ignara del vero significato che stava dietro a quella piccola sentenza. Tutto ciò che fui in grado di registrare fu una sola parola, quell’ “unica” che avevo sentito uscirgli dalle labbra.
Non lo aveva rivolto ad Alessia. Lo aveva rivolto a me.
«Io…»
Prese un respiro profondo, stringendomi a sé con tutta la forza che aveva. Teneva il viso nascosto dal mio sguardo, il che mi fece presagire l’arrivo di una verità tanto grande quanto incredibile.
«…io ti amo
Me lo aveva già detto, questo. Il giorno in cui mi ero vista al cinema con il professore e gli altri, lui aveva detto d’amarmi ma io, conscia delle semplicità con cui aveva proferito simili parole, non gli avevo creduto. Stavolta invece, proprio perché si nascondeva e rifuggiva dai miei occhi, seppi per certo che non mi stava mentendo. Che era sincero.
«Dillo…» trattenni le lacrime a stento «…dillo ancora, ti prego.»
«…»
«Per favore, Emanuele… Dillo ancora.»
Sbuffò sonoramente e, alzando la testa, mostrò la sua faccia tutta rossa d’imbarazzo.
«Ma cos’è, sei sorda?» chiese «Ho detto che ti amo, cavolo. T-I-A-M-O. Capisci? Io ti amo!»
Scoppiai a ridere e prendendogli il volto fra le mani gli diedi un bacio, bello intenso, uno di quelli che aveva poco a che fare con gli altri donatimi dal diretto interessato. Lui aveva sempre usato passione in quei contatti, quasi con fin troppo trasporto alle volte, io invece, distinguendomi come al solito, seppi donargli tutta la dolcezza e l’amore che provavo nei suoi confronti.
Improvvisamente non pensavo più a quello che stavo facendo. Se lui mi amava il resto dell’universo poteva anche ardere fra le fiamme.
«Sei sempre il solito ritardatario.»
Sorrise a sua volta, accarezzandomi le guance.
«…cosa vuoi farci, certa gente non impara mai.»
E poi, libero da ogni genere di timidezza sussurrò ancora:
«Ti amo.»




La voce dell'Autrice: Mh. Ed eccoli ricascati nuovamente nella solita infima trappola. La passione! Cosa non riesce a fare!
A parte gli scherzi li trovo davvero comici, questi due, omettendo i tratti drammatici della storia che li vede come protagonisti. O, per lo meno, ritengo che Angela stessa sia comica: fa tanta di quella fatica per porsi dei limiti, per mettere dei paletti, e poi quando si tratta della persona che ama è capace di mandare tutto all'aria nel giro di mezzo minuto (o addirittura di mezzo secondo).
Ma credo che anche questo faccia parte dell'amore. Il rendersi totalmente idioti quando si ama è assolutamente la norma ù.ù

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Capitolo 11
*** Avrei voluto durasse di più ***


Dieci: Avrei voluto durasse di più...




Perfino dopo quel meraviglioso attimo non riuscii a considerarmi totalmente al sicuro.
Per quanto infatti le parole di Emanuele mi avessero resa felice, sapevo che quella mia condizione privilegiata non sarebbe durata mai abbastanza a lungo: solo la mattina seguente, uscita dal torpore del sonno, mi sarei dovuta rendere conto nuovamente che non c’era fine al peggio. Non importava quanto io o lui ci amassimo, non importava neanche quanto fossimo contenti quando stavamo assieme, l’unica cosa che ancora contava e che, ancora, entrambi ci ostinavamo a dimenticare – o ignorare, a seconda dei casi – era che Emanuele non era libero.
Non lo era, e neanche nella più rosea delle visioni una simile condizione non avrebbe tardato a piombarci addosso in tutta la sua grandezza.
Alessia, pur non essendoci veramente, rimaneva sempre fra noi. Vigile, a fissarci. Controllava ogni nostra mossa e rovinava ogni nostro attimo.
Anche quella gioia improvvisa, quindi, era destinata a sciuparsi nel giro di qualche ora, sormontata dalla consapevolezza di non avere più il tempo per giocare. Uno di noi doveva prendere una decisione, quella definitiva, e se davvero il mio amico, il mio compagno, non avesse avuto la forza di prendere la sua, allora purtroppo un simile fardello sarebbe toccato a me.
Dentro sentivo che non c’era scelta, quello era il bivio finale che si intrometteva nella nostra relazione. Come sempre le vie da prendere erano due e, sia che avessi imboccato una o l’altra strada, mi sarei ritrovata a soffrire ugualmente. Ormai ero arrivata a quel punto, sì. Non c’erano più soluzioni che mi avrebbero fatta sentire solo scottata e non del tutto distrutta.
Se accettavo la sua indecisione avrei vissuto una vita a metà, prigioniera di incontri clandestini e chiamate notturne, di sguardi pieni di passione ma tenuti nascosti.
Se invece davo retta a quel po’ di sale in zucca che mi rimaneva, avrei preso armi e bagagli e mi sarei diretta verso la mia gloria, alleggerita di un peso, ma con un grande vuoto nel cuore.
Lì, stretta fra le braccia d’Emanuele nel bel mezzo di un nuovo sogno, la bilancia era ancora in precario equilibrio. Potevo godere di quella piccola parentesi di calma ancora per qualche ora, crogiolandomi nella convinzione di aver appena fatto una grande conquista.
Una volta aperti gli occhi avrei avuto modo di capire che un passo avanti lo aveva di certo fatto, anche se non nella direzione che, solo la sera prima, avevo creduto di imboccare.
 

