BLOSSOM I

di taemotional
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bocciolo. ***
Capitolo 2: *** Fioritura. ***
Capitolo 3: *** Sfioritura. ***



Capitolo 1
*** Bocciolo. ***


Commento: Posto questa vecchia ficci per farla leggere a Sara <3 Che dire... ho molti ricordi legata ad essa e per questo ho deciso di postarla così com'è, senza rivedere lo stile né la punteggiatura (che di solito ho sempre sistemato prima di postare su efp)... spero vi piaccia ^^ Questa è la prima parte ma posterò anche BLOSSOM 2 e 3 (sì è lunga xD ma non troppo ^^) Ecco il primo capitolo di BLOSSOM 1 allora! <3 buona lettura~

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NOTA: il corsivo corrisponde ai pensieri del personaggio o, se è inserito in un discorso diretto, corrisponde alla lingua francese.

  


-Nello stesso modo con cui abbiamo protetto quei variopinti petali insieme,
Così, con la stessa gentilezza, li vedremo appassire,
finché anche l’ultimo petalo non sarà caduto.-


L’artista ‘Bella Copia’.
E’ così che tutti chiamavano il pittore asiatico che viveva in quel lussuoso appartamento nel quindicesimo arrondissement, ovvero in uno dei quartieri più alla moda e rinomati della città di Parigi.
In particolare, l’edificio in cui viveva lui, dava proprio sulla Senna e bastava guardare dalla sua finestra per vedersi sormontare per centinaia di metri da quello che da due secoli era il simbolo della città.
 
