A Dangerous Method

di Nebula216
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 16 Maggio ***
Capitolo 2: *** 23 Maggio ***
Capitolo 3: *** 30 Maggio ***



Capitolo 1
*** 16 Maggio ***


“A Dangerous Method”
 

 
Capitolo 1
 
16 maggio, 16:35   
Regola Psicanalitica Fondamentale
 

Non è ancora estate, eppure una cappa di caldo afoso ed insopportabile ha iniziato ad avvolgere la città.
Mi maledico per aver scelto, fra i vari stracci del mio armadio, proprio una giacca blu notte… e dire che stamani si crepava di freddo, penso mentre cerco di calmare quelle parole poco carine che mi stanno venendo in mente.
Sbuffo, togliendomela di dosso e restando con la camicia azzurro pastello, della quale avvolgo le maniche fino ai gomiti: devo ancora visitare un paziente, l’ultimo della giornata, prima di tornare a casa; nervoso, controllo l’orologio che tengo al polso… sono le 16:30, a momenti dovrebbe arrivare dato che il colloquio è stato fissato per le 16:35.
Nella vita privata sono disordinato, quasi al limite dell’umano e particolarmente distratto, nel lavoro, invece, sembro subire una mutazione: preciso, composto, serio… e tengo molto alla puntualità.
Il rumore del motore di un’auto e la seguente chiusura degli sportelli mi mette sull’attenti: percepisco delle urla nella sala d’attesa dello studio, urla femminili che, con forza e disperazione, sovrastano quelle maschili dei suoi accompagnatori, probabilmente due; il telefono, posto alla mia destra sulla scrivania, inizia a squillare… non mi resta che alzare la cornetta.
-Sì Konan?-
Domando alla segretaria, sentendo chiaramente le grida di quella che, presumo, sarà la mia paziente, sovrastare le voci dei due uomini che l’accompagnano.
-E’ arrivata la paziente signor Williams.-
-Falla entrare.-
Tempo di metter giù la cornetta che qualcuno bussa: pronuncio un “Avanti” con il tono più professionale che posso tirar fuori dal mio repertorio, giusto in tempo per vedere entrare i due uomini e la ragazza.
Il primo, un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati e caratterizzato da un paio di occhi blu notte, in quel momento colmi di rabbia, entra con passo sicuro e distaccato. Sicuramente è un generale vista la divisa verde militare che indossa, la postura dritta e rigida e le medaglie che tiene, tutte splendenti, sul petto a sinistra.
L’altro è un uomo che ho avuto modo di scorgere sul retro delle copertine di un non so quale libro: Jiraya, autore del romanzo dell’anno, se non ricordo male; è difficile identificarlo visto l’aspetto sciupato che ha oggi.
Infine, pongo la mia attenzione sulla ragazza: dimostra venti anni circa a prima vista, ma non è facile dirlo visti i capelli castani ramati che, mossi, le ricadono sul volto contratto in un’espressione al limite della sofferenza. Indossa dei jeans strappati, anfibi neri e una t-shirt bianca, con la stampa di una rosa tribale appena sotto il seno: un abbigliamento comune se confrontato con la divisa del soldato.
-Dottor Hidan Williams, per favore curi questa causa persa! Ne abbiamo fin sopra i capelli delle sue crisi!-
