Il Veggente

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il piccolo Auschwitz ***
Capitolo 3: *** Odore di morte ***
Capitolo 4: *** L'Ordine della Capra ***
Capitolo 5: *** Il Veggente ***
Capitolo 6: *** Spirito di autoconservazione ***
Capitolo 7: *** Il volto del Ministero ***
Capitolo 8: *** Sogni di morte ***
Capitolo 9: *** Il sacrificio ***
Capitolo 10: *** Cambio di rotta ***
Capitolo 11: *** Il tradimento di una madre ***
Capitolo 12: *** La battaglia di Malfoy Manor ***
Capitolo 13: *** L'ospedale di San Mungo ***
Capitolo 14: *** La fine e l'inizio ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Una sera di inizio novembre, anno 2003



C'era parecchia gente al pub quella sera e Esther doveva fare i salti mortali per riuscire a stare dietro a tutte le ordinazioni. Non le piaceva per niente il suo lavoro di barista, ma non era riuscita a trovare altro impiego, visto che non aveva un vero e proprio titolo di studio. Almeno, quel poco che guadagnava le permetteva di vivere da sola e di farsi una propria vita. Non che la sua famiglia non le piacesse, per carità, adorava i suoi fratellini, ma era convinta che ad un certo punto fosse giusto cominciare ad arrangiarsi. Era sempre stata una ragazza indipendente e aveva imparato ad adorare quel minimo di libertà garantita da un lavoro fisso.
Esther versò in un bicchiere il cocktail che aveva preparato e lo passò alla ragazza seduta al bancone. Alzando gli occhi, si accorse che qualcuno la stava fissando: poco distante, semi nascosto dagli altri avventori, un giovanotto biondo aveva lo sguardo puntato su di lei. Quando i loro occhi si incrociarono, lui non desistette. Esther allora, decisamente imbarazzata, si affrettò a voltarsi per raccogliere le ordinazioni dei clienti. Ogni tanto lanciava un'occhiata veloce al ragazzo, per controllarlo, ma lui non faceva altro che fissarla. Era un bel tipo, dopotutto: aveva un volto piacevole, i capelli morbidi e di un colore quasi dorato, gli occhi luminosi e vispi. Semplicemente Esther si chiedeva come un ragazzo così carino potesse essere interessato a lei: non era certo brutta, ma sapeva di non potersi definire nemmeno bella. Era nella norma, con dei banali capelli scuri di una lunghezza piuttosto consueta, occhi castani, fisico comune. Una come tante, insomma. Forse era il fascino della barista, chissà.
Pensò che, in fin dei conti, non faceva nulla di male se provava a parlargli. Gli lanciò un'ultima occhiata: sì, era decisamente un bel tipo, complice forse quel sorrisetto malizioso che aveva stampato in volto. Controllò che l'altra barista non fosse troppo occupata poi, con la scusa di prendere le ordinazioni ai tavoli, si diresse verso il suo ammiratore.
«Ciao, cosa ti porto?» gli domandò con un sorriso luminoso. Lui, evidentemente soddisfatto dell'audacia che aveva dimostrato Esther nel venire a parlargli, prese il menù e cominciò a sfogliarlo. Si fermò alla pagina dei drink, ma non pronunciò una sola parola. Esther, ancora ferma con il block notes e la penna in mano, si voltò a guardarlo. Una frazione di secondo, poi il suo sguardo fu rapito nuovamente dal menù: vi erano appena apparse delle lettere infuocate, come scritte da una mano invisibile.
“So cosa sei.”
Esther arretrò di un passo, spaventata. Nel medesimo istante in cui tolse gli occhi dalla scritta per posarli sul ragazzo, lui era sparito. Tornò a fissare il menù, ma anche quello era immacolato come se nulla fosse successo.
Fece ritorno al bancone parecchio turbata.
«Ehi, Esther, tutto bene?» le domandò l'altra barista.
La ragazza accennò ad un debole sì con la testa.
So cosa sei.
Poteva significare solo una cosa: non era più al sicuro.






Buongiorno a tutti!
Questa storia ha avuto una lunghissima gestazione: nata tempo fa da un sogno, sicuramente influenzato dalla bellissima storia "The Muggle War" di Natalie_S, che stavo leggendo in quel periodo, ha visto la luce per un turbolento contest (qui il link), al quale si è classificata prima, indetto da una giudice poi scomparsa nel nulla e successivamente giudicato dalla gentilissima ZetaDreams. Sottolineo il fatto che sia nato da un sogno perché alcune cose relative ad uno dei protagonisti OC non derivano da una scelta poetica ben precisa, ma semplicemente perché le ho sognate così (vi spiegherò quando comparirà il suddetto personaggio!).
Bene, detto questo, spero di avervi incuriosito con questo brevissimo prologo! Questa è la prima volta che scrivo su così tanti personaggi della saga originaria... mi auguro di aver reso tutti al meglio.
Aggiornamento ogni due giorni, salvo complicazioni... in sostanza, nei giorni dispari! ^^
A presto e grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 2
*** Il piccolo Auschwitz ***


