Jar of Hearts di Sparrowhawk (/viewuser.php?uid=128208)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dimmi cos'è l'amore. ***
Capitolo 2: *** Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto ***
Capitolo 3: *** Perché proprio io? ***
Capitolo 4: *** Questo bivio mi impone di fare una scelta. ***
Capitolo 5: *** Non posso crederci, sono davvero qui. ***
Capitolo 6: *** Sesso ***
Capitolo 7: *** E quindi che cosa sono, io? ***
Capitolo 8: *** Non riesco a decidermi ***
Capitolo 9: *** I sogni si avverano sempre al momento sbagliato ***
Capitolo 10: *** Ti amo ***
Capitolo 11: *** Avrei voluto durasse di più ***
Capitolo 12: *** La musica è il nutrimento dell'anima ***
Capitolo 13: *** L'amore ha davvero definizione? ***
Capitolo 1 *** Dimmi cos'è l'amore. ***
Prologo:
Dimmi cos’è l’amore.
Amore.
Il
mondo pare girare attorno a questo perno.
È
sulla bocca di tutti, è nel cuore di tutti, eppure nessuno,
ma
proprio nessuno,
sa davvero che cosa esso sia.
Affetto,
tenerezza e attaccamento sono solo alcuni dei sinonimi di questa
grandiosa emozione e, per quanto ci forniscano un piano
d’insieme
per cominciare a studiarlo, ancora non riescono a farti intendere per
bene che
cosa è l’amore.
È
troppo grande, no?
Troppo
vario, nella sua interezza, per poter avere delle limitazioni o delle
definizioni.
Noi
ci proviamo ad imbrigliarlo, a capirlo, ma ogni nostro sforzo appare
inutile.
Gli
esseri umani non sono fatti per avere ogni conoscenza e, per quanto
frustrante possa essere, questo è uno di quei misteri che
mai
troveranno una risposta.
Non
una completa comunque.
Ricordo
che una volta mi è stato chiesto che cosa ne pensassi, io,
dell’amore.
In
principio non dissi niente. Rimasi zitta, impassibile, e quando capii
di non avere nulla da dire di preciso alzai le spalle, intrecciando
le dita in una ciocca dei miei lunghi capelli. Faccio sempre
così
quando sono agitata, quando non so come ribattere a qualcosa. Lo
detesto perché, quando succede, mi sento debole ed allo
scoperto.
«Dai,
dovrai pur avere una qualche idea a riguardo.» aveva
continuato il
mio inquisitore, sghignazzando sommessamente di fronte alla mia
apparente ignoranza.
Non
potevo biasimarlo visto che, a quei tempi, non avevo ben chiaro un
concetto tanto difficile - e, a dire il vero, non ce l’ho
chiaro
neanche adesso - e la sola idea di dovermi cimentare in un discorso
così filosofico mi dava quasi la nausea, ma non appena notai
quell’accenno d’ironia nel suo sguardo, qualcosa si
accese in me:
m’infervorai, dimentica del mio indicibile odio verso un
qualcosa
che rende le persone deboli e più inclini
all’infliggere dolore a
qualcuno.
«L’amore
è…» cominciai, fiduciosa della mia
parlantina e sicura di me
stessa.
Dovevo
farcela. Ne andava del mio orgoglio.
«…è…»
Già,
cos’era l’amore per chi, come me e mio fratello,
era frutto di un
rapporto che si basava su tutto meno che su quello?
Io
non potevo rispondere, non potevo perché anche se di certo,
alla mia
età, già mi ero infatuata di qualcuno, non avevo
l’assoluta
certezza di essermi anche innamorata.
Infatuazione
ed innamoramento
sono due cose ben diverse, infondo.
Rimasi
perciò a fissare il vuoto, conscia della mia totale
sconfitta: una
della mia risma non avrebbe mai saputo un fico secco su
quell’argomento. Faceva troppo male, feriva troppa gente, e
io
avevo il terrore di provare dolore.
È
allora che lo vidi.
In
quel preciso istante, il primo giorno del mio primo anno di Liceo,
durante quella che, lo sapevo, si sarebbe rivelata come la
più
noiosa delle mattinate, io vidi l’aspetto
dell’amore
e infine compresi.
Non
puoi definirlo perché non hai più parole, una
volta che ti scontri
con lui.
Non
puoi scriverne, discuterne, non puoi neanche raffigurarlo su carta o
tramutarlo in musica perché non sarà mai come te
lo senti dentro,
nel petto.
E
poi, ora che tutto mi era chiaro, ero anche assolutamente certa di
un’altra cosa: l’amore è soggettivo
poiché è diverso per
ognuno di noi. Anzi, lo è poiché ha sembianze
diverse per ognuno di noi.
Il
mio aveva assunto quelle di un ragazzo alto, di bell’aspetto,
dai
capelli neri e lo sguardo sicuro.
Ma,
forse, potevo riassumerlo anche in un’unica caratteristica:
il mio
amore risiedeva in due occhi grigi, profondi, nei quali mi sarei
persa volentieri fino alla fine dei miei giorni perché,
lì dentro,
riscoprivo me stessa.
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Capitolo 2 *** Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto ***
Uno:
Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto
Mi
ero sempre comportata come se, l’unica persona importante al
mondo,
fossi io.
La
condizione di vita degli altri esseri viventi, per quanto parte
integrante della popolazione mondiale e degni di nota proprio come
me, apparivano ai miei occhi come una sorta di spettri, fantasmi che
avevano il permesso di condividere la mia stessa aria ma che, al
contempo, avevano l’unica regola di starmi il più
lontano
possibile.
Alle
volte ero io a cercare della compagnia.
Mi
aggregavo ad una vecchia cerchia di amici e lì ridevo,
parlavo, mi
comportavo insomma come una normale adolescente. In quei momenti la
me stessa cupa ed asociale tendeva a rintanarsi in un angolo della
mia mente, al freddo, tenendo per sé ogni commento crudele
ed ogni
accenno di sarcasmo.
Ma
quando non ne potevo più del continuo chiacchiericcio degli
altri e
il mio odio verso l’universo raggiungeva vette mai viste
prima,
allora tutto cambiava e quella parte di me veniva fuori
all’istante,
ostacolando ogni individuo ancora prima che avesse tentato di dirmi
anche un semplice ‘ciao’.
Crescendo,
quel mio essere tanto scorbutica, divenne una sorta di religione per
me.
Arrivai
alla soglia dei diciotto anni sentendomi completamente sola, se si
considerava la mia non
appartenenza a nessun gruppo preciso all’interno della mia
classe o
fra i miei coetanei, però ero appagata: l’unica
cosa di cui mi
importava era la scrittura, metodo attraverso il quale avevo imparato
ad esprimere le mie idee senza difficoltà e, soprattutto,
senza il
timore che la mia voce non trovasse la forza di uscire dalla bocca.
Quando
scrivevo ero forte, implacabile, ed ogni parola si imprimeva come a
fuoco sulla carta, rimanendo indelebile per i giorni, forse perfino
per i secoli, a venire.
Ero
felice a questo pensiero, perché così una parte
di me avrebbe
continuato a vivere anche quando io, come è ovvio, non ci
fossi
stata più.
Inutile
dire che, la lettura, fosse subito al secondo posto nella mia
classifica di gradimento su ‘le cose che mi piace
fare’.
Anche
lì, sfogliando le pagine di un tomo pesante tanto quanto un
mattone,
mi chiudevo nel mio mondo senza permettere ad anima viva di
intromettervisi.
Là,
nella mia testa, immersa fino al collo nelle profondità
della mia
stessa fantasia, l’impressione che tutto fosse perfetto non
mi
abbandonava mai.
Era
un sogno.
«Te
lo avevo detto che l’avremmo trovata a leggere.»
…peccato
che, dai sogni, bisogna pur sempre svegliarsi.
Alzai
lo sguardo piano, lentamente, ponderando ogni movimento con estrema
accuratezza ed imprimendo nei miei occhi una sorta di luce fredda ed
annoiata poiché, figuriamoci, già sapevo chi
aveva osato
interrompere la mia beneamata pausa.
Non
biasimavo tanto uno dei due personaggi che si erano messi proprio di
fronte a me, togliendomi la flebile luce del sole e mettendomi
all’ombra nel grande cortile della scuola. Sapevo che era
stato
trascinato suo malgrado dal tifone che, entrambi, avevamo la sfortuna
di chiamare amico, ma, pur pensandolo, non mi astenni dal proferire
queste precise parole:
«Non
avete niente altro da fare che andare in giro a tormentare delle
povere anime pie come me?»
Detestavo
essere interrotta così, senza motivo alcuno.
E,
credetemi quando ve lo dico, ero praticamente
certa
che non ci fosse un valido motivo dietro a quell’interruzione.
«No.»
rispose il primo che aveva parlato, alzando le spalle «Che
cosa
leggi?»
Chiusi
il mio libro con un tonfo, riducendo gli occhi a due fessure.
«Non
dirmi che sei venuto qui fuori, al freddo, portandoti dietro
Sebastiano, solo per chiedermi cosa sto leggendo!»
«Ok,
non te lo dico.»
«Seriamente?!»
«Che
c’è?» sbottò lui, alzando le
mani come a volersi discolpare
«Sono stufo di tutte quelle ragazzine che mi girano intorno
come api
attratte dal miele, dovevo pur fare qualcosa!»
«E
perché quel qualcosa
deve comprendere l’infastidire me?»
«Forse
è il tuo charme.»
«Emanuele,
te lo ha mai detto nessuno che sei insopportabile?»
«E
a te lo ha mai detto nessuno che quando ti arrabbi sei assolutamente
adorabile?»
Arrivati
a questo punto, io mi fermai, vinta come al solito da quelle sue
stupide uscite: non avevo mai delle certezze con lui e, per quanto mi
ci impegnassi, non riuscivo a capire se quando diceva quelle cose era
perché le pensava veramente o perché mi vedeva
come una delle
tante, come una delle fan che cadevano a terra con gli occhi ridotti
a cuoricini per una sciocchezza che all’apparenza
poteva sembrare un complimento.
Presi
a fissarlo con insistenza, serissima.
Solo
quel ragazzo, nella sua infinita spavalderia, riusciva a darmi del
filo da torcere.
«Ora
che il nostro bel dibattito è finito…»
continuò Emanuele,
sistemandosi al mio fianco sulla panchina ed ignorando volutamente il
mio sguardo di fuoco «…mi piacerebbe che tu
rispondessi alla mia
domanda.»
Io
sospirai e mi allungai sul tavolo in legno di fronte a me, uno dei
tanti sparsi per il cortile che, nei pomeriggi, quando faceva
più
caldo, usavamo per mangiarci sopra. Presi a guardarmi la punta delle
dita delle mani come assorta, cercando dentro di me la forza di
sostenere un altro inutile discorso con lui.
Era
così evidente che stava lì solo per sfuggire a lei
e non certo per un manipolo di galline che, di solito, o ignorava o
premiava con occhiatine dolci. Magari avevano litigato e non aveva
voglia di vederla. Poteva essere, visto che non è che il
loro
rapporto fosse tutto rose e fiori.
«…I
racconti di Earthsea.» dissi infine, imprimendo poca gioia in
quella
risposta nonostante fossi stata entusiasta di quel libro da quando lo
avevo comprato «Lo conosci?»
«Ne
ho sentito parlare.»
«…vuoi
che te lo presti?»
«Assolutamente
no, figurati se mi metto a leggere un libro del genere! Ho altro da
fare, io!»
In
quel momento lo avrei preso a randellate ma, per mia enorme, enorme
fortuna, c’era con noi un terzo personaggio che, come suo
solito,
aveva la facoltà di intervenire quando era più
giusto farlo.
«Ehi,
è il libro da cui hanno tratto il film che ti piace tanto?
Sì, dai,
quello di…di Goro Miyazaki.»
Sorrisi
teneramente a Sebastiano mentre, alzando la testa, mi voltavo verso
di lui.
Come
gli volevo bene.
La
sua presenza aveva per me lo stesso effetto della camomilla o di un
cuscinetto salvavita: nel caso della camomilla, mi calmava, in quello
del cuscinetto salvavita, mi impediva di ammazzare Emanuele quando
l’impulso si faceva più che pressante.
«Esatto.»
mormorai, tornando improvvisamente più vivace.
«Me
lo hai fatto vedere a casa tua l’anno scorso, se non sbaglio.
Mi
era molto piaciuto.»
«Carino,
vero?» ecco, adesso ero del tutto rianimata, una nuova luce
mi
riempiva gli occhioni scuri. Succedeva sempre così quando
avevo la
fortuna di incontrare qualcuno che la pensava come me su un film, un
libro o qualsiasi altra cosa di cui mi intendessi «Pensa che
qui,
nel capitolo che sto leggendo ora, si scoprono le origi di
Sparviere!»
«Adoravi
quell’uomo! Mi hai fatto una testa così per tutta
la sera.»
«Momento,
momento, momento…»
Entrambi
ci girammo a fissare il nostro amico che, per via del nostro
entusiasmo, era stato tagliato fuori dalla conversazione nel giro di
pochi attimi.
Aveva
la fronte corrugata, lo sguardo torvo, e forse potevo scorgere una
punta di dissenso sul suo viso.
«…quando
è successa questa cosa?»
Noi
due non rispondemmo di fronte a quella domanda tanto criptica.
Quando
era successo cosa?
«Quand’è
che vi siete incontrati a vedere un film di sera?»
«Un
anno fa, l’ho ben detto.» esclamò
Sebastiano, stringendosi nelle
spalle.
«E
come mai io non c’ero?»
«Guarda
che ti ho chiamato» mugugnai io, incrociando le braccia al
petto
mentre mi chiedevo ancora come mai avesse quell’espressione
addosso
«sei tu che non sei voluto venire. ‘Un
film troppo noioso, per me’,
ricordi?»
«Io
non ricordo niente.»
«Beh,
è così che è andata.»
«Potevi
insistere di più, così sarei venuto.»
«Io
ho
insistito visto che mi
avevi promesso
che saresti venuto.»
Zittendosi
– non credete, rimarrà zitto solo per qualche
secondo, il tempo di
non
pensare e dire la prima gastroneria che gli viene in mente –,
Emanuele appoggiò il mento ai palmi aperti, sbuffando
sonoramente.
«…secondo
me ho ragione io, non ti sei impegnata, e questo perché in
realtà
volevi stare sola con Sebbolo.»
Probabilmente,
sia io che il diretto interessato sgranammo gli occhi increduli.
«Come,
scusa?» domandammo, all’unisono.
Non
potevo parlare per Sebastiano, ma personalmente trovavo alquanto
stupida quell’affermazione: era vero, il fatto che lui fosse
di
colore come me – ok, io sono sul caffelatte, ma è
uguale – e
che, quindi, mi comprendesse decisamente meglio di quanto avrebbe
potuto fare chiunque altro per certi versi, lo rendeva il migliore
degli amici che avrei mai potuto sperare di avere; mi metteva a mio
agio, insomma, però la cosa finiva lì.
Arrivare
a pensare che avessi voluto qualcosa di più dal nostro
rapporto
era…strano.
Non
dico impossibile, solo strano.
«Hai
capito bene.»
Oh,
sul fatto che avessi capito non c’erano dubbi, il punto era
che
preferivo sostenere il contrario pur di non dovermi far scoppiare un
embolo per colpa sua.
Respirai
a fondo, stringendo le mani in due pugni.
«Stai…»
al primo colpo non riuscii neanche a dirlo, tanto mi risultava
assurdo «Stai insinuando che io ti abbia volutamente
tenuto lontano quella sera – cosa che sappiamo non essere
vera –
solo per stare sola con il mio amore segreto, ovvero
Sebastiano?»
L’altro
annuì, fischiettando.
Non
gli importava ciò che pensavo io, ormai si era convinto
della
veridicità dei suoi pensieri e questo, lo sapevano tutti,
equivaleva
al rendere vano ogni tentativo esterno di fargli capire il contrario.
«…sei
un vero cretino.» sibilai, alzandomi di scatto in piedi ed
allontanandomi da lui.
Camminai
speditamente, senza voltarmi, salendo le scale e chiudendomi in bagno
per un periodo di tempo che apparve infinito mentre, con la mano
premuta sul petto, laddove batteva il cuore, e l’altra
stretta al
mio libro, cercavo di recuperare il fiato che stava svanendo per via
della tachicardia. I sensi avrebbero potuto abbandonarmi da un
momento all’altro ma io, con le lacrime a rigarmi il volto,
mi
aggrappai con tutta la forza che avevo al mio orgoglio: non sarei
svenuta per una cosa del genere, non avrei permesso a quelle crudeli
eppure ignare parole di ferirmi più di quanto già
non facesse la
sua sola esistenza.
Il
mio problema al cuore, infondo, era complicato ma non invincibile.
Tornando
in classe, qualche minuto dopo il suono della campanella, mi sorbii
le parole piene d’ira del professore senza fiatare, la mente
piena
solo di domande circa la ramanzina che, ne ero certa, Sebastiano
aveva sottoposto ad Emanuele.
Mi
chiesi cosa gli avesse detto, come lo avesse rimproverato, e me lo
domandai con ancora più insistenza quando lo sciocco venne a
parlarmi poco prima della fine dell’ultima ora. Avevamo avuto
ginnastica, entrambi stavamo in divisa, e siccome ero stata
incastrata a mettere via del materiale lui si era fermato per darmi
una mano, imponendosi come seconda scelta all’insegnante.
Per
un po’ rimanemmo in silenzio, come sempre dopo che avevamo
litigato, ma quando questo divenne insopportabile si decise a dire
ciò che doveva, omettendo ovviamente la parte che
più mi
interessava sentire.
«Quel
film…» disse «…lo voglio
vedere anche io.»
Non
si scusò, quindi, però non ne ero sorpresa.
Uno
così non si sarebbe scusato mai, neanche di fronte
all’evidenza
delle sue cattive azioni.
«Noleggiatelo.»
E
io non avrei mai lasciato correre questa sua mancanza, atteggiandomi
a dura quando invece dentro ero molle quanto un budino.
«Voglio
vedere proprio il tuo dvd, guarda il caso.»
«Ma
davvero…?»
Sarcasmo.
Una
delle mie armi migliori.
Lo
sentii sbuffare e, nonostante non potessi vederlo in faccia, ne
sorrisi. Era sempre bello sapere di averlo offeso e/o infastidito.
Suvvia,
non guardatemi male, per lui era lo stesso!
«Sai
bene cosa sto cercando di fare.»
«Per
saperlo lo so, ma purtroppo non lo stai facendo come si deve ed io
non ti capisco.»
Bisognava
sempre spingerlo contro il muro, a quello, altrimenti col cavolo che
diceva addio alla sua corazza di robot senza cuore cercando di venire
incontro a quelle che erano le tue di esigenze.
Emise
un altro piccolo sbuffo e poi, appoggiandosi allo stipite della
porta, mise le mani in tasca prima di ricominciare a parlare. Iridi
grigie incontrarono iridi marroni e allora, solo allora, percepii con
distinzione il peso dei miei sentimenti verso di lui.
Pur
non meritandoselo affatto, avrei continuato a perdonargli ogni torto,
sempre, rimanendogli accanto come l’amica che mi vantavo di
essere
ma che, nella realtà dei fatti, risultava essere la peggiore
delle
mie mascherate. Questo non perché non fossi brava a mentire
a me
stessa e agli altri, fingendomi totalmente disinteressata nei suoi
confronti, piuttosto perché vivere vicino a quel ragazzo
come
semplice amica mi metteva sempre nella condizione di doverlo vedere
mentre se ne andava con un’altra.
Una
persona che non ero io.
Una
persona che non sarei mai stata io.
«…guardiamo
quel film stasera, a casa tua.» disse alla fine.
«Non
ho altra scelta?»
Scosse
il capo.
«Chiamerò
Seb-»
«No.
Niente Sebbolo.» aveva una voce calma, vellutata, e in cuor
mio
sapevo che era lo stesso tono che usava quando voleva abbindolare
qualcuna delle sue fangirl «Solo…io e
te.»
Corrugai
la fronte.
«Niente
cuscinetto salva vita?»
«…che?»
«Cioè,
volevo dire…» con le dita attorcigliate ad una
ciocca di capelli,
arrossii appena per via della mia stessa gaffe. Nessuno oltre a me
sapeva di quel ‘soprannome’ per quanto anche un
beota, a conti
fatti, avrebbe potuto capire a chi mi riferissi esattamente.
«Solo
io e te?»
«Sì.»
«…a
che ora?»
Inutile
mentire, ero elettrizzata per ciò che sarebbe successo
quella sera:
lo sapevo da me, non era niente di eclatante per due comuni amici,
però per me, quel ‘solo
io e te
’, era una sorta di manna dal cielo, un regalo, un miracolo
che mai
mi sarei aspettata di poter godere. Non stavamo soli da mesi ormai, e
ciò era da ricondurre al fatto che Emanuele, nella sua
infinita
demenza, aveva sempre dato la precedenza alle belle donne piuttosto
che ai suoi amici. E ora, finalmente, dopo tutto quel tempo, avrei
potuto stare di nuovo in sua compagnia.
Avrei
potuto fare finta che esistessimo solo noi, al mondo, inebriandomi
delle sue attenzioni e facendo con lui quella sequela di ironici
commenti che, se sentiti dalle persone che osservavamo nella
televisione, probabilmente avrebbero spinto alla depressione molta
gente ma che avevano la facoltà di farmi ridere un sacco.
Avrei
accettato perfino le sue frecciatine, quella volta, tanta era la mia
gioia.
Nei
camerini feci la doccia e mi cambiai di volata, correndo poi per i
corridoi come se avessi avuto alle calcagna un intero branco di lupi
affamati, digiuni non da giorni, ma da anni.
Farlo
aspettare era fuori discussione.
Ogni
attimo era prezioso. Ogni istante, oro colato.
Correvo,
correvo veloce come mai lo ero stata, ritrovandomi a chiedere scusa
almeno cento volte a persone con cui non mi ero neanche mai
intrattenuta.
Tutto
per la stessa persona che, di lì a breve, mi avrebbe
nuovamente
delusa.
Fu
infatti quando arrivai al piano terra, poco distante
dall’entrata,
che li vidi: Emanuele ed Alessia erano là, fuori dai portoni
aperti
della nostra scuola, a parlare tutti sorridenti di chissà
che mentre
io, a fissarli, recuperavo un poco del fiato perso nella corsa. Li
osservai con un’attenzione chirurgica, studiando sin nei
minimi
dettagli ogni loro espressione, ogni movimento del corpo. Ero brava,
in questo, e non mi sfuggiva mai nulla.
Le
persone per me erano sì dei fantasmi, ma non opachi e senza
forma,
no. Erano fantasmi un poco speciali, che, quando facevo tanto di
avvicinarmi, si tramutavano in una sorta di specchi: in quelle
superfici rilucenti non mi specchiavo io, ma i loro pensieri e
sentimenti.
Io
li guardavo, annuivo, e poi mi allontanavo.
E
lo avrei fatto anche questa volta se non fosse stato per il fatto che
volevo sentirmi dire da lui ciò che già sapevo.
Lasciai
che Alessia se ne andasse prima di affacciarmi all’uscita,
seria in
volto. Emanuele si girò e mi sorrise, gentile, cauto.
«Ho
come la sensazione che tu debba darmi una cattiva notizia.»
esordii
io, ben sapendo che non avrebbe avuto il coraggio di cominciare da
sé.
«Purtroppo
mi sono ricordato di avere un impegno, oggi.»
Bugiardo.
«Non
credo proprio di poter venire da te, per vedere quel film.»
Bugiardo…
«Questo
è un vero peccato, volevo tanto vederlo e passare un
po’ ti tempo
con te!»
Bugiardo,
bugiardo, bugiardo!
«Capisco.
Sarà per la prossima volta.» queste parole
uscirono dalle mie
labbra, le stesse che si stavano stringendo in una smorfia di
trattenuto astio «Ciao.»
Feci
per andarmene, quell’andatura fiera e da valchiria che mi
contraddistingueva a dare un tono alle mie movenze perfino in un
momento in cui, le mie gambe, avrebbero preferito cedere per farmi
accasciare in terra, fra i pianti. Se voleva mentire poteva farlo,
però non poteva credere davvero che io mi bevessi le sue
sciocchezze. Non io, non colei che smascherava sempre tutto e tutti.
Il solo pensarlo gli avrebbe fatto capire di non conoscermi affatto.
«Ehi!»
la sua voce mi fermò, anche se per breve tempo
«Non mi fai nessuna
scenata? Di solito mi salti addosso quando disdico un
appuntamento.»
Di
voltarmi non se ne parlava nemmeno, ma almeno rispondere potevo
farlo.
«…e
perché dovrei? Infondo non è colpa tua se hai
dimenticato un
impegno.» mi morsi un labbro andando avanti «Per
questa volta ti
perdono.»
E,
detto ciò, proseguii per la mia strada, incurante dello
sguardo che
si era posato curioso sulla mia schiena.
La
mano corse ancora al petto, ma stavolta non cominciai ad ansimare.
Se
ne stava lì perché sì, il cuore
batteva con una tale forza da
farmi del male, tuttavia non così tanto da spingermi a
preoccuparmi
per il peggio. Da quando lo conosceva ero stata in quello stato tante
di quelle volte, che ormai avevo perso il conto dei falsi allarmi che
mi avevano portata a credere di stare per morire da un momento
all’altro.
Arrivata
a casa, chiusami la porta alle spalle, mi accasciai con la schiena su
di essa, scivolando piano piano a terra, le ginocchia tenute vicino
al petto.
Quello
era diventato il mio
posticino, l’unico che consideravo come zona neutrale:
lì ero
ancora in tempo a piangere per i dolori della giornata prima di
cominciare con l’altra parte della mia vita,
l’unica che mi desse
una vera e propria soddisfazione; lì ero ancora la fragile
ragazzina
diciottenne perdutamente innamorata della persona sbagliata, e non
una scrittrice di successo, pronta a fare il suo debutto nel
firmamento dei più grandi pensatori di tutti i tempi.
Rannicchiata
così, dunque, formulai il solito, odioso e dannatamente
giusto
pensiero.
“Maledetto
il giorno in cui ti ho conosciuto.”
La voce dell'Autrice: La demenza di Emanuele alle volte mi sconcerta...ma, siccome è un maschio, non posso fare altro che guardarlo dall'alto della mia superiorità di donna e cercare di passare oltre le idiozie che compie. ù.ù
Che poi, non posso biasimarlo. Se anche io fossi un ragazzo fare forse anche di peggio. *COFF COFF*
Aw, mi dispiace per Angela. Non so, è triste. Malata ed innamorata di un pessimo figuro quale quello là! Pessima accoppiata!
Chissà che ne verrà fuori... *come se lei non lo sapesse* |
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Capitolo 3 *** Perché proprio io? ***
Due:
Perché proprio io?
Anche
la musica era sempre stata per me una grande passione.
Sin
da piccola, assieme a mio fratello, mi ero iscritta a tanti di quei
corsi per imparare a suonare un qualsivoglia strumento che, alla fine
delle mie giornate, mi ritrovavo praticamente prosciugata di ogni
energia. Da bambina era semplice seguire tante cose, interessarmi ad
attività sempre diverse. Il tempo pareva costantemente dalla
mia
parte, ed ogni giornata era lunga quanto bastava per permettermi di
darmi da fare e di godermi ogni singolo istante.
La
scuola, gli amici, il ballo e, appunto, la musica.
Purtroppo
non ho mai posseduto la giusta serietà per impegnarmi
seriamente in
ognuna delle cose in cui mi imbarcavo, però mi piaceva
comunque
provare cose sempre diverse, e sperimentare era per me una gioia
continua. Negli anni della mia infanzia provai a suonare il flauto
–
come tutti, credo –, la chitarra ed, infine, il pianoforte.
Ma
mentre mio fratello diventava il migliore sia con uno che con
l’altro, io mi riscoprivo ad amare una cosa in particolare
della
musica.
Certo,
il suono di un piano era così dolce e suadente da farmi
tremare le
ginocchia alle volte, tuttavia c’era qualcosa di ancora
più bello,
per me. Qualcosa che mi mandava in estasi, che mi struggeva e
affascinava di continuo.
Il
canto era la massima espressione dei sentimenti umani, ai miei occhi.
Quando
avevo modo di ascoltare qualcuno che si cimentava in
un’esibizione,
rimanevo totalmente rapita dalla sua voce, bella o brutta che la
trovassi, e questo perché mi pareva talmente coraggiosa
l’idea di
imprimere ogni nostra emozione nella voce che alla fine mi ritrovavo
incapace perfino di applaudire.
Volevo
essere così anche io. Desideravo ardentemente di avere la
possibilità di dire le cose che provavo al mondo, senza il
terrore
di essere derisa o schernita.
Parlare
era sempre stato un arduo compito, per una come me, tanto introversa
e con la testa fra le nuvole, eppure sentivo che perfino io avrei
potuto far capire a tutti chi ero, cantando. In cuor mio sognavo che
sarebbe bastata una canzone, una sola, e allora la mia psiche
turbolenta e piena di incertezza sarebbe stata compresa da chiunque.
Serviva
però la canzone per eccellenza, quella giusta.
Una
melodia lenta, pacata, che sarebbe partita piano solo per finire in
un maestoso crescendo. Le note di un pianoforte avrebbero
accompagnato la mia voce con maestria, senza fallo e senza errori, ed
una calda atmosfera avrebbe avvolto me e gli spettatori, unendo i
nostri cuori e le nostre menti. Improvvisamente io non mi sarei
più
sentita diversa e gli altri, che fino ad allora avevano vissuto con
una miriade di interrogativi a mio riguardo, finalmente avrebbero
trovato le loro risposte.
Avremmo
vinto tutti, insomma.
Era
questo il mio piccolo, ingenuo desiderio.
A
quel tempo mi sembrava la cosa più semplice
dell’universo, ma
crescendo capii che era decisamente più difficile trovare la
canzone
del cuore.
Che
fosse stata creata da me o da un altro, non avrebbe dovuto avere
importanza poiché ciò che contava realmente
sarebbe stato il
sentimento che avrebbe espresso. Doveva parlare di me, del mio animo,
della vita che conducevo e, magari, di ciò che provavo verso
gli
altri.
Ma
più andavo avanti nella mia esistenza e più mi
convincevo che mai
sarei riuscita in quella ricerca: diventavo grande ed il mio cuore si
inaridiva, perdendo la capacità di affascinarsi per ogni
cosa e
anche quella di provare qualcosa di più dello sdegno e del
risentimento.
Alla
fine, compiuti diciotto anni, mi convinsi di non avere più
speranze.
***
«Mi
chiedo che canzoni faranno suonare alla banda quest’anno al
concerto di Natale.»
Emanuele
aveva fissato il proprio sguardo sul paesaggio oltre la finestra
della nostra classe, quella che stava vicino al mio banco. Sia lui
che Sebastiano si erano seduti vicino a me per l’intervallo,
cosa
che facevano senza il mio permesso e senza notare che io, magari,
avevo la necessità di stare da sola.
Davvero,
quei due mi davano un sacco di problemi, ormai la mia vita sociale
era andata allo scatafascio per via del semplice fatto che avevo la
fortuna – chiamala fortuna, per un caso in particolare
– di
essere loro amica: il più delle volte le altre ragazze o non
mi
parlavano o mi lanciavano frecciatine, insinuando cose che, lo avrei
potuto giurare e spergiurare, non avevo neanche mai pensato di fare
proprio
con loro.
Sospirai,
passando con noncuranza gli occhi sulla pagina del mio libro. Ero
talmente abituata alle sue interruzioni che ormai sapevo leggere
anche senza smettere di prestargli attenzione.
«Io
mi chiedo come mai finiscono sempre col chiederti di suonare, al
concerto, quando tutti sanno che non lo farai mai.»
L’altro
sorrise appena, senza però smettere di guardare fuori.
«Perché
sono il migliore, e lo sanno tutti.»
«Ah
beh, mi pare evidente. Come ho potuto non pensarci da
sola…?»
Sebastiano
scoppiò a ridere di fronte alla mia totale insofferenza.
Quando il
nostro caro Emmy
cominciava a lodarsi da solo, io scuotevo il capo e alzavo gli occhi
al cielo, ricordandogli il famoso detto che recita ‘chi si
loda si
imbroda’. Questa volta avevo optato per dell’altro,
ma di certo
la mia nota di pungente sarcasmo non era mancata nel tono che avevo
usato.
«Avrei
giurato che ti chiamassero ogni anno solo perché tu li
supplicavi in
ginocchio di farlo, preso dalla smania di fare colpo su di
noi!»
disse, dandomi di gomito e facendo sorridere anche me
«Sappiamo
tutti che in realtà è questo il vero
motivo.»
«Ma
che spiritoso, il nostro Sebbolo! Davvero, sono basito!
Hahaha.»
«A
me è piaciuta, come battuta.»
«E
certo, tu stai sempre dalla sua parte, figurati…»
Io
non dissi niente, ignorando con estrema disinvoltura quella nuova,
stupida frecciatina. Ancora non si era dato pace, quello,
all’idea
che i suoi due amici potessero avere una tresca. Avevamo tentato in
ogni modo di fargli presente che non c’era assolutamente
nessuna
possibilità, per noi due, di metterci insieme,
però lui non ne
aveva voluto sapere. Era totalmente ignaro del fatto che ci vedessimo
come un fratello ed una sorella, più che come un ragazzo ed
una
ragazza, e gli piaceva rimanere tale.
A
volte è meglio far finta di non vedere le cose che ci stanno
davanti
al naso, e io ero di certo l’ultima a poterlo rimproverare
per
questa decisione.
Fra
i presenti ero la prima a tenere nascoste, perfino a me stessa, tante
piccole verità, sostituendole con bugie che mi rendevano la
vita
decisamente più semplice.
«Ok,
ci hai scoperti.»
Mi
voltai verso Sebastiano con sguardo interrogativo, senza capire cosa
significasse quella risposta alla palese provocazione
d’Emanuele.
«…siamo
follemente innamorati. Angela ed io ci vediamo di nascosto da mesi,
ormai, e durante le lezioni ci rivolgiamo sguardi carichi di parole
non dette, attendendo con estrema difficoltà la
ricreazione.» mi
prese una mano, qui, sbattendo più volte i suoi occhioni
«Non è
vero, pucci
pucci?»
Se
non avessi compreso cosa stava cercando di fare e, soprattutto, se
non fosse stato lui ma un altro esponente della categoria maschile,
probabilmente avrei staccato la mano dalla sua e gli avrei mollato un
ceffone sulla faccia, ma dato che ero sveglia e non mi perdevo mai
l’occasione di prendere in giro Emanuele non feci nulla di
tutto
ciò e bensì giocai al suo stesso gioco. Mi
avvicinai a lui e feci
naso contro naso, ridacchiando mellifluamente.
«Oh,
ma certo, ciccino!»
risposi, senza fare una piega «Le ore che ci separano sono
per me
causa di pena infinita, lo sai.»
«Che
dolce, la mia caramellina!»
«No,
tu sei dolce, zuccherino!»
«No
tu lo sei di più.»
«No,
tu.»
«Tu.»
«Tu.»
Continuammo
così per circa due minuti, trattenendoci a stento dal
ridere,
perfettamente consci che saremmo potuti andare avanti anche delle ore
se l’altro non ci avesse staccati a forza, sbuffando e
lanciando
improperi ad entrambi.
Non
sapevo se gli desse fastidio il nostro essere così affiatati
–
sempre come amici, eh –, ma di certo non disdegnavo quel
genere di
reazioni da parte sua: gli unici attimi in cui sembravo esistere, per
lui, nonostante passassimo insieme gran parte delle nostre giornate,
era quando un altro ragazzo mi si avvicinava. Allora, bofonchiando,
arrivava e liquidava chi mi gironzolava attorno con un paio di
paroline affilate come rasoi, finendo poi col tenermi il muso per un
tempo indefinito, come a volermi fare una colpa di aver anche solo
osato dialogare con qualcuno che non fossero lui o Sebastiano. In
pratica, dovevo avere solo due amici maschi e, se possibile, dovevo
dimostrarmi più affezionata ad uno in particolare dei due,
mentre
all’altro dovevo limitarmi a rispondere cortesemente.
Queste
cose le sapevo, conoscevo bene la sua gelosia senza fine, ed un poco
me ne compiacevo.
«Mi
fate proprio ribrezzo, quando vi comportate così.»
esclamò,
causando l’ennesimo attacco d’ilarità da
parte nostra.
«Se
non vuoi che ci comportiamo così prova a piantarla di dire
stupidaggini, Emmy.»
«Io
non dico stupidaggini…e non chiamarmi Emmy.»
«Le
dici eccome…Emmy.»
Infuriandosi,
cominciò a litigare con l’amico di sempre per
quanto, nelle loro
discussioni, non vi fosse mai niente per cui valesse la pena di
preoccuparsi: erano così uniti, Sebastiano ed Emanuele, che
sapevo
per certo che non si sarebbero mai persi di vista neanche per un
secondo. La loro era una di quelle amicizie che andava avanti per
sempre, stretta, importante, unendoli perfino nelle vite a venire.
Era un rapporto di cui mi piaceva parlare nei miei racconti, che
trascendeva il tempo e lo spazio, impedendo ad ogni fattore esterno
di interporsi fra chi aveva la fortuna di possederlo con un'altra
persona.
Per
un breve lasso di tempo mi persi a contemplarli, rapita da un simile
comportamento – ed anche dal modo in cui Sebbolo riusciva a
dire
Emmy, dando sempre più fastidio al compagno –,
quando,
improvvisamente, nella classe arrivò tutto trafelato un
componente
della banda della scuola.
Sgranai
gli occhi, incredula di fronte a quella coincidenza. Stavamo parlando
di loro solo poco prima!
«Ci
serve una cantante!» strillò il ragazzo, il quale
non era neanche
della nostra sezione «Quella che doveva fare da solista ha la
voce
fuori uso per troppo affaticamento, lo spettacolo è fra tre
settimane ed il dottore le ha impedito di tornare per almeno quattro.
Ci
serve una cantante!»
Alla
fine, il gruppo d’infelici musicisti dovette rifare i provini
da
capo, riducendo il tempo utile a trovarla al minimo storico. Erano
già tutti convinti del fiasco dell’intero concerto
e, perfino io,
che mai mi ero curata della sua riuscita, cominciai a preoccuparmi
seriamente per lo spettacolo. Perché ero sempre impegnata a
pensare
per me, però la musica la amavo e mi sarebbe dispiaciuto non
potermi
godere l’annuale rappresentazione.
Sapevo
che la bacheca nella hall, su cui le candidate scrivevano i propri
nomi, nella speranza di essere prese, si riempiva giorno dopo giorno
di nuovi iscritti però, il che un poco mi rincuorava. Almeno
c’era
dell’interessamento, cosa non sempre presente nelle scuole.
«Come
mai tu non ti iscrivi, Angy?» mi chiese ad un certo punto
Sebastiano, mentre camminavamo tranquilli per i corridoi
dell’istituto «Sei brava a cantare.»
«E
tu che ne sai?»
Nel
domandarlo non potei fare a meno di diventare rossa, abbassando lo
sguardo a terra. Non sapevo come lui sapesse una cosa del genere,
né
sapevo quando mi avesse sentita cantare, ma di certo avevo
già la
risposta pronta per la sua domanda. Mi strinsi nelle spalle e lo
dissi, senza tanti giri di parole.
«…e
comunque non se ne parla. Io non canto con altri che possono
sentirmi.»
«Ma…beh,
una volta sono stato colpito da un momento mistico e sono andato in
chiesa. Ti ho vista, là, sul palco, a cantare.»
E
ti pareva, l’unica volta che davo ascolto alle mie cugine mi
ritrovavo con un compagno a vedermi. È ovvio. Queste cose
succedevano solo a me, dannazione.
Alzai
le spalle, noncurante.
«Mi
avevano costretta a farlo.»
«Ho
capito, ma sei brava.» continuò lui, facendosi
più vicino ed
abbassando pure la voce. Forse aveva intuito il mio imbarazzo.
«Dovresti provare. Almeno fai il provino, se poi non ti
prendono…meglio.»
«No
no.» mormorai, scuotendo forte il capo. «Non posso.
Mi vergogno.
Non ci riesco proprio, giuro.»
Sebastiano
sospirò e, mettendomi una mano sulla nuca, mi
scompigliò
affettuosamente i capelli prima di annuire e posare il braccio sulle
mie spalle.
«Va
bene, allora. Non insisto.»
Gli
fui grata di tanta discrezione e, in particolar modo, gli fui grata
per la sua gentilezza.
Non
mi obbligava mai a fare niente, se non volevo, e anzi tendeva a
darmele sempre vinte. Un poco come Simon, mio fratello.
Ecco
un altro dei motivi per cui, mi dissi, gli avrei voluto bene per
sempre.
Vicino
a lui mi sentivo contenta, ben voluta, totalmente libera da quel
genere di fraintendimenti in cui è facile incorrere quando
si
possiede un’amicizia con una persona del sesso opposto: a
guardarlo, sentivo nel profondo che mai nulla avrebbe potuto
incrinare quel piccolo, importante rapporto che mi ero guadagnata a
fatica dopo tutto quel tempo.
Riuscire
ad avere una persona accanto che non mi suscitasse certe
emozioni era stato un traguardo per me, una sorta di avvenimento
straordinario. Mai nella vita mi ero ritrovata ad avere qualcuno a
cui mi ero talmente affezionata, da considerarlo importante quanto lo
sarebbe stato un parente vero e proprio.
Speravo
davvero che nessuno mi portasse via questa piccola gioia.
Almeno
quella, chi di dovere, avrebbe potuto lasciarmela.
«Chi…chi
può aver fatto una cosa del genere?»
Rannicchiata
a terra, con la testa fra le mani, me ne stavo sul terrazzo della
scuola, continuando a ripetere quella domanda come un disco rotto,
nella speranza che tutto d’un colpo la risposta mi comparisse
cristallina nella testa.
Qualcuno,
in un attacco d’infinita crudeltà – e di
demenza –, mi aveva
iscritta ai provini della banda senza dirmi nulla, impedendomi non
solo di picchiarlo a sangue ma anche mettendomi nella posizione di
doverlo scoprire così, per puro caso, la mattina appena
entrata dal
grande portone dell’edificio.
Alzandomi
dal letto avevo già intuito che sarebbe stata una difficile
giornata, ma non avrei mai potuto credere che sarebbe stato per colpa
di un simile catastrofico avvenimento.
Scossi
il capo, sconcertata.
«È
finita.» dissi ancora «Questa è la fine.
La mia.»
«Suvvia,
non è una cosa tanto grave.»
Emanuele
se ne stava in disparte, le mani in tasca, come suo solito, e pareva
quasi non dare peso a tutta questa faccenda. Ma, ancora una volta,
non me ne stupii molto. Anzi, forse non me ne accorsi neanche, tanto
ero presa da ciò che mi stava accadendo. Avevo sempre saputo
che le
cose diventavano importanti, ai suoi occhi grigi, solo se lo
riguardavano in primis. Se si parlava d’altri perdeva subito
d’interesse.
