Come la pioggia sui vetri.

di Linn_CullenBass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo. ***
Capitolo 2: *** capitolo1. ***
Capitolo 3: *** capitolo2. ***
Capitolo 4: *** capitolo3 ***



Capitolo 1
*** prologo. ***


                                            Prologo.



È mezzanotte. Alice cerca di dormire, ma non riesce. Si gira e si rigira nel letto.
Si copre il volto, cercando di nascondere le lacrime che leggere ricadono sul cuscino. Era stata una serata relavivamente tranquilla, senza urla ne grida. Calma piatta.
Eppure, il senso d’abbandono premeva incessante sullo sterno. Tuttavia, lei sapeva di poterlo reggere. Riducendosi male, molto male, a brandelli. Ma era necessario, per lei e per la madre.
Lei doveva resistere.
Trattenne il fiato, per nascondere gli ultimi, incessanti, singhiozzi.
E venne presa tra le braccia della notte, cullata da sogni piacevoli. Fiori, profumi e amore. Morbidezza, leggerezza, e una mano che teneva la sua.
Poi tutto cambia veloce.
Lo scenario diventa nero, nero buio, nero offuscato, nero che acceca, che assorda. Nero che fa più baccano del silenzio, e che sembra vuoto. Che è VUOTO.
Inizia a cadere, sempre più giù, a fondo. Al punto che si sveglia che quasi il respiro le manca.
Guarda l’orologio. Sono le 5.35. gli occhi sono appiccicati e umidi, e la testa scoppia dal pianto convulso di prima.
Si mette le mani nei capelli, ma i minuti che corrono sono eterni. Eterni e lunghi come i suoi capelli castani scuro che non vuole mai tagliare. E profondi, profondi come quegli occhi neri, talmente neri che nessuno si accorge delle sofferenze. Ideali, per non tradire emozioni.
Poi, torna a dormire, con il cuscino sugli occhi.
Il pensiero di quella mail, la eccitava come mai prima d’ora.
Ora, poteva sentirsi felice.

 
 
Angolo autrice.
Allora, tengo a precisare che questa storia è nata in un momento un po’ bruttino.
Ma mi è uscita così, e spero che qualcuno possa seguirla. E’ solo una prova, se dovesse non piacere, la toglierò. Vedrò prima gli effetti che fa, prima di toglierla.
Vi avverto, anche se penso che l’abbiate già capito, tratta temi un po’ forti quali: Depressione, Autolesionismo, Violenza domestica e addirittura tendenza al suicidio. Ma anche di sogni, la cosa migliore e il cardine di questa storia.
Mi piacerebbero commenti, perciò recensite il primo capitolo che posterò subito

:)

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Capitolo 2
*** capitolo1. ***


                                        Capitolo1

 




