Come nelle favole

di Kaho
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un cesto di frutta ***
Capitolo 2: *** La nonna ***



Capitolo 1
*** Un cesto di frutta ***


Disclaimers: I personaggi appartengono alla sottoscritta.

 

 

 

Come nelle favole

 

 

 

 

 

 

Un pulsare ritmico, famelico lo svegliò.

Inizialmente William non aveva capito da dove provenisse: era un dolore diffuso, apparentemente uniforme, dolorosamente acuto, non dissimile dalle emicranie che lo colpivano nelle notti insonni passate sui suoi progetti. Poi, appena il torpore del sonno si era leggermente dissipato, una fitta lo aveva trapassato facendolo sobbalzare, ed era divenuto consapevole dell’avambraccio palpitante.

Un suono simile a un guaito gli sfuggì dalla bocca, mentre con un gesto febbrile alzava le lenzuola. Fissò l’avambraccio coperto di bende sporche di sangue e per metà disfatte; strabuzzò gli occhi, e urlò.

«Signor Phillips!»

Un’infermiera era entrata sbattendo la porta e, neanche il tempo di collegare la sua presenza, l’estraneità della stanza e il braccio ferito, William si era trovato a boccheggiare mute domande e, subito dopo, a gemere non troppo sommessamente.

«Non dovrebbe essere ancora sveglio», disse l’infermiera, più a se stessa che a lui, controllando rapidamente la flebo (che, William notò solo in quel momento, era attaccata al braccio sinistro, quello sano), affranta e agitata.

«Mi spiace, signor Phillips, l’anestesia avrebbe dovuto durare almeno altre cinque ore… Non so proprio perché lei sia sveglio»

William pensò che no, non gli interessava che l’anestesia avrebbe dovuto renderlo cosciente del dolore solo fra cinque ore; no, no, no, a lui interessava solo sapere perché il braccio gli facesse così fottutamente male.

«Dove mi trovo?», riuscì a borbottare alla fine, cercando di tornare lucido e di ignorare quel cuore che batteva nel suo arto destro.

«Al St. Louis Hospital», rispose meccanicamente l’infermiera, sfogliando velocemente i parametri della cartelletta clinica attaccata al suo letto.

Will girò lievemente la testa nel tentativo di incontrare il suo sguardo senza fare movimenti troppo bruschi. La donna era un esserino minuscolo e impettito, biondo, con due occhi verdi quasi uguali a quelli di Maddy, solo leggermente più brillanti.

Maddy!

«Dov’è mia moglie?! Maddy sta bene? Che ci è successo?!»

Quell’elenco di domande non aveva scalfito la donna, notevolmente più calma ora. Con decisione buttò fuori dal letto le lenzuola e, con suo grande stupore, tirò verso l’alto la maglietta del pigiama.

«Cosa sta–?»

«Davvero non ricorda?» lo interruppe interrogativamente la donna, inarcando le sopracciglia. Probabilmente vide il suo turbamento, giacché cominciò a rispondere alle sue domande, iniziando a tastargli il petto. «Le sto controllando le fasciature… diamine, temo proprio che dovrò chiedere subito al dottor Torres di cambiarle, sono tutte sfatte, come diavolo ha fatto a muoversi così tanto da scombinarle? In ogni caso, signor Phillips, si trova all’ospedale a causa di una pallottola vagante. Ricorda la battuta di caccia ai daini a chi ha partecipato?»

«Caccia ai cosa?! Oh…»

All’improvviso, il volto sogghignante di Paul McCarthy, il vicino, e del suo suocero Antonio dipanarono la nebbia che aveva nascosto i suoi ricordi.

«Certo, sì», si trovò a raccontare, più a se stesso che all’estranea alla sua destra, srotolando la matassa della memoria. «Eravamo appena partiti, saranno state le quattro del mattino, più o meno, ricordo che era ancora tutto buio: il tempo perfetto per andare a caccia di daini. Poi i cani hanno cominciato a ululare e, all’improvviso, una grossa creatura è apparsa da non so dove e…»

Prese fiato.

