Pâtisserie Française

di fragolottina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - I pasticceri non sono necessariamente dolci ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - come uno scoiattolo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - le conseguenze di una discussione ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - troppa fortuna tutta insieme ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - un abbraccio che si chiama disattenzione ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - autocombustione spontanea ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - I pasticceri non sono necessariamente dolci ***


Patisserie française fragolottina's time
c'entra qualcosa il fatto che poche sere fa ho guardato 'Ratatouille'? ovvimente si, ma vi prometto niente roditori.
dunque, non so che raccontarvi... mi piace pasticciare e nonostante il fatto che mi sto laureando il lingue, non lo escluderei del tutto dal mio futuro, potrei ancora farci o pensierino...
poi... ah, si! è la prima storia che ambiento in Italia, di norma evito perchè... boh, non lo so... non abbiamo le cheerleader, non abbiamo il football, non abbiamo le divise, i balli scolastici, non abbiamo Harvard... tutte cose che poi in un modo o in un altro nelle storie che scrivo servono... e poi sono cresciuta a Buffy ed Una mamma per amica... mi viene spontaneo!
cmq, la città è inventata in ogni caso, la 'Pȃtisserie (perchè quella a è così bruttina poveretta?) Française' non esiste... se nel futuro la vedrete l'ho aperta io!
come sempre i personaggi me li invento... come sempre non esistono, ahimè, come sempre buona lettura!


PROLOGO

I pasticceri non sono necessariamente dolci
La stanza è piena di ragazze come me.
    No, probabilmente no, per tutto quel discorso che ogni persona nel mondo è unica ed irripetibile e blablabla.
    Ma in ogni caso, ognuna di loro, come me, è qui dopo aver seguito un corso di pasticceria più o meno accurato, aver fatto scarse esperienze lavorative e, soprattutto, con la speranza di essere migliore delle altre.
    ‘Pâtisserie française’ è famosa per i suoi dolci, per il fatto che Paris Hilton compra qui la sua torta di compleanno e per il suo pasticcere francese eccellente quanto affascinante, si dice che sia anche velatamente arrogante, ma sono sicura che siano solo chiacchiere. Non so perché associ il fare dolci di mestiere ad una dolcezza interiore. Io non sono particolarmente dolce e sono una pasticcera, ma forse è perché io, in fondo, sono anche una biologa.
    Perché una biologa, laureata con cento e lode, dovrebbe cercare lavoro come pasticcera? Semplice: perché il mondo, per quel che ne so, non ha bisogno di biologi, almeno non l’Italia. Così dopo aver sbattuto la testa a ventidue anni contro la dura realtà, ho fatto delle ricerche scoprendo che in Italia mancavano mille e trecento parrucchiere, mille estetiste, novecento fornai e pizzaioli, ottocento sarte e cinquecento pasticcere. Da piccola, durante il periodo di Carnevale, io e mia nonna facevamo insieme le frappe, quindi ho fatto un corso di due anni di pasticceria.
    Niente illuminazioni, niente vocazioni, niente bisogno di espressione. Voglia di indipendenza e bisogno di soldi per ottenerla.
    Ad ogni modo, una ragazza sta scappando via in lacrime e questa non è una buona cosa, soprattutto perché io sono la prossima.
    Una donna poco più grande di me, deve essere circa sulla trentina, consulta un foglio che immagino contenga la lista dei nostri nomi; è carina anche se il tailleur che indossa ed i capelli raccolti le danno un’aria un po’ rigida. A dirla tutta la invecchiano anche un po’, non capisco perché alcune ragazze sentano così tanto il bisogno di apparire più adulte.
    «Veronica Neri?» mi chiama.
    Io mi alzo in piedi. «Sono io.»
    Lei mi scruta con attenzione, poi sospira. «Te la senti?»
    Sbatto le palpebre perplessa, non dovrei?
    «Certo.» annuisco convinta.
    «Pensi di riuscire a non piangere?» continua a domandare.
    Faccio di nuovo di si con la testa timorosa.
    «D’accordo.»
    Si scosta dalla porta e mi fa cenno con la testa di entrare.
    Quello che mi si presenta davanti è un normalissimo ufficio, c’è una scrivania con un pc portatile aperto e tre sedie. In un angolo una pianta cerca di rendere più accogliente l’ambiente, ma non può fare niente contro l’impressione di ‘stanza colloqui messa su in tutta fretta’. Non è qualcosa in particolare a trasmetterlo, è come se i muri fossero troppo bianchi, troppo luminosi, tutto è troppo vuoto.
    Il pasticcere è in piedi davanti ad una finestra con le mani intrecciate dietro la nuca.
    «Veronica, lui è Pierre Mureau. Pierre, lei è Veronica Neri.»
    Si gira incrociando le braccia sul petto e studiandomi annoiato, mentre io mi siedo. Ha i capelli biondi come il grano, divisi in fitti riccioli che gli ricadono sul viso fin quasi a coprirgli gli occhi castani e grandi, se li ravviva indietro con la mano. Non ha decisamente la tenuta da pasticcere raffinato, indossa una camicia rossa a quadri scozzesi sopra una maglietta ed un paio di jeans dall’aria consumata.
    «Petite.» mormora. Ha le labbra lunghe e morbide, quasi femminili su un accenno di barba chiara.
    «Io sono Eleonora Bernardi, la proprietaria del locale.» mi porge gentile la mano da seduta ed io la stringo. «Hai con te un curriculum, vero?»
    Frugo nella mia borsa e ne estraggo uno, da quando sono attivamente impegnata nella ricerca di un impiego stabile continuo a portarmene dietro una copia; ho ottenuto un sacco di mini contratti mensili, grazie a quest’accortezza, ma di certo stare due mesi in una gelateria ed altri due in un bar non basta a raggiungere l’indipendenza economica.
    Lo porgo alla Bernardi, ma è la mano di Pierre ad intercettarlo.
    Si siede sull’ultima sedia rimasta libera e lo studia strofinandosi il viso con una mano.
    «Ventiquattro anni, sembri più giovane.» commenta con un spiccato accento francese sull'italiano corretto.
    «Grazie.» rispondo cercando di essere gentile.
    «Non era un complimento.» ribatte secco senza guardarmi.
    Iniziamo proprio bene.
    La Bernardi accanto a lui si copre gli occhi con una mano, ha l’aria sconfortata. «Sei laureata, mm… pourquoi?»

    «Volevo studiare le scienze biologiche?» rispondo incerta, per quale altro motivo dovrei essermi laureata?
    Lui appoggia con lentezza calcolata il mio curriculum sul tavolo e mi guarda. «Vediamo se indovino…» inizia. «ti sei laureata, hai visto che di biologi nel mondo ce n’erano anche troppi, anche les plus brillantes di te ed hai ripiegato su un lavoretto come la pasticceria in cerca di più de chance?»
    «No?!» cosa c’è di male?
    Lui scuote la testa. «Non… tu peux aller.»
    «Davvero?» domando, non ho capito esattamente cosa sia successo, ma temo non sia andata bene.
    «No.» mi risponde la donna, sbattendo il palmo aperto sul mio curriculum, prima di recuperarlo e leggerlo con aria nervosa. «Pierre, ne abbiamo viste, quante? Venticinque?»
    «Trenta.» la corregge senza scomporsi, ignorando il suo fastidio.
    «Appunto, forse dovresti rivedere i tuoi criteri di scelta.»
    Lui brontola qualcosa senza guardarla dal suono vagamente polemico.
    «Non fare il francese con me, sai parlare italiano alla perfezione.»
    «Bien, che sai fare?» mi chiede con un sorriso ipocrita.
    «Ho lavorato in una gelateria, mi occupavo delle torte gelato…»
    «Ti serve una gelataia, Nora?» mi blocca senza il minimo rispetto.
    «Ho un diploma di pasticcera, non sono una gelataia!» protesto guardandolo.
    Lui sposta lo sguardo su di me gelido. «Immagino, che tu faccia delle crostatine fantastiche, ma qui siamo ad un livello un tantino più alto dell’amatoriale.» mi deride come se fossi una povera ragazzina scema.
    Per un paio di secondi rimango zitta e continuo a fissarlo, poi stizzita comincio a rimestare nella borsa, sono sicura di avere con me il foglio di giornale dove ho letto l’annuncio, perché avevo paura di non riuscire a trovare il posto. Finalmente lo trovo e glielo piazzo davanti al naso alzandomi in piedi. «’Cercasi apprendista in possesso di diploma di formazione pasticcera. Disponibile per eventuali corsi aggiuntivi. Full-time.’ Non c’è scritto da nessuna parte che devo essere una professionista e comunque…» mi sistemo meglio la borsa sulla spalla. «le mie crostatine sono tutt’altro che amatoriali, sbruffone.» concludo in bellezza, incrociando le braccia sul petto e guardandolo dall’alto in basso. Ho dato dello sbruffone al pasticcere di fiducia di Paris Hilton, ho appena buttato al vento la possibilità di un ottimo lavoro e probabilmente continuerò a fare tortine gelato per tutta la vita, ma al diavolo! Se deve insultarmi se lo può tenere il lavoro e se ne può tornare anche in Francia.
    Eleonora Bernardi si copre la bocca con una mano nascondendo una smorfia di stupore e divertimento. «Ti ha dato dello sbruffone, Pierre.»
    Lui le lancia un’occhiataccia. «Oui, ho sentito.»
    Faccio per uscire a passo di carica, ma ci ripenso e mi blocco con una mano sul pomello. «Non sei un genio, non sei più intelligente di me, non sai fare calcoli matematici impossibili a mente, sai fare torte! Con un po’ di esperienza in più diventerei brava quanto te.» e poi tra l’altro. «Io sono laureata!» esclamo come ricordarmelo all’improvviso. «Io sono effettivamente più intelligente di te!»
    Lui scoppia a ridere, ma è un risata gelida, spietata che in ogni caso non coinvolge gli occhi. «Non so proprio cosa farmene della tua intelligenza, va via!»

Ho anche un altro colloquio da fare. Certo, non è importante come la ‘Pâtisseries Françaises’, ma almeno qui sembrano intenzionati a rispettarmi.
    È un uomo a controllare il mio curriculum, è un fornaio che però, oltre al pane, ha anche un bancone di dolci ed ha bisogno di qualcuno che se ne occupi. Lo stipendio, per quanto io possa essere ottimista, non sarà mai elevato quanto quello di un pasticceria di lusso, è part-time, ma mi offrono un contratto di due anni.
    Loro non fanno storie per la mia laurea, non si lamentano nel mio lavoro in gelateria, non…
    Il mio telefono squilla, lo recupero dalla mia borsa e controllo il display su cui lampeggia un numero che non conosco. «Mi scusi.» dico all’uomo che mi sta facendo il colloquio, alzandomi ed uscendo dalla stanza per andare a rispondere fuori.
    «Pronto?»
    «Veronica Neri?» mi chiede una voce femminile.
    «Si?» rispondo coprendomi l'altro orecchio con la mano per attutire il frastuono delle macchine che passano.
    «Sono Eleonora Bernardi, vorrei venire da te a fare merenda, sai per assaggiare qualcosa fatto da te.» spiega. «Va bene, se vengo a casa tua alle cinque e mezza oggi pomeriggio?»

    Per un secondo rimango interdetta. «Ma mi ha cacciata.» protesto.
    «Le ha cacciate tutte, ma io qualcuno devo pur assumere.» si interrompe per alcuni secondi. «E comunque, la proprietaria sono io non lui.»
    Dovrei dire di no. Insomma, probabilmente non sono così brava da convincerla con un tortino fatto su due piedi, ma anche se ci riuscissi, poi dovrei lavorare con Mr. ‘Io sono più figo di te perché parlo francese’ Mureau… anche se forse sarebbe più appropriato dire Monsieur.
    «Allora?»
    «Alle cinque e mezza va bene.»

Ho mandato via i miei genitori con una scusa, non mi piace avere intorno mia madre che sorveglia me e la cucina, mentre sono ai fornelli; per lei sono ancora la bambina che potrebbe scottarsi con una pentola bollente o con il forno. In realtà mi capita molto più spesso di quanto dovrebbe e questo giustifica la sua apprensione, ma, se devo fare un colloquio, meglio non fare niente per insospettire la mia possibile datrice della mia sbadataggine.
    La Bernardi è puntualissima, alle diciassette e trenta precise citofona nel mio palazzo, alle diciassette e trentacinque è seduta su una sedia della mia cucina e mi osserva armeggiare con farina, zucchero eccetera.
    Alle diciotto e quindici il mio muffin alle gocce di cioccolata e glassato di rosa è su un piattino davanti a lei. Lo solleva con due dita, lo studia e lo morde, masticando con calma e riflettendo.
    «Mi piace, anche se forse ci andava un altro po’ di zucchero.»
    «Davvero?» domando mortificata.
    Ma lei mi sorride gentile. «Tranquilla, non è niente di catastrofico.» prende un altro morso, mentre io le riempio una tazza con il tè che avevo messo a preparare. «Grazie.» dice bevendo.
    «Di niente.»
    «Dunque…» inizia posando quel che resta del mio pasticcino – molto poco in realtà, buon segno – sul piattino. «sei una buona candidata per quel posto, sei una delle poche che non si è fatta mettere i piedi in testa da Pierre, hai tutte le carte in regola ed i tuoi dolci sono effettivamente buoni.»
    «Lui non mi vuole.» le ricordo.
    «Lui vorrebbe un altro sé stesso e dio solo sa cosa non darei per avercelo! Ma, ahimè, non esiste, dovrà accontentarsi.» si stringe nelle spalle.
    Io abbasso lo sguardo mentre mi sfilo il grembiule dalla testa e lo appoggio sul tavolo. «Non sono sicura di voler lavorare con lui e farmi umiliare di continuo.»
    Appoggia i gomiti sul tavolo sostenendosi il viso con le mani. «Quando l’ho assunto mio padre mi ha detto ‘L’unico modo per andare d’accordo con quel ragazzo è essere il suo capo’.» sorride. «Non ti invidio proprio. Ma tu vuoi questo lavoro, perché non sei stupida e sai che tre mesi alla ‘Pâtisserie Française’ ti apriranno un sacco di porte.»
    «Mi offre un contratto di soli tre mesi?»
    Lei scoppia a ridere. «Io sono un’ottimista!» esclama. «Te ne offro uno a tempo indeterminato, tre mesi è la media di tempo che resistono gli aiuto pasticceri di Pierre.»
    «Perché se ne vanno?» chiedo curiosa e particolarmente interessata, il lavoro del fornaio non è come questo ed è part-time, ma è un contratto di due anni.
    La Bernardi sbatte le palpebre eloquente. «Secondo te?»
    La fisso ancora per un paio di secondi, poi abbasso lo sguardo. «Oh…» commento soltanto.
    «Vedi, non devi prenderla sul personale, non è che tu gli sia meno simpatica del resto del mondo…» cerca di spiegarmi con l'espressione tipica di chi non sa quali parole usare per rendere migliore una situazione, probabilmente perché non ce ne sono. «è solo che lui ci odia tutti indifferentemente. È troppo bravo e troppo consapevole di esserlo.»
    «Davvero, è così bravo?»
    Lei fa un sorrisetto, poi si volta a frugare nella sua borsa estraendone una busta di carta con il logo della sua pasticceria e sbircia all’interno. «Avanti, assaggiane uno.» mi offre facendomi l’occhiolino e porgendomi il sacchetto.
    Incerta, allungo la mano e ne estraggo un biscotto al burro. Semplicissimo, pastafrolla e gocce di cioccolato in un stampino a forma di cuore, non ci vuole assolutamente un corso di pasticceria per saperne fare. Lo mordo e lo mastico una volta.
    «Cazzo.» mi scappa mentre riprendo a masticare studiando senza capire il frollino, ma che diavolo ci ha messo?
    La Bernardi ridacchia. «Si, è davvero così bravo.»
    È la cosa più buona che io abbia mai assaggiato, ne avrò mangiati di biscotti in vita mia? Ho assaggiato anche quelli del mio insegnante al corso, ma questi sono esaltanti, sono fantastici. «Che c’è dentro?» domando, perché devo assolutamente avere la ricetta e provare a farne mille.
    «Nessuno lo sa.» scrolla le spalle. «Ha un quaderno dove riscrive tutte le ricette secondo una sua interpretazione molto personale e molto giusta. E quel quaderno lo tiene probabilmente in una cassetta di sicurezza.»
    Il segreto di Pierre Mureau è semplicemente in un quaderno di ricette? Se io mettessi le mani su quel quaderno riuscirei ad essere brava come lui?
    «Che io sappia non l’ha mai visto nessuno, ma se vieni a lavorare da me…» insinua. «potresti provare a conquistarti i suoi favori e convincerlo a lasciarti dare una sbirciata.»
    Questa si, che è una bella tentazione. La guardo, poi guardo il biscotto che mi ha offerto ed il mio muffin che non potrebbe mai tenere il confronto.
    «Qualcuno è mai riuscito a conquistare i suoi favori?» le domando.
    «No, ma magari tu farai la differenza.» si alza dalla sedia e si infila di nuovo il cappotto, pronta per andarsene. «Pensaci, io ti preparo il contratto, domani vieni in pasticceria e mi dai la tua risposta, d’accordo?»
    Annuisco e la accompagno alla porta, consapevole che c’è soltanto una risposta che io possa dare.


e qui finisce il prologo...
spero che abbiate trovato la mia idea abbastanza interessante da essere arrivate fin qui e voler leggere anche un'altro capitolo...
non so proprio se ci sono altre storie così, se fosse mi scuso e mi rimetto ad un eventuale giudizio...
se vi va di farmi sapere che ve ne pare mi farete felice!
bacizuccherosi

ps: mi sto prodigando per aggioranre anche tutte le altre storie in corso... pian, pianino... 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - come uno scoiattolo ***


Patisserie française fragolottina's time
primo capitolo...
mm, qualcuno interessato alla storia c'è, nessuno mi ha accusata di plagio... si prosegue signore e signori!
buona lettura, ci vediamo più giù!