I messaggi arrivavano veloci. Uno dopo l’altro, talmente veloci che non aveva il tempo di leggerli.
“ Ti dico dopo” “ Adesso non lo so” “ Non ci sono”… lei rispondeva con freddezza, a volte. Rispondeva fredda perché non aveva voglia di farsi toccare, da quelle cose. Il sabato sera a casa da sola era triste, ma mai come quando sei un adolescente.
Alice, poggia la testa sul bracciolo della vecchia poltrona. Sospira e chiude gli occhi. Li lascia arrivare, uno dopo l’altro. Adesso non li guarda, non ha più voglia. Ha già sentito il cuore spezzarsi di fronte ai rifiuti, ha già sentito il magone allo stomaco troppe volte. Banalità? No, loro la rifiutavano per uscire con qualcun altro.
E la domanda nel suo piccolo cuore, un cuore troppo grande e allo stesso tempo svuotato dal dolore che progressivamente lo consumava,  era solo una: “ Perché?” Rifletteva. Sugli errori nella sua vita, su quello che l’aveva condotta a quel punto. E se doveva dare un inizio a questa storia, a questo male, sicuramente, era iniziato tutto 4 anni prima, circa. Quando l’unica persona della quale si fidava davvero, venuta a conoscenza della sua storia, l’aveva abbandonata. Si poteva, ad undici anni, essere così?
Ricorda, ogni tanto, che da quel momento è iniziato tutto a crollare in un vortice di quelli senza uscita. Che non passano mai. E la situazione, quella sua, personale, era addirittura peggiorata. Da lì, le cose si susseguivano, in una serie di sfortunati eventi, fino a portarla sull’orlo della disperazione.
E da lì, non ha più visto la superficie.
E’ stata inghiottita, dal passato. Inghiottita a tal punto che anche se lottasse per venirne fuori, sa benissimo che non ce la farebbe. C’è troppa roba d’affrontare.
Ed è troppo debole per farcela.
I pensieri, continuano ad affollarle la testa, e premono per uscire. Dal nervoso, picchietta debole la pelle rovinata di quella poltrona marroncina, e chiude gli occhi. Il vibrare continuo del telefono le dà alla testa, al punto da costringerla a metterlo sotto il cuscino, per non sentirlo.
- Che palle.-
Sono le uniche parole che dice, dopo essersi alzata ed aver raggiunto il bagno.
- Ali, tutto bene?- sua madre. Il suo volto, era segnato dal tempo, corroso dal dolore. Gli occhi scavati, costantemente all’erta, preoccupati. La fronte corrucciata, sempre.
Di fronte a lei, il cervello di Ali si riprogrammava, in un certo senso. Perché? Beh, perché da quel viso traspariva così tanto dolore, tanta apprensione per la figlia, che lei stessa voleva proteggerla. Proteggerla da che?
Da tutto quello a cui era tutti i giorni sottoposta.
E la ragazza, d’altrocanto, si mostrava felice e allegra, per non dare ulteriori preoccupazioni. Si inventava bugie, a volte, solo per non farla soffrire di più. Era necessario.
- Si, perché?-
- Nulla- rispose, rivolgendo altrove lo sguardo.
Davanti allo specchio del bagno, Alice, comincia a respirare veloce, per cacciare via quella sensazione. Una volta tranquilla, però, riesce finalmente ad uscire e andare in camera. Non la sua, quella di sua madre. E di quell’uomo che a malapena riusciva a chiamare papà. Anzi, ora che ci pensava bene, non lo chiamava mai.
Arrivata lì, socchiude la porta. Poi, con molta calma, corre dietro le finestre a prendere quel piccolo coltellino. Un piccolo coltellino affilato che lei guardava da tutte le angolazioni, ogni volta, perché spesso si sentiva in colpa. Poi iniziavano le lacrime.
Una dopo l’altra.
1-2-3.
Le contava, e ormai non si prendeva nemmeno la briga di asciugarle più.
Più o meno a quel punto iniziava ad incidere.
Erano piccoli taglietti. Partivano dall’estremità sinistra del braccio, passandolo tutto, fino alla destra. Prima lentamente, poi sempre più veloce, al punto che non sentiva più nemmeno il male. E nemmeno si ricordava di quanto male avesse dentro. Ecco perché lo faceva.
In quel momento, iniziava a sanguinare. Il piccolo polso martoriato da innumerevoli tagli, rosso e gonfio, ormai, pulsava e sanguinava. Il sangue, rosso ed intenso, le cadeva a piccole goccie lungo tutto il braccio, fino al gomito. Allora, mentre ancora calde lacrime le corrodevano il viso, Alice prende un fazzoletto e pulisce. Avrebbe bruciato, ancora per un po’.
Ma quel giorno, Alice, non fa quello che di norma avrebbe fatto. Cioè accendere il computer, e guardare la mail. Aspettava con ansia almeno una che le desse la possibilità di fare casting e di riuscire in quel qualcosa che tutti le rinfacciavano: Recitare.
Era una cosa che adorava fare. Una cosa per la quale continuava a lottare, tutti i giorni, inviando richieste su richieste. Ora aspettava qualcosa, cercava, voleva farcela. Doveva farcela. Dimostrare  che non si era sbagliata, e che avrebbe realizzato il suo sogno.
Lei ci credeva.
Anche se ogni tanto, qualcosa, qualsiasi cosa, rischiava di farle dire: “smetto”, lei non cedeva. Ne aveva passate troppe, aveva perso fiducia in troppe cose e in troppe persone, per smettere di sognare.
Questo, qualcuno, da lassù, glielo doveva.
Ma non quella sera.
Il sabato lo dedicava ad altro. Scriveva, Alice, quel sabato. Scriveva la sua storia su un quadernino. La scriveva a biro, spesso sbavata per colpa di quelle stramaledette lacrime.
Poi, ogni tanto, sentiva gli insulti del padre dal salotto. Sentiva i pugni sbattere. Sentiva anche il suo animo frantumarsi. E, prima di crollare, si metteva le cuffie nelle orecchie.
Sapeva, Alice, che c’era qualcosa che non andava in lei.
Sapeva, Alice, che qualcosa l’avrebbe sempre perseguitata. Che qualcosa l’avrebbe sempre ferita, umiliata, fatta vergognare. Impaurire.
Una paura che l’accompagnava fin dalla più tenera età, e che minacciava di distruggerle tutto quello in cui credeva.
E quel dolore, così forte, che si mischiava alla rabbia e al rancore nelle notti gelide invernali.
E il desiderio di non piangere più, d’incominciare a ridere, davvero, sta volta. Tutto quello che voleva era essere serena, chiedeva tanto?
Ogni tanto, si trovava a chiedere grazie alla protagonista del libro che scrive da quando era piccolina. Una storia fantastica, di una sirena, un po’ particolare. Sembra allegra, una storia felice. Ma se letta, poteva distruggere anche la persona più forte. Il dolore che traspariva da quel racconto era qualcosa di talmente reale… da sembrare quasi banalmente crudo.
Perché la ringraziava?
Perché era l’unica amica che aveva avuto quando tutto il resto del mondo era scomparso.
E mentre il vento sbatteva la tenda, la ragazzina continuava a piangere. Sperava che un giorno qualcuno l’avrebbe portata via da lì. Che un giorno sarebbe scappata.
E mentre il cuore continuava a battere, spesso contro la sua volontà, il pianto cresceva, fino a diventare insterico, sebbene soffuso. Non doveva, poteva farsi sentire. La madre sarebbe arrivata, e tutto sarebbe precipitato.
Era una lotta con se stessa, quella di Alice. Una lotta nella quale, sapeva lei, non avrebbe mai vinto



