Don't Leave Me Alone

di SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1__Fuggire ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2__Incontri ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3__Le stesse persone ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4__Oltre le apparenze ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5__Conoscenze ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6__Il Ringraziamento ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7__Safe And War ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8__Il futuro ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9__Commettere un errore ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10__Sensi di colpa ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11__Quando tutto crolla ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12__In viaggio verso casa ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13__Charlie e Sue ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14__Bloccati ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15__Ciò che siamo ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16__Iris ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17__La vigilia di Natale ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18__Sciogliti ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19__Sotto la neve ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


E' DA UN PO' CHE AVEVO IN MENTE QUESTA STORIA, DITEMI SE VI INCURIOSISCE :D

BACI :*

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Don’t Leave Me Alone

 

Prefazione

«Non voglio che ti sposi» sussurro, con il fiato corto, mozzato dall’emozione.

Edward mi scruta per un lungo istante, con il viso contratto. «Perché non vuoi che mi sposi?» mi chiede, senza tradire alcuna emozione.

Sussulto, e le labbra mi tremano impercettibilmente, mentre lo sguardo diviene vacuo.

Perché non voglio che Edward si sposi?

La nostra è una storia senza alcun fondamento, senza speranze. È una delle tipiche cotte che sviano dal cammino.

Taccio, osservando le labbra di lui, così vicine alle mie. Vorrei tanto toccarle, sfiorarle, lambirle, farle mie. Ma non posso.

Lui sta per sposarsi, ed io… io rimarrò sola. Come sempre.

«Bella» Edward richiama la mia attenzione, costringendomi a guardarlo negli occhi.

Ancora una volta le sue pozze color smeraldo mi accolgono, liquide e profonde, pronte ad avvolgere tutta la mia anima.

Sospira, e avvicina ancora di alcuni centimetri il volto al mio. I nostri nasi quasi si sfiorano.

«Dammi un motivo per cui dovrei lasciare Tanya» mormora, con la voce roca, intrisa di sofferenza. Il suo fiato sbatte sulle mie labbra, stordendomi. «Dammelo e… ti giuro… ti giuro che sono disposto a lasciarla.»

Il mio cuore si agita ancora di più, e le guance si imporporano di un delicato rosa. Le mani di Edward scivolano lungo il muro, arrivando vicino ai miei gomiti.

Il suo viso si avvicina di più, inclinandosi.

Chiudo gli occhi, beandomi del suo fiato caldo che si fonde con il mio.

Edward fa sfiorare le punte dei nostri nasi, esitante. «Dammi un motivo per cui dovrei abbandonare le mie certezze, Bella. Ti prego…» mormora, ancora. La voce è roca, profonda, ma la tristezza si avverte in ogni singola parola.

Rimango immobile, in attesa di quel contatto che bramo come non mai. Ma non posso.

«Io… Non posso…» sussurro, sperando di non far sentire il mio dolore lancinante.

Il respiro di Edward smette di soffiare contro il mio viso, anche se il contatto fra i nostri nasi permane.

Dopo pochi istanti però sento freddo.

Apro gli occhi, e mi specchio negli smeraldi di Edward. Ma non sono più caldi e accoglienti. Sono divenuti freddi e impenetrabili, incapaci di esprimere emozioni. Mi fanno male, molto male.

Si è staccato dal muro, e ora mi fissa dal suo metro e ottantacinque di altezza.

Le labbra sono tirate in una linea retta, strette. La mascella è tesa e la fronte è liscia. L’immagine dell’impenetrabilità, dell’insensibilità.

Ma ormai ho imparato a conoscerlo bene. So che questa non è altro che la maschera che indossa per nascondere a tutti i suoi reali sentimenti. E so anche che adesso che l’ha indossata non sarà stato affatto semplice spezzarla.

Ma forse è meglio così.

Edward non deve sapere. Non deve sapere che quello che provo va ben oltre la semplice attrazione, o la semplice infatuazione. È qualcosa di molto profondo, eccome.

I suoi occhi spezzano il nostro legame visivo, e si avvia nel giardino, sotto la pioggia scrosciante.

«Mi dispiace» vorrei urlare, ma non posso. Non devo. Mi limito a sussurrarlo, quando la sua immagine è ormai offuscata dalla nebbia, e quando lui è troppo lontano per sentirmi. Troppo lontano per sentire anche solo l’eco dei miei singhiozzi soffocati.

 

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DOMANI ARRIVA IL PRIMO CAPITOLO :) COSA NE DITE?

PS: IL RATING POTREBBE ALZARSI IN SEGUITO

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Capitolo 2
*** Capitolo 1__Fuggire ***


Don’t Leave Me Alone

 

Capitolo 1__Fuggire

Venerdì 25 Settembre

Bella - Io amo e vivo in silenzio, ma dietro ogni sorriso nascondo una lacrima di dolore. (Jim Morrison)

Il brusio generale mi infastidisce, ma al contempo mi riempie di sollievo: finalmente sono lontana dall’orribile luogo fatto di silenzio da cui provengo.

L’aeroporto di Jacksonville è molto più piccolo di quello di Seattle, ma perlomeno mi permette di non perdermi nella confusione generale. Non sono molto brava ad orientarmi, e ancora non so come farò in questa città.

Forks non vanta di certo un’area geografica così ampia, tanto meno così tanti abitanti!

Spingo il mio trolley in mezzo alla folla, issando per bene sulla spalla lo zaino che dovrebbe contenere il mio ‘gioiellino’.

Quando varco la porta dell’atrio degli arrivi rimango abbagliata dal sole autunnale. Mi porto una mano al viso, coprendo gli occhi.

Da quanto non vedo un raggio di sole simile? Da almeno un anno, questo è certo. L’ultima volta che sono venuta a trovare mia madre è stato due estati fa, se non sbaglio.

«Bella?» una voce cerca di sovrastare il brusio generale.

Abbasso il braccio, e socchiudo gli occhi, scrutando i visi delle persone che mi circondano.

«Bella!» mi volto giusto in tempo per scorgere una macchia castana, dopodiché affondo in essa. Due braccia sottili mi cingono le spalle, stringendomi a un corpo femminile.

«Mamma!» esclamo, imbarazzata e al contempo sorpresa. «Attenta!» rido, riferendomi allo zaino che per poco non mi scivola dalla spalla.

«Oh, tesoro, finalmente sei arrivata!» mi stritola fra le sue braccia, iniziando uno dei suoi lunghi sproloqui. «Sapevo che prima o poi ti saresti stancata di quella città! L’ho sempre detto che è troppo soffocante e depr-».

«Mamma?» la interrompo, prima che possa iniziare a parlarmi della sua vita prima e dopo la mia nascita. E poi non mi ha ancora lasciata andare! «Possiamo parlarne dopo?».

Mi divincolo dalla sua stretta, mentre lei annuisce entusiasta come sempre. Alla sue spalle noto Phil, suo marito, che una specie di ‘mentore’ per me. «Ciao Phil!» sorrido, contenta di rivederlo.

«Ehi Bella!» mi viene vicino, sorridente. Lancia uno sguardo allo zaino che porto in spalla, «Sempre insieme, vedo» ammicca.

Arrossisco, abbassando lo sguardo. «Certamente…» sussurro.

Accidenti. Avrei dovuto immaginare che Phil avrebbe accompagnato mamma a prendermi.

«Più tardi che ne dici di…» sgrano gli occhi, ma mia madre Renèe corre in mio aiuto.

«Phil, caro, credo che Bella sia stanca. Rimandiamo tutti i progetti a domani, va bene?» chiede melliflua, prendendo a braccetto il marito.

Chi li vedrebbe non direbbe assolutamente che si tratta di marito e moglie: mia madre, Renèe, ha 37 anni, e il suo viso mostra già i segni dell’età, mentre quello di Phil, che ha solo 29 anni, è simile a quello di un ventenne. Ancora mi chiedo come abbiano fatto a innamorarsi: ma si dice che l’amore non ha età. Però sono contenta per mia madre: finalmente sembra aver trovato qualcuno capace di starle accanto e di amarla.

«Certo, tesoro» acconsente Phil, perplesso. Tende la mano, e prende il manico del trolley. «Vuoi che ti porto lo zaino?» mi chiede, gentilmente.

«No!» esclamo, con troppa enfasi. Le sue sopracciglia scure si congiungono per un istante. «Cioè…» mi schiarisco la voce, a disagio, «Preferisco portarla io…».

Phil mi sorride, comprensivo. «Capisco».

Non appena si volta, facendoci strada verso l’uscita dall’aeroporto, mia madre si volta, rivolgendomi un’occhiata preoccupata. Rispondo con una semplice scrollata di spalle, e inizio a seguirli, diretta verso Jacksonville.

 

«Eccoci arrivati» sorride mia madre, aprendo la portiera e scendendo dall’auto. Io indugio ancora alcuni secondi sul cellulare spento, ripromettendomi che presto lo accenderò, e poi scendo dalla macchina, ritrovandomi in un piccolo cortile, dove l’aria soffia calda. Prima ancora di fermarmi ad osservare la casa mi assicuro che il mio zaino sia fra le mie mani.

Davanti a me si trova una piccola casetta, molto graziosa, a due piani. Un piccolo sentiero conduce ai pochi gradini che portano alla veranda, dove si trova la porta d’ingresso.

Phil estrae il mio trolley - molto leggero - dal baule, e lo adagia sul pavimento, mentre io e mamma rimaniamo ferme davanti la villetta.

«Ti piace?» mi chiede Renèe, sfiorandomi un braccio.

«Sì» rispondo, con un sorriso.

Mi aveva raccontato di essersi trasferita con Phil in una nuova casa, e devo ammettere che questa è decisamente migliore di quella che avevano in precedenza. Penso sia anche molto più vicina alla spiaggia.

In parte è costruita con mattoni, mentre il retro è in legno. Dietro c’è anche un garage per l’auto.

Carina.

Seguo mia madre e suo marito verso l’ingresso, e quando entro mi ritrovo in un ambiente confortevole, dove si respira un’atmosfera di pace e serenità.

Il soggiorno - che funge anche da ingresso - è molto soleggiato, grazie alle due grandi finestre, ed è molto semplice: un divano beige, un tavolino in legno e un televisore a cristalli liquidi.

Una scala bianca conduce al piano superiore, mentre una porta a destra dell’ingresso conduce alla cucina.

Come sistemazione è molto simile alla casa di Charlie, a Forks. Al pensiero ho uno strano senso di vertigini. Non ci devo pensare.

Phil appoggia le chiavi su un comodino vicino la porta, e si dirige con la mia valigia al piano superiore.

«Vieni, Bella!» mi incita, raggiungendo il pianerottolo.

Lo seguo subito, e mi ritrovo in un piccolo corridoio con quattro porte. Vedo Phil affacciarsi da quella subito a sinistra.

Lo raggiungo, ed entro in una piccola stanza con le pareti bianche e una finestra abbastanza ampia. Un piccolo letto si trova vicino ad essa, mentre a sinistra è posizionata una scrivania con alcune mensole completamente vuote.

«Puoi stare qui, per adesso» mormora Phil, dirigendosi verso la porta.

«Per adesso?» chiedo, confusa.

Non capisco. Non è questa la mia stanza?

Phil sorride, agitato. «Tranquilla, sta pensando a tutto tua madre» dice, e poi sparisce lungo il corridoio.

Certo che quell’uomo si comporta in maniera davvero strana a volte…

Mi siedo sul letto, sbadigliando.

Una piccola sveglia sulla scrivania segna quasi le sette di sera.

Tra qui e Forks ci sono tre ore di differenza, quindi là dovrebbero essere ancora le quattro del pomeriggio…

Forse… dovrei chiamare papà… dirgli che sono arrivata…

Scuoto il capo. No. Ho deciso: basta interferire nella vita di mio padre.

Se vorrà sarà lui a chiamarmi.

Sfilo il cellulare dalla tasca dei jeans e lo abbandono sulla scrivania, dopodiché mi inginocchio davanti alla valigia, aprendola.

Prendo degli abiti puliti che ho messo da parte - tutte le mie cose dovrebbero arrivare tra qualche giorno da Forks, compresi i miei vestiti - e inizio la ricerca del bagno lungo il corridoio, pronta ad una rilassante doccia.

 

«Bella?» sollevo lo sguardo dal piatto di lasagne preconfezionate, incuriosita dal tono grave che ha assunto improvvisamente la voce di Renèe.

«Ascolta, domani mattina ho un incontro con una mia amica, e vorrei che venissi con me.»

La osservo senza capire. «Perché?».

Mamma si scambia un’occhiata indecisa con Phil.

Suo marito si schiarisce la voce, prima di parlare: «Bella, te ne sei andata da Forks perché avevi bisogno di cambiare vita, giusto?».

Annuisco, perplessa.

«Ecco. Noi pensavamo che forse la cosa migliore per farlo è…».

«Ricominciare tutto da capo» conclude al suo posto mia madre, scrutandomi.

Rimango in silenzio alcuni secondi, prima di capire ciò che possono voler dire quelle parole.

«Quindi… non mi volete qui?» mormoro, sentendomi improvvisamente come un ospite sgradito. Abbasso lo sguardo, preoccupata.

«No! No, tesoro, non devi pensare a questo!» esclama mia madre, allungando le mani sul tavolo per prendere le mie. «Noi stiamo solo pensando al tuo futuro».

«È così, Bella» interviene Phil, alzandosi da tavola e venendomi vicino. «So che vuoi proseguire gli studi all’università di Belle Arti e cercare un posto nel mondo dello spettacolo. L’università di Jacksonville non offre un corso di questo genere, e di certo gli sbocchi nel mondo del lavoro non sono molti…».

Sollevo lo sguardo. «Quindi dove vorreste mandarmi?» chiedo, con una nota di risentimento nella voce.

Mia madre sorride, titubante. «Te lo dirò domani. Vorrei che prendessi davvero in considerazione la possibilità di studiare lontano dalla famiglia, soprattutto se ciò comportasse una maggiore possibilità di lavoro in futuro».

Annuisco debolmente, scossa.

«Vedrai che poi non sarà cos-».

«Scusate, sono molto stanca, vi dispiace se vado subito a letto?» interrompo Phil, che sta per iniziare uno dei suoi discorsi di incoraggiamento, e senza aspettare una risposta mi alzo, scostando la mano del mio patrigno. Sulle labbra un sorriso.

Lascio la cucina, che piomba nel silenzio.

 

Quando finalmente sono chiusa nella camera che mi ospita, il sorriso che fino a un attimo fa avevo dipinto sul viso scompare. Le labbra tremano, e i suoi angoli cedono, dipingendo una smorfia. Mi accascio a terra, lasciando scivolare la schiena contro il legno della porta. Stringo le gambe al petto.

Alcuni singhiozzi mi scuotono il petto, e affondo la testa fra le braccia.

Mi sento sola. Tremendamente sola.

Perché ovunque io vada nessuno mi vuole?

Perché nessuno vuole stare con me?

Cos’ho di sbagliato? Per quale motivo non riesco ad essere una buona compagnia? Una brava figlia? Una buona… amica?

Soffoco un singhiozzo più forte degli altri, e il respiro mi manca per alcuni secondi.

Sotto il letto scorgo il mio zaino, la mia custodia dei sogni. Dei miei sogni infranti.

Mi avvicino a carponi, estraendola da quel luogo buio.

L’unica luce nella stanza è data dall’abat-jour sul comodino, che avevo lasciato accesa fin da prima di andare a cena.

Tiro la lunga cerniera della custodia, seguendone il profilo bombato.

Prima di sollevare la stoffa nera prendo un profondo respiro, mentre le lacrime scorrono più veloci.

Sposto il tessuto, e rivelo il mio tesoro. O perlomeno quel che resta di lui.

Tendo le mani per prendere delicatamente il manico. La paletta ondeggia, tenuta collegata solo da due fili di metallo.

La mia chitarra.

Singhiozzo più forte quando tento inutilmente di avvicinare la paletta al manico, come per volerli riattaccare. Ma è tutto inutile.

Sono già due giorni che non suono. Di solito quando sono così triste suono sempre, per dimenticare almeno per un momento i miei problemi.

E adesso ne avrei davvero bisogno.

Scuoto il capo. Sono adulta, ho ventiquattro anni, devo essere forte, non posso piangere per ogni minima cosa. È stata Leah a distruggermela.

Leah. Al solo pensiero mi va il sangue al cervello.

Come ha osato?! Come?!

Per una cosa che non ho nemmeno commesso!

Al diavolo!

Ributto la chitarra distrutta dentro la custodia, senza nemmeno chiuderla, e la spingo con forza di nuovo sotto il letto.

Mi accoccolo contro il muro, in lacrime.

Perché la mia vita deve fare così schifo?!

Perché non sono ancora riuscita a trovare il mio posto nel mondo?!

Sento gli occhi chiudersi per la stanchezza, e dopo essermi cambiata mi ritiro sotto le coperte.

Ho sonno. Spero solo che almeno i miei sogni siano migliori della realtà che mi circonda.

 

«Per favore Bella, cerca di ascoltarla, va bene?».

Annuisco per l’ennesima volta.

Renèe apre finalmente la porta di una sala da tè, e l’aroma dolciastro delle tisane ci colpisce in pieno.

Mi guardo intorno, cercando di capire chi potrebbe essere la fatidica amica del college di mamma.

I miei occhi incontrano quelli verde chiaro di una donna dall’aspetto giovane e fine. Ci sta osservando sorridente.

Subito mia madre corre incontro alla donna che ho adocchiato, che nel frattempo si è alzata in piedi.

«Esme!» strilla Renèe, energica come suo solito. Si scambiano un abbraccio carico d’affetto, e la voce dolce dell’amica di mia madre mi colpisce subito.

«Renèe! Sono contenta di rivederti!».

Io mi avvicino lentamente, restando a pochi passi da loro, in silenzio.

Non appena si separano, mia madre si sposta, per permettere all’amica la mia visuale.

«Lei è Bella» sorride, fiera.

La donna mi sorride dolcemente, tendendomi la mano chiara. «Piacere Bella. Io sono Esme».

La stringo titubante, abbassando lo sguardo, in imbarazzo. «Piacere…».

Quando Esme ci invita ad accomodarci al tavolino, noto nel suo modo di fare una raffinatezza mai vista prima. Tutti i suoi gesti sembrano carichi di una grazia naturale, persino quando parla.

Passo la maggior parte del tempo ad ascoltare i loro discorsi, imperniati sugli anni dopo il college. Da quanto ho capito sono alcuni anni che non si vedono.

Al pensiero mi sento in imbarazzo. Mia madre ha forse ripreso i rapporti con questa donna solo per aiutarmi?

Scuoto il capo. No, si vede che c’è vero piacere dietro gli sguardi di mia madre.

«Allora Bella», Esme mi riporta alla realtà, sorridendomi gentile, «Renèe mi ha detto che sei scappata da Forks».

Non esibisce un sorriso tirato, o un ghigno, o una smorfia, come mi aspetto da chiunque venga a sapere che ho lasciato Forks e la mia famiglia. Il suo è un sorriso e uno sguardo gentile, comprensivo.

«Ehm… Sì…» borbotto, imbarazzata.

«Posso capirti. Non deve essere facile vivere in un posto simile. Mi ricordi troppo tua madre, sei uno spirito libero». Mia madre ridacchia, mentre io abbasso lo sguardo. Non mi piace essere vista come una copia di mia mamma. Le voglio bene, ma certi suoi comportamenti mi danno i nervi.

«Ti piacerebbe vivere a New York?».

Sollevo lo sguardo, colpita. «Cosa?!».

Esme mi sorride. «Ho saputo che frequenti l’università di Belle Arti, e che ti piacerebbe un lavoro nel mondo dello spettacolo». Apre la borsetta, estraendo un depliant, e lo osserva. «A New York c’è un’università che ti offre questa possibilità, ed io sarei felice di aiutarti».

Mi tende il foglietto, che riporta un nome: New York University.

Lo sfoglio, curiosa. Ci sono vari indirizzi, e uno di questi è proprio quello delle Belle Arti.

«Lei è molto gentile…» mi interrompe, chiedendomi di darle del tu, «Ma… in qualunque caso non saprei dove andare a vivere… la scuola si trova a Manhattan e gli appartamenti lì sono molto cari…».

«Non è un problema quello» mi sorride sempre, Esme.

Mia madre interviene, entusiasta. «Esme ti offre l’opportunità di vivere con sua figlia, che ha la tua età, ed abita in centro. Così non dovrai fare altro che prendere la metropolitana o il taxi per andare a scuola».

Rimango sconvolta da tutte queste informazioni.

«I-Io… non vorrei disturbare… Non vorrei essere di troppo per tua figlia…» mormoro, avvampando al pensiero di vivere in compagnia di qualcun altro che è per me uno sconosciuto.

«Oh, Alice sarebbe entusiasta! È una ragazza molto estroversa, e passa la maggior parte del suo tempo a lavoro». Beve una sorsata di tisana. «E poi, questa sarebbe solo una sistemazione temporanea. L’appartamento di fianco a quello di Alice è in restaurazione, e non appena sarà pronto potrai trasferirti lì. È della mia famiglia, quindi non dovrai pagare niente».

«Sei davvero gentile, ma… io non vorrei approfittare della tua gentilezza…».

«Bella» Esme appoggia la sua tazza di tè, e mi prende le mani. «Io e tua madre abbiamo affrontato una situazione simile alla tua. Credimi, non è stato facile arrivare dove siamo ora, e se posso risparmiare tutta questa fatica alla figlia della mia migliore amica allora sono ben disposta a farlo».

Sorrido, imbarazzata. «G-Grazie».

«Facciamo così: ti lascio il mio numero, e quando avrai preso una decisione chiamami. Sarei voluta restare per non farti fare il viaggio da sola, nel caso accettassi, ma domani dovrò tornare a casa». Esme tira fuori dal portafoglio un biglietto da visita, e una manciata di banconote.

«Vai già via, Esme?» chiede mia madre, triste.

«Purtroppo sì. Il mio cliente mi aspetta per concludere l’affare».

Ci alziamo tutte in piedi, mentre Esme placa l’insistenza di mia madre per offrire lei da bere.

«Allora, Bella, ci sentiamo presto» mi saluta, abbracciandomi teneramente.

«Va bene…».

Io e mia madre la seguiamo fino al parcheggio, dove sale a bordo di un’auto a noleggio.

Dopo gli ultimi saluti la osserviamo mentre si allontana. Cosa devo fare?

 

«Pronto?».

«Papà…».

«Bella! Sei tu? Come stai? Come è andato il viaggio? Tornerai presto? Io…».

«Papà, calmati. Sto bene… Io… ho bisogno di chiederti un parere…».

Charlie resta alcuni secondi in silenzio. È teso, lo sento.

«Sto pensando di trasferirmi a New York…» mormoro, osservando il depliant che mi ha dato questa mattina Esme. Sono già le nove di sera, e fino ad ora non avevo avuto il coraggio di accendere il cellulare. Fifona.

«A New York?». La voce mi appare spaventata.

«Sì… c’è un’ottima scuola di Belle Arti, e un’amica della mamma mi ha offerto di andare a vivere con sua figlia…».

«Bella, ma sei proprio sicura? Non vuoi più tornare qui a Forks? E la scuola di Seattle? Se ho fatto qualc-».

«Papà, tu non c’entri niente in questa mia decisione…» mormoro, nervosa. «Ho bisogno di cambiare vita. Non riesco più a restare sotto la pioggia… E poi ho scoperto che la ragazza con cui abiterò ama cantare, così non avrò più problemi». Accenno una risata. Così non darò più fastidio a Sue. «Davvero papà, credo che sia meglio… che io non torni a Forks… Almeno per il momento. L’importante è che tu sia felice… con Sue».

«Bella, se è per Sue che te ne sei andata…».

«No, no! Papà, non è così, davvero!». Bugiarda. «Ti prego, non pensare che sia per quello».

Charlie resta in silenzio per alcuni secondi. «Quindi andrai a New York?».

«Sì».

«Va bene…». Lo sento sospirare. «Devo… inviarti qualcosa? Non so… vestiti… oggetti?».

«Ehm… magari qualcosa… ti dirò poi più avanti, okay? Ho già avvisato la compagnia di spedizioni di annullare l’ordine per Jacksonville».

«Va bene….».

«Buona notte, papà».

«Buona notte, Bells. Fai attenzione…».

Chiudo la telefonata.

Prendo alcuni profondi respiri, prima di lanciare un’occhiata all’orologio.

Le nove e pochi minuti. Sarà ancora sveglia?

Compongo velocemente il numero, con il cuore che batte all’impazzata.

«Pronto?» chiede una voce, dall’altra parte della linea.

Coraggio, Bella.

«Esme… Sono Bella… Accetto».

 

Sabato 26 Settembre

Edward

«Signor Cullen…».

La voce del maggiordomo di villa Cullen mi ridesta dalla contemplazione dei tasti d’avorio. Alzo lo sguardo, incontrando il volto maturo di Aro.

«È arrivata una lettera dalla scuola…».

Aro mi tende una busta, dove è stampato lo stemma della scuola in cui sono stato circa un mese fa. La prendo con mani tremanti.

«Grazie, Aro».

Aspetto che esca dalla grande sala, dopodiché prendo un profondo respiro, prima di iniziare a scartare la lettera.

Do’ una breve lettura al contenuto, ma mi basta leggere le prime due righe.

Con forza straccio via il foglio, lanciandolo a terra.

Mi passo una mano fra i capelli ribelli, frustato.

Cosa faccio adesso?

Con irruenza mi alzo dallo sgabello, lasciando la casa.

‘Gentile Signor Cullen, siamo spiacenti di informarla che la sua domanda di iscrizione alla Juilliard School è stata rifiutata.’

 

 

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SET DI BELLA


QUESTO CAPITOLO SERVE PRINCIPALMENTE A INQUADRARE LA SITUAZIONE PRIMA DI ENTRARE NELLA STORIA :) GRAZIE INFINITE AI 6 ANGELI CHE HANNO COMMENTATO LA PREFAZIONE E A QUELLI CHE HANNO AGGIUNTO LA STORIA FRA LE PREFERITE E LE SEGUITE :D :D TRA UNO O DUE GIORNI POSTO IL SECONDO CAPITOLO SE VI PIACE :D BYE BYE ^^

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Capitolo 3
*** Capitolo 2__Incontri ***


HOLAAAAAAA :D :D :D

WAAAAA 9 RECENSIONI??? ODDIO, SIETE TROPPO BUONEEEEE *_____*

CherryBomb_ ECCO :D SPERO DI AVER POSTATO ABBASTANZA PRESTO :) GRAZIE MILLE *-*

samy88 AHHH TU SEI TROPPO BUONA *___* GRAZIE INFINITE :D

mamarty GRAZIE :D ME LO PRENDEREI VOLENTIERI ANCH'IO EDWARD *-* XD XD XD

ChiaraBella CERTO, CERTO, CI SARANNO TUTTI :D SALTERANNO FUORI CAPITOLO PER CAPITOLO ^^

yle_cullen GRAZIE *-* COMUNQUE SI', CAMBIERANNO LE COSE ^^

manuelitas GRAZIE MILLE :D HO POSTATO ABBASTANZA PRESTO? :D

DanzandoInPuntaDiSogni OH MA GRAZIE INFINITEEE :D :D ECCO IL SECONDO CAPITOLO ^^

piccolinainnamora GRAZIE :D :D

rodney :D PIU' AVANTI SI SAPRA' COSA E' SUCCESSO A FORKS :)

GRAZIE INFINITE ANCHE A CHI LEGGE SOLTANTO *.*

ECCO IL SET DELLA PRIMA META' DEL CAPITOLO, IN FONDO C'E' L'ALTRO :) A PRESTO ^^

SET BELLA&ALICE

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Don’t Leave Me Alone

 

Capitolo 2__Incontri

Sabato 26 Settembre

Bella - Non c'è notte tanto grande da non permettere al sole di risorgere il giorno dopo. (Jim Morrison)

«Eccoci arrivate».

La voce di Esme mi ridesta dal mio stato catatonico.

«Hm?». Alzo lo sguardo, concentrandomi sull’edificio che si erige al di fuori dal finestrino dell’auto sulla quale mi trovo.

Oh. Mio. Dio.

È enorme.

Un grattacielo, posto all’angolo fra la 5th e la 56th, spicca nel cielo di Manhattan, con l’ingresso vicino a una delle vie più famose di tutta New York City. È completamente rivestito da vetri, sui quali si riflette l’immagine della città che non dorme mai.

Scendo dall’auto - di proprietà della mia accompagnatrice, e fornita, oltretutto, di autista -, titubante, seguita da Esme. Cullen, così mi ha detto.

«Wow…», sussurro, mentre alzo lo sguardo per vedere quanto potrebbe essere alto l’edificio davanti a me. Santo Cielo, non riesco nemmeno a capire dove termina.

Ci troviamo su una via minore, e poche persone circolano da queste parti.

Mi trovo davanti ad un ingresso con due porte girevoli, mentre alla sua destra una fila di vetrine fanno bella mostra di sé, illuminate e colme di ricchi e particolari vestiti: un negozio di Armani.

Dall’altra parte della strada, ad angolo, c’è quello di Gucci.

Wow, wow, wow. Non sono una maniaca dello shopping, ma ritrovarsi circondate da simili vestiti farebbe piacere a chiunque.

Il marciapiede della Fifth è affollato da persone di tutti i generi ed età, anche se la maggior parte di esse hanno fra le mani telefoni cellulari o valigette, e ad occhio e croce spaziano in un’età compresa fra i venti e i quarant’anni.

Mentre rimango incantata ad osservare tutto ciò che mi circonda, non noto che l’autista - Caius - ha già scaricato le mie valigie, e che mi sta attendendo insieme ad Esme per entrare nel grattacielo.

Arrossisco, seguendoli.

Appena giriamo le porte girevoli mi ritrovo catapultata in una deliziosa hall, al centro della quale è posizionato un tavolo rotondo, con un vaso di rose rosse, e con disposti intorno ad esso due divanetti neri. I muri sono bianchissimi, e il pavimento è in marmo chiaro, mentre al centro della stanza, a terra, è posizionato un grosso tappeto color panna. Davanti a noi c’è una saletta, che suppongo conduca all’ascensore. A sinistra, invece, un bancone è incassato nella parete.

Ai lati delle porte girevoli si trovano due uomini, entrambi robusti e vestiti rigorosamente in nero, con un paio di occhiali a nascondergli gli occhi e l’auricolare nell’orecchio.

Esme mi conduce attraverso l’ampia hall, fino a raggiungere una piccola saletta, dove si trovano quattro ascensori, due per lato.

Mamma mia.

«L’appartamento di Alice si trova al trentesimo piano» mi dice Esme, infilandosi dentro a un ascensore che si è appena aperto. Io e l’autista la seguiamo.

Tutto è tremendamente, terribilmente, lussuoso. Un bel cambiamento dalla piccola catapecchia di Forks.

L’ascensore inizia a salire velocemente, e in una decina di secondi ci ritroviamo al trentesimo piano. Accidenti.

Esme ci guida in un piccolo corridoio, dai muri bianchi e un lungo tappeto nero, arrivando davanti a due porte, una dirimpetto all’altra. Mi indica quella a sinistra.

«Questo è il tuo appartamento. Purtroppo è ancora da sistemare, ma credo che nel giro di un mese dovrebbe essere a posto» mi informa, sorridendo.

Annuisco, arrossendo. «Non è un problema per me. Mi dispiace crearvi tutti questi problemi, soprattutto a tua figlia».

«Oh, non ti preoccupare. Sono più che sicura che Alice sarà talmente felice di avere qualcuno con cui vivere che non vorrà più farti andare via».

Esme si avvicina alla porta a destra, e infila nella toppa una chiave scelta da un enorme mazzo appena estratto dalla tasca. In pochi secondi la serratura scatta, ed abbassa la maniglia, spalancando la porta laccata di nero come l’altra.

Mette un piede dentro. «Alice?».

Invita me e l’autista a entrare, e subito quest’ultimo non appena appoggia le valigie a terra si congeda da me, con un breve inchino, informando Esme che l’avrebbe attesa in auto.

«Arrivo!» urla qualcuno, dall’appartamento.

Appena entro mi ritrovo in un ambiente ampio e luminoso, rigorosamente in stile moderno.

Le pareti e i pavimenti sono bianchi come lenzuoli, e due lampade a muro illuminano la stanza rettangolare: il salotto. Un divano bianco e nero è disposto al centro della stanza, rivolto verso la parete a sinistra, che ospita una libreria con televisore al plasma; ai piedi c’è un tappeto, nero, e una poltroncina senza braccioli dello stesso colore, più un tavolino ovale in cristallo, che è attaccato alla parete; sopra di esso pende un grosso lampadario bianco e rotondo, acceso.

Esme mi spinge ad avanzare, arrivando vicino al divano. La parete di fronte a me ospita un’enorme libreria, in legno laccato bianco, colma di libri e souvenir; alla destra di essa c’è una porta, nera, mentre la parete alla mia destra presenta una porta di vetro, attraverso la quale scorgo alcuni ripiani da cucina.

La porta davanti a noi si spalanca improvvisamente, e una ragazza fa il suo ingresso nel soggiorno.

«Eccomi!» trilla, allegra, avvicinandosi a me. I capelli sono castani, e pettinati in maniera singolare, facendole assumere un’aria sbarazzina. I lineamenti del viso sono dolci, e gli occhi sono di un azzurro brillante, come quelli di Esme. È minuta, ma decisamente graziosa.

«Alice, lei è Bella» sorride Esme, indicandomi con la mano.

Arrossisco, mentre lei mi scruta. Un sorriso radioso spunta sul suo viso.

«Sono sicura che diventeremo grandi amiche!» esclama, battendo le mani come una bimba.

Abbasso lo sguardo, in imbarazzo.

«Ne sono sicura» dice Esme, sorridendo. «Purtroppo Bella non posso accompagnarti fino all’università… ho un incontro urgente e…».

«Non ti preoccupare, mamma. Posso accompagnarla io!» la interrompe, Alice, entusiasta.

Arrossisco. «Non è necessario… state già facendo così tanto per me, non voglio essere ancor di più un peso…»

«Non sei un peso, Bella!» trilla felice, Alice. «Fino all’anno scorso andavo a scuola lì quindi posso accompagnarti!».

Wow, davvero? Andava alla New York University?

Sorrido, rincuorata. «Grazie».

Esme lancia un’occhiata al suo orologio da polso, sussultando. «Cielo, è tardissimo! Devo andare». Si gira verso di me, accarezzandomi una guancia. «Spero che ti troverai bene, qui, cara».

Sorrido. «Grazie, Esme… per tutto».

Lei sorride amorevolmente, dopodiché esce dall’appartamento, lasciandomi sola con Alice.

«Vieni!» esclama, prendendomi per un braccio. «Ti faccio vedere la tua stanza!».

Mi trascina oltre la porta da cui è apparsa, e ci ritroviamo in un piccolo corridoio, che presenta tre porte nere e una di vetro alla mia destra, che porta - come quella in sala - alla cucina.

Mi indica proprio quella stanza. «Qui c’è la cucina». Poi si volta verso la porta davanti a noi. «Questa invece è la mia camera».

Annuisco, e lei mi spinge lungo il corridoio. La porta centrale la indica come il bagno, e si ferma quando arriviamo all’ultima.

«Ecco la tua camera».

Spalanca la porta, e mi invita ad entrare. Oh. Mio. Dio.

È bellissima.

La stanza è in colori chiari: a terra il pavimento è in pietra chiara, mentre le pareti sono color pastello. La parete di fondo è un’intera vetrata, che dà sulla città. Mio Dio.

A sinistra è posizionato un letto matrimoniale, con ai lati due piccoli comodini; davanti al vetro si trova una cassettiera. La parete a destra è interamente occupata da un’enorme armadio, in legno laccato. A terra c’è un tappeto, mentre due lampade da pavimento sono poste ai lati della stanza.

Avanzo di qualche passo, a bocca aperta.

«Ti piace?» mi chiede Alice, alle mie spalle.

«È… è bellissima» mormoro.

Lei saltella al mio fianco, felice.

«Ti va di andare alla scuola?».

Annuisco. Prima ritorno a studiare, meglio è.

«Dammi solo il tempo di farmi una doccia e arrivo».

Alice sorride, e la seguo oltre la porta per andare a recuperare le valigie nell’ingresso.

Si ferma prima di entrare nella sua stanza. «Ah… Bella», mi chiama.

Mi fermo in mezzo al salotto. «Sì?».

Scrolla le spalle, con fare innocente. «Hai qualcosa di leggero da indossare?».

Strabuzzo gli occhi. «A dire il vero no… Da dove vengo io le temperature non superano i venti gradi».

Alice sorride, e mi pare di scorgere una scintilla nei suoi occhietti azzurri. «Non ti preoccupare, allora. Per i vestiti ci penso io».

Apro la bocca per replicare, ma lei mi precede, alzando un dito. «Fila a farti la doccia. Ti lascio tutto l’occorrente sul tuo letto».

Si chiude la porta della sua stanza alle spalle, e per me è impossibile replicare.

Sospiro. Non so perché, ma sono preoccupata.

 

Non sono certa che permettere ad Alice di prestarmi gli abiti sia stata una buona idea. Per niente.

Un ragazzo dall’aspetto rude mi lancia occhiate di fuoco, lasciando scivolare più del dovuto il suo sguardo sulle mie gambe nude. Proprio così, nude.

La mia nuova ed iperattiva coinquilina mi ha gentilmente offerto alcuni dei suoi vestiti, ovvero un top vaporoso e un paio di shorts bianchi, e come se non bastasse mi ha anche prestato un paio di scarpe - a quanto pare abbiamo lo stesso numero - con un tacco che per me equivale a cadute assicurate.

Sia chiaro, apprezzo la sua gentilezza, ma qualcosa di più coprente sarebbe stato meglio. Effettivamente, però, devo ammettere che qui a New York fa molto caldo, sebbene Settembre stia già giungendo al termine. Ci sono almeno venticinque gradi.

Io ed Alice ci troviamo in una saletta d’attesa, davanti alla porta dell’ufficio del preside della New York University, e quel tipo non la smette di fissarmi. Mi mette a disagio.

La porta dell’ufficio del preside finalmente si apre, ed una ragazza esce. Una donna si affaccia nella sala d’attesa.

«Isabella Swan?».

Grazie, Signore.

Mi alzo in piedi, ed Alice mi sorride. Mi aspetterà qui.

Entro nell’ufficio, più felice che mai.

 

«Allora inizierai già domani?» mi chiede Alice, mentre siamo in taxi. L’incontro con il preside è appena terminato, ed è andato più che bene.

Sorrido. «Sì, non vedo l’ora. Questo corso sembra molto più completo di quello di Seattle».

La mia amica annuisce, e il taxi si ferma davanti a un grattacielo. «Io sono arrivata».

Alice ha la mia stessa età, ed ha terminato l’università meno di un anno fa. Aveva frequentato il corso per stilisti, ed adesso ha trovato lavoro presso una casa di moda.

«Sicura di non voler rimanere con me?» mi chiede, prendendo la borsa.

Scuoto il capo, sorridendo. «No. Vado a fare un giro e poi torno a casa. Devo ancora recuperare le ore di sonno» la rassicuro. Non sono abituata a viaggiare in aereo, e anche se il volo da Jacksonville a qui è durato poche ore mi sento comunque scombussolata.

Alice annuisce, comprensiva.

«Attenta a non perderti» ride, chiudendo la porta alle sue spalle.

Sorrido, pensando alla mia nuova vita. Sembra passata un’eternità da quando ho lasciato Forks.

«Dove vuole andare?».

La voce del conducente del taxi mi riscuote.

Ci penso alcuni secondi, indecisa, ma poi l’istinto ha la meglio.

«A Broadway».

Basta rimuginare sul passato. È il momento di pensare solo al futuro.

 

Edward

«Edward, mi stai ascoltando?».

La voce di mia madre mi riscuote dal vortice di pensieri che stanno affollando la mia mente.

«Hm?».

Esme sospira, abbassando gli occhi sul suo piatto di lasagne.

Ci troviamo in uno dei ristoranti italiani più famosi di New York. È stata lei a chiedermi questo incontro, e conosco anche il motivo: vuole sapere l’esito del provino per entrare alla Juilliard.

Sono più che certo che sia già venuta a sapere tutto, ma vuole sentirselo dire da me.

«Niente, lascia stare. Ricordati solo che da adesso tua sorella non abita più da sola» mi dice Esme.

Mi scappa quasi una risata. Come se prima fosse stata sempre sola. Jasper passa più tempo a casa di Alice che nel suo appartamento in affitto. Ovviamente questo mamma e papà non lo sanno.

«Jasper si è trasferito da lei?» chiedo, curioso.

Esme mi lancia un’occhiata shoccata. «Assolutamente no. Si tratta della figlia di una mia cara amica; si è appena trasferita da Forks».

Scrollo le spalle. «Okay».

Fra di noi cala il silenzio, rotto solo dal brusio generale che regna nel locale.

«Edward, non vuoi parlare?» Esme rompe il silenzio, sospirando.

«Di cosa?» chiedo, brusco.

«Di qualunque cosa, ma, ti prego, parla» mi supplica mia madre.

Sospiro, e abbasso lo sguardo sul piatto davanti a me. «La Juilliard ha rifiutato la mia richiesta» soffio.

So che sto dando una grande delusione a mia madre. È da quando ho finito le superiori che sto cercando un lavoro o una scuola che finalmente mi permetta di realizzarmi, ma non sono ancora riuscito a trovare niente.

Speravo che la Juilliard fosse la mia occasione, ma mi sbagliavo.

«Potrai sempre riprov-».

«Mamma, ti prego…» mormoro, interrompendola.

Esme scuote il capo. «No, Edward. Io so quali sono le tue potenzialità, e sono certa che ci sia stato un errore. Forse non eri in piena forma quando hai fatto il provino e…».

«No!» esclamo, alzandomi da tavola. Esme apre la bocca, sgranando gli occhi. Abbasso lo sguardo, vergognandomi di me stesso. «Scusami, mamma» sussurro.

Mi allontano. Esco da quel luogo, allontanandomi da mia madre, che mi ha sempre appoggiato in tutto ciò che faccio. Ed io con cosa la ripago? Con insuccessi, lamentele e urla.

Sono una persona orribile. E come tale, scappo.

 

Stringo i pugni, camminando lungo la strada. Forse… forse potrei…

No. No, Edward, non mostrarti patetico anche agli occhi di sconosciuti.

Svolto all’angolo, con lo sguardo basso.

Arrivo davanti ad alcune vetrate, attraverso le quali scorgo i muri bianchi tappezzati di foto e diplomi. La Juilliard.

Mi fermo a pochi passi dall’ingresso, scorgendo alcuni ragazzi che camminano portando con loro sacche, libri e strumenti musicali.

Fino ad una settimana fa pensavo che anche io sarei stato fra di loro. Ero certo che nel giro di un mese mi sarei trovato dentro quella scuola, con gli spartiti in mano, a girare per le aule, per seguire le lezioni. Ne ero certo. Ma sbagliavo.

Scuoto il capo, e torno a guardare il marciapiedi.

Una figura, ferma dinanzi alle porte di vetro attira la mia attenzione. Seguo il suo profilo a partire dalle gambe dalla pelle chiarissima, fino a giungere alle spalle, coperte da una cascata di capelli castani, che ricadono in lunghi boccoli sulla schiena. Il volto è leggermente rivolto verso l’alto, per osservare meglio la struttura davanti a lei. Le labbra sono dischiuse in un’espressione di pura sorpresa.

Sicuramente è nuova. È una studentessa?

Osservo meglio il suo corpo. È molto magra… vuole fare la ballerina? Forse segue il corso di danza.

Provo un’improvvisa irritazione, mista a invidia, ma cerco di non mostrarlo.

Torno a fissare la scuola oltre la vetrata, affondando le mani nelle tasche dei jeans.

Attraverso il riflesso del vetro riesco a scorgere il profilo della ragazza: scuote il capo, e volge lo sguardo alla strada, prima a destra e poi a sinistra.

È meglio che me ne vada. Non mi aiuterà rimanere fermo davanti a questa scuola a compiangermi.

Mi volto verso il marciapiede. In fondo alla strada scorgo la Broadway, la più importante strada di Manhattan. La Juilliard School si trova infatti fra la Amsterdam Avenue e la Broadway, nell’Upper West Side, ovvero a sinistra di Central Park.

«Scusa…».

Una voce dolce e melodiosa mi ferma. Mi volto, incrociando lo sguardo della ragazza che fino a poco fa stava guardando la scuola estasiata.

Arrossisce vistosamente, e abbassa lo sguardo. «Mi puoi dire da che parte è la Fifth Avenue?».

Inarco un sopracciglio. Vuole arrivare alla via dello shopping?

«È da questa parte…» le indico la Broadway, verso la quale mi stavo dirigendo, «ma la strada è un po’ lunga. Devi andare fin oltre Central Park».

Alza lo sguardo, schiudendo le labbra.

Ridacchio. «Non hai idea di dove ti trovi, non è vero?».

Conosco bene questo genere di sguardo: è lo stesso che hanno tutti i turisti che arrivano qui a New York per la prima volta.

Scuote il capo, arrossendo ancora.

Scrollo le spalle. «Ti conviene prendere un taxi, allora».

Annuisce, sospirando. «Grazie».

Le do’ le spalle, e riprendo la mia strada verso la Broadway. Sempre attraverso il riflesso delle vetrate scorgo la ragazza seguirmi.

Appena arriviamo sulla strada principale si ferma al mio fianco, osservandomi mentre alzo una mano per richiamare un taxi. Ha le sopracciglia aggrottate.

Possibile che non l’abbia mai visto fare?

Sorrido, aprendo la portiera di un taxi che si ferma davanti a me.

«Ehi» la richiamo, mentre scruta a disagio la strada colma di auto di ogni tipo. Mi guarda, mordendosi un labbro. Le faccio cenno di salire sul taxi. «Prendi questo».

Dischiude le labbra, stupita.

«N-Non devi…» mormora.

Ridacchio. «Dai, sali. New York è piena di taxi».

Arrossisce violentemente, e si avvicina a me tenendo lo sguardo basso. Sale in auto, lanciandomi un’occhiata imbarazzata.

«Grazie» mormora.

Le richiudo la porta, allontanandomi per permettere al taxi di partire, dopodiché alzo nuovamente la mano.

Quando sono a bordo di un'altra auto mi rendo conto di ciò che ho appena fatto.

Da quando sono così altruista?

Scuoto il capo, dandomi dell’idiota.

Fino a un attimo prima provavo invidia e irritazione nei confronti di quella ragazza, perché probabilmente va a scuola alla Juilliard, e l’attimo dopo mi ritrovo fermo sul bordo della strada per cederle un taxi che ho appena fermato.

L'auto si ferma dopo pochi minuti davanti ad un enorme grattacielo, nell’Upper East Side. Scendo dall’auto, pagando il conducente, e avvicinandomi subito al portone. Una targa laccata d’oro riporta un cognome: Denali.

Premo per alcuni secondi il tasto del citofono, appoggiandomi alla colonna.

«Chi è?».

La voce del maggiordomo della famiglia Denali arriva alle mie orecchie, attraverso il ricevitore.

«Edward. Edward Cullen» rispondo, con voce annoiata, allontanandomi per permettere alla videocamera di inquadrarmi.

Subito dopo un bip metallico mi avvisa che la porta è stata aperta, così entro nella hall del grattacielo, salutando con un cenno del capo il portinaio nascosto dietro la reception.

Salgo sull’ascensore, che fortunatamente è già al piano terra, e in pochi secondi mi ritrovo nell’ampio ingresso della famiglia Denali.

I pavimenti sono in marmo pregiato, e le finestre sono ampie. Lo scalpiccio dei passi mi avvisa che qualcuno sta scendendo le scale. Procedo nell’ingresso, arrivando vicino al salotto, dove appare la figura del maggiordomo.

«Buongiorno, signor Cullen».

Faccio un cenno del capo.

La figura di una ragazza appare sulle scale, e si ferma sul terzo gradino, portando entrambe le mani sui fianchi sottili. Indossa una vestaglia.

«Edward, si può sapere che fine avevi fatto?! È da ieri che ti cerco!» sbuffa, irritata.

«Mi dispiace. Sono stato impegnato» rispondo, senza nemmeno cercare di scusarmi.

La ragazza fa gli ultimi tre scalini, correndo ad abbracciarmi. Le sue mani si posizionano sulla mia nuca, mentre appoggia il capo sul mio petto.

«Non fa niente, amore. L’importante è che ora sei qui» sospira, stringendomi.

Accarezzo la sua schiena, afflitto.

«Sì… sono qui, Tanya».

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Capitolo 4
*** Capitolo 3__Le stesse persone ***


ECCOMI RAGAZZEEE!!! ^^

DOPO UN MESE FINALMENTE RIESCO A POSTARE, SCUSATE LA LUNGA ATTESA :D :D

SONO STATA SOMMERSA DALLA SCUOLA, MA HO AVUTO IL TEMPO DI PREPARARE UNA SCALETTA ABBASTANZA DETTAGLIATA DELLA STORIA, COSI' DA NON RISCHIARE DI AVERE BUCHI NERI E POTER SCRIVERE PIU' REGOLARMENTE :) QUINDI SPERO DI RIUSCIRE A POSTARE PRESTO IL PROSSIMO CAPITOLO :D

ANCHE QUESTA VOLTA 9 RECENSIONI?? *___* GRAZIE INFINITE, DAVVERO.

 samy88 CARISSIMA *__* IN EFFETTI CERCO DI DEDICARMI IL PIU' POSSIBILE ALLE DESCRIZIONI SENZA ESAGERARE :) TANYA TI HA SCONVOLTA? MI SPIACE MA DOVREMO SORBIRCELA PER UN PO'. GRAZIE MILLE PER I COMPLIMENTI *-*

 ChiaraBella IN QUESTO CAPITOLO VERRANNO SCIOLTI ALCUNI DEI TUOI DUBBI :D :D SPERO TI PIACCIA ^_^

 Rebussiii  AHAHAH ^^ ANCHE IO ODIO TANYA MA VEDRAI CHE TORNERA' MOLTO UTILE IN FUTURO XD GRAZIE PER AVER RECENSITO *-*

mamarty  GRAZIE MILLE :D :D

 piccolinainnamora GRAZIE :D :D SPERO TI PIACCIA ANCHE QUESTO CAPITOLO :D

rodney  PER ALCUNE DELLE SPIEGAZIONI DOVRAI PAZIENTARE ANCORA UN PO', MI SPIACE :) MA VEDRAI CHE PRESTO TUTTI I DUBBI SI DISSOLVERANNO

 RenEsmee_Carlie_Cullen  EH, PURTROPPO TANYA E' OVUNQUE U_U

 pikkola_cullen94 MI SPIACE PER NON AVER AGGIORNATO IN FRETTA :( SPERO CONTINUERAI COMUNQUE A LEGGERE LA STORIA :) GRAZIE MILLE :)

 manuelitas TRANQUILLA, NON SEI AFFATTO IN RITARDO ;) COME VEDI POSTO POCO DOPO LA TUA RECENSIONE :D GRAZIE INFINITE :D


COME SEMPRE, ECCO IL SET DELLA PRIMA META' DEL CAPITOLO :)

SET BELLA

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 3__Le stesse persone

Lunedì 5 Ottobre

Bella

L’aria di New York è diversa da quella di Forks. Decisamente.

Non mi riferisco solamente alle temperature decisamente più alte e all’aria meno umida, quella che ti fa sentire la pelle appiccicosa a causa della condensa, no.

Qui tutto sembra acquisire una nuova vitalità, che nella mia vecchia città mancava. Ogni singolo angolo di strada sembra gridare vita, e a contribuire influisce ovviamente la marea di gente che affolla continuamente i marciapiedi. In questa mia settimana qui, nella grande mela, non ho ancora trovato un momento di pace fra le strade, per lo meno non in quelle principali. Alice mi ha severamente raccomandata di non avventurarmi in stradine buie e secondarie; non che io ne avessi intenzione, ovvio.

Anche adesso, quando scendo per l’ennesima volta da un’auto, mi trovo catapultata in un mondo frenetico, dove rischio di essere investita da una folla di persone indaffarate, che corre alle proprie occupazioni. Anche io adesso ne ho una. Proprio così, da quest’oggi oltre ad essere una studentessa universitaria sarò anche l’assistente di una delle donne più ricche di tutta Manhattan: Esme Cullen.

Il motivo? Il mio bisogno di indipendenza. Non posso certo continuare a contare sull’ospitalità di Alice e sua madre - non che me l’abbiano mai fatta mancare in questi nove giorni -, e sul precario stipendio da sceriffo di Forks di mio padre, che insiste affinché possa inviarmi mensilmente dei soldi.

È stata Alice a consigliarmi a sua madre. Il mio primo sabato che ho passato in giro per New York è stato emozionante, e mi ha permesso di iniziare ad ambientarmi nell’ambiente newyorchese. Innanzitutto, ho fatto tappa nella famosissima Times Square, colma di luci abbaglianti e di persone, ma, cosa molto più importante, centro della famosissima Broadway. Ero tentata di comprare dei biglietti, per vedere un qualsiasi spettacolo, ma non appena ho visto i prezzi sono sbiancata. Certo, esistono i famosi Last Minutes, grazie ai quali si possono acquistare i biglietti avanzati scontati, ma non è certo che si trovino buoni posti. Ma ciò che realmente mi ha convinta a cercare un posto di lavoro è stato il conto che ho dovuto pagare una volta scesa dal taxi. Quando sono tornata a casa sono incappata in un ingorgo stradale, che ha fruttato al mio tassista una cospicua somma di denaro, e a me una grande perdita di tempo. Risultato? Mi sono lamentata con Alice, rivelandole che avevo intenzione di cercare un lavoro, e il giorno dopo ho subito ricevuto una telefonata da sua madre, che mi ha gentilmente offerto un posto di lavoro al suo fianco, come assistente.

L’edificio che si presenta davanti ai miei occhi mi lascia a bocca aperta - cosa che accade frequentemente negli ultimi tempi : un enorme grattacielo, posto all’angolo fra la 1st e la 40th, interamente rivestito di vetri. I pilastri sono in acciaio, e riflettono le luci della città. L’angolo della struttura funge da ingresso: due muri contornano un’entrata interamente in vetro, attraverso la quale si scorge una lunga scala che porta ad un livello superiore. Al soffitto dell’atrio sono appese particolari luci in filamenti, che illuminano l’intera sala. Avanzo con passo incerto, entrando nell’ampio ingresso, guardandomi intorno curiosa. Appese al muro sono presenti più targhette dorate, sulle quali sono impressi vari nomi. Quella della Cullen Society spicca in cima a tutte le altre.

Salgo le scale accompagnata da alcuni uomini in giacca e cravatta, torturandomi le mani, nervosa. È pur sempre il mio primo giorno di lavoro.

La scuola, fortunatamente, ha degli orari molto flessibili: le mie lezioni si svolgeranno tutte nel pomeriggio, quindi ho la possibilità di dedicarmi al lavoro nella mattinata. Ho iniziato a seguire i corsi la settimana scorsa e devo ammettere che è stato un vero salto di qualità dalle aule di Seattle a quelle di un edificio sulla 5th. I professori sono tutti molto disponibili e preparati, e l’ambiente è gradevole.

Quando raggiungo il primo piano mi ritrovo in una reception. Titubante, mi avvicino al bancone, dietro al quale è seduta una ragazza dai capelli castano chiaro.

Mi sorride gentilmente. «Buongiorno. Posso aiutarla?».

Sorrido timidamente. «Ehm… sì. Devo andare dalla signora Esme Cullen».

«Certo. Il suo ufficio si trova al trentaseiesimo piano».

Annuisco, ringraziando, e mi dirigo subito verso la coppia di ascensori disposti qui vicino, dove trovo altre persone in attesa. Fortunatamente le porte automatiche si aprono subito, e riesco a salire. Pigio il tasto che riporta il numero trentasei e aspetto, lanciando timide occhiate alle persone intorno a me. Sono perlopiù uomini, vestiti con austeri abiti da lavoro, accompagnati dalle loro fidatissime valigette ventiquattr'ore.

Quando le porte si aprono sul piano a cui devo scendere l’abitacolo è quasi completamente vuoto. Con passo incerto esco, e mi addentro in un luogo dalle pareti bianche, con gli uffici isolati da spesse pareti in vetro azzurro con venature blu; oltre essi scorgo le figure di più persone, intente a pigiare velocemente i tasti delle tastiere dei computer. In fondo, davanti alla vetrata che dà sulla città, si trova una grossa scrivania a forma di boomerang, anch’essa bianca e in vetro azzurro; appoggiata ad essa, intenta a scartabellare freneticamente fra una pila di fascicoli, c’è una donna, vestita con abiti lunghi ed eccentrici. Mi avvicino lentamente, guardandomi attorno.

Appena arrivo a pochi metri dalla scrivania la donna alza lo sguardo, e mi sorride gentilmente. È molto giovane, avrà più o meno la mia età. I capelli neri sono corti e spettinati, e alcuni ciuffi ricadono ribelli sulla fronte chiara; porta uno spesso strato di trucco nero sugli occhi, azzurri, e le labbra risaltano sulla pelle pallida, colorate da un rossetto viola scuro. Getto un’occhiata ai suoi abiti, molto particolari, e alle braccia, colme di braccialetti tintinnanti.

«Ciao!» esclama, rivelando una voce cristallina. «Tu sei Bella, non è vero?».

Sorride entusiasta, schiudendo le labbra violacee e scoprendo i denti bianchissimi.

Abbasso lo sguardo, imbarazzata. «Sì».

Mi tende la mano, dalle unghie laccate di nero, con un sorriso estatico dipinto sul volto pallido. «Lo sapevo! Io sono Kim, molto piacere!».

Sorrido, ricambiando la stretta di mano e soffermandomi ad osservare la targhetta argentata deposta sul tavolo: riporta di nome di Kim Garth. «Piacere mio, Kim». Lascio andare la sua mano, guardandomi nervosamente attorno. Mi sento a disagio. «Ehm… Esme è già arrivata?».

Kim sorride, facendo il giro del tavolo. «Certo! Vieni con me!» esclama, prendendomi per un braccio e trascinandomi verso una porta vicino alla scrivania, che poco fa non ho notato.

Solo adesso che è in piedi al mio fianco, e che i vestiti aderiscono perfettamente alla sua figura slanciata, riesco a scorgere qualcosa di diverso, qualcosa di particolare. La pancia. La sua pancia eccessivamente accentuata.

Kim mi sorride, sfiorandola. Beccata.

«Ha sette mesi e mezzo» mi dice, portando una mano sulla maniglia bianca della porta.

Annuisco, arrossendo visibilmente per essere stata scoperta ad osservarla. «Congratulazioni».

Kim sorride estatica, aprendo la porta, senza bussare. Entra nella stanza, trascinandomi con sé.

«Esme, è arrivata Bella».

Appena entro mi ritrovo in una stanza molto ampia, dalle pareti rosso scuro, e il pavimento di legno. Alcuni tavoli sono disposti contro parete di destra, mentre a sinistra è presente un’ampia libreria. Al centro della stanza è posizionato un altro grosso tavolo, rettangolare, sul quale sono disposte alcune carte e una valigetta ventiquattr’ore, e dietro di esso, in fondo, si trova una scrivania di cristallo. Dietro essa, seduta composta sulla sua poltrona di pelle nera, c’è Esme Cullen.

«Bella!» esclama, alzandosi repentinamente in piedi, con un grosso sorriso stampato sulle labbra rosse. Si avvicina velocemente a noi, correndo ad abbracciarmi dolcemente.

«Sono contenta che tu abbia accettato di venire a lavorare qui!».

Vicino a noi scorgo Kim sorridere, contenta.

«Grazie a te per questa opportunità», sussurro, in imbarazzo. «Stai facendo così tanto per me… Non so davvero come sdebitarmi».

Esme si separa da me, sorridendomi dolcemente. «Oh, cara, non dire sciocchezze. Sei come una figlia per me, non dimenticarlo».

Arrossisco, mentre lei si volta verso la ragazza al nostro fianco. «Grazie, Kim, puoi andare».

La ragazza annuisce, scomparendo dietro la porta da cui siamo entrate. Credo sia la segretaria.

«Allora, Bella, sei pronta ad iniziare?» mi domanda Esme, avvicinandosi al tavolo al centro della stanza.

Avanzo lentamente. «Ehm… sì. Ma di preciso cosa dovrei fare?».

Mi mordo un labbro, in imbarazzo. Alice mi ha spiegato più volte che sua madre, pur essendo la direttrice dell’intera Cullen Society, ama dedicarsi personalmente al suo lavoro di arredatrice, e per questo motivo gestisce lei stessa la sezione della società che riguarda l’azienda d’arredamento moderno. Alice ritiene che questo lavoro potrebbe servirmi molto, vista la mia intenzione di proseguire gli studi nel campo della scenografia. Del resto l’arredamento è pur sempre scenografia, no?

Esme sorride, facendomi segno di avvicinarmi a lei. Sul tavolo è disposta la pianta di un appartamento, con affianco alcune fotografie di interni e un grosso quaderno ad anelli, dal quale traboccano fogli.

«Devi aiutarmi a scegliere il miglior tipo di arredamento per le case. Può sembrare semplice, ma, credimi, può risultare molto difficile accontentare la gente».

Annuisco, pensierosa. «Quindi dobbiamo scegliere come arredare questa casa?» le domando, indicando le foto e la pianta.

Esme annuisce. «Esatto». Lancia un’occhiata all’orologio da polso. «Tra mezz’ora abbiamo un incontro con i proprietari di questa casa. Si devono sposare fra qualche mese».

Sorrido, mentre lei afferra il quaderno ad anelli, aprendolo in mezzo. «Qui dentro c’è una piccola scelta di mobili. Sono solo degli esempi, se cercano qualcosa di più preciso dovremo preoccuparci di cercarlo e procurarglielo».

Faccio cenno di sì con il capo, più che sicura di aver capito tutto.

«Va bene,» esordisce, infilando il quaderno nella sua valigetta lì vicino, «possiamo andare.»

Sorrido, seguendola fuori dallo studio. Appena mettiamo piede nella sala bianca Kim si alza in piedi, fermandoci.

«Esme, c’è una chiamata urgente per te» esclama, emozionata. Una strana espressione di stupore è dipinta sul suo viso pallido.

La donna al mio fianco annuisce, sorridendomi, quasi in colpa. «Scusami, Bella, devo rispondere. Arrivo subito».

Annuisco, dicendole di non preoccuparsi, e un attimo dopo sparisce di nuovo nel suo studio.

Mi avvicino al bancone a forma di boomerang, dietro al quale è tornata a sedersi Kim. Mi sorride gentilmente.

«Esme è una donna fantastica, sei fortunata a lavorare con lei» mi dice, picchiettando le dita sulla tastiera di un portatile.

Annuisco, sorridendo. «Hai ragione».

Riporta lo sguardo allo schermo del notebook, continuando però a parlare. «A volte mi chiedo come faccia a fare tutto quello che fa. Oltre a seguire i suoi clienti come arredatore di interni, deve anche dirigere un’intera compagnia. È sorprendente».

Ridacchio. «È davvero così grande la sua compagnia?».

Kim mi lancia un’occhiata scettica, aggrottando le sopracciglia. «Beh, sì. Gestisce questa azienda per arredamenti, la catena di cioccolaterie di suo figlio, ed è socia di una società di design per interni. Inoltre credo che fra non molto creerà una linea di abiti».

Spalanco la bocca, sorpresa. Alice non mi aveva detto tutte queste cose!

«Ciccolaterie? Abiti?» balbetto, sconnessamente. Ora che ci penso, la mia coinquilina mi aveva accennato ad un fratello, anzi, forse ne aveva citati due, ma non ricordo per niente il loro nome, anche perché non li ho mai incontrati prima d’ora.

Kim sorride, comprendendo la mia difficoltà, e abbandona il suo lavoro al computer per spiegarsi. «Esme ha tre figli. La figlia minore si chiama Alice, e credo abbia la nostra età…»

«La conosco». Sussurro, per farle capire che non sono del tutto estranea alla vita della mia nuova datrice di lavoro. «Vivo con lei».

Kim strabuzza leggermente gli occhi, ma si riprende immediatamente. «Ah. Beh, allora saprai che fa l’aiuto stilista in una casa di moda. Esme ha molta fiducia nelle sue capacità, e mi sembra di aver capito che voglia aiutarla a creare una casa di moda tutta sua, affiliata alla Cullen Society». Annuisco, sorpresa. «Poi c’è il fratello maggiore, che ha tre anni in più di noi: si chiama Emmett, e ha frequentato i migliori istituti per dolciari del Paese. Dall’anno scorso ha aperto una cioccolateria vicino a Central Park, e da poco, visto l’enorme successo, ha aperto altri due affiliati in altri due angoli di New York, anche se lui rimane fisso in quella iniziale».

«Vicino a Central Park?» ripeto, strabuzzando gli occhi. «Per caso si chiama Chocholate’s House il negozio?».

Kim sorride. «Sì, esatto».

Mi sbatto una mano sulla fronte, stupita. «Cavolo, è dove vado tutti i giorni dopo la scuola! Per caso Emmett è un ragazzone alto, bruno, che sembra un orso?».

La ragazza davanti a me scoppia a ridere, divertita dalla mia reazione. «Sì. È proprio lui!».

«Non ci posso credere, io vivo con sua sorella e non sapevo neanche chi fosse…». Ridacchio, fra me e me. Cerco di riprendermi, e le pongo un’altra domanda. «Invece l’altro figlio?».

Kim ritorna improvvisamente seria, e aggrotta le sopracciglia. «Beh, si chiama Edward. Non c’è molto da dire. Anche lui ha la nostra età, però non ha ancora trovato nessun lavoro, e non ha fatto l’università, per quello che ne so».

«Una specie di pecora nera della famiglia?» mormoro, soprappensiero.

Kim sorride appena, per poi accennare un sorriso divertito. «Quando l’ho incontrato per la prima volta gli ho detto che avrebbe potuto fare il modello» ride, «non l’ha presa tanto bene».

Aggrotto le sopracciglia. «Perché? È carino?».

Kim sorride maliziosamente. «Solo carino? Credimi, Bella, se non fosse che sono follemente innamorata del mio ragazzo, avrei già fatto più di un pensierino su di lui!».

Arrossisco, davanti alla sua considerazione. Sono proprio curiosa di vederlo. A Forks non c’erano molti ragazzi degni di nota. Forse l’unico bel ragazzo di tutta la città era il mio migliore amico… Invece da quando sono a New York ho avuto la possibilità di notare più di un ragazzo molto carino per le strade, primo fra tutti uno dalla chioma ramata che ho incontrato davanti alla Juilliard School nel mio primo giro per Broadway, con il quale ho addirittura parlato e che mi ha aiutato a prendere il taxi. Meglio non ricordare l’imbarazzo e la vergogna che ho provato in quel momento.

La porta dello studio di Esme si spalanca, e quest’ultima esce, sorridente.

«Scusa l’attesa, Bella. Sono certa che Kim ti avrà intrattenuta piacevolmente, come suo solito» ride, mettendo la borsa sottobraccio.

Annuisco, sorridente. «Certo!».

Esme annuisce, sorridendo amorevolmente alla ragazza alle mie spalle, per poi rivolgersi a me: «Andiamo?».

Annuisco vigorosamente, girandomi un attimo verso Kim: «Grazie mille, Kim, per la chiacchierata».

Lei sorride, muovendo la mano, a mo’ di saluto. «Figurati, è stato un piacere parlare con te! Ci vediamo più tardi, Bella! Devo ancora mostrarti il tuo ufficio!».

Annuisco, seguendo Esme verso gli ascensori. Dopo pochi minuti le porte di uno di essi si aprono, ed entriamo nell’abitacolo, vuoto.

«Come ti è sembrata Kim?» mi domanda, pigiando il tasto del piano terra.

Sorrido. «È… particolare. Ma è molto simpatica».

Esme annuisce, sorridente. «L’ho conosciuta per puro caso. Si trovava all’ospedale per un esame, ed io ero andata a trovare mio marito, che fa il cardiologo. L’ho vista da sola nella sala di attesa, e mi ha ricordato me quando ho avuto il mio primo presentimento di essere incinta. Era da sola, così mi sono avvicinata a lei e le ho fatto compagnia, decidendo poi di assumerla come mia segretaria. È una ragazza d’oro».

Annuisco, sorridendo. La bontà di Esme è davvero infinita.

 

«Davvero, non saprei cosa scegliere…».

È la voce della proprietaria dell’appartamento in cui mi trovo a ridestarmi dalla contemplazione dell’ampia sala. Grazie ad un’auto fornita dall’azienda, io ed Esme siamo giunte in questo palazzo, situato nell’Upper West Side, dove una giovane donna ci sta chiedendo aiuto per arredare l’interno.

«Non si preoccupi, siamo qui per questo, no?» la consola, Esme, dolcemente. Estrae dalla sua valigetta il grosso quaderno ad anelli, per mostrare alla signora - anzi, ancora signorina - le varie possibilità.

«Secondo lei potrebbe starci bene un divano ad angolo? Pensavo di fare tutto sui colori chiari, ma forse è meglio di no…» mormora la proprietaria, sfogliando insieme ad Esme il quaderno. Mi mordo un labbro, mentre davanti a me si proiettano i vari mobili, e nella mia mente la sala si sta mano a mano riempiendo.

«Perché, invece, non prende due divani?» chiedo, senza riuscire a trattenermi.

Gli occhi di entrambe le donne si fissano sulla mia figura, ed Esme mi fa cenno di continuare.

Mi schiarisco la voce, arrossendo. «Secondo me potrebbe disporre due divani al centro della sala, leggermente spostati, vicino al camino, e posizionargli davanti una libreria con un posto per la televisione contro il muro… e aggiungere un tavolino di cristallo… magari con un tappeto a terra…».

La signora aggrotta le sopracciglia, per poi sbattere più volte le palpebre. «Mi piace. Sì, mi piace come idea. Che cos’altro farebbe?».

Avvampo. Non pensavo che come idea le sarebbe piaciuta.

«Anzi,» aggiunge, raggiungendo la sua borsa, appoggiata a terra, frugando al suo interno, «possiamo fare una pianta? Qualcosa per ricordare bene la sistemazione?».

Esme sorride raggiante, facendomi segno di avvicinarmi alla signora. Mi appoggia una mano sulla spalla, incoraggiante. «Forza, Bella. È tutta tua».

Arrossisco, ringraziandola. Spero solo di non fare disastri.

 

«Hai fatto davvero un ottimo lavoro, Bella. La signora era più che soddisfatta. Ero certa che saresti stata un’ottima assistente».

Avvampo, guardando fuori dal finestrino dell’auto. Io ed Esme siamo appena state a pranzo, e stiamo rientrando in ufficio.

«Grazie…» mormoro, in imbarazzo.

«Ah!» esclama a un certo punto, spezzando il silenzio che era calato nell’abitacolo. «Bella, a breve dovrò allontanarmi da New York per un incarico a Washington. Ti porterei con me, ma il mio cliente ha richiesto la massima riservatezza, spero tu possa capire…».

Annuisco, scuotendo vigorosamente il capo. «Certo, Esme, capisco benissimo. Ma…» mormoro, mordendomi un labbro, «quindi lo studio chiuderà?».

Sarebbe il colmo se dopo un solo giorno di lavoro lo studio chiudesse…

Esme mi sorride, comprendendo il mio timore. «Certo che no. Semplicemente verranno posticipati tutti gli appuntamenti che avremmo avuto con i nostri clienti di qui. Sto cercando un valido sostituto che possa dirigere almeno momentaneamente lo studio di arredamento. Per l’azienda ci penserà Mark Sly. È molto bravo con i conti» sorride.

Non conosco questo Mark, ma sono certa che se Esme ripone in lui così tanta fiducia farà un ottimo lavoro. Sono curiosa di scoprire chi sarà il mio nuovo capo, invece; ma anche in questo caso sono sicura che la signora Cullen farà un’accurata scelta.

Appena l’auto si ferma davanti al grattacielo, io ed Esme scendiamo, e subito ci dirigiamo all’ingresso, raggiungendo gli ascensori e salendo al trentaseiesimo piano.

Kim Garth ci accoglie con un sorriso estatico, correndoci incontro.

«Vieni, Bella, ti porto al tuo ufficio!» esclama, prendendomi per un braccio e trascinandomi verso la fila di uffici dalle pareti di vetro azzurro. Ne passiamo un paio, prima di giungere davanti all’apertura di uno di essi. È sufficientemente spazioso: è fornito di una scrivania ad angolo, sul quale è adagiato un computer fisso, due sedie ed un armadietto dalle ante di vetro trasparente. Dentro di esso sono disposte pile di fogli bianchi, di varie dimensioni, e alcuni strumenti, compresi alcuni quaderni ad anelli.

«Allora, come è andato il primo giorno?» mi domanda, mentre appoggio il cappotto all’attaccapanni attaccato all’armadio. Si siede su una delle sedie, e si accarezza la pancia sporgente.

«Bene» rispondo, sorridente, «molto bene. Credo proprio che questo lavoro mi piacerà».

Mi siedo al suo fianco, mordendomi un labbro. «Hai saputo che Esme se ne andrà a Washington?».

Kim sospira. «Sì. Anche se non sa ancora quando partire». Si guarda intorno, con fare cospiratorio, prima di drizzarsi sulla sedia e sporgersi verso di me. Si porta una mano vicino alla bocca, e sussurra: «È stata chiamata dal segretario del Presidente. Vogliono un consulto per arredare alcune stanze della Casa Bianca».

«Cosa?!» urlo, con gli occhi quasi fuori dalle orbite. «Stai scherzando?!».

Kim si porta un dito davanti alle labbra scure, rimproverandomi di fare silenzio.

«Non lo deve sapere nessuno! Mi raccomando, Bella, acqua in bocca».

Ridacchio. «Okay».

Kim torna a sedersi composta sulla sedia, continuando ad accarezzare la pancia.

«Sai già chi sarà il suo sostituto?».

Scuote il capo. «No, purtroppo. Da quando sono qui non si è mai dovuta allontanare a tempo indeterminato, quindi non ha mai avuto bisogno di cercare qualcuno che la sostituisse».

Annuisco, lanciando un’occhiata all’orologio posto sulla scrivania. Sono già le due. Tra un’ora dovrò essere a scuola, e proprio adesso si è concluso il mio primo giorno lavorativo.

Guardo la segretaria di Esme, curiosa. «Sai già se sarà un maschietto o una femminuccia?» le chiedo, sperando di non essere invadente o troppo curiosa. Le faccio cenno alla pancia, anche se di certo avrà intuito a chi mi riferisco.

Sorride dolcemente. «Sarà un bel maschietto. Probabilmente lo chiameremo Daniel».

Sorrido, entusiasta. «È un nome bellissimo!».

«Grazie».

Guardare Kim, che ha la mia stessa età, in queste condizioni non può che farmi pensare che anch’io in questo momento potrei essere come lei: felice, con un ragazzo di cui sono follemente innamorata, ed in attesa di un piccolo miracolo. Invece la mia vita è vuota. Un po’ la invidio.

«È meglio che faccia un salto a casa» sospiro, alzandomi in piedi. Kim mi lancia un’occhiata curiosa. «Tra un’ora devo essere a scuola» le dico, cogliendo il suo scetticismo.

Comprendendo che la mia giornata di lavoro si è conclusa, si alza in piedi, sorridendo.

«Certo! Fai l’università di Belle Arti, se non sbaglio…».

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. Come fa a saperlo?

«L’ho letto sul tuo foglio di assunzione» ride, aspettando che mi infili il cappotto, dopodiché mi accompagna fino all’ascensore.

Scorgo Esme attraverso il vetro di uno studio, intenta a discutere con una ragazza di un progetto. Chiedo a Kim di salutarla da parte mia, per non disturbarla, dopodiché lascio il palazzo, diretta verso casa mia, e successivamente verso la scuola.

 

Martedì 6 Ottobre

Salgo velocemente le scale, rischiando seriamente di spezzarmi l’osso del collo. Le persone intorno a me mi lanciano occhiate preoccupate e di rimprovero, ma non ci penso.

Sono in ritardo. Di quasi mezz’ora.

Esme mi ucciderà. Sono solo al mio secondo giorno di lavoro, e sono già in ritardo.

Accidenti a me e alla mia sveglia!

Alice ha passato la notte a casa di Jasper, il suo fidanzato, e non ha potuto svegliarmi come fa quasi tutte le mattine.

Mi infilo velocemente nell’ascensore, e osservo con rabbia ed ansia il display che indica i numeri dei piani, che si susseguono con lentezza esasperante. È troppo, troppo lento.

Quando finalmente arrivo al trentaseiesimo piano esco come una furia, correndo per il corridoio. Non appena mi vede, Kim balza in piedi, agitata.

Dio, significa che sono nei guai?

«Lo so, lo so, sono in ritardo!» borbotto, con il fiatone, dirigendomi subito verso la porta dello studio della signora Cullen.

«Bella!» mi chiama Kim, iniziando a fare il giro del tavolo, «Esme è già…».

Non le lascio terminare la frase, ed entro in fretta e furia nello studio del mio capo, senza bussare - proprio come ha fatto Kim ieri.

Abbasso immediatamente il capo, poggiando le mani sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato.

«Scusami, Esme,» sussurro, con il fiatone, «scusami! Lo so, sono in ritardo, e…».

«Non lo sai che si bussa, prima di entrare?».

Il mio cuore fa le capriole, riconoscendo che non è la voce di Esme. Mi rimetto immediatamente in posizione eretta, con lo stomaco attorcigliato dalla sorpresa.

Davanti a me, in fondo alla stanza, seduto sulla poltrona di Esme, c’è un uomo. Anzi, un ragazzo, a giudicare dall’aspetto giovane.

I capelli rossicci sono spettinati, ma nel loro complesso perfettamente ordinati. Il viso è leggermente spigoloso, e la mascella è squadrata; tuttavia i lineamenti sono dolci. Indossa un completo scuro, con una camicia bianca e la cravatta ben stretta intorno al collo.

Ha qualcosa di stranamente familiare, e mio malgrado è davvero molto carino.

Temo di aver dedicato fin troppo tempo a scrutarlo, perché un sorriso strafottente si dipinge sulle sue labbra.

«Che c’è? Sono così bello da lasciarti senza parole?».

La sua voce è melodiosa. Roca, ed estremamente sexy.

Ma mi ridesto immediatamente, irritata dalla sua strafottenza. Incrocio le braccia al petto, riprendendo il controllo di me. «Potrei sapere chi è lei?» domando, stizzita.

Il ragazzo chiude per un attimo gli occhi, senza abbandonare il suo sorriso strafottente, e si alza in piedi, facendo il giro della scrivania e del tavolo per avvicinarsi a me. Anche il suo corpo è perfetto…

Basta, Bella! A che diavolo pensi?! 

Arriva a pochi passi da me, e infila le mani nelle tasche, squadrandomi. «Sono il figlio di Esme. Mi chiamo Edward, e da oggi sarò il tuo nuovo capo».

Spalanco leggermente la bocca. Il terzo figlio di Esme. La pecora nera. Il modello.

Brava, Bella! Hai fatto una figura di merda!

«E…» continua, osservandomi, «immagino che tu sia la mia assistente. Dico bene?».

Annuisco, a testa alta. «Mi chiamo Isabella Swan».

Faccio una smorfia quando pronuncio il mio nome per intero, ma non posso fare altrimenti.

Edward Cullen annuisce appena, e il suo sguardo corre per tutta la mia figura, mentre aggrotta le sopracciglia. Solo adesso avvampo, al pensiero di cosa indosso. Un vestitino con leggings: qualcosa che non ho mai indossato prima di venire a vivere qui a New York.

«Bene… puoi andare» dice, infine, dandomi le spalle per tornare alla scrivania.

Sospiro, voltandomi verso la porta.

«Ah, un’ultima cosa» mi richiama, prima che possa uscire. «Sarebbe meglio che arrivassi puntuale in ufficio, da domani».

Trattengo a stento un grugnito, e lascio l’ufficio.

Appena arrivo davanti alla scrivania dove si trova Kim rilascio un sospiro, irritata dalla presenza di quell’uomo.

«Perché non mi hai detto che Esme è partita?» le domando, abbandonandomi su una sedia vicino a lei.

Kim accenna un sorriso. «Io te lo stavo per dire, ma non mi hai lasciato finire la frase».

Annuisco, conscia che è proprio così.

Incrocio le braccia sul tavolo, e ci affondo la testa.

«Allora…» mormora Kim, parlando vicino al mio orecchio, con voce maliziosa. «Come ti è sembrato?».

Ci penso per alcuni secondi. «Mmm… Stronzo. Egocentrico. E… stronzo.»

Kim scoppia in un’allegra risata. «Questo significa che non ti piace e che non ha scatenato nessun istinto in te?».

Alzo la testa, impettita. «Assolutamente no!» sento le guance colorarsi. «Sarà anche carino ma è stronzo fino al midollo!».

Kim assottiglia gli occhi. «Quindi tu non cederesti a nessun istinto con qualcuno per il quale non provi nulla… giusto?».

Annuisco, fiera dei miei sani principi.

Kim sorride, soddisfatta. «Bene. Allora immagino non ti dia fastidio sapere che Edward Cullen è felicemente fidanzato…».

Scuoto il capo, aggrottando le sopracciglia. «No».

Perché Kim è convinta che la cosa mi dia fastidio?

Alla fine sospira. «Meno male. Volevo solo saperlo per il tuo bene. La sua ragazza è davvero insopportabile. Alice una volta mi ha detto che lei, Emmett e Jasper la chiamano ‘la bionda stronza puttana’» ridacchia.

Inarco un sopracciglio, perplessa. «Perché?».

Kim scrolla le spalle. «Nei primi mesi in cui stava con Edward in più occasione l’hanno scovata fra le braccia di un altro, anche se lui non si è mai scomposto più di tanto, ed è una grandissima stronza, a quanto ne so. Io l’ho vista un paio di volte, e di certo non mi ispira simpatia…».

Annuisco. «Beh, due stronzi sono meglio di uno, no? Si sono ritrovati…» borbotto, soprappensiero.

Kim ride della mia considerazione, tornando al suo lavoro, mentre io mi alzo, per dirigermi verso il mio ufficio.

Eppure io sono più che certa di aver già visto Edward Cullen. Non ricordo dove, eppure ha qualcosa di familiare.

Quando arrivo davanti al mio computer osservo lo sfondo che ho impostato al computer. È Times Square. Ho avuto occasione di passarci un paio di volte, e di andare a mangiare all’Hard Rock Café insieme ad Alice e Jasper, la settimana scorsa. È stato il primo posto di New York che ho voluto visitare, perché è la sede di tutti i principali teatri di Broadway, il mio sogno.

Improvvisamente spalanco gli occhi. Oh. Mio. Dio.

Mi porto una mano sulla bocca, per evitare di dire cose spiacevoli.

Ecco perché Edward Cullen mi è familiare. È il ragazzo che mi ha aiutato e che ho incontrato davanti alla Juilliard School!

Vorrei sbattere la mia testa contro la scrivania, ma mi trattengo. Che idiota che sono.

Beh, non è niente di grave, anche se spero con tutto il cuore che non si ricordi di me. O forse l’ha già fatto? Scuoto il capo, decidendo di non pensarci più, e tornando al mio lavoro.

 

Edward

Lunedì 5 Ottobre

Esco da Central Park, seguendo la 5th Avenue, in direzione della cioccolateria di mio fratello Emmett. È passata più di una settimana dal rifiuto della Juilliard, e ancora non mi sono impegnato per cercare un posto di lavoro. Un po’ per mancanza di voglia, un po’ per orgoglio. Entrambi i miei fratelli sono già perfettamente autonomi, mentre io rimango l’unico dell’intera famiglia senza una minima idea di cosa fare, senza uno scopo. Emmett ha aperto da un anno il suo negozio, e da poco anche altre due filiali in giro per la grande mela; Alice fa la stilista per un’importante casa di moda, e fra non molto ne aprirà una per conto suo. Io, invece? Ho fallito in tutto ciò che poteva anche solo lontanamente interessarmi.

Quando arrivo davanti alla cioccolateria di Emmett entro. Vado ogni giorno.

«Ehi, fratellino!» mi accoglie quel ragazzone così simile ad un orso, mentre prepara l’ennesima cioccolata del giorno. Oltre ad essere una cioccolateria, e quindi a vendere tutto ciò che riguarda i dolci, è anche un piccolo e confortevole bar, frequentato per lo più dagli studenti di una scuola qui vicino, e da tutti i turisti che una volta usciti da Central Park si trovano avvolti dal dolce aroma del cacao.

Mi siedo al bancone, dove trovo anche Jasper, vestito nella sua divisa.

«Ehi, Jazz» lo saluto.

Solleva gli occhi azzurri dalla tazza di caffè che ha fra le mani, sorridendo.

«Ciao, Edward».

Indossa la sua divisa scura, da vero poliziotto. Quando non è in servizio viene sempre qui a bere un caffè. L’ho conosciuto quasi un anno fa, quando mi sono ubriacato e ho scatenato una rissa in un pub della zona. È stato proprio lui ad arrestarmi. Buffo, vero?

«Come te la passi?» gli domando, chiedendo al barista di portarmi un bicchiere di Whisky. So che è presto per bere, sono solo le cinque del pomeriggio, ma ne ho bisogno.

«Bene, da quando non devo più arrestarti per rissa» ridacchia il mio amico. Osserva con disprezzo il bicchiere che il barista pone davanti a me, e che porto subito alle labbra.

Sorrido amaramente, ricordando il periodo nero della mia vita. È stato dopo quell’episodio che ho deciso di fare sul serio con Tanya, e probabilmente non potevo fare scelta peggiore. Prima era solo una delle tante ragazze con cui andavo - con lei più frequentemente delle altre, tanto che ci consideravamo già fidanzati. Ma ormai è da alcuni mesi che le cose non vanno affatto bene fra di noi… anzi, ad essere sinceri non sono mai andate bene. So bene che alcune volte si lascia andare anche con altri uomini, ma nonostante tutto non trovo la forza di lasciarla. È come se fosse l’unico punto fermo in questo costante urgano che è la mia vita. Una boa, in un certo senso; e non sono certo di essere in grado di nuotare senza di essa.

«Hai ricevuto la lettera dalla Juilliard?» mi chiede dopo un attimo di esitazione il mio amico, lanciandomi un’occhiata di sottecchi.

Abbasso lo sguardo sul bicchiere, ormai vuoto. «Sì».

Jazz intuisce immediatamente quale sia l’esito, e posa una mano sulla mia spalla, in segno di conforto. È sempre stato molto bravo a capire i sentimenti degli altri.

«Vedrai che ce la farai Edward. Magari potresti chiede ad Esme se…».

«Non ho intenzione di chiedere aiuto a mia madre» lo interrompo, bruscamente.

Jasper non si arrende, e mi inchioda con il suo sguardo azzurro. «Lei gestisce la Cullen Society, che comprende più corporazioni che sconfinano in vari campi. Forse potresti…».

«No, Jazz, davvero. Voglio farcela con le mie sole forze» dico, sperando di aver chiuso almeno per oggi questa discussione.

Ma ovviamente Jasper non si arrende. Credo abbia passato fin troppo tempo insieme a mia sorella. «Potresti fare il medico, come tuo padre…» mormora, pensieroso.

Rilascio una risata amara. «Hai dimenticato la mia brillante diagnosi al terzo mese di studio?».

«Quale?!» interviene Emmett, infilandosi dietro il bancone per preparare un’ordinazione. «Quella dove hai scambiato i sintomi di una semplice febbre per uno sfogo dovuto ad una reazione allergica?». Mio fratello ride divertito, ricordando la mia colossale figuraccia in aula, all’università. È stato quel giorno che ho capito che medicina non sarebbe stato il mio futuro.

Jasper trattiene a stento le risate, per non offendermi, e ciò sembra dissuaderlo dal tentativo di convincermi ad appellarmi a mia madre.

Ma anche questa volta mi sbaglio. «Però, se Esme ti chiedesse di occuparti di qualche sua azienda accetteresti, non è vero?».

Gli lancio un’occhiata ammonitrice. «Non provare ad architettare nulla con la tua fidanzata, o mia sorella si ritroverà improvvisamente single».

Jazz alza le mani, in segno di resa. «Va bene, va bene. Era solo per sapere. Però, Edward, devi metterti alla prova. Non puoi continuare ad aspettare un qualche miracolo» sospira, alzandosi da tavola e lasciando una banconota sul bancone. «Te lo offro io» dice, riferendosi al bicchiere vuoto fra le mie mani.

«Grazie, Jazz…» mormoro, riflettendo sulle parole del mio amico.

«Potresti fare il poliziotto come Jasper» ridacchia mio fratello, quando il nostro amico è già sparito oltre la porta del locale, «sono certo che la divisa ti starebbe a pennello».

Gli lancio un’occhiata divertita, trattenendo le risate. Io, poliziotto? Troppo strano.

Emmett sembra ricevere un’illuminazione, e ammicca nella mia direzione. «Scusa, dimenticavo che sei già abbonato alla divisa da carcerato».

Schiocco la lingua, alzandomi in piedi. «Ci vediamo, Em!».

Esco dalla cioccolateria, ancora avvolto dall’aroma di cacao.

Decido di raggiungere casa mia a piedi, sebbene sia abbastanza distante. Ma del resto cos’altro ho da fare? Non ho voglia di uscire con Tanya, questa sera.

Dopo quasi venti minuti raggiungo il mio palazzo. Non è troppo appariscente, ma è molto spazioso e confortevole. Si trova su Madison Avenue, all’incrocio con la 61st.

Con passo pesante avanzo verso l’ingresso, quando un’auto nera e lussuosa si ferma proprio vicino al marciapiedi su cui mi trovo. Il finestrino oscurato si abbassa, rivelando i lineamenti dolci del viso di mia madre.

«Mamma…» mormoro, confuso.

«Ciao, Edward». Sorride dolcemente, come suo solito. «Ti andrebbe di venire a cena con me? Tuo padre deve rimanere in ospedale fino tardi per un intervento, e pensavo di passare un po’ di tempo con te e i tuoi fratelli, cosa ne dici?».

Aggrotto appena le sopracciglia. «Ci saranno anche Alice ed Emmett?».

Esme sorride, annuendo.

Ci penso per alcuni istanti, dopodiché annuisco a mia volta. Ci diamo appuntamento presso una steak house dei dintorni, alle sette e trenta in punto, e subito corro fino al mio appartamento per prepararmi, non prima di aver chiamato Tanya ed averla informata di non poter uscire con lei questa sera, causa impegno familiare. Non l’ha presa tanto bene, del resto non è granché abituata ai miei rifiuti. Negli ultimi tempi ho sempre cercato di essere un bravo fidanzato, sebbene l’impegno non sia propriamente corrisposto.

Abbandono i miei pensieri, e mi preparo per questa serata in famiglia.

 

«A dire il vero c’è un motivo per cui vi ho invitato a cena, questa sera» annuncia Esme, quando ci servono il dolce, facendoci voltare tutti e tre nella sua direzione. «Devo allontanarmi da New York per qualche settimana, per lavoro, e non so di preciso quando tornerò».

Alice annuisce, seguita da me ed Emmett.

«Papà lo sa?» domanda mio fratello, curioso.

Esme annuisce. «Edward». Si volta ad osservare me, ignorando per un momento i miei fratelli. «C’è una cosa che vorrei chiederti».

Annuisco, aggrottando leggermente le sopracciglia.

«Vorresti prendere il mio posto come direttore dello studio di arredamento?».

Apro la bocca, pronto a replicare, ma Esme mi precede.

«Sarà solo per poche settimane. Ho chiesto a Kim di posticipare tutti gli appuntamenti, tu non dovrai fare altro che controllare che tutti i dipendenti concludano i loro progetti ed arrivino puntuali a lavoro. Inoltre avrai un’assistente ed una segretaria che ti potranno aiutare in qualunque momento, e che sono totalmente affidabili».

