Lo Smistamento

di TwinStar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 2 Settembre 1971 ***
Capitolo 2: *** 2 gennaio 1972 ***
Capitolo 3: *** 2 settembre 1972 ***



Capitolo 1
*** 2 Settembre 1971 ***


Nuova pagina 1

Note di inizio fic di cui si sente il bisogno: Ringraziamenti di rito innanzitutto ad alcune anime candide che si sono prese la briga di dirmi che questa storia non faceva poi così schifo.

Quindi, grazie a Nykyo e a Boll11, che nonostante siano Pitoniche convinte si sono prese la briga di darmi una mano con una storia che con Piton non ha niente a che vedere ma nemmeno di striscio e a rassicurarmi in continuazione coi loro commenti entusiasti. Grazie, ragazze. ^^

Già che ci sono rassicuro il lettore e giuro su quanto ho di più caro (il poster di Gary in camera mia e la guida tattica di Final Fantasy X) che questa storia è praticamente finita, l’unico motivo per cui la posterò a capitoli è perché sento che così potrà trasmettere di più a chi avrà il buon cuore di leggerla. E, magari di lasciare un commentino.

Ringraziamenti di rito a TUTTE le persone che commentano TUTTE le mie storie, non posso rispondere nello spazio commenti ma sappiate che apprezzo ogni singola recensione che ricevo, per me sono motivo di grande gioia e un grande sprono a continuare (prima o poi completerò tutte le mie fic, lo giuro, lo giuro, lo giuro!!! >_<), per cui vi ringrazio davvero di cuore.

Sperando che questa storia possa farvi affezionare almeno un po’ al mio Sirius, vi lascio alla lettura del primo capitolo di questa storia. ^^

TwinStar

 

***

 

LO SMISTAMENTO

 

 

2 settembre 1971

 

Ricevetti la lettera di mia madre il primo giorno di lezione.

 

Ero in Sala Grande a far colazione assieme agli altri. Assieme per modo di dire, s’intende. Al tempo, trovavo un senso di appagante benessere nel consumare il più rapidamente possibile il mio pasto, un po’ in disparte (per quanto me lo consentisse lo spazio della tavola, certo). Per scoraggiare eventuali chiacchieroni mattutini (quella pestilenziale sottospecie umana che non vede l’ora di condividere la gioia che provano nello svegliarsi all’alba coi tipi come me, quelli che proprio non riescono a ritrovare la propria affabilità umana prima delle undici. Di sera) avevo persino creato una barricata di fortuna, mettendomi intorno a mo’ di fortino tovagliolo e posate, e tentavo di risultare il più sgradevole possibile mangiando con la bocca aperta, di modo tale che tutti potessero bearsi del contenuto masticato del mio palato, dei pezzi di cibo impastati di saliva, facendo poi bene attenzione a produrre rumori quanto più possibile discutibili.

Con buona pace dell’etichetta.

L’espressione disgustata sul volto della ragazzina  che avevo di fronte mi fece raddoppiare gli sforzi di risultare stomachevole: quella carotina petulante che solo la sera prima, a seguito del mio maldestro tentativo di ficcarmi nel dormitorio delle ragazze per il semplice gusto di verificarne di persona il sistema difensivo, in mezzo a una folla di sguardi ridenti aveva abbassato lo sguardo su di me con sufficienza.

Mi aveva infastidito.

Fu un vero e proprio orgasmo vederla arricciare schifata il naso, con tutte quelle stupide lentiggini rossastre; posare lo sguardo sulle labbra carnose deformate in una smorfia tesa; lasciar vagare la mente sui pensieri che le attraversavano la mente, dietro le folte sopracciglia accartocciate.

Mi fissava come un Legilimens.

A tradimento cacciai fuori la lingua dando una perfetta visuale della poltiglia informe che stavo masticando, e ridacchiai soddisfatto nel vederla alzarsi di scatto inorridita, gli occhi verdi protetti dalle palpebre semichiuse, mentre un gemito le si strozzava in gola. Uscì dalla Sala Grande percorrendo a grandi falcate lo spazio che la separava dal pesante portone, mormorando quelli che sembravano a tutti gli effetti degli improperi. Strano, sembrava una persona così educata…

Avrebbe saltato il pasto, a quanto pareva.

La cosa non mi toccava neanche un po’. Se l’era meritato.

Tornai ad occuparmi della mia abbondante colazione, con lo spirito più leggero.

Purtroppo sembra che qui, come a casa mia, non sia permesso crogiolarsi troppo a lungo nella soddisfazione che segue ad un lavoro ben fatto. Viene quasi l’idea che sia una regola oggettiva dell’esistenza e non il caso, o un mio particolare legame astrale con la sfiga.

Un tenue frullio d’ali annunciò l’arrivo dello stormo di gufi con la posta del mattino.

Vidi con la coda dell’occhio gli altri ragazzi incrociare le posate sul piatto e volgere lo sguardo al cielo, la bocca spalancata in una larga O di divertito stupore. Scossi la testa, affranto da tanta pochezza. Merlino, sembrava che non avessero mai visto uno stormo di uccelli, o che fosse la prima volta che ricevevano una lettera da casa.

Io non avevo neanche sollevato il mento dal piatto.

Quei gufi non mi riguardavano.

O almeno così credevo.

Impegnato com’ero a straniarmi dal frastuono di mille battiti d’ali e acuti stridii che s’andavano unendo al brusio eccitato dei ragazzi, venni colto totalmente di sorpresa nel momento in cui sentii artigliarmi la nuca da lunghe unghiette aguzze: giusto il tempo di strapparmi dalle labbra un patetico grido da ragazzina, poi mi svolazzò via dalla testa (senza dimenticarsi di portare con sé come souvenir una ciocca corposa di capelli) per appollaiarmisi davanti… Dritto nel mio piatto. Lo fissai con odio mentre dondolava la testa in avanti, ondeggiando tutto soddisfatto il collo in quel modo disgustoso tipico dei gufi, come fosse sprovvisto di vertebre.

Stupide bestiacce, non le sopportavo.

E quella che mi stava di fronte mi piaceva ancora meno. Lo conoscevo fin troppo bene: Tantalo, l’enorme gufo reale bruno di mia madre mi fissava immobile, altezzoso, con l’unico occhio tondo e giallo (l’altro era andato perduto durante quello che mi piace chiamare uno sfortunato incidente di percorso, una tiepida mattina di luglio in cui avevo deciso che sarebbe stato divertente lanciargli addosso dei sassi). Col senno di poi mi sarei reso conto che da allora persino i gufi di casa nostra avrebbero cominciato a squadrarmi con sufficienza.

Ma sul momento non vi feci caso.

Il mio sguardo era catalizzato altrove.

Alla lettera che teneva legata alla zampa sinistra.

 

 

Avevo sciolto lo spago nero che gli stringeva la zampa, ricevendo in cambio una beccata decisa, come se lo disgustasse la sola idea di essere toccato da me. Se non fosse stato altro che uno stupido uccello avrei pensato che gli fossero state date disposizioni ben precise a riguardo.

Ignorando il sottile rivolo di sangue che mi colava dall’indice avevo allungato una mano verso il collo dell’animale nel vano tentativo di togliermi almeno la soddisfazione di strangolarlo, ma nonostante mi fossi sempre ritenuto un tipo piuttosto agile, mi aveva evitato con una facilità irritante, irridente, e si era librato in volo sparendo in pochi battiti d’ali fuori dalla finestra.

Ero rimasto immobile a fissare il mio piatto ora sporco di piume e guano (bestiaccia!), la lettera ben chiusa tra le dita. Avevo aggrottato le sopracciglia, assumendo un’aria meditabonda. Stringevo a me quel pezzo sottile di pergamena come se mi aspettassi di vederlo esplodere da un momento all’altro, pur sapendo che non si trattava di una Strillettera (non ne avevo mai ricevuta una in vita mia ma avevo imparato a riconoscerle, la zia ne mandava in continuazione alla povera Andromeda), ma avvertivo lo stesso un forte disagio scorrermi lungo la spina dorsale.

Sostenitori di un’educazione basata su una ferrea disciplina di stampo dittatoriale, i miei genitori avevano sempre concepito come base e pilastro di sostegno della comunicazione famigliare la ramanzina. Ogni volta che mi veniva rivolta la parola era per riprendermi su qualcosa che avevo combinato o che stavo anche solo pensando di mettere in atto.

Il fatto stesso di aver mandato proprio Tantalo, che tanto mi odiava, tra tutti i gufi che avevamo in casa, mi lasciava in bocca il sapore amaro dell’umiliazione, unito a un’esaltante sensazione di condanna.

Strinsi i denti, sentendomeli stridere nel palato.

L’avevano già saputo.

Narcissa aveva preso davvero sul serio la richiesta di mia madre di avvisarla immediatamente nel caso in cui fosse accaduto qualcosa degno di nota, immaginando (e a ragione) che in quel caso io non l’avrei avvisata.

In fondo erano affari miei.

Narcissa però non la pensava allo stesso modo. Doveva aver mandato un gufo ai miei subito dopo il mio sconvolgente Smistamento, quando l’avevo vista alzarsi e uscire dalla sala in preda ad uno dei suoi proverbiali attacchi di algido sdegno.

Volsi uno sguardo astioso nella sua direzione, al tavolo dei Serpeverde, e ne ricevetti in cambio uno sottilmente malizioso. Dietro quella smorfia perennemente annoiata, negli occhi sprezzanti di mia cugina, c’era un lampo tutto nuovo di segreto godimento a illuminarle le iridi chiare. Sembrava non aspettare altro che “la zia” me le cantasse come una Banshee. Aprii la busta con un gesto deciso mentre muovevo le labbra tirate in un ghigno sghembo, fugace, di modo da formare una sola parola, che però mi diede la soddisfazione di vederle aggrottare, seppur impercettibilmente, le sopracciglia sottili nella patetica imitazione di un broncio.

Stronza.

 

 

Non temevo le paternali.

Coi predicozzi ci avevo convissuto una vita intera (per quanto esagerato mi sembrasse definire in questo modo appena undici anni d’esistenza). Ero talmente avvezzo ad essi da lasciarmeli scivolare addosso quasi fossero una cosa dolce.

Più che altro mi annoiava la loro vacuità.

Tutte quelle promesse bieche, le minacce mai mantenute, alla lunga perdevano d’efficacia.

Ora mi risultavano quasi divertenti, al punto che a volte a casa davanti alla collera funesta di mia madre avevo cominciato a darmi, non visto, dei pizzicotti sulle braccia per impedirmi di ridere. Di questo non credo che mia cugina fosse al corrente, altrimenti non sarebbe stata così ansiosa di avvisare casa.

Sperava che ne sarei uscito distrutto, credo.

Che la mia sicurezza non fosse altro che una maschera.

Del resto siamo sempre stati tutti molto bravi a fingere, in famiglia.

Confesso però che feci fatica a trattenere lo stupore nel momento in cui mi ritrovai quel pezzo di carta spiegato tra le dita.

C’era solo un pezzo di spessa pergamena bianca, poco più grande di una figurina trovata nelle Cioccorane. Riconoscevo il tratto sottile della piuma d’oca col pennino d’argento di mia madre, la sua calligrafia elaborata, leggermente curvata a destra. Le aste delle “T” leggermente tremolanti.

Questo era strano.

C’era scritta un’unica frase, incisa nella carta con inchiostro di un cupo scarlatto come una condanna.

“Com’è potuto accadere?”

Nessun insulto. Nessuna parola di biasimo.

Rimasi attonito, stravolto. Era una cosa nuova per me.

La collera, le minacce, le sfuriate: quelle le conoscevo bene, sapevo come reagire.

A quella placida disperazione di una madre ferita non sapevo proprio cosa rispondere. Perché era ferita, mia madre: turbata al punto da non poterci passare oltre con una semplice lavata di capo come faceva di solito, nel modo che ci faceva star bene entrambi alla fin fine, perché rappresentava un qualcosa di conosciuto, un territorio esplorato.

Mi aveva chiesto com’era potuto accadere.

In realtà, quello che avrebbe voluto sapere era: “C’è qualche probabilità che possa accadere anche a Regulus?”

Se credeva che davvero avrei potuto rispondere a quell’assurdo sottinteso, la vecchia era ancora più stupida di quanto credessi. Ridussi le labbra ad una linea esangue, gli angoli della bocca tesi verso l’alto.

Allora, come adesso, riuscivo a pensare solo alla profonda assurdità della cosa, e alla cieca idiozia della vecchia carampana.

Secondo lei era colpa mia se ero finito smistato a Grifondoro.

Mi ci aveva incastrato quel fottutissimo Cappello Parlante in mezzo a quegli stronzi boriosi, col cravattino ben appuntato e l’aria da padroni della scuola, e solo perché per me una Casa valeva l’altra, io che cavolo c’entravo? Perché veniva a chiederlo a me, come se avessi avuto voce in capitolo?

Era ridicolo.

Sbuffai divertito.

Appallottolai il biglietto, lanciandomelo alle spalle come un rifiuto privo d’importanza, e uscii dalla Sala Grande allentandomi la cravatta giallo-oro di modo da avere un’aria volutamente trasandata.

Tanto qualcuno avrebbe pulito.