Il piccolo Auschwitz

Quello stesso giorno di novembre,
qualche ora prima



Sam non era proprio un bel bambino. Aveva una malattia cutanea, che nemmeno lui aveva ancora capito, per cui suoi i capelli faticavano a crescere e per questo sua mamma glieli teneva sempre tagliati corti corti. Inoltre la vitiligine (una malattia che causava mancanza di melanina, gli dicevano, anche se lui non aveva la più pallida idea di cosa fosse la melanina) gli provocava delle bizzarre macchie bianche sulla pelle, concentrate soprattutto sulle braccia e sulle mani. Perfino i suoi occhi avevano un qualcosa di strano: erano azzurri, ma di un azzurro chiarissimo, quasi ceruleo, e sempre sbarrati.
Complici le sue origini ebree e i difetti fisici, i bambini più grandi avevano cominciato a chiamarlo Auschwitz, soprannome che suo malgrado si era diffuso in tutta la scuola, anche tra i più piccoli, che nemmeno sapevano cosa fosse. Non si poteva dire che fosse un ragazzino molto amato: veniva escluso da tutti i giochi, scelto sempre per ultimo dai suoi compagni, lui, il piccolo Auschwitz, deriso da tutti e senza nessun amico.
Sam aveva imparato a convivere con la sua solitudine, sebbene gli adulti lo incitassero sempre a socializzare con gli altri. Perché avrebbe dovuto mostrarsi gentile con chi non lo era con lui? Durante la pausa mensa, si rintanava in un angolo a giocare con dei legnetti e questo certo non contribuiva ad aumentare la sua già scarsa popolarità, visto che lo faceva apparire agli occhi degli altri bambini anche più stano di quanto non fosse.
«Ehi, Auschwitz!» lo richiamò proprio in quel momento un ragazzino dell'ultimo anno.
Sam alzò gli occhi dai sassolini che aveva raccolto nel cortile e con i quali stava giochicchiando in solitudine, per ritrovarsi davanti John, il bulletto della scuola, spalleggiato dai suoi amici. «Che vuoi?» gli chiese in malo modo.
John si voltò verso gli altri e cominciò a sghignazzare. «Ho voglia di divertirmi. Perché non ti unisci a noi?» gli chiese con un sorriso maligno.
Per un attimo Sam assaporò l'idea di essere stato invitato da qualcuno, poi realizzò che non poteva essere vero: doveva trattarsi sicuramente di uno scherzo idiota. «No, grazie. Sto bene da solo» rispose, tornando a giocare con i sassolini.
John gli si avvicinò di un passo con aria piuttosto minacciosa. «Forse non hai capito: non era una domanda» gli latrò addosso, poi lo afferrò per il colletto e lo sollevò da terra.
«Lasciami!» gridò Sam, scalciando come un forsennato, ma era talmente smilzo e mingherlino che non aveva la speranza di competere con uno della stazza di John.
«Ai cessi!» esultò il bullo, incitando i suoi compagni come un vero condottiero.
Sam sapeva benissimo cosa significava: mettere la testa di qualcuno nel water era un divertimento piuttosto comune per quelle baby gang. Provò ad dimenarsi per riuscire a sfuggire alla presa di John, ma quello lo trascinò ai bagni come se fosse la sua bambola di pezza, mentre i compagni sghignazzavano divertiti.
«Allora, Auschwitz, le tue ultime parole prima della camera a gas?» lo derise John, scrollandolo con forza davanti al cubicolo in cui si sarebbe consumato il sopruso.
Sam sgranò gli occhi allucinato. «Sbarre!» esclamò con la voce più acuta del normale.
Tra le tante stranezze di Auschwitz, mai John avrebbe pensato che se ne sarebbe venuto fuori con una roba del genere, proprio prima di finire con la testa nel water. «Come?»
«Sbarre, sbarre, vedo tutte quelle sbarre intorno a te!» gridò Sam. Pareva terrorizzato, si agitava come un animale in gabbia. I suoi occhi erano spalancati e fissi su qualcosa che sembrava vedere solo lui. «Sei in prigione! Liberati, liberati!» strillò, cominciando ad ansimare come un forsennato.
John mollò la presa e si allontanò da lui di qualche passo.
Non appena Sam non fu più sostenuto dalla forza di John, si accasciò a terra, accartocciandosi su se stesso, e scoppiò a piangere.
«Tu sei fuori come un balcone!» commentò il bullo, scuotendo la testa. E avrebbe aggiunto altro, se non fosse stato interrotto da qualcosa di ben più strano delle visioni di Auschwitz. Nel momento stesso in cui il moccioso si era messo a piangere, tutti i rubinetti si erano aperti in contemporanea.
«Chiudeteli!» ordinò John agli altri ragazzi, ma per quanto questi ruotassero le manopole, l'acqua non smetteva di sgorgare. Presto si sarebbe allagato il bagno. «Via di qui!» gridò il capo branco, realizzando che le cose si stavano mettendo davvero male.
Sam restò rannicchiato a terra, terrorizzato da quello che aveva visto. Non si accorse dell'acqua che lo stava inzuppando. Restò lì, ad aggiungere le sue lacrime al lago che si era formato sul pavimento, finché non arrivò la maestra a portarlo via.