Mamma mi inchioda con il suo sguardo dolce e sicuro, impedendomi di ragionare coerentemente. Come posso dirle di no? Dopo tutto quello che fa per me posso davvero darle questo dispiacere?

Lancio una breve occhiata ai miei fratelli, entrambi con un’espressione entusiasta.

Le parole di Jasper mi tornano alla mente, chiassose.

Mi hanno incastrato.

«Va bene…» borbotto, distogliendo finalmente lo sguardo da loro per prendere in mano il bicchiere colmo di vino rosso.

Alice batte le mani, felice, mentre mio fratello mi da’ una pacca sulla schiena, soddisfatto.

Esme… ha un sorriso dolce e radioso.

Ora capisco da chi ha preso mia sorella la sua capacità di persuasione.

«Ti ringrazio, Edward» mi dice, riconoscente. «Per qualunque problema potrai fare totale affidamento su Kim e Bella, non ti preoccupare».

«Bella?» ripeto. Chi è? Non conosco nessuno con questo nome, anche se mi sembra di averlo già sentito nominare.

«Ti ricordi che ti avevo parlato della mia nuova coinquilina?» mi chiede Alice, scuotendo il capo.

«Quindi l’amica di Alice è anche la tua assistente?» domando, rivolgendomi a mia madre. Annuisce sorridente.

«È la figlia di una mia cara amica, quindi vedi di trattarla bene».

Scrollo le spalle, disinvolto. Esme sa bene che il mio comportamento con le persone può cambiare molto, per questo, probabilmente, ha cercato di ammonirmi.

Alice ridacchia, divertita. «Secondo me ti piacerà», mi lancia un’occhiata maliziosa, «e non solo come assistente».

Le lancio un’occhiataccia, mentre mio fratello fischia. «Non credo proprio. Ti ricordo che sono fidanzato».

Mio fratello rilascia una fragorosa risata. «Con chi? Con la ‘bionda stronza puttana’?».

«Emmett!» lo richiama mia madre, scoccandogli un’occhiataccia. Detesta quando usiamo termini ‘poco fini’.

Mi irrito leggermente, ma non in maniera eccessiva. «Ehi, stai parlando della mia ragazza».

Mio fratello scuote il capo, insieme a mia sorella. È proprio quest’ultima a parlare. «Andiamo, Edward. È da anni che state insieme, ma si vede lontano un miglio che il vostro non è affatto amore…».

«Chi te lo dice?!» ribatto, stizzito. Odio quando cercano di intromettersi nella mia vita e cercano di farmi prendere delle decisioni. Proprio non lo sopporto.

Alice sta per ribattere, ma viene prontamente fermata da nostra madre. «Basta, ragazzi! Siamo a tavola: godiamoci la cena senza litigare, per favore».

In silenzio, annuiamo, e riprendiamo a mangiare, senza più toccare l’argomento Tanya.

 

Martedì 6 Ottobre

«Mmm…» mormoro, passando con Kim fra le file di uffici, dentro i quali i dipendenti svolgono il loro lavoro. Quando arriviamo davanti all’ultimo studio, però, troviamo la sedia vuota.

«Kim…» la chiamo, osservandola mentre si morde nervosamente un’unghia della mano. «Chi è che manca?».

«Beh… l’assistente…» mormora, abbassando lo sguardo.

Ah. Bella, se non sbaglio. La coinquilina di mia sorella e la figlia dell’amica di mia madre. Bene. Esme non aveva detto che potevo fare totale affidamento su di lei? Credo proprio che si sbagliasse.

Non aggiungo niente, giro i tacchi e mi dirigo verso il mio studio. Sono il direttore, no? Devo far capire chi comanda, qui.

«Quando arriverà falla venire nel mio ufficio» dico a Kim, che si va a sedere immediatamente al tavolo della segreteria.

Appena entro nello studio mi chiudo la porta alle spalle, e vado a sedermi alla scrivania, osservando le lancette dell’orologio appeso alla parete rossa.

È passata già mezz’ora dall’orario di apertura dello studio di arredamento. Che cosa devo scegliere come punizione? Forse potrei…

La porta dello studio si spalanca improvvisamente, e un ciclone dai capelli castani si presenta davanti a me, appoggiandosi sulle ginocchia, impedendomi la vista del viso.

«Scusami, Esme,» bofonchia, cercando di riprendere fiato, «scusami! Lo so, sono in ritardo, e…».

Non le lascio terminare la frase, leggermente stupito ed irritato da questa improvvisa entrata. «Non lo sai che si bussa, prima di entrare?».

Al suono della mia voce si irrigidisce, e si rizza in piedi. Anche se mi trovo dalla parte opposta della stanza riesco a distinguere il profilo delicato della mascella, il taglio degli occhi, e il piccolo e dritto naso. Le labbra invece sono piene e rosee. Faccio scorrere lo sguardo su tutta la sua figura, rivestita da un delizioso vestitino, che risalta le dolci curve. I capelli castani ricadono morbidi sulle spalle, in boccoli.

Qualcosa che per molto tempo si era assopito in me si risveglia bruscamente, scuotendomi dentro.

Immagino sia l’assistente, Bella.

Noto che sofferma insistentemente il suo sguardo sul mio viso, e colgo l’occasione per stuzzicarla, come sono solito fare con tutti.

«Che c’è? Sono così bello da lasciarti senza parole?» sorrido, strafottente.

Le sue guance si imporporano, ed incrocia le braccia al petto, stizzita.

«Potrei sapere chi è lei?».

La sua voce è come musica. Limpida e squillante al punto giusto.

Mi alzo in piedi, avvicinandomi a lei. «Sono il figlio di Esme. Mi chiamo Edward, e da oggi sarò il tuo nuovo capo».

I suoi occhi si sgranano, e dischiude le labbra, in un’espressione di pura sorpresa.

«E immagino che tu sia la mia assistente» mormoro, infilando le mani nelle tasche. «Dico bene?».

La ragazza annuisce, scuotendo vigorosamente il capo, facendo così ciondolare i suoi boccoli castani. «Mi chiamo Isabella Swan».

Avevo ragione. Chissà perché, però, si è presentata come Isabella. Alice ieri sera mi ha detto che detesta il suo nome completo. Pura formalità, immagino.

«Bene…» mormoro, squadrandola un’ultima volta, «puoi andare».

Mio malgrado, le volto le spalle, per dirigermi nuovamente verso la scrivania, ma mi fermo a metà strada.

«Ah, un’ultima cosa». Trattengo a stento una risata. «Sarebbe meglio se arrivassi puntuale in ufficio, da domani».

Quando sento la porta aprirsi e subito dopo richiudersi, mi volto, osservando lo spazio lasciato vuoto da quella ragazza. Non so per quale motivo, ma credo che Alice avesse ragione. Ed io non posso permetterlo.

Sono fidanzato, diamine!

Osservo il fascicolo di Bella Swan, appoggiato sulla scrivania, maledicendomi.

Isabella, dovrò allontanarti da me, a tutti i costi.

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SET BELLA

KIM


ALLOOOORA. CALMA. SE EDWARD VI E' RISULTATO UN PO' STRANO, NO PANIC. E' TUTTO A POSTO, SI CAPIRA' MEGLIO NEL PROSSIMO CAPITOLO, COSA HA VERAMENTE IN TESTA. ^^

 A PRESTO RAGAZZE *__*

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Capitolo 5
*** Capitolo 4__Oltre le apparenze ***


EHM... BUONGIORNO. SONO SCOMPARSA PER QUASI 4 MESI, E SOLO OGGI HO FINITO IL CAPITOLO. AVETE TUTTO IL DIRITTO DI TIRARMI DIETRO POMODORI E UOVA XD

MI SONO SCERVELLATA PER EVITARE DI FAR CADERE IN UN PUNTO MORTO LA STORIA, E PER FAR QUADRARE LE DATE, FINENDO COSI' A NON SCRIVERE NULLA. HO GIA' IN MENTE COME PROSEGUIRE E SPERO DI NON COMBINARE ALTRI DISASTRI CON LA PUBBLICAZIONE :(

GRAZIE AI 3 ANGELI CHE HANNO RECENSITO LO SCORSO CAPITOLO :D GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE.

SET BELLA

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 4__Oltre le apparenze

Giovedì 22 Ottobre

Edward

I passi di Bella si susseguono affrettati, mentre cerca di starmi dietro lungo il corridoio dello studio. Su una piccola agenda appunta tutto ciò che le sto dicendo da alcuni minuti a questa parte, cercando di non dimenticare niente. Proseguo tra le file di uffici, voltando il capo da una parte all’altra per controllare che tutti i dipendenti siano puntuali, e per rispondere alle loro eventuali domande. Bella appunta tutto rapidamente, ripetendo alcune frasi fra sé e sé.

Facciamo tutto il giro dello studio, fino a tornare davanti alla segreteria, vuota. Kim ha iniziato da meno di una settimana a restare a casa, in quanto ormai giunta all’ottavo mese di gestazione, ed io ho annullato tutti i colloqui di lavoro che Bella aveva fissato per farmi assumere una nuova segretaria. A cosa serve assumere un’altra persona se si ha già a disposizione un’assistente che non ha nulla da fare?

Esme mi ha chiamato tre giorni fa, informandomi che l’incarico assegnatole sarà più impegnativo del previsto, in quanto il Presidente ha richiesto la sua costante presenza, almeno fino a quando i lavori di ristrutturazione della Casa Bianca non saranno avviati, e per questo molto probabilmente dovrà assentarsi ancora per un po’. Spero solo che la sua permanenza a Washington non duri a lungo, o non credo di poter gestire le continue chiamate da parte dei clienti, che esigono al più presto una consulenza.

Arrivati davanti alla porta del mio ufficio, Bella si ferma. Abbasso la maniglia, voltandomi verso di lei.

«Telefoni anche ai nostri fornitori per dei nuovi cataloghi. Se non sbaglio a breve inaugureranno una nuova linea di arredamento moderno…».

«Sì!», esclama Bella, interrompendomi. «Ho già telefonato a tutti i fornitori per richiedere gli aggiornamenti, e dovrebbero arrivare a breve…».

Rimango stupito dalla sua preparazione, ma nonostante tutto non lo dimostro. Annuisco semplicemente, ed entro nel mio ufficio. Raggiungo velocemente la poltrona di pelle scura, e mi abbandono contro di essa.

Passo stancamente le mani sul viso, massaggiando le tempie. Ho male alla testa. Ieri sera sono andato a cena con Tanya, e in meno di un’ora avevo già terminato un’intera bottiglia di vino, a cui ne è seguita un’altra, intera; non so se l’ho fatto di più con l’intenzione di riuscire a distrarmi dalle continue chiacchiere della mia fidanzata o per mettere a tacere il continuo pensiero di Bella. Da più di una settimana a questa parte quella ragazza è divenuta un’ossessione.

Tocchi leggeri alla porta mi informano dell’ingresso di Bella. Ormai mi sono arreso alla sua abitudine ad entrare senza aspettare un segnale; temo che l’influenza di Alice su di lei sia più forte di quanto mi sarei mai aspettato.

Avanza verso di me di alcuni passi, facendo risuonare i tacchi nella stanza.

«C’è un signore che vorrebbe parlarle», dice, dando un rapido sguardo all’agenda fra le sue mani. «Si chiama Eleazar Denali», legge, inarcando un sopracciglio.

Mi irrigidisco sulla poltrona, e temo che anche Bella abbia intuito il mio improvviso cambio d’umore. Si morde un labbro, dubbiosa.

«Devo dirgli che è occupato?».

Prendo un profondo respiro, per riassumere la mia tipica aria indifferente. «No, lo faccia entrare».eleazar denali

Bella acconsente, e riapre la porta spostandosi per far passare un uomo alto, avvolto da un completo nero. Non è molto robusto, ma l’espressione del viso, così come il portamento, inducono soggezione in chiunque gli sia di fronte. I lineamenti del viso sono tesi, ed i capelli neri sono tirati indietro con del gel, che risalta la loro lucentezza. Tanya, sua figlia, mi aveva parlato delle origini latine della sua famiglia, e la pelle leggermente più scura e la linea degli occhi ne sono la prova.

Non mi alzo, rimango seduto la mio posto fissandolo scettico. Che cosa ci fa qui? Tanya gli ha riferito il mio comportamento di ieri sera? Eppure - senza contare il fatto che ero mezzo ubriaco - dovrebbe averla ritenuta una bella serata. Nessun litigio, nessun particolare argomento di conversazione.

Bella richiude la porta alle sue spalle, lasciandoci soli. Eleazar non ha staccato gli occhi da lei fino a quando non è sparita dietro il legno scuro. Stringo i pugni. L’altro giorno Tanya è venuta a trovarmi qui allo studio: inutile dire tutte le paranoie che mi sono sorbito a causa della sua cieca gelosia. Ha iniziato anche ad accusarmi di fissare troppo la mia assistente. Non avrà raccontato a suo padre questa sua assurda convinzione?

Dal suo sguardo devo intuire che sia così, ed adesso lui è venuto a controllare che il fidanzato della sua adorata figliola non sia tentato di tradirla.

«Davvero molto carina la tua assistente», dice Eleazar, scrutandomi con i suoi occhi neri come la pece. Rimane immobile vicino alla porta, senza accennare ad avvicinarsi.

Stringo i pugni, fino a far sbiancare le nocche delle dita. Lo sapevo: è qui perché Tanya ha parlato troppo.

Non rispondo, e lui sorride, avvicinandosi alla mia scrivania. Si ferma a pochi passi da essa. «Edward», dice, a mo’ di saluto.

«Signor Denali», sibilo fra i denti, senza muovermi. Ho sempre detestato quest’uomo. Con la sua enorme eredità crede di poter avere tutto e tutti ai suoi piedi, ma si sbaglia di grosso.

Infila le mani nelle tasche dei pantaloni, fissandomi serio. «Mia figlia mi ha confessato di essere piuttosto turbata da alcuni tuoi comportamenti, nell’ultimo mese…», dice, con voce bassa e incolore. «C’è qualcosa che ti preoccupa, Edward?», mi chiede, fingendosi in pena per me.

Scuoto il capo, sperando di non perdere le staffe. «È un periodo abbastanza difficile, tutto qui. Non c’è niente che non va».

Eleazar sorride, dandomi le spalle e avvicinandosi agli scaffali colmi di libri della libreria. «Capisco. Con Esme a Washington, un ufficio da dirigere ed una nuova assistente da controllare non deve essere facile».

Stringo i braccioli della poltrona, per cercare di contenere la rabbia. Che diavolo vuole da me?!

Torna davanti a me, e questa volta i suoi occhi mi scrutano minacciosi. «Ad ogni modo tutto questo non deve assolutamente influire sul tuo rapporto con Tanya. Sono stato abbastanza chiaro, Edward?», sibila.

Rimango per alcuni secondi in silenzio, cercando di rielaborare le sue parole. Cercando di capire se davvero ciò che dice può corrispondere ad una minaccia.

Annuisco, rigido come un pezzo di legno.

Eleazar Denali recupera in pochi secondi il suo contegno, e la sua aria indifferente. Mi sorride educatamente, dirigendosi verso la porta dell’ufficio.

«Buona giornata, signor Cullen», dice, prima di aprire la porta e sparire dietro ad essa.

Rimango per alcuni secondi in silenzio, immerso nei miei pensieri.

Possibile che Tanya debba sempre affidarsi al padre per risolvere i suoi problemi?! Questa sera gliene parlerò, non può continuare a permettere a suo padre di interferire nella nostra relazione. Ripenso a tutte le volte in cui Eleazar è intervenuto per cercare di avvicinarmi di più a sua figlia. È stato sempre lui a convincermi un paio di anni fa a non lasciare New York per trasferirmi da un’altra parte e ricominciare la mia vita da capo.

«Ehm… signor Cullen?».

Perso nei miei ricordi non ho sentito il lieve bussare alla porta, e nemmeno l’ingresso di Bella nello studio. Si affaccia dalla segreteria, imbarazzata.

«Dimmi, Bella…», sospiro, massaggiandomi le tempie, che hanno preso a pulsare freneticamente.

Lei sussulta, e mi rendo conto di aver appena commesso un errore: l’ho chiamata Bella, e le ho dato del tu. Ormai sta diventando un pensiero fisso, tanto che quando l’ho davanti è come se la conoscessi già, soprattutto grazie ai continui racconti di mia sorella riguardo la sua coinquilina.

Fingo di non aver fatto caso al mio improvviso cambio di tono, e lei prosegue, a disagio. «C’è la signora Cullen al telefono, sulla linea uno».

Sorrido. Forse mia madre sta per dirmi che sta tornando a casa. Magari la ristrutturazione è già conclusa.

«Grazie», rispondo, afferrando immediatamente la cornetta del telefono. Pigio il tasto per prendere la chiamata, e la voce mi mia madre mi accoglie, calorosa come al solito. Bella lascia l’ufficio, per lasciarmi privacy.

«Tesoro. Come stai?», mi chiede, apprensiva.

Chiudo gli occhi, rilassandomi contro lo schienale. «Bene. Tu? Come va a Washington?», domando, evitando di concentrare la sua attenzione su di me. Non voglio farla preoccupare inutilmente, e soprattutto non deve sapere che Denali è venuto a parlarmi; non ha mai avuto buoni rapporti con quell’uomo, anche se da quanto ho capito si conoscono da parecchi anni, fin da prima che mamma e papà si sposassero. La agiterei inutilmente raccontandole di questa minaccia nascosta fra le sue parole.

Rimaniamo per alcuni minuti a parlare del più e del meno, del tempo a Washington, dei miei fratelli.

«Quando tornerai?», mormoro, con una leggera ansia. Spero che la mia permanenza in questo studio termini presto, onde evitare problemi con la famiglia Denali a causa della presenza di Bella.

Esme sospira, e le mie futili speranze si spengono. «Purtroppo non lo so. Non prima di un mese, se continuiamo di questo passo. A quanto pare qualcuno ha caldamente consigliato al presidente di farmi rimanere fino al termine della ristrutturazione, per sicurezza. Vogliono che aspetti l’arrivo di tutto il mobilio per gli ultimi ritocchi».

«Capisco», mormoro, sperando che non colga la nota amara nella mia voce.

«Edward, devi incontrare i clienti e fargli avere un consulto, altrimenti lo studio rischia di perdere la sua credibilità prima del mio rientro», mi dice, gettandomi nel panico.

«Un consulto? Io?», chiedo, sperando inutilmente di aver capito male. «Mamma, hai altri dieci dipendenti, non possono occuparsene loro?».

«C’è solo un altro arredatore nello studio, oltre a me, e non basta per incontrare tutti i clienti», spiega velocemente.

«Mamma… io non sono in grado di farlo», brontolo, sperando di convincerla. Forse, se riesco a farglielo capire mi darà qualche consiglio per chiamare qualcun altro.

«Porta con te Bella», dice dopo alcuni secondi di silenzio. Un brivido corre lungo la mia schiena. «È bravissima e sono certa che se le lascerai fare di testa sua andrà tutto bene».

«Bella?», ripeto. Se Eleazar mi vedesse con lei di sicuro sospetterà che c’è sotto qualcosa. «Non credo sia una buona idea».

Mia madre prende un profondo respiro, e sono certo che se fosse davanti a me porterebbe entrambe le mani sui fianchi, come quando da bambino mi rimproverava per qualche disastro. «Fidati di me, Edward. È perfetta per questo lavoro, e sono sicura che se le darai una possibilità ti piacerà».

Sospiro. «Va bene, mamma», mi arrendo. Ogni volta non riesco a resistere alle sue proposte, e il fatto che io mi trovo qui ne è la prova lampante.

Rimango per altri cinque minuti al telefono con lei, riascoltando per l’ennesima volta i suoi consigli e raccomandazioni, infine la saluto.

Prendo un profondo respiro, alzandomi dalla poltrona. Potrei anche telefonare, ma non ne vedo il motivo. Esco dall’ufficio, fermandomi davanti alla scrivania della segreteria.

Lo sguardo di Bella saetta sul mio viso, interrompendo il processo di pigiare i tasti del computer. Da quando Kim non è più nello studio ho preferito farla spostare qui, in modo che possa amministrare meglio il lavoro della sua collega.

«Posso fare qualcosa per lei, signor Cullen?», mi chiede, con molta professionalità. Tuttavia non riesce a reprimere il lieve rossore che imporpora le sue guance.

«Sì. Vorrei che fissasse un appuntamento con i clienti per domani», dico, con poca convinzione. Continuo a credere che sia una pessima idea.

Bella appare sorpresa, forse anche per il mio improvviso ritorno a darle del lei. «Quindi accetta di fare consulenza?».

Annuisco, trattenendo a stento una smorfia di disappunto. «Lei verrà con me».

Strabuzza gli occhi. «I-Io?».

«Sì, mia madre ha detto che è brava in questo lavoro, credo che potrà aiutarmi».

Scuote il capo. «M-Ma… non abbiamo una segretaria, non possiamo andarcene senza qualcuno che risponda al telefono».

Non capisco se sta cercando in tutti i modi di starmi alla larga o di rendermi impossibile consentire un consulto. È così evidente che non capisco niente di arredamento?

Chiudo per un secondo gli occhi, cercando di non perdere le staffe. «Per questo vorrei chiederle se c’è ancora qualche ragazza disposta ad avere un colloquio per questo posto».

Bella rimane stupita. «Sì! Sì, mi sembra di sì. Una delle ragazze venute per un colloquio in questa settimana mi ha lasciato il suo numero di telefono, se vuole la chiamo e le fisso un appuntamento per…». Mi guarda di sottecchi, aspettando che continui.

«Oggi. Appena può venire».

Annuisce, iniziando a sfogliare la piccola agenda.

«Va bene, la chiamo immediatamente e fisso un appuntamento. Vuole la lista dei clienti per decidere chi chiamare?».

Scuoto il capo. «No, chiami la signora di questa mattina. Sembrava piuttosto impaziente di avere un consulto, meglio non farla aspettare».

Bella annuisce, e scrive qualcosa su un post-it. «D’accordo».

La lascio sola, rientrando nel mio ufficio.

 

Venerdì 23 Ottobre

Bella

«La prego, faccia con calma. Posso capire la difficoltà, ma non abbiamo nessuna fretta», dico ad una signora di mezza età, cercando di confortarla. Mi trovo in un appartamento molto ampio, nel quartiere Chelsea; è stata una sorpresa sapere che il mio nuovo capo voleva un incontro con i clienti, soprattutto perché non mi sarei mai aspettata che un tipo come lui capisse qualcosa di arredamento, e credo di non essermi sbagliata: appena siamo entrati nella stanza mi ha chiesto - anzi, imposto - di fare tutto da sola. Era abbastanza nervoso, e da questo ho dedotto che non sa proprio come comportarsi in questi casi.

Una risata soffocata, seguita da un’occhiata scocciata della cliente, mi convince a voltarmi, incontrando lo sguardo verde di Edward Cullen.

«Mi scusi», inizia la signora, evidentemente irritata dal comportamento del mio capo, «lo trova davvero così divertente questo lavoro?».

Edward sorride, con quel suo sorriso strafottente, che mi fa saltare i nervi da una settimana a questa parte. «Beh, ad essere sinceri no. Piuttosto, mi fa sorridere tutto l’impegno con cui vi state adoperando per trovare un colore adatto alle pareti. Tanto sappiamo tutti e tre che nel giro di un paio di mesi si stuferà di quel colore, e chiamerà un imbianchino per far ridipingere il tutto».

La paffuta donna dinanzi a me gonfia le guance, che si colorano improvvisamente di un acceso rosso. «Come si per-».

«La prego, signora», mi intrometto, posando una mano sulla sua spalla, nervosa, «non perda tempo a discutere con lui», mormoro, sorridendo forzatamente. «È solo un uomo, non può capire l’importanza di vivere in una casa confortevole. Del resto, sappiamo entrambe che loro passano tutto il giorno in ufficio e la casa la usano solo per dormire, non è vero?».

La mia cliente sorride amaramente, annuendo. «Hai proprio ragione, cara. Gli uomini non capiscono proprio niente di certe cose». La signora riabbassa gli occhi sulla tavolozza dei colori, lasciando perdere il mio capo. «Ad ogni modo, cosa ne dici di questo colore? Non potrebbe…».

Distolgo per un attimo l’attenzione dalla donna al mio fianco, voltando il capo per lanciare un’occhiata alle mie spalle, e un brivido mi percorre la schiena.

Edward è immobile, con le spalle contro il muro, le braccia incrociate al petto, ed un’espressione fredda ed adirata dipinta sul viso perfetto. Non so perché ma ho la sensazione che mi aspettano guai.

 

L’aria che si respira nell’ascensore non è mai stata così pesante. I piani si susseguono ad una lentezza sfiancante, e il fatto che l’abitacolo ospiti solo me e il mio capo non è d’aiuto.

Da quando abbiamo lasciato la casa della nostra cliente ha indossato una maschera d’indifferenza, e non ha ancora parlato.

«Signor Cullen…», mormoro, trattenendo per un attimo il fiato. Lui non si muove, ed io proseguo. «Mi dispiace per prima… quando ho detto quelle cose. Stavo solo cercando di…».

«Entro questa sera alle venti e trenta esigo il progetto completo, signorina Swan».

Mi irrigidisco sul posto, mentre le porte dell’ascensore si aprono sul trentaseiesimo piano. «Entro questa sera?».

Edward esce dall’ascensore, a passo spedito. Lo seguo, con il cuore che rimbalza nel mio petto a velocità esorbitante.

«Esatto», mi risponde, senza fermarsi. «La chiamerò, e voglio che mi mostri l’intero progetto per la cliente».

Passiamo davanti al tavolo a cui siede Jessica Stanley, la nuova segretaria, che si alza cinguettando per salutare il capo. Oca. Se avessi saputo che era così frivola di certo avrei finto di non aver trovato il suo numero di telefono.

Cullen si infila nel suo ufficio, ed io lo seguo. «Signore, non potrebbe spostare la data di consegna a domani mattina?», chiedo, con il cuore in gola.

Edward si siede alla sua sedia, senza fissarmi. «C’è un particolare motivo per cui dovrei posticipare la consegna?», mi domanda, con tono freddo.

Mi mordo un labbro. «Questo pomeriggio ho un esame a scuola… Non ho il tempo per preparare accuratamente il progetto».

«Mi dispiace, signorina Swan, ma io prendo il mio lavoro molto seriamente, ed esigo che il progetto venga consegnato questa sera stessa, così che se non sarà adeguato potrà dedicare la sua serata a modificarlo per domattina». Edward esibisce il suo sorriso più strafottente possibile, e stringo i pugni sulla gonna, per evitare di prenderlo a sberle. Si rilassa sulla sedia, senza abbandonare quello sguardo trionfale. «Ovviamente», continua, «se questa sera non mi porterà il progetto, non si disturbi a tornare, domani».

Sgrano gli occhi, e giro immediatamente i tacchi, per uscire dallo studio. Gli occhi mi pizzicano, e sento che potrei scoppiare a piangere da un momento all’altro. Corro immediatamente verso il mio ufficio, con i pugni stretti lungo i fianchi; appena entrata, mi lascio andare sulla sedia, affondando il volto nei palmi delle mani.

Come diavolo faccio, adesso?

Tra poche ore avrò un esame a scuola, e in più devo ancora pranzare.

Vale davvero la pena farmi in quattro per questo lavoro?

Forse… forse no.

Sto per alzarmi, quando mi viene in mente una persona. Esme.

La deluderò moltissimo se al suo ritorno non sarò qui. Lei conta su di me, l’ho letto nei suoi occhi chiari; e poi è sempre stata gentile con me: mi ha aiutata a cambiare vita, mi ha offerto una casa, un lavoro, e mi ha sostenuta, considerandomi addirittura una figlia.

No, non posso darle questo dispiacere.

Mi siedo composta, e lancio un’occhiata all’orologio. Mezzogiorno. L’esame è alle tre in punto, quindi ho un paio d’ore per iniziare, dopodiché non appena uscirò da scuola tornerò qui per terminare il progetto. Ce la posso fare.

Edward Cullen, adesso vedrai di cosa sono capace.

 

Venti in punto.

Il mio progetto è quasi terminato. Prendo la piccola caramella vicino alla bottiglietta d’acqua e la mangio velocemente, sperando di affievolire almeno un po’ i crampi allo stomaco e il senso di spossatezza che da alcune ore mi attanaglia.

Il telefono squilla improvvisamente, e rispondo immediatamente. Tutti gli uffici sono ormai vuoti, e sono certa che persino la segretaria, Jessica, è già andata a casa; in poche parole gli unici ancora a lavoro siamo io e Cullen. Difatti è proprio lui all’altro capo del telefono.

«Signorina Swan, ha terminato il progetto?».

«Certo, signor Cullen. Pochi minuti e sono da lei».

Riaggancio, e sospiro. Prendo dalla borsetta un’altra caramella, dopodiché dirigo la mia attenzione sul progetto, per terminarlo.

 

Edward

Allontano la mano dal telefono, imponendomi di non richiamare. Sono passati dieci minuti da quando ho chiamato Bella, chiedendole del progetto, ma non è ancora arrivata.

Oggi mi sono comportato da vero stronzo nei suoi confronti, imponendole di preparare l’intero progetto per la cliente entro questa sera, senza posticipare la consegna nonostante mi abbia rivelato di avere un esame all’università, ma è stato necessario.

Questa mattina ha osato prendersi gioco di me, come nessuno ha mai fatto, oltretutto davanti ad una cliente; non potevo restare indifferente a ciò. Ovviamente nel caso non sia riuscita a completare realmente tutto non la licenzierò, e di certo non le imporrò di terminare il tutto questa notte. Dopotutto spetta a mia madre licenziare i dipendenti, non a me.

Nel silenzio che avvolge lo studio riesco a percepire il rumore dei tacchi, e mi siedo composto sulla sedia, appoggiando i gomiti sulla scrivania. Pochi secondi dopo Bella entra nella stanza, portando con sé un quaderno ad anelli e alcuni fogli arrotolati. Il volto è particolarmente pallido e livido, e i suoi movimenti sono fiacchi. Forse ho esagerato, imponendole una scadenza simile. Se davvero ha già terminato il progetto avrà lavorato l’intero pomeriggio senza interruzioni.

Senza dire niente, appoggia il tutto sul tavolo al centro della stanza, e mi alzo per raggiungerla.

«Ha terminato tutto?», chiedo, imperturbabile, lanciandole un’altra occhiata, di sbieco. È davvero molto pallida.

«Sì», mormora, sfinita.

Annuisco, e mi chino sul ripiano, per esaminare la pianta della casa, con il quaderno ad anelli dell’arredamento a fianco.

Faccio scorrere gli occhi sui particolari mobili scelti da Bella, storcendo il naso. Sono molto… eccentrici, su questo non c’è dubbio.

«Sei sicura che questi mobili siano adatti alla signora?», chiedo, senza alzare lo sguardo dal quaderno.

«Li… li ho scelti… in base ai suoi… gusti…».

Mi volto immediatamente verso Bella, che ha parlato con un tono di voce molto debole. La scorgo intenta a cercare di raggiungere una delle poltroncine davanti alla scrivania, in condizioni pressoché instabili.

«Bella?», la richiamo, preoccupato per quello strano comportamento. Non si volta, ma si ferma in mezzo alla stanza. Mi avvicino immediatamente a lei, seriamente preoccupato. Poso una mano sulla sua spalla, nel tentativo di voltarla. «Bella, che cos-».

Non faccio in tempo a terminare la domanda. Si volta verso di me, un secondo prima che le sue gambe smettano di sorreggerla. Subito il mio braccio corre a circondarle la vita, attirandola a me. Il capo ruota indietro, con gli occhi chiusi, privo di forze.

«Bella!».

La richiamo, inginocchiandomi. Tasto il polso, alla ricerca del battito, con il cuore in gola.

Batte velocemente. Troppo velocemente.

Sfioro la guancia pallida, prima di prendere una decisione. Probabilmente non è necessario, ma non voglio correre rischi. La prendo in braccio, trovandola incredibilmente leggera, ed esco speditamente dall’ufficio.

 

«Edward, ti ho detto che sto bene», sbuffa Bella, quando appoggio le mani sulle sue spalle per farla tornare sdraiata.

Scuoto il capo, contrariato. «Non importa. Prima aspettiamo le analisi».

Fa una smorfia. «Mi hai fatta bucare un braccio solo per uno svenimento?», mi chiede, guardando contrariata il suo braccio pallido, sul quale è presente un pezzo di cotone bloccato da un cerotto.

studio carlisleScrollo le spalle. Appena è svenuta fra le mie braccia sono corso in ospedale a tutta velocità, rischiando più volte di fare un incidente. Si è risvegliata quando ero già a pochi metri dall’ospedale, ma - nonostante le sue continue lamentele - l’ho costretta a seguirmi fino allo studio di mio padre, dove ci troviamo ora. È un ufficio molto semplice, arredato da mia madre Esme. Sugli scaffali fanno bella mostra di sé i diplomi e i vari riconoscimenti che mio padre ha conquistato nel corso della sua carriera.

Bella fa vagare il suo sguardo nella stanza, soffermandolo sulla scrivania in mogano, vicino a noi. Osserva attentamente una cornice, contenente una fotografia di pochi mesi fa, scattata durante una vacanza. Rappresenta la famiglia Cullen al completo, con tanto di Jasper. L’unico che non è accoppiato siamo io ed Emmett: Tanya non era potuta venire a causa dell’influenza, e mio fratello non ha ancora deciso di mettere la testa a posto, preferendo alle relazioni stabili un paio di giorni di divertimento con ragazze frivole e senza personalità.

La porta dello studio si spalanca, e mio padre entra nella stanza, chiudendosela alle spalle. Io e Bella focalizziamo la nostra attenzione su di lui. In modo particolare, sono io a concentrarmi. Ho un’idea piuttosto convincente di ciò che ha provocato lo svenimento della mia assistente, ma non voglio tirare conclusioni affrettate prima di esserne certo.

«Bene, Bella, ho fatto velocemente le analisi, e non c’è nulla di cui ti debba preoccupare. Si tratta di un calo di zuccheri, e a giudicare dalle tue occhiaie posso anche aggiungere che sei molto stanca». Lo sguardo di mio padre indaga sul viso più pallido del solito di Bella, mentre le mie supposizioni vengono confermate. «Ad ogni modo, niente che non sia risolvibile con un bicchiere di acqua zuccherata e qualcosa da mangiare», sorride Carlisle, appoggiando la cartellina con le analisi sulla scrivania e prendendo un bicchier d’acqua da un vassoio posato su un comodino. Lo riempie d’acqua, e dalla tasca estrae una bustina di zucchero, che versa immediatamente dentro. Con un cucchiaino mischia la soluzione, per poi portarla a Bella.

«Grazie», mormora, portandosi il bicchiere alle labbra. Seguo i suoi movimenti, forse timoroso di una sua possibile ricaduta. Termina di bere tutto il liquido, facendo una smorfia. Non credo le sia piaciuto molto.

Mio padre riprende il bicchiere, e lo appoggia alla scrivania. Ci lascia da soli, raccomandando Bella di mettere subito qualcosa sotto i denti, e lanciando un’occhiata ammonitrice a me. È sempre stato molto premuroso nei confronti dei suoi pazienti, ma con lei sembra essere ancora più attento alle sue esigenze; probabilmente perché Alice l’ha portata a casa nostra la scorsa domenica per conoscere anche Carlisle.

«Bella, ascolta». La fermo prima che possa rialzarsi dal lettino, prendendole una mano, che lascio subito. I suoi occhi cioccolato incontrano i miei, ma distolgo immediatamente lo sguardo, a disagio. «Io volevo…», mi gratto la nuca, in imbarazzo, «volevo chiederti scusa per come mi sono comportato oggi. Non dovevo importi una simile scadenza, non volevo che a causa mia ti riducessi in questo stato…».

Sento le guance riscaldarsi leggermente, e non ho il coraggio di alzare lo sguardo su Bella. Io, Edward Cullen, che mi imbarazzo di fronte ad una ragazza e che chiedo scusa. Impossibile.

«Dispiace anche a me di aver reagito in quel modo questa mattina…», mormora. Alzo lo sguardo, e noto che ha abbassato lo sguardo a sua volta. Le guance si imporporano, il che mi dà un leggero sollievo: finalmente il suo colorito non è più bianco cadaverico. «È stata colpa mia, non avrei dovuto prenderti…», si ferma per un istante, scuotendo il capo, «prenderla in giro davanti ad una cliente. In fondo… me lo sono meritata».

Scuoto il capo. «Non siamo in ufficio, puoi darmi del tu». Le sue guance si colorano di un rosso ancora più acceso mentre annuisce. «Io avrei dovuto fidarmi di più dei tuoi gusti. Del resto se mia madre ti ha scelta ci sarà un motivo…». Azzardo un sorriso, e lei abbassa il capo a quel mezzo complimento. Poi solleva lo sguardo, incontrando il mio. Nei suoi occhi leggo sincero imbarazzo e sorpresa.

«Grazie», sussurra. Un sorriso spunta sulle sue labbra rosee, e torna a fissare le sue mani, stretta a pugno sul grembo. «Magari…», la osservo mentre si morde un labbro, nervosa, «potremmo provare ad essere amici…».

Solleva gli occhi per incontrare i miei, mentre mi immobilizzo. Amici?

Il sorriso che si era dipinto sulle sue labbra si spegne, e la luce che brillava nei suoi occhi si oscura. «Non importa…», mormora, arrendendosi davanti alla mia espressione. Come? Terrorizzata, forse?

Scuoto il capo, riprendendomi. «No!», dico, con troppa enfasi. Mi schiarisco la gola, dandomi mentalmente dell’idiota. «No, mi farebbe piacere». Sorrido, cercando di apparire tranquillo. Del resto Eleazar cosa potrà dire? Non sto tradendo sua figlia.

Un sorriso timido riaffiora sulle sue labbra.

Allungo una mano verso di lei, sorridendo. «Ricominciamo, che ne dici?».

Alterna un paio di volte lo sguardo fra il mio palmo aperto nella sua direzione e il mio viso, indecisa. Poi il sorriso illumina il suo volto. Annuisce.

«Mi chiamo Edward Cullen».

Tende la mano per incontrare la mia, guardandomi negli occhi. «Isabella Swan, ma preferisco Bella».

Stringe la mia mano. Una piccola scossa intorpidisce il mio braccio, e una pioggia di brividi si propaga lungo la mia schiena, a partire dalla nuca. Bella strabuzza gli occhi, probabilmente scossa dalle stesse sensazioni.

Distogliamo nello stesso momento lo sguardo, lasciando le nostre mani.

«Andiamo?», le chiedo, sperando di spezzare l’atmosfera carica di imbarazzo, ormai palpabile.

Bella annuisce, rossa in volto. Con un movimento veloce balza in piedi, senza però tenere a mente quanto quel gesto sia stato avventato. Ciondola sul posto per alcuni secondi, dopodiché perde l’equilibrio. Le avvolgo la vita con un braccio, reggendola.

«Stai bene?», domando, apprensivo. Il viso è di nuovo pallido.

Annuisce debolmente. «Ho avuto un giramento di testa», mormora.

Assento col capo, lasciando la sua vita poco alla volta, nel timore che possa cadere nuovamente.

«Hai fame?». Distolgo lo sguardo, dirigendomi velocemente alla porta, per allontanarmi il più possibile dal suo corpo, che non appena sfiora il mio provoca continue scariche elettriche.

A rispondere alla mia domanda è il suo stomaco che produce un suono eloquente, che arriva fino alle mie orecchie. Serro le labbra, per non scoppiare a ridere e alterare fin da subito questa nuova amicizia, ma non appena poso gli occhi sul suo viso paonazzo non resisto. La mia risata riempie lo studio, mentre Bella porta entrambe le braccia a proteggersi il grembo, in imbarazzo.

«Ho capito», riesco a dire, fra una risata e l’altra. Apro la porta, imponendomi di apparire almeno lontanamente serio. «Andiamo a mangiare qualcosa, ti va?», le chiedo, con il sorriso sulle labbra. «Del resto è il minimo che posso fare dopo averti stressata tutto il giorno».

Bella, ancora paonazza, mi passa davanti, rivolgendomi una linguaccia, a cui rispondo con un risolino. Sono sollevato dal fatto che non si sia offesa per la mia incapacità a contenere le risate, e che, anzi, questo sembra abbia aumentato la nostra complicità. Questo lato di Bella ancora non l’avevo scoperto, e chissà quante altre cose mi precluderei allontanandola. In fondo cosa può esserci di male nel starle vicino?

 

Bella

Forse ho sbagliato riguardo Edward. Da quando mi sono risvegliata in ospedale non mi è più sembrato lo stesso ragazzo di prima, anzi, era come se avesse appena tolto la maschera d’indifferenza che indossa ogni giorno a lavoro, e che mi aveva indotto a detestarlo con tutta me stessa.

Mentre sorride, ride, commenta gli strani gusti o comportamenti di alcuni clienti e dipendenti mi sembra quasi di incontrarlo per la prima volta. Non è più il capo stronzo che mi ha convinta a spendere tutte le mie energie dietro un progetto, non è più la pecora nera - come l’aveva definito Kim - della famiglia Cullen. È solo Edward.

Quando siamo usciti dall’ospedale mi ha anticipato per aprirmi la portiera dell’auto, e per un secondo ho riconosciuto in lui il ragazzo di Broadway, quando ancora non sapevo chi fosse.pizza

Dopo le sue iniziali proposte di andare a cenare in un ristorante l’ho convinto a fermarsi in un fast-food, dove abbiamo preso una cheese pizza. È assurdo il modo in cui riesco a sentirmi a mio agio nonostante sappia che lui è il mio capo.

Temetti di svenire quando l’ho sentito per la prima volta ridere, quando eravamo ancora nello studio di suo padre Carlisle: non ho mai sentito una risata più bella della sua, e l’espressione serena del suo viso mentre schiude le labbra mostrando i denti bianchi e perfetti mi ha procurato il batticuore, facendomi arrossire a dismisura - ancora di più dell’imbarazzo causatomi dal mio stomaco brontolante.

Non siamo mai scesi a farci domande personali, sebbene per un istante ebbi il timore che lo facesse; fortunatamente è stato interrotto dall’arrivo della cameriera con le rispettive bibite. Birra per lui, Coca-Cola per me - su sua espressa richiesta, in quanto contiene più zuccheri.

Nonostante all’inizio non avessi granché fame è stato facile terminare la mia parte di pizza, ed adesso posso dire di essere più che sazia.

Mentre percorriamo velocemente le strade di Manhattan soffermo il mio sguardo sul viso di Edward, concentrato sul traffico. Sono quasi le undici, e domani lo studiò sarà chiuso, in quanto sabato; molto probabilmente Alice mi trascinerà per negozi tutto il giorno.

«Eccoci».

La voce di Edward mi riscuote dalla contemplazione del suo viso perfetto, e distolgo appena in tempo lo sguardo, prima che mi scopra a fissarlo. Ci troviamo davanti all’ingresso del palazzo.

«Grazie per oggi», mormoro, rossa in viso, preparandomi a scendere dalla sua Volvo argentata.

Ridacchia. «Mi sarei aspettato un insulto, non un ringraziamento». Mi lancia un’occhiata di sottecchi, prima di tornare a fissare la strada. «Del resto sei finita in ospedale a causa mia».

Abbasso lo sguardo. «In effetti… Però mi hai portata in ospedale e mi hai offerto la cena, è più che sufficiente per sdebitarti».

In più mi hai mostrato come sei veramente fuori dall’ambiente di lavoro, e di questo ti sono grata.

Scuote il capo, sorridendo.

«Ci vediamo lunedì», dico, aprendo la portiera. Scendo dall’auto, sporgendomi all’interno. «Ciao».

Le labbra di Edward si piegano in un sorriso molto strano, alzandosi da un lato solo. «Ciao, Bella».

Richiudo la portiera, osservando la sua auto riprendere a correre lungo l’asfalto. Prendo una boccata d’aria fresca, per cercare di riprendere a respirare regolarmente. Quel sorriso mi ha lasciata senza fiato.

Basta, Bella, riprenditi.

Scuoto il capo, ed entro nel palazzo, salutando il portiere. L’ascensore mi conduce velocemente al mio piano, e in tempo record mi ritrovo nell’appartamento di Alice.

Le luci sono tutte accese, segno che lei è già rientrata.

Infatti appena faccio un passo quel piccolo folletto che è la mia coinquilina si getta fra le mie braccia, stritolandomi.

«Bella! Stai bene? Edward mi ha detto cosa ti è successo, hai bisogno di qualcosa? Vuoi da bere? Da mangiare? Vuoi che chiamo papà per farti visitare? O vuoi andare subito in ospedale? Oh Dio, non so cosa fare! E se svieni ancora? Aspetta, chiamo Carlisle per-».

«Alice! Alice, calmati!», esclamo, allontanandola un po’ per guardarla negli occhi. Sorrido, cercando di rincuorarla. «Sto bene, non ti preoccupare. Tuo padre mi ha già visitata, e ho già mangiato parecchio. Non sto per svenire e devi solo alzarmi le gambe se ciò accadesse, okay?».

La mia amica sospira, portandosi una mano all’altezza del cuore. «Non sai che colpo mi hai fatta prendere. Quando Edward mi ha chiamato stavo per raggiungerti in ospedale e farti compagnia». Incrocia le braccia al petto, iniziando a camminare per il salotto, apparentemente furiosa. «Scommetto che quel deficiente se ne è andato prima ancora che ti risvegliassi», sbraita.

Inarco un sopracciglio, perplessa. «No, veramente è stato lui a portarmi a cena. Si è assicurato che mi riempissi di zuccheri, non ti preoccupare». Accenno una risata imbarazzata davanti al suo sguardo allucinato.

«Stai scherzando? Bella non devi difenderlo. Non mi ha detto per quale motivo sei svenuta, ma conoscendolo ti avrà stressato fino al punto di farti impazzire», dice, furiosa.

Scuoto il capo. «Effettivamente è così, ma poi in ospedale è stato… gentile. Mi ha portata a mangiare una pizza e mi ha riaccompagnata a casa».

La bocca di Alice si spalanca per un istante, prima che il suo viso si illumini. Inizia a battere le mani, come una bambina. Ormai sono abituata agli improvvisi sbalzi d’umore della mia amica, che è divenuta in pochissimo tempo come una sorella, ma ogni volta rimango perplessa.

«Che c’è, Alice?», chiedo, confusa.

Mi lancia un’occhiata maliziosa, continuando a sorridere quasi trionfante. «Gli piaci!».

Una vampata di calore mi fa arrossire. «Cosa? Non dire sciocchezze, per favore. Non ci conosciamo nemmeno!».

Alice alza un indice, sorridendo sorniona. «Mai sentito parlare di attrazione?», mi chiede, retorica. «È evidente che almeno fisicamente gli piaci, e per questo motivo adesso sta cercando di capire come sei anche caratterialmente», spiega, come se fosse la cosa più evidente al mondo.

Mi passo una mano sul viso, distogliendo lo sguardo. La mia pelle sta letteralmente bruciando. «Alice, stai esagerando. Si sentiva in colpa perché mi ha costretto a terminare un progetto, assicurandomi che se non l’avessi fatto mi avrebbe licenziata. È evidente che abbia tentato di sdebitarsi».

Ma lei non demorde. Scuote il capo, posando entrambe la mani sui fianchi. «Ed io ti dico che invece è evidente che c’è qualcosa di diverso in lui. È mio fratello, so bene come si comporta con le donne, specialmente con quelle che non gli piacciono sotto nessun aspetto. E credimi se ti dico che non si è mai comportato così con nessuna. Ergo, gli piaci».

Scrollo le spalle, fingendo che la cosa non mi tocchi. Mi dirigo verso la mia stanza, sotto lo sguardo stralunato della mia amica. «Ehi, non dici niente?».

«Ti ricordo che tuo fratello è fidanzato», sospiro, sperando di apparire disinteressata. Colgo l’occasione per tentare di allontanare la sua attenzione da me. «A proposito: ti ho detto che Tanya è venuta in ufficio qualche giorno fa?».

Alice mi affianca, sbuffando. «Bella, non cercare di cambiare discorso, e comunque sì, me l’hai raccontato. E questo è un altro punto abbastanza interessante», dice, illuminandosi di nuovo. «Hai detto che Tanya ti fulminava con lo sguardo, quindi è gelosa perché ha capito che Edward è interessato a te!».

Alzo gli occhi al cielo. Possibile che sia così fissata? «Alice, qualunque ragazza sarebbe gelosa di sapere che il proprio fidanzato lavora con altre donne».

Il folletto si getta sul mio letto, sdraiandosi. «Uffa! Sei proprio testarda!».

Rido. «Guarda che sei tu che insisti con questa storia».

Mi dirigo verso il bagno adiacente alla mia camera, dopo aver raccattato l’occorrente per la notte dall’armadio.

Alice mi fa la linguaccia. «Ti dimostrerò che è la verità».

Scuoto il capo, sconfitta. Quando si mette in testa qualcosa è impossibile fermarla.

«Ah, comunque domani mattina andiamo a fare shopping! Devo presentarti una persona». Mi fa l’occhiolino, prima di sparire dietro la porta.

Chissà chi deve presentarmi…

Mi getto sotto la doccia, mentre le parole di Alice iniziano a risuonare nella mia testa, gettandomi nella confusione.

___________________________

MH. PER CHI CHIEDEVA DI CARLISLE: BENE, E' ENTRATO IN SCENA. PER ROSE BISOGNA ASPETTARE, INFATTI EDWARD HA DETTO CHE SUO FRATELLO EMMETT MOMENTANEAMENTE E' SINGLE :) ABBIATE PAZIENZA E ARRIVERA' ANCHE LEI :) IN QUESTO CAPITOLO INOLTRE C'E' UN PICCOLO INDIZIO PER RIUSCIRE A CAPIRE ALCUNE COSE CHE ACCADRANNO IN SEGUITO :)

STO GIA' INIZIANDO A SCRIVERE IL PROSSIMO CAPITOLO, SPERO DI RIUSCIRE A POSTARE IN SETTIMANA :) A PRESTO :)

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Capitolo 6
*** Capitolo 5__Conoscenze ***


L'ULTIMA VOLTA SONO SCOMPARSA PER 4 MESI, QUESTA VOLTA PER UNO! SONO PESSIMA, LO SO, E MI DISPIACE INFINITAMENTE! AVEVO INTENZIONE DI PUBBLICARE PRIMA DEL 15, MA HO AVUTO UN BLOCCO, E ALLA FINE SONO PARTITA E IN VACANZA LA PRIVACY E LA TRANQUILLITA' PER SCRIVERE ERANO UN OPTIONAL -.-' COSI' HO FINITO SOLO OGGI IL CAPITOLO! CHIEDO IMMENSAMENTE SCUSA PER TUTTO IL TEMPO CHE PASSA TRA UN CAPITOLO E L'ALTRO!

PER RESTARE IN TEMA NON HO IDEA DI QUANDO POTRO' POSTARE, PROBABILMENTE A SETTEMBRE. L'8 PARTO E NON SO QUANDO POTRO' AVERE ANCORA LA CONNESSIONE INTERNET, MI SPIACE :( PROVVEDERO' A SCRIVERE MENTRE SARO' VIA COSI' RIPRENDERO' A POSTARE APPENA TORNO :)

CHIEDO SCUSA ANCHE PER IL CAPITOLO DECISAMENTE LUNGO, MA TAGLIARLO NON MI SEMBRAVA IL CASO.

CherryBomb_

Waaa che recensione *_* Non ti preoccupare se non hai recensito gli altri capitoli, davvero :D Capita anche a me, e poi non è mica obbligatorio :) Grazie mille per le bellissime parole, sono davvero felice che questa storia ti piaccia tanto *.* L’Edward stronzo sembra aver fatto le valigie, ma non si sa mai! XD Davvero, grazie infinite per quella recensione chilometrica :D Spero ti piaccia anche questo capitolo, altrettanto lungo  XD

KStewLover

Ciao carissima! :D Sono davvero felice che la storia ti piaccia! Ti capisco, anche a me New York fa sognare *_* Era la città più ricca per ambientare questa storia :D Spero ti piaccia anche questo capitolo, anche se i miei tempi di aggiornamento purtroppo sono piuttosto lunghi :) Grazie mille :D

samy88

Tesoro! *_* A quanto pare mi ero sbagliata, qui la dentiera prima o poi arriverà! XD Ci faremo compagnia con il bastone di questo passo :) Spero che il capitolo ti piaccia! Un bacione!

grepattz

Non si tratta di Jazz, infatti in un capitolo (non ricordo quale XD) Bella diceva di averlo già conosciuto :) Comunque Tanya non ha propriamente mandato il padre, lei gli ha solo parlato e lui da bravo paparino ricco fa quello che può per la figlioletta adorata. In questo capitolo verrà nominato e potrai capire meglio che genere di persona è :)

Lizzie95

Ciao! Grazie per i complimenti :D Per il padre di Tanya sono d’accordissimo con te :D Qui troverai un altro indizio per capire cosa combina davvero quell’uomo ;) Così saprai di cosa è capace :D

Cherry_Strawberry

Ciao!! :D Sono contenta che la storia ti piaccia! Cosa c’è nella testolina di Edward… mmm… si vedrà pian piano :D

rodney

Ciao! :) Anche questa volta mi avrai data per dispersa e fai bene XD Già, Antonio Banderas come suocero non sarebbe male :P Se non fosse come è in questa storia però sarebbe meglio! XD Spero di ricompensare l’attesa con un capitolo abbastanza lungo :D

anny crazy

Ciao! Edward è stato proprio pessimo, è vero :) adesso sta cercando di cambiare, però :) spero ti piaccia anche questo capitolo! :D

giorgina_cullen97

Lo so, 4 mesi sono imperdonabili, mi spiace! Questa volta quasi un mese… °_° Sono proprio un disastro, spero di farmi perdonare almeno un po’ con questo capitolo un po’ lunghetto! :)

ChiaraBella

Ciao! Sono contenta che ti piaccia la storia :D Hai ragione, Tanya e Jessica nemmeno io le posso soffrire, ma mi servono entrambe, quindi fidati ;) Le vorrai uccidere, ma serviranno XD

inquietudine

Sono contenta che ti piacciano i caratteri dei personaggi :) spero di fare castronerie! XD grazie :)

 

COME SEMPRE GRAZIE ANCHE A TUTTI I LETTORI SILENZIOSI! :)

BUONA LETTURA!

SET PRIMA PARTE

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Don’t Leave Me Alone

 

Capitolo 5__Conoscenze

Sabato 24 Ottobre

Bella

«Tranquilla, Bella, sono sicura che andrete d’accordo!», trilla Alice, al mio fianco.

Mi mordo un labbro, nervosa. Non sono mai stata molto brava a socializzare, tanto meno al primo incontro con persone che non ho mai visto prima d’ora.

La gente continua a scorrere lungo il marciapiede, affollato da banchetti che vendono caricature e poster di New York; ci troviamo all’angolo di Central Park, uno dei luoghi più affluenti della città.

Abbasso lo sguardo sulla punta delle ballerine che indosso, sentendomi a disagio. L’aria fresca di fine ottobre mi convince ad indossare il coprispalle bianco, e a maledirmi come ogni mattina per aver accettato di farmi vestire da Alice in maniera così leggera per il periodo. Tuttavia, per essere alle porte di novembre, le temperature sono decisamente al di sopra della media.

«Rose!», esclama a un certo punto Alice, iniziando a sbracciarsi in direzione di una folla di persone. Alzo gli occhi sulla figura che si sta isolando dal resto della gente per venire verso di noi.

È una ragazza alta, dal fisico slanciato e lo sguardo fiero e altezzoso. Indossa una gonna di jeans, che mostra le gambe snelle e lunghe, ed una camicetta che risalta la curva del seno e il ventre piatto. I morbidi capelli biondissimi ricadono dietro le spalle, fino a metà schiena, ondeggiando ad ogni suo passo. I lineamenti del viso sono dolci, in contrasto con la freddezza degli occhi azzurri incastonati sotto due sopracciglia bionde e perfette. È bellissima.

Sorride, accostandosi ad Alice. «Ciao».

La mia amica batte le mani, voltandosi leggermente nella mia direzione. «Lei è Bella!».

Sorride, quasi incerta, tendendomi la mano. «Piacere, io sono Rosalie».

La stringo, sorridendo. «Piacere mio».

Alice è come sempre entusiasta, e sorride felice. «Finalmente vi conoscete! Non sai quanto è difficile trascinare Bella fuori casa il mattino!», ride.

Mi fingo offesa, imbronciandomi. «Ehi! Non è vero!».

Scocco un’occhiata a Rose - come l’ha chiamata Alice -, e scorgo sul suo viso lo stesso sorriso incerto di prima. Chissà, forse non sono l’unica a non esser brava a socializzare.

«Forza, ragazze!», esclama Alice, energica. «Avrete tutto il tempo per conoscervi, adesso i negozi ci aspettano!».

La bionda non dice niente. Si limita a sorridere, mentre una strana scintilla illumina i suoi occhi. Vi prego, ditemi che non è una fanatica di shopping come Alice!

Mi lascio condurre dalla mia coinquilina per le strade di New York, sperando di sopravvivere a questa sessione di shopping mattutino.

 

Questa mattina sapevo che alzarmi dal mio comodissimo letto sarebbe stata una pessima idea. Ora i miei piedi doloranti ne sono la prova, compreso il mio corpo accaldato; correre da un negozio all’altro come una trottola non fa affatto bene, e mi sorprendo nel constatare che Alice e Rosalie, sebbene indossino trampoli mortali al posto di scarpe, sono in piena forma, e non lamentano alcun dolore fisico, al contrario di me. Vivere a New York mi sta letteralmente uccidendo.

Comunque, Rosalie si è dimostrata al livello di Alice in quanto fanatica dello shopping, infatti ora viaggia per le strade con una dozzina di borse di varie dimensioni appese alle braccia.

Lancio uno sguardo alla tendina dietro la quale si è rifugiata Alice per provare alcuni abiti, e poi mi volto a guardare la bionda vicino a me, con la quale ho scambiato poco più di quattro parole, tutte riguardanti vestiti e scarpe. Il negozio - il diciannovesimo che assaltiamo, per l’esattezza - è quasi vuoto, e gli unici clienti si trovano dalla parte opposta a dove ci troviamo. Forse è il momento buono per provare ad introdurre una conversazione. Magari lei è persino più timida di me, per questo non parla molto con gli estranei.

«Allora… Mmm…», mormoro, attirando la sua attenzione, «come hai conosciuto Alice?».

Alza gli occhi dagli abiti che sta esaminando, e arrossisco davanti al suo sguardo perplesso. Forse è una domanda che ritiene personale?

Fin dal primo momento in cui ho incontrato i suoi occhi azzurri ho provato soggezione.

«Non te l’ha detto lei?», domanda, fissandomi intensamente per alcuni istanti.

Scuoto il capo, a disagio. Riporta il suo sguardo sugli abiti appesi agli scaffali, evitando di guardarmi.

«Facevo la modella presso la casa di moda in cui lavora», mi spiega velocemente, dopo alcuni secondi di silenzio in cui pensavo di aver appena commesso un errore parlandole.

Rimango piacevolmente stupita, anche se non troppo. È evidente che con un fisico come il suo sia più che adatta ad un lavoro simile. Però…

«Hai detto ‘facevo’. Significa che adesso non lo sei più?», chiedo, spinta dalla curiosità.

Rosalie mi osserva per alcuni istanti, prima di rispondere. «Mi serviva per guadagnarmi un po’ di soldi e pagare la retta scolastica dell’università. Adesso studio, spero di laurearmi al più presto».

Sorrido, felice per lei. «E in cosa?».

Mi fissa scettica, forse decidendo se rivelarmi o meno il suo corso di studi. Ma che problema c’è? «Medicina».

Rimango sorpresa, ma sorrido ugualmente.

Alice ci interrompe, tirando la tendina del camerino e richiamandoci. «Allora, che ve ne pare?».

Ci voltiamo nella sua direzione, e Rosalie inizia a darle consigli riguardanti l’abito, chiudendo la nostra brevissima conversazione.

 

Mi abbandono contro una delle tante panchine di Central Park, godendomi l’aria leggermente calda e riposando i piedi, distrutti da questa sessione di shopping. Rose ed Alice mi affiancano, posando i loro acquisti - decisamente superiori ai miei - ai loro piedi.

Rimaniamo sedute sulle panchine per un po’, godendoci l’aria ancora tiepida, preludio di un inverno che si prospetta rigido e bagnato. Stando alle previsioni meteorologiche i mesi che seguiranno saranno estremamente freddi, con frequenti e violente precipitazioni; quasi sicuramente nevicherà. Ovviamente la cosa non mi spaventa: dopotutto, a Forks ero abituata a vedere la pioggia ogni giorno, e la neve ogni inverno ricopriva la terra, senza alcuna eccezione.

Chiudo gli occhi, godendomi i suoni dell’enorme parco. Alcuni bambini ridono, alcune persone parlano, alcuni uccellini cinguettano, il vento soffia fra le fronde degli alberi, facendo frusciare le foglie gialle, che continuano a cadere.

«Vi va di fare un salto a bere qualcosa da Emmett?», trilla Alice, spezzando il silenzio in cui eravamo precipitate. La noto lanciare un’occhiata all’orologio da polso, sorridente.

Mi guardo attorno, spaesata. Non sono ancora brava ad orientarmi a Central Park, infatti tengo sempre la piantina ritirata nella borsa - insieme a quella della città -, per evitare di perdermi se per qualche motivo vengo qui. Durante la pausa pranzo, prima delle lezioni pomeridiane a scuola, sono solita fare un salto in qualche ristorante o take away per prendere qualcosa da mangiare e poi vengo qui a rilassarmi, ripassando e iniziando a studiare la lezione. È il posto perfetto per chi cerca un po’ di tranquillità.

Riconosco una delle tante statue che popolano i percorsi, e deduco che ci troviamo nella zona vicino all’uscita per arrivare alla mia scuola.

Rosalie annuisce alla domanda della nostra amica, sorridendo.

Ci alziamo, trascinando con noi le borse di acquisti. Nonostante non abbia speso cifre esorbitanti - anche perché con i pochi soldi che mia madre e mio padre mi hanno gentilmente dato, e con lo stipendio ricevuto per la prima volta solo pochi giorni fa non posso certo permettermi troppi acquisti dedicati ai vestiti - è probabile che abbia comprato più abiti in questo mese a New York che in tutto un anno a Forks; ma del resto non ho mai dato grande importanza al vestiario. Solitamente indossavo un semplice paio di jeans con una maglietta e una felpa; le scarpe da ginnastica ovviamente rientravano nel completo abituale. Ora invece lascio che sia Alice a scegliere i miei vestiti, contando sul suo buon gusto.

Usciamo da Central Park, e raggiungiamo la cioccolateria di Emmett. Da quando il fratello di Alice ha scoperto che sono la coinquilina di sua sorella e l’assistente di sua madre - anzi, fratello - cerca sempre di scoprire qualche evento imbarazzante che riguardi i due consanguinei, probabilmente per ricattarli scherzosamente o semplicemente prenderli in giro.

Rose ci racconta di non essere mai stata nella cioccolateria, nonostante le innumerevoli uscite con Alice, ed è molto curiosa. Trovo anche molto strano che non conosca ancora nessuno dei fratelli Cullen.

Non appena varchiamo la soglia del locale l’intenso profumo di cacao e cioccolato ci avvolge, mischiato a una punta pungente di caffè. I tavolini sono quasi tutti occupati, ma Alice si precipita a prendere posto in uno di quelli vicino al bancone, gettando la borsa sulla sedia e facendo cenno a me e Rose di fare lo stesso per occupare tre sedie. Non appena abbiamo sistemato tutto mi avvicino con Rosalie alla vetrinetta in cui sono esposti i dolci che in questo mese ho imparato ad amare, per sceglierne uno.

«Vuoi consigliarmene uno?», mi domanda Rosalie, mentre osserva con un sorriso i dolcetti colorati disposti nelle vaschette. Alcune targhette riportano i nomi - alcuni buffi - che Emmett ha deciso di dare ad alcune delle sue creazioni. Quando gli ho chiesto per quale motivo non mette anche il nome degli ingredienti principali mi ha risposto che secondo lui la scelta del dolce è tutta una questione di istinto; se il cliente glielo chiede, bene, altrimenti deve seguire il suo intuito e scegliere a caso fra i dolci che secondo lui hanno un aspetto più appetibile. Finora sono riuscita a provarne meno della metà. Purtroppo la gola è uno dei miei peggiori difetti, soprattutto quando si tratta di dolci al cioccolato.

Tuttavia rimango sorpresa da Rose. Fortunatamente per quanto riguarda gli abiti non mi ha chiesto nulla questa mattina - probabilmente ha capito che sono una frana in queste cose -, tuttavia non mi sarei mai aspettata che mi chiedesse consigli per qualcosa.

«Mmm… non saprei…», mormoro. «A dire il vero non so neanch’io quale prendere».

Non voglio commettere passi falsi con Rosalie. Non conosco i suoi gusti, e non saprei quale dolcetto consigliarle. Ne vuole uno al cioccolato? Uno con retrogusto alla frutta? Al caffè? Non ne ho idea.

«Io prenderei quello là, con la copertura rossa».dolce

Sussulto, e un fremito corre lungo la mia schiena. Riconosco immediatamente questa voce, e mi volto verso il mio interlocutore. Un paio d’occhi verdi incontrano i miei, e un sorriso spunta involontario sulle mie labbra, mentre sento le guance riscaldarsi improvvisamente.

«Perché?», chiedo, sforzandomi di non sorridere troppo.

Scrolla le spalle. «È alla fragola».

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Cosa ti fa credere che mi piace la fragola, Edward?».

Il suo tipico sorriso sghembo si dipinge sulle sue labbra. Potrei anche sforzarmi, ma non riesco proprio a vederlo come il mio capo dopo ieri sera. «Ho tirato a indovinare».

Scuoto il capo, e mi sfugge una piccola risata. «Allora sei fortunato».

Faccio scorrere lo sguardo lungo il suo corpo, e per la seconda volta lo vedo in abiti informali. Non che a lavoro venga in giacca e cravatta, ma sono abituata a vederlo con camicia e jeans. Oggi, invece, indossa una felpa nera aperta, dalla quale si vede una maglietta dello stesso colore con una stampa colorata; le gambe sono fasciate da semplici denim appositamente strappati in vari punti.

Solo adesso noto che Alice non è più al fianco mio e di Rose - che sta lanciando occhiate perplesse al ragazzo apparso davanti a me -, ma si è lanciata addosso a Jasper, al bancone, poco distante da noi. Si abbracciano, felici. Lui è in uniforme, e probabilmente si è concesso una pausa caffè prima di tornare a sorvegliare le strade newyorkesi, in quanto poliziotto.

Emmett appare dietro la vetrinetta, sorridente come suo solito.

«Buongiorno, Bellina! Fratellino, l’hai già invitata a uscire questa sera?».

Non faccio in tempo a salutare Emmett che la sua domanda diretta al fratello mi lascia spiazzata. Invitarmi?

Aggrotto le sopracciglia. «Per cosa?».

Alice torna da noi, affiancando il fratello. Jasper la segue, tenendola per mano e salutandomi con un sorriso, a cui rispondo subito. Guardo di sbieco la sua fidanzata, che mi fa l’occhiolino.

«Questa sera usciamo tutti insieme!», trilla, rispondendo in parte alla mia domanda. «A proposito», aggiunge, guardando Rose. «Lei è Rosalie». Poi si volta verso i fratelli, indicandoli a turno, «Rose, loro sono Edward ed Emmett».

La bionda li osserva, e afferra la mano di un titubante Edward. Forse anche lui ha notato lo strano sguardo con cui Rosalie scruta la gente.

Quando è il turno di Emmett, tuttavia, gli occhi di ghiaccio e l’espressione impassibile lasciano posto a un sorriso sincero, specie dopo la divertente presentazione dell’orso.

«Piacere, bella signorina. Io sono il fratello più grande, più bello, più simpatico e più intelligente della nana qui vicino».

Sorridiamo tutti - eccetto Edward, ovviamente, che alza gli occhi al cielo -, ma quello che mi stupisce più d’ogni altra cosa è la risata argentina che sfugge alle labbra di Rose.

«E anche il più modesto, a quanto pare», gli risponde, divertita. Il sorriso non accenna a lasciare il suo viso, e mi ritrovo a sorridere a mia volta.

Emmett si finge scandalizzato, aumentando l’ilarità del momento. «Così mi offende! Ho semplicemente detto la verità!».

Rosalie sorride, tornando a guardare i dolci per poi sceglierne uno a caso, senza più chiedermi consiglio. Alice invece prende solo un cappuccino, e va a sedersi al tavolino, seguita dalla nostra amica, lasciando Jasper al bancone.

Edward, invece, rimane fermo al mio fianco, forse aspettando di scoprire se mi fiderò o meno del suo consiglio.

Mi mordo un labbro, ma alla fine decido di prendere quello consigliatomi da Edward. In fondo se è alla fragola è perfetto per me.

Edward sorride, lanciandomi un’occhiata divertita. «Sicura di volerti fidare?».

Scrollo le spalle. «Al massimo farò in modo che questa sera ordini qualcosa di davvero pessimo per vendicarmi».

Scuote il capo, divertito, dopodiché torna a sedersi vicino a Jasper, al bancone.

Emmett mi invita a sedermi, e così faccio.

Con mi grande sorpresa è proprio lui a portare le ordinazioni al tavolo, e dall’occhiata che rivolge a Rose non mi è difficile credere che l’abbia fatto solo per potersi avvicinare ancora a lei. Del resto lui non è fidanzato, quindi non ha problemi.

Scuoto il capo, cercando di togliermi quel pensiero dalla mente.

Mangio il dolcetto lentamente, assaporando l’aroma di fragola che mi invade la bocca. È squisito. Il migliore che abbia provato finora.

Bevo la cioccolata che ho ordinato, e parlo tranquillamente anche con Rosalie, che sembra essere più loquace di questa mattina. Sorride, e parla liberamente come non ha fatto finora. Forse aveva solo bisogno di sentirsi di più a suo agio.

Quando Rosalie si alza per andare un attimo al bagno mi accosto all’orecchio della mia coinquilina, lanciando un’occhiata ad Edward, comodamente seduto al bancone.

«Alice, l’hai fatto apposta, non è vero?», bisbiglio, un po’ seccata.

Lei mi rivolge un’occhiata sorpresa, appoggiando la tazza di cappuccino sul tavolino. «Cosa?».

«Venire qui a quest’ora… sapevi che c’era Edward, vero?», bofonchio. Fin da quando mi ha fatto l’occhiolino ho pensato fosse tutto organizzato da lei.

Alice ride, tranquilla. «Non ne ero certa, però lo immaginavo, visto che viene sempre qui per salutare Jasper in pausa».

Stringo le labbra, e non so se essere irritata o meno dal suo interessamento. «Ti avevo chiesto di non impicciarti…».

La nana sospira, scuotendo il capo; mi interrompe prima ancora che possa iniziare un’arringa su quanto le sue supposizioni sia avventate e prive di fondamenta. «Bella, per quanto adori fare il cupido questa volta ho voluto venire qui a quest’ora solo per incontrare il mio Jazz».

Rimango per un istante boccheggiante, mentre mi sento avvampare. Brava, Bella. Bella figura!

«Ah», riesco a dire solamente, con voce flebile.

Abbasso lo sguardo, mentre la vergogna mi sommerge. È stato stupido da parte mia credere che Alice abbia fatto tutto questo solo per delle assurde convinzioni.

Alice ghigna, riprendendo a bere il cappuccino appena prima dell’arrivo di Jasper, che mi guarda sorridendo. Ha forse notato il rossore che imporpora le mie guance?

Quasi certamente.

Deve tornare in centrale, per il nuovo turno. Quando si china per baciare Alice mi volto, per non essere indiscreta, e il mio sguardo vola al bancone, dove Edward è ancora seduto. È voltato nella mia direzione, e sorride. In qualche modo, impacciato, cerco di rispondere e sorridere mi riesce più naturale di quel che pensavo.

Quando torno a guardare Alice, una volta uscito Jasper, però, un’ombra oscura l’intera giornata.

Nella testa due parole risuonano come un allarme, come per impedirmi di soffermarmi più del dovuto sul suo viso, sul suo corpo, sui suoi occhi.

È fidanzato.

 

Edward

Quando torno a sedermi al bancone, Jasper mi sorride, quasi beffardo.

Lo ignoro, e ordino un caffè. Il cappuccino che avevo ordinato appena entrato l’ho finito in un sorso non appena i miei occhi si sono posati sulla figura esile di Bella, che senza notarmi si è avvicinata alla vetrina che espone i dolci. Senza badare a Jasper e cercando di fare il tutto il più naturalmente possibile mi sono avvicinato a lei, e notata la sua perplessità riguardo la scelta del dolce l’ho consigliata, palesandole la mia presenza al suo fianco.

 «Cosa ti fa credere che mi piace la fragola, Edward?».

 «Ho tirato a indovinare».

Non potevo certo dirle che ieri sera, mentre percorrevo la strada dal mio ufficio alla mia auto con lei stretta fra le mie braccia, il suo profumo mi ha avvolto come un balsamo. Non potevo dirle di essere stato deliziato dall’odore dei suoi capelli così vicini ai miei, delicatamente profumati alla fragola. Cosa avrebbe pensato altrimenti?

La sua amica mi ha fissato in maniera strana, quasi come se fossi un alieno, e dallo sguardo posso dedurre che mi stava scrutando e analizzando.

Osservo le sue labbra, mentre si posano sul piccolo dolcetto, prima di morderlo lentamente.

Mi costringo ad abbassare lo sguardo e pensare ad altro.

Tuttavia, rialzo gli occhi su di lei solo dopo pochi secondi. Dall’espressione deliziata posso dedurre che il dolce che le ho consigliato le piace.

«Edward, credo che sia meglio se smetti di fissare Bella in quel modo…», mormora Jasper, seduto vicino a me. «Te la stai mangiando con gli occhi!».

Sbatto più volte le palpebre, e indirizzo lo sguardo in direzione del mio amico, che sogghigna beatamente, mentre sorseggia il suo secondo caffè.

Scuoto il capo. «Non dire sciocchezze. E tu dovresti smettere di bere caffè continuamente. Potrei pensare che sei un drogato che scioglie la sua dose lì dentro, altrimenti».

Jasper scuote il capo, sorridente. Appoggia la tazzina al bancone. «Non riuscirai a cambiare discorso. Ti capisco meglio di te stesso».

Stringo le labbra. Su questo purtroppo ha ragione.

«Di cosa parlavano Emmett ed Alice, prima?», gli chiedo. «Riguardo a stasera».

«Alice vuole fare un’uscita di gruppo. Per farci conoscere meglio Rosalie, dato che voi non la conoscete ancora».

Per un istante penso all’appuntamento con Tanya che dovrò rimandare, ma non mi soffermo troppo su questo pensiero. Aggrotto le sopracciglia. «E tu sì?».

Annuisce. «L’ho incontrata quando sono andato a prendere Alice a lavoro un mese fa, e siamo usciti a bere un caffè tutti insieme».

«È…», esito, cercando le parole adatte, «strana. Mi guarda come se mi stesse analizzando».

Jasper ghigna. «È normale. Fa così con ogni persona che non conosce».

Annuisco, perplesso. «Se lo dici tu… sei tu lo psicologo fra noi».

Ride, educato. «Non ero l’empatico?».

«Hai capito cosa intendo».

«Questa sera ci sarai, vero?».

Annuisco, ma Jasper sembra non essere convinto dalla mia risposta. Mi fissa intensamente, con gli occhi chiari ridotti a fessure. «Non hai un appuntamento con Tanya?».

Faccio spallucce. «No».

Scuote il capo. «Edward, dovresti chiudere questa storia una volta per tutte. E possibilmente prima di illudere Tanya». I suoi occhi diventano improvvisamente cupi. «Sai bene che tipo è suo padre… alla centrale abbiamo ricevuto più soffiate riguardo le attività illecite di Denali… E anche l’FBI sembra interessata a lui». Stringo le labbra, e abbasso lo sguardo. Mi ha già fatto questo discorso, ma non ho mai dato granché peso alle sue parole. Ma dopo quello che è successo l’ultima volta che l’ho incontrato non sono sicuro che le fonti di Jasper siano poi così infondate.

«Tranquillo, cosa vuoi che mi succeda?», rido.

Ma Jazz non sorride. Il suo viso è ancora tirato in un’espressione grave.

«Edward, promettimi che se oserà avvicinarsi a te… a minacciarti, me lo dirai».

Mi fissa intensamente, e rispondo al suo sguardo con uno imperturbabile, sperando di non far trasparire nulla. Annuisco, senza proferir parola.

Jasper sospira, e si alza in piedi, infilando una mano nella tasca dei pantaloni per estrarre il portafoglio, ma lo fermo. «È il mio turno», dico solo, sorridendo.

Ride, e si avvicina al tavolino dove sono sedute Alice e Bella, che confabulano. Quest’ultima è particolarmente rossa in viso, e non posso far altro che sorridere davanti al suo sguardo sbigottito. Chissà cosa le ha detto quella pazza di mia sorella.

 

Bella

«Alice, ti prego, niente di esagerato…», brontolo, scartando l’ennesimo vestitino che la mia amica mi ha appena mostrato.

Lei alza gli occhi al cielo, esasperata dalla mia repulsione per i vestiti. Questa sera sono ancora meno accondiscendente del solito; normalmente, infatti, accetto senza ribattere - più o meno - di indossare qualunque tipo di abito che la mia coinquilina mi prepara la mattina, conscia del suo entusiasmo davanti la possibilità di vestire qualcuno; ma questa sera sembro essere insofferente a tutto e tutti.

«Bella, si può sapere che ti prende?», mi chiede infatti, appoggiando i vestiti su una sedia, per riportarseli in camera.

Siamo nella mia stanza, e dopo un’intera giornata di shopping sfrenato ed aver visto un film sul divano con la mia amica non vorrei fare altro che infilarmi sotto le candide coperte del letto sul quale sono seduta, e affogare nei miei sogni. L’idea di uscire con i nostri amici mi mette in agitazione, e non sono certa di avere i nervi abbastanza saldi per farlo. Soprattutto se Rosalie Hale sarà vicino a me. Dubito che Alice rimarrà indifferente alla vicinanza di Jasper, tanto da starmi vicino tutta la sera, e di certo non voglio impedirle di stare con lui; ogni volta che lui le è vicino non riesce ad ignorarlo - cosa più che ovvia, visto che è il suo fidanzato - e questo significa che l’unica ragazza con cui potrò parlare sarà proprio Rose.

Per tutto il giorno ho avuto l’impressione che mi scrutasse, e non si è mai sbilanciata più di tanto con commenti o domande. Anzi, ho quasi sempre parlato io. Tuttavia dopo essere state alla cioccolateria sembrava essere un po’ più loquace. Un po’.

Alice tamburella il piedino sul pavimento in legno, attendendo la mia risposta.

Scrollo le spalle. «Niente. Semplicemente sono molto stanca». Il folletto sospira, esasperata. Probabilmente ha capito che non è questo il mio vero problema. «Prima di uscire è meglio se prendo un caffè».

Alice scuote il capo. «Ho capito qual è il tuo problema, Bella».

Inarco un sopracciglio, e lei incrocia le braccia sotto il seno.

«Sei imbarazzata».

«Un po’, è vero. Ma non è questo il problema».

«Allora qual è?», sbuffa, esasperata. Non riuscire a capire le persone è una grande frustrazione per lei.

Mi stringo nelle spalle. «Non lo so nemmeno io, sinceramente».

Alice viene a sedersi accanto a me, lasciando perdere i vestiti. Posa una mano sulla mia, ferma sul ginocchio. «Bella, si tratta di Edward?».

«Cosa?!», strabuzzo gli occhi, e sento le guance scaldarsi. «No!».

Scuote il capo. «Da come reagisci non si direbbe…». Sorride maliziosa. «Sai, oggi ho notato che ti ha guardava in modo davvero particolare…».

Distolgo lo sguardo. «Alice, per favore, non iniziare…».

La mia amica alza gli occhi al cielo, sorridendo. Poi si alza, senza aver perso il suo buonumore. «Forza! Adesso ti vesti e ti fai carina! Edward cadrà ai tuoi piedi questa sera, ne sono sicura!».

Scuoto il capo, divertita. «Non ti arrendi mai, tu?».

Ride, allegra. «Mai!».

Allora lascio che scelga i vestiti, e mi lascio truccare e sistemare i capelli da lei. Almeno lei è felice.

 

SET SECONDA PARTE

 

Il pub scelto da Alice è particolare. Tanti tavolini circolari, in legno, sono disposti qua e là, i più occupati da gruppetti di amici. Vicino ai muri, invece, sono disposte tavolate con divanetti, cocktailsalcune circolari; noi occupiamo uno di questi, poco distanti dal bancone, che è davvero strano. O almeno, a me sembra strano. A Forks sono entrata sono in un paio di pub, il più delle volte a festeggiare con mio padre il suo compleanno oppure con… gli amici per qualche uscita serale. Non è molto frequentato, soprattutto per la collocazione in una via stretta e poco conosciuta nel quartiere di Soho.

Il bancone è grosso, in legno intagliato, con intarsi e targhe d’auto. Dietro tre mensole in vetro espongono tantissime bottiglie di alcolici, dalle più conosciute a quelle mai viste prima. Due uomini armeggiano con i bicchieri e alcuni shaker per cocktail.

Il divanetto su cui siamo seduti è di cuoio nero, morbido e confortevole. Rosalie è alla mia destra, Edward alla mia sinistra, seguito da Emmett, Alice e Jasper.

La suoneria di un cellulare spezza la nostra conversazione, e gli sguardi di tutti noi saettano su Edward, che infila una mano nella tasca dei jeans ed estrae il suo telefono.

Osserva lo schermo illuminato con aria seccata, dopodiché respinge la chiamata.

«Era la vipera?», sputa Alice, evidentemente irritata da quest’interruzione.

Edward annuisce, sospirando.

Solo adesso mi ricordo di un dettaglio: è da quasi una settimana che non sento mio padre. Nessuna telefonata, nessun messaggio nemmeno sulla segreteria dell’appartamento di Alice - di cui ha il numero, e dove mi telefona almeno un paio di volte alla settimana. È stato lui a pensare che forse, per me, è meglio che sia esclusivamente lui a telefonare; sia per evitare che io ed Alice spendiamo troppi soldi in chiamate, sia perché ha compreso più del dovuto la situazione che grava su me e Sue, la sua fidanzata. Evidentemente non vuole rischiare di farci parlare al telefono, per evitare di farci litigare. È una situazione alquanto irritante, e forse anche infantile.

Lancio un’occhiata all’orologio appeso alla parete dietro il bancone, facendo un breve calcolo mentale. Se qui sono le nove di sera, a Forks dovrebbero essere le sei. Papà dovrebbe essere appena rientrato da lavoro.

Mi volto verso Rosalie, trovandola già intenta a scrutarmi. Arrossisco, abbassando lo sguardo davanti ai suoi occhi terribilmente indecifrabili.

«Scusa, Rose, posso passare?», domando, sperando di non farla irritare più di quanto la mia presenza già faccia.

Senza dire niente si alza, consentendomi di farlo a mia volta e sgusciare via dal divanetto.

Edward mi fissa curioso, con le sopracciglia aggrottate.

«Dove vai?», mi chiede Alice, stretta nell’abbraccio del suo ragazzo.

«Devo fare una telefonata», rispondo, vaga. «Torno subito».

Mi allontano in fretta dal tavolo, dirigendomi verso un angolo appartato vicino al bancone.

Compongo il numero di telefono, mordendomi nervosamente il labbro inferiore con i denti. Quando porto l’apparecchio all’orecchio e il segnale di chiamata si attiva mi volto con il viso verso il muro, per evitare di far scorgere la mia espressione - sicuramente inquieta - ai miei amici.

«Pronto?».

È una voce calda quella che risponde alla mia chiamata. Una voce che non sento da un mese. Una voce che non è quella di mio padre.

«J-Jake?», balbetto, titubante.

«Bella?! Bella, sei tu?».

Mi appoggio con una mano al bancone, sentendo l’equilibrio venire meno.

È Jake. Jacob. Lui… Oh, Dio.

«Sì, sono io», sussurro, a disagio. «Jake, cosa ci fai a casa m-», mi mordo la lingua, correggendomi immediatamente, «di mio padre?».

Alcune chiassose risate provenienti da un gruppo di uomini seduti a un tavolo vicino mi distraggono, e sento la voce di Jacob diminuire, mentre borbotta qualcosa che sembra un’accusa. Un momento: se si trova a casa di mio padre è perché gli è successo qualcosa? Charlie sta male?

«Bella, dove sei? Non riesco a sentirti bene…», borbotta Jacob.

«Sono… sono in un locale», mormoro, iniziando a spostarmi verso la porta. «Adesso esco, così possiamo parlare».

Ignoro il fatto di aver lasciato il cappotto al tavolo, ed esco direttamente dal pub, con il cuore in gola. L’aria fredda della sera mi fa rabbrividire, procurandomi la pelle d’oca.

Ci sono alcuni gruppi di ragazzi vicino all’ingresso, e mi allontano un po’, per non essere disturbata. Alcuni lampioni illuminano fiocamente la strada, deserta se non per le persone che affollano il pub.

Appena sono lontana da orecchie indiscrete torno a prestare attenzione al ragazzo all’altro capo del telefono.

«Okay, ci sono… Jacob, perché sei da mio padre?», lo attacco subito, troppo in pena per pensare ad altro. Troppo preoccupata per Charlie, per rimembrare i nostri ultimi incontri, prima della mia partenza. Troppo codarda per ricordare tutti i problemi che ho lasciato a Forks e che non voglio risolvere.

Stringo il braccio libero intorno al busto, rabbrividendo quando una sferzata d’aria ghiacciata si abbatte sulla mia pelle accaldata.

«Sei partita senza nemmeno salutarmi e tutto quello che vuoi sapere adesso è perché sono da tuo padre?».

Nella sua voce riesco a cogliere rabbia, sofferenza, dolore, frustrazione.

Stringo il cellulare nella mano, tanto da sentirlo scricchiolare. «È stata tutta colpa tua, Jake. Se ti fossi comportato diversamente forse le cose fra di noi non sarebbero cambiate, ed io non mi sarei mai trasferita!», ribatto, piccata. Non deve attribuirmi colpe che non ho. Non sono stata io a decidere che il nostro rapporto doveva cambiare, diamine!

«Ma io volevo che le cose cambiassero! Ero stufo di continuare a mentire, lo capisci?!».

A queste parole nemmeno il freddo che mi fa battere i denti riesce più a fermarmi.

«Avresti dovuto agire diversamente, invece di pensare solo a te stesso! Hai fatto tutto solo perché lo volevi tu, non hai pensato alle conseguenze delle tue azioni! Alla fine l’unica che ci ha rimesso sono stata io, lo sai bene!». Quando alcuni ragazzi mi passano accanto, rivolgendomi occhiate perplesse, capisco di aver urlato.

Ripensare a tutti gli avvenimenti che hanno riguardato l’ultimo anno, prima del mio trasferimento a New York, è stato come una doccia ghiacciata. Per tutto questo mese non ho fatto altro che cercare in tutti i modi di dimenticare, accettando perfino che fosse sempre Charlie a chiamarmi la sera, pur di non incappare in qualcuno, che mi avrebbe di certo ricordato brutte cose.

All’improvviso qualcosa di caldo e soffice si posa sulle mie spalle nude, e mi volto improvvisamente, preoccupata.

Un paio di occhi verdi incontrano i miei, e rimango per alcuni istanti imbambolata, osservando Edward, che mi ha appena coperta con il mio cappotto.

«G-Grazie», balbetto, colpita dal suo gesto così gentile, dopo aver allontanato il cellulare dall’orecchio.

Sorride, silenzioso, facendo qualche passo verso il muro.

«Ti aspetto qui. Non è molto sicura questa strada», mi dice, appoggiandosi con le spalle al muro.

Annuisco, ricordandomi improvvisamente di essere ancora al telefono, con Jacob che sbraita talmente ad alta voce da essere sentito come un ronzio di sottofondo.

Distolgo lo sguardo da quello di Edward, per non distrarmi ulteriormente.

Stringo con una mano il cappotto, per non farlo cadere.

«Bella, ci sei ancora?», borbotta Jacob, nervoso, quando riporto il cellulare all’orecchio.

Sospiro. «Sì, Jake, ci sono ancora».

«Ascolta», dice, e so per certo che sta per iniziare un monologo, «se tu tornassi, forse potremmo-».

«No», lo interrompo, prima che si illuda. «Non tornerò a Forks».

Lo sento muoversi, nervoso, e lo immagino mentre sposta il peso da un piede all’altro, nella piccola cucina della mia vecchia casa. «Perché no? Bells, questa è casa tua. Se è per quello che è successo fra di noi io-».

Scuoto il capo, chiudendo gli occhi per non permettere alle lacrime di addensarsi agli angoli degli occhi. «Non è per questo. O almeno, non è l’unico motivo».

«Allora perché?».

«Jake, ti prego…», sussurro, con voce spezzata. «Non stasera. Non adesso».

Lo sento sospirare, e mi rilasso un po’. Non sono in grado di rispolverare il mio dolore, adesso. O forse ho solo paura di essere soggetta al giudizio degli altri. Codarda.

Mi schiarisco la voce, e deglutisco. «Allora… mi dici perché sei lì?».

Jacob temporeggia. «Sto aiutando Charlie… è fuori in giardino, adesso».

Stringo i denti, recependo questa risposta così vaga come un brutto segnale. «Lo stai aiutando a fare cosa?», chiedo, cercando di mascherare l’ansia.

Jake sospira, prima di rispondermi. «Stiamo caricando la sua roba sul pick-up», mormora, procurandomi un sussulto. Non ha detto ‘sul tuo pick-up’. Il mezzo di trasporto di cui sta parlando è senz’altro il mio vecchio Chevy, che Charlie mi aveva regalato dopo averlo comprato dallo stesso padre di Jacob, Billy Black, suo storico migliore amico. Forse Jake ha omesso qualsiasi aggettivo possessivo per evitare di peggiorare la situazione…

«E», provo a deglutire ancora, nonostante la salivazione si sia improvvisamente azzerata, «perché state caricando le sue cose?», sussurro.

Jacob sospira nuovamente. «Charlie si trasferisce da Sue».

Il cellulare mi scivola improvvisamente dalla mano, e seguo la sua caduta con lo sguardo, fino a terra. Si schianta producendo un rumore simile a quello delle scatole di mentine di Alice, con la differenza che i tasti e lo schermo rimangono illuminati. I miei occhi sono puntati sul disegno di una cornetta verde, con il nome ‘Jacob’ riportato sotto di essa, in grassetto. I numeri del contatore continuano a susseguirsi, in una corsa frenetica, ma non ci faccio caso.

Non faccio nemmeno caso alla mano che si allunga a terra, e afferra quel piccolo oggetto scuro, portandolo vicino alla mia, bloccata sul petto.

Mi riscuoto solo quando qualcuno mi tocca un braccio, e i miei occhi vengono catturati da altri due, verdi come smeraldi.

«Bella…», mormora Edward, fissandomi preoccupato. «Stai bene?».

Apro la bocca per dire qualcosa, quando mi accorgo di avere la mano appoggiata sulla sua, stretta intorno al mio telefono, ora non più illuminato.

Arrossisco, e la allontano repentinamente, come scottata.

Sbatto le palpebre velocemente, cercando di recuperare lucidità. «Sì. Sì, sto bene».

Edward mi continua ad osservare, scettico. Una ruga piega la sua fronte, ed i suoi occhi non abbandonano i miei nemmeno quando prendo il cellulare dalla sua mano.