 

Fine Capitolo 1

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Capitolo 2
*** 2 gennaio 1972 ***


Nuova pagina 1

Eccoci al secondo (e penultimo) capitolo di questa storia. I ringraziamenti e le note a fine fic, per il momento mi limito a ringraziare come al solito tutte le persone che commentano tutte le mie fic e a sperare che troviate anche questo capitolo gradevole o perlomeno interessante.

Grazie di cuore a tutti e continuate a seguirmi. ^^

(Inchino)

Twinstar

 

LO SMISTAMENTO

 

 2 gennaio 1972

 

L’anno nuovo era cominciato in maniera piuttosto incoraggiante.

 

In punizione.

A scrostare merda d’uccello in guferia.

E lo stavo facendo maledettamente bene anche se avrei potuto persino riposarmi dopo ore di incessante fatica dal momento che la professoressa McGranitt aveva deciso di lasciarmi lì per un po’.

Ero solo da un’ora buona.

Quella donna, a dispetto della severità di facciata, era una tenerona, e in quanto tale non sarebbe mai riuscita ad imparare dai propri errori. L’ultima volta che si era fidata di me a quel modo si era ritrovata con un’ala del corridoio distrutta da un bolide impazzito che avevo trovato in una scatola ben nascosta sul fondo di un armadio pieno di vecchie coccarde e coppe luride. Per quello avevo passato un pomeriggio con le mani ficcate nell’acqua ghiacciata del lago per fare da cavia agli studi sulle sanguisughe di quel sadico coglione del professor Kettleburn.

Per una settimana mi fu impossibile usare le mani: dovetti mangiare ficcando la testa nel piatto e imparai a scrivere coi piedi.

Ma non mi pentivo mai di quello che facevo.

Erano tutte occasioni talmente ghiotte che sottrarmi ad esse sembrava impensabile…

Suppongo che quella volta la professoressa McGranitt credesse che non avrei potuto combinare guai lì dentro, perché in fondo non c’erano oggetti strani di cui usufruire per i miei scopi malvagi (demoniaci, li avevano definiti una volta, lusingandomi). Ero riuscito a ficcarmi nei casini a dispetto del fatto che all’inizio delle vacanze mi era stata sequestrata la bacchetta fino all’inizio delle lezioni, per quello ero lì, come potevano pensare che bastasse l’assenza di oggetti a rendermi inerme?

Quanta ingenuità da parte loro.

Ghignai a me stesso.

Se me ne stavo buono buono a fare il mio dovere era, molto semplicemente, perché mi andava di farlo, benché io per primo mi meravigliassi di un tale miracolo. Ci stavo mettendo dell’impegno, vero impegno, a dispetto della proverbiale indolenza di cui facevo solitamente sfoggio, in special modo quando si trattava di libri da studiare o compiti da fare.

Se fossi stato un tipo anche solo vagamente riflessivo avrei quantomeno apprezzato l’ironia di fondo. Invece, come al solito, i pensieri me li raschiavo via con forza dalla testa assieme al guano che incrostava pavimento e pareti di pietra muffita. Del resto se fossi stato portato per un lavorio intellettuale di qualsiasi tipo sarei stato ficcato in mezzo a quei luridi lecchini di Corvonero.

Invece ero a Grifondoro.

La casa dei pulitori di cacche di gufo.

Risi di me stesso, di quella stupida battuta, mettendo più foga nel lavoro a dispetto della fatica e dell’odore acre di sudore e selvatico che mi penetrava insistente le narici. Ero felice. Persino l’incessante stridio di quelle orride bestiacce mi sembrava adorabile. Quella volta l’avevo combinata grossa al punto che la McGranitt, di solito pacata e controllata anche negli scatti di collera, mi aveva gridato contro tutta la sua frustrazione repressa, insinuando di non aver mai incontrato in tutta la sua (lunghissima) carriera di insegnante un piantagrane peggiore di me.

Ero convinto che volesse umiliarmi, o darmi una qualche profonda lezione di vita: in entrambi i casi sapevo che la cosa migliore da fare sarebbe stata assumere un atteggiamento di profonda contrizione e così avevo fatto, sebbene dentro mi fossi sentito invadere d’un folle, inspiegabile orgoglio.

 

 

Era stata una buona idea prendere in prestito una scopa dal dormitorio.

Non l’avevo rubata.

Quelle erano solo insinuazioni di invidiosi.

Ero stato semplicemente costretto dalle circostanze.

Non era certo colpa mia se quei malfidati dei professori tenevano quelle della scuola ben chiuse negli sgabuzzini, le porte bloccate magicamente con chissà quale incantesimo (era dall’inizio delle vacanze che avevo tentato, senza successo, di forzarle) e il caso voleva che quell’idiota del mio vicino di letto ne avesse una splendida: una Aeras 97T nuova di pacca (a quanto avevo capito il suo papino era riuscito ad ottenerla prima che venisse messa in commercio). Ne era talmente orgoglioso che avrebbe preferito dar via l’arnese piuttosto che prestarla a qualcuno anche se per un secondo.

Non che avessi interesse per le scope.

Ero un volatore poco più che mediocre.

Ma Merlino, quella era una provocazione.

Se lo meritava, quello stecchino rachitico con gli occhialetti da sfigato e quell’assurda massa di capelli ingrovigliati a prendergli possesso della testa: rappresentava la quintessenza di tutto ciò che detestavo nei miei compagni di Casa, che evitavo il più possibile (benché avessi tentato di instaurare un qualche rapporto con un secchione di poche parole del mio anno, per una questione d’utilità).

Tronfio e borioso, insopportabile, apparteneva a quell’orrida categoria umana di persone che nel tentativo di risultare simpatiche a tutti i costi si rendono assolutamente odiose a quelle come me alle quali è più che sufficiente la propria, di boria.

Ma non era quello il problema. C’era qualcosa di particolare in quella persona, di più profondo: qualcosa che me la faceva risultare veramente odiosa, al punto da prendere in seria considerazione l’idea di un omicidio.

Solo che non sapevo cosa.

Né mi interessava pensarci su.

Non in quel momento, con quel manico di scopa a vibrarmi vivo tra le dita.

Merlino, era bastato sfiorarlo, quell’oggetto, per avvertirne la potenza e farmi accantonare l’idea iniziale di limitarmi a nasconderglielo da qualche parte per il semplice gusto di vederlo dare di matto. Improvvisamente mi era sembrato un dispetto da bambocci: sentir piagnucolare come una bambina il re dei figli di papà non mi avrebbe portato nessuna soddisfazione.

Potevo godermela un po’, invece.

Fuori c’era un bel sole, a dispetto del freddo.

La notte prima aveva nevicato ed era tutto immacolato fuori.

Sarebbe stata una genialata portare quell’affare alla massima velocità consentita prima che passasse di moda, dal momento che ero convinto che il fighettino la utilizzasse solo per sollevarsi da terra e girare in tondo inseguendosi la coda di saggina; azzardare qualche acrobazia nel cortile principale, quello di fronte al cancello d’ingresso, al solo scopo di dimostrare all’insegnante che il mio controllo della scopa non era “letale” come malignamente insinuava per poi andarmene a poltrire fuori da qualche parte, una volta esausto. Un posto in cui gli impiccioni non potessero venire a rompermi incessantemente le palle, come al loro solito.

Gliel’avrei restituita prima di cena.

Probabilmente non se ne sarebbe nemmeno accorto… A meno che, certo, quel ragazzino piccolo e pauroso, unica presenza a parte il sottoscritto nel dormitorio deserto (benché l’impressione fosse comunque quella di essere solo), non si fosse deciso a fare la spia con il proprietario della scopa. Oltre che essere un vigliacco, era così insulso che non era andato bene nemmeno per la Casa dei Tassorosso.

Ne ero certo, non si sarebbe mai azzardato.

Però mi lanciava occhiatine sospettose.

Per esserne ancora più sicuro, tuttavia, mi avvicinai al suo letto chiamandolo mellifluo per nome, la scopa ben stretta nella mano; gli feci una carezza ruvida sulla testa bionda e caritatevolmente mi premurai di ricordargli quanto tempo era rimasto in infermeria l’ultimo idiota che aveva provato a mettermi i bastoni tra le ruote.

Prima ancora che avesse il tempo di farsela nelle brache ero montato in groppa al manico di scopa ed ero schizzato via dai dormitori attraverso una delle strette finestre, benché sapessi alla perfezione quanto fosse sconsigliato ai neofiti azzardare un decollo in uno spazio così ristretto.

Avevo sorriso a me stesso.

Conoscevo a menadito ogni norma di sicurezza.

Ma ho sempre trovato molto più divertente trasgredire con cognizione di causa.

 

 

Non è mica facile fare lo stronzo.

Farne un modo di vivere, poi, è veramente difficoltoso.

Non è una cosa che si mette in pratica la prima volta che qualcosa o qualcuno ci fa soffrire. Non viene automatico trasformare quei naturalissimi, cattivi pensieri in pessime azioni.

Occorrono mezzo, occasione e movente, per non parlare di una discreta dose di motivazioni.

E’ un’arte, e come tale va affinata.

La meschinità, lo spregio, non nascono dal nulla: essi esigono buona organizzazione e un sangue freddo invidiabile, cose generalmente incompatibili con un carattere, come il mio, devotamente teso all’istinto.

Il problema è facilmente aggirabile. Basta coltivare il distacco.

Ottenere la giusta distanza dal prossimo. Assuefarsi all’odio. Convincersi che le persone a cui fai del male se lo stiano davvero meritando, perché in fondo tutti sono intimamente colpevoli di qualcosa. Tu stai solo facendo giustizia.

Quando vedi una ragazza guardarti dall’alto in basso stringendo la bacchetta, devi immaginarti il torace sfranto dalla Maledizione Senza Perdono che sta per lanciarti. Quando osservi un gruppo di ragazzi ridere insieme, devi immaginare che stiano pensando a come annegarti ficcandoti la testa nel water. Quando stai per rompere quel brutto naso al saccente imbecille che ti ha fatto fare brutta figura a lezione devi immaginarlo nell’atto di compiere qualcosa di assolutamente spregevole. Farsi scorrere immonde nefandezze nella testa mentre la mano stretta a pugno collide con la cartilagine, e mentre le ossa degli zigomi ti scricchiolano sotto le dita. Quando infrangi la pace intorno a te, devi immaginare di star solo risvegliando l’intrinseco male assopito.

Alla lunga finisci col trovarlo divertente.

Ne diventi schiavo, al punto che nemmeno chi ti sta intorno riesce più a farne a meno: si attende con sempre maggiore bramosia la prossima bravata, l’ennesimo atto di coraggio, l’ultima crudeltà, in un continuo, ossessivo crescendo. E alla fine ci si ritrova come me, con un piede sull’orlo del baratro e l’altro malamente poggiato sulle tegole bagnate e scivolose del ripido tetto della torre di Divinazione; ad allargare le braccia in un maldestro tentativo di mantenere l’equilibrio; a fissare la piccola (ed è piccola davvero), inutile folla sotto di te, distante, senza vederla davvero. Nelle orecchie non più grida o incitamenti ma il sibilo incessante del vento. Nel petto non più una inondante sensazione di nausea, ma il battito calmo del tuo cuore.

Nella testa nient’altro che il proprio placido respiro.

E tutto quello a cui si riesce a pensare è che non basta ancora.

Che si può fare più di così.

Che si può superare anche questo limite.

Finché non si andrà davvero troppo oltre.

Fino al momento in cui non ci si sentirà davvero sbagliati.

Finché non si chiuderà quello spazio che separa dal baratro e non ci si getterà nel vuoto, un sorriso sulle labbra, un grido di trionfo a vibrare acuto nella gola.

E la certezza che essere stronzi è un lungo, lento suicidio premeditato.

“Invece di pensare a stronzate la notte potrei anche dormire!” ringhiai inviperito a voce decisamente più alta del dovuto e battei con rabbia il pugno sul bracciolo della poltrona come ad intimare il Sonno in persona di cogliermi all’istante, scacciando poi con un gesto svogliato e sbrigativo della mano l’immancabile nuvoletta di polvere e sporco che era scaturita dal tessuto scarlatto.

Lo sguardo fuggì ansioso, e astioso, in direzione dei dormitori.

Era molto tardi. Forse avevo svegliato qualcuno.

Tesi le orecchie per captare qualche suono.

Niente.

Beh, naturale.

In fondo non ero stato poi così rumoroso. E poi, ricordai a me stesso, se anche lo fossi stato al punto da svegliare qualcuno di sicuro non sarebbe sceso a controllare. Tutti sapevano che c’ero io in Sala Comune, quindi la notte evitavano la zona come la peste, a meno di irrimandabili esigenze. Siccome non dormivo da tre mesi, avevo smesso di provare ad andare a letto: tanto era inutile, per non dire frustrante, starsene dritto e immobile come una bacchetta sotto le coperte con gli occhi spalancati a fissare un baldacchino cencioso, e nemmeno le pozioni soporifere più potenti o gli Incantesimi Rilassanti erano riuscite a donarmi la gioia di un sonno ristoratore. Avevo una poltrona, quella più vicina al camino, che avevo adibito a mio giaciglio notturno.