***

 
Quando mi svegliai, ancora mezza intontita dal sonno, aprii piano gli occhi e li sbattei un paio di volte, tirando fuori le mani da sotto le coperte per strofinarli appena appena prima di decidermi a guardarmi definitivamente attorno. Sapevo bene dove mi trovavo, non ero così stupida da dimenticarmi di un particolare simile, ma forse, ancora ripiena dell’euforia che le parole di Emmy mi avevano dato, cercavo mille conferme ad assicurarmi di non aver sognato.
Non con molta sorpresa, perciò, esplorai con lo sguardo gli angoli bui di quella stanza, riscoprendomi sempre più contenta man mano che i secondi passavano.
Sorrisi nell’intravedere il pianoforte di fronte al letto, segno inequivocabile che sì, stavo proprio nella sua camera.
Nonostante tutto però, la gioia più grande me la dette lo scontrarmi con il suo viso. Mi feci più vicina a lui, le mani unite sotto al capo per farmi da sostegno, il cuore a battere forte mentre lo osservavo dormire. Stavolta non era scappato, e anche se mi rendevo conto che quella era la sua casa, non potevo che vedere la cosa positivamente.
La nostra prima volta non avevo fatto in tempo ad addormentarmi che Emanuele se ne era già andato, lasciandomi sola con la consapevolezza di aver appena contribuito ad un adulterio, oltre che ad aver perso una parte alquanto importante di me stessa. Ora invece ce ne stavamo insieme, lui con un braccio attorno mio fianco, l’espressione tranquilla ed il respiro regolare.
Era tutto perfetto.
Mi presi ancora qualche minuto di contemplazione prima di alzarmi in piedi, adoperando tutte le doti feline che possedevo – un modo carino per dire che stavo cercando di fare piano -, e di correre alla ricerca dei miei indumenti. Non trovavo i pantaloni, ma siccome non potevano essere poi molto lontani in quel primo istante non me ne preoccupai molto. In fondo era troppo buio, là dentro, perché io li vedessi con chiarezza sul pavimento. Veloce mi misi la biancheria intima, lasciando andare una volta per tutte il lenzuolo, il quale solleticò un poco le mie caviglie cadendo a terra.
Stavo per afferrare la maglia quando…
«…per curiosità, dov’è che vorresti andare?»
Quasi mi venne un infarto a sentire la sua voce.
Girandomi di scatto, la maglietta stretta al petto, lo fissai ad occhi sgranati. Era un po’ come essere stata colta sul fatto, neanche fossi in procinto di rubargli qualcosa o di ucciderlo nel sonno.
Arrossii, grattandomi distrattamente una guancia.
«A…casa?» chiesi a mia volta, perplessa.
«Beh, sono felice di sapere che te ne saresti andata via senza neanche salutarmi!»
«Non lo avrei mai fatto! Mi stavo solo vestendo, stupido!»
Lui mosse la mano come a dirmi “Lasciamo perdere” e io, gonfiando le guance, tenni per me ogni risposta acida.
Solo allora, incrociando il suo sguardo, ebbi modo di notare la speciale luce che aveva negli occhi.
…non voleva che me ne andassi?
«Se vuoi…» cominciai, insicura sul da farsi «…posso restare ancora qualche ora.»
«…e faremo colazione insieme?»
Risi. «Volentieri.»
«Così mi piaci!»
Lo guardai mentre anche lui si dava da fare per vestirsi e, quando insieme aprimmo le imposte delle finestre, fui molto sorpresa nel non trovare ancora quei benedetti pantaloni. Ero sicura di averli portati con me in camera quando, la sera prima, Emanuele mi aveva caricata in spalla e trascinata là con non molta cura.
Lasciando che fosse lui a mettere a soqquadro la sua stanza, aprii la porta e volai per i corridoi, ripercorrendo la strada che separava quella parta della casa al soggiorno che stava al piano di sotto. Per tutto il tempo fissai il pavimento, sicura che sul soffitto non potessi di certo trovare i miei jeans.
Fu solo quando andai a sbattere contro a qualcosa che mi decisi a tornare a guardare davanti a me.
«Oh, buongiorno Angela.»
Il sangue mi si gelò nelle vene.
Avevo di fronte niente popò di meno che Massimo, il padre di Emanuele, e per quanto tutti conoscessero la sua grande bontà d’animo a nessuno sfuggiva che fosse anche un uomo piuttosto arguto.
Se ne stava là, in mezzo al corridoio, con in mano i miei pantaloni ed indosso il migliore dei sorrisi. A quel punto seppi per certo di non avere più scampo perché anche un bambino avrebbe intuito a che genere di gioco io e suo figlio stessimo giocando. Qualcosa di molto simile al “Dottore”, se vogliamo porla in termini che tutti possano facilmente comprendere.
«Buo…» deglutii «Buongiorno, Massimo.»
«Per fortuna sei tu, cominciavo a credere che la casa fosse posseduta. Sai, Emanuele non possiede un passo così leggero, anzi.»
Cercai di ridere, ma quella che venne fuori fu tutto fuorché una risata genuina.
«Come stai cara?»
«Io sto…sto bene. Grazie. E tu…? Tu come stai?»
«Meglio degli altri giorni, ma sono ancora tutto intasato. Una rabbia!»
Chiaramente non potevo fare a meno di fissare i miei jeans. Era così assurdo stare lì a parlare con lui del più e del meno quando, santo cielo, mi ritrovavo in mutande, coperta solo da una maglietta, e con le guance più rosse di un pomodoro! Avrei voluto solo scappare, o magari venire inghiottita dalle fauci della Terra.
«Credo che questi siano tuoi.» disse Massimo alla fine, indicando le braghe. Doveva essersi accorto della mia tensione – difficile non accorgersene. «Sono un po’ umidicci.»
Li afferrai, annuendo da sola.
«Stavamo…lavando i…piatti e mi sono bagnata…»
«Perché lavarli a mano, abbiamo la lavastoviglie!»
Tralasciando il fatto che questa notizia mi fece venire voglia di picchiare Emmy fino a che non gli avessi staccato la testa dal collo – lui sapeva quanto odiassi lavare i piatti – notai con ancora più disperazione che la calma ostentata dal mio interlocutore non era del tutto sincera. Massimo sorrideva sempre, questo era vero, ma quando era arrabbiato lo si intuiva subito e, purtroppo per me, questa era una di quelle volte. Non sapevo se il suo risentimento fosse tutto indirizzato nei miei confronti, però sapevo di essere uno dei motivi che lo rendeva nervoso.
Sospirai, pronta quasi a vuotare il sacco, quando anche il secondo abitante di quella casa fece la sua comparsa.
Mi arrivò alle spalle, baldanzoso e per nulla preoccupato dal fatto che suo padre fosse proprio lì con noi.
«Bene, li hai trovati.» disse solamente, ridendo «Ehi padre, come va oggi?»
«Come ho già detto alla tua amica» e calcò su questa parola «sono infelicemente intasato dal mocco. Indi per cui non me la sto spassando molto.»
«Vuoi fare colazione in nostra compagnia?»
Massimo mi guardò, inclinando un poco il capo. «No. Credo che vogliate passare del tempo da soli.»
“Ok, sa tutto” pensai io, stringendomi nelle spalle e lasciandomi sospingere verso la cucina da Emanuele “Sa tutto e come minimo mi odierà per il resto dei miei giorni”.
«Io mi dileguo. Torno a nannare.» sussurrò, accarezzandomi delicatamente.
Io mi voltai verso di lui, notando che nei suoi occhi non c’erano pregiudizi, solo molta comprensione. Forse, a conti fatti, la rabbia di poco prima non era da indirizzare a me.
 
