Pâtisserie Française di fragolottina (/viewuser.php?uid=66427)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - I pasticceri non sono necessariamente dolci ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - come uno scoiattolo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - le conseguenze di una discussione ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - troppa fortuna tutta insieme ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - un abbraccio che si chiama disattenzione ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - autocombustione spontanea ***
Capitolo 1 *** PROLOGO - I pasticceri non sono necessariamente dolci ***
Patisserie française
fragolottina's time
c'entra qualcosa il fatto che poche sere fa ho guardato 'Ratatouille'? ovvimente si, ma vi prometto niente roditori.
dunque, non so che raccontarvi... mi piace pasticciare e nonostante il
fatto che mi sto laureando il lingue, non lo escluderei del tutto dal
mio futuro, potrei ancora farci o pensierino...
poi... ah, si! è la prima storia che ambiento in Italia, di
norma evito perchè... boh, non lo so... non abbiamo le
cheerleader, non abbiamo il football, non abbiamo le divise, i balli
scolastici, non abbiamo Harvard... tutte cose che poi in un modo o in
un altro nelle storie che scrivo servono... e poi sono cresciuta a
Buffy ed Una mamma per amica... mi viene spontaneo!
cmq, la città è inventata in ogni caso, la 'Pȃtisserie
(perchè quella a è così bruttina poveretta?)
Française' non esiste... se nel futuro la vedrete l'ho aperta io!
come sempre i personaggi me li invento... come sempre non esistono, ahimè, come sempre buona lettura!
PROLOGO
I pasticceri non sono necessariamente dolci
La stanza è piena di ragazze come me.
No,
probabilmente no, per tutto quel discorso che ogni persona nel mondo
è unica ed irripetibile e blablabla.
Ma in ogni
caso, ognuna di loro, come me, è qui dopo aver seguito un corso
di pasticceria più o meno accurato, aver fatto scarse esperienze
lavorative e, soprattutto, con la speranza di essere migliore delle
altre.
‘Pâtisserie française’ è famosa
per i suoi dolci, per il fatto che Paris Hilton compra qui la sua torta
di compleanno e per il suo pasticcere francese eccellente quanto
affascinante, si dice che sia anche velatamente arrogante, ma sono
sicura che siano solo chiacchiere. Non so perché associ il fare
dolci di mestiere ad una dolcezza interiore. Io non sono
particolarmente dolce e sono una pasticcera, ma forse è
perché io, in fondo, sono anche una biologa.
Perché
una biologa, laureata con cento e lode, dovrebbe cercare lavoro come
pasticcera? Semplice: perché il mondo, per quel che ne so, non
ha bisogno di biologi, almeno non l’Italia. Così dopo aver
sbattuto la testa a ventidue anni contro la dura realtà, ho
fatto delle ricerche scoprendo che in Italia mancavano mille e
trecento parrucchiere, mille estetiste, novecento fornai e pizzaioli,
ottocento sarte e cinquecento pasticcere. Da piccola, durante il
periodo di Carnevale, io e mia nonna facevamo insieme le frappe, quindi
ho fatto un corso di due anni di pasticceria.
Niente
illuminazioni, niente vocazioni, niente bisogno di espressione. Voglia
di indipendenza e bisogno di soldi per ottenerla.
Ad ogni modo,
una ragazza sta scappando via in lacrime e questa non è una
buona cosa, soprattutto perché io sono la prossima.
Una donna
poco più grande di me, deve essere circa sulla trentina,
consulta un foglio che immagino contenga la lista dei nostri nomi;
è carina anche se il tailleur che indossa ed i capelli raccolti
le danno un’aria un po’ rigida. A dirla tutta la
invecchiano anche un po’, non capisco perché alcune
ragazze sentano così tanto il bisogno di apparire più
adulte.
«Veronica Neri?» mi chiama.
Io mi alzo in piedi. «Sono io.»
Lei mi scruta con attenzione, poi sospira. «Te la senti?»
Sbatto le palpebre perplessa, non dovrei?
«Certo.» annuisco convinta.
«Pensi di riuscire a non piangere?» continua a domandare.
Faccio di nuovo di si con la testa timorosa.
«D’accordo.»
Si scosta dalla porta e mi fa cenno con la testa di entrare.
Quello che mi
si presenta davanti è un normalissimo ufficio, c’è
una scrivania con un pc portatile aperto e tre sedie. In un angolo una
pianta cerca di rendere più accogliente l’ambiente, ma non
può fare niente contro l’impressione di ‘stanza
colloqui messa su in tutta fretta’. Non è qualcosa in
particolare a trasmetterlo, è come se i muri fossero troppo
bianchi, troppo luminosi, tutto è troppo vuoto.
Il pasticcere è in piedi davanti ad una finestra con le mani intrecciate dietro la nuca.
«Veronica, lui è Pierre Mureau. Pierre, lei è Veronica Neri.»
Si gira
incrociando le braccia sul petto e studiandomi annoiato, mentre io mi
siedo. Ha i capelli biondi come il grano, divisi in fitti riccioli che
gli ricadono sul viso fin quasi a coprirgli gli occhi castani e grandi,
se li ravviva indietro con la mano. Non ha decisamente la tenuta da
pasticcere raffinato, indossa una camicia rossa a quadri scozzesi sopra
una maglietta ed un paio di jeans dall’aria consumata.
«Petite.» mormora. Ha le labbra lunghe e morbide, quasi femminili su un accenno di barba chiara.
«Io
sono Eleonora Bernardi, la proprietaria del locale.» mi porge
gentile la mano da seduta ed io la stringo. «Hai con te un
curriculum, vero?»
Frugo nella
mia borsa e ne estraggo uno, da quando sono attivamente impegnata nella
ricerca di un impiego stabile continuo a portarmene dietro una copia;
ho ottenuto un sacco di mini contratti mensili, grazie a
quest’accortezza, ma di certo stare due mesi in una gelateria ed
altri due in un bar non basta a raggiungere l’indipendenza
economica.
Lo porgo alla Bernardi, ma è la mano di Pierre ad intercettarlo.
Si siede sull’ultima sedia rimasta libera e lo studia strofinandosi il viso con una mano.
«Ventiquattro anni, sembri più giovane.»
commenta con un spiccato accento francese sull'italiano corretto.
«Grazie.» rispondo cercando di essere gentile.
«Non era un complimento.» ribatte secco senza guardarmi.
Iniziamo proprio bene.
La Bernardi accanto a lui si copre gli occhi con una
mano, ha l’aria sconfortata. «Sei laureata, mm…
pourquoi?»
«Volevo
studiare le scienze biologiche?» rispondo incerta, per quale
altro motivo dovrei essermi laureata?
Lui appoggia
con lentezza calcolata il mio curriculum sul tavolo e mi guarda.
«Vediamo se indovino…» inizia. «ti sei
laureata, hai visto che di biologi nel mondo ce n’erano anche
troppi, anche les plus brillantes di te ed hai ripiegato su un
lavoretto come la pasticceria in cerca di più de chance?»
«No?!» cosa c’è di male?
Lui scuote la testa. «Non… tu peux aller.»
«Davvero?» domando, non ho capito esattamente cosa sia successo, ma temo non sia andata bene.
«No.» mi risponde la donna, sbattendo il palmo aperto
sul mio curriculum, prima di recuperarlo e leggerlo con aria nervosa.
«Pierre, ne abbiamo viste, quante? Venticinque?»
«Trenta.» la corregge senza scomporsi, ignorando il suo fastidio.
«Appunto, forse dovresti rivedere i tuoi criteri di scelta.»
Lui brontola qualcosa senza guardarla dal suono vagamente polemico.
«Non fare il francese con me, sai parlare italiano alla perfezione.»
«Bien, che sai fare?» mi chiede con un sorriso ipocrita.
«Ho lavorato in una gelateria, mi occupavo delle torte gelato…»
«Ti serve una gelataia, Nora?» mi blocca senza il minimo rispetto.
«Ho un diploma di pasticcera, non sono una gelataia!» protesto guardandolo.
Lui sposta lo
sguardo su di me gelido. «Immagino, che tu faccia delle
crostatine fantastiche, ma qui siamo ad un livello un tantino
più alto dell’amatoriale.» mi deride come se fossi
una povera ragazzina scema.
Per un paio
di secondi rimango zitta e continuo a fissarlo, poi stizzita comincio a
rimestare nella borsa, sono sicura di avere con me il foglio di
giornale dove ho letto l’annuncio, perché avevo paura di
non riuscire a trovare il posto. Finalmente lo trovo e glielo piazzo
davanti al naso alzandomi in piedi. «’Cercasi apprendista
in possesso di diploma di formazione pasticcera. Disponibile per
eventuali corsi aggiuntivi. Full-time.’ Non c’è
scritto da nessuna parte che devo essere una professionista e
comunque…» mi sistemo meglio la borsa sulla spalla.
«le mie crostatine sono tutt’altro che amatoriali,
sbruffone.» concludo in bellezza, incrociando le braccia sul petto
e guardandolo dall’alto in basso. Ho dato dello sbruffone al
pasticcere di fiducia di Paris Hilton, ho appena buttato al vento la
possibilità di un ottimo lavoro e probabilmente
continuerò a fare tortine gelato per tutta la vita, ma al
diavolo! Se deve insultarmi se lo può tenere il lavoro e se ne
può tornare anche in Francia.
Eleonora
Bernardi si copre la bocca con una mano nascondendo una smorfia di
stupore e divertimento. «Ti ha dato dello sbruffone,
Pierre.»
Lui le lancia un’occhiataccia. «Oui, ho sentito.»
Faccio per
uscire a passo di carica, ma ci ripenso e mi blocco con una mano sul
pomello. «Non sei un genio, non sei più intelligente di
me, non sai fare calcoli matematici impossibili a mente, sai fare
torte! Con un po’ di esperienza in più diventerei brava
quanto te.» e poi tra l’altro. «Io sono
laureata!» esclamo come ricordarmelo all’improvviso.
«Io sono effettivamente più intelligente di te!»
Lui scoppia a
ridere, ma è un risata gelida, spietata che in ogni caso non
coinvolge gli occhi. «Non so proprio cosa farmene della tua
intelligenza, va via!»
Ho anche un altro colloquio da
fare. Certo, non è importante come la ‘Pâtisseries
Françaises’, ma almeno qui sembrano intenzionati a
rispettarmi.
È un
uomo a controllare il mio curriculum, è un fornaio che
però, oltre al pane, ha anche un bancone di dolci ed ha bisogno
di qualcuno che se ne occupi. Lo stipendio, per quanto io possa essere
ottimista, non sarà mai elevato quanto quello di un pasticceria
di lusso, è part-time, ma mi offrono un contratto di due anni.
Loro non fanno storie per la mia laurea, non si lamentano nel mio lavoro in gelateria, non…
Il mio
telefono squilla, lo recupero dalla mia borsa e controllo il display su
cui lampeggia un numero che non conosco. «Mi scusi.» dico
all’uomo che mi sta facendo il colloquio, alzandomi ed uscendo
dalla stanza per andare a rispondere fuori.
«Pronto?»
«Veronica Neri?» mi chiede una voce femminile.
«Si?» rispondo coprendomi l'altro
orecchio con la mano per attutire il frastuono delle macchine che
passano.
«Sono Eleonora Bernardi, vorrei venire da te a
fare merenda, sai per assaggiare qualcosa fatto da te.» spiega.
«Va bene, se vengo a casa tua alle cinque e mezza oggi
pomeriggio?»
Per un secondo rimango interdetta. «Ma mi ha cacciata.» protesto.
«Le ha
cacciate tutte, ma io qualcuno devo pur assumere.» si interrompe
per alcuni secondi. «E comunque, la proprietaria sono io non
lui.»
Dovrei dire
di no. Insomma, probabilmente non sono così brava da convincerla
con un tortino fatto su due piedi, ma anche se ci riuscissi, poi dovrei
lavorare con Mr. ‘Io sono più figo di te perché
parlo francese’ Mureau… anche se forse sarebbe più
appropriato dire Monsieur.
«Allora?»
«Alle cinque e mezza va bene.»
Ho mandato via i miei genitori
con una scusa, non mi piace avere intorno mia madre che sorveglia me e
la cucina, mentre sono ai fornelli; per lei sono ancora la bambina che
potrebbe scottarsi con una pentola bollente o con il forno. In
realtà mi capita molto più spesso di quanto dovrebbe e
questo giustifica la sua apprensione, ma, se devo fare un colloquio,
meglio non fare niente per insospettire la mia possibile datrice della
mia sbadataggine.
La Bernardi
è puntualissima, alle diciassette e trenta precise citofona nel
mio palazzo, alle diciassette e trentacinque è seduta su una
sedia della mia cucina e mi osserva armeggiare con farina, zucchero
eccetera.
Alle diciotto
e quindici il mio muffin alle gocce di cioccolata e glassato di rosa
è su un piattino davanti a lei. Lo solleva con due dita, lo
studia e lo morde, masticando con calma e riflettendo.
«Mi piace, anche se forse ci andava un altro po’ di zucchero.»
«Davvero?» domando mortificata.
Ma lei mi
sorride gentile. «Tranquilla, non è niente di
catastrofico.» prende un altro morso, mentre io le riempio una
tazza con il tè che avevo messo a preparare.
«Grazie.» dice bevendo.
«Di niente.»
«Dunque…» inizia posando quel che resta del
mio pasticcino – molto poco in realtà, buon segno –
sul piattino. «sei una buona candidata per quel posto, sei una
delle poche che non si è fatta mettere i piedi in testa da
Pierre, hai tutte le carte in regola ed i tuoi dolci sono
effettivamente buoni.»
«Lui non mi vuole.» le ricordo.
«Lui
vorrebbe un altro sé stesso e dio solo sa cosa non darei per
avercelo! Ma, ahimè, non esiste, dovrà
accontentarsi.» si stringe nelle spalle.
Io abbasso lo
sguardo mentre mi sfilo il grembiule dalla testa e lo appoggio sul
tavolo. «Non sono sicura di voler lavorare con lui e farmi
umiliare di continuo.»
Appoggia i
gomiti sul tavolo sostenendosi il viso con le mani. «Quando
l’ho assunto mio padre mi ha detto ‘L’unico modo per
andare d’accordo con quel ragazzo è essere il suo
capo’.» sorride. «Non ti invidio proprio. Ma tu vuoi
questo lavoro, perché non sei stupida e sai che tre mesi alla
‘Pâtisserie Française’ ti apriranno un sacco
di porte.»
«Mi offre un contratto di soli tre mesi?»
Lei scoppia a
ridere. «Io sono un’ottimista!» esclama. «Te ne
offro uno a tempo indeterminato, tre mesi è la media di tempo
che resistono gli aiuto pasticceri di Pierre.»
«Perché se ne vanno?» chiedo curiosa e
particolarmente interessata, il lavoro del fornaio non è come
questo ed è part-time, ma è un contratto di due anni.
La Bernardi sbatte le palpebre eloquente. «Secondo te?»
La fisso ancora per un paio di secondi, poi abbasso lo sguardo. «Oh…» commento soltanto.
«Vedi,
non devi prenderla sul personale, non è che tu gli sia meno
simpatica del resto del mondo…» cerca di spiegarmi con
l'espressione tipica di chi non sa quali parole usare per rendere
migliore una situazione, probabilmente perché non ce ne sono.
«è solo che lui ci odia tutti indifferentemente. È
troppo bravo e troppo consapevole di esserlo.»
«Davvero, è così bravo?»
Lei fa un
sorrisetto, poi si volta a frugare nella sua borsa estraendone una
busta di carta con il logo della sua pasticceria e sbircia
all’interno. «Avanti, assaggiane uno.» mi offre
facendomi l’occhiolino e porgendomi il sacchetto.
Incerta,
allungo la mano e ne estraggo un biscotto al burro. Semplicissimo,
pastafrolla e gocce di cioccolato in un stampino a forma di cuore, non
ci vuole assolutamente un corso di pasticceria per saperne fare. Lo
mordo e lo mastico una volta.
«Cazzo.» mi scappa mentre riprendo a masticare
studiando senza capire il frollino, ma che diavolo ci ha messo?
La Bernardi ridacchia. «Si, è davvero così bravo.»
È la
cosa più buona che io abbia mai assaggiato, ne avrò
mangiati di biscotti in vita mia? Ho assaggiato anche quelli del mio
insegnante al corso, ma questi sono esaltanti, sono fantastici.
«Che c’è dentro?» domando, perché devo
assolutamente avere la ricetta e provare a farne mille.