Me ne stavo lì, rapito, a fissare il fuoco fino a ustionarmi le guance.

Di notte, quando tutto taceva, ero tranquillo, perché mi sentivo sempre infiacchito, nel corpo il peso di un abbattimento che andava ben oltre quello fisico; di notte, quando le punizioni venivano scontate, ero calmo perchè facevo i conti con me stesso. Una gran rottura di palle, ma non riuscivo proprio a impedirmelo.

Imprecai mentalmente, e continuai a rimuginare.

Contro le fiamme vive, contro i miei occhi roventi.

Contro il mondo, contro la mia debolezza.

Reclinai la testa all’indietro, serrando le palpebre. Solo per un poco. Ero stanco in modo totalizzante, benché mi fosse stato concesso già da un pezzo di lasciare la guferia e di tornare alla torre del Grifondoro.

Mi sentivo vecchio e avevo solo undici anni.

Una voce alla mia destra mi strappò misericordiosamente a quei pensieri deprimenti. Era nasale, naturalmente canzonatoria e irridente, e come se tutto ciò ancora non bastasse, decisamente troppo acuta per appartenere ad un ragazzo con tutti gli attributi al posto giusto, anche se l’età pre-puberale poteva giustificare (forse, in parte) una cotale assenza di virilità.

L’avrei riconosciuta tra mille.

“Non sai che borbottare da soli è il primo segno di squilibrio mentale, Black?”

Avevo parlato di nuovo tra me e me?

Non me n’ero nemmeno accorto.

E quando era arrivato?

Mi voltai a fissarlo istintivamente, con uno scatto che di umano aveva ben poco, tra il sorpreso e l’astioso, mandando tranquillamente a quel paese quell’aborto di razionalità che ancora albergava in me, la quale mi suggeriva che ignorarlo e continuare a tenere gli occhi cocciutamente serrati, come se il non vederlo l’avesse reso effettivamente un mero scherzo della mia inquieta immaginazione, sarebbe stata la soluzione migliore.

Era veramente l’ultima persona che avrei voluto incontrare quella sera.

Ma  Merlino, non riuscivo mai ad ignorarlo.

Quanto mi irritavano quelle sue insinuazioni idiote.

Solo poche ore prima mi ero buttato di testa dalla torre di Divinazione, e se non fosse stato per il pronto intervento della professoressa McGranitt me la sarei cavata decisamente con qualcosa in più che una gamba rotta e tre costole incrinate (per non parlare di quel mal di testa da primato per via di tutte le ramanzine chilometriche che mi ero sorbito): parlare da solo era decisamente l’ultimo dei miei problemi, se stava davvero cercando in me segni di squilibrio.

Patetico coglione.

“Adesso ci sei tu qui con me, Potter, quindi non sono solo.”, replicai affabile dopo aver preso nuovamente in mano le redini della mia coscienza, sibilandogli addosso mellifluo una velenosa cortesia di facciata difficilmente accessibile ad una mente ingenua. Il principino aveva vissuto una vita troppo protetta dai mali del mondo, non aveva affinato l’orecchio a certe sfumature a cui invece io ero avvezzo.

Lo facevo apposta a mascherare il mio disprezzo.

Erano quelle piccole meschinità che mi facevano domandare se il mio posto non fosse stato in mezzo a quei patetici bacia-tuniche dei Serpeverde, con o senza le pressioni della mia famiglia.

La risposta, ovviamente, era no.

Troppo incosciente per i loro gusti raffinati.

Potter, al contrario, sembrava fin troppo prudente nella sua tenacia.

Lo sapevamo entrambi che se era lì, a quell’ora, in una stanza gelata (eravamo in inverno inoltrato, dopotutto, ed era notte fonda) con indosso solo un pigiama decisamente troppo largo e l’aria di un gatto che ha appena intrappolato un topo, non era certo per godersi la mia compagnia o intavolare con me una vivace conversazione. Era tutto il giorno che mi braccava peggio dell’elfo domestico di famiglia, e tutto il giorno che, per motivi più o meno fortuiti, riuscivo ad evitarlo.

Poteva ritenersi soddisfatto. Mi aveva beccato.

Decisi di non portarla per le lunghe, così presi un profondo respiro.

Lo sapevamo entrambi cos’era venuto a fare lì, perché perdere tempo?

“Senti, riguardo la tua scopa…”, replicai rauco, la voce decisamente troppo simile a un gemito supplichevolmente esausto piuttosto che ad un affranto pentimento fasullo. Mascherai l’imbarazzo schiarendomi rapidamente la gola. “E’ stato un incidente e mi dispiace, ma risparmiami le lagne: sono stato perseguitato tutta la giornata da mezzo corpo insegnante e ho raschiato merda fino a farmi sanguinare le mani (sollevai istintivamente i palmi, come a riprova delle mie parole, anche se non presentavano escoriazioni di alcun tipo) senza nemmeno poter cenare. Per cui, in tutta sincerità, sono convinto di aver dato abbastanza per oggi.” Scivolai più a fondo nel tessuto morbido della poltrona, la schiena curva, il collo incuneato tra le spalle. “Mandami il conto, provvederò a restituirti fino all’ultimo zellino appena potrò.”

Il mio primo pensiero, mentre parlavo, fu che non ricordavo di aver mai detto tante cazzate in un'unica frase in vita mia, nemmeno la volta in cui avevo tentato di convincere il professor Slughorn del mio amore per la sua materia. C’erano una vasta gamma di sentimenti che mi si affollavano dentro, a rotazione, ma il dispiacere non faceva proprio parte di questi.

L’avevo fatto apposta, e con gusto.

Il secondo pensiero fu che nemmeno lui poteva essere così coglione da bersela, questa manica di vaccate. Mi avevano visto tutti (c’era anche lui) su quel tetto, intento a spezzarmi sul ginocchio la sua adorata scopa con un ghigno malefico sul viso, per poi lanciarne sul prato le esanimi spoglie, poco prima di lanciarmi nel vuoto. “Non riparabile” era stata poi la diagnosi. Per quanto strano potesse sembrare, però, non l’avevo fatto per dispetto contro la sua persona.

Era stato un sacrificio necessario.

Così, anche volendo, non sarei potuto tornare giù.

Il terzo pensiero fu la realizzazione che Potter fosse decisamente una persona imprevedibile. Ignorò completamente le mie parole e, sollevando una mano a disordinare in maniera ancora più irreparabile quell’osceno intrico di capelli, disse soltanto: “E’ solo un pezzo di legno, non importa. Anche a bordo di un vaso da notte incantato riuscirei a diventare la punta di diamante della squadra di Quidditch, se solo me ne dessero l’occasione. E poi in fondo siamo amici, no?” Mi fece un occhiolino complice, con l’aria di chi stava discutendo di minuzie.

Dire che rimasi basito sarebbe un pallido eufemismo.

Non era la reazione che mi ero aspettato.

Cazzo, gli avevo fracassato una scopa che con ogni probabilità valeva più della mobilia del salone di casa mia e tutto quello che sapeva fare era dire l’ennesima stronzata. Chiunque altro mi avrebbe mandato bellamente a quel paese, lui mi consolava. Ma era proprio un deficiente.

Come se ciò non fosse bastato aveva scoperto i denti in una smorfia infantile, aperta e schietta, le fiamme del camino a riverberargli, liquide e potenti, nelle iridi castano vivo. Era un’espressione di assoluta, aperta felicità che mai nella vita avrei potuto emulare. A quel punto recuperai immediatamente la mia proverbiale, sfrontata diffidenza e lo occhieggiai dal basso.

“Sì…”, mugugnai torvo trovandomi improvvisamente interessante la punta delle scarpe (sporche di merda di gufo… Terribilmente adatto al mio stato d’animo del momento… Di nuovo ironico). Molto in fondo, aggiunsi mentalmente, e mi sentii un po’ meno sporco, al punto da azzardare un sorriso.

A lui parve bastare quella flebile conferma.

Non so quando avesse deciso che eravamo diventati amici.

Erano settimane che mi dava il tormento con le sue stupide chiacchiere e la sua presenza incessante: era non solo uno di quei tipi allegri e ciarlieri che trovano nelle persone tendenzialmente di poche parole come me la propria salvezza, dal momento che non amano ascoltare, ma era anche tremendamente insistente, al punto che nemmeno la minaccia di una battuta da parte mia se non mi avesse lasciato in pace l’aveva fermato.

La razza peggiore di rompicoglioni.

Benché i suoi metodi fossero tutt’altro che delicati, la sua tattica di avvicinamento era stata talmente graduale e sottile a dispetto dell’insistenza che mi ci ero abituato, e quando era venuto da me a sentenziare (badare bene, non a chiedere) “Adesso siamo amici.” non ci avevo trovato nulla di veramente strano e non avevo trovato nulla da obiettare, benché continuassi ad averlo in odio.

“Perché?” avevo chiesto solo, incredulo.

Lui mi aveva risposto con una scrollata indifferente di spalle, ma la verità era che mi voleva stare accanto perché mi trovava divertente.

Per lui io non ero che un passatempo. Un giocattolo buffo e imprevedibile.

Anche in quel momento il fatto di avergli fracassato la scopa non era un dispetto crudele, ma solo l’ennesima via di fuga da quella noiosa, perfetta routine che era la sua vita. Con me non ci si annoiava mai, per questo mi stava incessantemente intorno. Lui non frenava mai la mia folle incoscienza auto distruttiva. A volte avevo l’impressione che addirittura la ravvivasse, che mi spingesse in qualche modo, e senza bisogno di parole, verso l’ennesimo gesto inconsulto, verso l’ultimo limite. Mi pareva di dover dimostrare in continuazione di essere all’altezza delle aspettative, sentivo in sua presenza un’ansia crescente, elettrica, a invadermi prepotente i nervi, un’eccitazione senza pari scuotermi dentro, e mi sentivo in grado di fare qualsiasi cosa.

Potter si era seduto di fronte a me: le lunghe gambe malamente attorcigliate sul tappeto che celava alla vista il pavimento davanti al camino, le mani ad artigliare la trama scarlatto cupo e oro (che originale accostamento di colori) e il volto fisso in direzione delle fiamme, la testa leggermente piegata di lato, le labbra innaturalmente piegate all’ingiù.

Si voltò nella mia direzione, fissandomi serio.

“Sei pazzo, Black. Potevi ammazzarti.”

Sorrisi, mio malgrado.

Ero perfettamente consapevole di dare quest’idea ad un occhio inesperto. In realtà sapevo benissimo di non essere pazzo. Il mio atteggiamento era solo dovuto ad un carattere fortemente dedito allo scontro ad oltranza. L’intera mia esistenza era fondata su questo principio: oppormi era la mia ambizione. La realtà, densa o vuota che fosse, in me provocava solo negazioni. Quando avrei dovuto dormire, stavo sveglio. Quando avrei dovuto stare fermo, correvo. Quando avrei dovuto tacere, parlavo.

Quando mi si offriva aiuto, naturalmente, lo evitavo.

“Chi sei, mia madre?”, ribattei sarcastico.

Ricevetti in cambio un’occhiata sprezzante e in qualche modo che mi sembrava contraddittorio, matura.

“Ne dubito, anche se queste cose dovrebbe dirtele lei.”

Sentii le gambe scattare come molle prima che il cervello potesse codificare nell’interezza quella frase detta, ne sono certo, con l’ingenuità di un bambino ignaro. Lo afferrai per il bavero del pigiama, nelle dita una forza rabbiosa e disperata, e lo sbattei contro la parete di pietra umida, sollevandolo di parecchio da terra (niente di così strano come potrebbe sembrare: lui era una piuma e io no). Mia madre non aveva tempo di star dietro ad un pericolo pubblico come me. Come osava lui ridurre a quel modo la questione? Come poteva giudicare?

Mi sentivo gonfio di spirito combattivo fino a scoppiare, e avrei anche potuto uccidere se me ne fosse stata data l’occasione. Lui però mi fissava con indifferenza, per nulla intimorito dal mio atteggiamento bellicoso.

Tutte le mie armi: fame, sete, solitudine, paura e noia erano puntate sul nemico. Il mondo. Naturalmente al mondo, come a mia madre che aveva decisamente cose più importanti da fare che occuparsi di un disastro di figlio, o come ai professori che me le facevano sempre passare tutte relativamente lisce invece di espellermi, non poteva fregare di meno di me, e il sentimento era reciproco. Ma dal dolore traevo un macabro senso di auto-realizzazione. Sembrava che mi sentissi affermato solo nel momento in cui dicevo: no.

Contro persone splendenti (non avrei saputo descriverle in altro modo) come lui, però, erano totalmente inefficaci, e mi facevano sentire un vero coglione.

Lui brillava e io che portavo il nome della stella più fulgida del cielo no.

“Io me la cavo da solo.”, ringhiai con orgoglio.

Quegli occhi castani mi catturarono, col muto, rispettoso scetticismo che emanavano. La luce era smorzata, calda luce invernale, ma il suo volto era acceso. La bocca appena aperta, a incamerare l’aria fresca e polverosa di quella notte strana. E quegli occhi a leggermi il disagio nella testa.