«È stata la cosa più imbarazzante di tutta la mia vita!» esclamai una volta arrivata a sedermi a tavola. Sbattevo con violenza la fronte sulla superficie in legno, maledicendomi da sola fra un tonfo e l’altro. «Penserà che sono una poco di buono! …beh, in effetti lo sono. Io stessa penso di essere una poco di buono, figurati che cosa starà pensando tuo padre!»
Emmy rise, dandomi come sempre la sensazione di essere o totalmente insensibile o dannatamente incosciente. Invidiavo il modo in cui riusciva sempre a farsi scivolare le cose addosso, scansando i problemi che ci sciamavano attorno come api quasi non li trovasse preoccupanti. Io, dal mio canto, non riuscivo a tanto.
«Lo sai, vero, che non c’è niente di divertente in tutto questo?»
«Al solito ti sbagli. La tua faccia vale qualsiasi gag.»
«Oh, sì, facciamo dell’ironia in un momento critico, tanto c’è Angela che si preoccupa per tutto.»
«Non avrei saputo dirlo meglio, sorella…»
Mi accasciai sul tavolo, sfinita sia fisicamente che psicologicamente. «Emanuele…»
«Senti, so anche io che probabilmente mio padre mi farà una ramanzina coi fiocchi non appena te ne andrai, credo che sia normale dopo ciò che ha visto e dedotto.» rispose lui, portando in tavola il tè caldo «…quello che dico è che trovo snervante il tuo obbligo morale a darti pena per ogni cosa. Non è con te che se la prenderà! Lo farà con me!»
Corrugando la fronte alzai di poco la testa, fissandolo.
«…questo dovrebbe farmi sentire meglio?»
Lui annuì solamente, portando in un istante una mano sulla tasca posteriore dei pantaloni. Estrasse il suo cellulare e, guardando per un attimo il display illuminato, sospirò pesantemente prima interrompere la chiamata e posare il telefono poco distante dalla sua tazza.
«Allora, cosa vuoi da mangiare per…»
«Dovresti risponderle.»
«…Dio, Angela…» si portò una mano alla fronte, scompigliandosi i capelli «Almeno per qualche ora possiamo continuare a fare finta di niente, non pensi? Solo un pochino.»
Il cellulare riprese a vibrare ed io, ricordando come lo avevo udito il giorno prima mentre ero sul divano, stretta al proprietario in un illecito abbraccio, pensai addirittura che fosse in procinto di scoppiare: mi chiesi quante chiamate aveva reclinato, Emanuele, sino ad allora; quante volte quel povero arnese avesse suonato a vuoto per tutta la notte.
Lo presi in mano, allungandolo verso di lui.
«Rispondi.»
Non oppose ulteriore resistenza e io, vedendolo fuggire dentro la cucina, tesi bene l’orecchio per captare anche la minima frase sussurrata. Riuscii a recepire solo piccoli sprazzi, ma tanto mi bastarono per sentirmi sempre meno a mio agio. Scattai così in piedi, seguendo il suo esempio e scappando lontano da lui, per rifugiarmi in un posto dove né la sua voce, né il significato dietro alle sue parole potesse raggiungermi. Aperta la porta del poggiolo uscii all’aria fresca, appoggiando pesantemente la parte anteriore del corpo alla balconata.
Presi dei respiri profondi, osservando il cielo con occhi tristi. Era tutto ricoperto di nuvole grigie, non potevo scorgere neanche una minima parte dell’azzurro che stava sotto. In un secondo trovai irresistibile la possibilità che il tempo fosse in simbiosi con il mio umore.
La nottata appena trascorsa non era stata serenissima, proprio come io era stata felice?
E ora che improvvisamente ero triste, guarda il caso pareva avvicinarsi una bufera.
Da dentro mi arrivarono rumori confusi, di passi e chiacchiere. Emanuele mi stava cercando, ma fino a che non avesse smesso di parlare con lei io non mi sarei fatta vedere. Preferivo rimanere nascosta, a fare finta di non esistere pur di non dover affrontare ancora l’inoppugnabile verità. Stavolta il mio cuore non avrebbe retto. Stavolta sarei morta, schiacciata dal peso dei miei doveri.
In quell’occasione avrei tanto voluto possedere un potere speciale, come ad esempio il teletrasporto: se avessi avuto una simile capacità mi sarei potuta divertire a viaggiare in qualsiasi parte della Terra solo pensandola ardentemente, pronta a rinnegare tutto quello che, in questa vita e in quella città, mi dava pensiero. Sarebbe stato bellissimo, ma soprattutto facile. E poi, dopo che già mi ero macchiata della colpa di essere l’amante di un amico, cos’altro poteva farmi il guadagnare la reputazione di essere una vigliacca?
Sentii la porta scorrevole scivolare alle mie spalle, segno che ero stata trovata.
«…è pronto.»
Non dissi niente per un po’, e cercando almeno di sorridere non mi girai neanche verso di lui. Rimasi a scrutare l’orizzonte, persa.
«Non… Non ho più molta fame.»
Ed era vero. La bocca dello stomaco si era chiusa e l’intestino, con una velocità inaudita, si era accartocciato su se stesso. Era assolutamente impossibile che io, in quelle condizioni, potessi anche solo anelare ad un pasto completo senza il rischio di rivederlo comparire un minuto dopo vomitandolo.
«Andiamo…» sbuffò lui «Fette biscottate con marmellata e tè. So che ti piace questo menù. Non lo senti il profumino delle leccornie che ti ho preparato?»
«Lo sento, sì.»
«E allora vieni. Guarda che se salti la colazione, poi ti viene il diabete.»
Alzai malamente le spalle, a sentirlo. Sinceramente, considerando i miei già abbastanza gravi problemi di salute, il diabete poteva essere solo la minore delle mie preoccupazioni. Il mio cuore mi avrebbe uccisa prima di quanto non lo avrebbe potuto fare quella ennesima malattia.
Ciò che mi dava più ansie al momento, poi, era tutta un’altra questione.
«Forse dovrei andare davvero, adesso.» biascicai, facendomi triste «Sono rimasta abbastanza.»
«Avevi promesso che avremmo fatto colazione insieme e la faremo. Ho litigato con Alessia, le ho detto che non volevo vederla e questo perché… Perché voglio stare con te.»
Respirando a pieni polmoni tentai di farmi forza, frugando nella mente alla ricerca delle parole giuste che mi avrebbero fatto spiegare una volta per tutte cosa continuava a bloccarmi, facendomi tornare sempre sui miei passi.
«Io sono…felice se preferisci stare con me, piuttosto che con lei. Sono felice.» Sospirai. «Però questo non vuol dire che non mi senta in colpa per come tratti la…la tua ragazza. Perché Alessia è la tua ragazza. E sta soffrendo a non averti con sé, incapace di capire cosa ti abbia portato ad allontanarti da lei.»
«Le… Le chiederò scusa, non preoccuparti. Questa non è la prima volta che la pianto in asso, comunque. Dubito che stia così male.»
Sentii le lacrime appropinquarsi, ma le scacciai con ferocia dagli occhi usando le maniche del maglione che mi ero messa prima di uscire in terrazza. Non volevo piangere, non ora che finalmente stavo riuscendo a parlare, a dire le cose come stavano, senza interpretare la parte della dura o di chissà quale altro personaggio: dovevo solo essere sincera, tendergli ancora una volta la mano e aiutarlo a capire ciò che da solo non riusciva a comprendere.
«Quello che facciamo…non è giusto.»
Un concetto banale per entrambi, poiché già ampiamente appurato, ma eccellente base per il mio discorso.
Decisi di girarmi per fronteggiarlo, gli occhi lucidi.
«Io ti amo… Ti amo davvero, Emanuele.» sussurrai «…questo però non mi da il permesso di ferire un’altra persona così profondamente. Di disonorarla. Di gettarla nel fango da sola, senza appoggio.»
«…cosa vorresti dire?»
Il suo sguardo sperduto, tipico del bambino che in fondo era, mi colse per un attimo del tutto impreparata. Abbassai gli occhi, mordendomi un labbro.
«Lo sapevamo da molto che stavamo sbagliando, ma lo stesso avevamo deciso di andare avanti, se non sbaglio. Insieme. Lo abbiamo detto tutti e due che non…volevamo rinunciare l’uno all’altra, no? Anche se era sbagliato.»
Poi, come rinvigorito da un nuovo fuoco, si fece avanti di un passo, stringendo i pugni lungo il corpo.
«Alessia neanche lo sa! Non può stare male per una cosa che non conosce.»
«…e se lo scoprisse?» chiesi, con un filo di voce «Se sapesse di te e di me come pensi che reagirebbe? Vuoi davvero vederla soffrire a quel modo? Io… Io mi ucciderei al posto suo.»
Cominciò a vacillare a questo pensiero. Non voleva che Alessia stesse male a causa sua, questo era evidente. Sotto al peso delle mie parole si faceva via via più spaventato, un po’ per la verità di ciò che dicevo, un po’ per il timore che lo stessi abbandonando definitivamente.
«…quindi che cosa proponi di fare? Non capisco. Vuoi…smettere? Smettere di vederci e di stare insieme?»
«Vorrei continuare a vederti…però forse dovremmo smettere di…»
Di cosa?
Di fare l’amore? Di baciarci? Di abbracciarci?
Ma cosa stavo dicendo…sapevo perfettamente che continuando a stare vicini prima o poi saremmo ricaduti di nuovo negli stessi stupidi errori. Dovevo smetterla di cercare la via più facile.
«…sì, dobbiamo cominciare a non vederci più.»
Arrivato a questo punto, qualcosa sembrò rompersi all’interno di Emanuele. Mi fissava come se mi stesse guardando per la prima volta, e con quel pensiero a dominare la mia mente, ebbi modo di notare anche il suo totale sbigottimento. Non poteva credere che lo avessi detto per davvero, non riusciva a capire come, una persona che solo fino a poco prima si era detta innamorata persa di lui, ora se ne stesse lì a formulare simili discorsi senza mostrarsi neanche un poco scossa. Capii all’istante che stava cominciando a credere che lo avessi solo manipolato, che lo avessi preso in giro per divertirmi durante le vacanze. Forse avrei dovuto risentirmi di questo, ma non lo feci. Potevo capire la sua confusione, visto che non stavo facendo altro che il “tira e molla” con lui.
«Non ero…indispensabile, per te?» domandò ad un certo punto, abbassando gli occhi a terra «Io credevo che entrambi provassimo le stesse cose.»
«Tu per me sei indispensabile. Lo sei.»
«E allora come mai stai dicendo che…non vuoi più vedermi…?»
Esitai qui, osservandolo mentre lui, teneva lo sguardo, vuoto di ogni emozione, puntato sulle mattonelle della terrazza. Era come se non fosse neanche attento a quello che gli succedeva attorno, parlava, sbatteva le palpebre e respirava, però non era lì. Non veramente. Per una volta ero io ad averlo piegato, e non il contrario…ma, guarda il caso, non riuscivo ad andare fiera di questo nuovo primato.
«Sei l’unica che mi capisce…» continuò «…la sola che sa cosa provo. Io non posso perderti. Piuttosto smettiamola di essere amanti e…»
Anche lui sapeva che non era possibile. Lo sapeva. Si era bloccato per quel motivo.
«…non voglio lasciarti andare.»
«Emanuele»
«Tu vuoi lasciarmi?»
«Senti io…»
«Dimmi se…se vuoi lasciarmi per davvero. Dimmelo, avanti.»
Scossi il capo. «È evidente che non vorrei, ma-»
«No! Non ci sono ma, non ci sono scuse!» si avvicinò di scatto e mi prese per le spalle, puntandomi quelle iridi fredde come il ghiaccio addosso, quasi fossero due fari atti a scavarmi l’anima «Perché trattenersi? Che senso ha farlo, se vuoi stare con me?! Basta tentare di andartene, basta fingere di essere forte, di non volermi più… Io lo so che mi ami. Lo so! Nessuno ci sente e ci vede, qui, perciò non serve recitare. Ora come ora possiamo amarci, possiamo fare quello che vogliamo!»
Tutte quelle parole, dette da qualcuno che mai avevo visto scomporsi in ben cinque anni di conoscenza, mi colpirono come dardi infuocati. Anche stavolta non seppi come reagire, e il massimo che fui in grado di fare fu ricambiare il suo sguardo: ci eravamo invertiti le parti, ora era lui a condurre il gioco ed io, di fronte a quel ragazzo totalmente stravolto eppure ancora desideroso di combattere per noi, riuscivo solo a tenere la bocca aperta. Avrei voluto piangere, come facevo sempre quando le cose diventavano insostenibile – il che accadeva spesso, di recente, ve lo concedo – ma le lacrime non scesero all’istante. Solo quando ricominciai a far funzionare le corde vocali sentii gli occhi pizzicare.
«…io desidero solo che tu sia felice.» sussurrai, disperata.
«Allora non vuoi capire. Una vita tranquilla e felice io…la posso avere solo con te. Pensi che smettendo di frequentarci tutto tornerà come una volta? È assolutamente impossibile che accada.»
Una vita tranquilla.
Emanuele, il mio Emanuele, quello egoista e per nulla portato a vedersi in futuro al fianco di una sola partner per tutta la vita, aveva esplicitamente detto che poteva avere una vita tranquilla e felice solo con me.
Con me.
Non sapeva che la mia, di vita, non sarebbe mai durata abbastanza a lungo.
Non sapeva che gli avevo mentito per anni, tenendogli nascosta una malattia che mi stava divorando da dentro giorno dopo giorno.
Non sapeva che il nostro rapporto, se anche fosse rimasto allo stadio “amicizia”, non sarebbe mai potuto maturare veramente.
Non sapeva, non sapeva, non sapeva!
«M-Mi dispiace...» dissi, lasciando che le lacrime mi solcassero il viso «Mi dispiace, ma con me non potrai mai avere niente del genere. Niente di niente. Io non… Io non sono quella giusta per te.»
Se avessi potuto mi sarei fermata, impedendo a quella crudele verità di venire fuori. Il solo pensiero di starlo definitivamente scacciando, di stargli dicendo che non potevamo stare più assieme, mi uccideva.
«Io non lo sono, però lei lo è…» dissi infine «Alessia…è forte. È giudiziosa. Alessia è bella ed intelligente. Alessia è ammirata da tutti, sa stare con gli altri e ti tiene sempre testa. Lei sa cosa vuole, ti saprebbe dare il massimo ogni giorno e…e ti ama. Ti ama tanto quanto ti amo io.»
Si staccò da me come se un serpente lo avesse appena morso, le mani ancora tese a mezz’aria. Indietreggiando finì contro il vetro della porta finestre e, scuotendo piano il capo, pareva ancora intenzionato a remarmi contro. Però, io, da brava conoscitrice dell’animo umano, davo già per scontata la mia vittoria.
C’ero quasi. Lo avevo praticamente convinto.
«Questa è stata una parentesi.»
Mi fulminò a sentirmi.
«Una parentesi? Sono solo questo…?»
«Non dico che quello che proviamo non sia vero.» mi affrettai a dire «Il mio affetto è sincero e…lo è sempre stato. Tuttavia temo che ci siamo sbagliati. Abbiamo scambiato ciò che ci lega per una cosa vera e invece…non lo era. Siamo in tempo per rimediare, però. Tu tornerai da Alessia e sarete felici, vedrai. Felici come non potresti mai essere con una come me.»
«…A-Angela…»
Posai una mano sulla sua bocca e gli impedii di parlare. Se lo avesse fatto non avrei avuto più la forza di continuare, e questo non doveva succedere. Avevo i minuti contati, sia perché la voce cominciava a venirmi meno, sia perché sentivo che il mio cuore non avrebbe sopportato altra pressione. Dovevo sbrigarmi.
«Finiamola qui e basta, Emmy.» sentenziai «Abbiamo diciotto anni, siamo grandi ormai e dobbiamo smetterla di fare i capricci, ostinandoci a volere cose che non possiamo ottenere.»
Lui prese la mia mano fra le sue e, dopo aver fatto una piccola pausa, mi accarezzò una guancia.
Lo sentii sospirare.
«…ma noi due…noi due ci amiamo, Angela.»
Piangendo mi staccai, desolata.
Ci amavamo, sì. Ci amavamo tanto e proprio ora che scoprivo quanto quel sentimento non fosse più a senso unico dovevo dirgli addio.
«L’amore alle volte non è sufficiente.»
 