Ecco il classico esempio di uomo poco paziente, penso acido a causa di quel comportamento poco garbato nei confronti della mia paziente: mi piacerebbe parecchio vedere lui al posto di questa ragazza, la quale trema singhiozzante vicina allo scrittore.
L’ultima della giornata, penso deciso a voler iniziare questa seduta.
Fisso il generale e l’altro accompagnatore, mentre prendo da una custodia un paio di occhiali da vista a montatura fine e la mia fidata penna Parker; apro un taccuino rigido con fogli bianchi, scrivendo sulla cima destra la data e l’ora di oggi.
-Signori, vorrei restare solo con la paziente. Uscite, vi chiamerò io quando avrò finito la seduta.-
Non servono altre parole per far capire loro il messaggio: fuori dai piedi. Non voglio che lei si senta condizionata o osservata, con la paura di esser giudicata dai due che le domina la mente.
Rilassato, rivolgo uno sguardo nella sua direzione: trema ancora, chiusa in sé stessa come un riccio, e non osa avvicinarsi a nulla, come se temesse un rimprovero o una fatalità. È pallida e magra, forse troppo visto che riesco a scorgerle le linee delle coste, del bacino e delle spalle; l’unica e cupa nota di colore la noto sotto gli occhi verdi chiari, sottoforma di occhiaie. Si sta tormentando, sconvolta, l’unghia del pollice destro con i denti e fissa un punto indeterminato del pavimento.
Deciso a voler iniziare la seduta, mi alzo, avvicinandomi a lei con calma: appena le sfioro il braccio sinistro, però, la vedo ritrarsi di scatto al mio tocco.
-Tranquilla, voglio aiutarti. Dovresti stenderti sul quel divano, così possiamo iniziare.-
Le comunico, indicandole al contempo il classico piccolo sofà degli analisti, mobile che guarda con occhi terrorizzati: non voglio spaventarla, non più di quanto già lo sia. Mi fissa, per poi tornare al divanetto, smarrita e confusa quanto un agnello strappato alla madre i giorni antecedenti alla Pasqua. Le rispondo con un cenno della testa, un gesto che sembra rassicurarla un poco, quanto basta per farla stendere ed iniziare la terapia; oggi inizierò a tastare il terreno, attraverso la Regola Psicoanalitica Fondamentale.
Mi siedo, accavallando una gamba e preparandomi per appuntare ogni singola informazione.
-Va bene… come ti chiami?-
-…L…Lara…-
Appunto il nome sul taccuino, attendendo un cognome che, però, non arriva.
-Solo Lara?-
-Lara… Scarlett…-
-Bene, di cosa vuoi parlarmi Lara?-
È questa la base della Regola Psicoanalitica Fondamentale: il paziente deve parlare liberamente, senza temere alcuna censura da parte dell’analista; sebbene appaia inutile per la gente che non comprende e che non sa, per noi seguaci di Freud è fondamentale.
Sappiamo, infatti, che lo scopo di questa tecnica è quello di far nascere, nel soggetto, il fenomeno della resistenza: il paziente, in questo caso la paziente, non se la sente di comunicare certe esperienze o fantasie che turbano la sua psiche e tutto questo genera un blocco emotivo. Cerca, quindi, di non rispettare tale regola e di eluderla, ma sono proprio i tentativi di aggirarla che mi guideranno nella scoperta di quelle emozioni che stanno turbando Lara Scarlett.