«Mi
pare che tu stia esagerando. Devi solo cantare, capirai che
difficoltà.»
Non
ebbi la forza di controbattere poiché, in fondo, sapevo
benissimo
che aveva ragione: nessuno mi aveva chiesto di sacrificarmi andando
in pasto ad un grosso drago, non stavo rischiando la vita e non mi
sarei fatta del male se mai – mettiamo il caso – mi
avessero
scelta. Ciononostante avevo come l’impressione di avere una
sorta
di cappio al collo e, quella corda invisibile comparsa dal nulla,
stava minacciando di farmi mancare il respiro da un momento
all’altro.
«Vorrei
solo sapere chi…»
chiesi ancora, sull’orlo di una crisi isterica
«…o perché.»
«Su,
Angy. Adesso respira e…e vedrai che una soluzione la
troveremo.»
Sebastiano
mi prese per mano e mi fece alzare in piedi, dandomi un buffetto con
tutta la carineria che possedeva. Leggevo nel suo sguardo una sorta
di inquietudine, un pensiero che non poteva rivelarmi e che, lo
vedevo, lo stava lentamente divorando.
Avrei
potuto metterlo sotto torchio all’istante, se solo lo avessi
voluto, eppure non lo feci. Ora non ne avevo la forza o, se vogliamo,
non avevo proprio la testa per farlo.
«Non
posso sistemare!» urlai «L’iscrizione non
si può ritirare, lo
capisci?! Sono incastrata! Se anche non mi prendessero comunque
dovrei cantare di fronte alla commissione…e io non ce la
faccio!»
Il
pensiero di lasciarmi andare e scoppiare in pianti era così
pressante da farmi venire il mal di testa, però trattenni un
simile
impulso, cercando tutta la forza che, da qualche parte, tenevo
nascosta per gli attimi più critici.
«Non
voglio cantare. Non voglio stare davanti a tutte quelle persone
a…a
farmi vedere dentro.»
Lo
avevo detto, no?
Arrivata
a quell’età ogni mio desiderio di farmi capire era
svanito,
sormontato piuttosto dal terrore di essere fraintesa. Trovavo
più
facile parlare dietro ad uno pseudonimo piuttosto – come di
fatti
facevo per il mio libro – che affrontare un intero pubblico,
in
attesa o di essere mangiata viva o di essere insultata. La certezza
che le cose sarebbero andate male non me la dava nessuno, ma per
quanto mi ci stessi impegnando non vedevo proprio come la cosa
potesse volgere al meglio per me.
Ero
in trappola.
Dovevo
proseguire per forza, ringraziando il genio che mi aveva cacciata in
quel guaio.
Sospirando,
passai una mano fra i capelli e mi diressi verso la porta, pronta a
prendere le redini del mio destino per quello che mi rimaneva di
decidere: una volta salutati con un cenno del capo Emanuele e
Sebastiano, mi dileguai dietro alla porta, scendendo le scale e
dominando con decisione la mia paura.
Certo,
arrivata di fronte alla porta dell’atrio mi bloccai,
però durò
poco.
Presi
un respiro profondo, entrai, e dopo il mio bell’inchino
cominciai a
cantare la prima canzone che mi venne in mente.
Se
non sbaglio fu Heaven.
La voce dell'Autrice: Chi può essere stato? Chi? Cielo, a mio avviso è una cosa piuttosto ovvia, e siccome confido molto nella vostra dote di investigatori (?) credo che anche voi sappiate bene chi abbia osate compiere un simile atto sconsiderato.
Non ho molto da dire, qui. Al momento ho la testa piena di insulti e, rivelandoli, potrei fare spoiler per i prossimi capitoli. Hehe! XD Quindi sto zitta.
Al solito ringrazio la mia cuginetta - la madre di Emmy e Sebbolo - per avermi permesso di inserirli in questa storia ù.ù Love you, my dear
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Capitolo 4 *** Questo bivio mi impone di fare una scelta. ***
Tre:
Questo bivio mi impone di fare una scelta.
Purtroppo,
io e il coraggio, abbiamo avuto sempre un rapporto alquanto contorto.
Ne possedevo da vendere quando si trattava di lottare per gli altri,
ma quando si arrivava a parlare di me stessa la cosa cambiava ed io
diventavo una pappa molle.
Il
fatto che avessi un carattere debole era sempre stato alquanto ovvio,
a dire il vero, eppure tutti sembravano stupirsi della
facilità con
cui mi arrendevo quando qualcosa o qualcuno mi remava contro,
ponendomi di fronte a problemi che altri, probabilmente, avrebbero
affrontato ad occhi chiusi. La cosa divertente, poi, se così
possiamo definirla, era che tendevo e tendo ancora oggi a crearmi
muri insormontabili anche da sola: non c’è mai
stata una volta,
sin da che ne ho memoria, in cui io non abbia avuto paura del futuro,
paura di fare una qualsiasi mossa, fosse stata essa per andare avanti
o, magari, per tornare indietro.
Il
mondo è sempre stato troppo turbolento, per me, troppo pieno
di cose
che non comprendevo e che mi terrorizzavano.
Quando
calava la notte e mi ritrovavo nel mio letto, sotto le coperte, a
volte venivo colta da tanta di quell’ansia che dormire
diventava
praticamente impossibile. Ero assalita da mille dubbi, da cento
domande, da idee che poi mi rimanevano anche durante il giorno
impedendomi di godermi l’esistenza normale a cui tanto
aspiravo.
Una
delle mie domande preferite era “Perché vivere, se
so che sono
destinata a soffrire, in un modo o nell’altro?”.
Mi
ponevo questo quesito in continuazione, senza sosta, quasi fosse un
mantra.
Inutile
dire che la risposta non riuscivo mai a trovarla e che, il mattino
dopo, mi ritrovavo con due occhiaie spaventose e la prospettiva di
una lunghissima giornataccia a scuola con gente che sorrideva
allegramente mentre io, nella mia infinita stupidità, parevo
essermi
caricata di tutte le disgrazie della Terra.
Non
capivo perché per tutti i miei coetanei, vivere, fosse
semplice,
quando per me era una simile condanna.
Non
capivo perché dovessi pensare così tanto alle
cose, piuttosto che
passarci sopra con la solita noncuranza tipica degli adolescenti.
Non
capivo perché, anche quando tutto e tutti mi venivano
incontro e mi
sostenevano, io mi sentissi in costante apprensione, come in attesa
che qualcosa andasse male per forza di cose.
Così,
anche l’unica volta in cui la mia intera classe mi dava
coraggio
per sostenere una difficile prova, me ne stavo là, in un
angolo, a
cercare di elencare nella mia testa le cose che mi avrebbero
distrutta di lì a poco tempo.
Sapevo
che ce ne stavano tante, me lo sentivo, e chiunque avesse provato a
convincermi del contrario avrebbe ottenuto solo uno sguardo di totale
dissenso da parte mia.
***
«Hai
qualche suggerimento, per la canzone che dovrai cantare?»
L’insegnante
che guidava la banda, un giovane ragazzo di massimo ventisette anni e
dai capelli marroni, uscito con onore dall’Accademia di
Musica
della città, si avvicinò a me con il suo solito
rassicurante
sorriso, posando una mano sulla mia spalla e spingendomi un poco
distante dagli altri, vicino ad una delle grandi vetrate
dell’Aula
che avevamo scelto per provare. Alzai gli occhi verso i suoi,
scuotendo forte il capo sentendomi porre una simile domanda.
A
dire la verità ancora non sapevo come ci ero arrivata, fra
quelle
persone, quindi l’idea che io mi fossi preparata pure delle
scelte
appariva alquanto assurda.
«Capisco.»
disse allora lui, appoggiandosi al vetro freddo della finestra,
alcuni spartiti stretti fra le mani «Non è una
cosa semplice, eh?»
«…sinceramente...sono
ancora scombussolata da tutto questo.»
Lui
scoppiò a ridere, di cuore, donando anche a me un piccolo,
innocuo
sorriso.
«Ti
abbiamo messa nei guai, mi dispiace.»
«Ma
no, no…che va a pensare…» risposi
«Piuttosto, spero di essere
all’altezza delle vostre aspettative. Io non ho
mai…trovato
rassicurante l’idea di esibirmi di fronte a
qualcuno.»
Cominciai
a tormentarmi una ciocca di capelli, fissando il vuoto: al solo
pensiero di ciò che sarebbe accaduto di lì a
qualche giorno, una
strana nausea mi saliva dallo stomaco, e la voglia di chiudermi in
bagno a vomitare l’anima diventava così invitante
che quasi
speravo accadesse. Pur di non dover affrontare una simile impresa,
perfino quella appariva come la migliore delle scelte.
«Se
ti abbiamo scelta, un motivo c’è di sicuro, credi
a me.»
Annuii,
cercando in quegli occhi verdi un minimo di sicurezza in più.
Quel
ragazzo la sapeva lunga, era ovvio, e la sua dolce espressione
rendeva più facile ogni cosa. Era piacevole stargli accanto,
ascoltarlo mentre parlava e ci rassicurava tutti, donando ad ognuno
di noi la forza di andare avanti ed il coraggio di tirare fuori
sempre nuove idee: io stessa, che di solito tendevo a tenere le cose
per me, partorii proposte interessanti che contribuirono a rendere il
nostro lavoro più facile e veloce.
Di
cose da fare ne avevamo un sacco, questo era vero, però ce
la
cavammo egregiamente, ridendo come se, infondo, ci conoscessimo tutti
quanti da anni. Era un poco come se stessimo facendo un gioco, al
posto di un compito serio. Ci divertivamo così tanto che
alle volte
dimenticavamo addirittura l’ora e rimanevamo fino a tardi,
con il
professore, a provare, chiacchierare e quant’altro.
Dopo
una settima, però, dovemmo cominciare a darci dentro
seriamente, io
in primis.
Gli
altri cominciavano a spingermi per la scelta del brano ma, purtroppo,
ancora non sapevo decidermi.
Era
un saggio di Natale, mi dicevo, il che avrebbe dovuto restringere il
campo a qualcosa di natalizio, ma più andavo alla ricerca di
canzoni
di quel genere meno riuscivo nell’intento di trovare qualcosa
di
interessante.
Prima
o poi qualcosa doveva venir fuori, o altrimenti avrei mandato a monte
l’intero spettacolo per colpa dei miei gusti difficili!
«Sono
un vero impiastro.» esclamai un giorno, appoggiandomi alla
spalla di
Sebastiano «Non dovrebbe essere così complicato.
È uno
stupidissimo concerto, mica…chissà che!»
Lui
non disse niente per un poco, sostenendo ancora lo stesso sguardo che
gli avevo letto qualche tempo prima, il giorno della mia forzata
audizione.
Da
settimane ormai era sempre serio, silenzioso, e quando stavo con lui
tendeva a non guardarmi negli occhi, quasi avesse paura che potessi
scoprire qualcosa di indesiderato da quelle iridi a me tanto
familiari.
Alzai
un poco la testa, per guardarlo, e quando notai di nuovo il suo
distacco mi misi in piedi di fronte a lui e lo fissai seria in volto.
Le
mani sui fianchi, mi preparai a quella che sarebbe stata una bella
strigliata da parte mia. Mi pareva strano doverla fare a lui e non ad
Emanuele, ma come si suol dire “c’è una
prima volta per tutto”.
«Adesso
mi devi proprio dire che cosa c’è che non
va.» cominciai «Cosa
sono questi silenzi? Perché sei così distante, da
un paio di giorni
a questa parte? Ho fatto forse qualcosa di male senza rendermene
conto?»
Al
solo pensiero di averlo fatto soffrire od arrabbiare mi rabbuiai. Non
mi andava l’idea che potesse avercela con me per un qualsiasi
motivo. Come ho già detto, sentivo di avere un disperato
bisogno di
una cosa assolutamente certa, nella mia vita, e la mia amicizia con
Sebastiano era una di queste: almeno lui doveva rimanere invariato
nel corso del tempo, sempre pronto a darmi una mano, a farmi ridere,
a farmi riflettere sulle cose per bene prima di dare di matto e
combinare qualche guaio.
Io
avevo bisogno della sua amicizia perché, da sola, sapevo
già dal
principio come sarei finita.
«Se…»
sospirando, abbassai lo sguardo al pavimento, contemplando le
mattonelle del corridoio di fronte alla porta della nostra classe.
Una miriade di ragazzi lo stavano riempiendo per via della
ricreazione ma, anche con tutto quel caos, io riuscivo comunque a
sentire con distinzione il tempo scandito dai battiti del mio cuore.
Avevo paura, tanta paura. «Se ti ho fatto qualcosa ti prego
dimmelo.
Ti chiedo scusa, anzi, subito. Non era mia intenzione
ferirti.»
Solo
allora l’altro sembrò riscuotersi e, alzandosi di
scatto, mi prese
per mano trascinandomi sulla rampa di scale d’emergenza, dove
raramente qualcuno passava. Lì, dopo essersi guardato un
attimo
attorno, mi poso le mani sulle spalle e, serissimo, parlò.
«So
chi ti ha iscritta alle audizioni.»
Corrugai
la fronte, perplessa.
«…chi?»
L’arrabbiatura
mi era passata, e così anche gran parte dell’ansia
che avevo
provato in principio – enorme bugia –, ma ad essere
sinceri mi
incuriosiva ancora quel grande mistero.
Chi
aveva fatto una cosa del genere?
«Lo
vuoi sapere davvero?»
«Direi…di
sì. Insomma, tu non vorresti saperlo al posto mio?»
«Certo…ma
non so se è una buona idea che io te lo dica.»
continuò Seb,
staccandosi e dandomi le spalle, una mano a riavviarsi i capelli
«Ho
passato queste settimane a scervellarmi, nella speranza di trovare un
modo di dirtelo o, quanto meno, di comportarmi come se non ne sapessi
niente…»
«Cosa
che non ti è venuta molto bene.»
«Ecco
appunto. Comunque...insomma, so per certo che sarai furiosa una volta
che ti avrò detto chi è stato. Per questo sono
stato zitto.»
Arrivata
a questo punto la curiosità si fece ancora più
grande.
Dovevo
sapere, punto. Non c’erano più scuse per lui da
poter usare.
Mi
limitai dunque a guardarlo, tranquilla eppure implacabile.
«…ok,
va bene.» disse, tirando un sospiro enorme
«…è stato Emanuele.»
A
sentire queste parole non emisi neanche un fiato, assolutamente
esterrefatta. Non potevo credere a quell’affermazione, non
potevo
farlo pur rendendomi conto della totale crudeltà che quel
nostro
amico, alle volte, sapeva dimostrare. Avevo sempre saputo che non era
un santo, ma mai avrei creduto possibile che quella sua malcelata
cattiveria potesse riversarsi un giorno proprio su di me.
In
un secondo caddi seduta su uno degli scalini, la mano che per un pelo
riuscì ad attaccarsi al corrimano delle scale impedendomi di
ritrovarmi lungo distesa a terra. Le gambe mi avevano ceduto e,
ancora tremanti, sembravano riflettere la confusione che stavo
provando dentro. Mi chiesi cosa avevo fatto per meritarmi un simile
trattamento. Cosa,
nel mio comportamento, lo avesse spinto a farmi un simile tiro
mancino. Fra noi c’erano spesso dissapori, non lo avrei mai
negato,
però avevo sempre creduto che, infondo, tutto andasse per il
meglio.
Eravamo amici, e gli amici non si fanno del male fra di loro.
Evidentemente
mi ero sbagliata.
«Sapevo
che non avrei dovuto dirtelo.» piagnucolò
Sebastiano,
inginocchiandosi di fronte a me, preoccupato «Mi
dispiace.»
Scossi
il capo, lo sguardo perso nel vuoto.
«No
tu…tu non hai nessuna colpa.» gli risposi, senza
però guardarlo
«Hai fatto ciò che reputavi giusto. Ti sei
comportato da amico.»
Poi
presi un respiro profondo, chiudendo gli occhi e passandomi una mano
sul viso. Stavo raccogliendo le idee, indecisa sul da farsi: avrei
potuto correre da Emanuele e vomitargli addosso tutta la mia rabbia,
litigare con lui e magari non parlargli mai più, oppure
potevo fare
finta di niente, tenermi tutto dentro come se nulla fosse successo e
come, del resto, facevo sempre quando si trattava di lui.
Mi
ritrovavo insomma di fronte al solito, familiarissimo bivio.
Il
giorno prima del concerto mi ritrovavo ancora a scuola,
nell’aula
magna, in piedi sul palco di fronte a dei sedili vuoti. Stavo
provando da ore, cercando di immaginare come sarebbe stato cantare
con tutte quelle persone a riempirli. Più ci pensavo
più la voce mi
si strozzava in gola, veloce, crudele, impedendomi di dare il meglio
e di dimostrare ciò di cui ero capace.
Non
riuscivo a concentrarmi, e questo non solo per la paura che mi
attanagliava lo stomaco ma anche per ciò che Seb mi aveva
detto.
Alla
fine mi ero tenuta a distanza da Emanuele, sia per evitarmi
un’inutile discussione – che sapevo non avrebbe
portato a niente
– che per salvaguardare lui ed i miei poveri nervi. Di tempo
già
ne avevo poco, se lo avessi speso a pensare alla mia rabbia non
l’avrei più finita e avrei sprecato le mie
giornate a crogiolarmi
nella più nera apatia.
Sovrappensiero,
piena di congetture tutte rivolte alla medesima persona, intonai una
strofa senza errori o voce calante e, solo allora, udii il suono
continuo e sicuro di alcuni passi. Subito alzai lo sguardo,
corrugando la fronte. Pensavo di essere rimasta sola
nell’edificio,
ad eccezion fatta per i bidelli, ma forse avevo fatto male i miei
conti.
Quando
ebbi modo di riconoscere la persona che mi si stava avvicinando
sospirai, scuotendo forte il capo prima di tornare a concentrarmi
sugli spartiti che stringevo in una mano.
«Bell’accoglienza.»
commentò lui, salendo con un balzo sul palco e facendosi
sempre più
vicino. «Io vengo a farti compagnia e tu neanche mi
saluti?»
Non
risposi. Anzi, lo ignorai proprio.
«Ah,
già.» disse, alzando le spalle e cominciando a
girarmi attorno
«Dimenticavo che tu non mi parli più, da un
po’ di tempo a questa
parte. Come al solito ci sarà un motivo di fondo che mi
sfugge
totalmente.»
Ero
felice che almeno fino a lì ci arrivasse. Insomma, ormai
cominciavo
a dare per scontato che la mente altrui fosse per lui un mondo a
parte e difficilmente interessante, ma almeno per una volta era
riuscito a mettere da una parte i suoi pensieri per cercare di capire
cosa non andasse.
«Vediamo,
da dove posso cominciare per spiegarti cosa non va?»
Improvvisamente
mi sentii come rianimata, il desiderio di sotterrare l’ascia
di
guerra dimenticato, eclissato solo dalla voglia di rinfacciargli
tutto il mio rancore.
Mi
girai di scatto e, guardandolo dritto negli occhi, congiunsi le mani
di fronte alle labbra, come uno di quei cattivi nei vecchi film di
una volta, i quali erano pronti a dirne una davvero bella grossa.
«Forse
sono arrabbiata con te perché sei un povero demente senza
cervello,
perché mi menti spudoratamente da quando ti conosco,
perché mi dai
costantemente buca senza pensare minimamente ai miei
sentimenti…»
cominciai, puntandogli un dito contro, i denti che piano piano si
digrignavano sempre di più «O forse
perché mi hai iscritta a quei
provini senza neanche interpellarmi!»
Per
un poco rimanemmo immersi nel silenzio, lui a sfidarmi con lo sguardo
ed io decisa a non cedere di un solo millimetro, almeno per questa
volta: esigevo delle risposte, volevo liberarmi di ogni dubbio ora
che, come poche altre volte prima di allora, mi ritrovavo di fronte
alla fonte dei miei problemi ricca di tutto il coraggio che mi
serviva.
Sospirai,
esibendo un’espressione stanca e oramai rassegnata.
«…perché?»
domandai «Dimmi solo questo. Perché lo hai
fatto?»
Emanuele,
alzando gli occhi al cielo, scosse debolmente il capo di fronte a
questa mia richiesta. Magari per lui appariva come una cosa ovvia, ma
io faticavo ancora a comprendere che cosa lo spingesse ad agire a
quei modi tanto astrusi e complicati.
«Puoi
chiamarla gelosia, se ti va.» mi rispose, sicuro
«L’ho fatto
perché mi andava, ma soprattutto perché
ultimamente sei sempre
attaccata a Sebastiano e quasi non mi noti neanche.»
Se,
ad una simile risposta, la mia mascella non si slogò per la
sorpresa, ebbene, non avrei avuto più occasioni per un
simile
avvenimento.
Non
potevo credere che si trattasse ancora di questo, di una cosa che non
c’era e che, santo
cielo,
non ci sarebbe mai stata.
Io
non ero innamorata di Sebastiano, come cavolo dovevo dirglielo!?
«Emanuele,
per dio, leggi le mie labbra ed apri bene le orecchie: io
non amo Seb!»
urlai, gesticolando per bene come se la mia faccia già non
esprimesse tutto il mio disappunto «Se gli sto
così vicino è
perché lui è il mio migliore amico, proprio come
lo è per te! Cosa
dovrei fare, ignorarlo solo perché a te non va bene che gli
doni più
attenzioni di quanto non faccia nei tuoi confronti? Ti rendi conto
che mi hai punita per una stupidaggine del genere?!»
«Non
è una stupidaggine, la mia è una
convinzione.»
«Tu
sei…sei completamente cerebroleso!»
Gli
diedi le spalle e strinsi le mani in due pugni di fronte al petto,
reprimendo la tempesta che, altrimenti, gli avrei volentieri
scatenato contro: qualsiasi cosa facessi lui non capiva, non
voleva saperne di capire
ciò che io, nel profondo, provavo. Aveva completamente
sbagliato
persona e, se solo avesse saputo di chi io ero veramente innamorata,
allora forse non ci sarebbe stato tutto questo caos in quel momento.
Fu
allora che mi venne il lampo di genio.
Per
togliermi d’impaccio bastava dire la verità, una
volta per tutte e
senza tanti giri di parole. Non dovevo mentire o nascondere i miei
sentimenti, solo renderlo partecipe. Poco importava se mi avrebbe
respinta. Ora come ora volevo solo uscire da quella situazione,
dimenticare il grande equivoco ed andare avanti con la mia vita.
«Io…»
aprii la bocca, sì, assolutamente intenzionata a parlare, ma
quando
mi rigirai per guardarlo, la sicurezza morì così
come era nata ed
io mi ritrovai ad abbassare lo sguardo «Io
non…capisco come tu
possa essere così egoista.»
«Come,
scusa?»
«Pretendi
che tutto il mondo giri attorno a te, ti comporti come se avessi il
diritto di manipolare gli altri a tuo piacimento, costringendoli a
fare solo ed unicamente ciò che desideri tu.»
dissi «Beh, sai la
novità? Non tutti sono disposti a darti il contentino, a
viziarti
come un bamboccio e a fare finta che tutto vada bene. Io non ne posso
più dei tuoi capricci.»
L’altro
aprì la bocca per ribattere, ma non gliene diedi il tempo.
Finalmente
avevo cominciato a dire quello che pensavo senza trattenermi, non
potevo permettergli di esercitare nuovamente il suo potere su di me.
«Sono
stufa, Emanuele. Stufa. Nella tua testolina esiste solo ‘io,
io,
io’ ma, guarda un po’, intorno a te ci sono alcune
persone che
vorrebbero
almeno provare
a vivere la loro vita senza che tu crei loro problemi inutili e senza
senso.» qui presi fiato e, risoluta, tornai a guardarlo
«Da qui in
poi abbiamo chiuso.»
«…chiuso?»
lo vidi ridere, però non cambiai la mia espressione
«Spero che tu
non sia seria. Il mio era uno scherzo innocente.»
«Se
solo mi avessi ascoltata di più, come un normale amico
farebbe,
avresti saputo che io…non volevo in alcun modo avere a che
fare con
tutto questo. Quindi il tuo scherzo innocente è per me un
peso
enorme.»
Emanuele
fece un passo avanti, dimostrandosi ora più nervoso e poco a
proprio
agio.
Forse
ero riuscita a smuoverlo.
«E
quindi che dovrei fare?» continuò lui
«Ignorarti da qui in poi
come se non ti conoscessi?»
«Non
lo so e non mi importa.» proferii io, muovendomi appena per
dargli
nuovamente le spalle ma venendo subito bloccata da lui. Mi prese per
un braccio e mi trattenne lì, avvicinandosi ancora. Io lo
fissai,
fredda come il ghiaccio.
«Questo
non è ciò che volevo.»
«Fatti
tuoi. Avresti potuto pensarci bene, prima di fare lo stupido.»
«No,
no, no…tu non puoi essere seria.» si sporse in
avanti, ora
preoccupato «Non voglio che non siamo più amici.
Farò il bravo.
Devi solo avere un po’ di pazienza in
più.»
Lo
guardai, senza sapere che cosa rispondere: con lui in fondo si
trattava sempre e solo di questo, di avere pazienza, ma stava di
fatto che io di pazienza non ne possedevo più. Ero
così stanca,
così affranta. Ero arrivata al punto di non sapere
più per cosa
stessi lottando.
«Non
puoi lasciami andare e basta?»
Lo
chiesi con un filo di voce, quasi senza fiato.
Dentro
di me sentivo crescere uno strano sentimento, un’emozione
trattenuta a forza per anni quando, invece, non avrei voluto fare
altro che lasciarla esplodere come una bomba.
Lui
strinse di più la presa sul mio braccio, guardandomi con una
serietà
quasi sconvolgente.
«No,
non posso.» rispose, semplice e schietto «Puoi
pensare quello che
vuoi, ma per me non sei un giocattolo. Non lo sei mai stata. E voglio
che tu mi rimanga accanto.»
«...vuoi,
vuoi, vuoi...pensi sempre a te stesso.» esclamai allora io,
sull’orlo delle lacrime «Mi fa male starti accanto,
non lo
capisci?»
Forse
notando ciò che mi stava accadendo per colpa sua, Emanuele
mi lasciò
andare e, facendosi di un passo indietro, sembrò donarmi un
poco
della sua pietà, almeno per una volta.
«Qual
è la cosa che ti farebbe stare meglio? Vuoi che ti lasci
stare?
Per...per sempre...?»
Una
piccola parte di me stava dicendo “Sì, voglio
questo. Desidero che
tu mi lasci in pace una volta per tutte.”, però
quando aprii la
bocca per ripetere queste medesime parole non mi uscì
neanche un
fiato e, piuttosto, le mie mani tremanti andarono a prendere le sue,
stringendole quasi inconsciamente. Alzai di poco il viso verso il suo
e lo osservai per un tempo che mi parve interminabile prima che
qualcosa di sensato uscisse dalle mie labbra.
«...stare
senza di te mi farebbe stare meglio...ma...io... Vedi,
io...ti...»
Non
riuscivo a finire, non possedevo abbastanza coraggio.
Il
mio destino era quello di rimanere nell’ombra per sempre, a
sperare
che un giorno, la persona che amavo, si accorgesse di me ed
abbandonasse una volta per tutte il suo hobby di correre dietro ad
ogni sottana che vedeva. Avrei passato così le mie giornate,
sino
alla fine della scuola, portandomi dietro la tenue speranza che,
almeno il nostro ultimo giorno insieme prima del diploma, lui si
sarebbe guardato nel cuore ed avrebbe capito di amarmi.
E
alla fine, decisa a non vivere così la mia giovinezza, mi
alzai
sulle punte e, dando voce ai miei più reconditi desideri,
posai un
piccolo bacio sulle sue labbra. Confusa. Disperata. Ma anche
stranamente appagata.
Volevo
farlo da così tanto.
«
...io ti amo. Ti amo da morire.»
Ecco,
dopo averlo detto avrei preferito che lui se ne andasse piuttosto di
sentire le sue braccia a stringersi attorno alla mia vita.
Già da
sola pensavo d’essere un’inetta, una persona quasi
spregevole nel
mettere qualcuno in una orribile situazione con quelle due semplici
paroline, con un “ti amo”. Non meritavo di essere
abbracciata. O,
più probabilmente, era lui a non avere alcun diritto di
farlo.
«Io...
scusami. Non mi ero reso conto che per te ero così...
importante.»
Chiusi
gli occhi a sentirlo.
Chiedeva
scusa ma, guarda il caso, questa volta non mi sentii rincuorata.
Anzi,
era un poco come se mi avesse appena tirato un pugno dritto nello
stomaco.
E
il peggio, lo sapevo, doveva ancora venire.
«Scusa
se ora non ti amo. Tu sei... sei speciale, per me. Non capisco ancora
come, ma sei speciale, e non voglio cancellarti.»
«...speciale
però non basta più. Io voglio essere l'unica.
Muoio quando ti vedo
con lei...o con le altre.» sussurrai io, facendo leva sulle
braccia
e staccandolo da me, portandolo lontano. Avevo cominciato a dirgli
ciò che provavo, tanto valeva continuare su quella strada.
Ormai non
c’era più la retromarcia. «Ti prego,
piuttosto dimmi che mi odi.
Che ti faccio schifo. Ti scongiuro.»
Ero
seria. Per quanto assurdo, in quel momento ero dannatamente seria.
«Questo
io non so se... se riesco a dirlo. Non è qualcosa che penso
veramente, perciò non... non posso dirla. Io non ti odio.
Non posso
farlo e né mai lo farò.»
«Qui
non c'entra più cosa vuoi tu. Preferirei sapere di...di non
avere
alcuna speranza piuttosto che averti qui, vicino, sentendo che in
fondo un poco ti interesso.»
Lo
vidi sussultare e, allora, trovai nuovamente la forza di guardarlo in
volto. Quel bacio, lo stesso che poco prima mi ero concessa di
dargli, anche se in principio era stato innocente, non era stato del
tutto ignorato. Le sue mani, quelle grandi mani perfette che tanto
adoravo, avevano sfiorato una mia guancia prima di scendere lungo i
fianchi, in una stretta debole e leggera.
Sì,
avevo capito che non gli ero indifferente.
Purtroppo
lo avevo capito.
«...dimmi
una bugia. Dimmela, ti prego...»
Emanuele
prese un profondo respiro e si grattò un secondo la testa
prima di
donarmi ancora la sua attenzione. Abbozzò un sorriso, per
quanto
maligno potesse essere.
«...ebbene
mi hai scoperto. Sei la prima che ha finalmente capito quanto mi
piaccia tenere due piedi in una scarpa. Il mio problema non
è
l'odio. Come potrei odiarti quando mi soddisfi più di
chiunque
altra...?» mi sollevò il mento, tentennando per un
breve lasso di
tempo «In realtà non ho fatto altro che usarti...
solo per
divertimento. Tu per me non sei altro che un giocattolo.»
Rimasi
senza niente da dire. Ero sconvolta, ferita certo, però non
potevo
lamentarmi. Avevo avuto ciò che avevo chiesto e, per una
volta,
Emanuele era stato capace di soddisfare una mia richiesta senza fare
di testa sua compiendo un gesto che, alla fine, mi avrebbe resa
ancora più schiava dei miei sentimenti per lui.
Così, anche se
conscia di averlo praticamente supplicato di dirmi quelle cose,
potevo staccarmi da lui e magari dimenticarlo.
Sorrisi,
le lacrime che solcarono nuovamente le mie guance.
«Bene…»
dissi «Ora che abbiamo chiarito io...io devo tornare a
provare. Sai
il...c-concerto.»
Gli
diedi le spalle e mi incamminai verso il microfono. Ai suoi piedi
avevo abbandonato i fogli con i testi delle canzoni e, piegandomi in
ginocchio, li tirai su distrattamente mentre piangevo come una povera
bambina.
Quando
lo sentii avvicinarsi, ma soprattutto quando si piegò vicino
a me
asciugando le lacrime con un fazzoletto, seppi di non avere
più la
forza di fuggire da ciò che rappresentava. Non potevo. Non
potevo.
«Siccome
sono un vero stronzo, verrò a vederti il giorno del
concerto. E
siccome sono stronzo il
doppio
applaudirò più forte degli altri.»
Singhiozzando,
appoggiai la fronte alle ginocchia, stringendole al petto.
«...vieni,
non venire...tanto la cosa non cambierà. Io
continuerò a soffrire
come un cane mentre tu, dall'alto della tua felicità,
continuerai a
vederti con lei. E con tutte le altre.»
«E
allora lascia che stia anche con te.» rispose lui, quasi
sconcertato. «È semplicissimo! Basta rimanere
amici e tutto si
sistema!»
«No
che non è semplicissimo! Non lo capisci?! Devi lasciarmi
stare!»
«Pronto...?
Non voglio lasciarti.» rise «Ma mi spieghi che cosa
stiamo facendo?
Tu sei in lacrime e sembri disperata, mentre io cerco in tutti i modi
di convincerti che sei speciale per me.»
Sollevai
il capo e lo fissai, sconvolta. O non voleva capire o mi stava
prendendo in giro.
«Io…ti
amo. Ti amo tantissimo.» ripetendolo forse mi avrebbe
compresa «Non
voglio essere tua amica. Voglio…te.
Solo te.»
Rimasta
ancora una volta senza niente di furbo da dire, gattonai fino a lui e
lo baciai di nuovo, quasi senza rendermene conto. Questo
però non fu
un contatto casto, anzi, si tramutò in un qualcosa di
passionale, di
sentito. Non riuscivo più a trattenermi ed Emanuele, che
credevo
essere il più confuso fra i due, ricambiò.
«Non
lo capisci che voglio solo te…?»
«…anche
io ti voglio. Davvero.» sospirò
«…ma voglio anche Alessia e-»
«Va
bene. Non mi importa.»
«Non
ti importa?»
«No.»
Eccolo
di nuovo, il mio bivio.
Stavolta
una scelta dovevo farla, non potevo più optare per la
scappatoia.
Baciandolo
per la terza volta mi strinsi a lui e lo abbracciai, stretto, il
cuore che mi batteva all’impazzata.
«…mi
va bene anche…passare qualche ora con te.» ammisi
infine,
chiudendo gli occhi «Come se fossi la tua…ragazza.
Non ti chiedo
di lasciare Alessia. La ami.»
Qui
mi staccai e, guardandolo, mi misi davanti a lui.
«Però
se provi qualcosa per me…allora ti chiedo solo di
dimostrarmelo.»
E
quindi, sporgendosi verso il mio volto, stavolta fu Emanuele a
baciare me. Mi strinse forte, costringendomi a farmi ancora
più
vicina mentre lasciavamo che tutta la passione che ci abitava il
corpo venisse fuori in un colpo solo.
Sapevo
che il suo non era amore, bensì desiderio,
ma decisi di ignorarlo.
Per
una volta ero stata coraggiosa anche se, lo ammetto, tremendamente
stupida.
La voce dell'Autrice: Improvvisamente c'è la svolta. Mi viene da ridere a pensare a cosa accadrà dopo, e questo non perché sia una cosa esilarante - almeno, dubito lo sarà per chi sta leggendo questa serie - ma più perché i guai non faranno altro che aumentare. Ho sempre pensato che l'amore fosse una cosa complicata...però così tanto complicata non lo avrei mai detto.
Comunque! Almeno la fine di questo capitolo è dolce. In un certo senso. Diciamo che Angela fa di tutto per ignorare i propri errori, almeno quest'unica volta. Ci sarà infatti tempo, più avanti, per rendersi conto di tutto e pentirsi...ma non voglio rovinarvi la sorpresa ù.ù
Alla prossima! |
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Capitolo 5 *** Non posso crederci, sono davvero qui. ***
Quattro:
Non posso crederci, sono davvero qui.
Solo
ora, ripercorrendo in tutta onestà il mio cammino sino al
mio
presente, riconosco senza fallo tutti i piccoli errori che mi hanno
portata alla totale disfatta e, in seguito nonché in modo
del tutto
inaspettato, ad un’esistenza che mai avrei potuto credere di
vivere.
Oggi,
arricchita da ogni esperienza fatta e piena d’amore per le
persone
che mi sono state accanto e che, ancora oggi, mi sopportano, posso
definirmi come la persona più serena e felice di questo
mondo. Ho
trovato il mio posto, lo occupo senza sentirmi indegna, ma
soprattutto ho la facoltà di guardarmi alle spalle con solo
un
grande sorriso ad incresparmi le labbra.
Potrei
infatti dire di essermi pentita di aver detto quelle cose ad
Emanuele, sul palco, il giorno in cui gli rivelai i miei sentimenti.
Potrei
e, probabilmente, qualsiasi altra persona al posto mio lo farebbe, ma
io non ci riesco.
Non
posso pentirmi di ciò che dissi allora, con il cuore fra le
mani,
mentre, per la prima volta nella mia vita, baciavo un ragazzo che
sentivo di amare sul serio.
Quelle
parole, quel “ti amo”, per quanto sbagliate fossero
e per quanto,
dopo, mi abbiano portato gravi problemi, sono state per me, per
noi,
l’inizio di tutto.
Da
quel giorno, così lontano eppure tanto nitido nella mia
mente,
cominciò un nuovo affascinante capitolo. Una fase della mia
vita che
non cambierei con nessun’altra e che, alla fine, ha
contribuito a
rendermi la persona che oggi sono.
Una
moglie, una madre, una sorella ed un’amica migliore di
quanto,
prima, avrei mai potuto aspirare a diventare.
Ho
parlato del coraggio, ma questa volta dovrò parlare
dell’autoconvinzione.
Ignorando
infatti quella solita e giusta vocina che urlava dentro di me un
alquanto chiaro “Non farlo”, mi convinsi che
ciò che stavo
facendo era giusto. E non solo giusto per me, che consideravo il mio
nuovo rapporto con Emanuele una sorta di ben apprezzato regalo
inviatomi dal cielo come ricompensa per la mia pazienza, ma anche per
tutti quanti gli altri.
Né
io né lui, infatti, vedevamo con la dovuta
serietà la marea di
errori che stavamo commettendo e che, poi, avremmo commesso.
La
strada da noi percorsa ci appariva facile, divertente perfino,
però
col tempo sarebbe divenuta tutta in salita. Ci avrebbe distrutti.
Schiacciati. Annientati. Ci avrebbe inghiottiti, masticati e poi
digeriti, lasciandoci infine senza la forza per andare avanti.
E,
una parte di me, già le sapeva queste cose.
Già
sapevo che avrei sofferto anche più di prima,
così, ma feci finta
di niente.
Ah,
il potere dell’autoconvinzione…
***
«Emanuele…»
Sospirai
quel nome sulle sue labbra, indecisa fra la possibilità di
lasciarlo
andare una volta per tutte e quella di dedicarmi ad un nuovo,
meraviglioso bacio.
«…devo
prendere tutto questo come un… “Sì,
provo qualcosa per te?”»
Lui
rise, accarezzandomi i capelli dolce come non mai.
«Non
sono abbastanza chiare le mie azioni…?» chiese,
baciando fra una
parola e l’altra la mia bocca.
Sì.
Le sue azioni erano chiare. Molto anche.
Così
tanto che avevano la capacità di mandare letteralmente in
pappa il
mio cervello, obbligandomi a lasciarlo fare quando, a dire il vero,
avrei dovuto rendermi conto del luogo in cui ci trovavamo:
lì,
nell’auditorium della scuola, chiunque avrebbe potuto entrare
all’improvviso scoprendoci in quelle stupende effusioni,
andando
poi a dire ad Alessia cosa il suo caro ragazzo stava facendo con
un’altra. Tutti, infatti, erano a conoscenza della sua storia
con
lei e, per quanto Emanuele fosse notoriamente un donnaiolo, nessuno
aveva mai creduto alla possibilità che l’avrebbe
mai
effettivamente tradita con qualcuno.
Perché
sì, amava fare sorrisetti alle altre, dare loro corda per un
po’,
ma non si era mai spinto oltre a questo.
Alessia
era sempre stata la sua numero uno, la persona da cui tornava
dopo…beh, dopo tutto.
Per
un attimo mi domandai cosa, in tutto ciò che rappresentavo
io, lo
avesse spinto a compiere quel passo in più.
«Non…non
trovo niente da dire di intelligente, ora come ora.»
mormorai,
permettendogli nuovamente di baciarmi come se fosse la cosa
più
normale del mondo.
Ogni
pensiero si formulava e sfuggiva come sabbia fra le dita di una mano,
quando lo avevo così vicino. Non facevo in tempo ad
afferrarne uno
che, questo, svaniva e non tornava più, lasciandomi confusa
di
fronte alle cose che mi stavano accadendo adesso.
Sarei
potuta rimanere in quello stato per sempre però, per quanto
in
precedenza avessi sempre detestato il fatto di non ricordare a che
stavo pensando solo poco prima.
Lì,
fra le braccia di colui che un tempo era stato
‘solo’ un amico,
mi sentivo appagata.
Felice
anche, non lo nego.
«…non
dire niente, allora. Tanto non preoccuparti, ho un modo molto
più
intelligente per occupare la tua bocca.»
Sorrisi,
avvicinandomi prima di sentire il rumore di passi poco oltre il
grande portone.
«Angela,
sei qui?»
Veloce
come la luce mi staccai da lui e, rossissima in viso, cercai di
ricompormi. Quella voce, che conoscevo benissimo, apparteneva ad una
persona che non volevo sapesse ciò che io ed Emanuele
stavamo
facendo.
«S-Sono
qui, Sebastiano!»
Vidi
spuntare la sua testa oltre l’entrata e ricambiai il suo
sorriso
per quanto, il mio, potesse forse apparire più titubante del
suo.
Fattosi
avanti di qualche metro, Sebastiano posò lo sguardo sul
nostro
comune amico e, portandosi le mani fra i capelli, sembrò
sbiancare
mentre correva anche lui sul palco, preoccupato che ci fossimo
affrontati a duello per via di ciò che Emmy aveva fatto nei
miei
confronti.
Il
povero ingenuo non sapeva che l’ascia di guerra era stata
ormai
seppellita. O bellamente dimenticata.
«Cosa
ci fai tu qui?!» esclamò, mettendosi fra me e lui.
L’altro
alzò le spalle e guardò a terra per qualche
secondo, alla ricerca
di una qualche scusa che gli permettesse di passarla liscia.
Ci
eravamo alzati in piedi entrambi ma, almeno per il momento, stavamo
cercando di non incrociare gli sguardi: io sarei potuta morire per
l’imbarazzo e lui…a dire il vero non so come mai
lui lo fece.
«Passavo
di qui e…»
«…e
ha deciso di tenermi compagnia.» conclusi io, tirando su gli
spartiti ed i testi come se niente fosse, la mia calma che piano
piano si ricomponeva pezzo dopo pezzo. «Cambiando
discorso…Seb, tu
verrai al concerto, vero?»
Voltandomi
verso di lui decisi di dedicargli tutta la mia attenzione.
Era
il mio più caro amico e quindi necessitavo davvero della sua
presenza. La sua era quasi più importante delle altre.