Angolo autrice
E' breve, ma voglio solo sapere cosa ne pensate. Se vi piace, andrò avanti. :)

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Capitolo 3
*** capitolo2. ***


                                            Capitolo2.

 








Non riusciva ad alzarsi dal letto.

Sentiva sonno, troppo sonno, ed era tutta intorpidita. Ancora, come tutte le mattine, sentiva un grande dolore alla testa. E il braccio, bruciava. Sembrava andasse a fuoco. Non se ne curava, però. Lasciava andare il fuoco, anzi, voleva che questo s’irradiasse e la divorasse. Voleva evadere, voleva andare via.
Ogni mattina, così, prima di partire, pensava sempre a cosa sarebbe potuto accadere quel giorno. Ogni tanto, aveva la fottuta voglia di scappare, di andare via. Ma ogni volta, puntualmente, cedeva e rimaneva, Alice. Perché pensava alla madre, al dolore che le avrebbe procurato.

Un po’ come il suicidio.

Ogni tanto se ne stava lì a fissare quel coltello che teneva in mano. Ogni tanto lo premeditava, malsanamente. Ma sempre, per merito del senso di colpa, respirava ancora.

Lei stessa ogni tanto ammetteva di non fidarsi di sé stessa. Lei stessa, ogni tanto, pensava “ ci sarò domani?” tutto dipendeva da cosa il suo cuore decideva. Perché, come tutte le adolescenti del mondo, era il suo cuore a comandare.

Poi, arrivava alla fermata.

Lì c’era sempre qualcuno. Qualcuno con cui scambiare due parole, qualcuno a cui non riferiva nemmeno quello che aveva visto la sera prima. In un certo senso, si vergognava. Anche se era fottutamente sbagliato, e lei lo sapeva. Lei non aveva niente di cui vergognarsi. Era solo nata nel posto sbagliato.

Spesso però la vedeva in un modo diverso, positivo. Tentava di aggrapparsi sui vetri, scivolando, pensando che se era stata scelta per tanto dolore, voleva dire che era abbastanza forte da reggerlo.

E poi, pensava alle parole che qualcuno disse: “Dio non fa’ soffrire così tanto i suoi figli se non per prepararli ad una gioia più grande”. E aspettava, questa gioia, Alice.

Poi arrivava il pullman.

Saliva, guardava gli altri. Immaginava le loro vite felici, ma non ne era sicura. Perché come poteva fingere lei, anche gli altri potevano farlo. Certo, però, dubitava che qualcuno vivesse la sua storia.

“ Ehi, dove scendiamo?”

Tranne lei.

Judi, la ragazza che di più assomigliava ad una “ migliore amica”, invece sapeva cosa voleva dire.