Quando quella mattina arrivai là, di fronte a quel caseggiato, non potei resistere e rimasi qualche secondo ad osservare i prismi di luce verdognola e biancastra che la brezza dell’alba causava sulla superficie del fiume altrimenti piatta.
Dopo qualche secondo, nel momento in cui portai la mano destra a spostare i capelli dietro all’orecchio, venni in qualche modo scosso dal ticchettio del mio orologio da polso.
Volsi allora lo sguardo alle mie spalle, verso il suo probabile appartamento e mi incamminai in direzione dell’entrata.
Sul campanello non c’erano etichette col suo nome, non servivano. Solo il numero 707 mi fece capire che stavo suonando il pulsante giusto.
Mentre salivo quelle scale a chiocciola per arrivare al terzo piano -quello in cui abitava lui- cercai di riportare alla mente quale fosse il suo vero nome, non Bella Copia né l’Asiatico, ma quello con cui lo avrei salutato una volta arrivato davanti al suo portone.
Niente.
Non lo conoscevo.
Nessuno lo sapeva. O, più probabile, a nessuno interessava veramente, perché è solo il nome d’arte che concede una certa fama a qualsiasi artista. Nemmeno il mio agente, che mi aveva mandato da lui aveva saputo dirmi il suo nome: “Va da Bella Copia e fatti fare un ritratto” mi aveva detto semplicemente “E’ l’unico che abbia accettato di farlo. Così forse la tua fama da modello crescerà... peggio non potrebbe comunque andare”.
Feci un verso di stizza con la bocca. Me ne andrò presto comunque, pensai.
Bussai alla porta e, dopo che il pittore mi venne ad aprire, rimanemmo qualche secondo a scrutarci senza dire niente.
Sarà cinese? Ma io non sapevo una parola in cinese. Coreano? Non sembra dai tratti... Giapponese o forse Tailandese?
E probabilmente lui si stava ponendo le stesse domande.
Alla fine, lo salutai in francese con un semplice buongiorno e mi inchinai. Lui non rispose al saluto e chiese solo se fossi stato mandato dall’agenzia che lo aveva contattato il giorno prima.
Annuii.
La prima cosa che pensai a seguito di quella conversazione stentata fu che lui, a parte gli occhi, non aveva più nulla di orientale. Le sue maniere, il suo modo di parlare e di rapportarsi con uno sconosciuto erano scontrose, aspre e rude come quelle di un francese con la puzza perennemente sotto al naso.
Tanto me ne andrò presto... continuavo a ripetermi in testa.
Mi fece entrare, e io rimasi sconcertato alla vista del suo studio. Era completamente privo di qualsiasi mobilia e le pareti erano bianche, spoglie anch’esse di quadri o di suoi schizzi. Riuscii comunque a misurare lo spazio grazie alle ampie finestre alla mia sinistra e ad un divano rosso in fondo alla sala, che fu la prima cosa che, entrando, aveva attirato la mia attenzione.
Iniziai a camminare all’interno dirigendomi verso l’unica finestra aperta e mi stupii del fatto che i miei passi non producessero eco. Da là riuscivo ad abbracciare con la vista un ampio tratto della Senna e, se mi sporgevo, potevo veramente vedere la Torre Eiffel. Feci perno con le braccia e, staccando anche i piedi dal pavimento, cercai di scorgere la punta del monumento.
Che fai?” mi chiese il pittore rientrando nella stanza con un cavalletto e dei fogli bianchi.
Mi suicidavo” risposi pacato e poi tornai con i piedi a terra.
Non si scompose -come mi aspettavo- e, ignorandomi, iniziò a preparare l’attrezzatura. Io allora andai a sedermi sul divano.
Solo in quel momento notai in un angolo una vaschetta con dentro tre piccole ninfee non ancora sbocciate.
Come si dice ‘ninfea’ in francese?
Decisi di volermi risparmiare la figuraccia e chiesi invece perché le pareti fossero così bianche.
Mi guardò un secondo.
Cos’hanno le mie pareti?” chiese con un tono stizzito. Quel francese che usciva dalla sua bocca stonava enormemente coi tratti dolci e poco marcati del suo viso.
Niente... immaginandomi la stanza di un pittore, l’avevo pensata diversamente
Diversamente?
Più... disordinata
Si lasciò sfuggire una risata. Cercai di fissarmi con la mente quell’attimo che, come prevedevo, durò meno di un secondo.
Che guardi?” chiese subito tornando serio.
Scossi la testa. Non volevo farmelo nemico. Dopotutto, a quel che sapevo io, quell’uomo -che al massimo poteva avere 25 anni- non parlava mai con i suoi modelli. E nemmeno con gli altri artisti di Parigi a dirla tutta. Disprezzato e tenuto lontano da tutti a causa della sua bravura e diversità, si era costruito attorno a sé un guscio impenetrabile: avevamo adottato due modi completamente opposti per proteggerci da quel luogo.
Tornai a guardare le ninfee nella vaschetta di fango: nel momento della fioritura sarebbero state bellissime. Chissà di che colore...  
“Sono boccioli di ‘Fiore di loto’” disse in giapponese. Lo guardai di scatto.
Ah... scusami, non mi avrai capito... ho detto che...
“Ho capito” lo interruppi nella mia lingua natale.
Il pittore mi osservò per qualche istante con un’espressione tra lo stupito e il disgustato, poi tornò a parlare in francese.
Iniziamo... ho deciso di farti posare emulando la posa di una scultura italiana molto famosa...
“Parla giapponese, no? Io sono giapponese... la prego, non parliamo in francese...”
Siamo in Francia” rispose avvicinandosi senza però guardarmi negli occhi “Anzi, a Parigi