«Ovvio
che ci sarò.» mi scompigliò i capelli,
affettuoso come suo solito
«Non potrei mai perdermi la mia sorellina
che canta davanti a tutta quella gente. Su un palco. Da sola.»
«E
dai, non ricordarmi cose del genere…» scoppiai a
ridere «Comunque
farò in modo di riservarti il posto migliore.
Avrò bisogno di uno
sguardo amico, in mezzo alla folla, meglio ancora se sarà in
prima
fila. Così mi verrà più facile
riconoscerti.»
Poi,
sporgendomi oltre la spalla di Sebbolo, ebbi modo di osservare
Emanuele. Un poco arrossii, nonostante tutti gli sforzi per
trattenermi.
«E
se…prima eri serio…» continuai
«…terrò un posto anche a te.»
«Invita
anche Massimo!»
«Hai
ragione Seb, inviterò anche lui. Oh…e
anche…Alessia.»
«Siccome
mio padre verrà di sicuro, mi vedo costretto a venire anche
io.»
Sebastiano
si girò e lo fissò sconcertato, gli occhi pieni
di dissenso.
«Guarda
che tu venivi lo stesso, anche senza di lui. Sei suo amico e
l’hai
incastrata tu in tutto questo, ergo è
tuo dovere esserci.»
«Non
è mica detto.»
«Ma
che…?»
«Ad
ogni modo Alessia non ci sarà. Ha già dei
programmi per quella
sera. Una parente che viene dalla Cina o…qualcosa di questo
genere.»
A
sentire questa rivelazione quasi esultai ma, per mia fortuna, ebbi la
prontezza di riflessi di non saltare allegra per aria sotto agli
occhi dei due ragazzi. Trattenni dentro di me la mia
felicità,
immaginandomi già alla sera dello spettacolo con
l’attenzione di
tutte le persone cui volevo più bene.
Ora
sì che avrei potuto farcela.
Il
concerto non era più tanto orribile se visto con occhi tanto
entusiasti.
Arrivati
al grande giorno metà della mia spavalderia parve essersi
letteralmente volatilizzata: ancora pensavo positivamente al
complesso di ciò che mi attendeva, però,
nonostante questo, non
riuscivo ad evitare che le gambe mi tremassero con costanza mentre,
il mio cuore, pareva aver preso la decisione di scoppiare
lì, da un
momento all’altro. Dietro alle quinte, ascoltando con
orecchio ben
poco attento gli altri che si esibivano prima di me, non facevo altro
che camminare avanti ed indietro, torturandomi una ciocca di capelli
e deglutendo ogni cinque minuti.
Ero
agitata, non ci potevo fare nulla. Quella era in assoluta la prima
volta che mi ritrovavo a compiere una simile azione. Per quanto, da
bambina, avessi sognato una cosa del genere, sinceramente parlando
non avrei mai creduto di arrivare davvero di fronte ad un pubblico
deciso a sentirmi cantare.
La
mia unica consolazione, ora come ora, era che il mio numero sarebbe
stato l’ultimo, ovvero quello di chiusura, e quindi avrei
avuto
ancora del tempo per vomitare e/o svenire. Almeno, se avessi fatto
adesso qualcosa del genere, gli altri avrebbero avuto il tempo di
farmi riprendere o di darmi qualcosa di caldo da bere.
«Angela,
sei più tesa di una corda di violino.»
Voltandomi,
mi ritrovai faccia a faccia con il nostro insegnante che, come suo
solito, era il più sereno di tutti. Mi sorrise, prendendomi
per mano
e portandomi lontano dalle luci della ribalta almeno per quel
po’
di tempo che potevo permettermelo.
«Avanti,
dimmi che cosa ti turba.»
Io
guardai a terra, stringendo la mia mano alla sua manco fosse la mia
unica ancora di salvezza.
«La
verità è che…improvvisamente credo di
aver commesso un grosso
errore.» ammisi «Non penso di farcela. Io
non…non sono abbastanza
coraggiosa per affrontare tutto questo.»
Ed
era vero, sin dalla tenera età avevo dimostrato grande forza
e
decisione per i problemi altrui quando, per quelli che affliggevano
me, trovavo fosse meglio fuggire a gambe levate. Così era
più
semplice. Io non mi ferivo gravemente e le persone che mi stavano
attorno credevano fossi fortissima.
«Ma
dico, vuoi scherzare?» Max, il professore, scoppiò
a ridere e mi
mise di fronte ad una delle finestre del corridoio in cui eravamo
approdati, indicando il mio riflesso con un dito mentre,
l’altra
sua mano, si posava delicata sulla mia spalla. «Guardati. Sei
bellissima, stasera. In più ti ho sentita cantare e credimi
se ti
dico che non c’è assolutamente niente, nella tua
voce o nelle tue
capacità, che ti impedisca di fare un lavoro eccellente
là fuori,
su quel palco.»
Sospirai,
cercando di vedere ciò che vedeva lui in
quell’immagine riflessa.
I
miei occhi scuri, di un marrone intenso, si scontrarono ben presto
con la verità e, almeno per una volta, dovetti rendermi
conto di
quanto le mie paure tendessero a mandare all’aria tutto
quello che
di buono riuscivo a fare: Max aveva ragione, stavo davvero bene
vestita così, indossando quella camicetta bianca con le
maniche a
tre quarti e quella gonna nera a vita alta che con l’orlo
arrivava
alle ginocchia; i capelli poi erano perfetti, lunghi ed adornati con
quel fiocco rosso.
Non
c’era niente in me che non andasse e, capendolo anche io,
risi
assieme a lui.
«Sono
proprio una scema, eh?»
«Sei
agitata.» rispose Max «Direi che è
normale.»
«Anche
fin troppo. Io sono sempre agitata.»
«Davvero?»
Annuii
ma non stetti lì a spiegargli per quale oscuro motivo le mie
giornate si ergessero su cumuli e cumuli di pensieri scostanti e
tutti da ipocondriaca. Fosse stato per me mi sarei anche lasciata
alle spalle certe congetture però, anche quando ci provavo
seriamente ad essere positiva ed ottimista, finivo col tornare la me
stessa di sempre, quella che per qualche oscura ragione riusciva a
sentirsi a proprio agio solo facendo del sarcasmo e nascondendosi
dietro al proprio pessimismo.
Insieme,
dopo essere andati a prenderci qualcosa da bere, tornammo dietro le
quinte dove, tutti, stavano aspettando proprio me.
La
banda si stava preparando sul palco mentre il sipario rimaneva chiuso
per permettere agli addetti di sistemare ogni singola cosa, rendendo
l’insieme perfetto. Vedevo i ragazzi che avrebbero
accompagnato la
mia voce con i propri strumenti estremamente concentrati, con lo
sguardo serio e le mani che, proprio come le mie, stavano tremando.
Solo allora, abbozzando un piccolo sorriso, capii che non era la sola
a provare un po’ di paura.
Le
parole di Max non avrebbero potuto essere più vere. Era
normale.
Quando
il sipario si aprì il pubblicò
applaudì leggermente ed io,
facendomi forza, mossi qualche passo per raggiungere il centro dello
stage. Nonostante fossimo già pronti, udii del
chiacchiericcio
andare avanti ma, col senno di poi, feci di tutto per ignorare quei
maleducati, concentrandomi piuttosto su ciò che dovevo fare.
La
musica partì, lenta, dolce, e nel momento in cui fu il mio
turno
cominciai a cantare normalmente. Ero serena, e anche se il cuore mi
batteva in petto con eccessiva vivacità, nessuna delle
immani
catastrofi che mi ero immaginata accadde veramente.
C’ero
io, c’era la banda e c’erano gli spettatori.
Niente
di più.
Nessuno
che fischiava, che sbadigliava, né tanto meno persone che si
alzavano ed uscivano dall’auditorium.
Era
tutto assolutamente perfetto, come me lo ero immaginato tanti anni
prima, da bambina.
«Grazie!»
esclamai, le lacrime agli occhi dalla commozione dopo il bis e dopo
il gran finale con tutti gli appartenenti al nostro gruppo. Stavamo
tutti sul palco, sorridenti, felici, contenti di aver reso la serata
di quelle persone – che tra parentesi ci stavano applaudendo
con
una foga impressionante – più magica di quanto,
altrimenti, non
sarebbe stata. «Grazie a tutti e buon natale!»
Il
sipario si chiuse nuovamente e noi, ridendo, ci ritrovammo a farci i
complimenti a vicenda. Ci volle un po’ prima che mi rendessi
conto
della presenza dei miei tre invitati speciali.
«Wow,
ma ci siete tutti!»
Andai
da loro, abbracciandoli uno ad uno, stringendo fra le braccia il
mazzo di fiori che Max, assieme agli altri, mi aveva regalato per
ringraziamento.
«Sei
stata grande!» disse Sebastiano, stringendomi così
forte da
lasciarmi praticamente senza fiato.
«Grazie!»
«Ci
credi che mi sono messo a piangere?» mi voltai verso Massimo
qui,
ridendo con lui perché sapevo che quell’uomo,
nella sua infinità
bontà d’animo, possedeva la lacrima fin troppo
facile «Sul serio,
bravissima. Sapevo che te la cavavi, ma così tanto non lo
avrei mai
detto!»
Lo
abbracciai di nuovo, annuendo.
«Io
sono stupita di aver resistito fino ad ora senza
svenire…»
A
quel punto, lasciati Sebastiano e Massimo a ridere per la mia ultima
uscita, incrociai lo sguardo d’Emanuele e, arrossendo appena,
mi
avvicinai a lui. Ero agitata, tanto, forse anche più di
quanto non
lo ero stata durante la mia esibizione.
«Sei
venuto davvero…» mormorai, stringendomi a lui
piano piano, quasi
con timidezza.
L’altro
ricambiò l’abbraccio e mi sorrise, affondando in
viso nella mia
spalla.
«…sei
stata la migliore.»
«Addirittura...»
«Io
dico la verità, che credi…?»
Gli
diedi un piccolo bacio sulla guancia e poi, sentendomi più
felice e
soddisfatta che mai, mi allontanai per andare a prendere il giaccone,
lasciato al mio arrivo non troppo distante dai camerini.
Per
tutto il tragitto saltellai allegra, fermandomi di tanto in tanto per
annusare i fiori. Nonostante fosse cominciato tutto come uno scherzo
– di pessimo gusto – alla fine le cose erano andate
per il
meglio. Così tanto che mi stupivo anche adesso che era
finita ogni
cosa. Alla fine, per una stupidaggine compiuta da Emmy, avevo avuto
modo di vivere un’esperienza straordinaria, divertente e
bellissima.
“Quel
ragazzo non è del tutto inutile…”
Risi
a quel mio commento acido, in tempo per sentire la mano di qualcuno
stringersi alla mia. Subito abbassai gli occhi, ferma di fronte agli
appendiabiti del corridoio, a contemplare la stranezza di quelle dita
intrecciate e la sensazione che mi donavano. Non avevo modo di vedere
il volto di chi si era avvicinato a me ma, santo cielo, non mi
serviva neanche farlo.
Divenni
nuovamente rossa.
«…e
se qualcuno ci vedesse?»
Emanuele
alzò le spalle, come suo solito.
«Siamo
amici, noi due. Fra amici ci si tiene per mano.»
«Alle
elementari, forse.»
«E
noi lo facciamo anche adesso.»
«…senza
contare che noi du-»
«Gli
altri non ci leggono nel pensiero.» sbottò lui,
fermandomi ancora
prima che riuscissi a finire la mia frase. «Cose innocenti di
questo
tipo non possono di certo metterci nei guai.»
«Ah
già, dimentico sempre che per te le persone sono tutte
stupide e non
sanno fare due più due.»
Entrambi
scoppiammo a ridere e, proprio quando eravamo lì
lì per scambiarci
un nuovo bacio, Max spuntò da dietro l’angolo,
obbligandomi a
staccarmi subito da lui.
«Angela,
eccoti!»
Mi
venne incontro, agitando una mano per aria.
«Ti
ho promesso che ti avrei accompagnata a casa…è
già abbastanza
tardi, non voglio che la gente pensi male.»
«Non
sia mai, prof!»
«Dai
andiamo.»
Voltandomi
verso Emanuele gli donai un ultimo sorriso, proferendo un piccolo
“Ci
sentiamo.” mentre mi affiancavo al professore per uscire
dall’edificio scolastico.
Allontanandomi
sentii nel profondo di non essere per nulla soddisfatta da quel
saluto ma, con un insegnante a guardare, non potevo permettermi
nessun genere di debolezza o distrazione. Certo, volevo baciarlo,
quello era un desiderio che non affievoliva mai in me quando avevo
modo di vederlo – e soprattutto da quando mi ero permessa di
farlo
la prima volta – ma siccome sapevo in che posizione precaria
mi
trovassi non lo avrei mai fatto.
Comunque,
per fortuna, Max era un compagno di conversazione talmente abile che,
in un batter d’occhio, per la nostra intera passeggiata sino
a casa
mia, riuscii dimenticarmi delle mie pene d’amore. Parlammo di
tutto, partendo dalla serata appena trascorsa sino ad arrivare alle
nostre passioni, passando perfino per la storia delle nostre
famiglie. Ovviamente non mi sbilanciai più di tanto, non
amavo per
niente il dovermi sbottonare circa il mio passato, però fui
grata al
cielo di aver scoperto in quell’uomo un simile ascoltatore,
dallo
sguardo gentile e comprensivo.
Forse
addirittura un po’ troppo gentile e comprensivo, se vogliamo
dirla
tutta, ma in quel periodo ero fin troppo presa da ben altri pensieri
per potermi accorgere del fatto che attenzioni simili non vengono
donate proprio
a tutti.
«Allora,
ci vediamo domani al cinema?» mi chiese lui, tirando fuori un
discorso che avevamo lasciato in sospeso ormai da qualche giorno.
Avevamo
di fatti deciso di andare, con il resto della banda, a vedere un bel
film horror giusto il giorno dopo il concerto, prima della fine della
scuola per le vacanze di Natale.
Annuendo,
gli sorrisi.
«Certo!»
esclamai «Non vedo l’ora!»
«Bene.»
Max
si grattò distrattamente una guancia poi, guardando in terra
prima
di posare di nuovo lo sguardo su di me.
«…te
l’ho già detto che stasera sei stata
bravissima?»
«Oh,
beh…grazie. Insomma, io mi son vista normale.»
«Normale?»
lui scoppiò a ridere, di gusto «Sembravi un
angelo, con quella
voce. No, anzi…una Dea.»
Qui
non potei proprio fare a meno di arrossire di botto, accorgendomi
come d’incanto che simili complimenti non me li aveva mai
fatti
nessuno, fatta ad eccezione per mio fratello. Senza esitare un
secondo portai lo sguardo altrove e, balbettando, cercai di
riprendermi dalla sorpresa.
«Esagerato.»
«Dico
solo la verità. Sei adorabile.»
E
mi scompigliò i capelli, salutandomi subito dopo.
Fissandolo,
ebbi modo di notare ancora una volta quanto fosse assolutamente ed
innegabilmente elegante nella sua persona, con una camminata sinuosa,
i capelli legati in una coda da un nastro scuro, il giaccone beige
che arrivava appena sopra il ginocchio ed un corpo decisamente
invidiabile. Era ovvio che tutte le studentesse e gran parte delle
professoresse morissero dietro ad un simile personaggio.
Insomma,
era bello. Non potevo mica negarlo a me stessa.
Solo
in quel momento mi accorsi di strani fruscii alla mia destra.
Girandomi
di scatto fui felice nello scoprire che non c’era niente di
strano
a parte un certo strano movimento fra i cespugli. Mi feci vicino di
qualche passo, cercando di scorgere magari un qualche animaletto
intrappolato fra i rami.
«…spero
che un gatto non si sia ficcato di nuovo là
dentro.» mormorai,
chinandomi sulle ginocchia «È pieno di ortiche. I
versi dell’ultimo
non mi hanno fatta dormire per tutta la notte, l’altra
volta.»
Alzai
le spalle e me ne andai a casa, pronta a chiudere occhio, svegliarmi
l’indomani, andare a scuola e godermi una bellissima,
bellissima
giornata.
«Ma
che cavolo avete fatto?»
Appoggiata
com’ero alla finestra della nostra classe, ricominciai ad
osservare
le mani dei mie due amici quasi assorta, perplessa di fronte alla
miriade di opzioni che mi aiutavano a spiegare come mai avessero
quelle bolle bianche sui palmi delle mani.
«Come…avete
fatto?»
Non
ottenni risposta, ma questo solo perché notai Max a passare
nel
corridoio e, salutandolo, mi concentrai unicamente su di lui. Non lo
feci con cattiveria, sia chiaro, solo che ormai riconoscevo in lui un
amico più che un semplice professore.
«Tu
sei fuori!» urlò Sebastiano, spaventandomi a morte
mentre mi veniva
vicino in tutta fretta, allontanandosi da Emanuele che, dal canto
suo, aveva praticamente ribaltato un banco calciandolo.
«Ops.»
«Ops?!
OPS?!» disse ancora Seb, sconvolto «Che cavolo ti
fumi la mattina?!
Che razza di droghe prendi per fare certe cose, si può
sapere?!»
Emmy
sorrise, mettendosi seduto al suo posto.
«Si
chiama gelosia ed è molto più comune di quel che
pensi.»
«Grazie
tante! Per poco non mi facevi venire un infarto!»
«…adesso
dovete proprio dirmi che vi prende, a voi due.» mormorai io,
inclinando appena il capo da una parte. Cominciavo ad essere
estremamente sospettosa, a dire il vero, e siccome ero abituata a
trovare Sebastiano così agitato solo quando Emanuele ne
combinava
una delle sue indietreggiai, scuotendo la testa. «Cosa avete
fatto?
Dio, non un altro tiro mancino…ve ne prego, sono appena
uscita
dall’ultimo!»
Seb
si voltò verso di me, abbozzando un sorriso che non mi prese
in giro
neanche per un attimo.
«M-Ma
no…non è niente. Non ti preoccupare. Il nostro
Emmy ha bevuto
troppo caffè questa mattina, tutto qui…»
«Non
è vero, lo sanno tutti che non faccio mai
colazione.»
L’altro
si diede una manata sulla fronte, cadendo in silenzio mentre il
ragazzo che mi stregava il cuore si alzò di scatto in piedi
e mi
puntò il dito contro. Io mi irrigidii, senza capire che
cosa,
stavolta, lo spingesse ad essere tanto su di giri.
«Tu!»
esclamò, attirando l’attenzione dei nostri
compagni di classe –
o almeno quelli che ancora non avevano notato lo scatto d’ira
del
grande Emanuele – «Voglio sapere per filo e per
segno qual è il
rapporto che c’è tra te ed il
professore!»
Diventai
rossa all’istante, molto probabilmente.
Che
razza di domande, proprio da lui!
«Non…non
c’è assolutamente niente fra me ed il professore!
Non capisco cosa
ti venga in mente!»
«Non
ascoltarlo…» questo era Seb che, sussurrando,
cercava ancora una
volta di placare i nostri bollenti spiriti.
Come
al solito, però, nessuno ebbe la grazia
d’ascoltarlo.
«Sei
uno scemo! Cosa chiedi?» stavo cominciando a dare di matto
per via
dell’imbarazzo e dell’incredulità. Come
poteva domandarmi una
cosa del genere quando, glielo avevo detto solo due giorni prima, ero
innamorata persa di lui?! «Perché devi essere così
stupido?!»
Poi,
additando a mia volta Sebastiano…
«E
tu perché diavolo lo stai aiutando?!»
«…io?»
anche lui si indicò «Io?? Guarda che mi ha
costretto a-»
«A
vedervi insieme subito ho pensato male.»
Emanuele
lo interruppe, rivolgendomi uno sguardo contrito che, per una volta,
mi convinse.
«Ti
chiedo scusa.»
La voce dell'Autrice: In codesto capitolo, comincia la storia fra i due. Non ho molto da dire, se non che da qui in poi sarà per me un vero piacere continuare a scrivere.
La gelosia di Emanuele mi fa sempre sorridere, per quanto sia totalmente infondata. Fra i due, quella che si dovrebbe preoccupare, è certamente Angela, non lui, ma siccome quel ragazzo è scemo - sì, lo so, lo dico in ogni capitolo - non ci si può fare poi molto.
La loro dolcezza, però, mi fa sorridere. Sono carini, in fondo.
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Capitolo 6 *** Sesso ***
Cinque:
Sesso
C’è
poco da dire, chiunque sogna la propria prima volta.
Al
mondo, anche adesso, ci saranno almeno un migliaio di adolescenti
–
equamente divisi fra maschi e femmine – che stanno cercando
di
figurarsi quel dato momento: immaginano forse la loro stanza piena di
candele profumate, il salotto di una casa libera da sguardi
indiscreti o, molto meno romanticamente, anche il retro di
un’automobile; pensano di farlo con la persona amata, per
gioco,
per curiosità forse; sognano mille situazioni diverse e, in
ognuna,
quando con l’occhio della mente arrivano al fatidico momento,
rimangono confusi ed inebriati dalla strana sensazione di non essere
mai abbastanza vicini alla verità per poter fantasticare su
qualcosa
come il sesso anche solo con un briciolo di serietà.
Io
non ero da meno, ai tempi dei miei diciotto anni.
Non
potevo considerarmi fissata su un simile argomento come altri, questo
no, però alle volte mi capitava di lasciarmi andare a simili
congetture. Nella mia testa era sempre tutto perfetto, impeccabile,
così romantico da lasciarmi senza fiato nonostante fosse
solo un
sogno ordito dal mio subconscio. Di complesso non c’era
nulla, ma
io lo trovavo comunque magnifico. C’era lui e c’ero
io. Niente di
più. Era la cosa più semplice del mondo, eppure
la più bella.
Le
domande che più spesso mi affollavano la mente erano le
solite,
quelle che probabilmente tutti si sono chiesti presto o tardi durante
la propria govinezza.
Sarò
capace di non tirarmi indietro, quando finalmente accadrà?
Sarò
in grado di non dimostrarmi per la ragazzina impacciata che, a conti
fatti, in realtà sono?
Sarà
piacevole o, magari, troppo doloroso?
Ogni
volta, poi, riuscivo a trovare diverse risposte. Nulla di sensato o
di basato su verità assolute, ma che riuscivano a non farmi
incaponire su quei quesiti che, se ancora non mi avevano rimbambita,
lo avrebbero fatto presto come molte altre mie piccole fissazioni.
Il
fatto era che mi conoscevo bene e sapevo che, arrovellandomi su
problemi ancora da affrontare, mi sarei infine rovinata il tutto, una
volta che fossi stata in grado di testare sulla mia pelle una nuova
simile avventura.
Io,
ad ogni modo, non avrei mai creduto che la mia prima volta con un
ragazzo si sarebbe svolta come, in seguito, avvenne.
Tutto
ciò che quel giorno mi travolse peggio di un treno in corsa
mi
apparve del tutto inaspettato… Anche se, forse,
la persona cui donai la parte più importante di me era
quella che,
da sempre, aveva stregato i miei sogni e le mie speranze.
***
Quella
mattina mi era stata mossa una pesante accusa da parte di qualcuno
che, almeno a mio avviso, non avrebbe neanche dovuto avere dubbi su
chi fosse l’indiscusso sovrano che dominava il mio povero
cuore
malaticcio e malfunzionante. Emanuele si era dimostrato un idiota
–
come sempre – e questo non solo perché aveva
tratto conclusioni
troppo affrettate come suo solito, ma anche perché aveva
avuto la
malsana idea di esporle in una maniera a dir poco barbara.
Additandomi
lì, di fronte a tutta la classe, che per altro si era goduta
uno
spettacolo impagabile mentre io diventavo più rossa di un
pomodoro e
Sebastiano tentava di fracassarsi la testa contro al muro per
l’imbarazzo, mi aveva messa nuovamente di fronte alla
necessità di
contemplare la sua innata, stupida, inconcludente gelosia.
Già da
semplici amici ne ero stata vittima. Il concerto era un chiaro
esempio del livello cui quel ragazzo poteva giungere se mosso da un
simile sentimento. Era arrivato a giocarmi un simile tiro mancino per
una convinzione senza fondamenta, e ora che mi ero dichiarata a lui,
concedendogli forse un certo controllo su tutto ciò che mi
riguardava, cominciai a temere che quel suo problemino sarebbe solo
peggiorato.
Prima
ero la sua amica. Sua e di nessun altro, lo aveva ripetuto
innumerevoli volte.
Adesso
invece, adesso che ero diventata qualcosa di più, ci
sarebbero stati
ancora più problemi.
Mi
poggiai sbuffando al muro esterno del cinema, guardandomi la punta
dei piedi mentre attendevo l’arrivo dei miei compagni di
banda e
del professore. Non avevo alcuna voglia di pensare a certe cose, se
davanti avevo la possibilità di divertirmi e di dimenticare,
anche
se per poco, i miei soliti crucci. La serata sarebbe dovuta essere
all’insegna dell’allegria e io, con il muso che mi
ritrovavo,
avrei di certo portato tutt’altre emozioni
all’interno del gruppo
se non fossi stata capace di lasciarmi alle spalle quelle
preoccupazioni.
Per
cosa mi ero vestita di tutto punto se non per una bella uscita con
gli amici?
Estrassi
dalla tracolla uno specchietto e, osservando il mio riflesso, studiai
sin nei minimi dettagli i tratti visibili del mio volto alla luce non
troppo forte dei lampioni presenti sulla strada, poco distanti da me.
Il fiore sintetico che avevo nei capelli, di un azzurro chiaro,
faceva pendant con il vestito del medesimo colore, nascosto sotto
alla giacca pesante che mi stava tenendo caldo dinanzi al vento
gelido di quella sera. Non avevo un capello fuori posto, ero
impeccabile. Solo la mia espressione lasciava un poco a desiderare.
“Dai,
stupida, sorridi” mi dissi, forzando un angolo della mia
bocca ad
alzarsi con la punta del dito indice.
La
lasciai ben presto andare, ma questa non rimase al suo posto.
Tornò
volta all’ingiù, donando quel tocco triste che
riuscivo ad
assumere solo quando avevo qualche dissidio con Emanuele. Ancora non
mi rendevo conto di quanto, lui solo, riuscisse ad influenzarmi con
una semplicità spaventosa: se mi sorrideva, se mi trattava
con
dolcezza, allora ero così felice da poter quasi toccare il
cielo con
un dito; se discutevamo e mi prendeva in giro, mi arrabbiavo
abbastanza con lui e anche con tutto il resto del mondo per un
periodo che poteva andare da pochi minuti a qualche ora, ma perfino a
diversi giorni.
«Angela,
è da molto che aspetti?»
Tornando
con i piedi per terra, misi via lo specchietto e posai lo sguardo su
Max, il quale era arrivato da qualche secondo al mio fianco.
Scossi
la testa, forzando un piccolo sorriso.
«No
no, sono qui da poco.» risposi, avvicinandomi a lui e
cercando,
magari alle sue spalle, tracce degli altri «È
arrivato qui da
solo?»
Il
professore annuì, girandosi a sua volta, una mano a
massaggiarsi il
mento privo di peluria.
«Sì.
Ho cercato qualcuno della banda in giro, ma non ho trovato nessuno. O
sono in ritardo loro o lo siamo noi.»
«Beh,
se siamo noi in ritardo possiamo sempre andare dentro e cercarli in
sala.» commentai io, alzando le spalle «Dubito che
il nostro film
venga proiettato in tutte quelle presenti nel cinema.»
Lo
vidi annuire e, facendomi segno di seguirlo, entrai con lui
all’interno dell’edificio.
Come
ovvio non fummo in grado di vedere nessuno in mezzo alla ressa del
venerdì sera, ma siccome nessuno di noi due aveva abbastanza
voglia
di perdersi in inutili ricerche decidemmo di prendere i biglietti, i
pop corn, delle bibite, e di andare in sala ai nostri posti per
goderci il film che avevamo atteso con tanta ansia.
In
tutto il gruppo, io e Max eravamo gli unici ad avere una vera e
propria passione per gli horror. Ne avevamo visti a bizzeffe, in
passato, ed eravamo stati noi a convincere gli altri a seguirci in
quella bella escursione al cinema. C’erano stati dissensi,
alcuni
avevano detto che sarebbe stato meglio vedere qualcosa di
più
normale, però alla fine tutti avevano convenuto sul fatto
che vedere
film di genere horror in compagnia era decisamente più
divertente
che vedere qualche commedia d’amore o un film
d’azione. Non era
forse il massimo quando un amico scoppiava ad urlare e faceva facce
buffe al tuo fianco?
Solo
quando uscimmo all’aria aperta, dopo quello che fu uno
spettacolo
deludente se si contavano gli ammontare degli spaventi accumulati
–
che equivaleva a zero, se volete saperlo –, ci ritrovammo
finalmente con il resto dell’allegra combriccola. Ci eravamo
persi
per poco, a dire il vero, e a quanto pareva non eravamo neanche tanto
lontani da loro nei posti, pur essendo incapaci di vederci nel buio
della sala.
«Ragazzi,
la prossima volta mettiamoci d’accordo un po’
meglio.» mormorò
Max, ridendo.
«Ma
no, prof, non dica così! Se fosse stato altrimenti non
avrebbe avuto
l’occasione di coronare il suo più grande
sogno.»
Lui
corrugò la fronte, confuso.
«Di
che parli?»
«…non
faccia il finto tonto. Sappiamo tutti che voleva stare solo con la
sua pupilla!»
Tutti
scoppiarono a ridere, meno noi che eravamo i diretti interessati. Se
possibile le nostre guance divennero dello stesso colore, un rosso
cangiante dovuto all’imbarazzo, ma fortuitamente quello che
colorava le mia gote scomparve non appena ebbi modo di vedere chi
stava solcando la soglia del cinema venendoci incontro.
Sorrisi
all’istante, dimentica dalla rabbia che mi era stata tirata
fuori
solo qualche ora prima.
Emanuele
era là, assieme a Sebastiano, e il mio cuore fece un balzo
quando i
nostri sguardi si incrociarono: a dire il vero lo vidi alquanto
immusonito, ma siccome credevo di sapere a che cosa fosse dovuta una
simile espressione non me ne curai molto visto e considerato che non
c’era alcun motivo, per lui, di temere un mio coinvolgimento
con
Max. Non lo amavo di certo, e per quanto lo trovassi un uomo di bella
presenza e con un carattere dolce e comprensivo, non avrei mai potuto
provare ciò che invece sentivo nei suoi
confronti. Perché Emmy lo amavo contando i suoi alti e
bassi,
passando sopra alle miriadi di difetti che gli si potevano trovare
giorno dopo giorno standogli vicino.
Feci
per andargli incontro, felice, però venni fermata da un
piccolo,
innocente bacio. Girandomi di scatto cercai il fautore di un simile
atto e, notando poco distante dalla mia guancia il viso del
professore, mi ritrovai costretta a corrugare enormemente le
sopracciglia prima di indietreggiare di qualche passo. Non lo feci
perché improvvisamente avevo paura di lui o
perché ero indignata
per ciò che aveva fatto. Semplicemente mi sentii
così sorpresa che,
per un attimo, una gamba mi cedette e mi ritrovai costretta a
riequilibrarmi con quel movimento.
Lo
fissai per un poco, interdetta, ma non ottenni alcuna risposta, nei
suoi occhi, a tutte le domande che mi vorticavano nella testa.
«Ricorda
sempre che sei il mio angioletto dalla voce cristallina.»
disse,
scompigliandomi affettuosamente i capelli «Questo non
dimenticarlo.»
Un’ultima
occhiata e poi mi diede le spalle, andando dagli altri e
permettendomi di riprendere fiato. Nelle sue parole non c’era
nulla
di cui io dovessi preoccuparmi – non a primo acchitto almeno
– ma
nonostante ciò mi ritrovai sperduta per alcuni minuti.
Studiai la
sua andatura mentre si allontanava con il resto del gruppo, quasi non
curandosi più di me, e notai una leggera tensione nelle
mani, le
quali si strinsero a pugno prima di infilarsi dentro alle tasche del
giaccone.
Abbassai
lo sguardo, incapace di fare altro.
Per
tutto quel tempo ero stata così presa dalla mia non
storia
con Emanuele che, egoisticamente, non avevo neanche intravisto quel
chiaro barlume d’interesse che sta nascosto nello sguardo di
una
persona quando è invaghita di qualcuno. Può
essere amore o semplice
apprezzamento, può essere un sentimento labile o fortissimo,
ma
quella luce è sempre la stessa. Quando si pensa ad una
persona con
abbastanza intensità da farti palpitare il cuore, il viso si
illumina e chiunque, per quanto tu possa essere bravo a nascondere
certe cose, prima o poi se ne rende conto.
Io
invece, io che mi vantavo di essere così brava a capire chi
mi stava
accanto, non ne ero stata capace.
Bella
osservatrice che ero.
«Sono
tanto cattiva?» domandai, udendo i miei due cari amici farsi
avanti
alle mie spalle.
«Cattiva?
Certo che no!» scrollandosi di dosso tutto il suo nervosismo,
Emanuele cominciò a farmi capire la sua totale
disapprovazione per
Max «Quello cattivo è quello stupido del
professore!»
Sebastiano
alzò gli occhi al cielo e, con molto più buon
senso del compagno,
posò una mano sulla mia spalla prima di parlare.
«No,
non ti preoccupare. Non ti eri minimamente resa conto di ciò
che
provava lui, vero?»
Scossi
il capo. Venivo capita subito da quel ragazzo.
«…sei
solo troppo ingenua, ecco tutto.»
Un
po’ mi sentii rincuorata a sentirli parlare così.
Fui felice di
non essere stata presa per una sciupa maschi o roba simile. Sapevo da
me che era strano il fatto che io non mi fossi accorta di niente,
però non avrei retto a certe paroline tutte saccenti che
alle volte
uscivano dalle labbra di una persona a me ben nota.
Alla
fine, comunque, accortami del fatto che qualcosa stonava in quella
situazione, mi girai di scatto verso i due e li studiai per bene.
«Che
ci fate, voi, qui?» chiesi ancora, le mani sui fianchi e lo
sguardo
severo «Seb, tu odi i film horror…e a te, Emmy,
non sono mai
interessati.»
Si
scambiarono una breve occhiata, indecisi.
«Ma
niente…»
«Mi
ispirava il titolo.»
«Sebbolo
voleva diventare più coraggioso.»
«Ad
Emmy interessano improvvisamente. Però si è
addormentato, perciò
non ha seguito niente del film.»
«…lui
invece se l’è fatta addosso.» e dicendo
questo indicò i vestiti
che l’altro teneva stretti al petto. Li osservai un secondo,
accorgendomi subito del fatto che quelli non erano abiti normali,
bensì due giacche pesanti, due capelli e…erano
occhiali da sole,
quelli? «Si è dovuto cambiare.»
«Ho…messo
il doppio cappello perché avevo freddo alla testa.»
Se
speravano di farla franca con scusanti così magre, ebbene,
avevano
decisamente
sottovalutato le mie capacità cerebrali: non c’era
modo, per loro,
di nascondermi qualcosa già quando avevano escogitato piani
abbastanza complessi, figuriamoci ora che era palese che non si erano
minimamente impegnati a nascondere le loro stupidaggini. Sbattei
piano le palpebre, assumendo un’espressione più
che adirata. Non
mi piaceva quando mentivano. O, forse, non mi piaceva che mi dessero
apertamente della stupida.
«State
mentendo.» esclamai, girando i tacchi e cominciando a
camminare per
andarmene a casa «E spudoratamente, anche!»
Con
quella velocità non mi ci volle molto per raggiungere casa.
Avevo
adottato un passo talmente spedito che, molto probabilmente, anche il
campione mondiale di marcia non sarebbe stato capace di starmi
dietro. Il mio viso poi, nonostante a quell’ora tarda fosse
facile
per una ragazza sola incontrare brutta gente, avrebbe potuto
scoraggiare anche il peggiore dei ladri o dei poco di buono.
Un
motivo valido perché io fossi nuovamente così
furiosa non c’era
o, comunque, non era niente che avesse a che vedere con
l’ennesima
bugia dell’allegro duo. In fondo mi ero abituata a certe
stramberie
e non vedevo come una semplice menzogna potesse mettermi
così di
malumore. Forse però, a pensarci bene, non potevo neanche
dire di
essere veramente arrabbiata.
Feci
scattare la serratura della porta e mi infilai piano dentro la mia
dimora, sospirando mentre mi accorgevo di aver solo raccolto la prima
occasione per fuggire dalla sua presenza, da ciò che
rappresentava
per me, dal peso enorme che mi opprimeva il petto quando gli stavo
accanto: Emanuele era troppo da sopportare, tutto in una volta, e non
necessariamente in senso negativo. Il punto era che quando mi
guardava perdevo il controllo di me stessa, mi ritrovavo a sperare di
affondare il viso nel suo petto facendomi abbracciare, di parlare con
lui fino allo sfinimento o, ancora, di posare le labbra sulle sue.
Ancora ed ancora, senza sosta.
L’affetto
che provavo per lui era talmente bruciante da sconvolgermi.
Riflettendo
su questo decisi di mettermi la camicia da notte, quella in tinta
avorio che mia madre mi aveva regalato tanti anni fa ma che io,
considerandola fin troppo succinta, mettevo assai di rado. Non mi
piaceva l’idea di essere colta con quella addosso, sempre
ammesso
che qualcuno fosse venuto a farmi visita e io mi fossi ritrovata ad
averla messa. Mi pareva di non essere abbastanza coperta e io, che
ero solita vestirmi a cipolla, non sopportavo quel piccolo sgarro
rispetto al solito. Fu proprio per questo che, maledicendomi per non
aver fatto il bucato evitandomi così quella spiacevole
situazione,
corsi a prendere anche la mia felpa di Duffy Duck. Almeno le braccia,
in quel modo, potevano dirsi riparate.
Nonostante
fossero appena le undici di sera, non trovai niente di interessante
alla televisione e quindi finii con l’andare a coricarmi,
stringendo al petto uno dei miei tanti cuscini e riflettendo sul da
farsi. Confidare ad Emanuele i miei sentimenti forse non era stata
una mossa intelligente da parte mia, anzi cominciavo a credere che
fosse stato il peggio che io avessi mai potuto fare. Non solo mi ero
messa nella condizione di doverlo condividere con un’altra
ragazza,
ma mi ero anche ritrovata a dover far fronte ad un genere di gelosia
ben più compromettente di quella che avevo sino ad allora
sopportato.
TOC
TOC!
Corrugai
la fronte e, alzandomi seduta, voltai lo sguardo verso le finestre di
camera mia, quelle che davano sulla strada sul retro. Fui sorpresa
nel vedere il viso di Emanuele a comparirmi davanti, sorridente,
tipico di quando faceva qualcosa di magistralmente geniale
e si aspettava magari un complimento o una standing ovation.
Scossi
il capo, scendendo dal letto ed andandogli incontro. Gli aprii solo
dopo qualche attimo, come prendendo in considerazione l’idea
di
lasciarlo fuori a penzolare dal mio balcone. Anche se fosse caduto
non si sarebbe fatto male, sotto di lui c’erano ampi cespugli
ed il
terriccio era umido per la debole pioggerellina caduta quella stessa
sera.
Alla
fine, piano, gli aprii.
«Hai
tendenze suicide?» commentai, incrociando le braccia al petto.
«Volevo
fare un’entrata figa. Tutto qui.»
«Ah
beh.»
Ci
guardammo per un poco, senza parlare, ognuno perso nella propria
congettura.
Era
sempre così. Da che lo avevo conosciuto, molte delle nostre
conversazioni si erano svolte unicamente a quel modo: non muovevamo
le labbra eppure ci intendevamo al volo, perché i nostri
occhi
sapevano esprimere ciò che sentivamo almeno cento volte
meglio di
quanto avrebbero potuto farlo le parole.
«Dimmi
perché eri lì.»
La
mia poteva essere una domanda, ma non ne aveva il suono.
Volevo
la verità e la avrei ottenuta.
Emanuele
si mise seduto con le gambe all’interno della stanza e,
scompigliandosi i capelli, confuso, tentò di darmi una
risposta.
«Io
non…» si morse un labbro «Io non mi sono
fidato del tutto delle
tue parole. Non mi fidavo di quel professore che ti seguiva e ti
faceva quei sorrisetti idioti tra un’ora e
l’altra… Scusami.
Non volevo dubitare di te, ma è nella mia natura comportarmi
così.»
Gli
mollai un pugno sulla testa e lo lasciai entrare, chiudendo alle sue
spalle la finestra. Faceva freddo ed io non ero propensa a prendermi
un raffreddore solo perché lui aveva voglia di interpretare
la parte
di Peter Pan.
«Stupido.»
«Me
lo dici spesso.»
«Perché
lo sei.» risposi, alzando le spalle «Forse
è vero, io piaccio al
professore ma a me…a me piaci tu. E dovresti
saperlo.»
Dicendolo
avrei voluto strapparmi la lingua da sola, ma stava di fatto che non
potevo mentire a me stessa, fingendo ancora una volta di non provare
niente nei suoi confronti. Era inutile, ormai non potevo tornare
indietro rinnegando i miei sentimenti. Emanuele sapeva e non si
sarebbe scordato mai, neanche volendo, le parole che gli avevo
rivolto in auditorium il giorno prima dello spettacolo.
Tornai
a guardarlo negli occhi, seria.
«Io
non penso ad altri che a te. Sempre.» mi feci vicina e lo
baciai
«Sempre…»
Ancora
una volta mi strinsi a lui e mi abbandonai a quel meraviglioso
contatto, desiderando sempre di più man mano che i secondi
passavano. Sentii la sua mano passare sui miei capelli, lenta,
delicata, e staccandomi dal suo volto notai quel suo bel sorriso ad
increspargli le labbra.
«Sempre,
sempre, sempre…?»
Annuii.
«Scusami,
allora.» stavolta fu lui a baciare me, passionalmente, come
era
solito fare. Fra i due quella dolce ero io, Emanuele si riservava ben
altri modi.
«Perdonato.»
«Bene…»
mormorò, già confuso per via dei baci, proprio
come me «…bene…»
Tentò
di farsi nuovamente vicino, stringendo i palmi sui miei fianchi, ma
io, nervosa, mi ritrassi velocemente e mi misi seduta sul letto. Non
c’era mai nulla di buono quando mi abbandonavo a quel ragazzo
e,
sapendolo, era meglio controllare i propri istinti e comportarsi da
adulta. Un’adulta risoluta e concentrata.
«Ho
cantato bene al concerto?»
Chiedendo
la prima cosa che mi venne in mente, mi resi subito conto di aver
posto una domanda quanto mai idiota. Già sapevo che aveva
pensato
durante la mia esibizione, me lo aveva detto lui stesso poco dopo,
quando mi aveva raggiunto dietro le quinte con Massimo e Sebastiano.
«Mi…mi
hanno detto che sembravo addirittura un angelo, su quel palco. Anzi,
una dea!»
Risi,
però non ebbi il tempo di godermi quel momento. Emanuele mi
prese
per un braccio e mi costrinse sotto di lui, serissimo, baciandomi
subito dopo con rinnovata passione.