«Torniamo dentro?», chiedo, sorridendo.

Lui annuisce, ancora preoccupato.

Quando rientriamo nel pub mi sforzo di apparire tranquilla e serena, cosa che non sono affatto.

Fortunatamente, una volta arrivati al nostro tavolo, l’attenzione di tutti i presenti è concentrata su Emmett, intento a parlare al telefono.

«Oh, mi dispiace, Tanya», dice quel pazzo, con un’espressione addolorata, che ovviamente non traspare dalla sua voce, ilare come al solito. Tuttavia appena sento quel nome lancio un’occhiata ad Edward, vicino a me, che inarca un sopracciglio rossiccio, tutt’altro che preoccupato. «Il mio fratellino al momento è impegnato».

Alice ridacchia, lanciando a me e suo fratello un’occhiata soddisfatta.

«Certo che so dov’è!», esclama Emmett, rispondendo probabilmente ad un’accusa della ragazza con cui sta parlando al cellulare, che ho identificato con quello di Edward, che vedo sempre sulla sua scrivania quando siamo in ufficio. Alcuni secondi di silenzio, prima che riprenda a parlare. «No, mia cara, non puoi venire anche te. Sai, il mio fratellino ha bisogno di divertirsi ogni tanto». L’orso ghigna dopo averla ascoltata ancora. «Non lo metto in dubbio, sono certo che con la tua esperienza faresti invidia a qualunque escort!».

Strabuzzo gli occhi, mentre i miei amici scoppiano a ridere. Edward invece porta una mano al viso, passando le dita sugli occhi chiusi; le sue labbra tuttavia si piegano in un sorriso divertito.

«Scusami, cara, adesso devo lasciarti», dice subito dopo. «No, Edward non è ancora tornato». Mi scappa un sorriso davanti a questa bugia. «Tranquilla, farò in modo che capisca che non esisti solo tu al mondo». Riesco a sentire il vociare di Tanya provenire dal ricevitore e mi chiedo come faccia Emmett a resistere a tutte quelle urla senza dover allontanare il cellulare dall’orecchio. «Buona serata anche te. Mi raccomando, evita di aprire le gambe in assenza del mio fratellino».

Aggrotto le sopracciglia, mentre Emmett chiude definitivamente la chiamata.

Alice batte le mani, contenta, congratulandosi con il fratello. Il suo ragazzo, invece, accenna un sorriso tirato, e lancia un’occhiata preoccupata ad Edward.

Scorgo Rosalie sorridere, divertita, e mi sorprendo. Per tutta la giornata non l’ho mai vista sorridere, per lo meno non così esplicitamente - a parte quando siamo andati alla cioccolateria.

«Emmett, chi ti ha dato il permesso di prendere il mio telefono?», chiede Edward. Dal tono sembra serio, ma le sue labbra sono ancora piegate in un sorriso divertito.

Il fratello si stringe nelle enormi spalle, assumendo un’espressione degna di un angioletto. «Il tuo cellulare continuava a squillare, poteva essere qualcosa di serio».

Mi permetto di ridere, mentre Edward sospira e torna a sedersi sul divanetto, vicino a lui, dopo che Rose si è alzata per farlo passare.

Io invece rimango in piedi.

«Qualcuno vuole qualcos’altro da bere?», domando a tutti, sorridendo, guardando i bicchieri tutti vuoti.

I ragazzi ordinano un altro giro di birre, Alice e Rosalie un altro cocktail. È proprio quest’ultima ad alzarsi, offrendosi di accompagnarmi al bancone.

Ci fermiamo davanti al banco, attendendo il barista.

«Bella», mi richiama, facendomi sobbalzare. Non mi aspettavo mi rivolgesse la parola.

«Sì?», rispondo, cercando di apparire rilassata.

Lei sorride, incerta. «Io non ti piaccio, non è vero?».

Strabuzzo gli occhi, colta alla sprovvista. «Cosa te lo fa credere?».

Si siede su uno sgabello. «Non hai risposto alla mia domanda».

Sorrido timidamente, accomodandomi accanto a lei. Abbasso lo sguardo sulle venature del legno scuro del bancone, evitando il suo sguardo indagatore. «Non è che non mi piaci… Ad essere sincera», mormoro, a disagio, «mi metti in soggezione».

La sento ridere, leggera. «E perché?».

Scrollo le spalle, guardandola negli occhi. «Mi osservi sempre in un modo… strano. È come se mi stessi analizzando».

Distoglie per un istante lo sguardo, per ordinare le birre e il cocktail; ne prende uno anche per me, sebbene sia riuscita a terminare a malapena il primo; gli alcolici non sono il mio forte, e la birra non mi piace. Il locale è affollato, così rimaniamo davanti al bancone per portarle direttamente al tavolo, senza dover attendere che sia il barista a portarci le bevande.

«È così, in effetti», sospira dopo, riprendendo il discorso.

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Perché?».

Stringe le spalle. «Lo sai com’è la gente. Basta che nomini nel tuo curriculum la professione di modella e per loro sei marchiata con aggettivi tipo ‘frivola’, ‘facile’ e ‘ignorante’».

Scuoto il capo, contrariata. «Non tutti sono così», mi difendo. Non mi conosce, come può ritenere che io sia così superficiale?

Sorride, gentilmente. «Lo so», dice, tranquilla. «Mi dispiace di essermi comportata in modo così distaccato con te, oggi. Non sono molto brava a socializzare con le persone, purtroppo».

Sospiro, più rilassata. Temevo ce l’avesse con me per qualche altro motivo. «Tranquilla, ti capisco».

Alice ci raggiunge per aiutarci poi a portare tutti i bicchieri al tavolo.

Si appoggia con un gomito al bancone, e mi guarda con uno strano scintillio negli occhi. «Allora, Bella, come è andata là fuori?».

Mi mordo un labbro, distogliendo lo sguardo, e sforzandomi di apparire impassibile. «Charlie non era a casa, mi ha risposto un amico. Comunque tutto bene».

La mia amica agita la mano, esasperata. «Certo, non è questo che mi interessa, al momento», borbotta. «Intendevo: come è andata con Edward?».

Arrossisco improvvisamente, voltandomi verso Alice, borbottando, in disaccordo con la sua esuberanza.

Sbuffa. «Tranquilla, Rose è al corrente di tutto».

Mi sento leggermente irritata. Alice va a parlare in giro di cose che non la riguardano in prima persona senza preoccuparsi delle conseguenze, e soprattutto della veridicità di tali informazioni. Non posso certo dire che Edward non è carino - certo, carino è un insulto, vista la sua bellezza… - però non posso certo dire che mi piaccia. Lo conosco da poco, e il suo comportamento nei miei riguardi - eccezion fatta per questi ultimi due giorni - è stato a dir poco riprovevole.

«Non c’è niente da dire, Alice», sbuffo, lasciandola a bocca aperta. Non sono dell’umore giusto per mettermi a lodare Edward, tanto meno coltivare speranze in sua sorella. Non è proprio la serata giusta.

Ma… arriverà mai la serata giusta per permettermi certi pensieri? Quando mi giro per guardare Edward solo una risposta mi viene in mente: lo spero.

 

«Chi viene in discoteca?», trilla Alice, appena usciti dal pub. Trattengo a stento uno sbadiglio mentre controllo l’orologio. È appena mezzanotte.

«Io passo…», borbotta Edward, infilando le mani nelle tasche dei jeans.

Alice sbuffa, ma viene subito risollevata da Emmett, che acconsente con entusiasmo.

Lo stesso non si può dire di me e Rose. Quest’ultima rinuncia con la scusa di doversi alzare presto l’indomani per studiare, io per stanchezza, anche se il vero motivo è un altro.

Alla fine anche Emmett rinuncia, per evitare di fare la figura del terzo incomodo. Alice non è contenta, ma Jasper riesce subito ad addolcirla, sussurrandole qualcosa all’orecchio: quasi sicuramente i riscontri positivi che la nostra assenza potrebbe avere sul resto della serata. Arrossisco, pensando a quello che potrebbero essersi sussurrati l’un l’altra.

Alice e Jasper si allontanano velocemente, non prima che la mia coinquilina si sia premurata di sapere come potrei tornare a casa. Rosalie mi offre prontamente un passaggio, assicurandomi così che ogni tipo di fraintendimento iniziale è stato ormai superato. Accetto, sebbene abbia tentato di convincerla che posso tranquillamente prendere un taxi, ma il suo metodo di persuasione è di gran lunga superiore al mio, inoltre non insisto oltre per evitare di incrinare il nostro rapporto appena nato.

Io e Rose ci avviamo verso la sua auto - una cabriolet rossa sgargiante - subito dopo aver salutato i fratelli Cullen, che si dirigono alle rispettive automobili. Edward, tuttavia, ci raggiunge quando ho già la mano sulla maniglia, e Rose ha già aperto la portiera.

«Ehi, Rose», la chiama.

Aggrotto le sopracciglia, e non so per quale motivo una morsa agghiacciante mi stritola improvvisamente lo stomaco. Potrebbe… no, non può essere.

La bionda si volta nella sua direzione, evidentemente confusa.

«Sì?».

«In che quartiere abiti?», le chiede. La fitta aumenta, soprattutto notando che non mi rivolge nemmeno uno sguardo. Ho per caso fatto qualcosa di male? Ho detto qualcosa di sbagliato mentre eravamo a tavola e adesso è arrabbiato con me? Nella mia testa ripasso ogni tipo d’argomento che abbiamo toccato nelle ultime tre ore insieme, ma nulla mi salta all’occhio.

Rosalie corruga la fronte, aggrottando le sopracciglia bionde. «Chelsea, perché?».

Allora i suoi occhi incontrano i miei, lasciandomi per un istante senza fiato. «Potrei accompagnare io Bella, dato che abito nella sua stessa zona. Per evitarti strada inutile».

Sento le guance scaldarsi, e mi volto in direzione di Rose, che adesso sorride, quasi soddisfatta.

«Certo…», mormora, guardandomi fisso, in un evidente segnale. Alice le ha inculcato in testa la strampalata idea che io ed Edward siamo fatti per stare assieme, e sono sicura che adesso starà pensando a quanto la mia coinquilina sarà felice di sapere che Edward mi vuole avvicinare. «Se per Bella non è un problema…».

Apro la bocca, esitante. Vorrei andare con Edward, ma mi sento incredibilmente in imbarazzo. Non dovrei, giusto? Del resto lui è mio amico.

Perché Alice mi ha costretta a rivedere insieme a lei ‘Harry ti presento Sally’, prima di uscire?!

Maledizione, tutte le sue allusioni non fanno altro che confondermi!

Mi schiaffeggio mentalmente, cercando di acquistare un minimo di controllo e coraggio. Poi lo guardo, accennando un sorriso. «No, per me va bene».

Edward mi rivolge il suo sorriso sghembo, facendomi capitolare. Il rossore alle gote aumenta, e ringrazio la notte che mi avvolge e i piccoli lampioni, che con la loro fioca luce non permettono di distinguere bene i colori.

Saluto Rosalie, che mi fa l’occhiolino, e seguo Edward fino alla sua Volvo argentata. Come ieri sera è lui ad aprirmi la portiera, come un perfetto gentiluomo d’altri tempi. Quando mi ha aperto la portiera la prima volta sono rimasta sbalordita: non pensavo esistesse ancora questo genere di cavalleria. Sono sempre stata abituata a… Jacob. Lui mi apriva la portiera non appena parcheggiavo la mia auto davanti casa sua, ogni volta che andavo a fargli visita a La Push; ma per il resto - tutte le volte in cui mi portava in giro con la sua o la mia auto - non ha mai avuto questo genere di comportamento. Evidentemente Edward è più un ragazzo vecchio stampo.

Appena saliamo in auto mi torna in mente un particolare di cui non sono a conoscenza. «Abiti nella mia zona?», gli domando, stupita.

Lo vedo sorridere appena.

«Più o meno. Due isolati più in là, all’incirca», risponde, vago.

Annuisco, soprappensiero. Non mi sono mai preoccupata di chiedere ad Alice dove abita suo fratello, nonostante più volte sia uscita di casa per andarlo a trovare. Probabilmente non mi sono interessata più del dovuto perché fino a ieri era solo il mio capo.

Si immette nella strada, imboccando la strada per raggiungere Midtown, dove abito. Quindi lui, essendo due isolati più in là, dovrebbe abitare nell’Upper East Side…

«Come mai non sei voluto andare con loro?», chiedo poi, lasciandomi spingere dalla curiosità. Forse parlando riuscirò a scemare un po’ dell’imbarazzo che mi sta assalendo da quando sono entrata in auto.

Edward scrolla le spalle, con nonchalance. «Non mi piace la musica da discoteca. Ci sono andato solo una volta quando ancora ero alle superiori, e mi è bastato».

Sorrido. Allora non sono l’unica.

Mi lancia un’occhiata, e si ferma a un incrocio. «E tu?».

«Stesso motivo, e in più perché non mi piace ballare». Faccio una smorfia. Anche solo il termine ‘ballare’ mi rende subito insofferente.

new yorkEdward ghigna, riprendendo a guidare lungo la strada affollata di New York. Non sono mai stata in giro fino a quest’ora per la grande mela, e se possibile è ancora più affollata che di giorno. Tutto però è magnificamente illuminato dalle luci al neon, che risplendono in contrasto con il cielo nero, nel quale è addirittura impossibile vedere stelle.

«Ci sono le nuvole?», chiedo, più a me stessa che a lui. Siamo bloccati in un ingorgo, così può benissimo sporgersi per guardare il cielo scuro sopra di noi.

Inarca un sopracciglio, dubbioso. «Non credo…».

Io aggrotto entrambe le sopracciglia, perplessa. «Ma non si vedono le stelle!».

Edward sposta il suo sguardo sorpreso su di me, e non posso far altro che arrossire davanti alla sua espressione. Ho fatto la figura della bambina, sicuramente.

Un sorriso a metà fra tristezza e dolcezza fa capolino sulle sue labbra, facendomi perdere un battito. È… bellissimo. «Purtroppo qui a New York è difficile vedere le stelle per colpa delle troppe luci».

«Oh. Capisco…», mormoro, distogliendo lo sguardo, delusa.

«Se ti fidi una sera di queste ti porto in un posto dove si vedono benissimo».

Mi volto stupita nella sua direzione, ma il suo sguardo è fisso sulle strada davanti a noi, così non riesco a scorgere i suoi occhi. Ma le sue labbra sono piegate in un sorriso, quasi sicuramente quello sghembo.

»Davvero?», esclamo, sorridente.

Ride. Una risata nervosa. «Certo. Siamo amici, no?».

Amici.

Mio sforzo per far sì che il mio sorriso non si spenga, e spero non colga l’improvvisa tristezza che ha attraversato il mio volto per un istante.

Cosa ti aspettavi, Bella? Cosa avresti voluto dicesse?

Del resto è la verità.

Siamo solo amici. Punto.

«Quindi non ti piace ballare…», riprende Edward, dopo alcuni minuti di silenzio. Il traffico si muove lento, accompagnato dagli schiamazzi dei clacson e la confusione generale tipica della grande mela.

Annuisco, facendo una smorfia. «Già… a te sì?».

Scrolla le spalle. «Non particolarmente. Perlomeno non il genere di musica da discoteca. Diciamo che sono un tipo un po’ all’antica», ridacchia.

Sorrido. L’avevo intuito dai tuoi modi di fare, dal fatto che in fondo sei un gentiluomo.

Non lo dico, ma lo penso, e arrossisco per questo. Cosa mi salta in testa di pensare cose del genere?

«All’antica… nel senso che ti piace ballare i lenti?».

Fa spallucce, come se la cosa non lo riguardasse in prima persona. «Mia madre e mio padre amano ballare il valzer. Mi hanno insegnato loro quando ero ancora piccolo».

Nella mia testa l’immagine di Edward, vestito di tutto punto con uno smoking lucido ed elegante, fa capolino con prepotenza, permettendomi quasi di trovarmelo davanti. Scaccio quell’immagine con violenza, scuotendo il capo.

«Mio padre invece non ama ballare… come me». Faccio una smorfia. Devo ammettere di aver preso molto di più da mio padre che da Renèe. «Mia madre mi aveva iscritta a una scuola di ballo ma ho rinunciato quasi subito, perché ero - e sono tuttora - troppo impacciata».

«Questo significa che se ci sarà l’occasione sarà meglio che eviti di chiederti di ballare con me?», mi chiede, canzonatorio.

Arrossisco, pensando a come potrebbe essere ballare con Edward un lento. Stare fra le sue braccia, a stretto contatto con il suo corpo. Con le mani intrecciate alle sue. Con il viso a una spanna dal suo. Con il suo respiro a confondersi con il mio.

Strabuzzo gli occhi, mentre il viso riprende una colorazione rossa, degna di un pomodoro maturo. Il calore divampa in tutto il viso. Il respiro è agitato come non mai. Potrei apparire in piena crisi di panico in questo momento, e l’ipotesi non sarebbe poi così lontana dalla realtà. Sto semplicemente andando a fuoco. Letteralmente. È colpa dell’alcol. Sicuramente. Ho finito il secondo cocktail in in baleno, e questo deve avermi fatto impazzire.

Edward si volta nella mia direzione, probabilmente preoccupato dal mio silenzio prolungato.

Mi schiarisco la voce, cercando di calmarmi e di scacciare certi pensieri dalla mia testa.

«Per il bene dei tuoi piedi è meglio se eviti», rispondo semplicemente.

«Fingerò di non aver sentito la tua raccomandazione, allora».

In altri casi mi arrabbierei. In altri casi se un ragazzo avesse apertamente tentato di costringermi - anche solo in un futuro ipotetico - a fare qualcosa che detesto profondamente mi sarei già irritata e l’avrei tranquillamente rimproverato. In altri casi.

In questo caso, invece, sono arrabbiata non con il ragazzo, ma con me. Perché so che dovrei essere arrabbiata. Lo so. Ma non riesco a provare altro che… piacere.

Piacere per la sua insistenza nei miei confronti. Piacere perché non mi considera una bambina come hanno fatto tutte le persone che ho conosciuto fino a prima di trasferirmi.

Come faccio a saperlo? Non lo so. Forse me lo dicono i suoi occhi. Forse me lo dice il suo sorriso rassicurante. Forse me lo dice lui, senza aver bisogno di parole, e basta.

Quando l’auto si ferma davanti a casa mia mi rimprovero mentalmente per aver taciuto per il resto della durata del viaggio. Ma anche osservarlo di nascosto è stato bello.

Mi congedo da lui con un grazie e una buona notte, e subito dopo lo vedo sparire nel traffico notturno.

Raggiungo l’ascensore ciondolando, con un sorriso ebete stampato in volto.

Quando l’ascensore segna l’arrivo al mio piano, però, una convinzione mi colpisce con un fulmine a ciel sereno.

Sono incondizionatamente attratta da Edward.

 

___________________________

 

BENE, E' ENTRATA IN SCENA ANCHE ROSALIE, E CON LEI SI CHIUDE IL QUADRO DEI CULLEN, ANCHE SE IN QUESTA STORIA JAZZ E ROSE NON HANNO NULLA A CHE FARE CON LORO E NON SONO NEMMENO GEMELLI :)

PRESTO VERRANNO APPROFONDITI ANCHE I CARATTERI DI CARLISLE E DI ESME, APPENA QUESTA TORNERA' IN SCENA.

COME AL SOLITO NEL CAPITOLO E' INSERITO UN PICCOLO INDIZIO CHE AGGIUNTO A QUELLO NEL PRECEDENTE PUO' AIUTARE A CAPIRE COSA CAPITERA' IN SEGUITO :)

GRAZIE A TUTTI COLORO CHE SONO ARRIVATI FIN QUI E CHE SONO PAZIENTI NONOSTANTE I MIEI CONTINUI RITARDI!

QUESTA VOLTA NON DO' ALCUNA SCADENZA, CHE E' MEGLIO, VISTA LA MIA PUNTUALITA'!

INSERISCO ANCHE UN TEASER PER IL PROSSIMO CAPITOLO, CHE PREVEDE UN PICCOLO SALTO TEMPORALE.

 

TEASER CAPITOLO 6

 

COME SEMPRE, GRAZIE INFINITE A TUTTI.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6__Il Ringraziamento ***


Ehm…

Mi vergogno come una ladra per questi tempi a dir poco indecenti di aggiornamento, ma con la fine delle vacanze, il ritorno a scuola e tutto il resto stare dietro alle storie diventa difficile. Come se non bastasse questo capitolo è saltato fuori dal nulla, nel senso che non l’avevo proprio programmato. Poi, però, mi sono accorta che cascava un’importante festività in Novembre, così ecco questo pezzo in cui ho infilato un po’ di cose che serviranno per il prossimo capitolo (alla fine del quale sento che mi tirerete il collo!).

Il teaser che avevo inserito nello scorso capitolo era, quindi, sbagliato.


MisaCullen: ciao! Grazie mille :D purtroppo ci ho messo un po’ a postare :( spero ti piaccia anche questo capitolo!

CherryBomb_: ciao!! Credo sia inutile ormai dirti che le tue recensioni mi piacciono moltissimo :P Mi fa davvero piacere sapere che la storia ti piace! Per Jake nel frattempo posso tranquillizzarti: non entrerà in scena ancora per un po’, quindi tranquilla :) ci sono problemi ben più grandi, purtroppo… :I grazie mille per il tuo sostegno :D

RenEsmee_Carlie_Cullen: grazie! :D

Cherry_Strawberry: il padre di Tanya per il momento è ancora un personaggio secondario, ma inizierà a fare la sua parte tra qualche capitolo :) spero ti piaccia anche questo capitolo :)

giorgina_cullen97: ciao! :D Posso solo dirti che per il momento Rose ed Emmett sono solo conoscenti, ma nel prossimo capitolo verrà specificato più nel dettaglio quello che sta succedendo fra loro ;) Jacob al momento non è un problema, ma anche lui avrà la sua parte fra un po’ :)


Bene, vi lascio al capitolo. Buona lettura!

 

PS: dallo scorso capitolo c’è un salto temporale di un mese esatto.

 

SET PRIMA PARTE

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Don’t Leave Me Alone


Capitolo 6__Il Ringraziamento

Lunedì 23 Novembre

Edward

Quando la porta dell’ufficio si spalanca all’improvviso alzo lo sguardo, con il sorriso pronto sulle labbra.

«Tanya», esclamo, stupito, invece. Mi aspettavo di incontrare gli occhi color cioccolato di Bella, non di certo quelli azzurro-verdi della mia fidanzata.

È strano che venga a trovarmi qui allo studio. Non viene quasi mai, a parte quando dobbiamo andare a pranzo assieme - il che succede pochissime volte, dato che è impegnata a dirigere un negozio di abbigliamento in centro. In queste ultime settimane il nostro rapporto ha raggiunto una sorta di equilibrio - precario - che oscilla costantemente, come se ci trovassimo entrambi su una lama affilata, pronta a tagliarci, pronta a farci cadere da una parte o dall’altra. Il tutto è da vedere se cadremo insieme o meno.

«Tesoro!». Sorride, e si avvicina velocemente alla poltrona alla quale sono seduto per lasciarmi un bacio sulla guancia.

Aggrotto le sopracciglia. «È successo qualcosa?», domando, preoccupato. Eppure dal suo viso non sembra per niente turbata.

Scrolla le spalle. «Niente di preoccupante, tranquillo». Sorride ancora, con gli occhi illuminati. «Sono qui per chiederti una cosa».

Mi raddrizzo sulla poltrona, e lancio un’occhiata all’orologio. Sono quasi le due del pomeriggio. «Dimmi».

«I miei nonni hanno organizzato un pranzo per giovedì, per il Ringraziamento, e hanno chiesto a me e i miei genitori di raggiungerli per festeggiare insieme».

È ovvio che si riferisce ai suoi nonni materni. Purtroppo quelli paterni hanno lasciato la loro famiglia già da qualche anno. Inarco un sopracciglio. «Raggiungerli… a Denali?».

Tanya annuisce, sorridendo. Sorride come succede ogni volta che parla dei suoi nonni, e da ciò lascia trasparire tutto l’affetto che prova per loro. In questo momento non ha nulla della fidanzata viziata e strafottente che ho sempre al mio fianco.

«Vorrei che venissi anche tu».

Apro la bocca, come per dire qualcosa, anche se la proposta mi ha letteralmente lasciato spiazzato, ma lo squillare del mio cellulare mi interrompe, offrendomi la possibilità di posticipare la risposta.

«Pronto?».

Lancio un’occhiata di sottecchi a Tanya, che sbuffa, incrociando le braccia sotto il seno.

«Edward, ricordi che devi venire a prendermi, vero?».

Alzo gli occhi al cielo, sebbene non serva a niente, dato che il mio interlocutore - ovvero Alice - non può vedermi. «Certo che mi ricordo».

«Allora sbrigati, o arriveremo in ritardo!».

«Arrivo, tranquilla».

Sorrido, e chiudo la chiamata sotto lo sguardo scocciato di Tanya. Ecco, finalmente riesco a riconoscere la mia fidanzata.

«Allora?», mi chiede infatti, con una nota di impazienza e irritazione nella voce.

Socchiudo gli occhi. «Mi dispiace, Tanya, ma non posso proprio lasciare la mia famiglia il giorno del Ringraziamento».

«È perché ritorna Esme?», chiede, irritata. Adesso l’ho completamente fatta tornare in sé. «Ci saranno altri Ringraziamenti, e nemmeno l’anno scorso sei voluto venire con me!», esclama, delusa.

«Tanya…», sospiro, «non vedo mia madre da quasi due mesi, mi sembra giusto che passi un po’ di tempo con lei, non credi? Inoltre lunedì dovrà partire di nuovo, non posso andarmene adesso».

Ci saranno altri Ringraziamenti da passare con la tua famiglia, aggiungerei, ma non lo faccio perché non sono più così sicuro che sia un futuro possibile.

«Fa’ come ti pare», sbotta, infuriata, dopodiché se ne va sbattendo la porta.

Forse sto sbagliando, forse dovrei dare ancora una possibilità al nostro rapporto. Forse sono io a sbagliare con Tanya, comportandomi così, senza mai accettare alcune sue proposte come quella di fare visita ai suoi parenti. I suoi nonni li ho conosciuti solo qualche anno fa, quando ancora eravamo alle superiori; erano arrivati in città per festeggiare il Natale con il resto della famiglia Denali. Anche allora ricordo che il sorriso di Tanya era lo stesso che ha appena mostrato parlando dei suoi parenti. Perché con me non sorride così? O sono io a non essermi mai accorto di questo particolare sorriso? Sorride così anche quando parla di me? Quando parla con le sue amiche di me, sorride così? Forse sono sempre stato troppo egocentrico ed egoista, e non mi sono mai reso conto di quello che le facevo davvero provare.

Guardo ancora l’orologio: sono le due in punto, ed è meglio che mi sbrighi se voglio arrivare in tempo all’appuntamento.

Mi alzo dalla sedia, e quando esco dall’ufficio trovo Bella davanti l’ascensore, vicina ad un ragazzo dai capelli biondi e corti. Non l’ho mai visto. Chi è?

Improvvisamente, la questione di Tanya passa in secondo piano.

 

Bella

Alzo lo sguardo dal fascicolo di arredamento, annoiata. L’ufficio è semivuoto. La maggior parte dei miei colleghi sono già in pausa pranzo; l’arredatore è a un incontro con dei clienti. Io invece mi trovo al bancone della segreteria, per prendere il posto di Jessica, in pausa pranzo. Infatti Edward ha deciso che quando lei è assente devo essere io a sostituirla, anche durante le pause pranzo.

Mi muovo annoiata sulla sedia con le rotelle. Se solo ci fosse Kim saprei con chi parlare: approfitterei del fatto che Edward è chiuso nel suo ufficio, e inizierei a chiacchierare con lei del più e del meno. Ogni settimana ci sentiamo per telefono. La sua gravidanza procede più che bene, e adesso può dedicarsi totalmente al riposo e al bambino prossimo alla nascita. È venuta a trovarmi pochi giorni fa, accompagnata dal suo fidanzato, Benjamin. Sono una bella coppia, e lui è simpatico e affabile, sempre pieno di attenzioni per la sua ragazza. Quando le ho chiesto se hanno intenzione di sposarsi ha sorriso, rispondendo che ci penseranno più avanti, dopo che il piccolo Daniel sarà nato.

Le porte dell’ascensore si aprono, e mi agito sulla sedia. Non è Jessica che rientra dalla sua pausa pranzo, è l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere e che vorrei evitare. Tanya Denali. Avanza lungo il corridoio in tutta la sua fiera bellezza, ticchettando i tacchi sul marmo del pavimento. Sulle labbra tinte di rossetto un sorriso.

Quando mi arriva di fronte distolgo lo sguardo.

«Ciao, Isabella».

Mi irrigidisco. Fin dal nostro primo incontro non siamo andate granché d’accordo, e adesso che ho capito di essere attratta dal suo fidanzato la situazione non può che essere tesa - almeno per me.

«Ciao, Tanya». Sorrido forzatamente. «Posso aiutarti?».

«Sono qui per vedere il mio fidanzato», dice, con un sorriso sardonico dipinto in volto. «È occupato?».

Mi scruta dall’alto dei tacchi, con un’aria altezzosa che mi irrita.

«No. Puoi entrare».

«Lo immaginavo», ghigna. «A dopo», sorride, melliflua, e apre la porta dell’ufficio di Edward, entrando dentro.

Stringo le labbra e i pugni. È inutile che ci giro intorno: sono terribilmente gelosa. Ma non devo esserlo. Del resto lei è la sua fidanzata. Io sono un’amica.

Vorrei tanto non aver capito di essere attratta dal mio capo. È solo attrazione, mi dico. Sparirà, prima o poi.

Ma nel frattempo non posso fare altro che soffrire e farmi logorare dalla gelosia ogni volta che immagino Edward fra le braccia di Tanya o viceversa. Mio malgrado, Alice ha avuto modo di raccontarmi alcune vicende della loro storia, e sebbene secondo la mia amica ben presto si lasceranno, io continuo a stare male. Se non si sono lasciati per tutto questo tempo, perché mai dovrebbero farlo adesso? Perché lasciare il porto sicuro di una relazione che dura da anni? Tuttavia, io non ho mai avuto storie serie, e non so come potrebbe voler agire Edward in un prossimo futuro; ma anche se si lasciassero non avrei mai la forza e il coraggio per cercare di avvicinarmi a lui e farmi avanti. Sono troppo timida ed insicura.

Una figura spunta dal corridoio degli uffici, e mi distrae dai miei pensieri. Volto lo sguardo verso di essa, rimanendo sorpresa e leggermente spaventata.

E questo chi è? Non l’ho nemmeno visto uscire dall’ascensore. Probabilmente deve essere arrivato con Tanya, ma troppo presa da lei non devo averci fatto caso.

Un ragazzo biondo, dalla pelle leggermente abbronzata, volge lo sguardo a destra e sinistra, soffermandolo solo per un istante su di me. Poi riprende a camminare fra i corridoi.

Mi alzo, stranita, e lo seguo, lasciando la mia postazione. «Ehi», lo richiamo, turbata, «che cosa sta facendo?».

mike newtonChe sia un ladro? Gli uffici sono quasi tutti vuoti, non vorrà portare via un computer? Oltre a quelli non c’è nient’altro di prezioso qui, se non alcuni effetti personali dei dipendenti.

Si ferma davanti all’ascensore, voltandosi verso di me. Indossa una semplice felpa, e un paio di jeans. Il viso è quello di un ragazzo di circa venticinque anni, e non sembra un criminale. «Sto cercando una persona…», borbotta, abbassando gli occhi al pavimento.

Mi avvicino a lui, guardinga. «Forse posso aiutarti. Come si chiama?».

Solleva lo sguardo verso di me, svelando un paio di occhi azzurrissimi. «Jessica Stanley. Dovrebbe lavorare qui».

«Oh». Il sorriso di cortesia che avevo stampato sulle labbra si trasforma in una linea piatta. «Sì. È la segretaria», dico. «Ma adesso è in pausa pranzo…».

«Capisco…», mormora, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. Scuote il capo, poi si volta verso di me, squadrandomi da capo a piedi. Tira fuori una mano e me la tende. «Comunque, piacere. Io sono Mike Newton». Sorride, mostrando una schiera di denti bianchi e perfetti.

Mike Newton? Se non sbaglio è il fantomatico fidanzato di cui parla ogni volta Jessica e con il quale si scambia sms il settanta percento del tempo che passa in ufficio.

Sorrido, e afferro la sua mano. «Isabella, ma preferisco Bella».

I suoi occhi sembrano illuminarsi improvvisamente. «Quindi sei l’amica di lavoro di Jess! Mi ha parlato di te!».

Rimango spiazzata. Amica. Insomma… Guardo l’orologio, per distogliere lo sguardo da lui. Sono quasi le due. «Ehm… sì. Se ti va puoi aspettarla qui. Tra poco dovrebbe rientrare dalla pausa pranzo».

I suoi occhi diventano improvvisamente vispi. «Certo. Ti dispiace se l’aspetto con te? Non conosco nessuno qui».

Stringo le labbra, e con un sorriso incerto acconsento.

Torniamo al bancone della segreteria, e lo invito ad accomodarsi sulla sedia davanti ad esso.

«Allora, Bella, sei l’assistente del capo, giusto?», mi chiede, cercando di fare conversazione. Sembra a suo agio. Io, invece, come al solito sono impacciata e a disagio come con qualunque estraneo.

Gli rispondo, un po’ turbata. Il modo in cui mi guarda questo ragazzo mi mette a disagio quasi quanto lo sguardo indagatore di Rosalie. Ma questo è diverso. Non si sofferma molto sul mio viso, ma scende in basso, sul corpo, quasi come se volesse svestirmi. La scrivania per fortuna mi copre in gran parte.

Mi fa parecchie domande riguardo il mio lavoro, e mi chiede che tipo è il capo. A questa domanda incespico più volte, e devio subito, iniziando a fare io domande a lui. Mi concentro su Jessica, strappandogli informazioni sul loro rapporto senza davvero volerlo.

Scopro che sono fidanzati da un anno, e che vivono insieme in un piccolo appartamento nella zona meridionale di Manhattan. Si conoscono dai tempi delle superiori e sono scappati insieme da un paesino del Maine appena terminato il liceo, perché oppressi dalla vita delle piccole città e affascinati dalla grande mela.

Quando Tanya esce dall’ufficio di Edward la saluto, ma cerco di concentrarmi sul mio nuovo amico, per evitare di farmi corrodere nuovamente dalla gelosia. Tuttavia non mi sfugge la rabbia che figura dal suo volto.

Scoccano le due del pomeriggio, e interrompo il flusso di domande di Mike, che nuovamente si sono dirette sulla mia persona. «Scusami, Mike, devo scappare. È finito il mio turno, e adesso dovrebbe rientrare Jessica».

Mi alzo dalla sedia, seguita da lui, che annuisce con una smorfia di disapprovazione che ignoro, per dirigermi verso l’ascensore. Percorro il corridoio con lui alle spalle, raggiungendo velocemente le porte automatiche.

Lascio Mike lì, e vado a prendere le mie cose nel mio ufficio. Quando ritorno fortunatamente Jessica è appena arrivata, e ha già lanciato le braccia al collo del suo fidanzato.

«Beh, ragazzi, io vado. Ci vediamo domani, Jess». Poi mi volto verso il suo ragazzo. «È stato un piacere conoscerti, Mike».

Lascia andare la sua ragazza e mi sorride. «Anche per me, Bella».

Sorrido, e chiamo l’ascensore, che si apre immediatamente. Fortunatamente nessuno l’ha chiamato da quando Jessica è scesa.

«Aspetta, Bella!».

Riesco a fermare le porte appena in tempo, ed Edward si infila nell’abitacolo.

Stringo la maniglia della borsa, cercando di tenere a freno la mia lingua, ma non ci riesco. «Stai andando a prendere Esme all’aeroporto?».

Ti prego, dimmi di sì. Dimmi che non stai correndo dietro alla tua fidanzata per scusarti per averla fatta arrabbiare.

«Sì. Prima però devo passare a prendere Alice». Solleva la manica della camicia per guardare l’orologio. Poi i suoi occhi tornano su di me. «Vuoi venire?».

Sto già per rispondergli di sì, ma mi ricordo subito della lezione importante a cui non posso mancare: tra una settimana avrò un altro esame, e non posso permettermi di non passarlo.

«Mi piacerebbe, ma devo andare a scuola tra poco».

Annuisce, e distoglie lo sguardo. È più strano del normale: di solito sorride sempre, invece adesso sembra pensieroso. Cos’è successo con Tanya?

«Edward…», lo chiamo, preoccupata. «È successo qualcosa?».

Sorride amaramente, e mi chiedo se ho sbagliato a chiederglielo.

«Tanya mi ha chiesto di andare con lei a Denali per il Ringraziamento, ma quando le ho detto di no si è infuriata».

Dentro di me traggo un sospiro di sollievo. Sollievo, perché le ha risposto di no. Sollievo, perché dopo il suo invito a festeggiare il Ringraziamento con la sua famiglia non posso che essere felice che abbia rinunciato a partire con la sua fidanzata. Patetica? Molto.

«Sei preoccupato?», chiedo, senza pensarci. Forse è preoccupato delle ripercussioni che questo litigio avrà sulla loro storia…

Scuote il capo, e le porte dell’ascensore si aprono. «Sono indeciso se andare o meno, tutto qui». Usciamo dall’ascensore, sebbene le mie gambe siano diventate improvvisamente molli. «Ci vediamo domani, Bella». Mi sorride debolmente, e mi lascia davanti alle porte, nell’ingresso, delusa.

“Verrai al Ringraziamento della mia famiglia?”.

“Sì”.

 

Quando apro la porta di casa la prima cosa che sento è il fragore dell’allegra risata di Jasper, seguita da proteste e lamentele da parte della sua ragazza. La prima persona che vedo, invece, è il mio capo, appoggiato al muro divisore della cucina.

È il suo sguardo il primo che incrocio, e il sorriso che nasce sulle mie labbra è totalmente spontaneo. Tanto in fretta è nato, e tanto in fretta è morto, al ricordo della nostra ultima e breve conversazione.

«Bella!».

Alice mi corre incontro, armata del suo quotidiano ottimismo; ma oggi sembra ancora più felice del normale: sarà perché Esme è finalmente tornata a casa? Quasi sicuramente.

Tutto sembra normale, compresa la presenza - ancora nascosta - di Jasper, ma la cosa che non mi spiego è il motivo per cui Edward è qui. Da quando abito in questo appartamento sono rare le volte che l’ho incontrato, e ogni volta era perché doveva passare a prendere Alice per portarla da qualche parte o per parlarle. Per oggi escludo la prima possibilità, perché quasi certamente sarebbe stato Jasper ad accompagnarla.

Saluto la mia amica, che mi prende le mani e mi trascina verso il soggiorno, lasciandomi appena il tempo di appoggiare la borsa e sfilarmi il cappotto.

Quando i miei occhi ne incontrano un altro paio azzurri rimango sorpresa, e sorrido.

«Esme!», esclamo, stupita.

«Ciao, Bella». Mi sorride, e si alza dal divano sul quale era seduta con Jasper, per raggiungermi ed abbracciarmi.

La stringo, felice di averla ritrovata. La conosco da pochissimo, eppure sento di aver trovato una seconda madre in lei.

Quando ci separiamo mi rimane accanto, e posa una mano sulla mia guancia. «Come stai?».

Sorrido. «Bene. Molto bene, grazie. Tu?».

Sorride a sua volta. «Adesso che ho riabbracciato tutti i miei figli benissimo».

Arrossisco e abbasso lo sguardo quando dai suoi occhi capisco che fra i suoi figli include anche me. Ancora mi chiedo se possa esistere persona più dolce e generosa di lei.

«Edward mi ha detto che ci sarai anche tu giovedì», dice poi, sempre con un sorriso materno dipinto in volto.

Annuisco. I suoi occhi mi fissano per un lungo istante, comprensivi e preoccupati al tempo stesso. Durante il viaggio in aereo verso New York le avevo parlato - superficialmente - dei miei problemi a Forks, per cercare di spiegare in qualche modo il motivo della mia evasione dalla mia città natale. Mi aveva ascoltata in silenzio, e cercato di confortare sebbene fosse più che a conoscenza del fatto che non le avessi raccontato tutto. Mi chiedo quanto mia madre le abbia raccontato di me. Si sono sentite ancora? Ne sono quasi sicura.

Scorgo Edward lanciare un’occhiata all’orologio da polso. «Io devo andare…», mormora, guardando la madre.

Alice balza in piedi, avvicinandosi ad Esme. «Mamma, resti a cena qui?», propone, sorridente ed implorante. «Chiamiamo anche papà!».

Mi guarda come per chiedermi il permesso di invitare i genitori a casa nostra, ed annuisco con un sorriso.

Esme mi sorride, e accetta l’invito ringraziando. La figlia cerca di convincere anche suo fratello, ma inutilmente. Credo abbia un appuntamento con Tanya, anche se non l’ha voluto specificare.

Chiamiamo anche Emmett, e Jasper accetta di fermarsi da noi. A cena, quando anche Carlisle è seduto a tavola, e la famiglia è finalmente riunita l’unico a mancare è Edward.

 

Martedì 24 Novembre

«Devo ammettere che Jessica è molto… scrupolosa, nel suo lavoro», mormora Esme, accomodandosi sulla sedia davanti a me.

È appena stata nell’ufficio di Edward, e immagino abbia già potuto constatare di persona quanto Jessica sia intraprendente con lui; ma come sempre è fin troppo buona e gentile per usare parole troppo pesanti o dare giudizi forse affrettati.

Sorrido, sarcastica. «Sì, è molto attenta…», borbotto, anche se mi riferisco a ben altro. È molto attenta a guardare il capo, su questo non c’è dubbio. È molto attenta anche al gossip e ai pettegolezzi di turno.

«Kim come sta?», mi chiede poi, con un sorriso dolce, mentre ripensa alla sua assistente in maternità. «È passata qualche volta a trovarvi?».

Annuisco, sorridendo anch’io, questa volta sinceramente affettuosa. «Sì. Viene quasi ogni settimana. La trovo molto bene, e la gravidanza procede benissimo».

«Pensavo di andarla a trovare, ma non vorrei disturbarla…».

Scuoto il capo. «Sono sicura, invece, che le farebbe molto piacere! Ogni volta che viene qui chiede di te e quando tornerai. Le manca lavorare con te».

Il suo sorriso si illumina. «Anche a me manca molto. Vuoi venire a trovarla con me questo pomeriggio?».

«Dipende dall’ora…», mormoro, «ho lezione fino alle cinque, oggi. Settimana prossima avrò un esame, e non posso mancare…».

Esme sorride. «Non c’è problema. Potremmo telefonarle e chiederle di andare a cena tutte insieme. Sono sicura che sarà entusiasta».

Annuisco. «Va bene, allora».

Una porta sbatte improvvisamente, interrompendo la nostra conversazione e spingendo me ed Esme a prestare attenzione al minimo rumore, più per curiosità che per altro.

Alcuni tacchi picchiettano sul pavimento, fino a raggiungere il mio ufficio, nel quale ci troviamo. Jessica appare con il volto rosso, e l’espressione chiaramente infuriata. È quasi buffa.

«Quel tipo!», sbraita, rivolgendosi a me forse in cerca di appoggio. «Non posso credere a quello che mi ha appena detto!».

Capendo che si riferisce ad Edward inclino leggermente il capo in direzione di Esme, facendo una smorfia a Jessica, affinché capisca che per il suo bene è meglio se tace immediatamente. I suoi occhi roteano fino alla donna seduta davanti a me, e il suo colorito, dapprima purpureo, torna normale, per poi sfiorare il bianco latteo della mia pelle.

Si schiarisce la gola, e mormora un saluto imbarazzato. Esme ride sotto i baffi, ma ricambia cordialmente.

«Beh… Bella, vado in pausa pranzo», borbotta poi, infilandosi il cappotto che ha sotto braccio. Senza nemmeno salutare mi volta le spalle, e scuotendo la lunga chioma biondiccia si allontana, facendo risuonare i tacchi a spillo sul marmo.

Sospiro, e mi alzo in piedi per raggiungere la segreteria, accompagnata da Esme, con la quale continuo a conversare del più e del meno. Mi racconta di Washington, della Casa Bianca, del Presidente. Poi passiamo a discutere su cosa preparare per il pranzo del Ringraziamento, per il quale mi offro come aiutante. A Forks ero sempre io a cucinare, e devo ammettere di cavarmela piuttosto bene con i fornelli. Saranno presenti anche i genitori di Jasper, mentre Rosalie - che Esme non ha ancora avuto il piacere di conoscere - ha declinato l’invito perché sarà nel Montana, suo paese natale, dai genitori.

«Bisogna solo vedere se Edward deciderà di andare a Denali…», sospira, appoggiando sul tavolo la matita che ha usato finora per trascrivere alcune cose che deve assolutamente comprare per giovedì.

Un brivido corre lungo la mia schiena a queste parole, e il cuore perde qualche battito. Già… non ha più detto niente di questa storia né a me, né a sua sorella Alice, che non appena ha saputo che potrebbe non esserci alla festa ha dato letteralmente di matto. È successo tutto ieri sera, quando Esme e gli altri se ne sono andati dopo cena. Gli ha telefonato, e dalla mia stanza sono riuscita a sentire la voce della mia amica, che ha raggiunto toni decisamente alti. Alice ritiene sciocco che Edward segua Tanya fino in Alaska; secondo lei il loro rapporto ormai non può più essere recuperato, e ha cercato di convincere il fratello a rimanere con la sua famiglia. Ho cercato di soffocare la loro discussione sotto il getto dell’acqua della doccia, ma inutilmente.

«Farà la scelta che ritiene più giusta…», riesco a dire solo, sorridendo debolmente.

Esme annuisce, e sospira nuovamente. A giudicare dalla sua espressione quando parla di Edward e del suo apparente tormento è come se si sentisse frustrata, abbattuta. Come se volesse dire qualcosa, ma non ci riuscisse. Forse è solo una mia impressione, forse sono solo paranoica.

Scaccio questo pensiero, e sposto la conversazione su Kim, della quale stavamo parlando prima che Jessica ci interrompesse. Le telefoniamo, e ci accordiamo per questa stessa sera.

«Andiamo a pranzo?», propone poi, Esme, con un sorriso. «Chiamiamo anche Edward».

Guardo l’orologio, constatando che manca più di mezz’ora al ritorno di Jessica. «Devo finire il mio turno, non posso andarmene prima del ritorno di Jessica».

Si alza in piedi, sorridente. «Sciocchezze. Sono il tuo capo, e ti do’ il permesso di uscire in anticipo».

La guardo stralunata. «Sì, ma chi risponderà alle chiamate, nel frattempo?».

«Credo che Jenny», dice, nominando un’altra dipendente dello studio, «possa cavarsela per una mezz’oretta. Rimanderà le faccende che sta sbrigando a più tardi. D’altronde deve solo rispondere a un telefono, non credo sia difficile», ride con garbo, facendomi sorridere divertita.

Si dirige verso gli uffici, e chiama la suddetta donna, che annuisce con decisione. Poi si avvicina alla porta dell’ufficio, ed entra per informare il figlio della mia uscita anticipata. Pochi secondi dopo la vedo uscire con lui al seguito, leggermente interdetto; Jenny, nel frattempo, ha già preso il mio posto alla scrivania a boomerang.

«Sicuro di non voler venire con noi?», gli chiede la madre, un po’ delusa, forse, dal suo rifiuto. Perché non vuole venire?

Edward infila le mani nelle tasche dei jeans, scrollando le spalle. «Non ho molta fame. Mangerò qualcosa più tardi, magari».

Annuiamo entrambe, e dopo un ultimo sguardo ad Edward, lasciamo l’ufficio.


SET SECONDA PARTE


Giovedì 26 Novembre

Quando la porta di casa Cullen si è aperta davanti a me, Alice, Jasper e i suoi genitori - i signori Whitlock -, di tutto mi sarei aspettata tranne di vedere il volto di Edward, che non appena torta di zuccaha incontrato i miei occhi mi ha tolto il respiro. Per poco, le due torte di zucca che tenevo fra le mani, e che avevo preparato con tanta cura la sera precedente, non mi sono cadute a terra, vanificando i miei sforzi. Fortunatamente sono riuscita a riprendermi in tempo, così ho potuto portare i dolci al sicuro, in cucina, dove Esme si stava prodigando per preparare un pranzo con i fiocchi. L’ho aiutato con piacere, con Alice e la signora Whitlock. Così non ho parlato con Edward per tutto il tempo, nemmeno durante il pranzo. L’unico pensiero che mi tormentava era che lui non era partito, ma era rimasto a New York, nonostante i suoi tentennamenti. Perché?

«Ti è piaciuta la Macy’s Parade?», mi chiede Carlisle, cordialmente, distogliendomi dai miei pensieri.

Ora siamo tutti seduti nel soggiorno dell’enorme villa Cullen, nell’Harlem, in attesa del dolce. Circondata da una grande distesa verde e fiorita, non sembra nemmeno far parte di Manhattan stessa. Appena entrata nell’enorme villa l’ingresso si è presentato ai miei occhi con colori pastello e crema tenui; i mobili quasi tutti in legno in legno, i tappeti ricamati, gli specchi con cornici d’oro intarsiato, il pavimento in legno dell’ingresso e della sala da pranzo, e ricoperto da moquette ricamata in salotto.

Quest’ultimo è la stanza più grande del primo piano, e dispone di un grosso divano bianco con cuscini in pizzo, e quattro poltroncine imbottite. In un grosso camino in pietra, ornato da vasi antichi, scoppietta un caldo fuoco, ravvivato ogni tanto dalle mani esperte di Emmett e Carlisle, ben attenti a mantenere la temperatura dell’intera casa abbastanza alta. Dalle finestre che danno sul retro dell’enorme villa, si scorge un breve tratto di giardino, dopo il quale è presente una piscina rettangolare, circondata da sdrai e ombrelloni chiusi. È una casa meravigliosa.

«Sì, è stata molto bella», ammetto, con un sorriso. «Non ne avevo mai vista una simile».

«A Forks non fanno festa in paese, il giorno del Ringraziamento?», mi chiede Emmett, evidentemente colpito da ciò.

Scuoto il capo. «No, ogni tanto fanno un mercatino a La Push, ma niente di più».

Emmett fa una smorfia, indignato. Alice invece appare molto più interessata. «La Push?», chiede, curiosa. Non le ho mai parlato della mia città natale, sebbene lei sia sempre stata interessata a scoprire qualcosa di più sul luogo dal quale vengo.

Scrollo le spalle, evitando di fare caso al brivido che mi è corso lungo la schiena. «È una piccola riserva indiana appena fuori Forks. Mio padre adesso abita lì con la sua fidanzata».

Non so perché l’ho detto. L’ultima frase mi è uscita di getto, e anche troppo acidamente. Gli occhi di tutti si concentrano sulla mia figura, e mi sento avvampare. Abbasso lo sguardo sulle mie mani, che giocano distrattamente con l’orlo del cardigan.

Il silenzio cala nella stanza, e viene rotto poco dopo solo da Edward, che sospira pesantemente e sfila dalla tasca dei jeans il cellulare, lampeggiante. Gli lancia un’occhiata seccata, ignorando gli sguardi miei e di Esme puntati su di lui. Gli altri riprendono a conversare, forse ancora un po’ a disagio dalla mia ultima rivelazione.

«Tanya?», domanda sua madre, gentile. Tuttavia noto una ruga increspargli la fronte chiara, e il suo sorriso spegnersi un po’.

Lui annuisce. «Devo rispondere», mormora, prima di alzarsi dal divano. Lancia un’occhiata ad Alice, che fa una smorfia e lo guarda contrariata, ed ignorando tutti gli altri esce dal salotto.

Esme mi sorride, dopodiché inizia ad ascoltare gli aneddoti di Emmett, riguardanti alcuni clienti abituali del suo negozio. Cerco di prestare attenzione alle parole del mio amico, ma la mia mente inizia a vagare per conto suo.

Chissà cosa si staranno dicendo Tanya ed Edward, in questo momento. Stanno ancora litigando? O hanno fatto pace? Magari lei ha deciso di perdonarlo, e tornerà a casa prima del previsto per passare con lui il fine settimana… del resto l’ufficio resterà chiuso fino a lunedì.

Il suono del mio cellulare interrompe le mie elucubrazioni. Guardo velocemente il nome riportato sullo schermo, dopodiché mi congedo dagli altri per avere un po’ di privacy. Raggiungo l’ingresso, e accetto la chiamata.

«Bella, tesoro!».

Aggrotto le sopracciglia. «Mamma?», chiedo, spaesata. Forse ho letto male il nome del chiamante, perché ero certa di aver letto ‘Charlie’ sullo schermo.

«Certo, cara, chi vuoi che sia?», risponde, ridendo.

«Sei con Charlie?», domando, perplessa.

«Strano, vero? Ma ho finito i soldi del cellulare», ride ancora. «Io e Phil saremmo voluti venire da te per il Ringraziamento, ma abbiamo pensato di lasciarti alla tua nuova vita. Inoltre Esme mi ha detto che saresti andata da lei, così non ho neanche pensato di chiederti di passare questa giornata con noi. Poi Charlie ci ha offerto di andare da lui e Sue allora…».

Stringo le labbra. «Siete a La Push?», chiedo, interrompendo il suo sproloquio.

«Sì. Ci siamo trovati tutti a casa di Billy. Non è cambiato di una virgola dall’ultima volta che l’ho visto!».

Scuoto il capo. Renèe è sempre così. «C’è Charlie vicino a te?».

«Certo, tesoro. Te lo passo. Salutami Esme e suo marito, mi raccomando! E fatti sentire ogni tanto, d’accordo?», domanda poi, più seria.

«Va bene, mamma…». Sospiro. «Ciao».

Sento un leggero brusio dall’altra parte del telefono, e subito dopo la voce roca di mio padre mi saluta, un po’ impacciata come sempre - l’esatto opposto di mia madre. «Bells, come stai?».

«Bene, papà… Tu? Come vanno le cose a… La Push?».

Devo sforzarmi per non dire ‘a Forks’. Non mi sono ancora del tutto abituata all’idea che mio padre abiti insieme ad un’altra donna. Nel profondo - per quanto io adori Phil - ho sempre desiderato che lui e mamma tornassero insieme.

«Insomma… si sta abbastanza bene. Certo, mi mancano i piatti che mi cucinavi ogni sera tu, ma per il resto non ci si può lamentare». Cerca di ridere, ma ci riesce a stento.

Io invece mi limito a sorridere, malinconica. Quasi ogni settimana Charlie mi ribadisce quanto gli manchi la mia cucina, ma so bene che questo è il suo modo di dire che gli manco. Anche lui mi manca, più di quanto mi sia mancata Renèe in tutti gli anni del sul girovagare; sarà perché il nostro carattere è molto più affine, sarà perché con lui ho passato più di dieci anni della mia vita, sarà perché è il mio impacciato papà.

«Anche a me mancano i pesci che mi portavi a casa ogni sabato da cucinare», ribatto, cercando di strappargli un sorriso e di riuscire a trasmettergli che in realtà anche lui mi manca.

«B-Beh…», lo sento balbettare, e potrei scommettere che è arrossito - un altro difetto che ho preso da lui. «Vorrà dire che la prima volta che ci vedremo ti darò una dose innumerevole di pesce da tenere nel freezer».

Sorrido. Il mio papà.

In questo giorno del Ringraziamento, in cui ognuno di noi cerca di esternare tutti i suoi grazie non detti lui è forse la persona che più di tutti dovrei ringraziare. Ringraziarlo per avermi aiutato a superare i problemi dell’adolescenza, per avermi insegnato a cavarmela,  per avermi supportato nei momenti di debolezza e per avermi lasciato libera di scegliere la mia strada, volente o nolente.

«Grazie, papà».

«Di niente, piccola».

Scuoto il capo, sorridendo appena. «Non per il pesce».

Lo sento balbettare qualcosa, dall’altra parte del telefono. Devo averlo messo in difficoltà.

«Grazie perché mi vuoi bene e mi sei accanto», sussurro, per spiegarmi.

Un attimo di silenzio e poi lo sento rispondere, serio ma con il tono della voce addolcito. «Non devi ringraziarmi per questo, Bells».

Sto per ribattere che non è vero, che non mi merito tutto il bene che mi vuole, ma non lo faccio. Ancora una volta mi comporto da codarda e timida impacciata, e non esterno tutti i miei pensieri e sentimenti.

Sento del brusio in sottofondo, e una voce ben conosciuta si fa spazio fra le altre. «C’è Jacob lì?».

«Sì. Vuoi che te lo passo?».

Deglutisco. «Sì, per favore».

Non ho più parlato con Jacob dalla nostra ultima conversazione avvenuta durante l’uscita di due settimane fa con Alice e gli altri. Avrei voluto richiamarlo il giorno dopo per cercare di chiarire la discussione rimasta in sospeso quella sera, ma non ne ho avuto il coraggio. Come al solito. Come io non l’ho più richiamato, lui non ha provato a cercarmi.

«Va bene. Aspetta». La voce di Charlie diventa meno chiara, segno che ha allontanato il cellulare dall’orecchio per non stordirmi. Poi lo sento parlare ad alta voce, chiamando il nome di Jake. Un altro brusio, e la voce del mio amico si confonde alle altre, impedendomi di capire cosa dice.

«Bells?», mi chiama ancora Charlie, dispiaciuto. «Mi dispiace, ma è impegnato…».

Scuoto il capo. Charlie, sebbene sia il capo della polizia di Forks, non è capace a mentire. A me, per lo meno.

«Non vuole parlarmi, non è vero?», chiedo, abbattuta.

Papà sospira. «Mi dispiace, piccola. Credo sia arrabbiato perché te ne sei andata senza dirgli niente. Sai, non è un bel periodo per lui…».

Mi riscuoto. «Perché? Gli è successo qualcosa?», chiedo agitata. «Billy è…».

Billy è peggiorato? Purtroppo il padre di Jacob ha da alcuni anni seri problemi cardiaci, e già l’anno scorso ha rischiato di avere un infarto.

«No, no!», esclama Charlie, spaventato anche solo dall’idea che il suo migliore amico possa stare ancora male. «Non si tratta di questo». Per fortuna. «Ultimamente Jake e Leah hanno avuto vari litigi, e sembrano sul punto di rottura».

Dischiudo le labbra, colpita da questa notizia.

Non ho il coraggio di chiedergli chi secondo lui sembra meno coinvolto, perché ho paura della risposta. Charlie normalmente non sbaglia mai riguardo queste cose. Il suo fiuto di ispettore lo segue ovunque e in qualunque circostanza. E se lui dice che Jacob e Leah sembrano sul punto di rottura è probabile che sia vero.

«Capisco…», mormoro solo, anche se in realtà non sto capendo più niente.

Una volta Forks non era così movimentata. Da quando sono andata via da quel paesino sta succedendo di tutto: il capo della polizia che si trasferisce dalla fidanzata e la coppia storica della città si sta lasciando. In poche parole: il finimondo per gli uomini e il boom dei pettegolezzi per le donne. Conoscendo la gente di quel posto sono più che certa che persino io sono finita sulla bocca di tutti. Charlie non me l’ha mai detto perché sa bene quanto mi dia fastidio che la gente parli di me, ma sono sicura che la mia fuga - mio malgrado - non è passata inosservata.

Sento una voce richiamare Charlie, e mi irrigidisco. Riconosco Sue in quella voce, ma fingo di non averlo capito. «Ti reclamano», dico, sperando di non balbettare. «È meglio se vai. Dimenticavo che da te è ora di pranzo», aggiungo ridendo.

«Buon Ringraziamento, Bells».

«Anche a te, Charlie».

 

«Tutto bene, Bella?», mi chiede Alice, non appena torno in salotto.

Sorrido. «Sì». Mi guardo attorno, e scopro che gli sguardi di tutti sono puntati sulla sottoscritta. «Ehm…», arrossisco. «Alice, puoi dirmi dov’è il bagno?», le chiedo, sperando di fuggire al più presto da quegli sguardi apprensivi.

La mia amica sorride, probabilmente capendo il mio bisogno di solitudine. «Certo, Bella. È in cima alle scale, la prima porta a destra».

La ringrazio, allontanandomi dal salone e salendo velocemente la rampa di scale.

Non appena raggiungo gli ultimi scalini, alle mie orecchie arriva una melodia. Dolce, musicale, capace di mettermi i brividi. Suonata esclusivamente al piano. Il suono è attutito, segno che proviene da una stanza chiusa. Termino di salire i gradini, cercando di capire da dove arriva il suono.

Tendo l’orecchio, e riconosco la provenienza dalla mia sinistra, dalla parte opposta a dove Alice mi ha detto che si trova il bagno. Mi sento una ficcanaso, ma continuo a seguire questa melodia, giungendo davanti una porta, in fondo al corridoio.

Qui dentro c’è Edward, forse? Sta ascoltando lui questa musica? Al piano di sotto non mi sembra di averlo scorto in salotto, al mio ritorno dalla telefonata con Charlie.

Scuoto il capo, allontanando la mano dalla maniglia, che stavo per agguantare.

Volto le spalle alla porta, intenzionata a tornare al piano di sotto.

Però… questa musica è estremamente struggente. Posso dire di intendermene a sufficienza di musica classica, essendo uno dei miei passatempi preferiti, e non ho mai sentito nulla di simile.

Maledetta curiosità.

Esitante, torno davanti la porta, e abbasso la maniglia, cercando di fare meno rumore possibile.

Subito la musica diventa più forte, e do’ una sbirciata alla stanza dalla piccola fessura che ho aperto, scorgendo nient’altro che una parete con un’enorme libreria, colma di cd musicali e addirittura vinili. Fortunatamente non sembra una camera da letto, ma non riesco a scorgere Edward. Il suono sembra talmente vivo da non sembrare nemmeno inciso su disco.

Apro di più la porta, e faccio un passo dentro.

Quando il mio sguardo vaga nella stanza rimango pietrificata.

piano roomLo stereo c’è, ma non è affatto acceso, tanto meno la musica proviene da esso. Si trova contro l’altra parete, su un grosso scaffale, accompagnato da un vecchio giradischi.

Al centro della stanza, invece, si trova un pianoforte nero, lucido, e seduto davanti ad esso, dandomi le spalle, una persona che ormai conosco bene.

I capelli rossicci brillano grazie alla luce che filtra dall’enorme vetrata davanti a me, che funge da parete, e le spalle sono ricurve sulla schiera di tasti d’avorio, che le sue dita pigiano sapientemente e velocemente.

Dopo alcuni secondi mi risveglio dallo shock in cui sono caduta, e faccio alcuni passi verso di lui, dopo aver richiuso la porta alle mie spalle. Il suono del pianoforte attutisce i miei passi, e riesco ad arrivare fino a quasi le sue spalle. Da qui riesco a vedere parte del suo volto. Gli occhi sono chiusi, le labbra serrate, l’espressione concentrata. Alcuni ciuffi ribelli oscillano sulla sua fronte chiara, ondeggiando ad ogni spostamento delle sue braccia, e per un istante ho l’istinto di avanzare ancora e spostargli quei ciuffi bronzei, ma lo soffoco subito, trattenendo il respiro.

Non sapevo suonasse. Né che fosse così bravo. Cosa ci fa un talento come lui in un ufficio d’arredamento? Dovrebbe trovarsi in qualche teatro a fare spettacoli!

Rimango immobile, imbambolata ad osservarlo mentre suona, godendomi questa melodia così toccante, così dolce ma al tempo stesso struggente.

Quasi non mi accorgo di quando la musica termina, lasciando spazio solo al silenzio, che viene spezzato da un suo sospiro.

Lo scorgo irrigidirsi, e quasi come se avesse captato una presenza inizia a voltarsi, parlando.

«Non sono ancora-».

Si immobilizza, rimanendo a bocca aperta, senza terminare la frase.

Mi irrigidisco a mia volta, al centro della stanza. Mi specchio nei suoi occhi verdi, in cui leggo stupore e imbarazzo.

Abbassa lo sguardo, e si alza fulmineo dalla panca su cui è seduto.

«Bella? Cosa ci fai qui?», chiede, grattandosi la nuca; fa un passo nella mia direzione.

Avvampo, e abbasso a mia volta gli occhi al parquet chiaro. «Scusa. Ho sentito della musica e…», scuoto il capo, sentendomi un’idiota, «non sarei dovuta entrare, mi dispiace averti disturbato».

Mi volto, per tornare in salotto da Alice e gli altri, ma lui mi ferma. «Non mi hai disturbato, tranquilla», dice. Torno a guardarlo, e scorgo un leggero rossore sulle sue guance.

«Non sapevo sapessi suonare», mormoro, colpita; distolgo lo sguardo dal suo viso arrossato, incredibilmente bello.

Edward ridacchia, evidentemente a disagio. «È un vecchio passatempo, niente di che».

Sto per ribattere, per chiedergli per quale motivo non sfrutta questo suo talento in qualche modo più proficuo, ma riesce a cambiare immediatamente discorso, spostandolo sulla festa per la quale mi trovo a casa Cullen.

«Stanno per portare il dolce?».

Scuoto il capo, e continuo a guardare il pianoforte nero tirato a lucido al centro della stanza.

Cala il silenzio. «Perché non sei andato a Denali?», domando d’impulso. Potrò sembrare inopportuna, ma devo sapere. Cos’è successo con Tanya?

«Beh, sono stato io a invitarti, ricordi?», chiede, con un mezzo sorriso. «Se oggi non mi fossi presentato che figura avrei fatto?».

Non ha risposto alla mia domanda. Ha girato intorno alla risposta, per evitare di rispondere chiaramente. Ha litigato con Tanya? Cosa pensa? Cosa si sono detti poco fa?

Vorrei porgli queste e mille altre domande, ma alla fine opto per qualcosa di più semplice, e che non mi esponga ulteriormente. «Da quant’è che suoni?». Accarezzo con lo sguardo la superficie lucente del pianoforte.

Scrolla le spalle. «Più o meno da quando avevo sei anni. È stata Esme a convincermi ad iniziare, e da allora non ho più smesso».

«Sai suonarlo?», mi chiede poi, con voce carezzevole.

«No, ma da piccola avrei tanto voluto imparare a farlo».

Edward pare particolarmente interessato da quest’ultima mia confessione. «E perché non l’hai fatto?».

Rido debolmente, mentre alcuni ricordi tornano a galla. «Beh, mio padre non poteva permettersi un pianoforte, e poi non avremmo saputo dove metterlo». Ancora oggi ricordo quante lacrime versai davanti alla testardaggine di mio padre; tutte le liti per questo mio desiderio. Renèe invece diceva che avrei potuto iscrivermi a qualunque scuola di musica, se solo l’avessi voluto.

Lo sguardo di Edward torna fra i tasti bianchi e neri, che sfiora con le dita, pensieroso.

«Vuoi ancora imparare?».

Strabuzzo gli occhi, e mi volto a fissarlo. Il sorriso sghembo piega le sue labbra.

«Io…». Arriccio le labbra. «Non saprei…».

Da quando ho iniziato a suonare la chitarra non ho mai più provato a chiedere a mio padre se poteva comprarmi un piano. Quello strumento ha da subito rapito tutta la mia attenzione, facendomi scordare l’iniziale interessamento per quello strumento elegante e fine. Mordo con forza un labbro. Non ho più la chitarra, adesso. È distrutta, accatastata in un angolo buio del mio armadio. Le unghie delle dita sono ricresciute, nascondendomi almeno apparentemente la possibilità di suonare. Non sono nemmeno certa di esserne ancora in grado. I muscoli delle mie mani sembrano quasi atrofizzati.

 «Non ho mai provato ad insegnare», continua Edward, in mancanza di una mia risposta. «Ma credo di potermela cavare. Sei vuoi-».

«Veramente suono già un altro strumento», dico d’un tratto, per interrompere la sua proposta. «Non credo di voler imparare altro…», mormoro, con lo sguardo basso, «almeno per adesso».

«Suoni?», chiede. Alzo lo sguardo, e lo trovo con un sopracciglio inarcato. Gli occhi verdi esprimono confusione e sorpresa.

Faccio una smorfia. «Suonavo». Mi guardo le mani. «Phil - il mio patrigno - mi aveva regalato una chitarra acustica, e mi ha insegnato tutto lui. Purtroppo, però, prima di trasferirmi qui si è rotta».

«Non si può aggiustare?», chiede ancora, chiaramente interessato alle mie capacità musicali.

Scuoto il capo, abbattuta.

Edward abbassa lo sguardo, e sembra riflettere su qualcosa.

«Comunque, è meglio così», aggiungo subito dopo, ritrovando un po’ dell’iniziale entusiasmo. Gli occhi di Edward fissano i miei, confusi dal mio repentino cambio di umore. «Così posso dedicarmi totalmente allo studio e il lavoro. A casa ero sempre distratta». Rido appena, cercando di apparire convincente. Non mi è mai piaciuto indurre pena o compassione.

I suoi occhi rimangono fissi su di me, scrutandomi. Avrà capito che mento?

Il bussare della porta interviene prima che uno di noi possa aggiungere qualcosa, e dopo un ‘Avanti’ di Edward, Esme appare in tutta la sua bellezza.

Sorride, apparentemente non sorpresa di trovarci insieme. «È ora del dolce», esclama, sorridente.

Io ed Edward ci guardiamo solo per un istante, prima di dirigerci verso di lei e la porta.

«Bella, posso parlarti un momento?», aggiunge Esme, fermandomi al centro della stanza. Edward, già alle sue spalle, mi lancia un’occhiata incuriosita.

Annuisco, sorpresa da questa richiesta.

Suo figlio chiude la porta alle sue spalle, non prima di averci guardato un’ultima volta, e nella stanza cala nuovamente il silenzio.

La donna mi viene accanto, sorridendo dolcemente.

«Volevo ringraziarti, Bella, per tutto quello che hai fatto fino adesso. Per l’azienda, ma soprattutto per i miei figli».

Rimango interdetta. «Ehm… scusa, Esme, ma non capisco…», confesso, sinceramente confusa.

Lei non sembra affatto arrabbiata o infastidita da ciò, e continua a sorridere. «Da quando sei arrivata i miei figli sono molto più felici, anche se a te può non sembrare, ma devi credermi, è così». Notando la mia continua perplessità, continua: «Per Alice sei diventata come una sorella, ed Edward è molto più aperto e spigliato di prima, oltre che sereno».

Arrossisco, e abbasso un attimo lo sguardo, colpita e imbarazzata dalle sue parole. «Non credo sia tu a dover ringraziare. Al contrario,» aggiungo, guardandola negli occhi, «sono io che ti devo molto più di un ringraziamento. Grazie a te so di nuovo cosa vuol dire avere una famiglia, avere sempre qualcuno su cui poter contare. Mi hai regalato una famiglia e una casa quando non sapevo cosa fare, e non ti sarò mai abbastanza grata per questo».

Apre le braccia, in un chiaro invito ad abbracciarla, e lo faccio, abbandonandomi al suo profumo, così simile a quello di mia madre, ma al contempo così diverso. Lascio che mi accarezzi i capelli, e che il suo calore mi faccia sentire di nuovo, finalmente, a casa.

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Ecco alcune immagini di casa Cullen (verrà ripresa fra qualche capitolo).

Esterno

Ingresso

Salotto

Retro

 

Il capitolo in sé non ha granché di sostanzioso, purtroppo. È tornata Esme, ma dovrà ripartire. Il prossimo anticipo già che partirà dal giorno dopo il Ringraziamento.

Come avrete notato i Pov Edward sono sempre più corti. Semplicemente perché se scrivessi troppo dal suo punto di vista molte cose sarebbero già rivelate. E poi perché con Bella sono molto più a mio agio.

Vorrei essere in grado di essere più sintetica, perché mi rendo perfettamente conto che i capitoli (specialmente gli ultimi) sono delle vere e proprie ‘mazzate’, ma dividerli sarebbe troppo sciocco, a mio parere. Cercherò di rimediare a questo ‘piccolo’ problema con un po’ di esercizio.

Ecco il teaser del prossimo capitolo: TEASER CAPITOLO 7

Ho creato un blog dove posterò teaser, avvisi e spoiler... fateci un salto se vi va :D TRA SOGNO & REALTA'

Se  volete mi trovate su Twitter: @MidnightSummer7

Grazie per continuare a seguirmi :)

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Capitolo 8
*** Capitolo 7__Safe And War ***


Uhm... Ciao a tutti! Come al solito sono in ritardo (ma va??), e come al solito non ho una scusa buona. °_° Posso solo dire che non riuscivo a scrivere niente. Le parole non mi piacevano, i discorsi non avevano senso e incastrare tutti i pezzi sta diventando difficile. Quando ho pubblicato questa storia l'ho scelta fra tre storie che avevo - e ho tuttora - in cantiere, perché era quella che al momento mi piaceva di più ed era più semplice da scrivere ma... O_O ho sbagliato un po' i conti, ahimè XD

Comunque, passando alla storia... questo capitolo non sarebbe dovuto venire così, e soprattutto non sarebbe dovuto finire così. Però mi sono detta che avevo scritto già troppo, e che se avrei aggiunto un altro pezzo avrei di sicuro cancellato di nuovo tutto e sarebbe passato come minimo un altro mese prima dell'aggiornamento... così, eccomi qui ù_ù

Spero di non aver fatto pastrocchi :S

Chiedo scusa ma non riesco a rispondere alle recensioni, purtroppo :S Per chi me l'ha chiesto, comunque, sì, suono la chitarra :)

Grazie ai 4 angeli che hanno commentato il capitolo scorso, e grazie anche a tutti i lettori silenziosi! :D

Buona lettura!


SET PRIMA PARTE

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Don’t Leave Me Alone

 

Capitolo 7__Safe and War

Venerdì 27 Novembre

Bella

«Forza, Bella, è il primo giorno di shopping natalizio! Non vorrai perderti tutte le decorazioni più belle per restare chiusa in casa?!».

Questa la frase con cui Alice mi ha letteralmente scaraventato giù dal letto questa mattina presto. Questa la frase che continuava a ripetermi ogniqualvolta tentassi di convincerla che entrare in un certo negozio non era necessario. Rosalie non è ancora tornata dal Montana, così è toccato a me accompagnare Alice a fare compere; a metà mattina Esme si è unita a noi, e ho potuto constatare che entrambe le donne Cullen sono decisamente fanatiche di shopping - fortunatamente la passione di Esme è più attenuata, rispetto a quella della figlia.

Nonostante sia sempre stata restia a questo genere di cose, devo ammettere che è stata una giornata divertente: abbiamo comprato tantissime decorazioni per un futuro albero di Natale (la mia coinquilina non ha voluto spiegarmi quando e come faremo a portarlo fino al nostro appartamento), ed Alice ne ha approfittato per aumentare l’elenco di vestiti appesi nell’armadio di entrambe. Per tutto il tempo non ho fatto altro che pensare a come Renèe si sarebbe divertita in giro per negozi, alla ricerca delle più disparate decorazioni per gli abeti. Quando abitavamo assieme andavamo - con Charlie al seguito, più annoiato che mai - il giorno del Black Friday fino a Seattle, in giro per negozi; anche quando andavo a trovarla a Jacksonville durante le vacanze natalizie nonostante mancassero pochi giorni al Natale e l’albero fosse già perfettamente addobbato, coglieva l’occasione per potarmi in giro alla ricerca di qualche decorazione. Era un po’ la nostra tradizione. Oggi invece mi sono ritrovata fra le vie e le decorazioni fatiscenti della grande mela, insieme alla mia migliore amica e con mille buste - non solo di decorazioni - appese alle braccia.

Lascio Alice ed Esme davanti alla cattedrale di St. Thomas, per lasciare madre e figlia libere di passare una serata insieme, senza alcun intralcio da parte di terze persone, e con i piedi doloranti mi avvio verso il grattacielo che ospita il mio appartamento, portando con me anche le buste di Alice ed Esme. Non credo di aver mai avuto così tante buste attaccate alle braccia, tanto che devo tenere gli occhi puntati sulla strada per evitare di inciampare in qualcosa.

Quando sollevo lo sguardo da terra per puntarlo verso le porte del palazzo rimango basita.

«Lasciami!».

Un uomo della sicurezza, vestito come al solito di nero, sta braccando Mike Newton, e lo sta spingendo oltre le porte dell’edificio, per farlo uscire in strada. Alle loro spalle il portiere osserva la scena, preoccupato.

Corro subito incontro ai tre uomini, scombussolata, facendo sbattere le borse contro le gambe.

«Che cosa succede?», chiedo, agitata.

Il portiere mi viene vicino, nervoso. «Signorina Swan», mi saluta. «Questo pazzo è arrivato qui chiedendo del fratello della signorina Cullen, ma non vuole ascoltarci. È ubriaco fradicio, non capisce nulla!».

Mi avvicino a Mike, che scivolando dalla presa della guardia è crollato a terra.

«Stia attenta!», mi ammonisce la guardia, guardinga, mentre il portiere mi aiuta e afferra alcune delle mie borse. «Potrebbe essere un maniaco!».

Scuoto il capo. «Non si preoccupi, lo conosco». Mi volto poi verso Mike, che osserva con astio l’uomo corpulento. L’aspetto è sciupato, e due pesanti e violacee occhiaie cerchiano i suoi occhi. «Mike? Cosa stai facendo?», chiedo, cauta. Deglutisco. «Perché cerchi Edward?».

I suoi occhi saettano ai miei, e mi sembra di leggere un lampo di lucidità. «Cullen!», sbraita. «Devo parlare con Cullen!».

Scuoto il capo. Non ha capito nulla di quello che gli ho chiesto.

«Dov’è Jessica?», provo ancora. «Come sei arrivato qui?».

Prova a rialzarsi in piedi, e la guardia lo aiuta, vedendolo barcollare.

«Signorina Swan…», borbotta questo, guardando Mike di sbieco. «Dica al suo amico di andarsene. Se continuerà a restare qui davanti saremo costretti a chiamare la polizia per allontanarlo».

Per un secondo l’immagine di Jasper che piomba davanti casa mia munito di manganello e manette per portare via Mike mi fa sorridere, ma mi riscuoto subito da questi pensieri.

«Può entrare. Chiamerò la sua fidanzata per farlo venire a prendere», rispondo alla guardia. Il portiere scuote il capo, ma non può opporsi alla mia decisione. Del resto è casa mia.

La guardia sospira. «E va bene. Se ha qualsiasi tipo di problema non esiti a chiamare in portineria».

Annuisco, e lascio che sia proprio lui a passare un braccio intorno alla vita di Mike, per aiutarlo a sorreggersi mentre ci incamminiamo verso gli ascensori. Recupero le borse dal portiere, ringraziandolo per la gentilezza, e poi seguo i due uomini nell’ascensore.

Appena arrivati all’appartamento, Mike si abbandona sul divano di Alice, ed io mi trovo a sperare vivamente che non gli venga da vomitare. Alice non mi perdonerà già per averlo lasciato entrare in casa nostra, non voglio nemmeno pensare a cosa mi toccherà assistere se scoprisse che un ubriaco ha rovinato il suo bellissimo tappeto bianco immacolato e la tappezzeria del divano. 

Lo lascio lì un po’ preoccupata, abbandonando tutte le mie cose sul tavolino, e raccatto solo il cellulare, nel quale - grazie al cielo - ho salvato in rubrica il numero di Jessica Stanley. Per una volta il suo egocentrismo sfrenato che l’ha portata a dare il suo numero di cellulare a tutti i dipendenti dello studio mi è d’aiuto.

Risponde subito, e le spiego velocemente la situazione, allontanandomi in cucina, dato che le urla di Mike - che ha iniziato a starnazzare e borbottare cose prive di senso - non sono di certo un grande aiuto per riuscire a dare le giuste indicazioni alla segretaria. Mi assicura di arrivare in men che non si dica, e chiude la conversazione.

Quando torno in salotto Mike è sdraiato sul divano, con le mani affondate nelle tasche della giacca. Mi avvicino lentamente, sperando che non si sia addormentato.

Ma gli occhi azzurri sono spalancati, puntati sul soffitto bianco del salotto.

«Mike?», lo chiamo, sedendomi sulla piccola poltrona e fissandolo.

Non risponde.

«Come fai a sapere dove abito? E perché stai cercando Edward?».

Ruota gli occhi. Digrigna. «Cullen», sibila ancora. «Quel bastardo».

Sussulto. Cosa diavolo ha combinato per far infuriare Mike? Non è nemmeno un suo dipendente!

Mi agito sulla poltrona. «Cos’è successo? Cos’ha fatto?», domando, curiosa e leggermente preoccupata. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se si fosse presentato in queste condizioni davanti ad Edward. Qualcosa mi dice che Mike non si sarebbe fermato agli insulti e le parole. Rabbrividisco, scacciando questo pensiero.

Si alza in piedi, ciondolante. Lo fermo subito, alzandomi a mia volta e facendolo ricadere sul divano dopo avergli dato una leggera spinta con le mani sul petto. Nel farlo riesco ad avvertire un leggero odore di alcol, che mi fa storcere il naso. «Ci ha provato con Jessica!», sbotta.

Aggrotto le sopracciglia, e decido di spostare le borse dal tavolino, anche per cercare di mascherare la fastidiosa sensazione che mi suscitano le sue parole. Lui ci ha provato con Jessica?

Gli occhi di Mike diventano improvvisamente maliziosi, attraversati da una strana luce. Si allunga sul divano, e mi afferra un polso intento a prendere le borse. Volto lo sguardo verso di lui, irritata da quel gesto ma anche preoccupata. Non sembra nemmeno ubriaco, e quella lieve nausea dovuta all’odore di alcol provata poco fa si ripresenta non appena allunga il collo in mia direzione.

«Potrei ripagarlo con la stessa moneta…», sussurra, suadente, guardandomi le labbra.

Un campanello d’allarme risuona nella mia testa, e con uno strattone mi libero, spaventata, dalla sua presa. Afferro le borse, e mi dirigo verso la porta che conduce al piccolo corridoio che collega le camere da letto.

«Se vuoi farlo, ti conviene andare a cercare la sua fidanzata», ribatto, irritata e sconvolta, mentre mi allontano da lui.

Lascio le borse nel piccolo corridoio, e torno in soggiorno, trovando Mike ancora seduto sul divano.

Mi allontano velocemente, e ringrazio il cielo quando suona il telefono di casa. Corro a rispondere, lanciandomi occhiate ansiose alle spalle, per controllare Mike, rimasto immobile sul divano. «Pronto?».

«Signorina Swan? Sono il portiere. C’è una signorina che dice di chiamarsi Jessica Stanley. Chiede di salire».

«Per fortuna… La lasci venire, grazie». Riattacco, e mi volto a fissare Mike. Sembra confuso e… irritato.

Dopo pochi minuti Jessica bussa alla porta, e la faccio entrare subito. Si guarda attorno, curiosa come suo solito, facendo apprezzamenti vari sull’arredamento e lo stile di Alice.

«Quando sarà sobrio dovrai farti raccontare come faceva a conoscere il mio indirizzo, Jessica», sibilo, mentre lo aiuta a rimettersi in piedi, dopo aver notato con disappunto che non fosse nemmeno capace di rialzarsi da solo.

Lei mi scocca un’occhiata scocciata. «Credo abbia controllato il foglio con gli indirizzi dei dipendenti che abbiamo in ufficio. Il tuo nome è proprio sotto quello di Edward, quindi immagino che Mike abbia semplicemente confuso gli indirizzi».

Si avviano verso la porta, e la seguo, dubbiosa. «Abbiamo un foglio del genere in ufficio?».

Ride, nervosa. «Certo, Isabella. Dopotutto sono la segretaria, no? È normale che sappia tutto di tutti!».

Scuoto il capo, e la lascio uscire con Mike. Richiudo la porta alle loro spalle, e con un sospiro mi dirigo verso la mia stanza, dopo aver raccattato la borsa e le mie cose dal tavolino davanti al divano.

Dopo una situazione del genere mi serve un bel bagno rilassante.

 

Lunedì 30 Novembre

La faccenda di Mike ha irritato Alice più del previsto, tanto che la mia amica non appena ha saputo che Newton era stato - ubriaco fradicio - nella nostra casa ha subito preso il telefono e chiamato suo fratello, per chiedere spiegazioni. È stata una conversazione imbarazzante, a dire il vero. Sua sorella ha inserito il vivavoce, affinché fossi io stessa a raccontare ad Edward cosa era successo in quella breve ma pesante mezz’ora con Mike. Dire che era rimasto shoccato e alquanto confuso sarebbe riduttivo. Fosse stato per me non avrei assolutamente riferito nulla al mio capo, e questo sicuramente mi avrebbe risparmiato molte occhiate furenti da parte di Jessica, che non appena ha raggiunto l’ufficio questa mattina stessa ha ricevuto una strigliata da Edward, che le ha intimato di non raccontare più menzogne di quel genere al suo fidanzato se ci tiene al proprio lavoro. Appena uscita dal suo studio mi ha fulminato con lo sguardo, dopodiché mi è passata accanto sibilando qualche insulto a cui ho preferito non rispondere. Da una parte mi sento in colpa per la sgridata che il capo le ha riservato questa mattina; nonostante sia una pettegola di prima categoria, molte volte si comporti in maniera superficiale e passi la metà del suo tempo al telefono con il suo ragazzo sa fare bene il suo lavoro, quasi quanto Kim, e da quando è arrivata lei i miei impegni si sono nettamente dimezzati, dato che io mi occupo esclusivamente dei cataloghi e di accompagnare Edward ai colloqui con i clienti. Tuttavia, se io posso lasciar correre il fatto di aver raccontato una bugia su Edward, lui di certo non può perdonargliela. Tralasciando il fatto che è il suo capo, è anche fidanzato, e questa storia potrebbe incidere sulla sua relazione. Sbuffo di nuovo, guardando l’orologio del computer. Jessica è in ritardo, la sua pausa pranzo terminava dieci minuti fa, e finché non torna io non posso andarmene. Per fortuna oggi non devo andare all’università, o a quest’ora starei dando in escandescenze.

«Ehi…».

Sobbalzo, alzando repentinamente il capo dallo schermo del computer, e ricacciando nei meandri della mia mente tutti questi pensieri.

Mike Newton, con un sorriso impacciato, è davanti alla scrivania della segreteria, alla quale sono seduta; persa com’ero nei miei pensieri non l’ho neppure sentito arrivare. Persino le voci dei colleghi erano divenute lontane, mentre ripercorrevo gli avvenimenti di questi giorni.

«Oh!», esclamo, posando una mano sul cuore. «Mike!».

Sorride… timidamente?

«Scusa, non volevo spaventati», dice, distogliendo per un istante lo sguardo. Poi torna a fissarmi. «Sono venuto a scusarmi per quello che è successo venerdì».

Scuoto il capo. «Non è necessario…».

Sospira, e si siede su una sedia.

«Non sapevo fosse casa tua. Sul foglio di Jessica c’erano un sacco di indirizzi. Devo aver confuso, anche a causa dell’alcol…», mormora, più a sé stesso che a me.

«Ma…», mormoro, in imbarazzo, «perché ti sei ubriacato? Se posso saperlo…».

«Quando sono arrabbiato tendo a bere… è un po’ il mio modo di smaltire la rabbia», confessa.

Un modo sbagliato, direi.

«Capisco…», mormoro, non sapendo cos’altro dire.

Seguono minuti di imbarazzante silenzio, ed alla fine è proprio lui a sospirare.

«Ascolta, Bella…». Mi raddrizzo sulla sedia, lanciandogli un’occhiata. Con il capo chino, fissa intensamente le mani intrecciate sulle gambe. «Non è che tu sai qualcosa… a proposito di quello che mi ha raccontato Jessica?». Mi guarda per un secondo, tornando poi ad abbassare lo sguardo. «Mi riferisco a Cullen. Il fatto è che Jess mi dice che è successa questa cosa, ma è già capitato che inventasse cose di questo genere per farmi ingelosire, soprattutto quando ci vediamo poco per via del mio lavoro…».

«Che lavoro fai?», chiedo d’un tratto, sperando anche di distrarlo dalla domanda.

Alza gli occhi azzurri, puntandoli nei miei. «Sono rappresentate di una ditta di calzature».

Annuisco, e sto per fargli qualche altra domanda, ma mi precede.

«Comunque… Non è che sai dirmi qualcosa a proposito di Cullen? Sai se sarebbe il tipo da fare una cosa simile? Insomma… non è già fidanzato?».

Ignoro la stretta allo stomaco, e annuisco. «Sì, è già fidanzato…», mormoro. «Quindi non credo che farebbe una cosa del genere alla sua fidanzata…».

Da quanto mi sta dicendo, posso intuire che Jessica non gli abbia ancora raccontato della sfuriata di Edward, e forse raccontagliela non è neanche nei suoi piani.

Mike si sfrega le mani l’una con l’altra, guardandosi in giro. «Sei sua amica, giusto?».

Deglutisco. «Forse è esagerato parlare di amicizia…», mormoro, ripensando principalmente alle occhiate di fuoco di poco fa, «più che altro siamo conoscenti».

Scuote il capo, come a far intendere che la cosa non sia importante; mi guarda negli occhi: «So che non avrei il diritto di chiedertelo e che non centri nulla in tutta questa situazione… ma non riusciresti a scoprire se questa storia è vera? Sarebbe davvero importante per me…».

Distolgo lo sguardo, a disagio. «Mike… non credo di poterlo fare…».

La verità è che Alice ha già chiesto di persona ad Edward per quale diavolo di motivo un ubriaco è venuto a reclamare la sua presenza nel suo appartamento e so perfettamente - da lui, direttamente - che è stato suo fratello ad essere quasi baciato dalla Stanley in ufficio, pochi giorni fa. Quando ci ho ripensato mi è subito venuto in mente che probabilmente tutto è successo quello stesso giorno in cui Jessica ha interrotto una conversazione fra me ed Esme in ufficio, piombando davanti alla mia scrivania rossa come un peperone ed inveendo contro il nostro capo.

«E comunque se dici che Jessica ti ha già mentito per cercare di farti ingelosire, perché questa volta dovrebbe essere diverso? Non è che magari ultimamente siete stati distanti?».

Mike si guarda intorno, nervoso. Forse la mia ipotesi è la più credibile anche per lui. «Un po’… forse hai ragione tu».

Sorrido. «Prova a passare un po’ più di tempo con lei e magari sarà proprio lei a dirti di aver detto una bugia solo per allontanarti».

Dio, mi sento una psicologa a parlare così, ma se può servire a mandare via Mike prima che Jessica rientri dalla pausa pranzo e mi trovi a parlare con il suo ragazzo - aumentando ancora di più il suo astio nei miei confronti, sicuramente - sono più che disposta a farlo. Anche Edward, chiuso da più di mezz’ora nel suo ufficio intento a revisionare alcuni documenti, potrebbe uscire e scoprire che proprio colui che voleva prenderlo a pugni pochi giorni fa è in questo momento a pochi passi da lui. Meglio non complicare la situazione o peggiorarla.

Mike fa una smorfia. «Può darsi».

Mi alzo in piedi, con un sorriso di scuse in volto. «Ora scusa Mike, ma devo finire un lavoro prima di andarmene», mento, per cercare di invitarlo senza dirlo esplicitamente a uscire dall’ufficio.

Fortunatamente, lui sembra recepire il mio messaggio, e si alza dalla sedia, con un piccolo sorriso. «Certo, ti lascio lavorare». Infila le mani nelle tasche dei jeans. «Grazie per tutto quello che hai fatto, sei stata molto gentile».

«Di niente, figurati».

Proprio mentre osservo Mike allontanarsi in direzione dell’ascensore la porta dell’ufficio di Edward si apre, e il mio capo fa capolino nella segreteria. I suoi occhi si voltano prima verso l’ampio e bianco corridoio dello studio, poi si posano su di me.

«Era un cliente?», chiede, tranquillo.

Mi guardo in giro, conscia che non saprei mentire guardandolo dritto negli occhi. «No, no. Era uno che ha sbagliato piano, tutto qui».