CAPITOLO 1

Come uno scoiattolo
La ‘Pâtisseries Françaises’ è in centro. Non è un locale molto grande, o almeno quello riservato ai clienti non lo è.
    L’ho sempre trovata carinissima e colorata, i muri sono rosa, mentre le mattonelle del pavimento verde menta; i due tavoli, con quattro sedie ciascuno, sono bianchi e pieni di ghirigori, mi ricordano i mobili per esterni che si vedono spesso negli sceneggiati in costume. Proprio davanti all’entrata c’è la vetrina, refrigerante in basso ed a temperatura ambiente in alto, stracolma di cose che, dopo quel biscotto, vorrei assaggiare.
    Vicino alla vetrina, leggermente a destra rispetto all’ingresso, è sistemato un bancone con davanti tre sgabelli imbottiti bianchi e rosa e dietro le macchinette per il caffè.
    Pierre esce dalla porta munita di oblò che dà alla cucina sul retro canticchiando un motivo che non conosco, la apre con la schiena, le mani occupate a tenere una torta di compleanno piena di fiori colorati fatti con il marzapane. Per alcuni secondi rimango troppo incantata ad osservarla, evidentemente a Pierre Mureau non basta fare dolci buoni, devono essere anche belli. Faccio una smorfia ricordando che io non sono molto brava nelle decorazioni che non siano strettamente convenzionali. Posa la torta nella vetrina e poi guarda me, come se non fosse in grado di prestare attenzione a niente che non siano i dolci, quando ha a che fare con loro. Oggi sembra molto più professionale: ha una divisa bianca – macchiata qui e lì – con il logo della pasticceria in rosa sul petto a sinistra ed una cuffietta che gli tiene indietro i capelli, si è anche rasato.
    E non sembra esattamente felice di vedermi.
    «Spero di cuore che tu sia qui come cliente.» dice distogliendo lo sguardo dal mio per togliere una macchia di cioccolata che era rimasta sul vassoio. «Potrei anche offrirti la colazione se mi giuri che poi te ne andrai e non tornerai più.» mi offre.
    Sorrido sedendomi su uno sgabello e scuoto contenta la testa. «Ho appuntamento con la signora Bernardi, pare che il mio muffin non fosse così amatoriale.» gli annuncio soddisfatta.
    Lui solleva le sopracciglia lanciandomi un’occhiata, poi grugnisce e torna in cucina. Guardo per alcuni secondi la porta, che continua ad oscillare perché l’ha attraversata con troppa foga, poi giro intorno al bancone e lo seguo.
    Dall’altra parte non c’è niente di colorato, il pavimento è bianco e tutti i piani e gli elettrodomestici sono di lucido acciaio, sembra quasi una sala operatoria. Osservo ammirata un forno illuminato dall’interno, dove, in uno stampo quadrato, gira una torta di mele in modo che la cottura sia uniforme.
    «Ehi!» mi chiama. «Non puoi stare qui.» lo cerco con gli occhi, ma non lo trovo, così mi avventuro in quel labirinto, chiedendomi se non si senta solo in quella cucina enorme. Lo trovo fermo davanti ai fornelli dove, armato di padella e spatola, sta facendo rosolare nel burro quello che sembra un toast; alza gli occhi soltanto per sbirciarmi, indispettito, probabilmente, che sia arrivata fin lì. «Hai sentito, no? Fuori di qui!» mi intima.
    «Cos’è quello?» chiedo curiosa.
    Lui sospira spazientito. «A te che sembra?» mi domanda con tutta l’aria di chi non è in vena di fare conversazione.
    «Un toast.»
    «Wow.» mi guarda ad occhi sgranati fingendosi davvero impressionato. «Come sei perspicace!» esclama sarcastico.
    «Perché un toast?»
    «Perché ho fame, devo avere la tua firma per mangiare?» ribatte irritato.
    Sbuffo appoggiandomi con la schiena ad un forno spento. «Guarda, che ho intenzione di firmare il contratto della Bernardi, non ci conviene comportarci in modo civile?» mica dobbiamo andare per forza d’amore e d’accordo, ma se collaborassimo in modo professionale sarebbe tutto più semplice.
    «No.» risponde solo, travasando il suo toast su un piatto e tagliandolo a metà con un coltello. Ne prende un pezzo e lo addenta, poi mi guarda. «Non mi piaci, probabilmente sei quella che mi è piaciuta moins e non sognare, Nora ti vuole solo perché hai dato dello sbruffone a me.»
    «Addirittura?» borbotto per non restare zitta, questione di testardaggine, non voglio che lui si creda in grado di zittirmi.
    «Oui.» è la sua unica risposta con un sorriso.
    «E c’è un motivo preciso oppure semplicemente non mi credi alla tua altezza?» chiedo ironica.
    Lui ride mangiando un altro pezzo di toast, mentre con l’altra mano rompe due uova in una terrina. «Bien évidemment, tu non sei alla mia altezza. Ma, nello specifico, non mi piaci perché sei convinta che fare la pasticcera sia certamente più facile che fare la biologa.» sgrana gli occhi. «Cosa possono tre anni di università contro un paio di teglie e torte, n’est-ce pas? Tout le monde la pensa così, ma tu ti presenti come pasticcera, dovresti saperlo che fare torte, stare ore in piedi, mangiare toast al volo perché il n’y a pas de temps per un pranzo normale non è poi tanto più comodo di sbirciare dentro ad un microscopio.» lo guardo recuperare una forchetta ed iniziare a sbattere le uova. «Io sono un artista perché so che per trovare qualcosa di cucinato migliore del mio bisogna andare a Marsiglia…»
    Marsiglia?
    «Tu ti senti furba perché hai ripiegato su un mestiere che ti da maggiori possibilità lavorative, senza chiederti se fossi in grado di fare la pasticciera.»
    Continuo ad osservarlo finché un: «Bambini? State giocando?» devia la mia attenzione. Dopo poco uno scalpiccio di tacchi invade la cucina, preannunciando l’entrata in scena della Bernardi. Rispetto al giorno prima è più informale, niente rigide acconciature o tailleur troppo rigorosi; ha un paio di jeans, un maglione di lana morbida ed i capelli sono raccolti in parte con un fermaglio. La prima volta che l’ho vista mi sono sembrati solo scuri, ma adesso scopro che hanno dei riflessi sul rosso. Tra le mani ha un bicchiere di carta del Mc Donald’s di quelli che usano per il caffè.
    Sospirando guarda Pierre, ancora intento a sbattere le uova ad occhi bassi. «Bene, vedo che state facendo amicizia!» commenta sarcastica.
    Lui borbotta qualcosa in francese, ma non le risponde.
    «Vieni con me.» mi invita superandomi e facendomi strada in un piccolo studio ricavato da una parte di cucina. È minuscolo, c’entra appena una scrivania con una sedia dietro ed una davanti, la Bernardi è costretta a salire sul tavolo per raggiungere l’altra parte e lo fa con strana abitudine. Appoggia il bicchiere sul tavolo e tira fuori dalla borsa enorme e dall’aria costosa, che porta appesa al braccio, una cartellina rosa pallido ed un netbook microscopico; apre la cartellina e sfoglia sapientemente alcuni documenti finché, dopo averlo studiato per essere sicura di non sbagliare, non mi porge un foglio stampato. «Dai un’occhiata se c’è qualcosa che non va bene.» si appoggia allo schienale della sedia prendendo un sorso dal suo bicchiere. «Non credo, è un contratto standard senza troppe pretese, ma controlla.»
    Leggo le prime due righe, poi la guardo. «Non le ho…»
    «Oh, ti prego, non darmi del lei…» si lamenta interrompendomi. «Ho trentuno anni, so da sola dell’inesorabile scorrere del tempo, so che mi stanno venendo le rughe e che il mio bel corpicino d’ora in poi non può fare altro che rovinarsi. Non è carino ricordarmi quanto sei più fresca e giovane di me.»
    La studio scettica, trentuno anni o no, Eleonora Bernardi è una donna affascinante ed elegante. Certo, non può sembrare una adolescente, ma di rughe sul suo viso non ne vedo traccia ed il suo corpo snello e slanciato è tutt’altro che rovinato. «Ok.» acconsento comunque. «Non ti ho detto che ho intenzione di accettare.»
    Lei ride. «Ma Pierre era già infuriato. Ti avrebbe offerto la colazione tutto contento se non avessi avuto intenzione di restare.»
    «Lo conosci bene.» commento.
    Annuisce. «Eravamo tutti e due molto giovani quando abbiamo iniziato a collaborare.» sorride, persa nei propri ricordi, poi torna su di me. «Leggi.» mi ordina controllando l’orologio. «Tra poco ci sarà un bel casino di là, è quasi ora di merenda.»
    Mi concentro sul contratto e lo scorro velocemente con gli occhi per essere sicura che tutto quello promesso sull’annuncio venga mantenuto. Non ci sono indicazioni delle effettive ore lavorative, il giorno di chiusura è il mercoledì, lo stipendio mensile è di mille euro. Cerco di mantenere un’espressione neutra per non fare intendere di non aver mai avuto una paga così alta, cielo, al forno me ne avrebbero dati appena quattrocento! Vorrei allungarmi oltre la scrivania ed abbracciarla, ma mi costringo a darmi un contegno e stare ferma. Per non parlare poi di quante cose potrei imparare da Pierre! C’è anche la clausola che regola gli eventuali corsi di aggiornamento, viaggio e spese di iscrizioni sono pagate, ma non vitto ed alloggio.
    Oh mio dio, ho anche quindici giorni di ferie da gestire a mia discrezione! Purché avvisi la proprietaria con almeno quindici giorni di anticipo.
    Questo è il contratto dei miei sogni…
    «Tutto in ordine?» mi chiede.
    «Assolutamente, puoi prestarmi una penna?» mi indica con un cenno del capo il portapenne a forma di Sant’Honoré sulla scrivania, pesco una biro e firmo per poi riconsegnarglielo.
    Lei lo ripone nella cartellina, poi apre un cassetto.«Cose che devi sapere e che non ci sono scritte… dunque… ah, si!» esclama improvvisamente, rimestando nello scomparto. «Mattino e sera viene anche un altro ragazzo a darci una mano. La mattina aiuta me a sfoltire i clienti che vengono a fare colazione – c’è sempre una bella ressa. Mentre la sera mi aiuta a pulire e chiudere. È un bravo ragazzo ed ha voglia di lavorare, nel caso ti serva qualcosa ed io non ci sono puoi tranquillamente chiedere a lui. Se aspetti lo conoscerai oggi pomeriggio.»
    «Ok…» mormoro, tutto sommato felice che lei e Monsieur ‘Io sono più figo di te perché parlo francese’ non siano i miei unici colleghi.
    «Non ho una divisa ancora, ma l’ho già ordinata.» mi porge un grembiule. «Per gli orari e cose del genere dovrai metterti d’accordo con Pierre.»
    Mugugno, incapace di resistere.
    «Lo so, lo so.» acconsente. «Cerca di sopportarlo, è come un animaletto selvatico: cerca di non spaventarlo e si lascerà accarezzare.» mi consiglia.
    «Da te si fa accarezzare?» le chiedo, tanto per sapere quanto dovrò sopportare.
    Lei sorride e si alza aspettando che lo faccia anche io per permetterle di scavalcare di nuovo la scrivania. «No…» mi lancia un’occhiata divertita. «Ma io sono il suo capo.» esce dallo studio. «Puoi lasciare le tue cose qui se ti va, usa questo pomeriggio per familiarizzare con l’ambiente.» mi suggerisce quando è già fuori.
    Tolgo la giacca e la lascio appoggiata, insieme alla borsa, sulla sedia dove poco prima ero seduta; srotolo il grembiule e mi faccio passare il laccio della pettorina dietro il collo, poi mi annodo i nastri della vita dietro la schiena; prendo l’elastico, che porto sempre al polso, e mi intreccio i capelli, in modo da non essere di fastidio e che non finiscano in mezzo all’impasto dei biscotti. Una volta pronta mi fermo: devo parlare con Pierre per chiedergli dell’orario, devo cercare di non spaventarlo perché è come uno scoiattolo e non si farà mai accarezzare altrimenti, devo attingere ad ogni mia riserva di pazienza.
    Non faccio nemmeno in tempo ad uscire dallo studio e chiudermi con delicatezza la porta alle spalle – fosse sensibile anche ai rumori troppo forti – che…
    «Hai i capelli troppo lunghi.» mi accoglie, mentre, mangiando l’ultimo boccone del suo toast, frigge alcune ciambelline. «Se me li trovo per la cucina te li taglio.» mi minaccia sempre senza guardarmi.
    «Potrebbero essere i tuoi… comunque Ele…»
    Si volta a fissarmi come se l’avessi orribilmente insultato, ha un’espressione così oltraggiata da farmi morire le parole sulle labbra. «Sei mora, io sono biondo.» sputa velenoso. «Nel dubbio faremo il test del DNA e te li taglio.»
    «Eleono…»
    «E quella maglia è di lana.» mi interrompe ancora, tornando a guardare le sue ciambelline. «Potrebbe perdere qualche pelo, sta lontana da ogni mio impasto.»
    Tutta la pazienza del mondo, anche se l’avessi accumulata per ventiquattro anni, non sarebbe sufficiente.
    Recupero una mela da una cassetta lì vicina e gliela lancio in un moto di stizza, colpendolo alla schiena. «Eleonora ha detto che devo mettermi d’accordo con te per l’orario.» riesco a gridare infine.
    Lui mi ignora completamente. Gira la ciambellina, la toglie dall’olio dopo poco e spegne il fornello con una calma che gli invidio profondamente; si volta, incrocia le braccia sul petto e mi fissa. «Si comincia tutte le mattine alle sei per le colazioni, se non ci sono ordini particolari si finisce alle dodici e trenta e si torna alle quattordici e trenta. Altrimenti si resta qui fino alla sera alle sette.» fa un passo verso di me ed è abbastanza alto da farmi sentire completamente sovrastata, anche perché il suo ego è talmente enorme che potrebbe schiacciarmi senza problemi. «Non farlo mai più.» mi dice secco, mentre io mi accorgo che sotto tutta una serie di odori – dalla vaniglia alla cioccolata, dall’arancia al liquore – profuma di dopobarba.