Passano i minuti e, ancora, non vuole parlare: mi vede come un estraneo e ormai è risaputo che non si deve dar confidenza agli sconosciuti; si guarda intorno, si tormenta le dita strappando pellicine e trema.
-Lara, quanti anni hai?-
Domando per rompere il ghiaccio, guadagnandomi oltretutto la sua attenzione.
-Venti…-
-E da dove vieni?-
-Io… vengo…-
La sua voce si spenge in un sussurro: la prima resistenza.
Non le piace parlare del suo luogo d’origine.
-Vieni?-
Incalzo con una domanda, determinato a voler comunicare con lei: a quanto mi ha detto la segretaria, la ragazza convive da sedici anni con un forte trauma, un’esperienza che le ha mutato il carattere e la psiche.
Deglutisce, il suo corpo è colto da tremori lievi: non vuole rispondermi, ma devo farle vincere queste resistenze… o tutto sarà vano.
-Lara, qui sei al sicuro tranquilla.-
Non mi va di darle del lei: come età siamo vicini, inoltre rischierei di metterla a disagio, proprio quando sembra calmarsi. Prende un respiro, per farsi coraggio probabilmente.
-I-io vengo da Londra… ma non dal centro… stavo più nella… periferia.-
Annoto con cura le sue parole, registrando le possibili resistenze che incontro in questo cammino tra parentesi.
-L’Inghilterra è molto elegante. Come mai sei venuta qui in America?-
Un altro momento di silenzio, un’altra resistenza che scrivo subito nel taccuino.
-Ci… ci sono stata solo… i primi tre anni della mia vita… non ricordo molto perché… ero piccola.-
Continuo a scrivere, aspettando nuove informazioni, notizie che, però, non arrivano. Decido di prenderla larga, di girarci un poco intorno.
-Ti piace qui?-
Domanda stupida da parte mia, ma è necessaria per metterla a suo agio.
Mi guarda, quasi stralunata, probabilmente sorpresa per la mia domanda; la guardo tranquillo, pronto a trasmetterle fiducia, sicurezza: annuisce appena, non del tutto convinta, e ciò non mi fa comprendere il motivo del suo disagio.
-S-Sì… mi piace… E’… allegro come posto, un po’ caotico forse.-
Non posso fare a meno di accennare un sorriso: caotico è dir poco.
-Cosa ti piace? Insomma, avrai qualche interesse.-
-Sì… mi piace… andare in moto, a volte… canto…-
Decido di proseguire con queste domande: si sta lasciando andare.
-Canti? Quindi ti interessa la musica.-
Non risponde… altra resistenza.
Controllo l’orario osservando l’orologio che tengo al polso, constatando che ha passato quasi trenta minuti nel silenzio più totale: di solito evito di prolungare troppo le sedute, eppure in questo caso sento che non mi basta. Se non fosse per il mio senso del dovere, insisterei ancora e ancora.
Chiudo il taccuino, guadagnandomi nuovamente la sua attenzione.
-Per oggi basta così Lara.-
Le dico con un sorriso per farla rilassare, cosa che effettivamente avviene.
Mi alzo e faccio rientrare i suoi due accompagnatori, spiegando loro quando tornare, a che ora e come comportarsi per non buttare all’aria i piccoli progressi compiuti oggi.
Quando li accompagno alla porta, rivolgo uno sguardo alla ragazza.
-Alla prossima chiacchierata Lara.-
Le dico ancora sorridendo.
-…Arrivederci dottore.-
Mi risponde lei, prima di sparire dietro la porta color ebano…
Prima di tornare a gridare quando la sento salire sulla macchina ed andar via.