Alzo lo sguardo, e noto il volto perplesso di Edward, con le labbra arricciate e una ruga a piegargli la fronte. «Eppure mi sembra di averlo già visto…», mormora, più a sé stesso che a me.

Scrollo le spalle, cercando di fingermi indifferente. «New York è grande, l’avrai visto per strada».

Sembra pensarci su ancora un po’, e per un istante temo possa ricordare di averlo visto la settimana scorsa in questo stesso ufficio, vicino a me e Jessica, e possa ricollegare tutto quanto; ma poi sorride, guardandomi. «Tu non dovresti già essere andata via?».

Mi guardo intorno, cercando una scusa per giustificare l’assenza di Jessica.

«Jessica non è ancora rientrata… probabilmente ha trovato traffico per strada».

Edward scuote il capo. «Non ha chiamato per avvertire?».

Mi mordo un labbro. «Mi ha mandato un messaggio dicendo che ritardava. Sono sicura che arriverà tra poco».

Edward ride piano, e aggrotto le sopracciglia, perplessa. Perché ride?

«Sei una pessima attrice, lo sai? È una fortuna che tu sia appassionata di scenografia anziché recitazione, perché saresti un fiasco».

Ride più forte, avvicinandosi. Incrocio le braccia al petto, e sbuffo, arricciando le labbra e voltando il capo. «Non è carino da dire, però. Potevi fingere di esserti bevuto la balla, no?».

«Così non avresti più alzato gli occhi dal pavimento per paura di ammettere di aver detto una bugia», ride ancora.

Nascondo la sorpresa che le sue parole suscitano in me dietro a un altro sbuffo. Come fa a sapere che avrei tenuto gli occhi bassi tutto il tempo? Mi conosce così bene? Dalla festa del Ringraziamento è come se qualcosa fra di noi si fosse sbloccato; ora sono molto più rilassata quando parlo con lui, riesco a scherzare e ad essere più sciolta, anche se ogni volta le farfalle nello stomaco aumentano.

«Ti va di venire a pranzo con me ed Esme? Dopo se vuoi ti accompagno io all’università», dice poi, cambiando argomento.

Sorrido, cercando di nascondere l’imbarazzo e la felicità per il suo invito. «Oggi non ho lezione, quindi va bene». Il professore che doveva tenere la lezione ha inviato a tutti noi studenti una mail, avvisandoci che oggi non ci sarà a causa di una brutta influenza, così ho il pomeriggio libero. Alice sarà a lavoro fino alle cinque, quindi non ho alcun motivo per non accettare il suo invito.

Sorride sghembo, e devo abbassare lo sguardo per cercare di nascondere il rossore che ogni volta che lo vedo sorridere così mi imporpora le guance, facendomi sembrare un pomodoro maturo. Tuttavia sono certa di non esserci affatto riuscita, perché sento Edward sogghignare. Imbarazzata, lo osservo infilarsi il cappotto, mentre indosso il mio a mia volta.

Quando guardo l’orologio, constato che i dieci minuti di ritardo di Jessica sono diventati ben venti.

«Andiamo?», mi chiede, infilando le mani nelle tasche del cappotto.

«Devo aspettare Jessica, non possiamo andarcene altrimenti», mormoro, un po’ delusa.

«Chiederemo a qualcuno di occuparsi della segreteria e cercare di contattare Jessica… che spero abbia un buon motivo per ritardare così tanto».

Lo seguo lungo il corridoio, ed insieme entriamo in ascensore. Nel frattempo mi racconta di una figuraccia di Emmett di questa mattina, alla cioccolateria, facendomi ridere. Quando usciamo dall’ascensore sto ancora ridendo, ma la mia risata si interrompe non appena incrociamo Jessica, che ci passa accanto senza dire nulla.

«Jessica», la chiama Edward, prima che possa varcare le porte dell’ascensore. Si arresta, e si volta con una smorfia. Il nostro capo si avvicina a lei lentamente, serio. Sperava forse di non essere vista? Non era meglio fermarlo e trovare una scusa qualsiasi? Perché commettere una stupidaggine simile? Non ha paura di perdere il lavoro?

«Posso conoscere il motivo del tuo ritardo?», chiede, scuro in volto.

Lei sbuffa, e alza gli occhi al cielo. «La pausa di un’ora è troppo breve. E comunque non mi pare che lei», mi indica con un cenno del capo, «abbia problemi ad uscire prima».

Cosa centro io? Possibile che sia così arrabbiata per la sfuriata che Edward le ha fatto questa mattina? Resto in silenzio, cercando di controllare la rabbia che inizio a provare nei suoi confronti davanti al suo tono acido e cattivo. All’inizio l’avevo trovata antipatica, poi avevo cercato di cambiare idea su di lei, ma a quanto pare non mi ero sbagliata.

Edward strinse la mascella, e i suoi lineamenti si indurirono. «Gli altri dipendenti e i loro orari non sono un tuo problema. Bella sarebbe dovuta uscire venti minuti fa, proprio quando saresti dovuta rientrare tu, quindi non sta uscendo prima, semmai dopo».

«Edward…», mormoro, avvicinandomi a lui. Non voglio che discuta con lei per colpa dell’astio che lei prova per me; va bene sgridarla per il ritardo, ma non per altro.

Mi lancia un’occhiata veloce, e Jessica sorride ironicamente, fra sé e sé.

Tornò a guardarla, serio ma composto. «Da adesso cerca di essere puntuale, o puoi scordarti il lavoro».

Jessica fa schioccare la lingua, e con un’altra smorfia entra nell’ascensore, senza dire più nulla.

Edward mi torna accanto, e rilascia un sospiro, ancora rigido. «Andiamo…», mormora, con un sorriso appena accennato. Senza dire niente, annuisco, e lo seguo fuori dall’edificio, verso la sua Volvo.

 

SET SECONDA PARTE


Martedì 1 Dicembre

Quando varco le porte dell’ufficio, la mattina presto, noto subito gli occhi di tutti i miei colleghi puntarsi su di me, e mentre percorro il corridoio che conduce al mio ufficio sento che i bisbigli di tutti si interrompono al mio passaggio, per poi riprendere non appena sono distante.

Mi sento a disagio, in questo momento. Perché tutti mi stanno lanciando occhiate furtive? Perché tutti bisbigliano e confabulano? Saluto alcuni colleghi, poi mi siedo alla mia scrivania, dopo essermi liberata del cappotto e della borsa.

È forse successo qualcosa ieri pomeriggio, mentre non ero in ufficio? Edward ha combinato qualcos’altro e adesso tutti ne parlano senza volermi dire niente perché in un certo senso sono quella più vicina a lui? In ufficio tutti sanno della nostra amicizia, ma non mi è mai sembrato che qualcuno fosse urtato da ciò. Lì dentro tutti erano simpatici, gentili e disponibili, tutta gente professionale che non si faceva influenzare negativamente. O almeno così ho sempre pensato. Forse, in quanto dipendenti di una donna come Esme ho sempre reputato i miei colleghi persone in qualche modo affini a lei, un po’ come Kim. Spero di non sbagliarmi. Ma allora perché ogni volta che qualcuno di loro passa davanti alla porta aperta del mio ufficio mi ritrovo ad incontrare sguardi incuriositi, maliziosi e divertiti?

Ripenso a ieri, e mi chiedo cosa possa essere successo, o se ho fatto qualcosa di imbarazzante senza rendermene conto mentre ero qui. Eppure, oltre alla sfuriata di Edward a Jessica, nulla mi appare rilevante, riguardo alle poche ore passate in ufficio. Mentre eravamo a pranzo con Esme non abbiamo incontrato nessun collega, e nemmeno all’aeroporto, dove la abbiamo accompagnata affinché ripartisse per Washington. Niente. Non mi viene in mente niente che potrebbe riguardarmi.

Il telefono d’ufficio squilla, e subito la voce di Edward mi fa dimenticare per alcuni secondi delle strane occhiate dei miei colleghi. Mi chiede di raggiungerlo in ufficio con il progetto a cui stavo lavorando anche ieri, e non appena lascio la mia postazione gli occhi dei miei colleghi tornano a perforarmi la schiena. Tengo lo sguardo basso, a disagio.

Quando arrivo vicino alla segreteria Jessica mi accoglie con uno dei suoi sorrisi più finti e strafottenti. «Buongiorno, Bella. Vai da Edward?».

Aggrotto le sopracciglia, ma ignoro la sua domanda. Busso piano alla porta del capo, e nel frattempo in me si insidia il dubbio che sia proprio lei la causa di tutte le occhiate dei miei colleghi.

«Avanti».

Entro nell’ufficio, ed ignoro ancora una volta l’occhiata di Jessica, e il suo sorriso sulle labbra.

 

La suoneria del cellulare interrompe la mia camminata in direzione della successiva aula dell’università, e sono costretta a sorreggere tutti i libri su un solo braccio per riuscire a prendere il telefono dalla borsa e portarlo all’orecchio.

Prima ancora che possa rispondere la voce della mia amica arriva al mio orecchio: «Buongiorno mia adorata coinquilina, come stai?».

«Ciao, Alice…», mormoro, sorpresa. È strano che mi telefoni mentre sono all’università. Normalmente mi invia solo messaggi, per non rischiare di disturbarmi. «Bene, grazie… come mai questa telefonata?», chiedo subito, un po’ preoccupata.

«Niente, volevo solo sapere come stavi!», si difende prontamente. «C’è qualcosa che devi dirmi? Ieri sera non abbiamo parlato molto, magari-».

Alzo gli occhi al cielo, continuando a camminare e cercando di tenere in equilibrio i libri per non farli cadere.

«Avanti, Alice, spara», ribatto, con un sorriso. «Cos’è che è successo e che vuoi dirmi?».

«E va bene», cede. «La fidanzata del tuo amico ubriacone ha detto a tutti quanti in ufficio che sei diventata l’amante di mio fratello».

Per poco il telefono non mi scivola dalla mano, ma il plico di libri che tengo sottobraccio mi cade a terra, con un tonfo.

«Stai scherzando?!», strillo, mentre una compagna di corso si china per aiutarmi a raccogliere tutti i libri. La ringrazio con un sorriso forzato.

«Credi che ti telefonerei se fosse uno scherzo?! Dimmi solo che non è vero, anche se dubito che tu ti abbasseresti a queste cose e soprattutto non me ne parleresti!».

«Alice, ma ti sembra anche solo lontanamente possibile?!», mi allontano dal resto degli studenti, avvicinandomi alla porta di uno sgabuzzino, per non stare in mezzo alla gente. «Come fai a saperlo?».

«Ho incontrato una tua collega poco fa, e mi ha raccontato che ieri pomeriggio Jessica vi ha visti uscire insieme per andare a pranzo, o almeno così ha riferito a tutti, aggiungendo un’infinità di sciocchezze».

Preferisco non sapere quale genere di sciocchezze ha inventato. Mi appoggio al muro, prendendo un profondo respiro.

«Cosa faccio per far capire a tutti che è una bugia?», sussurro, più a me stessa che a lei.

«Adesso chiamo Edward e glielo dico. Sono sicura che la licenzierà su due piedi, così-».

«No, no», la fermo. «Non farlo, Alice. Parlerò con Jessica e la convincerò a smentire tutto».

«Bella, non puoi! Perché vuoi salvarla?! Non è giusto!», protesta Alice, sbuffando.

«Può darsi, ma non voglio che i miei colleghi pensino che è stata licenziata per colpa mia perché credono quelle cose…». Scuoto il capo, pensando a come sarebbe difficile continuare a lavorare in quel posto in quel caso.

«E se non accettasse di farlo?», mi chiede allora Alice, quasi sarcastica.

«Allora potremo parlane con Edward, d’accordo?».

Alice annuisce, e dopo averla salutata chiudo la chiamata. Prendo un profondo respiro, e guardo l’ora. Sono le cinque. Tra un’ora e mezza l’ufficio chiuderà, e normalmente Edward e Jessica sono gli ultimi a uscire. Andrò lì cinque minuti prima che se ne vadano, e le parlerò, sperando di convincerla a smentire tutte le sue bugie.

 

Mentre attraverso a grandi passi l’ingresso del palazzo, in direzione degli ascensori, incontro alcuni miei colleghi, che mi salutano. Non vedo Jessica, il che mi lascia intuire che sia ancora in ufficio. Durante il tragitto dell’ascensore verso il trentaseiesimo piano ripenso alle parole di Alice, e stringo i pugni, sentendo la rabbia aumentare. Mentre il professore spiegava, ho cercato più e più volte un motivo al suo comportamento, eppure non riesco a trovarne uno valido al fatto di aver inventato una bugia del genere; che sia davvero solo per la sfuriata di ieri mattina?

Appena le porte si aprono mi incammino verso la scrivania della segreteria, davanti a me. Jessica è ancora là, e i suoi occhi sono puntati su di me.

Non appena le sono abbastanza vicino sorride.

«Oh, ciao, Bella. Hai bisogno di parlare con Edward? Mi dispiace, ma non c’è; vuoi che gli lasci un messaggio?», chiede con un sorrisino strafottente.

La ignoro deliberatamente, arrivando subito al dunque. «Ti consiglio di fare meno la spiritosa», sibilo, furente. «Domattina dirai a tutti di aver sbagliato, e che quello che hai detto ieri non era altro che una menzogna, sono stata chiara?!».

Sorride ancora. «Cos’è che avrei detto, scusa?».

«Non fare la finta tonta. Sai bene a cosa mi riferisco, e se non vuoi rischiare di andartene prima ancora del ritorno di Kim ti conviene riparare al danno che hai fatto».

Assottiglia lo sguardo. «Mi stai minacciando?».

«No. Ti sto semplicemente dando un consiglio. Se fossi in te lo ascolterei, prima di ritrovarmi senza lavoro».

Le volto le spalle, stanca di questa storia. Ho fatto quello che ritengo giusto, e posso mettermi l’anima in pace. Alice certamente non sarà contenta della piega che ha preso la situazione, ma del resto sono io quella sulla bocca di tutti in ufficio e con una reputazione da difendere, quindi mi sembra giusto che sia io a scegliere cosa è meglio fare.

«Cosa ti fa credere che sia stata io a raccontare a tutti una menzogna?», urla alle mie spalle, e dal rumore della sedia immagino si sia alzata.

Mi fermo al centro del corridoio, e mi volto nella sua direzione. Come immaginavo, si è alzata, e adesso mi osserva da qualche metro di distanza.

«Sei piuttosto brava a raccontare bugie, no?», sibilo. «Se non sbaglio al tuo ragazzo ne racconti parecchie».

Gira intorno al tavolo, e a giudicare dalla sua andatura rigida e dallo sguardo furente posso dire di averla fatta arrabbiare. «Cosa ne sai te di quello che dico al mio ragazzo? Fino a prova contraria non sono affari tuoi, quindi stanne fuori».

«Certo, non sono affari miei. Almeno fino a quando lui non si presenta sotto casa mia ubriaco fradicio per colpa di una tua bugia!», sbotto, ancora irritata a quel pensiero.

«Questo non significa niente», sibila.

«Ah, no? Non sei stata tu a dirgli che Edward aveva provato a baciarti quando è successo esattamente il contrario?! Anche questo non è colpa tua?».

Jessica sorride, e questo mi fa ancora più arrabbiare. «Chi ti dice che la mia era una bugia?».

Mi irrigidisco, davanti al suo sguardo sicuro. Tuttavia cerco di mantenere la calma, e di non permetterle di notare la mia improvvisa insicurezza. «È stato lui a dirmelo. Perché dovrebbe mentire?».

«Forse perché è fidanzato…», ipotizza Jessica, con un sorriso furbo stampato sulle labbra dipinte di rosso.

Scuoto il capo. «È da quando sei qui che ci provi con lui, non me la dai a bere».

«Come te, d’altronde».

Sgrano gli occhi, e sento il cuore battere più forte. «Come, scusa?», soffio, a disagio.

Jessica sorride, fissandomi dall’alto dei suoi tacchi. «Davvero, credi che non si noti? Ormai tutti ne parlano qui in ufficio: l’assistente e il capo. Che cosa scontata e squallida!», esclama, ridendo come un’oca.

Stringo i pugni, imponendomi di mantenere la calma. «Ah, sì? Ti ricordo che normalmente è la segretaria che va con il capo, ma a quanto pare ti è andata male! Sbaglio, o sei stata respinta e minacciata di essere licenziata per il tuo comportamento?!».

Perdo le staffe, e sento che potrei tranquillamente allungare le mani per tirarle uno ad uno quei maledetti capelli biondi.

Jessica fa due passi avanti, arrivando davanti a me, con il volto livido per la rabbia. «Meglio essere dirette, piuttosto che usare mezzucci da ragazzina delle elementari come te!».

«Di quali mezzucci stai parlando?!», sibilo, a denti stretti. A quanto pare prima Jessica non mentiva, Edward non è davvero in ufficio, o a quest’ora sarebbe già accorso con le nostre urla.

«Parlo del tuo modo di fare da piccolo cucciolo indifeso! Povera Bella, ha avuto una vita difficile!», sputa fra i denti, con amarezza. «Sciocchezze, sei come me! Sei scappata di casa non appena la signora Cullen ti ha offerto un posto in cui vivere e un lavoro: sei solo un’approfittatrice! Adesso fingi di avere chissà quali problemi a casa tua solo per attirare le persone e sfruttarle, o per fare colpo sul capo!».

Le lancio uno schiaffo. Lo schiocco rimbomba fra le pareti chiare, ovattato. La fisso con odio, stringendo le labbra per non urlare. Come osa dire queste cose? Ha idea di quello che sto passando? Quello che mi aspetterebbe se dovessi tornare a Forks?

Prima che possa rendermene conto, le sue mani sono su di me, e iniziano a graffiarmi e colpirmi, con forza. Cerco di farla arretrare posando le mani sulle sue spalle, e spingendola indietro. Mi tira i capelli, e cerco di conficcare le unghie - corte, cortissime, per colpa di una stupida idea avuta giovedì sera - nella carne dei suoi polsi, per lasciarle andare la presa. Sento male, ma cerco subito di vendicarmi colpendola. Il dolore più grande arriva quando un pugno mi colpisce al sopracciglio sinistro, e mi fa urlare per il dolore acuto. Mi spinge indietro, e cado a terra, a pochi passi da lei, ma non mi arrendo.

Mi rialzo, ma prima che possa tornare a lanciarmi contro di lei due braccia mi circondano la vita, sollevandomi e facendomi roteare su me stessa, trattenendomi. Scalcio per liberarmi.

«Fermatevi! Siete impazzite?!».

«Lasciami!», strillo, cercando di liberarmi dalla morsa che mi tiene premuta contro un petto forte e muscoloso.

«Bella, piantala! Si può sapere che diavolo succede?».

Mi immobilizzo, riconoscendo la voce e il profumo di Edward. Le sue braccia sciolgono piano la presa, e mi volto verso Jessica, che sta raccattando le sue cose dalla scrivania.

«Tieniti pure questa pazza, io me ne vado», sibila Jessica. «Tanto fra un mese me ne sarei andata comunque…», brontola poi, a voce più bassa, passandoci accanto.

Sono pronta ad andarle ancora contro, ma Edward mi afferra un braccio, spostandosi davanti a me per impedirmi la vista di Jessica, che si allontana velocemente, e infine si infila nell’ascensore, dal quale è apparso Edward poco fa.

L’ultima cosa che vedo di lei è il suo sorriso: perfido e sadico.

Il silenzio torna ad avvolgere lo studio.

Edward lascia andare il mio braccio, sospirando. Ora che l’ira è passata non resta altro che una profonda delusione e vergogna, per me e per il mio comportamento sconsiderato. Anche le botte di Jessica iniziano a fare male, e il sopracciglio sinistro brucia incredibilmente, insieme alle guance graffiate dalle unghie lunghe.

«Me ne vado anch’io…», sussurro, con lo sguardo basso, dirigendomi verso l’ascensore.

«Aspetta, Bella», mi ferma Edward, facendo un passo verso di me e posando una mano sulla mia spalla.

«Lasciami, Edward, ho bisogno di stare da sola», mormoro, sentendo le lacrime offuscarmi la vista. Ora che la rabbia è scemata resta solo l’amarezza. Il dolore. Non tanto fisico - il taglio al sopracciglio in fondo non brucia poi così tanto -, ma ciò che provo dentro mi fa morire. Mi stringe il cuore in una morsa agghiacciante, togliendomi il respiro.

Lui non accenna a lasciare la presa.

«Devi medicare la ferita, e mettere un cerotto. E poi devi spiegarmi perché diavolo ti sei messa a fare a pugni con la Stanley. Potrei licenziarti, per questo, lo sai, vero?».

Il suo tono severo mi ferisce, ma so di essermelo meritato.

«Fallo, allora», sussurro, mentre le parole di Jessica rimbombano nella testa come un’eco lontana. «Che cosa aspetti? Io non merito questo lavoro».

Sei scappata di casa non appena la signora Cullen ti ha offerto una casa e un lavoro: sei solo un’approfittatrice!

Edward scuote il capo, scosso dalle mie parole. «Bella, si può sapere cosa stai dicendo?». Si passa una mano sul viso, esasperato. «Ne riparliamo dopo. Adesso vieni, abbiamo la cassetta del pronto soccorso in ufficio».

Mi prende una mano, e dandomi le spalle inizia a trascinarmi lungo il corridoio, per raggiungere il suo ufficio. Il mio cuore perde un battito davanti a questo gesto, e mi passo la manica della maglia sugli occhi, per cancellare le poche lacrime che sono sfuggite alle mie ciglia. Fortunatamente non mi trucco mai, se non con un po’ di ombretto chiaro.

Entriamo nell’ufficio, e lascia la mia mano per inginocchiarsi alla scrivania alla ricerca della cassetta del pronto soccorso nascosta in uno dei cassetti. Lo osservo con sguardo vacuo mentre la prende e la appoggia sulla superficie di legno per tirare fuori il cotone idrofilo, l’acqua ossigenata e alcuni cerotti.first aid

Sei solo un’approfittatrice!

«Bella?».

Sbatto le palpebre, mettendo a fuoco la figura di Edward, ferma davanti a me.

«Hm?».

Mi osserva per alcuni secondi, in silenzio, poi scuote il capo. «Siediti; ti medico quel brutto taglio».

Mi siedo su una delle due poltroncine davanti alla scrivania, iniziando a torturarmi le mani l’una con l’altra.

Si inginocchia davanti a me; una mano si posa sul bracciolo della sedia, l’altra avvicina il cotone imbevuto di perossido d’idrogeno alla mia fronte.

«La Stanley batte forte o sei tu che non sei capace di difenderti?», chiede a un certo punto, con una punta di sarcasmo. Cerca di tirarmi su di morale, lo sento.

Io continuo ad osservare i suoi occhi verdi, la sua espressione grave, le sopracciglia aggrottate. «Devo ricordarmi di iscrivermi a un corso di kick boxing, prima di prendere ancora a pugni qualcuno». Gemo quando preme il cotone imbevuto di acqua ossigenata sulla ferita, e lui stringe le labbra.

«Hai intenzione di rifare a pugni tanto presto?», mormora, cercando di controllare il tono. Non sembra granché allettato da questa possibilità.

Chiudo l’occhio la cui sopracciglia è ferita, e che al contatto con il cotone brucia. «Non si sa mai…».

Edward scuote il capo, appoggiando il cotone sulla scrivania. Sospira pesantemente, mentre prende un cerotto.

«Forse è meglio se andiamo da Carlisle. Il taglio non è molto profondo, ma non vorrei servissero dei punti».

Diniego. «Non voglio andare in ospedale», brontolo, voltando il capo.

«Bella, per favore, non fare la bambina», sospira Edward, alzando gli occhi al cielo.

Sussulto.

Bambina.

«Sei solo una bambina, Bella! Quando imparerai a crescere e ad essere meno ipocrita?!»

Porto entrambe le mani alle orecchie, tentando di mettere a tacere il frastuono di quelle urla.

Una mano si posa sulla mia spalla, ma la scaccio.

«Sta’ tranquilla, Bella. Ci sono qua io, adesso. Ti aiuterò a risolvere questa situazione, d’accordo?».

Il sorriso di Jacob mi avvolge, rincuorandomi. Posa una mano enorme sulla mia spalla, in segno di conforto. Gli sorrido, riconoscente.

Qualcuno mi afferra i polsi, spostando le mani dalle orecchie.

«Bella!».

Riapro gli occhi, terrorizzata.

Il viso di Edward si fa strada fra le ombre confuse che offuscano la mia vista, tirato in una smorfia di preoccupazione.

Respiro affannosamente, e distolgo lo sguardo.

«Scusa…», mormoro, a disagio.

Cosa mi sta succedendo?

Edward, inginocchiato davanti alla poltroncina su cui sono seduta, sospira sommessamente.

«Cosa c’è, Bella?», mi chiede, dopo alcuni secondi, cercando il mio sguardo nascosto dietro una ciocca di capelli e diretto verso il pavimento in legno dello studio. Tremo leggermente a questa domanda. «C’è qualcosa che ti preoccupa?», sussurra, tormentato.

Perché è tutto così difficile?

C’è qualcosa che mi preoccupa? No, ma qualcosa mi tormenta, senza lasciarmi un attimo di respiro.

Scuoto il capo. «No, niente. Sono solo stanca».

Edward sospira. «So che ci conosciamo relativamente da poco…», mormora, «ma sappi che sono qui, se hai bisogno». Mi volto a guardarlo, sperando che non noti il terrore e il dolore nei miei occhi. I suoi sono intensi, verdi come smeraldi. Sinceri.

Annuisco, incapace di fare altro, stregata dal suo sguardo magnetico. Perché non riesco a interrompere questo contatto?

Alla fine è lui a distogliere lo sguardo, fissandolo sul piccolo cerotto che tiene in mano. Sposto con una mano i capelli, e, inclinando il capo verso di lui, lascio che lo attacchi alla mia fronte, coprendo quel taglietto. Non ho ancora avuto occasione di vederlo, ma non credo sia molto grande. La cosa peggiore sono state le unghiate che quella vipera mi ha tirato; fortunatamente erano finte, e si sono staccate quasi subito.

Le dita di Edward indugiano per alcuni secondi sulla pelle, scivolando poi a tracciare una riga sulla guancia, dove Jessica mi ha graffiata. Brucia solo un po’. Niente in confronto alla sensazione delle dita di Edward sulla pelle. Delicate, ma che lasciano scie infuocate dietro di sé.

I suoi occhi sono puntati sulla mia guancia, e rabbrividisco davanti a quel verde divenuto improvvisamente cupo.

«Spero che questo segno domani sia già sparito», sussurra, con una voce talmente bassa e roca che temo di aver solo immaginato queste parole.

Tremo. Non per quello che ha detto, ma per il modo in cui l’ha detto. Come può al tempo stesso infondere in me pace e serenità con un solo sorriso e al tempo stesso scombussolarmi completamente? Come fa ad essere al contempo la mia ancora di salvezza e la mia fonte perenne di guerra fra istinto e ragione?

Gli occhi di Edward tornano nei miei per quella che mi sembrano un’eternità. Poi scivolano verso il basso, fermandosi sulle mie labbra, leggermente dischiuse.

Il mio cuore sussulta, iniziando a battere più forte. I nostri visi sono vicini, troppo vicini.

Edward stringe le labbra, e si avvicina di più, circondandomi con un braccio il busto e facendo passare l’altro sotto le mie gambe. Il viso si accosta al mio, e con un piccolo sforzo mi solleva dalla sedia, prendendomi in braccio.

Rimango intontita per un istante, per quel gesto repentino.

«C-Cosa…?», balbetto, confusa.

Si avvia verso la porta dell’ufficio. «Andiamo in ospedale».

Sbuffo. «Edward, non è necessario», borbotto. «E, comunque, so camminare», mormoro, abbandonandomi però alle sue braccia. Stretta contro il suo petto il suo profumo è ancora più intenso.

Ride, senza accennare a volermi far scendere dalle sue braccia. «Ma come? Jessica non è riuscita a distruggerti i piedi con quei tacchi orribili?».

Rido anch’io, ripensando alle orribili scarpe con tacco a spillo che indossava. «No, per fortuna no».

«Se ti metto a terra lasci che ti accompagni almeno a casa, però?», mi chiede, mentre siamo in ascensore.

«Uhm…», fingo di pensarci per alcuni secondi. «Sì, ma solo se prometti di non portarmi all’ospedale».

Ride ancora. «Affare fatto. Lo prometto».

Mi lascia scendere dalle sue braccia, rimettendomi a terra.

Raggiungiamo casa mia, ma prima di scendere dalla macchina mi volto verso di lui, con una strana sensazione dentro di me.

«Vuoi entrare?».

I suoi occhi mi guardano sorpresi, ma si riprende subito, e piega le labbra in un bellissimo sorriso. «Sì».

___________________________


Questa volta niente POV Edward, ma nel prossimo quasi sicuramente lo inserirò, soprattutto per capire meglio il perché di questa improvvisa complicità fra lui e Bella ;)

Uhm... il prossimo teaser probabilmente vi lascerà perplessi o incuriositi TEASER CAPITOLO 8.

Vi lascio anche l'indirizzo del blog, dove tra qualche giorno troverete anche uno spoiler  TRA SOGNO & REALTA'

Contatto Twitter: @MidnightSummer7

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Capitolo 9
*** Capitolo 8__Il futuro ***


Buondì! Ormai vi risparmio la frase di routine sui miei ritardi scandalosi, ne avrete le tasche piene, perciò passo subito a parlare del capitolo!

So che tutte pensavate di leggere la serata di Edward e Bella a casa di quest'ultima, ma ho ritenuto giusto fare solo un breve resoconto da parte di Edward, o vi sareste sorbite un malloppo di 20 pagine, come minimo! Il capitolo è comunque lungo, ma credo sia abbastanza leggero da leggere - ci sono molti dialoghi dopo la prima parte ^^

Vi lascio al capitolo!

Buona lettura!

___________________________
 

Don’t Leave Me Alone

 

Capitolo 8__Il futuro

Mercoledì 2 Dicembre

Edward

Da quanto tempo non passavo una serata così semplice e piacevole? Forse da quando ero ancora un bambino, e nel periodo delle vacanze natalizie mi rintanavo in camera con Alice ed Emmett a guardare i vecchi cartoni animati della Disney e a scherzare con loro fantasticando su quali meravigliosi regali mamma e papà avevano in serbo per noi. Passavamo interi pomeriggi sotto le coperte, con una ciotola di pop corn in mano, davanti al televisore, che riproduceva le nostre videocassette preferite, facendoci ridere e scherzare. Poi siamo cresciuti tutti e tre: prima Emmett, che ha iniziato a preferire la compagnia dei suoi amici e di qualche sporadica ragazza la sera, poi io, che abbandonavo Alice spesso con frasi poco carine, ritenendomi troppo grande per passare il pomeriggio immerso nel mondo dei cartoni animati e della fantasia. Solo la mia sorellina di tanto in tanto di divertiva ancora a riguardare le vecchie cassette, diventate poi dvd, e a lei in seguito si unì il caro Jasper, con la pazienza di un santo.

Ieri sera, a casa di mia sorella e di Bella, mi è sembrato di essere tornato indietro nel tempo, al periodo che precede il Natale, ai tempi in cui io e mia sorella ci crogiolavamo nei sogni che piùsweeney toddche mai popolano le menti umane in questo periodo. Sebbene le cassette e i cartoni animati siano spariti, rimpiazzati da un film di Tim Burton in tema horror, il calore è rimasto sempre lo stesso, e i pop corn erano ancora lì, in due ciotole di plastica poggiate sul tavolino di cristallo della sala, mentre le coperte erano appoggiate sulle nostre gambe.

Appena entrato a casa di Bella sono stato accolto dalle urla entusiastiche di mia sorella, e dai suoi ammiccamenti continui. Mentre Alice si prodigava a rendersi a suo dire presentabile per il suo Jasper, che si sarebbe unito a noi per la cena, ho aiutato Bella ai fornelli. Ovviamente il mio contributo si è limitato a preparare la tavola e a tirare fuori dal frigorifero e le dispense gli ingredienti che mi elencava lei, date le mie scarse doti culinarie. Subito dopo cena ci siamo spostati in sala, dove abbiamo guardato il film portato da Jasper, e richiesto espressamente dalla sua dolce metà.

Ci siamo accomodati a coppie sui due divani della sala, io e Bella insieme, per lasciare in pace i due piccioncini che fin dall’inizio del film hanno iniziato a tubare, imbarazzando sia me che lei. Ho cercato di concentrarmi sul film, ma ben presto la presenza di Bella al mio fianco, al buio, è diventata una fonte di distrazione troppo grande per resisterle; l’osservavo con la coda dell’occhio, scorgendo nella luce biancastra dello schermo le sue labbra muoversi seguendo le parole delle canzoni del film, e la testa ciondolare al ritmo della musica. Sono passati pochi minuti prima che si sia voltata verso di me, trovandomi intento a fissarla con uno strano sorriso in volto. Non riuscivo a scorgere bene i colori, ma a giudicare dalla faccia che fece, potrei scommettere che fosse arrossita. Davanti alla sua espressione non sono riuscito a contenere una risata, così per ripicca mi ha lanciato i pop corn, dando inizio ad una piccola battaglia, che ha interrotto i due piccioncini al nostro fianco. Quando anche Alice si è unita a noi lanciandoci contro un cuscino per farci smettere e non sporcare il suo prezioso divano la lotta ha coinvolto anche lei, trasformandosi in un lancio continuo di cuscini, proprio come quando eravamo bambini. Abbiamo ignorato il film, e ci siamo alzati per ripararci dietro i divani, mentre anche Jasper, solitamente serio e pacato, si univa a noi, seguendo la sua fidanzata. Tutto mi sarei aspettato, tranne quello che è successo dopo. Bella è inciampata nel tappeto, e tenendomi per un braccio mi ha trascinato con sé a terra, dietro al divano. Sono riuscito a posare una mano a terra per non schiacciarla completamente con il mio peso, ma in quel breve lasso di tempo ho sentito tutto il suo corpo aderire al mio, in ogni sua parte. Quando ho spostato il viso verso quello di Bella, per verificare che stesse bene, le mie labbra hanno sfiorato le sue. Uno sfioramento leggero, quasi inesistente, ma che mi ha spiazzato. L’ho sentita irrigidirsi, e mi sono alzato immediatamente da terra, mentre Jasper riaccendeva la luce per accertarsi che stessimo bene dopo la nostra caduta. Alice è corsa da Bella, ancora seduta a terra, e non appena fui certo che stesse bene sono scappato da quella casa, letteralmente. Se fossi rimasto un minuto di più probabilmente non sarei più riuscito a fingere di non provare niente per lei, e non sono neanche più così sicuro di volerlo ancora nascondere.

Sospiro, richiudendo l’anta dell’armadio della mia stanza. Nella mia casa regna il silenzio, spezzato solo dai rumori della frenetica Manhattan.

A dispetto dell’aspetto semplice e un po’ sciatto dell’esterno del palazzo, il mio appartamento è abbastanza ampio, e occupa gli ultimi due piani dell’edificio, come quelli dei miei vicini, tutti a disposizione di ampi fondi monetari. Esme era restia a lasciarmi andare via da casa, e quando la informai della mia intenzione di trasferirmi in questo edificio - inizialmente in un appartamento ai primissimi piani, molto più semplice e decisamente più piccolo di questo - ha quasi dato in escandescenze, e dopo una lunga e difficile discussione ho acconsentito a comprare questo appartamento, lasciando che fosse lei ad occuparsi dell’arredamento degli interni, con la sola condizione che fossi io a pagare tutto, nonostante la precaria somma di denaro che fino a quel momento avevo racimolato tramite alcuni lavoretti part-time e paghette risparmiate fin da piccolo.

Il piano superiore, dove mi trovo, è interamente occupato da tre sole stanze: la mia camera da letto a cui sono collegati un bagno ed uno studio. La scala, che parte direttamente da un angolo della mia stanza, scende direttamente fino al salotto, adiacente all’ingresso e alla cucina. Esme si è premurata di adattare tutti gli ambienti alle mie esigenze, e di renderli il più confortevole possibile. Non è niente in confronto a villa Cullen, dove abitavo prima di trasferirmi qui, ma per una sola persona è più che sufficiente.

Questa camera e lo studio a fianco sono i luoghi in cui trascorro la maggior parte del mio tempo. La stanza in cui mi trovo è grande quasi quanto la cucina, e ospita un ampio letto matrimoniale, con l’imbottitura e la testiera neri, la coperta nera o bianca, a seconda della scelta. È affiancato da due comodini molto bassi, in legno, laccati di nero, uno dei quali è costantemente invaso da libri; la parete di fianco al letto è interamente occupata da una vetrata, dalla quale sono visibili i tetti di New York, e fra alcuni edifici anche uno scorcio verde di Central Park. Contro un’altra parete è posta una cassettiera, e dietro una porta scorrevole con specchio si trova la piccola cabina armadio che mamma ha creato sotto esplicita indicazione di Alice. Accanto ad essa c’è il bagno, mentre un varco vicino al letto conduce allo studio.

Una volta scese le scale, bianche, e che corrono lungo la parete, si giunge a pochi passi dalla porta d’ingresso, mentre a sinistra si trovano la cucina e a destra il salotto. La sala non è molto grande: la parete esposta alla vista di chiunque entri in casa è completamente occupata da un’ampia libreria con annessa postazione per il televisione al plasma, e davanti ad essa è posto un grande e soffice divano color panna; a terra un tappeto. A sinistra, in una zona seminascosta dalla parete che separa parte del salotto dall’ingresso, c’è un’altra libreria, piena zeppa di libri di ogni genere, e davanti un piccolo tavolino con due poltroncine. Dalla parte opposta, una mensola di cristallo ospita alcune cornici con fotografie di famiglia; appesi al muro, invece, ci sono alcuni quadri d’arte astratta.

La cucina, degli stessi colori della sala, solo leggermente più scuri, è composta da due piani di lavoro intersecati, e un tavolo di legno con quattro sedie per mangiare. Non l’ho mai usata molto, soprattutto per la mia scarsa praticità nell’arte culinaria. Nella mia mente, l’immagine di Bella ai fornelli mi provoca un brivido. Lei, che cucina nella mia cucina. Scuoto il capo, sentendomi un idiota. Non è mai nemmeno stata a casa mia, figuriamoci vederla ai fornelli della mia casa.

Il campanello di casa mi riscuote dai miei pensieri, e mi chiedo chi potrebbe arrivare sino al mio pianerottolo. Che sia Alice, che vuole farmi la predica o darmi i suoi adorati consigli su cosa fare con Bella? Spero di no.

Scendo le scale velocemente, finendo di abbottonare la camicia. Arrivo dritto all’ingresso, e apro la porta senza nemmeno guardare attraverso lo spioncino.

Quando incrocio lo sguardo della persona davanti a me aggrotto le sopracciglia e rivolgo gli occhi altrove.

«Come mai sei qui?», chiedo, indifferente.

«Credevo fosse giusto chiederti spiegazioni, dopo la nostra ultima telefonata».

«Non credo di dovertene dare altre, oltre quelle che ti ho già dato giovedì», ribatto a denti stretti. Inchiodo con lo sguardo la donna davanti a me, non riuscendo a trovare niente che mi trattenga dal mandarla via dalla porta di casa mia in malo modo. Tanya è sempre stata testarda, orgogliosa, e non è mai stata capace di accettare le mie decisioni senza ribattere.

«Edward, dobbiamo parlarne insieme… non puoi pensare che con una telefonata io accetti tutto questo!», esclama, facendo un passo dentro casa. La fermo portandomi davanti a lei.

«Non ti sto dicendo che fra noi è finita», sibilo, cercando di mantenere la calma. «Ti sto solo chiedendo un periodo di pausa, nient’altro».

«E ti sembra poco?!», strilla, perdendo la calma che si era imposta. Stringe i pugni sul manico della borsa. «Dopo più di un anno che stiamo insieme tu hai bisogno di una pausa?!».

Gli occhi azzurri si fissano nei miei, prima di rattristarsi. Stringe le labbra, notando la serietà nei miei.

«E va bene», sussurra alla fine. «Una settimana. Ti chiedo solo di impiegarci una settimana a scegliere, altrimenti sarò io stessa a lasciarti».

Sbatto le palpebre un paio di volte, sorpreso. Ha già ceduto? Perché non ha iniziato a strillare come al solito? Perché non si arrabbia, non cerca di prendermi a schiaffi, non si mette a piangere, anzi trattiene le lacrime?

Cos’è cambiato in Tanya?

Si alza sulle punte, e mi bacia la guancia. Poi volta i tacchi, e se ne va.

Rimango impalato sulla soglia di casa alcuni secondi, prima di riuscire a chiudere la porta dell’appartamento.

Tanya ha forse capito che fra di noi non c’è mai stato niente? Ha capito anche lei che la nostra storia non porterà a niente? Cos’è cambiato in una settimana?

 

Venerdì 4 Dicembre

Bella

Quando alzo lo sguardo dallo schermo del computer, Edward è appena sceso dall’ascensore e si sta dirigendo di qui, verso la porta del suo ufficio. Mi trovo al banco della segreteria, intenta a finire di sistemare il necessario per un incontro con un cliente che avremo a breve.

«Edward…?».

Mi guarda, e sorride. «Solo un minuto. Arrivo subito», mi assicura, aprendo la porta dell’ufficio.

Arrossisco come mi succede da alcuni giorni ogni volta che lo guardo, e annuisco in silenzio, tornando a concentrarmi sul computer.

Quando sento la porta chiudersi sospiro pesantemente. Perché quando lo vedo inevitabilmente finisco a ripensare a ciò che è accaduto lunedì sera? Ogni volta mi dico che non è successo niente, che quello sfioramento di labbra non significa assolutamente nulla. Ci credo, ma non riesco in ogni caso a togliermelo dalla testa. E adesso combatto fra il ricordo del suo sguardo smarrito di quella sera, subito dopo quel contatto, e del suo viso rosso il mattino seguente, quando ci siamo incontrati a lavoro.

Non è stato facile riuscire a tenere i nervi saldi martedì mattina, soprattutto quando i bisbigli dei colleghi si sono trasformati in esclamazioni di sorpresa una volta scoperto che Jessica non è più la segretaria. Al momento mi occupo personalmente di gestire la postazione, poiché Edward ha deciso che sarà Esme a scegliere chi prenderà il posto vacante non appena sarà tornata a casa. Il suo rientro è previsto per giovedì, e anche se da una parte non vedo l’ora di poterla riabbracciare e tornare a lavorare con lei - è inutile fingere, l’esperienza con Edward mi ha aiutata ad essere più indipendente nel lavoro, ma lei può sicuramente insegnarmi molto di più rispetto ad un ragazzo che non capisce granché di design - sono anche un po’ triste. Il lavoro è l’unico vero motivo per cui io ed Edward ci vediamo quasi tutti i giorni, per cui possiamo stare a stretto contatto per la maggior parte del tempo. Cosa farà dopo il ritorno di sua madre? Cercherà un altro lavoro? Resterà in ufficio? Ma in che ruolo? Potrebbe prendere il posto di Jessica… Scuoto il capo non appena formulo il pensiero. No, è impossibile: Edward non ha la pazienza per starsene dietro una scrivania e organizzare la giornata di qualcuno. In questi momenti più che mai vorrei Kim al mio fianco. Vorrei parlarle di quello che sta succedendo in ufficio, e chiederle consiglio. Lei ha molta più esperienza di me, conosce tutti i dipendenti, di sicuro saprebbe come reagire.

Edward mi ha consigliato di fare finta di niente. Dobbiamo solo aspettare che tutti i pettegolezzi su di noi cessino, e la sua speranza è che con il ritorno di Esme tutto torni normale. Quando mercoledì sono arrivata in ufficio i bisbigli dei colleghi erano quasi totalmente assenti, e ho iniziato a credere che forse ha ragione, e che basta solo lasciare che con il tempo le chiacchiere finiscano.

La porta dell’ufficio si riapre, e chiudo la cartella.

«Andiamo?», mi domanda Edward, con la giacca sottobraccio.

Annuisco, e mi alzo per seguirlo fuori dallo studio.

 

Edward

«Allora ci vediamo domenica…».

La voce di Bella mi ridesta dai miei pensieri. Mi volto a guardarla e la trovo con gli occhi che brillano e il sorriso sulle labbra rosee. Già, domenica. Il pranzo a casa Cullen con Carlisle. Mio padre passa troppo tempo da solo da quando mamma è a Washington, e abbiamo pensato di fargli compagnia in qualche modo. Ovviamente è stata Alice ad avere questa brillante idea.

«Ehi! Edward!», esclamano alle mie spalle, dalla strada davanti all’ingresso del palazzo della Cullen Society.

Lo sguardo di Bella saetta verso la persona che ha appena urlato il mio nome, e strabuzza gli occhi, sorpresa.

Dal canto mio non ho bisogno di voltarmi, perché questa voce la conosco alla perfezione.

La persona arriva al nostro fianco, sorridente come suo solito.

«Ciao, Bella». Sorride a lei, poi mi dà una pacca sulla spalla. «Fratellino».

«Ciao, Emmett!». Bella sorride. Ha sempre trovato mio fratello simpatico, e alla cioccolateria capita spesso che li trovi intenti a ridere e chiacchierare tranquillamente; mi piace che sia riuscita a instaurare un ottimo rapporto con tutta la famiglia, anche se forse fra di noi rimane una barriera difficile da abbattere. Almeno per me.

«Che ci fai qui?», gli chiedo, curioso.

Emmett si rivolge a me. «Volevo chiederti se ti andava di andare a cena insieme… è da tanto che non ci vediamo».

Mmm… c’è qualcosa che non va. Soprattutto se è passata appena una settimana dal pranzo del Ringraziamento.

«Ma non avevi un appuntamento con Rosalie?», si intromette Bella, scettica. Rivolgo una veloce occhiata prima a lei, poi a mio fratello che distoglie lo sguardo, colto in flagrante.

«Ehm… ha avuto un contrattempo e quindi non ci sarà…», mormora, grattandosi la nuca, a disagio.

Ridacchio. «O ti ha dato buca?». Bella mi rivolge un’occhiataccia, e mi ricompongo. «Quindi mi stai usando come rimpiazzo?».

L’orso mi guarda sconcertato. «Oh, andiamo, non la prendere così, sei mio fratello, me lo devi!».

Bella scoppia a ridere, notando la smorfia sul mio viso. So bene cosa significa andare a cena con mio fratello: tante, tante chiacchiere.

«Ehi, Bellina, vieni anche te!», esclama, usando il nomignolo che le ha affibbiato fin dal loro primo incontro.

Lei appare spiazzata da quella proposta. Arrossisce, guarda me e poi mio fratello, non sapendo cosa dire.

«Magari puoi aiutare Emm a superare questa batosta sentimentale», scherzo, ricevendo una gomitata da mio fratello.

Bella ride più tranquilla, e, finalmente, dopo che Emmett ha sfoderato la sua tattica da cucciolo bastonato, annuisce sorridente. Ci dirigiamo verso l’auto di mio fratello, e non mi sfugge l’occhiolino che quest’ultimo mi riserva, alle spalle di Bella.

 

Bella

Il ristorante che Emmett ha prenotato non è molto distante dalla sede della Cullen Society, e nonostante sia nascosto in una via laterale è abbastanza frequentato, infatti fuori dalla porta troviamo una fila di persone. Uno strano brivido di disagio mi attraversa la schiena quando constato che sono tutte coppiette. Non ditemi che siamo finiti in uno di quei ristoranti con le luci soffuse, i camerieri in frac e i mazzi di fiori come centrotavola con tanto di candele…

cenaAppena varchiamo la porta, superando la fila di persone in attesa, la prima cosa che noto è il profumo speziato tipico delle candele, delicato e per nulla fastidioso, la seconda è che le luci sono davvero soffuse, e che i vasi che addobbano l’ingresso sono colmi di decorazioni sui colori della crema e della panna. Un tappeto adorna l’ingresso, e conduce fino alla sala alle spalle del banco dove si trovano due camerieri e una donna molto giovane, vestiti elegantemente. Emmett si avvicina alla ragazza, e, dopo aver detto il suo cognome, chiede se è possibile aggiungere un posto a tavola.

Mi sento in terribile imbarazzo, non posso negarlo. Mentre attraversiamo la sala colma di tavoli, scortati da un cameriere, mi guardo intorno, osservando le persone. I più sono coppie, ma in un paio di tavoli posso anche scorgere gruppi di tre o quattro persone. Tuttavia, l’atmosfera tipica delle cene romantiche mi mette a disagio. Soprattutto quando mi siedo fra Edward ed Emmett a un tavolo quadrato. Fortunatamente è abbastanza spazioso, e ci evita di schiacciarci eccessivamente. Mi sento di troppo.

Perché ho accettato? Avrei fatto meglio a tornare a casa, e lasciare che i due fratelli si divertissero fra di loro.

«Grazie, Bellina», esclama Emmett, dopo essersi seduto e quando il cameriere si è allontanato.

Inarco un sopracciglio, perplessa. «Di cosa?».

Emmett ghigna. «Per essere venuta», guarda il fratello con uno strano luccichio negli occhi, «altrimenti questo scapestrato di mio fratello mi avrebbe lasciato solo».

Rivolgo un’occhiata perplessa ad Edward, che evita i nostri sguardi fissando il suo sul menù che apre.

«Non credo che sarebbe stato così crudele…», sorrido, stringendomi nelle spalle.

L’orso continua a fissare il fratello con quello strano sguardo, e un sorriso beffardo. «Oh, sì che lo sarebbe stato…».

«Emm, prendiamo del vino?», lo interrompe il fratello, facendo finta di niente.

Emmett trattiene a stento una risata e annuisce, aprendo a sua volta il menù.

E mentre faccio scorrere lo sguardo sulla sfilza di piatti prelibati - e dai costi esorbitanti - mi domando per quale motivo non riesco mai a capire il senso dei loro discorsi, che sembrano svolgersi nel silenzio totale con un semplice gioco di sguardi.

 

«Ehi, quella non è Rosalie?».

Finisco di bere il vino, e dopo aver appoggiato il bicchiere mi volto nella direzione verso cui sta guardando Edward, che ha appena posto la domanda. Anche Emmett segue il suo sguardo, ed entrambi individuiamo una lunga chioma bionda, all’ingresso. Impiego pochi secondi a distinguere la figura della mia amica, e ancora di meno per memorizzare i due uomini alle sue spalle, vestiti in due completi grigio scuro. Vengono accompagnati fino ad un tavolo al centro della sala, non molto distanti da noi.

«Emm, dove vai?», chiede Edward, preoccupato.

Emmett sorride forzatamente, stringendo i pugni e poi rilassandoli. «Vado a salutare colei che mi ha dato buca all’ultimo minuto», risponde sorridendo.

«Ti prego non-».

«Non ho intenzione di fare a pugni con quei due, Edward», lo interrompe, serio. Poi ci dà le spalle, dirigendosi verso il tavolo.

Restiamo a guardarlo mentre si avvicina al tavolo a cui si sono appena seduti Rosalie e i due uomini, e rimaniamo in attesa. Dopo un breve scambio di battute Rosalie si alza, e lo segue verso la zona delle toilette.

Edward sospira, e passa un dito sul bordo del bicchiere di vino rosso. Anch’io per questa sera mi sono concessa di bere vino, anche se all’inizio mi ero detta di non cedere. So bene quanto sia poco resistente all’alcol, e so che non posso reggere più di tre bicchieri. Per questo ho chiesto anche una bottiglia d’acqua. Tuttavia questo vino è davvero delizioso, e resistergli non è facile, soprattutto se accompagna delle pietanze come quelle appena gustate. Abbiamo appena terminato la seconda portata, ed Emmett ha proposto di prendere anche il dolce. La serata è trascorsa piacevolmente, fra chiacchiere di ogni genere e risate.

«C’è una cosa che non ho ancora capito», esordisce Edward dopo alcuni secondi di silenzio.

«Dimmi», rispondo immediatamente.

«Cos’è che vorresti fare una volta finiti gli studi? Se non sbaglio non ti mancano molti esami…».

Abbasso lo sguardo, imbarazzata. «No, infatti».

«Quindi…?», mi incita, vedendo che non accenno a continuare.

«Beh… vorrei fare la scenografa», confesso, arrossendo.

Alzo lo sguardo, e ritrovo i suoi occhi verdi intenti a scrutarmi, curiosi. «Teatro o cinema?».

«Teatro…».

Sono contenta che non mi faccia domande riguardo ciò che potrei fare nel caso non troverò lavoro in questo campo. So che non è facile trovare un simile posto, ma adesso voglio solo impegnarmi per arrivare al mio obiettivo, poi penserò alle conseguenze di tale decisione.

«Come mai questa scelta? I tuoi genitori lavorano in quel campo?», azzarda, scrollando le spalle e volgendo per un istante lo sguardo in un’altra direzione.

La sua domanda mi ricorda quanto poco Edward conosce della mia famiglia, quanto poco in realtà lui conosca la mia vita. Non gliene faccio una colpa, so di essere poco loquace quando si parla dei miei genitori.

«No, no, assolutamente. Mio padre è lo sceriffo di Forks, mia madre cambia lavoro ogni mese, quindi non credo proprio che sia dovuta a loro questa scelta…», rido senza alcuna allegria.

Edward torna a fissarmi intensamente. Abbasso lo sguardo, non sapendo cosa dire.

«Non lo so nemmeno io perché ho scelto questo… credo sia iniziato tutto quando Phil mi ha portata a teatro per la prima volta…».

Quando alzo gli occhi Edward è confuso. «Phil… il marito di tua madre?».

Annuisco, e fa altrettanto, curioso. «E cosa ti ha portato a vedere?».

Arrossisco. «Il re leone».

Inarca un sopracciglio. «Quello della Disney?».

«Sì».

Sorride. «Sai che lo fanno ancora a Broadway?».

Strabuzzo gli occhi. «Sul serio?».

Annuisce. «Credo sia uno degli spettacoli più in voga; saranno almeno sette anni che è in scena».

«Ci credo! È uno spettacolo bellissimo!», esclamo, con forse troppa enfasi.

Edward sorride sghembo, mentre io arrossisco e abbasso lo sguardo sul piatto. «Se vuoi una sera potremmo andare a vederlo», azzarda, portando il bicchiere di vino alla bocca.

Avvampo, poi ricordo un’altra cosa e cerco di alleggerire la tensione e l’imbarazzo. «Devi ancora portarmi a vedere le stelle, ricordi?», chiedo con una risata.

Sorride ancora. «Certo. Vorrà dire che per questo e il prossimo sabato sera puoi ritenerti impegnata».

Sgrano gli occhi per un istante, sentendo il cuore inciampare nel petto. Posso ritenermi impegnata. Con lui. Vuole uscire con me. Me, e non altre persone - o almeno credo. È… è un appuntamento?

«E cosa vorresti fare domani?», domando, scacciando dalla mia testa quelle domande.

Rivolge lo sguardo altrove, facendolo vagare per la stanza. «Pensavo di andare in un posto non molto lontano dove si possono vedere bene le stelle. Le previsioni danno bel tempo per il weekend quindi non dovrebbero esserci problemi di visuale».

Annuisco, abbassando lo sguardo e cercando di rendere il meno evidente possibile l’enorme sorriso stampato sul mio viso.

«Ma… se non vuoi non fa niente», aggiunge, però, Edward, preoccupato. Alzo lo sguardo. «Insomma… non sei obbligata ad accettare, puoi…».

«No! Voglio venire a vedere le stelle, davvero», dico, non nascondendo più il sorriso.

Il sorriso sghembo torna al suo posto, e gli occhi si illuminano. «Allora va bene».

Sto per chiedergli qualcos’altro, ma intravedo Emmett tornare verso di noi, con il sorriso sulle labbra.

«Allora?», gli chiede Edward, mentre lui si siede di nuovo al suo posto.

«È un incontro di lavoro», risponde tranquillo.

Aggrotto le sopracciglia. «Di lavoro?».

Emmett annuisce, e risponde dopo aver bevuto un sorso di vino: «Le hanno offerto un posto in una società, e questa cena è per conoscere meglio di cosa si tratta».

Lancio un’occhiata al tavolo di Rose, e la scorgo ascoltare attentamente uno dei due uomini. Chissà che genere di lavoro le hanno offerto… da quando è tornata dal Montana ci siamo viste solo una volta, per via di nostri impegni universitari e lavorativi, e mi ha raccontato solo delle sue vacanze passate con la famiglia e dell’appuntamento con Emmett.

«Le hanno telefonato oggi pomeriggio sul tardi, e non voleva lasciarsi sfuggire una simile occasione», continua.

«E la cosa non ti dà fastidio?», chiede Edward, con un sopracciglio inarcato.

Suo fratello scrolla le spalle. «No, ha fatto bene. E poi, ci vediamo non appena termina la cena».

Edward ghigna. «Ora capisco».

Rivolgo un ultimo sguardo a Rose, e sorrido ripensando alla breve conversazione con Edward, sentendo il mio cuore battere forte e le guance arrossarsi.

 

Camminiamo lungo il marciapiede, stringendoci nei cappotti. Emmett non c’è, è rimasto nei pressi del ristorante, in attesa che Rosalie termini la cena di lavoro. Edward aveva lasciato l’auto nel parcheggio della Cullen Society, quindi abbiamo deciso di fare a piedi la breve strada che porta al palazzo dove abito. Per tornare a prendere l’auto prenderà un taxi.

«Allora passo a prenderti domani sera?», domanda con un sorriso, quando arriviamo davanti alle porte dell’ingresso.

«Devo considerarlo un appuntamento?», chiedo sorridente, resa più disinibita dal - troppo - vino.

Le sue labbra si piegano nel suo irresistibile sorriso sghembo, che mi fa arrossire e battere forte il cuore. «Perché no?». Mi blocca il respiro. «Passo a prenderti prima di cena, va bene?».

Annuisco con un cenno del capo, sentendo una strana sensazione allo stomaco, come se delle farfalle ci volassero dentro.

«Buonanotte, Bella».

«‘Notte, Edward…».

Finalmente, la risposta che tanto attendevo. Sì, è un appuntamento.

 

«Bella?».

La voce di Alice mi riscuote dai miei pensieri, totalmente concentrati su un’unica persona.

Non rispondo, fingendo di dormire, ma pochi secondi dopo sento il materasso abbassarsi, e la mia amica gattonare fino a me.

«Stai dormendo?».

Non riesco a reprimere un sorriso divertito. «Ci stavo provando».

Un risata sottovoce, e la sento sdraiarsi al mio fianco. Apro gli occhi, e nonostante il buio pesto riesco a intravedere la sua sagoma vicino a me.

«Com’è andata con il mio fratellino?».

Alzo gli occhi al cielo, sebbene sia totalmente inutile, vista la scarsa luminosità, e sorrido.

«Come fai a sapere che sono stata con lui?», domando, stupita dalle sue continue e stupefacenti risorse per scoprire le cose. Potrebbe fare la spia per l’FBI. Al fianco di Jasper. Sarebbe comico.

«Semplice: l’ho incontrato davanti al portone», risponde, saccente. Un attimo di silenzio, poi riattacca: «Allora?».

«Allora cosa?».

«Com’è andata?», insiste.

«Bene. Abbiamo cenato con Emmett e poi mi ha riaccompagnata a casa».

Alice rimane in silenzio. Sono sul punto di crederla addormentata, quando la sento muoversi e mettersi sul fianco, con il gomito puntellato sul materasso e la testa appoggiata al palmo della mano.

«Sono sicura che ti chiederà di uscire», esclama, euforica.

Arrossisco. «Forse». Lo sa? Edward le ha detto che mi ha invitata uscire domani sera?

La mia amica sbuffa. «Bella, devi accettare il fatto che gli piaci e che lui ti piace. Ormai è sicuro».

Ora che non riesco a vederla in viso le sue parole risuonano più serie del solito. «Ah sì?», chiedo, ironica. «Hai per caso ricevuto una dichiarazione da parte sua?».

«Proprio così».

Il mio cuore fa le capriole, e sgrano gli occhi, al buio. «Alice, per favore…».

La sento agitarsi al mio fianco. «È la verità, Bella! Vuole persino lasciare Tanya!». Balza in piedi, sul materasso. «Dobbiamo festeggiare!».

Mi porto un braccio a coprire il viso, stravolta. Mi sembrava strano che Alice fosse così calma. Probabilmente era solo colpa della momentanea stanchezza. Ma le sue parole rimbombano nella mia testa: Vuole persino lasciare Tanya! «Ti prego, non adesso. Ho troppo sonno», brontolo. Ed è così. Sento le palpebre pesanti come macigni, e la spossatezza invadere tutto il mio corpo. «Comunque mi ha chiesto di uscire», aggiungo in un sussurro, sentendo le guance andare a fuoco.

«Lo sapevo!», strilla, facendomi sobbalzare. Saltella sul letto, facendomi muovere. La sento battere le mani. «Vado a prendere lo spumante!», esclama ad alta voce. Se continua così sveglia tutto il palazzo.

«Domani!», ribatto, alzando un po’ la voce per farmi sentire.

Alice sbuffa di nuovo. «E va bene», brontola. Poi la sento sbadigliare. Immagino abbia rinunciato a buttarmi giù dal letto solo perché è stanca quasi quanto me - miracolo, se stiamo parlando dell’instancabile Alice Cullen.

«Buonanotte, Alice».

«‘Notte, Bella». La sento uscire dalla stanza, e chiudersi la porta dietro.

Rimango per alcuni secondi a meditare sulle sue parole, poi sprofondo in un sonno agitato.

 

Sabato 5 Dicembre

Edward

Stronfino entrambe le mani sul viso, cercando di svegliarmi. Non posso addormentarmi sulla poltrona con tutti i poliziotti che girano per l’ufficio.

Sento bussare alla porta, e prima ancora che possa rispondere Jasper entra, richiudendo la porta alle sue spalle. Nelle mani tiene una cartellina marrone, da cui spuntano alcuni fogli.

«Avete trovato qualcosa?», chiedo, appoggiando la fronte ai palmi delle mani.

Perché doveva succedere proprio adesso, quando il ritorno di Esme è imminente? So che non è colpa mia quello che è successo, ma non posso fare altro che sentirmi in colpa. Non ho ancora avvisato Esme, e non so con che coraggio farlo. Spero solo che la polizia trovi al più presto i colpevoli.

Jasper si ferma davanti alla scrivania, scuro in volto. Non è un buon segno, ma ora come ora ho solo bisogno di conferme e di un risultato, per potermi distendere in un letto - non prima di aver spaccato la faccia a chi ha osato fare una cosa del genere.

«Jazz, parla per favore».

Il mio amico, in divisa, sospira pesantemente, prima di iniziare a parlare: «Abbiamo stilato una lista delle persone che possiedono le chiavi per entrare nell’edificio. Oltre a te solo un’altra persona ha il mazzo di chiavi completo».

«E sarebbe…?», chiedo, sperando che le indagini finiscano subito.

Sospira. «Non posso ancora dirtelo», risponde, grave. «Abbiamo ricevuto un mandato per ispezionare casa tua e quella dell’altro proprietario delle chiavi».

Tolgo le mani dagli occhi, e li roteo. «Oh, andiamo, Jasper. Se avessi preso io i soldi dalla cassaforte della società di mia madre non sarebbe nemmeno un furto!».

Sospira. Altro brutto segno.

«Devo andare». Prima di uscire, però, lascia sulla mia scrivania il fascicolo. Mi guarda intensamente per un istante, poi se ne va, lasciandomi solo.

E, ovviamente, allungo la mano per leggere fra i suoi fogli il nome dell’altro indiziato.

 

Bella

Quando la mattina mi sveglio sono grondante di sudore, e il battito cardiaco è ancora accelerato. Sento ancora la voce di Edward rimbombare nelle orecchie come un’eco lontana, come una lama che mi squarcia in due. Che sogno ho fatto? Non riesco a ricordarmelo. So solo che la voce di Edward risuona ancora nelle mie orecchie, ma non capisco cosa sta dicendo. Sbatto le palpebre più volte, e dopo aver lanciato un’occhiata alla sveglia, che segna le otto e mezza, mi alzo, uscendo in corridoio. Faccio giusto in tempo a incontrare Alice che esce dalla sua camera, già vestita di tutto punto. Mi ordina di correre a cambiarmi e dopo averlo fatto ed essermi rinfrescata vado in salotto, dove la trovo intenta a sistemare due bicchieri.

«Alice…», mormoro titubante, adocchiando la bottiglia di spumante bellamente posata al centro del tavolino basso, «non è un po’ eccessivo? Mica sto convolando a nozze!».

«Ah-ah», ride per finta, con il sorriso sulle labbra. «Per quanto sia felice di come le cose si stiano mettendo fra te ed Edward non ho di certo intenzione di stappare una bottiglia di champagne per questo». Sospiro, ma i suoi occhi si puntano immediatamente nei miei: «Ma sta pur certa che quando finalmente vi mettere insieme stapperemo almeno sette bottiglie di spumante per festeggiare!».

Scuoto il capo, ridendo. «E perché proprio sette?».

Scrolla le spalle, mentre cerca con le sue manine piccole di stappare la bottiglia. «È il mio numero preferito, semplice».

Dopo alcuni sforzi il tappo di sughero lascia finalmente il suo posto, e subito Alice versa champagne in abbondanza per entrambe in due lunghi e sontuosi calici di cristallo. Appoggia la bottiglia sul tavolino, e mi tende un bicchiere, che prendo confusa.

«Allora a cosa brindiamo?», chiedo, incuriosita da tutto questo mistero.

Il sorriso di Alice è contagioso, gli occhi brillano, e un fremito la scuote mentre apre la bocca per parlare: «Ieri pomeriggio mi sono licenziata!».

Sono costretta ad aumentare la presa sul bicchiere, temendo che da un momento all’altro possa cadermi rovinosamente a terra. «Cos’hai fatto?!», chiedo, con voce strozzata, non capendo il motivo di un simile gesto e soprattutto della conseguente felicità che sprizza da tutti i pori. Lei continua a sorridere, probabilmente aspettandosi una simile reazione da parte mia. «E perché, scusa?!».

Non capisco. È sempre stata euforica e felice di lavorare alla casa di moda di cui era dipendente, perché licenziarsi?

Sorride ancora più estatica. «Ho deciso di creare una casa di moda tutta mia, e mamma vuole darmi una mano».

Spalanco la bocca, senza parole. «Ma… ma non è una scelta un po’ azzardata?», provo a dire, preoccupata. Il sorriso di Alice non si spegne, tuttavia. «Insomma… è un grande salto… partire dal nulla…».

Abbassa lo sguardo per un istante, con un sorriso dolce in volto. «A lavoro mi hanno proposto di creare un’altra linea tutta mia, ma resterebbe per sempre sotto il marchio della loro casa. Adesso voglio che riporti il mio nome, capisci?». Mi guarda negli occhi, prendendomi la mano lasciata libera dal bicchiere. «Voglio poter creare quello che voglio davvero, senza impedimenti. Voglio che siano le mie idee a vendere, il mio stile, i miei vestiti, non l’etichetta firmata». Abbassa nuovamente gli occhi: «So che all’inizio sarà molto difficile… che è un rischio non solo per me ma anche per la Cullen Society che mi offre i fondi per dare il via a tutta questa giostra… ma sento che devo farlo per me stessa. Mi capisci?». Mi guarda negli occhi, con la speranza che brilla in quelle pietre azzurre. Vorrei avere anch’io il suo coraggio, vorrei avere anch’io la sua forza di prendere l’iniziativa e lanciarmi nel buio più totale come lei.

L’abbraccio di slancio, rischiando di far rovesciare a entrambe lo champagne. Ricambia la mia stretta, ridendo allegra. «Sì», rispondo al suo orecchio, «ti capisco, Alice. E sono sicura che ne varrà la pena. Sono sicura che andrà tutto bene e che riuscirai a realizzare il tuo sogno».cincin

Mi stringe più forte. «Grazie, Bella. Grazie».

Si allontana da me, brandendo in aria il bicchiere ancora pieno. «Adesso festeggiamo!».

Alzo il calice fino a farlo arrivare vicino al suo. Entrambi brillano alla luce della lampada. «Brindiamo a-».

Mi interrompe: «Al nostro futuro!».

La fisso con un cipiglio incuriosito in volto.

Mi fa l’occhiolino. «Che sia felice e che veda i nostri sogni realizzati!».

Sorrido, e con un tintinnio i bicchieri si scontrano delicatamente, scuotendo il liquido al loro interno. Portiamo entrambe il bicchiere alle labbra, e beviamo tutto d’un fiato il contenuto.

Subito, Alice riprende in mano la bottiglia di spumante, e riempie di nuovo i calici.

«Non credo sia il caso di esagerare…», mormoro, ben conscia del fatto di reggere poco qualsiasi tipo di bevanda alcolica. «Dopotutto sono solo le nove di mattina e siamo a stomaco vuoto».

Alice ride di gusto, scuotendo il capo mentre riempie i bicchieri fino all’orlo. «Per niente! Dobbiamo festeggiare come si deve, inoltre domani è domenica: niente lavoro per entrambe!».

Scuoto il capo, sorridente. «Sì, così quando Edward passerà a prendermi sarò già ubriaca fradicia».

Ghigna. «Non sarebbe una brutta idea. Chissà che alla fine ti decida a lasciarti andare un po’ di più…». Ferma la bottiglia a mezz’aria, alzando lo sguardo. «Ho un’idea! Chiamiamo anche Rose a festeggiare, scommetto che sarà più che felice di sapere che presto tu ed Edward sarete una coppia!».

Scuoto la mano, preoccupata. «Non serve, Alice. E poi adesso stiamo festeggiando altro», bofonchio.

«Stiamo festeggiando al nostro futuro», puntualizza, con un sorriso scaltro. «Ed Edward sono sicura che farà parte del tuo futuro».

Alzo gli occhi al cielo, sentendo il viso andare a fuoco. Sbuffo: «Alice, ti prego…». Notando il suo sguardo torvo riacquisto il sorriso. «La vedremo a pranzo, tanto, no? E poi starà ancora dormendo».

Non voglio festeggiare così spudoratamente. Sono ancora troppo piena di incertezze e paure per affidarmi ciecamente alle parole della mia amica. Io ed Edward a conti fatti siamo solo amici per adesso. Il fatto che entrambi potremmo essere attratti l’uno dall’altra non significa niente.

Detto ciò anche lei sorride, riprendendo a versare lo champagne nel mio bicchiere. Suonano la porta, e solleva lo sguardo, guardandomi con un sorriso malizioso.

«Chissà chi sarà…», mormora, con uno sguardo più che eloquente. È evidente che pensa sia Edward, e ammetto che è anche il mio primo pensiero, anche se poi mi rimprovero mentalmente. È impossibile che sia lui. Ha detto che sarebbe passato prima di cena,

Scrollo le spalle, comunque, con nonchalance. «Magari è Rose che vuole festeggiare l’uscita con Emmett».

Alice mi fa la linguaccia, scoppiando poi a ridere, e mi fa segno di andare ad aprire.

Mi alzo velocemente, e raggiungo la porta in legno bianco. Prendo un respiro, e senza nemmeno guardare dallo spioncino la spalanco, con il sorriso sulle labbra.

Tuttavia, non è Edward. Non è nemmeno Rose. Non sarei nemmeno sorpresa di trovarmi davanti Jasper, se non fosse accompagnato da altri due uomini, in divisa come lui.

Aggrotto le sopracciglia.

Jasper mi lancia un’occhiata affranta, rimanendo in silenzio. Si sposta di un passo, lasciando avanzare un altro poliziotto.

«Isabella Marie Swan?», mi chiama questo, serio in viso.

Annuisco, confusa.

Solleva il distintivo del dipartimento di polizia di New York. «Polizia di New York. Siamo qui con un mandato di perquisizione».

Boccheggio, incapace di parlare. Un mandato di perquisizione? Qui? Perché? Cos’è successo?

«Bella?». La voce di Alice mi arriva lontana, come un’eco persa nello spazio dell’appartamento. «Jasper? Che ci fai qui?».

Mi faccio da parte, mentre la mia amica mi viene accanto, stringendomi un braccio. I due poliziotti entrano dentro casa; uno si dirige verso le camere, l’altro inizia a girare per il salotto. Jasper resta davanti a noi.

«Jazz, cosa state facendo? Cos’è successo?», gli chiede ansiosa, afferrandogli i lembi della divisa. Lui le accarezza le braccia, guardandosi intorno preoccupato.

«Stai calma. Ti spiego tutto fra un attimo», sussurra, con la voce che trema leggermente.

Il calmo e pacato Jasper è preoccupato, perché? Lui che consiglia a tutti di mantenere la calma con il suo sguardo colmo di fiducia adesso non riesce a guardare negli occhi né me né la sua fidanzata.

«Di chi è questa borsa?». La voce di uno dei due poliziotti, quello che girava per la sala, fa voltare nella sua direzione tutti quanti.

Sussulto, e tremo, riconoscendo la mia borsa fra le sue mani. L’avevo dimenticata sul divano ieri sera, appena entrata dopo la cena. «M-Mia», balbetto.

Infila una mano al suo interno, fasciata da un guanto bianco, ed estrae un sacchetto trasparente contenente alcune cose e il mio mazzo di chiavi.

Si avvicina di alcuni passi a noi tre, mentre Jasper lascia andare Alice per tendere le mani verso gli oggetti.

«Sono suoi, signorina Swan?», mi chiede l’agente, imperturbabile, indicando il sacchetto e le chiavi. Ora che è più vicino all’interno della busta trasparente riesco a riconoscere un mazzetto di banconote di alto taglio, sparpagliate.

Sussulto. «No! Non le ho mai viste!».

«Anche le chiavi?».

Mi avvicino di un altro passo, e riconosco il mazzo di chiavi della Cullen Society che Edward mi aveva lasciato su richiesta di Esme poco dopo la sua partenza. «N-No», balbetto, con il cuore che tamburella terrorizzato nel petto. «Sono mie».

Il poliziotto fa un cenno al ragazzo di Alice, e si avvicina a me, dopo aver richiamato l’altro poliziotto che torna in salotto. «Isabella Swan. La dichiaro in arresto per furto». Sgrano gli occhi, mentre Jasper mi raggira e mi blocca i polsi dietro la schiena. Il mio cervello è in black-out, e quando sento l’acciaio freddo delle manette contro i polsi credo di svenire. «Ha il diritto di rimanere in silenzio e di seguirci fino alla centrale di polizia».

Vengo voltata verso la porta di casa, e spinta avanti da Jasper, a seguire il poliziotto che tiene ancora fra le mani il sacchetto con le mie chiavi e tutte quelle banconote.

«Jasper!», strilla Alice, spinta via dall’altro poliziotto. «Cosa stai facendo?!».

Alle mie spalle sento la voce di Jasper, parlare sommessamente alla sua fidanzata, mentre l’altro agente mi porta fuori dall’appartamento. «Vieni alla centrale. Ti spiegherò tutto lì».

La mia voce invece sembra scomparsa. È come se tutti i muscoli facciali fossero improvvisamente diventati di pietra, tesi. Gli occhi seguono solo il profilo dell’uomo in uniforme davanti a me. Le manette stringono, premono contro le ossa dei polsi. La testa è pesante. I toni alti della voce di Alice sembrano lontani, e i miei occhi spalancati fissano il vuoto. Mentre le porte del palazzo si chiudono alle miei spalle una sola domanda rimbomba nella mia testa, improvvisamente vuota: perché?

E una lacrima di panico scende sul mio viso, prima di prendere finalmente coscienza di ciò che sta succedendo.

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La casa di Edward:

CUCINA

CAMERA DA LETTO

SALOTTO


Prima che mi prendiate a sprangate per il ritardo pauroso e prima di darmi della folle per questa "improvvisata" dell'arresto sappiate che era già tutto programmato fin dall'inizio, e che già nel prossimo capitolo si capirà chi è il vero ladro - mi sembra inutile dirvi che non è Bella, no? - e soprattutto perché lei è finita fra gli indiziati e colpevoli.

Voglio - sì, voglio - riuscire a postare prima di Natale, perciò vedrò di impegnarmi per non tenervi sulle spine troppo a lungo, e per farvi un piccolo regalo di Natale, dato che già con l'inizio di questo capitolo mi sarò tirata dietro insulti di ogni genere e portata XD Farò il possibile!

Grazie infinite a chi continua a leggere, a chi commenta sempre, a chi legge in silenzio.

Se volete fare quattro chiacchiere mi trovate su Twitter come @MidnightDream7, e vi ricordo anche il blog dove posto teaser e spoiler TRA SOGNO E REALTA'.

Come spoiler al momento posso solo dirvi il nome del prossimo capitolo: Commettere un errore.

Alla prossima :***


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Capitolo 10
*** Capitolo 9__Commettere un errore ***


Non è un miraggio, sono proprio io :D Come avevo promesso, ecco il nuovo capitolo!

Buona lettura!

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 9__Commettere un errore

Sabato 5 Dicembre

Edward

«Devo andare a lavoro».

Un bacio sulla mia mascella, il suo corpo che si stringe al mio ancora per un secondo. Lascio che sfugga dal mio debole abbraccio, e mi riparo gli occhi con il braccio, nascondendo il volto nell’incavo del gomito.

Si alza lentamente dal letto, e incurante della sua nudità raggiunge la scrivania. Si avvolge nella vestaglia, poi raccoglie le sue cose e va in bagno.

Rimango sdraiato in questo letto non mio, saturo del suo profumo. Profumo che non appena inizio a pensare mi infastidisce, perché troppo forte e intenso. Non era a questo che pensavo ieri sera. Non avrei mai voluto arrivare dove sono.

Serro la mascella, chiudendo in un cassetto della mia mente questi pensieri molesti.

Il suono della porta che si riapre e dei tacchi che picchiettano sul pavimento mi convincono a riaprire gli occhi, e a sedermi sul letto, coprendomi con il lenzuolo.

Lei è di nuovo di fronte a me, nuovamente con i vestiti addosso, e con i capelli non più spettinati. Allunga una mano per accarezzarmi la guancia, coperta da un leggero strato di barba.

«Ci vediamo stasera?», domanda con dolcezza.

Non sbagliavo a dire che è cambiata. Nella settimana in cui non ci siamo visti deve essere cambiato qualcosa in lei; un tempo non mi avrebbe mai parlato con tanta dolcezza e premura.

Abbasso lo sguardo, sentendo un nodo alla gola stringere. «Non lo so. Devo sistemare un certo problema allo studio».

Sospira sommessamente, ma non aggiunge altro riguardo la questione. Allontana la mano dal mio viso. «Puoi rimanere quanto vuoi. Mio padre rientrerà solo lunedì».

«Non ce n’è bisogno. Adesso me ne vado». Non riesco a guardarla negli occhi. I miei pensieri, ogni volta che la guardo, vengono immediatamente indirizzati a un’altra persona, e mi fanno male.

«Ci sentiamo più tardi?».

 A questa domanda non posso far altro che annuire lievemente, con un cenno del capo.

Mi lascia un’altra carezza sul viso, e si allontana, uscendo da questa stanza che ci ha ospitati per questa breve ora. È tutto molto ordinato, come sempre.

Mi alzo dal letto, raccolgo i miei vestiti da terra e mi rivesto velocemente, senza guardarmi più attorno, senza rivolgere più lo sguardo a questa stanza.

Quando esco non saluto nemmeno il maggiordomo, e mi lascio alle spalle casa Denali.

 

Bella

Il tempo non scorre. O forse sono io ad avere una percezione differente dalle altre persone. È passata poco più di un’ora, eppure a me sembrano passati secoli da quando sono stata chiusa dentro questa maledetta cella, nella centrale di polizia di New York. Ci sono solo sei piccole celle, dove vengono tenute le persone arrestate durante la notte e quelle su cui bisogna ancora fare accertamenti prima di essere trasferite in carcere dopo un’udienza del tribunale. Ci sono anch’io nell’ultima categoria. Jasper mi ha trovato una piccola cella solitaria, senza altre persone, più lontana dalle altre, rumorose.

I rumori provenienti dagli uffici della centrale di polizia non sono affatto attutiti, infatti, nonostante mi trovi nel seminterrato della centrale, riesco a sentire tutti i suoni provenienti da lì. Il telefono che squilla costantemente, il brusio degli agenti, lo squillare del fax, i passi pesanti degli uomini, i tacchi a spillo di certe donne in tailleur. Ed anche i fischi dei criminali chiusi nelle celle accanto alla mia, accompagnati dalle loro lamentele.

Le pareti sono spoglie, ricoperte da un semplice intonaco color sabbia, e le sbarre riportano qua e là i segni della ruggine; tuttavia sono perfettamente funzionanti - mio malgrado. Nella piccola cella in cui mi hanno rinchiusa c’è solo un letto in condizioni piuttosto pietose, con una coperta sgualcita in più punti e un cuscino spennato.

Resto in un angolo, in attesa, incapace di frenare il continuo tremore che scuote il mio corpo da quando ho focalizzato i miei pensieri sulla situazione in cui mi trovo.

Mi hanno arrestata. Con l’accusa di aver rapinato l’azienda in cui io stessa sono stata accolta come una figlia dalla proprietaria. All’inizio pensavo fosse uno scherzo di cattivo gusto, specialmente dato il fatto che a venirmi a prendere a casa mia è stato lo stesso Jasper, fidanzato con la mia migliore amica e coinquilina. Ma poi ho realizzato che non può essere uno scherzo.

Appena arrivata qui mi hanno chiuso in questa cella, senza dire una parola. Mi hanno tolto le manette che mi avevano indossato, procurandomi un paio di segni rossi sui polsi, e mi hanno lasciata sola. Non ricordo cosa è successo e soprattutto come ho fatto ad arrivare fino a qua. So solo di aver seguito i poliziotti e di aver camminato, di aver sentito voci che mi chiamavano, suoni di telefoni che squillavano. Ho sentito Alice e Jasper litigare, li ho sentiti nominare Edward. È stato solo sentendo il suo nome che mi sono riscossa da quello stato di torpore, ma a quel punto ero già in cella. Jasper ha allontanato Alice, l’ha portata con sé per parlarle. Cosa mi succederà adesso?

Sono accucciata a terra, con le gambe strette al petto e il viso nascosto sulle ginocchia, quando Alice torna da me. Jasper la lascia entrare, e subito lei si inginocchia davanti a me, stringendomi nel suo abbraccio. La lascio fare, appoggiando la testa sulla sua spalla.

Trema come me.

Mi sussurra parole di conforto, mi assicura che nemmeno Jasper crede che sia stata io, ma che è stato costretto ad arrestarmi dopo aver trovato prove schiaccianti che mi accusano di aver rapinato la Cullen Society questa notte stessa, intorno alle quattro di mattina. Non hanno trovato alcun segno di scasso, quindi hanno subito ridotto la ricerca a coloro che dispongono delle chiavi dell’intero stabile; a quanto pare sono solo due le persone in questione, ovvero io ed Edward. L’allarme è arrivato quando questa mattina alle otto Edward è andato allo studio e ha trovato la cassaforte dello studio aperta, vuota. Ha subito chiamato la polizia, e le indagini sono iniziate immediatamente. Per questo alle nove e mezza i poliziotti sono arrivati a casa mia e di Alice. Non capisco come siano finiti quei soldi lì. Non lo capisco, perché sono certa che ieri sera, mentre eravamo a cena, non erano nella mia borsa. Non è mio quel sacchetto, non ho mai visto prima d’ora quelle mazzette di banconote.

Alice mi stringe più forte, assicurandomi che presto troveranno il vero colpevole, e che nel frattempo si è già preoccupata di chiamare l’avvocato della famiglia Cullen.

«Dov’è Edward?», le chiedo, con le lacrime che scendono veloci lungo le guance.

Alice si irrigidisce fra le mie braccia, e tremo. «Non è ancora arrivato in centrale».

«Sa che…». Vorrei chiederle se sa che mi trovo in prigione, se sa che questa mattina mi hanno arrestato attribuendomi colpe che non ho, ma le parole mi muoiono in gola.

«Sì», sussurra Alice, intuendo la mia domanda.

Deglutisco, sentendo la gola bruciare per i singhiozzi trattenuti. Perché non è qui, allora? Cosa sta facendo? Non può credere che sia stata io a rubare quei soldi, non può. Ma allora per quale motivo non è ancora arrivato? Perché non viene anche lui a cercare di difendermi?

Lascio che Alice mi stringa più forte a sé un’ultima volta, prima che Jasper la richiami, lasciandomi di nuovo sola.

 

Strofino entrambe le mani sul viso, sconvolta. Asciugo le scie delle lacrime che continuano a sfuggire alle mie ciglia, stizzita. Non devo piangere, non devo piangere… andrà tutto bene, prima di sera mi faranno uscire, continuo a ripetermi come un mantra, cercando di calmarmi.

Il rumore delle sbarre d’ingresso alle celle mi fa alzare di scatto il capo. In fondo al corridoio fa la sua comparsa un poliziotto, seguito a ruota da…

Oh, Dio.

Avvampo, e al tempo stesso sento le lacrime salire nuovamente agli occhi.

Edward.

Resto lontana dalle sbarre, sentendo la vergogna sommergermi da capo a piedi. In questo momento vorrei sdraiarmi su quel piccolo lettino sfasciato e fingere di dormire, ma ormai Edward mi avrà vista in piedi.

Arriva davanti alla mia cella, dove l’uomo in uniforme lo lascia. Appena volta il capo nella mia direzione il mio cuore ha un sussulto.

Lo sguardo verde e accogliente della sera scorsa è completamente sparito, lasciando spazio alla freddezza del ghiaccio. Nemmeno durante la mia prima settimana di lavoro mi ha mai guardata… così. L’espressione è dura e impassibile.

Arretro istintivamente di un passo.

«Edward…», provo a chiamarlo, ma i lineamenti del suo viso si induriscono di colpo. Serra la mascella, e respira profondamente.

«Non so cosa…».

«Non ho ancora chiamato Esme», mi dice, interrompendomi. Il suo tono è freddo, distaccato, quasi arrabbiato. Rimango in silenzio, spaventata dal suo comportamento. Non può credere che sia stata io, non può. «Non l’ho ancora chiamata, e non so come fare a dirgli che una sua dipendente che ha accolto a braccia aperte nella sua famiglia e nel suo studio è stata arrestata con l’accusa di aver rapinato la sua azienda», continua, senza alcuna particolare inflessione.

Sento il cuore stretto in una morsa agghiacciante, e le lacrime tornare a rendere gli occhi lucidi. Nella testa l’immagine di Esme profondamente delusa da me mi fa sentire ancora più male. Perché così sarà una volta che scoprirà che sono stata accusata di aver rapinato la sua società: delusa da me, che più di una volta ha dimostrato di considerare al pari di una figlia.

«Io non dovrei essere qui», sussurro, con la voce che va e viene. «Non ho fatto niente, non l’avrei mai fatto».

«Se non sei stata tu troveranno le prove della tua innocenza e sarai liberata, non preoccuparti», sussurra, rigido e impostato, senza guardarmi negli occhi.

Stringo i pugni, cercando di non scoppiare di nuovo a piangere. «Quindi tu credi che sia stata io?», chiedo in un bisbiglio, sentendo il cuore rimbombare nelle orecchie.

Non fa alcun cenno, restando in silenzio. Alza lo sguardo dopo un lungo istante, e mi trafigge con lo sguardo freddo e distaccato. «I soldi erano nella tua borsa. Cosa dovrei pensare, secondo te?».

Sgrano gli occhi. Quindi non sbagliavo. Lui crede davvero che sai stata io.

Mi aggrappo alle sbarre, cercando in qualche modo di avvicinarmi a lui, di fargli vedere nei miei occhi la sincerità delle mie parole. «No, no! Non sono stata io, Edward, te lo giuro», gli dico, mentre le lacrime mi offuscano la vista. «Perché avrei dovuto fare un cosa simile a voi? Non saprei nemmeno come fare! Non ho mai nemmeno rubato una caramella in tutta la mia vita, come potrei?».

Mi inchioda con lo sguardo, e questa volta mi sembra di scorgere della tristezza nei suoi occhi e sul suo volto contratto. «Come faccio a saperlo?», chiede, a bassa voce, ma non più con il tono tagliente di poco fa. «Come posso sapere chi eri prima di venire qui a New York, se non so nemmeno chi sei adesso?». Sento il cuore perdere qualche battito, prima di riprendere a battere furiosamente. I miei occhi sgranati, le lacrime che iniziano a scendere lungo il volto. Un sorriso triste sul suo volto. «Sul serio, Bella, ti sei resa conto che non conosco assolutamente nulla di te? Conosco il tuo carattere a malapena, e di te, della tua famiglia so solo che mestiere fanno i tuoi, anzi, tuo padre». Chiude gli occhi. «Non so come fare per fidarmi completamente di te. Avrei voluto conoscerti meglio, e speravo che uscendo da soli per te sarebbe stato più semplice aprirti e…», scuote il capo, interrompendosi. «Non importa».

Mi guarda di nuovo negli occhi, e ancora leggo tristezza. «Mi dispiace», sussurra, prima di voltarsi e dirigersi verso gli uffici, dove il poliziotto lo sta aspettando.

Vorrei urlargli di fermarsi, ma non riesco a trovare la voce. Riesco solo a lasciare che le gambe cedano, e ad inginocchiarmi a terra, con l’amara consapevolezza che tutto ciò che Edward mi ha appena detto non è altro che la verità.

 

Edward

«Edward?».

«Uhm?», bofonchio, alzando appena il capo.

Jasper mi scruta per un lungo istante, in silenzio. «Hai idea di chi potrebbe essere stato?».

Torno ad abbassare lo sguardo, e lui continua: «Qualcuno che ce l’ha con la vostra famiglia, un dipendente indisciplinato, qualcuno che si è presentato più volte in un ufficio e dall’aria sospetta?».

Scuoto il capo. «No, Jazz, no. Era la Stanley la segretaria fino la settimana scorsa, e per questa settimana lo è stata Bella». Pronunciare il suo nome mi richiede uno sforzo, soprattutto per il senso di colpa che mi tormenta prepotentemente da quando mi sono allontanato dalla sua cella. Come ho potuto dirle quelle cose? Come ho potuto riversarle addosso tutta la frustrazione per non essere stato in grado di conoscerla meglio?

Gli occhi del mio amico si illuminano subito dopo le mie parole, e si volta verso la sua fidanzata, seduta su una sedia al mio fianco, davanti alla scrivania dell’ufficio di Jasper alla centrale di polizia. «Alice, questa mattina avete ricevuto visite?», le chiede, lanciandomi un’occhiata eloquente. Presto attenzione al loro discorso.

Mia sorella aggrotta le sopracciglia, assumendo un’aria abbastanza scettica ma anche irritata. «A parte la vostra, vuoi dire?». Jazz alza gli occhi al cielo. «No, nessuna».

Lui incrocia le braccia sulla scrivania, e tamburella la penna contro la scrivania. «Che voi sappiate, Jessica Stanley potrebbe conoscere altre persone al di fuori di voi, nel vostro palazzo?».

Alice strabuzza gli occhi. «Quell’oca?!», trattengo a stento un sorriso. «No, assolutamente! Perché, scusa?».

Lo sguardo di Jasper si fa improvvisamente scuro, e indagatore. «Il vostro portiere ha detto di aver visto solo lei questa mattina, anche se ammette di essersi addormentato per più di due ore durante la notte. Però è sicuro che intorno alle otto una certa Jessica Stanley, che aveva conosciuto la settimana scorsa, è passata dall’ingresso, e senza fermarsi ha preso l’ascensore. Secondo lui sono passati all’incirca cinque minuti, prima che uscisse dal palazzo».

«Da noi non è venuta di certo, anche perché io e Bella ci siamo alzate dopo le nove», afferma sicura, la sua fidanzata. Si porta un dito al mento, assumendo un’espressione pensierosa. «A meno che abbia suonato il citofono ma non l’ho sentito… ma è assolutamente improbabile che non mi sia svegliata!».