«Nessuno lo sa.» scrolla le spalle. «Ha un
quaderno dove riscrive tutte le ricette secondo una sua interpretazione
molto personale e molto giusta. E quel quaderno lo tiene probabilmente
in una cassetta di sicurezza.»
Il segreto di
Pierre Mureau è semplicemente in un quaderno di ricette? Se io
mettessi le mani su quel quaderno riuscirei ad essere brava come lui?
«Che io
sappia non l’ha mai visto nessuno, ma se vieni a lavorare da
me…» insinua. «potresti provare a conquistarti i
suoi favori e convincerlo a lasciarti dare una sbirciata.»
Questa si,
che è una bella tentazione. La guardo, poi guardo il biscotto
che mi ha offerto ed il mio muffin che non potrebbe mai tenere il
confronto.
«Qualcuno è mai riuscito a conquistare i suoi favori?» le domando.
«No, ma
magari tu farai la differenza.» si alza dalla sedia e si infila
di nuovo il cappotto, pronta per andarsene. «Pensaci, io ti
preparo il contratto, domani vieni in pasticceria e mi dai la tua
risposta, d’accordo?»
Annuisco e la
accompagno alla porta, consapevole che c’è soltanto una
risposta che io possa dare.
e qui finisce il prologo...
spero che abbiate trovato la mia idea abbastanza interessante da essere
arrivate fin qui e voler leggere anche un'altro capitolo...
non so proprio se ci sono altre storie così, se fosse mi scuso e mi rimetto ad un eventuale giudizio...
se vi va di farmi sapere che ve ne pare mi farete felice!
bacizuccherosi
ps: mi sto prodigando per aggioranre anche tutte le altre storie in corso... pian, pianino...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 1 - come uno scoiattolo ***
Patisserie française
fragolottina's time
primo capitolo...
mm, qualcuno interessato alla storia c'è, nessuno mi ha accusata di plagio... si prosegue signore e signori!
buona lettura, ci vediamo più giù!
CAPITOLO 1
Come uno scoiattolo
La ‘Pâtisseries
Françaises’ è in centro. Non è un locale
molto grande, o almeno quello riservato ai clienti non lo è.
L’ho
sempre trovata carinissima e colorata, i muri sono rosa, mentre le
mattonelle del pavimento verde menta; i due tavoli, con quattro sedie
ciascuno, sono bianchi e pieni di ghirigori, mi ricordano i mobili per
esterni che si vedono spesso negli sceneggiati in costume. Proprio
davanti all’entrata c’è la vetrina, refrigerante in
basso ed a temperatura ambiente in alto, stracolma di cose che, dopo
quel biscotto, vorrei assaggiare.
Vicino alla
vetrina, leggermente a destra rispetto all’ingresso, è
sistemato un bancone con davanti tre sgabelli imbottiti bianchi e rosa
e dietro le macchinette per il caffè.
Pierre esce
dalla porta munita di oblò che dà alla cucina sul retro
canticchiando un motivo che non conosco, la apre con la schiena, le
mani occupate a tenere una torta di compleanno piena di fiori colorati
fatti con il marzapane. Per alcuni secondi rimango troppo incantata ad
osservarla, evidentemente a Pierre Mureau non basta fare dolci buoni,
devono essere anche belli. Faccio una smorfia ricordando che io non
sono molto brava nelle decorazioni che non siano strettamente
convenzionali. Posa la torta nella vetrina e poi guarda me, come se non
fosse in grado di prestare attenzione a niente che non siano i dolci,
quando ha a che fare con loro. Oggi sembra molto più
professionale: ha una divisa bianca – macchiata qui e lì
– con il logo della pasticceria in rosa sul petto a sinistra ed
una cuffietta che gli tiene indietro i capelli, si è anche
rasato.
E non sembra esattamente felice di vedermi.
«Spero
di cuore che tu sia qui come cliente.» dice distogliendo lo
sguardo dal mio per togliere una macchia di cioccolata che era rimasta
sul vassoio. «Potrei anche offrirti la colazione se mi giuri che
poi te ne andrai e non tornerai più.» mi offre.
Sorrido
sedendomi su uno sgabello e scuoto contenta la testa. «Ho
appuntamento con la signora Bernardi, pare che il mio muffin non fosse
così amatoriale.» gli annuncio soddisfatta.
Lui solleva
le sopracciglia lanciandomi un’occhiata, poi grugnisce e torna in
cucina. Guardo per alcuni secondi la porta, che continua ad oscillare
perché l’ha attraversata con troppa foga, poi giro intorno
al bancone e lo seguo.
Dall’altra parte non c’è niente di colorato, il
pavimento è bianco e tutti i piani e gli elettrodomestici sono
di lucido acciaio, sembra quasi una sala operatoria. Osservo ammirata
un forno illuminato dall’interno, dove, in uno stampo quadrato,
gira una torta di mele in modo che la cottura sia uniforme.
«Ehi!» mi chiama. «Non puoi stare qui.» lo
cerco con gli occhi, ma non lo trovo, così mi avventuro in quel
labirinto, chiedendomi se non si senta solo in quella cucina enorme. Lo
trovo fermo davanti ai fornelli dove, armato di padella e spatola, sta
facendo rosolare nel burro quello che sembra un toast; alza gli occhi
soltanto per sbirciarmi, indispettito, probabilmente, che sia arrivata
fin lì. «Hai sentito, no? Fuori di qui!» mi intima.
«Cos’è quello?» chiedo curiosa.
Lui sospira
spazientito. «A te che sembra?» mi domanda con tutta
l’aria di chi non è in vena di fare conversazione.
«Un toast.»
«Wow.» mi guarda ad occhi sgranati fingendosi davvero
impressionato. «Come sei perspicace!» esclama sarcastico.
«Perché un toast?»
«Perché ho fame, devo avere la tua firma per mangiare?» ribatte irritato.
Sbuffo
appoggiandomi con la schiena ad un forno spento. «Guarda, che ho
intenzione di firmare il contratto della Bernardi, non ci conviene
comportarci in modo civile?» mica dobbiamo andare per forza
d’amore e d’accordo, ma se collaborassimo in modo
professionale sarebbe tutto più semplice.
«No.» risponde solo, travasando il suo toast su un piatto e
tagliandolo a metà con un coltello. Ne prende un pezzo e lo
addenta, poi mi guarda. «Non mi piaci, probabilmente sei quella
che mi è piaciuta moins e non sognare, Nora ti vuole solo
perché hai dato dello sbruffone a me.»
«Addirittura?» borbotto per non restare zitta, questione di
testardaggine, non voglio che lui si creda in grado di zittirmi.
«Oui.» è la sua unica risposta con un sorriso.
«E
c’è un motivo preciso oppure semplicemente non mi credi
alla tua altezza?» chiedo ironica.
Lui ride
mangiando un altro pezzo di toast, mentre con l’altra mano rompe
due uova in una terrina. «Bien évidemment, tu non sei alla
mia altezza. Ma, nello specifico, non mi piaci perché sei convinta
che fare la pasticcera sia certamente più facile che fare la
biologa.» sgrana gli occhi. «Cosa possono tre anni di
università contro un paio di teglie e torte, n’est-ce pas?
Tout le monde la pensa così, ma tu ti presenti come pasticcera,
dovresti saperlo che fare torte, stare ore in piedi, mangiare toast al
volo perché il n’y a pas de temps per un pranzo normale
non è poi tanto più comodo di sbirciare dentro ad un
microscopio.» lo guardo recuperare una forchetta ed iniziare a
sbattere le uova. «Io sono un artista perché so che per
trovare qualcosa di cucinato migliore del mio bisogna andare a
Marsiglia…»
Marsiglia?
«Tu ti
senti furba perché hai ripiegato su un mestiere che ti da
maggiori possibilità lavorative, senza chiederti se fossi in
grado di fare la pasticciera.»
Continuo ad
osservarlo finché un: «Bambini? State giocando?»
devia la mia attenzione. Dopo poco uno scalpiccio di tacchi invade la
cucina, preannunciando l’entrata in scena della Bernardi.
Rispetto al giorno prima è più informale, niente rigide
acconciature o tailleur troppo rigorosi; ha un paio di jeans, un
maglione di lana morbida ed i capelli sono raccolti in parte con un
fermaglio. La prima volta che l’ho vista mi sono sembrati solo
scuri, ma adesso scopro che hanno dei riflessi sul rosso. Tra le mani
ha un bicchiere di carta del Mc Donald’s di quelli che usano per
il caffè.
Sospirando
guarda Pierre, ancora intento a sbattere le uova ad occhi bassi.
«Bene, vedo che state facendo amicizia!» commenta
sarcastica.
Lui borbotta qualcosa in francese, ma non le risponde.
«Vieni
con me.» mi invita superandomi e facendomi strada in un piccolo
studio ricavato da una parte di cucina. È minuscolo,
c’entra appena una scrivania con una sedia dietro ed una davanti,
la Bernardi è costretta a salire sul tavolo per raggiungere
l’altra parte e lo fa con strana abitudine. Appoggia il bicchiere
sul tavolo e tira fuori dalla borsa enorme e dall’aria costosa,
che porta appesa al braccio, una cartellina rosa pallido ed un netbook
microscopico; apre la cartellina e sfoglia sapientemente alcuni
documenti finché, dopo averlo studiato per essere sicura di non
sbagliare, non mi porge un foglio stampato. «Dai
un’occhiata se c’è qualcosa che non va bene.»
si appoggia allo schienale della sedia prendendo un sorso dal suo
bicchiere. «Non credo, è un contratto standard senza
troppe pretese, ma controlla.»
Leggo le prime due righe, poi la guardo. «Non le ho…»
«Oh, ti
prego, non darmi del lei…» si lamenta interrompendomi.
«Ho trentuno anni, so da sola dell’inesorabile scorrere del
tempo, so che mi stanno venendo le rughe e che il mio bel corpicino
d’ora in poi non può fare altro che rovinarsi. Non
è carino ricordarmi quanto sei più fresca e giovane di
me.»
La studio
scettica, trentuno anni o no, Eleonora Bernardi è una donna
affascinante ed elegante. Certo, non può sembrare una
adolescente, ma di rughe sul suo viso non ne vedo traccia ed il suo
corpo snello e slanciato è tutt’altro che rovinato.
«Ok.» acconsento comunque. «Non ti ho detto che ho
intenzione di accettare.»
Lei ride.
«Ma Pierre era già infuriato. Ti avrebbe offerto la
colazione tutto contento se non avessi avuto intenzione di
restare.»
«Lo conosci bene.» commento.
Annuisce.
«Eravamo tutti e due molto giovani quando abbiamo iniziato a
collaborare.» sorride, persa nei propri ricordi, poi torna su di
me. «Leggi.» mi ordina controllando l’orologio.
«Tra poco ci sarà un bel casino di là, è
quasi ora di merenda.»
Mi concentro
sul contratto e lo scorro velocemente con gli occhi per essere sicura
che tutto quello promesso sull’annuncio venga mantenuto. Non ci
sono indicazioni delle effettive ore lavorative, il giorno di chiusura
è il mercoledì, lo stipendio mensile è di mille
euro. Cerco di mantenere un’espressione neutra per non fare
intendere di non aver mai avuto una paga così alta, cielo, al
forno me ne avrebbero dati appena quattrocento! Vorrei allungarmi oltre
la scrivania ed abbracciarla, ma mi costringo a darmi un contegno e
stare ferma. Per non parlare poi di quante cose potrei imparare da
Pierre! C’è anche la clausola che regola gli eventuali
corsi di aggiornamento, viaggio e spese di iscrizioni sono pagate, ma
non vitto ed alloggio.
Oh mio dio,
ho anche quindici giorni di ferie da gestire a mia discrezione!
Purché avvisi la proprietaria con almeno quindici giorni di
anticipo.
Questo è il contratto dei miei sogni…
«Tutto in ordine?» mi chiede.
«Assolutamente, puoi prestarmi una penna?» mi indica con un
cenno del capo il portapenne a forma di Sant’Honoré sulla
scrivania, pesco una biro e firmo per poi riconsegnarglielo.
Lei lo ripone
nella cartellina, poi apre un cassetto.«Cose che devi sapere e
che non ci sono scritte… dunque… ah, si!» esclama
improvvisamente, rimestando nello scomparto. «Mattino e sera
viene anche un altro ragazzo a darci una mano. La mattina aiuta me a
sfoltire i clienti che vengono a fare colazione –
c’è sempre una bella ressa. Mentre la sera mi aiuta a
pulire e chiudere. È un bravo ragazzo ed ha voglia di lavorare,
nel caso ti serva qualcosa ed io non ci sono puoi tranquillamente
chiedere a lui. Se aspetti lo conoscerai oggi pomeriggio.»
«Ok…» mormoro, tutto sommato felice che lei e
Monsieur ‘Io sono più figo di te perché parlo
francese’ non siano i miei unici colleghi.
«Non ho
una divisa ancora, ma l’ho già ordinata.» mi porge
un grembiule. «Per gli orari e cose del genere dovrai metterti
d’accordo con Pierre.»
Mugugno, incapace di resistere.
«Lo so,
lo so.» acconsente. «Cerca di sopportarlo, è come un
animaletto selvatico: cerca di non spaventarlo e si lascerà
accarezzare.» mi consiglia.
«Da te si fa accarezzare?» le chiedo, tanto per sapere quanto dovrò sopportare.
Lei sorride e
si alza aspettando che lo faccia anche io per permetterle di
scavalcare di nuovo la scrivania. «No…» mi lancia
un’occhiata divertita. «Ma io sono il suo capo.» esce
dallo studio. «Puoi lasciare le tue cose qui se ti va, usa questo
pomeriggio per familiarizzare con l’ambiente.» mi
suggerisce quando è già fuori.
Tolgo la
giacca e la lascio appoggiata, insieme alla borsa, sulla sedia dove
poco prima ero seduta; srotolo il grembiule e mi faccio passare il
laccio della pettorina dietro il collo, poi mi annodo i nastri della
vita dietro la schiena; prendo l’elastico, che porto sempre al
polso, e mi intreccio i capelli, in modo da non essere di fastidio e
che non finiscano in mezzo all’impasto dei biscotti. Una volta
pronta mi fermo: devo parlare con Pierre per chiedergli
dell’orario, devo cercare di non spaventarlo perché
è come uno scoiattolo e non si farà mai accarezzare
altrimenti, devo attingere ad ogni mia riserva di pazienza.
Non faccio
nemmeno in tempo ad uscire dallo studio e chiudermi con delicatezza la
porta alle spalle – fosse sensibile anche ai rumori troppo forti
– che…
«Hai i
capelli troppo lunghi.» mi accoglie, mentre, mangiando
l’ultimo boccone del suo toast, frigge alcune ciambelline.
«Se me li trovo per la cucina te li taglio.» mi minaccia
sempre senza guardarmi.
«Potrebbero essere i tuoi… comunque Ele…»
Si volta a
fissarmi come se l’avessi orribilmente insultato, ha
un’espressione così oltraggiata da farmi morire le parole
sulle labbra. «Sei mora, io sono biondo.» sputa velenoso.
«Nel dubbio faremo il test del DNA e te li taglio.»
«Eleono…»
«E
quella maglia è di lana.» mi interrompe ancora, tornando a
guardare le sue ciambelline. «Potrebbe perdere qualche pelo, sta
lontana da ogni mio impasto.»
Tutta la
pazienza del mondo, anche se l’avessi accumulata per ventiquattro
anni, non sarebbe sufficiente.
Recupero una
mela da una cassetta lì vicina e gliela lancio in un moto di
stizza, colpendolo alla schiena. «Eleonora ha detto che devo
mettermi d’accordo con te per l’orario.» riesco a
gridare infine.
Lui mi ignora
completamente. Gira la ciambellina, la toglie dall’olio dopo poco
e spegne il fornello con una calma che gli invidio profondamente; si
volta, incrocia le braccia sul petto e mi fissa. «Si comincia
tutte le mattine alle sei per le colazioni, se non ci sono ordini
particolari si finisce alle dodici e trenta e si torna alle quattordici
e trenta. Altrimenti si resta qui fino alla sera alle sette.» fa
un passo verso di me ed è abbastanza alto da farmi sentire
completamente sovrastata, anche perché il suo ego è
talmente enorme che potrebbe schiacciarmi senza problemi. «Non
farlo mai più.» mi dice secco, mentre io mi accorgo che
sotto tutta una serie di odori – dalla vaniglia alla cioccolata,
dall’arancia al liquore – profuma di dopobarba.