Arrivata a casa mi accasciai subito a terra, appoggiando la schiena alla porta d’entrata e portandomi le ginocchia al petto, strette dalle braccia. Ero distrutta in così tanti modi diversi che, per un breve lasso di tempo, fui certa che le mie funzioni vitali smisero di funzionare. Ci fu come un black out, il ricordo d’aver pensato o anche solo respirato venne tolto dalla mia memoria e anche dopo non seppi mai con certezza quello che avevo fatto. In quei pochi minuti forse avevo continuato a piangere e  magari avevo anche chiesto a gran voce “pietà” ad un Dio troppo occupato a torturarmi.
L’unica cosa che rammento, è il suono del cellulare.
Mi svegliò come da una trance e, tiratolo fuori dalla tasca del mio giubbotto, me lo portai lentamente all’orecchio.
«Ehi sorellina!»Simon, all’altro capo, sembrava contento. «Ho delle bellissime notizie. Miracolosamente avrò del tempo per tornare da te, in questi giorni. Potremo stare insieme ancora per un po’.»
Sforzandomi di sorridere scacciai le lacrime dagli occhi, annuendo da sola. «W-Wow!»
«Accidenti, quanto entusiasmo.»
«Ah, scusami…è che oggi non… Oggi non è proprio una bella giornata per me.»
«Come mai?»
Gli avevo mentito per tutto il tempo che aveva passato a casa, ma ora non riuscivo più a farlo. Sentendomi sopraffatta dalla miriade di problemi che stavano contornando il mio mondo, mi sentii quasi in obbligo di vuotare il sacco con l’unico parente che mi era rimasto. Simon era la sola persona che mi conosceva bene, che sapeva tutto di me, anche la più piccola cosa, e quando fra i singhiozzi gli rivelai che genere di oscuro segreto gli avevo tenuto nascosto capii anche che ero stata una grande sciocca nel non dire niente.
Lui accolse la verità senza interrompermi, attendendo che fossi capace di fornirgli i retroscena di una storia tanto complicata. Voleva avere il quadro completo, Simon era fatto così. Era un po’ come un giudice e, in fondo, non era di certo una casualità che stesse studiando per diventare avvocato.
Un giorno non lontano, avrebbe fatto da mediatore per situazioni ben più difficili.
Nell’attimo stesso in cui fu pronto a parlare, toccò a me trattenere il respiro.
«Con un cuore del genere, proprio di uno già fidanzato dall’alba dei tempi dovevi innamorarti?»
Lo avevo previsto. Non c’era smielata compassione nel suo tono di voce, solo sincerità ai limiti della delicatezza. Si stava trattenendo per non arrabbiarsi con me, e, almeno questo, lo apprezzai.
«A cuor non…si comanda, no?»
«Ho sempre saputo che eri cotta di lui, però non mi sarei mai aspettato un simile susseguirsi di eventi.»
Nemmeno io me lo sarei mai aspettato.
«Secondo me hai fatto bene a lasciar perdere. Chiaramente non sei fatta per un triangolo, e non lo dico solo perché sei malata, lo dico anche perché tu non sei adatta a qualcosa del genere. Hai bisogno di un amore incondizionato, di qualcuno che veda solo te, sempre e comunque. Tu…tu sei come la mamma.»
Sospirando fissai il muro, riconoscendo che aveva ragione anche su questo punto. Ero simile a lei in tutto, soprattutto nel carattere: entrambe testarde, passionali, pronte a dimostrare al mondo di essere le più forti di tutti, ma consce di stare solo recitando una parte ben congeniata. Fragili, ecco cosa eravamo, fragili più degli altri.
«Sono stata una stupida.»
«Amare significa anche questo, purtroppo.»
«…»
«Cosa…?»
Mi morsi un labbro e, stringendo una mano al petto, proprio sopra al cuore, ricominciai a piangere. Ero quasi certa che non avrei più smesso di farlo, se avessi speso altro tempo a versare lacrime. O forse, proprio come Alice, casa mia si sarebbe tramutata in un oceano salato e dal sapore che aveva la disperazione.
E io ci sarei annegata dentro, perché a sua differenza non avrei trovato scampo.
«Io lo amo così tanto, fratellone…» mormorai «Così tanto che…c-che fa male!»
Simon mi consolò, stando alla cornetta per più di qualche minuto. Aveva chiamato solo per darmi una buona notizia, e si era ritrovato a dover fare i conti con un’adolescente in piena crisi.
Essere il fratello maggiore comportava anche questi obblighi, e in una famiglia costituita da due sole persone era inutile mettersi a dare un simile compito ad un altro.
Non lo avrei mai ringraziato abbastanza, poi, per essere accorso non più del giorno dopo, aprendo le sue braccia ed accogliendomi al petto per abbracciarmi stretta stretta. Lì, pronta a dire addio a delle vacanze allegre, seppi di avere ancora una piccola fortuna nella vita.
Almeno avevo lui.



La voce dell'Autrice: ...penso che, arrivati a questo punto, voi tutti stiate cominciando ad odiarmi. XD
Lo dico con tranquillità perché io stessa, scrivendo questo capitolo, mi sono resa conto della totale demenza di Angela. Vorrei tanto poterle dare man forte, ma siccome non fa altro che fare sempre gli stessi errori me ne vedo incapace. Sono sprovvista di "simpatia" per lei, al momento. E se lo sono io nei suoi confronti, sua creatrice, non oso immaginare quali siano i sentimenti che animano i vostri cuoricini. ù.ù
Anyway... Credo che voi tutti abbiate capite che siamo vicinissimi alla fine, no? Vorrei potervi assicurare che sarà una fine col botto, però non sono sicura di poterlo promettere. Non si sa mai che qualcuno decide di comportarsi da adulto, in questa storia...