«…se
non sbaglio è stato quel professore a dirti
questo.» disse.
«Come
fai tu a saperlo?»
Pensai
di essere sorpresa, ma quando udii il resto del suo discorso
probabilmente mi dovetti ricredere. Si avvicinò a me e
sorrise,
accarezzandomi una guancia.
«Il
mio commento, ovvero quello più importante di tutti,
è questo.» mi
baciò ancora «Grazie a quella canzone, grazie a
come hai cantato,
credo di aver capito di essermi innamorato di te. Perciò
brava, sono
fiero delle tue azioni.»
Fece
per avvicinarsi nuovamente, però lo bloccai, posando le mani
sulle
sue spalle.
Che
aveva appena detto?
«Sei
innamorato di me?»
«Ah-ah.»
«…e
Alessia?» a porre quella, di domanda, mi si contorsero le
budella.
Era così doloroso il dover essere sempre l’unica a
scontrarsi con
la realtà, rovinandomi qualcosa che avrebbe potuto essere
bellissimo. «Non amavi lei fino a qualche giorno
fa?»
Emanuele
mi osservò, colpito. Sapeva che avevo ragione a chiedere
quelle
cose, ma non capiva come potessi amarlo ed essere al tempo stesso
così preoccupata per un’altra persona. Una persona
che aveva ciò
che io desideravo e che, di certo, non me la avrebbe lasciata
facilmente.
«Sì,
è vero. Io la amo. Però…»
abbassò lo sguardo «Non posso
ignorare quello che ho sentito l’altro giorno, allo
spettacolo.
Magari non è proprio amore, ma è un sentimento
altrettanto forte.»
Si
staccò da me, mettendosi in ginocchio sul materasso.
Cominciò a
scrutarmi con quelle sue iridi grigie, profonde e magnifiche.
«Sono
confuso, perdonami.» continuò «In questo
momento io voglio sia te
che lei. Voglio entrambe le cose.»
Anche
io mi misi seduta, ascoltandolo attentamente.
Eccolo
là, il muro che tanto avevo atteso mi si era parato di
fronte senza
farmi aspettare troppo. Erano passati si e no quattro giorni da
quando mi ero concessa un minimo di felicità e, guarda un
po’, già
dovevo scegliere di nuovo che cosa fare. Perché, era ovvio,
stava
tutto nelle mie mani. Io sola avevo il potere di porre fine a quella
stupida faccenda salvando il suo rapporto con Alessia e la mia
sanità
mentale.
Conscia
perciò di questo, mi affrettai a trasmutare i miei pensieri
in
parole.
«Una
persona normale ti direbbe che così non va.»
iniziai «Che se ami
lei allora non dovresti essere qui, nella mia stanza, a dire di
provare qualcosa anche per me.»
Detto
questo però, le mie mani si mossero da sole e io lo attirai
vicino a
me, stringendolo al mio corpo prima di baciarlo quasi inconsciamente.
«…io
però non sono normale.»
Abbassai
le labbra sul suo collo, le dita che passarono veloci alle sue spalle
e poi sulla lampo della sua giacca, aprendola e togliendogli di dosso
quell’indumento freddo per via del vento gelido che aveva
sferzato
di fuori. Subito mi dedicai ai bottoni della sua camicia, osservando
il lavoro delle mie mani con ostentato compiacimento. Era sbagliato,
non avrei dovuto comportarmi così, però
nonostante questo non
riuscivo a pormi un freno.
«…ahi
ahi, Angy, ahi ahi…» disse in un sussurro
Emanuele, ridendo «…tu
con una camicia da notte, io bellissimo…insieme, sullo
stesso
letto…»
«Fammi
capire, tu sei bellissimo
mentre io indosso solo
una camicia da notte?»
Sorrisi,
continuando a far uscire dalle asole quei bottoni, uno dopo
l’altro.
Lentamente.
«Se
non mi trovi bella o attraente…davvero non mi spiego come
mai tu
sia qui.»
Gli
levai anche quel secondo indumento e lanciando la camicia lontano
–
facendola atterrare sulla poltroncina poco distante da noi –
passai
le labbra sul suo petto nudo, stringendolo in un piccolo abbraccio.
«Oh,
beh, un valido motivo c’è. Ti vedo così
assolutamente e
totalmente disperata, che non posso fare a meno di stare qui a darti
ciò che vuoi.»
Mi
irrigidii e, storcendo il naso, mi girai di scatto dandogli le
spalle.
«Questa
cosa non dovevi dirla.»
Tolsi
la felpa e gliela lanciai in faccia, assai risentita. Riusciva a
rovinare ogni cosa con quelle sue stupide battute.
«Sarò
anche disperata, ma non per quello che pensi tu.» esclamai,
muovendomi così repentinamente da far sì che una
spallina della
camicia da notte cominciasse a scendermi lungo la spalla. Me ne
accorsi e ghignando la presi fra il pollice e l’indice.
«Io posso
resistere senza farlo…tu invece?»
La
calai del tutto, scostando infine i lunghi capelli e portandoli tutti
da una parte. Sentivo il suo sguardo su di me, percepivo perfino le
sue mani a stringersi sulle coperte per via del desiderio che lo
pervadeva.
«Questo…»
si fece vicino e strinse il braccio attorno alla mia vita, baciandomi
il collo e la spalla, abbassando anche l’altra spallina
«…questo
è barare, cara mia. Non è giusto.»
«Non
è barare, è far sì che anche qualcuno
di lento come te possa
comprendere come stanno le cose.»
Tornai
voltata verso di lui, cercando di comportarmi con fare totalmente
disinteressato: avevo difatti detto che solo Emanuele, fra noi, aveva
strane ideuzze per la testa, ma di sicuro non ero stata molto
sincera. Pure io cominciavo a sentire la necessità di
approfondire
quelle carezze, quei baci, godendo di un genere di attenzioni che mi
ero privata per la bellezza di cinque anni. Era infatti da quando lo
avevo conosciuto che avevo iniziato a pensare a come sarebbe stato
stare
con qualcuno.
«Tu
non sei qui a fare queste cose perché sono io ad offrirmi
così
spudoratamente – o disperatamente. Sei qui perché
sei tu a
volermi.»
«Ehi,
cosa c’è di male, in questo? Ti voglio.»
accarezzò il mio fianco
«Ti voglio.» mi sospinse all’indietro,
sdraiata «Ti voglio, ti
voglio, ti voglio…è un crimine, forse?»
«No,
non è un crimine.» - è
solo moralmente sbagliato,
mi dissi da sola, ignorandomi subito dopo aver formulato un simile
pensiero - «…se mi vuoi così tanto, chi
sono io per fermarti?»
Emanuele
rise sommessamente e, probabilmente d’accordo su quella mia
uscita,
si dedicò con le mani al mio seno, il quale era rimasto
scoperto dal
tessuto di pizzo e cotone della mia veste quasi senza che io me ne
accorgessi. Lo sfiorò appena, in principio, accertandosi che
a me
non desse fastidio il suo tocco, e quando fu certo che tutto fosse ok
lo accarezzò con cura, bravura soprattutto, facendomi capire
ancora
una volta che non era nuovo a quel genere di atteggiamenti con una
donna. Mi chiesi quanto e cosa avesse imparato nelle sue scampagnate
con le tante ragazzine che gli andavano dietro e, perché no,
anche
con Alessia stessa, ma sentendo le sue labbra a premersi contro il
mio petto dovetti concentrarmi su dell’altro, riscoprendomi
affascinata da quella nuova azione. Era strano, poiché per
anni mi
ero dimostrata del tutto furiosa con madre natura per avermi donato
un seno fin troppo prosperoso per una della mia età.
Però, ora,
tutto mi appariva diverso. A lui sembrava piacere e perciò,
piano
piano, cominciai ad apprezzarlo anche io.
Quando
sentii il suo peso a scostarsi dal mio corpo, seppi di aver chiuso
gli occhi, e allora tornai a posare la mia attenzione su di lui: era
sceso dal materasso e si era levato i jeans neri, rimanendo in boxer
anche se, in cuor mio, sapevo che quella condizione sarebbe durata
per poco. Dedicandomi uno sguardo pieno di promesse e di velato
divertimento, si sdraiò nuovamente al mio fianco e mi tolse
di dosso
la camicia, baciandomi appassionatamente nello stesso istante in cui
decise di far fare la stessa fine del resto degli indumenti anche
alla nostra biancheria.
Me
lo ero immaginato spesso quell’attimo, chi ha letto
dall’inizio
forse potrà ricordarlo, e come questo potrà
ricordare anche
un’altra cosa: non ero preparata per ciò che stava
accadendo, e
questo non nel senso che non lo stessi apprezzando, quanto
più
perché ancora non riuscivo a credere che stesse succedendo
per
davvero. Era come essere immersi in una dimensione a sé
stante, dove
tutto era capovolto e dove, ciò che stavamo per fare, non
avrebbe
avuto nessuna ripercussione. In quel mondo c’eravamo sul
serio solo
io e lui, esattamente come avevo sempre sognato, ed era bello per
quanto mi rendessi conto che qualcosa non andasse.
Stare
nudi, uno sopra all’altra, costrinse ogni particella del mio
corpo
a svegliarsi, ogni muscolo a contrarsi, e quando la mano di lui
scivolò lungo il mio ventre fino ad approdare ancora
più in basso,
ebbi la strana reazione di muovere appena le ginocchia per chiuderle:
mi ritrovavo indecisa fra il serrarle veramente, schiacciandolo, e la
possibilità di agire come se non ci fossero, permettendogli
di fare
ciò che voleva con me.
«Ormai
è tardi per tornare indietro, eh?»
«…se
vuoi posso fermarmi.»
Scossi
il capo, socchiudendo gli occhi. Ero agitata, questo era evidente,
però non volevo che si fermasse.
«Angela…lascia
fare a me.» sussurrò, abbassandosi fino al mio
orecchio.
«Ok…»
gli lasciai campo libero, la voce che mi si era ridotta a poco
più
di un pigolio «…ricordati di essere gentile, anche
se sappiamo
entrambi che ti riesce male esserlo.»
«Sarò
gentilissimo.»
Le
sue dita sprofondarono in me, esplorandomi, e quando cominciai a non
capire più niente per via del piacere che stavo provando,
arrivò un
dolore intenso ed inaspettato: un dolore acuto, ma che passò
velocemente dopo che lui mosse i fianchi per allontanarsi e
riaffondare fra i miei.
Sentii
un piacere sconosciuto, più di quello provato
precedentemente e solo
pochi istanti prima. Era diverso, molto, eppure così
appagante da
lasciarmi senza fiato. E sebbene sapessi che non erano solo le sue
spinte a causarmi il respiro corto, decisi di ignorare la
fragilità
del mio cuore, concedendo mente, anima e corpo al ragazzo che amavo.
Non avrei permesso a niente e nessuno di intralciarmi, non ora, non
adesso che io e lui eravamo una cosa sola.
La voce dell'Autrice: Ordunque, finalmente siamo approdati al gran momento. *tossicchia* Non so quanti di voi abbiano cominciato a pensare che Emanuele sia un gran pezzo di BIP, come d'altro canto non so chi se ne sia perdutamente innamorata - sempre ammesso che sia possibile, visto tutte le cattiverie che combina - ma so per certo che questo capitolo vi ha sconvolte. Non ve lo aspettavate che Angela compisse un simile passo, ah? AH? ...nemmeno io. Cioè, sapevo che sarebbe successo, però continuo a pensare che forse è successo troppo presto e che, poco ma sicuro, lo ha fatto accadere per i motivi sbagliati.
Come al solito vi invito a recensire, se ne avete voglia. Alla prossima! |
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Capitolo 7 *** E quindi che cosa sono, io? ***
Sei:
E quindi che cosa sono, io?
Non
sono certa se ci sia un detto o meno, ma sono sicura che sia comune a
tutti l’espressione “quando ti sembra che tutto
vada bene, ecco
che arriva la mazzata”. Succede sempre così,
dopotutto. Tu sei
convinto di aver appena toccato il cielo con un dito e poi, guarda il
caso, ecco che ti ritrovi a sprofondare per metri e metri sotto
terra. Sei impantanato, immobilizzato, quasi ti manca il respiro, e
dentro di te cerchi di aggrapparti all’ultima cosa che ti ha
fatto
stare bene nella speranza che quella possa bastare a farti stringere
i denti ancora una volta, per sopportare anche questa nuova, orribile
prova.
Cosa
succede, però, quando quell’ultimo barlume di luce
nasce da una
cosa che mai, mai
sarebbe dovuta capitare?
Cosa,
se cerchi di sopravvivere con in testa uno dei principali motivi che
ti ha fatto arrivare tanto in basso?
Ebbene,
invece di lottare con efficacia contro al marasma che minaccia di
schiacciarti, ti ritrovi ad annaspare ancora di più,
agitando
braccia e gambe nel disperato tentativo di riuscire infine a vedere
l’alba di un nuovo giorno. E magari ci riesci anche. Magari
trovi
quel tanto che basta per riuscire a farlo, solo che quando poi ti
guardi intorno capisci di non avere molto tempo prima che tutto si
ripeta. Perché quando compi un atto tanto sciocco quanto
cattivo,
sai per certo di non avere scampo dalla tua coscienza.
E
così avvenne anche per me.
Non
ebbi neanche il tempo di crogiolarmi nella mia contentezza che, il
giorno dopo, fui subito messa di fronte alla cruda realtà
dei fatti.
Non avevo conquistato niente di importante la sera prima, permettendo
ad Emanuele di entrare in possesso non solo del mio cuore, ma perfino
del mio corpo. Avevo solo affrettato i tempi, sigillando un destino
infame e che di attrattivo aveva ben poco. Da stupida sognatrice
pensavo che bastasse dire “ti
amo”
a qualcuno, e magari farglielo capire con qualcosa di più
dei baci,
per riuscire ad averlo tutto per me. Ma mi sbagliavo.
L’unica
cosa che guadagnai, dopo quell’avventura con lui, fu solo una
montagna di disprezzo verso me stessa e di rammarico. La mia prima
volta, pur avendola desiderata davvero tanto, si era consumata in un
modo che non poteva di certo rendermi orgogliosa. Mi ero lasciata
guidare dal desiderio e non dal buon senso, e questo mi avrebbe per
sempre segnata. Giorno dopo giorno non avrei fatto altro che pensare
a cosa ero stata capace di fare per ottenere le attenzioni di un
ragazzo, a cosa avevo rinunciato per poterlo rendere mio.
Dopo
la mia prima volta non avevo perso solo la verginità,
bensì
qualcosa di più.
Qualcosa
che mi sarebbe mancato nei giorni a seguire e che, poi, mi avrebbe
resa ancora più schiava della sua presenza.
***
Arrivata
a scuola, l’indomani, riuscii a sorridere solo per un breve
lasso
di tempo.
Salendo
di fatti le scale ed arrivando poco distante dalla porta della mia
classe, mi ritrovai di fronte ad una scena che sarebbe rimasta
indelebile per il resto della mia vita all’interno della mia
mente:
vedere Emanuele stretto ad Alessia, intento a ridere insieme a lei
come se nulla fosse successo fra di noi, solo qualche ora prima,
segnò un momento molto importante dell’esistenza
che avevo
condotto sino ad allora. Grazie a lui non ero più una
ragazzina, ero
una donna, e dopo aver perso l’innocenza che comunque gli
avevo
donato spontaneamente, mi aveva portato via anche un altro genere di
candore: la bambina che ero stata – quella che sognava un
principe
azzurro e una storia a lieto fine tipica delle favole – era
morta
in quel preciso istante, guardandolo mentre abbracciava
un’altra,
rimpiazzata da una persona che era stata felice per un po’.
Solo un
po’.
Sorrisi
appena, abbassando lo sguardo e riavviandomi i capelli scuri con una
mano. Ancora una volta non mi aveva sorpresa. Sin dal principio avevo
saputo di non essere veramente importante per lui, ed Emanuele stesso
mi aveva detto di essere intenzionato a tenersi sia me che la sua
effettiva ragazza, ma forse avevo sperato in qualcosa di più
di una
sola nottata passata insieme.
“Ah,
guarda un po’ cosa sono diventata…”
pensai, cercando di
convincere quella piccola vocina ostinata, che ancora cercava di
mettermi la pulce nell’orecchio, che l’altra
non era Alessia bensì ero io “…sono
l’amante?”.
Attraversai
la porta della classe e mi misi al mio posto, vicino alla finestra,
posando la tracolla sul banco e ostentando una forza d’animo
che in
quel preciso istante poco mi apparteneva. Non volevo far vedere a
nessuno che una parte di me si era appena distrutta, disintegrata dal
fuoco della passione che mi aveva travolta e che ora mi aveva
semplicemente abbandonata, liberandomi dell’incantesimo che
aveva
stravolto il mio giudizio. Ogni più piccolo muscolo era in
tensione,
ogni nervo sul punto di cedere, ma ancora avevo abbastanza forza per
resistere fino a fine giornata. Una volta tornata a casa avrei avuto
modo, se proprio dovevo, di accasciarmi sul letto e tornare ad
onorare una delle mie più antiche abitudini: il pianto a
dirotto
causato da un amore impossibile e sbagliato.
«Va
tutto bene, sorellina?»
Sussultai
appena nel sentire la voce di Sebastiano alle mie spalle. Girandomi
di scatto mi ritrovai a specchiarmi nelle sue iridi scure, di tanto
simili alle mie, e sorridendo nervosa tentai in qualche modo di
mascherare i miei sentimenti. Lui mi capiva sempre, anche quando non
volevo, mi leggeva dentro quasi come se fossi stata un libro aperto.
Di solito mi andava bene, ero felice che almeno qualcuno mi
comprendesse nonostante il mio essere tanto complicata, ma ora non
era il caso che io glielo permettessi. Se avesse saputo, cosa avrebbe
pensato di me?
Seb
prese una sedia e si mise davanti a me, appoggiando i gomiti al mio
banco.
«Hai
qualche problema? A guardarti sembra che sia successo
qualcosa.»
«No
no, va tutto bene.» mentii e subito dopo cercai di
aggrapparmi ad
una piccola verità, come a voler placare il mio nuovo senso
di
colpa. «Dopodomani saremo in vacanza di Natale. Finalmente
tornerà
mio fratello! Non vedo l’ora, sai?»
Lo
guardai un poco, inclinando il capo da una parte.
«Sono
emozionata, non stiamo insieme da tanto
tempo…sarà quello che mi
rende diversa dal solito.»
Ci
fu una pausa, qui, e nonostante quegli occhi mi scrutassero con
interesse e saggia diffidenza, ebbi il coraggio di sostenere il suo
sguardo senza difficoltà. Quando Sebastiano parlò
di nuovo, la sua
voce era seria ed affettata. Non mi credeva, come d’altro
canto
avevo già messo in conto facesse.
«…ok,
va bene. Come vuoi.» disse «Farò finta
che la tua versione sia
quella ufficiale.»
«Ma…è
la verità.»
O,
per lo meno, una parte di ciò che mi era uscita dalle labbra
lo era.
Sospirai
e, abbassando il volto per un secondo buono, mi ritrovai infine
nuovamente in piedi, camminando a passo lento verso di lui. Senza
attendere oltre mi misi seduta sulle sue gambe e nascosi il viso
nella sua spalla, cercando un contatto pieno d’affetto che
solo il
mio migliore amico poteva donarmi e di cui avevo un tremendo bisogno.
Lo strinsi a me delicatamente, dalla bocca una piccola richiesta
–
“Lascia
che rimanga così solo per un
po’…”
– ad uscire sommessamente. Avrei voluto dirgli tutto, sputare
il
rospo e togliermi di dosso quel terribile peso, però
c’era un
freno ad impedirmi di farlo.
Non
avrei mai smesso di considerarmi fortunata, comunque,
nell’avere a
fianco una persona come Sebastiano. Lui non proferì parola
né
protesta, mi abbracciò solamente, in silenzio, cullandomi
fra le sue
braccia forti eppure tanto gentili. Sentiva che avevo da dire
qualcosa di difficile e, quindi, non si sarebbe mai azzardato a
mettermi fretta. Era davvero una brava persona. Un bravo amico,
soprattutto.
«Stai
tranquilla.» mormorò, piano «Qualsiasi
cosa ti turbi, magari non
pensarci per un po’. E poi, se vorrai parlarmene, io ci
sarò
sempre per te. La nostra amicizia va ben oltre a certe cose.»
A
sentirlo mi salirono le lacrime agli occhi.
«…ho…ho
fatto l’amore con Emanuele.» le mie mani si
strinsero di più
sulle sue spalle. Lo sentii irrigidirsi, ma non potevo dargli torto.
La sorpresa doveva essere molta. «L’ho fatto anche
se non mi ama
davvero. L’ho fatto perché lo volevo
così tanto…io lo
amo…così
tanto…»
Cominciando
a piangere sul serio, pregai affinché i nostri compagni non
mi
notassero. Non volevo dare spettacolo, non adesso che ero
così
fragile.
«So
di aver sbagliato! Sono orribile, orribile!»
«Shh
shh… Ora stai calma. Fai un bel respirone
profondissimo.»
accarezzò i miei capelli, parlando «Non hai fatto
nulla di male.
Ascoltare il proprio cuore e lasciarsi andare per una volta
è segno
di essere normali. Tutto qui.»
No,
non riuscii a convincermi di quell’affermazione.
Lui
era mio amico e se diceva quelle cose era, in parte se non
totalmente, per tirarmi su di morale. Chiunque avesse avuto un
po’
di cuore non avrebbe infierito su una persona che poteva considerarsi
praticamente già morta, ma siccome ero ben conscia di aver
errato
nel mio comportamento non avrei mai potuto dargli ragione. Ero dura
con me stessa perfino in momenti come quelli, quando stavo soffrendo
da morire.
Mi
staccai e asciugai le lacrime, abbozzando un debolissimo sorriso. Il
cuore mi faceva male, ma essendo lui all’oscuro della mia
malattia
dovetti inventarmi una nuova scusa per l’improvvisa assenza
cui
dovevo far fronte.
«…scusa
devo…devo andare in bagno a ricompormi.»
Congedandomi
lo vidi perplesso, ma non mi fermai. Dovevo correre in infermeria
dove, la dottoressa, avrebbe potuto darmi le medicine di cui avevo
bisogno per calmare il mio battito. Scioccamente avevo dimenticato le
mie a casa e, ora che ne avevo necessità, dovevo mendicare
il
rimedio da un addetto della scuola.
Uscendo
mi scontrai con qualcuno, però, visto che stavo tenendo lo
sguardo
basso, non capii di chi si trattasse.
«Angela,
piccola mia, non puoi essere così sbadata.»
La
Dottoressa Salvatore scosse forte il capo mentre, con lo stetoscopio,
faceva alcuni controlli. Avevo la camicia bianca aperta e stringevo
fra le mani il cardigan blu della divisa, mugugnando di tanto in
tanto per via del fatto che quel marchingegno era sempre fin troppo
gelido. Quella donna non era cattiva, ma dire che la esasperavo era
dire troppo poco. Non è che andassi da lei per ogni
nonnulla, ma
trovavo divertente sfruttare la mia malformazione cardiaca per andare
a perdere tempo nel suo piccolo regno. Di solito mi accoglieva
alzando gli occhi al cielo, braccia conserte e tono deciso, dicendo
che alle volte pensava che io fossi più che altro afflitta
da
pigrizia piuttosto che da qualcosa di più serio. Io ridevo e
mi
sedevo su un lettino, dondolando le gambe e cominciando a
chiacchierare allegramente.
Tuttavia
stavolta non stavo ridendo e non avevo voglia di chiacchierare. Il
dolore che sentivo era vero, anche se non tutto da attribuire al mio
povero e debole cuore.
«…la
prossima volta mi porterò dietro il flaconcino di
medicinali. Non si
preoccupi.»
«Riposa.»
rispose l’altra, comprendendo che non tirava aria al momento.
Posò
una mano sulla mia testa e la accarezzò debolmente prima di
allontanarsi.
Mentre
mi mettevo sdraiata, chiudendo gli occhi, sentii i suoi passi farsi
sempre più distanti e la porta dell’infermeria
aprirsi e
chiudersi. Presi dei respiri profondi, scacciando dalla testa tutto
ciò che avrebbe potuto ricondurmi ad Emanuele col pensiero.
Volevo
solo abbandonarmi ad un riposo senza sogni, un sonno oscuro, simile
di molto a quello che immaginavo essere il sonno eterno. Una notte
continua e senza fine, dove la mente, ahimè, non
è più capace di
congetturare alcun che.
Ecco
cosa bramavo. La capacità di escludere ogni singolo pensiero.
«Ehi.
Tutto bene?»
Corrugai
la fronte, aprendo piano piano le palpebre. Ero incapace di dire con
certezza quanto avessi dormito – o se
avessi dormito –, ma di certo qualche ora doveva essere
passata
visto che il sole si era spostato dalla posizione in cui lo avevo
visto l’ultima volta, attraverso il vetro della finestra.
Subito
ebbi modo di scontrarmi con gli occhi grigi di una conoscenza a me
tanto cara ed odiata al tempo stesso, e tirandomi su a sedere lo
fissai.
«…tutto
bene.»
«Dici
davvero?» Emanuele si concentrò su di me, incapace
di darmi fiducia
«Eppure, se non sbaglio, sei uscita in lacrime dalla classe.
Ah, e
poi c’è il fatto che Sebastiano non mi parla,
perciò immagino che
lui sappia qualcosa che io non so. Ma non è di questo che
volevo
parlare…»
Capii
subito che la persona contro cui ero andata a sbattere uscendo
trafelata dall’aula, era lui, e capii anche che Seb non si
era
mostrato molto magnanimo con Emmy tanto quanto lo era stato con me.
«Sei
sicura di stare bene?»
«Sto
bene. Se piangevo era solo perché…mi faceva mal
di pancia.»
Con
fare affrettato chiusi la camicia e abbottonai i bottoni chiari,
stringendomi nelle spalle quando sentii il suo sguardo a studiare le
mie mosse: sapevo che era pieno di dubbi, sapevo che era turbato come
me, ma sapevo anche che non avrebbe mai capito cosa provavo. Era
ancora troppo infantile ed egoista per riuscire a farlo.
«…credevo
ti sentissi male per via di ieri…»
«…ieri…è
stato bello.»
Ed
era vero. Non potevo negare a me stessa il piacere che avevo provato
nel diventare sua, ma forse ora avrei dovuto fare buon viso e cattivo
gioco, recitando la parte dell’ingrata e della donna vissuta
per
riuscire ad allontanarlo da me. Quella mattina, se c’era una
cosa
che avevo capito, era proprio che la nostra storia non poteva avere
un futuro, non così. Io ero innamorata persa, e
probabilmente mi
sarei anche accontentata di essere solo la sua amante, ma fino a quel
momento non avevo capito che esserlo avrebbe significato prendere in
giro un’altra persona. Presi quindi un respiro profondo, le
dita a
giocare con il lenzuolo candido del mio lettino.
Potevo
farcela, mentire non era mai stato un problema per me.
«Ti
ringrazio per avermi fatta divertire.» cominciai, sorridendo
malignamente «Ma ora temo proprio che sia il caso di finirla
qui.»
Lui
mi guardò, sorpreso.
«È
tutto quello che sai dirmi?» chiese, alzandosi in piedi per
scendere
dal lettino che stava vicino ed infilarsi nel mio. Si sdraiò
accanto
a me, ricambiando il sorriso che gli avevo appena fatto io con uno
dei suoi, così accattivanti da lasciarti senza fiato.
«Beh, abbiamo
tempo. Vediamo se ti viene in mente qualche motivo per
cui…l’idea
di finirla qui non sia poi tanto brillante.»
Sbuffai
e, alzandomi a mia volta, cercai in tutti i modi di mettere distanza
fra di noi. A stargli vicino era evidente che sarei ricaduta nella
stessa “trappola” della sera prima e
perciò non dovevo in alcun
modo sfiorarlo o lasciarmi sfiorare. Uscii quindi di filato dal
letto, le guance un poco rosse, camminando decisa verso le mie scarpe
per cominciare a rimettermele.
«Volevo
togliermi lo sfizio e l’ho fatto. Ora posso dedicarmi ad
altro.»
«Ad
altro, tipo?»
sbottò lui, sforzando un mezzo sorriso «Vuoi
uscire con Max, il tuo
grande ammiratore? Direi che è un po’ troppo
grande, per te.»
«E
io direi che non sono affari tuoi.»
Non
potevo vederlo in faccia, però sapevo di aver colpito nel
segno con
questa mia ultima uscita. Scese anche lui dal letto e si mise le mani
in tasca, incapace di staccare gli occhi da me. Lo stavo confondendo
troppo, evidentemente. Continuavo a mandargli segnali differenti e,
per quanto me ne rendessi conto, non potevo comportarmi in altro
modo.
«Ok,
ho capito.» disse «Il mal di testa mi è
passato. Torno in classe.»
«Sii
gentile e dì al professore che sto arrivando anche
io.»
«E
se lo faccio che cosa mi dai in cambio?» domandò
allora, serissimo
nonostante entrambi sapessimo cosa volesse da me per quel piccolo,
innocuo favore.
Io
non risposi subito, specchiandomi in quelle iridi grigie piena di
risolutezza e anche di velato distacco: qualsiasi cosa avessi fatto
adesso, se si fosse trattato di un bacio o di una carezza, avrei
mandato a monte il mio grande
piano
facendogli capire che no, in realtà non volevo staccarmi da
lui per
nulla al mondo.
«…la
mia eterna gratitudine.» esordii poi, sghignazzando, la voce
ridotta
ad un tono fin troppo sarcastico.
Emanuele
sbatté appena le palpebre e, sospirando, si girò
andando ad aprire
la porta dell’infermeria. Ogni suo movimento era secco,
particolarmente violento, e io che lo stavo osservando non potei fare
a meno di riconoscere il ragazzo con cui avevo a che fare da ormai
cinque anni: la dolcezza che mi aveva riservato in quei giorni, per
via del nostro piccolo gioco, era totalmente sparita e adesso stava
dando sfogo alla sua rabbia come lo avrebbe fatto un bambino piccolo
una volta che i genitori gli proibiscono un piacevole passatempo. In
quel momento mi chiesi se sarebbe mai cresciuto, se, improvvisamente,
avrebbe capito cosa avevo cercato di fare quel giorno in quella
stanza.
Avevo
forti dubbi a riguardo.
L’ultimo
giorno di scuola prima delle vacanze natalizie era per noi studenti
un grande avvenimento. O, per lo meno, lo era per chi aveva la
fortuna di portare avanti una storia d’amore con qualcuno.
Verso
l’ultima ora – ma anche prima a dire il vero
– se giravi per i
corridoi non potevi fare altro che vedere ragazzi e ragazze che si
scambiavano pacchettini, lettere, baci ed abbracci, e chi ovviamente
non faceva parte di questa cerchia si ritrovava a desiderare che il
mondo implodesse pur di non dover assistere a scene tanto melense.
Era un po’ come un altro San Valentino, a dirla tutta, solo
che
questo aveva l’effetto di rovinarti tutte le vacanze se non
avevi
un partner.
Io
di solito, arrivata a questo giorno, mi nascondevo in classe sino a
che non ero certa che i più se ne fossero andati, ma siccome
quest’anno avevo un valido motivo per svignarmela prima
– un
motivo che se ne stava alle mie spalle, dietro al mio banco –
non
esitai un secondo a schizzare fuori dall’aula non appena
sentii
suonare la campanella. Misi tutto nella mia tracolla, mi alzai in
piedi, salutai chi dovevo salutare e mi diressi verso
l’uscita a
grandi passi, decisa, neanche fossi in procinto di fare qualcosa di
dannatamente importante e difficile. Personalmente non vidi neanche
coloro che mi stavano attorno. Limitandomi a fissare il pavimento
mentre mi dirigevo verso l’uscita, non ebbi modo di notare
quante
persone stavano sorridendo e quante, come me, avevano l’umore
sotto
alla suola delle scarpe.
«Angy!»
Sospirai,
corrugando la fronte. La voce di Seb non la potevo mica ignorare, lui
non aveva fatto niente di male né a me, né a
nessun altro…e
probabilmente non avrebbe mai fatto del male a nessuno, santo
com’era. Presi a voltarmi con estrema lentezza, neanche
volessi
dimostrargli di non essere proprio dell’umore per una felice
chiacchierata fra amici, ma quando mi fui girata completamente mi
ritrovai Emanuele fra le braccia dopo che era stato spinto da
Sebastiano. Diventammo rossi entrambi e, quando lui chiese scusa e se
ne corse via, io rimasi inebetita a stringere fra le mani qualcosa
che prima non ricordavo di aver avuto.
Guardando
il piccolo pacchettino azzurro feci tanto d’occhi, sorpresa.
«…è
da parte di Emmy.» mormorò Sebastiano
«Si vergognava a dartelo e
allora gli ho dato una piccola spinta. Nel vero senso della
parola.»
Intorno
a noi tutti avevano preso a vociferare, pensando erroneamente che
quel dono fosse da parte del giovane che avevo di fronte, e mentre
quest’ultimo si imbarazzava da matti negando a destra e a
manca
ogni suo coinvolgimento con qualsivoglia presente, io mi stringevo
nelle spalle sperando che ciò che era appena accaduto fosse
solo un
bruttissimo sogno. Strinsi il regalo al petto, confusa, dovendo
chiudere le palpebre per trovare l’equilibrio che ora mi
mancava
del tutto. Avevo la mente talmente affollata di quesiti che per un
poco non parlai, sopraffatta da una miriade di emozioni differenti.
Forse
non ero stata abbastanza cattiva, in infermeria.
Forse
avrei dovuto usare termini più espliciti per fargli capire
che non
volevo più andare avanti così, che preferivo fare
finta che lui non
esistesse.
Forse
avrei dovuto rendere la mia recita più eclatante.
…o
forse, ormai, non avevo più scampo da ciò cui io
stessa avevo dato
inizio.
«Non
dovresti darci corda, Seb.» bisbigliai, contrita
«Sai bene quanto
me che ciò che stiamo facendo io e lui non è
giusto.»
Lui
tornò a posare lo sguardo su di me e, sorridendo dolcemente,
scosse
piano il capo.
«Io
non credo.» rispose «Voi due siete fatti per stare
insieme, solo
che siete troppo cocciuti per capirlo.»
Avrei
potuto fargli notare che non spettava di certo a lui irrompere nelle
nostre vite per spingerci l’uno fra le braccia
dell’altra,
tuttavia me ne rimasi zitta e cominciai a correre nella stessa
direzione in cui era svanito Emanuele. Tanto, ora più che
mai,
sapevo di essere irrimediabilmente invischiata con lui in quella
storia nata sbagliata. Lo amavo, lo amavo tantissimo, ed il mio cuore
così fragile si era sobbarcato anche qualcosa di nuovo dal
giorno
prima. Desiderio. Passione. Necessità, quasi, di sentirlo
vicino a
me con costanza. Non potevo scappare, per quello era tardi.
L’unica
cosa che potevo fare era corrergli dietro, raggiungerlo, e sperare
che magari un giorno avrei avuto l’occasione di percorrere un
tratto di quel lungo percorso che è la vita al suo fianco.
Una
volta giunta alla porta che dava sulla terrazza della scuola mi
fermai a prendere fiato, esausta. Quel ragazzo aveva corso come un
forsennato senza meta per dei minuti, e questo potevo dirlo per via
del fatto che avevo chiesto informazioni su chi lo avesse visto,
ritrovandomi infine a vagare come una scema per l’intero
Istituto.
Il
battito cardiaco era veloce, ma tentai di non farci caso. Se avessi
dovuto preoccuparmi anche di quello oltre a tutto il resto, allora
sì
che avrei dato di matto nel giro di breve tempo. Ancora faticavo a
credere che la mia vita fosse così complicata, e per quanto
fossi
certa che al mondo c’erano persone che stavano peggio di me,
non
potevo non riflettere sul fatto che la mia condizione fosse alquanto
precaria. Non sapevo neanche come mai gli ero andata appresso.
L’unica cosa di cui ero certa era che la sua presenza nel mio
quotidiano cominciava a dare seri problemi.
Sistemandomi
un secondo, aprii la porta lentamente, udendo subito questa frase:
«Davvero
non capisco…perché sono scappato a quella
maniera?! Ah, sono
un’idiota!»
Io
sorrisi mestamente a sentirlo.
Chiusi
la porta alle mie spalle e parlai, veloce.
«Un
poco lo sei, sì.»
Lo
vidi guardarmi pieno di sorpresa e di imbarazzo, però tentai
di non
fare caso alla dolcezza che mi trasmetteva quell’espressione.
Ero
lì per dire una cosa importante, dovevo farlo senza fermarmi
una
volta tanto!
«Rispondi
sinceramente: pensi davvero che l’avermi come amante sia
ciò che
vuoi?»
«…se
a te ancora interessa…sì.» qui
sospirò «So perché mi hai detto
quelle cose prima, e vorrei che tu sapessi che…tra noi due
quello
peggiore sono io.»
Probabilmente
era stato Seb a dargli l’imbeccata, ma lì per
lì decisi di
ignorare anche questo.
«Sì,
tra noi due…» mi corressi subito «O
meglio, tra
noi tre
perché conto anche Alessia, il peggiore sei assolutamente
tu. Sei
cattivo, egoista e mostruoso…»
Arrivata
qui abbassai lo sguardo.
«…però,
sempre fra noi tre, quella più stupida sono io
perché nonostante
tutto non posso fare a meno di amarti.»
No,
non potevo smettere di provare quei sentimenti per lui. Dopo
quell’ennesimo tentativo era chiaro che dovevo solo alzare
bandiera
bianca e rassegnarmi, lasciando che la corrente mi trasportasse
ovunque volesse. Mi sentivo un po’ come se non avessi
più potere
decisionale su ciò che riguardava la mia esistenza e, forse,
in
fondo era davvero così. Vivere in funzione di
un’altra persona
era, per quanto la si amasse o detestasse, in egual modo nocivo.
Così
non potevi mai essere lucido, le tue decisioni non erano più
tue
poiché erano tutte prese in base a quel lui o quella lei che
ti
occupava prepotentemente il cuore.
Con
rinnovata tranquillità aprii il suo pacchettino e ne
estrassi un
bellissimo ciondolo di giada: era un pendente dalla forma
particolare, dipinto di blu scuro – il mio colore preferito
– ed
inserito in una cordicella nera. Abbozzai un sorriso mettendomelo.
«Che
ne dici» chiesi «me lo puoi dare un
bacio?»
Emanuele
non proferì parola, ma si avvicino. Posando una mano sulla
collana
spostò una ciocca dei miei capelli, sorridendo anche lui.
«Ti
sta d’incanto, lo sai?» disse, prendendomi il viso
fra le mani e
baciandomi dolcemente «…buon
Natale…»
Tornò
a baciarmi, stavolta con più passione, e per quanto i miei
pensieri
non fossero proprio tutto rose e fiori, io non mi ritrassi e anzi mi
feci più vicina a lui, alla ricerca di una sicurezza che al
momento
mi mancava totalmente. Sin da piccola mi ero vista fin troppo incerta
circa ciò che volevo dalla mia vita. Ero piena di idee, di
sogni, ma
sapevo anche che non sempre avrei avuto il coraggio per portare a
termine determinate cose e che, anzi, con tutta probabilità
avrei
finito col mettere da parte ogni aspirazione. Il fatto era che da
sola mi sentivo incapace di fare ciò che volevo e, di
conseguenza,
continuavo ad appoggiarmi a chi mi stava attorno.
Questa
volta, per quanto sbagliato lui potesse essere come appiglio, avevo
scelto Emanuele. Quel ragazzo era il punto focale di ogni mia ansia,
di ogni mio piacere, e come tale era divenuto anche l’unico
capace
di salvarmi dal marasma di guai in cui minacciavo di cadere.
Il
problema però stava nel fatto che aveva anche la
capacità di
spingermici dentro.
«Ti
amo tanto…» dissi alla fine, staccandomi e
guardandolo in volto
«…non dimenticarlo mai.»
Dopo
un altro sorriso quanto mai sforzato, ebbi la forza di andarmene e
lasciarlo per conto suo: di sotto, in cortile, sapevo che Alessia lo
stava aspettando per andare magari a casa insieme e io, proprio
perché avevo appena acconsentito a diventare
l’amante del suo
fidanzato, non potevo proprio permettermi di farmi vedere insieme a
lui. Non ora. Non subito. Conveniva giocare d’astuzia e
tenere
nascosto tutto quanto.
Di
lì in poi, me ne rendevo conto, non avrei più
potuto vederlo fuori
casa senza la presenza almeno di Sebastiano. Serviva un certo
contegno per tenere nascosta la nostra relazione, e né io
né
Emanuele eravamo abbastanza in gamba per incontrarci senza che la
forte attrazione che oramai provavamo l’uno per
l’altra si
manifestasse.
Arrivata
a casa mi ritrovai a sospirare, tirando un enorme sospiro di
sollievo. Improvvisamente capivo la necessità di Superman
d’avere
tutta per sé la Fortezza della Solitudine: io che avevo solo
diciotto anni e di certo non tutte le sue preoccupazione, non sapevo
proprio come avrei fatto ad andare avanti senza la mia adorabile,
bellissima casetta, in cui vivevo in solitaria e dove potevo
ragionare sui miei guai con calma prima di lanciarmi a capofitto in
una nuova, difficile giornata.
Abbandonando
a terra la mia tracolla, feci tanto di levarmi la giacca e le scarpe
quando, con mia grande sorpresa, notai che i festoni di natale erano
stati appesi nell’ingresso. Subito mi irrigidii
perché, sappiatelo
tutti, io non sono il tipo che bada a queste cose. Mi limito ad
arredare l’albero e anche questo accade minimo due giorni
prima il
25.
Era
dunque chiaro che qualcuno era entrato in casa.
Deglutii,
afferrando un ombrello.
«C’è…c’è
qualcuno?» domandai, sentendomi una di quelle povere galline
che,
nei film horror, ritrovandosi in una casa buia non trovavano niente
di meglio da fare che porre la mia stessa domanda, aspettandosi
magari che il cattivo di turno venisse fuori esordendo con un
“Sì,
ci sono io, sai com’è ti voglio
uccidere!”.
Feci
qualche passo avanti, titubante, e quando mi affacciai
all’entrata
del soggiorno un ragazzo alto e con indosso un cappello da Babbo
Natale mi si parò di fronte, causandomi un maledetto infarto
–
come se già non avessi guai da sola con il cuore, eh.
«Sorpresa!»
«Simon!
Mi hai…mi hai spaventata a morte!»
Simon
alzò le spalle, correndo ad abbracciarmi. Lo sentii ridere
mentre mi
stringeva a sé con la sua solita delicatezza. Io mi adattai
subito,
gettandogli le braccia al collo. Avevo registrato solo ora chi era
colui che avevo di fronte e, scoppiando a ridere, chiusi gli occhi
assaporando il momento.
«…fratellone!»
esclamai «Credevo saresti arrivato la settimana
prossima!»
