Disclaimers:
I personaggi appartengono alla sottoscritta.
Come nelle favole
Un
pulsare ritmico, famelico lo svegliò.
Inizialmente
William non aveva capito da dove provenisse: era un dolore diffuso,
apparentemente uniforme, dolorosamente acuto, non dissimile dalle emicranie che
lo colpivano nelle notti insonni passate sui suoi progetti. Poi, appena il
torpore del sonno si era leggermente dissipato, una fitta lo aveva trapassato
facendolo sobbalzare, ed era divenuto consapevole dell’avambraccio palpitante.
Un
suono simile a un guaito gli sfuggì dalla bocca, mentre con un gesto febbrile
alzava le lenzuola. Fissò l’avambraccio coperto di bende sporche di sangue e
per metà disfatte; strabuzzò gli occhi, e urlò.
«Signor
Phillips!»
Un’infermiera
era entrata sbattendo la porta e, neanche il tempo di collegare la sua
presenza, l’estraneità della stanza e il braccio ferito, William si era trovato
a boccheggiare mute domande e, subito dopo, a gemere non troppo sommessamente.
«Non
dovrebbe essere ancora sveglio», disse l’infermiera, più a se stessa che a lui,
controllando rapidamente la flebo (che, William notò
solo in quel momento, era attaccata al braccio sinistro, quello sano), affranta
e agitata.
«Mi
spiace, signor Phillips, l’anestesia avrebbe dovuto durare almeno altre cinque ore… Non so proprio perché lei sia sveglio…»
William
pensò che no, non gli interessava che l’anestesia
avrebbe dovuto renderlo cosciente del dolore solo fra cinque ore; no, no, no, a
lui interessava solo sapere perché il braccio gli facesse così fottutamente
male.
«Dove
mi trovo?», riuscì a borbottare alla fine, cercando di tornare lucido e di
ignorare quel cuore che batteva nel suo arto destro.
«Al
St. Louis Hospital», rispose meccanicamente l’infermiera, sfogliando
velocemente i parametri della cartelletta clinica attaccata al suo letto.
Will
girò lievemente la testa nel tentativo di incontrare il suo sguardo senza fare
movimenti troppo bruschi. La donna era un esserino
minuscolo e impettito, biondo, con due occhi verdi quasi uguali a quelli di Maddy, solo leggermente più brillanti.
Maddy!
«Dov’è
mia moglie?! Maddy sta bene?
Che ci è successo?!»
Quell’elenco
di domande non aveva scalfito la donna, notevolmente più calma ora. Con
decisione buttò fuori dal letto le lenzuola e, con suo grande stupore, tirò
verso l’alto la maglietta del pigiama.
«Cosa
sta–?»
«Davvero
non ricorda?» lo interruppe interrogativamente la donna, inarcando le
sopracciglia. Probabilmente vide il suo turbamento, giacché cominciò a
rispondere alle sue domande, iniziando a tastargli il petto. «Le sto
controllando le fasciature… diamine, temo proprio che
dovrò chiedere subito al dottor Torres di cambiarle, sono tutte sfatte, come
diavolo ha fatto a muoversi così tanto da scombinarle?
In ogni caso, signor Phillips, si trova all’ospedale a causa di una pallottola
vagante. Ricorda la battuta di caccia ai daini a chi ha partecipato?»
«Caccia
ai cosa?! Oh…»
All’improvviso,
il volto sogghignante di Paul McCarthy, il vicino, e del suo suocero Antonio dipanarono la nebbia che aveva nascosto i suoi ricordi.
«Certo,
sì», si trovò a raccontare, più a se stesso che all’estranea alla sua destra,
srotolando la matassa della memoria. «Eravamo appena partiti, saranno state le quattro del mattino, più o meno, ricordo
che era ancora tutto buio: il tempo perfetto per andare a caccia di daini. Poi
i cani hanno cominciato a ululare e, all’improvviso, una grossa creatura è
apparsa da non so dove e…»
Prese
fiato.
Il
bosco era pieno di silenzio, quella notte; rammentava di aver rabbrividito e di
aver cercato di persuadere Tony e Paul dall’uscire, ma
Tony era stato categorico: voleva un bel maschio come trofeo dell’ultima notte
di caccia. Avevano seguito un vecchio sentiero tracciato dagli animali che
aveva scovato Paul l’anno scorso: portava a una raduna in cui i daini avevano
spazio per lottare, un ritrovo per il periodo dell’accoppiamento. «Quei fottuti
cervi moriranno meglio di me» aveva sogghignato Paul, mimando un gesto osceno.