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Capitolo 12
*** La musica è il nutrimento dell'anima ***


Undici: La musica è il nutrimento dell’anima



La presenza di Simon fu per me di grande aiuto. Non solo potevo in qualche modo dimenticare il pessimo periodo che mi aveva condotta a piangermi addosso più del dovuto, ma con lui ero anche capace di tornare a sorridere nonostante fossero molte le cose che, al contrario, avrebbero dovuto impedirmi di farlo.
Il resto delle vacanze natalizie, quindi, trascorsero così, in un susseguirsi di giornate all’insegna della tranquillità e della normalità: niente intrighi, bugie o avvenimenti importanti da dover tenere nascosti. C’eravamo solo io e mio fratello, come era sempre stato. La nostra piccola famiglia ancora una volta dimostrava di essere l’unica cosa cui non potevo rinunciare nei momenti no della vita. Fin tanto che Simon mi fosse rimasto accanto, portandosi sulle spalle la saggezza delle persone che prima lui ci avevano aiutati a crescere, sentivo di non dovermi preoccupare più di tanto per ciò che avevo fatto in quei mesi.
Avevo sbagliato, questo era vero, tuttavia ero ancora ben lungi dal non avere più occasioni per rimediare. Intanto avevo già fatto una buona cosa ponendo nuove distanze fra me ed Emanuele, e pur capendo di stare soffrendo molto per quella forzata lontananza sapevo di non aver avuto altra scelta da poter prendere.
Ironia della sorte erano state proprio le parole di quel ragazzo, così piene d’amore e sincerità, a farmi capire quanto stessi rischiando stando con lui.
Gli avevo mentito, o forse, nel mio caso, avevo omesso un paio di informazioni che probabilmente avrebbero reso il suo giudizio molto diverso circa la possibilità di tradire o meno la sua ragazza: da quando avevo parlato con Sebastiano della mia malattia e della mia decisione di andare in America una volta finita la scuola, dentro di me era nato il dubbio di essere stata io l’egoista della situazione, non Emanuele. Se lui avesse saputo tutto, di me, dubitavo che si sarebbe spinto a tanto, bruciandosi più di quello che entrambi avremmo creduto fosse possibile. Se avesse saputo si sarebbe ritirato prima, ancora ai tempi del concerto, trovando fosse giusto coltivare una relazione che un futuro a lungo termine poteva averlo.
Quelle settimane le spesi dunque a rimuginare su questo, chiedendomi se, una volta tornata fra i banchi di scuola, fosse stato il caso di aggiungere anche quei due importanti punti alla lista dei motivi che mi impedivano di continuare la nostra storia.
Lui non mi chiamò neanche una volta, non spese il suo tempo nemmeno per inviarmi un messaggio magari domandandomi come stessi, e io, capendo il suo stato d’animo, ne fui quasi sollevata: se avessi avuto modo di parlargli, temevo di non avere niente di sensato da dire nonostante nella realtà dei fatti ci fossero validi argomenti da dover affrontare.
Preferivo prendermi tutto il tempo necessario, attendendo l’inevitabile.
E, visto come era andata a finire quella situazione in particolare, ero piuttosto convinta del fatto che il destino avesse in serbo, per me e per lui, ancora altre sorprese.
 

***

 
Camminando per strada, avvolta da una sciarpa color menta, fissai il mio sguardo sul marciapiede per tutto il tragitto che separava casa mia dall’istituto in cui studiavo. Sentivo il vento gelido sferzarmi i capelli ed infilarsi in tutte le fessure del mio giaccone, provocandomi svariati tremori mentre il mio corpo cercava di riabituarsi alle temperature gelide dell’inverno. Avevo passato tanto di quel tempo chiusa in casa, durante le vacanze, che quasi avevo dimenticato quanto facesse freddo all’esterno delle mura domestiche. Come d’altro canto avevo dimenticato l’ansia che mi dava l’indossare la mia divisa scolastica.
Ero ben felice di non dover perdere mai troppo tempo la mattina per decidere cosa mettermi durante la giornata, ma il fatto che le femmine fossero obbligate dal regolamento a portare quelle gonnelline scozzesi faceva sì che ogni ragazza, a scuola, si facesse venire le peggiori paranoie possibili. Io in particolare, poi, essendo sempre stata poco confidente circa il mio aspetto fisico, non potevo che essere più soggetta delle altre ai giudizi e alle occhiate altrui.
Detestavo quella divisa. La detestavo perché alle altre sembrava stare sempre meglio, in qualche modo. Ciò era frustrante. Non le dovevamo indossare per omologarci gli uni agli altri?
Urla non ben definite, provenienti dal cortile recintato che stavo fiancheggiando, mi riportarono con i piedi per terra. Scansai per un pelo un signore indaffarato che mi veniva incontro, svoltando l’angolo per arrivare ai cancelli scolastici con tutta la voglia che ero riuscita a farmi crescere in petto.
Non ero mai stata una patita dell’istruzione – pur avendo così tanti obbiettivi ben chiari nella mente – e, chissà come mai, in quel momento mi sentii meno in vena del solito per darmi da fare con compiti, interrogazioni e tutto quanto il resto.
Il solo pensiero di doverlo vedere per davvero, dopo tutto quel tempo passato ad ignorarci completamente, mi dava la nausea. Sentivo di non potercela fare, e per un istante prevalse in me la vocina che mi diceva di scappare a gambe levate. Mentre gli occhi guardavano con fare terrorizzato i grandi portoni in legno massello della scuola, le gambe smisero di andare avanti e cominciarono ad indietreggiare di propria volontà.
Dovevo scappare, dovevo…
«Ohi, Angela!»
…sorridere e cercare di non dare a vedere la mia agitazione.
Mi girai di scatto, incontrando lo sguardo interessato di Sebastiano.
«Ciao!» esclamai «Da quanto non ci si vede!»
Lui fece un gesto vago con la mano, facendo finta di mettere il broncio prima di far passare un braccio attorno mie spalle. Praticamente mi trascinò con sé dentro, ignaro della mia aspirazione alla fuga.
«Ti credo che non ci vediamo da tanto…» commentò «Ogni volta che ti ho chiesto di uscire, durante le vacanze, sei riuscita a trovare una scusa. Non so se questo tuo sparire dalla circolazione abbia a che fare con la tua ultima discussione con Emmy, ma…»
«Mi pare palese che è per quello che non sono uscita.»
«Ecco, appunto.»
Lo sentii sospirare, ma siccome sapeva bene di aver appena toccato un tasto dolente volle forse evitare la discussione che più gli premeva di intavolare con me. Davo per scontato che ne avesse parlato molto con Emanuele, talmente tanto, forse, da farsi venire un rigetto naturale alle parole “tradimento”, “promesse” e “amicizia”. Tutto ciò che avrebbe potuto ricondurlo al casino che i suoi due migliori amici avevano creato doveva, ne ero certa, creargli una certa dose di disagio.
Alzando gli occhi verso di lui cercai di sorridergli, come a volergli dire che lo ringraziavo ma che in fondo le cose non erano andate poi tanto male. Emanuele ancora stava con Alessia e, per quanto fosse convinto di amare me, probabilmente presto si sarebbe dimenticato di tutto ciò che aveva detto e avrebbe catalogato questa nostra avventura come una pazzia momentanea. Io, invece, potevo dire di aver finalmente eliminato dalla mia vita l’unica cosa che mi avrebbe potuto impedire di godermi le nuove opportunità che mi stavnoa aspettando dopo gli esami di maturità.
Sebastiano però, come suo solito, ebbe da ridire su tutte le mie congetture. Non avevo aperto bocca, me ne rendo conto, tuttavia lui sapeva. Aveva un potere innato per captare le stupidaggini, anche se magari erano sotto forma di pensiero del tutto personale.
«Credi davvero di aver risolto tutto?» domandò, fermandosi in mezzo al corridoio, proprio davanti alla porta della nostra classe.
Io mi strinsi nelle spalle, fronteggiandolo, gli occhi marroni di entrambi pieni della stessa sicurezza.
«…ammetto di non averla saputa gestire bene, questa situazione.» risposi «Lo ammetto. Lo ammetto senza problemi.»
«Mi fa piacere che tu riconosca i tuoi errori, però io non ti ho chiesto questo.»
Scossi il capo, mordendomi un labbro. «Spero di aver risolto tutto, sì.»
«Speri. Quindi neanche tu ne sei certa.»
«Ho detto ad Emmy tutto quello che pensavo, gli ho chiesto di non vederci più, di tornare dalla sua ragazza e di cercare di dimenticare quello che abbiamo fatto… Cosa accidenti dovrei fare di più?»
Quella fu in assoluto la prima volta che seppi per certo di aver deluso Sebastiano. Mi guardò con gli occhi sgranati, la bocca aperta, le mani abbandonate lungo i fianchi: era la posa che normalmente adottava quando Emanuele ne sparava una delle sue, era una posizione che avevo imparato a riconoscere meglio di altre e che, come se non bastasse, presagiva l’arrivo di qualcosa di ben più grosso della sua sorpresa. Piano mi scompigliai i capelli, terrorizzata dall’idea che potesse sbraitarmi contro come di solito faceva con il suo caro compagno di sempre.
Chiusi gli occhi, attendendo la batosta.
«…dovresti parlargli a cuor leggero, ecco cosa dovresti fare.»
Disse lui, con tono deciso.
«Dovresti dirgli la verità, per filo e per segno, senza omettere niente. Perché merita di sapere. Merita di conoscere i veri motivi per cui hai deciso di stargli lontano, dalla tua malattia alla possibilità di partire per Yale.»
Non osai neanche ribattere, a questo.
«Tu non lo hai visto, Emanuele, in questo periodo. Io sì.» continuò «Sta male, senza di te. Sta male e gli manchi da morire, sia come amica che come…come ragazza. Gli manchi, ok?»
Ammesso e non concesso che le sue parole avessero un fondo di verità, fuori mi mostrai del tutto restia a tornare nuovamente sui miei passi: tutte le volte che mi ero azzardata a tanto le cose non avevano fatto altro che peggiorare e io, così disperatamente decisa a conservare almeno un pizzico della mia sanità mentale, non avevo alcuna intenzione di guastarmi ciò che rimaneva dell’anno scolastico. Avevo di fronte a me mesi e mesi per studiare, divertirmi come potevo, dimenticare l’amore della mia vita e prepararmi all’inizio di una nuova. Parlare ancora con Emanuele mi avrebbe portato via tutto. Era così ovvio il fatto che bastasse un solo attimo per farci cadere nello stesso giogo crudele dell’attrazione…
«Seb, tu sei un grande amico, senza di te né io né Emmy potremmo resistere un minuto di più a questo mondo, messi come siamo…» commentai «…ma ti prego di capire il mio punto di vista.»
«Io lo capisco.»
«No, non è vero. Tu non puoi capire come mi sento. Fino ad ora mi hai dato ascolto, sì, questo non lo nego, però in fondo al tuo cuore hai sempre tenuto fede alle tue convinzioni, ai tuoi pensieri, al fatto che credevi di sapere cosa fosse meglio per me e per lui.»
Scossi il capo, abbassando lo sguardo.
«Non posso in alcun modo tornare da lui adesso. Sarei un’ipocrita se lo facessi, e in più lo confonderei da morire. Credi che abbia senso dirgli “non possiamo più vederci” e poi correre al suo fianco non appena ha qualcosa che non va?»
«Ma… Ma Angela, che male c’è a farlo se vi amate?»
In un baleno ripensai al discorso di Emanuele stesso, al suo desiderio di essere felice al mio fianco, per sempre, qualunque cosa fosse successa nel futuro, e come allora il sangue mi si gelò nelle vene. Sospirai, ravvivandomi i capelli con fare fin troppo stanco e desolato. Era una pena avere diciassette anni e sentirmi già con un piede nella fossa.
«Dovrei scegliere fra la possibilità di stare lontani l’uno dall’altra, costruendoci delle vite serene e, perché no?, felici…» sussurrai, corrugando la fronte «…e quella di vivere vicini, per poco tempo, straziandogli l’anima e il cuore non appena sarò morta?»
Qui, Sebastiano non poté dire niente.
Messa sotto questa luce, era chiaro al mondo intero che le mie ragioni erano del tutto lecite.
La migliore opzione era fin troppo chiara perfino per lui.
 