Il bosco era pieno di silenzio, quella notte; rammentava di aver rabbrividito e di aver cercato di persuadere Tony e Paul dall’uscire, ma Tony era stato categorico: voleva un bel maschio come trofeo dell’ultima notte di caccia. Avevano seguito un vecchio sentiero tracciato dagli animali che aveva scovato Paul l’anno scorso: portava a una raduna in cui i daini avevano spazio per lottare, un ritrovo per il periodo dell’accoppiamento. «Quei fottuti cervi moriranno meglio di me» aveva sogghignato Paul, mimando un gesto osceno. Nessuno dei due anziani cacciatori era parso intimorito dalla foresta, e William non aveva voluto essere da meno; aveva sposato da soli tre anni Maddy, ed era ancora difficile far digerire l’affare allo scorbutico Tony. L’unica passione in comune era la caccia, che da buon sudista William praticava annualmente con entusiasmo (e legalmente). Aveva appena cominciato a farsi accettare, e non aveva voluto passare per codardo. Non si erano minimamente accorti del bestione; nella testa di William, rimaneva solo un’ombra vaga ma gigantesca, che lo afferrava al braccio e lo trascinava velocemente nei cespugli. Il dolore era stato lancinante: ricordava solo quello, prepotentemente padrone del suo cervello, e le sue grida mischiate a quelle di Paul e Tony. Poi, il risveglio. Ancora il dolore.

«Aaah!», urlò, digrignando i denti.

L’infermiera parve di nuovo preoccupata. «Che succede? Le ho fatto male?»

«Il braccio…» sfiatò Will, esausto, strizzando gli occhi.

«Il braccio?» domandò confusa la donna. «Sente dolore al braccio?»

«Sì, parecchio», rispose, irritato. Datemi qualcosa, un cazzo di anti-dolorifico, quello che volete, ma fatelo smettere!

Pulsava, pulsava, come se i denti della bestia fossero ancora all’interno della carne e la stessero maciullando.

L’infermiera inarcò le sopracciglia, pensierosa. «Non sente niente al petto?»

«No, no, ascolti, è il braccio–»

La mano della donna gli afferrò il braccio sinistro. Il contatto, o forse il viso risoluto dell’infermiera, riuscì a tranquillizzarlo e, di conseguenza, placare le fitte. Forse era la freddezza di quella mano, che agiva come ghiaccio su una botta; forse il dolore era immaginario, una specie di fantasma. Forse… no, il dolore era ancora lì, smorzato, quasi fosse un animale braccato nascosto nel sottobosco, respirando piano, regolarmente.

«Chiamo il dottore, aspetti qui».

«Un momento!», la fermò lui, spaventato dai suoi stessi pensieri e con il bisogno di sapere che andava tutto bene. «Cos’è successo

«Siete stati attaccati, dal morso slabbrato pare possa essere un grosso cane selvatico», spiegò con voce quieta l’infermiera, guardandolo fisso negli occhi, come potesse spegnere le sue ansie. «Nel tentativo di fermare la creatura, uno dei suoi amici l’ha colpita al petto, appena sopra la spalla. Fortunatamente non ha colpito nessun organo vitale. Il rumore deve aver spaventato il cane, perché è scappato via. Non l’hanno più trovato.»

«Un cane?» questionò Will, perplesso. Un cane di quelle dimensioni poteva esistere? «E Maddy dove si trova?»

L’infermiera sorrise. «Maddalena, giusto? Sua moglie è rimasta qui tutto il tempo. Voleva esserci per quando si fosse svegliato.»

Il pensiero di rivedere Maddy, che lei stesse bene e si fosse preoccupata per lui, lo rinfrancò. «Potrebbe entrare adesso?», chiese, quasi timidamente.

«Mmh…» La donna parve titubare un momento, ma un piccolo sorriso complice fece capolino dalle sue labbra. «Il dottore non l’ha vietato, ma temo che dovrà aspettare qualche minuto, giusto il tempo di una visita rapida e di un cambio di bende. Può farlo?»

«Okay…»

«Sarò un lampo».

L’infermiera varcò di nuovo la soglia, mentre Will continuava a domandarsi solo una cosa: un cane?

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa storia avrebbe dovuto partecipare alla challenge “We Love Werewolves!” indetta da Mala_Mela (Clà).