Non disse niente, ma era tutto quello che avevo bisogno di sentire. Mi ritrassi lasciandolo andare, nel tentativo di tenermi fuori dal raggio della sua premura, la quale tuttavia impregnava la stanza soffocandomi.

“Mi hai rotto le palle.”, dissi voltandogli le spalle. “Io me ne vado a dormire.” E mi avviai in direzione dei dormitori, con la sensazione che qualcosa di importante si fosse irrimediabilmente perduto.

Perché non è affatto facile fare lo stronzo.

E’ una continua sfida a superare i limiti.

Un lungo, lento suicidio premeditato.

A meno che non si incontri qualcuno di talmente pazzo da afferrarti per le spalle prima dell'inevitabile salto nel vuoto.

 

Fine Capitolo 2

 

Commenti di fine capitolo.

Cortissimi perché non c’è veramente molto da aggiungere, avete detto tutto voi. Quanti bei commenti, siete tutte bravissime, ma io non vi merito! *_* Detto ciò solo una piccola nota su una cosa che ci ho pensato 2 ore per inventarmela quindi voglio che si sappia, e che cavolo! XDDD Il nome della scopa di James non è dato a caso: AERAS in greco (moderno) significa vento (a sottolineare per l’appunto la velocità di questa scopa, che tanto farà una fine orrida per cui che lo dico a fare? Mah! XD). 97T non è una sigla inventata, ma richiama alla Lotus 97T con cui Ayrton Senna ottenne la sua prima Pole Position alla seconda gara stagionale, il Gran Premio del Portogallo 1985, disputato sul circuito dell’Estoril.

 

Passiamo ai ringraziamenti individuali! ^^

 

Redistherose: Quindi i nomi di Ny e Boll attirano e incoraggiano il lettore, la prossima volta li metto nel riassunto esterno alla fan fic, così si ingolosiscono più persone! XD Sto scherzando, ma forse no. Innanzitutto, son contenta che ti sia piaciuta “Lei non è una di noi”, davvero (mi sa che io sono la sua detrattrice più folle, trovo sempre 50mila cosa che potrebbero essere migliorabili/modificabili, ma poi una fic così lunga diventa difficile da controllare…). Su questa storia, che dire? Innanzitutto che ti ringrazio molto per i complimenti (arrossisco! ^^), e complimenti per l’ottima analisi su Sirius. In effetti sì, mi piace vederlo così incapace di destreggiarsi coi suoi sentimenti. Lui ha anche tanto da donare (amicizia, fedeltà), ma niente da fare, non si fida, è incapace di amare come dici tu, ma non per partito preso, solo per diffidenza. In questo si somigliano molto lui e Remus (chissà come mai li amo insieme! XD Mah! XD). La madre, ovvio che non è solo odio, almeno all’inizio. Non puoi odiare così, subito, tua madre, quando ancora non ti ha fatto niente (mi piace pensare che questo suo odio al credo di famiglia sia avvenuto dopo, per ripicca, e con esso l’odio feroce per tutta la famiglia. Non potendo ricevere amore da loro, li odia, molto semplicemente ^^). Su Lily Evans a Grifondoro a me pare di essere sicura perché mi sembra che la Rowling l’abbia assicurato da qualche parte, ma potrei benissimo essermelo inventato per comodità (non mi ricordo, ma cambia poco! ^_-) Io ahimè per Gary nutro un amore inverecondo che va ben oltre l’immaginabile quindi vederlo a fare Sirius mi procura ripetuti orgasmi a dispetto del pastrocchio dei film. XD Tra l’altro ci sono voci che dicono che Lewis farà Fenrir, ma non saprei dirti, dicevano anche che Rowan Atkinson avrebbe fatto Voldemort e poi hanno preso Fiennes (che era un Remus perfetto, grrrr)

 

SweetSirius: Hehehehe grazie per i complimenti! ^^ Ho aggiornato preso, dai, una settimana, non hai dovuto penare tanto, Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo. Sirius è anche il mio personaggio preferito (ma no, non si nota! XD), e mi piace dargli uno spessore votato e puntato al tragico (amo i personaggi tragici, amo Sirius, quindi Sirius deve essere tragico,. Non fa una grinza! XD). La tua analisi del MIO Sirius è corretta, lui si convince di fregarsene, in realtà è un meccanismo di difesa alla “Se mi convinco di essere indifferente soffro di meno o non soffro affatto, è meglio così”. Un bacio anche a te

 

Skiblue: Temo che di altri personaggi non vedrai molto se non visti attraverso gli occhi di Sirius! ^^ E’ lui il fulcro portante della storia, ed è talmente egocentrico da non lasciare molto spazio agli altri. Questo solo per avvisarti perché poi non rimanga delusa! XD Ma sono contenta che ti sia piaciuta la mia storia, ti ringrazio infinitamente dei complimenti e spero che continuerai a seguirla. ^^

 

Hazel: Ma il signor Burns non diceva ECCELLENTE? XDDDD Che dire, il tuo commento è stato più che gradito, è valsa la pena aspettare BEN UN GIORNO (orrore, troppo! XDD), e son contenta che una volta tanto io sia riuscita a risultare originale (che frustrazione, ogni volta mi dicono “Lo sapevo che andava a finire così! Lo sapevoooooo!”  ogni volta vorrei accucciarmi in un angolo a uggiolare per la disperazione! XDDD). *_* Meglio ancora se t’è piaciuta, per me è fonde di insostenibile gioia. In un certo senso però il contesto è scolastico! XD Solo che è un pipparolo peggio di Severus, il nostro povero Sirius! XD Per quanto riguarda la graforrea, a parte che non rinnegherò mai la mia fede e infatti come lunghezza i capitoli vanno in uno spaventoso crescendo (c’è da tremare! XD), ma 3 pagine per dire in pratica “A Sirius arrivò una lettera e la aprì” non è che sia pochissimo! XDDDD A parte quello io sono imbarazzata per i complimenti e contentissima che queste tre pagnotte ti abbiano indotto a sì profonde riflessioni! *.* Di più non ti posso dire su quello che mi hai detto se no ti rovino il seguito e non credo sia il caso! XD Dico solo che se sono riuscita a dare l’idea di un Sirius “schizofrenico”, che si barcamena follemente tra superiorità e inferiorità, ne sono tanto contenta, è un risultato in più per me! *_*

 

Kar: Guarda che l’ho veramente praticamente finita, malfidata, mi manca un pezzettino ino dell’inizio e devo organizzare la fine, ma il racconto c’è praticamente tutto! XD Mica metto in mezzo Gary per niente, tzè, qui si sottovaluta il mio amore per il Divino!!! XD Se i capitolo è bello naturalmente è merito del protagonista E della scrittrice. Marito e moglie, lavoro di squadra! XD Sperando che il resto della fic non ti faccia passare la voglia di leggere i libri, ti ringrazio per i complimenti e ti bacio di rimando!

 

Chii: Toh, chi si vede, una nuova recensitrice su questi lidi ameni! XDDDDDD Non volevo dire che avevo scritto una nuova storia perché temevo il fioccare di “Ma la finisci questa, vero?” Sì, questa la finisco! XDDD Per Sirius, nella mia testa malata c’era anche un motivo per cui all’inizio lo facevo andare nei dormitori femminili come prima cosa (mica solo perché è un maniaco, noooooh, gli basto io che se ne fa delle altre?), visto che non lo scrivo più te lo dico: praticamente per “spaventarlo” quand’era al primo anno un tipo più grande gli aveva raccontato che chi tentava di entrare veniva colpito da una terribile maledizione. E lui che è il solito incosciente come prima cosa parte in quarta nei dormitori femminili! XD Ovviamente con Lily è amore a prima vista! XD Non a caso la adoro come coppia! XD Gli altri marauders avranno il loro ruolo nei prossimi due capitoli, ma sempre molto molto, marginali. Insomma, per leggerci qualcosa degli altri, si dovrà molto lavorare tra le righe! XD Il protagonista è Sirius, egli ANELA all’essere protagonista assoluto. XD Ma Walburga è umana, in fondo. Molto in fondo. Tremendamente in fondo. Grazie mille per i complimenti, arrossisco! ^^

 

Goblin: Grazie mille per i complimenti! ^^ Non ti preoccupare, la finisco la storia, questa la finisco (stano cominciando a proliferare le persone malfidate, chissà come mai! XDDDD)

 

Anachan: Te c’hai dei poteri paranormali o psionici o quel che è, come cavolo hai fatto a sentire di vdover venire nel mio account proprio il giorno di postaggio? XDDD O controlli tutti i giorni o io chiamo un esorcista (o mi hai piazzato delle microcamere in camera? XDDD). Wè, come sarebbe a dire che non sei sorpresa di vedere Sirius come protagonista? XD Come se fosse un personaggio che amo, tsè! XD Figuriamoci! XD Son contenta che lo trovi figo, anche a me piace parecchio (anche se, microscopica anticipazione, il mio amore con la A maiuscola in questa fic è Regulus! Io amo Regulus, è così carino!!!! *ç*). Il tuo sesto senso dice bene, i tre ragazzini deve ancora conoscerli, e si vede! ^_- Il disegno è carinissimo! *.* Sei la seconda che mi dice che Walburga sembra umana, andrà a finire che mi ci convincerò davvero e comincerò a trovarla simpatica! XDDD No, impossibile. Grazie assai per i complimenti, mi rendono felice! *_*

 

Rik: Giuro che quando ho letto la frase “ci si accosta ai personaggi e all'ambientazione della Rowling, che ha tutt'altro stile.” Per un attimo ho pensato: “Ma mi devo offendere?” XDDDD Mioddio, è la mancanza di sonno non mi badare! XD Che dire di questa breve ma intensa recensione al mio lavoro? Che mi imbarazza piacevolmente, che se davvero ti ispiro tutto questo non posso che arrossire come una verginella pudica di fronte a una dichiarazione d’amore (per il mio lavoro) così sentita. E pensare che credevo di risultare noiosa visto che ho descritto solo un tizio che apre una lettera. Sei l’unico che si è ricordato di Tantalo, il mio gufetto! XDDD Apprezzo molto e ti ringrazio per i complimenti commoventi.

 

MoMo: No, cancellarla non l’avrei mai fatto (forse…. Non credo… Boh? XD), al massimo la tenevo bene al sicuro tra i miei documenti-inverecondi nel pc, nascosti da qualsiasi occhio umano. Che Sirius ti piaccia mi fa molto piacere. A volte dà fastidio, quando ne parlo in generale, questa mia visione di Sirius così ombroso, così cupo. Perché le persone si affezionano a quel personaggio allegro, vitale e crudele nella sua voglia di vivere che siamo abituati a vedere. Non dico che sia un male vederlo così, anzi, ma non è il mio modo di vedere. Se c’è gente che lo condivide, non può che farmi piacere. Ti ringrazio molto per i complimenti e spero che il seguito non ti deluderà! ^^

 

Herm88: Sul serio non leggi mai storie sui marauders? *_* Uuuh, allora ho di che essere stra felice del fatto che hai deciso non solo di leggere, ma addirittura di commentare questa fic (so che significa quando le dita si muovono da sole a fare una recensione entusiastica di una Ron/Hermione… Orrore! XDDD), che non è allegra come le tragicomiche ma ha visto comunque il tuo consenso, cosa che un po’ mi commuove e quasi mi fa pensare di essere brava veramente! XDDD Che sia scorrevole è una cosa che mi riempie di gioia, visto che è una fic che parla solo di un tizio che si fa un sacco di pippe mentali che apre una lettera! XD Che poi ti piaccia anche il mio stile è una cosa in più. Grazie sentitamente!!!! *_*

 

Lucifera: Certo che continua, non c’è scritto SI’ vicino a “Completa” nel riassunto dell’opera. Ti ringrazio molto per l’apprezzamento, spero che continuerai a leggere apprezzando questa piccola umile storia. ^_-

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Capitolo 3
*** 2 settembre 1972 ***


Nuova pagina 1

Nota doverosa di inizio capitolo: Eccoci dunque al terzo e ultimo capitolo di questa storia. Come al solito ringrazio chi ha avuto la santa pazienza di leggere e recensire, e apprezzare il mio/i miei personaggi, a chi si è affezionato a me, al mio modo di scrivere, o al mio Sirius almeno un pochetto. La psicologia di Sirius è una cosa che mi rende molto fiera.

Ora, una nota esplicativa abbastanza importante. Dai commenti ho notato che molti/e sono rimasti spiazzati/e dal comportamento di James. E’ sembrato troppo buono, forse, troppo poco umano (in fondo lo dice anche il mio Sirius, chiunque si sarebbe incavolato almeno un po’). O dall’altro lato troppo comprensivo del disagio di Sirius. Ecco, quello che mi preme far capire è che non è così. Ma lascio la parola a Nykyo (che ringrazio da morire per il suo appoggio e la sua immensa sopportazione – anzi, sua e di boll11 – perché da betare sono veramente fastidiosa! XDD) che nella sua recensione l’ha delineato molto bene e in poche parole! ^^

“James (non lo amo, ma sarò obiettiva) è perfetto. James è la persona normale, sana, ancora integra, che è curiosa di superare i limiti, ma non i propri, quelli altrui. A lui manca l'autolesionismo di Sirius. Lui non è tarato, sa di esistere, si basta. Può spingere il pedale dell'acceleratore, ma non spingerà mai il bottone dell'autodistruzione, mentre Sirius quel bottone lo sta prendendo a martellate da un pezzo.”