  
Angolo Autrice: Che dire... una mini-fic di soli tre capitoli che vede Hidan nei panni di uno psicoanalista e di Lara nei vesti della paziente.
Spero possa piacervi, l'idea mi è venuta durante una lezione a scuola (ecco cosa faccio al posto di stare attenta X°°°°D).
Bacioni!
Nebula216

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Capitolo 2
*** 23 Maggio ***


Capitolo 2
 
23 maggio, ore 16:35
Associazioni Libere

 
La settimana che è trascorsa è stata a dir poco infernale, tanto che penso di aver arricchito non so quante caffetterie a forza di espressi take-away: Lara Scarlett aggira gli ostacoli della sua psiche, non sono riuscito a farla parlare liberamente come avrei voluto e, oltretutto, non ci sono stati progressi.
Controllo ciò che ho scritto sul mio taccuino: non le piace parlare di sé , né per quanto riguarda le sue origini né per la vita personale… si chiude a riccio e, ad ogni visita, non fa che aumentare la sua corazza di spine.
Ormai caduto nel vortice delle riflessioni, tamburello senza batter ciglio la Parker sulla pagina che mi ritrovo ad osservare, nel tentativo di capire cosa fare, come muovermi: non mi sono mai trovato in una situazione simile, di solito la Regola psicoanalitica fondamentale basta.
Sospirando, prendo la tazza contenente il caffè, bevendone un sorso e controllando, a seguito, l’ora: mancano cinque minuti, devo prepararmi al meglio.
Mi tolgo la giacca, oggi di una tonalità grigia chiara, e arrotolo fino ai gomiti le maniche della camicia bordeaux: non fa molto caldo, fortunatamente. Come l’altra volta, sento il rombo di un motore, lo sbattere delle portiere delle auto e le sue urla… sempre più disperate, sempre più terrorizzate.
Stringo la mascella, tamburellando impaziente l’indice sulla superficie lignea della scrivania: anche questa volta strilla, anche questa dannata volta la trattano come uno straccio, quel generale in primis… mi sembrava di esser stato chiaro, penso alquanto irritato dalla situazione.
Li vedo entrare e, subito, faccio capir loro che hanno commesso un errore, il tutto con lo sguardo più truce che riesco a fare: distaccato, professionale, freddo… non importa accigliarsi, bastano queste cose per metterli sull’attenti.
-Ci scusi del rit…-
-Non è per il ritardo che sono irritato… non posso vederla e sentirla urlare così ogni volta… non so cosa fate, ma mandate tutto il mio lavoro a rotoli!-
Se ne stanno zitti, occupati a fissarmi: Jiraya dispiaciuto, il generale scocciato.
Li obbligo ad uscire, per poi concentrare l’attenzione sulla ragazza: anche stavolta trema, anche oggi dovrò calmarla. Faccio per alzarmi, quando la vedo rivolgermi uno sguardo: è fiducioso, o almeno così mi sembra; è difficile capirlo con le lacrime che premono in quelle iridi smeraldine.
La vedo pronta per stendersi sul divanetto, così mi alzo con uno scatto dalla sedia.
-No Lara. Oggi voglio applicare una tecnica diversa.-
Mi osserva confusa, sedendosi lentamente davanti a me, dall’altra parte della scrivania.
Presto più attenzione al suo aspetto, a come mi si presenta oggi: jeans sbiaditi, scarpe da ginnastica chiare, felpa non eccessivamente attillata blu e, sotto quest’ultima, una canotta di microfibra. I capelli, ancora sciolti e scomposti, le coprono il volto, più riposato dell’altra volta: questo mi rallegra un poco.
Cambio pagina nel taccuino, scrivendo, ben nascosto alla sua vista, delle parole alle quali lei dovrà associarne altre; mi guarda curiosa, cerca di intuire quello che voglio provare a fare.
Le sorrido.
-Oggi ti dirò delle parole e tu dovrai dire ciò che ti fanno venire in mente, associarne delle altre.-
-Non capisco…-
Appoggio la penna, pronto per farle un esempio.
-Dimmi una parola, così ti faccio un esempio.-
-…Paura…-
Rimango spiazzato per qualche secondo, prima di continuare.
-Ragni. Vedi? Una cosa così, è come un gioco.-
Annuisce, facendomi riprendere la scrittura delle parole che potrebbero condurmi verso la buona strada: mi viene spontaneo pensare, mentre scrivo, al motivo per cui abbia scelto proprio “paura”.