***

 
Finita la prima parte di quella giornata, ovvero raggiunta la meta della ricreazione, ebbi modo di constatare quanto, nella realtà dei fatti, mi fosse difficile ignorare la sua presenza. Non appena sentii suonare la campanella mi venne l’irrefrenabile impulso di voltarmi e parlare con lui, che mi stava – come era sempre stato – alle spalle, al suo posto. Fu con grande sforzo che ripresi il controllo dei miei sensi e fermai quella folle azione, scattando in piedi dopo aver compiuto almeno metà giro sulla sedia e correndo fuori dalle porte della classe. Una volta in corridoio non mi fermai neanche. Mi sentivo troppo in imbarazzo, troppo stupida, troppo disperata per potermi anche solo arrischiare a tornare indietro.
C’era una vocina che mi diceva di non aver paura, che continuava a ribadire il concetto – peraltro falso – che se qualcuno doveva sentirsi male al solo pensiero di dover affrontare la situazione quella non ero certo io.
Eppure, anche così, sapevo di starmi sbagliando di grosso. Io, solo io potevo e dovevo rendermi conto della miriade di errori che mi avevano portata a quel punto, conducendomi diretta fra le braccia sì della persona che più amavo al mondo, ma che, per mia enorme sfortuna, non poteva ricambiarmi come avrei desiderato. Perché, anche ammettendo che i suoi sentimenti fossero veri, Emanuele non poteva in alcun modo darmi sollievo dimostrando il suo amore di fronte a tutti. Non finché non avesse deciso di rompere con Alessia, almeno.
«In fondo è semplice, no?» mi dissi ad un certo punto, arrivata non si sa come sul terrazzo della scuola. «Deve solo lasciare lei, visto che mi ama tanto. Non vedo il problema. Forse alla fine avevo ragione, forse non mi vuole per niente bene e…e voleva solo divertirsi, ecco.»
Ma anche stavolta sapevo bene che il punto era un altro: se anche lui si fosse dimostrato pronto a lasciare per sempre la sua compagna, io probabilmente non avrei avuto il coraggio di sorridergli, non sarei stata capace di dirgli, felice, “ora tutto è perfetto. Ora tutto è a posto”.
Feci per sporgermi un poco oltre la balaustra, osservando un gruppo di miei coetanei intenti a tornare dentro l’edificio, ma quando anche loro furono fuori portata tornai indietro con tutto il corpo, lasciandomi cadere seduta a terra. Il pavimento era duro, freddo, ed il fatto che non mi fossi portata la giacca non faceva altro che sottolineare la totale agitazione che mi prendeva quando Emanuele era nei paraggi. Bastava lui e ogni cosa andava in pappa, nel mio cervello. Le mille considerazioni – giuste – che facevo quando ero sola parevano non avere il minimo senso se lui mi si avvicinava. Era sempre stato così, e, lo sapevo, così sarebbe sempre stato.
Piano, neanche avessi paura che qualcuno potesse sentirmi, presi ad intonare un ritornello a bassa voce, dondolando di tanto in tanto il capo a ritmo della musica che, solo nella mia testa, suonava una melodia lenta e dolcissima. Nel corso di quelle vacanze non avevo perso tutto il mio tempo a pensare a lui. O meglio, non tutti i miei pensieri avevano trovato sfogo nel pianto o nell’auto compatimento. Mi ero espressa anche in altre forme, come per iscritto, e alla fine ero approdata ad una trasposizione melodica delle mie congetture. Dei miei sentimenti.
E allora, celato con molta probabilità dal suono della mia voce che via via si era fatta sempre più sicura, la più grande delle mie paure venne nuovamente a bussare alla mia porta.
«…hai già scritto le note di questa melodia?»
Quasi sussultai a sentirlo ma, chiudendo gli occhi, rimasi nella stessa posizione cercando addirittura di ignorarlo, per quello che potevo. Mi strinsi nelle spalle, scuotendo la testa con energia. No, non avevo scritto nessuna melodia, ce l’avevo solo in testa.
«A sentire le parole, sembra molto bella.» continuò «Se scrivessi le note in modo sbagliato, rischierebbe di perdere molto.»
Fece una pausa, qui, e mentre il rumore dei suoi passi cessava del tutto, seppi per certo di averlo a pochi centimetri da me, alle spalle. Sentivo il suo profumo, quel persistente e fortissimo profumo di lavanda.
«Io…potrei aiutarti a fare in modo che questo non accada.»
«E sei qui solo per questo? Solo per dirmi che sei pronto a darmi una mano nel caso volessi cimentarmi in…»
«Sono qui, con un pretesto tanto blando, solo perché tu non mi dai altre opportunità per avvicinarti decentemente.»
Abbassando il capo corrugai la fronte, capendo perfettamente il suo punto di vista, nonché la sua solita, innegabile frustrazione. Ero sempre io a dettare le regole del nostro rapporto, lo avevo fatto sin dal principio, perfino quando eravamo nient’altro che amici, ma me ne rendevo conto solo ora. In un baleno, neanche un serpente mi avesse morso, mi voltai verso di lui, incontrando i suoi occhi grigi. Aveva uno sguardo fermo, pieno di tristezza. E tutto per colpa mia.
«Cosa vuoi, Emanuele?» domandai, pregandolo di fare in fretta, pregandolo di non tirarla per le lunghe. Stare soli, in un posto isolato, poteva essere dannoso per me tanto quanto lo era per lui. Poteva ucciderci entrambi. «Credevo ci fossimo chiariti.»
«Ah, quello lo chiami chiarirsi?»
«…sono stata sbrigativa, magari, ma sì, ti ho esposto il mio punto di vista con chiarezza.»
«No, tu ti sei limitata a darmi ordini, come al solito. Non mi hai spiegato un accidenti, Angela.»
Capii subito che lì, ovviamente, c’era lo zampino di Sebastiano. All’apparenza non gli aveva raccontato il vero motivo per cui lo avessi lasciato così su due piedi, tuttavia aveva fatto in modo di mettergli almeno la pulce nell’orecchio. Lo ringraziai mentalmente, per una volta indirizzando verso di lui mille ed orribili maledizioni.
«Dimmi cosa c’è che non va. Adesso.» sibilò Emmy, stringendo i pugni lungo i fianchi «Dimmelo.»
Alzai il mento, sfidandolo, sicura sul fatto che mai e poi mai gli avrei parlato della mia malattia.
«Alla fine della scuola partirò per Yale.»
Non stavo mentendo. Stavo dicendo la verità. Al massimo, se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, stavo omettendo alcuni aspetti di quella mia dannata realtà.
«Per questo ho deciso di smetterla. Trovo non sia giusto continuare a darti false speranze. Stavi cominciando a pensare che io potessi essere…qualcosa di più, per te, e non è così.»
«Ah no?»
«No.»
Lo sentii ridere, però seppi sin dal principio che quella risata aveva ben poco di allegro. A breve avrebbe perso le staffe ed io, unica spettatrice di quello straordinario spettacolo, avrei goduto di un posto in prima fila. Mi preparai alle sue urla, certa che mi avrebbe distrutta da un attimo all’altro.
Quando protese le sue mani verso di me chiusi d’istinto gli occhi e mi drizzai tutta… Ma al posto di un’ipotetica sberla arrivò una carezza, e al posto di un giusto scatto d’ira mi guadagnai un abbraccio.
«…non ti chiederò di tornare ad essere la mia amante.» disse in un baleno lui, stringendomi «Non ti chiederò nemmeno di tornare ad essermi almeno amica.» Prese un respiro profondo e, tremando, aggiunse «Ti chiedo solo di non…commettere l’errore di pensare che per me tu non sei importante. Ti chiedo di non dimenticare che questa parentesi, la nostra parentesi, ha significato tutto per me. Ti chiedo…»
Cosa?
Cos’altro vuoi da me, stupido che non sei altro?
Perché non riesci a lasciarmi andare? Perché ti ostini a corrermi dietro, ben sapendo quale sarà la mia risposta qualsiasi cosa tu dica o faccia? Perché mi obblighi a farti del male, ancora e ancora?
«…ti chiedo di non smettere di amarmi perché io…io non smetterò mai di amare te.»
Inevitabilmente mi sciolsi, scoppiando in lacrime ancora una volta per colpa sua. Di parole non ne avevo, al momento, e anche possedendone non sarei mai stata capace di rispondere adeguatamente a ciò che lui, da solo, aveva saputo dire. Ora non avevo scampo, né dai suoi sentimenti né dai miei stessi. Ovunque andassi continuavo a sbattere contro all’ineluttabile sincerità del nostro amore. Potevo dimenarmi, urlare, fingere che non mi importasse nulla di tutto ma avrei perso tempo e, cosa ben più importante, avrei solo detto bugie su bugie.
«Ti amo.»
«Sme…Smettila…»
«Io ti amo, Angela.»
«…per favore, no…»
«Ti amo e voglio stare con te. Non con Alessia, ma con te.»
Scossi nuovamente il capo, anche se stavolta la cosa mi venne con meno enfasi di prima. Le forze mi avevano abbandonata. Me ne stavo lì, fra le sue braccia, inerme quasi quanto avrebbe potuto esserlo una bambola.
«E, scusa, ma non sono più disposto a perdere tempo così. Abbiamo ancora qualche mese da passare insieme e voglio godermeli. Voglio dire addio alla persona che ero ieri e dare il benvenuto a quella che sono oggi, grazie a te.»
Piano, con una lentezza pari a quella di una lumaca, finii col cingere le sue spalle usando le mie braccia, tremanti ed insicure. Mi strinsi a lui, posando il capo poco distante dal suo collo, inebriandomi della sua essenza. Mi resi conto del fatto che mi era mancato, che quelle parole avevano il dolce sapore di una cura per la mia anima, che l’amore che affiorava dal mio cuore era pari e addirittura inferiore a quello che scaturiva dal suo.
«Cosa…» cercai di parlare, di tirare fuori le parole dalla mia gola raschiandola a fondo, dolorosamente «Cosa facciamo allora?»
«Facciamo?»
Siccome rise mi staccai un secondo, guardandolo perplessa negli occhi. Come capendo il mio dubbio, Emanuele si strinse nelle spalle, donandomi un bellissimo sorriso prima di accarezzarmi una guancia.
«Scusa, è che non sono abituato a sentirti dire “noi”. Di solito ti carichi tutto addosso senza neanche chiedere aiuto…»
«Forse lo faccio perché non credo che qualcuno abbia voglia di aiutarmi.»
Lui scosse la testa, dandomi un piccolo colpetto sulla fronte con l’indice.
«Ed è proprio lì che ti sbagli, sciocchina!» esclamò, calmo «Pur di vederti felice io potrei sacrificare me stesso, figurati se non ti aiuto.»
«Ci sono cose che nemmeno tu potresti risolvere, temo.»
 