Invito gli interessati, se desiderano approfondire, a leggere il mio commento a Ny in cui affronto l’argomento più nel dettaglio. Grazie per l’attenzione, non vi tedio oltre e vi lascio alla fic. ^^

Un bacio a tutti.

Twinstar

 

LO SMISTAMENTO

 




 

2 settembre 1972

 

 

Due porte.

Ecco quanto si frapponeva tra lo studente e la libertà.

Una che dava sull’interno, piuttosto modesta: semplice, spartana, con un grosso lucchetto di ferro mezzo arrugginito forzabile tramite un banalissimo Alohomora.

L’altra, che dava sull’esterno, decisamente più ostica; enorme, imponente, di metallo e legno finemente lavorati, talmente gonfia di protezioni di varia natura, conosciute e non, che un qualsiasi Incantesimo di Apertura scagliatovi contro aveva come unico effetto quello di rimbalzare malamente addosso al malcapitato proiettandolo a molti metri di distanza.

Tra di esse solo pochi metri di spazio in cui stare fermi ad aspettare che venisse chiusa la prima e aperta la seconda.

Misure precauzionali introdotte quell’anno per la nostra sicurezza, dicevano: l’impressione però era che temessero fughe in massa di studenti, neanche fossimo stati prigionieri di guerra.

Non mi piaceva affatto quell’idea di costrizione.

Nessuna meraviglia che avessi cominciato a cercare delle vie d’uscita da quel confino.

C’erano dei passaggi segreti, nel castello. Quest’estate Andromeda, ritenutici degni, ne aveva rivelati un paio a me e a mio fratello tra quelli che utilizzava al tempo per incontrarsi di nascosto coi suoi ragazzi, perché ne facessimo un buon uso; ce n’era ad esempio uno che, passando per l’infermeria, portava a uno dei cortili posteriori, e poi un altro, nascosto dietro un arazzo nel corridoio del sesto piano, che dava sulle serre.

Non avendo una ragazza, né avendo intenzione di averne a meno di trovarmi con una bacchetta puntata alla tempia, posti di quel genere erano totalmente inutili per me, ma la loro mera esistenza dava adito a riflessioni decisamente più intriganti.

Tanto per cominciare la certezza che non potessero essere gli unici: dovevano esistere un’infinità di passaggi segreti, più o meno celati alla vista, talmente numerosi che nemmeno i quattro fondatori sarebbero riusciti a ricordarli con precisione.

Qualcuno di essi avrebbe pur dovuto rappresentare una via di fuga verso l’esterno.

Io volevo trovarle tutte quante.

James naturalmente era rimasto folgorato dall’idea.

Gliel’avevo proposto la sera prima, un po’ come una sfida, conscio del fatto che sarebbe bastato quello a farne un mio valido alleato. Del resto, da solo non sarei riuscito a combinare granché.

Lui l’aveva trovato divertente.

Così ogni sera, dopo cena fino al coprifuoco delle nove, avevamo deciso di gironzolare per il castello alla ricerca di stranezze architettoniche che avrebbero potuto celare qualcosa allo sguardo.

Avevo trascinato anche Remus in quella storia.

Quando avevamo deciso di cominciare era stato subito chiaro che sarebbe stato molto più saggio agire in coppia, per vari motivi, primo tra tutte la mia assoluta incapacità di fare attenzione, di notare i particolari. Io e James, però, non andavamo mai in ricognizione insieme, eravamo troppo sospetti.

Per qualche inspiegabile motivo quando qualcuno ci scorgeva insieme a bighellonare per il castello, anche se con l’aria più innocente del mondo, diventava immediatamente sospettoso e si teneva alla larga da noi due, o peggio ancora chiamava qualche insegnante prima che si potesse fare alcunché. Ci si renderà conto che lavorare in quelle condizioni era decisamente impensabile.

Nemmeno con Peter era stato possibile, benché si fosse offerto subito, entusiasta. Quel ragazzo era pieno di buone intenzioni, ma anche terribilmente incapace.

Quel dannato fifone squittiva di terrore ogni volta che incrociavamo lo sguardo di qualcuno: una volta si era addirittura inginocchiato in lacrime ai piedi del preside Silente implorando pietà solo perché, al suo passaggio, aveva sorriso sornione. Era stato fortunato di essersi trovato in compagnia di James che sopportava bonariamente quelle idiozie facendone al massimo il tema di irresistibili, dissacranti prese in giro. Io l’avrei riempito di calci nel sedere.

Così, dopo un primo momento di frustrazione mi era venuta l’idea geniale di portarmi dietro l’Innocentino, di renderlo partecipe dei nostri piani anche se ogni volta era una ben dura lotta schiodarlo dai libri di scuola. Sembrava voler passare il minor tempo possibile con noi, al punto da entrare in dormitorio solo per riposarci (e a volte neanche di quell’onore ci degnava). Come se avesse potuto trovare in tutta la scuola una compagnia migliore della nostra, figuriamoci.

Alla fine, però, la mia insistenza aveva avuto la meglio.

Non era una particolare predisposizione nei suoi confronti, la mia, anzi (lo trovavo un tipo decisamente scialbo), ma semplicemente la scelta più logica: il ragazzo, a dispetto della noia che emanava con la semplice presenza, aveva un sangue freddo invidiabile, l’ammirevole qualità di tenere la bocca chiusa a meno che non fosse strettamente necessario, e soprattutto quella faccia angelica da bravo ragazzo che tediava me, che procurava ripetuti orgasmi ai professori e che, soprattutto, in quei casi si rivelava immensamente utile. Quando ero con lui, tra le altre cose, assumevo sempre l’aria contrita di chi sta ricevendo una strigliata.

Ottimo.

La prima sera toccava a noi andare in avanscoperta: ci si era messi d’accordo per partire “dal basso” e andare in direzione dell’aula di pozioni, giù nelle segrete, in un punto in cui avevamo notato il pomeriggio stesso una parete dall’aria decisamente sospetta. Le gambe però (e quelle assurde scale) mi avevano trascinato invece al corridoio del terzo piano e Remus, docile come sempre, mi aveva seguito senza un fiato.

Tanto qualcosa l’avremmo trovato di sicuro, me lo diceva l’istinto. Remus invece si era dimostrato tacitamente scettico, ma non aveva obiettato. A lui non importava dove si andasse, purché si tornasse in fretta.

Naturalmente, nell’atto pratico avevo finito col controllare nicchie, sollevare cornici e palpare pareti lungo tutto il corridoio sotto lo sguardo indolente del mio compare (perché non esisteva che mi desse una mano, proprio come coi compiti di scuola, anche se tra noi due era decisamente quello più attento ai particolari) fino a farmi diventare le mani nere senza rinvenire un emerito nulla.

Volsi lo sguardo in direzione della scalinata, detergendomi il sudore dalla fronte con un gesto meccanico. Nemmeno mi avvidi delle lunghe ditate scure impresse nella pelle. Remus non prestava la benché minima attenzione né a me né tantomeno ai due lati del corridoio, nel caso in cui fosse arrivata gente (che razza di palo!): se ne stava a fissare incantato la statua di un’orrida strega gobba a grandezza naturale, facendo scorrere pigramente, curioso, le dita contro la superficie compatta, saggiandone la consistenza e le imperfezioni in ogni suo centimetro, nello sguardo una viva curiosità. Da come se la palpeggiava avrei detto che quella vecchiaccia fosse il suo tipo ideale.

Chissà che idiozia da secchione aveva trovato.

Non mi preoccupai di reprimere uno sbadiglio spalancando la bocca fino al massimo consentito dalla mascella.

Mi ero stufato.

“Qui non c’è niente.”, avevo sentenziato ficcandomi le mani nelle tasche e facendo per avviarmi in direzione della torre del Grifondoro. “Torniamocene in dormitorio, così mi fai copiare il tema di Trasfigurazione.”, azzardai con un mezzo sorriso, non troppo convinto delle mie stesse parole.

“Non contarci.”, mi era stato risposto con aria altrettanto annoiata.

Ma me l’aspettavo. L’avevo detto al solo scopo di irritarlo. Lui d’altro canto faceva lo stesso con me. Era un tacito gioco, il nostro, deciso di comune accordo.

Azzardai qualche passo in direzione della scalinata per poi girarmi nuovamente nella sua direzione, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare. Niente di veloce, a quanto pareva.

Rimasi con le mani in mano, intrecciate sullo stomaco, puntellando le spalle contro il muro, e lo osservai voltare il palmo verso il viso e scrutarsi i polpastrelli luridi con aria critica: arricciò le labbra in una smorfia disgustata, dopodichè si strofinò distrattamente le dita contro il lembo della veste, prima di afferrare saldamente la bacchetta e azzardare un paio di colpetti contro la pietra. Era come estraniato dalla realtà, come se fosse solo. A quanto pareva non aveva alcuna intenzione di seguirmi.

Non che mi interessasse di fargli da balia, ovviamente (benché desse l’aria di un tipo decisamente bisognoso di aiuto, con quelle occhiaie scure a cerchiargli perennemente le orbite e il pallore della pelle), ma l’idea di essere ignorato a tal modo da uno come lui era, dal mio punto di vista, decisamente seccante.

“Lupin, torniamo dagli altri.”, ordinai con piglio deciso.

La mano che teneva la bacchetta, dopo un primo momento di incertezza sul da farsi, rinfoderò l’arma tra le pieghe della veste (anche se avevo l’aritmantica certezza che per un istante avesse seriamente ponderato l’ipotesi di Schiantarmi se non fosse stato così ligio alle regole) e mi si avvicinò a passi lenti e calcolati, non senza gettare un’ultima occhiata da sopra la spalla.

Ci incamminammo poi spalla a spalla per le scale.

“Cos’hai trovato di interessante vicino a quella brutta statua?”, domandai dopo un paio di gradini, incapace di trattenere l’infantile curiosità che mi contraddistingueva.

“Niente che ti riguardi.”

“Dimmelo lo stesso.”

“Scordatelo.”

Alle mie pressanti insistenze sollevò gli occhi al cielo fissandomi poi con uno sguardo esasperato e dai denti fuoriuscì uno sbuffo acuto, quasi un sibilo di serpe. “Santo Merlino, Black, sembra che tu ne faccia una vera e propria missione del tuo essere insopportabile.” Si passò una mano tra i capelli, stizzito, tirandosi indietro la frangia troppo lunga con un gesto scostante nella sua meccanicità, e non potei fare a meno di notare nel più totale disinteresse, nel breve istante in cui la stoffa della veste si era sollevata sull’avambraccio, un’impietosa cicatrice scarlatta a percorrergli l’arto superiore in lunghezza. “Perché non vai a scocciare tuo fratello, tanto per cambiare?”

Mi fermai di colpo, voltandomi nella sua direzione con gli occhi accesi: ma lui era lì, con lo sguardo mogio e discreto fisso sul mio viso, in un atteggiamento non di sfida, quanto piuttosto di pacato rispetto, e di placido interesse e curiosità, e come avrei potuto rimproverarlo di qualcosa?

Improvvisamente mi venne da ridere.

Gettai la testa all’indietro abbandonandomi a una risata rumorosa, sguaiata, folle, che mi scosse da capo a piedi al punto che dovetti reggermi allo spesso corrimano di pietra per non perdere l’equilibrio.

Ridevo, e ridevo ancora, fin quasi a spremermi le lacrime dagli occhi, mentre Remus mi fissava perplesso, la nuca leggermente piegata di lato, non sapendo come interpretare la mia reazione. Comprensibile, in un certo senso.

Anche a me, del resto, quell’allegria pareva in qualche modo immotivata.

“Non sprecherò di certo il mio tempo con quell’idiota di Regrettulus!”, ululai divertito, e il suono di quel crudele, infantile nomignolo che io stesso avevo affibbiato a mio fratello quando eravamo più piccoli ad echeggiare nel corridoio deserto fece scattare in me qualcosa di nuovo e in qualche modo malinconico nella sua insipidezza.

Di colpo smisi di ridere, e le iridi seminascoste dietro le ciglia ignorarono l’espressione senz’altro pregna di significati sul volto del mio compagno di scorribande e si fissarono incantate sulla punta delle mie scarpe impolverate, le labbra raggelate in una smorfia obliqua, incerta.

Tornammo insieme ai dormitori senza più scambiarci una parola.

L’idea di essermi fatto raggiungere dai pensieri e dai ricordi mi aveva irritato.

 

 

Una notte di fine agosto avevo avuto un risveglio cupo e tumultuoso per un incubo dai contorni indefiniti, con una innaturale sensazione di gelo sulle guance congestionate da un leggero raffreddore estivo che mi aveva costretto a letto per tutta la giornata. Subito avevo aguzzato gli occhi ancora sopiti nel buio alla mia sinistra, come facevo sempre appena sveglio, alla ricerca della sagoma familiare di mio fratello a rigonfiare le lenzuola, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a vedere nel giaciglio accanto al mio nessuna traccia di presenza umana.

Il cuscino pareva gonfio, intonso.

La coperta azzurra piatta e innaturalmente tesa.