Jasper torna ad affondare la schiena nel sedile, sospirando. Credo che per lui questo sia un buco nell’acqua.

Mi schiarisco la voce, attirando la loro attenzione. «Forse dovresti chiamarla. Per sapere cosa stava combinando, in ogni caso. Si è licenziata lunedì sera, dopo aver litigato con Bella in ufficio».

Jasper annuisce, mentre gli occhi di Alice si illuminano. «Questo è un indizio!», esclama, esaltata. Io e Jazz la fissiamo perplessi, e si appresta a spiegare la sua intuizione: «Jessica ha litigato con Bella, ha rubato i soldi come aveva in programma già da tempo, e poi ha portato parte del bottino in casa nostra per depistarvi e farvi credere che sia Bella la colpevole, per vendetta per quello che è successo lunedì!».

«Alice per favore…», borbotta Jasper, evidentemente preoccupato, «come avrebbe potuto entrare in casa vostra senza le chiavi? È impossibile».

Scuote il capo, contrariato.

«Non lo so come ha fatto, ma sono sicura che centra qualcosa in questa storia!», esclama infervorata la mia sorellina, sbattendo le mani contro la superficie della scrivania, facendo sobbalzare Jazz. «Avete appurato che i soldi trovati a casa nostra sono a malapena un quarto del contenuto della cassaforte, quindi è evidente che il resto non ce l’ha Bella! Lei è innocente, ve lo dico io! L’avrei sentita uscire di casa, lo sai anche te che ho il sonno leggero!».

Jazz scuote ancora il capo. «Non è un buon alibi. Per quanto ne sappiamo avresti anche potuto aver preso un sonnifero, e a quel punto sarebbe stato impossibile per te accorgerti di Bella che usciva nel cuore della notte».

Alice si volta verso di me, con le lacrime agli occhi. «Ti prego, Edward, almeno tu devi credermi. Non puoi pensare che Bella potrebbe farci una cosa del genere!».

Abbasso lo sguardo. Nella mia testa, solo il caos più totale. «Non lo so, Alice», sussurro.

Dentro di me sono sicuro che non sia stata Bella a compiere la rapina. Ma al tempo stesso fino a una settimana fa ero certo che Tanya fosse solo una stronza egoista, incapace di porre qualcuno prima di se stessa; tuttavia, la mia certezza è stata spazzata via dal suo comportamento di questa settimana, e soprattutto quello di oggi. Mi sono presentato a casa sua che erano quasi le dieci, orario in cui lei esce per andare ad aprire il negozio, senza alcun avviso, e senza un motivo preciso. Non appena mi ha visto non ha esitato a telefonare alle sue socie e a chiederle di occuparsi al suo posto del negozio per qualche ora. È rimasta con me, e ha lasciato che la stringessi, che la amassi ancora una volta senza parlare, senza bisogno di spiegazioni. Mi ha permesso di dimenticare per pochissimi minuti quello che davvero provavo. Non mi ha detto niente quando sono rimasto in silenzio e mi sono comportato in modo distaccato dopo che abbiamo fatto l’amore. Non mi ha urlato contro come succedeva una volta.

Quindi, se ho sbagliato a giudicare Tanya, perché non potrei sbagliare a giudicare Bella, di cui fra l’altro conosco poco e niente? Quello che so l’ho perlopiù intuito osservandola giorno dopo giorno durante il lavoro, l’ho scoperto attraverso i racconti di Alice. Non pretendevo una sua biografia, volevo solo riuscire a conoscerla e a capirla, perché in un modo strano e particolare la sua presenza riusciva a rendermi felice e in pace con me stesso, e mi incuriosiva. Mi interessava, mi attraeva.

Mia sorella rimane in silenzio, stringendo i piccoli pugni. Sul viso un’espressione combattuta.

Jasper si alza in piedi, e sospira. «Vado da questa Jessica Stanley. Tu, Alice, cerca di calmarti, e tu Edward vai a farti un giro». Mi guarda intensamente. «Parla con Tanya, e risolvi il casino che hai combinato, per favore. Bella sarà liberata, stanne certo, e a quel punto sarà tardi per sistemare le cose».

Mia sorella salta sulla sedia, e mi osserva con gli occhi lampeggianti. «Che casino hai combinato con Tanya?», chiede, con voce stridula.

Lancio un’occhiataccia a Jasper, che scrolla le spalle. Non appena mi sono lasciato alle spalle la cella di Bella ho parlato con lui, e gli ho raccontato cosa è successo dopo che ho lasciato l’ufficio questa mattina, e soprattutto il motivo per il quale sono arrivato così tardi in centrale dopo la sua chiamata in cui mi diceva che Bella era stata arrestata. Si è passato una mano sul viso, e mi ha dato dell’idiota.

Non volevo ne parlasse davanti a mia sorella, perché so bene che la sua risposta non sarà un semplice ‘idiota’, ma sarà condita di espressioni ben più colorite; ma soprattutto so bene che Alice mi rinfaccerà tutte le conseguenze che questo fatto avrà su di me. Ha sempre detestato Tanya, e in un modo o nell’altro ha sempre cercato di avvicinarmi a Bella, a convincermi che fosse lei la ragazza perfetta per me, a spingermi per conoscerla.

Vorrei non essere andato da Tanya questa mattina. Vorrei aver ragionato invece che seguito l’istinto.

«Niente, Alice…», sussurro, alzandomi. Non la ascolto più, e raggiungo l’uscita, mentre Jasper richiede un mandato per perquisire la casa di Jessica Stanley.

Lascio la centrale di polizia, diretto alla Fifth Avenue.

 

Non appena entro nel negozio di Tanya, le sue braccia mi stringono forte, e vengo avvolto dal suo profumo. «Tesoro, sei venuto!», sussurra.

Le accarezzo piano la schiena con una mano, mentre noto che una delle sue socie e cugine, Irina, mi sta scrutando attentamente.

«Credevo che non ti saresti più fatto vivo», mormora Tanya, prima di staccarsi da me.

Dentro di me sento il cuore stretto in una morsa. Era quello che avrei fatto, molto probabilmente, se non fossi stato spinto dalle parole di Jasper. Da quel qualcosa che si chiama speranza. Sì, è stata la speranza che Bella sia scarcerata che mi ha dato la forza per venire fino a qui, nel negozio di Tanya Denali, per parlarle di quanto io sia stupido, di quanto lei si sia sbagliata fino ad ora sul mio conto. Di quanto sia ingiusto che lei continui a pensare a me.

Mi sorride felice, stringendomi una mano. Non riesco a guardarla negli occhi, annichilito dal senso di colpa. Mi schiarisco la voce. «Tanya… possiamo parlare?», lancio un’occhiata ad Irina e Kate, le due cugine-socie. «In privato?».

Lei annuisce, sorridendo, per nulla preoccupata. Si volta verso le altre due ragazze: «Potete badare voi al negozio un attimo?», chiede, e senza aspettare una risposta mi trascina con sé verso il retro del locale. È una stanzetta piccola, con un divanetto, un tavolino e due poltrone. Mi conduce fino al divano, dove ci sediamo una affianco all’altro.

Prima che possa iniziare a parlare le sue labbra sono sulle mie. Non fa altro, mi lascia solo un leggero bacio, poi si stacca, appoggiando la testa sulla mia spalla. «Credevo che ti fossi pentito di quello che è successo stamattina…», sussurra, giocando con le dita della mia mano.

Deglutisco, cercando il modo per parlare.

«Sono contenta che tu sia tornato», continua, non ricevendo alcuna risposta. «Non credo sarei riuscita a sopportare un’altra settimana di silenzio come quella appena passata…», vorrei ricordarle che in realtà sono passati appena cinque giorni da quando abbiamo deciso di fare una pausa, ma taccio, «soprattutto dopo quello che è successo stamattina».

Mi irrigidisco, e il senso di colpa mi ricorda che devo parlare, che devo dire qualcosa. Che devo scusarmi.

«Tanya…», mormoro, richiamandola. Alza il capo dalla mia spalla, guardandomi con gli occhi azzurri grandi e brillanti. Sono freddi all’apparenza, a differenza di quelli di Bella, caldi ed accoglienti. Scaccio il suo pensiero dalla mia testa, cercando di concentrarmi. «Volevo parlarti appunto di questo…».

Si allunga verso di me, e mi bacia ancora. Quando si stacca non mi lascia di nuovo il tempo di parlarle. «Non c’è niente da dire. È stato fantastico, come sempre».

Posa una mano sulla mia coscia, con lo sguardo malizioso. «Se vuoi stasera possiamo replicare», ammicca.

Appoggia di nuovo la testa sulla mia spalla. «All’inizio credevo mi avessi usata, lo sai?», chiede, retorica, giocherellando con le mie dita. Ogni parola è come una pugnalata al cuore. Cosa ho combinato? «Non hai parlato per tutto il tempo e sembravi con la testa da un’altra parte. Ma poi mi son detta che non sei quel tipo di ragazzo, quello che usa le ragazze per fare sesso e dimenticarsi di tutto il resto solo per qualche minuto. Da quel momento ho iniziato a sperare che tornassi… e ora sei qui». Stringe più forte la mia mano, intrecciando le nostre dita.

«Tanya…», mormoro, con voce strozzata. Che cosa ho fatto? Quanto sono stato idiota ad andare da lei questa mattina? Perché l’ho illusa? Perché è cambiata? Con la vecchia Tanya non avrei esitato a sbatterle in faccia - letteralmente - la realtà dei fatti, ossia che ero andato a letto con lei senza nemmeno una ragione precisa, solo per ‘staccare la spina’ per qualche minuto. Ma come posso dire una cosa del genere a questa nuova Tanya, dolce e romantica, che mi ha appena descritto come l’esatto opposto di ciò che sono?

«Non ti lascerò più scappare, da adesso», sussurra, con un sorriso. Mi abbraccia, ed io non riesco più a parlare. «Non voglio più comportarmi come ho fatto fino alla settimana scorsa, voglio essere la ragazza perfetta per te, Edward».

Come posso infliggerle un simile dolore? Semplicemente, non posso. Anche se questo significa reprimere quello che provo davvero. L’ho delusa tante, troppe volte, ed ora che finalmente sembra aver scoperto questo nuovo lato del suo carattere particolarmente dolce e sensibile, e non è più la stronza egocentrica di prima non posso spezzare tutto in un battito di ciglia. Proprio non posso.

 

Bella

«Hai fame?», mi chiede dolcemente Alice, non appena mettiamo piede nell’appartamento. Tutto è in ordine, o quasi. È come l’abbiamo lasciato questa mattina. La bottiglia di spumante sul tavolino, i bicchieri abbandonati al suo fianco, ancora con del liquido dentro. Non sembra ci sia stata una perquisizione da parte dei poliziotti. Mentre ero in prigione alcuni di loro hanno continuato l’indagine qui, ma non hanno trovato niente, come previsto da Alice.

Scuoto il capo debolmente, rispondendo negativamente alla domanda della mia amica. Lo stomaco è chiuso in una morsa fin da questa mattina, e sebbene non abbia fatto nemmeno colazione non ho neanche un po’ di fame.

Alice sospira, ed annuisce. È strano che non insista, ma non indago oltre. Voglio solo farmi una doccia ristoratrice e buttarmi nel letto. Sono solo le otto di sera, ma nessuna giornata mi è mai parsa tanto lunga. Decisamente è una di quelle giornate che vorresti cancellare per sempre dalla tua memoria. Non tanto per il fatto che sono stata arrestata, quanto per tutte le convinzioni che sono crollate durante la giornata.

Mi hanno lasciata andare non appena hanno trovato i soldi restanti e scoperto il colpevole, che altri non erano che Jessica Stanley e Mike Newton.

Sono rimasta allibita nel scoprire come hanno fatto ad incastrarmi, e ancor di più nel capire di essere stata presa in giro da entrambi.

Jasper ha condotto meticolosamente le indagini, più che convinto della mia innocenza. È stato a casa di Jessica, e, dopo una breve perlustrazione del suo appartamento e aver scoperto che non aveva nulla che potesse incastrarla, l’ha pedinata; non era convinto dalla sua dichiarazione: a quanto pare Jessica è stata nel nostro palazzo questa mattina intorno alle otto, e ha detto di essere venuta con l’intenzione di fare pace con me dopo quello che è successo lunedì. Seguendola è giunto fino alla casa di Mike Newton, suo fidanzato; non avendo un mandato di perquisizione Jasper si è solo potuto presentare alla porta del ragazzo fingendo di chiedergli informazioni riguardo la rapina, e come sospettava dopo appena un’ora di appostamento sotto la casa di quest’ultimo li ha visti uscire trafelati con una borsa. A quel punto gli è bastato mostrare il distintivo per scoprirne il contenuto, che non era altro che la parte mancante del bottino della rapina. Sono stati arrestati, e portati alla centrale di polizia. Mi hanno liberata, ma sono rimasta comunque lì per ascoltare con Alice come hanno fatto a nascondere i soldi nella mia borsa.

È stato allora che ho scoperto di essere stata ingannata da entrambi. La sera del Black Friday in cui ho incontrato Mike sotto casa ubriaco e l’ho lasciato entrare in casa mia gli ho permesso di prendersi gioco di me; in realtà era perfettamente sobrio: lui e Jessica avevano organizzato tutto perché io lo portassi in casa, e in quel modo riuscisse a sottrarmi le chiavi che Esme mi aveva lasciato; una volta presa la forma delle chiavi in un mio momento di distrazione per loro è stato semplicissimo farsene preparare di nuove e perfettamente funzionanti. Grazie a quelle sono potuti entrare nello studio e aprire la cassaforte, e Jessica è potuta entrare in casa nostra senza aver bisogno di bussare.

Durante la loro spiegazione ho temuto che Alice si infuriasse con me, ma, invece, non ha fatto altro che stringermi per tutto il tempo, cercando di confortarmi, dicendomi che non era stata colpa mia, e che a tutti sarebbe potuto succedere. Ma io non la vedo così. Se non fossi così ingenua, tutto questo non sarebbe successo, e loro non sarebbero riusciti a compiere la rapina senza essere quasi scoperti.

Avrei potuto sporgere denuncia contro di loro, per aver cercato di incastrarmi, ma non l’ho fatto. Farlo avrebbe significato portare avanti un processo, e ora come ora tutto quello che voglio è dimenticare questa storia.

Forse un giorno riuscirò a scordare la giornata passata dietro le sbarre, ma riuscirò anche a scordare gli occhi freddi e il torno tagliente di Edward? Riuscirò a scordare le sue parole?

Mentre sono sotto l’acqua della doccia lascio che le lacrime escano, e si confondano con le gocce che bagnano il mio corpo. Ho aperto finalmente gli occhi sulla spaccatura che sentivo esistere fra me ed Edward, e che lui ha definitivamente rivelato questa mattina. Cosa penserà, ora? Sa che mi hanno scarcerata? Sa che non sono stata io?

Tante domande, ed una solo risposta risuona nella mia testa: qualunque cosa accadrà, il nostro rapporto non sarà più come prima.


___________________________

Dunque, spero che ora sia tutto chiaro riguardo il motivo dell'arresto di Bella. Se così non fosse non esitate a chiedere! (Per il trucchetto usato da Mike per prendere la forma delle chiavi di Bella mi sono ispirata ad una scena del film 'Notte al museo' ;) ).

Il capitolo purtroppo non è molto in tema natalizio, in quanto abbastanza triste sotto più punti di vista. Il rapporto fra Edward e Bella è in crisi, ed entrambi hanno parecchi problemi da risolvere ora. Molte di voi probabilmente se la prenderanno con Edward per essere tornato da Tanya dopo aver scoperto che Bella è stata arrestata, ma non siate troppo severe: le motivazioni avete potuto leggerle anche voi, e tutte le sue convinzioni stanno crollando pezzo dopo pezzo.

Per il momento vi auguro un felice Natale, da passare con i vostri cari e la vostra famiglia, con qualche bel dolce ;)

Vi ricordo il mio nick su Twitter (@MidnightDream7), e anche il blog dove posto teaser e spoiler TRA SOGNO E REALTA'.

E qui vi posto il teaser del prossimo capitolo. TEASER CAPITOLO 10

A presto, e ancora auguri :***

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Capitolo 11
*** Capitolo 10__Sensi di colpa ***


Salve!

Quanto tempo, vero? Sono quasi sei mesi che non aggiorno questa fanfic, e immagino che molti si saranno ormai dimenticati la storia, e direi che è normale.

Credo che uno ‘scusate’ non sia sufficiente per tutto il tempo di attesa (se c’è ancora qualcuno che attende l’aggiornamento XD) e non sto nemmeno qui ad elencare i centinaia di motivi per cui non ho più aggiornato la storia, vi annoierei e basta. Comunque, sono tornata. Finalmente sono riuscita a finire il capitolo, e ho pensato di postarlo prima di buttarmi definitivamente nello studio per l’esame di maturità. Non appena avrò finito gli esami mi metterò al lavoro e porterò a termine questa fanfic :)

Per evitarvi di dover ripescare tutti gli scorsi capitoli ho scritto un brevissimo riassunto:

 

Bella si è appena trasferita a New York da Forks, lasciandosi alle spalle alcuni problemi non ancora risolti. Ad attenderla nella grande mela c’è la famiglia Cullen: Bella convive con Alice, che ha deciso di lasciare il suo lavoro per aprire una casa stilistica, lavora per Esme, dirigente della Cullen Society e a capo di uno studio di arredamento, conosce Emmett, proprietario di una cioccolateria in centro, ed Edward, che si presenta come il suo nuovo capo in sostituzione di Esme, in viaggio a Washington per lavoro. Conosce anche un’amica di Alice, Rosalie, ex modella, e Jasper, fidanzato della sua coinquilina e poliziotto. Bella è subito attratta da Edward, che però è fidanzato con Tanya Denali, il cui padre Eleazar fa di tutto per evitare che i due si separino. Una sera Edward e Bella escono a cena, e il mattino si scopre che c’è stata una rapina alla Cullen Society. Bella viene arrestata per rapina, e la fiducia di Edward nei suoi confronti crolla; dopo aver passato la notte con Tanya va a trovare Bella in cella, e pone fine alla loro amicizia.

 

Spero sia stato abbastanza esauriente come riassunto. Ho tralasciato alcuni particolari che comunque verranno ripresi nel corso dei futuri capitoli.

Questo capitolo è un po' lunghetto, prendetevela con calma. Ho preferito non tagliarlo 1. perché il prossimo aggiornamento non sarà vicino, e 2. perché almeno vi tolgo un grosso punto interrogativo senza farvi penare ancora a lungo :D (cinque mesi abbondanti direi che sono stati sufficienti).

 

Buona lettura! :)

___________________________

 

Don’t Leave Me Alone

Capitolo 10__Sensi di colpa

Giovedì 10 Dicembre

Bella

Per un breve periodo il suono della sveglia, o in generale il risveglio durante la settimana, l’ho accolto con un sorriso estatico, e nonostante sia un’amante delle mattinate passate sotto le coperte fino a tardi mi sono sempre alzata in fretta e furia, ansiosa di raggiungere il posto di lavoro. Da alcuni giorni, invece, mi sembra di essere tornata alle lunghe e deprimenti mattine degli anni della scuola superiore, quando svegliarmi significava affrontare l’ennesima giornata a scuola con tutto il gravoso compito di studio. Non che ora lo studio sia assente dalla mia vita, tutt’altro, ma anche solo il pensiero di dover passare la giornata accanto al ragazzo che con poche parole è riuscito a ferirmi così profondamente non mi alletta per niente; anzi, mi fa provare un profondo senso di nausea e disagio. Se poi aggiungo anche il fatto che nonostante le sue parole crude e i suoi occhi freddi il mio cuore continui a martellare come se dovesse uscirmi dal petto ogni volta che lo vedo o mi è vicino… beh, non posso certo ritenermi fortunata a lavorare ancora a stretto contatto con lui. L’unico motivo per cui lunedì mattina mi sono lasciata convincere da Alice a tornare in ufficio nonostante il trambusto del weekend appena passato è che non voglio deludere Esme - anche se per Alice le cose non stanno proprio così.

Oggi, tuttavia, sono più tranquilla del solito. Esme tornerà in mattinata, e ha promesso di passare subito in ufficio. Quindi, questo è ufficialmente il mio ultimo giorno di lavoro insieme ad Edward Cullen. Esme tornerà da domani a prendere il suo posto come dirigente dello studio e della Cullen Society, ed io potrò andare a lavorare senza più temere di essere avvicinata ancora da Edward. I suoi tentativi di questi giorni mi hanno lasciata scombussolata. Nonostante mi fossi autoimposta di mantenere un certo contegno e distacco sono sicura che ha potuto leggere turbamento e disagio nei miei occhi e nel mio comportamento.

Quando l’ho rivisto lunedì mattina non ero certa di riuscire a resistere alla tentazione di scappare a gambe levate, ma quel minimo di orgoglio sopravvissuto alla carneficina di sabato mi ha convinta a restare e stringere i denti. Una sola frase riusciva a tenermi ben salda alla sedia dell’ufficio: da sabato io ed Edward Cullen siamo soltanto colleghi, nient’altro. È stato il mio mantra anche durante le sue pause per il pranzo, quando Tanya Denali veniva a prenderlo per andare al ristorante. Ora come ora mi sento una stupida ad aver chiesto sabato mattina ad Alice che fine aveva fatto suo fratello, e per quale motivo non era ancora venuto a vedere come stavo. Sicuramente era troppo impegnato con la sua fidanzata.

Chiudo gli occhi, rigirandomi dall’altro lato del letto, mentre ripenso alla prima vera discussione avuta con Alice da quando ci conosciamo.

 

Lunedì 7 Dicembre

«Bella…?».

La voce di Alice arriva dalla porta semichiusa, e la luce del corridoio penetra nella mia stanza, ancora immersa nell’ombra.

Sospiro, senza però avere la forza - né la voglia - di muovermi sotto le coperte per farle capire che sono sveglia. Quasi sicuramente ha sentito la sveglia sul mio comodino suonare e deve essersi accorta che, nonostante l’abbia prontamente spenta, non mi sono alzata per andare in bagno.

Sento i suoi piccoli piedi battere contro il pavimento in legno, e arrivare velocemente vicino al mio letto. Sento il materasso piegarsi da un lato, segno che si è seduta al mio fianco.

«Non vai a lavoro?», chiede a bassa voce.

Affondo il viso nelle coperte, strizzando gli occhi. «Non credo di potercela fare…».

«È per Edward?», sussurra.

Annuisco scuotendo il capo, tirando fuori la testa per poterla guardare negli occhi. Nonostante la poca luce li riesco a vedere, grandi ed espressivi. Anche il suo buon umore risente della situazione in cui ci troviamo io e suo fratello, l’ho potuto notare con i miei occhi ieri: non era solare come al solito. La vecchia Alice non ha mai perso la bussola, non ha mai avuto dubbi sul futuro; adesso, invece, sembra essere sfiduciosa quasi quanto me.

«Non devi farti abbattere da lui», mormora, a bassa voce ma con la sicurezza che a me manca. «Non puoi permettergli di farti sentire così male. Tu non hai fatti niente di male, è lui quello che dovrebbe nascondersi sotto le coperte per quello che ha detto e-».

«Alice, smettila, ti prego», la interrompo, prima che le sue parole possano risvegliare quelle taglienti e fredde di Edward, che mi tormentano da due giorni. «Lo sai che non è solo per quello che non voglio rivederlo».

«Ti prego, Bella. Adesso non provare a rifilarmi la scusa che è perché è tornato insieme a Tanya che non vuoi vederlo. Era fidanzato anche prima di sabato, se per questo, ma non mi sembra che questo ti abbia fermata dall’andare a cena con lui», ribatte lei, più duramente di quanto mi aspettassi.

È vero, le mie sono scuse e timori, ma…

«Ho sbagliato», sussurro, più a me stessa che a lei. «Non avrei dovuto accettare la proposta di Emmett. E avrei dovuto capire che con Edward non sarei mai arrivata da nessuna parte». Le lacrime mi offuscano la vista, mentre sento il petto stretto in una morsa dolorosa. «Sono stata una stupida».

Alice sospira. «No, Bella, non sei stata tu la stupida». Si muove sul letto, e si sdraia al mio fianco, incrociando le mani sullo stomaco e fissando il soffitto, con un’espressione triste in volto. «È colpa mia, se ora sei così triste. Ho sempre avuto grande fiducia nelle mie sensazioni, e non appena ti ho vista vicino ad Edward ho avuto il presentimento che fra di voi sarebbe nato qualcosa che andava ben oltre la semplice amicizia. Ero così certa che ho fatto di tutto per spingerti ad avere fiducia nelle tue possibilità di conquistare Edward. Speravo che in questo modo tu potessi cercare di dargli più fiducia, e di permettergli di avvicinarsi più facilmente a te…».

«Credi…», mormoro, con la gola secca, «credi che sia stata troppo distaccata con lui? Che non gli abbia permesso di conoscermi abbastanza?», le domando, con la voce incrinata dalle lacrime che trattengo a fatica.

“Ti sei resa conto che non conosco assolutamente nulla di te?”

Alice sospira, e volta il capo verso di me. «Diciamo che non sei mai stata molto esaustiva con lui riguardo la tua vita prima di venire qua a New York».

Abbasso gli occhi, mordendomi le labbra. È stata solo colpa mia, avrei dovuto fidarmi di più di lui, perché non l’ho fatto? Perché ogni volta che mi chiedeva di parlargli della mia vita a Forks o della mia fuga ho sempre fatto finta di niente e cambiato discorso? Forse… forse a quest’ora non sarei qui sdraiata nel letto senza il coraggio di andare a lavoro.

Alice si volta su un fianco, guardandomi negli occhi. «Ascolta, Bella», mi dice, apprensiva. «So che è difficile per te parlare di quello che è successo a Forks prima di venire qui. Ma Edward non può sapere che per te è un argomento tabù, se non glielo dici. Ai suoi occhi per tutto questo tempo è stato come se trovassi irritante il fatto che lui cercasse di scavare più a fondo. Così come tu non gli hai dato fiducia parlandogli di te, lui non è riuscito a darne abbastanza a te per capire veramente che non saresti mai potuta essere tu la ladra».

Stringo le lenzuola fra le dita, a disagio. «Edward pensa che io non mi fidi di lui?».

Alice scuote il capo. «Non è questo il problema adesso. Il vero problema è che sei stata tu a non permettergli di fidarsi di te».

«Ma-».

«No, aspetta», ribatte Alice, fermandomi, «non mi interrompere. Non puoi fingere che Edward non abbia mai provato a conoscerti. Ha sempre cercato di scoprire qualcosa in più su di te, ma tu non gli hai mai concesso l’opportunità di ascoltarti, hai sempre preferito cambiare argomento».

«Come fai a saperlo?», le chiedo, ignorando la sua richiesta di non essere interrotta.

Alice non è mai stata presente alle conversazioni avute con Edward, come fa a sapere come mi sono comportata?

«Me l’ha raccontato lui», mi risponde, lasciandomi stupita. «Mi ha chiesto più volte consigli su come fare per cercare di avvicinarsi a te senza che lo respingessi. Aveva notato che ogni volta che cercava di farti domande sulla tua famiglia tendevi a chiuderti in te stessa e cambiare discorso».

Lascio che le lacrime scendano in silenzio. «Ho sbagliato con lui, ma non volevo».

«Vedrai… le cose si sistemeranno», mi dice, stringendo la mia mano nella sua, con un sorriso rassicurante in volto.

Abbasso gli occhi. «Non so se sono in grado di perdonare le sue parole, Alice. Non so se riuscirò ad accettarlo».

Alice mi stringe la mano più forte, poi si avvicina e mi lascia un bacio sulla guancia. «Sono sicura che ce la farai, Bella. Avete entrambi molte cose da perdonarvi a vicenda, potete farcela se volete davvero essere amici».

Si alza dal letto, e si dirige verso la porta della stanza. Prima di uscire, si volta ancora a guardarmi. «Bella… Sono sicura che Edward non pensa davvero quello che ti ha detto in prigione», afferma.

Sorrido amaramente, e la porta si richiude dietro di lei. Aspetto altri due minuti, poi mi alzo per prepararmi ad andare a lavoro.

 

Oggi, l’intero ufficio brulica di dipendenti indaffarati e contenti. L’arrivo di Esme è fissato per l’una del pomeriggio all’incirca, e sarà Edward ad andare a prenderla all’aeroporto, insieme ad Alice ed Emmett. La mia coinquilina mi ha detto che sarebbe dovuto andare anche Carlisle, ma che gli hanno fissato per questa mattina un intervento urgente, che non poteva assolutamente rimandare. Ha chiesto anche a me di accompagnarli, ma ho declinato l’invito, convincendola che se mi fossi assentata dall’ufficio per andare a prendere il mio capo non avrei fatto altro che attirare su di me gli sguardi e i pettegolezzi dello studio, cosa che volevo evitare, soprattutto viste le continue chiacchiere che girano ancora su me ed Edward. Fortunatamente nessuno ha saputo cosa è davvero successo sabato mattina, quindi mi sono evitata la vergogna di essere additata come una possibile criminale che ha passato un’intera giornata chiusa in una cella della centrale di polizia.

Quando Edward esce dal suo ufficio per dirigersi verso l’aeroporto, si ferma davanti alla mia scrivania. Mi ricorda alcune telefonate imminenti - come se non fossi già a conoscenza di tutte le chiamate che l’ufficio riceve - e mi avvisa che rientrerà prima della fine del mio turno. Poi resta immobile davanti alla scrivania, anche dopo che io ho abbassato lo sguardo e sono tornata a scrivere un’e-mail a un fornitore.

«Credo che dovrebbe andare, signor Cullen, o rischia di arrivare in ritardo», lo ammonisco, con voce distaccata e tono neutro.

Con la coda dell’occhio, noto che si irrigidisce. «Bella…», mormora, con una nota di tristezza nella voce morbida.

Tengo lo sguardo puntato sul computer, senza smettere di scrivere, senza nemmeno cancellare gli errori che la mia distrazione mi sta facendo commettere. Vai via, ti prego.

Lo sento sospirare, dopodiché mi volta le spalle, raggiungendo l’ascensore, senza più dire niente. E finalmente torno a respirare, senza avere più il suo sguardo colmo di sensi di colpa puntato contro.

Ha detto che lui ed Esme torneranno prima delle due, ma se non fosse così questa sarà stata ufficialmente l’ultima volta che io ed Edward ci siamo parlati come colleghi. Non so quante altre volte avremo occasione di incontrarci, visto quanto poco si vedono lui ed Alice. Forse è meglio così.

Il fatto è che ho paura. Ho una paura folle di poterlo perdonare, anche se non voglio, anche se so che sarebbe sbagliato.

Perché anche se lo perdonassi, le sue parole non verrebbero mai cancellate. Continuerebbero a restare lì, insieme al mio senso di colpa e la mia angoscia.

Vorrei avere la forza sufficiente per farlo, però. Vorrei essere abbastanza forte da perdonarlo, e cercare di sistemare le cose fra di noi. Anche se questo significherebbe tornare con la memoria a Forks, e rivivere tutti i miei problemi non ancora risolti.

 

«Bella!». La voce di Esme è più dolce e gentile di quanto ricordassi, ma il calore materno che emana il suo abbraccio è come lo ricordavo: rassicurante, presente.

Mi stringe per alcuni secondi, ignorando gli sguardi dei colleghi puntati su di noi.

Lei ed Edward sono appena arrivati, e subito dopo aver salutato tutti gli altri dipendenti Esme è venuta da me, sinceramente felice di rivedermi.

Quando sciogliamo l’abbraccio, posa una mano sulla mia guancia, osservandomi con occhio materno e critico. «Come ti senti, tesoro?».

Cerco di sorridere sinceramente, sperando di non mostrare una smorfia. «Bene, grazie. Sono contenta che sei tornata, sentivamo tutti la tua mancanza».

Esme sorride, e prima che possa chiederle come sta e come è andata a Washington, Edward ci interrompe schiarendosi la voce.

«Credo sia meglio se andiamo nel tuo ufficio, mamma», dice, leggermente a disagio.

Lancio uno sguardo ai colleghi, e li trovo intenti a guardarci. Due donne, che ricordo di aver visto andare a pranzo una volta con Jessica Stanley, e che hanno fama di essere due comari di prima categoria, stanno confabulando sottovoce, lanciandoci occhiate piene di disprezzo.

Esme ed io annuiamo in silenzio, e lei si volta verso i colleghi, che esorta a tornare al lavoro dopo un breve ringraziamento. In pochi secondi, tutti tornano alle loro occupazioni, liberandoci dal loro sguardo. Io, Edward ed Esme entriamo nell’ufficio di quest’ultima, lasciandoci alle spalle i loro commenti, e ci sediamo alle poltrone.

Esme ci parla del lavoro svolto a Washington, della Casa Bianca, dell’anonimo che l’ha consigliata caldamente al presidente - o alla sua segretaria -, della bellezza di quella città e di quanto sia stato difficile dover passare tutto questo tempo lontano dalla sua famiglia. Chiede a me di mostrarle e raccontarle il lavoro di questo periodo, e le faccio vedere le foto e le planimetrie di alcuni degli appartamenti che io ed Edward abbiamo arredato per i clienti.

«Avete fatto davvero un ottimo lavoro, insieme», dice alla fine Esme, soddisfatta e raggiante. «Anche se Edward mi ha detto che il merito è tutto tuo, Bella».

Gli occhi di Edward mi cercano, ma i miei puntano verso il pavimento. Arrossisco, in imbarazzo e al tempo stesso a disagio.

«Non è vero. Abbiamo lavorato insieme, non-».

«Bella, non fare la modesta», mi interrompe Edward, cercando di usare un tono gioviale, ma con poco successo. «Hai fatto tutto tu, lo sai».

Scuoto il capo, stringendo le mani intorno al bordo della felpa. Alzo gli occhi per incontrare quelli azzurri di Esme. «Scusate, ma dovrei andare a scuola…», mormoro, sorridendo a mo’ di scuse a lei, senza guardare Edward.

«Oh, ma certo, cara», dice Esme, sorpresa dal mio repentino cambio di argomento. Mi sorride, venendomi accanto.

Mi abbraccia nuovamente, congratulandosi ancora.

Poi le volto le spalle, ed esco dall’ufficio.

Addio, Edward.

 

Edward

Cinque giorni. Cinque maledetti giorni sono passati da quell’infernale sabato. Cinque giorni di silenzi, di sguardi indifferenti, di mancanza di contatto.

Bella non mi ha più rivolto la parola da quel giorno, se non quando costretta per via del lavoro; ha rifuggito ogni mio tentativo di approccio; ad ogni mia parola riguardo noi, e non il lavoro, è scappata. Letteralmente. Girava i tacchi e si allontanava, fingendo di avere delle commissioni da svolgere, nascondendosi davanti ai colleghi, certa che non avrei mai osato provare a chiederle o dirle qualcosa davanti a loro, ancora entrambi reduci dalle malelingue generate da Jessica Stanley.

Lunedì è stato il caos in ufficio. Ci sono state molte domande da parte dei dipendenti riguardo la rapina messa in atto dalla segretaria e il suo ragazzo, molte domande alle quali faticavo a rispondere, perché ogni volta i miei occhi vagavano sulla figura minuta e tremante di Bella, lontana da tutti, lontana da me. Io, Carlisle e Jasper abbiamo fatto di tutto affinché non si spargesse la voce che l’assistente Isabella Swan era stata accusata ingiustamente di essere la ladra, e fortunatamente la sua breve carcerazione alla centrale di polizia non aveva avuto alcuna conseguenza - per lo meno pubblica, dato che le vere conseguenze Bella le riportava negli occhi e nell’anima, trasferendole anche su di me.

Mi aspettavo che non tornasse a lavoro, lunedì. Ero quasi sicuro che sarebbe rimasta a casa fino ad oggi, in attesa del ritorno di Esme e quindi il termine del mio incarico presso la Cullen Society. Invece, quando le porte dell’ascensore si sono aperte in ritardo di mezz’ora rispetto al solito, e il suo viso mi è apparso davanti, mi sono sentito subito meglio, e ho scioccamente sperato che le mie parole, le mie accuse, fossero state cancellate.

Ma mi sbagliavo, ovviamente. Lo sguardo con cui mi guardò lunedì non lo dimenticherò mai: è stato in grado di farmi ghiacciare il sangue nelle vene, e immobilizzarmi sul posto. Cosa ho fatto? Perché sono stato così stupido e impulsivo nei suoi confronti?

È come se con quella maledetta rapina abbia perso le redini della mia vita, lasciandole in balìa di qualche diavolo che intende farmela pagare per tutti gli errori e gli insuccessi della mia vita. Con una vita sentimentale disastrata, amicizie infrante, da questo pomeriggio disoccupato e senza uno scopo nella vita.

Nell’ultimo periodo, con l’ingresso di Bella nella mia vita, però, il peso di queste incertezze nella mia vita è stato meno gravoso. In qualche modo, guardare lei mi dava speranza. Perché se lei era stata in grado di rivoluzionare completamente la sua vita non sarei dovuto esserne in grado anch’io? Meritavo anch’io un’altra chance, la meritavo e la volevo… almeno fino a sabato.

È stata lei a spingermi a tornare alla Juilliard, senza saperlo. È per lei che la settimana scorsa sono uscito presto da lavoro e sono andato a scuola, a chiedere, a supplicare, di avere un’altra possibilità per tentare l’ingresso ai corsi di pianoforte e musica classica. Per lei sono riuscito a strappare ai professori un incontro per martedì sera. Incontro a cui non sono più certo di voler andare. Forse dovrei semplicemente andarmene da New York. Trasferirmi in un posto diverso, e ricominciare una nuova vita, come ha fatto Bella. Ma la vera domanda è: ne sarei mai capace?

Non tanto sotto il punto di vista economico, perché quello so che grazie alla mia famiglia potrei permettermelo, ma dal punto di vista sentimentale e di volontà. Avrei davvero la forza di infliggere un simile dolore a mia madre e mio padre, che si preoccupano ogni singolo giorno della loro vita per me, cercando di fare tutto il possibile affinché possa vivere al meglio? Potrei costringere Esme a un’altra simile sofferenza a causa mia, dopo tutti i miei insuccessi, sia come figlio che come persona?

No, non posso.

Soprattutto ora. So che mia madre ha già notato che fra me e Bella c’è qualcosa che non va. Me lo dicono i suoi occhi azzurri, che scivolano fra me e la sua assistente, posizionati ai due lati opposti dallo studio, incapaci di guardarci in faccia. Io per via della vergogna e il dolore che il suo sguardo freddo e a tratti addolorato mi procura, lei - con ogni probabilità - per il disprezzo e la delusione. Sono stato un mostro con lei; un orribile ed insensibile mostro.

Anche adesso, mentre parliamo con Esme del lavoro svolto durante la sua assenza, i suoi occhi fanno di tutto per non incrociare i miei.

Di cosa hai paura, Bella? Mi odi a tal punto da non poter più incontrare il mio sguardo?

«Scusate, ma dovrei andare a scuola…», mormora a un certo punto, lasciando Esme stupita.

E dopo un ultimo saluto riservato a lei, esce dalla stanza frettolosamente.

Esme mi guarda intensamente, con un’espressione severa. «Cos’hai combinato questa volta, Edward?».

Abbasso lo sguardo, infilando le mani nelle tasche dei jeans. Non la guardo, non posso sopportare il suo sguardo severo, perché è lo stesso che hanno tutti i miei amici in questi giorni nei miei confronti. So di aver sbagliato, dannazione, non ho bisogno che me lo ricordino ogni istante, a questo basta già la mia coscienza!

«Le ho detto qualcosa che non avrei mai dovuto dirle… e adesso non so come fare per farmi perdonare», mormoro, sincero. Tanto so che non appena vedrà Alice verrà a sapere tutto per filo e per segno da lei, quindi tanto vale essere sinceri fin dall’inizio.

Mamma sospira, e si siede alla scrivania. «È per via della rapina di sabato?».

Sussulto, e la guardo shoccato. Come fa a saperlo? Io, papà e Jasper avevamo deciso di aspettare questa sera per rivelarglielo, per non rovinarle l’arrivo in città e soprattutto perché il caso è ormai chiuso.

Esme inarca le sopracciglia. «Tu e tuo padre credevate davvero che vi lasciassi qui senza qualcuno che mi tenesse costantemente informata di quello che succedeva in città?».

Mi gratto la nuca, provando a sorridere. «Ammetto che ci avevo sperato…».

Mamma sorride gentilmente. «Vai», dice, facendomi cenno con il capo. «Cerca di sistemare qualunque guaio tu abbia combinato. Quella ragazza non merita di soffrire, Edward, non deludermi».

Annuisco appena, ed esco dallo studio di corsa, raggiungendo l’ascensore.

I secondi scorrono veloci mentre la piccola cabina scivola verso il basso, e quando raggiungo l’atrio scendo velocemente le scale, rischiando anche di inciampare e di trascinare con me una povera signora malcapitata. Raggiungo la strada, e mi guardo intorno per vedere se Bella è ferma in attesa di un taxi. So che adora andare a piedi fino alla scuola, ma con questo freddo invernale potrebbe sempre cambiare idea.

Non la vedo, e inizio a correre lungo il marciapiede, in direzione della scuola. Non faccio in tempo ad arrivare al primo incrocio che separa l’isolato in cui si trova lo studio da un altro che riconosco il suo cappotto color panna e i lunghi capelli castano scuro modellati in morbidi boccoli.

Corro più veloce, fino ad arrivare alle sue spalle. Poso una mano sul suo braccio, fermandola.

Si volta con uno scatto, e dall’espressione spaventata sul suo viso immagino che non si aspettasse di ritrovarmi davanti a lei, né di essere fermata in mezzo alla strada. Si sfila dalle orecchie le cuffie dell’iPod che tiene in tasca, ma non lo spegne. Sento la musica arrivare attutita dagli auricolari.

«Cosa c’è?», mi chiede freddamente, con il volto teso.

«Bella…», mormoro, riprendendo fiato. Cosa le dico? Come posso iniziare per farmi perdonare?

Allontana il braccio dalla mia mano, come scottata. «Devo andare a scuola».

«Per favore, aspetta».

Non mi ascolta, e rimettendosi le cuffie nelle orecchie mi dà le spalle.

«Ti diverti a scappare continuamente?».

Appena mi rendo conto di aver pronunciato queste parole ad alta voce mi mordo la lingua. Ma ormai è troppo tardi per ritirarle. Che cosa mi è saltato in mente? Sono forse impazzito? Non sono le parole che avrei voluto dirle, e di certo non sono le più adatte per cercare di farmi perdonare.

La vedo fermarsi a pochi passi da me. Immobile come una statua di pietra, non sembra nemmeno respirare - e forse è proprio così.

Si volta lentamente, le braccia rigide lungo i fianchi, l’iPod in una mano - credo l’abbia spento. «Cosa?», sussurra a voce bassissima. Il volto è più pallido del solito, le labbra sono schiuse, l’espressione è dolorante.

«Perché continui a scappare?», chiedo, insistente e stanco di correrle dietro senza alcun successo. «Non lo capisci che non serve a niente? Perché non mi affronti una volta per tutte?».

Si irrigidisce. «Io non voglio affrontarti».

Non mi muovo, sentendo che se solo provassi ad avvicinarmi di un passo lei potrebbe scappare nuovamente. «Devi farlo, Bella. Non puoi scappare per sempre. Ed io non ho intenzione di arrendermi. Non posso…», esito, non trovando le parole giuste, o forse troppo imbarazzato per continuare. «Non voglio perderti», sussurro, infine, lasciando che le parole scivolino fuori dalle mie labbra senza freno. «Ti prego, non scappare».

Stringe i pugni sul petto, come a volersi proteggere, tenendo gli occhi bassi. «Scappare è più semplice», sussurra. «Fa meno male. È la giusta punizione per come mi sono comportata».

«Punizione?», chiedo, senza capire cosa intende dire. «Per cosa? Cos’hai fatto?».

Scuote il capo. «Io… Ascolta, Edward… n-non sono pronta… in questo momento… non ce la faccio a perdonarti… io…». Si morde il labbro inferiore con forza, e quando i suoi occhi incontrano i miei sono pieni di lacrime, ma qualcosa mi dice che sta facendo di tutto per non scoppiare a piangere davanti a me. Stringe le labbra.

Avanzo. «Non voglio il tuo perdono, Bella», mormoro. «Per lo meno non ora. So di aver sbagliato, ho fatto un errore colossale e imperdonabile sabato, e so di non meritarmi il tuo perdono, né la tua comprensione… voglio solo…». Cosa, Edward? Cosa vuoi veramente?, mi chiedo, rimanendo in silenzio per alcuni secondi. «Vorrei solo che tu reagissi, che ti sfogassi apertamente, e non facessi finta che io non esista».

Bella mi osserva per un lungo istante, con gli occhi umidi. Di’ qualcosa, qualunque cosa, ti prego.

Respira profondamente. «Quando sabato mi hai detto quelle cose mi hai fatto male».

Faccio un passo avanti. Vorrei stringerla, abbracciarla, avvicinarmi. Vorrei farlo, anche a costo di essere preso a pugni e sberle da lei. Voglio solo una sua reazione, qualunque cosa che mi faccia capire che non prova solo indifferenza nei miei confronti. Perché ciò che fa più male, più dei pugni, più degli insulti, più della rabbia è la sua indifferenza. «Lo so, e mi-».

«No, ti prego», geme, con la voce incrinata, interrompendomi e facendo un passo indietro, in risposta al mio avanzare,«lasciami finire».

Annuisco in silenzio, fremendo.

Prende un profondo respiro, e riesce a ricacciare indietro le lacrime. «Sabato, quando te ne sei andato ho riflettuto». Abbassa gli occhi. «Ho ripensato a quello che mi hai detto… e ho capito che avevi ragione», mormora con la voce strozzata.

Stringo i pugni. Vorrei obiettare, vorrei dirle che si sbaglia, ma so che se la interrompo ora non avrò più l’opportunità per lasciarla sfogare.

Alza gli occhi su di me, con un piccolo sorriso, amaro. «Tu non mi conosci. Non puoi sapere chi sono, perché io ho sempre fatto di tutto per nascondermi. Il fatto è che quando sono arrivata qui a New York ho deciso di iniziare una nuova vita, e di lasciarmi alle spalle tutto quello che ho passato». Abbassa di nuovo gli occhi. «Non voglio ripensare a quello che ho lasciato a Forks, voglio fingere che sia qualcosa che non posso più cambiare e che non ha niente a che fare con me». Stringe i pugni. «Capisci perché non voglio mai parlare della mia vita prima del trasferimento? È un argomento troppo… troppo doloroso da affrontare per me».

Rimango in silenzio per alcuni secondi, elaborando le sue parole. È molto più di quanto mi abbia mai rivelato in questi mesi, probabilmente. E dal dolore che trasuda dalle sue parole, credo di poter anche capire perché non ha mai voluto rivelarmi niente.

Bella torna a darmi le spalle.

Prima che se ne vada definitivamente, però, le afferro un’ultima volta il braccio, fermandola. Si volta, negli occhi un grande dolore.

«Sbagli a voler dimenticare», dico, deciso. «Non puoi cancellare quello che sei stata fino a pochi mesi fa, Bella. Nel bene e nel male tutto quello che hai vissuto resterà dentro di te, ed è solo grazie a quelle esperienze che ora sei così. Non riuscirai mai a convivere con te stessa se prima non accetti quello che sei e le cause che ti hanno cambiata».

Lei distoglie lo sguardo, turbata. «Devo andare, Edward…».

Sospiro, e la lascio andare.

Non ci salutiamo. Ci guardiamo un’ultima volta, poi i nostri sguardi si dirigono in direzioni diverse, con mete diverse. Osservo la sua schiena fino a quando non si confonde con le altre persone, fino a quando il colore panna del suo cappotto sparisce, poi mi volto per tornare allo studio, da mia madre.

Ma, non appena faccio un passo, davanti a me trovo Tanya.

«Tanya…», mormoro, stupito.

Cosa ci fa qui? Se non sbaglio non avevamo nessun appuntamento per pranzo…

Sorride. «Ciao, tesoro. Passavo di qui, e ho pensato che magari ti andava di andare a mangiare qualcosa insieme a tua madre… ho ancora un’ora prima di tornare in negozio».

«Veramente avrei un altro impegno…», dico, infilando le mani in tasca senza guardarla negli occhi mentre mi avvio verso l’ingresso del palazzo. Lei mi osserva, seguendomi dopo che le sono passato accanto.

«Sei impegnato con tua madre? Cosa facevi qua fuori tutto solo?», mi domanda a raffica.

Mi irrigidisco momentaneamente.

Mi ha visto con Bella? Ha ascoltato la nostra conversazione? Da quanto tempo era alle mie spalle quando mi sono voltato?

La osservo per un lungo istante, cercando tracce di rabbia nel suo volto. Perché se mi ha visto con Bella è certamente infuriata. Deve esserlo.

Ma sul suo viso non leggo altro che curiosità.

Forse la carta della sincerità è la più giusta. Forse l’idea di Alice di convincere Tanya stessa a lasciarmi è la cosa migliore per tutti, per lei e per me.

«Stavo parlando con Bella», rispondo schiettamente, attento a registrare ogni singola reazione sul suo viso. «Avevo bisogno di dirle alcune cose prima che se ne andasse».

Sul volto di Tanya si disegna un leggero cipiglio. «Ah. E di cosa dovevi parlarle?».

A quanto pare la gelosia Tanya è rimasta. Tuttavia, non è più la gelosia morbosa di poco tempo fa, ma una gelosia quasi timida; se le avessi detto una cosa del genere tempo fa come minimo si sarebbe messa a urlare a squarciagola incurante della gente intorno a noi.

Scrollo le spalle. «Di una cosa che riguarda me e lei. Scusa, ma non penso sia giusto parlartene».

Tiro la corda, sperando in una sua reazione.

Con mia enorme sorpresa scopro i tratti del suo volto indurirsi, e le labbra serrarsi in una linea dritta. «Capisco…», sibila, per nulla contenta.

Non è giusto come mi sto comportando con lei, ma non è nemmeno giusto che io continui a fingere di amarla; non vorrei farla soffrire, soprattutto ora che sembra essere davvero cambiata, ma continuando a fingere con lei sarebbe tradire la sua fiducia, e non se lo merita.

«Ora devo rientrare», le dico, fermandomi davanti alle porte dell’ingresso.

Lei annuisce appena, e si sporge per darmi un bacio.

«D’accordo. Buona giornata, amore».

Sorrido appena. «Anche a te… ci sentiamo più tardi, va bene?».

Si allontana, dirigendosi verso l’auto nera della sua famiglia parcheggiata poco distante.

Torno al caldo dell’edificio, e mi dirigo verso gli ascensori, rimuginando sulle parole di Bella.

Vorrei davvero sapere cos’è successo a Forks di tanto terribile da non voler essere ricordato da lei. Perché vuole dimenticare? Perché continua a scappare?

 

Lunedì 14 Dicembre

Bella

Il Natale è ormai alle porte. Manca poco più di una settimana, e l’atmosfera è carica di quella gioia ed elettricità che caricano sempre l’attesa delle festività. La città è in fermento, i negozi pullulano di giocattoli, bambini sognanti, genitori indaffarati e gente di ogni età alla ricerca del regalo perfetto. Le ghirlande sono ormai appese ovunque, e la Fifth Avenue è un’esplosione di luci, che contagiano anche gli alberi di Central Park, addobbati; ma il vero fulcro della festa sembra concentrarsi nella piazzola del Rockefeller Center, dove sono stati disposti la pista di pattinaggio sul ghiaccio e il gigantesco e brillante albero di Natale.

A rendere il tutto più magico ci ha pensato il tempo. Sabato notte, dal cielo hanno iniziato a scendere i primissimi batuffoli di neve, che si sono presto trasformati in una bufera che ha sommerso la città da capo a piedi. Tutto è bianco, ma le strade sono sommerse da ammassi di poltiglia fangosa e sporca. A Forks la neve era molta di più, e restava pulita molto più a lungo. Qui, tra il viavai di gente e lo smog, ci sono volute solo poche ore perché diventasse nera e sporca.

Scuoto il capo, e torno in cucina, dove sto preparando la cena per stasera.

È solo il secondo giorno di lavoro da quando Esme è tornata, ed ero certa che una volta giunto questo giorno avrei ripreso a lavorare come all’inizio, con Esme che mi consigliava sugli abbinamenti dei mobili e tutto il resto. Oggi è persino arrivata la nuova segretaria - scelta personalmente da Esme - e quindi il mio lavoro è tornato ad essere essenzialmente quello di assistente. Questo significa meno lavoro e più tempo da dedicare allo studio. Gli esami a scuola vanno alla grande, e ormai non ne mancano molti prima della tesi di laurea.

Ma mi sbagliavo, almeno in parte. Adesso quando mi sveglio il mio primo pensiero non è più “Rivedrò Edward. Cosa devo fare? Quando arriva Esme?”, ma “Oggi non rivedrò Edward”. E in quel momento vengo assalita dal sollievo e dalla tristezza al tempo stesso.

Non ci siamo più visti dopo la nostra conversazione fuori dallo studio. Forse ha capito anche lui che non vale la pena stare dietro a una fifona come me, che ha paura persino del suo passato. E questo pensiero stupidamente mi provoca una tristezza immensa.

«Bella?», mi richiama Alice, dal soggiorno. La sento avvicinarsi con piccoli passi, e fermarsi sulla porta. Continuo ad affaccendarmi ai fornelli, con il timore di rovinare la cena. «Lo sai che Edward ha un’audizione domani?».

Mi irrigidisco. Io ed Alice non abbiamo più parlato di Edward da giovedì; le ho raccontato la nostra conversazione, e da quel momento non abbiamo più neanche nominato il suo nome. «Un’audizione? Per cosa?», chiedo, fingendo indifferenza e tranquillità.

«La Juilliard», risponde lei, calma. «A quanto pare è riuscito a strappare al rettore un altro incontro per accedere al penultimo anno».

Deglutisco. Ogni volta che sento nominare quella scuola mi viene subito in mente il mio primo incontro con Edward. «Perché il penultimo anno? Comunque sono contenta che abbia finalmente deciso che cosa fare».

Alice si avvicina a me, e si appoggia contro il bancone al mio fianco. «Beh, Edward ha già frequentato i primi tre anni lì. Sarebbe una perdita di tempo farlo iniziare di nuovo dal primo anno, non credi?».

Lascio cadere il cucchiaio che stavo usando per mescolare la cena, e mi volto a guardare la mia coinquilina. «‘Ha già frequentato’?», ripeto, confusa.

Alice annuisce, inarcando un sopracciglio. «Sì. Ha mollato alla fine del terzo anno, alla fine degli esami. Non ha mai voluto dire a nessuno per quale motivo, solo che si era stancato di correre dietro a qualcosa per cui non aveva nessuna attitudine».

Abbasso lo sguardo, riprendendo a curare la cena. «Non me l’ha mai detto», sussurro. «Non mi aveva mai detto di aver frequentato la Juilliard, solo di aver provato a fare un po’ di cose senza trovare niente di interessante».

Alice sospira. «Edward non ama raccontare di quel periodo. A quanto pare avete qualcosa in comune, no?».

Accenno un sorriso tirato. «Già».

Passano alcuni secondi di silenzio. «Quindi…», mormora Alice, «tu non sapevi di questa cosa, giusto?».

Scuoto il capo. «No, niente. Magari è successo tutto nel fine settimana…».

«Non credo…», mormora Alice. «Edward l’ha detto alla mamma per telefono quando era ancora a Washington. Credo sia successo prima del disastro della rapina».

Annuisco lievemente. «E quindi?», domando, non capendo a dove deve portare questo discorso.

«Ecco…», mormora Alice, improvvisamente in imbarazzo, «mi chiedevo se ti andava di andare a vedere l’audizione», azzarda. «Mamma e gli altri non possono perché sono impegnati, e so che a lui farebbe piacere vedere che approviamo la sua scelta di tornare a scuola».

La guardo per un istante, senza sapere cosa dire. Una parte di me vorrebbe urlare di no, dirle che è una pessima idea per entrambi che io vada a vederlo suonare, ma un’altra muore dalla voglia di rivederlo chinato sui tasti d’avorio; nella mia mente risiede ancora il ricordo di quella melodia dolce e la sua immagine del giorno del Ringraziamento, e la custodisco quasi gelosamente.

«Alice… non credo…».

«Ti prego», mi interrompe, guardandomi con i suoi grandi occhi azzurri da cucciolo. «Ti prego, Bella. Se vede che nessuno è lì per sostenerlo penserà che il suo è l’ennesimo errore. Ti prego, fallo per lui. So che ti importa ancora qualcosa di Edward. Poi potrai anche dimenticarlo, ma aiutalo adesso».

Mi mordo il labbro. Poi sospiro. «Va bene».

Alice batte le mani, saltella, poi mi abbraccia, facendomi quasi sbilanciare all’indietro.

«Grazie, Bella, grazie!».

 

Martedì 15 Dicembre

Edward

Quando raggiungo la Juilliard, la lieve spruzzata di neve di venti minuti fa si è trasformata in una vera e propria nevicata. I fiocchi scendono grossi e densi, attaccandosi al marciapiede, provocando ad ogni mio passo uno scalpiccìo fastidioso che mi innervosisce sempre più. Muovo le dita all’interno del cappotto, cercando di riscaldarle.

Sono uscito di casa in anticipo di quasi mezz’ora, prima che potessi cambiare idea per l’ennesima volta e scegliere di non venire all’audizione; così ho deciso di prendere un taxi solo per un breve pezzo di strada, e di continuare fino alla scuola a piedi. Non avevo voglia di tirare fuori la mia auto dal garage, e speravo che camminare mi avrebbe aiutato a cacciare via un po’ d’ansia. In parte ha funzionato.

Appena varco le porte di vetro della scuola, l’aria calda dei riscaldamenti mi avvolge, facendomi dimenticare la neve all’esterno. Percorro i corridoi della scuola con passo sicuro, guardandomi di tanto in tanto intorno, felice di notare che tutto è rimasto uguale a come quando me ne sono andato. Gli studenti mi passano accanto veloci, affaccendati, carichi di libri e alcuni con uno strumento musicale.

Raggiungo il teatro, le cui porte sono spalancate. All’interno, incontro una delle professori che mi ascolteranno, e che mi manda a prepararmi dietro le quinte e mi dice di salire sul palco fra cinque minuti. Credo sia una nuova, perché non ricordo di averla mai vista fra i corridoi.

Raggiunto il retro del palcoscenico, mi disfo della giacca, e muovo le dita per cercare di sgranchirle e prepararle.

Passati i cinque minuti, esco sul palco. Sono l’unico a fare il provino - normalmente non si accettano studenti a quasi metà anno, e il fatto che sia riuscito a convincere il rettore a concedermi questa possibilità per la seconda volta è un vero e proprio miracolo -, quindi non mi sorprende scoprire che la sala, ad eccezione delle cinque poltrone occupate dai professori - di cui due erano miei ex insegnanti -, è deserta. Del resto sono stato io a chiedere ad Esme di non dire niente a nessuno e soprattutto di non venire al provino. Non l’ho detto nemmeno a Tanya. In parte perché ho paura di ripetere l’esperienza dell’ultima volta, in parte perché da quando ho lasciato la scuola suonare in pubblico mi crea disagio, e mi porta a sbagliare. Solo se mi concentro e mi ricordo di essere solo riesco a suonare senza commettere errori.

Solo una volta sono riuscito a suonare con qualcun altro nella stessa stanza senza sentirmi così a disagio in questi due anni. Ed è fondamentalmente per questo motivo che ho scelto di tornare qui.

Mi presento ai professori, gli ripeto i nomi dei cinque brani che suonerò a breve, e mi volto per raggiungere il pianoforte.

Mentre mi siedo sulla panca, sistemando gli spartiti accuratamente - anche se ricordo quasi tutte le composizioni a memoria -, mi ripeto mentalmente il mio mantra: Non pensare a quei tizi, suona come se fossi da solo.

Le porte del teatro sono state chiuse, e quando vengono riaperte con un cigolio mi volto per guardare chi è il nuovo arrivato. E per un istante mi domando se non mi sono addormentato. O forse ho le allucinazioni.

Perché è impossibile che Bella sia qui, ora.

I professori non si voltano neanche, ma continuano a tenere i loro sguardi fissi su di me, seri e alcuni anche annoiati. Tutti tranne Aro Volturi, un mio ex professore di pianoforte, che come suo solito ha uno strano sorrisetto stampato in volto e tiene le mani incrociate sulle ginocchia accavallate.

Bella si avvicina alle prime file, fermandosi alla quinta, con passo incerto. Si siede su una poltroncina, e notando il mio sguardo fisso su di lei alza una mano in segno di saluto, sorridendo timidamente.

Le faccio un cenno con il capo, alzando un angolo della bocca.

Poi guardo i tasti d’avorio, chiudo gli occhi, e inizio a suonare, tornando con la mente al giorno del Ringraziamento, quando sono finalmente riuscito a suonare davanti a qualcuno dopo anni e a ritrovare la fiducia che mi mancava.

 

«Le faremo sapere qualcosa al più presto. Buona serata».

Queste le ultime parole della donna che mi ha accolto in teatro questa sera. Non mi hanno detto nient’altro per farmi capire se la prova è stata buona o meno. Niente.

Sospiro, e scendo dal palco lentamente, dopo aver recuperato la giacca dalle quinte. Ai piedi della scala trovo Bella, mentre i professori sono ancora fermi sulle poltrone, intenti a parlare fra loro e trascrivere qualcosa - le impressioni sulla mia performance, suppongo - su fogli.

Le vado incontro con il cuore ancora in gola. Alla fine è andata meglio di quanto immaginassi. Non mi sembra di aver sbagliato niente, e credo di potermi ritenere fiero del risultato. Ora devo solo aspettare la lettera.

«Ehi», mormoro quando raggiungo Bella. Credo di non essermi ancora ripreso dalla sorpresa di trovarla qui.

«Ehi», risponde lei, arrossendo e abbassando lo sguardo subito dopo. «Avrebbe dovuto esserci anche Alice, ma ha avuto un contrattempo…».

Inarco un sopracciglio, perplesso. «Strano che Alice non riesca a fare qualcosa che vuole. È una novità», dico, ridendo nervosamente.

In realtà sono abbastanza sorpreso di scoprire che Alice sapeva della mia prova; ma del resto c’è qualcosa che Alice Cullen non riesce a scoprire? Io non credo.

Ma quello che mi lascia ancora di più a bocca aperta è il fatto che ha coinvolto Bella, e che lei si è lasciata coinvolgere in questa storia nonostante quello che mi ha detto giovedì.

«Già», concorda con un piccolo sorriso. «Però mi ha detto di dirti che è contenta della tua decisione».

Annuisco lievemente. Infilo le mani in tasca. «Grazie per essere venuta. Mi ha… mi ha fatto piacere rivederti».

Bella abbassa di nuovo lo sguardo. «Di niente…». Giocherella con il bordo aperto della sua giacca. «Non sapevo fossi un ex studente…».

Piego la testa da un lato, accennando un sorriso. «Non sei l’unica che cerca di scappare dal proprio passato», mormoro, senza nessuna particolare inflessione nella voce. Bella sobbalza impercettibilmente. «Per questo credo di poterti capire sotto certi aspetti».

Bella apre la bocca per dire qualcosa, ma viene interrotta dai professori, che passano al nostro fianco per salire le scale che portano alle quinte del palcoscenico.

Il professor Aro Volturi si avvicina a me con passo lento e cadenzato, e le mani strette dietro la schiena dritta. Sulle labbra ha un sorrisetto soddisfatto.

«Buonasera, Edward», mi saluta, senza smettere di sorridere.

Sento Bella sussurrare un ‘Vi lascio soli’, mentre mi concentro sull’insegnante.

«Buonasera, professor Volturi», rispondo, con un lieve cenno del capo.

Gli occhi scuri di Aro sembrano brillare per un istante. «Che meraviglia. Ti ricordi me, allora. Mi fa molto piacere. E mi fa ancora più piacere notare che questa volta sei seriamente intenzionato a tornare a scuola», aggiunge.

Annuisco. «Questa volta ho intenzione di andare fino in fondo».

«Magnifico!», esclama, con la sua voce a tratti euforica. Mi ricorda molto Alice a volte. «È stata una tale delusione venire a sapere che non sei riuscito a passare il provino l’ultima volta. Temevo che il mio migliore studente avesse perso il suo tocco magico, ma a quanto pare non è così». Ride. «Credo che se ti impegnerai come si deve il consiglio potrebbe persino concederti la prestigiosa possibilità di recuperare l’anno perso con un unico esame finale. Così potresti arrivare entro settembre alla laurea».

«Sarebbe magnifico…», commento, aggrottando le sopracciglia. «Ma non sappiamo ancora se sono stato riammesso ai corsi, quindi…».

«Oh, ragazzo mio, credi forse che il consiglio abbia il coraggio di rifiutare un pianista del tuo calibro dopo l’esibizione di stasera?», ghigna, muovendo le mani in aria. «E, poi», aggiunge, con uno strano luccichio negli occhi, «sono anch’io parte del consiglio questa volta. Puoi star certo che non permetterò a nessuno di bruciare il futuro di un promettente artista. Del resto è questo il lavoro degli insegnanti, no?».

Faccio un piccolo sorriso, incerto. «Immagino di sì…».

Mi batte una pacca sulla spalla, sorridente. «È ovvio». Poi guarda il resto degli insegnanti, fermi a parlare sul palcoscenico. «Ora devo andare, Edward. Sono sicuro che ci incontreremo presto in aula. Continua ad esercitarti, mi raccomando. Ti voglio in forma per il saggio di inizio anno».

Il professore mi saluta con un’altra pacca sulla spalla, poi si allontana in direzione delle quinte del palcoscenico, dove raggiunge gli altri insegnanti.

Mi volto alla ricerca di Bella, sperando di poterle finalmente parlare, ma quando i miei occhi percorrono la sala, ormai deserta, solo un pensiero attraversa la mia mente: se n’è andata.

 

Bella

Il suono del campanello dell’appartamento mi fa sussultare. L’ho sentito talmente poche volte che ancora non ci sono abituata. Mi alzo dalla scrivania dopo aver lanciato un’occhiata all’orologio; sono passati solo pochi minuti da quando sono rientrata a casa, e temo di sapere chi è, anche se spero di sbagliarmi.

Dopo aver seguito l’esibizione di Edward ed essermi congratulata con lui sono uscita in fretta e furia dalla scuola, tornando subito a casa; Alice mi ha mandato un messaggio in cui si scusava di non poter venire alla scuola quando io ero già davanti all’ingresso; a quanto pare la riunione con il commercialista per l’apertura della nuova casa stilistica è andata per le lunghe. Per un momento ho anche pensato di andarmene. Di certo a Edward avrebbe fatto più piacere vedere in sala i suoi familiari, non una conoscente. Ma poi ho ricordato il discorso di Alice, e ho trovato il coraggio di entrare e andare a sedermi. Coraggio che poi è evaporato non appena gli ho parlato dopo l’esibizione.

Edward è stato… semplicemente magnifico. Non so che pezzo ha suonato, ma so che era bellissimo, e che per un momento ho temuto persino di commuovermi.

Dopo essermi congratulata con lui ho preferito andarmene. Mi sento ancora un po’ a disagio a stargli vicino, e temevo potesse iniziare a farmi domande più specifiche in merito al mio passato. E sapevo che questa volta, qualunque cosa mi avesse chiesto, gli avrei risposto. E ho paura del suo giudizio, ho paura di quello che potrebbe dirmi una volta saputa tutta la verità.

Raggiungo l’ingresso a passo svelto, ma prima di aprire la porta guardo attraverso lo spioncino.

Respiro profondamente, poi abbasso il pomello, spalancando la porta.

Lo guardo per alcuni secondi, restando imbambolata. Fra i capelli rossicci ci sono alcuni batuffoli di neve fresca, che si stanno lentamente sciogliendo; le guance sono leggermente arrossate dall’aria fredda, e gli occhi sono due smeraldi brillanti.

«Ciao», dice per primo, provando a sorridere. «Posso entrare?».

Annuisco silenziosamente, facendomi da parte per farlo passare.

Raggiungiamo il salotto, e lo osservo mentre si slaccia il cappotto.

«Vuoi…», provo, schiarendomi la voce, «vuoi qualcosa da bere?».

Edward scuote il capo, in segno di diniego. «Vorrei solo parlare», dice, sorridendo un po’, «va bene?».

«S-Sì. Sì, certo».

Vado a sedermi sul divano, vicino alla sua giacca, mentre lui resta in piedi.

«È assurdo», esordisce, con voce ferma e piatta dopo alcuni minuti di silenzio totale, rotti solo dal suo camminare avanti e indietro per la stanza.

Inarco un sopracciglio, non capendo. «Cosa?».

Scrolla le spalle, guardandosi intorno. «Tutto. Questa specie di punizione che stai infliggendo non solo a te ma anche a me. È assurdo che tu non voglia più essere mia amica solo perché credi di non esserne capace».

Infilo le mani nelle tasche della felpa che indosso, stringendo i pugni. Se solo sapessi perché non voglio più essere tua amica probabilmente anche tu vorresti starmi lontano. «Sappiamo entrambi come andrebbe a finire. E…», mi interrompo, capendo che stavo per dire troppo.

«E…?», mi incita Edward, serio.

«E niente. Solo che la verità è questa: non sono brava come amica, presto ti arrabbierai di nuovo perché non riesco mai a parlare di me…». Ed io non voglio risentirti pronunciare le parole di sabato scorso, non voglio rivedere i tuoi occhi freddi e distaccati.

Mi osserva in silenzio per alcuni istanti. I suoi occhi sono calmi, tranquilli, seri. A cosa pensa? Perché ancora non si è arreso? «Questa volta sarà diverso», dice, pacato.

Scuoto il capo. No, è impossibile. Non riuscirò mai a confidarmi apertamente con lui, non resisterò al suo fianco sapendo di non poter essere altro che una semplice amica.

Fa un altro passo avanti. «Non devi vergognarti di raccontarmi niente, Bella», sussurra, carezzevole. «Non devi avere paura di un mio giudizio, non ne darò nessuno».

Lo osservo in silenzio, mordendomi il labbro e cercando di capire se è giusto che io mi lasci andare. Se è giusto concederci un’altra possibilità come amici.

Accenna un sorriso. «Dopotutto è così che si fa tra amici, no? Non si giudica mai, ma ci si ascolta e ci si dà consigli a vicenda».

Mi alzo dal divano lentamente, guardando Edward quasi con paura.

Sto sbagliando? Sto commettendo l’ennesimo sbaglio?

Faccio un passo avanti, e poi un altro. In pochi secondi copro la distanza fra di noi e prima che possa cambiare idea lo abbraccio.

Le sue braccia si stringono intorno a me immediatamente, quasi nel timore che possa cambiare idea subito, e sospiro.

È la prima volta che ci abbracciamo. Sono già stata fra le sue braccia quando mi ha sollevata per portarmi all’ospedale e subito dopo la scazzottata con Jessica, ma in nessuno di quei casi si è trattato di un contatto così ravvicinato e intimo. Sento il suo profumo avvolgermi, il suo calore scaldarmi il corpo infreddolito dalla temperatura bassa della stanza, e il suo respiro soffiare delicato fra i miei capelli. Sento il seno premere contro il suo petto, le sue braccia stringersi forte intorno al mio corpo. Sfrego la guancia contro il tessuto della sua camicia, sulla sua spalla, chiudendo gli occhi; e per la prima volta dopo quel mostruoso sabato trovo un po’ di pace. Le sue braccia mi infondono un forte senso di sicurezza, e protezione. Il suo corpo, così vicino, le sue mani che mi sfiorano la schiena. Il cuore batte impazzito nel petto, talmente forte che temo che persino lui possa sentirlo battere contro il suo petto. 

«Quindi…», mormora, deglutendo, «possiamo riprovarci?», chiede in un sussurro.

Annuisco con voce fioca, continuando a stringerlo.

«Farò di tutto per cercare farmi perdonare, Bella», sussurra contro i miei capelli. «Te lo prometto».

Non dice nient’altro, continua a tenere le braccia allacciate intorno alla mia vita e a tenermi stretta a sé, abbattendo inconsciamente - o forse no? - un’altra barriera del mio guscio protettivo.

E dentro di me sento di averlo già perdonato.

 

___________________________

Eccoci alla fine del capitolo. Siete ancora tutti interi? Nessuno si è addormentato? XD

Come vedete le cose alla fine in parte si sono sistemate fra Edward e Bella. E' stato tutto troppo affrettato? Ha sbagliato Bella a perdonare Edward tanto 'facilmente'? Doveva mandarlo a quel paese ecc.? Ditemi cosa ne pensate :D

Io sinceramente credo che entrambi abbiano sbagliato, e comunque entrambi come avete potuto scoprire in questo capitolo non sono stati completamente sinceri l'uno con l'altra. Credo che si debbano una seconda possibilità a vicenda, alla fine.

Quello da cui è affetto Edward si può riassumere nel panico da palcoscenico, o qualcosa di molto simile, che verrà spiegato meglio nei prossimi capitoli, insieme alla decisione di lasciare la Juilliard senza apparenti motivi e la paura di esibirsi in pubblico. Qualcuno ha già qualche teoria a riguardo? :D

Esme è finalmente tornata.

Bella sta continuando a scappare dal suo passato. Cosa è successo a Forks? Perché non vuole tornare? Vediamo se qualcuno indovina :D Nel prossimo capitolo si avranno parecchi indizi, che inizieranno a fare chiarezza sul passato di Bella :D


Come ho già detto ho deciso di postare oggi perché poi avrò gli esami. Quindi il prossimo capitolo arriverà a fine Giugno-inizio Luglio. Tempo di dare anche l'orale e ci darò dentro con la scrittura :D


Il blog dove posto teaser e spoiler: TRA SOGNO E REALTA'.

E il teaser del prossimo capitolo. E' quello che avevo postato nello scorso, ma alla fine ho spostato quella scena al prossimo capitolo: TEASER CAPITOLO 11


Grazie a tutti coloro che sono arrivati fino a qui nonostante gli scandalosi tempi di aggiornamento. Grazie, grazie, grazie :*********

Alla prossima :***

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Capitolo 12
*** Capitolo 11__Quando tutto crolla ***


Buondì! :D

Allora, come va? Siete già andati in vacanza? :D Io devo ancora dare l'orale di maturità -.- MEH. Ma da sabato sarò libera anch'io ù.ù

Visto i tempi cosmici con cui stanno facendo andare queste maturità ho pensato bene di aggiornare prima XD Anche perché il capitolo è abbastanza corto, visto che ho deciso di tagliare un pezzetto ^^

Bon, direi che vi lascio al capitolo (non fatevi spaventare dal titolo, mi raccomando! :D)

 

Buona lettura! :)

___________________________

 

Don’t Leave Me Alone

Capitolo 11__Quando tutto crolla

Domenica 20 Dicembre

Bella

«Non puoi dire sul serio!».

«E invece sì», ribatto, sentendomi pervadere dalla vergogna.

Edward scuote il capo, ostinato. «No, non è possibile. Vuoi dirmi che vieni da un paese a due passi dalle montagne e non hai mai imparato a pattinare sul ghiaccio?».

«Se per questo non so neanche pattinare con le ruote», sbotto. «Renèe ha provato ad insegnarmi quando avevo dieci anni, e sono finita all’ospedale con un braccio rotto».

Edward contrae la mascella. «Come diavolo hai fatto a romperti un braccio?».

«Sono finita contro una palma e…». Mi interrompo quando lo vedo piegarsi in avanti e distogliere lo sguardo, portando una mano alla bocca. «Edward, che hai?».

La sua risposta è una risata. Una forte, allegra risata, che gli scopre i denti bianchi e perfetti, e che se non fosse indirizzata proprio a me, mi avrebbe lasciata incantata.

Sbuffo, imbronciata. «Bravo, ridi delle mie disavventure. Io non mi sono messa a ridere quando mi hai raccontato la tua prima diagnosi all’università*».

Edward scrolla le spalle, con il sorriso sulle labbra. «Non ti avevo detto di non ridere. Volendo avresti potuto farlo».

«Volevo essere educata, a differenza tua». Gli faccio la linguaccia.

Edward alza gli occhi al cielo, fingendosi colpito. «Mi perdoni, signorina. Cercherò di essere più educato in futuro».

Scoppiamo a ridere entrambi, mentre Emmett si affaccenda dall’altro lato del bancone, cercando di tenere tutto sotto controllo. Il ragazzo che lavora insieme a lui oggi è in ritardo, così deve arrangiarsi da solo. Fortunatamente questa mattina non sono molte le persone che si sono avventurate in giro per la città, quindi il locale è relativamente calmo. Ha nevicato quasi tutta la settimana, e le strade sono circondate ai lati da montagne di neve sporca e ghiacciata, che di giorno si scioglie e di notte si ghiaccia, ricoprendo i marciapiedi di sottili e invisibili lastre scivolose e pericolose. Se non fosse stato per Edward probabilmente a quest’ora sarei piena di lividi sulle braccia e sulle gambe.

Martedì sera, prima di andare via, Edward mi ha proposto di trovarci la mattina seguente per andare a fare colazione insieme alla cioccolateria di Emmett, e da quel giorno veniamo qui tutte le mattine. Io prima di andare a lavoro, lui prima di tornare a casa ad esercitarsi con il piano. I primi di gennaio riprenderà le lezioni alla Juilliard, e vuole essere pronto; secondo il professor Volturi se ce la mette tutta può persino arrivare alla laurea entro settembre, grazie a dei corsi supplementari per rimediare all’anno perso. Questo significa che dovrà passare moltissimo tempo a scuola e ad esercitarsi.

Le cose non hanno fatto altro che andare a gonfie vele fra di noi, in questi giorni. Non c’è più lo stesso fitto e silenzioso imbarazzo fra di noi, ma una piacevole serenità, che ci porta a parlare del più e del meno, anche se non abbiamo ancora affrontato il discorso sul nostro passato. Nessuno dei due ha più accennato a parlarne da martedì sera: io non gli ho chiesto niente sui motivi che l’hanno spinto a lasciare la scuola, e lui non mi ha chiesto chiarimenti in merito alla mia fuga da Forks. So che prima o poi dovremo parlarne, e non ho alcuna intenzione di rimandare quel momento; semplicemente entrambi abbiamo tacitamente convenuto che fosse qualcosa di cui parlare in un posto un po’ più privato di un bar o di una strada affollata, mentre camminiamo avanti e indietro tra casa mia, la scuola e la cioccolateria.

«Uhm…», mormora Edward dopo aver finito il suo caffè. «Sicura di non voler provare a imparare? Sai, il pattinaggio sul ghiaccio può essere davvero divertente».

Socchiudo gli occhi, guardandolo con sospetto. «Non intendi divertente nel senso che tu ti divertirai vedendomi cadere, vero?».

Sorride. «Certo che no. Allora? Che ne dici di provare uno di questi giorni?».

È da questa mattina che prova a convincermi ad andare a pattinare insieme al Rockefeller Center. Se da una parte muoio dalla voglia di dirgli sì, dall’altra il panico mi spinge a cercare mille scuse per dirgli no. Vorrei non essere così scoordinata e senza un minimo di equilibrio.

Alla fine sospiro, arrendendomi. «Sento che dovrai portarmi di nuovo in ospedale, lo sai?».

Edward ride, contento di averla avuta vinta. «Ti prometto che non accadrà». Sulle sue labbra spunta il suo sorriso sghembo. «Del resto, non ci sono palme contro cui andare a sbattere a New York».

 

«Bella, noi andiamo!», esclama Alice, entrando nella mia stanza saltellando.

Mi alzo dalla scrivania, abbandonando i libri di scuola per andarle accanto e abbracciarla. «D’accordo. Ci vediamo domani, allora».

Prima di uscire, Alice mi lancia uno sguardo ammonitore. «Ricordati di chiamare Charlie. E salutamelo!».

Alzo gli occhi al cielo, sorridendo. «Certo, Alice».

La seguo fino al salotto, dove Jasper la attende. Li saluto entrambi, sospirando quando la porta si richiude alle loro spalle e nella casa piomba il silenzio.

Guardo il telefono appoggiato sul comodino dell’ingresso, e dopo un attimo di esitazione lo prendo in mano, iniziando a comporre il numero di quella che una volta era la mia casa.

In effetti ha ragione Alice: devo chiamare Charlie. Almeno per sapere come vanno le cose, per ricordargli che fra poco è Natale e che deve fare attenzione al ghiaccio sui gradini dell’ingresso, e di portare i miei auguri di buon Natale a Billy Black. Sono alcuni giorni che non lo sento, e in teoria avrebbe dovuto chiamarmi lui ieri pomeriggio; immagino sia troppo preso dal lavoro. Normalmente, sotto le festività persino in un paesino come Forks il lavoro dello sceriffo raddoppia.

Il telefono squilla a vuoto per due volte di fila, e alla fine rinuncio. A quanto pare si è trasferito davvero a casa di Sue. Provo allora a chiamarlo sul cellulare, e fortunatamente risponde al quinto squillo, prima che scatti la segreteria.

Dall’altro capo, però, c’è solo silenzio.

«Pronto…? Papà?», chiedo, non ricevendo risposta.

Un sospiro, poi una voce tesa come una corda di violino. «Ciao, Bella».

E la leggera armonia che si era creata in questi giorni crolla improvvisamente.

Perché a rispondere al telefono non è stato mio padre. È stata Sue.

 

Edward

Mentre mi guardo allo specchio e cerco di rendermi presentabile, rifletto su quello che sto per fare. E nonostante i contro siano parecchi, la lista dei pro è decisamente più attraente dell’altra. Non è stato facile prendere questa decisione, ma non è stato altrettanto semplice resistere per questi lunghi mesi.

Questa sera lascerò Tanya una volta per tutte. Basta fingere, basta mentire. Questa volta non sarà nemmeno suo padre Eleazar a fermarmi, e a nulla basteranno le sue minacce. Ho già deciso di andare a parlare con Esme e Carlisle domattina, e di dirgli tutto. Forse avrei dovuto farlo prima di lasciare Tanya, ma voglio essere certo di aver fatto tutto per bene prima di fare quest’altro passo.

So che per quello che le sto facendo, a Tanya non basterà aver trascorso la serata in uno dei ristoranti più esclusivi della città; nonostante il cambiamento subìto in queste settimane in fondo è sempre la stessa, solo più dolce e meno acida sotto certi aspetti. So che probabilmente si metterà a piangere. So che me ne dirà di tutti i colori. So che tirerà in ballo Bella. Lo so, per questo sto cercando di concentrarmi con tutte le mie forze. Quando arriverà il momento dovrò mantenere la calma, non dovrò lasciarmi abbindolare dalle sue parole, non dovrò ribattere e non dovrò infuriarmi per quello che dirà. Del resto mi merito tutto quello che vorrà urlarmi contro.

Il suono del citofono interno mi sorprende quando mi sto allacciando la cravatta intorno al collo.

Lascio il nodo disfatto, e arrivo fino all’ingresso, dove attaccato al muro c’è il citofono collegato alla portineria.

Incastro il citofono fra la testa e la spalla, e intanto mi allaccio l’orologio al polso. «Sì?».

«Signor Cullen? Sono Jones», risponde la voce del portinaio all’ingresso del palazzo. Sembra leggermente turbato. «C’è una persona che vorrebbe vederla… non mi dice il suo nome, e sa che non posso permettere a nessuno sconosciuto di salire ai piani di sopra». Il tono burbero di Edmund Jones arriva forte e chiaro alle mie orecchie come un rimprovero; una cosa del tipo: “Signor Cullen, se stava aspettando qualcuno mai visto prima, poteva almeno dirmelo e ci saremmo risparmiati tutto questo trambusto”.

Lancio un’occhiata all’orologio da polso, e calcolo che mancano circa dieci minuti all’appuntamento con Tanya.

«Certo, signor Jones. Può dire a quella persona di aspettarmi di sotto? Ci metterò un attimo».

Riaggancio il citofono, e torno velocemente in camera a recuperare la giacca e le altre cose, dopodiché spengo tutte le luci e chiudo a chiave la porta d’ingresso.

Mentre scendo le scale cerco di sistemare il nodo della cravatta alla cieca, e spero di non aver fatto un disastro come al solito. Tanya odia quando mi presento in maniera poco ordinata, ma ancora di più detesta quando arrivo in ritardo. Almeno per il nostro ultimo appuntamento voglio di essere puntuale, e non indisporla fin dal principio.

Arrivo in cima all’ultima rampa di scale, e la prima cosa che noto è la figura seduta in fondo ad esse, appoggiata contro il muro, all’apparenza addormentata. La seconda è la cascata di boccoli castani, e subito affretto il passo per raggiungere l’ingresso.

Il signor Jones è fermo vicino alla porta della portineria, e osserva la ragazza seduta con aria preoccupata. Appena sente i miei passi alza lo sguardo, sollevato.

«Signor Cullen!», esclama, visibilmente turbato. «Grazie al cielo è sceso. Questa ragazza non mi ha ancora voluto dire come si chiama e…».

«Edward!». Bella si volta verso di me interrompendo l’anziano signore, e dalla sua voce biascicata capisco subito che c’è qualcosa di strano. Le sue guance sono rosse, e gli occhi sono lucidi. Il sorriso - sempre bellissimo - è quasi bambinesco.

Arrivo davanti a lei, e prova ad alzarsi. Le prendo un braccio, aiutandola a tirarsi in piedi, e non appena lo fa inizia a ciondolare, senza che il sorriso sparisca dalle sue labbra.

«Bella, cosa ci fai qui?», le chiedo, genuinamente sorpreso. Non mi aspettavo una sua visita, considerando anche il fatto che non è mai stata a casa mia.

«Quindi la conosce signor Cullen?», mi chiede Edmund, perplesso.

Gli sorrido. «Sì, non si preoccupi. Ci penso io a lei, torni pure al suo lavoro».

Lui sospira, evidentemente sollevato, e si richiude la porta della portineria alle spalle, continuando però ad osservarci incuriosito e all’erta da dietro il vetro.

Guardo Bella, che continua a spostare il peso da un piede all’altro. Piego la testa da un lato. «Allora?».

Si morde il labbro inferiore con forza, dirigendo lo sguardo verso il pavimento, cercando di non incrociare i miei occhi.

Ciondola in avanti, e la prendo prima che sbatta contro il mio petto. Solo adesso riesco a collegare il suo continuo ciondolare e le sue guance rosse al leggero odore di alcol che avverto non appena è più vicina.

«Mmm…», mormoro, alzando un sopracciglio e un angolo delle labbra. «A quanto pare ci hai dato dentro con l’alcol, eh?».

Fa una faccia buffissima, e gonfia le guance. «Stai dicendo che sono ubriaca?», borbotta, offesa.

Ridacchio. «Non mi permetterei mai».

«Bene».

Inarco un sopracciglio, sorridendo. Se fosse stata sobria di certo avrebbe colto la mia ironia.

Mi guarda in silenzio per alcuni secondi, mordendosi il labbro inferiore, come se avesse paura di dire qualcosa. Apre la bocca per dire qualcosa, ma subito dopo torna a mordersi il labbro e abbassa lo sguardo.

Poso l’indice sotto il suo mento, spingendola a guardarmi di nuovo. «Cosa c’è?», le chiedo, con tutta la dolcezza possibile, per non spaventarla. Non voglio che torni a nascondermi quello che pensa.

I suoi occhi sono più lucidi di prima. «Alice è da Jasper e…», mormora, interrompendosi e cercando di fuggire dal mio sguardo, imbarazzata. Nei suoi occhi sfuggenti leggo anche un’altra emozione, ma non riesco a decifrarla abbastanza in fretta.

Conoscendo Bella, non chiamerebbe Alice neanche se si trovasse in ospedale in fin di vita, sapendola con Jasper, quindi dubito che abbia intenzione di chiamarla ora, anche se è in uno stato quasi delirante. E, sinceramente, il pensiero di lasciarla a casa da sola, in questo stato, non mi piace neanche un po’.

«Vuoi restare qui?».

Le parole lasciano le mie labbra prima che possa anche solo pensarle.

Le guance di Bella si colorano di un rosso ancora più incandescente, e annuisce chiudendo gli occhi per alcuni secondi.

Penso per un momento a Tanya, al nostro ultimo appuntamento, e decido che forse posso conciliare le due cose.

«Okay. Vieni, andiamo su».

Sorrido a Bella, ma la vedo guardare con aria spaventata la scala davanti a noi.

«A… a che piano abiti?», mi chiede, con la voce strascicata.

«Al quinto», rispondo subito, e noto che con lo sguardo cerca qualcosa intorno a noi, credo un ascensore. «Temo che dovremo arrivare al mio piano usando le scale. Non abbiamo ascensori». Osservo il suo sguardo leggermente confuso, e l’espressione quasi atterrita che accompagnano le mie parole. «Se vuoi posso portarti su in braccio».

Lei scuote il capo immediatamente, e sembra pentirsene l’istante subito dopo, perché si posa una mano sulla tempia. «Non serve, grazie».

Fa il primo gradino tenendosi con la mano al corrimano, ma devo correre a cingerle la vita con un braccio prima che cada all’indietro.

«Tieniti a me, ti aiuto a salire», le dico, e subito sento che la sua mano sinistra corre dietro la mia schiena fino a chiudersi intorno alla giacca, stringendola.

Iniziamo a salire le scale lentamente, fermandoci di tanto in tanto quando Bella sembra perdere l’equilibrio.

«Come sei arrivata qui? Hai fatto tutta la strada a piedi?», le chiedo, con una certa ansia nella voce. Non voglio nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto succederle per strada. New York non è il massimo della sicurezza, soprattutto in queste ore, quando l’oscurità ha già avvolto tutte le strade, alcune delle quali non sono nemmeno illuminate dai lampioni. Fra l’altro, Bella è già distratta di suo quando è sobria, se ha fatto la strada da ubriaca è solo per puro miracolo se non è finita sotto un’auto o cose del genere.

«Certo che no», biascica. Appoggia la testa contro la mia spalla, e con le gambe molli come mozzarelle sale un altro gradino, mentre la tengo in piedi. «Ho preso un taxi. Non ricordavo il numero di casa, però».

Inarco un sopracciglio. «E come hai fatto ad arrivare qui? Madison Avenue attraversa quasi mezza Manhattan».

«Mi sono…», inizia, inciampando poi in un gradino e tenendosi a me e al corrimano. Lancio uno sguardo all’unica rampa di scale non ancora terminata, e penso alle altre cinque che ci mancano per arrivare al piano dove si trova il mio appartamento. «Mi sono fatta lasciare all’angolo di Central Park».

Poteva andare peggio, penso, fra me e me.

Raggiunto il primo pianerottolo, Bella sfrega il capo contro la mia spalla, lamentandosi. «Possiamo fermarci un attimo?».

Sospiro, ma prima che lei possa staccarsi da me per andare a sedersi su un gradino la prendo fra le braccia, sollevandola da terra e facendo passare un braccio dietro la sua schiena e l’altro sotto le ginocchia.

Bella emette un debole lamento, chiudendo gli occhi. «Mi gira la testa».

«Ti viene da vomitare?», le chiedo, preoccupato, iniziando a salire velocemente le scale nel timore che possa rimettere da un momento all’altro lungo la strada. Non oso immaginare le proteste dei vicini alla prossima riunione condominiale, se dovessero sentire nell’aria la puzza di vomito.

«No», sussurra, accoccolandosi meglio contro il mio petto. «Hai un buon profumo», mormora dopo alcuni secondi, quando sono arrivato davanti alla porta del mio appartamento.

Rido nervosamente, e la lascio scivolare fra le mie braccia, aiutandola a rimettersi in piedi. Tiro fuori le chiavi dalla tasca dei pantaloni, e riapro la porta di casa. Lo scatto della porta mi ricorda improvvisamente il motivo per cui l’avevo chiusa pochi minuti prima, e ricaccio indietro la valanga di pensieri nella mia testa.