“Che centra... è giapponese anche lei, no?” continuavo a rispondere e a chiedere in quella lingua che lui sembrava disprezzare così tanto.
Sì, lo sono”  
“Come si chiama in realtà?” chiesi speranzoso, ma lui non rispose e mi fece alzare dal divano strattonandomi un braccio.
Avevo esagerato? Ora mi cacciava?
Spogliati”mi ordinò incrociando le braccia.
“Eh?”
“Spogliati” ripeté in giapponese.
“Avevo capito!”
“Allora, fa come ti ho detto... sei venuto perché ti faccia un ritratto, giusto? La tua agenzia mi ha già pagato dicendo che avresti fatto tutto quello che ti chiedevo. Non vuoi un po’ di pubblicità per la tua immagine? Non so se lo sai, ma sono famoso qua. Non vedi dove abito? Non vuoi diventare famoso?” e continuò a blaterare frasi senza senso per cinque minuti elogiando sempre di più la sua autorità tra i pittori di Parigi.
Io lo ascoltavo immobile col sorriso stampato in faccia.
“Che hai da sorridere?” chiese a un certo punto arrossendo.
“Senza rendersene conto, ha continuato a parlare in giapponese tutto il tempo”
Boccheggiò un secondo, poi ritrovò subito il suo tono gelido.
“La smetti di guardarmi così e ti spogli come ti ho detto? O sei gay e ti vergogni? Anche loro mi trovano affascinante, sai?”
Continuava a rivolgersi a me in tono freddo e distaccato. Ma non troppo, perché dopotutto stava parlando la mia lingua.
Feci un cenno con la testa e mi sfilai veloce la t-shirt rimanendo a petto nudo.
Lui continuava ad osservarmi.
“Comunque è lei che mi guarda in modo strano...” buttai là togliendo anche i pantaloni “Così va bene?”
Portò la mano al mento in segno di voler pensare, “Anche quelli” aggiunse poi indicando i boxer.
“Eh!?” esclamai io “Non mi avevano detto che lei disegnasse nudi... io sono un modello che posa per gli stilisti con i vestiti addosso! Non posso mica farmi vedere in giro completamente nudo!!”
Il pittore diventò visibilmente divertito.
“Baka!” mi disse “Stavo scherzando... va a sederti sul divano”
Aveva uno strano accento, chissà da quanto tempo non parlava più in giapponese.
Tornai di nuovo a sedermi su quel divano maledicendo mentalmente quell’artista che mi aveva fatto prendere un colpo del genere. Quasi quasi ci avevo creduto...
Andò alla parete e premette un pulsante sul muro: lentamente, delle serrande scesero sulle finestre oscurando completamente la sala.
Rimanemmo qualche secondo al buio e il mio cuore prese a battere più veloce. Che mi prende?
All’improvviso un click, e un fascio di luce che partiva dal soffitto illuminò il divano e parte della sala, lasciando nell’ombra solo gli angoli della stanza, la parte opposta a dove ero seduto, e la vaschetta di fiori di loto.
Il pittore tornò al divano e mi disse di distendermi, di poggiare il capo sulla mia mano destra, e di lasciare che l’altro braccio seguisse la linea curva del mio corpo leggermente rialzato.
“Conosci ‘Paolina Borghese’ del Canova...” disse prendendo un tessuto bianco e comprendo la parte inferiore del mio corpo con questo panno “Anche se questo non è un triclino, l’importante è che tu assuma la sua posa, poi il resto lascialo alla mia mano”
Andò a sedersi su uno sgabello dietro al treppiedi prendendo una matita e un foglio bianco.
Tornò a guardarmi.
“Ma il soggetto della scultura non era una donna...?” gli chiesi io, trovando quella posizione alquanto ridicola.
“Lo conosci allora?”
“Ho studiato all’accademia di Belle Arti a Tokyo”
“Comunque... era la sorella di Napoleone III” riprese il pittore con uno dei suoi commenti che non rispondevano alle mie domande, ma che evidenziavano solo e soltanto il fatto di essere francese o meno.
“Lo scultore era italiano... e io sono giapponese” commentai ironico. Il pittore mi ignorò e iniziò a disegnare rapido con le matite.
“La luce vibra sul tuo corpo...” disse poi, cambiando argomento “Ci sono solo passaggi rapidi tra luce e ombra... non ho bisogno di sfumare nulla. Mi piace”
Dopo qualche minuto, quando il braccio su cui poggiavo il capo iniziava a formicolare, quel pittore fece un espressione strana, quasi sbigottita. Guardava il suo foglio immobile, come pietrificato e poi guardava me, ripetendo l’azione tre o quattro volte.
“Perché...?” mormorò. Poi, come impazzito, prese il foglio e lo strappò. Io rimasi immobile.
Iniziò ancora da capo. Una, due, tre volte. E il pavimento impeccabile iniziò a ricoprirsi di fogli strappati.
Alla quarta, sorrise.
“Perché... non riesco a concentrarmi sul foglio?”
“Mmm... qualcosa la distrae?” fui, senza sapere il perché, attratto dalla vaschetta nell’angolo. Sembrava che quei boccioli fossero un po’ più aperti di prima.
“Puoi dire al tuo manager di venire a ritirare il ritratto domani?” mi chiese improvvisamente, alzandosi.
 “Okay... ma senza modello riuscirà a completarlo?” chiesi dopo essermi rivestito.
“Sono un’artista... mi chiamano ‘Bella Copia’... lo sai il perché?”
Annuii.
“Non lo è più da oggi” dissi, e indicai i pezzi di fogli a terra.
Sorrise, “Colpa tua” disse.
“Allora come si farà chiamare d’ora in poi?”
“Col mio nome vero, probabilmente”
Annuii, e mi diressi alla porta.
“Non lo vuoi sapere?”
“Se lei me lo vuole dire...”
“Kazuya,” disse prima che io completassi la frase “Piacere di averti conosciuto” e si inchinò.
“Piacere,” risposi sorridendo “Io sono Tatsuya”