È per caso ciò che sente?
Che cosa la intimorisce?
Che la stia intimorendo con tutte queste tecniche psico-analitiche?
Probabile.
-Ti spaventano i miei metodi?-
Mi guarda confusa, per poi scuotere la testa.
-No, non è lei a farmi paura dottore.-
Questa formalità mi dà quasi sui nervi: vorrei che potesse fidarsi di me, vorrei che potesse confidarsi e farmi capire cosa la turba.
Non la forzo, non voglio apparire ai suoi occhi come un aggressore, è già abbastanza difficile provare ad intuire la causa del suo disagio.
Torno a scrivere altre parole, dividendo poi la loro parte con una linea verticale precisa, segnando così il “confine” tra le mie parole e quelle che dirà lei; le conto, aggiungendone altre due, per poi guardarla.
-Pronta?-
Le domando.
Ottengo un cenno positivo, così leggo la prima della lista.
-Cane.-
Preferisco partire con qualcosa di semplice.
-Husky-
Mi risponde prontamente.
Trascrivo la risposta nella colonna bianca, prima di dire la parola successiva.
-Fiore.-
-Profumo.-
Annoto anche questa.
-Melodia.-
Aspetta qualche secondo a rispondermi: che sia un primo indizio?
-P-Pianoforte.-
Passo, dopo averla scritta, alla successiva.
-Esercito.-
-Prigione.-
Ecco la sua risposta.
Non posso fare a meno di inarcare un sopracciglio mentre la annoto: lei associa l’esercito ad una prigione… perché?
-Lupo.-
Dico, non ottenendo risposta.
Alzo lo sguardo, vedendola fissare con occhi vuoti il bordo della scrivania: nessuna espressione, nessun sentimento… la sua faccia, in questo momento, ricorda molto una di quelle maschere carnevalesche veneziane.
-Lara? Ehi…-
Si riscuote all’improvviso, come se si fosse risvegliata da un incubo.
-…Cerva.-
Non so se è giusto continuare: la vedo al limite della calma, vedo il suo corpo iniziare a tremare, impercettibilmente, il respiro bloccarsi o aumentare, come se stesse per cadere nel panico.
L’epiglottide si alza e si abbassa, un disperato tentativo di reprimere un conato causato dal nervosismo; è vicina al limite, sta per cedere.
Tempestivamente, la porto nel bagno che comunica con il mio studio, vedendola rimettere i succhi gastrici nel lavandino; le tengo i capelli lontani dal volto, lasciandoglieli solo quando finisce di sciacquarsi la bocca.
-Non voglio insistere di più La…-
-Dottore… finisca la seduta… per favore…-
Questa richiesta, vicina al pianto, mi lascia basito: lei vuole finire la seduta, non... non mi era mai capitato.
Annuisco, poco convinto, tornando a sedere dietro la scrivania: prendo fiato.
-Famiglia.-
-Affetto.-
-Pistola.-
-Poliziotto.-
Annoto le ultime due risposte, prima di passare all'ultima domanda.
-Auto.-
Ancora silenzio: preferisco che non risponda, se devo esser sincero.
Non sta bene, il suo corpo non sta bene e io non voglio peggiorare la sua salute, sia fisica che mentale: non voglio assolutamente distruggerla, non è mia intenzione farla star peggio… da parte mia, sarebbe un gesto contro la professionalità.
Sto per chiudere la penna, quando la vedo fare un piccolo scatto con la testa verso di me, permettendomi di vederle il volto dopo l’attacco di nervosismo: la pelle della faccia, cerea, presenta due occhiaie lievi sotto gli occhi smeraldini, in quel momento vacui e, allo stesso tempo, decisi.
Un brivido mi percorre la schiena, uno strano brivido mai provato nel corso delle mie sedute.
-…Morte.-
Sussurra, continuando a guardarmi.
Le sue sono iridi che chiedono aiuto, perdono… sono occhi che supplicano.
Il bussare insistente della segretaria, accompagnato dalle voci degli uomini, mi risveglia dalla trance nella quale sono caduto: la seduta è finita.
Lara si alza, scusandosi per l’inconveniente del vomito: è imbarazzata, forse non le piace farsi vedere così… così debole; accenno un sorriso e le rispondo che non deve preoccuparsi.
Quando la vedo avvicinarsi alla porta, mi alzo.
-Aspetta Lara. Va bene se spostiamo le future visite verso le 19:30?-
-Va… Va bene dottor Williams.-
Mi risponde, prima di uscire augurandomi di trascorrere una buona serata.
Dottor Williams…
“Maledetta formalità!”
Penso senza rendermene conto. 