«E
secondo te mi perdo l’opportunità di stare con la
mia sorellina
più tempo? Giammai.»
Mi
staccai da lui e lo presi per mano, saltellando allegra verso il
grande divano sotto alla vetrata della zona giorno. In un batter
d’occhio mi misi seduta, trascinandolo al mio fianco.
«Che
sorpresa magnifica!»
«Eh.
Ovvio che è una sorpresa magnifica. Io sono
magnifico ergo anche la mia sorpresa lo è.»
Risi.
«Ok, Simon, come dici tu.»
«Allora,
cosa racconti al tuo redivivo fratello – poiché
reduce dagli esami
– appena tornato all’ovile?»
Chiaramente
non potevo raccontargli delle ultime svolte che aveva preso la mia
vita, nonstante avessi desiderato un parere esterno per riuscire a
fare chiarezza dentro alla mia testa. Tentai in ogni modo di non dare
a vedere l’agitazione che mi animava quando ebbi la forza di
dire
“non è successo niente di rilevante”.
«…niente?»
continuò lui «E questa? È
nuova?»
Prese
fra le mani il mio ciondolo ed io, rabbuiandomi forse un poco,
inclinai leggermente il capo.
«Un
regalo.»
«Un
regalo…che non ti ha portato molta gioia, a quanto
vedo.»
«No
è che…» esitai.
«…ho
capito. Non ne vuoi parlare.»
«Già.»
Simon
si alzò in piedi e, sogghignando, andò in cucina
per mettere su
l’acqua per un bel thè. Prima di raggiungere la
cucina, però, si
voltò a guardarmi.
«Emanuele
ha buon gusto, eh?»
Diventando
rossa, spalancai la bocca e lo lasciai andare.
Come
cavolo faceva a sapere sempre
tutto?!
La voce dell'Autrice: Che dire di questo capitolo se non che io stessa sono confusa dalle azioni della protagonista? Prima sì, poi no, poi di nuovo sì...e la cosa diventerà anche peggiore!
In realtà posso anche comprenderla, una situazione del genere è tutto fuorché semplice da gestire, e considerando che lei stessa ha già molte cose a cui pensare non oso immaginare quale immane CASINO stia diventando la sua vita. Quindi, in definitiva, un pò di confusione mentale gliela posso anche abbuonare.
Che ne pensate voi? Fatemelo sapere! Adios |
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Capitolo 8 *** Non riesco a decidermi ***
Sette:
Non riesco a decidermi
Una
cosa bella nel mio rapporto con Simon, era che nonostante avessimo
ben sette anni di differenza entrambi riuscivamo a capirci e
sostenerci senza mai andare troppo in disaccordo. Avendo perso nostra
madre quando ancora eravamo “piccoli” ed avendo un
rapporto con
nostro padre che definire caotico era poco, eravamo sempre stati noi
due contro tutto il resto del mondo. Ci capivamo al volo, forse alle
volte anche quando uno di noi - o entrambi - non voleva che
ciò
accadesse.
Il
periodo che seguì il mio ultimo giorno di scuola prima delle
vacanze
natalizie, ebbe modo di mettere in luce il fatto che non sarei mai
stata capace di tenergli nascosto qualcosa: per tutto il tempo che
lui rimase, per quanto facessi del mio meglio per non dare a vedere
la mia angoscia o la mia ansia, seppi mantenere il mio segreto senza
però dargliela a bere. Simon non mi chiese nulla, preferendo
che
fossi io a parlargli per prima dei miei problemi, e quando purtroppo
arrivò il momento, per lui, di tornare
all’Università, fra noi
rimase aperta quell’unica piccola incomprensione.
Avrei
tanto desiderato potermi aprire con lui, magari anche di poco,
necessitando di un parere che non venisse da Sebastiano – che
comunque aveva il giudizio annebbiato, poiché amico di
entrambe le
parti in gioco – ma da qualcuno che fosse assai
più schietto di
lui. Simon, di fatti, non era mai stato capace di dirmi la sua senza
staccarsi un attimo dal suo ruolo di fratello maggiore: se una cosa
non era giusta, me lo diceva, eliminando dal suo discorso i fronzoli
o i giri di parole. Era dell’idea che le erbacce andassero
estirpate subito, limitando quei danni che, altrimenti, continuando a
fare finta che il problema in questione non esistesse, avrebbero
potuto danneggiare tutta la nostra vita.
Il
più delle volte consideravo questo suo atteggiamento poco
obbiettivo
e decisamente cinico, ma questa volta era chiaro che fosse quel
genere di pensiero ad essermi più utile.
Io,
ormai, non ero più in grado di decidere per il meglio.
L’amore ed
il desiderio mi avevano trascinata in un mondo diverso, distorto
rispetto a quello in cui avevo vissuto per la bellezza di diciotto
anni. Ora me ne stavo semplicemente lì, immersa nei miei
pensieri e
nei miei folli sentimenti, ad attendere che il giorno del giudizio
universale riversasse su di me ogni punizione.
***
Dopo
aver parlato un po’, Simon cominciò a chiedermi
della patente.
Ero
molto fiera di me visto che finalmente ero riuscita a superare tutti
i test, aggiudicandomi quel piccolo pezzo di carta che, un giorno, mi
avrebbe consentito di guidare la mia prima automobile. Rispondendogli
quindi con fare trionfante, scoprii alla fine che non avrei dovuto
attendere molto affinché il mio sogno diventasse
realtà: portandomi
alla finestra del soggiorno, quella che dava sul parcheggio nel
piazzale sottostante casa nostra, lui mi indicò una macchina
e mi
disse solennemente “Quella è tua. Trattala
bene.”
Inutile
dire che la mia reazione fu tra il frastornato e
l’entusiasta.
Cominciai a ricoprirlo di baci, stringendolo fra le braccia mentre,
piano piano, mi rendevo conto del regalo che aveva voluto farmi.
«Santo
cielo, ma tu sei fuori di testa!» esclamai ad un certo punto,
saltellando attorno alla poltrona su cui Simon si era seduto
«Insomma, mi hai comprato un’auto!»
«Niente
di più, niente di meno.»
«E
con che soldi?»
«Sai,
quelli che mamma ci ha lasciato, assieme a quelli del nonno, sono
abbastanza da permettermi di fare una spesa così
folle…»
Abbozzai
un sorriso a sentirgli dire “mamma” e
“nonno”. Quelle erano
due persone che non avrei mai dimenticato e che, fra tutta la
disperazione cui io e Simon avevamo dovuto far fronte, mi avevano
sempre donato sorrisi e dolcezza. Perfino ora che non c’erano
più
riuscivano a fare tanto.
«Accidenti…
Devo dirlo al fratellone!»
A
sentirmi, Simon corrugò la fronte, cercandomi con lo
sguardo. Mi
seguì per tutto il tragitto che mi condusse dalla sua
poltrona, al
telefono cordless posizionato poco distante su ripiano vicino alla
televisione. Per un po’ non disse niente ma, considerandomi
forse
un poco frastornata per via della grande sorpresa, si alzò
in piedi
avvicinandosi subito a me.
«Ehm…
Guarda che io sono qui.» disse «So cosa ti ho
regalato. Appunto
perché sono stato io a comprare
quell’auto…lo so.»
C’era
insicurezza nella sua voce e io, ridendo, mi girai velocemente prima
di spiegargli cosa intendessi con quel
“fratellone”. Sì, perché
nella mia vita, come se già non fosse stramba di suo, mi ero
ritrovata ad avere ben due fratelli: uno di sangue, che al momento mi
stava proprio di fronte al naso, ed uno conosciuto poco tempo prima
con cui avevo stretto un legame che dire stretto era dire poco.
Composi il numero di Sebastiano sui tasti bianchi del telefono,
rivelando l’arcano mistero al mio confusissimo parente.
Questo,
annuendo, tirò un enorme sospiro di sollievo e se ne
ritornò al suo
posto, accendendo con fare svogliato la tv.
«Angy!»
Come
al solito Sebastiano mi accolse con una risata, facendomi sentire
ancora una volta la persona più fortunata del mondo
nell’averlo
come amico.
Sorrisi,
emozionata.
«Oddio,
Seb, non crederai mai a ciò che mi è
successo!» esultando come una
matta ripresi a saltellare, stavolta sul posto, mostrandomi per la
sciocca che ero agli occhi di Simon, il quale mi stava guardando
divertito «Il grande capo è tornato e, indovina un
po’, mi ha
regalato una macchina!»
«No,
mi stai prendendo in giro.»
«Sono
serissima!»
«Una
macchina?! Ma stai scherzando?!»
Feci
una pausa, alzando gli occhi al cielo.
«…non
ritirerai mica fuori la storia del tuo motorino, adesso.»
«Era
nuovo di zecca, i freni funzionavano benissimo…e tu sei
riuscita a
spaccarlo comunque.»
«Beh,
è diverso adesso: non ho mai detto di saper guidare
quell’affare,
invece per la macchina ho fatto la patente. C’eri anche tu
quando
l’ho ritirata! Non è di certo colpa mia se non hai
avuto la
prontezza di spirito di chiedermi se
avessi avuto esperienza con moto e affini.»
Vinto
dalla mia logica schiacciante – ma rimanendo
dell’idea che fossi
un pericolo pubblico – Sebastiano sospirò e,
tornando del suo
solito umore solare, cominciò ad elencare con me i posti in
cui
saremmo potuti andare insieme di lì in poi. Finalmente non
c’era
più bisogno degli adulti, potevamo prendere e fare
ciò che volevamo
o, per lo meno, potevamo sognare di farlo. Era sempre bello avere
qualcosa per cui sperare.
«Visto
che il Giappone è ancora troppo lontano»
asserì lui, ad un certo punto «direi
che possiamo limitarci a viaggetti un po’ più
corti.»
Risi.
«Lo penso anche io.»
«Comunque
non mettiamo via un sogno tanto importante. Il Giappone ci chiama,
sorellina.»
«Ah,
lo so.» poi, come colta da un’idea sensazionale,
aggiunsi
dell’altro «Senti, perché non vieni qui
da me, oggi? Le vacanze
iniziano domani e perciò abbiamo la mattina per dormire. E
se
facessimo un pigiama party? Uno dei nostri, pieno di schifezze da
mangiare, film fino a notte fonda e chiacchiere sotto alle
coperte.»
A
sentirmi Simon si alzò di scatto ed andò a
controllare nel frigo se
avevamo abbastanza roba da mangiare: Seb era conosciuto da tutto il
mondo per la sua fame insaziabile, cosa che lo rendeva sì
molto
simpatico agli occhi della gente, ma anche molto costoso quando lo si
voleva invitare a cena a casa propria. Non molto tempo prima, dopo
aver passato anche solo qualche ora da me, mi ero ritrovata senza
nulla di sostanzioso da mangiare per la sera.
«Vengo
subito!»
disse il ragazzo, esultando all’altro capo del telefono «Sarà
il miglior pigiama party/festa per la nuova macchina mai visto
prima!»
«Probabilmente
è anche l’unico che è stato mai
fatto…»
Improvvisamente
sentii degli strani rumori, dalla cornetta, ed acuendo
l’udito –
per quanto fossi nota per la mia quasi totale sordità
– cercai di
capire se ciò che sentivo fosse un disturbo dovuta alla
linea o a
qualcosa che stava capitando al mio povero amico. Fu allora che mi
resi conto di conoscere la voce che accompagnava la sua.
Emanuele
stava con Sebastiano e, ora, aveva sentito ciò che avevamo
intenzione di fare quella sera. Come al solito avrebbe frainteso,
ingelosendosi per non si sa quale motivo e rendendo poi la vita
impossibile sia a me che a Seb. Non sapevo neanche se dovevo
cominciare a preoccuparmi, scrivendogli magari un messaggio con il
cellulare per scusarmi di non averlo invitato, o altro.
Pur
volendo essere buona, non avevo molta voglia di chiamare anche lui, e
questo non perché fossi arrabbiata, quanto più
perché non avevo la
forza di affrontarlo: solo qualche ora fa avevo accettato di
diventare la sua amante, ruolo che sapevo già in partenza
non mi si
addicesse molto, e che, anche questo già lo sapevo, avrebbe
portato
ad entrambi tanti di quei problemi che metà ci sarebbero
bastati per
tutta la vita. Se Emanuele fosse venuto, mi sarei dovuto gettare a
capofitto nella mia ben consueta inquietudine e, almeno per un
giorno, avrei tanto desiderato evitarmelo.
Una
sola giornata passata con Simon e con Sebastiano non poteva certo
dargli troppo fastidio.
«Scusa,
Angy…»
La
voce di Seb mi riportò alla realtà e sentendolo a
chiedere scusa,
non potei fare a meno di domandarmi se non mi fossi persa una parte
del discorso, per via del mio continuo pensare.
«Scusa
per cosa?»
«Per
le idiozie che avrai sentito dire a quello scemo di Emmy.»
Lui
calcò sulla parola scemo, e io immaginai che
l’altro fosse
abbastanza vicino da sentirlo e mettere il muso.
Ne
sorrisi, sinceramente divertita. Vederli bisticciare – o
anche solo
sentirli – era un po’ come osservare una coppia di
vecchietti,
innamorati l’uno dell’altra, tuttavia troppo
orgogliosi e
rimbambiti per riuscire a passare sopra alle pessime abitudini del
consorte. Abitudini che, nonostante tutto il tempo passato assieme,
non erano riusciti minimamente a cambiare.
Ancora
faticavo a decidere chi fra i due interpretasse la parte della
moglie, però come esempio ci stava tutto.
«A…
A dire il vero non ho ascoltato, stavo pensando a
tutt’altro.»
rivelai infine «Scusami tu.»
Per
un secondo avevo perso forza nella voce e, al solito, lui non aveva
potuto ignorare tale fatto. Percepii il suo spostamento e quando
cominciò a sussurrare seppi per certo che si era andato a
nascondere
da Emanuele.
«Ti
ha fatto per caso qualcosa…?»
mi chiese «…qualcosa
in più rispetto a ciò che mi hai raccontato
stamattina, intendo.
Perché se così fosse, giuro che stavolta lo
prendo a pugni.»
«Ma
no, no, che vai a pensare!» agitando le mani, neanche potesse
vedermi, mi affrettai a spiegargli la situazione «Non ha
fatto
niente di male, credimi. Prima, sul tetto, ci siamo parlati
e…abbiamo
fatto pace. Ti parlerò dei dettagli più
tardi.»
«Se
avete fatto pace, come mai ha-…»
«È
solo che non pensavo a lui da quando sono tornata a casa, visto che
Simon mi ha tenuta occupata, ma…» abbassai anche
io il tono della
voce, temendo che mio fratello stesse origliando dalla cucina
«…non
appena vi ho sentiti parlare… Non appena ho sentito lui,
tutto mi è tornato addosso e mi è mancato un
battito.»
«…capisco.»
In
un battibaleno scoppiai a ridere, cercando di risollevare una
conversazione che, altrimenti, per via dei soliti stupidi motivi,
minacciava di rovinarsi per sempre. Stavano organizzando una mini
festicciola, o era stata solo una mia impressione?
«Ti
aspetto qui per cena, Seb.» esordii, tagliando corto.
«Ok.
Ci vediamo dopo!»
Dopo
aver riattaccato, andai da mio fratello e, uscendo con lui di casa,
decidemmo di fare un po’ di spesa. Di roba ne avevamo, ma
chissà
come mai pensavamo entrambi che non sarebbe bastata…
Tornati
a casa, cominciammo subito a darci da fare, sistemando le provviste
appena prese e preparando la tavola mentre, nel forno, cuoceva
qualcosa di delizioso. Il profumo dell’arrosto, il quale si
stava
dorando perfettamente, si era sparso per tutta la cucina,
infiltrandosi anche nella sala da pranzo. Io me ne stavo seduta
lì,
annusando di tanto in tanto l’aria con sguardo sognante,
pronta ad
inforcare qualsiasi cosa mi venisse messa nel piatto purché
avesse
quello stesso, splendido odorino.
Le
gambe accavallate, le mani strette ai bordi della sedia, sorridevo
tranquilla in attesa o che suonassero alla porta o che il timer del
forno trillasse.
In
ambedue i casi sarei stata enormemente felice.
«Sono
contento…» mormorò Simon, asciugandosi
i capelli bagnati con
l’asciugamano che teneva sulle spalle. Girando il volto verso
di
lui gli sorrisi, cercando di capire cosa lo rendesse felice
«…sono
riuscito a farmi una doccia prima che venisse Seb.»
«Questo
è motivo per essere contenti?» domandai.
«Certo
che sì.» rispose l’altro, sedendosi
vicino a me, a capotavola
«Voglio avere modo di parlargli un po’, prima che
tu prenda
possesso di quel povero ragazzo impedendomi di dire anche solo
“Ciao”.»
«In
effetti non lo vedi da tanto, e lui ti è sempre stato molto
simpatico.»
Immediatamente
mi chiesi chi, al mondo, potesse avere in antipatia Sebastiano ma,
volendo evitare simili domande cosmiche, decisi di tenere quello
sciocco quesito solo per me.
«Appunto.
Ecco spiegato come mai ti ho chiesto di guardare l’arrosto
mentre
io andavo a farmi bello.»
Annuii,
decisa a non approfondire ulteriormente quello stupidissimo discorso.
Trovavo infatti che fosse assurdo il fatto che mio fratello mi
facesse la scenata per via del fatto che monopolizzavo i
miei
amici. Quando era lui a portare qualcuno a casa, ignorandomi
completamente, io non facevo storie e mi mettevo a leggere, a
scrivere, o tutt’al più a guardare la televisione.
Lui, invece,
principe dell’egocentrismo – sempre dopo Emanuele,
comunque –
non poteva fare a meno di mettersi al centro dell’attenzione,
tentando magari di mettermi in imbarazzo con chi di dovere.
Stavolta
però, visto e considerato che c’erano questione
ben più
importanti di quelle che solitamente Simon riusciva a tirare fuori,
non gli avrei permesso di dare troppo fiato alla bocca. Purtroppo per
me Sebastiano era così sincero che, anche volendo tenere un
segreto
per via di una promessa, si capiva subito quando stava omettendo di
dire qualcosa di importante: bastava guardarlo negli occhi, quegli
occhioni scuri tanto simili ai miei, eppure totalmente incapaci di
portare rancore. Era così che io scoprivo cosa aveva
combinato Emmy
di solito, ed era così che, nel bene e nel male, mi
ritrovavo a
pormi domande sulla sua dubbia morale.
«Scusa
ma… Non doveva venire solo Seb?»
Tornando
a posare la mia attenzione su Simon, notai che si era rialzato e si
era diretto verso la grande vetrata della sala da pranzo. Mi alzai
anche io, curiosa di capire di che accidenti parlasse, ora, ma quando
arrivai al suo fianco desiderai di non aver mai compiuto quel breve
viaggio.
Là
fuori, davanti al cancello di casa, vidi Sebastiano ed Emanuele a
parlare fitto fitto, nascosti parzialmente da uno degli alberi del
giardino.
In
un attimo non seppi più che fare, dire o pensare. La mia
mente andò
in tilt. Probabilmente, se in quel preciso istante fossi stata
attaccata ad una di quelle macchine ospedaliere con gli
encefalogrammi, il mio segmento sarebbe stato assolutamente piatto.
«Oh,
ma quello è l’altro tuo
amico…»
Strinsi
le mani in due pugni e, per un secondo, ebbi lo spiacevole impulso di
dire tutta la verità a mio fratello: se lo avessi fatto di
certo si
sarebbe arrabbiato con me ma, di sicuro, avrebbe riversato tutta la
sua ira sulla persona che mi aveva spinta fino a quel confine.
Avrebbe picchiato Emanuele, intimandogli di non avvicinarsi
più a
me, di non farmi più soffrire, e io finalmente avrei potuto
respirare, lavandomi le mani di quella situazione spiacevole una
volta per tutte. Subito dopo aver formulato quest’ipotesi,
però,
mi sentii un mostro. Non era Simon a dover porre rimedio ai miei
errori. Avevo diciotto anni e forse era arrivato il momento, per me,
di sistemare da sola certe cose.
«Torno
subito.» mormorai, correndo all’entrata e prendendo
la prima
giacca che mi capitò a tiro.
Corsi
di sotto, fermandomi appena in tempo per udire l’ultima parte
della
conversazione dei miei due compagni di classe.
«Dio,
alle volte non ti sopporto proprio, Emanuele.»
Mi
sporsi un poco oltre il muretto, cercando di intravedere almeno il
viso di uno di loro.
Ironia
della sorte, riuscii a scorgere proprio l’espressione di
Emmy.
Si
era fatto serio, quasi impaurito, e mentre cominciava ad impallidire
lo vidi stringere un mazzo di rose blu – erano per me?
– con una
mano sola, cercando, con quella libera, la spalla dell’amico.
«Ti
prego, promettimi che rimarrai mio amico per sempre.»
«…Non
saprei. Se non darai più colpi di testa… Forse.»
«Sebastiano,
io ho bisogno del tuo appoggio. E ne avrò bisogno sempre.
Quindi, ti
prego… Rimani mio amico per sempre, qualsiasi cosa
faccia.»
Sebastiano
lo fissò stranito, corrugando la fronte in modo curioso.
Quando era
perplesso, gli compariva una strana ruga in mezzo alla fronte,
piccolo particolare che non mancava di farmi sorridere. Perfino ora,
ad origliare una conversazione all’apparenza tanto
importante, non
potei fare a meno di abbozzare un sorrisetto divertito.
«Da
come stai parlando, sembra quasi che tu sappia di essere in procinto
di fare qualcosa di assolutamente inaudito.»
cominciò a dire Seb,
inclinando il capo «Qualcosa di più stupido del
tradire la propria
ragazza con la propria migliore amica.»
«Io
sono solo previdente.»
«Emmy,
tu me lo devi davvero spiegare adesso…»
sbottò Sebastiano «Credo
di sapere chi preferisci tu, fra le due. E se ci sono arrivato io,
che la vedo da fuori questa cosa, mi pare impossibile che tu non
abbia capito dove ti portino i tuoi sentimenti. Ti stai comportando
come un bambino, e nel mentre stai distruggendo un rapporto molto
importante. Dovresti smetterla.»
«Le
voglio tutte e due. Che posso farci se è
così?»
«Sì,
ok, ma chi vuoi di più?»
«Non…
Non lo so.»
«Adesso…
Chi desideri di più?»
«…forse…
Forse voglio-…»
«Ciao
ragazzi.»
Decisi
di uscire solo allora, repentinamente, correndo verso di loro come se
fossi appena uscita dal portone della mia dimora. Non avevo la forza,
ora, di sentire la verità. Ero propensa a credere che il
cuore di
Emanuele appartenesse ad Alessia, non a me, e sicura di questo non
avrei mai potuto sopportare di sentirglielo dire proprio adesso che
ero ridotta a quel modo per colpa sua.
Lo
amavo e, per una volta, ero io a non voler vedere la verità.
I
due si girarono verso di me e Seb avvicinandosi mi sorrise. Forse si
stava chiedendo cosa avessi sentito del loro discorso, tuttavia,
essendo io un’attrice ben più talentuosa di lui,
non avrebbe mai
potuto capire niente guardandomi. Non stavolta.
«Ciao!»
esclamò.
«Vi
ho visti dalla finestra e ho deciso di raggiungervi.»
«Hai
fatto bene. La conversazione langue. Sai com’è,
Emmy non è un
grande interlocutore.»
Risi
di gusto, ad ascoltarlo. «Devo sempre venire a salvarti,
eh?»
«Chiaro.»
Mi
strinsi nelle spalle, dondolando sul posto. Ancora stavo esitando ma,
non appena alzai lo sguardo da terra, incontrai gli occhi grigi di
Emanuele. Gli sorrisi, cercando di dimostrarmi coraggiosa e sicura
quando invece era tutto il contrario, come al solito se si trattava
di lui.
«Seb,
mio fratello ti sta aspettando di sopra. È tutto emozionato
perché
finalmente ti può rivedere.»
«Dici
davvero?»
«Ah-ah.»
«Non
è che invece vuoi sbaciucchiarti con quel povero
mentecatto…?»
Arrossendo
scossi il capo, irrigidendomi. Sapevo che stava cercando di mettermi
in difficoltà e, lasciandolo andare, aspettai ancora un
attimo prima
di avvicinarmi al mio “non
riesco più a chiamarti amico”.
Il nostro comune compagno se ne era andato e nessuno di noi, quindi,
aveva una spalla cui potersi appoggiare per dialogare in modo
normale.
Ci
guardammo per un poco, senza proferire parola, e anche quando il
disagio prese il sopravvento fummo totalmente incapaci di dire un
alcun che. Agitata per ciò che stava accadendo – o
che non stava
accadendo – presi a fissare il mazzo di fiori che lui
stringeva fra
le mani, quasi fosse in procinto di spezzare gli steli delle rose in
due per via della forza che ci stava mettendo in quella presa ferrea.
«Quelli
sono per me…?»
Indicai
i fiori, sfiorandoli subito dopo aver parlato. Le rose avevano dei
petali soffici, delicati, e il profumo dei miei fiori preferiti
raggiunse in un attimo le mie narici, sostituendo il ricordo
dell’arrosto che, in cucina, stava ancora cuocendo.
«Sì,
vedi…» lui si grattò una guancia
«Volevo chiederti scusa. Scusa
per come sono venuto oggi a scuola. O meglio, per ciò che mi
hai
visto fare…a scuola.»
Ero
incapace di comprendere cosa lo avesse spinto a tirare fuori quel
discorso proprio adesso. Non sapevo nemmeno che mi avesse visto,
quella mattina, visto quanto era impegnato a stringere e ridere con
la sua adorata Alessia. Un po’ ero felice che mi avesse
notata, ma
dall’altra propendevo per la tristezza: non lo avevo
incolpato di
aver dedicato del tempo alla sua ragazza, né tanto meno per
ciò che
era accaduto fra noi due in quei giorni.
Certe
cose si fanno in due.
«Scusa
se ti ho fatta stare male. Mi sento in colpa per quello che ti ho
fatto.»
«Emmy,
io…»
«No,
ti prego fammi finire.»
Lo
guardai negli occhi, sconcertata. Se avesse cominciato a chiedermi
scusa di tutto, avrei avuto la forza di non scoppiare a piangere?
«Quello
che è successo ieri sera…»
continuò «Sono contento di averlo
fatto. Volevo sul serio che tu fossi mia, perché
tu… T-Tu…»
Emanuele
scosse il capo e allora mi diede il mazzo di fiori, sospirando.
«…ecco
tieni. Buon Natale.»
C’era
tanta desolazione in quelle parole, nei suoi gesti, e perfino nel suo
sguardo. Se avessi potuto farlo, di certo avrei optato per la fuga in
quel momento.
Mi
avvicinai titubante a lui e, stringendo al petto le rose, posai anche
io il mio sguardo a terra. Non ero sicura di ciò che avrei
dovuto
dire, a dire il vero. Non sapevo se essere felice per ciò
che mi
aveva rivelato, o magari sentirmi offesa per chissà quale
altro
motivo. Mi aveva appena definito come una persona di cui non poteva
fare a meno? Oppure mi ero ritrovata ad interpretare non la parte
dell’amante, che già di per sé trovavo
alquanto triste, bensì
quella dell’amante-passatempo, ovvero della bambola votata a
soddisfare unicamente i piaceri sessuali di un adultero?
Boh.
Ormai non ci capivo più niente neanche io.
«Grazie.»
riuscii a sussurrare, allungando una mano verso di lui.
Sfiorai
con la punta delle dita la sua giacca, sforzandomi di non alzare
ancora gli occhi per incontrare i suoi. Se lo avessi fatto avrei
finito col baciarlo e allora, quell’attimo tanto delicato e
chiaramente dedicato alle confessioni, sarebbe scoppiato come una
piccola bolla di sapone.
«Io…»
Anche
lui fece per accarezzarmi, però all’ultimo si
fermò, lasciando
cadere il braccio lungo il corpo.
«Prego.»
«Senti,
io non ero arrabbiata per ciò che pensi.» esordii
infine, scuotendo
poi energicamente il capo «Anzi io… Io non ero
neanche arrabbiata.
Al massimo dispiaciuta. Sapevo dall’inizio di non avere
chance
contro di lei.
Alessia è la tua ragazza ed è normale che voi
passiate del tempo
insieme. Quella da tenere nascosta sono io, non lei.»
«Perché
sei…l’amante.»
«Perché
sono l’amante, sì.»
Sorrisi,
stringendomi nelle spalle.
Non
c’era motivo, per me, di negare ciò che ero. Un
po’ mi dava
fastidio, ma tanto valeva prendere le cose migliori di quello che mi
stava succedendo, smettendola, una buona volta, di vedere tutto in
negativo.
«Certo.
E tutto questo non ti pesa né ti sconvolge.» mi
accarezzò,
toccando appena l’angolo della mia bocca, perplesso
«Sul serio,
come accidenti fai a sorridere ancora?»
Dicendo
questo si prodigò in un abbraccio e io, sconvolta da un
simile
comportamento da parte sua, non seppi che altro fare se non drizzarmi
malamente sulla schiena.
«Sono
un mostro, vero?»
Non
risposi.
«Scusami.»
Chiunque
gli avrebbe risposto “Sì, sei un
mostro.”, ma ribadendo il mio
concetto, ovvero il fatto che in quel genere di situazioni ci si
finiva per colpa di due persone e non di una sola, non avrei mai
proferito simili ipocrite parole. Ero da biasimare tanto quanto lui e
poi, giusto per puntualizzare una cosa, era molto facile capire come
mai ancora riuscivo a sorridere.
Ricambiai
perciò il suo abbraccio, ridendo sotto ai baffi mentre mi
stringevo
con tutta tranquillità a lui.
«…sorrido
perché, in mezzo a tutto questo dolore, tu ci sei
ancora.» lo
guardai, sicura «Fino a che avrò te, come amico,
amante o quello
che vuoi, del resto non mi importa. Ti amo e anche se tu da me vuoi
solo una cosa… Non mi importa.»
Lo
avevo sorpreso, lo capii subito dalla sua espressione mezza
sconvolta. Io stessa mi stavo sconcertando vista la facilità
con cui
lui avrebbe potuto usarmi a suo piacimento: improvvisamente fui grata
al cielo di non essermi mai innamorata, visto e considerato che mi
donavo anima e corpo fin troppo a colui che mi aveva rubato il cuore.
Al contempo, però, pregai affinché Emanuele non
mi riducesse troppo
male, con quella storia.
Un
po’ ne sarei rimasta bruciata, era chiaro, ma speravo non
troppo.
«Mi
ami tanto, eh?» disse, sorridendomi mestamente «Ne
sono felice.»
«Non
te lo avevo già detto cento volte, quanto ti amo?»
«Di
certo ti accontenti di poco.»
«Questo
si chiama amare incondizionatamente.» bofonchiai io
«Altresì detto
“essere stupidi”.»
Emmy
alzò gli occhi al cielo, corrugando la fronte.
«Ora…devo andare.»
«Oh.
Già te ne vai…?»
Feci
qualche passo indietro, dondolando sul posto. Il distacco era sempre
stato difficile, quando si trattava di lui, ma chiaramente, ora che
in qualche modo stavamo insieme, la cosa era ancora più
complicata.
Non avrei mai voluto separarmi da Emanuele, neanche se ne fosse
dipesa la mia vita. Era così bello stargli accanto, anche
quando mi
faceva impazzire dalla rabbia. Un po’ mi completava, mi
faceva
dimenticare tutte le mie paranoie, i problemi del mio passato, le
ansie per il futuro…
La
testa mi si riempiva solo di lui.
«Sì,
è meglio che vada. Massimo non sta tanto bene dalla sera del
concerto. Si è preso una bronchite, mi sa.»
«Povero
Massimo! Mi dispiace che stia male.»
Veloce
estrassi una rosa dal mazzo e, porgendola al ragazzo che avevo
dinanzi, abbozzai un altro dei miei sorrisi indecisi.
«Dalla
a tuo padre e digli che spero guarisca presto.»
«Va
bene, lo farò.»
Emanuele
mi guardò di sbieco, come volesse aggiungere
dell’altro, ma forse
qualche suo pensiero glielo impedì.
«Noi…ci
vediamo…»
«Ciao.»
Ritornata
dentro casa notai subito che Sebastiano mi guardava in modo strano.
Per
la maggior parte del tempo decisi di non dar peso ai suoi sguardi,
neanche fossi ancora convinta di meritarmi almeno un giorno di
normalità come tutti gli altri esseri umani del mondo. Mi
godetti
quindi la cena in compagnia dei miei due fratelloni – per
così
dire – e poi, in camera da letto, decisi di affrontare la sua
evidente preoccupazione con la mia rinnovata tranquillità.
«Allora,
mi vuoi dire che cosa c’è?» chiesi.
Lui
non rispose e, anzi, si rigirò sul suo lettino, dandomi le
spalle.
Beh,
almeno sapevo che, se aveva qualcosa, quel qualcosa non era niente di
insignificante.
«Ok,
visto che non vuoi parlare sarò costretta a dare fiato alla
bocca a
vanvera fino a che non avrai la decenza di rispondermi.»
dissi io,
osservando il soffitto «Sai, credo che questa storia con
Emanuele
non finirà bene.»
Pensai
al mio cuore, alla facilità con cui poteva affaticarsi, e
ridendo
della mia stessa debolezza dissi una cosa come un’altra.
«…forse
morirò di crepacuore prima della fine
dell’anno.»
Ovviamente
non c’era malizia nelle mie parole. Davo per scontato che
Sebastiano non sapesse della mia malattia e, non appena lo vidi
scattare seduto a corrermi poi incontro capii che forse, invece,
qualcosa la sapeva.
Prendendomi
per le spalle esibì un viso preoccupatissimo, quasi
sconvolto.
«No,
tu non puoi morire di crepacuore!» esclamò
«Se muori poi noi come
facciamo? Non puoi morire, non tu!»
Sgranando
gli occhi come mai avevo fatto prima d’allora, inclinai
leggermente
il capo, fissandolo senza capire.
«Cosa…cosa
ti prende, si può sapere?» domandai «Mi
spaventi se fai così.»
«Ho…
Ho reagito in modo troppo esagerato. Scusami.»
Si
staccò e mi sorrise, ma quel riso non aveva niente a che
vedere con
le sue solite dolci espressioni.
«Tuo
fratello mi ha detto del tuo piccolo problemino al cuore.»
A
sentirlo mi morsi un labbro, condannando Simon alla peggiore delle
sventure per aver osato rivelare un simile segreto a qualcuno che mi
stava vicino: per anni non avevo detto niente a nessuno, convinta che
così facendo tutto sarebbe stato più semplice e
nessuno avrebbe mai
deciso di trattarmi con pietà solo perché mi
ritrovavo ad essere
leggermente più debole degli altri. Non volevo passare per
la
“poveretta” di turno, quella che tutti devono
compatire ma a cui
nessuno importa davvero.
L’unica
cosa che però, adesso, mi pareva importante era
un’altra:
«Ti
prego, non… Non dirlo ad Emanuele.»
Abbassai
lo sguardo e strinsi le mani sul piumino, chiudendo gli occhi mentre
ricordavo cosa era successo lì sopra solo il giorno prima.
Là, in
quella stanza, mi ero sentita viva. Viva per la prima volta da tempo.
La mia salute non mi aveva causato problemi e avevo potuto godere di
una cosa che reputare magnifica sarebbe stato troppo poco. Io ed
Emanuele eravamo diventati una cosa sola, ci eravamo uniti e amati
per tutta la notte, soffocando gemiti l’uno sulla pelle
dell’altro.
Era
stato magico, tuttavia sarebbe bastato quell’inutile
informazione a
rovinare tutto.
«Io
non sono niente, per lui, questo lo so, ma quando abbiamo fatto
l’amore mi sono sentita importante e desiderata. Ho capito di
essermi conquistata un posticino nel suo cuore, anche se piccolo ed
insignificante, e anche quando mi tratta a pesci in faccia so per
certo che è sincero. So che le parole che mi rivolge sono
frutto dei
suoi veri sentimenti e non…dovuti alla
pietà.»
Tornando
a guardare il mio amico mi dimostrai supplicante, quasi
sull’orlo
del pianto.
«Se
tu ora glielo dici, cambierà tutto.»
«Ma…
Angela, lui dovrebbe saperlo.»
«No
no, non deve.» mi allungai verso il comodino e dal cassetto
estrassi
due lettere, legate insieme da un elastico rosso. Gliele porsi,
titubante «Tanto io… Io non resterò qui
ancora per molto.»
Sebastiano
prese le lettere e, leggendole, parve illuminarsi, dimenticando i
crucci di poco prima.
«Hai…vinto
una borsa di studio per Yale?!» esclamò
«E… Ti pubblicano il
libro! Accidenti!»
Sorrisi,
ma senza gioia.
«Vedi?
Non ha senso parlargli, dirgli che ho un cristallo
al posto del cuore. Me ne andrò comunque, uscirò
dalla sua vita
molto presto quindi… Fammi stare con lui ancora un
po’. Solo un
po’.»
Ci
fu una pausa, qui, molto pesante e carica di aspettative.
Quando
lui sospirò, seppi per certo che stava per pormi un quesito
molto
importante, uno di quelli che mi avrebbe posto di fronte
all’ennesima
difficile decisione.
«Fammi
capire, Angela…» disse «Vuoi andare
avanti con questa storia, pur
sapendo che non ha nessuno sbocco? Se sai che te ne andrai, significa
che non hai nessuna intenzione di combattere per averlo tutto per
te.»
«Che
senso avrebbe farlo, Seb? Emanuele non mi ama.»
«Io
sono sicuro che nel cuore di Emmy c’è
più di un posticino per te,
sorellina. Se si tratta di te, là dentro
c’è un posto vero. Lui
deve solo rendersene conto.»
«…non
capisco come tu possa esserne sicuro.»
«Lo
conosco da molto prima di te. Inoltre so anche che prima che lui si
accorga di amarti, tu farai in tempo ad andare e tornare
dall’America.»
Abbandonandomi
sul letto mugugnai appena, maledicendo il mondo intero.
Quindi,
a conti fatti, ero da capo.
Era
meglio lasciar perdere quella storia oppure no?
La voce dell'Autrice: Ah, come vorrei che le cose da qui in poi diventassero più semplici...e invece no, temo che questo non succederà poi molto presto - o addirittura MAI.
Insomma, alla fine qualcuno ha scoperto il grande segreto di Angela, ovvero la sua malattia. Sebastiano ne è rimasto sconvolto, come d'altro canto trovo giusto che sia. Mi chiedo come reagirà Emanuele una volta scoperto che Angela non sta bene. Mah. Chi lo sa?
Ancora una volta mi stupisco per l'amore che lei prova nei confronti di Emmy. Non so bene come descriverlo a parole - bella scrittrice che sono! - ma credo di ammirare, in un certo senso, questo affetto genuino. Non le porterà niente di buono, ok, però è qualcosa di vero. Qualcosa di veramente importante.
Beh, alla prossima! |
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Capitolo 9 *** I sogni si avverano sempre al momento sbagliato ***
Otto:
I sogni si avverano sempre al momento sbagliato
Prima che tutto avesse inizio, avevo fatto in modo di programmare la mia vita prestando attenzione ad ogni più piccolo dettaglio, perfino a quello che, all’apparenza, sarebbe potuto sembrare trascurabile. Dopo essermi resa conto che la mia malattia era degenerativa, infatti, capii anche che non avevo tutto il tempo del mondo per raggiungere i miei sogni, viverli e dirmi soddisfatta come invece accadeva per tutti quelli della mia età. Dovevo concentrare le mie abilità nel periodo di maggiore fioritura psicologica e fisica, ovvero durante la mia adolescenza. Quindi, rinunciando alle terapie dell’ospedale per un fine che consideravo superiore, mi dedicai anima e corpo a ciò che meglio mi veniva: la scrittura.
Le polemiche furono molte quando, a soli quindici anni, dissi no ai medici. Loro volevano aiutarmi, fare in modo che io vivessi e che non mandassi a monte la mia esistenza, ma siccome ero caparbia non li ascoltai mai e decisi di trovare un modo per farcela da sola. Perfino mio fratello tentò di dissuadermi, anche se inutilmente.
Iniziai a scrivere, notte e giorno, studiando come una matta mentre il resto delle ragazze, almeno quelle che potevano permetterselo, coltivavano una vita sociale assai più interessante della mia. Non uscivo la sera, non mi mettevo nei guai, continuavo imperterrita a sviluppare la storia che avevo nella mente, certa che un giorno qualcuno avrebbe riconosciuto il mio talento, assicurandomi un contratto per riuscire a fare un libro.
Le probabilità erano poche, io stessa me ne rendevo conto e non avevo mai fatto mistero, a Simon, dei dubbi che ancora mi tormentavano. Il giorno in cui però quelle due lettere comparirono in casa mia, seppi per certo di non aver buttato all’aria tutto quanto.
Ricordo che piansi di gioia nel leggerle, seduta nel mio salotto con quelle carte strette al petto, neanche fossero due peluche morbidissimi e da cui non potevo assolutamente staccarmi. Per la prima volta dopo anni, lasciai che le mie lacrime scendessero orgogliose dagli occhi, dicendomi a gran voce “Ce l’hai fatta!”.
Ed era così. Ce l’avevo fatta, avevo vinto contro ogni prognostico, battendomi arduamente per qualcosa che era assolutamente ed innegabilmente giusto.
Certo, lungo il cammino avevo dovuto rinunciare ad una vita sana – ma soprattutto lunga – tuttavia non riuscivo a pentirmene.
…Anzi, meglio dire che non me ne pentii fino a che non rivelai i miei sentimenti ad Emanuele.
Improvvisamente l’idea di andarmene non mi pareva più tanto buona o, per lo meno, non era più l’unica soluzione valida.
Improvvisamente desideravo vivere, ma non per me stessa, bensì per qualcun altro.
Improvvisamente Yale era troppo lontana, e il mio libro, ora così vicino, un peso troppo grande.
***
Passò una settimana da che Sebastiano venne a sapere della mia malattia e, per mia enorme fortuna, decise di mantenere il segreto e di non dire niente ad Emanuele. Gli fui grata del suo silenzio in quanto sapevo fino a che punto, il non dire niente al proprio migliore amico, lo avrebbe distrutto. Il loro rapporto era speciale, lo avevo capito dal primo istante in cui li avevo visti parlare insieme, e io, in un certo senso, lo stavo incrinando.
Era spiacevole essere la causa di così tante evoluzioni dall’aspetto poco simpatico, all’interno della vita di coloro che mi stavano attorno: non solo rischiavo di essere il motivo per cui una coppia avrebbe rotto definitivamente, stavo diventando perfino la ragione per cui due amici non avrebbero più potuto fidarsi l’uno dell’altro senza pensare “E se mi stesse nascondendo qualcosa?”.