La sera sono al ‘Black Star’, il locale di Sam Ruffini, fidanzato della mia migliore amica, a sfogarmi con la sopracitata. In realtà non le sto raccontando niente, mi lascio semplicemente rintronare dalla musica, tipicamente alta di un locale notturno, e dalla birra gratis, perché la migliore amica di Tiziana non può mica pagare.
    Il pomeriggio – solo due ore, se ci penso e se penso a cosa mi aspetta nel futuro mi sembra di impazzire – è stato un delirio: ho l’ordine di non violare mai la distanza di tre passi tra me, lui e qualsiasi cosa stia facendo; non posso toccare il forno per non so quale follia, legata al fatto che i forni francesi, secondo lui, cuociono meglio di quelli italiani; guai a chiedere delucidazioni su qualche impasto e, avant tout, non devo pretendere di cucinare. Non finché lui non avrà deciso che non gli rovinerò la fama.
    Per ora è fortunato che non gli abbia ancora rovinato la faccia a suon di schiaffi. Ha il potere di istigarmi alla violenza.
    «Soltanto il primo giorno, Veronica, vedrai che domani andrà meglio.» cerca di sollevarmi Tiziana.
    «Non capisci, quello è pazzo!» se penso che domani poi dovrò starci tutto il giorno, ho una crisi di panico. Sto seriamente prendendo in considerazione l’eventualità di infiltrarmi nello studio di Eleonora e strappare il contratto che ho firmato: mille euro non sono un risarcimento sufficiente per sopportarlo.
    La mia amica mi allunga una mano per strofinarmi la schiena affettuosa. «Non pensarci. Che hanno detto i tuoi?»
    «Sono contenti.» più o meno, per loro sono un po’ una delusione, si aspettavano che diventassi medico, poi biologa, poi si sono dovuti arrendere all’idea che il mio destino era un tantino più concreto. Ma comunque, mi sono sembrati soddisfatti che abbia trovato un buon impiego ben retribuito.
    Samuele si ferma di fronte a noi per azionare la lavastoviglie con il primo carico di bicchieri della serata. «Ciao.» mi saluta. «Allora, come è andato il primo giorno?» mi domanda, immagino che sia stata Tiziana a parlargli del mio colloquio.
    «Sto decidendo se farlo diventare anche l’ultimo.» mormoro appoggiando il mento sulle mie braccia incrociate sul bancone. «Sarà pure la ‘Pâtisserie Française’, ma sfido chiunque a lavorarci.» sovrappensiero mi trovo a chiedermi come faccia l’altro ragazzo di cui mi ha parlato Eleonora – e che non ho incontrato – a reggere, dovrei chiederglielo.
    «Lavori con Pierre.»
    Sollevo gli occhi per osservarlo. «Lo conosci?» Sam è un bel ragazzo, un po’ eccentrico con i capelli neri e blu e l’aria da bohemien, ma immagino che sia parte del suo fascino. Da parte sua, Tiziana è la ragazza più ordinaria del mondo. Siamo andate al liceo insieme e, anche se abbiamo frequentato due università diverse, siamo riuscite a rimanere unite; si è laureata in Economia due anni fa ed ora lavora come commessa in un negozio di abbigliamento in centro. Ora che ci penso non siamo molto lontane, in caso di bisogno potrei correre a chiederle aiuto.
    «Un po’, per qualche tempo è uscito con Laura.» mi indica con un cenno del capo una cameriera bionda con i capelli corti.
    Sgrano gli occhi davanti a quella rivelazione, tirandomi su. «Davvero?»
    «Ah-ah… forse anche più di un anno.»
    «E riusciva a sopportarlo?» gli chiedo sinceramente curiosa, pensare a quel despota come un ragazzo in grado di tener su una relazione e – oh, mio dio! – amare sconvolge ogni mio equilibrio.
    Sam scoppia a ridere. «Credo di si, anzi, da come mi raccontava erano felici!»
    «Dai, Vera.» mi deride Tiziana dandomi una spintarella sul braccio. «Forse stai esagerando, insomma alla fine sarà un uomo come tanti altri, no? Sarete soltanto partiti con il piede sbagliato!» cerca di farmi coraggio.
    Io la osservo per un lungo istante, poi allungo una mano dandole un affettuoso buffetto sulla testa. «Così dolce e così ingenua.»

vi dico già da subito che il personaggio forte di questa storia sarà il forno francese di Pierre... ricordatevelo, presto diventerà importante...
dunque, immagino di non dovervi dire che a me Monsieur 'Io sono più figo di te perchè sono francese' Mureau piace... dai, infondo è come uno scoiattolo selvatico! vogliategli un pochino di bene, anche se ci fa saltare i nervi!
chiunque voglia farmi sapere che ne pensa sarà il benvenuto!
baci

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - le conseguenze di una discussione ***


Patisserie française fragolottina's time
allora prima che inizio a sproloquiare, che poi non si sa dove vado a parare, ringrazio tutte quelle che hanno inserito questa storia nelle preferite, ricordate, seguite e che mi hanno recinsito: io scrivo per far piacere a me, ma se facendolo faccio piacere anche a voi è molto meglio!
mi avete resa strafelice!
poi, questo capitolo com'è? ...decisamente non scontato, suppongo... relativamente lungo (guardate la barretta quant'è piccina!), sicuramente divertente...
va a finire che vi dico qualcosa, quindi a più giù...
ps. stamattina ho fatto il compito di francese (tanto per rimanere in tema) quindi sono un tantino rintronata, se ci sono degli errori che non ho visto mi scuso... se li vedete voi fatemi un appunto che li correggo!

CAPITOLO 2

Le conseguenze di una discussione
«Sei in ritardo.»
    Le sei sono un’ora infida, un’ora infida e fredda. Cielo, è ancora buio.
    Lo guardo aprire il negozio in quel momento, bello come il sole che non è ancora sorto, dopo avere parcheggiato il mio scooter – non ho la macchina – dietro il locale. Per alcuni secondi rimango semplicemente a fissarlo, in attesa che le mie sinapsi addormentate trovino la risposta giusta da dargli. «No, non è vero.» commento infine, perché, se lui sta aprendo adesso, non posso essere in ritardo. «Tu sei appena arrivato.» io non ero mica tanto bella stamattina, con occhiaie e segni del cuscino. Magari non dorme. Oppure dorme in piedi. Forse in una bara con le braccia incrociate.
    «E sono in ritardo.» mi lancia un’occhiata terribilmente lucida, sono quasi invidiosa. «Quindi lo sei anche tu.» si rimette un mazzo di chiavi tintinnanti nella tasca della giacca e mi apre la porta. «Mademoiselle.»
    Assottiglio lo sguardo poi entro; non appena varco la porta, ormai sveglia grazie al suo essere intrattabile anche la mattina alle sei, incrocio le braccia sul petto e lo osservo. «Sei in ritardo.» lo scimmiotto.
    Lui ridacchia entrando e chiudendosi la porta alle spalle.
    «Pierre, aspetta.» urla qualcuno correndo fin davanti alla porta e bussando a mano aperta. «Ho scordato le chiavi.»
    È un ragazzo dall’aria adulta, non riesco a situarlo esattamente in un fascia di età, ma immagino sia sulla trentina. Lui torna indietro e gli apre, annoiato, qualsiasi cosa faccia sembra che si annoi a morte. Anche quando fa sesso, probabilmente, Laura rimane una grande incognita. «Nora?» gli domanda.
    «Sta ancora dormendo.» ride mordendosi il labbro. «Diciamo che abbiamo fatto le ore piccole…»
    Pierre sbuffa senza avere la minima idea di presentarmi. «Diciamo che non te l’ho chiesto.»
    «Tu sei la nuova ragazza?» chiede direttamente a me, aggirando una situazione sociale che Pierre non ha intenzione di rispettare.
    Annuisco e sorrido. «Mi chiamo Veronica.»
    Anche lui sorride, non è esattamente bello, insomma, non quanto Pierre: è magrissimo, alto, troppo dinoccolato ed ha il viso ed i lineamenti troppo appuntiti per i miei gusti, ma sembra esattamente il tipo di ragazzo in grado di prenderti nonostante l’aspetto. «Ciao, Veronica, io sono Daniele.» mi saluta. «Pierre, non me la strapazzare, è così carina.»
    Lui mi guarda, mi studia tutta, sono sicura che se avessi qualcosa che non va – dai trigliceridi alti ad un’ernia – a questo punto lui lo saprebbe. Fa una smorfia. «È carina, ma è un po’ inutile.»
    Sospiro studiandolo. «Guarda che io sono qui.» poteva dire che sono carina evitando di aggiungere altro, no? Evidentemente no.
    «Oui, oui… certo.» mi afferra per un braccio tirandomi prima dietro il bancone, poi in cucina. «Appena puoi ci fai due caffè francesi?» urla dall’altra parte senza lasciarmi.
    Lo seguo come un palloncino legato al polso di un bambino fino allo studio della Bernardi. Come lei, scavalca la scrivania e si avvicina ad una scatoletta, che ha tutta l’aria di essere il contatore della corrente, mentre si scioglie dal collo una sciarpa verde muschio e si sfila la giacca. E la maglietta.
    Ed io volevo chiedergli come diavolo è fatto un caffè francese, ma, trovandomi a fissare la sua schiena chiara e nuda, mi esce solo un: «Pierre?» imbarazzato… ed anche un po’ ammirato.
    Lui mi ignora tornando dalla mia parte, poi in cucina. Io resto perplessa e pietrificata, guardando la maglietta che è rimasta sulla scrivania di Eleonora e riflettendo sul fatto che, magari sono stanca ed ho visto male, ma… si stava spogliando?
    Quando rientra nella stanzetta si sta slacciando i jeans, mi lancia un’occhiata da sotto i riccioli che gli ricadono sulla fronte e sbuffa. «Sei ancora così?» mi chiede superandomi e fermandosi di schiena. «C’è soltanto questo posto per cambiarsi e la mattina di tempo da perdere per fare i pudichi non ce n’è.» quando si abbassa i pantaloni io mi giro ad occhi sgranati. Non che io sia pudica, però… meno male che non devo svestirmi.
    Rincuorata dal fatto che in fondo io devo semplicemente infilarmi un grembiule, mi tolgo la giacca, poi sciarpa, guanti ed inizio ad intrecciarmi i capelli.
    Lo sento trafficare con qualcosa che sferraglia, probabilmente una cintura, poi immobilizzarsi. Cerco di pensare a cosa non gli vada bene – perché è scontato che non gli vada bene qualcosa – visto che ho perfino messo una maglia di caldo cotone senza pelucchi, quando per fortuna mi illumina.
    «Dovresti proprio tagliarti i capelli.»
    Eccolo là, doveva esserci qualcosa.
    «I patti sono che se ne trovi uno in giro li taglio, altrimenti no.» gli ricordo, pronta prima di lui, che si infila una fascia, poi una cuffietta che gli nasconde tutti i ricci biondi, il che è un vero peccato.
    Si stiracchia, sbadiglia, fa un paio di distensioni in avanti. «Bien.» conclude.
    Torniamo in cucina dove è tutto quanto acceso ed i forni stanno già riscaldando l’ambiente.
    «Non lavoro la notte, quindi la mattina si fanno gli impasti perché sia tutto pronto il pomeriggio ed il pomeriggio per la mattina dopo.» lo osservo avvicinarsi al frigo e tirarne fuori alcune scodelle. «Tecnicamente con te dovrei impiegare meno tempo, ma sono sicuro che per correggere i tuoi errori me ne ruberai un sacco…» è davvero confortante il fatto che abbia sempre una parola tenera per me. «quindi l’orario mattutino potrebbe cambiare.»
    Distribuisce tutto quello che ha preso sui vari piani di lavoro poi mi si avvicina, mi prende una mano mentre con l’altra mi solleva il viso in modo che possa guardarlo negli occhi. Per un secondo rimango vagamente scossa – un tantino più di vagamente – e cerco di ritrovare lucidità sbattendo le palpebre. «Veronica, sto per darti il tuo primo incarico.» dice piano fissandomi, per essere un ragazzo ha le ciglia decisamente lunghe e folte.
    «O-ok.» balbetto incerta.
    «Ma devo avere la tua parola che tu ti impegnerai al massimo.»
    Mi rendo conto che il cuore mi sta battendo molto più forte del normale, probabilmente sono eccitata all’idea di fare qualcosa per Pierre Mureau, o magari è un altro tipo di emozione. Mi schiarisco la voce obbligandomi a fare pensieri razionali e lucidi: è per il lavoro ovviamente. «Certo, che devo fare?» gli chiedo impegnandomi al massimo per mantenere un tono di voce neutro.
    «Monta la panna.» dice serio.
    Incantesimo rotto.
    «Come?» chiedo incredula mentre si allontana e mi tira fuori una frusta elettrica da uno sportello.
    «Sai farlo, no?» fruga tra le pentole finché non trova una bacinella ed un paio di pacchi di panna da montare. «Se riesci a farlo bene, domani ti potrei anche far sbattere le uova.» e non è affatto ironico.
    Io vorrei lanciargliele le uova.
    «Caffè!» sentiamo urlare Daniele prima che si consumi un delitto, ahimè, inevitabile.
    Pierre mi fa un cenno con la testa verso il bar. «Vola!» mi ordina.
    Io sbuffo con i pugni stretti lungo i fianchi e mi dirigo indispettita verso il davanti del locale. Cioè, quello mi fa montare la panna, anche una bambina di tredici anni lo sa fare! Si prende un cartoncino di panna da cucina, si versa in una ciotola o nel comparto di un frullatore, e, a seconda della scelta, si monta con la frusta o si spinge il tasto ‘on’.
    Quando mi vede palesemente irritata, infastidita e con gli occhi illuminati da immagini di sangue, Daniele scoppia a ridere porgendomi due bicchierini di polistirolo. Si allunga sul bancone e mi posa le mani sulle spalle. «Calma, bambina…» mi suggerisce. «calma, pensa a cosa rilassanti.»
    Al momento mi sento così… grrr! Che non c’è niente in grado di potermi rilassare. «Tipo il suo sangue al posto della marmellata di mirtilli?!» domando, meno sarcastica di quanto dovrei, sospetto. «Tu da quanto sei qui?» gli chiedo, alla ricerca di un motivo qualsiasi per non tornare di là immediatamente.
    Lui si volta e fruga nelle macchinette. «Quattro anni.» indossa una maglia verde menta come le mattonelle, con sopra un grembiule rosa come i muri; Eleonora è stata decisamente fantasiosa e poco attenta ad eventuali imbarazzi nello scegliere la loro divisa.
    Quando torna a guardarmi credo di avere gli occhi fuori dalle orbite, perché lui ridacchia. «Lo sopporti da quattro anni?!» chiedo completamente ed irrimediabilmente incredula.
    Lui si stringe nelle spalle con noncuranza. «Se non invadi i suoi spazi, non è così male.»
    Lo osservo sconsolata per alcuni secondi, poi decido che è ora di tornare all’inferno: io sono pagata per invadere i suoi spazi.
    Ci sono tre crostate a cuocere in un forno, diverse teglie di biscotti in un altro, e, nel suo preziosissimo e personalissimo miracolo francese, i croissant. Impegnandomi a non considerarlo, lascio il suo bicchierino sul tavolo e torno alla mia bacinella, con annessa frusta. Che m’importa, in fondo? Se Eleonora Bernardi si può permettere una tizia che gli monta soltanto la panna e pagarla mille euro al mese, meglio per me, no? Prendo uno stipendio di super lusso senza fare niente. Fottutissimo bastardo di un francese!
    Vuoto due cartoncini nella ciotola ed aziono la frusta con un mano, mentre con l’altra scoperchio il mio bicchiere. Ne bevo appena un sorso prima di fare una smorfia disgustata. Sono nella pasticceria più chiacchierata della città e mi tocca bere il caffè senza zucchero… ma che diavolo!
    Apro un cassetto e pesco un cucchiaino a caso, prendo un po’ di panna e…
    «Non ti azzardare a farlo.» mi minaccia.
    Volto il viso e lo fulmino. «È la mia panna.» annuncio decisa e stufa. «Di una fabbrica italiana e montata da me…» carico particolarmente il ‘me’ in modo che gli entri bene in testa. «vai a giocare con il tuo ‘Dolce Forno’.» e non me ne frega niente se sto per scatenare una guerra, se il mio atto di ribellione – decisamente audace: ho messo la panna nel caffè… io e Rousseau abbiamo lo stesso spirito rivoluzionario, evidentemente  – mi si ritorcerà contro: non posso farmi sopraffare dai suoi isterismi. Anche perché, se chino la testa oggi, dovrò chinarla ogni santo giorno e non mi pare proprio il caso di creare un precedente della mia assoluta obbedienza. Quindi prendo il cucchiaino e lo tuffo nel mio caffè.
    Lui mi si avvicina a passo di carica e non posso non gongolare davanti alla sua espressione furiosa: è soddisfacente sapere che io riesco ad esasperarlo almeno quanto lui esaspera me. Decisamente soddisfacente… quasi eccitante.
    «Sono il pasticcere più famoso della città, io.» inizia chinandosi appena in avanti per parlarmi addosso. «Paris Hilton chiede de parler con moi. La gente paga il doppio rispetto ad una qualsiasi boulangerie pour manger quello che preparo io!» mi da una spintarella alla spalla ed io guardo con espressione oltraggiata il punto dove mi ha toccato. È così vicino che quando lo faccio sento i miei capelli intrecciati sfiorargli il viso. «Tu sei soltanto una ragazzina imbranata, incapace e presuntuosa…»
    «Ah, io sarei presuntuosa!» esclamo interrompendolo. «Tu mi fai montare la panna, nonostante io sia una pasticcera fatta e finita!» continuo.
    Ora, magari fatta e finita no, però, insomma…
    Lui prende la ciotola alla quale mi sono dedicata finora con tanto amore – beh, un po’ meno – e la butta nel lavandino. «Da quel che vedo non sai fare nemmeno quello.» grida.
    Prima che possa davvero pensare a quello che sto per fare, la parte più arrabbiata, più offesa, più indisposta a certi comportamenti ed accuse di me si libera di ogni catena che il quieto vivere impone. Probabilmente, se fosse a portata di mano, gli lancerei un’altra mela, ma ho il mio bicchiere di caffè corretto con panna ed è quello che gli svuoto in faccia.
    Per un lungo istante tutto si ferma tranne il mio cuore, incoraggiato a rimbalzarmi nel petto dall’adrenalina della discussione. Ho voglia di colpirlo con qualcosa di duro, di pesante; ho voglia di fargli male, conficcargli le unghie nella pelle, morderlo.
Lui mi prende le braccia, pronto a ricominciare ad urlare, ignorando ogni palese traccia di aggressività che possa esserci nel mio sguardo. «Come caz…»
    Ti permetti? Hai potuto?
    Non può terminare la frase perché ha la bocca impegnata.
    Ha la bocca impegnata perché l’ho baciato.
    «Bambini, come va? State facendo i bravi a zia Nora?»
    Cielo, due giorni e sono già andata fuori di testa!
    Mi scosto in fretta ad occhi sgranati, lui ha un’espressione indecifrabile, ma probabilmente al momento è troppo incredulo per mantenere lo stesso livello di rabbia. Arrossisco tutto insieme ed allontano di scatto le mani, che ad un certo punto devo aver posato sul suo camice.
    «Scusa.» sbotto piano, perché, cavolo, devo scusarmi: l’ho baciato!
    Lui mi lascia proprio mentre Eleonora ci raggiunge. «Che succede? Daniele ha detto che state facendo un bel po’ di casino.»
    «Niente.» borbotta lui fissandomi un’ultima volta ed andando a controllare i suoi croissant. Recupera un tovagliolo e lo usa per asciugarsi il viso dal caffè, mentre Eleonora continua a guardare alternativamente me e lui con aria confusa.
    Non mi rivolge più nemmeno una parola per tutto il giorno, cosa davvero frustrante visto che bisogna preparare una torta di compleanno e non possiamo nemmeno tornare a casa per pranzo. In realtà nemmeno io gli do motivo di farlo: mangio a capo chino come una collegiale penitente, scambio qualche parola con Daniele che – il cielo lo benedica – rimane a controllare la situazione, evito di stargli più vicina di tre passi.
    Di tanto in tanto mi da qualche ordine, sempre cose di vitale importanza tipo ‘lava i piatti’ o ‘sgombra il tavolo’, solo che, per oggi, sono talmente spaventata all’idea di un’altra discussione ed alle eventuali conseguenze che potrebbe comportare, da obbedire. Inizio ad avere paura di me stessa…
    Solo quando usciamo, sospirando, mi decido a parlare. Insomma, nonostante mi finisca questo è il miglior lavoro che io abbia mai avuto, quindi, per quanto mi odi, ho intenzione di fermarmi abbastanza – anche per tutta la vita, fosse per me – da preferire un clima sereno ad un continuo, perpetuo e duraturo silenzio imbarazzato.
    «Senti, ti chiedo scusa, non so davvero cosa mi sia preso… non…» sospiro, passandomi una mano sulla fronte. Non lo so davvero! Non sono quel tipo di ragazza che va in giro a baciare ragazzi a caso, non so nemmeno se esistono tipi di ragazze del genere! «di solito non mi comporto così.»
    Lui mi guarda fisso, ignorando l’eventualità che possa mettermi a disagio, anzi, probabilmente lo fa apposta. «Io credo…» comincia. «che tu sia effettivamente pazza.» conclude.
    Ottimo.
    «Mi auguro solo che tu non sia anche pericolosa.» e se ne va a prendere la sua macchina sportiva e sicuramente costosa.