Accompagno Bella dentro l’appartamento, richiudendo la porta alle nostre spalle. Si ferma in mezzo all’ingresso, guardandosi attorno con aria smarrita.

«Non sono mai stata a casa tua…», sussurra, mentre la aiuto a sfilare il cappotto, che appoggio a uno dei ganci accanto alla porta. «È bella».

«Merito di Esme», dico, accompagnandola fino al divano in salotto. «Ha fatto tutto lei».

Bella annuisce, e si guarda intorno curiosa, osservando la libreria e le fotografie appese al muro. Sembra abbastanza tranquilla, e soprattutto non sembra aver bevuto così tanto da stare male.

«Bella?», la chiamo, incontrando il suo sguardo un po’ smarrito. «Ti dispiace se esco un attimo?». I suoi occhi si spalancano improvvisamente, così mi affretto ad aggiungere: «Torno subito, te lo prometto».

Scorre lo sguardo sul mio completo elegante, e credo che solo ora si sia resa conto che in realtà stavo uscendo.

«Dovevi uscire… io… sono piombata qui senza preavviso e…», balbetta, coprendosi la bocca con una mano. Poi si alza in piedi repentinamente, nuovamente a disagio e con gli occhi improvvisamente lucidi. «N-Non dovevo venire qui… tu d-devi uscire e…».

Mentre parla cerca di dirigersi verso l’ingresso; poso entrambe le mani sulle sue braccia, cercando di farla tornare a sedere sul divano.

«Bella, stai tranquilla. Non devo uscire, okay?», provo a dire, anche se non so più per quale motivo sia così agitata. Probabilmente ha bevuto più di quanto immaginassi.

Lei scuote il capo furiosamente, opponendosi alla mia spinta a farla sedere. «No, no», ribatte, velocemente. «Tu devi uscire. Sto rovinando tutto»

«Bella…». Sospiro, e la costringo a sedersi. «Ascolta. È vero, sarei dovuto uscire, ma non importa, okay? Preferisco stare qui con te, in questo momento. Fammi solo fare una telefonata e vedrai che andrà tutto bene e niente sarà rovinato», le dico, sperando che riesca a capire che non c’è bisogno che si senta in colpa. Ho capito che è impensabile lasciarla qui da sola; dovrò arrangiarmi con una breve telefonata.

Bella annuisce lievemente, stringendo i pugni sul grembo. Non sono certo che se ne sia convinta.

«Torno subito. Intanto di prendo un bicchiere d’acqua». Afferro il telefono dalla tasca dei pantaloni, e mi dirigo verso la cucina. Compongo il numero continuando a lanciare occhiate preoccupate a Bella attraverso la porta aperta della cucina, e spero in cuor mio di essere riuscito a calmarla almeno un po’.

Tanya risponde al terzo squillo, e la sua voce è frustrata. «Edward, si può sapere dove sei?».

Perfetto, è già infuriata. Quello che le dirò adesso non farà altro che buttare altra benzina sul fuoco. «Tanya… c’è un problema», dico, cercando di passare per la via diplomatica, pur sapendo che con lei ci sono ben poche possibilità di averla vinta in questo modo. «Non posso uscire stasera».

La sento sbuffare. «Che c’è? La mamma è tornata e ti ha messo in punizione per aver fatto i capricci?», chiede retorica, con rabbia. «Edward da quando siamo tornati insieme siamo usciti solo due volte a cena. Due volte. Ti rendi conto di cosa significa?».

Prendo un profondo respiro, cercando di trattenermi. Sì, Tanya, so cosa significa. E lo sapresti anche tu se potessi venire a cena con te stasera. «Ascolta… che ne dici se ci vediamo domani pomeriggio? Ti giuro che non rimanderei se non fosse così importante».

Lancio un’occhiata a Bella, e improvvisamente noto che si è alzata, e che sta ondeggiando verso l’ingresso, con il cappotto stretto in una mano. Abbandono il bicchiere e la bottiglia di vetro che avevo recuperato dal frigorifero sul bancone, e mi muovo velocemente verso l’ingresso con Tanya ancora al telefono.

«Ah. E cosa sarebbe questa cosa così importante?», sibila, irritata.

«Devo andare. Ti richiamo dopo», dico velocemente, mentre entro nell’ingresso e arrivo davanti a Bella.

«Edward non-». Chiudo la chiamata prima che possa dire altro, e infilo il telefono in tasca mentre fermo Bella.

«Bella, aspetta».

Lei si ferma, e si passa velocemente una mano sulla guancia. «P-Puoi andare all’a-appuntamento», balbetta, «t-torno a casa in taxi».

Scuoto il capo. «Non ti lascio tornare a casa, soprattutto se sarai sola». Mi sfilo la giacca, restando così in camicia, e la appendo al gancio dopo aver preso di nuovo anche quella di Bella.

Si sfrega di nuovo la guancia.

«Vieni, andiamo a sederci», le dico, posando gentilmente una mano sulla sua schiena e facendole segno di andare verso il soggiorno.

Bella scuote il capo, e gira la testa dall’altra parte, portando un’altra volta la mano al viso.

La guardo con preoccupazione, e solo quando incontro il suo sguardo capisco cos’è che non avevo notato prima: i suoi occhi sono pieni di lacrime, che si sta sforzando in tutti i modi di trattenere.

«Ehi», mormoro, avvicinandomi di più, ma senza sapere bene cosa fare. Mi sembra quasi di avere un groppo in gola che mi impedisce di parlare, e che mi brucia la gola. Perché piange? Cos’è successo?

Si morde il labbro inferiore con forza, cercando di non cedere alle lacrime.

«Bella…».

«Non voglio rovinare tutto, Edward. Non voglio», singhiozza dopo alcuni secondi, arrendendosi alle lacrime che iniziano a scivolarle lungo le guance. Sfrega il polso sugli occhi con rabbia, cercando di cacciarle via.

«Non c’è niente da rovinare, Bella», mormoro, sentendomi male; vederla piangere è più doloroso di quanto immaginassi. Poso una mano sul suo viso, cercando di cancellare la scia delle lacrime con il pollice. Non può essere tanto sconvolta solo per questo, e in più non ho mai visto Bella ubriaca prima d’ora. Dubito che l’abbia fatto solo per divertimento. «Cos’è successo? Perché sei… andata a bere?», chiedo alla fine.

Bella si irrigidisce, e spalanca gli occhi, nei quali leggo un muto terrore. E questo basta a darmi la risposta che cercavo: è successo davvero qualcosa.

«Bella…», sussurro con più dolcezza, cercando di farle capire che può fidarsi, che non le voglio fare male. «Puoi dirmelo. Non avere paura».

I suoi occhi si riempiono ancora di lacrime, ma non lasciano i miei.

«C-Charlie…», sussurra, tremando. «C-Charlie ha avuto un infarto».

 

Non so di preciso quanto tempo è passato da quando Bella ha detto che Charlie ha avuto un infarto. So per certo, però, che le otto - quando avrei dovuto avere l’appuntamento con Tanya - sono passate: me l’hanno detto le quattro chiamate perse sul mio cellulare, e l’ora sul display; alla quinta chiamata che lasciavo squillare con il silenzioso, ho deciso di spegnerlo definitivamente.

Bella non ha più parlato da quel momento, e ci siamo limitati a sederci sul divano, dove si è lasciata stringere fino a restare accovacciata sul mio petto, con gli occhi chiusi e una mano stretta sulla mia camicia.

Sfioro con le labbra i suoi capelli, immergendo il naso in essi e respirando profondamente, mentre i suoi singhiozzi si placano lentamente, minuto dopo minuto.

«Edward?», sussurra, tremando e stringendo le dita sulla stoffa della camicia.

«Hm?», rispondo semplicemente, senza staccare le labbra dai suoi capelli. Sotto il leggero odore d’alcol c’è il suo profumo di sempre, che solo una volta ho avuto l’occasione di aspirare come ora. È dolce, sa di fragola, di shampoo, di pulito. Sa di Bella.

Sento il suo corpo tremare per un istante. «Non mi lasciare sola».

Il suo è solo un sussurro spezzato, una preghiera detta a bassa voce, ma dentro di me risuona con la stessa potenza di un’eco incessante, e si incide a fuoco nella mia mente, nella mia memoria e nel mio cuore.

Serro le braccia intorno al suo corpo, stringendola senza farle male. «Mai».

Bella allaccia il braccio dietro la mia nuca, e nasconde il viso nell’incavo del mio collo, e mi sembra di sentirla sorridere fra le lacrime. «Grazie», sussurra.

 

Capisco che Bella si è addormentata dal suo respiro lento e dalla presa intorno al mio collo un po’ più debole. Il suo viso è ancora nascosto sulla mia spalla, e per evitare di sbagliare provo a chiamarla a bassa voce, sperando di non svegliarla nel caso si sia davvero addormentata.

In risposta sfrega la guancia contro la mia camicia, e mugugna qualcosa di incomprensibile. Sì, è davvero addormentata.

Rido in silenzio, prendendola in braccio e alzandomi lentamente dal divano, cercando di evitare movimenti bruschi per non svegliarla di soprassalto; salgo al piano superiore e raggiungo la mia stanza, in cui entro tenendo le luci spente, pregando di non inciampare in niente.

Quando arrivo al letto, la adagio sul materasso, e le sfilo le scarpe e le calze, spostando poi le coperte per coprirla.

Mi siedo per un istante accanto a lei sul bordo del letto, scostandole dal viso alcune ciocche ribelli. L’unica luce che illumina in parte camera proviene dalle scale e il piano inferiore, e dalla piccola sveglia posta sul comodino, che con i suoi numeri digitali getta sui libri - appoggiati davanti per evitare che diventi troppo fastidiosa di notte - una macchia di luce verdastra.

Sono quasi le dieci e mezza. Sono passate più di due ore da quando mi sarei dovuto incontrare con Tanya, e Dio solo sa quanto sarà infuriata a questo punto.

Mi alzo dal letto ed esco dalla stanza, lasciando la porta socchiusa nel caso in cui Bella si svegliasse, poi vado in salotto, dove ho lasciato il cellulare. Lo riaccendo, e subito mi arriva il messaggio di altre ventiquattro chiamate perse, di cui l’ultima risale a circa tre minuti fa.

Trovo il numero fra le chiamate recenti, e avvio la chiamata.

Tanya risponde al primo squillo, il che non è affatto un buon segno.

«Oh, tu guarda chi si rifà vivo». La sua voce è tagliente. «Dimmi, hai risolto questa cosa così importante?», domanda, scimmiottandomi.

Stringo la mano libera intorno a un cuscino, cercando di calmarmi. «Tanya, per favore. Non avrei voluto darti buca, ma è stata una cosa improvvisa».

«Oh, e potrei sapere cos’è successo di tanto improvviso? Ti è esplosa la bombola del gas in cucina?».

Digrigno i denti, sentendo il nervosismo aumentare davanti al suo sarcasmo. «Credi che ti abbia dato buca per divertimento?».

«Credo che tu abbia qualche problema a distinguere chi è la tua fidanzata da chi non lo è».

«Cosa vorresti dire?», sibilo, maledicendomi per aver scelto di chiamarla; avrei fatto meglio ad aspettare domattina, sperando che si calmasse un po’.

«Sai benissimo cosa voglio dire», ribatte. «Anche questa volta centra Isabella, non è vero? Prima l’audizione e adesso questo… a volte mi chiedo per quale motivo provo ancora a starti dietro, visto quanta dedizione dedichi alle tue relazioni sentimentali».

«Non centra nulla Bella con quello che sta succedendo fra di noi, e lo sai benissimo anche tu», ribatto, sentendo il sangue ribollire al solo sentir nominare Bella con tanto disprezzo. «E non ho intenzione di discuterne ancora, soprattutto per telefono».

«Benissimo», sibila, ancora più infuriata. «Quindi dovremmo parlarne faccia a faccia, è questo che intendi?».

«Esatto. E anche al più presto».

«Perfetto», ribatte lei. «Allora ci vediamo domani pomeriggio alle due davanti al bar di tuo fratello».

«Perfetto», ripeto. «A domani».

Lei non aspetta altro, e riaggancia.

Guardo il telefono per un lungo istante, poi decido di spegnerlo.

Lancio uno sguardo alla porta della camera da letto in cima alle scale, e l’unica cosa che riesco a pensare è che domani un’altra barriera crollerà.

___________________________

(*) L'episodio a cui si riferisce Bella è quello raccontato da Emmett nel capitolo 3, quando alla facoltà di medicina Edward ha scambiato i sintomi della febbre per uno sfogo allergico.


Visto? Non è successo niente di troppo brutto (non vi preoccupate per Charlie!).

Ci stiamo avvicinando a un punto di svolta (e finalmente, direte voi XDDDD) quindi preparatevi ù.ù La parte del prologo è ancora un po' lontana, quindi potete tirare un sospiro di sollievo ancora per un po' XD

Bon, non credo di avere granché da dire su questo capitolo, se non che ovviamente le spiegazioni vere e proprie arriveranno nel prossimo. (Non pensate che Bella si è ubriacata solo perché Charlie ha avuto un infarto, eh :D)


Se volete avere un idea di cosa parlerà il prossimo capitolo vi consiglio di fare un salto sul blog, dove tra poco posterò il teaser :)


Il blog: TRA SOGNO E REALTA'.

 

Bon, ho davvero finito :) Grazie a tutti coloro che continuano a seguirmi. Grazie, grazie, grazie :*******

A presto :)

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Capitolo 13
*** Capitolo 12__In viaggio verso casa ***


Salveeee! :D

Per la serie 'chi non muore si rivede' ci sono pure io XD sono stra-indietro con un po' tutto, ma prima o poi (più poi che prima, lo so) arrivo anch'io :D

Il capitolo è abbastanza corto. Ho riletto alcuni vecchi capitoli e son rimasta sconvolta per quanto erano lunghi XD e dato che siamo a un punto cruciale preferisco accorciare e sottolineare certi passaggi. Questo è in un certo senso di passaggio, appunto, ma è fondamentale per i prossimi 2-3 che spero di postare quanto prima. In più scoprirete buona parte del 'segreto' di Bella ;)

Bon, la smetto di blaterare e vi lascio al capitolo :D

 

Buona lettura! :)

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 12__In viaggio verso casa

Lunedì 21 Dicembre

Bella

Il suono di un pianoforte mi risveglia dolcemente, ma subito dopo a rovinare quello che sarebbe stato un ottimo risveglio arriva il mal di testa, che come un trapano tartassa la mia testa, facendola pulsare dolorosamente.

Apro gli occhi, provando un fastidio immediato a causa di una luce verde lampeggiante nell’oscurità della stanza in cui mi trovo. Solo adesso mi rendo conto che la melodia a pianoforte che sto ancora ascoltando non è altro che la sveglia posta sul comodino accanto al letto in cui sono sdraiata. Allungo il braccio, e premo un tasto a caso della radiosveglia, facendo cessare la musica. Sono le sette di mattina.

Nella stanza piomba di nuovo il silenzio, e mi metto a sedere sul letto. Mi guardo intorno spaesata, mentre alcuni frammenti della serata appena trascorsa tornano confusamente in mente. Io che telefono a Charlie, ma a rispondere è Sue… la notizia di mio padre in ospedale… Edward.

Mi guardo intorno più attentamente, ma lui non è nella stanza. Immagino che questa sia la sua camera da letto… oppure è una camera per gli ospiti? Sulla sedia vicino alla scrivania c’è una giacca da sera e una cravatta da uomo. Credo sia proprio la sua stanza.

Mi alzo dal letto lentamente, e mi passo una mano sulla fronte, nel vano tentativo di scacciare il mal di testa. Raggiungo la porta socchiusa, e scopro che è la porta in cima alle scale dell’ingresso che ho visto la sera prima. Le scendo tendendo le orecchie per captare il minimo rumore e scoprire dove si trova Edward, ma non sento nulla.

Accanto alla porta d’ingresso c’è la mia borsa, e la raggiungo per prendere una pastiglia per il mal di testa che tengo sempre in una tasca interna, e la infilo nella tasca dei jeans. Mi dirigo verso la sala, e sul divano trovo Edward, placidamente addormentato su un fianco, con il volto rivolto verso la tv. Il braccio sinistro è piegato sotto il cuscino, mentre il destro scivola sul suo stomaco, sopra alla coperta nera che lo copre. Il volto è rilassato come non l’ho mai visto e come solo nel sonno può essere.

Sorrido, e mi allontano per andare in cucina, dove trovo dopo alcuni tentativi andati a vuoto l’armadio con i bicchieri. Ne prendo uno e lo riempio d’acqua, sperando che Edward non si offenda perché mi sono servita da sola. Prendo la pastiglia, e una volta finito di bere sciacquo il bicchiere, e torno all’ingresso, dove il mio cappotto è appoggiato a un gancio accanto alla porta.

Potrei andarmene ora.

Per un momento penso persino di lasciare ad Edward un post-it e di uscire di soppiatto senza svegliarlo, ma subito dopo scaccio il pensiero. Dopo quello che ha fatto per me il minimo che posso fare è essere qui al suo risveglio per ringraziarlo e fargli capire quanto il suo gesto sia stato apprezzato. La vecchia Bella di poche settimane fa sarebbe scappata ad lui, la nuova Bella non deve farlo per nessuna ragione al mondo.

Torno in salotto silenziosamente, e mi siedo su una delle due poltrone vicino al divano. Edward è ancora fermo lì, nella stessa posizione di prima.

«Edward…?», lo chiamo, con la voce più bassa e dolce possibile per non svegliarlo bruscamente. Il fatto di avere come suoneria della sveglia il suono rilassante del pianoforte mi fa intuire che non apprezza essere svegliato brutalmente.

Lo chiamo ancora una volta, e finalmente lo vedo reagire. Le sopracciglia si aggrottano, e apre piano un occhio.

«Bella…», sussurra, con la voce roca impastata dal sonno.  «Sei qui…».

Non riesco a trattenere un piccolo sorriso nel vederlo così. Sembra così dolce e indifeso che mi verrebbe voglia di abbracciarlo e passare le dita fra i suoi capelli spettinati. Stringo le braccia intorno alla mia vita, frenando questi impulsi.

Si passa una mano sul viso, e si mette a sedere lentamente, passandosi una mano fra i capelli, scompigliandoli ancora di più. Punta i gomiti sulle ginocchia, e sbadiglia coprendosi la bocca con la mano. «Che ore sono?».

«Le sette appena passate. Forse volevi dormire ancora… è suonata la sveglia e non sapevo se…».

«No, no. Hai fatto bene. Devo fare un salto a scuola alle otto», dice, appoggiandosi allo schienale e muovendo il collo per sgranchirsi i muscoli. Questo mi ricorda l’assurdità che ho fatto ieri sera. Venire qui non è stata la scelta più saggia che potessi prendere.

«Mi spiace di essere piombata qui e averti rovinato la serata…», sussurro, lasciando che il senso di colpa prenda il sopravvento. «Avresti dovuto caricarmi sul primo taxi che passava di qui».

Edward scuote il capo, e alza gli occhi al cielo. «Non dire sciocchezze. Eri sconvolta, non potevo lasciarti andare a casa da sola».

«Almeno avresti dovuto far dormire me sul divano», ribatto.

«Non ti preoccupare. Piuttosto, tu come stai?».

Mi irrigidisco immediatamente, e abbasso lo sguardo. «B-Bene… ho solo un po’ di mal di testa».

Con la coda dell’occhio lo vedo grattarsi la nuca, anche lui a disagio. «Non intendevo… sì, insomma… volevo dire…».

«Male», lo interrompo, rispondendo alla sua vera domanda implicita. «Sto male». E mentre lo dico devo sforzarmi di pensare a qualcos’altro prima di iniziare a piangere.

Edward mi guarda dispiaciuto. «C’è qualcosa che posso fare per te? Se chiami Esme e le spieghi la situazione…»

Scuoto il capo, sapendo già dove vuole andare a parare. «No. Lavorare mi farà bene. Mi terrà la mente occupata, almeno».

Lui socchiude gli occhi, e sembra si stia trattenendo dal dire ancora qualcosa. «Non vuoi andare a Forks?», chiede infine, sganciando la bomba che da ieri pomeriggio rimbomba nella mia testa. «Intendo… solo per far visita a tuo padre, e assicurarti che tutto vada bene…».

Stringo le braccia intorno al busto, ricordandomi improvvisamente che solo poche ore fa erano quelle di Edward ad avvolgermi e consolarmi. Avvampo, ma cerco di non farglielo notare, sperando che lo scambi per una reazione alla sua proposta.

«Non voglio tornare là», sussurro, sentendo la voce tremare. «Cioè,» mi correggo subito, capendo quanto possa sembrare orribile detto così, «vorrei tornare solo per Charlie. Ma ci sono alcune… persone che non posso vedere…». Stringo i pugni intorno al tessuto della mia maglia, a disagio. «Non credo di… riuscirci».

«Non c’è nessuno che può accompagnarti?», mi chiede, insistendo. «Tua madre, il tuo patrigno…?».

Scuoto il capo. «Renèe è già là», sussurro, sentendo la gola serrarsi. «È corsa non appena ha saputo, ma sinceramente non credo che sarebbe un grande supporto in questo caso. Lei non… non sa. Pensa che sia andata via da Forks solo perché ero stufa della città».

«E qual è il vero motivo?».

La domanda di Edward arriva come un fulmine a ciel sereno, e anche se erano mesi che aspettavo questo momento non mi sento per niente pronta. Ma non voglio scappare questa volta.

 

Quando esco dall’università alle cinque e mezza passate, tiro un sospiro di rassegnazione. Quella di oggi era l’ultima lezione prima della pausa per le vacanze natalizie, e non dovrò tornare qui fino l’11 Gennaio dell’anno prossimo. Questo significa che se da una parte potrò prendermi una pausa dallo studio, dall’altra avrò la mente molto più libera, e non so quanto sia un bene in questo momento.

Appena varco il portone della scuola, però, mi blocco, sorpresa. Appoggiato alla parete dell’università c’è Edward, che tiene in mano due bicchieri di cartone della cioccolateria di Emmett, fumanti. Mi avvicino senza nascondere il sorriso che nasce spontaneo sulle mie labbra, mentre i suoi occhi incontrano i miei e si stacca dalla parete per avvicinarsi a me.

«Ciao», mi saluta, tendendomi uno dei due bicchieri. «Cappuccino?».

«Ciao», dico, ancora stupita, accettando il bicchiere bollente. «Grazie».

Bevo un sorso di cappuccino, che scaccia subito il freddo dell’esterno, riportandomi in parte al tepore dell’aula di poco fa. «Come mai qui?», gli chiedo, curiosa. Anche se ricordo di aver detto una volta ad Edward a che ora finisco di norma le lezioni, non ci siamo mai incontrati qui fuori.

Lui scrolla le spalle, bevendo un sorso del suo bicchiere. «Ero nei paraggi», risponde, rimanendo vago. «Facciamo due passi insieme?».

«Certo!», rispondo, più euforica di quanto avessi previsto.

Edward sorride, e iniziamo a incamminarci in direzione di casa mia.

«Pensavo…», inizia dopo alcuni secondi di silenzio, soppesando le parole, «sei proprio sicura di non voler andare a Forks?».

Mi irrigidisco, stringendo la presa intorno al bicchiere.

«Se partissi domani mattina faresti in tempo a tornare per la cena a casa dei miei di giovedì», continua, lanciandomi occhiate veloci, per controllare di non star tirando troppo la corda.

Abbasso lo sguardo, osservando i marciapiedi sporchi di neve scura e quasi sciolta. «Ti ho spiegato perché non posso tornare…», mormoro.

«Nemmeno se ti accompagnasse qualcuno?».

«Forse se ci fosse qualcun altro potrei farcela, ma-».

«Perfetto», esclama, voltandosi a guardami con un sorriso storto sulle labbra. «Ti accompagno io».

Mi fermo in mezzo al marciapiede, guardandolo confusa. «Stai scherzando, vero?».

Lui continua a sorridere, fermandosi a sua volta. «Perché dovrei?».

«Perché è una follia. Insomma, dovresti attraversare tutti gli Stati Uniti solo per accompagnare una che non ha il coraggio di andare a trovare il proprio padre ricoverato in ospedale». Scuoto il capo. «È una follia», ripeto.

Il sorriso di Edward si spegne, ma la determinazione che leggo nei suoi occhi è sempre la stessa. «Bella, non puoi non andare a trovare tuo padre. Lo sai benissimo che alla fine ti ritroveresti con i sensi di colpa. E sai anche che vuoi andare a trovarlo».

Mi mordo il labbro, ed evito di guardarlo. Andare a Forks con Edward significherebbe affrontare la mia paura più grande con un sostegno solido, con una persona al mio fianco pronta a sorreggermi in qualunque momento. Significherebbe provare a risolvere uno dei problemi che da mesi mi tortura. Ma significherebbe anche incontrare Sue e Leah.

«Non posso permetterti di fare una cosa del genere per me», mormoro, senza guardarlo. «Mi sentirei troppo in debito».

Edward si avvicina di un passo, e sorride nuovamente. «Nessun debito. Se preferisci puoi prenderlo come un viaggio di piacere».

«A Forks?», gli chiedo, sorridendo divertita da quell’idea.

Lui scrolla le spalle. «Può essere il momento buono per visitare una riserva indiana. Non ci sono mai stato».

Scuoto il capo, senza riuscire a trattenere un sorriso divertito. «Come no».

Ci guardiamo in silenzio per un lungo minuto, fino a quando il freddo pungente non mi fa rabbrividire.

«Sei proprio sicuro di volerlo fare?», gli chiedo, incerta.

«Sicurissimo», risponde lui, senza tentennamenti.

Sospiro, e inizio a pensare in fretta alle mille cose che devo fare prima di poter anche solo pensare di partire. «Okay… Allora devo chiamare Esme… devo dirle che-».

«Non serve», mi interrompe Edward, con un sorriso sghembo dipinto in volto. Lo guardo interrogativa, e lui si affretta a spiegare: «Ho parlato con Esme prima di venire da te, ed è già tutto a posto».

«Come facevi a sapere che avrei accettato?», gli chiedo, accigliata.

Edward gonfia il petto, atteggiandosi ad orgoglioso. «Perché non sapresti mai dire di no al sottoscritto».

Alzo gli occhi al cielo, sperando che il rossore che si sta lentamente spargendo sulle mie guance venga scambiato per effetto del freddo. «Certo, come no».

Edward ride, e riprendiamo a camminare in direzione di casa mia.

«Quindi… partiamo davvero?», domando, incredula, mentre ci lasciamo alle spalle il confine di Central Park.

«Certo. Domattina, che ne dici?», mi propone Edward, finendo il suo caffè e buttando il barattolo in un cestino. «Così possiamo tornare a casa o domani sera o giovedì mattina, in tempo per la cena di Natale. In più abbiamo il fuso orario a nostro vantaggio».

Annuisco, sorridendo eccitata all’idea di viaggiare con lui. Non avrei mai previsto che le cose avrebbero potuto prendere una piega simile. Solo due settimane fa credevo che non avremmo mai potuto ricominciare insieme, ora organizziamo addirittura un viaggio su due piedi, come se ci conoscessimo da anni, anziché pochi mesi.

«Vieni su?», gli chiedo, quando arriviamo sotto casa mia. «Così prenotiamo il volo».

Lui annuisce, ed entriamo insieme nel palazzo.

 

Martedì 22 Dicembre

Edward

Riuscire a trovare un volo diretto per Seattle non è stato difficile. Abbiamo impiegato poco più di mezz’ora per prenotare i biglietti e decidere di partire alle 6 di mattina. Il viaggio dura all’incirca sei ore e mezza, e facendo così arriveremo là per mezzogiorno e mezza, che sulla costa occidentale sono le nove e mezza di mattina. Grazie al fuso orario avremo tutto il giorno a nostra disposizione per raggiungere Forks, fare visita al padre di Bella e tornare in aeroporto per sera, in tempo per prendere l’ultimo aereo della giornata che ci riporterà a casa. Ho proposto a Bella di fermarci a dormire da qualche parte, ma non ha voluto sentire ragioni: prima torniamo a casa meglio è. Arriveremo a casa stanchi morti nel bel mezzo della notte, ma almeno saremo in tempo per il Natale. Fra l’altro Bella sembra essere intenzionata a restare in quella zona solo il minimo indispensabile, e dopo che la sto praticamente spingendo a fare un passo del genere non ho intenzione di oppormi in alcun modo. Se per lei è meglio stare il più lontano possibile dalla sua famiglia non posso far altro che annuire e tacere, soprattutto dopo aver scoperto il motivo per cui è fuggita da quel posto.

Sposto lo sguardo su Bella, che tiene il capo poggiato contro la parete dell’aereo, con un cuscino minuscolo ad addolcirle il sonno. Le ho detto che se voleva appoggiarsi a me per dormire non avevo problemi, ma lei ha rifiutato, voltando il capo e volgendo lo sguardo fuori dal finestrino, dove ora splende il sole. Ha resistito solo per pochi minuti dopo la partenza, prima di addormentarsi. Immagino che questa notte non abbia dormito molto, troppo ansiosa per l’incontro con la famiglia.

Affondo meglio nello scomodo schienale, chiudo gli occhi e ripenso a ieri mattina, quando finalmente ho scoperto il motivo che ha spinto Bella a venire a New York.

 

«E qual è il vero motivo?».

Le parole lasciano le mie labbra prima che abbia il tempo di fermarmi, e lasciano Bella spiazzata per alcuni secondi.

La vedo irrigidirsi, e il volto diventare ancora più pallido. Sono ormai certo che non riceverò risposta, quando finalmente parla: «Ti ho mai… ti ho mai parlato di Sue?».

La sua voce arriva incerta, e per un breve istante mi chiedo se sto facendo la cosa giusta a costringerla a parlarne.

Scuoto il capo. «No».

«È la compagna di Charlie. Stanno insieme da un paio di anni, ormai». Fa una piccola pausa, poi riprende. «Non siamo mai andate d’accordo, io e lei. All’inizio non la sopportavo, perché faceva di tutto per comportarsi come una madre, anche se le ripetevo che non avevo bisogno di un surrogato di Renèe». Distoglie lo sguardo, come se quella confessione la imbarazzasse. «Comunque, dopo un po’ ha smesso di farlo, ma a quel punto sono iniziati i problemi con sua figlia».

«Sua figlia?», chiedo, perplesso.

Bella annuisce, rigida. «Sue era sposata con Harry Clearwater, da cui ha avuto due figli: Seth e Leah. Harry è morto più o meno cinque anni fa per un infarto, e credo sia stato da quel momento che lei e mio padre hanno iniziato a vedersi».

«E perché non andavi d’accordo con Leah?».

Bella distoglie lo sguardo, e posso giurare che è ancora più a disagio di prima. «Lei… lei è fidanzata con il mio migliore amico. Jacob Black».

Nella mia mente ricollego quel nome al ‘Jake’ della conversazione che Bella ha avuto al telefono una delle prime volte che siamo usciti in compagnia, fuori da un locale. «E…?», la incito, sentendo uno strano nervosismo.

«Ed era convinta che fossi innamorata di lui. Per questo non è mai riuscita a sopportarmi. Come se non bastasse, subito dopo persino sua madre ha iniziato a venirmi contro con questa storia. Continuava a ripetermi che dovevo stare alla larga da Jacob, per rispetto di Leah. E da lì le cose sono sempre andate peggiorando».

«E tuo padre? Avrà notato cosa stava succedendo…».

«No. Non era quasi mai a casa, e davanti a lui Sue cercava di comportarsi in modo sempre amabile. Quando gli ho parlato di quello che stava succedendo mi ha detto che stavo sicuramente ingrandendo le cose, e che interpretavo male i gesti di Sue solo perché avevo paura che volesse prendere il posto di mia madre».

«Cos’è successo poi? Il tuo amico… è vero quello che diceva Leah? Eri innamorata di lui?», chiedo, schiarendomi la voce più volte per evitare di cedere. Il nervosismo si è trasformato improvvisamente in qualcosa di più fastidioso, che mi stringe la gola in un nodo.

Bella arrossisce, e distoglie lo sguardo. «No, certo che no. Era solo il mio migliore amico, niente di più. Ma per lui non era lo stesso», aggiunge, stringendo poi le labbra.

«Eri tu a piacere a lui, quindi?».

Annuisce. «Il giorno prima che me ne andassi… ero andata da lui come tutti i giorni… ed è stato quando mi ha baciato. Sono riuscita ad allontanarmi, ma… Leah ci aveva visti… quando sono tornata a casa ho scoperto che ci aveva visti, e per darmi una lezione mi ha distrutto la chitarra».

Stringo le mani intorno alle ginocchia, imponendomi di mantenere la calma. «Hai provato a spiegarle cos’è successo davvero? E lui… Jacob… non ti ha difeso?».

Si morde il labbro, senza guardarmi. «Certo che ho provato a spiegarle, ma non mi ha creduto. E poi è intervenuta anche Sue, come se non bastasse. Ha detto… chiaramente che sarebbe stato meglio per tutti non avermi intorno. Così ho fatto le valigie e sono andata da Renèe».

 

Non sapevo cosa dire, se non un patetico ‘mi dispiace’. Avrei solo voluto abbracciarla e farle capire che tutto sarebbe andato per il meglio, che la mia famiglia, di cui adesso fa a tutti gli effetti parte anche lei, non l’avrebbe mai trattata in quel modo.

Ma come si può cancellare il dolore provocato dalla propria vera famiglia? Nessuno meglio di me può saperlo. Mi sono limitato a stringerle la mano, e a sorriderle debolmente, mentre ricacciavo indietro altri ricordi più dolorosi.

 

Quando sorpassiamo il cartello di benvenuto a Forks sono solo le dieci e mezza di mattina nello stato di Washington. Guardo il mio orologio impostato sull’ora di New York, e noto che a casa è passata da poco l’ora di pranzo, mentre qui la gente ha appena finito di fare colazione. Bella si è risvegliata prima dell’atterraggio a Seattle, e per tutto il tempo del viaggio con l’auto a noleggio da Seattle al suo paese natale non ha fatto altro che mordersi il labbro e torturarsi le mani a vicenda. I miei tentativi di calmarla sono stati pressoché inutili, e non sono riuscito a farla parlare se non per farmi dare le indicazioni stradali per arrivare fino all’ospedale di Forks.

Ci siamo fermati solo una volta ad una stazione di servizio, dove abbiamo comprato alcuni panini preconfezionati come pranzo veloce prima di arrivare nel parcheggio dell’ospedale.

Le strade di questo posto sono molto diverse da quelle che ho percorso in tutta la mia vita. Non sono mai stato in questa zona, e vedere tutto questo verde mi sembra quasi impossibile.

Posteggio l’auto nel primo posto libero, e spengo il motore, senza scendere.

Bella rimane immobile, con la cintura di sicurezza ancora legata, e i suoi occhi fissano le sue ginocchia.

Poso una mano sulla sua, trovandola incredibilmente fredda per la temperatura calda dell’abitacolo. «Sei pronta?».

Scuote il capo lentamente, girando la mano per ricambiare la mia stretta. Chiude gli occhi con forza, e stringe le labbra. «Non sarò mai pronta per questo», sussurra a denti stretti.

«Ce la farai. E stanotte saremo di nuovo a New York, e domattina ti lascerai trascinare da Alice a caccia degli ultimi regali da fare», le dico, sorridendo.

«Edward», sussurra, ignorando le mie parole. «C’è una cosa che non ti ho detto».

La osservo preoccupato in silenzio, aspettando che continui, mentre la mia mente elabora le ipotesi più disparate.

«Quando ho chiamato Charlie e ha risposto Sue… c’è una cosa che mi ha detto. Che avrei potuto benissimo fare a meno di venire a trovarlo», mormora, con gli occhi lucidi.

«Bella», la chiamo, stringendo la presa intorno alla sua mano. «Vedere tuo padre è un tuo diritto. Sono sicuro che lui sarà felice di vederti al suo fianco».

Bella respira profondamente per un lungo momento. Fa un sorriso tirato, e mi dico che per il momento non posso pretendere di più. «Immagino che prima scendiamo, prima ci togliamo il pensiero, vero?».

«Devi farlo solo se te la senti. Se non vuoi possiamo anche riaccendere la macchina, andare da qualche parte e tornare più tardi».

Bella prende alcuni respiri profondi, e alla fine stringe la mia mano più forte. «No. Andiamo a trovarlo. Così poi possiamo tornare a casa».

Annuisco in silenzio, e ci lasciamo la mano per scendere dall’auto. Quando mi arriva vicino la stringo di nuovo, e lei ricambia la mia stretta.

Ci incamminiamo insieme verso l’ospedale, e quando arriviamo davanti alle porte dell’ingresso sento le parole di Bella, sussurrate ma sincere.

«Grazie per essere con me».

E finalmente la vedo sorridere davvero.

 

___________________________



Eccoci alla fine :D

Spero non sia stato troppo noioso come capitolo, ma come ho già detto mi serviva per impostare il prossimo e quello dopo ancora.

Il POV Edward è un un miscuglio di presente e passato, spero di non aver fatto un pastrocchio e che sia tutto chiaro. Nel caso, chiedetemi pure :)

Spero che la spiegazione di Bella sia in parte esauriente per il momento. Credo che la spiegazione dal punto di vista di Bella sarà già nel prossimo capitolo, così potrete capire meglio cos'è successo a Forks.


Preparatevi perché saranno giorni intensissimi per Bella :D


Il blog: TRA SOGNO E REALTA'.

 

Come sempre grazie infinite a tutti coloro che leggono :D

Grazie infinite, a presto :***

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Capitolo 14
*** Capitolo 13__Charlie e Sue ***


'Giornooooo! :D

Dopo solo una settimana sono qui, che miracolo, eh? XD

All'inizio il capitolo doveva essere più lungo - moooolto più lungo -, ma dato che era già parecchio pesante questa prima parte ho deciso di dividerlo e farne due :) Quindi chi ha visto il teaser che ho postato sul blog la settimana scorsa lo consideri teaser del prossimo capitolo :D


Ah, una cosa cosa prima di lasciarvi al capitolo. Alla fine dello scorso avevo detto che questi saranno giorni intensissimi per Bella, e ho notato che alcune di voi si sono preoccupate. Intendevo che saranno giorni intensissimi in senso positivo (positivissimo *ammicca*), perciò state tranquille :D

 

Buona lettura! :)

___________________________

 

Don’t Leave Me Alone

Capitolo 13__Charlie e Sue

Martedì 22 Dicembre

Bella

Mentre varco l’ingresso dell’ospedale di Forks, stringo più forte la mano di Edward, cercando di attingere da lui tutta la forza necessaria per compiere questo passo.

Se gli faccio male, Edward non si lamenta.

Arriviamo davanti al banco informazioni, e mi rivolgo all’infermiera seduta davanti ad un computer, intenta ad inserire alcuni dati.

Mi schiarisco la voce, attirando la sua attenzione.

«Salve. Sto cercando Charlie Swan, è stato ricoverato qui per un infarto. Può dirmi dove posso trovarlo?».

La donna - sulla quarantina -, sorride gentilmente, e abbandona il suo lavoro per prendere un grosso quaderno ad anelli al suo fianco. «Certo. Solo un momento», risponde, iniziando a sfogliare le pagine.

«Bella».

Una voce mi fa irrigidire immediatamente, e mi volto lentamente in direzione della persona che ha appena chiamato il mio nome, ignorando l’infermiera davanti a me.

Una donna con dei lunghi capelli neri come la pece, la pelle bronzea, e il corpo magro e snello mi osserva a pochi passi dal bancone, con un’espressione severa ed austera dipinta in volto.

Stringo più forte la mano di Edward, deglutendo. «Sue».

«Sei tornata finalmente. Tutti erano convinti che non saresti mai più tornata a Forks», commenta, incrociando le braccia sotto il seno e sorridendo, con un’allegria che non le avevo mai sentito nella voce.

Stringo i denti. «Scommetto che tu lo speravi».

Sue scuote il capo, e l’allegria sparisce dalla sua voce. «Vedo che nemmeno la lontananza ti ha cambiata. In ogni caso se vuoi vedere tuo padre ti posso accompagnare io».

Si avvicina a me ed Edward, e i suoi occhi si posano forse per la prima volta su di lui. Inarca un sopracciglio, studiandolo. «E lui sarebbe…?».

Edward le porge la mano non intrecciata alla mia, e sorride. «Mi chiamo Edward Cullen, signora. Piacere».

Sue stringe la sua mano esitante, studiandolo ancora. «Io sono Sue Clearwater. Piacere mio, Edward».

Quando lascia la sua mano, i suoi occhi cadono sulle nostre mani strette l’una nell’altra, ma non dice niente. Si volta verso gli ascensori, e ci chiede di seguirla. Ringrazio la donna dietro il bancone, dicendole che non c’è più bisogno dell’informazione, e seguiamo Sue nell’ascensore, senza dire niente.

L’ultima cosa che mi sarei aspettata arrivando all’ospedale era di trovare Sue nell’ingresso. Sapevo che prima o poi l’avrei incontrata, ma ho sempre immaginato che l’incontro sarebbe avvenuto in camera di mio padre, dove mi ero preparata a trovarla.

Alzo lo sguardo per incontrare gli occhi di Edward, e lo scopro con il volto teso che lascia trasparire un leggero nervosismo. I nostri sguardi si incontrano, ed inarco un sopracciglio in un’espressione dubbiosa, a cui lui risponde con un sorriso e una leggera stretta alla mano, come a volermi dire che va tutto bene.

Sue interrompe il silenzio per rivolgersi ad Edward, come a voler sottolineare quanto il fatto che sia tornata non sia di grande interesse per lei. «Allora, Edward. Sei venuto fin qui per accompagnare Bella? Immagino che tu sia di New York».

Edward sposta lo sguardo per incontrare quello di Sue, che lo osserva con attenzione. «Sì, infatti. Ci tenevo a non lasciarla sola».

“Non mi lasciare sola.” 

Un brivido corre lungo la mia schiena, mentre ricordo le mie parole di meno di due giorni fa, ed abbasso lo sguardo, arrossendo.

Sue resta in silenzio per un breve momento, durante il quale l’ascensore si apre per far entrare due dottori, che restano vicino alle porte, pronti a uscire.

«State insieme?».

Sento le mie guance avvampare, e mentre alzo la testa per rispondere personalmente a Sue cerco di sfilare la mano da quella di Edward. «Non credo che siano affari tuoi!», sbotto, senza nasconderle tutto il mio fastidio per una domanda tanto personale, e facendo voltare i due dottori.

Edward riesce a prendere la mia mano prima che lasci la sua, e torna a stringerla, tenendomi al suo fianco, apparentemente non turbato dalla domanda.

Sue contrae i muscoli della guancia, e sta per rispondermi quando Edward la precede.

«A che piano si trova il signor Swan?».

La donna stringe le labbra, per niente contenta del cambio d’argomento, ma risponde in ogni caso. «Al quarto».

E come per miracolo le porte dell’ascensore si aprono proprio in questo momento sul corridoio del quarto piano, l’ultimo dell’ospedale. Scendiamo insieme ai medici, che si dirigono dalla parte opposta alla nostra, e seguiamo Sue lungo il corridoio.

Edward mi trattiene alcuni passi dietro di lei, ed accosta la bocca al mio orecchio. «Bella, cerca di stare calma».

Faccio una smorfia. «Come faccio a stare calma? Mi fa saltare i nervi».

«Lo capisco, ma se inizi a litigare con lei rischi di rovinarti la visita. Sei qui per vedere tuo padre, non lei».

Sospiro. «Hai ragione, ma-».

«Siamo arrivati», ci ferma Sue, davanti ad una porta che riporta il numero 167. Senza aspettare altro la apre, ed entra nella stanza, mentre mi fermo con Edward prima dell’uscio, per prendere tempo.

«Sei già di ritorno, cara?».

Mi immobilizzo, sentendo finalmente la voce di mio padre dal vivo.

«Ho trovato qualcuno che è venuto a farti visita, tesoro», sento dire Sue, anche se ormai l’ho persa di vista dietro la porta.

Avanzo fino a trovarmi sull’uscio, con Edward alle spalle che ancora mi tiene la mano. La stanza non è molto ampia, ma è luminosa, con due grandi finestre, un divano, un tavolino con due sedie e una televisione. C’è solo un letto nella stanza, posizionato sotto una delle finestre.

Appena i miei occhi incontrano quelli di mio padre mi rendo conto di quanto in realtà mi è mancato in questi mesi, e mi ritrovo senza nemmeno rendermene conto con le lacrime che lottano per uscire.

«Bells?», pronuncia Charlie, con un’espressione di pura sorpresa dipinta sul volto. Un sorriso si apre lentamente sul suo viso, nascosto in parte dai paffuti baffi scuri. «Non posso crederci, sei venuta fin qui».

Faccio un sorriso timido, entrando lentamente nella stanza seguita a ruota da Edward, che ha allentato la presa intorno alla mia mano. Arrivo vicino al letto in cui Charlie è semi-sdraiato. «Ciao, papà».

Charlie allunga il braccio - l’unico non collegato alle flebo - fino a toccare la mano che ho appoggiato al letto, e la stringe, e in quel momento vedo i suoi occhi marroni, così simili ai miei, lucidi. «Credevo non saresti venuta».

I suoi occhi poi si spostano sulla figura al mio fianco, curiosi e indagatori come solo quelli di un poliziotto possono essere.

Sorrido, stringendo più forte la mano di Edward. «Papà, lui è Edward Cullen», lo presento. «Edward, lui è mio padre, Charlie».

Entrambi si stringono la mano, e per la prima volta da quando siamo entrati in ospedale Edward mi sembra davvero in difficoltà e in imbarazzo. Recitano entrambi un ‘piacere’ teso, e rimangono a guardarsi per un lungo istante, in silenzio.

«Sei il figlio di Esme?», gli chiede infine papà, continuando a scrutarlo.

Edward annuisce, accennando un sorriso. «Uno dei tre, sì».

Dopo alcuni secondi di silenzio Edward si volta verso di me, a disagio. «Credo che andrò a prendere qualcosa da bere. Vuoi qualcosa?», mi chiede, e riesco a capire che lo sta facendo per lasciarmi un po’ di tempo da sola con mio padre.

«Una bottiglietta d’acqua, per favore», rispondo solamente.

Lentamente lascio andare la presa intorno alla sua mano, arrossendo leggermente.

Charlie si schiarisce la gola, e guarda verso il divano davanti al letto. Solo in quel momento mi ricordo di Sue, che è rimasta ferma lì in silenzio per tutto il tempo da quando sono entrata nella stanza con Edward. «Tesoro, perché non lo accompagni?».

Sue si alza in piedi immediatamente, sorridente come sempre quando c’è mio padre nella stessa stanza. «Certo, caro».

Lancio un’occhiata preoccupata ad Edward, ma lui scrolla semplicemente le spalle, ed esce dalla stanza con lei. Quando la porta si richiude alle loro spalle provo una leggera ansia, e un po’ di disagio. Sono mesi che non parlo davvero con mio padre; tutte le nostre telefonate sono sempre state di poche parole, e mi sorprende constatare ora quanto poco so della sua vita a partire dagli ultimi mesi. Non che prima che partissi le nostre conversazioni avessero la durata di ore - anzi, se ci rivolgevamo una dozzina di frasi al giorno era già tanto -, ma di certo con l’aggiunta della lontananza le cose non hanno fatto altro che peggiorare.

Prendo una delle due sedie, e la porto vicino al letto, sedendomi.

Charlie si schiarisce di nuovo la voce, anche lui non del tutto a suo agio. «Allora, Bells… come va a New York?».

«Bene… tutto come al solito, più o meno».

«E la scuola?».

«Mi mancano solo cinque esami. Entro agosto dovrei riuscire a laurearmi», mormoro, realizzando che ormai manca davvero poco.

«E poi… hai intenzione di restare a New York o-».

«Resterò a New York», rispondo immediatamente, prima ancora che possa accennare alla possibilità che io torni qui a Forks. «Ormai ho una vita là. Fra l’altro il mese prossimo dovrebbe essere pronto il mio appartamento, così avrò a tutti gli effetti una casa mia».

Charlie cerca di sorridere, anche se non ci riesce molto. «Capisco».

Un silenzio imbarazzante cala fra di noi, mentre penso a come dirgli tutte le cose che mi girano nella testa, come vorrei riuscire a chiarire con lui la questione con Sue; non so come fare per intavolare il discorso, e ho paura che qualsiasi cosa dirò porterà alla solita risposta: che vedo Sue come una madre surrogato e che quindi non sono in grado di interpretare oggettivamente i suoi gesti e le sue parole.

È Charlie a spezzare il silenzio, intavolando un discorso a mio dire ancora più imbarazzante: «Quel ragazzo… Edwin…».

Inarco un sopracciglio, divertita ma imbarazzata. «Edward…».

Charlie arrossisce - difetto che ho preso da lui. «Sì, intendevo Edward. Siete… fidan-».

«No!», esclamo, sentendo le guance imporporarsi. «Siamo solo amici, nient’altro», rispondo in fretta.

«Ah», dice Charlie, apparentemente più rilassato. «D’accordo. Quindi voi due non…».

«Papà», lo interrompo nuovamente, con le guance rosse più delle sue. «Non credo sia il momento migliore per parlare di queste cose, anche perché non c’è nulla da dire». Prendo un profondo respiro, decidendo di troncare definitivamente il discorso. «Come stai? I dottori hanno detto quando potranno dimetterti?».

«Sto bene. Sono resistente, per la mia età», commenta, ridendo. «Hanno detto che potrò tornare a casa già giovedì. Almeno non dovrò festeggiare il Natale in ospedale».

Annuisco, più tranquilla, anche se una parola della sua risposta mi ha subito messa in crisi. «A proposito di casa…», mormoro, senza riuscire a guardarlo negli occhi, «ti sei trasferito definitivamente da Sue?».

Il tono di Charlie cambia improvvisamente, così come l’aria nella stanza, che diventa improvvisamente tesa. «Già…».

«E la casa a Forks? Hai intenzione di venderla?».

«No, almeno per il momento». Fa una breve pausa, pensieroso. «Pensavo di lasciarla a te… e lasciare che fossi tu a scegliere se tenerla o meno».

Annuisco, silenziosa.

«Se non vuoi tenerla-».

«Devo pensarci», sussurro.

Charlie annuisce, accondiscendente. «Certo. Va bene».

Deglutisco, cercando un coraggio che non avrò mai. «Papà… quando me ne sono andata… mi dispiace per non essermi fermata a spiegarti perché lo stavo facendo».

Charlie sospira, appoggiandosi meglio ai cuscini. «Lo so perché sei partita. Insomma, era abbastanza chiaro, soprattutto dopo tutte quelle discussioni…».

«Lo sai che non me ne sono andata per colpa tua, vero?», gli chiedo, ansiosa. Questo dubbio mi ha torturato per tutti questi mesi, soprattutto quando Charlie si incolpava di quello che stava succedendo.

«Sì, questo me l’hai già chiarito. Ma non posso fare a meno di pensare che se fossi stato più comprensivo e attento forse non sarebbero andate così le cose. Magari adesso vivresti ancora qui».

Scuoto il capo. «No, non è così. Erano anni che volevo andarmene, lo sai. Solo… non ho mai trovato il coraggio di farlo…».

Charlie sospira. «Lo immaginavo. Sei come tua madre, non puoi resistere in una cittadina piccola come Forks». Chiude gli occhi per un istante, poi li riapre. «Quando te ne sei andata ho pensato molto a quello che mi avevi detto tutte le volte che litigavamo a proposito di Sue».

Rimango in silenzio, ascoltando.

«Avevi ragione quando dicevi che c’era qualcosa che non andava. Mi dispiace di non averti creduto prima», mormora, sinceramente dispiaciuto.

Sorrido timidamente, a disagio. «Non fa niente», sussurro, anche se so che non è così.

Il sostegno e la comprensione di Charlie sono sempre stati uno dei punti che ho sempre cercato di raggiungere durante le nostre brevi discussioni, e sapere di essere riuscita a raggiungerli solo con la mia partenza mi lascia uno strano retrogusto amaro.

Charlie stringe la mia mano nella sua, guardandomi negli occhi. «Davvero, Bells. Mi dispiace moltissimo di aver dato più ascolto a Sue che a te. Non avrei mai dovuto farlo, è stato imperdonabile».

Sorrido, ringraziandolo debolmente. Quando sto per chiedergli quale era la cosa che non andava con Sue, però, la porta si riapre, e come se l’avessimo chiamata entra proprio lei, con alle spalle Edward, che tiene in mano una bottiglietta d’acqua.

Mi alzo per raggiungere Edward, mentre Sue affianca mio padre porgendogli un bicchiere con qualcosa di caldo dentro.

«Mi dispiace», sussurra Edward quando gli sono vicino, «ha voluto tornare subito da Charlie per portargli il tè».

Bevo un sorso d’acqua, lanciando un’occhiata alla coppia, sentendo la curiosità di poco fa ancora lì. «Non fa niente», gli dico sottovoce. «Grazie».

«Quanto avete intenzione di restare a Forks?», ci chiede Sue, accomodandosi sulla sedia dove ero io poco fa.

Io ed Edward andiamo a sederci sul divano, e distolgo lo sguardo da lei, lasciando che sia Edward a rispondere anche per me. «Abbiamo l’aereo questa sera… quindi credo che questo pomeriggio dovremo partire».

Charlie sembra sorpreso. «Già questa sera? Siete arrivati solo un’ora fa!».

«Giovedì sera abbiamo la cena di Natale a casa Cullen», intervengo io. «Il viaggio dura parecchio, e abbiamo ancora alcune cose da sistemare prima che sia Natale».

Charlie annuisce, perplesso.

«Beh, allora speriamo che non ci siano problemi con la neve nelle prossime ore», commenta Sue.

«Che intendi dire?», le chiedo, con più astio di quanto volessi.

«Che hanno previsto tempeste di neve in tutta la zona per questa sera. Spero per voi che non annullino nessun volo per questo».

Non avevo pensato a questa eventualità, e faccio una smorfia. Spero davvero che non succeda niente del genere.

Lancio un’occhiata fuori dalle finestre, e il cielo grigio sembra voler scacciare tutte le mie speranze.

«Speriamo…», mormoro solamente, chiudendo l’argomento.

 

Edward

L’ultimo abbraccio, prima della partenza. Io resto in disparte con Sue, mentre Bella e suo padre si salutano.

«Mi mancherai, Bells», sussurra Charlie sulla spalla di Bella, mentre si abbracciano goffamente.

«Anche tu mi mancherai, papà», risponde Bella, e anche da qui riesco a capire che sta cercando di trattenere le lacrime di commozione.

So che è difficile per lei dover lasciare suo padre di nuovo, nonostante tutto quello che è successo, ma sono già le tre e mezza del pomeriggio, ed entro le sette dovremo essere a bordo dell’aereo che ci riporterà a New York. Immaginavo che solo poche ore con lui non le sarebbero bastate, e mi rimprovero per non aver insistito col prenotare un albergo da queste parti per concederle più tempo.

«Ci sentiamo presto, d’accordo?», le chiede conferma Charlie, quando sciolgono l’abbraccio.

«D’accordo».

Bella si volta verso di me, facendomi cenno di avvicinarmi, e lo faccio con passo incerto.

Non so spiegare bene il motivo, ma Charlie mi mette in soggezione. Sarà il suo aspetto austero donato da quei baffetti che gli coprono la bocca, nascondendo le sue espressioni, saranno i suoi occhi indagatori. Fatto sta che non riesco a sentirmi completamente a mio agio quando sono davanti a lui.

Quando l’ho confidato a Bella durante il breve giro turistico di Forks, si è quasi messa a ridermi in faccia. Ha detto che è così che Charlie si comporta sempre all’inizio con qualunque ragazzo che sia vicino a lei, e la cosa non mi ha tranquillizzato molto.

Prima che allunghi la mano per stringere quella di Charlie, è proprio quest’ultimo a parlare. «Edward, posso parlarti un minuto in privato?».

Mi irrigidisco senza volerlo, e scorgo l’occhiata scettica di Bella, mentre annuisco lentamente, titubante e anche un po’ preoccupato.

Bella e Sue lasciano la stanza subito dopo, e mi ritrovo solo nella stanza con lui, che continua a scrutarmi in modo quasi clinico.

Charlie intreccia le dita sul grembo, e ci vuole poco per immaginarselo seduto dietro una scrivania della centrale di polizia, con la sua divisa scura e il cappellino da poliziotto abbassato fin sopra gli occhi mentre interroga un criminale. Criminale che in questo momento sono io. «Da quanto conosci mia figlia, Edward?», mi chiede con calma.

Cerco di nascondergli tutta la mia perplessità per una domanda simile. «Dal primo giorno che è arrivata a New York», rispondo, ricordando quel lontano giorno davanti alla Juilliard e le sue guance imporporate mentre le aprivo la portiera del taxi per farla salire. «Ci siamo incontrati per caso».

«E siete sempre stati amici?».

«Non proprio… C’è stato un periodo in cui non ci siamo parlati per un’incomprensione», mormoro, chiedendomi se Bella abbia mai raccontato a Charlie di aver passato un’intera giornata in cella.

Charlie annuisce lentamente, senza allontanare gli occhi dai miei. «Quindi non siete mai stati altro, a parte amici?».

Mi irrigidisco, sentendomi come un imputato a un processo. «No…».

Lo sguardo di Charlie si assottiglia. «E non hai mai pensato a Bella come più di un’amica?».

Aggrotto le sopracciglia, sentendo la tensione aumentare. «Cosa vuole sapere, di preciso?», gli domando, cercando di non perdere le staffe. «Se sono un maniaco che progetta di prendersi sua figlia al momento più opportuno, o se sono solo un moccioso alla ricerca di una ragazza da conquistare e poi abbandonare quando ne ha avuto abbastanza?». Prendo un profondo respiro, imponendomi di restare calmo. «Non ho nessuna intenzione di fare del male a Bella, glielo posso giurare. Credo che sia l’unica cosa che dovrebbe interessarla in questo momento».

Charlie rimane in silenzio per un lungo momento, ma la sua espressione non cambia. Alla fine sospira, e borbotta qualcosa che non riesco a capire. «In ogni caso ti devo ringraziare», dice poi più chiaramente, lasciandomi spiazzato.

«Per cosa?», gli domando, totalmente disorientato.

«Per aver portato Bella da me», risponde. «Mi ha detto che se non l’avessi convinta tu probabilmente non sarebbe venuta fin qui».

Scuoto il capo. «Non ho fatto niente. Sono sicuro che anche senza di me sarebbe venuta a trovarla».

Charlie accenna un sorriso, e la serietà di poco fa sparisce, lasciando trasparire una sincera preoccupazione. «Come se la cava lì a New York?», mi chiede, riferendosi implicitamente a Bella.

«Benissimo, direi. È in gamba, e ha avuto molto coraggio a trasferirsi in una città che non conosce completamente da sola». Infilo le mani nelle tasche, abbassando lo sguardo. «Deve essere fiero di lei».

Lo sceriffo sorride con affetto. «Bells è sempre stata come sua madre. Nessuna delle due è portata per la vita in una cittadina come questa. Bella ha scelto di andarsene, e l’ha fatto per il suo bene, nonostante tutti gli ostacoli che avrebbe comportato farlo, per questo sono fiero di lei».

Mi avvicino di più al letto, guardando l’uomo con curiosità. «Bella mi ha detto che non ha fatto nulla per fermarla, è vero?».

Lui mi restituisce lo sguardo, e per la prima volta noto quanto i suoi occhi siano simili a quelli di Bella. «Avrei dovuto, secondo te?».

Mi stringo nelle spalle. «Non lo so. Se dice che le è dispiaciuto lasciarla andare perché non ha provato a fermarla, a farle cambiare idea?».

Charlie abbassa lo sguardo sul copriletto. «Perché non volevo impedirle di essere felice. Bella non era felice qui, l’avevo capito da parecchio tempo, ormai, e sapevo che era questione di tempo prima che se ne andasse. In questi ultimi anni Bella è cambiata, era diventata chiusa e non sorrideva quasi mai. La Bella che è ho visto oggi invece assomiglia molto di più alla bambina che conoscevo, per questo non mi pento di averla lasciata andare via. Se fosse rimasta qui avrebbe continuato ad essere infelice, e credimi, per un padre questa è la cosa peggiore; non potevo sopportare l’idea che a causa del mio egoismo mia figlia potesse essere infelice».

Annuisco scuotendo il capo. Vorrei chiedergli se ha detto queste cose anche a Bella, o perché ha deciso di dirle a me, che sono un perfetto sconosciuto per lui, ma resto in silenzio.

«Beh», dice dopo alcuni secondi di silenzio, sorridendomi, improvvisamente impacciato e a disagio, «immagino che tu debba andare. Scusami se ti ho trattenuto».

Inarco un sopracciglio, perplesso. «Di preciso cos’è che voleva scoprire? Se ero un criminale?».

Charlie ride, lasciandomi ancora più sorpreso. «Qualcosa del genere». Poi allunga la mano verso di me, e mi avvicino per stringerla. «Mi ha fatto piacere conoscerti, Edward. E spero per te che non hai davvero intenzione di fare del male a mia figlia, perché potrei anche sbatterti in prigione per questo».

Sorrido, anche se la sua minaccia mi lascia un attimo turbato. «Come vuole, Capo Swan», rispondo, ridendo nervosamente.

Lui sorride, lasciando andare la mia mano. «Spero di rivederti, Edward. A presto».

Lo saluto un’ultima volta, poi esco dalla stanza, lasciandolo solo.

Sue è a pochi passi da me, che osserva due persone ferme in mezzo al corridoio. Il mio sguardo cade subito sul ragazzo, alto e muscoloso, con la pelle scura e i capelli corti neri. Le infermiere gli passano accanto guardandolo, rapite. Sue lo osserva con un’espressione indecifrabile dipinta in volto.

Torno a fissarlo, e una strana fitta coglie il mio stomaco mentre lo osservo.

Stretta fra le braccia del ragazzo c’è Bella.

 

Bella

Appena io e Sue ci chiudiamo la porta della stanza di mio padre alle spalle provo a sbirciare attraverso le tendine che danno sulla stanza, ma tutto quello che scorgo è la schiena di Edward, e nient’altro.

«Sono proprio curiosa di sapere che genere di minacce rifilerà ad Edward. Ti dispiace se glielo chiedo quando esce?», mi chiede Sue, ridendo leggermente.

Impiego alcuni secondi a rispondere; devo ancora abituarmi all’idea di non vedere Sue come una nemica ostile, il che è difficile dopo anni passati a considerarla tale. «Minacce? Di cosa stai parlando?».

«Sai, quel genere di cose che dicono tutti i padri: “Falla soffrire, e giuro che ti castro”, e cose così», mi spiega, ridendo ancora, nervosamente.

La guardo sconcertata. «Charlie non le direbbe mai. Anche perché gli ho spiegato che io ed Edward siamo solo amici».

Lei sorride, e per la prima volta riesco a riconoscere un vero sorriso gentile. «Per ora».

Arrossisco, distogliendo lo sguardo ma non riuscendo a nascondere il sorriso che nasce involontario sulle mie labbra. Non tanto per quello che mi ha appena detto, ma per il modo in cui l’ha fatto. Sono successe tante cose oggi, perlopiù inaspettate, ed una di queste è stato il confronto con Sue, e i successivi chiarimenti. Non è stato facile restare ad ascoltarla senza intervenire per aggredirla come ho sempre fatto, e devo dire che se non fosse stato per l’intervento di Edward, che mi ricordava di mantenere la calma con un semplice gesto, probabilmente a quest’ora saremmo ancora in piena guerra. Le cose non si sono ancora sistemate del tutto, ovviamente, ma almeno sembriamo essere sulla via della rappacificazione totale.

Mentre ci incamminiamo lungo il corridoio ripenso alla discussione che abbiamo avuto appena due ore fa, mentre io ed Edward lasciavamo l’ospedale per fare un giro di Forks approfittando della pausa pranzo di Charlie.


«Bella?».

Io ed Edward ci fermiamo in mezzo al corridoio, voltandoci in direzione di Sue, appena uscita dalla camera di Charlie. Ci raggiunge velocemente, fermandosi a pochi passi da noi.

«Posso parlarti?», mi chiede, e avverto un lieve disagio nella sua voce.

Stringo le labbra, sul piede di guerra. «Veramente stiamo andando a fare un giro».

«Ci vorrà poco, te lo assicuro», ribatte, imperterrita.

Respiro profondamente, cercando di calmarmi. Via il dente, via il dolore, giusto? «Va bene».

«Ti aspetto in macchina», mi dice Edward, sorridendomi gentilmente.

Lo fermo prima che faccia anche solo un passo, prendendogli la manica della giacca. «No, resta, ti prego», gli chiedo, implorandolo con gli occhi.

Lui annuisce lievemente, e guardo Sue, in attesa.

Lei si guarda intorno, apparentemente a disagio. «Andiamo a sederci da qualche parte. Qui blocchiamo il passaggio».

Ci conduce fino ad una saletta deserta al piano terra, e ci sediamo sulle piccole sedie di plastica, in attesa.

«Vorrei chiederti scusa per come mi sono sempre comportata con te», inizia, lasciandomi senza parole. Tutto mi sarei aspettata, tranne una dichiarazione di scuse da parte di Sue. «Aver cercato di comportarmi come una madre con te è stato un errore, l’ho capito, e anche darti tutta la colpa per quello che succedeva fra Leah e Jacob è stato sbagliato».

Abbasso gli occhi al pavimento, non sapendo cosa dire, mentre le parole di mio padre di alcune vecchie discussioni avute prima del mio trasferimento tornano alla mente. «Anch’io ho sbagliato», sussurro, sentendo i sensi di colpa vivi. «Non dovevo aggredirti perché cercavi di comportarti bene con me. Ho capito che lo facevi in buona fede e non per prendere il posto di Renèe».

Lei sospira. «È stato anche per questo che dopo un po’ ho rinunciato a provarci. Vedevo che tutti i miei sforzi erano inutili e peggioravano solo la situazione, e che tu non eri intenzionata a cambiare atteggiamento. Ho persino iniziato a pensare che non volessi che io e tuo padre stessimo insieme, e che cercassi di rendermi la situazione difficile per farmelo capire. Tuo padre diceva che non era così, ma era difficile credergli quando tutto sembrava darmi ragione».

«Allora perché hai iniziato a dirmi che non dovevo uscire con Jacob?», le chiedo, stringendo le mani sulle ginocchia, cercando di mantenere la calma per non permettere alle parole di uscire come un fiume in piena.

Lei sospira. «Leah mi parla molto della sua storia con Jacob. Mi dice quasi tutto. Mi aveva anche parlato della gelosia che provava nei tuoi confronti, di quanto la disturbasse il tuo rapporto con lui, anche se solo di amicizia. Era convinta che lui ti piacesse, e che prima o poi lui l’avrebbe lasciata per te. E osservandovi era difficile credere che non ne fossi innamorata».

«È assurdo», borbotto, infuriata, «non potrei mai vedere Jacob come più di un amico. Ho sempre assicurato a Leah che non avrei mai potuto mettermi con Jake, non vedo il motivo di starmi addosso in questo modo anche da parte tua. Capisco che lei poteva non riuscire a credermi, ma speravo che almeno tu non arrivassi a pensare una cosa del genere».

Sue sospira, abbassando lo sguardo. In questo momento, vedendola così combattuta, è facile credere alle sue scuse, e pensare che tutto è stato solo un grosso malinteso. «So che è una scusa banale, ma Leah è mia figlia. Non ho mai avuto modo di parlarti personalmente di Jacob, e visto come andavano le cose fra di noi non ho mai pensato di chiederti conferma dei dubbi di Leah, così ho sempre avuto la sua versione. E dopo che mi ha raccontato di aver visto te e Jacob che vi baciavate è stato spontaneo dare tutta la colpa a te senza chiedere spiegazioni».

«È stato lui a baciarmi!», sbotto, senza riuscire a trattenermi. «Avreste dovuto tutte e due avere la decenza di chiedermi come erano andate le cose invece di addossarmi la colpa e non fare nient’altro!».

Sento la mano di Edward posarsi sul mio braccio, nel tentativo di calmarmi. Sue mi osserva dispiaciuta, ma non mi basta.

«Lo so», mormora lei. «Mi dispiace per come sono andate le cose. Non credevo che con le mie parole ti avrei fatta andare via da Forks. Quando Jacob mi ha raccontato tutto quello che è successo ho iniziato a capire di aver sbagliato, ma continuavo anche a ripetermi che era solo colpa tua se le cose fra mia figlia e il suo ragazzo non andavano per il verso giusto. Una parte di me mi ripeteva da mesi che era Jacob quello che in realtà era innamorato di te, ma non volevo dargli ascolto. Mi sono comportata da stupida, mi dispiace».

Stringo le labbra, e distolgo lo sguardo. «Sue, mi fa piacere sentire che hai capito di aver sbagliato. Anch’io l’ho fatto, e mi dispiace per averti sempre trattata come un’intrusa nella mia famiglia, non ne avevo il diritto. Ma non posso fare finta che quegli ultimi mesi a Forks non siano stati i peggiori della mia vita, e anche se non è stato solo per quello che succedeva fra di noi non posso nemmeno fingere che non siano uno dei motivi principali per cui me ne sono andata. Ci vorrà del tempo prima che possa tornare tutto normale».

Lei annuisce, accettando la mia decisione.


Sue mi tocca il braccio, strappandomi dai ricordi. La guardo interrogativa, e con un cenno del capo mi indica il corridoio davanti a noi; quando alzo lo sguardo, rimango pietrificata.

Davanti a me c’è un ragazzo alto, con i capelli neri come la pece, la pelle bronzea e il fisico muscoloso. Jacob.

___________________________

Eccoci alla fine. Come sempre l'italic significa che è un ricordo, per essere chiari :D

Quindi c'è stato il confronto con Charlie, con Sue, e adesso è arrivato Jacob.


Anche questa volta cercherò di postare il più presto possibile il prossimo, e se qualcuno segue anche l'altra mia storia (Ti Ricordi Di Me?) vi avviso anche qui che darò la precedenza a questa ma che cercherò di postare al più presto anche l'altra :)

 

Come ho detto all'inizio del capitolo, il teaser del prossimo capitolo è quello che avevo postato sul blog per questo :D


Il blog: TRA SOGNO E REALTA'.

 

Grazie mille a tutti, e a presto :*******

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Capitolo 15
*** Capitolo 14__Bloccati ***


Salveeee! :D


Lo so, se continuo ad aggiornare con tanta regolarità potrei far nevicare in pieno agosto, ma se non prendo questo periodo di libertà al volo rischio di non finire più la storia XD


Allooora. Questo capitolo è super-importante. E lo capirete leggendo XD


Non dico altro, ci leggiamo alla fine :D


Buona lettura! :D

___________________________

 

Don’t Leave Me Alone

Capitolo 14__Bloccati

Martedì 22 Dicembre

Bella

Non so quanto tempo rimango bloccata in mezzo al corridoio. Non so nemmeno di preciso quando ho iniziato a camminare verso Jacob, fermo immobile a pochi metri da me.

Una volta che siamo l’uno di fronte all’altra penso alle mille cose che vorrei dirgli, ma tutto quello che riesco a fare è sussurrare il suo nome, fissandolo smarrita.

Lui sorride, e in pochi secondi cancella le distanze fra di noi, prendendomi fra le sue braccia e stringendomi contro il suo petto. Con la guancia premuta contro il suo torace è difficile riuscire a trattenere le lacrime, ma fortunatamente ci riesco; ma soprattutto è difficile nascondere quanto in realtà mi sia mancato il contatto con lui. Non sentirlo tutti i giorni, non potergli parlare è stato l’aspetto più negativo di tutta questa situazione, il più grande rimpianto derivato dalla decisione di lasciare Forks. Nonostante sia tuttora infuriata con lui non posso fingere che non sia mai stato il mio migliore amico, la mia unica spalla su cui mi sono appoggiata in questi anni.

Chiudo gli occhi, ricacciando indietro le lacrime.

«Mi sei mancata, Bells», sussurra Jake. «Mi sei mancata da morire».

Ricambio debolmente la sua stretta. «Anche tu mi sei mancato, Jake».

Lentamente, riesco a liberarmi dal suo abbraccio stritolatore, e incontro i suoi occhi, che si spostano per un secondo alle mie spalle, verso Sue, rimasta indietro.

L’espressione di Jacob cambia improvvisamente, facendosi più seria e indagatrice. «Chi è lui?».

Mi volto immediatamente verso Sue, e al suo fianco c’è Edward. Il suo sguardo è puntato su di noi, ma non appena incrocia il mio cambia direzione.

Mi avvicino a lui, sorridendo, e alle mie spalle Jacob mi segue.

Appena sono vicino a lui, Edward alza di nuovo lo sguardo, e questa volta lo punta verso Jacob.

«Edward, lui è Jacob Black», gli dico, indicando il mio amico d’infanzia. «Jacob, lui è Edward Cullen».

L’espressione di Edward cambia, diventando tutt’a un tratto rigida, con la mascella tesa. Lui e Jacob si stringono la mano con forza, restando a scrutarsi per un lungo minuto, mentre spiego al mio vecchio amico il motivo per cui Edward si trova qui a Forks.

Quando finisco, Jacob sposta lo sguardo su di me. «Bells, possiamo parlare? Ci sono un po’ di cose che devo spiegarti e vorrei dirti…».

«Io…», mormoro, ma Edward mi interrompe.

«Veramente noi dobbiamo andare», dice, con un tono che non ammette repliche che non gli ho mai sentito usare. «Rischiamo di perdere l’aereo».

Gli occhi scuri di Jacob inchiodano quelli verdi di Edward, e improvvisamente capto fra di loro una tensione che prima non avevo sentito. «Beh, non sarebbe un problema per Bells. Ha una casa qui, può tranquillamente restare e tornare a New York domani».

I lineamenti del volto di Edward si fanno ancora più duri, e per un momento provo una strana paura. Intervengo prima che possa rispondere. «Non posso», rispondo a Jacob, stringendo una mano sul braccio di Edward. «Devo tornare a casa entro domani. Ho alcune cose da fare».

Jacob mi lancia un’occhiata ferita. «Allora concedimi cinque minuti, Bells. Solo cinque, ti prego».

Guardo Edward, cercando una conferma nel suo volto, che rimane teso allo spasmo. Non ne trovo.

Alla fine decido che cinque minuti non saranno la fine del mondo, e che non rischieremo di perdere l’aereo solo per pochi minuti. «Va bene. Cinque, mi raccomando».

Jacob annuisce, sorridendo trionfante.

Sotto le dita, sento i muscoli di Edward tendersi, rigidi. «Ti aspetto in macchina», mi dice, e prima ancora che possa fermarlo si è già liberato dalla mia presa, e sta percorrendo il corridoio in direzione degli ascensori.

Mi volto verso Jacob, cercando di nascondere il mio nervosismo improvviso. Ho come l’impressione di aver sbagliato qualcosa, di aver fatto qualcosa che ha fatto arrabbiare Edward, ma non riesco a capire cosa.

«Forza, dimmi», sprono Jacob, guardando l’orologio. «Non abbiamo molto tempo».

Lui sospira, e il sorriso sparisce dal suo viso. «Sei ancora arrabbiata con me, non è vero?».

Incrocio le braccia sotto il seno. «Non dovrei esserlo?».

Jacob infila le mani nelle tasche dei jeans, pensieroso. «Ho fatto un casino, Bells, lo so. Mi dispiace. Ma anche io dovrei essere arrabbiato, non credi? Del resto sei partita di punto in bianco e non mi hai mai chiamato».

Abbasso lo sguardo. «Credevo fosse meglio così. Avevo paura che saresti riuscito a convincermi a tornare a casa, e sapevo che sarebbe stata la cosa più sbagliata che potessi fare».

«Potevi almeno dirmi che saresti tornata a Forks oggi. Invece sono venuto a saperlo da Seth». Fa una smorfia.

«E con Leah? Come vanno le cose?», gli chiedo, lanciando un’occhiata a Sue, che parla con un’infermiera davanti alla porta di mio padre.

«Come andavano prima… più o meno. È una situazione un po’ strana…», borbotta, e non ci vuole un genio per capire che non vuole parlarne, tanto meno con me.

Appena vedo l’infermiera allontanarsi da Sue, vado verso di lei, chiedendo a Jacob di aspettare. La saluto, chiedendole di chiamarmi subito se le condizioni di Charlie dovessero peggiorare, dopodiché torno dal mio amico, e insieme ci incamminiamo verso gli ascensori, mentre lui mi chiede com’è la vita a New York, e si sorprende nello scoprire che al tempo stesso lavoro e studio.

«Wow, ci stai dando dentro sul serio», commenta, mentre siamo sull’ascensore. «Dove trovi il tempo per avere una vita e degli amici?».

«Tutto il giorno», rispondo, con una risata. «Alice è la mia coinquilina, quindi la vedo praticamente sempre. Ed Edward è stato persino il mio capo per un po’ di tempo».

«A proposito di Edward. Per caso siete…».

«No», rispondo, prima ancora che possa terminare la frase, sapendo già dove vuole andare a parare. Possibile che una ragazza non possa andare a fare visita al padre in ospedale con un amico senza che tutti li scambino per fidanzati?!

«Andiamo, Bells. Nonostante quello che è successo sono pur sempre tuo amico. Puoi dirmele queste cose», commenta, cercando di ridere, anche se noto subito che la sua è una forzatura.

«Ti ho detto che non c’è niente da dire, Jake», borbotto, sentendo le guance scaldarsi.

«Non si direbbe. Quando ci hai presentati avevo come l’impressione che volesse staccarmi la testa per il solo fatto di averti abbracciata».

Alzo gli occhi al cielo. «Ma sentiti. A me è parso il contrario. Lo guardavi come se volessi trucidarlo con lo sguardo».

Jacob resta in silenzio per un lungo istante, e quando mi volto a guardarlo lo trovo con gli occhi abbassati al pavimento. «Dimmi una cosa, Bells. C’è anche solo una speranza che torni a Forks? Non dico subito… anche fra un anno, o due… magari finiti gli studi…».

Distolgo lo sguardo, mordendomi il labbro. «Non credo, Jake. Ormai ho una vita a New York. Non riuscirei a lasciarla per tornare a quella che avevo qui».

Jacob sospira, e le porte dell’ascensore si aprono. Usciamo in silenzio, dirigendoci verso l’uscita. Appena siamo all’aperto cerco con lo sguardo la macchina a noleggio, e appoggiata ad essa trovo Edward. Il suo sguardo è puntato verso le porte, e non appena ci vede si allontana da essa, restando però lontano.

Mi fermo con Jacob vicino all’ingresso, infilando le mani nelle tasche del giubbotto, tremando per il freddo. «Devo andare», mormoro, tenendo lo sguardo basso.

Jacob sospira. «Lo so».

Si avvicina a me lentamente, e quando mi è vicino mi stringe in un abbraccio, chinandosi in avanti. Appena ricambio l’abbraccio mi solleva da terra, strappandomi un gridolino di sorpresa.

«Ti voglio bene, Bells», sussurra contro i miei capelli, stringendomi.

«Anch’io ti voglio bene, Jake», mormoro, sentendo gli occhi inumidirsi.

Quando mi rimette a terra mi libera dalla sua presa, e mi sorride lievemente. «Fatti sentire ogni tanto, okay?».

«Anche tu», rispondo. «Prometto che questa volta risponderò al telefono».

Sorride calorosamente. «Brava».

Mi dirigo verso Edward, ma un pensiero attraversa la mia mente. «Ah». Mi blocco, voltandomi nuovamente verso Jacob. «Non avevi detto che volevi dirmi qualcosa?».

La sua espressione è sorpresa, ma subito dopo torna ad essere normale. «Ah, sì? Non mi ricordo».

Inarco un sopracciglio, perplessa. «D’accordo… Ci sentiamo presto!».

Gli volto le spalle, e raggiungo Edward, che non appena gli sono accanto sorride.

«Andiamo?», mi chiede gentilmente. La rigidità di poco fa sembra solo un lontano ricordo.

Annuisco, e saliamo in auto.

 

Il viaggio in auto è stato stranamente silenzioso. Almeno da parte di Edward. Ho provato a parlargli qualche volta, a intavolare un discorso di qualunque genere, ma da parte sua ho ricevuto solo risposte brevi e vaghe, come se la sua mente fosse da qualche parte, a pensare chissà cosa. Forse non sbagliavo a pensare di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma quando ho provato a chiedergli se avevo fatto qualcosa che l’aveva offeso o fatto arrabbiare mi ha guardata come se venissi da Marte, rispondendomi con uno shoccato “Cosa ti salta in testa?”. Alla fine ho rinunciato a parlare con lui, e ho ripercorso tutta la giornata passata in ospedale, le conversazioni avute con mio padre, il confronto con Sue, e infine l’incontro con Jacob. È stata una giornata psicologicamente devastante e stancante. La mia mente è talmente stanca che sono certa che una volta in aereo mi addormenterò, e non solo per colpa del fuso orario che mi sta letteralmente mettendo KO.

Mentre percorriamo lentamente la strada che ci condurrà all’aeroporto guardo fuori dal finestrino, e mi rendo conto della neve che scende fitta dal cielo, posandosi su quella precedente, ricoprendo nuovamente le strade.

Edward guida con calma ed attenzione, evitando frenate brusche e curve a tutta velocità. Ripenso alle parole di Sue, e al pericolo di ritrovarci bloccati in aeroporto, e quando lo espongo ad Edward mi risponde che se ci troveremo a dover aspettare decideremo cosa fare. “Non vale la pena di fasciarsi la testa prima di essersela rotta”, mi ha detto.

Quando lasciamo la macchina all’autonoleggio, però, non ha ancora smesso di nevicare; anzi, sembra che la leggera nevicata si sia trasformata in una vera e propria tempesta.

Appena varchiamo le porte scorrevoli dell’ingresso ci dirigiamo verso i tabelloni, trascinandoci dietro le due piccole valigette che abbiamo portato con noi per sicurezza.

Prima ancora di arrivare a leggere i tabelloni una voce metallica richiama l’attenzione di tutte le persone nell’enorme atrio dell’aeroporto con un annuncio:

«Attenzione. A causa delle avverse condizioni meteorologiche tutti i voli sono stati cancellati. Ci scusiamo per il disagio, e vi invitiamo a pernottare presso il nostro hotel-residence a breve distanza dall’aeroporto. Tutti i voli riprenderanno regolarmente non appena le condizioni saranno favorevoli. Grazie dell’attenzione e buon proseguimento».

Guardo Edward, e credo che il suo volto non sia altro che lo specchio del mio: una maschera di disagio e abbattimento.

Ci voltiamo contemporaneamente, e senza dire niente andiamo in direzione del punto informazioni, dove si sta già formando una coda di persone nervose.

Guardo fuori dagli enormi finestroni dell’aeroporto, dove la neve scende fitta e granulosa.

Edward mi sfiora la mano, e i suoi occhi sono ora tranquilli. «Magari smetterà presto e riprenderanno i voli fra qualche ora».

«Magari», ripeto, accennando un sorriso.

Ma quando arriviamo al bancone, all’altoparlante hanno già annunciato che secondo le previsioni non smetterà di nevicare per tutta la notte, e che se tutto va bene riusciranno a sgomberare le piste e a metterle in sesto per il mattino seguente.

«Purtroppo con il ghiaccio è un inferno», commenta la donna dietro al bancone, quando Edward ed io le chiediamo maggiori informazioni. «Volete prendere una camera al nostro albergo?», ci chiede poi.

Io e lui ci scambiamo una veloce occhiata, ed alla fine è lui a rispondere anche per me. «Due singole, se possibile».

La donna lavora per un attimo al computer, poi alza gli occhi su di noi. «È disponibile solo una doppia con letto matrimoniale. È l’ultima».

Gli occhi di Edward incontrano i miei, a disagio. «Io… insomma, se per te va bene…», balbetta, a disagio come l’ho visto poche volte.

Guardo la donna, nascondendo il mio disagio. «Va bene la doppia», le dico, sorridendo appena.

Lei ci guarda per un breve istante, poi ci chiede il nome per la prenotazione, ed infine ce ne andiamo, lasciandoci alle spalle un’interminabile coda.

A quanto pare il viaggio non è ancora finito.

 

La camera d’albergo è al terzo piano di un edificio situato poco lontano dall’aeroporto, raggiungibile tranquillamente tramite alcune navette ed autobus. È lussuoso, ma non troppo, e i prezzi sono decisamente abbordabili, e immagino sia così perché sfruttato quasi totalmente da pendolari e viaggiatori che fanno scalo con l’aereo in città e restano una notte soltanto.

Quando io ed Edward siamo entrati nell’atrio abbiamo subito notato la grande quantità di gente seduta alle poltroncine della grande sala, intente a leggere giornali o a chiacchierare o parlare al telefono. Ci sono anche molte famiglie, probabilmente in viaggio come noi per andare a trovare qualche parente per le festività o semplicemente per concedersi una vacanza. Il cartello posto sul bancone della reception indica che le camere sono ormai al completo, e non c’è possibilità di alloggio. Ancora una volta mi ripeto che è stato un bene accettare la camera doppia all’aeroporto, e scaccio il pensiero che dovrò dividere il letto con Edward. Solo pensarlo mi fa agitare e mi rende nervosa come poche volte lo sono stata in vita mia.

Raggiungo con Edward il centro della nostra camera, e lasciamo le valigie in un angolo. Mi siedo sullo spazioso letto matrimoniale, sdraiandomi con i piedi a penzoloni, stanca di questa giornata che sembra non poter avere fine.

Edward guarda il suo orologio da polso, accigliato. «Sono quasi le sette. Vuoi andare fuori a cena?».

Mi passo il braccio sul viso, trattenendo uno sbadiglio. «Veramente io mi accontenterei anche del ristorante dell’albergo. Sono troppo stanca per uscire».

«Ristorante? Hai visto che c’è un ristorante qua sotto?», mi chiede Edward, perplesso.

Sposto il braccio dal viso, e lo guardo confusa. «Non hanno un bar o qualcosa del genere?».

Edward sorride. «Beh, hanno il bar, certo, ma non credo che possa essere considerato un ristorante o niente di simile».

«Vuoi dire che non fanno da mangiare?», chiedo, sconvolta.

«Non credo proprio. Se ci pensi la donna alla reception ci ha anche lasciato una lista di ristoranti e fast-food in zona appunto per questo motivo».

Faccio una smorfia. «Non l’ho ascoltata molto a dire il vero».

«L’ho notato», commenta, ridendo. Si inginocchia ad aprire la sua valigia, e inizia a frugare al suo interno. «Se non vuoi uscire posso andare in qualche fast-food e portarti qualcosa».

Mi metto a sedere, sconfitta. «No, non fa niente, usciamo. Dove andiamo?».

Edward mi passa la lista di posti in cui mangiare nelle vicinanze che gli ha consegnato la receptionist, poi si dirige verso il bagno con l’occorrente per cambiarsi.

«Scegli pure tu. Io intanto faccio una doccia».

 

Quando rientriamo dalla cena sono le dieci passate, e l’atrio dell’hotel è quasi deserto. Mentre saliamo in camera, finalmente a stomaco pieno, la familiare ansia di poche ore fa torna a disturbarmi, scacciando il sonno. Dovrò dormire nella stessa camera di Edward. Divideremo lo stesso letto.

Sento le guance infiammarsi, e volto lo sguardo per impedire ad Edward di notarlo, o sperando che il colore sulle mie gote venga scambiato per un eccesso di birra durante la cena. Alla fine siamo andati a mangiare in un fast-food poco lontano, e dato che nessuno dei due doveva guidare abbiamo deciso di scartare le bibite analcoliche per concederci una birra. Inutile dire che vista la mia poca resistenza all’alcol - la serata di domenica ne è la prova - mi sento già con la testa più leggera del solito, e unita alla stanchezza di questa giornata formata da 6 ore in più del normale crea un mix letale per i miei nervi.

Edward chiude la porta della camera a chiave e si avvicina al tavolino, dove inizia a lasciare il cellulare, il portafoglio e le monete che tiene in tasca, mentre io tengo lo sguardo basso e mi avvicino lentamente al letto matrimoniale, poco più grande di un letto a una piazza e mezza. Ci staremmo entrambi tranquillamente senza toccarci, rimanendo immobili, ma conoscendomi so che la mattina dopo mi ritroverò da tutt’altra parte rispetto dove mi addormenterò; di notte mi rigiro nel letto tantissime volte, e a volte rischio perfino di cadere - cosa che a volte faccio.

«Bella…».

Edward mi strappa dai miei pensieri, e solo adesso mi rendo conto di essere rimasta immobile a fissare il letto, sicuramente con un’espressione che tradiva tutti i miei pensieri.

Lui sorride lievemente, piegando la testa. «Se preferisci posso dormire per terra, per me non c’è problema».

Arrossisco. «Cosa? No, no, non dire sciocchezze. Non ho nessun problema».

Edward inarca un sopracciglio, scrutandomi attentamente. «Sicura?».

Mi dirigo verso la mia valigia, e tiro fuori l’occorrente per cambiarmi per la notte. «Sicurissima», rispondo, nascondendogli il mio viso.

Quando mi rialzo Edward è ancora fermo a guardarmi, con un’espressione preoccupata in volto.

«Davvero, Edward, non c’è problema», gli dico prima di entrare in bagno, sperando di riuscire a placare le sue preoccupazioni.

Lui scuote il capo, e sorride lievemente. «Va bene».

Entro in bagno, e quando mi specchio sopra il lavandino per poco non mi prende un infarto. Le due pesanti borse sotto i miei occhi sono ben visibili nonostante il correttore, e la mia pelle è più pallida del normale. Fortunatamente ho fatto una doccia prima di uscire a cena, o adesso sarei messa anche peggio, e di certo non avrei mai la forza di lavarmi ora come ora.

Dopo essermi cambiata esco dal bagno, e mentre Edward entra al mio posto vado verso il letto, iniziando a tirare le coperte e a sedermi. Ma mi rendo subito conto che l’agitazione è tale da lasciarmi con gli occhi spalancati nonostante la stanchezza che provo. Non riuscirò mai ad addormentarmi in queste condizioni.

Balzo di nuovo in piedi, e raggiungo la mia borsa appoggiata su una sedia. Tiro fuori il libro che stavo leggendo in aereo, e torno a sdraiarmi giusto in tempo per vedere Edward uscire dal bagno. Indossa un paio di pantaloni da ginnastica neri, e una maglietta bianca a maniche corte, proprio come l’altra notte a casa sua.

«A che ora pensi partirà l’aereo domani?», gli chiedo mentre sistema le sue cose su una sedia.

«Credo prima delle dieci. Il nostro volo l’hanno fissato per le nove, sperando che finisca presto di nevicare», mi risponde.

Si avvicina al letto, e si infila sotto le coperte, lasciando fra di noi all’incirca mezzo metro di spazio. Abbasso lo sguardo sulla copertina del libro, mordicchiandomi il labbro e cercando di non guardarlo.

Cosa penserebbe Tanya sapendo che il suo ragazzo sta per dormire con un’altra ragazza nello stesso letto? Se fossi in lei sarei infuriata, e scommetto che le lo sarebbe il triplo. Ora che ci penso, però, ho notato che Edward non ha mai telefonato a Tanya. Siamo stati quasi tutto il tempo insieme, eppure non l’ho mai visto telefonarle. Tutte le chiamate erano dirette ad Esme, per avvisarla che eravamo atterrati o un semplice messaggio per dirle che non saremmo rientrati a New York per la notte, in quanto bloccati all’aeroporto. Forse le ha telefonato mentre ero con Jacob o Charlie.

Scuoto il capo.

Edward si sdraia a pancia in sù, mentre io rimango con la schiena appoggiata ai cuscini. Accendo la lampada sul comodino, e spengo le luci principali.

«Ti dispiace se leggo un po’?», gli chiedo timidamente, sapendo di risultare fuori di testa alle sue orecchie.