Sospirai, camminando per le strade del centro con fare leggermente assorto, lo sguardo fisso a terra e le mani, coperte dai guanti, dentro alle tasche della giacca. Ad ogni passo una nuvola bianca usciva dalle mie labbra, espandendosi nell’aria per poi sfumare e svanire del tutto, lasciandomi con la spiacevole sensazione di aver perso qualcosa nel tragitto che mi aveva portata da casa al bar poco distante.
L’inverno, ormai, si faceva sentire, e nonostante le mie vacanze fossero appena cominciate già avevo addosso una strana tristezza, mista a rassegnazione. Simon mi aveva lasciata di nuovo, tornandosene all’Università per gli ultimi esami prima di essere libero di venire nuovamente da a festeggiare il Natale. Ero rimasta sola ancora una volta e, come se non bastasse, i mille tormenti che Seb mi aveva messo in testa non facevano che aggravare la mia già precaria situazione. Mi sarebbe piaciuto spegnere il cervello, ogni tanto, eppure qualcosa me lo impediva sempre. Perfino quando non ero io ad interpretare la parte della mia peggior nemica, mi ritrovavo a sbattere la faccia contro ad ostacoli insormontabili.
Quel giorno, però, avrei finalmente avuto uno svago con cui distrarmi.
Aprii le porte del bar e ringraziai il cielo per aver inventato i termosifoni quando, l’aria calda che impregnava i muri di quel delizioso locale, mi colpì in viso. Rimasi un istante lì, ancora leggermente intorpidita, attendendo che le mie membra riacquistassero scioltezza e voglia di muoversi.
«Fa molto freddo, fuori?»
Una voce femminile mi colse impreparata e aprendo gli occhi di scatto, fissai il mio sguardo oltre il bancone che avevo di fronte.
Abbozzai un sorriso imbarazzato, annuendo piano come a rispondere positivamente alla domanda che quella donna mi aveva posto. Lei ricambiò, facendomi segno di mettermi seduta.
«Forza, scegliti un tavolo e aspettami. Non appena sarai pronta ad ordinare sarò subito da te.»
Costringendo le gambe a muoversi, mi diressi verso la panca più vicina, sedendomi con ben poca grazia o eleganza. Mi buttai là sopra come fossi un peso morto, un corpo svuotato della vita in pratica.
Se ero in quel posto, a quell’ora del mattino, era solo perché avevo ricevuto una chiamata da quello che sarebbe stato il mio futuro editor e che, dopo aver letto le bozze del mio libro, aveva deciso di darmi appuntamento in un luogo a me familiare per potermi parlare a quattr’occhi.
Normalmente sarei stata elettrizzata per un simile incontro, ma si dava il caso che questa volta non fossi propriamente entusiasta di dovermi dare da fare. Avevo consumato il cervello per creare una storia che potesse piacere e che al tempo stesso non si allontanasse troppo dalle prime bozze, però adesso ogni sforzo sembrava vano se paragonato al casino in cui mi ero cacciata da qualche tempo a quella parte.
Emisi un altro sospiro prima di rendermi conto che cominciavo a somigliare ad un treno a vapore.
Prendendo in mano il menù lo posizionai di fronte a me, scorrendo con gli occhi l’elenco delle bevande calde mentre, piano piano, mi levavo guanti, sciarpa e cappello. In verità sapevo da principio cosa volevo prendere – sono una persona alquanto abitudinaria, io – però era sempre bello osservare le immagini invitanti che stavano sopra ai menù. Le fotografie dei cibi – o in quel caso delle bevande – mi mettevano sempre di buon umore.
«Salve.»
Non alzai neanche lo sguardo, benché mi fossi accorta subito che la voce che mi stava parlando non era la stessa della donna che mi aveva accolta. Scossi solo il capo, mostrandomi indecisa.
«Mi dispiace, ma non ho ancora deciso cosa ordinare…»
«Ehm… Veramente non sono qui per prendere la tua ordinazione.»
Smisi di togliermi il giaccone e, fermandomi con un braccio disteso per aria, mossi pianissimo la testa fino a poter vedere in volto il mio interlocutore: rimasi sbalordita non appena compresi che quello non era un comune mortale, bensì un Dio greco od uno di quei vampiri usciti dall’ennesimo libretto per teenager drogate di romanticismo e situazioni impossibili.
Deglutendo appena appena corrugai la fronte, fissando tutte le splendide caratteristiche del ragazzo.
Occhi azzurro cielo, capelli neri e un poco mossi, sguardo acuto accompagnato da un sorriso ammagliante e dolcissimo. Due spalle larghe, braccia forti, un paio di mani grandi ma dalle dita lunghe ed aggraziate. Possedeva un corpo statuario, e il suo gusto nel vestire riuscì a strapparmi almeno cento punto nella mia lista di gradimento.
Sì insomma, era bello ed affascinante, ma arrivati a questo punto sorgeva spontanea una domanda: che diavolo ci faceva, uno così, al mio tavolo?
«Sei Angela?»
Inutile dire quanto rimasi sorpresa nel sentirgli dire il mio nome.
«…sì?»
Lui rise, inclinando leggermente il capo da una parte.
«Ah, se non lo sai tu, figurati io.» esclamò, allungando una mano verso di me «Io mi chiamo Ian Zardetto, piacere di conoscerti.»
Solo allora, arrossendo come una povera scema, mi resi conto di aver sentito in precedenza la sua voce. Mi affrettai ad afferrare la sua mano, prodigandomi in mille scuse mentre cominciavo a fare la conoscenza del mio nuovo – nonché primissimo – editor.
Fu bello scoprire che, oltre ad essere bello ed affabile, Ian era anche intelligente. Conversammo amabilmente per la prima ora della nostra così detta “riunione”, dimenticandoci del reale motivo per cui avevamo deciso di incontrarci lì. Nessuno dei due appariva conscio del tempo che passava e, minuto dopo minuto, mi riscoprivo sempre più affascinata da quella nuova conoscenza. Quando poi cominciammo a fare le cose per bene, discutendo del mio libro e su come potevo migliorarlo prima dell’effettiva stampa, non potei fare a meno di farmelo apprezzare ancora di più.
«Sai, non mi aspettavo che una ragazza tanto giovane potesse creare una storia ricca di così tante sfaccettature.» disse ad un certo punto, assaporando la sua seconda tazza di tè «Hai appena diciotto anni…»
«In realtà ne compirò diciotto ad Agosto, ma fa lo stesso.»
«…ecco, appunto.» rise «Hai diciassette anni e, quando leggo ciò che mi hai mandato, rimango totalmente sconvolto. C’è molto di te, in quelle righe.»
Annuii, sebbene inconsciamente. Essendo una persona piuttosto restia a parlare di me stessa, un poco mi bruciava che qualcuno riuscisse a conoscermi per quella che ero in realtà – soprattutto se tale sconosciuto lo faceva proprio ora che non avevo poi un’opinione molto alta di me -, tuttavia per questa volta avevo deciso di fare un’eccezione. Ogni scrittore mette a nudo i propri sentimenti, quando compone, e io, pur essendo alle prime armi, non rientravo di certo in una cerchia differente.
«Per questo mi piace la tua storia. Non ci sono fronzoli o chissà cos’altro, non tenti di ingraziarti il lettore inserendo montagne e montagne di inutilità solo per far sì che le cose, poi, vadano dove vuoi tu. Tutto è distinto, lineare, e ad alcuni potrebbe apparire poco fantasioso, ma non è assolutamente così.»
«Da come parli, sembra che tu abbia studiato il mio racconto sin nei minimi dettagli.»
Ian alzò le spalle, con fare noncurante. «In pratica… è così.»
Mi sorpresi nel sentirglielo ammettere con tanta facilità.
«Volevo conoscerti meglio e almeno fino a qualche tempo fa, l’unico modo che avevo per farlo, era leggere la tua opera.»
«...e quindi mi hai inquadrata?»
«Si può dire di sì.»
«Mi chiedo se ciò che hai scoperto non ti abbia deluso…»
Lui scoppiò in un’altra fragorosa risata e, pulendosi le labbra con un fazzoletto di carta, tornò a posare la sua attenzione su di me. Scosse piano il capo, lasciando che le risa si consumassero piano piano all’interno della sua gola.
«Deluso? Non direi proprio.» commentò «Ho visto solo molta fragilità, questo sì.»
Fragilità. Curiosa scelta di termini, non c’era che dire.
Apparivo davvero così fragile, al mondo? Assurdo pensare che anche non sapendo nulla dei miei problemi cardiaci, tutti si sentissero comunque in dovere di salvarmi e/o darmi una mano. Da cosa, poi, ancora dovevo capirlo.
«Non fraintendermi, nei tuoi personaggi ho notato molta caparbietà, forza d’animo ed intelletto, però…»
«Però…?»
«Ecco, sono anche molto sensibili. Ne hanno passate così tante, e ancora ne dovranno passare, eppure tentano in ogni modo di mascherare il proprio disagio ostinandosi ad interpretare la parte dei duri. Una cosa lodevole da una parte, ma triste dall’altra.»
Lo vidi mentre abbassava lo sguardo, appoggiando il mento al palmo della mano destra. Aveva addosso una strana espressione, una di quelle che io riconoscevo come “modalità pensatore”. Evidentemente ero un grosso enigma per lui. Io come i miei poveri personaggi.
«…dei ragazzini non dovrebbero mai essere protagonisti di simili situazioni.»
Ian si stava riferendo al mio libro ma io, intendendo come al solito le parole degli altri a mio piacimento, non potei fare a meno di notare quanto quella frase si adattasse perfettamente anche a me. Nessuno dovrebbe mai essere al centro di problemi tanto grandi, in un periodo delicato come quello dell’adolescenza, ciò nonostante però erano in molti a vedersi invischiati in qualcosa di più grande di loro. Qualcosa che forse neanche si erano cercati. Qualcosa che era arrivato da solo, nascendo dal nulla, pronto a distruggere ogni loro sforzo.
«Sei molto profondo.» gli risposi ad un certo punto, tornando dal mondo dei sogni.
«Già, peccato che non sia mai riuscito a mettere per iscritto i miei pensieri. Altrimenti sai quanti soldi?»
Sorridendo decisi che sì, quello era il partner ideale per me. Mi avrebbe aiutata veramente, dandomi consigli giusti ed azzeccati.
Insieme, ne ero certa, avremmo fatto un ottimo lavoro.
Quando finalmente uscii, notai con rinnovata allegria che eravamo stati insieme fino alle 7.00 di sera. Era strano per me uscire con persone mai viste prima e trovarle subito tanto simpatiche. Di solito, quando non conoscevo qualcuno, difficilmente ci facevo amicizia. Stavolta, invece, era stato tutto il contrario. D’altro canto era complicato non entrare in sintonia con Ian.
Saltellando per il marciapiede, presi il telefono dalla tasca del giaccone e controllai l’ora. Non ci volle molto affinché cominciassi a digitare il numero di cellulare di Emanuele, neanche fosse la prima delle persone cui io volessi far conoscere il mio successo. Solo qualche ora prima mi ero soffermata sul pensiero di troncare ogni rapporto con lui, facilitandomi poi la partenza per Yale dopo l’estate, ma ormai ero talmente abituata agli alti e bassi di quel rapporto che non facevo neanche più caso ai miei continui colpi di testa.
Portandomi il telefono all’orecchio attesi che lui mi rispondesse, carica di ottimismo e buone intenzioni. Ci volle un po’, affinché lo facesse.
«…sì?»
«Ciao!» sorrisi, camminando per la strada con un’andatura strana, quasi come se fossi ubriaca «Ho una super-iper-stratomitica-bella notizia da darti.»
«Ah sì…?»
Feci finta di non notare il suo velato disappunto. Forse lo avevo colto nel mezzo di qualcosa di importante, ma per una volta avrebbe dovuto darmi ascolto: prima ancora di essere il ragazzo che amavo, era sempre stato anche mio amico, no? Beh, era arrivato il momento che si comportasse come tale.
«Pubblicheranno il mio libro!» esclamai «Sono così felice! Talmente tanto che potrei fare pazzie, guarda!»
Finalmente lo sentii cedere e, quando anche Emmy si mise a ridere, riuscì a riprendere fiato.
Era inutile, adoravo la sua risata.
«Ricordi con chi stai parlando, vero? Affermazioni del genere potrebbero tirare fuori il peggio di me, lo sai.»poi, ricordandosi del punto più importante «Sono contento per te, dico davvero. Ti meriti una cosa del genere, visto e considerato quanto impegno ci hai messo.»
«Wow, grazie.»
«Di niente.»
«Non mi aspettavo simili affermazioni da te…» lo stuzzicai un po’ «…Mr. “Il mondo gira attorno a me, voi altri dovete solo accettarlo”.»
«Ehi, qualche volta anche io sono caritatevole! Di fatti, stavo per chiederti se ti va di venire a cena a casa mia, così da poter festeggiare insieme.»
L’idea di vederlo mi piaceva, a dirla tutta, però temevo quello che sarebbe potuto succedere stando sola con lui. L’ultima volta avevo detto addio a ben più del mio orgoglio.
«…Massimo sta un po’ meglio, ma sta sempre chiuso nella sua stanza perché è ancora completamente intasato e gli è passata la voglia di vivere fra le persone. Quindi, se venissi, non solo potremmo festeggiare, mi faresti anche un grande favore. Almeno avrei della compagnia.»
Risolto il problema “stare sola o meno con Emanuele”, mi presi solo un istante per rispondere.
«Ok, arrivo. Tu aspettami, eh.»
E così mi ritrovai a correre per le strade della città, incespicando nei miei stessi passi e tenendo a bada un cuore fin troppo debole mentre, con la mia solita sbadataggine, finivo contro alla maggior parte dei passanti. Non sapevo neanche io che mi prendeva quando dovevo vederlo. L’unica cosa a cui riuscivo a dare peso, nel caso straordinario in cui finalmente riuscivo a ritagliarmi del tempo per stare sola con lui, era Emanuele stesso: la mia mente veniva sopraffatta da mille pensieri, tutti volti a farmi notare quante cose del suo aspetto – e sì, perfino del suo pessimo carattere – adorassi.
Mi piacevano i suoi capelli, le sue mani, e anche il modo in cui mi guardava quando lo prendevo in giro. Apprezzavo il tono della sua voce, il modo in cui pronunciava il mio nome, la facilità con cui sapeva dimostrare al mondo intero le sue mille abilità. Trovavo stupendo il fatto che sapesse suonare così bene il pianoforte, straordinaria la sua intelligenza e peculiare la sua attitudine nel rendere le cose difficili per ogni essere umano, semplici.
Ma, più di tutto, amavo alla follia i suoi occhi. Quelle iridi che alle volte, con la luce giusta, sembravano due perle. Le amavo e Dio solo sapeva quanto quegli occhi fossero bastati ad intrappolarmi per sempre nel suo sguardo.
Eppure, anche così, sapevo che la nostra “eccentrica visione” dello stare insieme non poteva comunque durare. Nonostante io lo amassi così tanto da farmi male, non potevo negare a me stessa i mille dubbi che ogni ora riuscivano a tormentarmi. Non c’era stata più pace per me, da quando mi ero concessa a lui. Quelle poche settimane si erano susseguite prive di un significato e io, seduta nel mio soggiorno, avevo passato le giornate continuando a chiedermi a che cosa avrebbe portato il nostro rapporto, a che genere di fine saremmo approdati e quanto, poi, saremmo riusciti a resistere.
Avrei potuto dire di non conoscere la soluzione che mi avrebbe liberata da quel dannato problema, ma, purtroppo, la conoscevo eccome. Avevo solo deciso di ignorarla, beandomi della stessa ignoranza che per anni avevo cercato di evitare ad ogni costo. Le persone che facevano finta di non vedere certe cose mi avevano sempre dato fastidio e ora, ironia della sorte, mi ritrovavo ad essere una di loro.
Prima non riuscivo a trovare scuse per questo genere di comportamento, ma trovandomi dall’altra parte, adesso sapevo per certo che alle volte non si ha altra scelta. Soprattutto quando si ama. Soprattutto quando cuore, anime e mente sono totalmente assorbiti da un unico soggetto.
«A…Accidenti…»
Cercai di prendere fiato, appoggiandomi con la schiena al cancello di casa Lazzeri.
Forse non era stata una grande idea arrivare sino a lì correndo, viste le mie condizioni, però qualche attimo prima quella era apparsa come l’unica delle possibilità. Stupidamente avevo dimenticato di possedere un portafogli abbastanza gonfio da permettermi di pagare la corsa di un taxi.
Alzando gli occhi verso l’alto presi ad osservare la facciata di quella gigantesca casa, ricordandomi che nel caso in cui le dimensioni fossero così esagerate, una dimora non veniva più definita “casa” bensì si usava un termine più consono, più suggestivo, ovvero “villa”.
Sì, Emanuele abitava in una villa.
Era sconcertante pensare che tutte le fortune capitavano a qualcuno di così sconsideratamente egocentrico e poco altruista. Un po’ come dare le perle ai porci, se ci si rifletteva su per bene.
Mi presi qualche istante per sistemarmi - aggiustandomi il cappello e scacciando della polvere immaginaria dalle spalle – prima di cliccare il pulsante del citofono con il dito indice. Attesi, dondolando sul posto.
«Chi è?»
Io sorrisi. «Consegna pizze.»
«Oh, mi dispiace, non ho ordinato nessuna pizza.»poi, prevenendo una mia qualsiasi risposta «…però se nella consegna è previsto uno spogliarello, potrei decidere di farla salire comunque.»
«Accidenti, sono desolata d’informarla che un simile trattamento è riservato ai clienti affezionati, non agli occasionali amanti della pizza.»
«Ehi, potrei anche rimanerci male, sa…?»
«Allora, la vuole sì o no questa pizza?»
Non rispose nessuno e io, confusa, mi avvicinai di più all’altoparlante, nella speranza di recepire un qualsiasi suono. Quando, da poco più in là, udii il rumore del portone che si apriva, vidi all’orizzonte Emanuele in persona, il quale mi stava venendo incontro con indosso il migliore dei suoi sorrisi. Rimasi leggermente sconvolta – o magari la parola giusta è affascinata – e lo lasciai avvicinare, imbambolata.
Lui aprì il cancello e mi prese per mano, trascinandomi proprio di fronte a sé, vicinissima.
«…la voglio.»
Deglutii. «Parli… Parli ancora della pizza, vero?»
«Forse.» mi rispose Emmy, chiudendo il cancello alle mie spalle e lanciandomi un’ultima occhiata carica d’aspettative prima di voltarsi e portarmi dentro.
Misi da parte la possibilità che con quel “la voglio” parlasse di me, rivolgendomisi con la forma di cortesia come avevamo fatto solo un attimo prima per gioco. Se ero lì era per festeggiare la pubblicazione del mio libro, non certo per riportare a galla certe pratiche sessuali che con tanta fatica avevamo entrambi accuratamente evitato le poche volte che ci eravamo visti – sempre in compagnia di Sebastiano, tra l’altro. Sapevo che le parole di Emanuele erano sempre da leggere in chiave doppia, però stavolta dovevo fare finta di niente.
Potevamo essere ancora in tempo, in fondo, ci si presentava l’opportunità di mettere da parte ciò che avevamo fatto e, magari, ricominciare da capo. Tornare amici, lui a preoccuparsi della sua ragazza e io del mio libro, nonché di Yale.
«Dobbiamo fare piano.» disse ad un certo punto Emanuele, tenendo la mia mano ancora stretta mentre mi conduceva dentro casa «Massimo sta dormendo e non vorrei mai che si svegliasse per colpa nostra.»
Annuendo mi zittii, guardandomi in giro con occhi curiosi. Scoprii così, arrivando in soggiorno, che lui aveva abbandonato in malo modo il joystick della sua console solo per venire ad aprirmi. Ne sorrisi, incapace di trattenermi dal pensare che, a dirla tutta, quella era una cosa che faceva spesso: non mi era mai capitato di aspettare per dei minuti interi fuori dal cancello, con Emmy in casa che non mi apriva non appena gli suonavo solo perché era troppo pigro per arrivare alla porta d’ingresso. Ogni volta che andavo da lui, con o senza Seb, trovava la forza di correre da me e di aspettarmi sull’uscio.
Almeno questo, di lato positivo, dovevo concederglielo.
«Come hai intenzione di festeggiarmi, oh mio egregio compagno?»
Lo sentii ridere e, voltandomi verso di lui, lo guardai per un attimo prima di mettermi seduta sul divano. Emanuele svanì nel corridoio, correndo verso la cucina per prendere due lattine di Coca Cola, porgendomene poi una.
«Non saprei.» rivelò «Penso che un “mi complimento vivamente con te” sia anche abbastanza, no?»
«No.»
«Lo immaginavo…» fece una smorfia e si scolò un po’ della sua bevanda, ponderando per bene i propri pensieri «…se vuoi posso cucinarti qualcosa.»
«…perché, sai cucinare?»
«Per tua informazione e regola sì, ne sono capace!»
In qualche modo mise il muso, somigliando come suo solito ad un bambino di sei anni anziché ad un diciottenne nel pieno della crescita. Inutile dire che scoppiai a ridere, a vederlo, quanto bastava per farlo innervosire ancora di più.
«Non capisco come mai tutti si stupiscono tanto quando dico di saper cucinare!» esclamò «Mio padre non è onnipresente, ogni tanto perfino lui non c’è a pranzo o a cena per un qualsivoglia motivo. E di certo il cibo non si fa da solo!»
«Ma sì, ma sì… Ti credo.»
«Sono sicuro che invece ancora non mia dai fiducia!»
«Ehi, io sono una di quelle persone che fino a che non vede con occhio mantiene vivo il proprio scetticismo.»
«Bene allora.» alzandosi in piedi mi lasciò fra le mano la sua lattina «Ora ti cucinerò una cena eccezionale. Sarà divertente vedere la tua faccia stupita non appena avrò finito. Non ti darò niente di quello che vedrai in tavola, e dovrai pregarmi in ginocchio per poter mettere qualcosa sotto ai denti.»
Alzandomi in piedi a mia volta gli feci il verso, muovendo la mano libera a mo’ di bocca approfittandomi del fatto che lui non potesse vedermi. Sapevo che notando il mio gioco infantile se la sarebbe presa maggiormente e, in quel caso, avrei potuto dire addio alla serata tranquilla che progettavo di godermi in sua compagnia. Certo, prendersi gioco di Emanuele era sempre un grande piacere – e sfido chiunque a dire il contrario – ma stavolta non volevo rovinare le cose. Né per la forza dell’abitudine che mi spingeva a farlo arrabbiare, né per i motivi già sopracitati e vagliati più e più volte.
In quel momento cercavo solo calma, semplicità, l’appuntamento che desideravo vivere con lui da anni ma anche mai, per un motivo o per l’altro, ero riuscita ad avere.
Così, per il resto del tempo, decisi di tenere per me i miei commenti ironici e mi limitai - da brava osservatrice quale mi vantavo d’essere - a guardarlo: in effetti, dopo aver indossato quello che per me era il più colorato dei grembiuli, Emanuele dimostrò di sapersi destreggiare perfettamente nell’ambiente della cucina. Prendeva padelle, mestoli e coltelli come nulla fosse, sbizzarrendosi con le piroette e le idiozie giusto per farmi notare quanto fosse bravo. Ammisi di essermi sbagliata nello stesso istante in cui, forse per pietà, mi permise d’assaggiare la sua Carbonara. In vita mia, parola di scout, mi era capitato poche volte di apprezzare la Carbonara “non di famiglia”. Ero cresciuta con quella di mia madre, che ancora oggi reputo la migliore, e dopo la sua morte ero passata a quella di Simon o alla mia stessa, ma da quel giorno seppi che anche quella di Emanuele non era certo da buttare.
«…sono proprio un uomo dalle mille risorse, io.» commentò lui, standomi vicino di fronte al lavandino. Mi ero offerta di dargli una mano a pulire visto che, per quanto riguardava tutto il resto, aveva fatto da solo. «Ammettilo. Sono da sposare.»
«Da sposare…? Addirittura?»
L’altro si strinse nelle spalle, socchiudendo gli occhi con fare orgoglioso. «Certo. Sono intelligente, pieno di talenti, cucino da dio e, non dimentichiamolo, sono bello da togliere il fiato.»
«Oh beh, come potevo dimenticarmi di questo particolare…»
«Non ci si può dimenticare del fatto che sono bello come il Sole.»
Ed eccolo là, pronto a ripartire in quarta con i suoi autoelogi. Davvero, c’era da chiedersi se non si stancasse mai di sentire solo la sua voce. Io, poco ma sicuro, quando cominciava a fare così spegnevo tutte le mie capacità uditive e mi perdevo nei miei sciocchi pensieri, ritrovandomi, questa volta, ad osservare con interesse la schiuma bianca che mi rimaneva sulle mani dopo aver immerso i piatti nell’acqua.
Emanuele parlava e io facevo le bolle. Lo ignoravo, insomma.
«…ehi.»
Non sentii che mi stava chiamando.
«Guarda che parlo con te. Hai sentito ciò che ho detto?»
Anche qui non risposi, troppo presa da quell’interessante gioco.
«…»
Purtroppo non gli ci volle molto per decidere di vendicarsi sulla sua povera amica, troppo interessata alle proprie mani insaponate per potergli dare retta. prese un bicchiere – appena pulito dalla sottoscritta – e lo riempì d’acqua, lanciandomi poi addosso il contenuto. Quando quella, freddissima, venne a contatto con la maglietta ed infine con la pelle, trattenni il respiro, sgranando gli occhi dalla sorpresa. Lo fissai, incredula.
«Ma che diavolo ti salta in mente?!»
«Ecco cosa succede quando non mi ascolti, pivella!»
Lui rise, compiaciuto e divertito da ciò che aveva fatto, ma io non feci lo stesso. Seguendo il suo esempio gli lanciai anche io dell’acqua che però, visto che il lavello dalla mia parte era pieno di detersivo per piatti, lo bagnò e riempì di schiuma al tempo stesso.
Questa volta toccò a me ridere.
«Ben ti sta, bamboccio!»
Emmy mosse in modo strano il mento e, modellando la schiuma con le dita, si fece due baffi e la barba.
«Bamboccio a me?» disse «Signorinella, non vede con che grazia porto la mia folta barba? Ah, i giovani d’oggi…»
Scoppiai in una ancora più fragorosa risata a sentirlo e, con le mani strette sulla pancia, mi piegai in due mentre lui continuava a fare quella sciocca imitazione di un uomo d’almeno settant’anni.
Lì, in quell’attimo preciso, seppi di aver perso qualcosa di molto grande il giorno in cui mi ero dichiarata. Io ed Emanuele non passavamo una giornata così da tanto, forse troppo tempo. Improvvisamente non c’erano più dissapori, non c’erano più problemi, c’eravamo solo noi due, amici e nemici, come da principio.
Non sapevo cosa ci avesse portato a quel punto, cosa, di preciso, ci avesse permesso di riassaporare un po’ di calma in mezzo alla tempesta che noi stessi avevamo cercati e in cui ci eravamo gettati ad occhi chiusi, ma sapevo che ero grata al cielo di avermi regalato quel momento.
La voce dell'Autrice: Ebbene, in questo capitolo non è successo poi molto. O meglio, qualcosa è successo, ma nulla che lasci intendere una totale ripresa per questi due poveri ragazzi. Mi dispiace dover sempre rompere le uova nel paniere, però non sarei io se non vi annunciassi che le cose non sono MAI come sembrano nelle mie fanfiction. Vorrei poter dare loro un pò di tregua, ma non lo farò. Sono ancora ben lungi dal poter raggiungere il loro lieto fine. E non è neanche detto che questo sarà un lieto fine per entrambi. Cosa vi attenderà nella prossima puntata (?), miei cari lettori - come se la seguissero in ventimila -? Lo scoprirete solo vivendo...o leggendo! Alla prossima! |
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Capitolo 10 *** Ti amo ***
Nove:
Ti amo
Il vero problema della mia relazione con Emanuele era che, con lui, anche come semplici amici si poteva passare dall’estasi più totale, alla più nera disperazione.
Quel ragazzo non pensava mai – o forse è meglio dire che pensava, però nel modo sbagliato –, agiva solamente, e anche se magari il cinquanta per cento delle volte le sue azioni non necessariamente si ripercuotevano su chi aveva attorno, per il restante cinquanta per cento chi gli voleva bene rimaneva sempre inevitabilmente ferito. Per anni credetti che lo facesse apposta. Che la sua non fosse mancanza di tatto, ma vero e proprio desiderio di fare del male. Era più semplice credere a questo, piuttosto che rendersi conto della sua assoluta incapacità nel pensare prima agli che a sé stesso.
Invece mi sbagliavo e di molto anche.
Emanuele non solo faceva certe cose, tanto sciocche quanto crudeli, consciamente. Alle volte se le preparava pure. Studiava i suoi piani malvagi sin nei minimi dettagli, lasciandoti con un palmo di naso quando poi, quelli, diventavano purtroppo un’infausta realtà.
L’amore che si provava per lui veniva messo perciò costantemente sotto pressione. Non importava infatti quanta pazienza uno possedesse, arrivati ad un certo punto si desiderava ucciderlo per forza di cose, rimproverandosi di non averlo fatto prima. Ti portava ad un livello tale di disperazione che era quasi inevitabile non odiarlo.
Eppure, nonostante tutto, certe persone ancora gli stavano accanto.
Massimo, suo padre, era sempre lì, pronto a dargli una mano, deciso a non lasciarlo solo neanche durante i suoi periodi più neri. Lo aiutava sempre, consigliandolo sul da farsi ed aspettando il giorno in cui, magari, avrebbe cominciato a capire che ad ogni reazione corrisponde un’azione e che, di conseguenza, non ci si poteva stupire se poi gli altri si allontanavano da lui.
Sebastiano, amico di sempre nonché più accanito sostenitore della frase “c’è del buono in tutti”, non lo avrebbe mai lasciato a se stesso, conscio del fatto che da solo sarebbe stato anche in grado di fare cose ben peggiori di iscrivere un’amica ad un concorso di nascosto per gelosia.
E io…
Beh, io non ero stata lì dall’inizio e, con tutta probabilità vista la mia bassa aspettativa di vita, non sarei rimasta ancora a lungo, però sentivo che dentro di me c’era una parte pronta a non lasciarlo mai solo. Quella parte non poteva farlo, e questo non solo perché lo amavo davvero, ma anche perché, in un certo senso, mi rivedevo in lui.
A quei tempi ancora non conoscevo gli oscuri retroscena del suo passato, tuttavia mi sentivo affine ad Emanuele in tutto e per tutto. Desideravo stargli accanto non per poter essere la sola a poterlo amare, bensì per essere una di quelle persone che avrebbero potuto aiutarlo.
Vedevo tanto del dolore che io stessa provavo ogni giorno, nei suoi occhi, e questo, per me, era un chiaro segno del destino.
Se ero lì, se lo avevo conosciuto e se poi lo avevo amato, era per guarire le sue ferite.
…e magari anche le mie.
***
Nonostante quel momento fosse stato assolutamente magico per entrambi, venni costretta a tornare alla realtà dall’improvviso cambio d’espressione del mio compagno. Mi asciugai una lacrima - che impavida aveva solcato il mio viso mentre venivo presa da quell’eccessivo attacco d’ilarità - e cominciai a guardarlo, sorpresa.
«Qualcosa non va?» chiesi, avvicinandomi.
Lui arrossì e, distogliendo lo sguardo, puntò vagamento l’indice su di me. Corrugai la fronte, fissando la punta di quel dito con rinnovata curiosità, alla ricerca di una spiegazione atta a farmi capire cosa esattamente non andasse. Non potevo di certo credere di aver fatto qualcosa di male nel lasso di mezzo minuto, quando poi, in fin dei conti, non avevo fatto altro che ridere. Perciò, inclinando leggermente il capo, aprii bene le orecchie.
«…sì?» lo incitai ancora, notando che al momento Emanuele faticava anche solo a dire “BA”.
Sospirò, chiudendo gli occhi.
«Scusa, Angela…» disse «…ma ti si vede tutto.»
Abbassai gli occhi sul mio petto, ritrovandomi di fronte ad una di quelle scene che avrei proprio voluto evitarmi, almeno – se non soprattutto – se mi ritrovavo di fronte a lui. La maglietta azzurro cielo che avevo indosso si era completamente inzuppata, e questo non sarebbe stato tanto sconvolgente se poi il tessuto non avesse cominciato a diventare trasparente, facendomi come da seconda pelle: il reggiseno che avevo sotto, nero e con il pizzo, si sarebbe ora intravisto anche da una distanza di cinque metri.
No, ma che dico, forse anche di cento!
Inevitabilmente arrossii, incapace di trattenermi, e non fu una sorpresa notare che perfino Emmy stava facendo lo stesso. Tutto quel tempo speso a comportarci come se nulla fosse, ricominciando ad essere gli amici di una volta, e ora capitava quell’inconveniente a ricordarci che sì, io ero una ragazza, lui un ragazzo, e che eravamo anche dannatamente attratti l’uno dall’altra.
Purtroppo notai subito con che difficoltà stava cercando di non guardarmi, quasi a volermi evitare ulteriore imbarazzo o, molto più semplicemente, a volersi evitare “spiacevoli” azioni avventate.
«Scu-Scusami tu.» riuscii a dire infine, girandomi di scatto per dargli le spalle «Non…non me ne ero accorta. Perdonami.»
«Fa niente.» mentì lui «Vado…»
Sentendolo sospirare rassegnato, feci in tempo ad udire i suoi passi prima farsi vicini e poi, veloci, un poco più lontani.
Aveva tentato di avvicinarsi a me?
«…vado a prenderti qualcosa per cambiarti.»
Avevo seri dubbi che, in una casa in cui vivevano solamente due uomini, ci fossero abiti adatti ad una ragazzina di diciassette anni, ma con il senno di poi decisi di non dare peso a simili piccolezze ed attesi impaziente che Emanuele si facesse il più lontano possibile, così da poter ricominciare a respirare. Quando la porta della sua camera sbatté al piano di sopra, sciolsi i muscoli del corpo e mi strinsi nelle spalle, mordendomi un labbro per l’assurdità del momento. Mi stavo chiedendo cosa ci fosse di imbarazzante nel vedermi così quando, solo poco tempo prima, aveva avuto occasione di adocchiare ben più della mia biancheria intima. Chiaramente sapevo qual era la fonte di tanto disagio, tuttavia ancora cercavo di negarla a me stessa, convinta di poter essere in tempo per risolvere tutto con la mia semplice forza di volontà.
Bastava far finta di niente. Bastava quello e avremmo sistemato tutto, anche quell’ultimo piccolo inconveniente.
«Eccomi.»
Quasi non lo avevo sentito scendere le scale per tornare lì, in cucina, ma trovandomelo proprio dietro alla schiena feci in tempo a sussultare appena appena prima di girarmi di scatto per vedere che cosa mi avesse portato. Teneva ben saldi fra le mani una felpa, delle calze e i pantaloni di una vecchia tuta.
Alzai lo sguardo ed incrociai le sue iridi grigie, perplessa.
«Sai…dubito seriamente che quei pantaloni mi vadano.»
Tenevo le braccia conserte di fronte al petto, evitando così che fosse semplice vedere il mio decolté, ma anche premurandomi a quel modo sapevo che per Emanuele risultava ancora più impossibile non lasciar cadere lo sguardo proprio là.
«Erano tuoi…?»
«S-Sì.»
«A maggior ragione, allora, confermo la mia teoria.» presi dalle sue mani la felpa, rassicurandomi mentalmente sul fatto che quella, da sola, mi avrebbe coperta dalla testa alle ginocchia. Non ero tanto minuta, intendiamoci, però se con i vestiti di Emmy valeva la stessa regola che vigeva con quelli di Simon, allora non avrei avuto problemi nel nascondere i tratti del mio corpo in quegli indumenti.
«Ho fatto ciò che ho potuto.» bofonchiò l’altro, quasi risentito.
«Me ne rendo conto.»
«Beh…sai dov’è il bagno, no?»
«Certo.»
Feci per andare, quando lui mi fermò, prendendomi per un braccio.
Non lo guardai nonostante sentissi a pelle i suoi occhi su di me. Quello sguardo mi bruciava la pelle, come sempre, il che mi rendeva complicata l’azione di ignorarlo, per quanto mi era possibile.
«…mi dispiace. Non avrei dovuto bagnarti.»
Tirai un sospiro di sollievo nel sentirgli dire solo questo. Avevo creduto che avrebbe esordito con qualcosa di molto, molto peggio – almeno dal mio attuale punto di vista.
Subito sorrisi, scuotendo il capo,
«Adesso non diventarmi troppo gentile, altrimenti potrei cominciare a pensare che gli alieni ti hanno rapito.»
«Sai cosa voglio dire.»
«So solo che non c’è motivo di chiedermi scusa per una cosa del genere. Di certo non sono in procinto di morire per un po’ d’acqua.»
«Ok, ma…»
«Niente “ma”. È tutto ok.»
Un altro sorriso e poi corsi al bagno, togliendomi di dosso la maglia incriminata e prendendo il primo asciugamano che mi capitasse a tiro. Con attenzione tamponai il petto, asciugando come meglio potevo l’acqua che era riuscita a passare attraverso il tessuto, bagnando anche i bordi del mio reggipetto. Ero solita parlare fra me e me durante gli attimi più strani della mia vita, ma questa volta non lo feci. Anzi, credo addirittura di non aver pensato a niente mentre mi prodigavo in una cosa tanto facile. Più tardi avrei dato per scontata la possibilità che il mio stesso cervello, in un atto di enorme umanità e benevolenza verso di me, avesse preso l’autonoma decisione di non farmi più pensare a niente. Non se aveva a che fare con Emanuele e non se lo avevo congetturato già in più di un’occasione.
Almeno così mi evitavo di rimuginare su qualcosa per più di dieci volte, il che già non era tanto normale.
Notare che perfino i pantaloni si erano bagnati non mi fece di certo stare meglio con me stessa, anzi, ebbi la sensazione che il mondo – se non addirittura Dio in persona – si stesse prendendo spudoratamente gioco di me.
Una volta uscita dal bagno, rossa in viso come poche altre volte ero stata, mi diressi in soggiorno con in mano maglia e jeans, sperando che almeno Emanuele non decidesse di fare una delle sue battutine, guardandomi poi come se fossi sbucata da chissà quale campo profughi. Sapevo che era una speranza vana, e mi rendevo anche conto che lì il problema rischiava di essere un altro e di ben altra portata, però lo stessi formulai quella richiesta a qualche sconosciuta potenza dei cieli.
«Stai cercando di dirmi qualcosa, per caso?»
Non feci neanche in tempo ad arrivare sulla soglia, che lui già mi aveva vista, dando fiato alla bocca come solo Emmy poteva fare.
Lo fissai stralunata, stringendo al petto i miei – fradici – indumenti.
«Credevo che solo la maglia fosse bagnata.»
«Se fosse così non mi sarei mai presentata in queste condizioni.»
«Quindi non è un velato accenno allo spogliarello richiesto poco prima…»
«Direi proprio di no, pervertito.»
Trovavo vagamente affascinante la velocità con cui passava dall’essere preoccupato per me, al totale menefreghismo verso le altre forme di vita che lo circondavano. Insomma, solo un secondo prima si era dimostrato dispiaciuto fino all’inverosimile per avermi spruzzata, e adesso, magia!, gli era passato tutto.
Sospirando mi diressi verso il divano, cercando almeno di non dare peso alla miriade di emozioni che mi si stavano scatenando in petto: avrei decisamente evitato di rappresentare una simile provocazione per lui, tanto più che ora come ora mi sarei volentieri sparata pur di non dover incrociare il suo sguardo. Ne sarei rimasta schiacciata. Intuire quali pensieri stessero affollando la sua mente mi avrebbe fatto fin troppo male.
Sedendomi lo vidi fare lo stesso, stando però bene attento a non sfiorarmi neanche con un dito.
«…andiamo, non essere tanto acida.» esordì, un braccio a penzoloni oltre la testiera del divano «Hai detto tu che non c’è niente che non va. Devo cominciare a preoccuparmi?»
«No.»
«E allora sorridi, dai.»
Mossi il capo, con fare esasperato, ma alla fine cedetti.
«…lo farò solo se tu ripeti l’imitazione del vecchio di poco fa.»
Lui rise svogliatamente, scompigliandosi i capelli corvini con una mano.
«Devo proprio?»
«Se vuoi che io ti sorrida, sì.»
Non se lo fece ripetere due volte e, assumendo una strana, stranissima espressione – teneva un occhio semichiuso, quasi non ci vedesse bene, e la bocca era un poco aperta, sbilenca addirittura – cominciò a parlare come aveva fatto in cucina, elencando tutte le cose che non andavano nella gioventù d’oggi giorno e facendomi sbellicare dalle risate. Me la stavo ridendo a tal punto che, tutto d’un tratto, dovetti fare i conti con una violenta fitta al petto.
Veloce mi incurvai su me stessa, prendendo respiri profondi, la mano che si stringeva alla felpa laddove sentivo battere il mio cuore da quattro soldi. Stava cercando di darmi un segnale, credo. Qualcosa come “piantala di mettermi sotto sforzo, sciocca, non lo sai che posso cedere da un momento all’altro?”.
«Accidenti…» commentai, sorridendo «…il mio stomaco oggi fa le bizze.»
Guardandolo capii all’istante di averlo messo in agitazione, però in qualche modo riuscii a rimediare. In un baleno si fece più vicino, portando una ciocca dei miei capelli dietro all’orecchio, prima di stringermi forte fra le braccia. Per un po’ se ne rimase zitto – come d’altro canto feci io, sconcertata -, accarezzandomi piano piano, il mento poggiato al mio capo.
«A forza di ridere deve essermi venuto un crampo…» sussurrai, imbarazzata.
«Sei proprio una barba se riesci a stare male quando ti diverti.»
Non potevo dargli torto, purtroppo.
«Stai un po’ meglio? Vuoi che ti porti qualcosa di caldo?»
Scossi il capo, stringendomi quasi inconsciamente a lui. Se volete saperlo non capitava spesso che mi coccolasse a quel modo. Da che lo conoscevo lo aveva fatto forse tre, massimo quattro volte. E tutte per motivi ben più gravi di un semplice malore momentaneo, che era passato più veloce di quanto lo avessi sentito. Era una cosa che faceva di mala voglia e che, probabilmente, lo metteva più a disagio di quello che si pensasse.
Perfino in questo potevo capirlo.
«No…ora va bene.» gli risposi, cercando il calore del suo abbraccio «Le… Le coccole funzionano sempre, credo.»
«Le mie o parli in generale…?»
«Io adoro le coccole, ma non necessariamente le tue. Mi piace farmele fare.»
«…o magari ti piaccio io, per questo stai già meglio dopo che ti ho stretta a me.»
A questo non risposi, mi limitai a stringere la presa a lui, emettendo un appena udibile sospiro.
Certo che mi piaceva. Dubitavo che ai più fosse sfuggito questo punto, arrivati fino a qui.