Lei non aveva problemi a parlarne, diceva che la faceva sentire meglio. Lei ne parlava, con Alice. Lei poteva capirla.

Lei sembrava VOLERLE BENE davvero.

E questo era quanto bastava a mantenerla in vita, in vita davvero.

“terminal” rispondeva, tutti i giorni.

Ci aveva messo ben undici anni per darle fiducia. Da piccole, erano migliori amiche. Poi qualcuno si è messo in mezzo e, prima delle medie, si erano addirittura un po’ perse. Ma è bastata una storia, un’ estate e un po di lacrime, per farle unire di nuovo.Se non altro, piangevano insieme.

Poi arrivava a scuola.

Passava circa mezz’ora, era quello il tempo che ci metteva per arrivare in città.

Si fermava, accendeva una sigaretta. Non ci pensava molto, non c’era nessuno che potesse incriminarla alle 7.40 del mattino.

Tempo 10-15 minuti in un freddo invernale che se ne stava alla stessa temperatura del suo cuore, Alice entrava poi in lì, in quella scuola che a lei piaceva, specialmente per chi ci stava dentro. E poi, lì, poteva davvero essere felice. Perché sapeva che chi prima se n’era andato, ora non sarebbe tornato per farle male.

- Ciao Ali!-

La voce di Rachele era allegra, quasi, se era possibile, colorata. Colorata come il suo modo di fare, che la ragazza adorava.

Non sapeva perché, ma le strasmetteva  un’allegria particolare, di quelle che hanno effetto per tutta la giornata. Ecco cosa le piaceva, poter sorridere sempre. Era la sua meta, il suo scopo preciso.

Ali VENERAVA Rachele, se era possibile. Era convinta che sapesse che c’era qualcosa che non andava.

Ma lei, non poteva dire nulla.

- Come va?-

- Bene.- risponde, la ragazzina.

Passando il suo cuore in rassegna,  cerca solo quel piccolo sprazzo di gioia che poteva permetterle di sorridere per tutto il tempo, quello che la rendeva pazza e anche un po’ idiota certe volte. Era quello che usava per difendersi.

Alice, pensava che facendo così, la gente non pensasse che fosse triste. Lei non pensava che fosse triste.

Doveva autoconvincersi.

La mattinata, passava monotona, sempre uguale. Passavano veloci 5 ore, e poi filava a casa di nuovo su quel maledetto pullman.

Arrivava a casa, e sperava di non trovare nessuno.

Poi prendeva qualcosetta così da mangiare, perché non voleva esagerare. E poi, perché spesso aveva lo stomaco chiuso al punto da non riuscire a buttare giù nemmeno un chicco di riso.

Le prendeva l’ansia, la paura che qualcuno arrivasse e iniziasse ad insultarla. Ogni qual volta sentiva il rumore delle macchine girare quel vialetto ghiaioso, fin troppo stretto, si fiondava alla finestra e cominciava a dare di matto.

Era una reazione normale, per quanto riguardava la sua vita.

Quei giorni, la madre lavorava in quella fabbrica al pomeriggio.

E lei, non aspettava altro che stare da sola e continuare a piangere, a volte anche per l’intera giornata.

Alice, voleva soltanto vivere come una persona normale, senza capire, a volte che non lo sarebbe stata mai.

Voleva solo dormire tranquilla, la notte. Senza doversi continuamente svegliare, a volte non dormire affatto, dalla paura.

C’erano volte, invece, essa appuntp prendeva il sopravvento, ed incominciava a vomitare.

Non mangiava molto, Ali. Non mangiava perché stava male e poi tutto le sarebbe rimasto sullo stomaco. E questo lo sapeva bene.

Acceso il computer, la sua pazienza svanisce. La piccola Ali, che a 15 anni non sa più come si fa a respirare, ogni tanto, guarda la posta in arrivo.

 - avanti…-

Mormora, battendo il piede ad un ritmo frenetico.

Scorre la pagina, per vedere se qualcuno l’ha contattata.

No, nessuno.

Soltanto stupide notifiche di facebook o spam che nemmeno lei apriva più ed eliminava direttamente.

Ormai, la speranza andava sfumando.

Se ne andava un po’ come tutto quello che aveva toccato, come un sogno il mattino dopo. Ogni tanto stava meglio, una canzone riusciva a tirarla su, ma altre volte, era proprio quella che la distruggeva.