La signora Rachel Lechner era una normale casalinga inglese di mezza età. Abbigliamento semplice, a cui le piaceva aggiungere qualche dettaglio che desse un tocco eccentrico, capelli castani mossi dalla permanente, scarpe con un leggero tacco. Tre figli, di cui la più grande già indipendente, e una piccola villetta a schiera con un giardino curato. Insomma, una signora come tante.
Ma lei non era come gli altri, o almeno, non lo era stata. Un tempo le piaceva l'idea di sentirsi diversa, ma in quegli ultimi anni era diventato tutto più pericoloso, così era stata costretta a fare buon viso a cattivo gioco, nascondendo quella parte di sé che avrebbe potuto causarle guai. Meglio non rischiare e tornare a vivere come se niente fosse. Forse l'avrebbero lasciata in pace.
Ma non aveva messo in conto la possibilità che anche suo figlio Samuel fosse come lei.
Quando la maestra l'aveva chiamata a scuola, quel pomeriggio, dicendo che Samuel si era cacciato in un guaio, non si era preoccupata eccessivamente, perché in fondo suo figlio era un ragazzino tranquillo. Se anche aveva combinato qualcosa, probabilmente non era volontario.
Quando arrivò a scuola, una bidella piuttosto grassoccia la condusse all'ufficio della preside. Seduto su una seggiolina, con gli abiti inzuppati e il capo chinato a terra, stava suo figlio Samuel. Sembrava un condannato a morte in attesa del patibolo. Quando la vide arrivare, alzò lo sguardo: Rachel lesse terrore e smarrimento nei suoi occhi cerulei spalancati su di lei. La donna gli accarezzò teneramente la guancia, poi lo prese per mano e insieme entrarono nell'ufficio della direttrice.
La preside era una signora sui sessant'anni, con la faccia gentile. Fece accomodare mamma e figlio sulle due poltroncine davanti alla scrivania, poi annunciò: «Samuel ha allagato il bagno dei maschi al primo piano».
Rachel si voltò verso Sam con aria di rimprovero, ma lo sguardo disperato del figlio le fece capire che doveva esserci qualcosa sotto.
«Non sono stato io» piagnucolò il bambino, tirando su con il naso.
«Samuel, perché non racconti quello che è successo?» lo incitò la direttrice, con un tono gentile.
Gli occhi sbarrati di Sam si fissarono prima sulla preside e poi su sua madre, infine si piantarono a terra. «Lui, John, voleva farmi uno scherzo. Poi...» cominciò a raccontare, ma si interruppe subito. Rachel allora gli diede un buffetto sulla guancia che lo indusse ad alzare gli occhi su di lei. Il piccolo Sam fece un profondo sospiro e poi continuò: «Ho visto delle sbarre, c'erano tante sbarre intorno a John, come se fosse in prigione. Allora io ho gridato e lui mi ha lasciato andare, e io mi sono messo a piangere e poi i rubinetti si sono aperti, ma non si chiudevano più...»
«Basta così, Samuel» lo interruppe la direttrice, in un tono più duro di prima. «Non è il caso di dire le bugie».
Sam tirò su di nuovo con il naso. «Non sono bugie, signora» singhiozzò, torcendosi le mani.
«Vuoi dirmi che tu hai realmente visto delle sbarre attorno a John che nessuno poteva vedere e i rubinetti hanno cominciato a perdere tutti assieme?» chiese la preside, osservandolo da sopra i suoi occhialetti da lettura.
Rachel posò una mano sulla gamba del figlio e fece una leggera pressione. Cercò di mantenersi calma, anche se avrebbe voluto prendere in braccio Sam e scappare via. Lei sapeva perfettamente che cosa significavano le visioni di Sam: quelli erano i primi segni della magia. Samuel era un mago, come lei.
Rachel attese paziente che la preside decidesse la punizione per il figlio, poi chiese il permesso di portarlo a casa, usando come scusa il fatto che fosse un po' scosso. Ottenuto il consenso, la donna prese Sam per mano e lo condusse verso la stazione della metropolitana più vicina. Camminava con un passo svelto e si guardava costantemente intorno, come se temesse di essere seguita.
«Mamma, perché non prendiamo la macchina?» domandò Sam, indicando la loro automobile, che li attendeva parcheggiata davanti a scuola.
Rachel gli rivolse un sorriso tirato. «Non vuoi fare un giretto in metropolitana, Sammy?» gli chiese. In realtà, la sua vana speranza era che loro non li attaccassero in mezzo a tutti quei Babbani, non tanto perché fossero preoccupati di mettere in pericolo qualche insulso Babbano, quanto per non rischiare di far saltare la loro copertura e richiedere così l'intervento di numerosi Incantesimi di Memoria per riparare al danno. Economia di forze: fosse dipeso da lei, avrebbe sferrato l'attacco direttamente a casa, lontano da occhi indiscreti. E c'era da giurare che loro fossero altrettanto furbi.
Arrivarono alla villetta che era quasi ora di cena, perché avevano dovuto attraversare quasi tutta la città in metropolitana, con il traffico dei pendolari che avevano appena terminato il lavoro. Trovarono David che sgranocchiava l'ennesimo pacchetto di patatine davanti al televisore.
«David, chiama papà al lavoro e digli che deve tornare immediatamente a casa perché c'è un'emergenza» ordinò Rachel al figlio adolescente.
Lui sollevò gli occhi su di lei con aria insieme incredula e scocciata, come se la sua vecchia fosse troppo antiquata per capire certe verità universalmente conosciute. «Mamma. Stanno dando “Pimp my ride” su MTV» sentenziò, ficcandosi in bocca una manciata di patatine.
Rachel si piazzò davanti alla televisione e staccò la spina con violenza.
David trasalì. Non aveva mai visto sua madre comportarsi a quel modo: doveva essere successo qualcosa di veramente grave. Osservando il suo sguardo furente, il ragazzo non se lo fece ripetere due volte: si alzò dal divano con uno scatto impressionante per la sua considerevole mole e corse a chiamare il padre sul lavoro.
Rachel, nel frattempo, salì al piano di sopra, per riempire un paio di valige con qualche abito e cose di prima necessità.
«Mamma, che succede?» domandò il piccolo Sam, comparendo sull'uscio della sua stanza.
Rachel notò che i suoi occhioni erano spalancati per la preoccupazione e non poté evitare di rincuorarlo con un sorriso. «Niente, tesoro. Dobbiamo solo andare via per un po'».
«È per quello che ho fatto io oggi?» chiese il bambino, sospettoso.
Rachel si lasciò scappare un sospiro. Era dannatamente sveglio il suo bambino, per avere nove anni. Sì, certo che era per quello che aveva fatto lui oggi: una magia, segno che lui non era un semplice Babbano come suo padre o il fratello David. Era un mago, e l'avrebbero rintracciato.
Risalendo a lei, e a...
«Esther!» esclamò David dal piano di sotto, vedendo comparire la sorella dal nulla, al centro esatto del salotto.
La ragazza ignorò completamente l'atterrito fratello e corse al piano di sopra. «Mamma, mi hanno scoperta!» gridò, con il cuore in gola. «Non so come abbiano fatto, non...»
«Io sì» la interruppe Rachel, con un tono funereo. I suoi occhi erano puntati su Sam, ancora fermo sull'uscio della stanza.
Esther seguì la direzione del suo sguardo e si lasciò sfuggire un sospiro quando vide cosa stava puntando. «Oh, no...» mormorò.
Rachel annuì gravemente. Un tempo sarebbe stata contenta di sapere che anche il figlio più piccolo aveva poteri magici, ma quei tempi erano passati. Ora come ora, era meglio sperare di essere Babbani.
Rachel estrasse dal cassetto del suo comodino due bastoncini di legno e ne porse uno alla figlia, con un'espressione di profonda gravità dipinta sul volto. Esther deglutì, ma alla fine prese in mano la sua bacchetta.
«Si può sapere che diavolo sta succedendo?» esclamò di getto David, sbucando dal corridoio. Osservò per un attimo le bacchette che la madre e la sorella tenevano in mano, poi il suo viso paffuto cambiò. Una strana sensazione, come se avesse improvvisamente realizzato qualcosa, sciolse la sua rabbia e il volto divenne molle. «Allora era vero» mormorò in un sussurro. «Io... crescendo, mi sono convinto che fosse tutto frutto della mia fantasia, che doveva essere stato un sogno».
Il suo sguardo si fece consapevole e determinato. «Invece... era tutto vero. Tu hai davvero frequentato quella scuola di magia!» esclamò, puntando il dito contro la sorella.
«Sì, David, era tutto vero. Sia io che la mamma siamo andate a Hogwarts» rispose Esther, anche se, a dirla tutta, lei non aveva mai concluso gli studi.
«Io... santo cielo, credevo di essere pazzo perché mi ricordavo di quando la mamma spostava gli oggetti con quella bacchetta» sussurrò il ragazzo, scuotendo la testa.
«David, hai chiamato il papà?» domando Rachel in tono sbrigativo, chiudendo la questione.
Il ragazzo annuì, ancora troppo preso dai suoi ricordi per rispondere.
«Molto bene» sentenziò Rachel. «Ora, David, Samuel, andate a fare lo zaino con le vostre cose: prendete solo la roba indispensabile. Esther, stai di guardia alla porta sul retro. Io aspetto papà all'ingresso, poi partiamo».
Ci fu un attimo di gelo a quegli ordini così perentori, ma poi tutti si riscossero e si affrettarono ad eseguirli.
Solo Sam rimase immobile al suo posto. «Mamma?» chiamò con la sua vocina sottile, quando la donna era ormai uscita dalla stanza. «Sono anche io un mago, non è vero?»
Rachel rimase congelata sul posto, con le spalle rivolte al figlio. Le piangeva il cuore, ma non aveva la forza di voltarsi.
Sospirò.
«Sì, Sammy, sei anche tu un mago».