«Emanuele…»
«Andiamo, Angela, si può sapere che cosa stiamo facendo?» mi chiese, staccandosi un attimo ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, le mani a coprirgli il volto «Io… Io credo di stare impazzendo per poterti baciare. Dico sul serio. Se mi sono trattenuto sino ad ora è solo perché so cosa vuoi fare, ho capito che vuoi dimenticare quello che abbiamo fatto e…e sono d’accordo con te…»
«Se sei d’accordo allora perché stai dicendo queste cose?»
«Perché… Perché è la verità, accidenti!»
Scattò in piedi, prendendo a camminare davanti a me pieno solo di frustrazione. Appena raggiungeva un capo della stanza si fiondava nell’altro verso, sempre più nervoso.
«So che dimenticare, fare finta che nulla sia mai successo fra noi, è la cosa giusta da fare…però so anche che non voglio farlo.»
Mi si colmarono gli occhi di lacrime, così, come se nulla fosse. Lo guardavo e mi si struggeva il cuore, lo ascoltavo e mi trovavo completamente d’accordo con lui.
«…e allora cos’è che vuoi fare, si può sapere?»
Emanuele si fermò di colpo e, inginocchiandosi al mio cospetto, mi prese le mani fra le sue, baciandole delicatamente.
«Vorrei solo…che tutto sparisse.» mormorò «Vorrei che il mondo si annientasse, proprio come quando siamo stati insieme. Quel giorno finalmente c’è stato silenzio nella mia vita, calma assoluta. E questo non succedeva da troppo, davvero troppo tempo.»
Poi, tornando ad osservarmi, accarezzò la mia guancia, posando un piccolo bacio a fior di labbra sulla mia bocca. Chiusi gli occhi, affranta eppure dannatamente felice che lo avesse fatto. Ancora una volta ero venuta meno ai miei buoni propositi, ma almeno il viaggio verso i più bassi meandri dell’Inferno mi veniva introdotto con il più dolce dei contatti.
«Io voglio te.»
Avrei dovuto rispondere “Non mi importa”. Avrei dovuto guardarlo, staccarmi da lui e dirgli “Dobbiamo smetterla di farci del male stando vicini, crogiolandoci nella gioia di un minuto per poi passare il resto della vita immersi nella vergogna”. C’erano così tante cose da poter fare, in un momento come quello, che per un attimo il cervello parve in procinto di scoppiare sotto al peso di tutte le giustissime repliche che mi stavano balenando in mente. Era mio compito respingerlo, rinnegare definitivamente i miei sentimenti per permettere ad entrambi di voltare pagina, ma quando mi trovai a tanto così dal farlo mi bloccai e riuscii solamente a piangere ancora.
Scossa dai singhiozzi, la sola cosa che fui capace di dire fu la più sbagliata.
«…anche io voglio te…»
E lo volevo disperatamente, costringendomi a quel continuo dolore pur conoscendo il facile rimedio che mi avrebbe resa libera. Libera da tutto l’amore che provavo per lui, nonché dal senso di colpa che come un tarlo attanagliava il mio spirito giorno dopo giorno.
Emanuele non aggiunse altro, commosso lui stesso nel vedermi ridotta in quello stato a causa sua. Con tutta la dolcezza di cui era capace tornò a baciarmi, tenendo per sé le sue stesse lacrime e spingendomi sdraiata sul divano, le mani ad accarezzarmi il viso, il quale veniva ricoperto dall’ennesimo frutto di quella relazione tanto sbagliata: piangevo, vinta dalla disperazione, sconfitta dal desiderio.
Ero stata battuta sotto ogni punto di vista, e mentre speravo di mettere da parte ogni cruccio permettendo alla persona che tanto amavo di spogliarmi, non potei fare a meno di notare la straordinaria perfezione di quel preciso istante. Lui aveva ragione, quando stavamo insieme il tempo non esisteva e io, persona con la testa particolarmente sulle spalle, riuscivo finalmente a lasciarmi un po’ andare. Potevo scacciare l’insofferenza, la desolazione e la tristezza dal mio quotidiano, calandomi in un piacere che se anche non sarebbe durato a lungo, di certo mi avrebbe ripulita di tutta la sozzura di cui mi ero ricoperta.
Perché fare l’amore con lui voleva dire anche questo. Mi epurava.
«Vado…»
Annuii semplicemente, tralasciando l’agitazione che come la nostra prima volta mi aveva resa sua schiava. Non appena lo sentii affondare dentro di me allungai le braccia, cingendo il suo corpo con più delicatezza di quanta non credessi di possedere. Appoggiai la fronte alla sua spalla, inalando il suo buon profumo di lavanda mentre Emanuele, facendo perno sulle braccia, si ritraeva per poi ripercorrere i propri passi. Lo sentivo spingere con più decisione mano a mano che il tempo passava, e io, dalla mia posizione, mi beavo della sua espressione rapita, del suo accarezzarmi e baciarmi così tanto. C’eravamo davvero solo noi due al mondo, adesso. Vedevo quell’idea riflessa nel suo sguardo, così come lui, molto probabilmente, poteva vederla riflessa nel mio.
Stare lontani era impossibile.
Smettere di amarci, alla faccia di una ragazza che era stata presente nella sua vita prima e più a lungo di quanto non lo avessi fatto io, ugualmente inaccettabile.
Dovevamo stare insieme.
Dovevamo.
Continuai a ripetermelo, ignorando volutamente la vibrazione del cellulare di lui, segno che qualcuno stava cercando di chiamarlo da una decina di minuti buoni.
Neanche a farlo apposta sapevo per certo chi lo stesse facendo, riuscivo a figurarmi, con gli occhi della mente, l’espressione imbronciata d’Alessia. Ero sicura che quando finalmente le avesse risposto, lo avrebbe riempito di insulti. E lui, prodigandosi in mille scuse, mi avrebbe messa nuovamente da parte.
Sapevo tutto questo e perciò, gelosa di quel “nostro attimo”, attirai di più a me Emanuele, ricambiando ogni suo bacio con la stessa passione con cui lui me li donava, decisa a non fargli distogliere l’attenzione da me neanche per un solo, singolo istante.
Quando tutto finì e lui mi strinse fra le braccia, sdraiandosi al mio fianco sul suo divano, chiusi un secondo gli occhi prendendomi del tempo per pensare. Le sue mani mi accarezzavano i capelli, dolci, attente, e mentre quel po’ di calma che ero riuscita a conquistare facendo l’amore con lui veniva sormontata nuovamente da mille dubbi, dentro di me cresceva il desiderio di non staccarmi più da Emanuele neanche a costo della vita.
Lo amavo. Lo amavo davvero e per questo mi ero spinta ad azioni che mai mi sarei reputata in grado di compiere se solo avessi avuto modo di pensarci qualche mese prima. Il livello della disperazione cui ero giunta era tale, ora come ora, d’avermi permesso non solo di calpestare in continuazione il mio importantissimo orgoglio, ma anche di mentire spudoratamente ad una persona che non mi aveva mai fatto nulla di male.
Certo, Alessia aveva la fortuna – o la sfortuna, a seconda dei casi – di essere la ragazza di Emmy, tuttavia non lo era diventata per fare un torto a me. Era successo. Si erano piaciuti e si erano messi insieme, ignari di ciò che sarebbe potuto accadere nel loro futuro.
Mi morsi un labbro a quel pensiero, realizzando, ancora una volta, di non essere io quella dalla quale alla fine lui sarebbe tornato. Perché io ero l’altra. Ero quella alla quale avrebbero lanciato i pomodori – se non di peggio – e rivolto parole d’offesa non appena la nostra storia fosse venuta a galla. Ero quella che i genitori avrebbero guardato male, nonché quella che i nostri compagni di classe avrebbero biasimato. Per me, in un mondo in cui la coppia “Alessia ed Emanuele” ancora esisteva, non c’era spazio né per fare da martire, né per attrarre simpatia.
«Si sta facendo tardi…» mormorai, scansando lentamente la coperta con cui ci eravamo nascosti e mettendomi seduta «Devo andare.»
Emanuele non disse niente, limitandosi per un secondo a guardarmi. Di certo fuori era buio, però ancora non voleva lasciarmi andare. Con una mano, passando le dita sulla mia spina dorsale, si premurò di ricordarmi quanto anche io, nella realtà dei fatti, fossi restia a separarmi da lui. Mille brividi mi percorsero la schiena in un lasso di tempo molto corto.
«…potresti rimanere.» azzardò, mettendosi seduto ed imprigionandomi fra le sue braccia. Tornò a coprirmi con la coperta, posando le labbra sul mio collo. «Resta a dormire qui. Con me.»
«E tuo padre…?»
Lo chiesi con risolutezza, ma il mio viso, in quel momento, era tutto fuorché sicuro. Avevo le guance rosse, me lo sentivo, talmente tanto che riuscivo a percepire il loro calore anche senza posarci sopra i palmi.
«Cosa c’entra mio padre?» lui rise «Se ne sta buono buono in camera sua, tossendo e starnutendo di tanto in tanto… Dubito che abbia qualcosa da dire se ti fermi da noi. Lo hai già fatto altre volte.»
«Non così.»
«Così come…?»
«Io…» perché non mi lasciava andare, accidenti?! Stavo facendo i salti mortali per spiegarmi senza balbettare ad ogni singola, stupidissima parola! «…non abbiamo mai…dormito insieme, nello stesso letto. Quando venivo qui c’era sempre anche Seb e di certo non…non facevamo certe cose.»
Un’altra sua risata ed io, finalmente, trovai la forza di staccarmi da lui, coprendomi il petto con la coperta. Ero ancora tutta rossa, ma le sue risate mi avevano dato lo sprint necessario per appoggiarmi al mio leggero risentimento. Che ci trovava di divertente in ciò che stavo dicendo?!
«La vuoi piantare di ridermi dietro?» sibilai, alzandomi in piedi alla ricerca dei miei vestiti.
«Oh, suvvia!» rispose lui, per nulla imbarazzato nell’essere rimasto nudo come un verme di fronte a me. Io al posto suo sarei morta. «Ti stai facendo tanti di quei problemi assurdi! È chiaro che mi viene da ridere!»
Afferrai i miei pantaloni – che grazie a Dio nel frattempo si erano asciugati – e lo guardai dritto negli occhi.
«Beh, scusami tanto se io penso alle cose, a differenza di te!»
«Anche io penso alle cose, Angela!»
«No, invece, tu non ci pensi. Se lo facessi non mi chiederesti di restare da te quando sai bene che se tuo padre per puro caso entrasse in camera tua e mi trovasse sotto alle lenzuola con te, nuda, come minimo si porrebbe qualche domanda.»
«Cielo, sei così mal fidata. Chi ti dice che saresti nuda? Potremmo benissimo dormire e basta.»
Mi immobilizzai e scossi il capo, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure. Perfino un passante senza relazioni con noi due avrebbe saputo che sì, se mai avessi avuto la malsana idea di accettare la sua proposta mi sarei ritrovata a dover dare sfogo ad ogni sua più piccola perversione. Il fatto che ancora mi credesse tanto ingenua mi urtava alquanto.
«Ok, ok… Magari avevo intenzione di farlo ancora con te.» ammise infine lui «…però, anche se me la metti sotto questo punto di vista, non capisco cosa ci sia di male nell’averti chiesto di restare.»
Di male c’era che di quel passo ci saremmo distrutti a vicenda, ecco cosa.
«Senti, magari un’altra volta… No, ma che dico? Questa…questa dovrà essere l’ultima volta che...»
«L’ultima?» parve spaesato.
«Sì, l’ultima.»
Afferrandomi per un braccio si caricò tutto il mio peso, più gli indumenti che stringevo al petto, sulla spalla. Camminò tranquillo verso il piano superiore e lì, aperta la porta di camera sua, se la richiuse alle spalle poco dopo avermi praticamente gettata sul letto.
Lo fissai ad occhi sgranati, sconvolta.
«Ma che diavolo ti passa per la testa, si può sapere?!» strillai, in tempo per farmi chiudere la bocca da un suo bacio. Mi spinse sdraiata, lo sguardo più che sicuro. «Ti ho detto che…!»
«So benissimo che cosa hai detto.»
Sorrise, togliendomi di dosso la coperta.
«…voglio solo mostrarti un motivo valido per cui la tua decisione è da lasciar perdere.»
Detto questo, abile come solo lui poteva essere, riprese a baciarmi con decisione, stringendomi a sé nell’ennesimo abbraccio da cui io non riuscivo mai a trovare scampo. Riempii quella stanza di sospiri, maledicendomi per la sottomissione che dimostravo nei suoi confronti.
La verità era che non mi riconoscevo, in sua presenza. Diventavo così piena di insicurezze e talmente tanto confusa che anche la più normale delle parole, ovvero un secco “NO”, non poteva venire fuori dalla mia bocca. Gli permettevo di fare ciò che voleva, sminuendo la mia autorità ed aumentando il suo già smisurato ego. E anche se me ne rendevo conto, abborrandomi da sola, le cose non cambiavano comunque.
Ero ancora là, ridotta a poco più di una bambola fra le sue mani, innamorata persa di una persona che forse nella realtà dei fatti non mi ricambiava neanche.
Perché, non credete, il dubbio lo avevo. Non ero per niente certa che Emanuele si stesse comportando così per le ragioni che un’ora prima mi aveva elencato, e anzi pensavo che si trattasse dell’ennesimo svago da manuale, dell’ennesima truffa ben riuscita. L’idea di essere diventata una delle tante che loro malgrado erano cadute preda del suo fascino mi faceva rabbrividire, o forse il termine più adatto era arrabbiare.
«Che sciocchina che sei…ancora non capisci quanto sei importante…?»
…poi però se ne usciva con frasi del genere, e tutto il mio rancore andava a farsi benedire.
Poteva dire certe cose senza pensarle davvero? Poteva prendere in giro me, la sua migliore amica, proprio come aveva fatto con centinaia di altre ragazze?
Non lo sapevo. Purtroppo, questo, pur possedendo un fine intelletto, non potevo constatarlo senza mettergli una sonda nel cervello. Avrei voluto chiederglielo, fidandomi ciecamente della risposta che mi avrebbe dato, ma anche quello era impossibile. Avevo visto talmente tante persone rimanere ferite dalle sue azioni, che ormai io stessa trovavo difficile dargli credito nelle cose più importanti.
In fondo mi aveva già mentito. Svariate volte aveva dato buca a me – nonché a Sebastiano – per seguire i proprio stupidi e bassi istinti. Innumerevoli erano quelle in cui aveva giurato e spergiurato di non aver fatto una cosa, quando invece era proprio lui il fautore del tiro mancino che ero costretta a subire.
Come dare un peso effettivo alle sue parole, quindi?
«…importante…» ripetei, tenendo gli occhi chiusi nel sentirlo così vicino «…io non sono importante. Sono…m-materiale sacrificabile.»
Emanuele scosse il capo, baciandomi le spalle con desiderio.
«No che non sei sacrificabile. Tu…sei l’unica che mi capisce, Angela. L’unica.»
A sentirlo non potei fare a meno di guardarlo, ignara del vero significato che stava dietro a quella piccola sentenza. Tutto ciò che fui in grado di registrare fu una sola parola, quell’ “unica” che avevo sentito uscirgli dalle labbra.
Non lo aveva rivolto ad Alessia. Lo aveva rivolto a me.
«Io…»
Prese un respiro profondo, stringendomi a sé con tutta la forza che aveva. Teneva il viso nascosto dal mio sguardo, il che mi fece presagire l’arrivo di una verità tanto grande quanto incredibile.
«…io ti amo.»
Me lo aveva già detto, questo. Il giorno in cui mi ero vista al cinema con il professore e gli altri, lui aveva detto d’amarmi ma io, conscia delle semplicità con cui aveva proferito simili parole, non gli avevo creduto. Stavolta invece, proprio perché si nascondeva e rifuggiva dai miei occhi, seppi per certo che non mi stava mentendo. Che era sincero.
«Dillo…» trattenni le lacrime a stento «…dillo ancora, ti prego.»
«…»
«Per favore, Emanuele… Dillo ancora.»
Sbuffò sonoramente e, alzando la testa, mostrò la sua faccia tutta rossa d’imbarazzo.
«Ma cos’è, sei sorda?» chiese «Ho detto che ti amo, cavolo. T-I-A-M-O. Capisci? Io ti amo!»
Scoppiai a ridere e prendendogli il volto fra le mani gli diedi un bacio, bello intenso, uno di quelli che aveva poco a che fare con gli altri donatimi dal diretto interessato. Lui aveva sempre usato passione in quei contatti, quasi con fin troppo trasporto alle volte, io invece, distinguendomi come al solito, seppi donargli tutta la dolcezza e l’amore che provavo nei suoi confronti.
Improvvisamente non pensavo più a quello che stavo facendo. Se lui mi amava il resto dell’universo poteva anche ardere fra le fiamme.
«Sei sempre il solito ritardatario.»
Sorrise a sua volta, accarezzandomi le guance.
«…cosa vuoi farci, certa gente non impara mai.»
E poi, libero da ogni genere di timidezza sussurrò ancora:
«Ti amo.»
La voce dell'Autrice: Mh. Ed eccoli ricascati nuovamente nella solita infima trappola. La passione! Cosa non riesce a fare! A parte gli scherzi li trovo davvero comici, questi due, omettendo i tratti drammatici della storia che li vede come protagonisti. O, per lo meno, ritengo che Angela stessa sia comica: fa tanta di quella fatica per porsi dei limiti, per mettere dei paletti, e poi quando si tratta della persona che ama è capace di mandare tutto all'aria nel giro di mezzo minuto (o addirittura di mezzo secondo). Ma credo che anche questo faccia parte dell'amore. Il rendersi totalmente idioti quando si ama è assolutamente la norma ù.ù |
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Capitolo 11 *** Avrei voluto durasse di più ***
Dieci:
Avrei voluto durasse di più...
Perfino dopo quel meraviglioso attimo non riuscii a considerarmi totalmente al sicuro.
Per quanto infatti le parole di Emanuele mi avessero resa felice, sapevo che quella mia condizione privilegiata non sarebbe durata mai abbastanza a lungo: solo la mattina seguente, uscita dal torpore del sonno, mi sarei dovuta rendere conto nuovamente che non c’era fine al peggio. Non importava quanto io o lui ci amassimo, non importava neanche quanto fossimo contenti quando stavamo assieme, l’unica cosa che ancora contava e che, ancora, entrambi ci ostinavamo a dimenticare – o ignorare, a seconda dei casi – era che Emanuele non era libero.
Non lo era, e neanche nella più rosea delle visioni una simile condizione non avrebbe tardato a piombarci addosso in tutta la sua grandezza.
Alessia, pur non essendoci veramente, rimaneva sempre fra noi. Vigile, a fissarci. Controllava ogni nostra mossa e rovinava ogni nostro attimo.
Anche quella gioia improvvisa, quindi, era destinata a sciuparsi nel giro di qualche ora, sormontata dalla consapevolezza di non avere più il tempo per giocare. Uno di noi doveva prendere una decisione, quella definitiva, e se davvero il mio amico, il mio compagno, non avesse avuto la forza di prendere la sua, allora purtroppo un simile fardello sarebbe toccato a me.
Dentro sentivo che non c’era scelta, quello era il bivio finale che si intrometteva nella nostra relazione. Come sempre le vie da prendere erano due e, sia che avessi imboccato una o l’altra strada, mi sarei ritrovata a soffrire ugualmente. Ormai ero arrivata a quel punto, sì. Non c’erano più soluzioni che mi avrebbero fatta sentire solo scottata e non del tutto distrutta.
Se accettavo la sua indecisione avrei vissuto una vita a metà, prigioniera di incontri clandestini e chiamate notturne, di sguardi pieni di passione ma tenuti nascosti.
Se invece davo retta a quel po’ di sale in zucca che mi rimaneva, avrei preso armi e bagagli e mi sarei diretta verso la mia gloria, alleggerita di un peso, ma con un grande vuoto nel cuore.
Lì, stretta fra le braccia d’Emanuele nel bel mezzo di un nuovo sogno, la bilancia era ancora in precario equilibrio. Potevo godere di quella piccola parentesi di calma ancora per qualche ora, crogiolandomi nella convinzione di aver appena fatto una grande conquista.
Una volta aperti gli occhi avrei avuto modo di capire che un passo avanti lo aveva di certo fatto, anche se non nella direzione che, solo la sera prima, avevo creduto di imboccare.
***
Quando mi svegliai, ancora mezza intontita dal sonno, aprii piano gli occhi e li sbattei un paio di volte, tirando fuori le mani da sotto le coperte per strofinarli appena appena prima di decidermi a guardarmi definitivamente attorno. Sapevo bene dove mi trovavo, non ero così stupida da dimenticarmi di un particolare simile, ma forse, ancora ripiena dell’euforia che le parole di Emmy mi avevano dato, cercavo mille conferme ad assicurarmi di non aver sognato.
Non con molta sorpresa, perciò, esplorai con lo sguardo gli angoli bui di quella stanza, riscoprendomi sempre più contenta man mano che i secondi passavano.
Sorrisi nell’intravedere il pianoforte di fronte al letto, segno inequivocabile che sì, stavo proprio nella sua camera.
Nonostante tutto però, la gioia più grande me la dette lo scontrarmi con il suo viso. Mi feci più vicina a lui, le mani unite sotto al capo per farmi da sostegno, il cuore a battere forte mentre lo osservavo dormire. Stavolta non era scappato, e anche se mi rendevo conto che quella era la sua casa, non potevo che vedere la cosa positivamente.
La nostra prima volta non avevo fatto in tempo ad addormentarmi che Emanuele se ne era già andato, lasciandomi sola con la consapevolezza di aver appena contribuito ad un adulterio, oltre che ad aver perso una parte alquanto importante di me stessa. Ora invece ce ne stavamo insieme, lui con un braccio attorno mio fianco, l’espressione tranquilla ed il respiro regolare.
Era tutto perfetto.
Mi presi ancora qualche minuto di contemplazione prima di alzarmi in piedi, adoperando tutte le doti feline che possedevo – un modo carino per dire che stavo cercando di fare piano -, e di correre alla ricerca dei miei indumenti. Non trovavo i pantaloni, ma siccome non potevano essere poi molto lontani in quel primo istante non me ne preoccupai molto. In fondo era troppo buio, là dentro, perché io li vedessi con chiarezza sul pavimento. Veloce mi misi la biancheria intima, lasciando andare una volta per tutte il lenzuolo, il quale solleticò un poco le mie caviglie cadendo a terra.
Stavo per afferrare la maglia quando…
«…per curiosità, dov’è che vorresti andare?»
Quasi mi venne un infarto a sentire la sua voce.
Girandomi di scatto, la maglietta stretta al petto, lo fissai ad occhi sgranati. Era un po’ come essere stata colta sul fatto, neanche fossi in procinto di rubargli qualcosa o di ucciderlo nel sonno.
Arrossii, grattandomi distrattamente una guancia.
«A…casa?» chiesi a mia volta, perplessa.
«Beh, sono felice di sapere che te ne saresti andata via senza neanche salutarmi!»
«Non lo avrei mai fatto! Mi stavo solo vestendo, stupido!»
Lui mosse la mano come a dirmi “Lasciamo perdere” e io, gonfiando le guance, tenni per me ogni risposta acida.
Solo allora, incrociando il suo sguardo, ebbi modo di notare la speciale luce che aveva negli occhi.
…non voleva che me ne andassi?
«Se vuoi…» cominciai, insicura sul da farsi «…posso restare ancora qualche ora.»
«…e faremo colazione insieme?»
Risi. «Volentieri.»
«Così mi piaci!»
Lo guardai mentre anche lui si dava da fare per vestirsi e, quando insieme aprimmo le imposte delle finestre, fui molto sorpresa nel non trovare ancora quei benedetti pantaloni. Ero sicura di averli portati con me in camera quando, la sera prima, Emanuele mi aveva caricata in spalla e trascinata là con non molta cura.
Lasciando che fosse lui a mettere a soqquadro la sua stanza, aprii la porta e volai per i corridoi, ripercorrendo la strada che separava quella parta della casa al soggiorno che stava al piano di sotto. Per tutto il tempo fissai il pavimento, sicura che sul soffitto non potessi di certo trovare i miei jeans.
Fu solo quando andai a sbattere contro a qualcosa che mi decisi a tornare a guardare davanti a me.
«Oh, buongiorno Angela.»
Il sangue mi si gelò nelle vene.
Avevo di fronte niente popò di meno che Massimo, il padre di Emanuele, e per quanto tutti conoscessero la sua grande bontà d’animo a nessuno sfuggiva che fosse anche un uomo piuttosto arguto.
Se ne stava là, in mezzo al corridoio, con in mano i miei pantaloni ed indosso il migliore dei sorrisi. A quel punto seppi per certo di non avere più scampo perché anche un bambino avrebbe intuito a che genere di gioco io e suo figlio stessimo giocando. Qualcosa di molto simile al “Dottore”, se vogliamo porla in termini che tutti possano facilmente comprendere.
«Buo…» deglutii «Buongiorno, Massimo.»
«Per fortuna sei tu, cominciavo a credere che la casa fosse posseduta. Sai, Emanuele non possiede un passo così leggero, anzi.»
Cercai di ridere, ma quella che venne fuori fu tutto fuorché una risata genuina.
«Come stai cara?»
«Io sto…sto bene. Grazie. E tu…? Tu come stai?»
«Meglio degli altri giorni, ma sono ancora tutto intasato. Una rabbia!»
Chiaramente non potevo fare a meno di fissare i miei jeans. Era così assurdo stare lì a parlare con lui del più e del meno quando, santo cielo, mi ritrovavo in mutande, coperta solo da una maglietta, e con le guance più rosse di un pomodoro! Avrei voluto solo scappare, o magari venire inghiottita dalle fauci della Terra.
«Credo che questi siano tuoi.» disse Massimo alla fine, indicando le braghe. Doveva essersi accorto della mia tensione – difficile non accorgersene. «Sono un po’ umidicci.»
Li afferrai, annuendo da sola.
«Stavamo…lavando i…piatti e mi sono bagnata…»
«Perché lavarli a mano, abbiamo la lavastoviglie!»
Tralasciando il fatto che questa notizia mi fece venire voglia di picchiare Emmy fino a che non gli avessi staccato la testa dal collo – lui sapeva quanto odiassi lavare i piatti – notai con ancora più disperazione che la calma ostentata dal mio interlocutore non era del tutto sincera. Massimo sorrideva sempre, questo era vero, ma quando era arrabbiato lo si intuiva subito e, purtroppo per me, questa era una di quelle volte. Non sapevo se il suo risentimento fosse tutto indirizzato nei miei confronti, però sapevo di essere uno dei motivi che lo rendeva nervoso.
Sospirai, pronta quasi a vuotare il sacco, quando anche il secondo abitante di quella casa fece la sua comparsa.
Mi arrivò alle spalle, baldanzoso e per nulla preoccupato dal fatto che suo padre fosse proprio lì con noi.
«Bene, li hai trovati.» disse solamente, ridendo «Ehi padre, come va oggi?»
«Come ho già detto alla tua amica» e calcò su questa parola «sono infelicemente intasato dal mocco. Indi per cui non me la sto spassando molto.»
«Vuoi fare colazione in nostra compagnia?»
Massimo mi guardò, inclinando un poco il capo. «No. Credo che vogliate passare del tempo da soli.»
“Ok, sa tutto” pensai io, stringendomi nelle spalle e lasciandomi sospingere verso la cucina da Emanuele “Sa tutto e come minimo mi odierà per il resto dei miei giorni”.
«Io mi dileguo. Torno a nannare.» sussurrò, accarezzandomi delicatamente.
Io mi voltai verso di lui, notando che nei suoi occhi non c’erano pregiudizi, solo molta comprensione. Forse, a conti fatti, la rabbia di poco prima non era da indirizzare a me.
«È stata la cosa più imbarazzante di tutta la mia vita!» esclamai una volta arrivata a sedermi a tavola. Sbattevo con violenza la fronte sulla superficie in legno, maledicendomi da sola fra un tonfo e l’altro. «Penserà che sono una poco di buono! …beh, in effetti lo sono. Io stessa penso di essere una poco di buono, figurati che cosa starà pensando tuo padre!»
Emmy rise, dandomi come sempre la sensazione di essere o totalmente insensibile o dannatamente incosciente. Invidiavo il modo in cui riusciva sempre a farsi scivolare le cose addosso, scansando i problemi che ci sciamavano attorno come api quasi non li trovasse preoccupanti. Io, dal mio canto, non riuscivo a tanto.
«Lo sai, vero, che non c’è niente di divertente in tutto questo?»
«Al solito ti sbagli. La tua faccia vale qualsiasi gag.»
«Oh, sì, facciamo dell’ironia in un momento critico, tanto c’è Angela che si preoccupa per tutto.»
«Non avrei saputo dirlo meglio, sorella…»
Mi accasciai sul tavolo, sfinita sia fisicamente che psicologicamente. «Emanuele…»
«Senti, so anche io che probabilmente mio padre mi farà una ramanzina coi fiocchi non appena te ne andrai, credo che sia normale dopo ciò che ha visto e dedotto.» rispose lui, portando in tavola il tè caldo «…quello che dico è che trovo snervante il tuo obbligo morale a darti pena per ogni cosa. Non è con te che se la prenderà! Lo farà con me!»
Corrugando la fronte alzai di poco la testa, fissandolo.
«…questo dovrebbe farmi sentire meglio?»
Lui annuì solamente, portando in un istante una mano sulla tasca posteriore dei pantaloni. Estrasse il suo cellulare e, guardando per un attimo il display illuminato, sospirò pesantemente prima interrompere la chiamata e posare il telefono poco distante dalla sua tazza.
«Allora, cosa vuoi da mangiare per…»
«Dovresti risponderle.»
«…Dio, Angela…» si portò una mano alla fronte, scompigliandosi i capelli «Almeno per qualche ora possiamo continuare a fare finta di niente, non pensi? Solo un pochino.»
Il cellulare riprese a vibrare ed io, ricordando come lo avevo udito il giorno prima mentre ero sul divano, stretta al proprietario in un illecito abbraccio, pensai addirittura che fosse in procinto di scoppiare: mi chiesi quante chiamate aveva reclinato, Emanuele, sino ad allora; quante volte quel povero arnese avesse suonato a vuoto per tutta la notte.
Lo presi in mano, allungandolo verso di lui.
«Rispondi.»
Non oppose ulteriore resistenza e io, vedendolo fuggire dentro la cucina, tesi bene l’orecchio per captare anche la minima frase sussurrata. Riuscii a recepire solo piccoli sprazzi, ma tanto mi bastarono per sentirmi sempre meno a mio agio. Scattai così in piedi, seguendo il suo esempio e scappando lontano da lui, per rifugiarmi in un posto dove né la sua voce, né il significato dietro alle sue parole potesse raggiungermi. Aperta la porta del poggiolo uscii all’aria fresca, appoggiando pesantemente la parte anteriore del corpo alla balconata.
Presi dei respiri profondi, osservando il cielo con occhi tristi. Era tutto ricoperto di nuvole grigie, non potevo scorgere neanche una minima parte dell’azzurro che stava sotto. In un secondo trovai irresistibile la possibilità che il tempo fosse in simbiosi con il mio umore.
La nottata appena trascorsa non era stata serenissima, proprio come io era stata felice?
E ora che improvvisamente ero triste, guarda il caso pareva avvicinarsi una bufera.
Da dentro mi arrivarono rumori confusi, di passi e chiacchiere. Emanuele mi stava cercando, ma fino a che non avesse smesso di parlare con lei io non mi sarei fatta vedere. Preferivo rimanere nascosta, a fare finta di non esistere pur di non dover affrontare ancora l’inoppugnabile verità. Stavolta il mio cuore non avrebbe retto. Stavolta sarei morta, schiacciata dal peso dei miei doveri.
In quell’occasione avrei tanto voluto possedere un potere speciale, come ad esempio il teletrasporto: se avessi avuto una simile capacità mi sarei potuta divertire a viaggiare in qualsiasi parte della Terra solo pensandola ardentemente, pronta a rinnegare tutto quello che, in questa vita e in quella città, mi dava pensiero. Sarebbe stato bellissimo, ma soprattutto facile. E poi, dopo che già mi ero macchiata della colpa di essere l’amante di un amico, cos’altro poteva farmi il guadagnare la reputazione di essere una vigliacca?
Sentii la porta scorrevole scivolare alle mie spalle, segno che ero stata trovata.
«…è pronto.»
Non dissi niente per un po’, e cercando almeno di sorridere non mi girai neanche verso di lui. Rimasi a scrutare l’orizzonte, persa.
«Non… Non ho più molta fame.»
Ed era vero. La bocca dello stomaco si era chiusa e l’intestino, con una velocità inaudita, si era accartocciato su se stesso. Era assolutamente impossibile che io, in quelle condizioni, potessi anche solo anelare ad un pasto completo senza il rischio di rivederlo comparire un minuto dopo vomitandolo.
«Andiamo…» sbuffò lui «Fette biscottate con marmellata e tè. So che ti piace questo menù. Non lo senti il profumino delle leccornie che ti ho preparato?»
«Lo sento, sì.»
«E allora vieni. Guarda che se salti la colazione, poi ti viene il diabete.»
Alzai malamente le spalle, a sentirlo. Sinceramente, considerando i miei già abbastanza gravi problemi di salute, il diabete poteva essere solo la minore delle mie preoccupazioni. Il mio cuore mi avrebbe uccisa prima di quanto non lo avrebbe potuto fare quella ennesima malattia.
Ciò che mi dava più ansie al momento, poi, era tutta un’altra questione.
«Forse dovrei andare davvero, adesso.» biascicai, facendomi triste «Sono rimasta abbastanza.»
«Avevi promesso che avremmo fatto colazione insieme e la faremo. Ho litigato con Alessia, le ho detto che non volevo vederla e questo perché… Perché voglio stare con te.»
Respirando a pieni polmoni tentai di farmi forza, frugando nella mente alla ricerca delle parole giuste che mi avrebbero fatto spiegare una volta per tutte cosa continuava a bloccarmi, facendomi tornare sempre sui miei passi.
«Io sono…felice se preferisci stare con me, piuttosto che con lei. Sono felice.» Sospirai. «Però questo non vuol dire che non mi senta in colpa per come tratti la…la tua ragazza. Perché Alessia è la tua ragazza. E sta soffrendo a non averti con sé, incapace di capire cosa ti abbia portato ad allontanarti da lei.»
«Le… Le chiederò scusa, non preoccuparti. Questa non è la prima volta che la pianto in asso, comunque. Dubito che stia così male.»
Sentii le lacrime appropinquarsi, ma le scacciai con ferocia dagli occhi usando le maniche del maglione che mi ero messa prima di uscire in terrazza. Non volevo piangere, non ora che finalmente stavo riuscendo a parlare, a dire le cose come stavano, senza interpretare la parte della dura o di chissà quale altro personaggio: dovevo solo essere sincera, tendergli ancora una volta la mano e aiutarlo a capire ciò che da solo non riusciva a comprendere.
«Quello che facciamo…non è giusto.»
Un concetto banale per entrambi, poiché già ampiamente appurato, ma eccellente base per il mio discorso.
Decisi di girarmi per fronteggiarlo, gli occhi lucidi.
«Io ti amo… Ti amo davvero, Emanuele.» sussurrai «…questo però non mi da il permesso di ferire un’altra persona così profondamente. Di disonorarla. Di gettarla nel fango da sola, senza appoggio.»
«…cosa vorresti dire?»
Il suo sguardo sperduto, tipico del bambino che in fondo era, mi colse per un attimo del tutto impreparata. Abbassai gli occhi, mordendomi un labbro.
«Lo sapevamo da molto che stavamo sbagliando, ma lo stesso avevamo deciso di andare avanti, se non sbaglio. Insieme. Lo abbiamo detto tutti e due che non…volevamo rinunciare l’uno all’altra, no? Anche se era sbagliato.»
Poi, come rinvigorito da un nuovo fuoco, si fece avanti di un passo, stringendo i pugni lungo il corpo.
«Alessia neanche lo sa! Non può stare male per una cosa che non conosce.»
«…e se lo scoprisse?» chiesi, con un filo di voce «Se sapesse di te e di me come pensi che reagirebbe? Vuoi davvero vederla soffrire a quel modo? Io… Io mi ucciderei al posto suo.»
Cominciò a vacillare a questo pensiero. Non voleva che Alessia stesse male a causa sua, questo era evidente. Sotto al peso delle mie parole si faceva via via più spaventato, un po’ per la verità di ciò che dicevo, un po’ per il timore che lo stessi abbandonando definitivamente.
«…quindi che cosa proponi di fare? Non capisco. Vuoi…smettere? Smettere di vederci e di stare insieme?»
«Vorrei continuare a vederti…però forse dovremmo smettere di…»
Di cosa?
Di fare l’amore? Di baciarci? Di abbracciarci?
Ma cosa stavo dicendo…sapevo perfettamente che continuando a stare vicini prima o poi saremmo ricaduti di nuovo negli stessi stupidi errori. Dovevo smetterla di cercare la via più facile.
«…sì, dobbiamo cominciare a non vederci più.»
Arrivato a questo punto, qualcosa sembrò rompersi all’interno di Emanuele. Mi fissava come se mi stesse guardando per la prima volta, e con quel pensiero a dominare la mia mente, ebbi modo di notare anche il suo totale sbigottimento. Non poteva credere che lo avessi detto per davvero, non riusciva a capire come, una persona che solo fino a poco prima si era detta innamorata persa di lui, ora se ne stesse lì a formulare simili discorsi senza mostrarsi neanche un poco scossa. Capii all’istante che stava cominciando a credere che lo avessi solo manipolato, che lo avessi preso in giro per divertirmi durante le vacanze. Forse avrei dovuto risentirmi di questo, ma non lo feci. Potevo capire la sua confusione, visto che non stavo facendo altro che il “tira e molla” con lui.
«Non ero…indispensabile, per te?» domandò ad un certo punto, abbassando gli occhi a terra «Io credevo che entrambi provassimo le stesse cose.»
«Tu per me sei indispensabile. Lo sei.»
«E allora come mai stai dicendo che…non vuoi più vedermi…?»
Esitai qui, osservandolo mentre lui, teneva lo sguardo, vuoto di ogni emozione, puntato sulle mattonelle della terrazza. Era come se non fosse neanche attento a quello che gli succedeva attorno, parlava, sbatteva le palpebre e respirava, però non era lì. Non veramente. Per una volta ero io ad averlo piegato, e non il contrario…ma, guarda il caso, non riuscivo ad andare fiera di questo nuovo primato.
«Sei l’unica che mi capisce…» continuò «…la sola che sa cosa provo. Io non posso perderti. Piuttosto smettiamola di essere amanti e…»
Anche lui sapeva che non era possibile. Lo sapeva. Si era bloccato per quel motivo.
«…non voglio lasciarti andare.»
«Emanuele»
«Tu vuoi lasciarmi?»
«Senti io…»
«Dimmi se…se vuoi lasciarmi per davvero. Dimmelo, avanti.»
Scossi il capo. «È evidente che non vorrei, ma-»
«No! Non ci sono ma, non ci sono scuse!» si avvicinò di scatto e mi prese per le spalle, puntandomi quelle iridi fredde come il ghiaccio addosso, quasi fossero due fari atti a scavarmi l’anima «Perché trattenersi? Che senso ha farlo, se vuoi stare con me?! Basta tentare di andartene, basta fingere di essere forte, di non volermi più… Io lo so che mi ami. Lo so! Nessuno ci sente e ci vede, qui, perciò non serve recitare. Ora come ora possiamo amarci, possiamo fare quello che vogliamo!»
Tutte quelle parole, dette da qualcuno che mai avevo visto scomporsi in ben cinque anni di conoscenza, mi colpirono come dardi infuocati. Anche stavolta non seppi come reagire, e il massimo che fui in grado di fare fu ricambiare il suo sguardo: ci eravamo invertiti le parti, ora era lui a condurre il gioco ed io, di fronte a quel ragazzo totalmente stravolto eppure ancora desideroso di combattere per noi, riuscivo solo a tenere la bocca aperta. Avrei voluto piangere, come facevo sempre quando le cose diventavano insostenibile – il che accadeva spesso, di recente, ve lo concedo – ma le lacrime non scesero all’istante. Solo quando ricominciai a far funzionare le corde vocali sentii gli occhi pizzicare.
«…io desidero solo che tu sia felice.» sussurrai, disperata.
«Allora non vuoi capire. Una vita tranquilla e felice io…la posso avere solo con te. Pensi che smettendo di frequentarci tutto tornerà come una volta? È assolutamente impossibile che accada.»
Una vita tranquilla.
Emanuele, il mio Emanuele, quello egoista e per nulla portato a vedersi in futuro al fianco di una sola partner per tutta la vita, aveva esplicitamente detto che poteva avere una vita tranquilla e felice solo con me.
Con me.
Non sapeva che la mia, di vita, non sarebbe mai durata abbastanza a lungo.
Non sapeva che gli avevo mentito per anni, tenendogli nascosta una malattia che mi stava divorando da dentro giorno dopo giorno.
Non sapeva che il nostro rapporto, se anche fosse rimasto allo stadio “amicizia”, non sarebbe mai potuto maturare veramente.
Non sapeva, non sapeva, non sapeva!
«M-Mi dispiace...» dissi, lasciando che le lacrime mi solcassero il viso «Mi dispiace, ma con me non potrai mai avere niente del genere. Niente di niente. Io non… Io non sono quella giusta per te.»
Se avessi potuto mi sarei fermata, impedendo a quella crudele verità di venire fuori. Il solo pensiero di starlo definitivamente scacciando, di stargli dicendo che non potevamo stare più assieme, mi uccideva.
«Io non lo sono, però lei lo è…» dissi infine «Alessia…è forte. È giudiziosa. Alessia è bella ed intelligente. Alessia è ammirata da tutti, sa stare con gli altri e ti tiene sempre testa. Lei sa cosa vuole, ti saprebbe dare il massimo ogni giorno e…e ti ama. Ti ama tanto quanto ti amo io.»
Si staccò da me come se un serpente lo avesse appena morso, le mani ancora tese a mezz’aria. Indietreggiando finì contro il vetro della porta finestre e, scuotendo piano il capo, pareva ancora intenzionato a remarmi contro. Però, io, da brava conoscitrice dell’animo umano, davo già per scontata la mia vittoria.
C’ero quasi. Lo avevo praticamente convinto.
«Questa è stata una parentesi.»
Mi fulminò a sentirmi.
«Una parentesi? Sono solo questo…?»
«Non dico che quello che proviamo non sia vero.» mi affrettai a dire «Il mio affetto è sincero e…lo è sempre stato. Tuttavia temo che ci siamo sbagliati. Abbiamo scambiato ciò che ci lega per una cosa vera e invece…non lo era. Siamo in tempo per rimediare, però. Tu tornerai da Alessia e sarete felici, vedrai. Felici come non potresti mai essere con una come me.»
«…A-Angela…»
Posai una mano sulla sua bocca e gli impedii di parlare. Se lo avesse fatto non avrei avuto più la forza di continuare, e questo non doveva succedere. Avevo i minuti contati, sia perché la voce cominciava a venirmi meno, sia perché sentivo che il mio cuore non avrebbe sopportato altra pressione. Dovevo sbrigarmi.