«Lo hai baciato?!» chiede incredula e sorpresa Tiziana ad occhi sgranati.
    Io mi appoggio al bancone del ‘Black Star’ coprendomi il viso con le mani. «Devo essere impazzita.» mormoro sconsolata.
    «Ma come ti è venuto in mente?!» continua. «Lo conosci… da quanto? Trenta ore?»
    «Dio, Tiziana, non lo so!» sbotto. «Non lo so che mi è preso. Era lì che mi urlava addosso e…» piagnucolo senza avere il coraggio di continuare.
    «…e l’hai baciato… assolutamente razionale!» commenta sarcastica la mia amica.
    «Lo hai baciato?» gli fa eco Samuele avvicinandosi.
    Sospiro appoggiando la fronte contro il bancone freddo ed umido.
    «Credo che sia stato un moto inconscio… alla fine è un po’ che Veronica non si intrattiene con un uomo…» spiega.
    Allungo una mano alla cieca dandole una botta. «Non è così tanto, stupida.»
    «Solo un paio d’anni.» acconsente ironica. «Che sarà mai?!»
    Quando mi tiro su Samuele mi sta fissando. «Un paio d’anni che non…» non finisce. «accidenti!»
    «Un anno e tre mesi.» preciso.
    «Chi è stato l’ultimo?» chiede – e non sto scherzando – l’altro ragazzo dietro il bancone insieme a Sam. Ormai della mia privacy ce ne infischiamo altamente. «Se hai tenuto il conto deve essere stata una cosa grossa.»
    Sospiro e guardo Tiziana che abbassa il viso. Abbiamo rischiato seriamente di litigare quella volta; non che io non capissi la sua situazione ed il suo desiderio di rimanerne il più fuori possibile, ma… lei sapeva.
    «Marco Di Prospero.» confesso infine.
    Samuele sgrana gli occhi e guarda la sua fidanzata, l’altro barista – sono quasi sicura che si chiami Simone – non può capire la sua reazione, perché non sa che Marco Di Prospero è l’assolutamente amabile fratello maggiore di Tiziana. «Cazzo…» è l’unico commento che esce dalle labbra di Sam dopo un po’.
    ‘Cazzo’ è effettivamente anche l’unico commento possibile. Mi sono innamorata follemente, irrazionalmente del fratello della mia migliore amica, dolce ed affettuoso come lo zucchero a velo. Ci siamo lasciati perché la sua amante, di cui non conoscevo assolutamente l’esistenza è rimasta incinta. A quel punto il fatto che Tiziana avesse cercato in tutti i modi di sottolineare ogni suo comportamento scostante, ogni sua assenza ingiustificata, ogni sua distrazione, era apparso per quello che era: un tentativo disperato di farmi aprire gli occhi, cercando di non tradire il fratello.
    «Si, ma in tutto questo Pierre come c’è entrato?» chiede Laura, quella che dovrebbe essere la sua ex fidanzata.
    Io guardo la mia bottiglietta quasi vuota di birra e capisco che bisogna raggiungere un livello maggiore di tasso alcolico, se alla fine della serata proprio non riuscirò a stare dritta, tornerò a casa a piedi, l’aria fresca mi farà bene.
    «L’ho baciato mentre litigavamo.» le lancio un’occhiata. «Mi dispiace, pare che il mio inconscio faccia le bizze.»
    Lei si stringe nelle spalle. «Nessun rancore…» sorride maliziosa. «ma in qualche modo dobbiamo arrivare al tuo inconscio.» riflette. «Sam, vodka!»

Veronica è matta... disse quella con una sanità mentale molto opinabile...
cmq, non è una cosa strana come sembra, l'adrenalina è una roba bizzarra... capita... almeno a me capita!
ma voi non volete già bene alla banda del 'Black Star'?! io tantissimo, quindi, si parlerà parecchio di loro...
dunque... oh! ho tante di quelle idee in mente...
non vedo l'ora di scriverle...
per ora se vi va di sapere che ne pensate, mi fate felice!
baciconpanna!


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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - troppa fortuna tutta insieme ***


Patisserie française fragolottina's time
questo capitolo si è fatto un po' attendere... ma come vedete c'erano tante cose da scrivere... che poi questo sarebbe il minimo, perchè porterà a certe conseguenze...
cmq, non so dove siete voi, ma io sono sommersa sotto tonnellate di neve che continua a cadere... bloccata in casa... siete il mio unico contatto con il mondo praticamente... triste!
ma non disperiamoci... finché ho per scrivere...
a più giù...


CAPITOLO 3


Troppa fortuna tutta insieme
Guardo con terrore la divisa, sulla sedia dello studio di Eleonora, ad occhi sgranati.
    Negli ultimi due giorni la situazione non è cambiata a lavoro, Pierre mi tratta con diffidenza e freddezza e non riesco proprio a non biasimarlo, in fondo ho fatto una delle cose più fuori di testa del mondo. Mi avrà preso per una specie di maniaca? Una ninfomane o qualcosa del genere? Come sono caduta in basso… e non è che prima ai suoi occhi fossi gran ché in alto!
    Ho conosciuto un ragazzo di nome Matteo, non so esattamente come l’ho conosciuto, deve essere stato tra il secondo ed il terzo bicchiere di vodka, mentre con Laura – che è un amore – cercavamo di raggiungere il mio inconscio con scarsi risultati. È stato un gentiluomo: quando ha visto che non ero esattamente in grado di camminare, figurarsi di guidare lo scooter, si è offerto di accompagnarmi a casa e l’ha fatto senza provare ad allungare le mani neanche una volta. È anche vero che Tiziana e Sam erano dietro di noi, lei con la macchina e lui con il motorino per portarlo a casa, e, se avessi avuto bisogno, mi sarebbe bastato sventolare una mano dal finestrino; ma lui è stato un vero e proprio cavaliere.
    Mi ha anche chiesto di vederci nel fine settimana ‘durante il giorno, magari facciamo qualcosa insieme’. Il fine settimana è diventato mercoledì, il mio unico giorno libero.
    Ma oggi è lunedì, Matteo è un problema ancora piuttosto distante – non è nemmeno un problema – mentre la divisa ed il fatto intrinseco che debba indossarla è un’incombenza.
    La guarda anche Pierre, dopo aver acceso il contatore della corrente, poi alza gli occhi su di me.
    «Se tu ne regardes pas me, io non guardo te.» mi annuncia con semplicità. Ma lui è anche quello che il primo giorno si è spogliato così, davanti a me senza batter ciglio; dubito che uno del genere abbia i miei stessi parametri di pudore, decenza e rispetto dell’altrui nudità.
    Che mutandine ho addosso? Oh, quelle con i gattini mi sa… mi appunto mentalmente di procurarmi uno stock di biancheria un tantino più discreta.
    «Posso fidarmi?»
    Lui incrocia le braccia sul petto schioccando la lingua scettico. In sua difesa, c’è da dire che oralmente non infierisce, anche se nei suoi enormi occhi castani c’è scritto tutto quello che vorrebbe dire: sei tu che hai baciato me, non viceversa.
    Sono così matta da essermi messa in una situazione in cui devo dargli ragione. Mi chiedo se, in un qualche bislacco modo, non sia stato tutto un suo piano machiavellico per costringermi al silenzio con la mia stessa coscienza. Diabolico… ma poco probabile.
    Prendo la gruccia alla quale è appesa la mia divisa e tolgo la busta di plastica trasparente da sopra, mentre Pierre, pago del fatto che mi vergogno troppo per non dargli retta, si sfila una felpa e poi la maglietta che ha sotto.
    Io mi volto e mi mordo le labbra, realizzando che non mi spoglio con un uomo nelle vicinanze – che non sia mio padre, ovvio – da un anno e tre mesi e che adesso devo farlo davanti a quello stronzo. Sospirando e borbottando mi sfilo il golfino e prendo atto, una volta rimasta in una striminzita canottierina di microfibra verde fluo – forse è il caso di comprare anche canottiere più sobrie – che fa un freddo assurdo quando i forni non sono ancora completamente a temperatura. Cercando di seguire quel filo di pensieri, e non quello che mi porterebbe a valutare il suono che ho sentito alle mie spalle, inconfondibilmente quello di una zip che si abbassa, mi domando se ci sia anche il riscaldamento o siano effettivamente tutti i macchinari mitigare l’ambiente.
    Mi sfilo le scarpe, i pantaloni e recupero quelli neri della divisa; Eleonora ha un buon occhio perché sono esattamente della misura giusta. Alle mie spalle Pierre traffica con la cintura. Prendo il camice bianco che devo indossare sopra: è lungo come quello di lui, fino a metà coscia, anche se probabilmente il mio è leggermente più avvitato sui fianchi, essendo da femmina, e si chiude con una serie di bottoni a sinistra. Ora sto più calda.
    Pierre mi sfila accanto, veloce come la luce e già pronto, io continuo a fissare con sguardo omicida la porta da cui è uscito, mentre mi appunto i capelli in un chignon sulla nuca e maledico quelle due o tre filze che non ne vogliono proprio mai sapere di stare al loro posto… maledette!
    «Aspetta, ti aiuto.» mi volto verso Eleonora che mi si avvicina con due forcine. Si ferma alle mie spalle, recupera le due ciocche ribelli e le ferma ai lati della mia testa.
    «Grazie.» dico riconoscente. Trovo davvero incredibile che lei sia più paziente e gentile di un suo semplice dipendente… sono sicura che, se andassi da Pierre a dirgli che è un semplice dipendente, mi infilerebbe nel suo forno francese al posto dei croissant.
    Faccio per dirigermi in cucina e mi fermo sulla porta prendendo un profondo respiro: arriverò alla fine di questo giorno, non lo ucciderò, non lo bacerò, la mia pazienza raggiungerà livelli epici, mi daranno il Nobel per la pace.
    «Stai facendo un buon lavoro, Veronica.» mi volto a guardarla e lei mi sorride dolcemente. Ha già scavalcato la scrivania e sta cercando qualcosa nei cassetti. «Me lo ha detto lui.»
    «Lui Daniele?» chiedo curiosa, gentile da parte sua difendermi.
    «No, lui Pierre.»
    Resto a bocca aperta ad un livello di stupore mai raggiunto, nemmeno – giuro – davanti alla gravidanza di Martina. «Stai scherzando? Per lui conto meno del suo forno.»
    Lei fa una smorfia aggrottando le sopracciglia scure e perfettamente depilate. «Nessuno conta più del suo forno, non pretendere troppo, cara!»
    Anche lei ha ragione, la gente al giorno d’oggi è troppo arrogante… eh, che ne è stato della cristiana umiltà di un tempo?
    «Quindi non vuole che me ne vada?»
    Lei ruota gli occhi al cielo. «Questo non lo so. Però non mi stressa ogni giorno con telefonate o con sue improbabile lettere di licenziamento...» ci riflette. «decisamente un buon segno.»
    Non appena arrivo in cucina sento Daniele chiamare per il caffè, quindi nemmeno mi fermo e tiro di lungo verso il bar. Gli ho confessato dell’incidente di percorso che ha portato a… ehm… quel contatto poco convenzionale tra le nostre labbra: ha riso tantissimo, senza alcun rispetto per il mio imbarazzo. Però mi ha anche garantito che da quel giorno avrebbe zuccherato il mio di nascosto, così niente incidenti poco convenzionali. Quell’uomo si è guadagnato il mio affetto.
    «Dove abiti?»
    Lo guardo stupita sbattendo le palpebre, mentre recupero i due bicchierini, il mio – quello dolce – ha il coperchio leggermente scostato; potrebbe sembrare un casualità o una distrazione, invece è un segno del tutto intenzionale. Siamo dei geni del crimine.
    «A casa dei miei, perché?»
    «Pranziamo insieme oggi, vuoi?» mi domanda senza rispondere alla mia lecita richiesta di spiegazioni. «Devo proporti una cosa, ma ho bisogno di parlarne con calma.»
    «Oh…» mormoro studiandolo, come se potessi leggergli in faccia quello che vuole propormi. «immagino di sì, non dovrebbero esserci extra da preparare.»
    «Ottimo, ne parliamo dopo allora!»
    Oggi sono addetta ad ungere teglie e stampi, nemmeno ho provato a lamentarmi, me ne sto semplicemente qui, con le mani inguantate, a spargere burro sulla pila di stoviglie che mi ha preparato, annoiandomi a morte e chiedendomi se effettivamente sia necessario svegliarsi mezz’ora prima – si, perché una conseguenza il mio colpo di testa l’ha avuta, Pierre il ‘non baciarmi o te ne penti’ mi ha rubato un’ulteriore ed importante mezz’ora di sonno. Davvero senza di me ci metteva meno tempo? Ne dubito. Gli lancio un’occhiata inquisitoria mentre è tutto preso a guarnire dei mini tortini con panna e frutta con il sac-à-poche; è impossibile che ci mettesse meno tempo, quindi è soltanto crudele.
    E lui dovrebbe aver detto ad Eleonora che me la sto cavando bene? Mi sembra come minimo improbabile.
    «Se mi si attacca qualcosa perché sei distratta a fulminarmi, farò in modo che tu non tocchi mai più nemmeno lo zucchero.» mi minaccia senza staccare gli occhi dai suoi tortini. Dio non voglia che debba staccare gli occhi dai tortini!
    Sbuffo, ma non rispondo.
    Anche se tirargli una teglia potrebbe senz’altro essere una protesta d’impatto.