Eccoci qui con il primo capitolo!
Ora cominciate a conoscere un po' di personaggi... a proposito di questo, ho un paio di cose da dire: David NON è un Magonò; semplicemente, così come Lily è una strega mentre Petunia è Babbana, lui non ha sangue magico (tenete conto che sua madre è Nata Babbana, mentre il padre Babbano... insomma è verosimile!); l'aspetto fisico di Sam non ha nessun significato nascosto né ha a che fare con i suoi poteri magici: semplicemente l'ho sognato in questo modo, così come ho sognato David Babbano (ve l'avevo detto, no, che il sogno avrebbe avuto ripercussioni sulla storia!); infine, il fatto che la famiglia Lechner sia ebrea (il signor Lechner lo è, a dire la verità, Rachel no!) non ha alcuna valenza nascosta: è solo che volevo chiamare il personaggio femminile Ester e visto che si tratta di un nome ebraico, ho colto la palla al balzo.
Bene, credo di aver detto tutto! A dopodomani e grazie a quelli che hanno cominciato a seguire questa storia!
Beatrix

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Capitolo 3
*** Odore di morte ***


Odore di morte

Casa Lechner, quella stessa sera



Joseph Lechner tornò dal lavoro trafelato. Lo avevano chiamato dicendo che c'era un'emergenza.
Anzi, no.
David lo aveva chiamato dicendo che c'era un emergenza. E il fatto che fosse stato David a telefonare aveva dissipato ogni dubbio: dovevano davvero essere in pericolo.
Quando arrivò a casa e ritrovò in ingresso due valige stracolme si preoccupò seriamente. Sua moglie lo stava per caso cacciando?
«Rachel, tesoro?» domandò l'uomo, appoggiando il cappotto sul divano.
La moglie comparve, letteralmente, al centro della sala. Aveva un'espressione decisa in volto e gli stava puntando contro un bastoncino di legno.
Oh cielo. realizzò Joseph. La sua bacchetta.
«Qual è il mio libro preferito?» gli domandò, con assoluta incoerenza.
«Tesoro, che cavolo...»
«Rispondi» gli intimò.
Era una pantomima assorda, ma osservando il suo sguardo Joseph capì che non era il caso di farselo ripetere. «”Il grande Gatsby”, tesoro» mormorò sconfortato.
Rachel tirò un sospiro di sollievo e abbassò la bacchetta. «Dovevo controllare che fossi tu. Dio solo sa quali folli tecniche usino i Mangiamorte» spiegò al marito, anche se non era sicura che si ricordasse chi fossero i Mangiamorte. Dopotutto lui era Babbano.
Invece Joseph ricordava tutto: sapeva di aver sposato una strega, sapeva che la figlia maggiore aveva frequentato la scuola di magia di Hogwarts, sapeva che lui e David erano “Babbani”, ovvero non magici. Aveva memoria di ciò che la moglie gli aveva raccontato sulla guerra, di come un mago oscuro avesse preso il potere e avesse sparso il terrore in tutta l'Inghilterra. E ricordava anche di aver dovuto ritirare Esther dalla scuola, dopo le vacanze di Pasqua di cinque anni fa, per evitare che venisse presa di mira in quanto Mezzosangue. Da allora la famiglia Lechner si era nascosta nell'ombra; erano riusciti a sfuggire ai sanguinari scagnozzi del nuovo regime solo grazie al fatto che sapevano come passare inosservati: non infastidire nessuno, non praticare magie, fingere di non esistere.
E loro li avevano lasciati in pace. Dopotutto, che guai avrebbero dovuto aspettarsi da dei codardi Mezzosangue, mezzi ebrei e mezze cartucce?
Forse si erano perfino dimenticati di loro.
Fino a quella sera.
Doveva essere accaduto qualcosa. «Dimmi che sta succedendo, Rachel» sussurrò Joseph, in tono serio.
La donna non poté mentirgli. «Sam è un mago» mormorò stancamente. «Oggi a scuola ha compiuto la sua prima magia. Era casuale e involontaria, ma lui è un minorenne, quindi ha addosso la Traccia. Il Ministero l'avrà rintracciato e avrà capito che non è un Nato Babbano; e sono risaliti a me e Esther».
Rachel deglutì. Lei sì che era una Nata Babbana. Genitori completamente non magici, per nulla apprezzati dal nuovo regime. I Mangiamorte li avevano lasciati in pace fino ad allora, forse perché nemmeno si ricordavano di lei: aveva frequentato Hogwarts secoli prima.
E Esther... be', tecnicamente lei era una Mezzosangue, e poi non avrebbe mai potuto rappresentare un vero problema: una parte del suo patrimonio genetico, la metà ebrea, le suggeriva di starsene in disparte a farsi gli affari propri. Vivi e lascia vivere. Fine della storia. Un po' da ignavi, forse vili, ma era una politica sufficientemente fruttuosa in un clima come quello.
Ma ora tutto era cambiato.
«Dobbiamo fuggire, lasciare il paese, andarcene il più lontano possibile» decretò Rachel, con un tono che voleva essere sicuro. «Subito».
«Dove andremo?» mormorò sconsolato Joseph.
La moglie scosse la testa. «Non lo so, ma dobbiamo fare in fretta» rispose, proprio mentre Sam e David li raggiungevano in salotto con i rispettivi zaini sulle spalle.
«Non puoi fare qualche incantesimo e farci volare via, mamma?» domandò ingenuamente David, che ci capiva poco di quelle diavolerie magiche.
Rachel sospirò. «No, David, non posso. Dobbiamo usare mezzi che il Ministero non può rintracciare; mezzi Babbani» spiegò, facendo un cenno del capo al marito perché prendesse la borsa.
Joseph si preparò a sollevare un macigno, invece la valigia era talmente leggera che sembrava vuota. L'uomo, comunque, preferì non indagare sulla cosa.
«Mamma, andiamo» esclamò Esther, richiamata in salotto dalle voci.