«Finiamola qui e basta, Emmy.» sentenziai «Abbiamo diciotto anni, siamo grandi ormai e dobbiamo smetterla di fare i capricci, ostinandoci a volere cose che non possiamo ottenere.»
Lui prese la mia mano fra le sue e, dopo aver fatto una piccola pausa, mi accarezzò una guancia.
Lo sentii sospirare.
«…ma noi due…noi due ci amiamo, Angela.»
Piangendo mi staccai, desolata.
Ci amavamo, sì. Ci amavamo tanto e proprio ora che scoprivo quanto quel sentimento non fosse più a senso unico dovevo dirgli addio.
«L’amore alle volte non è sufficiente.»
Arrivata a casa mi accasciai subito a terra, appoggiando la schiena alla porta d’entrata e portandomi le ginocchia al petto, strette dalle braccia. Ero distrutta in così tanti modi diversi che, per un breve lasso di tempo, fui certa che le mie funzioni vitali smisero di funzionare. Ci fu come un black out, il ricordo d’aver pensato o anche solo respirato venne tolto dalla mia memoria e anche dopo non seppi mai con certezza quello che avevo fatto. In quei pochi minuti forse avevo continuato a piangere e magari avevo anche chiesto a gran voce “pietà” ad un Dio troppo occupato a torturarmi.
L’unica cosa che rammento, è il suono del cellulare.
Mi svegliò come da una trance e, tiratolo fuori dalla tasca del mio giubbotto, me lo portai lentamente all’orecchio.
«Ehi sorellina!»Simon, all’altro capo, sembrava contento. «Ho delle bellissime notizie. Miracolosamente avrò del tempo per tornare da te, in questi giorni. Potremo stare insieme ancora per un po’.»
Sforzandomi di sorridere scacciai le lacrime dagli occhi, annuendo da sola. «W-Wow!»
«Accidenti, quanto entusiasmo.»
«Ah, scusami…è che oggi non… Oggi non è proprio una bella giornata per me.»
«Come mai?»
Gli avevo mentito per tutto il tempo che aveva passato a casa, ma ora non riuscivo più a farlo. Sentendomi sopraffatta dalla miriade di problemi che stavano contornando il mio mondo, mi sentii quasi in obbligo di vuotare il sacco con l’unico parente che mi era rimasto. Simon era la sola persona che mi conosceva bene, che sapeva tutto di me, anche la più piccola cosa, e quando fra i singhiozzi gli rivelai che genere di oscuro segreto gli avevo tenuto nascosto capii anche che ero stata una grande sciocca nel non dire niente.
Lui accolse la verità senza interrompermi, attendendo che fossi capace di fornirgli i retroscena di una storia tanto complicata. Voleva avere il quadro completo, Simon era fatto così. Era un po’ come un giudice e, in fondo, non era di certo una casualità che stesse studiando per diventare avvocato.
Un giorno non lontano, avrebbe fatto da mediatore per situazioni ben più difficili.
Nell’attimo stesso in cui fu pronto a parlare, toccò a me trattenere il respiro.
«Con un cuore del genere, proprio di uno già fidanzato dall’alba dei tempi dovevi innamorarti?»
Lo avevo previsto. Non c’era smielata compassione nel suo tono di voce, solo sincerità ai limiti della delicatezza. Si stava trattenendo per non arrabbiarsi con me, e, almeno questo, lo apprezzai.
«A cuor non…si comanda, no?»
«Ho sempre saputo che eri cotta di lui, però non mi sarei mai aspettato un simile susseguirsi di eventi.»
Nemmeno io me lo sarei mai aspettato.
«Secondo me hai fatto bene a lasciar perdere. Chiaramente non sei fatta per un triangolo, e non lo dico solo perché sei malata, lo dico anche perché tu non sei adatta a qualcosa del genere. Hai bisogno di un amore incondizionato, di qualcuno che veda solo te, sempre e comunque. Tu…tu sei come la mamma.»
Sospirando fissai il muro, riconoscendo che aveva ragione anche su questo punto. Ero simile a lei in tutto, soprattutto nel carattere: entrambe testarde, passionali, pronte a dimostrare al mondo di essere le più forti di tutti, ma consce di stare solo recitando una parte ben congeniata. Fragili, ecco cosa eravamo, fragili più degli altri.
«Sono stata una stupida.»
«Amare significa anche questo, purtroppo.»
«…»
«Cosa…?»
Mi morsi un labbro e, stringendo una mano al petto, proprio sopra al cuore, ricominciai a piangere. Ero quasi certa che non avrei più smesso di farlo, se avessi speso altro tempo a versare lacrime. O forse, proprio come Alice, casa mia si sarebbe tramutata in un oceano salato e dal sapore che aveva la disperazione.
E io ci sarei annegata dentro, perché a sua differenza non avrei trovato scampo.
«Io lo amo così tanto, fratellone…» mormorai «Così tanto che…c-che fa male!»
Simon mi consolò, stando alla cornetta per più di qualche minuto. Aveva chiamato solo per darmi una buona notizia, e si era ritrovato a dover fare i conti con un’adolescente in piena crisi.
Essere il fratello maggiore comportava anche questi obblighi, e in una famiglia costituita da due sole persone era inutile mettersi a dare un simile compito ad un altro.
Non lo avrei mai ringraziato abbastanza, poi, per essere accorso non più del giorno dopo, aprendo le sue braccia ed accogliendomi al petto per abbracciarmi stretta stretta. Lì, pronta a dire addio a delle vacanze allegre, seppi di avere ancora una piccola fortuna nella vita.
Almeno avevo lui.
La voce dell'Autrice: ...penso che, arrivati a questo punto, voi tutti stiate cominciando ad odiarmi. XD Lo dico con tranquillità perché io stessa, scrivendo questo capitolo, mi sono resa conto della totale demenza di Angela. Vorrei tanto poterle dare man forte, ma siccome non fa altro che fare sempre gli stessi errori me ne vedo incapace. Sono sprovvista di "simpatia" per lei, al momento. E se lo sono io nei suoi confronti, sua creatrice, non oso immaginare quali siano i sentimenti che animano i vostri cuoricini. ù.ù
Anyway... Credo che voi tutti abbiate capite che siamo vicinissimi alla fine, no? Vorrei potervi assicurare che sarà una fine col botto, però non sono sicura di poterlo promettere. Non si sa mai che qualcuno decide di comportarsi da adulto, in questa storia... |
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Capitolo 12 *** La musica è il nutrimento dell'anima ***
Undici:
La musica è il
nutrimento dell’anima
La presenza di Simon fu per me di grande aiuto. Non solo potevo in qualche modo dimenticare il pessimo periodo che mi aveva condotta a piangermi addosso più del dovuto, ma con lui ero anche capace di tornare a sorridere nonostante fossero molte le cose che, al contrario, avrebbero dovuto impedirmi di farlo.
Il resto delle vacanze natalizie, quindi, trascorsero così, in un susseguirsi di giornate all’insegna della tranquillità e della normalità: niente intrighi, bugie o avvenimenti importanti da dover tenere nascosti. C’eravamo solo io e mio fratello, come era sempre stato. La nostra piccola famiglia ancora una volta dimostrava di essere l’unica cosa cui non potevo rinunciare nei momenti no della vita. Fin tanto che Simon mi fosse rimasto accanto, portandosi sulle spalle la saggezza delle persone che prima lui ci avevano aiutati a crescere, sentivo di non dovermi preoccupare più di tanto per ciò che avevo fatto in quei mesi.
Avevo sbagliato, questo era vero, tuttavia ero ancora ben lungi dal non avere più occasioni per rimediare. Intanto avevo già fatto una buona cosa ponendo nuove distanze fra me ed Emanuele, e pur capendo di stare soffrendo molto per quella forzata lontananza sapevo di non aver avuto altra scelta da poter prendere.
Ironia della sorte erano state proprio le parole di quel ragazzo, così piene d’amore e sincerità, a farmi capire quanto stessi rischiando stando con lui.
Gli avevo mentito, o forse, nel mio caso, avevo omesso un paio di informazioni che probabilmente avrebbero reso il suo giudizio molto diverso circa la possibilità di tradire o meno la sua ragazza: da quando avevo parlato con Sebastiano della mia malattia e della mia decisione di andare in America una volta finita la scuola, dentro di me era nato il dubbio di essere stata io l’egoista della situazione, non Emanuele. Se lui avesse saputo tutto, di me, dubitavo che si sarebbe spinto a tanto, bruciandosi più di quello che entrambi avremmo creduto fosse possibile. Se avesse saputo si sarebbe ritirato prima, ancora ai tempi del concerto, trovando fosse giusto coltivare una relazione che un futuro a lungo termine poteva averlo.
Quelle settimane le spesi dunque a rimuginare su questo, chiedendomi se, una volta tornata fra i banchi di scuola, fosse stato il caso di aggiungere anche quei due importanti punti alla lista dei motivi che mi impedivano di continuare la nostra storia.
Lui non mi chiamò neanche una volta, non spese il suo tempo nemmeno per inviarmi un messaggio magari domandandomi come stessi, e io, capendo il suo stato d’animo, ne fui quasi sollevata: se avessi avuto modo di parlargli, temevo di non avere niente di sensato da dire nonostante nella realtà dei fatti ci fossero validi argomenti da dover affrontare.
Preferivo prendermi tutto il tempo necessario, attendendo l’inevitabile.
E, visto come era andata a finire quella situazione in particolare, ero piuttosto convinta del fatto che il destino avesse in serbo, per me e per lui, ancora altre sorprese.
***
Camminando per strada, avvolta da una sciarpa color menta, fissai il mio sguardo sul marciapiede per tutto il tragitto che separava casa mia dall’istituto in cui studiavo. Sentivo il vento gelido sferzarmi i capelli ed infilarsi in tutte le fessure del mio giaccone, provocandomi svariati tremori mentre il mio corpo cercava di riabituarsi alle temperature gelide dell’inverno. Avevo passato tanto di quel tempo chiusa in casa, durante le vacanze, che quasi avevo dimenticato quanto facesse freddo all’esterno delle mura domestiche. Come d’altro canto avevo dimenticato l’ansia che mi dava l’indossare la mia divisa scolastica.
Ero ben felice di non dover perdere mai troppo tempo la mattina per decidere cosa mettermi durante la giornata, ma il fatto che le femmine fossero obbligate dal regolamento a portare quelle gonnelline scozzesi faceva sì che ogni ragazza, a scuola, si facesse venire le peggiori paranoie possibili. Io in particolare, poi, essendo sempre stata poco confidente circa il mio aspetto fisico, non potevo che essere più soggetta delle altre ai giudizi e alle occhiate altrui.
Detestavo quella divisa. La detestavo perché alle altre sembrava stare sempre meglio, in qualche modo. Ciò era frustrante. Non le dovevamo indossare per omologarci gli uni agli altri?
Urla non ben definite, provenienti dal cortile recintato che stavo fiancheggiando, mi riportarono con i piedi per terra. Scansai per un pelo un signore indaffarato che mi veniva incontro, svoltando l’angolo per arrivare ai cancelli scolastici con tutta la voglia che ero riuscita a farmi crescere in petto.
Non ero mai stata una patita dell’istruzione – pur avendo così tanti obbiettivi ben chiari nella mente – e, chissà come mai, in quel momento mi sentii meno in vena del solito per darmi da fare con compiti, interrogazioni e tutto quanto il resto.
Il solo pensiero di doverlo vedere per davvero, dopo tutto quel tempo passato ad ignorarci completamente, mi dava la nausea. Sentivo di non potercela fare, e per un istante prevalse in me la vocina che mi diceva di scappare a gambe levate. Mentre gli occhi guardavano con fare terrorizzato i grandi portoni in legno massello della scuola, le gambe smisero di andare avanti e cominciarono ad indietreggiare di propria volontà.
Dovevo scappare, dovevo…
«Ohi, Angela!»
…sorridere e cercare di non dare a vedere la mia agitazione.
Mi girai di scatto, incontrando lo sguardo interessato di Sebastiano.
«Ciao!» esclamai «Da quanto non ci si vede!»
Lui fece un gesto vago con la mano, facendo finta di mettere il broncio prima di far passare un braccio attorno mie spalle. Praticamente mi trascinò con sé dentro, ignaro della mia aspirazione alla fuga.
«Ti credo che non ci vediamo da tanto…» commentò «Ogni volta che ti ho chiesto di uscire, durante le vacanze, sei riuscita a trovare una scusa. Non so se questo tuo sparire dalla circolazione abbia a che fare con la tua ultima discussione con Emmy, ma…»
«Mi pare palese che è per quello che non sono uscita.»
«Ecco, appunto.»
Lo sentii sospirare, ma siccome sapeva bene di aver appena toccato un tasto dolente volle forse evitare la discussione che più gli premeva di intavolare con me. Davo per scontato che ne avesse parlato molto con Emanuele, talmente tanto, forse, da farsi venire un rigetto naturale alle parole “tradimento”, “promesse” e “amicizia”. Tutto ciò che avrebbe potuto ricondurlo al casino che i suoi due migliori amici avevano creato doveva, ne ero certa, creargli una certa dose di disagio.
Alzando gli occhi verso di lui cercai di sorridergli, come a volergli dire che lo ringraziavo ma che in fondo le cose non erano andate poi tanto male. Emanuele ancora stava con Alessia e, per quanto fosse convinto di amare me, probabilmente presto si sarebbe dimenticato di tutto ciò che aveva detto e avrebbe catalogato questa nostra avventura come una pazzia momentanea. Io, invece, potevo dire di aver finalmente eliminato dalla mia vita l’unica cosa che mi avrebbe potuto impedire di godermi le nuove opportunità che mi stavnoa aspettando dopo gli esami di maturità.
Sebastiano però, come suo solito, ebbe da ridire su tutte le mie congetture. Non avevo aperto bocca, me ne rendo conto, tuttavia lui sapeva. Aveva un potere innato per captare le stupidaggini, anche se magari erano sotto forma di pensiero del tutto personale.
«Credi davvero di aver risolto tutto?» domandò, fermandosi in mezzo al corridoio, proprio davanti alla porta della nostra classe.
Io mi strinsi nelle spalle, fronteggiandolo, gli occhi marroni di entrambi pieni della stessa sicurezza.
«…ammetto di non averla saputa gestire bene, questa situazione.» risposi «Lo ammetto. Lo ammetto senza problemi.»
«Mi fa piacere che tu riconosca i tuoi errori, però io non ti ho chiesto questo.»
Scossi il capo, mordendomi un labbro. «Spero di aver risolto tutto, sì.»
«Speri. Quindi neanche tu ne sei certa.»
«Ho detto ad Emmy tutto quello che pensavo, gli ho chiesto di non vederci più, di tornare dalla sua ragazza e di cercare di dimenticare quello che abbiamo fatto… Cosa accidenti dovrei fare di più?»
Quella fu in assoluto la prima volta che seppi per certo di aver deluso Sebastiano. Mi guardò con gli occhi sgranati, la bocca aperta, le mani abbandonate lungo i fianchi: era la posa che normalmente adottava quando Emanuele ne sparava una delle sue, era una posizione che avevo imparato a riconoscere meglio di altre e che, come se non bastasse, presagiva l’arrivo di qualcosa di ben più grosso della sua sorpresa. Piano mi scompigliai i capelli, terrorizzata dall’idea che potesse sbraitarmi contro come di solito faceva con il suo caro compagno di sempre.
Chiusi gli occhi, attendendo la batosta.
«…dovresti parlargli a cuor leggero, ecco cosa dovresti fare.»
Disse lui, con tono deciso.
«Dovresti dirgli la verità, per filo e per segno, senza omettere niente. Perché merita di sapere. Merita di conoscere i veri motivi per cui hai deciso di stargli lontano, dalla tua malattia alla possibilità di partire per Yale.»
Non osai neanche ribattere, a questo.
«Tu non lo hai visto, Emanuele, in questo periodo. Io sì.» continuò «Sta male, senza di te. Sta male e gli manchi da morire, sia come amica che come…come ragazza. Gli manchi, ok?»
Ammesso e non concesso che le sue parole avessero un fondo di verità, fuori mi mostrai del tutto restia a tornare nuovamente sui miei passi: tutte le volte che mi ero azzardata a tanto le cose non avevano fatto altro che peggiorare e io, così disperatamente decisa a conservare almeno un pizzico della mia sanità mentale, non avevo alcuna intenzione di guastarmi ciò che rimaneva dell’anno scolastico. Avevo di fronte a me mesi e mesi per studiare, divertirmi come potevo, dimenticare l’amore della mia vita e prepararmi all’inizio di una nuova. Parlare ancora con Emanuele mi avrebbe portato via tutto. Era così ovvio il fatto che bastasse un solo attimo per farci cadere nello stesso giogo crudele dell’attrazione…
«Seb, tu sei un grande amico, senza di te né io né Emmy potremmo resistere un minuto di più a questo mondo, messi come siamo…» commentai «…ma ti prego di capire il mio punto di vista.»
«Io lo capisco.»
«No, non è vero. Tu non puoi capire come mi sento. Fino ad ora mi hai dato ascolto, sì, questo non lo nego, però in fondo al tuo cuore hai sempre tenuto fede alle tue convinzioni, ai tuoi pensieri, al fatto che credevi di sapere cosa fosse meglio per me e per lui.»
Scossi il capo, abbassando lo sguardo.
«Non posso in alcun modo tornare da lui adesso. Sarei un’ipocrita se lo facessi, e in più lo confonderei da morire. Credi che abbia senso dirgli “non possiamo più vederci” e poi correre al suo fianco non appena ha qualcosa che non va?»
«Ma… Ma Angela, che male c’è a farlo se vi amate?»
In un baleno ripensai al discorso di Emanuele stesso, al suo desiderio di essere felice al mio fianco, per sempre, qualunque cosa fosse successa nel futuro, e come allora il sangue mi si gelò nelle vene. Sospirai, ravvivandomi i capelli con fare fin troppo stanco e desolato. Era una pena avere diciassette anni e sentirmi già con un piede nella fossa.
«Dovrei scegliere fra la possibilità di stare lontani l’uno dall’altra, costruendoci delle vite serene e, perché no?, felici…» sussurrai, corrugando la fronte «…e quella di vivere vicini, per poco tempo, straziandogli l’anima e il cuore non appena sarò morta?»
Qui, Sebastiano non poté dire niente.
Messa sotto questa luce, era chiaro al mondo intero che le mie ragioni erano del tutto lecite.
La migliore opzione era fin troppo chiara perfino per lui.
***
Finita la prima parte di quella giornata, ovvero raggiunta la meta della ricreazione, ebbi modo di constatare quanto, nella realtà dei fatti, mi fosse difficile ignorare la sua presenza. Non appena sentii suonare la campanella mi venne l’irrefrenabile impulso di voltarmi e parlare con lui, che mi stava – come era sempre stato – alle spalle, al suo posto. Fu con grande sforzo che ripresi il controllo dei miei sensi e fermai quella folle azione, scattando in piedi dopo aver compiuto almeno metà giro sulla sedia e correndo fuori dalle porte della classe. Una volta in corridoio non mi fermai neanche. Mi sentivo troppo in imbarazzo, troppo stupida, troppo disperata per potermi anche solo arrischiare a tornare indietro.
C’era una vocina che mi diceva di non aver paura, che continuava a ribadire il concetto – peraltro falso – che se qualcuno doveva sentirsi male al solo pensiero di dover affrontare la situazione quella non ero certo io.
Eppure, anche così, sapevo di starmi sbagliando di grosso. Io, solo io potevo e dovevo rendermi conto della miriade di errori che mi avevano portata a quel punto, conducendomi diretta fra le braccia sì della persona che più amavo al mondo, ma che, per mia enorme sfortuna, non poteva ricambiarmi come avrei desiderato. Perché, anche ammettendo che i suoi sentimenti fossero veri, Emanuele non poteva in alcun modo darmi sollievo dimostrando il suo amore di fronte a tutti. Non finché non avesse deciso di rompere con Alessia, almeno.
«In fondo è semplice, no?» mi dissi ad un certo punto, arrivata non si sa come sul terrazzo della scuola. «Deve solo lasciare lei, visto che mi ama tanto. Non vedo il problema. Forse alla fine avevo ragione, forse non mi vuole per niente bene e…e voleva solo divertirsi, ecco.»
Ma anche stavolta sapevo bene che il punto era un altro: se anche lui si fosse dimostrato pronto a lasciare per sempre la sua compagna, io probabilmente non avrei avuto il coraggio di sorridergli, non sarei stata capace di dirgli, felice, “ora tutto è perfetto. Ora tutto è a posto”.
Feci per sporgermi un poco oltre la balaustra, osservando un gruppo di miei coetanei intenti a tornare dentro l’edificio, ma quando anche loro furono fuori portata tornai indietro con tutto il corpo, lasciandomi cadere seduta a terra. Il pavimento era duro, freddo, ed il fatto che non mi fossi portata la giacca non faceva altro che sottolineare la totale agitazione che mi prendeva quando Emanuele era nei paraggi. Bastava lui e ogni cosa andava in pappa, nel mio cervello. Le mille considerazioni – giuste – che facevo quando ero sola parevano non avere il minimo senso se lui mi si avvicinava. Era sempre stato così, e, lo sapevo, così sarebbe sempre stato.
Piano, neanche avessi paura che qualcuno potesse sentirmi, presi ad intonare un ritornello a bassa voce, dondolando di tanto in tanto il capo a ritmo della musica che, solo nella mia testa, suonava una melodia lenta e dolcissima. Nel corso di quelle vacanze non avevo perso tutto il mio tempo a pensare a lui. O meglio, non tutti i miei pensieri avevano trovato sfogo nel pianto o nell’auto compatimento. Mi ero espressa anche in altre forme, come per iscritto, e alla fine ero approdata ad una trasposizione melodica delle mie congetture. Dei miei sentimenti.
E allora, celato con molta probabilità dal suono della mia voce che via via si era fatta sempre più sicura, la più grande delle mie paure venne nuovamente a bussare alla mia porta.
«…hai già scritto le note di questa melodia?»
Quasi sussultai a sentirlo ma, chiudendo gli occhi, rimasi nella stessa posizione cercando addirittura di ignorarlo, per quello che potevo. Mi strinsi nelle spalle, scuotendo la testa con energia. No, non avevo scritto nessuna melodia, ce l’avevo solo in testa.
«A sentire le parole, sembra molto bella.» continuò «Se scrivessi le note in modo sbagliato, rischierebbe di perdere molto.»
Fece una pausa, qui, e mentre il rumore dei suoi passi cessava del tutto, seppi per certo di averlo a pochi centimetri da me, alle spalle. Sentivo il suo profumo, quel persistente e fortissimo profumo di lavanda.
«Io…potrei aiutarti a fare in modo che questo non accada.»
«E sei qui solo per questo? Solo per dirmi che sei pronto a darmi una mano nel caso volessi cimentarmi in…»
«Sono qui, con un pretesto tanto blando, solo perché tu non mi dai altre opportunità per avvicinarti decentemente.»
Abbassando il capo corrugai la fronte, capendo perfettamente il suo punto di vista, nonché la sua solita, innegabile frustrazione. Ero sempre io a dettare le regole del nostro rapporto, lo avevo fatto sin dal principio, perfino quando eravamo nient’altro che amici, ma me ne rendevo conto solo ora. In un baleno, neanche un serpente mi avesse morso, mi voltai verso di lui, incontrando i suoi occhi grigi. Aveva uno sguardo fermo, pieno di tristezza. E tutto per colpa mia.
«Cosa vuoi, Emanuele?» domandai, pregandolo di fare in fretta, pregandolo di non tirarla per le lunghe. Stare soli, in un posto isolato, poteva essere dannoso per me tanto quanto lo era per lui. Poteva ucciderci entrambi. «Credevo ci fossimo chiariti.»
«Ah, quello lo chiami chiarirsi?»
«…sono stata sbrigativa, magari, ma sì, ti ho esposto il mio punto di vista con chiarezza.»
«No, tu ti sei limitata a darmi ordini, come al solito. Non mi hai spiegato un accidenti, Angela.»
Capii subito che lì, ovviamente, c’era lo zampino di Sebastiano. All’apparenza non gli aveva raccontato il vero motivo per cui lo avessi lasciato così su due piedi, tuttavia aveva fatto in modo di mettergli almeno la pulce nell’orecchio. Lo ringraziai mentalmente, per una volta indirizzando verso di lui mille ed orribili maledizioni.
«Dimmi cosa c’è che non va. Adesso.» sibilò Emmy, stringendo i pugni lungo i fianchi «Dimmelo.»
Alzai il mento, sfidandolo, sicura sul fatto che mai e poi mai gli avrei parlato della mia malattia.
«Alla fine della scuola partirò per Yale.»
Non stavo mentendo. Stavo dicendo la verità. Al massimo, se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, stavo omettendo alcuni aspetti di quella mia dannata realtà.
«Per questo ho deciso di smetterla. Trovo non sia giusto continuare a darti false speranze. Stavi cominciando a pensare che io potessi essere…qualcosa di più, per te, e non è così.»
«Ah no?»
«No.»
Lo sentii ridere, però seppi sin dal principio che quella risata aveva ben poco di allegro. A breve avrebbe perso le staffe ed io, unica spettatrice di quello straordinario spettacolo, avrei goduto di un posto in prima fila. Mi preparai alle sue urla, certa che mi avrebbe distrutta da un attimo all’altro.
Quando protese le sue mani verso di me chiusi d’istinto gli occhi e mi drizzai tutta… Ma al posto di un’ipotetica sberla arrivò una carezza, e al posto di un giusto scatto d’ira mi guadagnai un abbraccio.
«…non ti chiederò di tornare ad essere la mia amante.» disse in un baleno lui, stringendomi «Non ti chiederò nemmeno di tornare ad essermi almeno amica.» Prese un respiro profondo e, tremando, aggiunse «Ti chiedo solo di non…commettere l’errore di pensare che per me tu non sei importante. Ti chiedo di non dimenticare che questa parentesi, la nostra parentesi, ha significato tutto per me. Ti chiedo…»
Cosa?
Cos’altro vuoi da me, stupido che non sei altro?
Perché non riesci a lasciarmi andare? Perché ti ostini a corrermi dietro, ben sapendo quale sarà la mia risposta qualsiasi cosa tu dica o faccia? Perché mi obblighi a farti del male, ancora e ancora?
«…ti chiedo di non smettere di amarmi perché io…io non smetterò mai di amare te.»
Inevitabilmente mi sciolsi, scoppiando in lacrime ancora una volta per colpa sua. Di parole non ne avevo, al momento, e anche possedendone non sarei mai stata capace di rispondere adeguatamente a ciò che lui, da solo, aveva saputo dire. Ora non avevo scampo, né dai suoi sentimenti né dai miei stessi. Ovunque andassi continuavo a sbattere contro all’ineluttabile sincerità del nostro amore. Potevo dimenarmi, urlare, fingere che non mi importasse nulla di tutto ma avrei perso tempo e, cosa ben più importante, avrei solo detto bugie su bugie.
«Ti amo.»
«Sme…Smettila…»
«Io ti amo, Angela.»
«…per favore, no…»
«Ti amo e voglio stare con te. Non con Alessia, ma con te.»
Scossi nuovamente il capo, anche se stavolta la cosa mi venne con meno enfasi di prima. Le forze mi avevano abbandonata. Me ne stavo lì, fra le sue braccia, inerme quasi quanto avrebbe potuto esserlo una bambola.
«E, scusa, ma non sono più disposto a perdere tempo così. Abbiamo ancora qualche mese da passare insieme e voglio godermeli. Voglio dire addio alla persona che ero ieri e dare il benvenuto a quella che sono oggi, grazie a te.»
Piano, con una lentezza pari a quella di una lumaca, finii col cingere le sue spalle usando le mie braccia, tremanti ed insicure. Mi strinsi a lui, posando il capo poco distante dal suo collo, inebriandomi della sua essenza. Mi resi conto del fatto che mi era mancato, che quelle parole avevano il dolce sapore di una cura per la mia anima, che l’amore che affiorava dal mio cuore era pari e addirittura inferiore a quello che scaturiva dal suo.
«Cosa…» cercai di parlare, di tirare fuori le parole dalla mia gola raschiandola a fondo, dolorosamente «Cosa facciamo allora?»
«Facciamo?»
Siccome rise mi staccai un secondo, guardandolo perplessa negli occhi. Come capendo il mio dubbio, Emanuele si strinse nelle spalle, donandomi un bellissimo sorriso prima di accarezzarmi una guancia.
«Scusa, è che non sono abituato a sentirti dire “noi”. Di solito ti carichi tutto addosso senza neanche chiedere aiuto…»
«Forse lo faccio perché non credo che qualcuno abbia voglia di aiutarmi.»
Lui scosse la testa, dandomi un piccolo colpetto sulla fronte con l’indice.
«Ed è proprio lì che ti sbagli, sciocchina!» esclamò, calmo «Pur di vederti felice io potrei sacrificare me stesso, figurati se non ti aiuto.»
«Ci sono cose che nemmeno tu potresti risolvere, temo.»
***
Per il resto della giornata, pur rimanendo dell’idea che fosse folle da parte nostra persistere nella ricerca di una vita – o di qualcosa di simile – insieme, mi ritrovai del tutto prigioniera del grande piano di Emanuele: aveva già pensato a tutto, si era messo in pace con se stesso e aveva deciso di lasciare definitivamente Alessia…per me.
Una volta finita scuola, camminandogli a fianco in compagnia di Sebastiano, tentai ancora di fargli notare che poteva evitare di arrivare a tanto se lo stava facendo solo per me, ma lui non ne volle sapere e, spalleggiato dall’amico, ebbe modo di zittirmi.
Non potevo farci niente, insomma. Con le mie azioni ero riuscita a far innamorare il ragazzo dei miei sogni di me, e ora che avevo dinanzi l’opportunità di renderlo tutto mio, avevo paura di aver commesso un errore gigantesco. Un errore che possedeva tutte le capacità di rovinarci per sempre.
Insieme arrivammo fino al parco della città e, seduti sulla prima panchina libera, cominciammo a parlare del più e del meno, quasi dimentichi dei propositi che l’anno nuovo aveva portato al nostro testone di fiducia. Avevamo tanto da raccontarci, tanto da tirare fuori per rimediare a quei mesi passati ad ignorarci o, se vogliamo, a vederci senza dire nulla più di un qualche “ciao, come va?”.
In fondo eravamo sempre noi tre, i migliori amici per eccellenza, e se anche l’equilibrio che una volta ci univa era venuto meno, adesso qualcosa ci faceva presagire una ripresa netta.
«Quindi a quando il tuo funerale, Emmy?» domandò ad un certo punto Seb, costringendoci entrambi a voltarci verso di lui. Lo guardammo ridere di gusto, sfregando le mani l’una con l’altra per riuscire a scaldarle.
«…scusa ma non ti seguo.»
«Oh, andiamo, sappiamo entrambi che quando Alessia scoprirà che cosa hai fatto e che per di più la vuoi lasciare, non ci saranno santi che tengano.» toccò a lui guardarlo «Ti ammazzerà di botte.»
Io che ero in mezzo a loro due, abbassai lo sguardo e corrugai la fronte, ricordandomi solo ora del pessimo carattere di quella ragazza. Non avevo mai parlato a lungo con lei – complici la mia gelosia nonché l’assoluta convinzione di non starle nemmeno tanto simpatica, a prescindere dal fatto che avesse capito cosa provavo per il suo fidanzato o meno – ma non ero nuova alle litigate che si faceva saltuariamente con Emanuele: di tanto in tanto, io e Sebastiano lo vedevamo arrivare con un occhio nero, un bernoccolo o comunque con svariati lividi e graffi su tutto il corpo, e questo non per via di una qualche mancanza di attenzione durante un gioco o addirittura un rapporto fisico fra di loro, bensì come frutto dell’ira di lei per una qualsivoglia azione stupida del nostro compagno. Spesso ne avevamo riso, però stavolta era diverso.
«So difendermi, non è la prima volta che mi malmena.»
«Vanne fiero, mi raccomando…»
«…quello che intendo dire è che sì, sono consapevole del fatto che non la passerò di certo liscia con una come Alessia. So di aver sbagliato ad aver portato avanti un’altra relazione mentre stavo con lei, e so anche che non mi perdonerà tanto facilmente una simile avventatezza…però non posso continuare a mentire a me stesso.»
Qui, con mia totale sorpresa, cinse le mie spalle con un braccio e mi avvicinò a sé, stringendomi forte. Non aveva mai fatto una cosa del genere così, alla luce del Sole, senza che ci fosse un valido motivo, almeno ai tempi in cui potevamo considerarci solo amici, che gli avrebbe permesso poi di spiegarsi di fronte alla sua effettiva ragazza.
Fu da un gesto tanto semplice e carino che compresi e soppesai il suo livello di sicurezza.
«Amo Angela. Questo è quanto.» continuò «E lei potrà picchiarmi, insultarmi ed odiarmi quanto vuole, ma questo non può cambiare. Mi prenderò le mie responsabilità e poi…»
Guardandomi mi sorrise, alzandomi il mento con una mano prima di baciarmi con infinita dolcezza.
«…poi mi godrò il resto dell’anno assieme alla persona che mi piace.»
Presa alla sprovvista com’ero, l’unica cosa che riuscii a fare fu quella di arrossire di botto, senza contegno alcuno. Non ero abituata a quel viso certo, a quegli occhi pieni solo di affetto indirizzato niente popò di meno che a me, né tanto meno mi sarei mai raccapezzata su quanto fosse bello stargli vicino a quel modo, senza paura di essere scoperti da un momento all’altro.
Feci una smorfia stranissima, fra il dubbioso ed il felice, causando lo scoppio di una risata fragorosa non solo da parte di colui che più mi stava a cuore, ma anche di Sebastiano stesso.
In un baleno, sentendomi più piccola di quello che non ero in realtà, appoggiai la fronte al petto d’Emanuele e nascosi per dei lunghissimi istanti il mio viso a chicchessia. Non volevo farmi vedere ridotta così, non potevo ancora permettermi di lasciar trapelare neanche una piccolissima parte della enorme, sprizzante gioia che mi stava scavando il petto.
Ero felice, sì. Felice più di quanto avrei mai creduto possibile, ma non ancora al sicuro.
Ancora non avevo capito se lui avesse intenzione di parlare con Alessia quella sera o magari il giorno seguente, a scuola, e per quanto sperassi che si risolvesse tutto al più presto sapevo anche che una simile faccenda non la si poteva dimenticare da un giorno all’altro.
Piano, inconsciamente, strinsi le mani sulla giaccia del mio amato, guadagnandomi un abbraccio subito dopo. Emanuele capiva come mi sentivo, lo capiva e voleva darmi conforto.
***
Sarebbe forse inutile, per me, stare qui ora a descrivere il mio stato d’animo quella stessa sera. Aggirandomi per casa come un’anima in pena ebbi modo di constatare quanto fosse difficile, per qualcuno di tanto ansioso, l’aspettare l’arrivo di buone/cattive notizie. Avevo a disposizione una mente talmente tanto fervida di immaginazione, che già mi vedevo messa da parte in una ipotetica scenetta amorosa fra quello che era un Emanuele del tutto pentito ed una Alessia assai trionfante. Per un pessimo quarto d’ora non ci furono limiti alla mia fantasia, e proprio quando le supposizioni si erano sprecate, il mio cellulare prese a vibrare con non poca foga sulla superficie legnosa della mia scrivania.
Lo fissai per dei minuti interminabili anche quando smise di muoversi. Sul display era comparso il suo nome, lo avevo letto. Mi aveva inviato un messaggio.
Velocemente alzai gli occhi sul muro e, controllando l’ora, mi accertai di non essere arrivata alla mezzanotte senza che me ne rendessi vagamente conto: in quel caso, magari, la vibrazione del mio telefono si sarebbe potuta ricondurre ad una non specifica allucinazione dovuta all’ora tarda e all’ansia. Chiarito però il concetto – erano solo le undici – presi un respiro profondo e mi accinsi a leggere il contenuto, brevissimo, di quell’sms.
Chiamami.
Annuii da sola, neanche avessi conosciuto sin da principio ciò che ci sarebbe stato scritto nel messaggio.
Digitando il numero cominciai a battere le dita sul libro aperto di filosofia, graffiando con non poco fastidio le pagine di quel tomo da duecento-duecentocinquanta pagine.
«Pronto?»
«…ciao, sono io.»
Lui fece una pausa e qui, pur non potendolo vedere, capii che stava facendo qualcosa che gli occupava gran parte della propria già limitata attenzione.
Sospirai.
«È andata così male?» chiesi, passandomi la mano fra i capelli.
«Beh, bene non è andata sicuro.» rispose lui.
Cominciai davvero a sudare freddo arrivata a questo punto. Non sapevo più se mi avesse chiamata per dirmi che potevo smetterla di mangiarmi le mani o, piuttosto, per dare soddisfazione alle fantasie che mi ero creata da sola nelle ultime sette ore.
«Se non parli dovrò iniziare a spaventarmi…»
Finalmente rise.
«Non preoccuparti, Alessia non ha intenzione di venire a casa tua per darti fuoco.»
«…ad essere sinceri non avevo neanche mai pensato ad una simile opzione, ma…grazie per avermene dato modo. Sei il migliore quando si tratta di tirare su il morale alla gente.»
Un’altra risatina e, per fortuna, mi misi il cuore in pace.
Stava bene.
Stavamobene.
«Vuoi che ti racconti di che cosa abbiamo discusso?»
Gli dissi che mi avrebbe fatto piacere saperlo e insieme, io sdraiata sul mio letto e lui nel suo, cominciammo a parlare, a parlare e a parlare ancora. Vorrei essere in grado di ricordare con esattezza su che cosa vertesse la nostra chiacchierata – oltre che sul tema “l’ho lasciata dicendole…” – ma nemmeno io saprei dirlo con precisione: so solo che in quelle ore mi sentii libera, libera da ogni pensiero o dolore, libera dalla paura, libera da tutto.
Ancora una volta, senza però l’ausilio del sesso, c’eravamo solo io e lui.
***
«Ci vediamo domani, allora.»
«Sì, a domani.»
«…»
«Cosa…?»
«…ti amo.»
Sorrisi. Ormai ci aveva preso gusto a dirlo.
«Ti amo anche io.»
La voce dell'Autrice: Allora... Non so bene che cosa dire qui. I ringraziamenti vorrei farli più avanti, quindi cercherò di riempire questo spazio con dell'altro.
Questo è stato un viaggio decisamente lungo. Non so perché, ma ci impiegato molto a mettere insieme le parole ed i pensieri giusti per scrivere ogni capitolo di questa long-fic. Anzi, forse non sono poi neanche tanto all'oscuro su questo: in fondo non è mai facile raccontare una storia d'amore, neanche quando i personaggi li conosci bene, quasi meglio di quanto conosci te stessa. Le alternative diventano innumerevoli con racconti simili, puoi scegliere di prendere una strada invece che un'altra e, alla fine, non sai mai se hai deciso per quella giusta. Io, qui, ho preso le mie decisioni, ho fatto le mie scelte, e se anche so per certo che non tutti si saranno trovati a loro agio con un finale tanto blando, non posso che mettermi l'anima in pace.
Diamine, ne han passate di tutti i colori! Lasciamoli respirare almeno fino a che non avrò ideato un seguito... Ups. Spoiler ;D Assolutamente voluto
Beh. Per il momento basta. Adios amigos! |
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Capitolo 13 *** L'amore ha davvero definizione? ***
Epilogo:
L’amore ha davvero definizione?
Ancora non so dare un senso all’amore, guardandomi indietro e ripercorrendo i giorni che hanno reso la mia vita “interessante”. Innumerevoli volte ci ho provato e, altrettante innumerevoli volte ho finito col fallire miseramente, partendo piena di buoni propositi ed arrivando a traguardo senza neanche il ricordo di ciò che mi aveva spinta a trovargli una definizione.
Credo davvero che l’amore sia troppo grande, troppo complicato per essere descritto con una manciata di belle parole. Quando te lo senti lì, nel petto, a riempirti cuore ed anima, sono ben poche le cose che puoi fare per cercare almeno di dargli un freno, quel tanto che basta per mettere bene in chiaro che cosa ti sta succedendo.
All’inizio di questo viaggio ho cercato in qualche modo di ricordare la prima volta che ho posato gli occhi sul mio amore, rivivendo all’istante la folle sensazione che mi diede anche solo incrociare il suo sguardo.
Mi aveva rapita con una singola occhiata, e mi aveva rubato il cuore con un piccolo sorriso.
Un colpo di fulmine. Ecco come era cominciato tutto.
O, per lo meno, lo fu per me.
Perfino oggi Emanuele appare restio a rivelarmi quale fu con esattezza la sua prima impressione a mio riguardo, e per quanto io prema per fargli sputare il rospo lui si ostina a guardarmi prima con aria di sufficienza, poi ridendo e, tutto impettito, finisce con questa risposta: “Segreto”.
Amore…
Quale magnifica e portentosa emozione.
Potrei citare uno dei miei musical preferiti e dire semplicemente:
“Chi sa quando l’amore comincia?
Chi sa cosa lo iniziare?
Un giorno e solo lì, instaurato nel tuo cuore.
Scivola nei tuoi pensieri, si impossessa del tuo spirito,
ti prende di sorpresa e ti fa perdere il controllo.
Puoi fare finta di non provarlo, fare finta di non sentirlo,
ma l’amore non ti lascerà andare una volta che ti ha posseduto.
L’amore non muore mai,
l’amore non si arrende,
una volta che ha parlato, l’amore è solo tuo.
L’amore non svanisce,
l’amore non cambia,
il cuore può cedere, ma l’amore no.
Il cuore può cedere, ma l’amore no.”
E anche così, in un certo senso, mi pare di aver detto poco.
Ciò che ho potuto capire, scrivendo queste memorie, è che per quanto io abbia cercato in tutti i modi di fuggire da me stessa e dall’affetto che mi legava ad una persona, alla fine ho dovuto arrendermi e vivere la mia vita per come era stata decisa dal fato.
Ho imparato che quando ci si innamora non si è più in controllo delle proprie azioni.
Ho imparato che l’affetto, così com’è nel suo stadio più puro, può portare gioia quanto rammarico.
…ho imparato che se anche le cose all’inizio sembrano andare solo male, poi tutto si sistema.
E per questo, e per mille altri motivi, concludo con un’alzata di spalle, un sorriso, e con la consapevolezza di avervi fatto capire che l’amore non ha definizione.
L’amore è solo lì, che vi aspetta.
Cercatelo.
La voce dell'Autrice: Ringrazio tutti quelli che hanno letto, seguito e recensito la mia storia. Li ringrazio tutti dal più profondo del mio cuore, perché oltre ad avermi dato la carica per continuare questo racconto, mi avete anche resa la persona più felice del mondo. Soprattutto coloro che mi hanno lasciato parole di sostegno e di apprezzamento... Vi ringrazio anche di più!
Alla prossima, gente ♥ |
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