La sera sono al ‘Black
Star’, il locale di Sam Ruffini, fidanzato della mia migliore
amica, a sfogarmi con la sopracitata. In realtà non le sto
raccontando niente, mi lascio semplicemente rintronare dalla musica,
tipicamente alta di un locale notturno, e dalla birra gratis,
perché la migliore amica di Tiziana non può mica pagare.
Il pomeriggio
– solo due ore, se ci penso e se penso a cosa mi aspetta nel
futuro mi sembra di impazzire – è stato un delirio: ho
l’ordine di non violare mai la distanza di tre passi tra me, lui
e qualsiasi cosa stia facendo; non posso toccare il forno per non so
quale follia, legata al fatto che i forni francesi, secondo lui,
cuociono meglio di quelli italiani; guai a chiedere delucidazioni su
qualche impasto e, avant tout, non devo pretendere di cucinare. Non finché lui non avrà deciso che non gli rovinerò la fama.
Per ora
è fortunato che non gli abbia ancora rovinato la faccia a suon
di schiaffi. Ha il potere di istigarmi alla violenza.
«Soltanto il primo giorno, Veronica, vedrai che domani
andrà meglio.» cerca di sollevarmi Tiziana.
«Non
capisci, quello è pazzo!» se penso che domani poi
dovrò starci tutto il giorno, ho una crisi di panico. Sto
seriamente prendendo in considerazione l’eventualità di
infiltrarmi nello studio di Eleonora e strappare il contratto che ho
firmato: mille euro non sono un risarcimento sufficiente per
sopportarlo.
La mia amica
mi allunga una mano per strofinarmi la schiena affettuosa. «Non
pensarci. Che hanno detto i tuoi?»
«Sono
contenti.» più o meno, per loro sono un po’ una
delusione, si aspettavano che diventassi medico, poi biologa, poi si
sono dovuti arrendere all’idea che il mio destino era un tantino
più concreto. Ma comunque, mi sono sembrati soddisfatti che
abbia trovato un buon impiego ben retribuito.
Samuele si
ferma di fronte a noi per azionare la lavastoviglie con il primo carico
di bicchieri della serata. «Ciao.» mi saluta.
«Allora, come è andato il primo giorno?» mi domanda,
immagino che sia stata Tiziana a parlargli del mio colloquio.
«Sto
decidendo se farlo diventare anche l’ultimo.» mormoro
appoggiando il mento sulle mie braccia incrociate sul bancone.
«Sarà pure la ‘Pâtisserie
Française’, ma sfido chiunque a lavorarci.»
sovrappensiero mi trovo a chiedermi come faccia l’altro ragazzo
di cui mi ha parlato Eleonora – e che non ho incontrato – a
reggere, dovrei chiederglielo.
«Lavori con Pierre.»
Sollevo gli
occhi per osservarlo. «Lo conosci?» Sam è un bel
ragazzo, un po’ eccentrico con i capelli neri e blu e
l’aria da bohemien, ma immagino che sia parte del suo fascino. Da
parte sua, Tiziana è la ragazza più ordinaria del mondo.
Siamo andate al liceo insieme e, anche se abbiamo frequentato due
università diverse, siamo riuscite a rimanere unite; si è
laureata in Economia due anni fa ed ora lavora come commessa in un
negozio di abbigliamento in centro. Ora che ci penso non siamo molto
lontane, in caso di bisogno potrei correre a chiederle aiuto.
«Un
po’, per qualche tempo è uscito con Laura.» mi
indica con un cenno del capo una cameriera bionda con i capelli corti.
Sgrano gli occhi davanti a quella rivelazione, tirandomi su. «Davvero?»
«Ah-ah… forse anche più di un anno.»
«E
riusciva a sopportarlo?» gli chiedo sinceramente curiosa, pensare
a quel despota come un ragazzo in grado di tener su una relazione e
– oh, mio dio! – amare sconvolge ogni mio equilibrio.
Sam scoppia a ridere. «Credo di si, anzi, da come mi raccontava erano felici!»
«Dai,
Vera.» mi deride Tiziana dandomi una spintarella sul braccio.
«Forse stai esagerando, insomma alla fine sarà un uomo
come tanti altri, no? Sarete soltanto partiti con il piede
sbagliato!» cerca di farmi coraggio.
Io la osservo
per un lungo istante, poi allungo una mano dandole un affettuoso
buffetto sulla testa. «Così dolce e così
ingenua.»
vi dico già da
subito che il personaggio forte di questa storia sarà il forno
francese di Pierre... ricordatevelo, presto diventerà
importante...
dunque, immagino di non dovervi dire che a me Monsieur 'Io sono
più figo di te perchè sono francese' Mureau piace... dai,
infondo è come uno scoiattolo selvatico! vogliategli un pochino
di bene, anche se ci fa saltare i nervi!
chiunque voglia farmi sapere che ne pensa sarà il benvenuto!
baci
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 2 - le conseguenze di una discussione ***
Patisserie française
fragolottina's time
allora prima che inizio a
sproloquiare, che poi non si sa dove vado a parare, ringrazio tutte
quelle che hanno inserito questa storia nelle preferite, ricordate,
seguite e che mi hanno recinsito: io scrivo per far piacere a me, ma se
facendolo faccio piacere anche a voi è molto meglio!
mi avete resa strafelice!
poi, questo capitolo com'è? ...decisamente non scontato,
suppongo... relativamente lungo (guardate la barretta quant'è
piccina!), sicuramente divertente...
va a finire che vi dico qualcosa, quindi a più giù...
ps. stamattina ho fatto il compito di francese (tanto per rimanere in
tema) quindi sono un tantino rintronata, se ci sono degli errori che
non ho visto mi scuso... se li vedete voi fatemi un appunto che li
correggo!
CAPITOLO 2
Le conseguenze di una discussione
«Sei in ritardo.»
Le sei sono un’ora infida, un’ora infida e fredda. Cielo, è ancora buio.
Lo guardo
aprire il negozio in quel momento, bello come il sole che non è
ancora sorto, dopo avere parcheggiato il mio scooter – non ho la
macchina – dietro il locale. Per alcuni secondi rimango
semplicemente a fissarlo, in attesa che le mie sinapsi addormentate
trovino la risposta giusta da dargli. «No, non è
vero.» commento infine, perché, se lui sta aprendo adesso,
non posso essere in ritardo. «Tu sei appena arrivato.» io
non ero mica tanto bella stamattina, con occhiaie e segni del cuscino.
Magari non dorme. Oppure dorme in piedi. Forse in una bara con le
braccia incrociate.
«E sono
in ritardo.» mi lancia un’occhiata terribilmente lucida,
sono quasi invidiosa. «Quindi lo sei anche tu.» si rimette
un mazzo di chiavi tintinnanti nella tasca della giacca e mi apre la
porta. «Mademoiselle.»
Assottiglio
lo sguardo poi entro; non appena varco la porta, ormai sveglia grazie
al suo essere intrattabile anche la mattina alle sei, incrocio le
braccia sul petto e lo osservo. «Sei in ritardo.» lo
scimmiotto.
Lui ridacchia entrando e chiudendosi la porta alle spalle.
«Pierre, aspetta.» urla qualcuno correndo fin davanti alla
porta e bussando a mano aperta. «Ho scordato le chiavi.»
È un
ragazzo dall’aria adulta, non riesco a situarlo esattamente in un
fascia di età, ma immagino sia sulla trentina. Lui torna
indietro e gli apre, annoiato, qualsiasi cosa faccia sembra che si
annoi a morte. Anche quando fa sesso, probabilmente, Laura rimane una
grande incognita. «Nora?» gli domanda.
«Sta
ancora dormendo.» ride mordendosi il labbro. «Diciamo che
abbiamo fatto le ore piccole…»
Pierre sbuffa senza avere la minima idea di presentarmi. «Diciamo che non te l’ho chiesto.»
«Tu sei
la nuova ragazza?» chiede direttamente a me, aggirando una
situazione sociale che Pierre non ha intenzione di rispettare.
Annuisco e sorrido. «Mi chiamo Veronica.»
Anche lui
sorride, non è esattamente bello, insomma, non quanto Pierre:
è magrissimo, alto, troppo dinoccolato ed ha il viso ed i
lineamenti troppo appuntiti per i miei gusti, ma sembra esattamente il
tipo di ragazzo in grado di prenderti nonostante l’aspetto.
«Ciao, Veronica, io sono Daniele.» mi saluta.
«Pierre, non me la strapazzare, è così
carina.»
Lui mi
guarda, mi studia tutta, sono sicura che se avessi qualcosa che non va
– dai trigliceridi alti ad un’ernia – a questo punto
lui lo saprebbe. Fa una smorfia. «È carina, ma è un
po’ inutile.»
Sospiro
studiandolo. «Guarda che io sono qui.» poteva dire che sono
carina evitando di aggiungere altro, no? Evidentemente no.
«Oui,
oui… certo.» mi afferra per un braccio tirandomi prima
dietro il bancone, poi in cucina. «Appena puoi ci fai due
caffè francesi?» urla dall’altra parte senza
lasciarmi.
Lo seguo come
un palloncino legato al polso di un bambino fino allo studio della
Bernardi. Come lei, scavalca la scrivania e si avvicina ad una
scatoletta, che ha tutta l’aria di essere il contatore della
corrente, mentre si scioglie dal collo una sciarpa verde muschio e si
sfila la giacca. E la maglietta.
Ed io volevo
chiedergli come diavolo è fatto un caffè francese, ma,
trovandomi a fissare la sua schiena chiara e nuda, mi esce solo un:
«Pierre?» imbarazzato… ed anche un po’
ammirato.
Lui mi ignora
tornando dalla mia parte, poi in cucina. Io resto perplessa e
pietrificata, guardando la maglietta che è rimasta sulla
scrivania di Eleonora e riflettendo sul fatto che, magari sono stanca
ed ho visto male, ma… si stava spogliando?
Quando
rientra nella stanzetta si sta slacciando i jeans, mi lancia
un’occhiata da sotto i riccioli che gli ricadono sulla fronte e
sbuffa. «Sei ancora così?» mi chiede superandomi e
fermandosi di schiena. «C’è soltanto questo posto
per cambiarsi e la mattina di tempo da perdere per fare i pudichi non
ce n’è.» quando si abbassa i pantaloni io mi giro ad
occhi sgranati. Non che io sia pudica, però… meno male
che non devo svestirmi.
Rincuorata
dal fatto che in fondo io devo semplicemente infilarmi un grembiule,
mi tolgo la giacca, poi sciarpa, guanti ed inizio ad intrecciarmi i
capelli.
Lo sento
trafficare con qualcosa che sferraglia, probabilmente una cintura, poi
immobilizzarsi. Cerco di pensare a cosa non gli vada bene –
perché è scontato che non gli vada bene qualcosa –
visto che ho perfino messo una maglia di caldo cotone senza pelucchi,
quando per fortuna mi illumina.
«Dovresti proprio tagliarti i capelli.»
Eccolo là, doveva esserci qualcosa.
«I
patti sono che se ne trovi uno in giro li taglio, altrimenti no.»
gli ricordo, pronta prima di lui, che si infila una fascia, poi una
cuffietta che gli nasconde tutti i ricci biondi, il che è un
vero peccato.
Si stiracchia, sbadiglia, fa un paio di distensioni in avanti. «Bien.» conclude.
Torniamo in
cucina dove è tutto quanto acceso ed i forni stanno già
riscaldando l’ambiente.
«Non
lavoro la notte, quindi la mattina si fanno gli impasti perché
sia tutto pronto il pomeriggio ed il pomeriggio per la mattina
dopo.» lo osservo avvicinarsi al frigo e tirarne fuori alcune
scodelle. «Tecnicamente con te dovrei impiegare meno tempo, ma
sono sicuro che per correggere i tuoi errori me ne ruberai un
sacco…» è davvero confortante il fatto che abbia
sempre una parola tenera per me. «quindi l’orario mattutino
potrebbe cambiare.»
Distribuisce
tutto quello che ha preso sui vari piani di lavoro poi mi si avvicina,
mi prende una mano mentre con l’altra mi solleva il viso in modo
che possa guardarlo negli occhi. Per un secondo rimango vagamente
scossa – un tantino più di vagamente – e cerco di
ritrovare lucidità sbattendo le palpebre. «Veronica, sto
per darti il tuo primo incarico.» dice piano fissandomi, per
essere un ragazzo ha le ciglia decisamente lunghe e folte.
«O-ok.» balbetto incerta.
«Ma devo avere la tua parola che tu ti impegnerai al massimo.»
Mi rendo
conto che il cuore mi sta battendo molto più forte del normale,
probabilmente sono eccitata all’idea di fare qualcosa per Pierre
Mureau, o magari è un altro tipo di emozione. Mi schiarisco la
voce obbligandomi a fare pensieri razionali e lucidi: è per il
lavoro ovviamente. «Certo, che devo fare?» gli chiedo
impegnandomi al massimo per mantenere un tono di voce neutro.
«Monta la panna.» dice serio.
Incantesimo rotto.
«Come?» chiedo incredula mentre si allontana e mi tira
fuori una frusta elettrica da uno sportello.
«Sai
farlo, no?» fruga tra le pentole finché non trova una
bacinella ed un paio di pacchi di panna da montare. «Se riesci a
farlo bene, domani ti potrei anche far sbattere le uova.» e non
è affatto ironico.
Io vorrei lanciargliele le uova.
«Caffè!» sentiamo urlare Daniele prima che si
consumi un delitto, ahimè, inevitabile.
Pierre mi fa un cenno con la testa verso il bar. «Vola!» mi ordina.
Io sbuffo con
i pugni stretti lungo i fianchi e mi dirigo indispettita verso il
davanti del locale. Cioè, quello mi fa montare la panna, anche
una bambina di tredici anni lo sa fare! Si prende un cartoncino di
panna da cucina, si versa in una ciotola o nel comparto di un
frullatore, e, a seconda della scelta, si monta con la frusta o si
spinge il tasto ‘on’.
Quando mi
vede palesemente irritata, infastidita e con gli occhi illuminati da
immagini di sangue, Daniele scoppia a ridere porgendomi due
bicchierini di polistirolo. Si allunga sul bancone e mi posa le mani
sulle spalle. «Calma, bambina…» mi suggerisce.
«calma, pensa a cosa rilassanti.»
Al momento mi
sento così… grrr! Che non c’è niente in
grado di potermi rilassare. «Tipo il suo sangue al posto della
marmellata di mirtilli?!» domando, meno sarcastica di quanto
dovrei, sospetto. «Tu da quanto sei qui?» gli chiedo, alla
ricerca di un motivo qualsiasi per non tornare di là
immediatamente.
Lui si volta
e fruga nelle macchinette. «Quattro anni.» indossa una
maglia verde menta come le mattonelle, con sopra un grembiule rosa come
i muri; Eleonora è stata decisamente fantasiosa e poco attenta
ad eventuali imbarazzi nello scegliere la loro divisa.
Quando torna
a guardarmi credo di avere gli occhi fuori dalle orbite, perché
lui ridacchia. «Lo sopporti da quattro anni?!» chiedo
completamente ed irrimediabilmente incredula.
Lui si
stringe nelle spalle con noncuranza. «Se non invadi i suoi spazi,
non è così male.»
Lo osservo
sconsolata per alcuni secondi, poi decido che è ora di tornare
all’inferno: io sono pagata per invadere i suoi spazi.
Ci sono tre
crostate a cuocere in un forno, diverse teglie di biscotti in un altro,
e, nel suo preziosissimo e personalissimo miracolo francese, i croissant.
Impegnandomi a non considerarlo, lascio il suo bicchierino sul tavolo e
torno alla mia bacinella, con annessa frusta. Che m’importa,
in fondo? Se Eleonora Bernardi si può permettere una tizia che
gli monta soltanto la panna e
pagarla mille euro al mese, meglio per me, no? Prendo uno stipendio di
super lusso senza fare niente. Fottutissimo bastardo di un francese!
Vuoto due
cartoncini nella ciotola ed aziono la frusta con un mano, mentre con
l’altra scoperchio il mio bicchiere. Ne bevo appena un sorso
prima di fare una smorfia disgustata. Sono nella pasticceria più
chiacchierata della città e mi tocca bere il caffè senza
zucchero… ma che diavolo!
Apro un cassetto e pesco un cucchiaino a caso, prendo un po’ di panna e…
«Non ti azzardare a farlo.» mi minaccia.