Allora spegneva e ci rinunciava.

Se non era quella la sua strada, allora avrebbe dovuto accettarlo.

 

La sera stessa, Alice, incontra un mucchio di siti di agenzie. Non esita, invia domande su domande, richieste su richieste. Tutto perché vuole dimostrare qualcosa anche a se tessa.

Perché vuole dimostrare qualcosa a sua madre. Ai suoi amici, che non le credevano affatto.

Poi, di nuovo, spegne il computer e comincia a scrivere. Incomincia e sembra non volersi fermare. Questa volta, niente lacrime, niente sangue. Solo un mucchio di parole, fiumi e fiumi di parole, che si stampano inevitabilmente sulla carta bianca, senza bisogno di commenti inutili.

 

 

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Capitolo 4
*** capitolo3 ***


              La pioggia scende, lascia la scia.
Anche le lacrime lo fanno.
Lasciano ricordi?
Forse.
Lasciano rimpianti? Troppi.
Allora come possono essere pioggia?
Hai già visto la pioggia quando scende sui vetri? Anche con il ritorno del sole rimane chiara e visibile la sua scia.



                        Capitolo3










La notte porta con sé il vero essere umano.
Quello pensante, quello con emozioni.
Ed è proprio quello, Alice, quando sale la luna e i raggi filtrano debolmente dalle tende della porta-finestra.
Il caos le attraversa il cervello, quasi un’ondata di piena.
Che cosa siamo noi, se non un infimo spiraglio di luce, nel buio nero dell’universo?
Alice, era arrivata alla conclusione che non necessariamente buio era sinonimo  di nero. Buio era “il non vedere”, il nero era semplicemente un colore rappresentativo della non-luce.
E chi ti dice che senza luce non vedi?
Ci sono persone che sanno esplorare a fondo il buio.
Ecco cosa pensa Ali, sul letto, nel dormiveglia. Quando anche la palpebra più stanca non riesce a cadere, senza una motivazione particolare.
Continua a fissare il soffito.
È come se si sentisse chiusa in quelle quattro mura. Troppo solide, ma mai quanto serviva.
Nonostante tutto, nonostante i tocchi dell’orologio non le danno tregua, lei ci prova.
Prova a dormire, aspetta un po, poi riapre gli occhi.
Di nuovo da capo. È una lotta continua tutte le notti.
Poi si ricorda di una cosa.
Si illumina, prende il cellulare, e non si ferma davanti alla luminosità che acceca la notte.
Entra su internet, e controlla la posta.
Ormai, era qualcosa di ossessivo. Non avrebbe dormito, se prima non lo faceva.
Entra.
Attende qualche minuto. Come al solito, la sua pazienza lascia a desiderare.
Poi, guarda tutto con meticolosità e troppa aspettativa.
- Merda.-
Anche questa volta, nulla.
Ormai, non ci credeva più. Anzi no, non è che non ci credesse, solo… era sconfortata. Nessuno le dava importanza, nessuno l’aiutava. Si sentiva emarginata del mondo, cittadina di nessuno, figlia del nulla.
E il nulla, Alice, aveva paura di trovarlo nel cuore.
Anzi, forse già lo stava trovando.
Meglio nessun sogno, perché così non ci sono delusioni.
Questo pensiero, le attanaglia cuore e cervello. Chiude con catenacci i polmoni, e a malapena riesce a respirare.
Blocca il sangue, e lo rende acido.
Con l’essere respinta, sempre, stava diventando più dura di quello che in realtà sapeva di essere.
Talvolta, anche con la madre  lo era.
E proprio quest’ultima, la maggior parte delle volte, tendeva a chiamarla egoista.
“ se non distingui l’egoismo dalla sofferenza, allora l’egoista non sono io”, rispondeva tra sé e sé quelle dannatissime volte.
Ora, si sente in colpa.
Ecco, per l’ennesima volta ha pensato male della madre.
Ecco, ora sta per piangere, di nuovo.
Che cosa c’è che non funziona in lei?
C’è un cuore da qualche parte nel mondo disposto ad accettarla?
Ci sono braccia in grado di proteggerla?
Esiste qualcuno che non la vuole sostituire?
La risposta, Alice, non sapeva darsela.
Spegne il cellulare, nessuno l’avrebbe cercata. A nessuno Alice sembra importante.
Almeno, questo è quello che lei non riesce a togliersi dalla testa.
Si gira su un lato, e pensa attentamente al meccanismo degli orologi.
Pensandoci, poca gente riesce a guardare il movimento dei minuti.
Tutti riescono a vedere quello dei secondi.
Perché?
Alice, che i pensieri li fa uscire come api da un nido, inizia a convincersi che il motivo è da ricercare nel pensiero logico.
La logica dice che i secondi sono da vivere attentamente, più dei minuti. Perché passano troppo infretta, senza tempo per rimpiangerli.
Con questo inutile pensiero nella testa, la sua mente inizia a difendersi. E così cade tra le braccia della luna, nelle mani della notte, con la testa immersa nei sogni più piacevoli
 