«Usciamo dal retro, è più sicuro» ordinò Rachel, con un tono funereo. Stava per lasciare la casa dove aveva vissuto per più di vent'anni. Stava per andare incontro all'ignoto, ad una vita di clandestinità, lasciandosi alle spalle quel poco di sicurezza rappresentata dai centrini di pizzo sui mobili e dal caminetto acceso in inverno. Piccole cose, ma così terribilmente rassicuranti nella loro banalità. Ora, invece, nemmeno quelle erano più una certezza.
«Andiamo» sospirò Esther, richiamando l'attenzione della madre e conducendo la famiglia verso la porta sul retro, che aveva tenuto d'occhio fino a quel momento. La ragazza si rigirò la bacchetta tra le mani, i muscoli tesi per l'irrequietezza, lo sguardo inquieto e sfuggente. Aprì la porta e controllò che lungo la via non si vedesse nessuno. I lampioni gettavano sul marciapiede le loro luci tremule e fredde, ma la strada era deserta e tranquilla. Si sentivano solo i rumori delle automobili in lontananza, e dalla casa accanto del vecchio e sordo signor Connor proveniva la voce un po' metallica e gracchiante del giornalista della BBC, che leggeva le notizie del giorno alla televisione.
Esther uscì di casa con la bacchetta tesa davanti a sé.
Ma chi voleva prendere in giro? Se davvero i Mangiamorte li avessero attaccati, lei non sarebbe stata in grado di difendere nemmeno se stessa, figuriamoci la propria famiglia. Non aveva neppure terminato il suo sesto anno a Hogwarts, non aveva mai duellato con nessuno: si ricordava a mala pena gli incantesimi elementari.
Deglutì.
Sarebbero morti tutti.
«No!» mugugnò improvvisamente Sam, terrorizzato. Vedeva sangue dappertutto, sul marciapiede, sulla strada, sul volto e sui vestiti di Esther. Le luci dei lampioni divennero rosse e cupe, il sangue colava giù dai pali e allagava la via, rendendola un viscido fiume cremisi.
«Sammy, che cosa...?» provò a dire sua madre, mettendogli una mano sulla spalla, ma Sam la scacciò con un gesto rabbioso e scoppiò a piangere.
«Andiamo via, andiamo via!» strillava in continuazione, accasciato a terra. Perché nessuno vedeva tutto quel sangue che vedeva lui? C'era odore di morte nell'aria. «Vi prego, non qui» piagnucolò infine, coprendosi il volto con le mani per nascondere quello spettacolo orribile. Eppure, anche con gli occhi chiusi riusciva a scorgere la scena, come se ce l'avesse davanti.
«Che succede, Sam?» chiese ancora Rachel, accucciandosi a terra accanto a lui. Ma non fece a tempo ad ottenere una risposta, perché un urlo squarciò la notte.
Un urlo di Esther.
Un incantesimo le aveva sfiorato l'orecchio. La ragazza si voltò in preda al panico e vide quattro figure incappucciate che avanzavano verso di loro lungo la strada deserta. Fu colta da puro terrore. Gridò, il cuore che le esplodeva nel petto, il corpo in tensione.
«Torniamo dentro!» strillò, spingendo i familiari di nuovo in casa. Si chiude la porta alle spalle e si appoggiò al muro per permettere al suo respiro di tornare regolare, senza troppo successo, in realtà. Sapeva che nulla li avrebbe fermati, sapeva di non essere in grado di duellare.
Sarebbero morti tutti.
«Usciamo dal davanti» decretò Rachel, che in situazioni di pericolo non perdeva mai la sua lucidità. Mise un braccio intorno alle spalle del figlio Sam per sostenerlo e poi si avviò con passo deciso verso la porta. Sempre con la bacchetta tesa davanti a sé, uscì sul vialetto di ciottoli che attraversava il giardinetto e controllò che non ci fosse nessuno. «Muoviamoci, svelti» ordinò agli altri, che stavano uscendo con circospezione dalla casa. Fece solo qualche passo e poi li vide: due Mangiamorte si erano appena materializzati sul marciapiede di fronte.
«Protego!» gridò, ancora prima di sentire la maledizione urlata da una delle due figure incappucciate. Nello stesso momento, spinse a terra Sam, per evitare che finisse sotto il fuoco incrociato del duello.
«Expelliarmus!» strillò Esther, accorsa al fianco della madre. Era l'unico stupido incantesimo che aveva imparato all'inutile Club dei Duellanti tenuto dal professor Allock. Non era una grande arma contro dei Mangiamorte capaci di scagliare maledizioni mortali, ma non sapeva fare di meglio.
Una serie di incantesimi le vennero lanciati contro e la sua unica possibilità di salvezza fu di gettarsi al riparo dietro il cassonetto dell'immondizia. Ammirò sua madre, che sapeva come cavarsela in un duello, mentre lei non poteva fare altro che gridare qualche stupida frattura, sporgendosi ogni tanto dal suo nascondiglio. Vide Sam, rannicchiato sul marciapiede ai piedi di Rachel, che si teneva la testa tra le braccia, come se sperasse di salvarsi da quell'orrore. Vide il padre e il fratello David, terrorizzati nel loro essere Babbani, che cercavano di ripararsi dietro la staccionata di legno del loro giardino. Esther capì, capì che non c'era più speranza.
Sarebbero morti tutti.
Al diavolo ogni cosa, avrebbe portato qualcuno di quei bastardi all'inferno con sé.
«Avada Kedavra!» gridò con foga, sbucando dal suo nascondiglio. Un raggio di luce verde partì dalla sua bacchetta, ma la maledizione si infranse contro il muro della casa di fronte, poco sopra la testa di uno dei due Mangiamorte.
«Lurida Sanguesporco!» ringhiò quello che era quasi stato colpito.
Fu una frazione di secondo. Esther vide la luce rossa di una maledizione sprigionata dalla bacchetta del Mangiamorte.... e in quel medesimo istante vide due figure avvolte in mantelli bianchi che erano apparse dal nulla, ma non attaccarono loro. Si scagliarono invece contro i Mangiamorte.
«Cosa...?» riuscì a mormorare.
E poi fu colpita e l'oscurità calò intorno a lei.