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Continua.....

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Capitolo 2
*** Fioritura. ***


Prima che potessi chiudermi la porta del suo appartamento alle spalle, lui mi richiamò.
“Dimmi”
“Ecco... se domani...”iniziò contorcendosi le mani “No, niente...” concluse in fretta, e mi sbatté la porta in faccia.
 
Una volta fuori dall’edificio guardai in alto, verso il sole che puntava allo zenit, e misi una mano sugli occhi. Continuai a fissare quella palla infuocata per diversi minuti, costringendo i miei occhi a lacrimare. A quel punto mi voltai indietro, soffermandomi con lo sguardo su una finestra aperta al terzo piano: il pittore era là e mi osservava. Sapevo che era rimasto là tutto il tempo.Dunque è così che mi dici addio?
Tornai ad incamminarmi per la mia strada dandogli le spalle.
Me ne andrò presto...?
Feci un cenno con la mano, sicuro che il pittore stava ancora guardando, e sorrisi.
 
Pomeriggio.
Camminavo spedito lungoBoulevard Saint-Germain in direzione delCafé de Flore con la mente ancora un po’ scombussolata. Era la prima volta che nei miei pensieri avevo messo in dubbio la decisione della mia partenza da Parigi, e questo mi aveva decisamente destabilizzato.
Senza rendermene conto, superai il caffè che stavo cercando, e fui repentinamente riportato alla realtà da una voce, che mi chiamò da uno di quei tavolinetti all’esterno del locale.
“Tatsuya!” gridò Tanaka con voce leggermente alterata “Dove stavi andando?”
Mi avvicinai al suo tavolo e, dopo essermi seduto ed aver ordinato un succo di frutta, diedi la colpa della mia sbadataggine al caldo.
“Metti un cappello la prossima volta... tipo... un basco!”
Lo guardai storto attraverso il mio bicchiere e poi finii la bevanda in pochi secondi.
“Comunque... non ti ho chiesto di venire qui per chiacchierare di moda, ma per comunicarti che ho deciso di interrompere qui  la nostra relazione e che ho pensato di... andarmene dalla Francia” la mia voce subì un leggero tremito.
Tanaka non mi guardava -probabilmente impegnato a cercare bei ragazzi per la strada- e fui costretto a ripetere la frase due volte.
A quel punto si voltò verso di me, violentandomi con lo sguardo.
“Dove vuoi andare?” sibilò.
“Me ne torno in Giappone e tu non verrai. Non so nemmeno quando questa nostra relazione è iniziata e perché. Ma tu non mi ami nemmeno” avevo raccolto tutto il mio coraggio e gli avevo spiattellato in faccia quella cruda verità.
Ma non trascorse nemmeno un secondo che mi resi conto del tono che avevo usato e di quello che avevo detto. Un brivido gelido mi percorse la schiena.
Tanaka si alzò di scatto sbattendo una mano sul tavolino.
“No che non te ne andrai” disse gelido e se ne andò insultando un cameriere che, involontariamente, gli aveva ostruito la strada. Fissai la sua figura allontanarsi velocemente e poi poggiai la fronte sul marmo gelido del tavolino. Sono morto...
Avrebbe ingaggiato i suoi tirapiedi per fermarmi? Avrebbe osato persino picchiarmi per impedirlo? Una volta mi aveva detto: “Non ti faccio male solo perché fai il modello e non voglio essere scoperto”
Ma questa volta non mi avrebbe risparmiato. Non c’era perdono nei suoi occhi.
Il sangue mi ribollì improvvisamente nelle vene: era giunto il momento di riavere la mia vita. Se volevo ripartire, dovevo farlo in fretta.
Mi alzai lasciando delle banconote sul tavolo e raggiunsi il marciapiede adiacente. In quel momento ricevetti una telefonata dal mio agente: osservai il mio telefono vibrare qualche secondo, poi lo spensi.
Quello era stato il primo passo verso la mia emancipazione.
 