Io e Daniele andiamo a pranzo in un fastfood con la sua macchina, in realtà non ho molta fame, lavorare con Pierre mi stressa così tanto da mandarmi via l’appetito; però sono decisamente curiosa, quindi non discuto la sua proposta e mi ritrovo con un vassoio semivuoto in confronto al suo, ma con una bambolina in regalo visto che ho preso il menù da bambini.
    «Allora…» inizio frugando nella mia scatola alla ricerca delle patatine, che una volta freddate saranno immangiabili. «di cosa volevi parlarmi?» gli chiedo. La curiosità per la nostra conversazione è stata l’unica cosa a tenermi sveglia durante il lavoro.
    «Ho un appartamento troppo grande.»
    Sbatto le palpebre senza afferrare del tutto il nesso. «Oh, mi dispiace.» commento ad ogni modo.
    «Prima dividevo le spese con un ragazzo…» mi spiega. «e le cose andavano bene, finché non ha deciso che la monogamia non faceva per lui.»
    Mi fermo con una patatina a mezz’aria, so che lo sto guardando con gli occhi a palla, so che se fossi un pesce rosso e stessi in una boccia avrei la stessa espressione non esattamente intelligente, ma inizio ad avere un’intuizione di quello di cui stiamo parlando.
    «Ad ogni modo, sono un buon coinquilino e se avessi eventuali compagni con cui passare la notte sarei discreto.»
    Mi strozzo con la patatina che avevo finalmente addentato e deglutito, iniziando a tossire in modo compulsivo. Non sono una bigotta, davvero, che ognuno sia libero di amare chi vuole, ma non ho nemmeno una conoscenza così approfondita dell’altra parte diciamo. Non che credi quella meno esotica migliore, il mio fidanzato ha messo incinta un’altra mentre stava con me, ma devo essere avvisata di certe cose con delicatezza, diciamo.
    In qualche modo riesco a recuperare la mia coca-cola ed a controllare gli spasmi della mia gola. Dopo aver preso un profondo – molto, molto profondo – respiro, lo guardo. «Vuoi che io venga ad abitare da te al posto del tuo…» gracchio, poi mi chino sul tavolo arrossendo. «ragazzo?» bisbiglio.
    Come me anche lui si sporge in avanti. «Non c’è bisogno di bisbigliare.» mi sussurra. «Comunque, tu sembri una ragazza apposto.» continua alzando la voce e raddrizzandosi, da un morso soddisfatto al suo panino - accidenti, quelli sì che sono denti molto bianchi - e dopo aver deglutito riprende a parlare. «Arrivi a lavoro in ordine, pulita, sopporti Pierre, quindi riuscirai a venire a patti anche con le mie cantatine sotto la doccia…»
    «Canti sotto la doccia?» chiedo, sbalordita come se quella fosse la cosa più importante o sconvolgente che mi abbia detto da quanto siamo entrati. Temo soltanto di dover scaricare lo stupore accumulato su qualcosa, non importa cosa.
    Sbatte le palpebre un paio di volte, sì, immagino di non sembrare proprio la ragazza più sveglia sulla faccia della terra, ma poi archivia la cosa con una scrollata di spalle ed una risata. «Sì, prevalentemente gli Stadio, ma ammetto di aver un debole per Biagio Antonacci.» non do risposte così lui continua. «Insomma, hai ventiquattro anni e vivi con i tuoi, ho pensato che potesse interessarti la cosa, Eleonora ti paga abbastanza da permettertelo.»
    In fondo era questo che volevo, no? Indipendenza, autonomia. Mi sono presentata al colloquio perché sapevo che mi avrebbero pagato bene e permesso di andare a vivere in un posticino tutto mio: il lavoro l’ho ottenuto, Daniele mi sta offrendo il resto. Anche se non sarebbe proprio tutto, tutto mio, farei un grande salto di qualità dalla stanzetta da quattordicenne che occupo a casa di mamma e papà. A ventiquattro anni un letto singolo e zero privacy da parte di una madre iniziano ad andarmi proprio stretti.
    Sospira, poi posa il suo cheeseburger mangiato per metà sull’incarto ed appoggia i gomiti incrociati sul tavolo. «Se non ti da fastidio vivere con un uomo che va a letto con altri uomini.» mormora serio, fissandomi, nel suo sguardo c'è il tormento di chi si sente inventare scuse poco probabili molto spesso.
    Daniele è stato sempre gentile con me, ha importanza quello che succede nella sua camera da letto?
    «Io canto Laura Pausini.» gli confesso dopo un po’. «Ma quando sono di buon umore mi piace ripiegare anche su Katy Perry.»
    Lui mi lancia un’occhiata di sbieco che nasconde un sorriso, mentre io sfido la prossima patatina ad uccidermi addentandola come se fosse viva e potesse scapparmi da un momento all’altro. «Non devi darmi una risposta subito.» mi rassicura.
    «Magari posso venire a vedere il posto dopo la chiusura.»
    «Certo.»
    Continuiamo a mangiare in silenzio finché la mia curiosità, decisamente aggressiva, non inizia a pungolarmi fino all’esasperazione. «Credevo che tu ed Eleonora…» inizio, ma non finisco per non rischiare di essere indelicata.
    «Oh, no!» si affretta a negare. «Nora è una cara amica. Nessuno voleva assumermi dopo aver fatto outing ed aver iniziato ad uscire regolarmente con il mio ragazzo. Lei è stata l’unica a non farsi problemi.»
    Mi do un’orgogliosa pacca sulla spalla per aver preso la decisione giusta. Veronica, sei proprio una ragazza intelligente.
    Però…
    «Pierre lo sa?»
    Lui annuisce succhiando coca-cola dalla sua cannuccia. «Ah-ah.»
    «E niente isterismi?» solleva lo sguardo per lanciarmi un’occhiata interrogativa, io mi stringo nelle spalle, la mia è una domanda lecita. «Da di matto per qualsiasi cosa.»
    «Ti posso garantire che non ha mai lasciato trapelare che le mie compagnie lo turbassero.» mi confida. «Ha conosciuto Manuel, è venuto a casa mia a cena qualche volta, anche con Laura, ed è sempre stato gentilissimo.»
    Lo osservo corrucciata. «Perché con me non è gentile?» chiedo, perché sembra che abbia scritto dietro la schiena ‘odiami’ in francese, in modo che lo capisca solo lui.
    «Perché tu ci lavori insieme.» risponde semplicemente.

Quindi dopo la chiusura sono di nuovo sulla macchina di Daniele, una Fiat Bravo blu. Sul sedile di dietro. Insieme a Pierre. Il perché sia qui anche lui mi appare ancora oscuro, ma in qualche modo ci ha seguito, è salito sulla macchina con abitudine e nessuno gli ha detto nulla. Anche Eleonora si è autoinvitata ed è da appena messa in moto l’auto che sta girata verso di me a decantarmi le qualità dell’appartamento di Daniele; pare che sia: spazioso, luminoso, riscaldato autonomamente, moderno, in un buon posto – beh, via dei Gerani è effettivamente un luogo carino dove vivere – con vicini rispettosi e simpatici.
    Io continuo ad essere un po’ scettica perché trovare, in meno di una settimana, il contratto e l’appartamento dei miei sogni mi sembra troppa fortuna tutta insieme.
    Il mio telefono trilla, frugo nella borsa fino a trovarlo: è Tiziana. Non appena schiaccio il pulsante per accettare la chiamata, inizia a parlare senza darmi il tempo di dire nulla. «Ma dove sei? Ti stiamo aspettando!»
    Aspettando?
    «Non ci eravamo date appuntamento e…» mi blocco. «chi mi sta aspettando?» aggiungo dopo un attimo di esitazione.
    «Ma come?!» sento un’altra voce maschile. «Si, glielo chiedo subito…» gli risponde. «Ci sono stati altri scontri alla ti odio ti amo?»
    Mi schiarisco la voce posando con tutta la forza che ho in corpo la mano sul cellulare per evitare che si senta il minimo sussurro. Guardo Pierre, impaurita ed imbarazzata, ma sembra del tutto tranquillo mentre tiene la fronte premuta contro il finestrino e guarda la strada scorrere di sotto.
    Così mi riporto il telefono all’orecchio dandogli le spalle, anche se dubito che serva a gran ché, sono su una macchina, quanta distanza posso mettere tra noi?
    «Piantatela, non è il momento.» sibilo.
    «Oddio, sei con lui!» commenta eccitata. «Silenzio tutti, sono insieme!»
    Mi copro la fronte con la mano, ma cosa sono diventata, una specie di soap opera vivente?!
    «Ok, noi ti facciamo delle domande, tu devi dire soltanto sì o no, capito?»
    Sospiro, ma Tiziana lo prende come un sì.
    «Siete in pasticceria?»
    «No.»
    «Oh-oh…» commenta lei con enfasi. «E avete i vestiti addosso?» non è la voce di lei a chiederlo, mi sembra più quella di Sam.
    «Certo, che abbiamo i vestiti addosso!» esclamo arrossendo.
    …ops…
    Mi volto ed incontro la faccia perplessa di Pierre che mi osserva con attenzione, io chiudo con uno scatto lo schermo scorrevole del mio cellulare, restringendomi nelle spalle nella vana speranza di sparire, nascondermi… evitare questo momento. Lui continua a fissarmi ancora un po’, poi riporta gli occhi davanti a lui scrollando la testa.
    Sospiro di sollievo, che giunga pure alle sue conclusioni silenziose, basta che non mi coinvolga.
    «No… pardonne-moi, ma devo chiedertelo.» dice dopo un po’ tornando con lo sguardo su di me, mi sembrava che fosse stato troppo semplice. «Tu sei davvero così?»
    Io lo fisso con occhi enormi, troppo a disagio – per colpa di quel matto di Sam e della sua evidentemente degna compare – per dare una risposta seria e soddisfacente che non sembri un miagolio, ed annuisco piano con la testa.
    «Intendo, sei sempre così?» precisa.
    Annuisco ancora. Il problema è che, per colpa di una serie di sfortunati eventi, lui mi ha sempre vista in una veste poco… ehm… dignitosa? Se mi conoscesse come mi conosce, che so? Tiziana? Saprebbe che, dietro quella che ha tutta l’aria di essere una grande turbe psichica, c’è solo un’enorme incomprensione. Più o meno. Voglio dire, la normalità è un fatto relativo, no?
    «E non ti è mai venuto in mente di chiedere l’aiuto di uno specialista?» continua a domandare.
    Io incrocio le braccia sul petto facendomi improvvisamente scettica. «Grazie, tanto.» commento secca.
    Lui si stringe nelle spalle. «Ero serio!» si difende. «C’est vrai!»
    Scuoto la testa tornando ad ignorarlo.
    «Siamo arrivati!» trilla contenta la voce di Eleonora.
    Il palazzo è effettivamente bello, non è molto grande né alto, quindi immagino che non contenga molti appartamenti. Non appena entriamo nell’ingresso, l’illuminazione automatica si accende rivelando dei pavimenti lucidissimi grigio perla, non so se sia proprio marmo, ma, se non lo è, chiunque abbia fatto il lavoro si è impegnato abbastanza da renderlo credibile.
    Non c’è l’ascensore, ma, come mi spiega Daniele, siamo soltanto al terzo piano ed io sono una ragazza giovane e forte.
    Eleonora non ha mentito, l’appartamento è uno spettacolo. Per alcuni secondi resto ammirata a guardarmi intorno nella cucina-salotto, i mobili sono neri e bianchi modernissimi, c’è un penisola di granito che divide la zona fornelli dalla zona soggiorno, dove fanno bella mostra di sé un tavolo di vetro da sei posti, un divano di pelle nera con sopra dei cuscini sparsi bianchi ed un enorme televisore al plasma.
    Purtroppo non appena realizzo quanto sia bello, mi trovo anche a pensare che mi costerà troppo. Mille euro al mese sono molti, ma, se la metà devo spenderli di affitto, non so se posso farcela. Non ho molte spese, l’assicurazione del motorino ed eventuali riparazioni costano pochissimo, ma mangio, compro vestiti, necessario per toletta.
    «Daniele.» provo a chiamarlo.
    «Vieni, ti faccio vedere quale sarebbe la tua stanza.» mi invita.
    Pierre ci ignora perso nel suo mondo, si siede sul divano e tira fuori un mini netbook dalla tasca interna della giacca.
    «Viene a scroccarmi l’adsl.» mi spiega facendomi strada verso una porta sulla sinistra che da ad un piccolo corridoio. «Quella è la mia camera.» annuncia indicandomi una porta a destra. «Quello è il bagno.» apre la porta di fronte a noi; è spazioso, non c’è la vasca, ma un doccia idromassaggio sì. In più tutti i mobili sono già per due. «Lo so, è soltanto uno. Ma se ci organizziamo non credo che ci saranno problemi.»
    Ma io non credo di potermelo permettere, sovrappensiero mi chiedo anche quanto cavolo lo paghi Eleonora.
    «Qui starai tu.» ed apre la porta a sinistra.
    È una camera essenziale, c’è un letto matrimoniale, una cassettiera, un armadio ed un comodino; ammetto che i muri sono un po’ fastidiosi, di un azzurro cyan troppo squillante, ma non riesco ad impedirmi di immaginare tutte le mie cose sistemate lì, compresa me stessa. Faccio alcuni passi all’interno, poi mi dirigo decisa verso la finestra accanto all’armadio per sbirciare all’esterno, da su un palazzo dall’aria antica. Vorrei poter vivere qui.
    «Io non me lo posso permettere.» inizio.
    «Sono trecento euro al mese.»
    Lo guardo incredula sbattendo le palpebre. «Soltanto?» chiedo, perché trecento euro al mese sono pochissimo. È vero che non è una casetta molto grande, però…
    «L’appartamento è mio, non pago affitto, mi serve soltanto qualcuno che divida con me le altre spese.»
    «L’adsl.» mormoro ancora, incapace di spiegarmi perché costi così poco, dovrà pur esserci un inghippo da qualche parte.
    Lui ride e scuote la testa. «No, non serve. Pierre viene ad approfittarne perché è la linea comunale…» mi indica con un cenno del capo la finestra. «il palazzo lì sotto è la biblioteca.»
    «Oh…» sussurrò tornando a guardarlo. «Perché così poco?»
    «Te l’ho detto, ho bisogno di dividere le spese. Non mi interessa guadagnarci chissà cosa, un lavoro ce l’ho già, ma così non ce la faccio.»
    Mi siedo sul materasso, coperto soltanto da un lenzuolo, per saggiarne la consistenza e ripiego una gamba sotto di me. «Devi essere molto ricco per esserti potuto permettere di comprarlo.» tipico trovare un ragazzo simpatico, gentile e facoltoso e scoprirlo gay. O sono gay o mettono incinte le altre ragazze… o sono Sam. Inquietante. Oddio, oppure sono Pierre! Direi che effettivamente convivere con un ragazzo omosessuale potrebbe essere la mia unica esperienza di convivenza con un uomo.
    Lui appoggia la mano sullo stipite. «L’ultimo regalo dei miei.» si stringe nelle spalle senza guardarmi. «Mi hanno cacciato di casa, ma mia madre si sentiva la coscienza sporca per lasciarmi in mezzo ad una strada.»
    Deglutisco dispiaciuta. «Oh, i tuoi non…» non riesco a finire.
    «No.» dice lui soltanto, poi scrolla le spalle tornando gioviale. «Allora, che ne pensi?» mi domanda sorridendo.
    Mi guardo intorno. «Che è perfetto.»
    «Ti lascio un po’ sola, così vedi che effetto ti fa.» dice uscendo dalla porta. Sento Eleonora bisbigliare dall’altra parte ed intuisco che ci abbia non solo seguito, ma anche spiato.
    Mi guardo intorno ancora seduta sul letto, che effetto deve farmi? Già mi immagino gestire a modo mio e come voglio tutto questo spazio, lasciare le mie cose in giro senza che mia madre ci frughi – lo so, è un po’ psicotico, ma ho dei problemi con chi fruga nelle cose molto mie. Ma sono davvero pronta ad andare a vivere da sola? Insomma, a parte qualche incomprensione a livello coabitativo i miei genitori sono apposto; sono la loro figlia minore, per di più femmina, l’unica ancora in casa, è normale che vogliano stare prepotentemente nella mia vita. Con me possono farlo, con mio fratello che lavora al CERN di Ginevra è un po’ più difficile. Certo, lo capisco, se l’impianto di studio subatomico più famoso al mondo ti offre prima uno stage, poi un posto fisso non puoi dire di no, ma tornare a casa a fare un salutino ai genitori di tanto in tanto non credo che comprometta poi così tanto la sua carriera, no?
    Sento dei passi e mi volto; per ritornare al tema delle psicosi, Pierre si appoggia allo stipite della porta con le mani in tasca. È seriamente bello, soprattutto senza divisa. Ha una felpa bianca con la zip aperta, sotto una maglietta grigia ed un paio di jeans dall’aria un po’ troppo grande per lui. Immagino che voglia sapere se prenderò la stanza e se dovrà trovarmi qui tutte le volte che vorrà scroccare l’adsl.
    Adoro i suoi capelli.
    «Che fai mercoledì?»