Siccome l’ho iniziata, e ho fatto voto a me stessa di finire, per una benedetta volta!, una long-fic, mi ci dedicherò con energia. Non prometto aggiornamenti veloci, anzi, temo di essere incredibilmente lenta nello scrivere. Lupo avvisato, mezzo salvato (?). XD

Dovrebbero essere tre capitoli totali, in ogni caso, nulla di così gravoso da non essere concluso entro l’anno.

Spero che la storia vi abbia incuriosito. ^^

Ringrazio Clà per l’iniziativa che mi ha ispirato (il titolo è uno dei prompt da lei ingegnati), e i lettori che passeranno di qui.

Fiera di contribuire al rimpolpare le file delle storie sui licantropi! *_*

 

Kaho

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Capitolo 2
*** La nonna ***


 

Dopo appena una settimana e mezzo, il dottor Torres l’aveva dimesso complimentandosi per la rapida cicatrizzazione delle ferite. «Lei deve essere una specie di supereroe», aveva scherzato il medico, stringendogli la mano. Will – che cercava di non digrignare i denti e di ignorare il braccio fasciato – aveva riso, ricambiando la stretta vigorosamente.

Tornato a casa, non aveva fatto altro che domandarsi se il dottore non avesse sbagliato con la diagnosi, dato il continuo pulsare. Quando Maddy andava a prendere le garze pulite, lasciandolo solo nella stanza da letto, Will si ritrovava a ispezionare il braccio, strizzando e tastando il muscolo alla ricerca di qualche dente, qualche strumento chirurgico, magari lasciato lì durante l’operazione, qualcosa, insomma, che potesse spiegare la sensazione di essere divorato.

Ne aveva parlato con Torres, lo aveva ripetuto a Maddy, e la soluzione concordata era stata mandarlo da un altro dottore, un certo Bean, psicanalista dai capelli afro e un cognome ridicolo. Questi sosteneva che la sua mente continuava a risalire al giorno dell’aggressione, creando un dolore fantasma. Prenderne consapevolezza l’avrebbe liberato, lo aveva rassicurato Bean; e, da allora, Will aveva continuato a ripetersi che il braccio stava bene, ma non era migliorato per niente.

Quando lo accennava a Maddy, lei gli lanciava un’occhiata perplessa e diffidente, richiudendosi dietro un’armatura di fredda fermezza che lo irritava, fino all’eruzione.

Durante l’ultima lite, risalente a qualche settimana prima, aveva ritentato a farle capire che non poteva sbagliarsi lui. Era il suo corpo, ci aveva convissuto per trentatré anni, nella gioia e nel dolore, collezionando una serie notevole di slogature, rotture, cicatrici. Ne conosceva i limiti, testati nelle arrampicate e sulla mountain bike, e in quel momento, più che mai, lo sentiva reagire, i muscoli che crescevano, i peli che si allungavano, ogni dannata unghia che a fatica riusciva a tagliare con le forbici, quasi fossero zanne…

Will aveva paura, ora, del suo corpo.

«I dottori non possono essersi sbagliati, Will, devi solo metterci forza di volontà», aveva detto Maddy, inconsapevole del terrore che, insieme al dolore, non lo faceva dormire di notte.

«Mi fa male, Mads, non so scherzando».

«È solo una sindrome, un po’ come quella del Vietnam… passerà. Devi solo impegnarti di più».

«Ma se mi fa male, che cazzo dovrei fare secondo te?! Non me lo sto mica immaginando!»

E giù pugni sul letto, imprecazioni, insulti ai medici. Maddalena, invece, si era limitata a voltargli le spalle e chiudere dietro di sé la porta della stanza da letto con un secco:

«Mi stai facendo impazzire, William».

Fine del discorso. Maddy non ne aveva voluto parlare più. Era diventata più fredda durante i primi tempi di convalescenza e, man mano passavano i giorni, William si accorgeva di averla allontanata con le sue stupide ossessioni. Aveva dovuto accantonare se stesso, ignorare il proprio corpo, aveva cercato di rimediare al meglio.