Volto il viso
e lo fulmino. «È la mia panna.» annuncio decisa e
stufa. «Di una fabbrica italiana e montata da me…»
carico particolarmente il ‘me’ in modo che gli entri bene
in testa. «vai a giocare con il tuo ‘Dolce
Forno’.» e non me ne frega niente se sto per scatenare una
guerra, se il mio atto di ribellione – decisamente audace: ho
messo la panna nel caffè… io e Rousseau abbiamo lo stesso
spirito rivoluzionario, evidentemente – mi si
ritorcerà contro: non posso farmi sopraffare dai suoi isterismi.
Anche perché, se chino la testa oggi, dovrò chinarla ogni
santo giorno e non mi pare proprio il caso di creare un precedente
della mia assoluta obbedienza. Quindi prendo il cucchiaino e lo tuffo
nel mio caffè.
Lui mi si
avvicina a passo di carica e non posso non gongolare davanti alla sua
espressione furiosa: è soddisfacente sapere che io riesco ad
esasperarlo almeno quanto lui esaspera me. Decisamente
soddisfacente… quasi eccitante.
«Sono il pasticcere più famoso della città, io.» inizia chinandosi appena in avanti per parlarmi addosso. «Paris Hilton chiede de parler con moi. La gente paga il doppio rispetto ad una qualsiasi boulangerie pour manger quello che preparo io!»
mi da una spintarella alla spalla ed io guardo con espressione
oltraggiata il punto dove mi ha toccato. È così vicino
che quando lo faccio sento i miei capelli intrecciati sfiorargli il
viso. «Tu sei soltanto una ragazzina imbranata, incapace e
presuntuosa…»
«Ah, io
sarei presuntuosa!» esclamo interrompendolo. «Tu mi fai
montare la panna, nonostante io sia una pasticcera fatta e
finita!» continuo.
Ora, magari fatta e finita no, però, insomma…
Lui prende la
ciotola alla quale mi sono dedicata finora con tanto amore – beh,
un po’ meno – e la butta nel lavandino. «Da quel che
vedo non sai fare nemmeno quello.» grida.
Prima che
possa davvero pensare a quello che sto per fare, la parte più
arrabbiata, più offesa, più indisposta a certi
comportamenti ed accuse di me si libera di ogni catena che il quieto
vivere impone. Probabilmente, se fosse a portata di mano, gli lancerei
un’altra mela, ma ho il mio bicchiere di caffè corretto
con panna ed è quello che gli svuoto in faccia.
Per un lungo
istante tutto si ferma tranne il mio cuore, incoraggiato a rimbalzarmi
nel petto dall’adrenalina della discussione. Ho voglia di
colpirlo con qualcosa di duro, di pesante; ho voglia di fargli male,
conficcargli le unghie nella pelle, morderlo.
Lui mi prende le braccia, pronto
a ricominciare ad urlare, ignorando ogni palese traccia di
aggressività che possa esserci nel mio sguardo. «Come
caz…»
Ti permetti? Hai potuto?
Non può terminare la frase perché ha la bocca impegnata.
Ha la bocca impegnata perché l’ho baciato.
«Bambini, come va? State facendo i bravi a zia Nora?»
Cielo, due giorni e sono già andata fuori di testa!
Mi scosto in
fretta ad occhi sgranati, lui ha un’espressione indecifrabile, ma
probabilmente al momento è troppo incredulo per mantenere lo
stesso livello di rabbia. Arrossisco tutto insieme ed allontano di
scatto le mani, che ad un certo punto devo aver posato sul suo camice.
«Scusa.» sbotto piano, perché, cavolo, devo scusarmi: l’ho baciato!
Lui mi lascia
proprio mentre Eleonora ci raggiunge. «Che succede? Daniele ha
detto che state facendo un bel po’ di casino.»
«Niente.» borbotta lui fissandomi un’ultima volta ed
andando a controllare i suoi croissant. Recupera un tovagliolo e lo usa
per asciugarsi il viso dal caffè, mentre Eleonora continua a
guardare alternativamente me e lui con aria confusa.
Non mi
rivolge più nemmeno una parola per tutto il giorno, cosa davvero
frustrante visto che bisogna preparare una torta di compleanno e non
possiamo nemmeno tornare a casa per pranzo. In realtà nemmeno io
gli do motivo di farlo: mangio a capo chino come una collegiale
penitente, scambio qualche parola con Daniele che – il cielo lo
benedica – rimane a controllare la situazione, evito di stargli
più vicina di tre passi.
Di tanto in
tanto mi da qualche ordine, sempre cose di vitale importanza tipo
‘lava i piatti’ o ‘sgombra il tavolo’, solo
che, per oggi, sono talmente spaventata all’idea di
un’altra discussione ed alle eventuali conseguenze che potrebbe
comportare, da obbedire. Inizio ad avere paura di me stessa…
Solo quando
usciamo, sospirando, mi decido a parlare. Insomma, nonostante mi
finisca questo è il miglior lavoro che io abbia mai avuto,
quindi, per quanto mi odi, ho intenzione di fermarmi abbastanza –
anche per tutta la vita, fosse per me – da preferire un clima
sereno ad un continuo, perpetuo e duraturo silenzio imbarazzato.
«Senti,
ti chiedo scusa, non so davvero cosa mi sia preso…
non…» sospiro, passandomi una mano sulla fronte. Non lo so
davvero! Non sono quel tipo di ragazza che va in giro a baciare ragazzi
a caso, non so nemmeno se esistono tipi di ragazze del genere!
«di solito non mi comporto così.»
Lui mi guarda
fisso, ignorando l’eventualità che possa mettermi a
disagio, anzi, probabilmente lo fa apposta. «Io
credo…» comincia. «che tu sia effettivamente
pazza.» conclude.
Ottimo.
«Mi
auguro solo che tu non sia anche pericolosa.» e se ne va a
prendere la sua macchina sportiva e sicuramente costosa.
«Lo hai baciato?!» chiede incredula e sorpresa Tiziana ad occhi sgranati.
Io mi
appoggio al bancone del ‘Black Star’ coprendomi il viso con
le mani. «Devo essere impazzita.» mormoro sconsolata.
«Ma
come ti è venuto in mente?!» continua. «Lo
conosci… da quanto? Trenta ore?»
«Dio,
Tiziana, non lo so!» sbotto. «Non lo so che mi è
preso. Era lì che mi urlava addosso e…» piagnucolo
senza avere il coraggio di continuare.
«…e l’hai baciato… assolutamente
razionale!» commenta sarcastica la mia amica.
«Lo hai baciato?» gli fa eco Samuele avvicinandosi.
Sospiro appoggiando la fronte contro il bancone freddo ed umido.
«Credo
che sia stato un moto inconscio… alla fine è un po’
che Veronica non si intrattiene con un uomo…» spiega.
Allungo una mano alla cieca dandole una botta. «Non è così tanto, stupida.»
«Solo un paio d’anni.» acconsente ironica. «Che sarà mai?!»
Quando mi
tiro su Samuele mi sta fissando. «Un paio d’anni che
non…» non finisce. «accidenti!»
«Un anno e tre mesi.» preciso.
«Chi
è stato l’ultimo?» chiede – e non sto
scherzando – l’altro ragazzo dietro il bancone insieme a
Sam. Ormai della mia privacy ce ne infischiamo altamente. «Se hai
tenuto il conto deve essere stata una cosa grossa.»
Sospiro e
guardo Tiziana che abbassa il viso. Abbiamo rischiato seriamente di
litigare quella volta; non che io non capissi la sua situazione ed il
suo desiderio di rimanerne il più fuori possibile, ma…
lei sapeva.
«Marco Di Prospero.» confesso infine.
Samuele
sgrana gli occhi e guarda la sua fidanzata, l’altro barista
– sono quasi sicura che si chiami Simone – non può
capire la sua reazione, perché non sa che Marco Di Prospero
è l’assolutamente amabile fratello maggiore di Tiziana.
«Cazzo…» è l’unico commento che esce
dalle labbra di Sam dopo un po’.
‘Cazzo’ è effettivamente anche l’unico
commento possibile. Mi sono innamorata follemente, irrazionalmente del
fratello della mia migliore amica, dolce ed affettuoso come lo zucchero
a velo. Ci siamo lasciati perché la sua amante, di cui non
conoscevo assolutamente l’esistenza è rimasta incinta. A
quel punto il fatto che Tiziana avesse cercato in tutti i modi di
sottolineare ogni suo comportamento scostante, ogni sua assenza
ingiustificata, ogni sua distrazione, era apparso per quello che era:
un tentativo disperato di farmi aprire gli occhi, cercando di non
tradire il fratello.
«Si, ma
in tutto questo Pierre come c’è entrato?» chiede
Laura, quella che dovrebbe essere la sua ex fidanzata.
Io guardo la
mia bottiglietta quasi vuota di birra e capisco che bisogna raggiungere
un livello maggiore di tasso alcolico, se alla fine della serata
proprio non riuscirò a stare dritta, tornerò a casa a piedi,
l’aria fresca mi farà bene.
«L’ho baciato mentre litigavamo.» le lancio
un’occhiata. «Mi dispiace, pare che il mio inconscio faccia
le bizze.»
Lei si
stringe nelle spalle. «Nessun rancore…» sorride
maliziosa. «ma in qualche modo dobbiamo arrivare al tuo
inconscio.» riflette. «Sam, vodka!»
Veronica è matta... disse quella con una sanità mentale molto opinabile...
cmq, non è una cosa strana come sembra, l'adrenalina è una roba bizzarra... capita... almeno a me capita!
ma voi non volete già bene alla banda del 'Black Star'?! io tantissimo, quindi, si parlerà parecchio di loro...
dunque... oh! ho tante di quelle idee in mente...
non vedo l'ora di scriverle...
per ora se vi va di sapere che ne pensate, mi fate felice!
baciconpanna!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 3 - troppa fortuna tutta insieme ***
Patisserie française
fragolottina's time
questo capitolo si è fatto un
po' attendere... ma come vedete c'erano tante cose da scrivere... che
poi questo sarebbe il minimo, perchè porterà a certe
conseguenze...
cmq, non so dove siete voi, ma io sono sommersa sotto tonnellate di
neve che continua a cadere... bloccata in casa... siete il mio unico
contatto con il mondo praticamente... triste!
ma non disperiamoci... finché ho per scrivere...
a più giù...
CAPITOLO 3
Troppa fortuna tutta insieme
Guardo con terrore la divisa, sulla sedia dello studio di Eleonora, ad occhi sgranati.
Negli ultimi
due giorni la situazione non è cambiata a lavoro, Pierre mi
tratta con diffidenza e freddezza e non riesco proprio a non
biasimarlo, in fondo ho fatto una delle cose più fuori di testa
del mondo. Mi avrà preso per una specie di maniaca? Una
ninfomane o qualcosa del genere? Come sono caduta in basso… e
non è che prima ai suoi occhi fossi gran ché in alto!
Ho conosciuto un ragazzo di nome Matteo, non so esattamente come
l’ho conosciuto, deve essere stato tra il secondo ed il terzo
bicchiere di vodka, mentre con Laura – che è un amore
– cercavamo di raggiungere il mio inconscio con scarsi risultati.
È stato un gentiluomo: quando ha visto che non ero esattamente
in grado di camminare, figurarsi di guidare lo scooter, si è
offerto di accompagnarmi a casa e l’ha fatto senza provare ad
allungare le mani neanche una volta. È anche vero che Tiziana e
Sam erano dietro di noi, lei con la macchina e lui con il motorino per
portarlo a casa, e, se avessi avuto bisogno, mi sarebbe bastato
sventolare una mano dal finestrino; ma lui è stato un vero e
proprio cavaliere.
Mi ha anche
chiesto di vederci nel fine settimana ‘durante il giorno, magari
facciamo qualcosa insieme’. Il fine settimana è diventato
mercoledì, il mio unico giorno libero.
Ma oggi
è lunedì, Matteo è un problema ancora piuttosto
distante – non è nemmeno un problema – mentre la
divisa ed il fatto intrinseco che debba indossarla è
un’incombenza.
La guarda anche Pierre, dopo aver acceso il contatore della corrente, poi alza gli occhi su di me.
«Se tu
ne regardes pas me, io non guardo te.» mi annuncia con
semplicità. Ma lui è anche quello che il primo giorno si
è spogliato così, davanti a me senza batter ciglio;
dubito che uno del genere abbia i miei stessi parametri di pudore,
decenza e rispetto dell’altrui nudità.
Che mutandine
ho addosso? Oh, quelle con i gattini mi sa… mi appunto
mentalmente di procurarmi uno stock di biancheria un tantino più
discreta.
«Posso fidarmi?»
Lui incrocia
le braccia sul petto schioccando la lingua scettico. In sua difesa,
c’è da dire che oralmente non infierisce, anche se nei
suoi enormi occhi castani c’è scritto tutto quello che
vorrebbe dire: sei tu che hai baciato me, non viceversa.
Sono
così matta da essermi messa in una situazione in cui devo dargli
ragione. Mi chiedo se, in un qualche bislacco modo, non sia stato tutto
un suo piano machiavellico per costringermi al silenzio con la mia
stessa coscienza. Diabolico… ma poco probabile.
Prendo la
gruccia alla quale è appesa la mia divisa e tolgo la busta di
plastica trasparente da sopra, mentre Pierre, pago del fatto che mi
vergogno troppo per non dargli retta, si sfila una felpa e poi la
maglietta che ha sotto.
Io mi volto e
mi mordo le labbra, realizzando che non mi spoglio con un uomo nelle
vicinanze – che non sia mio padre, ovvio – da un anno e tre
mesi e che adesso devo farlo davanti a quello stronzo. Sospirando e
borbottando mi sfilo il golfino e prendo atto, una volta rimasta in una
striminzita canottierina di microfibra verde fluo – forse
è il caso di comprare anche canottiere più sobrie –
che fa un freddo assurdo quando i forni non sono ancora completamente a
temperatura. Cercando di seguire quel filo di pensieri, e non quello
che mi porterebbe a valutare il suono che ho sentito alle mie spalle,
inconfondibilmente quello di una zip che si abbassa, mi domando se ci
sia anche il riscaldamento o siano effettivamente tutti i macchinari
mitigare l’ambiente.
Mi sfilo le
scarpe, i pantaloni e recupero quelli neri della divisa; Eleonora ha un
buon occhio perché sono esattamente della misura giusta. Alle
mie spalle Pierre traffica con la cintura. Prendo il camice bianco che
devo indossare sopra: è lungo come quello di lui, fino a
metà coscia, anche se probabilmente il mio è leggermente
più avvitato sui fianchi, essendo da femmina, e si chiude con
una serie di bottoni a sinistra. Ora sto più calda.
Pierre mi
sfila accanto, veloce come la luce e già pronto, io continuo a
fissare con sguardo omicida la porta da cui è uscito, mentre mi
appunto i capelli in un chignon sulla nuca e maledico quelle due o tre
filze che non ne vogliono proprio mai sapere di stare al loro
posto… maledette!
«Aspetta, ti aiuto.» mi volto verso Eleonora che mi si
avvicina con due forcine. Si ferma alle mie spalle, recupera le due
ciocche ribelli e le ferma ai lati della mia testa.
«Grazie.» dico riconoscente. Trovo davvero incredibile che
lei sia più paziente e gentile di un suo semplice
dipendente… sono sicura che, se andassi da Pierre a dirgli che
è un semplice dipendente, mi infilerebbe nel suo forno francese
al posto dei croissant.
Faccio per
dirigermi in cucina e mi fermo sulla porta prendendo un profondo
respiro: arriverò alla fine di questo giorno, non lo
ucciderò, non lo bacerò, la mia pazienza
raggiungerà livelli epici, mi daranno il Nobel per la pace.
«Stai
facendo un buon lavoro, Veronica.» mi volto a guardarla e lei mi
sorride dolcemente. Ha già scavalcato la scrivania e sta
cercando qualcosa nei cassetti. «Me lo ha detto lui.»
«Lui Daniele?» chiedo curiosa, gentile da parte sua difendermi.
«No, lui Pierre.»
Resto a bocca
aperta ad un livello di stupore mai raggiunto, nemmeno – giuro
– davanti alla gravidanza di Martina. «Stai scherzando? Per
lui conto meno del suo forno.»
Lei fa una
smorfia aggrottando le sopracciglia scure e perfettamente depilate.
«Nessuno conta più del suo forno, non pretendere troppo,
cara!»