Ebbene sì, Mangiamorte in arrivo, la famiglia Lechner è costretta alla fuga.
Chi saranno le misteriose figure comparse a salvare la situazione? Non temete, al di là della drammaticità intrinseca nel racconto (ehi, non sono proprio tempi allegri questi!), ho inserito un po' di figure divertenti... le scoprirete nel prossimo capitolo!
A presto!
Beatrix

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Capitolo 4
*** L'Ordine della Capra ***


L'Ordine della Capra

In qualche luogo indefinito,
ad un'ora imprecisata della mattina



Quando Esther si svegliò, capì subito che quello non era il suo appartamentino di periferia: si trovava in un letto a baldacchino piuttosto malridotto, con le tende strappate e alcune macchie strane sul copriletto. Si alzò a sedere ma fu costretta ad afferrarsi la testa tra le mani perché le doleva troppo. Aveva dei ricordi nebulosi su quello che le era successo prima di risvegliarsi in quel luogo. Alla sua sinistra, da un immensa porta a finestra, entravano alcuni raggi di luce: Esther non riusciva a capire se fuori ci fosse molta nebbia o se i vetri fossero particolarmente luridi.
Proprio in quel momento un leggero scampanellio la costrinse a voltarsi: una capretta era placidamente entrata nella stanza e aveva cominciato a leccare un palo del suo baldacchino. Confusa e disorientata, Esther cacciò un urlo. Fece per alzarsi dal letto, ma rimase incastrata nelle lenzuola e ruzzolò a terra.
«Buongiorno!» esclamò una voce allegra.
Esther riemerse da dietro il letto, con i capelli arruffati e le gote arrossate.
La voce apparteneva ad un bel giovanotto di colore, che reggeva in mano un vassoio per la colazione, con un plumcake, un piatto di uova e una tazza di quello che sembrava tè. «Ci sono modi più comodi per scendere dal letto» le disse, con un sorrisetto vivace.
Esther si alzò da terra con aria circospetta, senza raccogliere la provocazione. Quel tipo le era familiare: era convinta di averlo già visto da qualche parte, ma dove?
Forse il ragazzo percepì il suo disagio, così si presentò: «Magari ti ricordi di me: Dean Thomas, Grifondoro».
Grifondoro. La parola magica che sbloccò tutti i ricordi di Esther: il tizio misterioso al pub, sua madre che tirava fuori le bacchette magiche, i Mangiamorte che li attaccavano, la fuga e poi quelle due figure apparse dal nulla a salvarli. Forse era stata colpita, perché dopo di quello non ricordava più nulla. Cos'era successo agli altri?
«Sammy, David, mamma, papà... dove sono?» chiese con il cuore in gola.
Il sorriso che le rivolse Dean la rassicurò. «Stanno tutti bene, non ti preoccupare» le rispose con gentilezza. Esther fece per muoversi in direzione della porta, quando Dean la bloccò mettendogli il vassoio con la colazione tra le mani. «Ti conviene mangiare qualcosa, prima: ti rimetterà un po' in forze».
Esther abbassò gli occhi sulle uova piuttosto malconce e sul plumcake sgonfio. Probabilmente Dean indovinò i suoi pensieri, perché si scusò in fratta: «Non è un gran che, ma Andromeda è fuori e Minerva non è il massimo ai fornelli».
Tutti quei nomi non avevano il minimo senso per Esther e le sorse spontaneo un nuovo dubbio. «Dove ci troviamo?» domandò perplessa, accennando con il capo alla stanza impolverata.
Dean allargò le mani, come un presentatore del circo che deve annunciare il suo numero migliore. «Questo è il Quartier Generale dell'Ordine della Capra!»
«Ordine della Capra?» non poté evitare di ripetere Esther, sbigottita. Era finita in un covo di matti?
Dean si finse a disagio. «Sai, il nome l'ha scelto Aberforth» spiegò, stringendosi nelle spalle. «Lui è un po' fissato con queste cose» aggiunse poi, mettendosi una mano davanti alla bocca come se dovesse rivelarle un segreto, mentre i suoi occhi saettavano verso la capretta che stava ancora beatamente leccando il legno.
Esther preferì non commentare la cosa. Si ficcò in bocca mezzo plumcake, mettendosi a sedere sul letto: sperava che, se avesse mangiato qualcosa dal vassoio, poi Dean l'avrebbe lasciata andare dalla sua famiglia. Trangugiò velocemente la tortina, bevve un sorso di tè e infine lanciò uno sguardo eloquente al ragazzo di colore, sentendosi come una bambina che deve chiedere il permesso alla mamma di alzarsi da tavola, finita la cena.
Dean fece un mezzo sorrisetto, poi accennò con il capo alla porta.
«Questa non la dimenticherei in giro, fossi in te» le disse, proprio un attimo prima che sparisse fuori dalla stanza.
Esther si voltò e vide che Dean aveva in mano la sua bacchetta. «Grazie» ripose con uno sbuffo, mettendosela in tasca. Non era più abituata a portarsela sempre appresso, dopo aver passato gli ultimi cinque anni della sua vita a fingere di essere Babbana.
Uscì dalla stanza polverosa e sporca per ritrovarsi su un pianerottolo altrettanto mal messo. Solo una delle porte poste di fronte alla camera da cui era appena uscita sembrava essere usata di frequente, a giudicare dalla maniglia non poi così impolverata. Sulla sinistra si apriva un'ampia portafinestra che dava su un terrazzo con la balaustra in marno. La tenda che pendeva davanti alla finestra era tanto lercia e strappata che faceva assomigliare la casa ad un vecchio set per un film dell'orrore.
Esther si fermò solo un attimo ad osservare il pianerottolo, poi scese di corsa l'immensa scalinata centrale. Per la fretta, non si accorse della ragazza che stava salendo e quasi le sbatté contro. «Scusa» farfugliò, senza nemmeno preoccuparsi di guardarla in faccia.
«Ciao, Esther» rispose una voce sognante.