    Aggrotto le sopracciglia sorpresa… come?!
    «Perché?»
    Piega la testa di lato ed arriccia le labbra, pensieroso. «Devo fare l’inventario, sicuramente ci saranno cose scadute. Riutilizzabili per usi privati, ma non servibili al pubblico.» mi spiega. «Puoi venire, pasticciare con i miei avanzi e farmi vedere come te la cavi e quanto sei indietro.»
    Mi chiedo se sia effettivamente capace di dire qualcosa senza sottintendere la tua inferiorità, forse è un problema a livello linguistico, magari non glielo hanno insegnato.
    Matteo.
    «Ho un appuntamento.» mi giustifico.
    «Con chi?»
    Me lo sta chiedendo davvero?
    «Con un ragazzo.»
    «Lo annulli.» mi dice serio, senza muoversi.
    «Lo annullo?» chiedo scoraggiata.
    «Oui, lo annulli.» continua annuendo, senza smettere di fissarmi neanche un secondo.
    Sospiro affranta. «Lo annullo.» mormoro.
    «Bien, preparati.»
    Quando si volta gli faccio la linguaccia e lui sventola la mano senza voltarsi. «Je t’ai vue.»


porca la misera se è lungo... però vi rendete conto ti quante cose ho messo in moto?
oh! quante cose devo scrivere...
mi sento un po' pazza...
anyway il prossimo capitolo sarà molto, molto, molto Veronica e Pierre con tutto quello che comporta...
non so di preciso che succederà perchè non l'ho ancora scritto, ma mi sento moooolto ispirata!
baci dall'Alaska praticamente!

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - un abbraccio che si chiama disattenzione ***


Patisserie française fragolottina's time
questo capitolo mi piace!
davvero, ci sono tante cose... e poi, ancora non avevo scritto nessun momento in cui erano seriamente solo Veronica e Pierre, la storia alla fine parla di loro, si sentono un po' trascurati... ed era un po' anche che non se ne stavano tappati in cucina...
quindi, prima di dire cose che vi rovinerebbero eventuali sorprese, vi auguro buona lettura!

CAPITOLO 4


Un abbraccio che si chiama disattenzione
Quindi, oggi niente appuntamento galante, niente trucco semplice, ma carino, niente scarpe scomode e bellissime, niente cena pagata e chiacchiere per conoscersi meglio. Avevo già scelto come vestirmi, mi ero perfino depilata le gambe oltre il ginocchio – lo so, è terribile, ma quando non hai intenzione di svestirti per nessuno smette di essere una priorità – tutta fatica inutile.
    Un altro giorno all’inferno, meglio conosciuto come ‘Pâtisserie Française’...
    Con le braccia incrociate sul petto osservo il signor ‘annulla il tuo appuntamento’ Mureau darmi delle uova, due panetti di burro, mezzo pacchetto di farina, un bicchiere di zucchero ed un barattolo di marmellata di pesche già aperta. Ah già, anche un quarto di bustina di lievito. Cosa che toglie l’effetto sorpresa alla mia ricetta, visto che ce n’è solo una che io possa fare con questi ingredienti.
    «E se non volessi fare una crostata?» gli domando, tanto per rendermi conto quanto il mio effettivo libero arbitrio conti.
    «Non si può fare sempre quello che si vuole.» è la sua per niente soddisfacente risposta. Mi piazza davanti anche una bilancia, poi sparisce nell’ufficio di Eleonora.
    Evidentemente il mio libero arbitrio non conta niente.
    Sospiro di sollievo, almeno sono sola!
    Mi avvicino ad uno sportello e recupero una terrina, sto anche per romperci dentro un uovo quando…
    «Fai una crostata in una terrina?» mi domanda con il tono di chi si aspetta un ‘no’ come risposta.
    Cielo, che ho fatto per meritare una simile condanna?
    Mi volto a fulminarlo, è fermo davanti all’entrata dello studio con in mano un blocco ed una penna, c’è scetticismo e poca stima nelle mie capacità nella sua espressione, ma non è quella che sto guardando; mi fa strano vederlo in cucina senza divisa, oggi indossa soltanto un paio di jeans sul grigio, una camicia a maniche corte a quadri grigi e blu e sotto una maglia a maniche lunghe a tinta unita, sempre blu.
    «Sì, faccio una crostata in una terrina.» ammetto fiera. Si può fare una crostata in una terrina, viene buona lo stesso, lo so, si evita semplicemente di fare troppo casino inutile.
    Si stringe nelle spalle recuperando una sedia e salendoci sopra per raggiungere degli scaffali alti. «Se lo dici tu.» commenta senza entusiasmo.
    «Mi serve il latte.» rifletto notando che non me ne ha fornito. Intanto rompo finalmente l’uovo nel contenitore, prima che possa interrompermi con qualche altra osservazione sgradita, e prendo a sbatterlo con una forchetta.
    Sposta i piedi rimanendo in bilico su due gambe della sedia, io prego silenziosamente che cada. So che è orribile, ma sono qui da appena mezz’ora ed ho già i nervi a pezzi. Sono sicura che tutto questo stress mi farà venire tante di quelle rughe, che Eleonora dovrà regalarmi un lifting per contratto.
    «No, non ti serve.» dice senza guardarmi e contando in punta di dita i pacchi di qualcosa.
    Ma che diavolo, lo saprò cosa mi serve?
    «Sì, invece.» insisto.
    Lui atterra di nuovo pesantemente sulle quattro gambe e salta giù fissandomi stranito, si avvicina al frigo e mi porge un mezzo cartone di latte a lunga conservazione già aperto.
    «Grazie.» sorrido ipocrita.
    Sbatto le uova, poi peso il burro ed inizio a tagliarlo a dadini.
    «Oh, già.» inizia.
    Ma perché è ancora qui? Non dovrebbe fare l’inventario?
    «Ti sto cronometrando.» annuncia come se fosse una cosa normale.
    Io mi fermo ad occhi sgranati e lo fisso, completamente ed inevitabilmente incredula. «Mi stai…» ma non riesco a finire. Perché tra tutti i pasticceri che possono esserci nel mondo, il mio capo deve essere la reincarnazione di un agente delle SS?
    Solleva il braccio e si scopre il polso, mostrandomi un orologio nero. «Cronometrando.» ripete, poi però aggrotta le sopracciglia riflettendo. «Si dice così, n’est-ce pas?»
    C’è un limite anche alla follia. Deve esserci.
    «Perché, per l’amor del cielo?» sbotto, incapace di trattenermi.
    Lui mi fissa e si tira indietro i capelli con una mano, lo odio, ma non so cosa darei per passare le dita tra i suoi ricci. «L’eccellenza va conquistata.» per alcuni secondi lo guardo e basta, perché dietro alla sua follia, alle sue richieste assurde e tutto il resto, incredibilmente, mi trovo a rispettarlo.
    Sto quasi per dirgli qualcosa che somiglia vagamente ad una gentilezza, quando: «Tic, tac.» mi ricorda, tornando ai suoi fogli ed al suo inventario.
    Mentre continuo ad impastare, però ci penso. Insomma, lui è un pezzo grosso della pasticceria, so che lo invitano spesso a convegni e corsi d’aggiornamento, Paris Hilton ha il suo numero… davvero, è lui a dover fare l’inventario? Mi sembra più una mansione di Eleonora, no? Quindi – potrei sbagliarmi e sicuramente sbaglio – è qui, nel suo giorno libero… per me. Se è vero che ha detto alla Bernardi che sto facendo un buon lavoro, può essere motivato a farmi crescere in abilità.
    Mi fermo, sprofondata fino ai polsi con le mani nell’impasto, in preda ad una qualche specie di illuminazione mistica: ma allora, è buono.
    Aggiungo dell’altra farina in trance, mentre lui mi porge un mattarello ed uno stampo. Con tanto amore – mia nonna mi ha ripetuto fino alla nausea che ci vuole amore per far venir bene i dolci – stendo la prima sfoglia di pasta frolla da mettere sotto, spalmo la marmellata di pesche e guarnisco con altre striscioline di pasta. Guardo in faccia la mia opera come se fosse mia figlia e le mando un bacio, perché è proprio una crostatina carina.
    Quando torno in contatto con il mondo, mi accorgo che Pierre mi sta fissando perplesso.
    Lo ignoro, ma arrossisco. Mi volto a studiare il forno e faccio per allungare la mano verso la prima manopola, quella della temperatura.
    «Qu’est-ce que tu fais?» e c’è qualcosa che somiglia realmente al terrore nella sua voce.
    Mi giro a metà per lanciargli un’occhiata, lui mi sta puntando contro il cucchiaio con cui ho spalmato la marmellata. Non scherzo, lo sta facendo sul serio ed anche se dovrei rendermi conto dell’assurdità della situazione, realizzare quanto sia effettivamente assurda, e scappare a gambe levate, non riesco ad impedirmi di scoppiare a ridere.
    «Non. Toccare. Il mio. Forno.» sillaba, mentre io mi sbellico senza alcun controllo.
    «Come la cuocio la crostata?» gli chiedo asciugandomi gli angoli degli occhi con le dita, ancora ridendo perché, santo cielo, quello mi sta minacciando con un cucchiaio sporco di marmellata perché io non alzi un dito sul suo forno. Penso che nemmeno Tiziana mi crederebbe se glielo raccontassi; nessuno mi crederebbe se lo raccontassi!
    «Faccio io.» si offre raggiungendomi, provo tanto per vedere la sua reazione ad allungare di nuovo la mano, che lui prontamente schiaffeggia con la sua. «Temperatura?» mi chiede guardandomi, vicino e solo ora smetto di ridere, solo ora ricordo che oggi siamo completamente soli qui.
    Studio la crostata ed il forno. «Duecento gradi.»
    Rimane per alcuni secondi con le dita sulla manopola. «Sicura?» domanda ancora fissandomi con aria di sfida, io annuisco nei suoi occhi. «Bien.» accende tutto, poi rimane come me appoggiato al piano di lavoro, mentre aspettiamo che si scaldi.
    Oggi siamo completamente soli qui.
    Osservo il nostro riflesso sul vetro scuro, più il suo che il mio. «Deve piacerti molto questo forno.» commento perché non riesco a sopportare il silenzio, è così pieno di pensieri.
    «J’aime questo forno.» risponde senza guardarmi.
    Ammetto che è il primo che conosco ad amare un elettrodomestico. Studio i suoi occhi, il suo naso, la sua bocca, avrebbe potuto fare il modello, mi domando come un bambino – perché è molto giovane e per essere arrivato ad un tale livello deve aver iniziato da ragazzino – possa voler fare il pasticcere. Io da piccola volevo fare la ballerina, come tutte le bambine.
    «Da quanto sei in Italia?» gli domando facendo due conti. Non mi sono legata i capelli, ho solo un frontino a tenerli indietro, strano che non abbia aperto bocca al riguardo.
    Lui deglutisce, si estranea e mi sento quasi in colpa perché non credevo di avergli fatto una domanda scomoda; chiude gli occhi, lasciando cadere la testa all’indietro. «Cinque anni…» sospira. È tanto. «tre mesi e ventitre giorni.»
    Quando riapre gli occhi per leggere la mia reazione, io lo sto fissando e non riesco a smettere. Lui ricambia il mio sguardo senza espressione, senza curiosità, sa a quale conclusione sto giungendo: i carcerati contano i giorni, gli esiliati.
    «Il forno è pronto.» annuncia spezzando quel momento.
    Mi volto e recupero la mia crostata, lui mi apre lo sportello, per non farmelo toccare. «Ma fai sul serio?» chiedo scoccandogli un’occhiata eloquente. È ridicolo, dovremo pur trovare un compromesso prima o poi, non so, posso usare guanti scelti appositamente da lui, può controllarmi, può tenermi una serie di lezioni sull’uso consapevole e corretto degli elettrodomestici da cucina; quello che vuole, ma deve farmi toccare questo benedetto forno.
    Non avrei dovuto distrarmi.
    Nell’infornare il dolce, senza fare attenzione a tutte le cose arroventate con le quali potrei scottarmi, finisco per sbattere con il braccio sinistro, lasciato nudo dalla manica arrotolata, contro il vetro.
    «Attenta!»
    Strizzo gli occhi e lascio cadere la crostata sulla griglia per ritirare di corsa le mani… e realizzo che il dolore non arriva. Non sono io ad essermi scottata, è la mano di Pierre, intorno al mio braccio.
    Si è allungato dietro di me, circondandomi e coprendo la mia sbadataggine con… sé stesso.
    Sbuffa scrollando il pungo sinistro chiuso. «Tu es comme une fille!» mi rimprovera chiudendo il forno.
    Resto impressionata dal suo sangue freddo, da come venga prima la mia crostata, che si assicura sia sistemata a dovere all’interno accendendo la luce, della sua mano. Dal fatto che ha coscientemente messo una mano sul mio braccio per non far bruciare me.
    «Oh!» esclamo mortificata prendendogli il pugno ancora chiuso. «Mi dispiace tantissimo!» continuo tirandolo verso il lavandino, niente è efficace quanto l’acqua fredda per le scottature.
    «Imposta il timer.» mi ricorda.
    «Al diavolo il timer.» sbotto ignorandolo. Una crostata può bruciare, anche se è la più carina del mondo, posso prendere altre uova, altro burro, altra farina, altra marmellata e ricominciare daccapo. Non posso fare un altro Pierre.
    Apro il rubinetto dell’acqua fredda, gli sollevo la manica – magari ha qualche legame speciale anche con questa – e gli tiro la mano insieme alla mia sotto il getto gelato. Ho fatto male i conti, o forse sono stata troppo impetuosa, perché così facendo me lo tiro praticamente addosso; tutto il suo corpo preme contro la mia schiena, tanto che, per rispetto, mi appoggia la mano ancora buona sul fianco per evitare contatti troppo… troppo!
    Ho ancora la mano stretta alla sua.
    Deglutisco e la tiro via dall’acqua per studiarla più da vicino, sul dorso, vicino alle nocche, è ben visibile il segno rosso che sarebbe dovuto essere sul mio braccio.
    E le sue dita circondano quasi tutta la mia, minuscola, fragile, in confronto alla sua.
    «È solo una scottatura.» mormora piano, annoiato.
    Non ho il coraggio di voltarmi a guardarlo perché sento, come se fosse ricoperto di spilli, ogni punto del suo corpo che tocca il mio: c’è il suo torace contro la mia schiena, immagino il suo viso sopra la mia spalla, una gamba è tra le mie, ma con delicatezza, mi sfiora appena in un contatto non intenzionale, ma non per questo meno reale; e la sua mano è sul mio fianco, grande come quella che sto guardando così da vicino.
    «Mi dispiace, sono un disastro.» mi scuso ancora.
    Ridacchia. «Oui, mais regarde!» lascia il mio fianco per allungare l’altra mano ed in un modo o nell’altro mi trovo tra le sue braccia. Si libera anche della mia stretta e si indica tutta una serie di discromie su dita, palmo e dorso, cicatrici di anni di pasticceria, intrappolandomi ancora di più nel suo abbraccio. Non lo si dovrebbe chiamare così, in fondo, si tratta soltanto di disattenzione. «Non farne una tragedia.» mi tranquillizza facendo un passo indietro.
    Io rimango ferma per alcuni secondi, il cuore mi batte più forte, se ne è accorto? Forse hanno ragione Tiziana e gli altri: è troppo tempo che non sento sul mio corpo l’abbraccio di un uomo. Immagino di essere un in crisi d’astinenza ed il mio cuore scintilla per ogni piccolo contatto con un bel ragazzo… mi sento un po’ patetica e tanto disperata.
    «Controlla la crostata!» mi ricorda.
    Chiudo il rubinetto e mi passo la mano bagnata sul viso per placare i bollenti spiriti: inconscio, hai retto un anno e tre mesi, non puoi piantarmi in asso proprio adesso! Appena posso ti porto a cena con Matteo, ça va?
    La crostata è pronta.
    Armata di guanti questa volta, la tolgo dal forno – che ha aperto Pierre, ovviamente – e la poso sul piano d’acciaio. L’aspetto è ottimo, bella dorata, promette proprio bene.
    «Che ne pensi?» gli chiedo sorridendo.
    «Che somiglia realmente ad una crostata e non è poco.»
    Gli scocco un’occhiata indispettita, che lui volutamente ignora.
    Prende un coltello e ne taglia uno spicchio con disinvoltura, la solleva con una mano sola, la studia. «La consistenza c’è.» proclama, per un attimo me lo immagino con vestiti rinascimentali a leggere un comunicato di qualche nobile, su pergamena. Sospira. «Courage.» si dice prima di addentarla.
    Mastica.
    Mastica.
    Mastica.
    «Allora?!» domando nervosa, strizzando tra le mani il guanto che mi sono sfilata.
    Alza l’indice facendomi segno di aspettare, concentrato. «Troppo dura. Cottura sbagliata, duecento gradi sono troppi per una crostata, mais tu non conoscevi le four, quindi ça va.»
    «Va bene?» domando eccitata, sconcertata ed incredula.
    «No.» mi sembrava strano. «Manca il burro, pourquoi il latte?» mi domanda infastidito. «Il latte non è burro, il burro fa frollare la pasta frolla, la pasta frolla deve frollare.»
    Sbatto le palpebre dubbiosa: voce del verbo ‘frollare’? Ma esiste?
    «Perché è più salutare.» mi giustifico lamentosa.
    Lui mi guarda. «Seduta.» ordina e sarà perché per colpa mia si è fritto una mano o perché… non lo so, avrò il morbo del cagnolino addestrato! Balzo a sedere sul tavolo d’acciaio. Lui posa quel che resta dello spicchio di crostata accanto allo stampo. «La signora Evelina Torindi viene qui una volta a settimana.» lo osservo perplessa, e staremmo parlando esattamente di cosa? «È sovrappeso, il dietologo le ha concesso soltanto un dolce da poche calorie alla semaine.» appoggia le mani sulle mie ginocchia ed io deglutisco sbirciandole di sbieco, chiedendomi quanto sia un contatto intenzionale. «Lei non mangia dolci per tre settimane, accumula le calorie e la quarta semaine si mangia un mio tortino che ordina su misura per non…» si morde il labbro inferiore interrompendosi, poi mi stringe il ginocchio sinistro, per attirare la mia attenzione... come se non ce l'avesse già. «Com’è quella parola?»
    «Superare?» provo ad indovinare.
    «Esatto!» esclama. «Superare… alors, per non superare il limite. Se io le servissi la tua crostata si sentirebbe insultata, perché ha faticato tre settimane per potersi gustare qualcosa di buonissimo, non per qualcosa di...» fa una smorfia schifata. «salutare
    No, ho capito il senso del suo discorso, nonostante continui a scrutarlo dubbiosa. «Esiste davvero una signora Evelina Torindi?» gli chiedo seriamente curiosa.
    Lui si allontana e, senza più il contatto con le sue mani calde, dalle ginocchia mi parte un brivido di freddo. «Oui, una mia grande fan.» si stiracchia incrociando le braccia dietro la testa, languido. «Muoviti, ce ne andiamo.» salto giù dal tavolo e recupero le mie cose tra cui anche la mia crostata, che mi premuro di sistemare in una busta: Pierre ti odia, ma io ti voglio bene, crostatina.
    «Sono promossa?» domando, raggiungendolo mentre mi abbottono il cappotto.
    Lui sta fissando il piano di lavoro vicino al suo adorato forno. C’è un capello, un capello scuro e lungo, un capello mio.
    «No.» dice fingendo di non essersene accorto, spinto da qualche spirito caritatevole. «Ma se c’è uno che può fare il miracolo, c’est moi.»