Anche lei ha
ragione, la gente al giorno d’oggi è troppo
arrogante… eh, che ne è stato della cristiana
umiltà di un tempo?
«Quindi non vuole che me ne vada?»
Lei ruota gli
occhi al cielo. «Questo non lo so. Però non mi stressa
ogni giorno con telefonate o con sue improbabile lettere di
licenziamento...» ci riflette. «decisamente un buon
segno.»
Non appena
arrivo in cucina sento Daniele chiamare per il caffè, quindi
nemmeno mi fermo e tiro di lungo verso il bar. Gli ho confessato
dell’incidente di percorso che ha portato a… ehm…
quel contatto poco convenzionale tra le nostre labbra: ha riso
tantissimo, senza alcun rispetto per il mio imbarazzo. Però mi
ha anche garantito che da quel giorno avrebbe zuccherato il mio di
nascosto, così niente incidenti poco convenzionali.
Quell’uomo si è guadagnato il mio affetto.
«Dove abiti?»
Lo guardo
stupita sbattendo le palpebre, mentre recupero i due bicchierini, il
mio – quello dolce – ha il coperchio leggermente scostato;
potrebbe sembrare un casualità o una distrazione, invece
è un segno del tutto intenzionale. Siamo dei geni del crimine.
«A casa dei miei, perché?»
«Pranziamo insieme oggi, vuoi?» mi domanda senza rispondere
alla mia lecita richiesta di spiegazioni. «Devo proporti una
cosa, ma ho bisogno di parlarne con calma.»
«Oh…» mormoro studiandolo, come se potessi leggergli
in faccia quello che vuole propormi. «immagino di sì, non
dovrebbero esserci extra da preparare.»
«Ottimo, ne parliamo dopo allora!»
Oggi sono
addetta ad ungere teglie e stampi, nemmeno ho provato a lamentarmi, me
ne sto semplicemente qui, con le mani inguantate, a spargere burro sulla
pila di stoviglie che mi ha preparato, annoiandomi a morte e
chiedendomi se effettivamente sia necessario svegliarsi mezz’ora
prima – si, perché una conseguenza il mio colpo di testa
l’ha avuta, Pierre il ‘non baciarmi o te ne penti’ mi
ha rubato un’ulteriore ed importante mezz’ora di sonno.
Davvero senza di me ci metteva meno tempo? Ne dubito. Gli lancio
un’occhiata inquisitoria mentre è tutto preso a guarnire
dei mini tortini con panna e frutta con il sac-à-poche; è
impossibile che ci mettesse meno tempo, quindi è soltanto
crudele.
E lui dovrebbe aver detto ad Eleonora che me la sto cavando bene? Mi sembra come minimo improbabile.
«Se mi
si attacca qualcosa perché sei distratta a fulminarmi,
farò in modo che tu non tocchi mai più nemmeno lo
zucchero.» mi minaccia senza staccare gli occhi dai suoi tortini.
Dio non voglia che debba staccare gli occhi dai tortini!
Sbuffo, ma non rispondo.
Anche se tirargli una teglia potrebbe senz’altro essere una protesta d’impatto.
Io e Daniele andiamo a pranzo in
un fastfood con la sua macchina, in realtà non ho molta fame,
lavorare con Pierre mi stressa così tanto da mandarmi via
l’appetito; però sono decisamente curiosa, quindi non
discuto la sua proposta e mi ritrovo con un vassoio semivuoto in
confronto al suo, ma con una bambolina in regalo visto che ho preso il
menù da bambini.
«Allora…» inizio frugando nella mia scatola alla
ricerca delle patatine, che una volta freddate saranno immangiabili.
«di cosa volevi parlarmi?» gli chiedo. La curiosità
per la nostra conversazione è stata l’unica cosa a tenermi
sveglia durante il lavoro.
«Ho un appartamento troppo grande.»
Sbatto le palpebre senza afferrare del tutto il nesso. «Oh, mi dispiace.» commento ad ogni modo.
«Prima
dividevo le spese con un ragazzo…» mi spiega. «e le
cose andavano bene, finché non ha deciso che la monogamia non
faceva per lui.»
Mi fermo con
una patatina a mezz’aria, so che lo sto guardando con gli occhi a
palla, so che se fossi un pesce rosso e stessi in una boccia avrei la
stessa espressione non esattamente intelligente, ma inizio ad avere
un’intuizione di quello di cui stiamo parlando.
«Ad
ogni modo, sono un buon coinquilino e se avessi eventuali compagni con
cui passare la notte sarei discreto.»
Mi strozzo
con la patatina che avevo finalmente addentato e deglutito, iniziando a
tossire in modo compulsivo. Non sono una bigotta, davvero, che ognuno
sia libero di amare chi vuole, ma non ho nemmeno una conoscenza
così approfondita dell’altra parte diciamo. Non che credi
quella meno esotica migliore, il mio fidanzato ha messo incinta
un’altra mentre stava con me, ma devo essere avvisata di certe
cose con delicatezza, diciamo.
In qualche
modo riesco a recuperare la mia coca-cola ed a controllare gli spasmi
della mia gola. Dopo aver preso un profondo – molto, molto
profondo – respiro, lo guardo. «Vuoi che io venga ad
abitare da te al posto del tuo…» gracchio, poi mi chino
sul tavolo arrossendo. «ragazzo?» bisbiglio.
Come me anche
lui si sporge in avanti. «Non c’è bisogno di
bisbigliare.» mi sussurra. «Comunque, tu sembri una ragazza
apposto.» continua alzando la voce e raddrizzandosi, da un morso
soddisfatto al suo panino - accidenti, quelli sì che sono denti
molto bianchi - e dopo aver deglutito riprende a parlare. «Arrivi
a lavoro in ordine, pulita, sopporti Pierre, quindi riuscirai a venire
a patti anche con le mie cantatine sotto la doccia…»
«Canti
sotto la doccia?» chiedo, sbalordita come se quella fosse la cosa
più importante o sconvolgente che mi abbia detto da quanto siamo
entrati. Temo soltanto di dover scaricare lo stupore accumulato su
qualcosa, non importa cosa.
Sbatte le
palpebre un paio di volte, sì, immagino di non sembrare proprio la
ragazza più sveglia sulla faccia della terra, ma poi archivia la
cosa con una scrollata di spalle ed una risata. «Sì,
prevalentemente gli Stadio, ma ammetto di aver un debole per Biagio
Antonacci.» non do risposte così lui continua.
«Insomma, hai ventiquattro anni e vivi con i tuoi, ho pensato che
potesse interessarti la cosa, Eleonora ti paga abbastanza da
permettertelo.»
In fondo era
questo che volevo, no? Indipendenza, autonomia. Mi sono presentata al
colloquio perché sapevo che mi avrebbero pagato bene e permesso
di andare a vivere in un posticino tutto mio: il lavoro l’ho
ottenuto, Daniele mi sta offrendo il resto. Anche se non sarebbe
proprio tutto, tutto mio, farei un grande salto di qualità dalla
stanzetta da quattordicenne che occupo a casa di mamma e papà. A
ventiquattro anni un letto singolo e zero privacy da parte di una
madre iniziano ad andarmi proprio stretti.
Sospira, poi
posa il suo cheeseburger mangiato per metà sull’incarto ed
appoggia i gomiti incrociati sul tavolo. «Se non ti da fastidio
vivere con un uomo che va a letto con altri uomini.» mormora
serio, fissandomi, nel suo sguardo c'è il tormento di chi si
sente inventare scuse poco probabili molto spesso.
Daniele è stato sempre gentile con me, ha importanza quello che succede nella sua camera da letto?
«Io
canto Laura Pausini.» gli confesso dopo un po’. «Ma
quando sono di buon umore mi piace ripiegare anche su Katy Perry.»
Lui mi lancia
un’occhiata di sbieco che nasconde un sorriso, mentre io sfido la
prossima patatina ad uccidermi addentandola come se fosse viva e
potesse scapparmi da un momento all’altro. «Non devi darmi
una risposta subito.» mi rassicura.
«Magari posso venire a vedere il posto dopo la chiusura.»
«Certo.»
Continuiamo a
mangiare in silenzio finché la mia curiosità,
decisamente aggressiva, non inizia a pungolarmi fino
all’esasperazione. «Credevo che tu ed
Eleonora…» inizio, ma non finisco per non rischiare di
essere indelicata.
«Oh,
no!» si affretta a negare. «Nora è una cara amica.
Nessuno voleva assumermi dopo aver fatto outing ed aver iniziato ad
uscire regolarmente con il mio ragazzo. Lei è stata
l’unica a non farsi problemi.»
Mi do
un’orgogliosa pacca sulla spalla per aver preso la decisione
giusta. Veronica, sei proprio una ragazza intelligente.
Però…
«Pierre lo sa?»
Lui annuisce succhiando coca-cola dalla sua cannuccia. «Ah-ah.»
«E
niente isterismi?» solleva lo sguardo per lanciarmi
un’occhiata interrogativa, io mi stringo nelle spalle, la mia
è una domanda lecita. «Da di matto per qualsiasi
cosa.»
«Ti
posso garantire che non ha mai lasciato trapelare che le mie compagnie
lo turbassero.» mi confida. «Ha conosciuto Manuel, è
venuto a casa mia a cena qualche volta, anche con Laura, ed è
sempre stato gentilissimo.»
Lo
osservo corrucciata. «Perché con me non è
gentile?» chiedo, perché sembra che abbia scritto dietro
la schiena ‘odiami’ in francese, in modo che lo capisca solo
lui.
«Perché tu ci lavori insieme.» risponde semplicemente.
Quindi dopo la chiusura sono di
nuovo sulla macchina di Daniele, una Fiat Bravo blu. Sul sedile di
dietro. Insieme a Pierre. Il perché sia qui anche lui mi appare
ancora oscuro, ma in qualche modo ci ha seguito, è salito sulla
macchina con abitudine e nessuno gli ha detto nulla. Anche Eleonora si
è autoinvitata ed è da appena messa in moto l’auto
che sta girata verso di me a decantarmi le qualità
dell’appartamento di Daniele; pare che sia: spazioso, luminoso,
riscaldato autonomamente, moderno, in un buon posto – beh, via
dei Gerani è effettivamente un luogo carino dove vivere –
con vicini rispettosi e simpatici.
Io continuo
ad essere un po’ scettica perché trovare, in meno di una
settimana, il contratto e l’appartamento dei miei sogni mi sembra
troppa fortuna tutta insieme.
Il mio
telefono trilla, frugo nella borsa fino a trovarlo: è Tiziana.
Non appena schiaccio il pulsante per accettare la chiamata, inizia a
parlare senza darmi il tempo di dire nulla. «Ma dove sei? Ti
stiamo aspettando!»
Aspettando?
«Non ci
eravamo date appuntamento e…» mi blocco. «chi mi sta
aspettando?» aggiungo dopo un attimo di esitazione.
«Ma
come?!» sento un’altra voce maschile. «Si, glielo
chiedo subito…» gli risponde. «Ci sono stati altri
scontri alla ti odio ti amo?»
Mi schiarisco
la voce posando con tutta la forza che ho in corpo la mano sul
cellulare per evitare che si senta il minimo sussurro. Guardo Pierre,
impaurita ed imbarazzata, ma sembra del tutto tranquillo mentre tiene
la fronte premuta contro il finestrino e guarda la strada scorrere di
sotto.
Così
mi riporto il telefono all’orecchio dandogli le spalle, anche se
dubito che serva a gran ché, sono su una macchina, quanta
distanza posso mettere tra noi?
«Piantatela, non è il momento.» sibilo.
«Oddio, sei con lui!» commenta eccitata. «Silenzio tutti, sono insieme!»
Mi copro la fronte con la mano, ma cosa sono diventata, una specie di soap opera vivente?!
«Ok, noi ti facciamo delle domande, tu devi dire soltanto sì o no, capito?»
Sospiro, ma Tiziana lo prende come un sì.
«Siete in pasticceria?»
«No.»
«Oh-oh…» commenta lei con enfasi. «E avete i
vestiti addosso?» non è la voce di lei a chiederlo, mi
sembra più quella di Sam.
«Certo, che abbiamo i vestiti addosso!» esclamo arrossendo.
…ops…
Mi volto ed
incontro la faccia perplessa di Pierre che mi osserva con attenzione,
io chiudo con uno scatto lo schermo scorrevole del mio cellulare,
restringendomi nelle spalle nella vana speranza di sparire,
nascondermi… evitare questo momento. Lui continua a fissarmi
ancora un po’, poi riporta gli occhi davanti a lui scrollando la
testa.
Sospiro di sollievo, che giunga pure alle sue conclusioni silenziose, basta che non mi coinvolga.
«No… pardonne-moi, ma devo chiedertelo.» dice dopo
un po’ tornando con lo sguardo su di me, mi sembrava che fosse
stato troppo semplice. «Tu sei davvero così?»
Io lo fisso
con occhi enormi, troppo a disagio – per colpa di quel matto di
Sam e della sua evidentemente degna compare – per dare una
risposta seria e soddisfacente che non sembri un miagolio, ed annuisco
piano con la testa.
«Intendo, sei sempre così?» precisa.
Annuisco
ancora. Il problema è che, per colpa di una serie di sfortunati
eventi, lui mi ha sempre vista in una veste poco… ehm…
dignitosa? Se mi conoscesse come mi conosce, che so? Tiziana? Saprebbe
che, dietro quella che ha tutta l’aria di essere una grande turbe
psichica, c’è solo un’enorme incomprensione.
Più o meno. Voglio dire, la normalità è un fatto
relativo, no?
«E non
ti è mai venuto in mente di chiedere l’aiuto di uno
specialista?» continua a domandare.
Io incrocio
le braccia sul petto facendomi improvvisamente scettica. «Grazie,
tanto.» commento secca.
Lui si stringe nelle spalle. «Ero serio!» si difende. «C’est vrai!»
Scuoto la testa tornando ad ignorarlo.
«Siamo arrivati!» trilla contenta la voce di Eleonora.
Il palazzo
è effettivamente bello, non è molto grande né
alto, quindi immagino che non contenga molti appartamenti. Non appena
entriamo nell’ingresso, l’illuminazione automatica si
accende rivelando dei pavimenti lucidissimi grigio perla, non so se
sia proprio marmo, ma, se non lo è, chiunque abbia fatto
il lavoro si è impegnato abbastanza da renderlo credibile.
Non
c’è l’ascensore, ma, come mi spiega Daniele, siamo
soltanto al terzo piano ed io sono una ragazza giovane e forte.
Eleonora non ha mentito, l’appartamento è uno spettacolo. Per alcuni
secondi resto ammirata a guardarmi intorno nella cucina-salotto, i
mobili sono neri e bianchi modernissimi, c’è un penisola
di granito che divide la zona fornelli dalla zona soggiorno, dove fanno
bella mostra di sé un tavolo di vetro da sei posti, un divano di
pelle nera con sopra dei cuscini sparsi bianchi ed un enorme televisore
al plasma.
Purtroppo non
appena realizzo quanto sia bello, mi trovo anche a pensare che mi
costerà troppo. Mille euro al mese sono molti, ma, se la
metà devo spenderli di affitto, non so se posso farcela. Non ho
molte spese, l’assicurazione del motorino ed eventuali
riparazioni costano pochissimo, ma mangio, compro vestiti, necessario
per toletta.
«Daniele.» provo a chiamarlo.
«Vieni, ti faccio vedere quale sarebbe la tua stanza.» mi invita.
Pierre ci
ignora perso nel suo mondo, si siede sul divano e tira fuori un mini
netbook dalla tasca interna della giacca.
«Viene
a scroccarmi l’adsl.» mi spiega facendomi strada verso una
porta sulla sinistra che da ad un piccolo corridoio. «Quella
è la mia camera.» annuncia indicandomi una porta a destra.
«Quello è il bagno.» apre la porta di fronte a noi;
è spazioso, non c’è la vasca, ma un doccia
idromassaggio sì. In più tutti i mobili sono
già per due. «Lo so, è soltanto uno. Ma se ci
organizziamo non credo che ci saranno problemi.»
Ma io non credo di potermelo permettere, sovrappensiero mi chiedo anche quanto cavolo lo paghi Eleonora.
«Qui starai tu.» ed apre la porta a sinistra.
È una
camera essenziale, c’è un letto matrimoniale, una
cassettiera, un armadio ed un comodino; ammetto che i muri sono un
po’ fastidiosi, di un azzurro cyan troppo squillante, ma non
riesco ad impedirmi di immaginare tutte le mie cose sistemate
lì, compresa me stessa. Faccio alcuni passi all’interno,
poi mi dirigo decisa verso la finestra accanto all’armadio per
sbirciare all’esterno, da su un palazzo dall’aria antica.