***

 
Per il resto della giornata, pur rimanendo dell’idea che fosse folle da parte nostra persistere nella ricerca di una vita – o di qualcosa di simile – insieme, mi ritrovai del tutto prigioniera del grande piano di Emanuele: aveva già pensato a tutto, si era messo in pace con se stesso e aveva deciso di lasciare definitivamente Alessia…per me.
Una volta finita scuola, camminandogli a fianco in compagnia di Sebastiano, tentai ancora di fargli notare che poteva evitare di arrivare a tanto se lo stava facendo solo per me, ma lui non ne volle sapere e, spalleggiato dall’amico, ebbe modo di zittirmi.
Non potevo farci niente, insomma. Con le mie azioni ero riuscita a far innamorare il ragazzo dei miei sogni di me, e ora che avevo dinanzi l’opportunità di renderlo tutto mio, avevo paura di aver commesso un errore gigantesco. Un errore che possedeva tutte le capacità di rovinarci per sempre.
Insieme arrivammo fino al parco della città e, seduti sulla prima panchina libera, cominciammo a parlare del più e del meno, quasi dimentichi dei propositi che l’anno nuovo aveva portato al nostro testone di fiducia. Avevamo tanto da raccontarci, tanto da tirare fuori per rimediare a quei mesi passati ad ignorarci o, se vogliamo, a vederci senza dire nulla più di un qualche “ciao, come va?”.
In fondo eravamo sempre noi tre, i migliori amici per eccellenza, e se anche l’equilibrio che una volta ci univa era venuto meno, adesso qualcosa ci faceva presagire una ripresa netta.
«Quindi a quando il tuo funerale, Emmy?» domandò ad un certo punto Seb, costringendoci entrambi a voltarci verso di lui. Lo guardammo ridere di gusto, sfregando le mani l’una con l’altra per riuscire a scaldarle.
«…scusa ma non ti seguo.»
«Oh, andiamo, sappiamo entrambi che quando Alessia scoprirà che cosa hai fatto e che per di più la vuoi lasciare, non ci saranno santi che tengano.» toccò a lui guardarlo «Ti ammazzerà di botte.»
Io che ero in mezzo a loro due, abbassai lo sguardo e corrugai la fronte, ricordandomi solo ora del pessimo carattere di quella ragazza. Non avevo mai parlato a lungo con lei – complici la mia gelosia nonché l’assoluta convinzione di non starle nemmeno tanto simpatica, a prescindere dal fatto che avesse capito cosa provavo per il suo fidanzato o meno – ma non ero nuova alle litigate che si faceva saltuariamente con Emanuele: di tanto in tanto, io e Sebastiano lo vedevamo arrivare con un occhio nero, un bernoccolo o comunque con svariati lividi e graffi su tutto il corpo, e questo non per via di una qualche mancanza di attenzione durante un gioco o addirittura un rapporto fisico fra di loro, bensì come frutto dell’ira di lei per una qualsivoglia azione stupida del nostro compagno. Spesso ne avevamo riso, però stavolta era diverso.
«So difendermi, non è la prima volta che mi malmena.»
«Vanne fiero, mi raccomando…»
«…quello che intendo dire è che sì, sono consapevole del fatto che non la passerò di certo liscia con una come Alessia. So di aver sbagliato ad aver portato avanti un’altra relazione mentre stavo con lei, e so anche che non mi perdonerà tanto facilmente una simile avventatezza…però non posso continuare a mentire a me stesso.»
Qui, con mia totale sorpresa, cinse le mie spalle con un braccio e mi avvicinò a sé, stringendomi forte. Non aveva mai fatto una cosa del genere così, alla luce del Sole, senza che ci fosse un valido motivo, almeno ai tempi in cui potevamo considerarci solo amici, che gli avrebbe permesso poi di spiegarsi di fronte alla sua effettiva ragazza.
Fu da un gesto tanto semplice e carino che compresi e soppesai il suo livello di sicurezza.
«Amo Angela. Questo è quanto.» continuò «E lei potrà picchiarmi, insultarmi ed odiarmi quanto vuole, ma questo non può cambiare. Mi prenderò le mie responsabilità e poi…»
Guardandomi mi sorrise, alzandomi il mento con una mano prima di baciarmi con infinita dolcezza.
«…poi mi godrò il resto dell’anno assieme alla persona che mi piace.»
Presa alla sprovvista com’ero, l’unica cosa che riuscii a fare fu quella di arrossire di botto, senza contegno alcuno. Non ero abituata a quel viso certo, a quegli occhi pieni solo di affetto indirizzato niente popò di meno che a me, né tanto meno mi sarei mai raccapezzata su quanto fosse bello stargli vicino a quel modo, senza paura di essere scoperti da un momento all’altro.
Feci una smorfia stranissima, fra il dubbioso ed il felice, causando lo scoppio di una risata fragorosa non solo da parte di colui che più mi stava a cuore, ma anche di Sebastiano stesso.
In un baleno, sentendomi più piccola di quello che non ero in realtà, appoggiai la fronte al petto d’Emanuele e nascosi per dei lunghissimi istanti il mio viso a chicchessia. Non volevo farmi vedere ridotta così, non potevo ancora permettermi di lasciar trapelare neanche una piccolissima parte della enorme, sprizzante gioia che mi stava scavando il petto.
Ero felice, sì. Felice più di quanto avrei mai creduto possibile, ma non ancora al sicuro.
Ancora non avevo capito se lui avesse intenzione di parlare con Alessia quella sera o magari il giorno seguente, a scuola, e per quanto sperassi che si risolvesse tutto al più presto sapevo anche che una simile faccenda non la si poteva dimenticare da un giorno all’altro.
Piano, inconsciamente, strinsi le mani sulla giaccia del mio amato, guadagnandomi un abbraccio subito dopo. Emanuele capiva come mi sentivo, lo capiva e voleva darmi conforto.
 