Non era una novità svegliarmi da solo in una stanza vuota, la notte, e in quei momenti mi sentivo non inquieto, quanto piuttosto sollevato. Le assenze notturne di Regulus erano uno dei punti fermi su cui poggiavano le fondamenta della mia esistenza. Con la testa ancora un po’ annebbiata dal sonno e dai rimasugli di febbre ipotizzavo dove mai fosse potuto andare a quell’ora tarda.

Forse non riuscendo a dormire era andato in giro a bighellonare per i corridoi deserti alla ricerca di qualche occasione per giocare qualche nuovo tiro ai parenti in occasione della festa di fidanzamento di nostra cugina Bellatrix che si sarebbe tenuta lì proprio l’indomani. Forse era in cucina a rubacchiare dalla credenza in alto un paio di quei Biscotti della Fortuna che ci aveva portato lo zio Alphard dal suo ultimo viaggio in Cina. A dispetto del nome non portavano affatto fortuna, la loro unica qualità era donare il buonumore per un giorno intero, e secondo lo zio nostra madre ne avrebbe avuto un gran bisogno. Oppure, congettura decisamente meno verosimile, non aveva in mente nulla di losco ed era semplicemente andato in bagno in preda ad irrimandabili esigenze.

Un anelito di brezza, un soffio appena, mi scorse fresco e umido giù per la spina dorsale assieme al sudore bollente che m’impregnava la pelle, in un contrasto energico che mi provocò un improvviso sussulto.

Quel deficiente di mio fratello, fregandosene bellamente del mio malore, doveva aver aperto la finestra non riuscendo a sopportare il caldo afoso dell’estate inoltrata. Adesso però lui non c’era e io stavo tremando di freddo.

Imprecai a fior di labbra stringendo la bocca in una linea esangue, perché nostra madre non voleva che usassimo certe parole e quell’idiota di Kreacher era sempre dietro a qualche parete a farsi i cazzi degli altri.

Mi volsi dall’altra parte allungando un braccio verso il comodino per accendere una candela di modo tale che mi rischiarasse la strada fino alla finestra, ma mi resi conto che la stanza era già impregnata della luce liquida e azzurrina della notte. Una luna tonda e piena pendeva a metà strada tra l’orizzonte e la cima del cielo, gocciolando latte nelle cime degli alberi del viale e sui tetti puntuti e lucidi di pioggia delle case attigue. E lì, davanti alla finestra spalancata, con le dita dei piedi nudi poggiate su un corto sgabello di legno per raggiungere il cornicione coi gomiti, la sagoma scura di mio fratello a voltarmi le spalle accogliendo su di sé quei tiepidi raggi. Aggrottai le sopracciglia, infastidito. Aveva indosso solo i pantaloni del pigiama leggero, e la pelle d’oca a sollevargli impietosa la pelle della schiena.

Si prenderà un malanno e poi darà la colpa a me.

Anche se a lui non importava di malato bastavo io in casa.

“Regulus… Chiudi la finestra.”, lo chiamai incerto, assonnato, e sull’ultima sillaba sentii la voce incrinarsi, piegata in una supplica rauca. Così non sembravo stanco, ma moribondo, e quel che peggio immensamente lagnoso. Ma non riuscivo a strappare alla mia gola altro tono di voce. La malattia era uno stato d’essere che mi distruggeva, benché detestassi pozioni medicamentose di qualsiasi genere, cosa che mi portava a restare indisposto molto più del normale.

Regulus era rimasto immobile, assorto, a fissare il cielo stellato come se vedesse scritto in quel puntini di luce il senso della vita: era come se avessi parlato all’aria, e quel che forse mi parve paradossalmente più strano fu il fatto che non me n’ero stupito neanche un po’.

Non ero mai riuscito ad imporre la mia supremazia di fratello maggiore con Regulus. Naturale, pensavo, dal momento che non potendo né volendo, per indole, star dietro a quel suo animo indisciplinato non vedeva in me una figura d’autorità. Io non lo seguivo in continuazione nelle sue pazzie come mia cugina Andromeda.

Non frenavo le sue folli corse come nostra madre.

Fluttuavo a metà strada tra i due estremi.

Quindi, per lui non esistevo.

Sospirai stizzito, scotendo la testa.

“Che stai facendo?”, domandai con voce più ferma.

Lo vidi sussultare quasi impercettibilmente come se solo in quell’istante si fosse accorto della mia presenza nella stanza, con fare che avrei potuto definire solo teatrale dal momento che sapevo che stava solo simulando l’atto della sorpresa, per poi voltarsi nella mia direzione con un gesto secco che fece saltellare le corte ciocche scure della testa riccia sulla fronte e le orecchie. La luce lunare gli colpiva la faccia e le spalle nude come una secchiata d’argento.

“Hai un aspetto orribile, Siri.”, sentenziò serio posandomi addosso il suo sguardo critico: sui miei occhi gonfi, il naso arrossato e gocciolante, la pelle sudata. Ero pienamente consapevole di non essere al massimo dello splendore, ma anche se non era piacevole sentirselo rimarcare la cosa che più mi urtava era l’uso di quel nomignolo sciocco che mi avevano affibbiato le mie cugine.

Mi asciugai il naso contro la manica del pigiama.

“Sono malato, idiota, che aspetto dovrei avere secondo te?”

Per tutta risposta sulle labbra comparve un sogghigno divertito.

“Mio caro ragazzo…”, cominciò, sollevando con fare saccente l’indice e chiuse gli occhi tirandosi indietro una ciocca di capelli immaginaria, in una superba imitazione di nostra madre che mio malgrado mi fece sollevare verso l’alto un angolo della bocca, nella patetica imitazione di un sorriso. “Un vero Black sa sempre come presentarsi al meglio, con grazia, eleganza e fascino, in qualunque occasione si presenti, sia essa il matrimonio più lieto o il giorno del proprio trapasso…”

Alzai gli occhi al cielo mentre Regulus continuava a sciorinarmi addosso un discorso di cui conoscevo pause e virgole, anche se detto con quell’aria cretina sembrava quasi divertente.

Quella era una delle lezioni preferite di nostra madre: di quelle che, in quanto erede, mi toccava sorbire ogni giorno affinché venissi “consapevolizzato”. Era importante per lei che venissi a conoscenza fin dalla più tenera età del mio ruolo, che dovessi sapere da subito cosa ci si aspettasse da me. Regulus non era obbligato ad ascoltarli ma restava lo stesso, seduto al tavolo della sala da pranzo con le gambe a ciondoloni sulla sedia e il mento poggiato tra le mani a sopportare quelle lagne. E poi me le riproponeva nei momenti più impensati, solo per farmi dispetto.

Inutile voltare la testa o chiudere gli occhi, invocare mentalmente un alito di vento a spazzar via i pensieri. Quelle parole mi si erano talmente incastrate nel cervello da non poter più fare a meno di ascoltarle.

Accolsi con sollievo la decisione di Regulus di tacere, un minuto dopo o poco più. Lo osservai con curiosità assumere un’aria meditabonda portandosi l’indice e il pollice della mano destra al mento. Poi sollevò la nuca per fissarmi dritto negli occhi, le iridi azzurro pallido a risaltare contro la pelle inscurita dalle ombre definite della notte, e aggiunse, con aria insolitamente seria:

“Fratello, mi sa tanto che ti hanno adottato.”

Proprio non riusciva a fare a meno di quelle malignità.

“Va’ a dormire se non vuoi che ti prenda a sculacciate!”, minacciai artigliando le lenzuola con le unghie fino a sentirmi tremare il tessuto nei palmi, pronto a scostarle per mettere in atto le mie promesse, e fu con una certa soddisfazione che lo vidi tentare istintivamente un passo all’indietro, contro la parete. Non gli avevo mai alzato una mano addosso, ma sapeva che ero perfettamente in grado di dargli una battuta.

Ero più grande e più forte di lui, dopotutto.

“E chiudi quella finestra, sto gelando!”

“Non posso.”, sbottò con quel tono stridulo e cocciuto che ne rivelava l’effettiva giovane età a dispetto del suo atteggiarsi alla vita ironico e distaccato. Indicò col dito la luna piena. “Sto cercando dei licantropi.”

“Che stupido.”, gemetti affranto abbandonandomi contro il cuscino, il dorso della mano a coprirmi teatralmente la fronte in un moto di spossatezza mentale totalizzante. “Non ci sono licantropi a Londra. Non in questa zona. Il Ministero non permette certo che quelle bestiacce girino per le strade in mezzo ai Babbani.”

Incrociò le braccia. “Bella ha detto di sì.”

“Bella è pazza!”

Nelle mie parole era molto, troppo udibile mio malgrado, una sottile ma inconfondibile nota di isteria infantile. Questo perché da piccolo, a causa di quelle storielle paurose che vengono raccontate ai bambini per non far dare loro fastidio, mi era stata inculcato un terrore feroce verso i lupi mannari, al punto che persino molti anni dopo l’arrivo alle spalle di Remus, con quel suo passo sottile e il respiro lento, controllato, mi avrebbe fatto sobbalzare come una molla.

Regulus sembrò trovare la mia reazione estremamente divertente nella sua prevedibilità e cominciò a scuotere le spalle in una placida risatina. “Probabilmente hai ragione, non ci sono…” replicò rivolto alla strada, gli occhi attenti ad ogni ombra fugace della notte, e io sapevo benissimo che non ne era affatto convinto, che lo diceva solo per non umiliarmi più di quanto non fosse necessario al suo dileggio. “Ma te la immagini la faccia della mamma se vedesse uno di noi due in compagnia di quegli animali?” Lanciò un’occhiata fugace oltre la spalla, godendosi l’espressione senza dubbio eloquente sul mio viso smunto. La stavo immaginando veramente, la faccia della mamma. “Non ti viene la tentazione di andar fuori a vedere?”, mi chiese con fare birbante.

Poi piegò le labbra in uno dei sorrisi che mi rapivano.

Quando accantonava quell’infantile, subdola malizia che a noi Black veniva inculcata nel sangue assieme al nutrimento materno (veniva da chiedersi dove fosse andata perduta la mia, dal momento che non ero mai stato l’uomo delle sfumature) Regulus aveva un modo di ridere delizioso. Tra il timido e lo sfrontato, come se non riuscisse mai a decidersi tra l’abbandonarsi alla contentezza e il tirarsi indietro. Il mio sorriso ha sempre dato adito a pochi dubbi.

Sfrontato e basta.

A volte irritante, o minaccioso, ma niente di più.

Nulla nel mio comportamento che mi tornasse davvero utile nel momento in cui si necessitava di istigare negli altri una qualche forma di perdono o perlomeno di simpatia. Regulus era diverso, a lui si perdonava sempre tutto, non importava quanto la combinasse grossa; se rovinava la festa di fidanzamento della cugina o riempiva la caraffa del vino di Pozione Lassativa il giorno dell’arrivo dei nonni.

Per lui era sempre pronto l’indulto.

L’ultima volta che avevo alzato la voce mi era arrivato uno schiaffo. Non mi ero mai spiegato come fosse possibile questa differenza di trattamento. E in quel momento, con la luce della luna a impregnare la notte e col suo sorriso ancora caldo nella testa, la curiosità aveva preso il sopravvento e le mie labbra si erano mosse da sole nel formulare quella domanda che mi premeva nel petto da una vita.

“Come fai, Regulus?”

Mio fratello mi aveva fissato inarcando un sopracciglio sottile con fare perplesso. “Salto giù dalla finestra e mi arrampico per la grondaia.”, disse. “L’ho fatto altre volte.”

Scossi la testa, sogghignando tristemente e pensando a tutte le volte che l’avevo visto sparire oltre il cornicione e correre per la strada, per poi tornare solo all’alba, un istante prima che Kreacher entrasse in camera con la colazione.

Non era decisamente quello che intendevo.

“Tu non hai mai paura di farti cancellare dall’arazzo di famiglia?”

“Perché, tu sì?”, aveva replicato divertito.

Io però non avevo risposto.

Non lo sapevo.

E all’improvviso avevo la testa così confusa…

I pensieri mi giravano attorno come boccini impazziti.

Premetti la guancia incandescente contro la federa del cuscino, e mi lasciai sfuggire un mugolio indistinto.

“Sirius, a volte viene il sospetto che tu non appartenga a questa realtà, o che sia stato tenuto rinchiuso ad Azkaban fino adesso…” La voce di Regulus era impietosamente dura e fredda contro le pareti doloranti della mia testa, eppure berciata suo malgrado di un’insolita, temperata dolcezza. Doveva essersi accorto, se non del disagio che le sue parole mi avevano causato, del peggioramento improvviso del mio stato di salute causato dal freddo preso a causa sua, perché aveva chiuso la finestra cercando di fare il minor rumore possibile e mi si era avvicinato, inginocchiandomisi accanto.

Presi una nota mentale dell’avvenimento.

Era necessario fare pietà a mio fratello per farmi ascoltare.