Tiziana addenta la mia crosta e la mastica con calma.
    «Secondo me è buonissima.» dice coprendosi la bocca con la mano. «Sam?»
    La sta assaggiando anche lui. E Laura. E Simone. Tutto il mio fan club, insomma.
    «La crostata è buona, è stato deciso.» annuncia Sam ad alta voce. «Perché non ci dici qualcos’altro?»
    «Tipo?» domando candidamente.
    «Non so…» inizia Simone riempiendo un boccale di birra. «che avete fatto mentre cuoceva, ad esempio.» spiega malizioso.
    Mi stringo nelle spalle, seguendo con un dito la traccia umida che il mio bicchiere di coca ha lasciato sul bancone. «Si era scottato.»
    «Scottato?!» ripete curiosa Tiziana. «In posti sconvenienti?»
    La fisso eloquente. «E come dovrebbe aver fatto a scottarsi in posti sconvenienti?» le domando ironica, a volte la mia amica vuole così tanto ascoltare un racconto interessante e piccante da fregarsene del realismo.
    «Beh, se non eravate vestiti…» insinua Laura posando il vassoio, con il quale ha appena servito le bevande, sul bancone.
    Alzo gli occhi al cielo e mi tiro su in piedi. «Ok, ok.» comincio. «Per evitare ulteriori incomprensioni in futuro, siamo sempre vestiti quando lavoriamo.» dico, intenzionata a non tornare ancora su questo punto. «Si era bruciato la mano per non far bruciare me.» concludo per soddisfare la loro necessità di pettegolezzi.
    «Davvero?!» mi sento chiedere da quattro voci in coro.
    Strabuzzo gli occhi sorpresa. «Ah-ah.» mormoro timorosa e mi siedo di nuovo.
    «Ma che carino!» squittisce Tiziana.
    «Non è carino, è presuntuoso.» borbotto ricordando come ha demolito la mia adorata crostata, che poi non aveva niente che non andava.
    «Belle mani, però, vero?» domanda Laura con un’occhiata eloquente.
    Non rispondo, sa da sola cosa direi, dubito che servi la mia conferma a chi probabilmente l’ha visto tutto.
    Tiziana mi da di gomito. «Sicura che non ci sia niente, niente, niente, che valga la pena raccontare?» mi domanda indagatrice.
    Mi tiro i capelli dietro l’orecchio destro – più un’abitudine che una necessità – pronta a rispondere, ma mi blocco passandomi di nuovo le dita tra la mia chioma lunga. «Mi tagli i capelli?» domando di punto in bianco alla mia amica guardandola seria.
    «Come?» chiede scrutandomi incredula. «Cos’hanno che non va i tuoi capelli?» continua adattandosi al mio repentino cambio di argomento.
    Non le rispondo. «Per favore, fino alla spalla.»
    «Ma… io…» tentenna. «Potrei fare un pasticcio.»
    «Sai che per alcuni secondi siamo stati praticamente abbracciati?» la tento sventolandole sotto gli occhi una mia ciocca.
    Lei si scola l’ultimo goccio di birra rimasta nel suo bicchiere e si pulisce la bocca con il dorso della mano con enfasi, facendomi scoppiare a ridere. «Sam? Forbici.»

secondo voi a Pierre piaceranno i capelli corti?
lo scoprirete nella prossima puntata...
come vedete qualcosa si muove nella pasticceria... nella prossimo capitolo si muoverà qualcosa anche in casa di Daniele e Veronica...
nel frattempo se mi dite che ne pensate di questo mi farete felice!
baci

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - autocombustione spontanea ***


Patisserie française fragolottina's time
oh! ma quante siete nelle scorso capitolo...
non sapete quanto mi è dispiaciuto rimandare tanto la pubblicazione del capitolo e quindi anche la risposta alle vostre recensioni... cmq ora sono qui e per un po' dovrei stare tranquilla e scrivere!
che poi - se qualcuno ha sbirciato il mio journal lo sa - ero frustratissima perchè tutto il cap ce lo avevo in mente, ma non potevo proprio permettermi di rubare tempo allo studio... perciò, ahimé, scusate!
buona lettura...

CAPITOLO 5


Autocombustione spontanea
Rimango a guardare il mio riflesso nello specchio del bagno di Daniele. So che ora dovrei chiamarlo il mio specchio del mio bagno, ma questa casetta non è ancora mia, probabilmente perché la stanza è ancora popolata da scatoloni.
    Prendo la spazzola e me la passo sul lato destro dei capelli, ripromettendomi di non andare al ‘Black Star’ stasera dopo il lavoro, ma di rimanere diligentemente a casa a disfare i bagagli; quasi sussulto quando raggiungo la fine, però sorrido voltando il viso da una parte all’altra. Non ricordo l’ultima volta che ho avuto i capelli tanto corti, li ho tenuti lunghi fino a metà schiena credo da dopo il diploma, limitandomi ad una spuntatina di tanto in tanto. Ora mi arrivano a malapena alle spalle, dritti e lucidi, quasi neri, forse mi piacciono di più così. Ammetto, di aver dubitato delle doti di coiffeur di Tiziana per un momento ed invece ha fatto davvero un buon lavoro.
    «Che ne pensi?» domando a Daniele raggiungendolo nella zona giorno.
    Lui mi lancia un’occhiata veloce, mentre si allaccia le scarpe. «Ti stanno bene. Perché ti ha obbligato?» mi domanda dimenticando di menzionare il soggetto della frase, ma, infondo, chi altri potrebbe seriamente farsi dei problemi per la mia acconciatura?
    «Beh…» inizio, tornando in bagno a mettermi il mascara, tutto il resto si può anche saltare, ma il mascara è sacro. «avevamo fatto un patto.»
    «La stai prendendo sul serio questa cosa del conquistarti i suoi favori.» commenta, dal divano.
    Mi fermo e guardo il mio riflesso negli occhi, quanto la stai prendendo sul serio, Veronica?
    «Mi conviene non trovi?»
    «Immagino di sì.» risponde senza eccessivo interesse. «Però sei la prima che arriva a tagliarsi i capelli.»
    Perché la stai prendendo così sul serio, Veronica?
    «Magari resisterò più di tre mesi.» sdrammatizzo, ridacchiando stranamente nervosa.
    Lo sento ridere. «Lo spero.» pausa. «Vuoi venire in macchina con me?» mi invita gentile. «Se vuoi ti aspetto.»
    «Non preoccuparti.» mi siedo sulla tavoletta del water.
    «Ok, a dopo.»
    Lo sento chiudere il portone, mentre io resto lì con il tubetto di mascara in mano a riflettere, senza raggiungere conclusioni molto incoraggianti.