Mi avviai verso un parco nei pressi del mio appartamento senza voglia, trascinando i piedi, mentre il sole batteva con forza sulla mia nuca.
Senza sapere il perché, mi tornarono in mente quei tre boccioli di fiore di loto. Loro sì che avrebbero bisogno di questa luce per fiorire, pensai sorridendo. E invece erano tenuti in un angolo, dove nemmeno la luce artificiale di quel faro riusciva ad arrivare per farli dischiudere.
Mi venne improvvisamente voglia di tornare nel suo appartamento. Così, senza un motivo particolare, giusto perché volevo sapere se fossero infine sbocciati. Avevo sentito che il momento della fioritura di una ninfea durava pochissimo, al massimo due o tre giorni. Chissà se vale la stessa cosa anche per i fiori di loto...
Magari avrei potuto chiederglielo.
Ecco, in quel momento avevo trovato una scusa per tornare da lui. Una scusa? Mi serviva una scusa?
Sì, mi serviva. Altrimenti perché sarei andato? Non certo per rivedere lui.
Ecco, pensai, vado a salutarlo prima della partenza, e mi scuserò per averlo fatto lavorare al mio ritratto per niente.
Con questo pensiero cambiai direzione, e mi diressi alla volta del mio appartamento.
Non c’era nulla di male ad andare a salutare come si deve una persona prima di dirgli addio per sempre, no?
Girai la chiave nella toppa del mio appartamento.
E poi potrebbe pensare male se domani non dovesse vedere il mio manager... mi odierebbe per avergli fatto sprecare tempo.
Entrai e mi immobilizzai di colpo, cancellando dalla mente ogni pensiero inutile e tornai alla realtà: il mio appartamento era completamente sottosopra.
Non c’era più alcun oggetto sopra agli scaffali, le sedie e i tavoli erano capovolti, e i libri erano stati tirati giù dalla libreria e sfogliati con talmente tanta foga da avere la maggior parte delle pagine strappate.
Mi chinai a raccoglierne uno, il mio preferito.
Chi poteva essere stato? Tanaka, senza alcun dubbio.
Un brivido gelato percorse la mia schiena.
Tirai fuori dalla tasca dei jeans il mio portafoglio con dentro i documenti personali. Il passaporto era là dentro e Tanaka stava certamente cercando quello.
Mi tremavano le mani, feci un respiro profondo. Dovevo andarmene da quella casa, nascondermi in modo che lui non avesse potuto più trovarmi.
Presi una borsa e ci spinsi dentro quante più cose potevo, fino a dover sforzarmi per poterla chiudere, poi chiusi a chiave -anche se sapevo non sarebbe servito a molto- e infine uscii fuori col volto coperto da una sciarpa.
Per un secondo mi guardai intorno, in seguito mi feci forza e lasciai che le mie gambe mi guidassero, mentre la mente era inabissata chissà dove.
 
Come potevo prevedere, mi ritrovai davanti all’edificio del suo appartamento.
Che sta facendo lei qui intorno?
Volsi lo sguardo all’entrata. Era Kazuya che usciva in quel momento con una grossa borsa a tracolla.
Guardi che chiamo la polizia
Restai un secondo immobilizzato, poi realizzai e mi scoprii il volto.
“Sono io...” dissi con voce sottile e lui sobbalzò.
“Ah! Non ti avevo riconosciuto... cioè... non mi sarei mai aspettato... nel senso...” iniziò a balbettare, completando le frasi con voce talmente bassa da non riuscire a sentirne la fine.
Mi avvicinai guardandomi intorno.
“N-non l’ho finito il ritratto...” disse ansioso “Ma per domattina sono sicuro che...”
“Non sono venuto per questo...” lo interruppi e poi feci un respiro profondo “Posso restare da lei per un po’?”
Kazuya mi osservò a bocca aperta, poi si riscosse cercando, forse, un po’ della sua professionalità.
“Ora devo andare a casa di un mio cliente per un dipinto... tornerò presto, tu aspettami di sopra” disse rapido e, dopo avermi dato in mano le chiavi, corse via.
E’ tutto qua? Forse non aveva ben capito cosa intendevo io per quell’ “un po’ ”.
Entrai nel suo appartamento con la paura che Tanaka avesse potuto seguirmi. Richiusi veloce la porta alle mie spalle e abbandonai la borsa in un angolo.
Il suo studio era tornato ordinato e a terra non c’era più l’ombra di quegli schizzi strappati. Anche il divano era ancora dov’era, col suo colore imponente, e la vaschetta dei fiori di loto giaceva nello stesso posto. Mi avvicinai e sorrisi, poi la tirai su con entrambe le mani e la appoggiai al davanzale di una delle finestre.
Il sole era ormai prossimo a tramontare, ma c’era ancora un po’ di luce.
“Ecco, così il vostro colore potrà diventare brillante” sussurrai e lasciai che il mio sguardo si perdesse tra le grinze della Senna.
Improvvisamente qualcosa si mosse. Il mio cuore smise di battere. Qualcuno mi spiava.
Mi raggomitolai veloce accucciandomi a terra, la schiena premuta contro il muro. Tanaka?
Mi aveva seguito, scoperto, e ora anche Kazuya era in pericolo. Portai una mano tra i capelli e scossi la testa veloce. Feci per alzarmene -sarei fuggito, prima di poter coinvolgere anche lui- ma qualcuno fece rumore dietro al portone d’ingresso e io rimasi congelato a terra. Percepii il suono della chiave nella toppa e il cigolio dell’uscio che si spalancava.
“Tatsuya?” disse Kazuya allarmato “Mi ero casualmente portato dietro le chiavi di riserva e... ma, cos’è successo?”
La tensione si sciolse in una lacrima. Kazuya si avvicinò velocemente inginocchiandosi di fronte a me.
“Hey!”
Scossi la testa sorridendo.
“Me ne devo andare” feci per alzarmi ma Kazuya mi abbracciò costringendomi a restare a terra.
“C-che sta facendo?” balbettai arrossendo.
“L’altra volta non sono riuscito a tenerti qui... ma ora non lascerò che tu te ne vada di nuovo”
Sbarrai gli occhi. Che sta dicendo?
“Mi prenderai per pazzo,” continuò a sussurrarmi all’orecchio “Ma non sai quante tue sfilate sono venuto a vedere...”
Eh?
“La prima volta che ti ho visto” continuò “Era ancora autunno... all’iniziò credevo fossi occidentale ma poi cercando tue riviste mi sono ricreduto... e oggi ho scoperto che sei addirittura giapponese. E’ proprio strano come si sappia così poco dei modelli che sfilano per i grandi stilisti.”
Fece una pausa e con il pollice asciugò quella mia lacrima che era rimasta intrappolata sul mento “Odio il mio paese. Scusa se ti ho trattato male quando l’ho saputo...”
“E io odio la Francia. Me ne voglio andare” replicai io, cercando di tenere a bada il mio cuore.
Il pittore mi fissò negli occhi: non come aveva fatto Tanaka, ma con dolore. 
“Te ne vai?” chiese, e il suo sguardo viaggiava malinconico sul mio “Non ora che ti ho trovato...”
Ma cosa sta dicendo? Così, tutt’a un tratto si stava dichiarando a un perfetto sconosciuto?
Lo guardai spaventato.
“Ho capito...” disse lasciandomi e sospirò abbassando il viso “Quando hai intenzione di partire?”
“Non lo so... il tempo di trovare un po’ di soldi” risposi, quel suo sguardo addolorato mi stringeva il cuore “E, finché non l’avrò fatto... ecco... le volevo chiedere se potevo restare da lei. Lei è l’unico che conosco a Parigi”
Oltre a Tanaka...
I suoi occhi brillarono.
 