Una sera, per contrattare la pace, si era alzato dal letto con l’agilità di un ragazzino, aveva scelto un CD dei Coldplay, lo aveva messo nello stereo, aveva ordinato due pizze e due lattine di coca. L’aveva accolta così, sorridendo e chiedendole com’era andata la giornata. Maddy aveva pianto un po’, commossa, e lo aveva baciato con il trasporto dei primi mesi d’innamoramento; avevano fatto l’amore tanto irruentemente da spaccare una doga del letto. Avevano riso per dieci minuti buoni, ancora eccitati, innamorati, finalmente riconciliati dalla cara, vecchia routine.

Situazione sentimentale risolta; peccato che il braccio gli facesse ancora male.

«Andremo ancora dal dottor Torres», lo aveva rassicurato Maddy, sdraiata sopra di lui, facendo attenzione a non pesargli troppo sul petto. «O consulteremo qualche specialista».

Per il suo bene, Will aveva cominciato a tacere. C’erano altre cose che erano cambiate da quell’incidente; ma di quelle, Will non ne fece mai parola con nessuno. Cercava di zittire anche i propri pensieri, perché erano completamente folli, irrazionali. Come si può pensare di essere una bestia?

Eppure…

Negli ultimi giorni di ospedale aveva dato di stomaco ben quattro volte a causa dell’odore nauseabondo di malattia, feci e medicinali, fattosi incredibilmente intenso. All’inizio credeva fosse colpa del suo vicino, un vecchio a cui avevano dovuto tagliare un piede a causa del diabete. Poi, tornato a casa, gli odori avevano continuato a essere persistenti e incredibilmente distinguibili l’uno dall’altro, persino quelli più delicati come la saponetta del bagno. E ciò che lo angosciava era che riusciva a sentirla anche fuori di casa.

Poi, veniva il suo desiderio sessuale, quasi quadruplicato dalla serata pizza. Piuttosto normale dopo un periodo di astinenza; peccato che non riuscisse bene a contenere la sua forza, anche quella inspiegabilmente accresciuta: Maddy non glielo aveva rinfacciato, ma sapeva di averle lasciato dei lividi sulle braccia la scorsa notte.

Il fatto era che, quando cominciava a baciarla, non riusciva a fermarsi: le sue dita di muovevano quasi slegate dal corpo, avviluppando la carne tenera e pallida di Maddalena, e le sue gambe la imprigionavano; la penetrava quasi inconsapevolmente, riprendendo coscienza solo raggiunto l’orgasmo. Si vergognava di trattarla così rudemente; s’indispettiva all’idea di non ricordare nulla, al di fuori del piacere dilagante. Ma non riusciva a controllarsi: il suo corpo reagiva d’impulso, soffocandolo dentro la sua stessa carne. Guardando la pelle pallida della sua giovane compagna, coperto soltanto dalla vestaglia rossa, non provava che la voglia di morderla. Pareva una ciliegia, una succulenta ciliegia.

Si sentiva prigioniero di un’altra creatura che, piano piano, stava germogliando dal suo braccio, facendosi spazio nel suo corpo come edera.

La sentiva nelle unghie, nei denti, nei muscoli, nelle ossa; ma soprattutto, sentiva il suo cuore pulsante sull’avambraccio.

«Ehi, gioia, dove sei? Ah, sei a letto, come sempre!»

La testa bruna e riccia di Maddy sbucò dalla porta. Quasi rideva mentre apriva l’uscio, mostrando con entusiasmo ben visibile il loro zaino da trekking.

«Indovina chi ci ha invitato per il week-end?», esclamò, saltellandogli incontro e buttandosi fra le sue braccia. Will si trovò, suo malgrado, a sorridere.

«La cara, adorabile nonna Giuditta?»

 

 

 

 

 

Dopo lunghi, affannosi mesi di esami, sono riuscita a completare la seconda parte. La terza sarà l’ultima, e posso anticipare che si tratterà del capitolo sul cacciatore. Direi che non manca nulla, no? (:

Grazie milla a Mao chan, che ritrovo sempre volentieri sul mio cammino. Un grazie anche a chi legge, sempre.

Ci rivedremo all’epilogo!

 

Kaho

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