Eleonora è davanti al bancone a parlare con Daniele. Questo vuol dire che sono in ritardo a livelli inimmaginabili. Questo vuol dire che Pierre avrà una crisi isterica… che ottimo modo per iniziare la giornata.
    «Oddio!» esclamo nel panico. «Che ore sono?»
    La Bernardi studia il proprio orologio mescolando un cappuccino. «Le cinque e tre quarti, Vero…» si volta a guardarmi e si blocca. «Ehilà…» annuisce compiaciuta. «Qualcuno ha fatto un cambio di look molto azzeccato!»
    Sorrido arrossendo. «Grazie.» borbotto un po’ imbarazzata, non dovrei, ma ho qualche problema con i complimenti molto calorosi. «Ha già minacciato di farmi licenziare?»
    Daniele ridacchia e si stringe nelle spalle. «Solo un paio di volte.»
    Mi sfugge un’imprecazione poco signorile, ora chi lo sente tutto il giorno?
    «Allora, ti sei sistemata bene nell’appartamento?» mi domanda Eleonora rilassata, mentre io sono tutta presa a cercare dentro di me il coraggio di entrare in cucina: mi lancerà una teglia? Mi farà a pezzi e mi infilerà nel suo forno miracoloso?
    «Si, abbastanza.» borbotto sedendomi sullo sgabello. Ho deciso di aspettare, sono troppo codarda e se ha minacciato di licenziarmi due volte ci sarà anche una terza. «Anche se sto pensando di ridipingere le pareti di un colore più soft…» lancio un’occhiata a Daniele. «sempre che non ti dia fastidio.» aggiungo visto che il padrone di casa è pur sempre lui.
    Ma il mio amabile padrone di casa si stringe nelle spalle con noncuranza servendo una tazza di cappuccino anche a me. «Nessun problema, fai pure.» mi appunto mentalmente di trovare un imbianchino.
    «Come è andata ieri la prova del nove con Robespierre?» mi domanda Eleonora.
    Una tragedia?
    Una carneficina?
    «Ha bocciato la mia crostata su tutti i fronti.» ammetto, sentendomi un po’ stupida a farlo. Potrei mentire, no? Dirle che secondo Pierre c’erano delle cose da migliorare ma che, in totale, non l’ha trovata male. Infondo, Eleonora, anche se si mostra carina e disponibile quasi come una sorella maggiore, è pur sempre il mio capo; ma non riesco a non dirle la verità, è stata incoraggiante con me, mi ha confortato dai giudizi troppo acidi di Monsieur ‘io sono un pasticcere e tu no’ Mureau, sarei davvero una persona orribile se la ricambiassi con una bugia. «È stato lì a masticare non so quanto per dirmi che era un disastro.» concludo a capo chino, versando una bustina di zucchero nel mio cappuccino.
    Quando alzo lo sguardo sia Daniele che Eleonora mi stanno fissando ad occhi sgranati, che ho detto?!
    «Vuoi dire che ha assaggiato quello che hai preparato?» mi domanda Eleonora alla ricerca di delucidazioni, è così sorpresa che la sua voce raggiunge una nota quasi stridula, rispetto al suo solito tono pacato.
    Sbatto le palpebre perplessa. «Perché non avrebbe dovuto?»
    Eleonora salta giù dallo sgabello e viene ad abbracciarmi. «Oh, ragazza mia, quanto ti voglio bene!»
    Io fisso Daniele che sorride da sopra la sua spalla con un misto di sorpresa e… beh, ammetto che c’è anche una puntina di paura. Alla fine sollevo la braccia per ricambiare la sua stretta, ma con meno calore.
    La Bernardi si allontana un pochino, ma continua a tenermi le mani sulle spalle. «Sei la prima con cui lo fa, questo significa che per quanto sbuffi, soffi e si lamenti tu gli piaci e ti vuole tenere.»
    Sgrano gli occhi, accidenti, ora sì che sono incredula.
    «Davvero?» domando.
    «Qu’est-ce que vous faites?»
    La mia domanda rimarrà senza risposta.
    «Non sei qui per fare pubbliche relazioni, Veronica!» mi sgrida, sembra il mio professore di chimica – bastardissimo – all’università.
    Sospiro scendendo di mala voglia. «Eccomi, sto arrivando.» cerco di calmarlo, il mio scarso entusiasmo è proporzionale alla sua scarsa tranquillità.
    «Muoviti.» dice a me, scostandosi poco dalla porta della cucina per farmi passare. «E vous non distraetela.» continua rivolto ad Eleonora e Daniele. Il capo sarà pure lei, ma è lui a dettare legge qui dentro.
    Mi chiudo dentro il ripostiglio della Bernardi ed inizio a svestirmi per cambiarmi, almeno oggi sono sola qua dentro, forse dovrei fare sempre cinque minuti tattici di ritardo, in modo da garantirmi un po’ di privacy. Mi lancio un’occhiata alle spalle, dove di solito c’è Pierre mezzo nudo… rido sotto i baffi: no, meglio essere puntuali.
    «Sei nuda?» domanda ‘il diavolo cucina biscotti’. Sono davvero stata così ingenua da parlare di privacy? Che sciocca ragazza sono.
    «Quasi, dammi un minuto.»
    «Non puoi tardare e metterti a fare conversazione con Nora.» esclama irritato.
    Sospiro. «Mi voleva parlare, è lei che firma il mio stipendio.»
    «Chiacchiere da fammes, ci voleva un uomo.»
    «Stronzo misogino.» borbotto.
    «Sei mia.»
    Mi fermo con i pantaloni da abbottonare e fisso la porta per qualche secondo. «Un po’ meno di così.» gli ricordo, sono io a decidere di chi sono e so per certo che non ho mai scelto di essere sua.
    «Sei la mia aiutante pasticcera, tra queste mura sei mia.» ribadisce.
    Mi chiedo che senso possa avere discutere con una persona così.
    Finisco di prepararmi, poi apro la porta dello studio, trovandomelo davanti. Il cuore mi saltella in petto, ma fingo indifferenza dopo aver deglutito un groppo di panico, ma un panico denso come la melassa, dolce come la vaniglia, quasi piacevole. «Non hai tutti i tuoi tortini che ti aspettano?» gli domando, possibile che non abbia altro da fare se non gli appostamenti a me?
    Apre le bocca per parlare, ma poi si ferma. «Hai tagliato i capelli.» dice facendo un passo indietro, tutto il suo viso è una maschera di stupore.
    Lo supero annoiata e mi avvicino al lavandino per lavarmi le mani e recuperare un paio di guanti in lattice. «Avevamo fatto un patto, no?» che lui non mi ha ricordato di rispettare e che forse non si aspettava che rispettassi, ma che incomprensibilmente ho deciso di onorare.
    Guardo la pila di teglie accanto a me e cerco il burro, armandomi di santa pazienza e rassegnandomi ad un’altra giornata noiosa ed inutile.
    «Nel terzo cassetto a destra ci sono gli stampini per i biscotti.» mi fermo con un guanto infilato ed uno no e mi volto ad osservarlo, sta riempiendo dei bignè senza prestarmi troppa attenzione. «In ogni teglia ce ne vanno venti, il mattarello dovrebbe essere con gli stampini e sul piano di lavoro c’è la guida per lo spessore.»
    Scuoto la testa. «Perché ho tagliato i capelli?»
    Lui solleva il viso e mi fissa, i suoi occhi mi entrano dentro, scombussolano il mio mondo e ne riescono. «Perché stamattina somigli più ad una pasticcera che ad una biologa.» torna al suo lavoro, ma non mi sfugge il suo sorriso divertito. «Continua così e fra tre anni potrei farteli anche glassare.»
    Che senso dell’umorismo distorto…
    Recupero quello che mi ha detto e mi posiziono dietro di lui. «Non dovresti maltrattarmi, sai?» lo minaccio. «Potrei baciarti di nuovo.» gli ricordo arrossendo, perché ho tirato fuori di mia spontanea volontà questo discorso è un mistero.
    Lo sento ridere. «Quello non era un bacio, i baci sono umidi.»
    Mi mordo le labbra e sistemo al guida – una barretta di plastica da posizionare sotto il mattarello per essere sicuri che la pasta non sia né più spessa né più sottile di quella – ed inizio a lavorare. «Ah no? E che cos’era?»
    «Questo dovresti saperlo tu.»
    «Ho sempre pensato che quando due labbra si toccano è un bacio.»
    «Significa che sei una frana a baciare...» fa un passo indietro appoggiandosi alla mia schiena ed allungandosi sulla mia spalla per lanciarmi un’occhiata. «oltre che a fare crostate.» ho la sua guancia ad una soffio dalla mia.
    Rispondo alla sua occhiata indispettita e me lo scrollo di dosso, ma continuo a sorridere ed arrossire.

Apro il mio nuovo armadio ed inizio a posizionarci tutti i vestiti che, da brava ragazza lungimirante quale sono, ho messo negli scatoloni già provvisti di grucce. Matteo mi ha mandato un messaggio dicendomi che avrebbe fatto un salto al ‘Black Star’ questa sera e che sperava di trovarmi lì, temo che avrà una delusione, prima di qual si voglia svago devo finire questo trasloco, soprattutto perché praticamente non ho più niente da mettere. Ad un eventuale primo appuntamento non posso presentarmi né con una tuta né con la divisa della ‘Pâtisserie française’.
    Una volta sistemate le stampelle, apro la scatolone che ero sicura contenesse le magliette, ma che scopro pieno fino all’orlo di scarpe… e dove sono finite le magliette?
    Decido vigliaccamente che è ora di una pausa, perché ho i piedi a pezzi. Magari fare dolci non è stancante quanto tirare su un palazzo di dieci piani, ma stare qualcosa come undici ore in piedi è in ogni caso faticoso; forse ha ragione Pierre starsene in un laboratorio a sbirciare dentro ad un microscopio potrebbe essere davvero più leggero. Ripenso anche alla proposta di mia madre di darmi una mano a sistemare tutto, in uno slancio di autonomia le avevo risposto di no, ma forse un aiutino mi serve davvero. So che lei vuole venire qui soltanto per conoscere il mio coinquilino ed accertarsi che non sia un mio fidanzato che le ho tenuto nascosto – mia madre capisce sempre con chi ho un tresca in ballo – ma questa volta non ho niente da nascondere, tanto vale far sentire tranquilla anche lei.
    Mi dirigo pigramente in cucina alla ricerca di qualcosa di rilassante da bere, per poi mettermi a letto, fingendo di ignorare Pierre stravaccato sul divano che digita parole sul suo portatile. In realtà è impossibile ignorarlo, perché è bello come il sole.
    «Moi aussi, s’il vuos plaît.»
    Sospiro. «Cosa?»
    «Quello che prendi tu.» gli lancio un’occhiata stupita, trattandosi di lui è quasi una dichiarazione d’amore.
    Recupero un barattolo di camomilla solubile dal mio sportello e ne verso un cucchiaino in due bicchieri, magari gli da una calmata e magari la da anche a me.
    «Daniele è uscito?» domando aggiungendo acqua tiepida, perché ad un certo punto avevo sentito la porta chiudersi ed evidentemente non è stato Pierre ad andarsene.
    «Ah-ah.»
    Siamo di nuovo soli, quindi…
    Oh, ti prego, Tiziana, Sam o chiunque altro non fatemi fare figuracce… altre figuracce.
    Prendo i due bicchieri e lo raggiungo sul divano, lui mi aspetta con la mano sollevata ed il palmo aperto. «Merci.» mi ringrazia ancora prima che glielo abbia consegnato, senza staccare gli occhi dallo schermo. Ma io appoggio entrambe le camomille sul tavolinetto da caffè davanti a noi e gli afferro la mano per studiarla; è la stessa che si è scottato ieri, voglio quantificare il danno ora che non è più arrossata e gonfia. Non è un bello spettacolo, si è formata la vescica, ma ammetto che non è nemmeno la bruciatura peggiore che io abbia mai visto.
    Sbuffa. «Te l’ho detto che non è niente, vrais?»
    «Oui.» rispondo ridacchiando e porgendogli infine il suo bicchiere di camomilla; mi stringo nelle spalle recuperando anche il mio. «Ma visto che è colpa mia volevo controllare.» gli spiego.
    Lui mi studia appoggiando la testa all’indietro sullo schienale del divano e chiude il suo netbook. «Sembri stravolta, sai?»
    Sospiro, ammetto che ingenuamente per una manciata di secondi ho davvero pensato che potesse dirmi qualcosa di gentile. «Nemmeno tu sei gran ché.» mento spudoratamente.
    Poso le labbra sul bordo di vetro senza bere, sto riflettendo ed annusando l’odore dolce e rassicurante della camomilla, confidando nelle sue qualità terapeutiche. Sto cercando di quantificare il mio livello di consapevolezza del gomito di lui contro il mio, del ginocchio suo, scomposto, sbracato, che tocca la mia coscia giunta in modo fin troppo rigido. In una scala da uno a dieci in cui uno è ‘non me ne accorgo nemmeno’ e due ‘brucia’, io sono sul venti: autocombustione spontanea. Ingoio un lungo sorso alla ricerca della calma promessa sulla confezione.
    «Come mai non sei più uscita?» mi domanda di punto in bianco.
    Scuoto la testa rassegnata e sospiro. «Te lo ha detto Daniele?» sbadiglio.
    «Oui, non è il ragazzo a cui hai dato buca anche ieri?» chiede ancora.
    «Magari è un altro.» ribatto, curiosa di sapere da quando si interessa della mia vita fuori dalla cucina.
    «Non sei quel tipo di ragazza.» dice scuotendo la testa.
    Poso la camomilla, che si sta rivelando inutile - manderò una lettera di lamentele all’industria che la produce - e mi stringo un cuscino in grembo, mentre mi lascio cadere contro il bracciolo con la schiena. «E che tipo di ragazza sarei, sentiamo.» tra me e lui ora ci sono le mie gambe ripiegate, le guardiamo tutti e due e forse mi sbaglio, ma mi sa che stiamo anche pensando le stesse cose.
    Alza gli occhi sul mio viso. «Il tipo che si innamora giovane, si sposa perché non ha bisogno di cercare ancora e fa quattro figli.» non dico niente perché da come mi guarda mi sento autorizzata a pensare che sia una specie di complimento, comunque quest’uomo ha dei problemi seri con le frasi gentili. «Cosa te lo ha impedito?»
    Ok, basta.
    «Ho conosciuto Laura.»
    Lui sgrana gli occhi e, per tutti gli angeli del paradiso, arrossisce. «Come hai fatto?»
    Ridacchio sadicamente. «Il locale dove lavora è del fidanzato della mia migliore amica.»
    «Sam?» domanda per conferma.
    Annuisco e mi faccio più vicina a lui, ho trovato il tallone di Achille di Pierre. «Dai, racconta.» lo pungolo stringendomi le ginocchia al petto.
    «Ci siamo conosciuti, ci siamo piaciuti, baci, sesso etc. e ci siamo lasciati.»
    Metto su il broncio. «Che racconto deludente!» commento.
    Lui scrolla le spalle guardandomi. «Tutto le storie d’amore sono così.»
    Appoggio il mento sulle ginocchia un po’ imbronciata, so di avere ventiquattro anni, che il mio primo vero fidanzamento è stato un disastro, che soltanto dopo un anno e tre mesi ho iniziato a pensare di ricominciare a frequentare un ragazzo, eppure io ancora credo in quella favola del ‘vissero per sempre felici e contenti’. Non mi piace sentirmi sbattere in faccia il sogno infranto, nemmeno se sei il pasticcere francese più chiacchierato.
    Lui sbuffa fingendosi irritato, ma in realtà sembra piuttosto divertito, ed alza gli occhi al cielo, prima di passarmi un braccio sotto i polpacci ripiegati ed abbracciarli. «Tu es comme une fille.» ma stavolta non c’è quella nota seccata nella sua voce.
    Lo studio tirando indietro la testa, agitata da quella vicinanza improvvisa e realizzo una cosa incredibile. «Fuori dalla cucina sei quasi simpatico, sai?»
    Si stringe nelle spalle. «Il lavoro è lavoro.»
    «Devo ridipingere la camera.» inizio senza avere davvero coscienza di quello che sto per dire. «Mi aiuti mercoledì prossimo?»
    Lo fisso negli occhi ed ho quasi paura di un rifiuto, nemmeno gli avessi chiesto di sposarmi!
    «Oui.» dice semplicemente lui.
    Sorrido perché non c’è niente di cui avere paura.

Il giorno dopo sono arrivata puntuale al lavoro e sono qui con le mie formine ad intagliare biscotti. Pierre alle mie spalle sta facendo una torta di compleanno a tema ‘Fragolina Dolcecuore’, Eleonora gira per il locale con l’auricolare all’orecchio per contattare tutti i fornitori e Daniele si sente canticchiare dal bar. Canta ‘Teenage Dream’ di Katy Perry perché era la stessa canzone che fischiettavo io mentre mi vestivo. No, non gli è sfuggito affatto che alle cinque, dopo aver dormito poche ore e prima di andare a lavoro, fischiettassi tutta contenta, ma si è limitato a scrutarmi divertito senza indagare oltre.
    Insomma, oggi mi sembra quasi di essere una persona normale, che fa un lavoro normale con colleghi normali.
    Almeno finché Eleonora non sputa fuori un: «Ehi, ragazzina! Non si può stare qui!»
    Mi volto distogliendo l’attenzione dai miei biscotti giusto il tempo per vedere una ragazza bionda tuffarsi in lacrime tra le braccia di Pierre. Lui rimane per un secondo senza fiato, poi la stringe a sua volta con tanta intensità da farmi pensare che siano anni che non si vedono, anni che lui ha passato pensando a lei soltanto. La sento singhiozzare, farfugliando parole in francese immagino, le mani aggrappate alla sua schiena al suo camicie.
    Le bacia i capelli ad occhi chiusi, completamente ed inconfondibilmente perso; io deglutisco un groppo di qualcosa a cui non voglio dare un nome, prima di leggere sulle sua labbra un nome: «Claire.»

sono malefica tanto a lasciarvi così, eh?
dai però devo pur incentivare la vostra voglia di continuare a leggermi...
cmq, chi sarà questa Claire?
vi dico solo che si vedranno delle belle!
spero di trovarvi ancora qui nonostante la luuunga attesa!
alla prossima...
baci

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