Nessuno dei due anziani cacciatori era parso intimorito dalla foresta, e
William non aveva voluto essere da meno; aveva sposato da soli tre anni Maddy, ed era ancora difficile far digerire l’affare allo
scorbutico Tony. L’unica passione in comune era la caccia, che da buon sudista
William praticava annualmente con entusiasmo (e legalmente). Aveva appena
cominciato a farsi accettare, e non aveva voluto passare per codardo. Non si
erano minimamente accorti del bestione; nella testa di William, rimaneva solo
un’ombra vaga ma gigantesca, che lo afferrava al braccio e lo trascinava
velocemente nei cespugli. Il dolore era stato lancinante: ricordava solo quello,
prepotentemente padrone del suo cervello, e le sue grida mischiate a quelle di
Paul e Tony. Poi, il risveglio. Ancora il dolore.
«Aaah!», urlò, digrignando i denti.
L’infermiera
parve di nuovo preoccupata. «Che succede? Le ho fatto
male?»
«Il
braccio…» sfiatò Will, esausto, strizzando gli occhi.
«Il
braccio?» domandò confusa la donna. «Sente dolore al braccio?»
«Sì,
parecchio», rispose, irritato. Datemi
qualcosa, un cazzo di anti-dolorifico, quello che volete, ma fatelo smettere!
Pulsava,
pulsava, come se i denti della bestia fossero ancora
all’interno della carne e la stessero maciullando.
L’infermiera
inarcò le sopracciglia, pensierosa. «Non sente niente al petto?»
«No,
no, ascolti, è il braccio–»
La
mano della donna gli afferrò il braccio sinistro. Il contatto, o forse il viso
risoluto dell’infermiera, riuscì a tranquillizzarlo e, di conseguenza, placare
le fitte. Forse era la freddezza di quella mano, che agiva come ghiaccio su una
botta; forse il dolore era immaginario, una specie di fantasma. Forse… no, il dolore era ancora lì, smorzato, quasi fosse
un animale braccato nascosto nel sottobosco, respirando piano, regolarmente.
«Chiamo
il dottore, aspetti qui».
«Un
momento!», la fermò lui, spaventato dai suoi stessi pensieri e con il bisogno
di sapere che andava tutto bene. «Cos’è successo?»
«Siete
stati attaccati, dal morso slabbrato pare possa essere un grosso cane
selvatico», spiegò con voce quieta l’infermiera, guardandolo fisso negli occhi,
come potesse spegnere le sue ansie. «Nel tentativo di
fermare la creatura, uno dei suoi amici l’ha colpita al petto, appena sopra la
spalla. Fortunatamente non ha colpito nessun organo vitale. Il rumore deve aver
spaventato il cane, perché è scappato via. Non l’hanno più trovato.»
«Un
cane?» questionò Will, perplesso. Un cane di quelle dimensioni poteva esistere?
«E Maddy dove si trova?»
L’infermiera
sorrise. «Maddalena, giusto? Sua moglie è rimasta qui
tutto il tempo. Voleva esserci per quando si fosse svegliato.»
Il
pensiero di rivedere Maddy, che lei stesse bene e si
fosse preoccupata per lui, lo rinfrancò. «Potrebbe entrare adesso?», chiese,
quasi timidamente.
«Mmh…» La donna parve titubare un momento, ma un piccolo
sorriso complice fece capolino dalle sue labbra. «Il
dottore non l’ha vietato, ma temo che dovrà aspettare qualche minuto, giusto il
tempo di una visita rapida e di un cambio di bende. Può farlo?»
«Okay…»
«Sarò
un lampo».
L’infermiera
varcò di nuovo la soglia, mentre Will continuava a domandarsi solo una cosa: un cane?
Questa storia avrebbe dovuto partecipare alla
challenge “We Love Werewolves!”
indetta da Mala_Mela (Clà).
Siccome l’ho iniziata, e ho fatto voto a me stessa di finire, per una
benedetta volta!, una long-fic,
mi ci dedicherò con energia. Non prometto aggiornamenti veloci, anzi, temo di
essere incredibilmente lenta nello scrivere. Lupo avvisato, mezzo salvato (?). XD
Dovrebbero essere tre capitoli totali, in ogni caso, nulla di così
gravoso da non essere concluso entro l’anno.
Spero che la storia vi abbia incuriosito. ^^
Ringrazio Clà per l’iniziativa che mi ha
ispirato (il titolo è uno dei prompt da lei ingegnati),
e i lettori che passeranno di qui.
Fiera di contribuire al rimpolpare le file delle storie sui
licantropi! *_*
Kaho