Vorrei poter vivere qui.
«Io non me lo posso permettere.» inizio.
«Sono trecento euro al mese.»
Lo guardo
incredula sbattendo le palpebre. «Soltanto?» chiedo,
perché trecento euro al mese sono pochissimo. È vero che
non è una casetta molto grande, però…
«L’appartamento è mio, non pago affitto, mi serve
soltanto qualcuno che divida con me le altre spese.»
«L’adsl.» mormoro ancora, incapace di spiegarmi
perché costi così poco, dovrà pur esserci un
inghippo da qualche parte.
Lui ride e
scuote la testa. «No, non serve. Pierre viene ad approfittarne
perché è la linea comunale…» mi indica con
un cenno del capo la finestra. «il palazzo lì sotto
è la biblioteca.»
«Oh…» sussurrò tornando a guardarlo. «Perché così poco?»
«Te
l’ho detto, ho bisogno di dividere le spese. Non mi interessa
guadagnarci chissà cosa, un lavoro ce l’ho già, ma
così non ce la faccio.»
Mi siedo sul
materasso, coperto soltanto da un lenzuolo, per saggiarne la
consistenza e ripiego una gamba sotto di me. «Devi essere molto
ricco per esserti potuto permettere di comprarlo.» tipico
trovare un ragazzo simpatico, gentile e facoltoso e scoprirlo gay. O
sono gay o mettono incinte le altre ragazze… o sono Sam.
Inquietante. Oddio, oppure sono Pierre! Direi che effettivamente
convivere con un ragazzo omosessuale potrebbe essere la mia unica
esperienza di convivenza con un uomo.
Lui appoggia
la mano sullo stipite. «L’ultimo regalo dei miei.» si
stringe nelle spalle senza guardarmi. «Mi hanno cacciato di casa,
ma mia madre si sentiva la coscienza sporca per lasciarmi in mezzo ad
una strada.»
Deglutisco dispiaciuta. «Oh, i tuoi non…» non riesco a finire.
«No.» dice lui soltanto, poi scrolla le spalle tornando
gioviale. «Allora, che ne pensi?» mi domanda sorridendo.
Mi guardo intorno. «Che è perfetto.»
«Ti
lascio un po’ sola, così vedi che effetto ti fa.»
dice uscendo dalla porta. Sento Eleonora bisbigliare dall’altra
parte ed intuisco che ci abbia non solo seguito, ma anche spiato.
Mi guardo
intorno ancora seduta sul letto, che effetto deve farmi? Già mi
immagino gestire a modo mio e come voglio tutto questo spazio, lasciare
le mie cose in giro senza che mia madre ci frughi – lo so,
è un po’ psicotico, ma ho dei problemi con chi fruga nelle
cose molto mie. Ma sono davvero pronta ad andare a vivere da sola?
Insomma, a parte qualche incomprensione a livello coabitativo i miei
genitori sono apposto; sono la loro figlia minore, per di più
femmina, l’unica ancora in casa, è normale che vogliano
stare prepotentemente nella mia vita. Con me possono farlo, con mio
fratello che lavora al CERN di Ginevra è un po’ più
difficile. Certo, lo capisco, se l’impianto di studio subatomico
più famoso al mondo ti offre prima uno stage, poi un posto fisso
non puoi dire di no, ma tornare a casa a fare un salutino ai genitori di tanto in tanto
non credo che comprometta poi così tanto la sua carriera, no?
Sento dei
passi e mi volto; per ritornare al tema delle psicosi, Pierre si
appoggia allo stipite della porta con le mani in tasca. È
seriamente bello, soprattutto senza divisa. Ha una felpa bianca con la
zip aperta, sotto una maglietta grigia ed un paio di jeans
dall’aria un po’ troppo grande per lui. Immagino che voglia
sapere se prenderò la stanza e se dovrà trovarmi qui
tutte le volte che vorrà scroccare l’adsl.
Adoro i suoi capelli.
«Che fai mercoledì?»
Aggrotto le sopracciglia sorpresa… come?!
«Perché?»
Piega la
testa di lato ed arriccia le labbra, pensieroso. «Devo fare
l’inventario, sicuramente ci saranno cose scadute. Riutilizzabili
per usi privati, ma non servibili al pubblico.» mi spiega.
«Puoi venire, pasticciare con i miei avanzi e farmi vedere come
te la cavi e quanto sei indietro.»
Mi chiedo se
sia effettivamente capace di dire qualcosa senza sottintendere la tua
inferiorità, forse è un problema a livello linguistico,
magari non glielo hanno insegnato.
Matteo.
«Ho un appuntamento.» mi giustifico.
«Con chi?»
Me lo sta chiedendo davvero?
«Con un ragazzo.»
«Lo annulli.» mi dice serio, senza muoversi.
«Lo annullo?» chiedo scoraggiata.
«Oui, lo annulli.» continua annuendo, senza smettere di fissarmi neanche un secondo.
Sospiro affranta. «Lo annullo.» mormoro.
«Bien, preparati.»
Quando si
volta gli faccio la linguaccia e lui sventola la mano senza voltarsi.
«Je t’ai vue.»
porca la misera se è lungo... però vi rendete conto ti quante cose ho messo in moto?
oh! quante cose devo scrivere...
mi sento un po' pazza...
anyway il prossimo capitolo sarà molto, molto, molto Veronica e Pierre con tutto quello che comporta...
non so di preciso che succederà perchè non l'ho ancora scritto, ma mi sento moooolto ispirata!
baci dall'Alaska praticamente!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 4 - un abbraccio che si chiama disattenzione ***
Patisserie française
fragolottina's time
questo capitolo mi piace!
davvero, ci sono tante cose... e poi, ancora non avevo scritto nessun
momento in cui erano seriamente solo Veronica e Pierre, la storia alla
fine parla di loro, si sentono un po' trascurati... ed era un po' anche
che non se ne stavano tappati in cucina...
quindi, prima di dire cose che vi rovinerebbero eventuali sorprese, vi auguro buona lettura!
CAPITOLO 4
Un abbraccio che si chiama disattenzione
Quindi, oggi niente appuntamento
galante, niente trucco semplice, ma carino, niente scarpe scomode e
bellissime, niente cena pagata e chiacchiere per conoscersi meglio.
Avevo già scelto come vestirmi, mi ero perfino depilata le gambe
oltre il ginocchio – lo so, è terribile, ma quando non hai
intenzione di svestirti per nessuno smette di essere una
priorità – tutta fatica inutile.
Un altro giorno all’inferno, meglio conosciuto come ‘Pâtisserie Française’...
Con le
braccia incrociate sul petto osservo il signor ‘annulla il tuo
appuntamento’ Mureau darmi delle uova, due panetti di burro,
mezzo pacchetto di farina, un bicchiere di zucchero ed un barattolo di
marmellata di pesche già aperta. Ah già, anche un quarto
di bustina di lievito. Cosa che toglie l’effetto sorpresa alla
mia ricetta, visto che ce n’è solo una che io possa fare
con questi ingredienti.
«E se
non volessi fare una crostata?» gli domando, tanto per rendermi
conto quanto il mio effettivo libero arbitrio conti.
«Non si
può fare sempre quello che si vuole.» è la sua per
niente soddisfacente risposta. Mi piazza davanti anche una bilancia,
poi sparisce nell’ufficio di Eleonora.
Evidentemente il mio libero arbitrio non conta niente.
Sospiro di sollievo, almeno sono sola!
Mi avvicino ad uno sportello e recupero una terrina, sto anche per romperci dentro un uovo quando…
«Fai
una crostata in una terrina?» mi domanda con il tono di chi si
aspetta un ‘no’ come risposta.
Cielo, che ho fatto per meritare una simile condanna?
Mi volto a
fulminarlo, è fermo davanti all’entrata dello studio con
in mano un blocco ed una penna, c’è scetticismo e poca
stima nelle mie capacità nella sua espressione, ma non è
quella che sto guardando; mi fa strano vederlo in cucina senza divisa,
oggi indossa soltanto un paio di jeans sul grigio, una camicia a
maniche corte a quadri grigi e blu e sotto una maglia a maniche lunghe
a tinta unita, sempre blu.
«Sì,
faccio una crostata in una terrina.» ammetto fiera. Si può
fare una crostata in una terrina, viene buona lo stesso, lo so, si
evita semplicemente di fare troppo casino inutile.
Si stringe
nelle spalle recuperando una sedia e salendoci sopra per raggiungere
degli scaffali alti. «Se lo dici tu.» commenta senza
entusiasmo.
«Mi
serve il latte.» rifletto notando che non me ne ha fornito.
Intanto rompo finalmente l’uovo nel contenitore, prima che possa
interrompermi con qualche altra osservazione sgradita, e prendo a
sbatterlo con una forchetta.
Sposta i
piedi rimanendo in bilico su due gambe della sedia, io prego
silenziosamente che cada. So che è orribile, ma sono qui da
appena mezz’ora ed ho già i nervi a pezzi. Sono sicura che
tutto questo stress mi farà venire tante di quelle rughe, che
Eleonora dovrà regalarmi un lifting per contratto.
«No, non ti serve.» dice senza guardarmi e contando in punta di dita i pacchi di qualcosa.
Ma che diavolo, lo saprò cosa mi serve?
«Sì, invece.» insisto.
Lui atterra
di nuovo pesantemente sulle quattro gambe e salta giù fissandomi
stranito, si avvicina al frigo e mi porge un mezzo cartone di latte a
lunga conservazione già aperto.
«Grazie.» sorrido ipocrita.
Sbatto le uova, poi peso il burro ed inizio a tagliarlo a dadini.
«Oh, già.» inizia.
Ma perché è ancora qui? Non dovrebbe fare l’inventario?
«Ti sto cronometrando.» annuncia come se fosse una cosa normale.
Io mi fermo
ad occhi sgranati e lo fisso, completamente ed inevitabilmente
incredula. «Mi stai…» ma non riesco a finire.
Perché tra tutti i pasticceri che possono esserci nel mondo, il
mio capo deve essere la reincarnazione di un agente delle SS?
Solleva il
braccio e si scopre il polso, mostrandomi un orologio nero.
«Cronometrando.» ripete, poi però aggrotta le sopracciglia
riflettendo. «Si dice così, n’est-ce pas?»
C’è un limite anche alla follia. Deve esserci.
«Perché, per l’amor del cielo?» sbotto, incapace di trattenermi.
Lui mi fissa
e si tira indietro i capelli con una mano, lo odio, ma non so cosa
darei per passare le dita tra i suoi ricci. «L’eccellenza
va conquistata.» per alcuni secondi lo guardo e basta,
perché dietro alla sua follia, alle sue richieste assurde e
tutto il resto, incredibilmente, mi trovo a rispettarlo.
Sto quasi per
dirgli qualcosa che somiglia vagamente ad una gentilezza, quando:
«Tic, tac.» mi ricorda, tornando ai suoi fogli ed al suo
inventario.
Mentre
continuo ad impastare, però ci penso. Insomma, lui è un
pezzo grosso della pasticceria, so che lo invitano spesso a convegni e
corsi d’aggiornamento, Paris Hilton ha il suo numero…
davvero, è lui a dover fare l’inventario? Mi sembra
più una mansione di Eleonora, no? Quindi – potrei
sbagliarmi e sicuramente sbaglio – è qui, nel suo giorno
libero… per me. Se è vero che ha detto alla Bernardi che
sto facendo un buon lavoro, può essere motivato a farmi crescere
in abilità.
Mi fermo,
sprofondata fino ai polsi con le mani nell’impasto, in preda ad
una qualche specie di illuminazione mistica: ma allora, è buono.
Aggiungo
dell’altra farina in trance, mentre lui mi porge un mattarello ed
uno stampo. Con tanto amore – mia nonna mi ha ripetuto fino alla
nausea che ci vuole amore per far venir bene i dolci – stendo la
prima sfoglia di pasta frolla da mettere sotto, spalmo la marmellata di
pesche e guarnisco con altre striscioline di pasta. Guardo in faccia la
mia opera come se fosse mia figlia e le mando un bacio, perché
è proprio una crostatina carina.
Quando torno in contatto con il mondo, mi accorgo che Pierre mi sta fissando perplesso.
Lo ignoro, ma
arrossisco. Mi volto a studiare il forno e faccio per allungare la mano
verso la prima manopola, quella della temperatura.
«Qu’est-ce que tu fais?» e c’è qualcosa
che somiglia realmente al terrore nella sua voce.
Mi giro a
metà per lanciargli un’occhiata, lui mi sta puntando
contro il cucchiaio con cui ho spalmato la marmellata. Non scherzo, lo
sta facendo sul serio ed anche se dovrei rendermi conto
dell’assurdità della situazione, realizzare quanto sia effettivamente assurda, e scappare a gambe levate, non riesco ad impedirmi di scoppiare a ridere.
«Non. Toccare. Il mio. Forno.» sillaba, mentre io mi sbellico senza alcun controllo.
«Come
la cuocio la crostata?» gli chiedo asciugandomi gli angoli degli
occhi con le dita, ancora ridendo perché, santo cielo, quello
mi sta minacciando con un cucchiaio sporco di marmellata perché
io non alzi un dito sul suo forno. Penso che nemmeno Tiziana mi
crederebbe se glielo raccontassi; nessuno mi crederebbe se lo
raccontassi!
«Faccio
io.» si offre raggiungendomi, provo tanto per vedere la sua
reazione ad allungare di nuovo la mano, che lui prontamente
schiaffeggia con la sua. «Temperatura?» mi chiede
guardandomi, vicino e solo ora smetto di ridere, solo ora ricordo che
oggi siamo completamente soli qui.
Studio la crostata ed il forno. «Duecento gradi.»
Rimane per
alcuni secondi con le dita sulla manopola. «Sicura?»
domanda ancora fissandomi con aria di sfida, io annuisco nei suoi
occhi. «Bien.» accende tutto, poi rimane come me appoggiato
al piano di lavoro, mentre aspettiamo che si scaldi.
Oggi siamo completamente soli qui.
Osservo il
nostro riflesso sul vetro scuro, più il suo che il mio.
«Deve piacerti molto questo forno.» commento perché
non riesco a sopportare il silenzio, è così pieno di
pensieri.
«J’aime questo forno.» risponde senza guardarmi.
Ammetto che
è il primo che conosco ad amare un elettrodomestico. Studio i
suoi occhi, il suo naso, la sua bocca, avrebbe potuto fare il modello,
mi domando come un bambino – perché è molto giovane
e per essere arrivato ad un tale livello deve aver iniziato da
ragazzino – possa voler fare il pasticcere. Io da piccola volevo
fare la ballerina, come tutte le bambine.
«Da
quanto sei in Italia?» gli domando facendo due conti. Non mi sono
legata i capelli, ho solo un frontino a tenerli indietro, strano che
non abbia aperto bocca al riguardo.
Lui
deglutisce, si estranea e mi sento quasi in colpa perché non
credevo di avergli fatto una domanda scomoda; chiude gli occhi,
lasciando cadere la testa all’indietro. «Cinque
anni…» sospira. È tanto. «tre mesi e ventitre
giorni.»
Quando riapre
gli occhi per leggere la mia reazione, io lo sto fissando e non riesco
a smettere. Lui ricambia il mio sguardo senza espressione, senza
curiosità, sa a quale conclusione sto giungendo: i carcerati
contano i giorni, gli esiliati.
«Il forno è pronto.» annuncia spezzando quel momento.
Mi volto e
recupero la mia crostata, lui mi apre lo sportello, per non farmelo
toccare. «Ma fai sul serio?» chiedo scoccandogli
un’occhiata eloquente. È ridicolo, dovremo pur trovare un
compromesso prima o poi, non so, posso usare guanti scelti
appositamente da lui, può controllarmi, può tenermi una
serie di lezioni sull’uso consapevole e corretto degli
elettrodomestici da cucina; quello che vuole, ma deve farmi toccare
questo benedetto forno.
Non avrei dovuto distrarmi.
Nell’infornare il dolce, senza fare attenzione a tutte le cose
arroventate con le quali potrei scottarmi, finisco per sbattere con il
braccio sinistro, lasciato nudo dalla manica arrotolata, contro il
vetro.
«Attenta!»