Angolo Autrice: Ecco il secondo capitolo di questa mini-fic.
Il prossimo sarà l'ultimo T.T.
Spero che vi sia piaciuto ;-).
Bacioni!
Nebula216 <3


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Capitolo 3
*** 30 Maggio ***


Capitolo 3

 
30 Maggio, ore 19:30
Transfert

 
Ho appena salutato il penultimo paziente della giornata quando scorro, con calma, il taccuino che uso per i casi più seri, fra cui Lara Scarlett.
La settimana scorsa non ho avuto molti risultati purtroppo, spero con la seduta di oggi di trovare delle soluzioni o, quantomeno, la via giusta da seguire per aiutarla: non posso e non voglio fallire.
Stanco, mi allento la cravatta nera attorno al colletto della camicia viola funerale, osservando il temporale che, furioso, imperversa sulla città: un mese fa si pativa un caldo infernale, ed ora invece la gente fa i conti con il diluvio universale.
Sbuffo, controllando lo schema delle associazioni libere risalente alla settimana scorsa, uno schema che non mi fa ottenere alcuna illuminazione improvvisa: mi sembrano soltanto parole messe a caso, non mi indicano la strada giusta da seguire nella terapia.
Le luci, sia quelle della scrivania che quelle del soffitto, si spengono per un microsecondo a causa di un fulmine, il primo della giornata, facendomi riprendere dallo stato catatonico nel quale ero caduto; annoiato, guardo l’orologio che porto al polso…
Le 19:35.
È in ritardo, stranamente… perché?
Il telefono squilla, costringendomi a rispondere.
-Sì Konan?-
-Dottore, io devo andar via. Lascio un post-it alla porta per la paziente, va bene?-
Mi strofino gli occhi con il pollice e l’indice della mano sinistra.
-Certo, sì sì… vai pure a casa Konan.-
-Arrivederci.-
Risponde, prima di riattaccare la cornetta e farmi tornare alla mia attesa: non è mai arrivata in ritardo, è la prima volta. La faccenda mi turba, facendomi pensare di male in peggio: la cosa più terribile per lei, in questo momento, sarebbe troncare la terapia, cosa che quel generale sembra ben disposto a fare.
Sospiro, pronto per andar via, quando la porta dello studio si apre all’improvviso, spaventandomi un poco…
Lara.
Ha il fiatone e gli abiti che indossa, dei jeans e una camicia tenuta aperta sopra una canotta verde salvia, sono a dir poco zuppi d’acqua piovana, per non parlare dei capelli che le si appiccicano al volto, come farebbero delle alghe marine sul volto di una sirena.
-…Lara…-
Riesco a dire soltanto questo, sorpreso di vederla nello studio: prende fiato, inspirando a pieni polmoni quanta più aria possibile, prima di sedersi sulla sedia di fronte alla mia, dall’altra parte della scrivania.
Le gocce d’acqua le carezzano ogni singolo tratto del viso: palpebre, guance, naso, labbra… per poi cadere nel vuoto; deglutisce, asciugandosi, per quanto possibile vista la manica fradicia della camicia, la faccia.
-Mi scusi dottore… non volevo tardare.-
-Tranquilla… potevi chiamarmi se eri impegnata.-
Le dico con un sorriso, divertito per la situazione strana che si è venuta a creare.
Lei mi guarda, un’occhiata che mi comunica turbamento.
-Sono… scappata. Il generale voleva…-
-Interrompere le sedute.-
La sospendo serio: quel capo dell’esercito non capisce che questa è la cura giusta per la ragazza, non lo pensa affatto!
Reprimendo un istinto omicida, faccio un respiro profondo, concentrandomi sul mio lavoro e sull’obiettivo che mi sono prefissato: capire ed aiutare Lara.
La guardo nuovamente, prima di scrivere su una pagina bianca del taccuino la data di oggi: 30 maggio… una data che le fa accennare un sorriso.
Curioso, ricambio il gesto: la tecnica che voglio usare oggi è già iniziata…
Il transfert.
Tramite questo processo il paziente rende attuali sentimenti passati, che siano positivi come l’affetto e la gioia, o negativi come la rabbia, generando due tipologie di transfert: positivo e negativo. Tali emozioni vengono proiettate verso la figura dello psicoanalista, il quale deve restare distaccato…
Non deve lasciarsi coinvolgere.
-Perché sorridi?-
Le domando, sorprendendola per il quesito.
Arrossisce un poco per l’imbarazzo, e non posso, non riesco, a fare a meno di accennare un altro sorriso.
-Ecco… oggi è il mio compleanno.-