Lui inarca un sopracciglio, stupito. «Non sei stanca?».

«Sì, ma volevo finire un capitolo…», mormoro, abbassando gli occhi affinché non possa leggere la menzogna in essi.

«Fai pure», mi risponde, scrollando le spalle e guardando il soffitto, «non mi dà fastidio la luce».

Sorrido. «Grazie».

Mi sdraio nel letto, tirando a me le coperte e voltandomi fino a dare le spalle ad Edward, sperando così di rilassarmi prima. Apro il libro nel punto in cui avevo infilato il segnalibro e inizio a leggere, sperando che la tensione e l’agitazione mi abbandonino presto per far tornare il sonno.

Ma dopo nemmeno una pagina mi ritrovo con la mente altrove, troppo stanca psicologicamente per potermi concentrare sul racconto.

«Edward?», lo chiamo, smettendo di leggere.

«Hm?», lo sento rispondere alle mie spalle.

«Di cosa voleva parlarti mio padre prima che ce ne andassimo?», gli chiedo, curiosa.

«Di niente di particolare…».

Chiudo il libro e lo appoggio sul comodino, poi mi rigiro nel letto, fino ad arrivare sul fianco opposto per poter osservare il suo profilo; i suoi occhi sono puntati sul soffitto, spalancati. Rigirandomi ho accorciato ancora di più la distanza fra di noi.

«Sarebbe?», lo sprono.

«Non stavi leggendo?», mi chiede, alzando gli occhi al cielo.

«Sono troppo stanca per leggere», ribatto, per rendermi conto l’istante dopo aver appena commesso una gaffe.

Edward sorride, ma non dice nulla a riguardo. «Voleva sapere come te la cavi a New York».

«Tutto qui?», gli chiedo, sospettosa. «Me l’ha chiesto quando ci siamo parlati, perché avrebbe dovuto chiederlo anche a te? Non si fidava?».

«Probabilmente voleva una conferma da qualcuno che non fossi tu», ipotizza.

«Magari sperava che gli dicessi che a New York sta andando tutto a rotoli, così avrebbe la scusa per convincermi a tornare a Forks e non vendere la vecchia casa», mormoro, ridendo nervosamente. Non so proprio come fare con la casa. Se da una parte sono più che pronta a dare il via libera a mio padre per venderla, dall’altra ci sono troppo legata sentimentalmente; del resto è l’unica casa che io abbia mai avuto fino a pochi mesi fa, e pensare di lasciarla a qualcuno che non conosco fa male.

«Ti vuole troppo bene per costringerti a fare qualcosa che ti farebbe soffrire», mormora Edward, con una serietà che non mi aspettavo. «Credo che piuttosto sarebbe pronto ad aiutarti in ogni modo possibile per farti restare a New York, se è quello che desideri».

«Come fai ad essere sicuro che non lo farebbe solo per sbarazzarsi di me?», gli chiedo, incuriosita da tutta la sua sicurezza.

«Perché mi ricorda molto Esme e Carlisle sotto questo punto di vista. E perché è stato lui a dirmelo».

Edward volta il capo, e i nostri occhi si incontrano. Restiamo entrambi in silenzio per un lungo minuto, mentre penso a cosa potrebbero essersi detti per giungere ad un simile argomento mentre parlavano da soli.

Abbasso gli occhi, e sorrido, sentendomi triste. «Ho come l’impressione che abbia parlato di più tu con mio padre che me».

Edward scuote il capo. «Appunto, hai l’impressione. In realtà non è stata una conversazione molto corposa».

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Eppure sei riuscito a strappargli più cose di me. Non sono mai riuscita a parlare molto con Charlie, e oggi sono a malapena riuscita a risolvere in parte la questione riguardo Sue. Non riesco mai a dire quello che vorrei».

Edward ruota sul fianco, ritrovandosi faccia a faccia con me, i nostri corpi separati solo da pochi centimetri ora.

«È stato difficile parlargli di nuovo?», mi domanda, carezzevole.

«Un po’», ammetto. «Lo è sempre stato, ma questa volta ancora di più. Era come se non ci conoscessimo quasi più. Immagino sia uno degli effetti negativi della lontananza, oltre a tutto quello che c’è sempre stato…», mormoro, distogliendo lo sguardo.

«Vuoi dire che anche prima che partissi non vi parlavate molto?».

«Già», confermo, amaramente. «Ho sempre avuto problemi a rapportarmi con lui. A volte mi chiedo se c’è qualcosa di sbagliato in me… Non lo so come spiegarlo… è come se non mi sentissi al mio posto con lui e Sue», gli confesso, vergognandomi per questa verità mai rivelata a nessuno, nemmeno Alice.

«Io ti capisco», mormora, «non devi spiegarmi niente».

«Come fai a capirmi? Hai una famiglia perfetta», sussurro, provando un briciolo di invidia per i Cullen e la loro unione.

Edward fa un sorriso malinconico. «Nessuna famiglia è perfetta. Tutte hanno i loro problemi».

«Anche la famiglia Cullen?».

«Soprattutto la famiglia Cullen. Non è da tutti fare un dibattito in piena regola per scegliere che albero comprare per il salotto a casa dei miei».

La sua battuta riesce a farmi ridere, mentre ricordiamo entrambi il giorno di inizio Dicembre, quando Alice ha portato tutta la famiglia Cullen e me in un vivaio e ha iniziato una discussione durata più di un’ora sull’albero da comprare. Emmett ne voleva uno con tantissimi rami da decorare, Alice uno alto e slanciato, con i rami perfetti, Esme e Carlisle uno che non fosse troppo ingombrante, mentre Edward ed io rimanevamo in silenzio e prendevamo nota degli alberi selezionati da Alice, non molto partecipi. Alla fine siamo riusciti a trovarne uno che potesse rispondere alle esigenze di tutti quanti, scampando per un pelo alla votazione che la mia amica voleva indire per la scelta dell’albero migliore.

Quando le risate si spengono, però, il retrogusto amaro di questo ricordo si fa sentire. «È questo il bello della tua famiglia», sussurro, sorridendo timidamente. «Anche le liti e i dibattiti diventano bei ricordi perché non manca mai l’affetto, e sapete sempre che in un modo o nell’altro nel giro di poche ore farete di nuovo pace. Siete uniti come una vera famiglia».

La mano di Edward trova la mia guancia, e il suo viso si avvicina ancora di più al mio, tanto che quando parla riesco a sentire il suo respiro sulle labbra. «Sono sicuro che presto si sistemerà tutto anche nella tua famiglia. Devi solo avere pazienza».

Mi muovo sotto le coperte, fino ad arrivare a posare la mano sul suo braccio nudo. La leggera peluria bionda mi solletica le dita, morbida e sottile come fili invisibili di seta.

«Credi?», chiedo, abbassando lo sguardo e fissando lo sguardo sul colletto della sua maglietta.

«Ne sono sicuro», risponde senza esitare.

Quando rialzo lo sguardo mi rendo conto di quanto siamo vicini. Pochi centimetri separano i nostri visi, ormai ai limiti dei nostri cuscini, talmente vicini da formarne uno solo.

I nostri occhi si incontrano, e un brivido corre lungo la mia schiena.

Dopo alcuni secondi Edward si avvicina ancora di più, unendo le nostre fronti, ed io rimango immobile, pietrificata.

«Bella…», sussurra, con la fronte premuta contro la mia. Il suo respiro mi sfiora le labbra in una dolce carezza. «Posso…».

Prima di terminare la frase, inclina leggermente il viso, e le sue labbra incontrano le mie, e per un istante sono certa di essere sul punto di svenire. Trattengo il respiro, e chiudo gli occhi con forza, stringendo la presa sul suo braccio.

Tengo gli occhi chiusi, nel timore che da un secondo all’altro si allontanerà, capendo di aver appena commesso un errore madornale; ma non accade. Rilasso la presa, e le sue labbra si muovono piano sulle mie, accarezzandole con lentezza ed incertezza.

Ma il momento dopo capisco che sono io a sbagliare.

«Aspetta», sussurro, allontanandomi dalle sue labbra. I suoi occhi incontrano i miei, pieni di insicurezza. «Cosa stiamo facendo?», chiedo, senza riuscire a trattenere l’angoscia. «T-Tu… tu e Tanya… non possiamo… io e te…».

Edward si allontana in fretta, con gli occhi sgranati. «Io e Tanya?», dice di rimando, confuso. «Noi non…». Si passa una mano sul viso, coprendosi gli occhi.

Non termina la frase. Si mette a sedere e scende dal letto, raggiungendo la sedia su cui sono poggiati i suoi vestiti, che prende in mano. Si chiude in bagno senza dire altro, prima che possa fare qualcosa, e quando esce da lì è vestito di tutto punto.

Balzo a sedere, allarmata. «Dove stai andando?».

Si ferma solo per prendere la giacca e la chiave della stanza, ed i suoi occhi evitano intenzionalmente i miei, schivi. «Vado un attimo giù». Raggiunge la porta, ma prima di aprirla si volta a guardarmi per la prima volta da quando si è alzato dal letto. «Torno presto, te lo prometto».

E detto questo se ne va, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciandomi sola.

___________________________


Giù i forconi, le pistole, e tutte le armi, please.


Ricordate che ho detto che sarebbero stati giorni intensi, ma anche che lo sarebbero stati in maniera positiva, perciò abbiate fiducia ù.ù


Visto il finale abbastanza 'sadico' posterò prestissimo il prossimo capitolo (è già metà scritto, no panic :D).


Secondo voi cosa succederà adesso? Hanno fatto un altro casino Edward e Bella? XD


Il prossimo capitolo si intitolerà 'Ciò che siamo', e riprenderà da dove è finito questo ;)


Per un piccolo spoiler questo è il blog: TRA SOGNO E REALTA'.


A presto! :*********

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15__Ciò che siamo ***


Ciaooo! :D

Un po' in ritardo, ma abbastanza puntuale XD Ho avuto un po' di cose da fare, e non ho fatto in tempo a finire prima il capitolo, sorry >.<


Comunque, vi ricordo che questo capitolo inizia lì dove è finito lo scorso, quindi se volete vi consiglio di rileggere le ultime righe dello scorso, tanto per rinfrescarvi la memoria :D


Buona lettura! :D

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 15__Ciò che siamo

Martedì 22 Dicembre

Edward

Rimanere fuori al freddo della notte è un toccasana per i miei nervi tesi allo spasmo e il mio corpo bruciante. Rimango per dieci minuti - forse anche di più - seduto su una panchina vicino all’ingresso dell’hotel, riparato dalla tempesta di neve dal tetto che si prolunga fin sopra la fermata dell’autobus per l’aeroporto a pochi metri da qui. Quando le mani iniziano a tremare per il gelo le infilo nelle tasche del giubbotto, ma rimango seduto in attesa. In attesa che il mio cuore smetta di martellare come un trapano elettrico, in attesa che il bisogno di tornare in camera a stringere Bella e baciarla fino a rimanere senza fiato si spenga così come si è improvvisamente acceso. Chiudo gli occhi, cercando di concentrarmi per calmarmi, ma facendo così non faccio altro che ricordare la morbidezza delle sue labbra e della sua pelle, e peggioro la situazione.

Ho rovinato tutto. Ho mandato in cenere tutti i progressi che abbiamo fatto da quel giorno a casa sua, quando abbiamo deciso di provare ad essere amici.

E tutto perché non sono riuscito a controllarmi. La vicinanza con Bella mi sta procurando sensazioni che fino a ieri non mi ero reso conto di provare, e tutta la fatica fatta per mantenere sotto controllo i miei impulsi da alcune settimane si sta rivelando sprecata. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che ripetermi che dovevo essere solo un amico per lei, che lei è troppo importante e si merita di meglio di uno come me.

Ma le parole di Tanya di ieri pomeriggio, e le insinuazioni di Sue e Charlie di oggi hanno riportato a galla pensieri che avevo faticosamente riposto in un angolo della mia mente. E hanno risvegliato anche una parte che da anni non credevo di sentire più: la parte gelosa.

La prima volta che sono stato geloso è stato ai tempi del liceo, quando ho iniziato ad uscire con Tanya. A quei tempi ero possessivo con lei, e non sapevo ancora che non era un tipo proprio fedele. Credevo che stesse con me perché era innamorata, invece ho scoperto poco tempo dopo, in seguito ad una mia scenata di gelosia, che non avevo alcuna esclusiva su di lei, e che se volevo continuare a stare con lei avrei dovuto accantonare la gelosia, tutt’altro che piacevole per lei. Da quel momento non ho mai più provato gelosia. Né per lei, né per nessun altro. Mi sono convinto che fosse un sentimento stupido quanto inutile, e non è più tornato a galla. Ma oggi, vedendo Bella con quel Jacob, ho provato quella familiare morsa. Avevo già sentito parlare di lui da Bella, eppure trovarmelo davanti, e vederlo mentre stringeva Bella come ho sempre desiderato fare io, ma non ho mai avuto il coraggio, mi ha fatto male. Mi ha stretto lo stomaco, e mi ha accecato per un lungo istante.

Perfino quando Bella ha deciso di restare a parlare con lui nonostante le avessi detto che avremmo dovuto andarcene, mi son lasciato trascinare dalla gelosia. Mi sono quasi arrabbiato con lei per aver scelto di restare con lui anziché venire con me. Cosa del tutto fuori luogo, dato che sapevo quanto ci tenesse a rivederlo. È pur sempre il suo migliore amico.

Mi passo la mano sul viso, stravolto. Cosa penserà adesso, Bella? Che sono un idiota?

Con che faccia mi posso ripresentare davanti a lei?

Fra l’altro non le ho nemmeno detto cosa è successo ieri, quindi mi crederà un essere meschino.

Respiro profondamente, lasciando che l’aria fredda mi schiarisca le idee e sperando che il silenzio mi porti consiglio su come chiarire a Bella la situazione non appena sarò rientrato in camera.

 

Bella

Non so quanto tempo rimango immobile a fissare la porta chiusa, avvolta dalla tenue luce dell’abat-jour, ma a un certo punto solo una consapevolezza prende il sopravvento: lui non farà dietro-front tanto presto, non cambierà idea a metà corridoio e tornerà a rassicurarmi, non questa volta.

Un nodo all’altezza della gola soffoca il mio respiro, e un gemito simile a un singhiozzo lascia le mie labbra. Porto una mano sulla bocca e mi sdraio nuovamente, mentre un dolore nuovo e acuto prende forma dal mio petto, contagiando la gola e lo stomaco, stretto in una morsa fastidiosa. Prima ancora che possa rendermene conto le lacrime hanno già iniziato a formarsi agli angoli degli occhi, scivolando lungo le mie tempie e bagnandomi i capelli.

Che cosa ho fatto? Che cosa abbiamo fatto?

Ci penso e ci ripenso, mentre le lacrime scivolano lungo il viso, ma non riesco a trovare una risposta.

Perché mi ha baciato se poi è scappato?

Mi volto su un fianco, dando le spalle alla porta, stringendo le labbra e allontanando la mano dalla bocca per stringermi.

Cosa sarebbe successo se non l’avessi fermato?

Chiudo gli occhi, sperando di fermare le lacrime, mentre un pensiero continua a ripetersi nella mia testa da quando Edward ha lasciato la stanza: tutto è di nuovo rovinato.

 

Il movimento del letto che affonda dalla parte opposta alla mia mi risveglia immediatamente dalla sorta di dormiveglia in cui sono caduta senza nemmeno volerlo. Ho provato a rimanere sveglia, ma alla fine la fatica di questa lunga e interminabile giornata ha preso il sopravvento, accompagnata dalle lacrime.

Passo velocemente una mano sugli occhi, sperando che non siano rimaste tracce delle lacrime di poco fa, poi mi volto lentamente, ritrovandomi a pancia in su.

Edward è seduto sul bordo del letto, e il profilo delle sue spalle è rischiarato dalla luce ancora accesa dell’abat-jour. Indossa ancora la camicia e i jeans.

«Edward…», lo chiamo, con la voce roca impastata dal sonno e dal pianto.

«Scusami», dice sottovoce, senza voltarsi. «Non intendevo svegliarti».

Mi alzo a sedere, con la gola secca. «Perché sei andato via?», chiedo debolmente.

«Avevo bisogno di schiarirmi le idee», risponde, sempre a voce bassa e senza guardarmi. «Non pensavo di metterci così tanto, scusa».

Da qui non riesco a vedere il suo volto, e non saprei dire qual è il suo umore, ma non mi sembra arrabbiato.

«Smettila di scusarti», ribatto stizzita, facendolo voltare verso di me. Faccio una pausa, cercando di trovare un modo per chiedergli quello che voglio. «Quello che è successo prima… perché? Tanya non-».

«Non si tratta di Tanya», mi interrompe. «Io e lei… non stiamo più insieme. Ci siamo lasciati».

Trattengo il fiato per alcuni secondi, aspettandomi che da un momento all’altro mi dica che è solo una scusa per farmi sentire meno in colpa.

«Quando?», sussurro.

«Lunedì pomeriggio, prima che venissi davanti la tua scuola».

«E perché non me l’hai detto?», chiedo, senza rabbia, solo curiosità.

Edward abbassa lo sguardo, a disagio. «Perché non volevo che pensassi che te lo dicevo per qualche motivo particolare… che mi aspettassi qualcosa dopo avertelo detto».

Mi irrigidisco, sentendo il cuore smettere di battere per alcuni secondi. Intende dire che aveva paura che mi aspettassi di diventare la sua ragazza sapendolo libero? Ha capito che provo qualcosa per lui?

«Siamo amici», dico lentamente, cercando di sorridere nonostante la tensione e la paura di non essere riuscita a nascondere i miei sentimenti. «Puoi dirmi qualsiasi cosa, dovresti saperlo».

Gli occhi di Edward incontrano i miei per un lungo istante. «Siamo amici?», replica lui, lasciandomi spiazzata.

«Non lo siamo, forse?», chiedo, improvvisamente agitata. Il suo sguardo incatena il mio, e l’improvvisa elettricità a fior di pelle mi attraversa da capo a piedi. È come se la temperatura della stanza si fosse alzata improvvisamente di una decina di gradi, surriscaldandomi.

Edward si sposta indietro sul letto, arrivando vicino a me, e quando i nostri visi sono ormai vicini mi rendo conto di avere il respiro pesante ed irregolare, come se ogni secondo che passa corrispondesse ad un passo in una corsa.

«Siamo amici», ripete, questa volta come un’affermazione. «Eppure ti ho baciata poco fa», sussurra, provocandomi l’ennesima scarica che mi attraversa da capo a piedi. «Non credo che sia una cosa che fanno gli amici», conclude a voce bassissima, in un sussurro, come se avesse paura delle sue stesse parole.

«Forse… forse ti manca Tanya», ipotizzo; per quanto sia doloroso pensare una simile eventualità è anche l’unica che può giustificare un gesto simile. «Vi siete lasciati da solo un giorno… è comprensibile».

Ma gli occhi di Edward rimangono immobili, fissi nei miei, e dietro quel verde smeraldo non c’è altro che l’indecifrabile. Vorrei sapere a cosa sta pensando, vorrei sapere se ha scoperto che non voglio essere solo un’amica per lui. Ma non ho il coraggio di chiederglielo, non quando è tanto vicino che il suo profumo mi stuzzica l’olfatto.

«Ci ho pensato anch’io», ammette, dopo alcuni secondi di silenzio. «Ma non è questo».

Alza una mano, e l’espressione sul suo viso diviene tutt’a un tratto concentrata, come se muoversi richiedesse un enorme sforzo. Posa il palmo contro la mia guancia, ma i suoi occhi non lasciano i miei nemmeno per un secondo.

«Toccandoti… non riesco a pensare a Tanya neanche per un istante», sussurra.

Dischiudo le labbra per dire qualcosa, ma la sua mano si muove lentamente sulla mia pelle, arrivando al collo, mentre le parole lasciano le sue labbra con un fiume in piena. «Sfiorandoti non riesco nemmeno a pensare ad altro se non a quanto vorrei… a quanto vorrei poterti baciare almeno una volta senza avere paura di distruggere quello che stiamo cercando di costruire insieme».

«Edward», sussurro, senza fiato.

«Non so se voglio essere solo un amico, Bella. Non so che cosa devo fare per non rovinare tutto come sempre».

Un brivido corre lungo la mia schiena, e mai come ora il contatto con la mano di Edward, ancora sul mio collo, sembra incandescente. Poso la mano sul suo braccio teso, cercando di sorridere. «Neanche io», sussurro. «Anch’io ho sempre paura di rovinare tutto, Edward. Per questo… per questo credo che sia troppo presto», sussurro, ringraziando la mia voce ferma. «Credo… sia meglio restare amici. Almeno finché non saremo sicuri di voler fare quel passo».

Edward si piega in avanti, appoggiando la fronte sulla mia spalla, allacciando le braccia intorno alla mia vita. Stringo le mie al suo collo, chiudendo gli occhi con forza per impedire alle lacrime di scendere lungo le guance. E non saprei dire se sono lacrime di gioia o delusione.

Dopo alcuni minuti di silenzio Edward solleva il capo, poggiando la guancia contro la mia.

«Bella?», mi chiama, con un’insicurezza che mai avrei pensato di potergli leggere nella voce. «Noi possiamo essere amici? Possiamo riuscirci?».

Volto leggermente il capo nella sua direzione, premendo la fronte contro la sua tempia e intrecciando le dita ai suoi capelli. «Possiamo provarci», sussurro solamente.

Edward sospira, mentre stringo i suoi capelli, tenendo i nostri visi vicini.

Così vicini da poterci baciare, ma abbastanza lontani da impedire alle nostre labbra di toccarsi a vicenda. Così vicini da poter essere considerati amanti, ma abbastanza lontani da poter apparire come due amici. Come in realtà siamo.

Non so quanto tempo trascorriamo così, con le sue mani che mi accarezzano gentili la schiena, e il suo respiro a cullarmi; so solo che a un certo punto tenere gli occhi aperti è troppo difficile. Le palpebre si abbassano e mi addormento, avvolta dal profumo di Edward.

 

Mercoledì 23 Dicembre

Svegliarmi questa mattina è stata una delle cose più difficili che abbia fatto finora. La sveglia è suonata che erano solo le sei e mezza, ed era come se mi fossi appena addormentata. Edward aveva chiesto alla reception dell’albergo di essere svegliato a quell’ora appositamente per riuscire ad arrivare in aeroporto in tempo per prendere il primo aereo delle dieci diretto a New York, e ammetto che sono stata proprio io a convincerlo a prenotare quello; credevo che svegliarsi presto sarebbe stato meno traumatico, e non mi sono mai sbagliata tanto in vita mia. È stato molto più che traumatico.

Quando ho aperto gli occhi mi trovavo stesa quasi al centro del letto, con il piumone che arrivava al mento. Non so come ho fatto a ritrovarmi lì, dato che l’ultima cosa che ricordo sono le braccia di Edward intorno a me; probabilmente è stato lui a sdraiarmi e a coprirmi dopo essersi accorto che mi ero addormentata.

Ora ci troviamo in aereo, e sono passate solo due ore da quando siamo partiti. Se non mi addormento, credo che prima di arrivare a casa collasserò.

Mi muovo inquieta sul sedile, cercando una posizione anche solo lontanamente confortevole.

«Sicura di essere comoda?», mi chiede per la seconda volta Edward, mentre cerco di sistemarmi senza urtare né lui né la donna alla mia sinistra.

Sono intontita, e sento tutti i muscoli intorpiditi, per non parlare del male al collo. La dormita di questa notte non è bastata per farmi riprendere dall’alzataccia di ieri, e il fatto che abbia dormito pochissimo mi ha fatto crollare pochi minuti dopo il decollo.

In poche parole, sono uno zombie ambulante.

E dopo che la passeggera al mio fianco mi ha svegliata per passare per andare in bagno non riesco a ritrovare la posizione per dormire senza che la testa mi caschi in avanti o di lato ogni cinque secondi svegliandomi.

«Sì, non preoccuparti», rispondo ad Edward, cercando di sorridere.

Lui mi scruta per un breve istante, poi solleva il bracciolo fra i nostri sedili, ritirandolo completamente. Poi mi sorride. «Dai, appoggiati a me».

Aggrotto le sopracciglia, sentendo le guance imporporarsi. «Non serve…».

Lui sorride sghembo. «Significa che hai trovato un modo per tenere la testa in equilibrio mentre dormi?».

Incrocio le braccia sotto il seno, imbronciata. «Esatto», ribatto, per non dargliela vinta. «Ed è un modo che non richiede la tua partecipazione, fra l’altro».

Edward continua a sorridere, per nulla turbato. «Ah. Quindi il problema è che non vuoi starmi troppo vicino, ho indovinato?».

Mi zittisco, mordendomi con forza il labbro inferiore e maledicendomi per aver parlato senza pensare.

Edward si china verso di me, e i suoi occhi si incatenano ai miei. Non sembra arrabbiato, né deluso. «Cosa hai paura che faccia, Bella?», mi chiede a voce bassa, avvicinandosi pericolosamente al mio viso.

Con la punta delle dita mi sfiora la guancia, mentre il pollice traccia il mio labbro inferiore, liberandolo dalla presa dei miei denti. «Hai paura che provi a baciarti di nuovo?».

«Lo faresti?», sussurro, sentendo il mio cuore battere impazzito. Le parole lasciano le mie labbra senza che riesca a fermarle.

Edward avvicina di più il viso al mio, intrappolandomi il mento fra le dita. «Adesso?».

Sto per rispondere, quando si china in avanti… e spalanco gli occhi, ritrovando davanti a me nient’altro che il retro di un sedile.

Il mio respiro è affannoso, la gola secca, e le guance incandescenti. Ho la testa appoggiata sulla spalla di Edward, e appena me ne rendo conto mi alzo, rimettendomi dritta.

«Ehi, ti sei già svegliata?», mi chiede, sorpreso. «Dormi ancora, mancano quattro ore all’arrivo».

Stavo… stavo solo sognando?

I miei occhi scivolano in basso, fino a trovare le sue labbra. Un’altra vampata di caldo mi assale, e mi alzo in piedi repentinamente, slacciando abilmente la cintura di sicurezza.

Edward mi osserva perplesso e preoccupato. «Cosa c’è?».

«Devo andare in bagno», gli dico semplicemente, senza riuscire a guardarlo.

Lui non commenta, e si alza in piedi per lasciarmi passare, dopodiché percorro a grandi falcate il corridoio dell’aereo fino al bagno, fortunatamente libero.

Chiudo la porta alle mie spalle, e apro il getto d’acqua del piccolo rubinetto, appoggiandomi con entrambe le mani al davanzale. Guardo l’acqua scorrere, cercando di respirare profondamente e regolarmente per calmare il battito impazzito del mio cuore. Il mio riflesso allo specchio mostra una ragazza con i capelli scompigliati e resi elettrici dal tessuto sintetico dei sedili, le guance arrossate, e due brutte occhiaie sotto un paio d’occhi lucidi. Scuoto il capo, e mi sciacquo il viso con l’acqua fredda, usando poi le dita bagnate per cercare di sistemare il disastro che ho fra i capelli. Quando ho finito, le guance sono tornate quasi completamente del solito colore, e il mio battito cardiaco è nuovamente regolare.

Ripenso agli ultimi cinque minuti, cercando in tutti i modi di capire quando mi sono addormentata, ma non ci riesco. Sono talmente stravolta da non riuscire più a distinguere la realtà dai sogni?

Apro la porta del bagno per uscire, tranquillizzata dal fatto di essere riuscita a sistemarmi, quando capisco che tutti i miei sforzi non sono serviti a nulla. Perché davanti a me, appoggiato contro la parete, c’è Edward. Le guance tornano bollenti, e abbasso lo sguardo sperando che non lo noti.

«Ehi», dico, sorpresa. «Devi andare in bagno?».

Edward scuote il capo, e rimane fermo nello stretto corridoio, aspettando che mi avvicini a lui. «Ero preoccupato. Sei scappata via all’improvviso, pensavo stessi male».

Apro la bocca, cercando una scusa, ma non ne trovo nessuna. «No… non stavo male…».

Lui annuisce, silenzioso. «È per quello che ho fatto e ho detto ieri sera, vero?», mi chiede dopo alcuni secondi. «È per quello che sei così a disagio».

Mi irrigidisco, e mi chiedo se poco fa ho persino parlato nel sonno, rivelandogli qualcosa. «N-No», balbetto, arrossendo.

Edward mi lancia uno sguardo che mi fa capire che sappiamo benissimo entrambi che invece è proprio così. È da quando ci siamo svegliati questa mattina che faccio quasi fatica a guardarlo negli occhi, e ogni volta che ci sfioriamo mi allontano come scottata. Sono nervosa e imbarazzata, è lampante.

Edward si gratta la nuca, evidentemente a disagio quanto me. «Aiuterebbe se giurassi di non fare nulla senza aver avuto prima la tua approvazione?».

Alzo gli occhi dal pavimento, incontrando i suoi, sinceri e timorosi. Penso per un momento a ieri sera, a quando mi ha baciata quando stava per formulare una domanda, probabilmente per chiedermi il permesso, e a come si sia interrotto senza preavviso. Quanto posso stare tranquilla sapendo che vuole giurare di non fare nulla di improvviso?

Un lieve rossore appare sulle guance di Edward, e come se avesse intuito il mio stesso pensiero si affretta ad aggiungere: «Di non fare nulla d’improvviso come ieri sera, intendo».

Arrossisco a mia volta, e distolgo lo sguardo.

Come posso spiegargli che il problema non è quello che potrebbe fare lui all’improvviso, ma quello che potrei fare io? Come posso nascondere il fatto che è dalla prima volta che l’ho visto che penso a lui, sapendo che anche lui forse non vuole essere solo un amico per me? Come posso fingere che ieri sera non avrei voluto urlargli che io sono sicura da mesi ormai, di non voler essere una semplice amica?

Ma devo aspettare. Non voglio affrettare le cose fra di noi, e voglio che prima di farsi avanti, Edward abbia le idee chiare, voglio che sia sicuro di voler stare con me.

«C-Credo di sì…», rispondo infine, sapendo che è l’unica cosa che posso dirgli per adesso.

Incrocio il suo sguardo, e lui sorride.

«Allora giuro che non farò nulla senza il tuo permesso».

Annuisco, cercando di sorridere nonostante l’imbarazzo ormai a livelli stellari.

«Vieni. Torniamo ai nostri posti», mi dice poi, facendomi segno di seguirlo lungo il corridoio fra i sedili.

Quando siamo nuovamente seduti lascio il bracciolo fra i nostri posti alzato, e senza che lui mi dica nulla appoggio la testa sulla sua spalla, e chiudo gli occhi.

Fino a quando riusciremo a continuare così?

 

Quando arriviamo a New York sono le sette di sera. Il cielo è ricoperto da fitti nuvoloni che annunciano un’altra tempesta di neve, e la temperatura è molto bassa.

Ad aspettarci non c’è nessuno, dato che tutti stanno ancora lavorando o sono appena rincasati, così prendiamo un taxi, diretti verso Manhattan. Le luci della metropoli sono bellissime, e non avrei mai pensato che mi sarebbero mancati i suoni della città che non dorme mai, invece ora che sento i clacson suonare e vedo le luci abbaglianti, mi rendo conto di aver sperato di rivederle quanto prima.

Mi stropiccio gli occhi, imponendomi di non addormentarmi anche adesso. Grazie ad Edward in aereo sono riuscita finalmente a dormire, ma ho ancora sonno. Ho perfino rifiutato la sua proposta di andare a cena, pur di tornare a casa al più presto per buttarmi nel mio letto. Spero che Alice sia uscita, così da non essere trattenuta dalle sue domande - perché mi farà un milione di domande, questo è poco ma sicuro. Ed io sono talmente confusa che ho bisogno di sfogarmi con qualcuno e di raccontare quello che è successo con Edward in questi due giorni per avere qualche consiglio, ma non adesso; adesso ho solo bisogno di riposarmi.

«Alice sta organizzando di andare tutti in montagna per le vacanze natalizie», mi informa Edward, mentre legge un messaggio sul suo cellulare. «Credo voglia partire già il giorno di Natale».

Sbadiglio, assonnata. «Dove vuole andare?».

«A Whistler, vicino a Vancouver. I nostri genitori hanno uno chalet lì, così non dovremo nemmeno pagare l’hotel. Tu sai sciare?».

«Sono un po’ arrugginita, ma sì», rispondo, ricordando con un sorriso i weekend con mio padre in montagna, quando ero ancora piccola.

«Perfetto allora». Edward sorride, e digita velocemente un messaggio.

«Quindi siamo appena tornati dalla costa occidentale e scopriamo solo ora che ci torneremo fra pochi giorni…», commento, ridendo.

«Beh… adesso sai come fare a dormire in aereo, però», mormora Edward, incrociando il mio sguardo.

Arrossisco, sorridendo timidamente.

Dopo alcuni secondi abbasso gli occhi, e infilo le mani dentro la mia borsa, alla disperata ricerca di un modo per stemperare questa strana tensione nata fra di noi. Trovo il cellulare, ancora spento, e lo accento. Lo schermo lampeggia, e un nuovo messaggio mi informa che Renèe ha provato a telefonarmi mentre ero in aereo. Perfetto.

Avvio la chiamata, e al terzo squillo ricevo risposta.

Gli occhi di Edward sono ancora puntati su di me, ma tengo lo sguardo fuori dal finestrino.

«Pronto?», risponde una voce maschile, allegra e cordiale.

«Phil?», chiamo, tirando a indovinare. «Sono Bella».

«Ciao, Bella! È da un po’ che non ci sentiamo», commenta, e sono sicura che sta sorridendo. «Come stai?».

«Bene. Sono appena tornata da Forks. Com’è andata la tua partita? Mamma mi ha detto che siete dovuti partire da Seattle per andare a Dallas l’altro ieri».

«È andata alla grande!», esclama, euforico. «Li abbiamo stracciati 5 a 0!».

Sorrido, divertita dal suo entusiasmo. «Congratulazioni».

«Dopo la pausa natalizia dovremo venire a New York, sai? Potrebbe essere l’occasione per vederci. Tua madre è euforica all’idea di rivederti».

«Allora poi dovrete dirmi quando arrivate… La mamma è lì?».

«No. È uscita a fare la spesa poco fa, e ha dimenticato il cellulare in cucina. Sai com’è fatta», commenta ridendo.

«Già…», mormoro. Trattengo a stento uno sbadiglio.

«Di’ un po’, come va con la chitarra? Sei migliorata nell’arpeggio?», mi domanda a bruciapelo, cogliendomi del tutto impreparata.

Mi mordo il labbro, sentendo il familiare senso di colpa tornare a galla prepotente. Non ho mai detto a Phil che fine ha fatto la chitarra che mi ha regalato, non ne ho mai avuto il coraggio. Ma sono stanca di mentire alle persone, e Phil merita di sapere la verità, anche se questa dovesse costarmi la sua amicizia. «A dire il vero… non suono da quando mi sono trasferita», mormoro, non riuscendo a tirare fuori che un misero sussurro dalla mia bocca. «Prima di partire la chitarra si è rotta e non sono riuscita ad aggiustarla… mi dispiace tantissimo, Phil».

Lui resta in silenzio per un lungo momento, poi sospira. «Accidenti, Bella. Non va bene così». Trattengo il respiro, preparandomi a una ramanzina con i fiocchi. «La mia allieva non può permettersi di restare senza chitarra!», esclama però, lasciandomi senza parole. Non sembra affatto arrabbiato.

«Non… non sei arrabbiato?», gli chiedo, perplessa.

«Perché dovrei essere arrabbiato?», mi risponde immediatamente, allegro. «Se sapessi quante chitarre ho rotto da quando ho iniziato a suonare impallidiresti».

Sorrido, in parte rincuorata dal suo commento. Tuttavia quella era la mia prima chitarra, non avrei mai voluto facesse una fine del genere.

«Comunque se me l’avessi detto subito ti avrei già fatto arrivare un’altra chitarra. Non hai proprio più suonato da settembre?», mi domanda, incredulo e contrariato.

«No… ma comunque con il trasferimento, il nuovo lavoro e la scuola non avrei potuto esercitarmi granché», aggiungo, come per scusarmi per non aver sentito apparentemente la mancanza della chitarra.

«Sciocchezze», ribatte Phil, serissimo. «Almeno un minuto per la chitarra si trova sempre».

Alzo gli occhi al cielo, sorridendo. Si comporta proprio come quando mi dava lezioni di chitarra. «Cercherò di rimediare allora. Magari c’è qualche negozio di chitarre qui in giro… durante le vacanze potrei andare a fare qualche giro per la città».

«Ecco, mi sembra un’ottima idea», risponde lui, contento. «Così quando ci vediamo possiamo suonare un po’ insieme».

Rido, contagiata dal suo entusiasmo. «Va bene. Dovrai andarci piano, però. Sarò parecchio arrugginita».

«Cercherò di darti una bella oliata, allora. Adesso devo uscire. Lascio un biglietto a Renèe per dirle di richiamarti, okay?».

«Non serve», mi affretto a dirgli. «La richiamo io domattina. Adesso vado a dormire, sono stanchissima».

«D’accordo. Allora ci sentiamo presto, Bella! Buona notte!».

«‘Notte, Phil», lo saluto, e chiudo la chiamata.

Edward è ancora in silenzio, e mi sta ancora osservando, anche se questa volta c’è qualcosa di diverso nel suo sguardo.

«Cosa c’è?», gli chiedo, preoccupata di avere qualcosa sulla faccia.

Le sue labbra guizzano verso l’alto in un sorriso. «Niente».

Mi acciglio, ma non dico nient’altro.

Quando il taxi si ferma davanti casa mia, Edward scende con me per tirarmi fuori la valigia dal baule. Prima di risalire, però, si ferma a pochi passi da me, e sorride.

«Posso abbracciarti?», mi chiede, con un sorrisetto divertito.

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Hai bisogno del mio permesso per abbracciarmi?».

Lui scrolla le spalle, divertito. «Non si sa mai. Sono vincolato da una promessa, non voglio rischiare l’ira divina per averla spezzata con un solo abbraccio».

Alzo gli occhi al cielo, sorridendo. Poi mi avvicino a lui e lo abbraccio, lasciando che le sue braccia mi circondino.

Quando ci separiamo mi dirigo verso l’entrata del palazzo, ma lui mi richiama.

Quando mi volto lo trovo fermo vicino al taxi. «Domani pomeriggio non devi andare a scuola, giusto?», mi chiede.

«No…», rispondo, confusa.

Lui sorride. «Perfetto. Buona notte», mi dice solamente, poi sale sul taxi, che riparte prima che possa chiedergli spiegazioni.

Scrollo le spalle, ed entro nel palazzo, sorridendo.

___________________________


Eccoci :D

Nessun dramma, almeno secondo il mio punto di vista. Edward e Bella ci stanno andando con i piedi di piombo, letteralmente. Credo che sia un buon segno in fondo: significa che ci tengono parecchio a fare tutto bene e con delle certezze.

 

Sondaggio: chi sarà secondo voi il primo ad ammettere all’altro di essere pronto a fare quel passo? :D

 

Nessuna di voi si era aspettata di scoprire che Edward aveva già piantato Tanya, vero? XD Ricordate che quando Bella era da lui, lui e Tanya hanno fissato per telefono un appuntamento al bar Emmett per il giorno dopo? Quando Edward dice a Bella fuori dalla scuola che era nei paraggi era davvero lì e aveva appena finito di parlare con Tanya ;) Il fatto che negli ultimi due POV Edward non ci fosse alcun pensiero riguardo Tanya poteva essere un piccolo indizio :D


Per gli spoiler, questo è il blog: TRA SOGNO E REALTA'.


A presto! :***

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Capitolo 17
*** Capitolo 16__Iris ***


Salveeee! :D

Visto che puntialità questa volta? XD Il capitolo non è molto lungo, ma spero vi piaccia comunque :D Ormai è il giorno della vigilia di Natale, secondo la storia, e voglio dedicare il prossimo capitolo solo a quella serata :)

Buona lettura! :D

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 16__Iris

Giovedì 24 Dicembre

Bella

«Aspetta. Fermati un momento e ripeti».

Scuoto il capo, arrossendo. «Dai, Alice. Ti ho già detto tutto, non c’è bisogno di ripeterlo», brontolo.

La sento saltare giù dal mio letto, e correre al mio fianco. Mi toglie dalle mani il vestito che sto guardando, e mi fa segno di andare a sedermi sul letto. «Ci penso io alla tua valigia. Tu siediti e racconta», mi ordina, iniziando a frugare nell’armadio.

Sospiro, sedendomi sul bordo del mio letto. «Devo ancora scegliere un vestito per stasera. Non possiamo rimandare le chiacchiere a più tardi?».

Alice estrae una gruccia da in fondo all’armadio, a cui è appeso un abito bianco lungo. «Che ne dici di questo?», mi chiede, con un sorriso.

L’ho comprato poco tempo fa, e non l’ho ancora utilizzato. Immagino sia perfetto per stasera. Alzo gli occhi al cielo. «Sì, va bene».

«Perfetto. Un lavoro in meno. Ora puoi parlare».

«Di cosa dovrei parlare ancora?», chiedo, borbottando. Anche se Alice è la mia migliore amica mi imbarazza un po’ parlarle di Edward; è pur sempre suo fratello.

«Di quello che vi siete detti dopo che ti ha baciata. E non mi hai ancora detto com’è stato», aggiunge, mentre impila i vestiti da mettere in valigia su una sedia. Questa sera rimarremo a dormire a casa dei suoi genitori, così che domani mattina potremo partire direttamente da là per l’aeroporto. Il volo parte alle 11, quindi non dovremo svegliarci presto come quando sono andata a Seattle con Edward l’altro giorno.

«Com’è stato cosa?», chiedo, anche se ho capito benissimo a cosa si riferisce. Spero capisca il mio disagio e lasci perdere, ma ormai dovrei sapere bene com’è fatta Alice.

«Il bacio», risponde lei, alzando gli occhi al cielo. «Sai, quando ha posato le sue labbra sulle tue e-».

«Alice, ti prego!», esclamo, coprendomi il volto con le mani, sentendo le mie guance in fiamme. Lei tace, ma la sento sogghignare.

«Allora?», insiste.

«Non lo so», mormoro, ancora nascosta dietro le mani. «È successo tutto così all’improvviso che credevo di poter svenire», ammetto.

«Ti è piaciuto?», mi chiede ancora, aumentando a dismisura il mio imbarazzo.

«Alice…», borbotto, agonizzante. «Ti prego…».

«Quindi non ti è piaciuto…», commenta, pensierosa.

Lascio cadere le mie mani, ancora rossa in volto. «Certo che mi è piaciuto!», esclamo, sulla difensiva.

Alice ridacchia, e capisco che il suo commento era destinato a farmi sputare fuori la verità. Mi passo la mano sul viso, imbarazzata.

«Quindi cosa hai intenzione di fare, adesso? Aspetterai che sia lui a farsi avanti o gli dirai subito come stanno le cose per te?», mi chiede, tornando seria.

«Non lo so», sussurro. «Forse è davvero ancora troppo presto anche solo per pensare di essere più che amici. Hai visto come sono sempre andate le cose fra di noi…».

«Questo perché sia te che lui avete paura. Entrambi continuate ad avere paura di combinare chissà quale disastro qualsiasi cosa facciate, ma ogni tanto bisogna pur correre qualche rischio, non credi?».

Mi stringo nelle spalle, indecisa. Alice ha ragione, ma non sono sicura di essere pronta a correre il rischio di perdere Edward. Se dovesse succedere qualcos’altro come ciò che è accaduto dopo la rapina, non credo che riusciremo ad avere un’altra possibilità insieme.

Il campanello suona prima che le risponda, salvandomi in corner. Mi alzo dal letto, lasciando che Alice si occupi della mia valigia, e raggiungo la porta d’ingresso, aprendola.

Osservo sorpresa la persona davanti a me. Edward. «Ciao», mormoro, sentendo le guance imporporarsi.

«Ciao», risponde lui, con un sorriso.

Mi faccio da parte per farlo entrare. «Come mai qui?», chiedo, curiosa.

Edward raggiunge il divano, ma non si siede. «Volevo sapere se hai da fare per questo pomeriggio».

Mi mordo il labbro. «Veramente dovrei finire di fare la valigia per-».

«In realtà, la tua valigia la sto facendo io», interviene Alice, entrando in soggiorno dalla mia stanza. Si avvicina ad Edward e gli bacia la guancia, allegra. «Ciao, fratellino!».

Lui le spettina i capelli, salutandola.

«Hai insistito te per farmela», ribatto.

«Dettagli», canticchia lei. «Quindi se vuoi uscire puoi andare».

La fisso, indecisa. «Sei sicura?».

Lei sorride. «Certo! Tanto ho quasi finito».

«Okay…», mormoro, stordita. Guardo Edward, sperando di non essere arrossita. «Vado a cambiarmi, torno subito».

Lui annuisce, e sparisco dentro la mia camera.

 

«Dove stiamo andando?», chiedo, non appena mette in moto l’auto.

Edward sorride. «Lo scoprirai quando arriveremo».

«Non mi dai nemmeno un indizio?», insisto, confusa. È così importante che sia segreto il luogo dove stiamo andando?

«È a Manhattan», risponde lui, con nonchalance.

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Beh, ora è tutto molto più chiaro», commento sarcastica.

Edward ride, e non posso far altro che sorridere. Quando lo vedo ridere così rimango sempre incantata.

«Prometto che fingerò di essere sorpresa quando arriveremo», provo ancora. «Me lo dici?».

Mi lancia un’occhiata divertita. Sulle labbra il suo sorriso sghembo. «Non sei granché come negoziatrice, sai?».

Arriccio le labbra, e affondo nel morbido schienale in pelle della Volvo. Questa macchina mi piace. Non è fredda e impersonale come il mio vecchio pick-up; è comoda e confortevole, e nel vano sotto lo stereo ci sono tanti cd di musica. Un’altra cosa che adoro è il profumo che mi accoglie non appena mi siedo sul sedile: il profumo di Edward.

Guardando fuori dal finestrino riesco a scorgere alcuni negozi e l’Empire State Building, che sorpassiamo. Se non sbaglio ci stiamo dirigendo verso la zona sud di Manhattan. Dove vuole arrivare?

Dopo una decina di minuti, duranti i quali chiacchieriamo del più e del meno, smaltendo definitivamente l’iniziale imbarazzo, posteggia l’auto lungo una via ampia, costeggiata a tratti da alcuni alberi.

Mi fa segno di scendere, e non appena richiudo la portiera alle mie spalle mi guardo attorno, incuriosita. Il marciapiede è ampio, ma poco trafficato; i negozi sono pochi, e i più trattano di articoli come bricolage, o elettronica di seconda mano. Ancora una volta mi chiedo dove stiamo andando.

Edward mi affianca in un attimo, con uno strano sorriso in volto. «Andiamo?».

Annuisco, titubante, e lo seguo lungo il marciapiede, guardandomi intorno per cercare di scovare un minimo indizio su dove stiamo andando. Un museo? Un negozio particolare? Vuole un consiglio su cosa regalare ad Alice, forse?

Mi stringo nel cappotto, rabbrividendo. Ad ogni respiro una nuvoletta di vapore esce dalle mie labbra. Il cielo plumbeo sembra promettere pioggia, ma secondo Alice - e il meteorologo che tanto ammira della CNN - entro sera tornerà il bel tempo. Lo spero.

Non appena Edward si ferma faccio la stessa cosa, e lancio un’occhiata al negozio davanti al quale siamo arrivati. È un negozio di abbigliamento. Di jeans, in particolare.

In fondo, forse, non ho sbagliato a credere che voglia un consiglio per un regalo. Altrimenti perché venire in un negozio di abbigliamento?

«Sai dove siamo?», mi chiede, lanciandomi un’occhiata un po’ preoccupata.

Aggrotto la fronte. «Di preciso no, a dire il vero».

Il sorriso si amplia, confondendomi ancora di più. Cos’ha in mente?

«Adesso devi chiudere gli occhi».

«Come, scusa?», chiedo, perplessa.

Si avvicina a me, con lentezza esasperante, fino a fermarsi a pochi centimetri. Sento le guance infiammarsi, e il battito cardiaco aumentare improvvisamente. Il suo profumo mi investe, spinto dal vento leggero e pungente che soffia sulla città.

«Chiudi gli occhi», mormora, così vicino che posso sentire il suo respiro caldo sul mio viso infreddolito. «Fidati. Ti piacerà».

Rimango per un istante incantata dal suo sguardo intenso, poi, sempre rossa in viso, chiudo gli occhi. Pochi secondi, e le sue mani prendono le mie, stringendole delicatamente. Le sue, a differenza delle mie, ghiacciate, sono calde e morbide. Le scalda piano, strofinando la sua pelle contro la mia. Tremo leggermente, e spero che lo scambi per un attacco di freddo.

«Hai le mani congelate», sussurra, ancora vicino.

«Sono sempre stata freddolosa», ammetto, con la voce che trema un po’.

«Mi chiedo come hai fatto a sopravvivere a Forks per tutti questi anni», dice, con una punta di sarcasmo.

Faccio una smorfia, e sono quasi tentata di aprire gli occhi per godermi il sorriso sghembo che sono sicura è nato sulle sue labbra. «Là è più umido che qui, e sembra che faccia meno freddo. Anche la neve dura pochissimo d’inverno. Piove sempre».

«A te non piace la pioggia», constata, ricordando una discussione avuta poco tempo fa.

«Già».

«Altro motivo per cui chiedersi come hai fatto a resistere per più di vent’anni». Ride piano, ed io mi godo il suono della sua risata e della sua voce, che ad occhi chiusi suona ancora più melodiosa del solito.

Mi stringe le mani ancora un attimo. «Vieni. Seguimi e cerca di non inciampare», aggiunge, ilare.

Sorrido, e inizio a seguirlo, mentre lui mi invita tirandomi piano le mani. Mi fa fare una dozzina di passi avanti, poi si ferma. Mi ammonisce di non aprire gli occhi per alcun motivo, dopodiché mi fa voltare e lo sento aprire una porta. Ancora qualche passo e l’aria calda e accogliente di un luogo chiuso mi avvolge, facendomi subito sentire meglio.

In sottofondo ci sono solo voci, strani rumori metallici e il suono di una canzone natalizia in versione rock. Edward mi spinge a fare ancora qualche passo, lascia le mie mani e mi viene accanto.

«Posso aprirli, ora?», chiedo, sorridente ed eccitata. In che negozio ci troviamo? Non sembra un negozio di abbigliamento, altrimenti le commesse ci avrebbero già assaltato con mille saluti e inviti a seguirle per provare vestiti d’ogni genere.

«Mmm…», esita un attimo. «Sì».

Lo faccio. Piano, sollevo le palpebre, e non appena metto a fuoco il locale in cui ci troviamo apro la bocca in una ‘O’ muta, e gli occhi si spalancano completamente.

«Oh mio Dio…».

Faccio un passo avanti, fra due scaffali. Centinaia e centinaia di chitarre fanno bella mostra di sé appese alle pareti, agli scaffali, posate a terra, in vetrine, in poster. Di ogni colore, di ogni tipo, di ogni forma e dimensione. Con uno, con due manici. In un angolo scorgo anche un reparto dedicato esclusivamente ai bassi e più in là, in una saletta separata uno per i banjo. Casse di amplificatori sono disposte in ogni dove, plettri spaiati sono poggiati sugli scaffali. Mi volto per guardare Edward, e alle sue spalle scorgo altre chitarre, elettriche, appese su tutta la parete, fino in cima.

Incontro lo sguardo di Edward, verde brillante. «Ti piace?».

Mi mordo un labbro, cercando di reprimere lo sfacciato sorriso di entusiasmo che sento crescere a dismisura. Annuisco scuotendo solo il capo, perché sono certa che la mia voce suonerebbe acuta quasi quanto quella di Alice davanti ad un abito di Armani.

Edward sorride divertito dalla mia reazione, e anche soddisfatto.

«Vieni», dico, prendendogli un braccio. «Andiamo a vedere!».

Lo trascino con me in mezzo alle file di scaffali e chitarre, osservandole tutte, disposte in base alla casa produttrice e al modello. Mi dirigo verso una zona più appartata, verso una saletta dalla quale scorgo le chitarre acustiche e classiche. Appena entro lascio il braccio di Edward e inizio a girovagare per la saletta. Mi sento come una bambina nel regno dei balocchi. Appesa ad una parete scorgo una chitarra dal legno più scuro e con i fianchi bombati sfumati di nero. La osservo dal basso, e mi mordo con forza il labbro inferiore. È quasi uguale alla mia chitarra. Quasi, perché la marca non è la stessa. Quasi, perché la mia ora è distrutta, spezzata a metà, richiusa in una custodia sgualcita e impolverata in un angolo dell’armadio.

Edward mi sfiora il braccio, e torno con la sguardo a terra. «Cosa c’è?», chiede, cauto.

Mi stringo nelle spalle. «Quella chitarra lassù», gliela indico, «assomiglia alla mia».

I suoi occhi tornano ai miei, dopo aver osservato per un lungo istante lo strumento. «Come si è rotta?», chiede, sempre piano, dolcemente, temendo forse un mio tracollo, come è successo domenica scorsa, quando mi sono ritrovata a casa sua ubriaca.

Scuoto il capo, tornando al presente. «Leah l’ha buttata per terra quando mi ha vista con Jacob», rispondo con semplicità. «Il manico si è rotto, e non si riesce più ad aggiustare».

Per tutto il tempo tengo lo sguardo basso, e osservo altre chitarre, per non far scorgere ad Edward l’ombra della tristezza nei miei occhi. Come ha detto lui stesso una volta, non so recitare.

Nemmeno adesso sono certa di essere stata una buona attrice, ma lui lascia correre, e cambia argomento. «Perché non provi a suonare qualcosa?».

Sgrano gli occhi. «Adesso?».

Edward scrolla le spalle. «Sì, perché no? Lo fanno tutti».

Molti ragazzi, in effetti, sono seduti su alcuni sgabelli, sparsi nel negozio, e provano le chitarre. Forse potrei prendere uno dei plettri appoggiati qua e là sugli scaffali e provare… Provare a risentire quel senso di pace interiore che ho sempre provato stringendo nelle mani un manico e un plettro. Sentire il brivido che provavo quando muovevo le corde della chitarra, facendo riecheggiare nella stanza le note.

Ma… «Non credo che…».

Edward scuote il capo, e alza gli occhi al cielo. Allunga una mano su una cassa, dove sono sparsi alcuni plettri. Ne prende uno e me lo tende.

«Il plettro c’è, lo sgabello pure», dice, indicando una seggiola nell’angolo della saletta. «Devi solo scegliere la chitarra».

Prendo il plettro, e lo rigiro fra le dita, nervosamente. «Edward, non penso…».

Ancora una volta mi interrompe, voltandosi verso un ragazzo con una maglietta nera. «Scusi», lo chiama. Gli fa segno di avvicinarsi, e subito questo gli domanda se può esserci d’aiuto. Avvampo dalla vergogna. «Sì. Questa signorina vorrebbe provare una chitarra».

Il ragazzo annuisce, e abbassa lo sguardo alle mie mani. «Sa suonare?».

Annuisco piano, e distendo un po’ le dita della mano sinistra per mostrare le unghie cortissime. Perché dopo la chiacchierata con Edward il giorno del Ringraziamento ho ripreso a tagliarle? Avrei avuto un’ottima scusa adesso per non suonare. Ma forse sono proprio io a voler provare di nuovo certe sensazioni che solo la musica riesce a regalarmi.

«Quale vuole provare?». Si sposta nel negozio, guardando prima me, poi Edward. Probabilmente si starà chiedendo se sono in grado di parlare, visto il mio continuo silenzio.

Mi guardo attorno, sentendo gli sguardi di Edward e del ragazzo puntati su di me. Scruto velocemente le chitarre nel reparto, fino a scorgerne una dal legno scuro e ombreggiato, con il paraplettro marrone inciso e la tastiera segnata da placche, appoggiata a terra, sull’apposito sostegno. È una delle chitarre che ho sempre ammirato nelle vetrine di strumenti musicali e ho sempre sognato di provare, ma non ho mai avuto la possibilità di farlo.

La indico senza pensarci due volte. «Quella».

Il ragazzo sorride, e si avvicina alla chitarra indicatagli; la solleva e prende un accordatore. Dopo un veloce controllo per assicurarsi che sia del tutto accordata me la porge. La prendo con delicatezza e attenzione, e la prima cosa che noto è quanto sia leggera rispetto ad altre chitarre suonate finora. La tengo sospesa davanti a me per alcuni istanti, e osservo il disegno riportato sul paraplettro: un piccolo colibrì è intento a succhiare il nettare di uno dei fiori della pianta che sale lungo il contorno della placca, seguendo la circonferenza della buca; c’è anche una piccola farfalla, disegnata sopra alle foglie.

Aspetto che il ragazzo si allontani, dopodiché mi siedo sul piccolo sgabello di plastica nera e posiziono la chitarra. Anche il manico è molto più sottile della chitarra che avevo precedentemente. La mia mano, molto più piccola della norma, riesce a stringerlo interamente senza alcun problema. Sorrido internamente per questo piccolo vantaggio.

Rigiro il plettro fra le dita della mano destra, cercando di scegliere quale canzone potrei suonare per la prima volta dopo così tanto tempo. Edward mi osserva in silenzio, e si abbassa sui talloni davanti a me, arrivando così ai miei occhi, bassi.

Arrossisco.

«Cosa vuoi suonare?», mi chiede, candidamente.

Distolgo lo sguardo. «Non lo so».

Riflette per alcuni secondi, poi sorride. «Qual è la tua canzone preferita?».

Aggrotto le sopracciglia. «Perché?».

«La sai suonare?», insiste lui, senza badare al mio rifiuto di volerglielo rivelare.

«Sì… ma…».

«Niente ma». Sorride ancora. «Suonala».

«Guarda che non mi metto a cantare», borbotto, arrossendo alla sola idea di doverlo fare. Non credo esista persona più stonata di me.

Edward alza gli occhi al cielo, senza però perdere il buonumore. «Non ti ho chiesto di farlo». Mi osserva per un secondo. «Allora dimmi qual è la canzone, così magari riesco a seguirti».

Abbasso lo sguardo, arrossendo un po’. «Iris. Dei Goo Goo Dolls».

Sorride. «La conosco. Mi piace».

«Però promettimi di non prendermi in giro, dopo», lo prego, rossa di vergogna. «Sbaglierò di sicuro».

Edward sorride ancora e annuisce solo. Resta in silenzio, in attesa che io inizi a suonare.

Prendo un profondo respiro, e le mani iniziano a muoversi da sole.

Chiudo gli occhi, e nella mia mente mi sembra di sentire la voce del cantante. Così è più facile riuscire a seguire il ritmo.

Non credevo fosse così semplice. Le mie dita sono ancora svelte, allenate, si muovono su e giù sulla tastiera, il polso segue il ritmo a volte spezzato della canzone. Sono sicura di aver sbagliato in certi punti, a causa delle mie dita non più abituate ai passaggi fra gli accordi, ma sono comunque soddisfatta. Mi aspettavo molto di peggio.

Quando riapro gli occhi Edward è ancora inginocchiato davanti a me, e sorride. «Se avessi saputo prima che sei così brava a suonare, avrei cercato questo posto prima».

Arrossisco. «L’hai cercato solo per portarmici?», chiedo, imbarazzata.

Edward si gratta la nuca, a disagio. «Hai promesso a Phil di tornare a suonare, ieri, no? Mentre gli parlavi mi sono ricordato di un negozio di chitarre che avevo visto una volta girando per la città, e così ho fatto una piccola ricerca su Internet e l’ho ritrovato».

Apro la bocca per ringraziarlo, ma il suo telefono squilla, attirando la nostra attenzione.

Edward si alza in piedi per prendere il cellulare dalla tasca dei jeans, ed io vado verso l’impiegato per lasciargli la chitarra e ringraziarlo.

Quando torno da Edward, ha appena chiuso la chiamata. «Mia sorella ti reclama», mi informa, sorridendo.

«Perché?», chiedo, confusa. Mi ha fatta andare via con lui dicendo che aveva tutto sotto controllo, e adesso mi richiama?

Edward scrolla le spalle. «Immagino sia ora che ti prepari anche te per stasera. Ormai sono le cinque passate».

Strabuzzo gli occhi, guardando l’orologio, stupita. «È così tardi?».

Lui ride. «Abbiamo passato quasi un’ora qui dentro, non te ne sei accorta?».

«No», ammetto, mentre ci dirigiamo verso l’uscita del negozio. Mi guardo un’ultima volta intorno, godendomi gli ultimi istanti di caldo.

«Se ti fa piacere possiamo tornarci un altro giorno», mi dice Edward, quando apre la porta per uscire.

«Solo se andiamo anche in un negozio di pianoforti», rispondo, sorridendo.

Sorride a sua volta, annuendo. «Va bene».

«Grazie per avermi portato qui», gli dico mentre raggiungiamo la sua macchina, poco distante. «È stato… carino da parte tua», sussurro, abbassando lo sguardo e arrossendo.

«Mi ha fatto piacere», risponde, sinceramente.

Mi apre la portiera dell’auto, e mentre i nostri occhi si incontrano penso alla prossima settimana che passeremo insieme, in montagna, e arrossisco. Salgo a bordo, e mi lascio riportare a casa.

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La canzone che suona Bella credo la conosciate tutti, è questa. Questa, invece, è la versione acustica suonata da lei al negozio di musica.

Il negozio in cui la porta Edward fa parte della catena Guitar Center, e personalmente amo quei negozi *__* A NY esiste, e si trova nella zona meridionale di Manhattan.

Infine, la chitarra che prova Bella è questa.


Okay, credo di aver detto tutto XD Molte di voi hanno ipotizzato che Edward regalerà a Bella una chitarra... ma Bella cosa potrebbe regalare ad Edward e agli altri Cullen? :D Vediamo se qualcuna di voi indovina :D


Bon, credo di non avere altro da dire :) Spero di riuscire a postare presto il prossimo capitolo. Intanto auguro un buon ritorno al lavoro a coloro che sono appena rietrati dalle vacanze e un buon inizio anno a tutti gli studenti che oggi o la settimana prossima dovranno rientrare a scuola. :)


A presto! :******

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Capitolo 18
*** Capitolo 17__La vigilia di Natale ***


Buondì! :D 

Due mesi dall’ultimo aggiornamento. Lo so, sono da prendere a sprangate. Tra l’inizio dell’università, il trasferimento e tutto il resto purtroppo non sono più riuscita a scrivere quanto avrei voluto, e a complicare le cose è arrivato persino il calo d’ispirazione. Meh. Per il momento la crisi sembra essere scongiurata, ma si iniziano a profilare alcuni esami per fine di novembre/inizio dicembre e sto iniziando a farmi prendere un pochino dal panico. Quindi vi chiedo scusa fin da ora per i possibili ritardi del prossimo periodo :(

Questo capitolo è mooooolto importante, anche se non è molto lungo. Capirete presto perché ù.ù

PS: se qualcuno ha letto lo spoiler, forse troverà alcune differenze :)


Buona lettura! :D

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 17__La vigilia di Natale

Giovedì 24 Dicembre

Bella

La strada che separa il palazzo in cui viviamo io ed Alice da casa Cullen è relativamente lunga. Dall’Upper East Side bisogna risalire fino alla punta settentrionale dell’isola di Manhattan, dove Esme e Carlisle, non appena sposati, hanno deciso di stabilire la loro dimora. Quando ho chiesto ad Esme perché avessero scelto di prendere casa in un posto tanto lontano dall’ospedale e dal suo ufficio mi ha risposto con un sorriso: “Volevamo creare un posto solo nostro, lontano dal caos della città. Anche se ogni giorno impieghiamo più di un’ora ad andare e tornare è sempre bello arrivare a casa la sera e non sentire più rumore intorno a noi”.

All’inizio credevo fosse una scomodità insopportabile, ma dopo aver passato la giornata del Ringraziamento nel loro villino isolato, circondata dal verde del prato e dal suono degli ultimi uccelli ritardatari, ho cambiato idea; stare lì mi ha ricordato quanto il silenzio che aleggia sempre a Forks mi manchi. Credo di capire cosa spinga Esme e Carlisle ad affrontare ogni giorno lunghi viaggi in auto pur di tornare nella loro casa silenziosa ed appartata.

Oggi, però, il tragitto si prospetta più difficoltoso del normale. È la vigilia di Natale, e le strade sono più intasate del solito. L’auto di Jasper si muove a singhiozzo nell’ingorgo, compiendo pochi metri in cinque minuti. I pedoni corrono impazziti da una parte all’altra delle strade, rendendo il passaggio ancora più pericoloso e lento.

Quando finalmente riusciamo a varcare il cancello di villa Cullen sono già le sette. Alice batte le mani entusiasta, mentre il suo fidanzato guida l’auto fino al retro della casa, dove si trova una tettoia sotto cui posteggiare le auto. Parcheggia accanto alla jeep argentata di Emmett, e subito dopo scendiamo tutti e tre, abbandonando il caldo rifugio dell’abitacolo per gettarci nel freddo dell’inverno. Recuperiamo una piccola valigia a testa, nelle quali è contenuto lo stretto necessario per la notte - che passeremo tutti a casa Cullen per comodità -, i dolci che Alice ed io abbiamo preparato questa mattina, e ci dirigiamo a grandi passi verso l’ingresso della villa.

La piccola collinetta su cui è costruita la casa è ricoperta da uno spesso strato di neve bianchissima incontaminata, e solo il vialetto è stato liberato dalla soffice matassa bianca, per consentire l’ingresso. Non facciamo in tempo ad arrivare alla porta che questa si spalanca, rivelando la figura di Esme, che sorride gioiosa mentre indossa ancora un grembiule da cucina, anche se sopra i bei capelli color caramello porta un cappello natalizio.

«Siete arrivati, grazie al cielo!», esclama, sporgendosi per abbracciarci uno per uno e facendoci entrare con un gesto veloce. «Le strade sono un delirio in città! In tv continuano a segnalare incidenti di ogni tipo!»

La risata di Carlisle ci accoglie mentre la moglie si fa rassicurare da Jasper sulla sicurezza in cui abbiamo viaggiato. «Tesoro, stanno tutti bene. Lasciali respirare, è il momento di festeggiare, non di farsi prendere dal panico».

Mentre gli uomini si spostano in sala da pranzo, da cui sento provenire le voci concitate di Edward ed Emmett, io ed Alice seguiamo Esme in cucina, e appoggiamo sul ripiano le quattro diverse torte preparata con tanta cura in mattinata: due alla frutta, una allo yogurt ed infine un tiramisù.

«Sicura di non aver bisogno di una mano?», chiedo ancora ad Esme, mentre ci scaccia dalla cucina, dove sta terminando di preparare la cena.

«Certo. Andate di là con gli altri e divertitevi. Ho quasi finito», ci assicura con un sorriso, richiudendo la porta dietro di sé, e tornando ai suoi fornelli.

Così Alice ed io andiamo in salotto, dove troviamo l’enorme albero natalizio con le luci accese, ed il caminetto con il fuoco scoppiettante, che irradia un caldo piacevole ma non eccessivo; davanti ad esso, a pochi metri, è sistemato un tavolino di vetro, circondato da due divani ed una poltrona color panna, che si sposano perfettamente con le pareti chiare della stanza ed il parquet scuro. L’albero è posizionato vicino alla finestra, da cui si scorgono in lontananza le decorazioni luminose di alcune ville poco distanti, e sotto di esso sono posizionati pacchi di ogni forma e dimensione, di quei generi che si vedono solo nei film o nei centri commerciali, con la differenza che mentre quelli sono semplici scatole vuote, questi contengono veri e propri regali. Nel mucchio scorgo alcuni dei pacchetti confezionati da me e la mia coinquilina, che abbiamo affidato ad Esme questa mattina affinché li potesse mettere subito sotto l’albero.

Guardando tutti i pacchetti, però, il timore di aver sbagliato completamente la scelta dei regali inizia ad assalirmi. Sono riuscita ad evitarlo fino ad ora, ma sapendo quanto possono permettersi i Cullen ho paura di aver comprato qualcosa che forse non è di loro gradimento, oppure che hanno già. Quello che mi preoccupa più di tutti, come se non bastasse, è il regalo di Edward.

Lo cerco nella stanza, e lo trovo intento a confabulare con Emmett vicino al camino. Indossa una camicia celeste con una giacca scura, ed un paio di pantaloni neri. Emmett ridacchia, e lui sospira, alzando gli occhi al cielo.

Quando si accorgono del nostro arrivo si separano, e mentre Emmett va a salutare Jazz ed Alice, intenti a parlare con Carlisle, Edward viene verso di me, e mi saluta con un sorriso. «Ehi. Da quanto tempo, vero?», scherza, con un angolo della bocca sollevato.

«Già», rispondo, ridendo leggera. «Sei qui da molto?»

Scrolla le spalle. «Una mezz’oretta, più o meno. Emmett è molto bravo a trovare scorciatoie per la città e non è proprio un fanatico del codice della strada».

«Per fortuna non conosce mio padre», mormoro, divertita. «Non credo che andrebbero molto d’accordo».

Edward apre la bocca per dire qualcosa, ma le sue parole vengono coperte dal grido che lascia le mie labbra quando due braccia robuste mi cingono all’improvviso la vita, sollevandomi da terra e facendomi compiere un giro completo.

«Benvenuta, Bellina», esclama Emmett, non appena mi rimette a terra. «Non saluti il tuo orso preferito?»

Rido, abbracciandolo spensierata. «Scusa, Emmy. Prometto di non farlo più».

«Emmy?», ripete Edward, divertito, con un sopracciglio inarcato.

«Sta’ attento fratellino», esclama Emmett, puntandogli un dito contro. «Tu non hai il permesso di chiamarmi così», sancisce con serietà, anche se guardandolo viene solo da ridere in questo momento.

Viene richiamato da Carlisle prima che suo fratello possa dire qualsiasi altra cosa, ma non appena è abbastanza lontano, Edward si rivolge a me, curioso.

«Come mai Emmy?», mi chiede, perplesso.

Mi stringo nelle spalle, sorridendo. «Non lo so. Mi è uscito così qualche giorno fa alla cioccolateria. L’ho beccato mentre mangiava un intero barattolo di miele, e mi è venuto spontaneo chiamarlo Emmy l’orso».

Edward trattiene una risata. «Stava mangiando un intero barattolo di miele?»

Gli tiro una gomitata leggera. «Eddai. Rosalie è partita da ormai una settimana, cerca di capirlo».

In effetti, da quando Rose è partita la settimana scorsa per passare le vacanze natalizie con i suoi genitori in Montana, Emmett è diventato molto meno allegro del solito. Fortunatamente domani la incontreremo all’aeroporto di Vancouver e andremo tutti insieme in montagna.

Quando Emmy torna, posa un braccio intorno alle spalle di suo fratello.

«Sicuro fratellino di non…», comincia Emmett, con fare cospiratorio.

«Emmett», lo ammonisce Edward, esasperato.

Suo fratello si porta una mano sul petto, dal lato del cuore, fingendosi addolorato. «Sei così crudele. Non hai neanche un po’ di pietà per il tuo adorato fratellone rimasto solo in questo giorno di festa?»

Edward alza gli occhi al cielo, mentre le sue labbra si piegano in un sorriso divertito. «E tu non hai pietà per il tuo povero fratellino, costretto a sopportarti ogni santo giorno?»

Gli occhi di Emmett brillano per un secondo. «Ma proprio per questo sono qui! Sono sicuro che se mi lasciassi fare quello che voglio dopo mi ringrazieresti». Si volta verso di me, mentre suo fratello scuote il capo, sospirando. «Diglielo anche tu, Bellina. Sono sicuro che pure tu-».

«Okay, basta», interviene Edward, agitato e liberandosi dalla sua stretta. «Ricordati che posso sempre telefonare a Rose e raccontarle cosa stavi facendo l’altro giorno al negozio con quella brunetta».

Inarco un sopracciglio, perplessa. «Di cosa parli?», domando, incuriosita ed anche preoccupata.

Emmett si irrigidisce, ed alza le mani in segno di resa. «Non stavo facendo niente di male, lo giuro», assicura. «E non è successo niente».

Edward ghigna. «Non sono sicuro che Rosalie la vedrà allo stesso modo».

Suo fratello sbuffa, rassegnato. «E va bene, hai vinto».

«A tavola!», esclama Esme, spuntando in salotto, e ponendo definitivamente fine alla conversazione fra i due fratelli.

Ci trasferiamo tutti nella sala da pranzo, dove un grosso tavolo rotondo è apparecchiato per sette persone. Mi siedo fra Edward ed Alice, e con un bicchiere di vino la cena ha inizio.

 

La cena procede nel migliore dei modi. Non ho mai trascorso una vigilia come questa: sono sempre stata abituata a cene solitarie fra me e Charlie, e negli ultimi anni ad alcuni pranzi il giorno di Natale con la famiglia di Sue e i Black. Ma mai mi ero sentita così a mio agio e perfettamente accolta nel gruppo; stare con i Cullen è come essere parte di una vera e propria famiglia allargata, e nessuno ti fa mai sentire di troppo o un’esterna. Non avrei mai pensato di sentirmi finalmente parte di qualcosa un giorno, ma adesso sono qui, e non potrei volere un regalo migliore per questo Natale.

Allo scoccare della mezzanotte i bicchieri sono nuovamente colmi di vino, e li facciamo tintinnare l’uno contro l’altro, augurandoci un buon Natale.

Distolgo lo sguardo mentre le due coppiette al tavolo si scambiano il loro bacio di augurio, e nonostante mi senta in colpa, mi sento sollevata al pensiero che non siamo solo io ed Edward quelli imbarazzati, dato che c’è anche Emmett, rimasto senza qualcuno da baciare.

Subito dopo Alice balza in piedi. «È il momento dei regali!», esclama, saltellando fuori dalla stanza.

Quando arriviamo tutti in salotto la mia amica ha già indossato una mantellina rossa natalizia, e il cappellino. Saltella allegramente intorno all’albero, osservando i regali, sembrando un vero e proprio folletto di Babbo Natale. Alla fine si china e ne prende uno grosso e rettangolare. Lo riconosco immediatamente: è il regalo che io ed Alice abbiamo preso insieme per Esme. Infatti si dirige verso di lei, seduta accanto Carlisle.

«Per Esme, da Bella ed Alice», annuncia con solennità la mia amica, prima di depositare il pacco sulle gambe di sua madre.

Esme sorride riconoscente, ringraziandoci prima di iniziare a scartare il regalo. Quando solleva il coperchio della scatola porta una mano sulle labbra, che si piegano in un sorriso, dopodiché solleva l’abito color avorio dal suo giaciglio, per osservarlo meglio; Alice torna da lei con altri due pacchetti più piccoli, uno da parte di Carlisle ed uno da Emmett, Edward e Jasper, che le hanno regalato rispettivamente una collana preziosissima e un paio di orecchini e un braccialetto coordinati con l’abito - ovviamente questi ultimi si sono avvalsi dei consigli di Alice prima di comprarle qualcosa.

Poi è il turno di Carlisle, Emmett e Jasper. Finché non è il momento di Edward.

Prima di chinarsi a prendere il primo regalo per lui, Alice mi fa l’occhiolino, e quando vedo che si tratta del mio regalo inizio ad agitarmi.

«Per Edward, da Bella», annuncia Alice, passandogli il regalo.

Mi muovo inquieta accanto a lui sul divano, abbassando gli occhi quando il suo sguardo cerca di incontrare il mio. Osservo le sue mani disfare la confezione, fino ad arrivare a scoprire una valigetta di legno scuro delle dimensioni di una ventiquattr’ore, su cui è incisa una nota musicale. Mi mordo il labbro inferiore con forza mentre apre i ganci e solleva il coperchio, e sposto lo sguardo sul suo viso, concentrato.

I suoi occhi si spalancano non appena posa gli occhi sul contenuto della scatola.

Un set di fogli di carta pregiata con incisi il pentagramma vuoto fa bella mostra di sé, accompagnato da una penna a china nera e una cartellina in cuoio nero dove riporre gli spartiti. Quando li ho visti la prima volta, la settimana scorsa, mi sono tornate subito in mente le parole di Esme: “Edward suona fin da quando era piccolo, e già all’età di diciassette anni si dilettava a comporre melodie. Quando aveva diciannove anni mi ha persino scritto una canzone meravigliosa per il mio compleanno. Purtroppo è da alcuni anni che non scrive più niente e non suona più il pianoforte davanti a qualcuno…”. Così ho comprato il set. Io ed Edward avevamo appena fatto pace, era passato solo un giorno dal suo provino alla Juilliard, ed io ero ancora in alto mare con i regali da fare. Mi sembrava una scelta giusta per lui, ma adesso che lo vedo con il capo chino su quegli oggetti, senza alcuna reazione apparente oltre alla sorpresa, non ne sono più così sicura. Anzi, tutt’altro.

«Mi hanno detto che componi, oltre a suonare…», mi affretto a spiegare, imbarazzata e in preda al panico. Avrei dovuto fargli un altro regalo, dannazione. Avrei dovuto chiedere ad Emmett e Jasper un parere maschile prima di fare questa sciocchezza. «Ho pensato che forse-».

«È un regalo bellissimo, Bella», mi interrompe, incrociando finalmente il suo sguardo. Le sue labbra si piegano in un sorriso dolce e sincero. «Grazie».

Il suo sguardo e le sue parole bastano a farmi calmare completamente, mentre i nostri sguardi rimangono incatenati.

Emmett si schiarisce la voce, e distogliamo lo sguardo nello stesso momento. «Se volete posso andare a prendere il vischio dall’altra stanza, ragazzi», ghigna, facendomi arrossire e abbassare lo sguardo sulle mie mani. Solo adesso mi rendo conto che una mano di Edward è stretta alla mia, e che probabilmente è lì da quando mi ha tranquillizzato riguardo il suo regalo.

Edward scioglie la presa in un attimo, e accartoccia la carta da regalo per poi lanciarla contro suo fratello, che ghigna dall’altra parte della stanza, stravaccato a terra vicino l’albero. Lo colpisce in testa, ed Emmett cade teatralmente all’indietro, fingendosi morto.

Jasper ed Alice ridono spensierati, mentre i coniugi Cullen si tengono per mano sorridendosi felici a vicenda; io riesco a ridere, ancora imbarazzata e nervosa, ed Edward appoggia la valigetta accanto al divano. E dopo aver finito di scartare gli altri regali torna a stringermi la mano, almeno finché Alice non lo richiama.

«Eddy, puoi venire ad aiutarmi?», gli chiede, mentre osserva gli ultimi regali rimasti: quelli per me e per lei… credo.

Lui si alza, e raggiunge la sorella accanto all’albero, dove solleva un enorme pacco rettangolare. Quando lo posa sul tavolino da caffè - da cui Emmett ha spostato tutto quello che lo occupava fino a un minuto fa - mi sorride.

«Per Bella, da Rose, Jasper, e la famiglia Cullen», recita con un sorriso entusiasta Alice.

Inarco le sopracciglia, ma rimango seduta. «Sei sicura che sia quello il mio?», chiedo, esitante e imbarazzata.

Cosa possono avermi comprato di tanto grande?

Alice alza gli occhi al cielo con un sorriso. «Certo che sì! Forza vieni ad aprirlo!»

Mi alzo titubante, e mi inginocchio davanti al regalo, sotto gli sguardi di tutti i presenti. Faccio scivolare a terra l’enorme fiocco rosso, e strappo la carta da regalo, rivelando una scatola di cartone ondulato. Con l’aiuto di una forbice taglio via lo scotch che chiude i bordi, e rivelo una custodia di pelle nera lucida. Una custodia per chitarra.

«Wow», dico, con un sorriso, anche se la tristezza inizia a prendere il sopravvento. «È una bella custodia», mormoro, accarezzando la pelle lucida. È una custodia bellissima, perfetta per evitare danni alle chitarre. Peccato che la mia chitarra sia già distrutta, quindi…

«Perché non la apri?», mi chiede Edward, inginocchiato davanti a me, dall’altra parte del tavolino. Le sue labbra si piegano in un sorriso sghembo.

Faccio scattare il gancio che chiude la custodia, e sollevo il coperchio. E quando finalmente la luce del lampadario e del fuoco nel camino illuminano quel che c’è al suo interno per poco non svengo.

«È…», balbetto, non riuscendo a trovare la voce e le parole. Alzo gli occhi in cerca di Edward, e lo trovo intento ad osservarmi con il sorriso sulle labbra. «Tu hai… Voi…»

Nella custodia è riposta una chitarra. Ma non una chitarra qualunque: è la Gibson Hammbingbird che ho suonato questo pomeriggio al negozio di musica con Edward.

«Ti piace?», mi domanda Alice, sedendosi a terra accanto a me.

«E me lo chiedi anche?», ribatto, mordendomi con forza il labbro inferiore, mentre le lacrime di commozione e felicità si addensano agli angoli degli occhi. «È il regalo più bello che abbia mai ricevuto». Alzo lo sguardo verso tutti i presenti. «Non so davvero come ringraziarvi».

«Potresti iniziare con un abbraccio a testa», propone Alice, prima di travolgermi con il suo piccolo corpo facendomi quasi cadere all’indietro sul pavimento.

Rido ancora sconvolta per questo regalo del tutto inaspettato, ricambiando con tutto l’affetto e l’energia possibile l’abbraccio della mia amica, per poi alzarmi e fare la medesima cosa con tutti gli altri, prima con Esme, che stringo calorosamente, come se fosse mia madre, poi Carlisle e Jasper, un po’ più imbarazzata ed impacciata, e in seguito Emmett, che mi solleva da terra facendomi roteare come se fossi una bambina e non una ragazza un po’ cresciutella, scatenando le risate degli altri.

L’imbarazzo maggiore arriva quando arrivo davanti ad Edward, e sotto gli sguardi dei nostri amici e suoi familiari lo abbraccio.

Il suo corpo è rigido per la tensione, ma quando sto già per allontanarmi le sue braccia mi circondano, e sento il suo respiro fra i capelli, e la sua bocca cercare il mio orecchio.

«Ti sto abbracciando e non ti ho chiesto il permesso. Credi che ci saranno delle ripercussioni?», sussurra, e lo sento sorridere.

Rido leggermente, tenendo anch’io un tono basso, per non farmi sentire dagli altri. «Tecnicamente, sono stata io ad abbracciarti. Tu hai solamente risposto. Quindi non credo si possa considerare una vera e propria effrazione alla promessa», rispondo.

Ci separiamo un secondo dopo, e prima ancora che l’imbarazzo prenda il sopravvento Emmett ci abbraccia da dietro, stringendoci entrambi al suo fianco.

«Abbraccione di famiglia! Vieni anche tu, Jazz, avanti!», esclama l’orso, mentre Alice si unisce all’abbraccio collettivo, seguita a ruota dal suo ragazzo, che si alza dal divano alzando teatralmente gli occhi al cielo.

«Che ne dite di una foto?», propone Carlisle, quando lui e sua moglie si alzano per raggiungerci, incitati dalla figlia.

Esme va accanto ad Edward dalla parte opposta, mentre Carlisle recupera la macchina fotografica e la sistema sul bordo del divano, inserendo l’autoscatto.

«Pronti?», chiede, prima di premere un tasto e correre fino accanto Jasper, sorridendo all’obiettivo.

Quando il flash scatta capisco che è così che avrei voluto passare tutti i Natali precedenti. Con una famiglia unita e con degli amici che solo con la loro presenza ti regalano molto di più di quanto possa valere qualsiasi dono comprato. Non ho mai provato questo genere di sensazione prima d’ora, ma so già che non riuscirò più a farne a meno.

«E adesso tutti seduti», romba Emmett, sciogliendo l’abbraccio di gruppo e afferrando il cappellino da Babbo Natale dalla testa di Alice. «Babbo Emm ha del lavoro da fare».

E così, ridendo e scherzando, torniamo tutti a sederci, mentre il fratello orso distribuisce i regali ad Alice, facendo passare velocemente il tempo.

Giunte le tre di mattina, Esme e Carlisle ci consigliano di andare tutti a dormire, e mamma Cullen ci assicura che se entro le dieci non saremo tutti in piedi, verrà lei stessa a svegliarci con una secchiata d’acqua ghiacciata. L’aereo partirà alle tredici, quindi dovremo sbrigarci eccome.

Resto in salotto da sola, e osservo la mia nuova chitarra illuminata solo dalle fiamme del camino. È bellissima. Avevo sempre sognato di avere una chitarra simile, ma mai avrei creduto che un giorno questo sogno sarebbe divenuto realtà.

«Sei felice?», mi domanda all’improvviso una voce alle mie spalle, molto vicina.

Sussulto, e mi volto verso Edward, che ha i gomiti poggiati sul bordo del divano su cui sono seduta e mi osserva in silenzio. Da quanto tempo è qui? Non l’avevo sentito arrivare.

«Sì», rispondo senza pensarci, facendolo sorridere.

Si solleva e fa il giro del divano, sedendosi accanto a me.

Abbasso lo sguardo, in imbarazzo come mi ritrovo ogni volta che restiamo soli e così vicini. «Hai organizzato tutto tu?», gli chiedo, cercando una risposta al mio quesito mentale di prima. «Mi riferisco alla chitarra come regalo».

Edward si schiarisce la voce, e distoglie a sua volta lo sguardo, leggermente a disagio. «No. Sapevo che mi avresti ucciso se mi fossi permesso di regalartela da solo… quindi ho pensato di chiedere agli altri di unirsi a me per il regalo».

Scuoto il capo, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Ti dovrei uccidere comunque, lo sai, vero? Con quello che vi sarà costata-».

Edward alza gli occhi al cielo. «Bella», mi riprende. «Se non sbaglio neanche tu hai pensato molto alle spese per i nostri regali, o sbaglio?»

Arriccio le labbra, presa in contropiede. «Ma-».

«Niente ma». Si volta verso di me, e stringe la mia mano. «Non pensiamo a quanto sono costati i regali, okay?»

«Okay», rispondo, conscia che combattere contro di lui è inutile.

Abbasso lo sguardo sulle nostre mani, e osservo le sue dita scivolare sulle mie, disegnare percorsi immaginari sul dorso e poi tornare ad intrecciarsi alle mie.

I brividi scendono a cascate lungo la mia schiena, irradiandosi dalla nuca; sento le guance bollenti. Alzo lo sguardo fino ad arrivare al suo viso, e lo trovo concentrato sulle nostre mani unite. I suoi capelli scompigliati alla luce del fuoco creano un gioco di colore rosso e nero, e alcune ciocche ricadono sbarazzine sulla sua fronte chiara, piegata da una ruga dovuta alla concentrazione. Gli occhi verdi riflettono le fiamme, diventando quasi dorati, mentre le sue labbra si aprono per parlare.

«Ricordi il discorso di martedì notte? Quello sull’essere sicuri di una determinata cosa?»

Mi irrigidisco per l’imbarazzo e la sorpresa. Le guance già arrossate dal fuoco vivo diventano incandescenti. «Sì», sussurro.

La sua mano continua a stringere la mia, e il panico inizia a prendere il sopravvento.

Rimango immobile come un statua, trattenendo il respiro.

“Mi dispiace, Bella, ma ho capito che non sono interessato a diventare più di un amico per te. Scusami per averti illusa, spero che le cose fra di noi non cambino, comunque.” È da quando siamo rientrati da Seattle che mi ripeto questa frase, che segnerà il momento in cui il mio cuore si spezzerà in due.

I suoi occhi cercano i miei, e in essi leggo una determinazione mai vista prima d’ora.

«Ho-».

La porta del soggiorno si spalanca, e sulla soglia comprare Esme, che prima ancora di accendere la luce si accorge di noi, e si immobilizza. Ed io riprendo a respirare.

«Oh. Scusate, non sapevo ci fosse ancora qualcuno…», si scusa, mortificata. I suoi occhi vagano da me a suo figlio, e fa un passo indietro, mentre un piccolo sorriso piega le sue labbra. «Edward potresti spegnere tu il fuoco prima di andare a dormire?», gli chiede, prendendo nuovamente il pomello della porta, pronta a richiuderla alle sue spalle.

«Certo, mamma», risponde Edward, tranquillo.

Lei sorride e ci augura la buonanotte, prima di richiudere la porta, lasciandoci nuovamente soli.

Il silenzio cala fra di noi, ma è di nuovo Edward a spezzarlo.

«Bella».

I nostri occhi si incontrano, e il mio respiro si ferma nuovamente.

«Non mi basta essere solo amici. Voglio di più», mi dice, tutto d’un fiato.

«Edward, io…», provo a dire, senza fiato, sentendo la testa girare e il cuore battere impazzito nel petto. L’ha detto. Ha detto quelle parole.

Lui porta due dita a coprirmi le labbra, interrompendomi. «Aspetta. Non devi rispondermi subito. Pensaci un po’, e quando sarai sicura mi darai una risposta, okay?»

Annuisco, senza riuscire a far uscire le parole dalla mia bocca. Ha detto che non mi vuole solo come amica. L’ha detto.

Lascia scivolare le dita sulle mie labbra, allontanandole lentamente e procurandomi un brivido lungo la schiena. «Credo sia meglio andare a dormire ora», aggiunge con un sorriso.

Abbasso lo sguardo sulle nostre mani ancora intrecciate, sentendo le guance bruciare come mai prima d’ora.

Non posso dirgli adesso che anch’io voglio più di una semplice amicizia con lui, e che ne sono più che certa già da tempo. Mi ha appena chiesto di pensarci bene, e lanciarmi subito in un’ammissione ora potrebbe fargli credere che prenderei la nostra storia alla leggera, senza pensieri, cosa che non voglio che accada.

Edward si alza, interrompendo i miei pensieri, e mi lascio tirare per la mano per rimettermi in piedi. Quando siamo uno di fronte all’altra, lui si china, e le sue labbra si posano vicino all’angolo della mia bocca, leggere come una piuma, ma bollenti come fuoco vivo.

Sgrano gli occhi, mentre la presa intorno alla mia mano aumenta per pochi secondi.

«Buon Natale, Bella», sussurra, dopodiché si allontana.

Mi guarda per un secondo ancora negli occhi, poi scioglie la presa delle nostre mani, per dirigersi verso il camino e iniziare a spegnere il fuoco con gli attrezzi lì accanto.

Richiudo la chitarra nella custodia, e la sollevo facendo attenzione a non scuoterla. Resto a guardare il profilo del ragazzo davanti a me ancora per pochi secondi, e dopo aver sussurrato un ‘Buon Natale, Edward’, esco dalla stanza. Corro su per le scale, ed arrivo velocemente nella camera che condivido con Alice. Anche se Esme e Carlisle sono entusiasti di Jasper, preferiscono evitare di farli dormire insieme sotto il loro stesso tetto, anche se sanno benissimo come gira il mondo e soprattutto che divideranno la camera insieme quando saremo a Whistler.

Alice è ancora sveglia, seduta a gambe incrociate sul letto matrimoniale. Appena mi richiudo la porta alle spalle lancia in un angolo la rivista che stava leggendo, mettendosi sull’attenti.

«Come mai ci hai messo tanto?», mi chiede, riferendosi alla custodia che contiene la chitarra, salda fra le mie mani. La appoggio in un angolo, dove non rischio di toccarla accidentalmente o di farla cadere.

Tentenno per qualche secondo, cercando di prendere tempo mentre mi tolgo gli stivali. «Ho fatto con calma, non volevo sbattere a destra e sinistra la chitarra. È stata una festa meravigliosa. Non finirò mai di ringraziarvi».

Alice alza gli occhi al cielo, gesticolando. «Lo so. Non devi ringraziarci. Comunque non provare a prendere tempo inventando balle. Con me non attacca, e tu non sei molto brava a mentire, lo sai. Avanti, cos’è successo mentre eri giù?»

Sospiro, e mi siedo sul bordo del letto. «Alice, è tardissimo. Possiamo parlarne domani, no?»