Esther non poté evitare di fermarsi per voltarsi verso chi aveva parlato: quella voce... l'avrebbe riconosciuta tra mille. «Lunatica Lovegood?» domandò sconcertata, osservando i suo capelli biondi arruffati e quegli inconfondibili occhi stralunati. In che diavolo di posto era finita? Cosa ci facevano lì quelle persone?
La Lovegood indossava un'improbabile accozzaglia di vestiti dai colori sgargianti e aveva un'espressione beata. «Erano anni che nessuno più mi chiamava così» commentò, con un sorriso sereno. «Comunque tuo fratello è davvero carino».
«Sammy!» esclamò di rimando Esther, ricordandosi improvvisamente il motivo per cui era lì. Scese precipitosamente l'ultima rampa di scale e si ritrovò in una sorta di ingresso: di fronte a sé aveva quello che pareva essere il portone d'entrata della villa, mentre sia a destra che a sinistra vi erano due porte più piccole. Da quella di sinistra sbucò di getto una signora vestita con un lungo abito scozzese.
«Professoressa McGranitt!» esclamò Esther, sorpresa.
La strega si fermò, come se si fosse accorta di lei solo in quel momento, e per tutta risposta borbottò: «Era poi così male il mio plumcake?»
«Ehm... no» mentì Esther, che aveva imparato in anni di lezioni di Trasfigurazione come fosse meglio non contraddire l'altera professoressa.
La donna sembrò decisamente soddisfatta. «Ah!» esclamò con un sorriso. «Dean dice sempre che sono un disastro in cucina, ma io so che lo fa solo per farmi innervosire!» e con quelle parole prese a salire le scale per andare ad acchiappare quel disgraziato di Dean.
Esther, sempre più perplessa sul vero significato di quel luogo e sulle persone che vi si aggiravano, provò ad aprire la porta di destra. Si ritrovò in un piccolo salotto affollato.
«Etty!» esclamò Sam, correndo incontro alla sorella e gettandole le braccia al collo.
«Sammy!» rispose Esther, ricambiando la stretta. «Stai bene?»
Sam si sciolse dall'abbraccio e riservò alla sorella un sorriso allegro e sincero. «Benissimo! Questo posto è ganzissimo!» esclamò entusiasta.
Esther finalmente alzò gli occhi sul resto del salotto: in un angolo, rinchiuso da un elaborato camino di marmo, scoppiettava il fuoco che riscaldava la stanza; al centro, seduti su due divani che un tempo dovevano essere stati sontuosi ma ora erano lisi e rovinati, stavano i suoi genitori, il fratello David, il minuscolo professor Vitious e un mago dall'aria burbera che pareva la versione campagnola del preside Silente.
«Dove... cavolo siamo?» chiese infine Esther, scioccata da quell'assurdo assortimento di gente, radunata in un luogo ancora più assurdo.
«Credevo che Dean ti avesse spiegato» borbottò scorbutico il mago con la lunga barba grigia.
Esther si passò una mano tra i capelli per tentare di riordinare i pensieri e di darsi una calmata. «Mi ha detto una cosa inverosimile» rispose con un sospiro. «A proposito di un ordine e di una capra».
«L'Ordine della Capra!» esclamò estasiato il professor Vitious.
«Proprio quello» mormorò stancamente Esther, lasciandosi cadere sul divano a fianco di sua madre.
«Inverosimile!» sbottò il mago burbero. «Mio fratello Al fondò l'Ordine della Fenice, e non vedo perché noi non possiamo chiamarci Ordine della Capra! La fenice è così altisonante! Solo perché il suo patronus era una fenice, e lui c'aveva una fenice addomesticata... be', io c'ho una capra e mi piacciono quelle, problemi?»
«Credo che sarebbe più saggio spiegare chi siamo, Ab» intervenne il professor Vitius, in tono ragionevole, proprio mentre Dean, Lunatica e la professoressa McGranitt entravano in salotto.
Il tizio scorbutico di nome Ab borbottò qualcosa di sconnesso, ma alla fine si arrese. «E va bene, noi siamo quel gruppo di patetici masnadieri che cercano di opporsi al Ministero» spiegò infine, sempre con quel suo tono astioso.
«Opporsi al Ministero?» gli fece eco Rachel, ammirata e preoccupata insieme. «Intendete dire che siete dei... ribelli?»
«Ribelli, questa mi piace!» esclamò Dean, dando una gomitata amichevole alla professoressa McGanitt.
«Non siamo proprio ribelli» mugugnò risentita l'anziana insegnante. «Noi combattiamo contro questo regime del terrore».
«Finirete per farvi ammazzare» commentò sarcastica Esther. Non ci trovava nulla di coraggioso in chi decideva di dare la sua vita per cause perse fin dall'inizio. Per lei era terribilmente stupido.
«Vi abbiamo salvato la pellaccia, non so se ve ne siete accorti» brontolò Ab, con uno sbuffo.
In quel momento, entrarono altre tre persone in salotto che, con i nuovi arrivati, cominciava a diventare decisamente troppo affollato. Esther intuì che doveva trattarsi di una famiglia: una mamma piuttosto giovanile teneva tra le braccia un bambino di circa due anni ed era accompagnata da un giovane di bell'aspetto.
«Io credo che sia il caso di indire una riunione straordinaria» propose saggiamente il professor Vitious, con un cenno del capo.
«Vado a chiamare Percy» si propose il giovane che era appena entrato.
Il professore annuì, poi si voltò verso Dean: bastò uno sguardo perché i due si capissero. «Andromeda è fuori con Ted a fare spese perché non c'era rimasto più nemmeno un chicco di riso nella dispensa, grazie alla grande cuoca che ha messo mano ai fornelli ieri sera» spiegò Dean, con un risolino divertito in direzione della professoressa McGranitt. La donna gli riservò un'occhiatina sprezzante, ma gli angoli della sua bocca sottile si incrinarono in un sorriso.
«E l'altro?» sbottò Ab.
Lunatica si arricciò sul dito una ciocca di capelli biondi, con aria sognante, poi mormorò: «È a prendere l'orchidea».
Ab si lasciò sfuggire uno sbuffo, poi scosse la testa. «Be', non ci resta che aspettarli».