-Davvero? Bhè, allora auguri!-
Le dico sincero, ricevendo come risposta i suoi ringraziamenti: è la prima volta che la vedo serena, e giuro che non sembra affatto una ragazza con traumi psicologici o che altro.
Appare come una ventenne comune… perché lei è davvero così sotto quella gabbia di ricordi opprimenti che la costringono ad avere paura: lei è come me, come tutte quelle persone che ogni mattina si svegliano e corrono per andare a lavoro.
Come tutti quegli studenti preoccupati per un esame imminente… o come le madri che, seppur stanche, calmano i loro figli col sorriso.
Lara non è un mostro pazzo da cui stare alla larga: lei è umana.
-A casa tua ti avranno fatto la festa, non voglio trattenerti.-
Le dico, rendendomi conto che il sorriso, il quale le aveva illuminato il volto in precedenza, si è spento all’improvviso.
Scosta lo sguardo.
-Ci tengo a… questa seduta.-
Ci tiene…
Lei ci tiene ad esser curata…
La sera del suo compleanno.
Poso la penna Parker vicino agli occhiali a montatura fine, congiungendo le mani e fissandola: spero che il transfert funzioni, perché non saprei cosa fare altrimenti.
-Perché Lara non vuoi tornare a casa?-
Le domando, dopo aver soppesato ogni singola parola.
-Io… non ho più una casa da sedici anni dottore. Non ho più qualcosa di mio.-
Un velo di malinconia avvolge la sua voce, raggiungendo ben presto ogni cellula del mio corpo: si sta aprendo, sta rivelando, come un bocciolo primaverile, i suoi petali…
Petali rovinati ancor prima di esser stati sfiorati da qualsiasi essere.
Sorpreso per questi pensieri, cerco di scacciarli il più velocemente possibile dalla mente, continuando a prestare attenzione alle sue parole.
-Perché dici così?-
Domando, prima di vedere le lacrime avvolgerle gli occhi: tristezza… la percepisco…
È un macigno troppo pesante da sopportare.
-Sa dottore… lei… mi ricorda molto mio padre. A-anche lui faceva molte… domande e… e mi rassicurava…-
Ecco, ci siamo, penso con fin troppo interesse.
-Tuo padre?-
Annuisce.
-Lui e mia madre erano le mie guide, le persone a cui volevo più bene in questo mondo. Mio padre mi rassicurava sempre quando ero spaventata. Sa come faceva? Sedeva al piano, mettendomi sulle sue ginocchia, ed iniziava a suonare.
Mia madre, invece, sapeva come farmi tornare il sorriso.-
Silenzio.
Calde lacrime iniziano a scenderle da quegli occhi smeraldini, ormai privi di quella luce che dovrebbe caratterizzare la vita.
Anima dilaniata, occhi morti ancor prima di morire… quanto è stato crudele con lei il destino?
Scoppia a piangere e, come se quel pianto fosse stato quello di un neonato, la mia mano cerca di stringere la sua: il primo errore da parte mia…
Uno sbaglio di cui non me ne rendo conto.
Sobbalza a quel contatto, una lieve risposta al mio gesto sconsiderato, per poi deglutire e guardarmi.
-Dovevamo andare… in una riserva naturale. Volevano farmi vedere… i lupi  e i cervi. Papà aveva… aveva finalmente ottenuto le ferie e… e voleva passarle con noi. Solo che…-
Si blocca di nuovo, fissando confusa le nostre mani unite: so che dovrei lasciarla, però non ci riesco.
Sento il suo dolore, la sua tristezza… sento la sua rabbia.
Si morde il labbro inferiore, nel vano tentativo di reprimere le lacrime.
-Solo che?-
Le domando… innescando involontariamente il timer della sua bomba interna.
Qualcosa di così potente da poter distruggere qualsiasi cosa…
Persino il mio distacco.
-Solo che un imbecille ubriaco ci è venuto addosso con una jeep… facendoci finire fuori strada… MIO PADRE E MIA MADRE, INCINTA PER GIUNTA, SONO MORTI A CAUSA SUA!-
Si alza di scatto, lasciando la presa sulla mia mano: mi mette i brividi sentire il vuoto che ha lasciato, non poter più percepire il calore della sua pelle umida mi scombussola… tutto per me è diventato estraneo.
La guardo, la osservo con occhi diversi da quelli dell’analista che sono stato fin’ora, che continuo ad essere. Mi soffermo su ogni tratto del suo aspetto fisico, cercando di imprimere nella memoria quanti più dettagli possibili.
La piega dei capelli, le sue labbra, il modo in cui si tormenta quello inferiore, la molteplicità di luci ed emozioni contrastanti che stanno illuminando i suoi occhi.
Mi rivolge uno sguardo.