***

 
Sarebbe forse inutile, per me, stare qui ora a descrivere il mio stato d’animo quella stessa sera. Aggirandomi per casa come un’anima in pena ebbi modo di constatare quanto fosse difficile, per qualcuno di tanto ansioso, l’aspettare l’arrivo di buone/cattive notizie. Avevo a disposizione una mente talmente tanto fervida di immaginazione, che già mi vedevo messa da parte in una ipotetica scenetta amorosa fra quello che era un Emanuele del tutto pentito ed una Alessia assai trionfante. Per un pessimo quarto d’ora non ci furono limiti alla mia fantasia, e proprio quando le supposizioni si erano sprecate, il mio cellulare prese a vibrare con non poca foga sulla superficie legnosa della mia scrivania.
Lo fissai per dei minuti interminabili anche quando smise di muoversi. Sul display era comparso il suo nome, lo avevo letto. Mi aveva inviato un messaggio.
Velocemente alzai gli occhi sul muro e, controllando l’ora, mi accertai di non essere arrivata alla mezzanotte senza che me ne rendessi vagamente conto: in quel caso, magari, la vibrazione del mio telefono si sarebbe potuta ricondurre ad una non specifica allucinazione dovuta all’ora tarda e all’ansia. Chiarito però il concetto – erano solo le undici – presi un respiro profondo e mi accinsi a leggere il contenuto, brevissimo, di quell’sms.
Chiamami.
Annuii da sola, neanche avessi conosciuto sin da principio ciò che ci sarebbe stato scritto nel messaggio.
Digitando il numero cominciai a battere le dita sul libro aperto di filosofia, graffiando con non poco fastidio le pagine di quel tomo da duecento-duecentocinquanta pagine.
«Pronto?»
«…ciao, sono io.»
Lui fece una pausa e qui, pur non potendolo vedere, capii che stava facendo qualcosa che gli occupava gran parte della propria già limitata attenzione.
Sospirai.
«È andata così male?» chiesi, passandomi la mano fra i capelli.
«Beh, bene non è andata sicuro.» rispose lui.
Cominciai davvero a sudare freddo arrivata a questo punto. Non sapevo più se mi avesse chiamata per dirmi che potevo smetterla di mangiarmi le mani o, piuttosto, per dare soddisfazione alle fantasie che mi ero creata da sola nelle ultime sette ore.
«Se non parli dovrò iniziare a spaventarmi…»
Finalmente rise.
«Non preoccuparti, Alessia non ha intenzione di venire a casa tua per darti fuoco.»
«…ad essere sinceri non avevo neanche mai pensato ad una simile opzione, ma…grazie per avermene dato modo. Sei il migliore quando si tratta di tirare su il morale alla gente.»
Un’altra risatina e, per fortuna, mi misi il cuore in pace.
Stava bene.
Stavamobene.
«Vuoi che ti racconti di che cosa abbiamo discusso?»
Gli dissi che mi avrebbe fatto piacere saperlo e insieme, io sdraiata sul mio letto e lui nel suo, cominciammo a parlare, a parlare e a parlare ancora. Vorrei essere in grado di ricordare con esattezza su che cosa vertesse la nostra chiacchierata – oltre che sul tema “l’ho lasciata dicendole…” – ma nemmeno io saprei dirlo con precisione: so solo che in quelle ore mi sentii libera, libera da ogni pensiero o dolore, libera dalla paura, libera da tutto.
Ancora una volta, senza però l’ausilio del sesso, c’eravamo solo io e lui.
 

***

 
«Ci vediamo domani, allora.»
«Sì, a domani.»
«…»
«Cosa…?»
«…ti amo.»
Sorrisi. Ormai ci aveva preso gusto a dirlo.
«Ti amo anche io.»



La voce dell'Autrice: Allora... Non so bene che cosa dire qui. I ringraziamenti vorrei farli più avanti, quindi cercherò di riempire questo spazio con dell'altro.
Questo è stato un viaggio decisamente lungo. Non so perché, ma ci impiegato molto a mettere insieme le parole ed i pensieri giusti per scrivere ogni capitolo di questa long-fic. Anzi, forse non sono poi neanche tanto all'oscuro su questo: in fondo non è mai facile raccontare una storia d'amore, neanche quando i personaggi li conosci bene, quasi meglio di quanto conosci te stessa. Le alternative diventano innumerevoli con racconti simili, puoi scegliere di prendere una strada invece che un'altra e, alla fine, non sai mai se hai deciso per quella giusta. Io, qui, ho preso le mie decisioni, ho fatto le mie scelte, e se anche so per certo che non tutti si saranno trovati a loro agio con un finale tanto blando, non posso che mettermi l'anima in pace.
Diamine, ne han passate di tutti i colori! Lasciamoli respirare almeno fino a che non avrò ideato un seguito... Ups. Spoiler ;D Assolutamente voluto
Beh. Per il momento basta.
Adios amigos!

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Capitolo 13
*** L'amore ha davvero definizione? ***


Epilogo: L’amore ha davvero definizione?



Ancora non so dare un senso all’amore, guardandomi indietro e ripercorrendo i giorni che hanno reso la mia vita “interessante”. Innumerevoli volte ci ho provato e, altrettante innumerevoli volte ho finito col fallire miseramente, partendo piena di buoni propositi ed arrivando a traguardo senza neanche il ricordo di ciò che mi aveva spinta a trovargli una definizione.
Credo davvero che l’amore sia troppo grande, troppo complicato per essere descritto con una manciata di belle parole. Quando te lo senti lì, nel petto, a riempirti cuore ed anima, sono ben poche le cose che puoi fare per cercare almeno di dargli un freno, quel tanto che basta per mettere bene in chiaro che cosa ti sta succedendo.
All’inizio di questo viaggio ho cercato in qualche modo di ricordare la prima volta che ho posato gli occhi sul mio amore, rivivendo all’istante la folle sensazione che mi diede anche solo incrociare il suo sguardo.
Mi aveva rapita con una singola occhiata, e mi aveva rubato il cuore con un piccolo sorriso.
Un colpo di fulmine. Ecco come era cominciato tutto.
O, per lo meno, lo fu per me.
Perfino oggi Emanuele appare restio a rivelarmi quale fu con esattezza la sua prima impressione a mio riguardo, e per quanto io prema per fargli sputare il rospo lui si ostina a guardarmi prima con aria di sufficienza, poi ridendo e, tutto impettito, finisce con questa risposta: “Segreto”.
 
Amore…
Quale magnifica e portentosa emozione.
Potrei citare uno dei miei musical preferiti e dire semplicemente:
“Chi sa quando l’amore comincia?
Chi sa cosa lo iniziare?
Un giorno e solo lì, instaurato nel tuo cuore.
Scivola nei tuoi pensieri, si impossessa del tuo spirito,
ti prende di sorpresa e ti fa perdere il controllo.
Puoi fare finta di non provarlo, fare finta di non sentirlo,
ma l’amore non ti lascerà andare una volta che ti ha posseduto.
L’amore non muore mai,
l’amore non si arrende,
una volta che ha parlato, l’amore è solo tuo.
L’amore non svanisce,
l’amore non cambia,
il cuore può cedere, ma l’amore no.
Il cuore può cedere, ma l’amore no.”
E anche così, in un certo senso, mi pare di aver detto poco.
Ciò che ho potuto capire, scrivendo queste memorie, è che per quanto io abbia cercato in tutti i modi di fuggire da me stessa e dall’affetto che mi legava ad una persona, alla fine ho dovuto arrendermi e vivere la mia vita per come era stata decisa dal fato.
Ho imparato che quando ci si innamora non si è più in controllo delle proprie azioni.
Ho imparato che l’affetto, così com’è nel suo stadio più puro, può portare gioia quanto rammarico.
…ho imparato che se anche le cose all’inizio sembrano andare solo male, poi tutto si sistema.
 
E per questo, e per mille altri motivi, concludo con un’alzata di spalle, un sorriso, e con la consapevolezza di avervi fatto capire che l’amore non  ha definizione.
L’amore è solo lì, che vi aspetta.
 
Cercatelo.




La voce dell'Autrice: Ringrazio tutti quelli che hanno letto, seguito e recensito la mia storia. Li ringrazio tutti dal più profondo del mio cuore, perché oltre ad avermi dato la carica per continuare questo racconto, mi avete anche resa la persona più felice del mondo. Soprattutto coloro che mi hanno lasciato parole di sostegno e di apprezzamento... Vi ringrazio anche di più!
Alla prossima, gente ♥

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