Infine, non avevo potuto fare a meno di coinvolgerlo.
 
Senza uscire da casa, restai da lui una settimana.
Il mio dipinto, completato, rimase fissato sulla parete bianca del suo studio per tutto il tempo.
 
Anche dopo essere venuto a conoscenza della mia omosessualità, Kazuya non mi sfiorò nemmeno con un dito. Lui sul suo letto, io sul divano rosso.
Un giorno gli avevo addirittura parlato di Tanaka descrivendolo come un ragazzo possessivo, che avevo lasciato a causa della sua gelosia, e nient’altro. Il suo, il mio, il nostro passato doveva restare ignoto. Non potevo coinvolgerlo ancora di più.
Kazuya mi chiese più volte come avrei potuto trovare dei soldi se fossi restato tutto il tempo chiuso in casa ad osservare i fiori di loto che, lentamente, sfiorivano. “Ho dei contatti... faccio delle telefonate...” gli dicevo, rassicurandolo che tutto andava secondo i piani. In verità, avevo solo bisogno di far passare un po’ di tempo per far calmare le acque e poter lasciare il paese indisturbato.
Eppure, quella sensazione di essere osservato, spiato, braccato da vicino restava dentro di me e aumentava ogni minuto che passava.
Kazuya notava questa mia agitazione e non diceva nulla. Soffriva anche lui, in silenzio.
Ma cosa potevo fare io?
“Mi dispiace...” gli dissi il settimo giorno, prima di andare a dormire.
“Di cosa?”
Provavo pena per lui, forse mi stavo affezionando.
Era seduto sul letto, mi avvicinai e passai una mano tra i suoi capelli. Si irrigidì.
Ti sto coinvolgendo in qualcosa di troppo grosso... questa calma è troppo irreale... succederà qualcosa, presto, avrei voluto dirgli e invece restai in silenzio.
Sorrisi lascivo e mi sedetti su di lui.
“Cosa fai?” sembrava si fossero invertite le parti. Lo baciai, con lo stesso desiderio che avevo letto nei suoi occhi quel giorno della fioritura dei fiori di loto, una settimana prima.  
Non disse più nulla e si lasciò trascinare sotto di me, gemendo solo, ogni volta che esploravo una zona del suo corpo che non avevo ancora sfiorato.
Mi dispiace...
Intrufolai le dita nei suoi slip e lui serrò gli occhi. La sua erezione era già gonfia.
Mi dispiace...
Per tutto il tempo tenne gli occhi chiusi. Cosa ti stai immaginando in quel buio? Un mio sorriso sincero?
La sua voce era sincera, il suo corpo puro. Lo stavo violentando?
Eppure questo era tutto quello che potevo fare per lui. E lui lo sapeva.
Mi dispiace...
Invece, avrei tanto voluto dirgli ‘ti amo’.