-Io ho perso la famiglia, e la polizia cosa fa!? LO LASCIA LIBERO! TANTO VERO, NON PUO’ ESSER MESSO IN GALERA PERCHE’ LE PAROLE DELLA PICCOLA SOPRAVVISSUTA NON SONO VERE! SONO STANCA DI TUTTO QUESTO, VOGLIO FARLO SOFFRIRE COME E’ SUCCESSO A ME!-
Si stringe le braccia con le mano, la vedo graffiarsi, mordersi troppo le labbra, e a quel punto decido di intervenire: le blocco i polsi quando sta per colpire il vetro della finestra, evitandole così ulteriori ferite.
Lancia urla al limite dell’umano, cariche di odio e tristezza: il suo corpo, ben stretto al mio, sta tremando, fin troppo.
Si dimena, cerca di liberarsi, però non la lascio, non voglio mollarla: tenta di colpirmi con le mani, mi urla di lasciarla… non l’ascolto.
Non voglio farlo.
Le porto le braccia, da sopra la testa, distese lungo i fianchi e leggermente dietro la schiena, una posizione che ci rende ancor più vicini.
La guardo e, dopo poco, lei risponde alla mia chiamata visiva: nessuna parola, non osiamo fiatare, un semplice scambio di sguardi che, per quanto innocente possa apparire, mi condanna al tormento peggiore.
Mi guarda: rabbiosa, impaurita… confusa; non so come la sto fissando, non so come sono i miei occhi: li vedo parzialmente nelle sue iridi smeraldine. Trema, balbetta qualcosa a bassa voce, catturando così la mia attenzione: le labbra appaiono morbide, di quelle talmente perfette da non aver bisogno di rossetti idratanti o roba varia. Eppure, in questa perfezione, non riesco a non notare i difetti: le sue sono tristi, distrutte da un passato troppo doloroso, continuamente minacciate dagli artigli della follia.
Labbra che, un tempo, dovevano essere rosee e pulsanti di vita… labbra che, ora, sono umide e ferite, forse gelide: una bocca che, come il canto delle sirene, inviterebbe chiunque, con la sua tristezza, ad assaporarle.
La luce salta a causa di un fulmine, lasciandoci completamente in balia delle tenebre: temo, non sapendo il perché, una sua possibile lontananza, e il mio corpo reagisce a questo pensiero.
Avanzo un poco verso di lei, continuando a stringerla dolcemente per i polsi.
Indietreggia, con il respiro confuso, fino a quando non colpisce qualcosa, probabilmente la scrivania; non so come, riesco a scostarle i capelli ancora umidi dal volto; avanzo ancora, percependo il suo petto alzarsi ed abbassarsi in maniera frenetica, forse per paura.
Il mio senso del dovere, la mia parte razionale, mi sta imponendo di tornare distaccato nei suoi confronti, sottolinea il mio ruolo di psicoanalista… è inutile, non può nulla contro la carica impetuosa ed irrefrenabile dell’inconscio, guidato da pulsioni tanto primitive quanto distanti l’una dall’altra. Da una parte Eros, comandante dell’istinto di vita e custode di tutto quanto riguardi essa; dall’altra Thanatos, guardiano degli impulsi mortali e distruttivi.
Due tipologie di pulsioni talmente agli opposti da essere inevitabilmente legate: si può esser stabili solo quando entrambe si bilanciano.
In questo momento, però, soltanto una prevale, e non è il Distruttore: la mia anima sta indugiando, non sa cosa fare… se dovessi assaporare e nutrirmi di quelle labbra, non solo potrei perdere il lavoro, ma lei stessa.
Non so come potrebbe reagire.
Freud diceva che “Dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare”… ed aveva ragione.
Io la desidero, adesso, per sempre, finché potrò respirare continuerò a desiderarla… ma c’è e ci sarà sempre un ostacolo, ed è rappresentato dal mio lavoro.
Le sollevo la testa, sfiorando con le labbra la sua bocca.
-D-dottore…-
La zittisco con uno “shh”, ormai accecato dai richiami sempre più forti di Eros: non mi importa delle conseguenze… preferisco provare, fallire, cadere, piuttosto che rinunciare e vivere col rimorso di non aver nemmeno tentato.
Passo il pollice sulle sue labbra, con il tocco più dolce che posso avere.
-Ti prego… è Hidan.-
-…H-hidan…-
Sorrido.
-Sì, sono qui… sono qui.-
  

Angolo autrice: Chiedo venia per il ritardo, ma avevo un sacco di cose da fare (studio per l'esame di stato soprattutto... superato con un bel 80/100!).
Anche questa mini-fic è finita, e spero che vi sia piaciuta.
Bacioni!
Nebula216 <3

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