Strizzo gli
occhi e lascio cadere la crostata sulla griglia per ritirare di corsa
le mani… e realizzo che il dolore non arriva. Non sono io ad
essermi scottata, è la mano di Pierre, intorno al mio braccio.
Si è
allungato dietro di me, circondandomi e coprendo la mia sbadataggine
con… sé stesso.
Sbuffa
scrollando il pungo sinistro chiuso. «Tu es comme une
fille!» mi rimprovera chiudendo il forno.
Resto
impressionata dal suo sangue freddo, da come venga prima la mia
crostata, che si assicura sia sistemata a dovere all’interno
accendendo la luce, della sua mano. Dal fatto che ha coscientemente
messo una mano sul mio braccio per non far bruciare me.
«Oh!» esclamo mortificata prendendogli il pugno ancora
chiuso. «Mi dispiace tantissimo!» continuo tirandolo verso
il lavandino, niente è efficace quanto l’acqua fredda per
le scottature.
«Imposta il timer.» mi ricorda.
«Al
diavolo il timer.» sbotto ignorandolo. Una crostata può
bruciare, anche se è la più carina del mondo, posso
prendere altre uova, altro burro, altra farina, altra marmellata e
ricominciare daccapo. Non posso fare un altro Pierre.
Apro il
rubinetto dell’acqua fredda, gli sollevo la manica – magari
ha qualche legame speciale anche con questa – e gli tiro la mano
insieme alla mia sotto il getto gelato. Ho fatto male i conti, o forse
sono stata troppo impetuosa, perché così facendo me lo
tiro praticamente addosso; tutto il suo corpo preme contro la mia
schiena, tanto che, per rispetto, mi appoggia la mano ancora buona sul
fianco per evitare contatti troppo… troppo!
Ho ancora la mano stretta alla sua.
Deglutisco e
la tiro via dall’acqua per studiarla più da vicino, sul
dorso, vicino alle nocche, è ben visibile il segno rosso che
sarebbe dovuto essere sul mio braccio.
E le sue dita circondano quasi tutta la mia, minuscola, fragile, in confronto alla sua.
«È solo una scottatura.» mormora piano, annoiato.
Non ho il
coraggio di voltarmi a guardarlo perché sento, come se fosse
ricoperto di spilli, ogni punto del suo corpo che tocca il mio:
c’è il suo torace contro la mia schiena, immagino il suo
viso sopra la mia spalla, una gamba è tra le mie, ma con
delicatezza, mi sfiora appena in un contatto non intenzionale, ma non
per questo meno reale; e la sua mano è sul mio fianco, grande
come quella che sto guardando così da vicino.
«Mi dispiace, sono un disastro.» mi scuso ancora.
Ridacchia.
«Oui, mais regarde!» lascia il mio fianco per allungare
l’altra mano ed in un modo o nell’altro mi trovo tra le sue
braccia. Si libera anche della mia stretta e si indica tutta una serie
di discromie su dita, palmo e dorso, cicatrici di anni di pasticceria,
intrappolandomi ancora di più nel suo abbraccio. Non lo si
dovrebbe chiamare così, in fondo, si tratta soltanto di
disattenzione. «Non farne una tragedia.» mi tranquillizza
facendo un passo indietro.
Io rimango
ferma per alcuni secondi, il cuore mi batte più forte, se ne
è accorto? Forse hanno ragione Tiziana e gli altri: è
troppo tempo che non sento sul mio corpo l’abbraccio di un uomo.
Immagino di essere un in crisi d’astinenza ed il mio cuore
scintilla per ogni piccolo contatto con un bel ragazzo… mi sento
un po’ patetica e tanto disperata.
«Controlla la crostata!» mi ricorda.
Chiudo il
rubinetto e mi passo la mano bagnata sul viso per placare i bollenti
spiriti: inconscio, hai retto un anno e tre mesi, non puoi piantarmi in
asso proprio adesso! Appena posso ti porto a cena con Matteo, ça va?
La crostata è pronta.
Armata di
guanti questa volta, la tolgo dal forno – che ha aperto Pierre,
ovviamente – e la poso sul piano d’acciaio. L’aspetto
è ottimo, bella dorata, promette proprio bene.
«Che ne pensi?» gli chiedo sorridendo.
«Che somiglia realmente ad una crostata e non è poco.»
Gli scocco un’occhiata indispettita, che lui volutamente ignora.
Prende un
coltello e ne taglia uno spicchio con disinvoltura, la solleva con una
mano sola, la studia. «La consistenza c’è.»
proclama, per un attimo me lo immagino con vestiti rinascimentali a
leggere un comunicato di qualche nobile, su pergamena. Sospira.
«Courage.» si dice prima di addentarla.
Mastica.
Mastica.
Mastica.
«Allora?!» domando nervosa, strizzando tra le mani il guanto che mi sono sfilata.
Alza
l’indice facendomi segno di aspettare, concentrato. «Troppo
dura. Cottura sbagliata, duecento gradi sono troppi per una crostata,
mais tu non conoscevi le four, quindi ça va.»
«Va bene?» domando eccitata, sconcertata ed incredula.
«No.» mi sembrava strano. «Manca il burro, pourquoi
il latte?» mi domanda infastidito. «Il latte non è
burro, il burro fa frollare la pasta frolla, la pasta frolla deve
frollare.»
Sbatto le palpebre dubbiosa: voce del verbo ‘frollare’? Ma esiste?
«Perché è più salutare.» mi giustifico lamentosa.
Lui mi
guarda. «Seduta.» ordina e sarà perché per
colpa mia si è fritto una mano o perché… non lo
so, avrò il morbo del cagnolino addestrato! Balzo a sedere sul
tavolo d’acciaio. Lui posa quel che resta dello spicchio di
crostata accanto allo stampo. «La signora Evelina Torindi viene
qui una volta a settimana.» lo osservo perplessa, e staremmo
parlando esattamente di cosa? «È sovrappeso, il dietologo
le ha concesso soltanto un dolce da poche calorie alla semaine.»
appoggia le mani sulle mie ginocchia ed io deglutisco sbirciandole di
sbieco, chiedendomi quanto sia un contatto intenzionale. «Lei non
mangia dolci per tre settimane, accumula le calorie e la quarta semaine
si mangia un mio tortino che ordina su misura per non…» si
morde il labbro inferiore interrompendosi, poi mi stringe il ginocchio
sinistro, per attirare la mia attenzione... come se non ce l'avesse
già. «Com’è quella parola?»
«Superare?» provo ad indovinare.
«Esatto!» esclama. «Superare… alors, per non
superare il limite. Se io le servissi la tua crostata si sentirebbe
insultata, perché ha faticato tre settimane per potersi gustare
qualcosa di buonissimo, non per qualcosa di...» fa una smorfia
schifata. «salutare.»
No, ho capito
il senso del suo discorso, nonostante continui a scrutarlo dubbiosa.
«Esiste davvero una signora Evelina Torindi?» gli chiedo
seriamente curiosa.
Lui si
allontana e, senza più il contatto con le sue mani calde, dalle
ginocchia mi parte un brivido di freddo. «Oui, una mia grande
fan.» si stiracchia incrociando le braccia dietro la testa,
languido. «Muoviti, ce ne andiamo.» salto giù dal
tavolo e recupero le mie cose tra cui anche la mia crostata, che mi
premuro di sistemare in una busta: Pierre ti odia, ma io ti voglio
bene, crostatina.
«Sono promossa?» domando, raggiungendolo mentre mi abbottono il cappotto.
Lui sta
fissando il piano di lavoro vicino al suo adorato forno.
C’è un capello, un capello scuro e lungo, un capello mio.
«No.» dice fingendo di non essersene accorto, spinto da
qualche spirito caritatevole. «Ma se c’è uno che
può fare il miracolo, c’est moi.»
Tiziana addenta la mia crosta e la mastica con calma.
«Secondo me è buonissima.» dice coprendosi la bocca con la mano. «Sam?»
La sta assaggiando anche lui. E Laura. E Simone. Tutto il mio fan club, insomma.
«La
crostata è buona, è stato deciso.» annuncia Sam ad
alta voce. «Perché non ci dici qualcos’altro?»
«Tipo?» domando candidamente.
«Non
so…» inizia Simone riempiendo un boccale di birra.
«che avete fatto mentre cuoceva, ad esempio.» spiega
malizioso.
Mi stringo
nelle spalle, seguendo con un dito la traccia umida che il mio
bicchiere di coca ha lasciato sul bancone. «Si era
scottato.»
«Scottato?!» ripete curiosa Tiziana. «In posti sconvenienti?»
La fisso
eloquente. «E come dovrebbe aver fatto a scottarsi in posti
sconvenienti?» le domando ironica, a volte la mia amica vuole
così tanto ascoltare un racconto interessante e piccante da
fregarsene del realismo.
«Beh,
se non eravate vestiti…» insinua Laura posando il vassoio,
con il quale ha appena servito le bevande, sul bancone.
Alzo gli
occhi al cielo e mi tiro su in piedi. «Ok, ok.» comincio.
«Per evitare ulteriori incomprensioni in futuro, siamo sempre
vestiti quando lavoriamo.» dico, intenzionata a non tornare ancora
su questo punto. «Si era bruciato la mano per non far bruciare
me.» concludo per soddisfare la loro necessità di
pettegolezzi.
«Davvero?!» mi sento chiedere da quattro voci in coro.
Strabuzzo gli occhi sorpresa. «Ah-ah.» mormoro timorosa e mi siedo di nuovo.
«Ma che carino!» squittisce Tiziana.
«Non
è carino, è presuntuoso.» borbotto ricordando come
ha demolito la mia adorata crostata, che poi non aveva niente che non
andava.
«Belle mani, però, vero?» domanda Laura con un’occhiata eloquente.
Non rispondo,
sa da sola cosa direi, dubito che servi la mia conferma a chi
probabilmente l’ha visto tutto.
Tiziana mi da
di gomito. «Sicura che non ci sia niente, niente, niente, che
valga la pena raccontare?» mi domanda indagatrice.
Mi tiro i
capelli dietro l’orecchio destro – più
un’abitudine che una necessità – pronta a
rispondere, ma mi blocco passandomi di nuovo le dita tra la mia chioma
lunga. «Mi tagli i capelli?» domando di punto in bianco
alla mia amica guardandola seria.
«Come?» chiede scrutandomi incredula.
«Cos’hanno che non va i tuoi capelli?» continua
adattandosi al mio repentino cambio di argomento.
Non le rispondo. «Per favore, fino alla spalla.»
«Ma… io…» tentenna. «Potrei fare un pasticcio.»
«Sai
che per alcuni secondi siamo stati praticamente abbracciati?» la
tento sventolandole sotto gli occhi una mia ciocca.
Lei si scola
l’ultimo goccio di birra rimasta nel suo bicchiere e si pulisce
la bocca con il dorso della mano con enfasi, facendomi scoppiare a
ridere. «Sam? Forbici.»
secondo voi a Pierre piaceranno i capelli corti?
lo scoprirete nella prossima puntata...
come vedete qualcosa si muove nella pasticceria... nella prossimo
capitolo si muoverà qualcosa anche in casa di Daniele e
Veronica...
nel frattempo se mi dite che ne pensate di questo mi farete felice!
baci
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo 5 - autocombustione spontanea ***
Patisserie française
fragolottina's time
oh! ma quante siete nelle scorso capitolo...
non sapete quanto mi è dispiaciuto rimandare tanto la
pubblicazione del capitolo e quindi anche la risposta alle vostre
recensioni... cmq ora sono qui e per un po' dovrei stare tranquilla e
scrivere!
che poi - se qualcuno ha sbirciato il mio journal lo sa - ero
frustratissima perchè tutto il cap ce lo avevo in mente, ma non
potevo proprio permettermi di rubare tempo allo studio...
perciò, ahimé, scusate!
buona lettura...
CAPITOLO 5
Autocombustione spontanea
Rimango a guardare il mio riflesso nello specchio del bagno di Daniele. So che ora dovrei chiamarlo il mio specchio del mio bagno, ma questa casetta non è ancora mia, probabilmente perché la stanza è ancora popolata da scatoloni.
Prendo la
spazzola e me la passo sul lato destro dei capelli, ripromettendomi di
non andare al ‘Black Star’ stasera dopo il lavoro, ma di
rimanere diligentemente a casa a disfare i bagagli; quasi sussulto
quando raggiungo la fine, però sorrido voltando il viso da una
parte all’altra. Non ricordo l’ultima volta che ho avuto i
capelli tanto corti, li ho tenuti lunghi fino a metà schiena
credo da dopo il diploma, limitandomi ad una spuntatina di tanto in
tanto. Ora mi arrivano a malapena alle spalle, dritti e lucidi, quasi
neri, forse mi piacciono di più così. Ammetto, di aver
dubitato delle doti di coiffeur di Tiziana per un momento ed invece ha
fatto davvero un buon lavoro.
«Che ne pensi?» domando a Daniele raggiungendolo nella zona giorno.
Lui mi lancia
un’occhiata veloce, mentre si allaccia le scarpe. «Ti
stanno bene. Perché ti ha obbligato?» mi domanda
dimenticando di menzionare il soggetto della frase, ma, infondo, chi
altri potrebbe seriamente farsi dei problemi per la mia acconciatura?
«Beh…» inizio, tornando in bagno a mettermi il
mascara, tutto il resto si può anche saltare, ma il mascara
è sacro. «avevamo fatto un patto.»
«La stai prendendo sul serio questa cosa del conquistarti i suoi favori.» commenta, dal divano.
Mi fermo e guardo il mio riflesso negli occhi, quanto la stai prendendo sul serio, Veronica?
«Mi conviene non trovi?»
«Immagino di sì.» risponde senza eccessivo
interesse. «Però sei la prima che arriva a tagliarsi i
capelli.»
Perché la stai prendendo così sul serio, Veronica?
«Magari resisterò più di tre mesi.» sdrammatizzo, ridacchiando stranamente nervosa.
Lo sento
ridere. «Lo spero.» pausa. «Vuoi venire in macchina
con me?» mi invita gentile. «Se vuoi ti aspetto.»
«Non preoccuparti.» mi siedo sulla tavoletta del water.
«Ok, a dopo.»
Lo sento
chiudere il portone, mentre io resto lì con il tubetto di
mascara in mano a riflettere, senza raggiungere conclusioni molto
incoraggianti.
Eleonora è davanti al
bancone a parlare con Daniele. Questo vuol dire che sono in ritardo a
livelli inimmaginabili. Questo vuol dire che Pierre avrà una
crisi isterica… che ottimo modo per iniziare la giornata.
«Oddio!» esclamo nel panico. «Che ore sono?»
La Bernardi
studia il proprio orologio mescolando un cappuccino. «Le cinque e
tre quarti, Vero…» si volta a guardarmi e si blocca.
«Ehilà…» annuisce compiaciuta.
«Qualcuno ha fatto un cambio di look molto azzeccato!»
Sorrido
arrossendo. «Grazie.» borbotto un po’ imbarazzata,
non dovrei, ma ho qualche problema con i complimenti molto calorosi.
«Ha già minacciato di farmi licenziare?»
Daniele ridacchia e si stringe nelle spalle. «Solo un paio di volte.»
Mi sfugge un’imprecazione poco signorile, ora chi lo sente tutto il giorno?
«Allora, ti sei sistemata bene nell’appartamento?» mi
domanda Eleonora rilassata, mentre io sono tutta presa a cercare dentro
di me il coraggio di entrare in cucina: mi lancerà una teglia?
Mi farà a pezzi e mi infilerà nel suo forno miracoloso?
«Si,
abbastanza.» borbotto sedendomi sullo sgabello. Ho deciso di
aspettare, sono troppo codarda e se ha minacciato di licenziarmi due
volte ci sarà anche una terza. «Anche se sto pensando di
ridipingere le pareti di un colore più soft…»
lancio un’occhiata a Daniele. «sempre che non ti dia
fastidio.» aggiungo visto che il padrone di casa è pur
sempre lui.
Ma il mio
amabile padrone di casa si stringe nelle spalle con noncuranza servendo
una tazza di cappuccino anche a me. «Nessun problema, fai
pure.» mi appunto mentalmente di trovare un imbianchino.
«Come è andata ieri la prova del nove con Robespierre?» mi domanda Eleonora.
Una tragedia?
Una carneficina?