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Continua....

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Capitolo 3
*** Sfioritura. ***


La mattina dopo, al mio risveglio, era scomparso.
Mi alzai ansioso dal letto e, senza nemmeno rivestirmi, andai veloce in cucina.
Un biglietto sul tavolo diceva: -Sono uscito portando con me il tuo quadro. Voglio vedere se, vendendolo, riesco a fare un gruzzoletto da poterti dare per il viaggio. Torno presto, se hai fame cerca nel frigo. Kazuya-
Mi hai fatto prendere un colpo... Al suo ritorno lo avrei ucciso.
Tornai con la mente alla sera prima. Preparavo la colazione e piangevo silenzioso.
 
Invece non tornò subito, e il sole iniziò inesorabile la sua discesa.
Improvvisamente un messaggio al cellulare, lapidario: -Vieni al porto sotto Palais de Tokyo, ho i soldi-
Perché mi chiedeva di andare? Perché non poteva tornare?
Presi la giacca di jeans e mi gettai a capofitto fuori dalla porta. Non è distante...
 
Quando arrivai non c’era nessuno. Iniziai a girovagare senza meta. Le barche con le vele ammainate dondolavano silenziose sull’acqua.
“Kazuya!” gridai più volte senza ricevere risposta. Poi un forte colpo alla testa e la vista si fece offuscata. Svenni.
 
“Tenetelo fermo” sentivo qualcuno parlare, non avevo né la cognizione del tempo, né quella dello spazio. Cercai di aprire gli occhi ma tutto restava indeterminato. Sbattei più volte le palpebre cercando di ripristinare la vista “Tatsuya, sei sveglio?” chiese la stessa persona con una risatina. Conoscevo quella voce? Sì, era in qualche modo familiare.
Iniziai a percepire il mio corpo. Ero in piedi, ma qualcuno mi sorreggeva da sotto le spalle. Due ragazzi, ai miei lati, impedivano che potessi cadere. E poi... anche l’olfatto tornò, portando con sé un forte odore metallico. Era nauseante.
“Svegliatelo” disse ancora quella voce. E improvvisamente mi venne lanciato addosso dell’acqua. Annaspai qualche secondo, poi, lentamente, tornò anche la vista.
“Ma quanto forte lo avete colpito?” sghignazzò Tanaka, che se ne stava in piedi davanti a me con un manganello in mano. I due ragazzi ai miei fianchi risero scusandosi.
Eravamo in un magazzino abbandonato, forse. Ai piedi di Tanaka c’era qualcosa. Che improvvisamente si mosse.
“Non lo riconosci?” disse Tanaka e con un calcio lo fece voltare. Era una persona. Era...
“Kazu... Kazuya!!” lanciai un urlo che rimbalzò sulle pareti di ferro e iniziò a rimbombarmi nelle orecchie per un tempo infinitamente lungo. Rimasi terrorizzato dalla mia stessa voce.
Koki fece un ghigno.
“E’ il tuo nuovo giocattolo? Frutti la sua ospitalità? Da quanto tempo? Eh? Tatsuya! Rispondi!” gridò e diede un calcio a Kazuya sulla schiena. Dalle sue labbra uscì un grido di dolore insopportabile alle mie orecchie.
Non riuscivo a parlare. Serrai gli occhi. E’ tutto un incubo... ti prego... fa che sia tutto un incubo.
Altre urla straziate. Altri rimbombi. Altro sangue.
Iniziò a girarmi la testa. “Aprite i suoi occhi, voglio che veda”.
No! No! Non voglio!, iniziai a piangere.
Caddi a terra, in ginocchio. Cercavo di ribellarmi. Qualcuno mi tirò per i capelli.
“Non toccatelo, idioti!” gridò Tanaka e uno di loro mi lasciò il braccio con un rantolo.
“Kazuya!” gridai in quel momento aprendo gli occhi e mi divincolai dalla presa dell’altro riuscendo a trascinarmi più vicino. Bagnai una mano col suo sangue. “Kazuya... rispondi...”
Volse il volto e mi guardò. Ma non mi vedeva. I suoi occhi erano vitrei e opachi. Continuavo a chiamare il suo nome, sempre più disperato, sempre più rassegnato.
“Stagli lontano” ordinò Tanaka e mi allontano con facilità, ormai non avevo più potere sul mio corpo “Ora vedrai quello che farò a te se non torni con me” e riprese a manganellare il corpo di Kazuya.
Aprii la bocca ma non uscii niente, mossi i muscoli ma restai immobile.
Poi un ultimo rantolo, sordo, cupo e cadde il silenzio. La quiete dopo la tempesta.
Tanaka restò a guardare la figura di Kazuya inerte a terra.
“Tanaka,” disse uno di loro “Non l’avrai mica ammazzato...”
Io non sentivo più nulla, non mi rendevo conto più di nulla. Il mio cervello si era auto-scollegato.
Tanaka restò congelato. Solo il suono di una sirena in lontananza ruppe quel silenzio irreale.
“Scappiamo” gridò uno di loro. Tanaka mi guardò spaventato. Io non potevo dire nulla. Fuggì lasciando il manganello a terra a sporcarsi di rosso.
 