                                                           *
 
- Perché non vieni a svegliarmi, quando ti alzi?-
La voce di Sara, la madre di Ali, è un debolissimo sussurro nel buio di una stanza che in fondo, Ali, sapeva di temere.
Non per nulla, non per qualcosa in particolare.
Beh, in fondo, magari sì.
Era cominciato tutto circa un anno prima, durante una nottata piovosa. Ali aveva sentito il ticchettio nervoso e continuo della pioggia frenetica sulla tettoia di fianco alla camera da letto.
Contava le goccie.
Sentiva i tuoni.
Poi, si era addormentata.
 
 
 
- E’ antica questa casa?-
Una casa bianca, semi-rovinata, forse addirittura decadente. Non era sicura, ma Judi continuava a chiedermi di entrare.
Ed io, che non sapevo mai come comportarmi nelle richieste, avevo acconsentito con un pizzico di fastidio.
- Penso. Dai Ali, ti prego.-
Eravamo entrate, ormai. La porta si era aperta, quasi naturalmente.
“dio, fa che non mi sbuchi nulla davanti”
Pensavo, mentre mi guardavo intorno.
L’odore di muffa e marciume, infestava l’aria rendendola irrespirabile.
- Ma che cosa…?-
Lo scenario cambiò di scatto, dopo che buttammo una fugace occhiata a tutte le stanze.
Diventò qualcosa di più simile ad un corridoio, un piccolo corridoio di color ocra scuro. Troppo stretto, che subito non l’avevamo visto.
- E lei chi è?-
Una bimba. Una bambina meravigliosa, piccola, con i capelli lunghi, lunghissimi.
Era voltata di spalle, e mi iniettava una certa inquietudine.
Poi, mi aveva preso per mano.
Mi chiesi “perché me? Perché me e non Judi?”. Ma nulla, la bimba continuava a saltellare verso un posto sconosciuto, con me che tenevo per mano Ju.
All’improvviso, l’inimmaginabile.
La bimba meravigliosa che prima mi aveva sorriso, si trasformò in qualcosa di demoniaco.
La sua bocca si aprì e infilzò i denti sul mio braccio destro.
Riuscimmo a scappare, ma lei arrivò anche lì fuori.
“Volevo..”
Non capii cosa volesse davvero, non lo capii mai. Ma il suo sguardo, era qualcosa di oscuro, timido in un certo senso.
Qualcosa che nemmeno io sapevo tradurre.
 
 
 
Ali pensava, infatti, che in quella casa ci fosse qualcosa di assolutamente strano. E che nulla, specialmente in quella camera, fosse normale.
Aveva dato un nome, a quella che pensava potesse essere la sua “bambina misteriosa”. Ellena.
Ogni tanto, sembrava che la vedesse o la sentisse. Era sicura fosse quella del sogno.
Anche perché il suo inconscio, un giorno, l’aveva indotta a disegnarla.
Si sentiva pazza, a volte. Altre, sentiva che c’era davvero qualcosa che non andava lì.
Sua madre più volte glielo aveva confermato.
Ora, Alice è  in bagno.
Si cambia vicino alla stufetta elettrica, infreddolita e intorpidita dal sonno.
Di nuovo, il trucco, i capelli. Niente colazione, alle macchinette c’era sempre da mangiare.
Poi parte, apre la porta e viene investita dal freddo. Eccessivo, per essere febbraio inoltrato.
E la storia si ripete, come il giorno prima. Stesso medesimo ordine, monotono.
E ad Ali, la monotonia non piaceva.
 
Fa caldo.
Al pomeriggio il caldo inizia a salire, ed Ali indossa un piumino nero.
Lo toglie, ma deve tenerlo in mano.
La noia la travolge, al punto che è costretta a rifugiarsi in un bar, giusto per posare tutto quello che doveva portarsi dietro.
 