«Ha
bocciato la mia crostata su tutti i fronti.» ammetto, sentendomi
un po’ stupida a farlo. Potrei mentire, no? Dirle che secondo
Pierre c’erano delle cose da migliorare ma che, in totale, non
l’ha trovata male. Infondo, Eleonora, anche se si mostra carina e
disponibile quasi come una sorella maggiore, è pur sempre il mio
capo; ma non riesco a non dirle la verità, è stata
incoraggiante con me, mi ha confortato dai giudizi troppo acidi di
Monsieur ‘io sono un pasticcere e tu no’ Mureau, sarei
davvero una persona orribile se la ricambiassi con una bugia.
«È stato lì a masticare non so quanto per dirmi che
era un disastro.» concludo a capo chino, versando una bustina di
zucchero nel mio cappuccino.
Quando alzo lo sguardo sia Daniele che Eleonora mi stanno fissando ad occhi sgranati, che ho detto?!
«Vuoi
dire che ha assaggiato quello che hai preparato?» mi domanda
Eleonora alla ricerca di delucidazioni, è così sorpresa
che la sua voce raggiunge una nota quasi stridula, rispetto al suo
solito tono pacato.
Sbatto le palpebre perplessa. «Perché non avrebbe dovuto?»
Eleonora
salta giù dallo sgabello e viene ad abbracciarmi. «Oh,
ragazza mia, quanto ti voglio bene!»
Io fisso
Daniele che sorride da sopra la sua spalla con un misto di sorpresa
e… beh, ammetto che c’è anche una puntina di paura.
Alla fine sollevo la braccia per ricambiare la sua stretta, ma con
meno calore.
La Bernardi
si allontana un pochino, ma continua a tenermi le mani sulle spalle.
«Sei la prima con cui lo fa, questo significa che per quanto
sbuffi, soffi e si lamenti tu gli piaci e ti vuole tenere.»
Sgrano gli occhi, accidenti, ora sì che sono incredula.
«Davvero?» domando.
«Qu’est-ce que vous faites?»
La mia domanda rimarrà senza risposta.
«Non
sei qui per fare pubbliche relazioni, Veronica!» mi sgrida,
sembra il mio professore di chimica – bastardissimo –
all’università.
Sospiro
scendendo di mala voglia. «Eccomi, sto arrivando.» cerco di
calmarlo, il mio scarso entusiasmo è proporzionale alla sua
scarsa tranquillità.
«Muoviti.» dice a me, scostandosi poco dalla porta della
cucina per farmi passare. «E vous non distraetela.»
continua rivolto ad Eleonora e Daniele. Il capo sarà pure lei,
ma è lui a dettare legge qui dentro.
Mi chiudo
dentro il ripostiglio della Bernardi ed inizio a svestirmi per
cambiarmi, almeno oggi sono sola qua dentro, forse dovrei fare sempre
cinque minuti tattici di ritardo, in modo da garantirmi un po’ di
privacy. Mi lancio un’occhiata alle spalle, dove di solito
c’è Pierre mezzo nudo… rido sotto i baffi: no,
meglio essere puntuali.
«Sei
nuda?» domanda ‘il diavolo cucina biscotti’. Sono
davvero stata così ingenua da parlare di privacy? Che sciocca
ragazza sono.
«Quasi, dammi un minuto.»
«Non puoi tardare e metterti a fare conversazione con Nora.» esclama irritato.
Sospiro. «Mi voleva parlare, è lei che firma il mio stipendio.»
«Chiacchiere da fammes, ci voleva un uomo.»
«Stronzo misogino.» borbotto.
«Sei mia.»
Mi fermo con
i pantaloni da abbottonare e fisso la porta per qualche secondo.
«Un po’ meno di così.» gli ricordo, sono io a
decidere di chi sono e so per certo che non ho mai scelto di essere sua.
«Sei la mia aiutante pasticcera, tra queste mura sei mia.» ribadisce.
Mi chiedo che senso possa avere discutere con una persona così.
Finisco di
prepararmi, poi apro la porta dello studio, trovandomelo davanti. Il
cuore mi saltella in petto, ma fingo indifferenza dopo aver deglutito
un groppo di panico, ma un panico denso come la melassa, dolce come la
vaniglia, quasi piacevole. «Non hai tutti i tuoi tortini che ti
aspettano?» gli domando, possibile che non abbia altro da fare se
non gli appostamenti a me?
Apre le bocca
per parlare, ma poi si ferma. «Hai tagliato i capelli.»
dice facendo un passo indietro, tutto il suo viso è una maschera
di stupore.
Lo supero
annoiata e mi avvicino al lavandino per lavarmi le mani e recuperare un
paio di guanti in lattice. «Avevamo fatto un patto, no?»
che lui non mi ha ricordato di rispettare e che forse non si aspettava
che rispettassi, ma che incomprensibilmente ho deciso di onorare.
Guardo la
pila di teglie accanto a me e cerco il burro, armandomi di santa
pazienza e rassegnandomi ad un’altra giornata noiosa ed inutile.
«Nel
terzo cassetto a destra ci sono gli stampini per i biscotti.» mi
fermo con un guanto infilato ed uno no e mi volto ad osservarlo, sta
riempiendo dei bignè senza prestarmi troppa attenzione.
«In ogni teglia ce ne vanno venti, il mattarello dovrebbe essere
con gli stampini e sul piano di lavoro c’è la guida per lo
spessore.»
Scuoto la testa. «Perché ho tagliato i capelli?»
Lui solleva
il viso e mi fissa, i suoi occhi mi entrano dentro, scombussolano il
mio mondo e ne riescono. «Perché stamattina somigli
più ad una pasticcera che ad una biologa.» torna al suo
lavoro, ma non mi sfugge il suo sorriso divertito. «Continua
così e fra tre anni potrei farteli anche glassare.»
Che senso dell’umorismo distorto…
Recupero
quello che mi ha detto e mi posiziono dietro di lui. «Non
dovresti maltrattarmi, sai?» lo minaccio. «Potrei baciarti
di nuovo.» gli ricordo arrossendo, perché ho tirato fuori
di mia spontanea volontà questo discorso è un mistero.
Lo sento ridere. «Quello non era un bacio, i baci sono umidi.»
Mi mordo le
labbra e sistemo al guida – una barretta di plastica da
posizionare sotto il mattarello per essere sicuri che la pasta non sia
né più spessa né più sottile di quella
– ed inizio a lavorare. «Ah no? E che cos’era?»
«Questo dovresti saperlo tu.»
«Ho sempre pensato che quando due labbra si toccano è un bacio.»
«Significa che sei una frana a baciare...» fa un passo
indietro appoggiandosi alla mia schiena ed allungandosi sulla mia
spalla per lanciarmi un’occhiata. «oltre che a fare
crostate.» ho la sua guancia ad una soffio dalla mia.
Rispondo alla sua occhiata indispettita e me lo scrollo di dosso, ma continuo a sorridere ed arrossire.
Apro il mio nuovo armadio ed
inizio a posizionarci tutti i vestiti che, da brava ragazza
lungimirante quale sono, ho messo negli scatoloni già provvisti
di grucce. Matteo mi ha mandato un messaggio dicendomi che avrebbe
fatto un salto al ‘Black Star’ questa sera e che sperava di
trovarmi lì, temo che avrà una delusione, prima di qual
si voglia svago devo finire questo trasloco, soprattutto perché
praticamente non ho più niente da mettere. Ad un eventuale primo
appuntamento non posso presentarmi né con una tuta né con
la divisa della ‘Pâtisserie française’.
Una volta
sistemate le stampelle, apro la scatolone che ero sicura contenesse le
magliette, ma che scopro pieno fino all’orlo di scarpe… e
dove sono finite le magliette?
Decido
vigliaccamente che è ora di una pausa, perché ho i piedi
a pezzi. Magari fare dolci non è stancante quanto tirare su un
palazzo di dieci piani, ma stare qualcosa come undici ore in piedi
è in ogni caso faticoso; forse ha ragione Pierre starsene in un
laboratorio a sbirciare dentro ad un microscopio potrebbe essere
davvero più leggero. Ripenso anche alla proposta di mia madre di
darmi una mano a sistemare tutto, in uno slancio di autonomia le avevo
risposto di no, ma forse un aiutino mi serve davvero. So che lei vuole
venire qui soltanto per conoscere il mio coinquilino ed accertarsi che
non sia un mio fidanzato che le ho tenuto nascosto – mia madre
capisce sempre con chi ho un tresca in ballo – ma questa volta
non ho niente da nascondere, tanto vale far sentire tranquilla anche
lei.
Mi dirigo
pigramente in cucina alla ricerca di qualcosa di rilassante da bere,
per poi mettermi a letto, fingendo di ignorare Pierre stravaccato sul
divano che digita parole sul suo portatile. In realtà è
impossibile ignorarlo, perché è bello come il sole.
«Moi aussi, s’il vuos plaît.»
Sospiro. «Cosa?»
«Quello
che prendi tu.» gli lancio un’occhiata stupita, trattandosi
di lui è quasi una dichiarazione d’amore.
Recupero un
barattolo di camomilla solubile dal mio sportello e ne verso un
cucchiaino in due bicchieri, magari gli da una calmata e magari la da
anche a me.
«Daniele è uscito?» domando aggiungendo acqua
tiepida, perché ad un certo punto avevo sentito la porta
chiudersi ed evidentemente non è stato Pierre ad andarsene.
«Ah-ah.»
Siamo di nuovo soli, quindi…
Oh, ti prego, Tiziana, Sam o chiunque altro non fatemi fare figuracce… altre figuracce.
Prendo i due
bicchieri e lo raggiungo sul divano, lui mi aspetta con la mano
sollevata ed il palmo aperto. «Merci.» mi ringrazia ancora
prima che glielo abbia consegnato, senza staccare gli occhi dallo
schermo. Ma io appoggio entrambe le camomille sul tavolinetto da
caffè davanti a noi e gli afferro la mano per studiarla;
è la stessa che si è scottato ieri, voglio quantificare
il danno ora che non è più arrossata e gonfia. Non
è un bello spettacolo, si è formata la vescica, ma
ammetto che non è nemmeno la bruciatura peggiore che io abbia
mai visto.
Sbuffa. «Te l’ho detto che non è niente, vrais?»
«Oui.» rispondo ridacchiando e porgendogli infine il suo
bicchiere di camomilla; mi stringo nelle spalle recuperando anche il
mio. «Ma visto che è colpa mia volevo controllare.»
gli spiego.
Lui mi studia
appoggiando la testa all’indietro sullo schienale del divano e
chiude il suo netbook. «Sembri stravolta, sai?»
Sospiro,
ammetto che ingenuamente per una manciata di secondi ho davvero pensato
che potesse dirmi qualcosa di gentile. «Nemmeno tu sei gran
ché.» mento spudoratamente.
Poso le
labbra sul bordo di vetro senza bere, sto riflettendo ed annusando
l’odore dolce e rassicurante della camomilla, confidando nelle
sue qualità terapeutiche. Sto cercando di quantificare il mio
livello di consapevolezza del gomito di lui contro il mio, del
ginocchio suo, scomposto, sbracato, che tocca la mia coscia giunta in
modo fin troppo rigido. In una scala da uno a dieci in cui uno è
‘non me ne accorgo nemmeno’ e due ‘brucia’, io
sono sul venti: autocombustione spontanea. Ingoio un lungo sorso alla
ricerca della calma promessa sulla confezione.
«Come mai non sei più uscita?» mi domanda di punto in bianco.
Scuoto la testa rassegnata e sospiro. «Te lo ha detto Daniele?» sbadiglio.
«Oui, non è il ragazzo a cui hai dato buca anche ieri?» chiede ancora.
«Magari
è un altro.» ribatto, curiosa di sapere da quando si
interessa della mia vita fuori dalla cucina.
«Non sei quel tipo di ragazza.» dice scuotendo la testa.
Poso la
camomilla, che si sta rivelando inutile - manderò una lettera di
lamentele all’industria che la produce - e mi stringo un cuscino
in grembo, mentre mi lascio cadere contro il bracciolo con la schiena.
«E che tipo di ragazza sarei, sentiamo.» tra me e lui ora
ci sono le mie gambe ripiegate, le guardiamo tutti e due e forse mi
sbaglio, ma mi sa che stiamo anche pensando le stesse cose.
Alza gli
occhi sul mio viso. «Il tipo che si innamora giovane, si sposa
perché non ha bisogno di cercare ancora e fa quattro
figli.» non dico niente perché da come mi guarda mi sento
autorizzata a pensare che sia una specie di complimento, comunque
quest’uomo ha dei problemi seri con le frasi gentili. «Cosa
te lo ha impedito?»
Ok, basta.
«Ho conosciuto Laura.»
Lui sgrana gli occhi e, per tutti gli angeli del paradiso, arrossisce. «Come hai fatto?»
Ridacchio sadicamente. «Il locale dove lavora è del fidanzato della mia migliore amica.»
«Sam?» domanda per conferma.
Annuisco e mi
faccio più vicina a lui, ho trovato il tallone di Achille di
Pierre. «Dai, racconta.» lo pungolo stringendomi le
ginocchia al petto.
«Ci siamo conosciuti, ci siamo piaciuti, baci, sesso etc. e ci siamo lasciati.»
Metto su il broncio. «Che racconto deludente!» commento.
Lui scrolla le spalle guardandomi. «Tutto le storie d’amore sono così.»
Appoggio il
mento sulle ginocchia un po’ imbronciata, so di avere
ventiquattro anni, che il mio primo vero fidanzamento è stato un
disastro, che soltanto dopo un anno e tre mesi ho iniziato a pensare di
ricominciare a frequentare un ragazzo, eppure io ancora credo in quella
favola del ‘vissero per sempre felici e contenti’. Non mi
piace sentirmi sbattere in faccia il sogno infranto, nemmeno se sei il
pasticcere francese più chiacchierato.
Lui sbuffa
fingendosi irritato, ma in realtà sembra piuttosto divertito, ed
alza gli occhi al cielo, prima di passarmi un braccio sotto i polpacci
ripiegati ed abbracciarli. «Tu es comme une fille.» ma
stavolta non c’è quella nota seccata nella sua voce.
Lo studio
tirando indietro la testa, agitata da quella vicinanza improvvisa e
realizzo una cosa incredibile. «Fuori dalla cucina sei quasi
simpatico, sai?»
Si stringe nelle spalle. «Il lavoro è lavoro.»
«Devo
ridipingere la camera.» inizio senza avere davvero coscienza di
quello che sto per dire. «Mi aiuti mercoledì
prossimo?»
Lo fisso negli occhi ed ho quasi paura di un rifiuto, nemmeno gli avessi chiesto di sposarmi!
«Oui.» dice semplicemente lui.
Sorrido perché non c’è niente di cui avere paura.
Il giorno dopo sono arrivata
puntuale al lavoro e sono qui con le mie formine ad intagliare
biscotti. Pierre alle mie spalle sta facendo una torta di compleanno a
tema ‘Fragolina Dolcecuore’, Eleonora gira per il locale
con l’auricolare all’orecchio per contattare tutti i
fornitori e Daniele si sente canticchiare dal bar. Canta ‘Teenage
Dream’ di Katy Perry perché era la stessa canzone che
fischiettavo io mentre mi vestivo. No, non gli è sfuggito
affatto che alle cinque, dopo aver dormito poche ore e prima di andare
a lavoro, fischiettassi tutta contenta, ma si è limitato a
scrutarmi divertito senza indagare oltre.
Insomma, oggi mi sembra quasi di essere una persona normale, che fa un lavoro normale con colleghi normali.
Almeno finché Eleonora non sputa fuori un: «Ehi, ragazzina! Non si può stare qui!»
Mi volto
distogliendo l’attenzione dai miei biscotti giusto il tempo per
vedere una ragazza bionda tuffarsi in lacrime tra le braccia di Pierre.
Lui rimane per un secondo senza fiato, poi la stringe a sua volta con
tanta intensità da farmi pensare che siano anni che non si
vedono, anni che lui ha passato pensando a lei soltanto. La sento
singhiozzare, farfugliando parole in francese immagino, le mani
aggrappate alla sua schiena al suo camicie.
Le bacia i
capelli ad occhi chiusi, completamente ed inconfondibilmente perso; io
deglutisco un groppo di qualcosa a cui non voglio dare un nome, prima
di leggere sulle sua labbra un nome: «Claire.»
sono malefica tanto a lasciarvi così, eh?
dai però devo pur incentivare la vostra voglia di continuare a leggermi...
cmq, chi sarà questa Claire?
vi dico solo che si vedranno delle belle!
spero di trovarvi ancora qui nonostante la luuunga attesa!
alla prossima...
baci
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=923819
|