“Sei più grande di me, sei il primogenito, e ancora non hai capito come funzionano le cose in questa casa.”, cantilenava come una nenia con quella vocetta infantile ridotta ad un soffio che continuava a incalzarmi con il sapore dolciastro di un tenero bacio, mentre la sua mano fresca saliva a scostarmi dalla fronte una ciocca di capelli fradicia di sudore. “Tutti quei discorsi che devi sorbirti ogni giorno e che tu ti rifiuti di ascoltare dicono solo una cosa: che finché non oltrepassiamo il limite noi Black possiamo permetterci tutte le sciocche pazzie che vogliamo.”

Ma dov’era quel dannato limite?

Fino a dove ci si poteva spingere?

Il silenzio e l’incoscienza mi agguantarono come avrebbe fatto quel grosso cane nella casa di fronte alla nostra, per la vita, e mi trascinarono lontano dilaniandomi la pelle con le loro zanne a uncino. E lì in quella casa, tra i parenti, o nel buio di una stanza che in quel momento era davvero solo mia, stavo come un fantasma che c’era e non c’era.

Nella famiglia Black, del resto, funziona così.

Gli errori non si pagano.

Più semplicemente, si cancellano.

 

 

Finalmente, spinto dalla noia ignava di quelle rare serate pigre ed indolenti in cui non ci veniva in mente assolutamente niente da fare, ero riuscito ad addormentarmi ad un orario abbastanza decente, ma il mio sonno era talmente leggero da intrecciarsi con l’insulsa, statica realtà che mi circondava, negandomi la consolazione di un oblio concreto.

Alla mia sinistra avvertivo l’indistinto scricchiolio della punta della piuma d’oca sbrecciata di Remus che si imprimeva sulla pergamena spessa in maniera così totale da vedermelo nella testa, lussuriosamente spaparanzato sul letto a baldacchino con l’immancabile libro di turno sul cuscino a fare da base al foglio: le labbra leggermente dischiuse, le sopracciglia folte color miele, una delle quali scheggiate da uno spacco trasversale, a suggerire una capacità di concentrazione quasi dolorosa, tutto intento a ricopiare degli appunti di chissà che materia con quella sua scrittura fine e minuscola da ragazzina oppure, forse, impegnato a scrivere l’ennesima missiva alla madre malata. Mi ero sempre domandato cos’avessero da dirsi di tanto interessante da sentire il bisogno di scriversi ogni settimana.

Ma erano affari suoi.

Come sempre del resto.

A destra mi giungeva l’inconfondibile, basso e costante russare di Peter, e mi parve impossibile non provare un moto di indicibile invidia nei confronti di una persona che riusciva ad abbandonarsi tanto interamente ad un sonno ristoratore. Del resto, se c’era una persona in grado di fare del sonno una vera e propria componente base dell’esistenza, questo era proprio Peter. Anche se poi con tutti quei rumori rendeva impossibile il sonno a noialtri.

Un sospiro giunse dalle parti della finestra. Era James che contemplava melanconico la sagoma del campo di Quidditch che nereggiava contro la notte argentata. La sua era diventata una vera e propria ossessione da quando l’anno prima, il giorno in cui per togliermelo dai piedi l’avevo praticamente obbligato a prender parte alle selezioni della squadra in qualità di Cercatore, era stato tacciato di profonda incompetenza ed escluso senza possibilità di ricorso. Era stata anche una conclusione della vicenda piuttosto scontata dal momento che, miope com’era, riusciva a malapena a trovarsi la scopa sotto alle chiappe, figurarsi un boccino, ma lui l’aveva presa su un piano personale e da quel momento aveva deciso che il sogno della sua vita era sempre stato fare il Cacciatore, e che solo lui avrebbe potuto portare la “sua” squadra alla vittoria, se solo gliene avessero dato la possibilità.

La realtà si intrecciava col sogno e col ricordo di una figura impettita seduta lontana, su uno sgabello di legno malfermo: la luce orgogliosa nello sguardo impavido e il viso teso nella mia direzione in attesa di qualcosa di inesplicabile, il sorriso sicuro e quell’elegante cappio verdeargento ben annodato al collo.

Mi svegliai di soprassalto con un sussulto ma senza sollevare le ciglia, col corpo che, contravvenendo agli ordini perentori della mente, cocciutamente rifiutava di svincolarsi totalmente a quei pensieri. Le parole che avevo detto la sera precedente a James, sibilate amaramente con un ghigno perfido nel momento in cui il Cappello Parlante aveva pronunciato la sua sentenza, mi risuonavano ancora nella testa.

Ora spaventosamente vacue nella loro giustezza.

“Serpeverde è il luogo adatto per gente come lui.”, avevo sentenziato.

Eppure, per un breve, infinitesimo istante avevo davvero sperato che non lo fosse.

Ma avrei dovuto saperlo.

Del resto aveva imparato presto a destreggiarsi, il piccolo Regulus.

Io sono sempre andato avanti a tentoni nella vita, arrancando a fatica, spingendomi sempre avanti di un poco alla volta, come il neonato che azzarda i primi passi incerti. Mio fratello, al contrario, fin dall’inizio della sua esistenza ha inceduto sicuro nei confini che gli erano stati imposti dal credo di famiglia e dalle imposizioni sociali con una naturalezza che sconvolgeva la mente.

Il carattere, poi, crescendo era decisamente maturato, ma me n’ero accorto solo una volta tornato a casa, all’inizio delle vacanze estive. Andava somigliando sempre più a nostra madre: benché con me mantenesse sempre quell’atteggiamento di strana, contrastata complicità che ci aveva caratterizzati da sempre si era fatto freddo, un po’ taciturno, a tratti placidamente scostante, e aveva abbandonato quel vizio infantile di mettere il broncio come le bimbe chiudendosi in un cocciuto silenzio quando le cose non andavano alla sua maniera.

Non l’avevo più visto combinare pazzie.

Non glielo permettevano, mi aveva detto quella notte in un cui, con mio totale stupore dal momento che non avevamo sentito il bisogno di simili manifestazioni d’affetto neppure quando eravamo molto piccoli, era venuto a cercare il mio abbraccio sotto le coperte in seguito a un incubo.

A quelle parole, pronunciate con la più innocente sincerità senza biasimi di sorta, le spalle mi si erano incurvate sotto il peso di un insopprimibile senso di colpa e avevo sentito il bisogno, per la prima e ultima volta nella mia vita, di scusarmi con lui. Scusarmi davvero. Sapevo che mia madre non mi avrebbe mai perdonato.

Non poteva.

Nemmeno volevo che lo facesse, perché non era da lei che cercavo il perdono. Ma Regulus le meritava quelle scuse.

Per tutta risposta, contro ogni mia aspettativa, mi derise proprio come faceva sempre. Perché non avrei dovuto credermi il centro supremo dell’universo, né delle scelte educative di mamma e papà. Perchè sarebbe dovuto crescere in ogni caso, dal momento che era si era stufato di cercare i licantropi fuori dalla finestra.

Quello fu l’equivalente della più sentita delle assoluzioni.

Ma io non sono Regulus, e non lo sono mai stato.

Io non indulgo nemmeno con me stesso.

Semplicemente, distolgo lo sguardo.

Come il giorno in cui Regulus, prima ancora che volgersi a quelli che sarebbero diventati i suoi compagni di casa, prima ancora di specchiarsi nel gelido orgoglio screziato di sollievo di Narcissa, incatenò i suoi occhi nelle mie palpebre serrate, e in quel gesto di rifiuto non vi trovammo altro che una domanda.

Com’è potuto accadere?

D’improvviso mi parve tutto molto buffo.

Ironico.

Preso da un irrefrenabile istinto mi abbandonai ad una risata solitaria, muta, che in un attimo si tramutò in cascata silenziosa, pioggia dissennata che mi sconquassò il corpo come una tempesta.

James sospirava ancora alla finestra, il naso e i polpastrelli a premere contro il vetro come se potesse passarvi attraverso per un miracolo del desiderio.

Peter continuava a russare.

Remus fu il solo ad accorgersi di quella mia desolazione. Sdraiato su un fianco nel letto accanto al mio, nella mia direzione, con le tende a baldacchino spalancate ad accogliere la luce della notte sulle pagine di un libro dall’aria decisamente importante trafugato dalla Sezione Proibita della biblioteca, taceva. Troppo preso dalla lettura per alzarsi, si limitò a fissarmi con occhiate fugaci, gli occhi indifferenti ma anche sbalorditi.

Perché i singhiozzi senza voce sono come lampi senza tuoni.

Qualcosa di mutilo e sgraziato.

 

FINE

 

 

Commenti di fine capitolo

Doverosi, direi a questo punto.

Bene, la storia si conclude qui.

Si conclude così, in maniera volutamente castrante e inconcludente. Perché lo sappiamo tutti come continuerà, lo sappiamo tutti che questa non è la fine e una morte ma un inizio e una “rinascita” di Sirius, perché mi piace pensare che quel pianto di Sirius sancisca un lasciarsi tutto alle spalle. Per cui, dire altro sarebbe risultato veramente troppo. E se proprio non riesce a piacervi questo finale, apprezzate almeno che l’ho conclusa, questa storia! XD
Ah, si necessita di una noticina in più: mi ha fatto giustamente notare Rik Bisini un paio di cose che necessitano giustamente di una breve spiegazione (magari son cose che io do per scontato perchè sono l'autrice! XDDD): allora, innanzitutto si chiede come da questo Regulus, di questa storia possa uscire fuori il Mangiamorte che tradisce Voldemort. Io la spiegazione ce l'ho pure, ma ci sarebbe da scrivere una fic intera e la fic nn parla di Regulus. Per cui, può darsi che scriverò una fic sull'argomento e ne rimarrete sorpresi! ^_-
Dubbio numero due, la fine frettolosa. Ammetto che in un'altra fan fic avrei visto questo esser frettolosa come un mio limite, una mia voglia di sbrigarmela in fretta (d'altronde, mica sono Pigra con la P maiuscola per niete! XDD), ma in questa la vedo come un traguardo raggiunto. E spiego: l'elemento castrante e inconcludente per cui ero sicura (ho i testimoni! XD) che questo finale non sarebbe piaciuto a tutti erano dovuti proprio a cose come questa. ^^ Il fatto è che è una cosa che si sente e c'è per tutta la storia questa realizzazione. E' nei non detti, tra le righe. Lo sa anche Sirius che c'è, è parte di lui. Per questo la realizzazione arriva così, di punto in bianco, coem la cosa più normale del mondo.
Naturalmente ringrazio da morire Rik per avermi permesso di cogliere l'occasione a spiegarmi su questi punti. ^^

Ne approfitto per ringraziare sentitamente chiunque abbia avuto il buon cuore non solo di leggere (ma anche quello merita un plauso! XD) questa umile trilogia (E che san George – Lucas – abbia pietà della nostra anima blasfema), ma anche di apprezzarla.

Piccola nota esplicativa sul capitolo: il Regretto (da cui REGrettULUS, il nomignolo che Sirius affibbia al suo fratellino. Mi piace inventarmi i nomignoli anche se sono stupidi! *.* ma non si nota, noooooh! XD) è il rammarico, il rincrescimento. Viene anche utilizzato per indicare i lamenti che si indirizzano ai morti e per esteso è sinonimo anche di lamento, di piagnisteo. In pratica non è un nomignolo molto lusinghiero quello che Sirius dà a suo fratello.

 

Lasciando un commento naturalmente farete la mia gioia sempiterna. ^^

Passiamo ora ai commenti individuali.

 

Kar: Ora io mi chiedo, sinceramente, come fai a leggere fic di un fandom che non conosci! XD No, sul serio, immagino me a leggere una fic di (nome a caso) Lost, che non ho mai visto in vita mia se non tramite i racconti entusiastici di Boll, sarebbe frustrante da matti! XDDD A parte che non ci capirei niente e mi perderei ¾ delle cose. Insomma, non so se ammirare il fatto che leggi comunque o pensare “ma perché lo fa?” XDDD

Nel dubbio, propendo per una placida incertezza silenziosa! XD Anzi, no, aggiungo che mio marito è felicissimo di essere trattato così da me, lui si diverte a leggere le mie storie perché è come se leggesse la vita sfigata di qualcun altro, e poi si sente di buonumore per un po’ di sbattipancia. : P Le parolacce sono una triste necessità, mi devo sverginare da esse, in genere le evito come la peste anche dove ci vorrebbe un bel sanpetronio. Si fa quel che si può con la graforrea! XDDDD

 

Alexia: Azz, e io adesso sono tutta vogliosa di sapere COSA non vuoi/volevi spoilerare (di Regulus I suppose, o forse di James visto che il commento in cui facevi riferimento allo spoiler era quello per il capitolo 1), io spero di saperlo nel commento a questo capitolo. Lo sai che le tue recensioni mi fanno sbavare perché in poche parole riesci a dare una pennellata chiara e netta ai miei personaggi, manco li avessi scritti tu. Le frasi finali in cui dipingi Sirius (tra le altre cose fai anche capire che la sua visione egocentrica dell’universo lo spinge naturalmente a filtrare la realtà attraverso il suo giudizio) sono da sturbo, è ufficioso! Uffa, sono un po’ invidiosa di questa capacità, sai quante pagine mi risparmierei se avessi le tue doti di sintesi? XD Che dire sul tuo commento (anzi, sui tuoi commenti)?

Che come al solito mi spiazza piacevolmente.