***
 
Feci scorrere la porta della sua stanza d’ospedale con lentezza.
“Kazuya” sorrisi “Come va oggi...”
Era seduto sul letto, e stava disegnando qualcosa su un pezzo di carta che gli avevo procurato qualche giorno prima dal suo studio. Dopo essere stato quasi picchiato a morte, era rimasto convalescente per tre giorni e poi, svegliandosi, fu il mio, il primo viso che vide.
Temevo una sua reazione, avevo addirittura paura di pronunciare il suo nome. Invece sorrise e i suoi occhi si velarono di lacrime.
“Tatsuya...” aveva sussurrato e poi si era riaddormentato col sorriso sul volto.
 
Tanaka e i suoi erano stati arrestati. Avevo fornito alla polizia tutti gli indizi possibili per poterlo rintracciare e infine lo avevano scovato mentre cercava di allontanarsi da Parigi a bordo di un battello che navigava la Senna.
Ma quello non era un lieto fine.
Kazuya era rimasto ferito gravemente alla schiena e ora non aveva più sensibilità nelle gambe, dal ginocchio in giù. Non poteva più camminare.
“Posso ancora dipingere” mi disse il giorno in cui venne a sapere la notizia “Posso ancora dipingere il tuo viso”
Quasi scoppiai a piangere di fronte a lui. Era un totale idiota. Era colpa mia se era successo tutto quello. Se era stato quasi ucciso, se aveva perso l’uso delle gambe. E lui, invece, continuava a sorridermi, come niente fosse successo.
Di quel giorno, non ne parlò mai. Non seppi mai come aveva fatto Tanaka ad attirarlo in quel magazzino né che fine avesse fatto il mio dipinto. E io non osai chiedere nulla.
 
“Mi odio...” gli dissi e lui mi osservò col viso rilassato.
“Tatsuya, va tutto bene” mi ripeteva, ogni volta che il mio sguardo si adombrava. E io scuotevo  la testa. E allora lui mi abbracciava.
Meritavo quell’affetto?
“Ora puoi andartene, vero?” mi sussurrò, quasi avesse capito tutto dall’inizio.
Lo guardai spaventato e scossi la testa.
“Resto con te”
“No... qui non sei felice”
“Non posso abbandonarti, non dopo che ti ho fatto questo” e osai ritornare sull’argomento.
“Ti amo, ma non è lo stesso per te. Voglio solo che tu sia felice”
Perché? Davvero non potevo amarlo?
“Io...” iniziai cercando le parole “Posso provarci”
Rise.
“Mi basta sapere questo...” disse. Poi indicò la sedia a rotelle accanto al suo letto.
“Vuoi uscire?”
“Sì... nel laghetto dell’ospedale ci sono un sacco di fiori di loto. Vieni a vederli anche te? Quando sono arrivato erano solo dei boccioli, ma ora sono fioriti... Sai, la loro fioritura dura solo pochi giorni, due o tre al massimo... dobbiamo sbrigarci se vogliamo vederli!”
“Okay allora, andiamo a vederli” sorrisi.
Fuori, c’era ancora il sole.
 

13 Febbraio 2011
 

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Commento: e così si conclude la prima blossom!!! Cito una frase che avevo scritto al tempo: "E’ finita, ma in verità non lo è. Non sapevo come concluderla e alla fine è venuta così... ma dopotutto come poteva andare diversamente? Ho lasciato il finale aperto perché non ho diritto di dire a Tatsuya quello che fare... non so se alla fine deciderà di andarsene lo stesso, o se resterà, rendendo la figura di Kazuya ancora più triste... ma che personaggio strano mi è venuto fuori...? Kazuya è proprio triste...e che fic strana! E’ la prima volta faccio una cosa simile! Perdonatemi..." <-- beh, se volete sapere com'è andata avanti la storia spero che leggiate anche il seguito!!! <3 Bye bye-nya! *MIAO*

ps. TANTI AUGURI KAMEEEEEEEEEEEEEEE :D 

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