Arriva a casa, prende un mazzo di chiavi e apre la porta.
Lui è già lì.
Allora ali passa, senza farsi vedere, veloce come un’ombra, leggera come un gatto.
Non se ne accorge, è già mezzo ubriaco.
Arriva in camera, posa la roba, sente qualcuno camminare.
È un passo trascinato, a tratti sente addirittura lo sbattere contro i muri rossi e profondi. La sua ansia, sale.
Si gira istintivamente, per evitare di guardarlo. Sarebbe stata la fine.
- Non si saluta più?-
Pronuncia quelle parole in modo impastato.
Si corregge, Alice, nei suoi pensieri. Già ubriaco.
Non risponde, la ragazza. Continua, mentre sente il sangue fluire, tira un colpo di tosse. Le viene da piangere, le manca il fiato. È completamente paralizzata dalla paura.
Quando cominciava così, sapeva come finiva.
Tira fuori il libro dallo zaino. Lo apre, cerca di studiare.
Ma la porta di vetro lascia passare le urla. Sono imprecazioni.
- E’ mai possibile? È come sua madre. Tale e quale. A volte, penso proprio che la cosa migliore sarebbe stata stroncarla prima di nascere.-
Ad ali, questo, non faceva più male. Parla più forte, ripetendo la lezione. Sa bene, che anche un solo accenno di risposta a quelle frasi, le sarebbe costato una gamba o un braccio gonfio.
- Io preparo da mangiare per me. Una che non saluta? Non merita nulla.-
E giù altri insulti.
Insulti che nemmeno Ali ha voglia di ascoltare più. Insulti che a volte ancora la facevano piangere, altre solo la scuotevano un po’.
Ma oggi non era giornata.
Ali ha la testa che scoppia e un intero capitolo di storia da studiare. Un 5 le avrebbe di sicuro rovinato la media.
- Dio, fallo stare zitto..-
Ripeteva, ben attenta che la porta fosse chiusa e non sentisse.
Ridacchiava, ogni tanto, ascoltando quello che diceva. Tipo che era condizionata dalla madre. Assurdità che invece di farla piangere, la facevano ridere.
Cucinava, sentiva il fuoco scoppiettare, i pugni sul tavolo. Ancora.
Poi frasi senza senso, colpi di tosse.
- Adesso spengo la sigaretta nella pianta.-
Senza motivazioni particolari, diceva cose che facevano male. A volte, addirittura, la chiamava puttana.
Perché?
Ali non lo sapeva.
Perché gli andava, forse, perchè non si dava una motivazione a tale distacco.
Poi, sente le bottiglie di vetro vuote, di fianco alla televisione, cadere a mo’ di birilli. Sente i passi avvicinarsi, e prende il telefono.
Lascia che gli occhi si gonfino, ma guarda in alto, per evitare di esplodere.
- Tu, smettila di guardare quel telefono! Hai capito? E se becco che chiami tua madre, io ti spacco la faccia,  è chiaro?-
Ali non risponde.
Sa solo che il cuore sta cedendo, lo sente crollare, sente i pezzetti andare in frantumi. Sente addirittura gocce calde attraversarle il viso, ma non ci da peso.
- Piangi, avanti. Denunciami. Fa quello che vuoi.-
Continua.
È un lamento, il suono del suo cuore che cerca di rimanere a galla.
- Rispondi.-
Lo schiaffo forte stampato proprio sulla guancia destra della ragazzina.
Fa male, sente dolore.
Non importa, continua a restare in silenzio, con il suo cellulare nella mano che trema, e le gambe avanti pronta a difendersi da chi l’aveva messa al mondo.
- Hai capito?-
Un pugno, sulla caviglia. Fa male. Fa talmente male che cede e cade per terra.
Le prende un braccio, la tira su. La sbatte sul letto, la riprende, le gira il polso dentro.
Era il polso “malato” come lo chiamava lei. Semi slogato, in realtà.
- Dammi il cellulare.-
No, Ali non lo molla.
Allora lui fa di peggio. Continua a tirare calci sulle gambe della ragazzina, per poi sedersici sopra.
Le blocca con la mano destra sulla bocca.
La minaccia, continua a dirle di fare la brava.
Ali non demorde, non può, e non può piangere.
Allora inizia a spingere con le gambe, fino a lanciarlo via, nonostante il peso

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