Perché punti sempre sulle cose giuste! XD

Quella frase: “è interessante, perché non gli viene naturalmente [fare lo stronzo]” è pura estasi. Perché è vero, è proprio così. Al di l delle parole che usa per farcelo sapere in tutti i modi. Ecco, io penso che il punto da te sollevato sul fatto che sia James a dare un’identità a Sirius (la sua, come annoti sempre più giustamente tu) sia abbastanza pregnante anche in luce di questo episodio. Ma non dico niente, non voglio spoilerare! XDDD Da questo punto di vista il mio James tu sia stata una delle poche persone ad aver veramente compreso il mio James.

Per il resto, arrossisco come una pupattola di fronte ai complimenti che vengono da una scrittrice straordinaria come te.

 

Nykyo: Sperando che il commento di questo capitolo non ti dia problemi (azz, ma non lo faccio apposta a fare i capitoli difficili da recensire per te! T_T Non ho il Dono di altre persone!!! XD), chiacchieriamo un po’ dal momento che cosa dovrei dirti?

Hai fatto un’analisi perfetta! XD

Non c’è bisogno che dica che su James ci hai preso TOTALMENTE, ti ho già incensata abbastanza nelle note di inizio capitolo. XDD Poi ti abitui troppo ai complimenti, basta! XD Che dire, paradossalmente proprio perché tu non lo sopporti ti sei avvicinata più di tutti alla mia visione del personaggio in questa storia (ma un po’ in linea generale a dire il vero). Perché a volerlo vedere obiettivamente è vero. James è una persona fondamentalmente normale nel suo essere infame. Vuole trasgredire ma per gioco, non per effettivo “bisogno”. Lui è felice della sua vita e di quello che è, per cui perché rovinarsi? Al tempo stesso però c’è la voglia di spingersi oltre, di osare. O d ivedere fin dove si può osare. Ed ecco Sirius. Ora, io naturalmente non dico che sia SOLO questo, che sia un’amicizia ipocrita la loro. Si volevano bene. Ma c’è anche questo, nel mezzo, altrimenti mai nella vita secondo la mia modesta visione delle cose Sirius e James si sarebbero mai potuti trovare, dal momento che sono due portati per carattere a primeggiare su CHIUNQUE.

Su Sirius, che dovrei dirti, che sbagli?

Ma non sbagli per niente! T.T

In niente.

Io per prima sono del parere (e qui la maggior parte delle fan di sirius vorrà le mie chiappe su un vassoio) che Sirius e Severus siano in fondo in fondo due facce della stessa medaglia. Molto simili per certi aspetti, profondamente diversi in altri (naturalmente, altrimenti avremmo due gemelli! XDDDD). Come dici tu la differenza sostanziale sta nel fatot che Sirius, checché ne dica Walburga, è un Black fino al midollo. Severus no, ma questo non è necessariamente un male se essere Black significa essere come il mio Sirius. ^^ Questo volevo esprimere, questo tu hai colto (e detto da una pitonica, che soddisfazione, permettimi! XD). Ma anche se così non fosse non poteri mai offendermi per una simile frase, perché so quanto ami Severus e so quanto per te significhi dare a Sirius questo appellativo. ^^

Un appunto. Quando tu mi chiedi “possibile che nessuno senta il suo grido di aiuto?” a me, non so perché, viene subito in mente Neville. Neville lo stupido, Neville l’ignorato. Neville che più di Harry meriterebbe affetto da chi gli sta intorno, Neville che non lo ottiene. Per cui mi viene da risponderti “sì, è tremendamente possibile, ed è reale.”

Ehehehehe, sì, so come ci si sente a leggere qualcosa su un personaggio che proprio non si vorrebbe vedere nemmeno col lanternino e trovarsi ad adorarlo. Lo so maledettamente bene, brutta Pitonica impenitente!!! XDDDD

Infine, arrossisco per i complimenti ma segretamente godo.

Grazie a te per le soddisfazioni che mi dai, come beta e come scrittrice! ^^

 

Starliam: Uuuuh hai commentato veramente! XD Basta, ora mi sento in colpa per il mio rifiuto infantile di non leggere le tue soltanto i virtù della coppia (io non sono cosìììì è che mi disegnanooo) appena il tempo me lo concederà devo assolutamente. In fondo ho fatto trenta leggendo le fic di Boll e Ny, facciamo 31 e leggiamoci quelle con Piton e Harry, che cavolo! XDDD Tanto poi se la sofferenza sarà troppa ho sempre il jolly (la traduzione lily/james) da affrontare! ^_- L’idea di far vedere i Malandrini quando ancora non sono Malandrini mi solletica da un pezzo, ne avevo un’altra in cantiere ma la tematica mi affascina molto!!!! *ç* Anche se TEMO che, come Harry, Ron ed Hermione, CASUALMENTE in realtà abbiano diviso lo stesso vagone dell’Espreso di Hogwarts!!!! XD Massimo rispetto per le idee dell’autrice, ma preferisco la mia versione, è pù realistica! XD Detto questo, ti ringrazio un sacco per i complimenti. Difficile in effetti che tu avessi potuto leggere una mia fic, operiamo in ambiti troppo diversi (veramente opposti! XD), ma in virtù di questo apprezzo veramente moltissimo i tuoi complimenti!

 

Anachan: Stavolta non ci finisce nella m****, Sirius, apprezza lo sforzo, perché in realtà dovevo fargli fare ben di peggio, poi ho pesato a te che dovevi disegnare e mi sono trattenuta! XDDDD Heheheheeh ooooh, l’hai notato che c’era Remus in sto capitolo. Brava, brava, non era facilissimo, è un acceno veramente infimo (come poi infimi sono tutti gli altri per Sirius)! ^.^ Un po’ di Wolfstar ce l’ha solo che non è molto dolce. Diciamo che in questa fic tra le righe ci sono le MIE basi supreme del perché li vedo così bene insieme anche se secondo me si odiano. \(^.^)/ Hooray! Hehehehe ma povero Peter, sono stata cattiva con tutti io per lui provo molto affetto (giuro, mi fa tenerezza in qualche modo, anche se è un infame! XD). Ah, e il mio Sirius non è che l’ho fatto schizzato forte. E’ schizzato forte! XD

 

MoMo: Dal tuo commento entusiastico mi pare di intuire che forse hai una passione per Sirius? XDDDD Hehehehe, personalmente ti capisco, anche se ammetto che QUESTO Sirius (cioè di questa fic) averlo accanto deve trasformare la vita in un lungo lento suicidio premeditato! XDDD Insomma, obiettivamente, che pazienza che bisognerebbe avere! XDDD A parte quello, io ti ringrazio da morire per i complimenti (oddio, diventare scrittrice proprio no, c’è gente che decisamente lo meriterebbe più di me! ^^).

 

Anna Mellory: Grazie mille, sono molto felice di trovare un’altra persona che condivida questa visione di Sirius. Il mio spavento più grande è che sia così diverso dal tipico carattere di Sirius del fandom che la gente fatichi a vederlo come il Sirius della Rowling! Commenti come questo mi fanno molto piacere, come anche i complimenti, mi fanno arrossire. Grazie per aver letto, apprezzato e commentato la mia storia! ^^

Lizzyluna: *.* Wow. E’ poetica la tua recensione. Spero davvero di essere riuscita a creare, come dici tu, un personaggio che sotto la scorza ha la sua luminosità, la sua stella, accidenti! Perché il problema con personaggi come i miei (ne prendo atto, tremendamente irritanti! XD D’altronde se non lo fosse non potrei amarlo, è proprio vero che la donna è fondamentalmente masochista! XDDD), è che fai  fatica a far comprendere che alla fine quello che vuoi intendere non è che questo tipo ha solo oscurità e che finge, ma che riesce a trovare quel fragile baluginio che lo porta ad andare avanti. Veramente, grazie per la tua recensione! ^^

 

Francesca Akira89: Hehehehe, non c’è Remus? E secondo te chi è il secchione di poche parole a cui Sirius chiede i compiti? ^_- Distrattona! XD No, scherzo, era sottile il riferimento a Remus (volutamente sottile ma sarebbe un discorso molto complicato da dire! XDDD). Sì io James me lo immagino con la voce un po’ nasale! XDDD Mi sa da supponenza la voce nasale.

 

_Vale_: Cavolo, che dire di fronte alla tua recensione? Che sono profondamente felice! Non so se tu dia all’espressione “uscire dal foglio” la stessa che gli do io, per me è una cosa molto importante e molto seria. Per me quando un personaggio “esce dal foglio” ha quella scintilla che gli può conferire solo una persona che questo personaggio lo ama veramente. Quindi, non hai idea del piacere che mi hai fatto con le tue parole (tu hai dovuto rivalutare Sirius, e se la mia storia c’è riuscita almeno di quel pochetto sono onorata, per me è proprio amore e venerazione estrema e totale per il personaggio! XDDD). E non ti preoccupare per la lunghezza delle recensioni, per me non è importante che una persona si sforzi di allungare la broda se proprio non gli viene da dire più di un tot. ^^ Sul serio, non è che perché sono una logorroica persa allora apprezzo solo le recensioni lunghe (schifo non mi fanno, però, specifichiamolo! XDDDD). Si può benissimo esprimere tutto quello che si vuole in poche parole, se queste sono quelle che servono. ^^ Non so se sarà una delusione, ma il balzo temporale da me saggiamente adoprato m’ha risparmiato di spiegare come questi due diventano amici dall’odio totale e supremo che provava Sirius! XDDD Cioè, c’è scritto, ma molto tra le righe e lascia al lettore la libertà di pensarla come vuole.

Hehehehe grazie per aver notato la mia nota sulla scopa, a me fare questi particolari stupidi piace troppo, ci starei su delle ore solo per questo!!!! ^^

Un bacio anche a te.

 

Free: Grazie per i complimenti, Free, mi fanno molto piacere! X) (questo è il faccino da “come sto fremendo di gioia, sìììì!” XDD). Che dire, che ora son curiosa di vedere se anche il secondo capitolo e la fine ti troveranno “adorante” nei confronti di Sirius (che perde la connotazione da uccelletto di bosco e assume sfumature decisamente più tragiche) oppure se dovrò sudare freddo! XDDDD Ciao e grazie ancora! ^^

 

Redistherose: Mi fa MOLTO piacere la tua recensione, io sono felicissima quando una mia fic induce un lettore a lasciarmi un segno del suo passaggio. Quando poi questo segno è riflettuto e ponderato è un orgasmo in più! ^_- Su James mi sono espressa nelle risposte a Ny e di inizio capitolo per cui qui non dico niente. In linea generale è vero che in genere Potter senior sembra decisamente senza cervello, ma credo sia normale quando una persona normale come lui (perché è davvero normale, un normale ragazzino con una normale amorevole famiglia e un normale carattere/psicologia) si trova a dover fare i conti con persone decisamente non normali come sirius e remus (peter nemmeno lo sto a nominare, lui è il più matto. Ma non abbiamo notizie sul suo background e non so se sia normale come james o no! ^^ Suppongo abbia lui pure la sua bella dose di traumi! XD). Su Sirius in un certo senso hai ragione e in un certo senso no. E’ vero che cerca di farsi amare, e apprezzare, ma non dalla madre, quanto piuttosto da se stesso. Ma questo è chiaro nel terzo capitolo, nel secondo era facilmente fraintendibile, ho fatto apposta! XDDD Sono bastarda? Sì! XD Non sarai mica sorpresa! ^_- Io con sti film di HP sto già ridendo come una matta, quindi Lewis sarebbe il meno (e poi visto che mi piace da impazzire Fenrir non vedrei nemmeno tanto male la scelta! XDDD). Argh, mettere Thewlis e Sirius nella stessa frase, muoio!!!!! XDDDDDD Mi attaccherò alla canna del gas esilarante pensando ai frementi baffetti di Remus e sognando di vederli sul viso di Fiennes! ^_-

 

Chii: Con calma a recensire, non c’è bisogno che si sforzi nessuno o che si tiri fuori dalla gola le parole a viva forza. Quando te la sentirai io sarò sempre lieta di ricevere una tua recensione (visto che sono così fighe!!!! *.*). Lo so, anche a me dispiace di aver tagliato la scena della “maledizione del dormitorio femminile”, ma avrebbe allungato la broda, ahime!!! XD Già Sirius è abbastanza pipparolo di suo, allungare ulteriormente sarebbe stato da suicidio! XDDD Su james ho spiegato tutto sopra, per cui non dovresti più avere dubbi a riguardo! ^^ Da un certo punto di vista io credo che tu abbia afferrato pienamente quello che Sirius è agli occhi degli altri. Sul serio, credo che sia la prima volta che capita. ^^ E’ una descrizione perfetta, la tua, di quello che Sirius vuole sembrare, è quello che poi obiettivamente vediamo. Nella realtà invece è un personaggio fragile, molto “pitoniano”, come me l’hanno definito in altra sede! XD E’, per dirla poeticamente, una stella che ancora non brilla.

E che forse non brillerà mai se non di luce riflessa.

Chi può dirlo? Può darsi che mi sbagli! ^_-

Grazie mille per i complimenti, sorellina adorata, arrossisco! *.*

Prima o poi finirò tutte le mie fic, giuro e spergiuro! XD

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