«Ahah!», esclama vittoriosa. «Quindi è successo qualcosa di cui bisogna parlare».

«Questo è quello che pensi tu», ribatto, mentre mi infilo il pigiama, anche se non riesco a trattenere un sorriso mentre le parole di Edward risuonano nella mia testa.

Alice fa un sorriso furbo. «La mamma è passata poco fa per augurarci la buonanotte, e mi ha detto che ci stava pensando Edward al camino. Ergo, vi siete incontrati in salotto. Forza, voglio i dettagli».

Prendo un profondo respiro. «Abbiamo parlato un po’…»

La mia amica annuisce con la testa, e mi fa segno con una mano di andare avanti.

Arrossisco, e le ripeto le parole di Edward. E mentre lei scapita e mi abbraccia, quasi più emozionata di me, mi rendo conto di quanto tutto questo sia reale. Sta succedendo davvero. Non sto sognando.

E di notte, non riuscendo a chiudere occhio, prendo la mia decisione: alla prima occasione dirò anch’io ad Edward quello che voglio. E spero che quell’occasione arrivi quanto prima.

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Questa è la casa che ho sempre sognato per i coniugi Cullen :D


Ebbene sì, Edward l’ha detto ù.ù non ci ha messo poi così tanto, no?

Complimenti alle ragazze che hanno indovinato che sarebbe stato lui il primo a farsi avanti, ovvero hermron e grepattz :D

Adesso manca solo Bella… quando si farà avanti?

Grazie per essere arrivati fin qui a leggere, e grazie per continuare nonostante tutto a recensire e aggiungere la storia alle preferite/seguite/ricordate.


Per gli spoiler, questo è il blog: TRA SOGNO E REALTA'.


Grazie, e a presto! :***

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Capitolo 19
*** Capitolo 18__Sciogliti ***


Salveee! :D

Sono in ritardissimo, sorry. Avevo in mente questo capitolo da tantissimo tempo, ma ogni volta che lo scrivevo non mi piaceva, così cancellavo e riscrivevo tutto da capo. Così è passato un mese. Ci tevevo a postarlo entro Natale, però, quindi ieri mi sono messa di impegno, e spero che il risultato non sia un obbrobrio :)

Il capitolo è lunghetto, perciò vi lascio subito alla lettura :)

Buona lettura! :D

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Don’t Leave Me Alone

Capitolo 18__Sciogliti

Venerdì 25 Dicembre

Bella

“Avvisiamo i gentili viaggiatori che per motivi di sicurezza l’aeroporto è sorvegliato da telecamere a circuito chiuso. I bagagli incustoditi verranno sottoposti a controlli della sicurezza…”

Distolgo l’attenzione dall’ennesimo annuncio all’altoparlante, e lancio un’occhiata spazientita all’orologio: le undici e venti. Questo significa che tra non molto inizieranno a imbarcare per il nostro volo, diretto a Vancouver, e non vedo l’ora che succeda. Aspetto solo di potermi sedere per dormire un po’, sono esausta. Questa notte non sono riuscita a chiudere occhio per moltissimo tempo; credo fossero ormai le quattro quando sono finalmente riuscita ad addormentarmi. Il motivo? Continuavo a ripetere nella mia mente le parole di Edward, e la mia mente immancabilmente si proiettava nei scenari più disparati del futuro. Sono ormai un caso perso.

«Resisti, tra un quarto d’ora potrai dormire», sussurra una voce al mio fianco, con una punta di divertimento.

Mi copro la bocca, nascondendo l’ennesimo sbadiglio. «Quindici minuti sono troppi», bofonchio, muovendo la testa per sgranchire i muscoli del collo, intorpiditi. Siamo seduti su queste panchine da più di mezz’ora e nonostante il caffè bevuto appena sveglia mi sento addormentata.

Edward ride leggermente, continuando a leggere il quotidiano comprato nell’unica edicola aperta dell’aeroporto. I negozi, ad eccezione di alcuni, sono chiusi, ed i viaggiatori sono davvero pochi; il gruppo più consistente è formato da me, Edward, Alice, Jasper ed Emmett, seduti accanto al gate del nostro volo; le altre persone sono perlopiù coppiette in viaggio e uomini di lavoro che non si fermano nemmeno il giorno di Natale o che rientrano solamente oggi a casa. Inizio a chiedermi perché Alice abbia deciso di partire proprio oggi invece di domani.

La mia amica si muove inquieta al mio fianco per tutto il tempo, accavallando le gambe di continuo, nervosa.

«Vado a comprare qualche rivista da leggere durante il volo!», esordisce infine, alzandosi dalla poltrona. «Vieni con me, Bella?»

Annuisco, per il semplice motivo che se non faccio subito qualcosa per risvegliare i muscoli intorpiditi mi potrei addormentare su questa sedia, e non trovare neanche la forza per arrivare all’aereo. Così mi alzo a mia volta, e la seguo in direzione dell’unico giornalaio aperto nel terminal in cui ci troviamo. Non appena siamo a debita distanza dai ragazzi, però, la mia amica si avvicina, fissandomi con fare cospiratorio.

«Allora, gliel’hai detto?», sussurra, facendo attenzione a non essere sentita da nessuno.

«Cosa? A chi?», domando, inarcando un sopracciglio, addormentata.

Alice ruota gli occhi, scuotendo il capo. «Ad Edward, ovviamente. Quella cosa. Quello di cui abbiamo parlato ieri sera».

Arrossisco, cadendo dalle nuvole e risvegliandomi un po’. «Eh? No, figurati. Quando avrei potuto dirglielo? Ci siamo visti neanche un’ora fa!»

Alice arriccia le labbra. «E quanto aspetti a dirglielo?», sbuffa. «Lascia stare. Ci penserai in aereo. Hai ben 6 ore per trovare un modo per dirglielo».

Scuoto il capo. «Alice, non è così semplice», borbotto, mentre entriamo nell’edicola e ci dirigiamo verso le riviste. «Quando ci sarà l’occasione glielo dirò».

Lei alza gli occhi al cielo. «Allora dovrai aspettare in eterno. Conoscendo Edward non tirerà più fuori l’argomento perché penserà che non sei affatto interessata a lui come ragazzo».

Aggrotto le sopracciglia, mordendomi il labbro inferiore. Alice ha ragione. Edward non mi chiederà direttamente se ho pensato alle sue parole, per paura di allontanarmi. Abbiamo già affrontato questa situazione con i contatti fisici, e a quel punto abbiamo perfino dovuto ricorrere ai permessi per abbracciarci. In questo caso cosa potremmo fare?

Questa mattina avevo paura di rivedere Edward; ero sicura che l’imbarazzo ci avrebbe travolto entrambi, portandoci a parlarci a mala pena, ma per fortuna mi sbagliavo. È come se non fosse successo nulla ieri sera, e non so se essere felice o triste per questo.

«Glielo dirò presto», sussurro, al tempo stesso emozionata e terrorizzata. Nonostante la sicurezza infusami dalla sua dichiarazione sono comunque atterrita.

Alice alza gli occhi al cielo, mentre afferra alcune riviste e si dirige verso la cassa. «Ecco, così mi piaci».

Sospiro, trattenendo un altro sbadiglio.

Quando torniamo dagli altri hanno appena aperto le porte del gate, poco affollato. Tutti ci aspettano con i biglietti e i passaporti in mano, pronti a salire a bordo dell’aereo, e nel giro di pochi minuti ci ritroviamo ai nostri posti, disposti tutti e cinque su un’unica fila. Io ed Edward da un lato, e Jasper, Alice ed Emmett dall’altro.

Mi sistemo meglio vicino al finestrino, guardando la pista di fianco a noi, semideserta anch’essa.

«Sai, se il posto vicino al mio non è occupato dopo potresti perfino sdraiarti», mormora Edward, quando appoggio la testa sulla sua spalla, stanca. Voglio solo riuscire a resistere durante il decollo per poter poi abbassare lo schienale ed essere più comoda.

«Non mi dare illusioni», bofonchio con un sorriso, ad occhi chiusi.

Edward sussurra qualcos’altro, ma mi sono già addormentata. Mi sveglio pochi minuti dopo, a causa del suono della voce del pilota dell’aereo che informa i passeggeri della durata del viaggio - sei ore, all’incirca - e altre cose. L’aereo è già decollato, e fuori dal finestrino New York scorre sotto i nostri occhi, lontana.

Edward nota il mio risveglio, perché mi parla: «Buone notizie. Il posto vicino è libero. Vuoi sdraiarti?»

«Come?», sussurro, intontita per il brusco risveglio.

«Se mi sposto di un posto poi puoi appoggiare la testa sulle mie gambe e sdraiarti un po’».

Impiego qualche secondo a capire cosa vogliono dire le sue parole, ma ad Edward bastano per scivolare di un posto, sollevando entrambi i braccioli fra i tre sedili.

Rimango indietro, arrossendo violentemente. «Non credo che…» …sia una buona idea.

«Dai, Bella. Saremo più comodi entrambi, non credi? Non voglio rischiare di svegliarti ogni volta che mi muovo o peggio che ti venga male al collo». Sorride.

Alla fine la stanchezza ha la meglio su tutto, persino sul mio imbarazzo. Mi sposto vicino a lui, e mi sdraio piegando al petto le gambe, ringraziando per una volta la mia bassa statura che mi permette di sistemarmi perfettamente in quell’angusto spazio.

Sotto la guancia, nonostante il piccolo cuscino dato in dotazione dalla compagnia di volo, sento la consistenza soda ma morbida delle gambe di Edward, e lascio che le palpebre troppo pesanti si richiudano, gettandomi nel buio.

E mentre sento la mano di Edward accarezzarmi delicatamente i capelli, mi addormento.

 

«Hai sentito Rose?», domando ad Alice non appena abbiamo recuperato i nostri bagagli dal nastro di raccolta dell’aeroporto.

La mia amica annuisce, tirandosi dietro un trolley, mentre Jasper spinge alle nostre spalle un carrello con altre due valigie della sua ragazza, il suo borsone e il pacco contenente la loro attrezzatura da sci.

La mia valigia invece è sul carrello spinto da Emmett, che mentre si fa strada attraverso la fila di porte scorrevoli scandaglia le poche persone in attesa alla sala degli arrivi, alla ricerca di una chioma bionda.

Edward è vicino a Jasper, con il quale parla di quello che sarà il programma di domattina, sperando nelle buone condizioni del tempo.

Ho dormito per quasi cinque ore in aereo, ovvero per quasi l’intera durata del viaggio. Quando mi sono risvegliata avevo solo bisogno di sgranchirmi le gambe, ma per fortuna non avevo alcun male al collo, proprio come aveva detto Edward.

«Ehi, ragazzi!»

Ci voltiamo tutti in direzione della familiare voce che arriva attraverso il lieve brusio in sala, e finalmente vediamo Rosalie. La sua chioma bionda spicca in mezzo ai colori scuri dell’aeroporto come una lampadina, mentre scuote una mano in aria nella nostra direzione, venendoci incontro senza allontanarsi troppo dalle sue valigie, vicine ad una panchina.

Prima ancora di poter dire qualcosa arriva vicino a me ed Alice, e ci stringe in un unico abbraccio. È passata solo una settimana dall’ultima volta che ci siamo viste, eppure sembra passato molto più tempo.

Non facciamo neanche in tempo a separarci che Alice ha già iniziato a insediarla di domande, cercando di strapparle quante più informazioni possibili su cosa ha fatto, chi ha visto, come ha passato la settimana in famiglia.

Rosalie risponde con un sorriso a tutte le sue domande mentre saluta anche gli altri, prima di lasciarsi stringere nell’abbraccio di Emmett, che sorride come un bambino nel giorno di Natale, e di lasciarsi baciare dal suo ragazzo.

 

Pochi minuti dopo ci troviamo davanti all’autonoleggio dell’aeroporto. I ragazzi sono entrati nell’ufficio a discutere le ultime pratiche per il noleggio delle auto, mentre io, Alice e Rose siamo rimaste fuori con le valigie, davanti alle file infinite di automobili di ogni tipo.

Rosalie sorride, prendendo la parola. «Com’è stato il viaggio? Scommetto che il fuso orario vi scombussola».

Prima che possa rispondere, Alice interviene.

«Giusto, Rose. Allora, Bella?», trilla Alice, avvicinandosi a me con un sorrisetto malizioso. «Com’è andato il volo?»

Distolgo lo sguardo, sentendomi arrossire fino alla punta dei capelli. «Non riniziare, ti prego. Non gli ho ancora detto nulla».

«Di cosa state parlando?», chiede Rose, ancora all’oscuro degli ultimi avvenimenti.

«Edward ha detto a Bella che vuole stare con lei!», le dice la mia coinquilina, con un tono di voce troppo alto.

«Shh!», sibilo arrossendo, guardandomi alle spalle per vedere se i ragazzi dentro il locale hanno sentito qualcosa. Nessuno di loro si volta verso di noi per fortuna, ancora tutti coinvolti a parlare con l’uomo del noleggio auto.

Le sopracciglia bionde di Rose schizzano verso l’alto, l’espressione sorpresa. «Davvero?» Sorride. «Ce ne ha messo di tempo, eh?»

Inarco un sopracciglio, e sto per ribattere che sono passati solo un paio di giorni da quando Edward ha dimostrato di essere interessato ad una relazione con me, ma mi zittisco appena Emmett esce dal locale, seguito dagli altri due.

«Andiamo ragazze? Abbiamo ancora quasi due ore di viaggio prima di arrivare a Whistler», dice Jasper, con due chiavi in mano.

Alice si attacca al braccio del suo fidanzato e gli prende le due chiavi, dandone una ad Emmett mentre l’altra la porge ad Edward. «Eddy? Ti dispiace guidare tu l’altra auto? Vorrei che Jazz non guidasse», gli dice con aria innocente.

Edward inarca un sopracciglio, perplesso per quella domanda inaspettata. «Non c’è problema», ribatte, afferrando le altre chiavi.

Alice sorride ancora, ed alzo gli occhi al cielo, capendo cosa sta facendo, mentre suo fratello sembra ancora ignaro dei suoi piani. «E dato che sei allergico alle nostre dimostrazioni d’affetto andremo con Rose ed Em. Non voglio iniziare a litigare con te perché sei insofferente».

Edward è sempre più perplesso. «Non sono insofferente», borbotta, mentre Alice gli fa la linguaccia. «Comunque non ti preoccupare, sorellina. Non ci tengo a rischiare di fare un incidente ogni volta che mi arrischio a guardare nello specchietto retrovisore, quindi andate pure con Emmett e Rose».

Così ci dirigiamo tutti verso le auto, parcheggiate una accanto all’altra: sono due jeep argentate, come quella di Emmett, con i porta-sci sopra il tettuccio.

Carichiamo i bagagli sulle auto, dopodiché ci diamo appuntamento alla baita, separandoci.

Quando nessuno ci guarda, Alice si volta verso di me, e il suo labiale è chiaro: “Diglielo”.

 

Pochi minuti dopo la partenza, in auto è calato il silenzio, spezzato solo dal lieve chiacchiericcio della radio in sottofondo, intervallato da pezzi di canzoni. Il paesaggio scorre veloce fuori dal finestrino, innevato e illuminato dal sole che sta ormai calando velocemente dietro le montagne che ci circondano.

La jeep di Emmett è davanti alla nostra, ed Edward la segue restando a qualche metro di distanza, mentre i suoi occhi rimangono fissi sulla strada nera, che risalta in mezzo alla distesa bianca che si estende fino al bordo della carreggiata.

Quando anche gli ultimi raggi di sole calano dietro le montagne, inizio a sentire questo silenzio sempre più pressante.

«Edward?», lo chiamo, voltandomi verso di lui, concentrato sulla strada.

I suoi occhi si voltano nella mia direzione per un secondo, per poi tornare a fissare oltre il vetro. «Mh?»

«Manca ancora molto a Whistler?»

Lui lancia un’occhiata all’ora, aggrottando leggermente la fronte. «Credo che in mezz’ora dovremmo arrivare. Ti stai annoiando?», mi chiede poi, con una punta di incertezza.

«No», rispondo subito, sinceramente. Rimango in silenzio per un secondo, poi decido di continuare a parlargli. «Da quant’è che non venivi qui in vacanza?»

Edward si irrigidisce, e per qualche secondo le sue dita si stringono intorno al volante con più forza, facendo quasi sbiancare le nocche. Poi prende un profondo respiro, e la sua presa diminuisce, e le rughe sul suo viso si distendono. «Da quattro anni», risponde, improvvisamente teso.

Annuisco, rimanendo in silenzio, scossa dalla sua strana reazione. «Va tutto bene?», mi azzardo a chiedergli, sperando di non peggiorare la situazione. Il suo umore è improvvisamente cambiato, e non riesco a capirne il motivo.

Edward scuote il capo in senso affermativo, ma la sua postura rimane rigida e nell’aria la tensione è palpabile. «L’ultima volta che sono venuto qui c’erano anche Esme e Carlisle. Credo sia stata l’ultima vacanza che abbiamo fatto come famiglia con anche Alice ed Emmett».

«E non siete più tornati qui da allora?»

Edward aggrotta le sopracciglia. «Non tutti. Alice e Jasper sono venuti qui a fare la settimana bianca l’anno scorso, ed anche Esme e Carlisle vengono a passare qualche settimana in estate e inverno tutti gli anni. Credo che solo Emmett ed io non siamo più tornati».

Fra di noi cala di nuovo il silenzio, e notando l’ombra scura calata sui suoi occhi decido di non insistere più su questo argomento. Ho la sensazione che Edward non abbia alcuna voglia di rivelarmi quale sia il motivo per cui la sua famiglia non si è più ritrovata su queste montagne per festeggiare le vacanze, e non voglio costringerlo a parlare di qualcosa che possa guastare il suo umore.

«Significa che non scii da quattro anni?», gli chiedo, con un tono di voce più allegro.

Edward inarca un sopracciglio, lanciandomi un’occhiata veloce. «Già».

Sorrido. «Allora non sarò l’unica a rischiare di fare qualche figuraccia per la mancanza di allenamento, domani».

Finalmente Edward sorride, e la strana tensione di poco fa sparisce, insieme all’ombra che era calata sui suoi occhi. «Anche se non scio da quattro anni non significa che cadrò di sicuro».

«Vuoi scommettere?», lo sfido, allegra.

«Ci sto», risponde prontamente, con un ghigno divertito sulle labbra. «Qual è il premio per chi vince?»

«Possiamo deciderlo poi sul momento», propongo, mentre lo osservo.

«Sicura di non voler porre alcun limite alle richieste?», mi domanda, con un sorrisetto malizioso.

Sento le guance infiammarsi, ma non distolgo lo sguardo. «Non hai intenzione di ordinarmi un omicidio nel caso vincessi, vero?»

Edward ride tranquillo. «Certo che no. Anche se in effetti dopo aver visto cosa sei in grado di fare quando ti arrabbi con qualcuno potrei prendere in considerazione l’idea di usarti come killer. Scommetto che Jessica Stanley ha gli incubi quando sogna la vostra lotta».

Rimango in silenzio per un lungo istante, mentre il nome di Jessica Stanley riporta alla mia memoria momenti difficili e sgradevoli, lacrime e dolore. A causa sua ho passato le ventiquattr'ore più orribili della mia vita, seguite da una settimana difficile e opprimente. Edward percepisce il mio improvviso cambio d’umore, perché la sua risata si spegne subito. Ma pochi istanti dopo sono io a scoppiare a ridere, lasciandolo basito.

Lascio che non siano i pensieri negativi a prendere il sopravvento, ma piuttosto i ricordi più piacevoli; ripenso alla faccia rossa di rabbia e graffi di Jessica subito dopo la nostra lite in ufficio, ai suoi capelli spettinati simili ad un nido di rami e alle unghie, alcune lunghe e finte, altre corte.

«Ti ricordi come camminava quando se n’è andata dall’ufficio?», gli chiedo, ricordando di averla vista mentre Edward mi tratteneva dal rincorrerla per continuare la lotta.

La sua risata si sovrappone alla mia, mentre il suo sguardo rimane fisso sulla strada. «Per forza, l’hai terrorizzata talmente tanto che non si è nemmeno fermata per rimettersi la scarpa che aveva perso».

Quando le risate si spengono fra di noi cala nuovamente il silenzio, e prendo un profondo respiro, sentendomi finalmente pronta.

«Ho pensato a quello che mi hai detto ieri sera», sussurro, sentendo le guance bollenti, e senza avere il coraggio di guardarlo. Osservo il suo riflesso nel finestrino al mio fianco, e mi sembra quasi di percepire la tensione nuovamente presente nell’auto.

Edward rimane in silenzio, in attesa che continui.

«Credo…». Mi mordo il labbro. La sicurezza che ho avvertito un istante fa sembra essersi dissolta non appena ho iniziato a parlargli, ma ormai è troppo tardi per tirarsi indietro. Devo dirglielo. Voglio dirglielo. «Anch’io non voglio essere solo un’amica per te», sussurro infine, resistendo all’impulso di chiudere gli occhi.

Nei successivi dieci secondi di silenzio sento solo il mio cuore tamburellare frenetico nel mio petto, e i suoi battiti che rimbombano assordanti nelle mie orecchie, mentre osservo il riflesso di Edward, immobile.

«Ne sei sicura?», sussurra, incerto.

Mi volto lentamente nella sua direzione, osservando il suo profilo, mentre i suoi occhi scrutano la strada.

«Sì. Sì, certo», rispondo semplicemente.

E la mia risposta gli basta, perché le sue labbra si piegano in un sorriso, specchio del mio.

 

Come mi aspettavo, lo chalet dei Cullen non ha niente a che vedere con le piccole baite di montagna a cui sono abituata. È una bellissima baita a tre piani, con tanto di seminterrato, nascosta fra i boschi delle montagne, ad appena un chilometro dal centro di Whistler; le pareti sono costruite in pietra e legno, ed una breve scala in ciottoli conduce alla porta principale. Un ingresso accogliente e interamente in legno conduce alla cucina e al salotto, da cui due portefinestre conducono ad una veranda che ospita un barbecue e un dondolo, perfetti per la stagione estiva. Ora invece la casa è immersa nel manto bianco e immacolato della neve, che la avvolge da cima a fondo, nascondendo le piante sempreverdi che circondano come una siepe il piccolo giardinetto dietro la casa, dove una fontana spenta troneggia circondata da cespugli spogli.

In cima alle scale si trovano quattro camere da letto, due bagni, e, all’ultimo piano, un’altra camera da letto, che da quanto mi ha detto Alice è quella che usano sempre Esme e Carlisle quando vengono qui.

Appena giunti qui ci siamo tutti ritirati nelle nostre rispettive stanze per disfare i bagagli e rinfrescarci dopo il lungo viaggio. La mia camera si affaccia sul retro della casa, illuminato da alcuni piccoli lampioni che gettano fasci di luce sul piccolo giardinetto innevato.

Proprio come mi aspettavo da un’arredatrice d’interni come Esme, tutte le camere sono diverse fra loro, ognuna di un colore diverso e con i mobili che seguono lo stile della stanza.

Quando si avvicina l’ora di cena scendo in cucina, dove trovo Emmett già posizionato dietro i fornelli, alle prese con alcune pentole. Dopo aver scoperto che Rosalie l’ha spedito qui a cucinare per tutti decido di dargli una mano, e in poco tempo riusciamo a mettere insieme una cena per sei persone, grazie alle provviste che Alice ha portato da casa per evitare di andare a fare la spesa questa sera stessa.

Ceniamo tutti insieme, seduti intorno al tavolo della sala, con la televisione in sottofondo che trasmette le notizie dell’ultima ora ed una bottiglia di vino stappata da Emmett in occasione della prima sera di vacanza ufficiale.

«Che ne dite di andare in paese a fare un giro? Se non sbaglio in centro dovrebbe esserci una specie di festa di Natale», propone Alice, dopo aver riposto tutti i piatti in lavastoviglie.

«Adesso?», chiedo, perplessa, guardando l’orologio. Segna solo le nove, ma a New York, per il fuso orario, è già mezzanotte. Per di più non ho voglia di camminare per le strade innevate di un paesino con questo freddo.

«Certo! Dobbiamo iniziare ad abituarci fin da subito a questo fuso orario, quindi proibisco ad ognuno di voi di andare a dormire prima delle undici. Non ho intenzione di farmi svegliare domattina alle cinque solo perché siete convinti che siano già le otto», dice, incrociando le braccia sotto il seno e fissandoci dal primo all’ultimo.

Edward alza le braccia in segno di resa. «D’accordo. Prometto di non andare a dormire prima delle undici. Ma non ho intenzione di andare fino in paese a quest’ora».

Alice socchiude gli occhi, fissandolo. «E cosa vorresti fare allora?»

«Non lo so. Guardare la tv, magari. Fa troppo freddo per uscire per i miei gusti», commenta, scrollando le spalle.

La mia amica sospira, e guarda me e gli altri ragazzi. «Vi prego, ditemi che non siete anche voi della sua stessa idea».

«A me non dispiacerebbe fare un giro in paese», interviene Rosalie, sorridendole.

Emmett le passa un braccio intorno alle spalle. «Okay, allora è deciso: si va in città!», esordisce, mentre si allontana con la sua ragazza e Jasper in direzione degli attaccapanni nell’ingresso.

«Bella, resti a fare compagnia ad Edward o vieni con noi?», mi domanda Alice, prima di raggiungere gli altri.

Mi volto verso suo fratello, fermo vicino al divano in salotto, che mi sorride. «Se vuoi, vai pure. Non preoccuparti per me».

«Credo che rimarrò qui anch’io…», mormoro girandomi di nuovo verso Alice, che sorride. «Fa troppo freddo per uscire».

Lei annuisce, e si volta per raggiungere gli altri e vestirsi. Io ed Edward li guardiamo uscire di casa, e li salutiamo mentre salgono a bordo di una jeep, per poi richiudere la porta alle nostre spalle.

«Okay…», mormoro a disagio quando il rumore del motore della Jeep diventa solo un ricordo. «Cosa possiamo fare ora? Guardarci un film? Giocare a… scarabeo?», propongo interdetta, leggendo un nome a caso nella pila di scatole di giochi da tavolo impilati in fondo alla libreria.

Guardo Edward, il cui sguardo è fisso verso qualcosa fuori dalla finestra. Quando i suoi occhi puntano i miei sulle sue labbra appare il suo sorriso sghembo. «Io ho un’idea migliore».

 

«Forse era meglio restare a casa e giocare a scarabeo», borbotto, reggendomi con tutte le mie forze al muretto in pietra.

Edward sfila al mio fianco veloce, e con un piroetta elegante si volta nella mia direzione, lasciandosi scivolare all’indietro senza alcun timore. «Abbiamo la pista tutta per noi, cosa puoi chiedere di meglio?»

«Un pavimento meno scivoloso!», replico, osservando la lastra di ghiaccio sotto i nostri piedi, fermandomi non appena sento le lame dei miei pattini slittare pericolosamente.

Edward fa un giro completo della pista, aggraziato quanto un ballerino professionista. Io in confronto sembro un cavallo con quattro paia di rotelle al posto dei ferri, in procinto di ritrovarsi schiantato a terra. L’unica cosa che mi consola, effettivamente, è sapere di essere soli, almeno se cadrò - cosa che accadrà sicuramente - limiterò questa figuraccia alla sola presenza di Edward, e non a quella di dozzine di adulti e bambini perfettamente capaci di reggersi in piedi su due lame.

La pista è poco distante dallo chalet dei Cullen; è situata in un piccolo parco giochi frequentato quasi esclusivamente dai proprietari o affittuari di questa zona, e quattro lampioni la illuminano a giorno. La pista non è molto grande: è un semplice quadrato di medie dimensioni, circondato da un muretto di pietre rosse che arrivano fin sopra la mia vita, e c’è un solo ingresso. A quanto dice Edward in estate è una pista di pattinaggio su ruote.

I pattini sono un vecchio paio di Alice: erano ritirati in un armadio del garage, dall’aspetto nuovo e con le lame perfettamente affidabili, secondo la veloce stima di Edward.

«Ti ho raccontato della mia unica esperienza sui pattini, vero?», gli chiedo, restando ancorata al muretto, accanto all’uscita.

«Erano pattini a rotelle», puntualizza, continuando a girare in tondo, divertito.

«È la stessa cosa», bofonchio. Pignolo.

Arriva a pochi passi da me, e si ferma senza problemi. Come diamine fa? «No, non è vero. Io non vedo nessuna palma contro cui andare a sbattere, qui», sogghigna.

Alzo gli occhi al cielo. «Capirai. Ci sono solo quattro muri di mattoni contro cui posso sempre schiantarmi».

Edward scuote il capo, sorridendo. Si avvicina, e allunga entrambe le mani verso di me. «Dai, Bella. Concedimi un po’ di fiducia».

Mi mordo il labbro, esitando. Alzo una mano, posandola leggermente sulla sua. Le sue dita si stringono intorno alle mie, delicate. «Solo… non lasciarmi cadere», sussurro, timorosa.

Le labbra di Edward si piegano in un sorriso, ed i suoi occhi si addolciscono. «Mai».

Sorrido timidamente, e lascio andare con lentezza la presa sul muretto, lasciando che entrambe le mani stringano quelle di Edward. A differenza mia, non indossa i guanti, ma la sua pelle è comunque calda anche attraverso la sottile stoffa intorno le mie dita.

«Pronta?», mi chiede, restando immobile, mentre mi concentro sui miei piedi per farli rimanere dritti, in modo che le lame non scivolino di lato.

Annuisco con un cenno del capo, deglutendo.

«Okay, allora iniziamo con le regole fondamentali. Primo», inizia, con un tono colloquiale, «mai guardarsi i pattini».

«Se non li guardo rischio di cadere», protesto, senza sollevare lo sguardo.

«A meno che tu sia un Jedi e non me l’abbia mai detto, dubito che la Forza del tuo sguardo riesca a trattenere i tuoi piedi dritti».

Rido sotto i baffi, ma non gli obbedisco. «È una questione di concentrazione. Così è più semplice coordinarmi».

«Sì, ma è più difficile capire dove stai andando e mantenere l’equilibrio», ribatte, pacato. Cerca di liberare una mano dalla mia presa ma non glielo permetto.

«Cosa vuoi fare?», gli chiedo, allarmata.

«A meno che tu non alzi gli occhi dal pavimento, vorrei sollevarti il viso».

Rifletto velocemente. Meglio perdere un appiglio, o il controllo sui miei piedi? Decisamente la seconda, visto che lui mi sta tenendo ferma.

Lentamente, e aumentando la presa intorno le mani di Edward, sollevo lo sguardo e il viso, fino a incontrare i suoi occhi verdi.

«Così?», borbotto, ripetendomi mentalmente di tenere i piedi immobili.

Edward sorride. «Esatto».

Sospiro, resistendo alla tentazione di abbassare di nuovo lo sguardo ai pattini per assicurarmi che siano nella stessa identica posizione di poco fa. «Regola numero due?»

«Devi scioglierti», snocciola subito.

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Cioè?»

Inarca un sopracciglio, osservandomi dall’alto in basso e viceversa. «Ecco… sei un po’ troppo rigida in questo momento. Non offenderti, ma sembri una statua di ghiaccio. Dovresti lasciarti andare un po’, essere più elastica».

«Un paragone migliore non potevi trovarlo?», brontolo, arricciando le labbra.

«Guardalo dal punto di vista pratico: se una statua di ghiaccio cade si rompe, se lo fa un elastico i danni sono minori, no?»

Alzo gli occhi al cielo. «Certo». Aspetto alcuni secondi, cercando di rilassarmi, senza successo. «Quindi devo sciogliermi».

«Esatto», conferma lui.

«Come la neve?»

Edward ride leggermente. «In un certo senso».

«Fa un po’ freddo qui fuori per sciogliermi come neve, non credi?», chiedo, ridendo a mia volta.

Edward non risponde, ma lascia andare una mia mano, e mi affretto a stringergli il gomito. Le sue dita arrivano sotto il mio mento e afferrano la zip del giaccone che indosso, e la inizia ad abbassare.

«Cosa fai?», sussurro, rabbrividendo.

«Voglio provare una cosa», risponde, seguendo con lo sguardo la zip che arriva a slacciare completamente.

Appena il giaccone è aperto infila la mano sotto di esso, allacciandola al mio fianco e spingendomi verso di lui.

Con il cuore che inizia a battere più forte, mi lascio avvicinare, fino ad appoggiare la testa sul suo petto, lasciando andare l’altra sua mano per stringere le sue braccia.

Entrambe le sue mani mi cingono la vita, e arrivano fino alla mia schiena, stringendomi contro di lui. Con una mano mi avvolge, mentre l’altra percorre interamente la mia spina dorsale, lentamente. Quasi subito, sento i miei muscoli iniziare a sciogliersi, tornando ad essere rilassati.

«Edward…», lo chiamo, con la voce ridotta ad un sottile sussurro, «cosa…?»

«Ho notato che quando ti abbraccio tendi a rilassarti», sussurra contro i miei capelli, senza interrompere quella lenta carezza. «Ho pensato potesse essere d’aiuto vista la situazione».

«Quindi tu saresti il sole», sussurro, con il viso affondato nel suo cappotto.

È molto utile, in effetti. Se non fosse per il fatto che il pattinaggio è l’ultimo dei miei pensieri in questo momento.

Sollevo il capo leggermente, e le sue labbra premono contro la mia fronte. «Edward», lo chiamo, con il cuore che ormai sembra un rullo di tamburi. «Ti ho già detto che anch’io voglio di più, vero?»

Sento le sue labbra piegarsi in un sorriso contro la mia fronte, e il suo petto scuotersi per una risata trattenuta. «Signorina Swan, sta forse cercando di distrarre il suo maestro durante la lezione?»

Aspetto alcuni secondi, senza rispondere, poi inclina il suo viso, lasciando che i nostri nasi si sfiorino e le nostre labbra siano alla stessa altezza. Trattengo il respiro, mentre i suoi occhi incontrano i miei. L’oceano verde sembra in subbuglio, o forse è il mio cervello in totale confusione a farmeli sembrare tali.

«Sei pronta?», sussurra a pochi millimetri dalle mie labbra.

E quando penso che mi stia per baciare si allontana, riallaccia velocemente la zip del mio giubbotto e mi prende le mani. La delusione e la sorpresa sul mio viso devono essere abbastanza evidenti, perché sorride trionfante e trattiene una risata.

Fa un paio di passi indietro, facendomi scivolare sul ghiaccio con lui. Stringo di più la presa intorno alle sue mani, e faccio una smorfia.

«Adesso devi provare a pattinare tu», dice, sorridendo.

Sbuffo, arrendendomi. I successivi venti minuti trascorrono così: con lui che mi tiene per le mani sorreggendomi all’istante quando rischio di cadere, ed io che provo a compiere passi anche solo lontanamente aggraziati sul ghiaccio, sperando di non spezzarmi il collo. E in breve mi rendo conto che pattinare mi piace, a differenza di quanto credevo. Sentire il mio corpo scivolare sulle lame mi fa sentire leggera e libera, e le mani di Edward strette intorno alle mie mi fanno sentire sicura e protetta.

Quando sembra che riesco a muovermi nel modo corretto, Edward si ferma e lascia andare le mie mani, decidendo che è il momento che provi a farcela da sola. Arretra alla distanza di pochi passi, guardandomi.

«Okay. Adesso prova a venire qui», mi istruisce, con le mani tese per afferrarmi quando sarò vicino a lui.

«Non ce la farò mai», protesto, preparandomi comunque a prendere lo slancio.

Edward tiene gli occhi puntati nei miei, mentre io mi costringo a fissare il suo viso e non i miei pattini.

Provo a muovere un piede, ma mi interrompo quando sento la lama slittare sul ghiaccio paurosamente. Mi rimetto in posizione eretta, spaventata.

Edward inarca un sopracciglio, e mi fissa accigliato, poco distante. «Sei troppo rigida, Bella».

Mi acciglio a mia volta. «Scusami tanto se ho paura di spezzarmi l’osso del collo da un secondo all’altro».

Lui scuote il capo. «Ti ho già detto che non succederà se proverai ad essere più elastica», ribatte, alzando gli occhi al cielo. «È più probabile che uscendo di qui vieni investita da un’auto piuttosto che ti spacchi qualcosa cadendo qui dentro».

Inarco un sopracciglio, sconcertata. «Non sei di grande aiuto, sai?»

Chiudo gli occhi per alcuni secondi, ripensando alle braccia di Edward intorno a me, e un brivido corre lungo la mia schiena, mentre i miei muscoli si sciolgono leggermente. Quando sollevo di nuovo le palpebre prendo lo slancio e compio i pochi passi che mi separano da Edward, scivolando sul ghiaccio senza cadere. Arrivo a stringere le sue mani, e mi fermo facendo pressione sulla nostra presa, ancora incapace di fermarmi da sola.

«Visto? Non era così difficile», dice Edward, con un sorriso.

Sorrido a mia volta, soddisfatta. «Solo perché erano pochi metri».

Edward piega la testa di lato, e un sorriso furbo compare sulle sue labbra. «Rimediamo subito, non ti preoccupare».

E così altri dieci minuti trascorrono cercando di farmi pattinare per tratti sempre più lunghi, finché non cado per due volte quando provo a compiere il tratto da un lato all’altro della pista. Non mi faccio mai nulla, ma per Edward sembra essere segno che sono troppo stanca per continuare. Effettivamente, quando guardiamo l’orologio scopriamo che sono quasi le undici, e questo significa che a New York sono già le due di mattina.

«Ti prego, solo un’altra volta», lo imploro, mentre mi aiuta a rialzarmi dal ghiaccio. «Sono sicura che questa volta ce la farò».

Edward ride, divertito. «Ma tu non detestavi pattinare?»

«Non l’ho mai detto», brontolo.

Alza gli occhi al cielo. «D’accordo. Ma solo un tentativo».

Annuisco, e torno indietro alla fine della pista, mentre lui arriva dall’altra parte. La prima volta sono caduta dopo i primi passi, la seconda appena dopo la metà del percorso. Questa volta voglio riuscire ad arrivare fino alla fine.

Prendo un profondo respiro, poi mi lancio in avanti, in direzione di Edward. Cerco di concentrarmi sui miei passi, lasciando che i muscoli delle gambe si muovano scioltamente, e quando finalmente sono a pochi passi da Edward lascio che siano le lame a scivolare sul ghiaccio e a portarmi fino a lui, che prende le mie mani immediatamente e dopo avermi rallentato mi accoglie nel suo abbraccio, fino a fermarmi contro il suo petto.

Sorrido trionfante, mentre ricambio l’abbraccio. «Ce l’ho fatta! Visto che non ero troppo stanca?»

Sento il suo torace scuotersi per una risata. «Ho notato», mormora, con la bocca premuta contro i miei capelli. «Immagino che il mio lavoro come insegnante sia terminato».

Alzo il viso per incontrare il suo sguardo, a pochi centimetri da me. «E immagino che io debba sdebitarmi in qualche modo».

Un angolo delle sue labbra si curva verso l’alto, in un sorriso. «Avrei un’idea a riguardo…»

«Sì?», sussurro, mentre il suo viso si inclina sul mio e socchiudo le palpebre.

«Hmm», mormora ormai vicinissimo.

Chiudo gli occhi, e sento le sue labbra scendere sulle mie, delicate e morbide come piume, ed il mio cuore smette di battere per alcuni secondi. Stringo le dita intorno alla stoffa del suo giubbotto, mentre sembra che il cuore stia per esplodermi nel petto talmente ha ripreso a battere forte.

Le nostre labbra si muovono lentamente, provando e saggiando, diventando di secondo in secondo sempre più audaci.

Il bacio si fa più appassionato quando Edward prende il mio labbro inferiore fra le sue e lo succhia leggermente, facendomi quasi gemere nella sua bocca. All’improvviso mi sento come al centro di un immenso vortice; la testa gira, e il semplice sfiorarsi delle nostre bocche non sembra mai abbastanza. Puntello le mani sulle sue spalle e, dimentica del ghiaccio sotto i nostri piedi e delle lame scivolose sotto le mie scarpe, cerco di alzarmi sulle punte per andargli incontro. E mentre sento la lingua di Edward scivolare in una sensuale carezza sulle mie labbra i miei piedi perdono la stabilità di poco fa, e mi ritrovo con il corpo schiacciato contro il suo e le mani che si aggrappano alle sue spalle nel tentativo di sorreggermi e resistere alla forza di gravità. Le sue mani stringono più forte la mia vita, e sulle labbra avverto il suo sorriso.

«S-Sto s-scivolando», balbetto contro la sua bocca, riaprendo di poco gli occhi, mentre lui li tiene ancora chiusi.

Il sorriso di Edward si amplia, mentre tiene la bocca a pochi millimetri dalla mia. «Lo sento», mormora, con la voce un po’ arrochita.

Quando riapre gli occhi avvolge un braccio dietro la mia schiena per aiutarmi a rimettermi in piedi, e prima che possa fare qualsiasi cosa mi spinge di lato, fino a farmi appoggiare contro il muretto in pietra della pista.

Lo fisso confusa per un secondo, poi, con un sorriso sghembo a piegargli le labbra, mi issa senza sforzo sul muretto, facendomi sedere. I nostri visi sono ora alla stessa altezza, e le mie ginocchia premono contro i suoi fianchi. Edward puntella le mani accanto alle mie cosce, e si sporge con il busto verso di me.

Inarca un sopracciglio, divertito. «Chissà se riesci a cadere anche qui», mormora, facendosi più vicino.

Avvampo, rimanendo immobile. «Posso sempre cadere all’indietro», sussurro, sentendo il suo respiro accarezzarmi il viso.

«Mmm…». Solleva una mano, e sfiora gentilmente il mio collo, facendosi strada fra i capelli fino ad arrivare alla mia nuca. «Non ci provare neanche», risponde, prima di posare nuovamente le sue labbra sulle mie, bloccando la mia replica sul nascere.

 

Non so quanto tempo passiamo alla pista di pattinaggio, baciandoci e abbracciandoci. So solo che ogni bacio, ogni carezza, si è impressa nella mia mente come un marchio, che non dimenticherò mai.

Presto, però, il peso di questa lunga giornata inizia a farsi sentire, e a nulla serve la scarica di adrenalina ed eccitazione che mi ha tenuta sveglia fino ad ora, perché i primi sbadigli iniziano ad arrivare prepotenti, seguiti dalle palpebre sempre più difficili da tenere aperte.

«Hai sonno?», sussurra Edward, accarezzandomi una guancia.

Appoggio la testa sulla sua spalla, stringendolo ancora. Non me la sento di lasciarlo andare così presto. Mi sembra ancora impossibile che tutto questo sia reale; ho paura che andando a dormire domattina quando mi sveglierò questo non si rivelerà altro che un bel sogno.

Ma non posso nascondere di avere bisogno di dormire, e non posso nemmeno ignorare la stanchezza che leggo sul volto di Edward.

Annuisco sottovoce, per non spezzare la quiete della notte. «Torniamo alla baita?», aggiungo, allontanandomi il tanto necessario per guardarlo negli occhi.

Edward scuote il capo in senso affermativo. Mi aiuta a scendere dal muretto, dopodiché usciamo insieme dalla pista e ci sediamo su una panchina per toglierci i pattini da ghiaccio, che poi ritira in una borsa di stoffa.

Mentre ci allontaniamo in direzione dello chalet, con la mia mano stretta nella sua, non riesco a pensare ad altro a quanto sia fortunata. Fortunata di avere risolto per il meglio la situazione con Edward, fortunata ad avere amici come Alice, senza la quale probabilmente a quest’ora mi ritroverei per le strade di un paesino freddo e sconosciuto, e non vicino al ragazzo che mi tiene per mano.

Quando arriviamo davanti alla casa, però, Edward aggrotta le sopracciglia, e seguendo il suo sguardo mi ritrovo ad imitarlo.

«È strano che siano già tornati», mormora, osservando la jeep di Emmett posteggiata al suo posto.

«Magari la festa in paese è finita prima… oppure hanno capito di essere troppo stanchi per stare in giro fino a tardi», ipotizzo, mentre saliamo gli scalini che conducono all’ingresso.

Edward infila la chiave nella toppa, ma non appena ci ritroviamo all’interno notiamo che non tutte le luci sono spente. Dalla porta della sala filtra uno sprazzo di luce fioca, e un chiacchiericcio di sottofondo indica una televisione accesa. Spingo la porta della stanza leggermente, il tanto da vedere all’interno, e quattro paia d’occhi si voltano subito verso me ed Edward, inchiodandoci.

«Com’è la temperatura fuori?», domanda Emmett, stravaccato sul divano con Rosalie al suo fianco, che sorride.

«Sbaglio o voi due eravate quelli del “fa troppo freddo per uscire”?», aggiunge Jasper, trattenendo una risata, seduto sull’altro divano con le gambe di Alice sulle sue.

Arrossisco, mentre Edward sospira.

«Voi non dovreste essere in paese ad una festa?», chiede ai quattro, e mi sembra di scorgere un accenno di imbarazzo sul suo viso in penombra.

«In realtà ho scoperto che era ieri sera la festa!», risponde Alice, per niente dispiaciuta. «Mi sono sbagliata».

«Così siamo tornati qui a vedere un film», continua Rose. «Ma a quanto pare voi due ve ne eravate già andati».

Mi schiarisco la voce, cercando di scacciare l’imbarazzo. «Siamo andati a pattinare», spiego, arretrando per uscire dalla sala, tirando con me anche Edward. «Però, credo che sia ora di andare a dormire. Quindi… buonanotte a tutti».

Edward richiude la porta alle nostre spalle, e sospira nuovamente. «Avremmo voluto immaginare che li avremmo trovati tutti in piedi ad aspettarci», mormora con un sorriso imbarazzato, mentre ci dirigiamo verso gli attaccapanni.

Mi aiuta a sfilare il cappotto, e prima di allontanarci per salire le scale si china per darmi un bacio.

Mi allontano da lui pochi secondi dopo, e solo in quel momento notiamo Emmett, che ci osserva a pochi passi. Ghigna, e poi va verso la cucina, mentre urla: «Rose! Dovremmo andare a pattinare anche noi! Sembra che quella pista faccia miracoli!»

Edward sospira, appoggiando la fronte contro la mia, mentre un sorriso increspa le sue labbra. «Sicura che non posso assoldarti come killer? Potrebbe tornarmi utile in questa settimana».

Rido, mentre in sottofondo il chiacchiericcio dei nostri amici inaugura quella che si preannuncia una vacanza meravigliosa.

___________________________

Lo chalet dei Cullen è questo.


Eccoci :D

Finalmente siamo arrivati alla grande svolta di Edward e Bella :D La scena della pista di pattinaggio l'avevo in mente fin dall'inizio di questa storia, e dopo mille riscritture questa versione è quella che mi ha convinta più di tutte; spero abbia convinto anche voi :D


Come sempre vi ringrazio per il continuo sostegno, per le recensioni, per le continue aggiunte della storia alle preferite/seguire/ricordate :D


Vi auguro di passare un felice Natale, in compagnia di familiari, amici, fidanzati, e chi più ne ha più ne metta :D


Grazie, e Auguri! :*******

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Capitolo 20
*** Capitolo 19__Sotto la neve ***


Saaalve! :D

Anche se sono passati già due mesi, BUON ANNO! Non avevo in programma un'attesa così lunga, ma questo capitolo ha richiesto un umore decisamente migliore di quello che avevo il mese scorso, così ho dovuto aspettare a scriverlo. E finalmente ce l'ho fatta a finirlo ù.ù

Buona lettura! :D

___________________________

 

Don’t Leave Me Alone

Capitolo 19__Sotto la neve

Sabato 26 Dicembre

Bella

Quando mi risveglio la luce penetra nella mia stanza attraverso le fessure delle tapparelle, lasciando la camera avvolta dalla penombra. Mi rigiro verso il centro del letto matrimoniale, decidendo di poter restare ancora alcuni minuti a sonnecchiare, almeno finché Alice o Rose non verranno a buttarmi giù dal letto.

Apro gli occhi per un istante, e due iridi azzurre ricambiano il mio sguardo, sveglie e attente.

Balzo a sedere con uno scatto, spaventata. «Alice!», strillo, guardando la mia amica, sdraiata sopra le coperte già vestita. Lei ricambia il mio sguardo con due sopracciglia inarcate, come se non capisse cosa c’è di strano nel trovarsi nella camera di un’amica mentre lei dorme tranquillamente.

«Che ci fai qui?», le chiedo, ritornando a sdraiarmi, anche se il sonno è ormai completamente svanito.

«Sono qui per farmi raccontare tutto, è ovvio. Appena uscirai da quella porta resterai appiccicata ad Edward tutto il tempo, quindi ne approfitto ora», spiega, puntandosi su un gomito per guardarmi in faccia.

«Non resterò appiccicata ad Edward tutto il tempo», bofonchio imbarazzata, mentre le immagini di ieri sera mi investono, facendomi arrossire e battere il cuore più forte.

Alice scuote una mano, lasciando cadere nel vuoto la mia debole protesta. «Allora, dimmi. Cosa avete fatto di preciso ieri quando ce ne siamo andati tutti?»

«Siamo andati a pattinare», rispondo, evitando di guardarla, sentendomi in imbarazzo. «Ho usato i tuoi vecchi pattini, a proposito, va bene?»

«Sì, certo. Poi?»

«Poi niente. Siamo rimasti lì, e lui mi ha insegnato a pattinare…»

«E chi ha preso l’iniziativa? Tu o lui?», mi chiede, con un sorrisetto emozionato in viso.

«N-Non lo so… lui… forse?», balbetto, chiudendo gli occhi. Perché Alice deve farmi queste domande anche se sa che mi mette a disagio?

Alice resta in silenzio, e dopo si alza dal letto. Riapro gli occhi, sorpresa. «Tutto qui?», le domando, stupita.

Alice si volta verso di me, e un sorriso furbo spunta sulle sue labbra. «Certo che no. Ma oggi ho anche qualcun altro da interrogare oltre a te», dice, poi si chiude la porta alle sue spalle, uscendo definitivamente dalla mia stanza.

 

Dopo essermi fatta una doccia veloce ed essermi preparata per uscire, scendo in salotto, dove trovo Emmett e Rose seduti sul divano, intenti a guardare la tv con due tazze fumanti di caffè. Di Alice, Jasper ed Edward non c’è traccia.

Raggiungo la cucina, trovandola deserta; il tavolo è colmo di pacchi di biscotti di ogni genere, vasetti di marmellata di vari gusti e scatole con bustine di tè e povere per il caffè.

Il tostapane è in funzione, con due fette di pane a scaldare. Prendo un pentolino, lo riempio d’acqua e lo metto a bollire per fare il tè. Prima che mi giri per raggiungere il tavolo per scegliere i biscotti una mano si posa sul mio fianco, e la mia schiena preme contro un petto, mentre un profumo conosciuto arriva a me.

Edward.

Le sue labbra sfiorano il mio orecchio, e una cascata di brividi scende lungo la mia schiena, e la mia bocca si piega in un sorriso.

«Buongiorno», sussurra, prima di posare un delicato bacio sulla mia tempia.

«Buongiorno», mormoro a mia volta, ringraziando mentalmente la mia voce per non aver tremato.

«Buongiorno piccioncini!», esclama all’improvviso Emmett, entrando in cucina e facendomi sussultare ed arrossire.

Edward sospira pesantemente, e si allontana da me per raggiungere il tavolo con i biscotti, borbottando qualcosa che non capisco contro suo fratello.

 

Le piste da sci sono magnifiche. La neve è fresca e la temperatura è perfetta, e nonostante ci sia molta gente non è difficile spostarsi da una zona all’altra degli impianti.

Fortunatamente le lezioni di sci degli anni passati non sono state affatto sprecate, e finora sono riuscita a cavarmela bene, senza mai cadere. È ancora presto per cantare vittoria, lo so bene, ma essere arrivata all’ora di pranzo dopo quattro ore consecutive che sciamo senza finire a terra mi sembra già un bel traguardo. Ora ci siamo fermati per pranzare ad una piccola baita che offre il servizio di ristorazione ad alta quota, senza obbligarci a tornare in paese per mangiare.

È la prima volta che ci ritroviamo tutti quanti insieme a tavola da quando siamo arrivati ieri sera, e per qualche secondo restiamo in silenzio dopo aver ordinato.

Poi Emmett parla, e il suo sguardo salta fra me ed Edward, entrambi davanti a lui. «Quindi… voi due adesso state insieme? Ufficialmente, intendo».

Le mie guance si tingono di rosso, e abbasso lo sguardo, imbarazzata. Vedo Rosalie tirargli una gomitata nel fianco, facendolo lamentare, ed Edward irrigidirsi per la sorpresa accanto a me.

Jasper fa un commento sul tempo sereno, ma nessuno sembra ascoltarlo. Stanno tutti aspettando una risposta da noi. Alzo gli occhi lentamente, incrociando lo sguardo di Edward. Lui inarca un sopracciglio, come se stesse chiedendo il mio permesso per parlare.

Ma sono io ad aprire bocca per prima. «C-Credo di sì…», mormoro, senza staccare gli occhi da lui.

Le sue labbra si piegano in un sorriso storto, e mentre penso che potrei sporgermi e baciarlo, Emmett si schiarisce la voce, ricordandoci la presenza dei nostri amici.

«Bene, era ora», commenta Rosalie, ringraziando subito dopo il cameriere che ha appena portato le bevande.

La osservo perplessa per un istante, ma Edward mi precede, accigliato: «“Era ora”?», ripete.

Rose scrolla le spalle, sorseggiando il suo bicchiere d’acqua. «Ci stavamo chiedendo tutti quando vi sareste decisi a farvi avanti».

Li osservo con le sopracciglia aggrottate, mentre Edward nasconde la sua espressione dietro al suo bicchiere.

Si aspettavano tutti che io ed Edward ci mettessimo insieme nonostante tutti i problemi che abbiamo dovuto affrontare? Perfino io avevo smesso di sperarci, ormai, eppure sembra che loro abbiano sempre saputo che saremmo giunti a questo punto.

Dall’altro lato del tavolo, Alice mi fa l’occhiolino, e capisco che è proprio così: lei non ha mai smesso di sperare.

 

Domenica 27 Dicembre

Edward

Sono passati già due giorni da quando siamo arrivati a Whistler, eppure a me sembrano trascorse solo poche ore dal nostro atterraggio a Vancouver. È strano come il tempo voli quando si è felici.

Questo è stato il secondo giorno di sci, e come prevedevo la stanchezza dovuta al continuo movimento ci ha costretti a tornare a casa prima del solito. Perfino l’instancabile Alice non riusciva più a reggersi in piedi per la spossatezza.

Mentre gli altri si riposavano sul divano in salotto ho seguito l’esempio di Bella, e ho deciso di andare a farmi una doccia veloce, prima di potermi sdraiare sul letto e leggere. Non ho voglia di dormire, perché so che altrimenti questa notte non chiederò occhio.

Sento bussare alla porta, e raggiungo l’uscio, aprendola. Davanti a me trovo Bella, vestita con abiti leggeri, adatti alla temperatura calda della casa. Sembra assonnata, e la cosa non mi stupisce; non sciava da anni, e tutto questo movimento deve averla stancata parecchio. Improvvisamente il bisogno di dormire sparisce.

«Ti disturbo?», mi domanda, e le sue guance si tingono leggermente di rosso.

Scuoto il capo, e la lascio entrare in camera. Si siede sul bordo del letto, e nasconde dietro una mano uno sbadiglio.

«Perché non dormi un po’?», le chiedo, sedendomi accanto a lei.

«Non voglio dormire. Se dormo adesso stanotte mi addormenterò tardissimo e domattina sarò ancora più stanca», spiega, lasciandosi cadere indietro e nascondendo gli occhi dietro il braccio.

Il mio sguardo scivola velocemente lungo il suo corpo, e distolgo lo sguardo. «Allora parliamo un po’, così non ti addormenti», propongo, schiarendomi la voce.

Con la coda dell’occhio la vedo rialzarsi e spingersi indietro sul letto, fino ai cuscini. Prendo un profondo respiro e la seguo, appoggiandomi vicino a lei e aprendo un braccio per lasciare che si appoggi a me.

Dopo un attimo di esitazione, Bella poggia la testa sul mio petto, e automaticamente le mie braccia la circondano, stringendola a me.

La sento sospirare, mentre con le dita di una mano appiattisce le pieghe della mia camicia. «Sono stanca morta», mormora, con la voce assonnata.

«Non sei ancora abituata al ritmo di queste giornate. Oggi abbiamo sciato fermandoci solo per un’ora, è normale che tu sia stanca».

«Tu però non sei stanco», borbotta, strofinando il viso contro la camicia.

Mi irrigidisco per un istante, ma lei sembra fin troppo stanca per notarlo, fortunatamente. È difficile resistere a Bella quando è così vicina, e ogni volta devo ricordarmi che stiamo insieme da pochi giorni, che devo darmi una calmata. Non ho idea di fin dove possa spingermi con lei, e dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per arrivare a questo punto non voglio rovinare il nostro nuovo rapporto agendo spinto dagli istinti e dagli ormoni.

«Sono ancora abituato a quando venivo qui con gli altri», le dico, usando la prima scusa che mi viene in mente, per non dirle che è la sua vicinanza che mi risveglia totalmente.

Lei ride leggermente. «Ma se non vieni qui da anni».

«Edward?» La voce di Alice giunge da oltre la porta, salvandomi in corner per una volta. «Puoi venire giù un secondo?»

«Vai», sussurra Bella, sollevandosi sui gomiti per lasciarmi alzare. «Altrimenti verrà a prenderti con la forza», aggiunge con una risatina.

Mi alzo con un sospiro, mentre Alice mi chiama ancora.

«Torno subito», dico a Bella, prima di uscire dalla stanza.

In corridoio trovo mia sorella, ferma davanti alle scale. Mi fa cenno di seguirla fino al piano inferiore, in cucina, dove Emmett è seduto al bancone, con il telefono di casa premuto contro l’orecchio.

Appena mi vede parla al trasmettitore: «Finalmente il tuo bambino ha deciso di farsi vedere. Te lo passo. Ciao, mamma!»

Afferro il telefono, portandomelo all’orecchio. «Pronto?»

«Edward, tesoro. Come stai?»

«Ciao, mamma», dico subito, sentendo la voce di Esme arrivare dall’altro lato dell’apparecchio. «Tutto bene, e tu?»

«Benissimo. I tuoi fratelli mi hanno raccontato che tu e Bella state insieme ora», dice, mentre io lancio occhiatacce ad Alice ed Emmett, ancora in cucina ad osservarmi, ridacchiando. «Sono contenta che alla fine sia andato tutto bene, nonostante tutto».

Il suo nonostante tutto mi riporta in mente un’altra faccenda, poco piacevole e soprattutto difficile da gestire. Ne avevo parlato con Esme proprio il giorno in cui avevo lasciato Tanya, ma lei mi aveva assicurato che era tutto a posto, che avrebbe pensato lei a gestire la situazione. «Mamma…» Volto le spalle ai miei fratelli, cercando un minimo di privacy che in questo momento non mi concedono per parlarle chiaramente. «Sei sicura che sia tutto a posto? Non ci sono stati problemi questa settimana?»

Esme tentenna per un secondo, ma subito dopo mi risponde: «No, tesoro. Non è successo niente, credimi. Adesso devi solo pensare a rilassarti e a goderti questi giorni di vacanza. Quando tornerai a New York ne parleremo con calma insieme, d’accordo?»

La sua voce è tranquilla, ma non mi convince. Tuttavia ha ragione: ne dobbiamo parlare faccia a faccia a New York, e non per telefono.

«Va bene», accetto.

«Dimmi, come sta Bella? È lì con te?», mi chiede, cambiando argomento e riprendendo il suo tono vivace.

«No», rispondo, guardandomi alle spalle per controllare che nel frattempo non sia scesa a vedere che fine abbia fatto. «Sta bene. È solo stanca, oggi abbiamo sciato molto».

«Allora è meglio lasciarla riposare. Adesso devo andare, vostro padre ha prenotato al ristorante e devo prepararmi. Buona serata, tesoro. Salutami anche gli altri».

«Buona serata anche a voi», mormoro, prima di riagganciare.

Alice ed Emmett mi lanciano occhiate interrogative. «Di cosa stavi parlando con la mamma prima? Che problemi dovrebbero esserci a casa?», mi domanda mia sorella.

Inarco un sopracciglio, nascondendo l’irritazione. «Lo sai che questa è violazione della privacy, vero?»

Esco dalla stanza prima che altre domande - che sicuramente verranno ancora - mi sommergano, e risalgo le scale per tornare in camera.

Quando entro in stanza mi aspetto di trovare Bella pronta a chiedermi per quale motivo Alice mi ha chiamato, invece la trovo ancora distesa sul letto, con gli occhi chiusi e il respiro pesante. Mi avvicino in silenzio, e faccio attenzione a non far sobbalzare il materasso mentre mi siedo accanto a lei.

È girata su un fianco, con un braccio è piagato sotto la testa a mo’ di cuscino. Il viso è rilassato, e le labbra sono leggermente dischiuse. Sposto silenziosamente una ciocca di capelli che le copre il viso, riportandola dietro l’orecchio.

Immaginavo che si sarebbe addormentata. I primi giorni sono sempre i più pesanti, a causa del fuso orario a cui bisogna abituarsi e del continuo movimento con gli sci.

Decido di lasciarla riposare, almeno per un po’.

Prendo il libro che ho iniziato l’altro giorno dal comodino e mi appoggio alla testiera, mentre Bella continua a dormire al mio fianco.

 

Bella

Mi risveglio che sono intontita. Apro gli occhi lentamente, crogiolandomi nello stato di torpore e sonnolenza che provo. La luce nella stanza è accesa, e la prima cosa che noto è che sono ancora nella stessa posizione in cui mi trovavo quando Edward è uscito dalla stanza per andare a vedere cosa voleva Alice. Ma adesso Edward è sdraiato al mio fianco, con un libro fra le mani e gli occhi puntati sulle pagine. Non si è accorto che mi sono svegliata, così posso guardarlo tranquillamente, senza provare l’istinto di abbassare subito lo sguardo.

Lo osservo per un lungo istante, in silenzio, senza muovere un muscolo. È talmente concentrato sul libro che non credo si accorgerebbe di me nemmeno se mi mettessi a scalciare. I suoi occhi si muovono veloci a destra e a sinistra, registrando le parole del romanzo, facendo scorrere pagine dopo pagine. Non mi sono mai accorta di quanto è veloce a leggere.

La sua fronte è aggrottata, tre rughe si accavallano, leggermente nascoste dai ciuffi rossicci che cadono leggeri come piume in ciocche disordinate. Ogni tanto solleva leggermente un sopracciglio o un angolo della bocca, in un’espressione a metà fra il confuso e lo stupito.

I suoi occhi slittano improvvisamente nella mia direzione, lasciando il libro. «Ehi», dice, notando i miei occhi aperti. «Ti sei svegliata».

Annuisco, senza alzarmi. Mi sento ancora stanca e assonnata nonostante abbia dormito. «Cosa leggi?», gli domando.

Edward chiude il libro, mostrandomi la copertina. Il titolo non mi è per nulla nuovo, infatti l’ho già letto qualche mese fa.

«È bello», commento, tirandomi a sedere lentamente. 

«L’hai già letto?»

Annuisco, e lui infila il segnalibro fra le pagine, chiudendo il libro e appoggiandolo sul comodino.

«Quanto ho dormito?», gli chiedo, stiracchiando i muscoli delle braccia, intorpiditi.

Edward guarda la sveglia al suo fianco. «Poco più di un’ora».

Sgrano gli occhi. «Così tanto?»

«Non è molto», mi rassicura.

Sbuffo, cercando di svegliarmi completamente. «Cosa voleva Alice, prima?»

«Ha telefonato Esme. Voleva essere sicura che stia andando tutto bene», risponde. «È una fortuna che non abbia dovuto avvisarla che una certa Isabella Swan è volata a terra facendosi male», aggiunge, con un sorriso divertito. «Per ora».

Gli faccio la linguaccia. «Figurati! Sono una sciatrice provetta, non hai visto?»

«Io non sfiderei così la tua sfortuna sfacciata, lo sai?», ghigna lui, afferrandomi il polso.

«Che vorresti dire?», ribatto, senza riuscire a restare seria.

«Che è un po’ presto per cantare vittoria. Manca più di una settimana alla fine della vacanza, potresti ancora cadere», commenta, guardandomi divertito.

Faccio una smorfia, e lancio il cuscino in faccia, cercando di fargli sparire quel sorrisetto divertito dalla faccia. «Vai a portare sfortuna a qualcun altro, grazie».

Lui ride, liberandosi dal cuscino. Blocca i miei polsi prima ancora che possa afferrarlo di nuovo per lanciarglielo contro un’altra volta.

«Potresti cadere anche tu», lo sfido.

Edward sorride, avvicinandosi di più a me con il viso. «Io non cado mai», sussurra, fin troppo sicuro di sé.

«Ah, no?», ribatto, divertita.

«No», risponde lui, avvicinandosi ancora, tenendo i miei polsi fra le sue mani.

«Scommettiamo che riuscirò a farti cadere prima della fine della vacanza?»

Edward inarca un sopracciglio, fissandomi con lo stesso sguardo divertito di poco fa. «E sentiamo, cosa vorresti nel caso vincessi?»

Ci penso per alcuni secondi. Cosa potrei volere? In questo non mi viene in mente niente, perché mi sembra di avere tutto quello che mi serve. «Facciamo che potrò chiederti di fare qualcosa - qualsiasi cosa - quando mi verrà in mente, e tu dovrai farlo».

Una scintilla illumina gli occhi di Edward per alcuni secondi. Malizia, forse? «Qualsiasi cosa?»

Sento le guance scaldarsi inspiegabilmente davanti al suo sguardo malizioso, e abbasso gli occhi. «E tu cosa vorresti in caso non riuscissi a farti cadere?»

«Niente», risponde subito. «Mi basta la soddisfazione di aver vinto la scommessa».

Rido leggermente. «Certo…»

«La avviso, signorina Swan, non sarà un’impresa semplice la sua», mi ammonisce, con il tono di voce serio ma un sorriso divertito in viso. Le sue mani lasciano andare i miei polsi, afferrando la mia vita.

«Lo sa, signor Cullen? Lei ha troppa fiducia in se stesso», dico, stando allo scherzo. Allaccio le braccia intorno al suo collo, lasciando che mi avvicini a lui.

«Lei dice?», sussurra, divertito, con le labbra ormai a pochi centimetri dalle mie.

Annuisco scuotendo il capo, e le nostre bocche si sfiorano. Prima leggermente, poi premendo l’una contro l’altra con più foga, schiudendosi dopo pochi secondi.

Le sue dita si muovono leggere sui miei fianchi, sfiorando e stringendo, e soffoco una risata sulle sue labbra, che percepisce.

«Mi fai il solletico», rido, quando lui si allontana leggermente per guardarmi con le sopracciglia inarcate.

La sua espressione sorpresa viene preso sostituita da una divertita. E capisco di essere spacciata.

«Ah, sì?», sussurra. E subito con un braccio mi circonda il busto, impedendomi di scappare, mentre l’altra mano inizia a solleticarmi il fianco attraverso la maglietta leggera.

Mi contorco fra le sue braccia, mentre le risate iniziano a scuotermi completamente; cerco di scacciare la sua mano con la mia, inutilmente, e in poco tempo mi ritrovo con le lacrime agli occhi e senza fiato. Quando Edward mi lascia andare, mi sdraio sul materasso, cercando di riprendere un ritmo di respiro normale, e lui si mette al mio fianco, osservandomi con un’espressione a metà fra il divertito ed il soddisfatto. Asciuga via una lacrima che è scivolata lungo la mia tempia.

«Se Emmett sapesse che soffri il solletico per te sarebbe la fine», mormora, sorridendo.

«Guai a te se glielo dici», lo minaccio, ricordando l’insana fissazione di Emmett per chi soffre il solletico. Alice lo soffre moltissimo, e ogni occasione per lui è buona per ridurla in lacrime per il troppo ridere.

Edward sogghigna, e gli tiro una pacca leggera sul petto. «Non preoccuparti, non ho intenzione di dirglielo», mi tranquillizza. «Preferisco rimanere l’unico con il privilegio di strapazzarti in questo modo».

Alzo gli occhi al cielo, e quando lui si china verso di me per baciarmi gli lancio un’occhiata ammonitrice.

«Niente solletico, promesso», mi assicura, divertito. «Per questa volta», sussurra poi, quando le sue labbra sono già sulle mie, impedendomi di replicare.

Purtroppo, non avevo pensato al fatto che Edward avrebbe potuto essere peggiore di Emmett.

 

Mercoledì 30 Dicembre

«Ti fa male?»

Trattengo una smorfia di dolore, mentre le sue dita mi sfiorano delicatamente il polso sinistro, spalmando la crema per le contusioni. «No», mento.

Edward mi lancia un’occhiata di disappunto, e prende la benda per rifarmi la fasciatura.

«Allora noi andiamo a fare la spesa», ci dice Rosalie, apparendo con Alice e i loro ragazzi in salotto.

«Sicura che sia tutto a posto, Bella?», mi domanda Jasper, preoccupato.

«Sì, non preoccupatevi», rispondo, guardando i miei amici. «Voi andate pure».

«Secondo me avete escogitato tutto per rimanere a casa da soli», commenta Emmett, sghignazzando.

Sgrano gli occhi, mentre il rossore si propaga sulle mie guance. «Ma se è Alice a costringerci a rimanere a casa!», strillo, bordeaux in viso.

«Su, su, state calmi», interviene Alice. «È inutile andare in sei a fare la spesa e spostare due auto. Bella ora ha una mano non utilizzabile, quindi è meglio che rimanga lei a casa, e mi sembra giusto che sia Edward a farle compagnia».

Mi sorprende che Alice non colga al volo l’occasione per punzecchiarci, ed anzi prenda le nostre difese, ma ovviamente non intendo farglielo notare ora.

«Okay, adesso potete andare», borbotta Edward, disfando la fasciatura che mi stava facendo con un gesto nervoso.

I nostri amici ci salutano perplessi, e non appena restiamo soli lo osservo attentamente. «Cosa c’è che non va?», gli chiedo, preoccupata.

«Niente», mormora, facendo la fasciatura da capo. Nonostante il suo tono arrabbiato le sue mani si muovono gentilmente, attente a non farmi male al polso già contuso.

«A me sembri arrabbiato…», bofonchio, cauta, nel timore di farlo chiudere in se stesso.

Gli occhi di Edward incontrano i miei per un breve istante, per poi tornare subito alla mia mano. «Prima mi hai fatto prendere un colpo. Pensavo ti fossi spaccata qualcosa», sussurra, e mi sembra di scorgere del rossore appena accennato sulle sue guance.

Si è spaventato. Trattengo un sorriso dovuto al piacere di questa scoperta, che di sicuro non allieterebbe il suo umore in questo momento.

«Mi dispiace», dico, seguendo le sue mani che finiscono di sistemarmi la benda. «Non volevo farti preoccupare».

«Avresti dovuto lasciar perdere Emmett e le sue stupide sfide», borbotta, alzandosi dal divano e dirigendosi verso il bagno a pianoterra.

Sento l’acqua del rubinetto scorrere, segno che si sta lavando via dalle mani la pomata rimanente. Quando torna in salotto si avvicina alla finestra che dà sul cortile della villa.

«Però ho vinto, alla fine», esclamo, con una punta di entusiasmo nella voce.

Edward sospira esasperato, e scuote il capo.

Poco prima di pranzo Emmett mi ha sfidata a chi arrivava prima alla fine di una pista, e ho accettato senza pensarci due volte. Stava andando tutto bene, sono arrivata alla fine senza problemi, riuscendo a lasciare Emmett indietro di pochi metri; ma una volta giunta a fine discesa, quando ho provato a sterzare per fermarmi, sono scivolata su una lastra di ghiaccio scoperta, e sono caduta a terra, posando stupidamente il mio peso sulla mano sinistra, nel tentativo di ammortizzare la caduta. Gli altri mi hanno raggiunta subito, e siamo andati al centro medico degli impianti, dove un dottore mi ha controllato la mano, facendomi fare una lastra per sicurezza, e, dopo essersi assicurato che non c’erano fratture, mi ha fasciato il polso e la mano, dicendomi di tenerli a riposo ma di muoverli ogni tanto, per mantenere i muscoli allenati. In pochi giorni la contusione dovrebbe diminuire, e già da dopodomani potrei perfino riprendere a sciare usando la racchetta, se il dolore svanisce.

Raggiungo Edward alla finestra, e passo le braccia sotto le sue, abbracciandolo da dietro. Si irrigidisce per la sorpresa, e poi si rilassa, posando le sue mani sulle mie.

«Oggi non fa tanto freddo, vero?», gli chiedo, appoggiando la guancia fra le sue scapole.

«Non molto», conferma, pensieroso.

«Ti va di uscire fuori in cortile?», propongo, sperando che accetti.

Edward scioglie le nostre mani, e si gira verso di me, con un sopracciglio inarcato. «Che cosa hai in mente?»

«Stavo pensando che è da quando avevo otto anni che non ho più fatto un pupazzo di neve», mormoro, con un piccolo sorriso.

Gli angoli delle labbra di Edward si incurvano verso l’alto. «Dovrebbero esserci sciarpe e cappelli vecchi nello sgabuzzino».

«E ci sono delle carote nel frigo», aggiungo.

Lo sguardo di Edward scivola fino alla mia mano bendata. «A patto che non sforzi quella mano, d’accordo?»

Annuisco, trattenendo a stento l’istinto di mettermi a saltellare e battere le mani con una bambina il giorno di Natale davanti a una marea di regali.

«Okay, allora andiamo a recuperare gli oggetti», acconsente, portandomi con sé verso il ripostiglio.

 

«Sembra Emmett», rido, mentre scatto una fotografia al pupazzo di neve terminato. Il sole sta calando rapidamente, e nel giro di pochi minuti l’unica luce disponibile sarà quella dei lampioni della villa. Siamo fuori da quasi due ore, e presto dovremo rientrare.

«Questo perché tu gli hai fatto il corpo rettangolare invece che rotondo. Spero che a teatro non usino neve vera per le scenografie, o ti licenzieranno in un attimo», commenta Edward, scrollandosi la neve dai guanti.

Ritiro la macchina fotografica nella tasca della giacca, e in pochi secondi faccio una palla di neve, che finisce dritta sulla sua nuca. «Antipatico», scherzo, ridendo alla sua espressione buffa quando si volta a guardarmi.

«Devo dire che hai un’ottima mira», commenta, abbassandosi lentamente per raccogliere a sua volta della neve. «Ma non pensare che possa bastarti per averla vinta».

Gli faccio la linguaccia, e mi volto, prendendo il suo colpo sulla schiena.

Iniziamo una battaglia a palle di neve, finendo per ritrovarci con i capelli e le giacche cosparse di bianco, come se fosse farina.

Dopo che Edward annuncia il time-out, lo vedo chinarsi vicino all’estremità del giardino, dove la neve è più fresca e profonda, e mi tornano in mente le mie parole di pochi giorni fa:

«Scommettiamo che riuscirò a farti cadere prima della fine della vacanza?»

Un piccolo sorriso furbo spunta sulle mie labbra, e mi avvicino silenziosamente alle sue spalle. Guardo nella direzione verso cui sono puntati i suoi occhi, e noto una piccola pianticella verde che spunta dalla neve, con un piccolo bocciolo bianco ancora chiuso in cima.

«Cosa guardi?», gli domando, non capendo se sta osservando davvero la pianta.

«C’è un bucaneve lì», risponde, indicando il fiore. «Esme li aveva portati qui dall’Europa anni fa e li aveva piantati, ma non erano mai cresciuti».

«Gli faccio una foto, così glielo puoi far vedere», propongo, tirando fuori la macchina fotografica. Scatto velocemente la foto, e subito dopo la ritiro, al riparo dalla neve.

Quando Edward fa per alzarsi, capisco che è il momento buono per mettere in atto il mio piano. Premo i palmi contro la sua schiena, ignorando la fitta alla mano sinistra, e lo osservo mentre perde l’equilibrio e cade in avanti, finendo con la faccia nella neve fredda, a pochi centimetri dal bucaneve. Scoppio a ridere, e lui rotola sul fianco, mettendosi a sedere velocemente, togliendosi dal viso la neve.

«Ho vinto la scommessa», gli dico, osservandolo dall’alto con le braccia incrociate, fingendo un’aria di superiorità.

Edward mi guarda senza capire, con un sopracciglio inarcato.

«Avevamo scommesso che sarei riuscita a farti cadere prima della fine delle vacanze l’altro giorno, non te lo ricordi?»

La sua espressione diventa ancora più confusa. «Ma si riferiva a cadere dagli sci, non da in piedi», precisa, guardandomi dal basso.

«Tu non l’hai specificato quando abbiamo fatto la scommessa», ribatto, con un sorriso innocente dipinto in viso.

Edward sorride, divertito. «Credevo fosse sottinteso».

Scrollo le spalle. «Avresti dovuto essere più preciso, allora».

Si alza in piedi, scrollandosi altra neve di dosso. «D’accordo, hai vinto tu».

Sogghigno, soddisfatta. Poco importa se mi sto comportando in maniera infantile, sono troppo felice per trattenermi.

Le labbra di Edward si piegano nel suo sorriso sghembo. «Lo sai che te la sto lasciando passare liscia solo perché sono curioso di sapere cosa vuoi farmi fare, vero?»

«Quanto sei orgoglioso, Eddy. Non riesci ad accettare che io abbia vinto», ghigno, prendendolo in giro e chiamandolo con il nomignolo rifilatogli da Alice ed Emmett che lui tanto detesta.

I suoi occhi brillano per un istante, e prima che possa capire cosa sta per fare ha già afferrato la mia giacca. Mi attira a sé facendomi cadere in avanti, e mi ritrovo con le ginocchia affondate nella neve, mentre mi reggo alla sua spalla con la mano sana e l’altra sollevata per aria dopo essermi ricordata all’ultimo momento di non doverla assolutamente usare per sostenermi.

Edward trattiene una risata, e sta per dirmi qualcosa quando in lontananza sentiamo il rumore della jeep di Emmett.

«Che ne dici di coalizione contro Emmett?», mi propone, mentre le sue mani stanno già raccogliendo la neve per formare una palla.

«Ci sto!», esclamo, preparando la mia schiera di proiettili di neve da lanciare contro il caro orso.

L’auto entra nel cortile e si ferma accanto all’altra jeep, in perfetta posizione per me ed Edward, pronti a colpire il conducente, che ha appena aperto la portiera.

Il tempo che è sceso dall’auto due palle di neve sono già finite contro la sua schiena, imbiancando il giubbotto scuro che indossa. Emmett si volta nella nostra direzione con un cipiglio confuso, e proprio in quel momento la mia palla di neve lo colpisce in pieno viso.

Mi porto entrambe le mani alla bocca, nascondendo la risata che sento nascere spontanea davanti alla sua faccia bianca. Edward mi batte il cinque, congratulandomi con un «Bel colpo!» e aiutandomi a rialzarmi dalla nostra postazione, decidendo che per oggi può bastare così.

Rosalie e gli altri raggiungono Emmett, scoppiando a ridere davanti alla sua espressione.

I suoi occhi si puntano su di me. «Bellina, inizia a scappare, perché non avrò alcuna pietà», esclama, con un ghigno divertito in viso.

Alice, Rosalie e Jasper sospirano, e mentre loro trasportano le borse con la spesa in casa, io, Edward ed Emmett restiamo fuori in cortile, continuando la nostra battaglia a palle di neve, lasciando che le nostre risate risuonino fra le montagne.

 

Lunedì 4 Gennaio

«Bella? Bella, mi stai ascoltando?»

Sussulto, mentre una voce mi strappa ai miei pensieri. Mi volto a guardare Edward, sdraiato accanto a me e con un cipiglio perplesso in viso. Siamo in camera di Esme e Carlisle, sdraiati sul letto a guardare un film. Alice e Jasper hanno preso il comando della tv in salotto, e le alternative erano le sedie della cucina o la camera dei genitori di Edward, essendo le uniche stanze con un televisore, oltre al salotto.

«Eh?», ribatto stupidamente, cadendo dalle nuvole.

Lui inarca un sopracciglio, incuriosito. «A cosa stavi pensando? Sembravi su un altro pianeta».

«A niente!», rispondo, mentre sento il consueto rossore espandersi rapidamente sulle mie guance, tradendomi. Fortunatamente la camera è immersa nel buio, e l’unica luce è quella che proviene dal televisore acceso.

«Vuoi che cambiamo film?», mi domanda, sedendosi dritto, pronto ad alzarsi nel caso rispondessi affermativamente.

«No, no. Questo film va bene, non preoccuparti», lo rassicuro.

Edward continua ad osservarmi attentamente, ed io abbasso lo sguardo sul copriletto, sentendomi imbarazzata.

Lo sento avvicinarsi. «È tutto a posto?», mi chiede, arrivando vicino.

Annuisco velocemente, spostando l’attenzione al film, di cui ho seguito poco e niente. Se mi dovesse fare qualche domanda sulla trama capirebbe subito che sono stata attenta per poco più di dieci minuti. Poi i miei pensieri sono stati dirottati su altro, e non sono più riuscita a guardare il film. E lui se n’è accorto.

Vedendo che sono tornata a concentrarmi - almeno apparentemente - sul film, Edward si arrende, e torna a rilassarsi contro i cuscini.

Ora siamo più vicini di prima, la sua spalla sfiora la mia, e questo peggiora la situazione.

È da due giorni che continuo a ripensare alla notte dopo capodanno, e non riesco a togliermela dalla testa. La notte di capodanno abbiamo festeggiato tutti insieme in paese, dove sono stati lanciati anche i fuochi d’artificio allo scoccare della mezzanotte; quando siamo tornati a casa era già tardi, ma dato che nessuno di noi aveva sonno siamo finiti a giocare a monopoli ed altri giochi da tavolo; io mi sono addormentata prima di tutti sul divano, e la mattina, quando Alice è venuta a svegliarmi per l’ora di pranzo, mi sono ritrovata nel mio letto, dove mi aveva portato Edward prima di andare a dormire a sua volta. Tutti ci siamo svegliati presto, intorno a mezzogiorno, su ordine di Alice che aveva puntato le sveglie per evitare che dormissimo tutto il giorno e passassimo la notte dopo svegli come grilli, rovinando così la giornata successiva, che doveva essere dedicata nuovamente allo sci. Quella sera eravamo tutti stravolti, così mentre gli altri cercavano di resistere alla tentazione di andare subito a letto dopo cena facendo una passeggiata all’aperto, io ed Edward abbiamo optato per un film alla tv.

Ci siamo sdraiati sul divano, e senza riuscire a resistere ci siamo addormentati. Il mattino successivo mi sono svegliata prima di lui, e la tv era spenta - Alice e gli altri l’avevano spenta quando erano tornati dalla passeggiata, e avevano deciso di lasciarci dormire in pace. È stata la seconda volta che ho dormito con Edward, ma a differenza dell’altra volta, dove eravamo in un grosso letto matrimoniale l’uno lontano dall’altra, l’altro giorno mi sono risvegliata circondata dalle sue braccia, e il suo corpo premuto contro il mio, completamente. La scarica di eccitazione che è corsa lungo la mia schiena appena ho realizzato la situazione è stata così forte che ancora adesso a ripensarci mi sembra di sentirla. È stato il momento in cui ho realizzato quanto davvero voglio Edward, in tutti i sensi, ed è la prima volta che provo una sensazione simile; nessun altro prima di lui aveva scatenato in me queste emozioni, e se da una parte mi sento elettrizzata, dall’altra sono terrorizzata. Io ed Edward non abbiamo ancora affrontato questo argomento, ed la paura di essere l’unica a provare queste sensazioni fra di noi mi rende più insicura e imbarazzata del solito.

Ripenso alla sensazione delle sue braccia strette appena sotto il mio seno, e del suo petto premuto contro la mia schiena, e un altro brivido mi scuote.

«Hai freddo?», sussurra Edward. I suoi occhi sono puntati su di me.

Mi irrigidisco. Mi stava osservando? Ha letto sul mio viso quello che stavo provando, quello che stavo pensando?

Scuoto il capo in segno di diniego, cercando di apparire disinvolta.

Prima che possa fermarla, la sua mano si posa sulla mia guancia, e i suoi occhi si allargano leggermente. «Sei calda», constata, spostando poi il palmo alla mia fronte, e subito dopo aggrottando la sua. «Sei… arrossita? Hai le guance bollenti ma la fronte fredda. Perché-»

Mi sporgo in avanti, e lo zittisco premendo la bocca contro la sua, prima che la domanda lasci le sue labbra. Allaccio le mani dietro la sua nuca, avvicinandolo a me. Come potrei trovare il coraggio per spiegargli il motivo per cui non riesco a rimanere concentrata per più di dieci secondi sul film e per cui continuo ad arrossire ogni volta che lo guardo da due giorni a questa parte? A malapena riesco a spiegare a me stessa quello che mi sta succedendo.

Le sue labbra rimangono ferme per qualche secondo, immobilizzate dalla sorpresa, poi iniziano a muoversi lentamente, come se stesse cercando di prendere tempo per capire cosa mi sta saltando in testa.

Spinta da un’audacia che non sento mia, mi giro su un fianco, e sollevo una gamba per mettermi a cavalcioni sulle sue. Lo sento trattenere il respiro, poi i suoi palmi premono sulla mia schiena, spingendomi verso di lui.

Con un colpo di reni ci fa rotolare di lato, fino a farmi ritrovare con la schiena sul materasso, e lui sopra di me, che si sostiene sui gomiti e le ginocchia per non pesarmi addosso.

Le sue labbra scivolano lungo la mia mandibola, lasciando una scia di baci leggeri come piume che giunge fino alla mia gola, dove la pelle è più sensibile. Sento le sue mani scivolare sotto il bordo della mia maglia leggera, premendo contro la pelle nuda dei miei fianchi.

Un’altra scarica parte dalla mia nuca percorrendo tutta la mia schiena, e per un istante sono certa di essere sul punto di perdere completamente la ragione.

«Edward…», sussurro con il fiato spezzato, posando le mani sulle sue, imponendomi di fermarci. Prima di andare avanti lui merita di sapere, ed io ho bisogno di dirglielo.

Lo sento irrigidirsi immediatamente, e le sue labbra si arrestano sul mio collo. Sfila le mani da sotto la mia maglia, e fa per allontanarsi, ma prima che possa farlo lo fermo, prendendo il suo viso fra le mie mani, costringendolo a guardarmi negli occhi. I suoi sono lucidi, e risplendono di eccitazione e pentimento.

Quando le sue labbra si aprono per dire qualcosa, sicuramente una scusa per il suo comportamento, lo interrompo. «C’è una cosa che devo dirti», mormoro, sentendo le guance calde e rosse.

Edward aggrotta le sopracciglia, perplesso, e aspetta che io continui. In sottofondo si sente solo il chiacchiericcio proveniente dalla televisione.

Lo osservo cercando il coraggio per dire quello che voglio, trovando solo un’ondata di imbarazzo che lentamente mi sommerge. «Io… io n-non ho mai… insomma, n-non sono ancora stata c-con…». Lascio la frase in sospeso, incapace di continuare.

Gli occhi di Edward si allargano leggermente, mentre il significato della mia frase spezzata diventa di secondo in secondo più chiaro. «Mai?», sussurra, e nella sua voce posso avvertire stupore e incredulità.

Scuoto il capo, chiudendo gli occhi per l’imbarazzo. Adesso penserà che sono solo una ragazzina. Una ragazzina stupida ed emarginata che non ha mai avuto uno straccio di ragazzo fino ai suoi venti e passa anni. La verità è che nessun ragazzo prima d’ora ha mai suscitato il mio interesse in quel senso, nessuno a parte Edward.

Una mano si posa sulla mia guancia, riportando il mio viso ad alzarsi. Riapro gli occhi leggermente, trovando il volto di Edward a pochi centimetri dal mio, a fissarmi incuriosito e preoccupato. «Cosa c’è?», mi chiede, dolcemente.

«Mi dispiace», sussurro, sentendomi incredibilmente imbarazzata.

Un sopracciglio si incurva verso l’alto, mentre la sue espressione diventa scettica. «Per cosa?»

«P-Per questo… s-so che tu n-non…»

Anche l’altro sopracciglio si inarca, e mi interrompe. «Ti stai scusando per essere ancora vergine?»

Porto un braccio a coprirmi gli occhi, sentendo l’imbarazzo a quella parola sommergermi. «Io… credo di sì», bofonchio, sentendo le guance bollenti a contatto con il mio braccio.

«Questa è la cosa più assurda che abbia mai sentito», commenta Edward, e nella sua voce sento una nota di divertimento.

«Cosa, sapere di una ragazza con più di vent’anni che è ancora vergine?», borbotto, sentendomi ancora peggio e senza avere il coraggio di uscire dal riparo del mio braccio.

«No, che qualcuno si scusi per esserlo», risponde, tornando ad essere serio. Una sua mano afferra il mio polso, e allontana il mio braccio dal mio viso, costringendomi a guardarlo. «Bella, io non ti giudico per essere ancora vergine, né ho cambiato idea su di te, hai capito?»

Abbasso lo sguardo, sentendomi in parte rassicurata dalle sue parole. «Sei sicuro? A te va bene che io non abbia nessuna… nessuna esperienza in questo campo?»

Non sono stupida. So che Edward non è più vergine da un bel pezzo, e sono sicura che con Tanya era abituato a fare sesso frequentemente. Io non ho mai avuto alcuna esperienza, sebbene in qualche modo conosca la teoria - fra libri e certi racconti di Alice poche cose ormai sono lasciate alla fantasia.

Le labbra di Edward si piegano in un piccolo sorriso. «Credimi, in certe cose l’esperienza non è tutto», mormora.

Arrossisco, e lui rotola di fianco, sistemandosi accanto a me. Apre un braccio per farmi avvicinare, e mi accosto a lui timidamente, poggiando la testa sul suo petto, riprendendo a guardare il film.

«Sei deluso?», gli chiedo a bassa voce, senza staccare gli occhi dal televisore. Sotto il mio orecchio il suo cuore continua a battere più rapidamente del solito, al ritmo del mio, ancora scombussolato dagli avvenimenti di poco fa.

«Per niente», risponde, e so che è sincero. «Piuttosto, direi che sono sorpreso».

«Non te lo aspettavi?», mormoro, imbarazzata.

«A essere sincero no», ribatte, con una lieve risata che mi scuote insieme a lui. Le sue dita giocano con una ciocca dei miei capelli, e questo semplice gesto riesce a rilassarmi.

Chiudo gli occhi, abbandonandomi a lui, lasciando che il suo respiro e il battito del suo cuore mi cullino, e trovando la sicurezza di cui avevo bisogno fra le sue braccia.

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EDIT DEL 25/02: mi sono appena resa conto che quando ho postato il capitolo per qualche strano motivo il programma dell'html mi ha cancellato un pezzetto di storia, mettendo uno spazio bianco. Nulla di grave, sono solo poche righe, e fortunatamente me ne sono accorta. Ho risolto poco fa; si trattava di un pezzo dopo la ripresa del Bella POV, dove invece di uno spazio bianco dovevano esserci un paio di battute che non avrebbero spezzato il discorso fra lei ed Edward. Sorry per il problema.


Ricordo che lo chalet dei Cullen è questo. :D


Bene, bene, contente che per una volta non c'è nessun dramma di mezzo? XD Dopo ben 18 capitoli di tormenti mi sembrava giusto lasciare a questi poveri Edward e Bella un po' di pace ù.ù

Grazie per essere arrivati fino a qui e avermi aspettata anche questa volta! E un super GRAZIE va a Marika che mi minaccia sempre di scrivere ù.ù


Vi lascio il link per il blog e quello della mia nuova ff, Route 66. Se vi piacciono i viaggi fateci un salto, mi farebbe piacere! :D


A presto! :*

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