Eccoci addentrati nel vivo della storia! Ve gusta l'Ordine della Capra?
Per quel che riguarda i membri scelti, alcuni li ho sognati (la McGranitt e Vitius, per esempio), altri li ho inseriti perché mi piacciono (Luna e DEan), altri per obbligatoria sostituzione (nel sogno c'era Silente, ma visto che lui è morto, chi meglio del fratello Ab poteva sostituirlo?).
Vi avevo promesso un po' di ironia, no? Tra la capra, Dean, la McGranitt e Ab non so chi mi fa spassare di più!
Prossimo capitolo, scoprirete chi è il misterioso
altro in questione! E news sull'affare del Veggente (nonché mie personali opinioni nelle note d'autrice!).
A presto e grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 5
*** Il Veggente ***


Il Veggente

Quartier Generale dell'Ordine della Capra,
mezzogiorno



Lo strano gruppo di gente si radunò intorno al lungo tavolo tarlato che occupava il centro della imponente sala da pranzo. Stavano tutti aspettando il famigerato altro che era andato a comprare le orchidee. Sembrava che lui fosse una specie di leader, l'eroe del gruppo senza il quale non si poteva fare nulla.
Esther scoprì che Percy era un ragazzo sciupato e mogio, che indossava un orribile maglione di lana piuttosto liso, con ricamata l'iniziale del suo nome. Aveva i capelli rossi spettinati e un paio di occhiali di corno che circondavano i suoi occhi tristi e spossati.
I due che erano andati a fare le spese, erano in realtà una signora di mezz'età dall'aria elegante e un bimbetto di circa cinque anni, che aveva l'inquietante capacità di cambiare il colore di occhi e capelli a piacimento. Si era presentato con una spettinata zazzera di capelli azzurri (che Esther aveva trovato vagamente rivoltante), ma nel giro di poco li aveva fatti diventare prima verdi e poi violetti.
«La nonna mi ha comprato la cioccolata» esclamò estasiato il bimbetto, lasciandosi prendere in braccio da Lunatica.
Il tizio scorbutico di nome Ab brontolò qualcosa che aveva a che fare con “soldi di tutti” e “spreco”, ma bastò un'occhiata della signora elegante per zittirlo immediatamente.
La lunga tavolata cadde nel silenzio, tutti in attesa.
Esther, seduta tra i suoi genitori, lanciò un veloce sguardo a suo padre e vide che aveva un'aria piuttosto smarrita, anche se nulla batteva l'espressione di puro sconcerto che si era stampata sulla faccia di suo fratello David. L'unico entusiasta della situazione sembrava Sam, che si faceva coccolare e vezzeggiare da tutti. Nessuno pareva badare al suo aspetto malaticcio e questo per lui era qualcosa di impareggiabile: finalmente era considerato normale.
Ad un certo punto, il professor Vitious scrutò fuori da una delle finestre e individuò una sagoma poco lontana, appoggiata al tronco di un albero spoglio. «Credo che sia arrivato, Ab, se vuoi andare a prenderlo» disse, facendo un cenno con il capo.
«Fosse per me, lo lascerei fuori» brontolò Ab, alzandosi di malavoglia dalla sedia e dirigendosi in ingresso.
«Sapete, Aberforth è il Custode Segreto del Quartier Generale» spiegò Dean alla famiglia Lechner. «Senza di lui, nessuno entra in questa casa».
Dopo una manciata di minuti, Ab tornò insieme al nuovo ragazzo. Non appena mise piede in sala da pranzo, Esther lo riconobbe subito.
«Paciock!» esclamò stupita.
Era di un anno più grande di lei, ma tutti a Hogwarts conoscevano Paciock, santo cielo! Aveva passato la maggior parte degli anni della sua carriera scolastica interpretando la parte del perfetto imbranato, per poi decidere solo al settimo anno che preferiva quella di eroe, organizzando una pallida e inutile ribellione contro il dominio del preside Piton e dei fratelli Carrow. Esther, dopo le vacanze di Pasqua di quell'anno, non era più ritornata a Hogwarts, ma da quello che aveva saputo in giro, la notte della Grande Battaglia, Paciock aveva ammazzato il serpente di Tu-sai-chi e si era lasciato torturare da lui pur di non unirsi alle sue schiere.
Stupidamente eroico, a suo parere.
«Buongiorno a tutti» salutò Paciock, con un sorriso gentile sul suo volto paffuto e un po' infantile, attraversato da alcune cicatrici.
«Siediti e piantala» grugnì Aberforth, facendo comparire una sedia con la bacchetta.
Paciock non parve minimamente scosso dalla ruvidità dei modi del vecchio mago e si sedette vicino al rosso di nome Percy.
«Bene» squittì il professor Vitious, battendo le mani per richiamare l'attenzione. «Credo che per i nostri ospiti sia necessaria una spiegazione un tantino più approfondita di quella fatta da Ab» cominciò a dire, con un'occhiatina divertita al grugno del mago burbero. «Dovete sapere che noi siamo gli unici sopravvissuti ai rastrellamenti seguiti alla Grande Battaglia, e molti di noi l'hanno anche combattuta».
«Avete combattuto la Battaglia di Hogwarts? Come avete fatto a scappare?» intervenne Rachel, piuttosto stupita. Lei aveva frequentato la scuola parecchio tempo prima, ma si ricordava perfettamente che non era possibile Materializzarsi o Smaterializzarsi nel perimetro del castello e del suo parco e, certo, trovare altre vie di fuga non doveva essere semplice.
«Furono gli elfi domestici» spiegò il professor Vitious. «Dopo che Harry Potter... morì, la battaglia riprese più furiosa di prima, ma noi sapevamo di essere senza scampo. Molti dei nostri furono uccisi. Abbiamo perso tanti amici e parenti, quella notte» cominciò a raccontare, quando il ricordo delle numerose morti gli spense la voce in una rispettosa pausa di silenzio. I suoi occhi indugiarono su Percy, che se ne stava con il capo chino e le mani in grembo, come se si stesse chiedendo perché proprio lui era sopravvissuto, quando tanti altri se n'erano andati.
«Gli elfi domestici ci portarono in salvo» continuò a raccontare il professore, in tono sommesso. «Sapete, a loro è permesso Materializzarsi dentro Hogwarts, perché la loro magia funziona in modo differente. Presero quelli di noi che riuscirono e ci portarono al sicuro».
«E l'Ordine della Capra?» chiese ancora Rachel, curiosa di saperne di più su coloro che si opponevano al Ministero.
Aberforth gonfiò il petto con evidente orgoglio. «Io l'ho creato, io ho trovato la casa, io ho reclutato i sopravvissuti» esclamò soddisfatto. «Una vecchia villa Babbana abbandonata! Era il posto ideale per nasconderci e poi sapevo che i professori conoscevano qualche trucchetto per metterla al sicuro» aggiunse poi, con una strizzata d'occhio alla McGranitt.
«L'Ordine della Fenice è morto con mio fratello Albus. Lui era il capo, perché si credeva tanto più bravo degli altri, e quando è andato dove nessuno poteva seguirlo, tutto si è disgregato. Mentre l'Ordine della Capra non ha capi! Nessuno è migliore, nessuno più bravo. Siamo tutti sullo stesso piano e non ci sono differenze» continuò a spiegare Aberforth. «Noi combattiamo per lei» aggiunse infine, indicando il ritratto di una fanciulla graziosa, con il volto illuminato da un sorriso dolce. «Perché nessun altro debba morire per le follie di un uomo accecato dal potere».
«Noi combattiamo per salvare quante più vite possiamo» aggiunse il professor Vitious. «Come abbiamo fatto per Dennis, Abigail e il piccolo William, che poi hanno deciso di unirsi a noi» spiegò, accennando alla famigliola seduta di fronte a lui.
«Il Ministero usa la Traccia dei minorenni per beccare i Nati Babbani o i Mezzosangue non registrati. Noi ci infiltriamo nei suoi canali e cerchiamo di portare in salvo la gente» intervenne Dean, seduto a fianco di Lunatica.
Esther fece una smorfia di disgusto. «I Mezzosangue devono essere registrati, adesso?» domandò incredula.
«Già» asserì Dennis, il giovane padre di bell'aspetto. «Ora, anche se hai un solo genitore Babbano sei potenzialmente pericoloso per il Ministero e devi essere iscritto in elenchi speciali. Io non lo ero, e quando il piccolo William ha fatto la sua prima magia, i Mangiamorte hanno visto che si trovava in una casa Babbana e sono venuti a dare un'occhiatina... per fortuna è arrivato l'Ordine» spiegò l'uomo, con un sorriso di ringraziamento.
Rachel sospirò. «È successa la stessa cosa a noi: Sammy ha compiuto una magia, ieri a scuola, e i Mangiamorte ci hanno trovati» raccontò, ancora incredula per essere riuscita a portare in salvo tutta la sua famiglia.
«Io non ho fatto niente... ho solo visto delle cose» intervenne Sam, come se volesse difendersi da qualche accusa. In effetti, non aveva materialmente compiuto proprio un bel nulla.
«Visto? In che senso?» si informò allora il professor Vitious, incuriosito.
Sam si strinse nelle spalle, non del tutto convinto che gli piacesse stare al centro dell'attenzione di tutti quegli adulti. «Be'...» cominciò a dire, «John voleva infilarmi la testa nel water, ma io ho visto delle sbarre intorno a lui, come se fosse rinchiuso in una prigione, e allora ho urlato e poi mi sono messo a piangere, così tutti i rubinetti si sono aperti e non si chiudevano più».
Uno strano silenzio calò nella sala da pranzo dopo quel breve racconto. Il professor Vitious lanciò un'occhiata d'intesa alla McGranitt, che si limitò ad un sonoro sbuffo. Il piccolo Sam si voltò terrorizzato verso la madre, convinto di aver detto qualcosa di terribile, poi tornò a guardare l'omino che gli aveva chiesto chiarimenti.
Vitious prese un profondo respiro, infine rivelò: «Questo significa che Sam è... un Veggente!»
«Veggente?» gli fecero eco in coro Esther e Rachel. «Come la Cooman?» aggiunse Esther, stupefatta.
«Oh, no!» esclamò la McGranitt, come per voler mettere le cose in chiaro. «Samuel è un vero Veggente».
«Ho qualcosa che non va?» si informò Sam, sgranando i suo occhi cerulei in una vera espressione di sconforto.
Il professor Vitious gli rivolse un sorriso incoraggiante. «Affatto, Sam. Si chiamano Veggenti coloro che come prima manifestazione della magia hanno delle visioni del futuro» spiegò il mago.
«I veri Veggenti sono molto rari» intervenne la professoressa McGranitt, con un tono leggermente accigliato. «E comunque la Divinazione è uno dei settori più imprecisi della magia. Bisogna saper interpretare in modo corretto i segni o si finisce per vedere presagi di morte ovunque» aggiunse, con una lieve smorfia. Sembrava avere una certa avversione per la materia, e non era tanto difficile indovinarne il motivo: una donna tanto precisa e metodica non doveva vedere di buon occhio una branca del sapere dove, più che altro, si tirava ad indovinare.
«Certo, è necessario un buon allenamento» esclamò allegro il professor Vitious. «Ma a quello possiamo rimediare andando a comprarti un buon libro! Che ne dici, Sam?»
«Libri?» intervenne Esther, impedendo al fratellino di rispondere. «Io credevo che ci avreste aiutati a lasciare il paese» commentò con un tono piuttosto deciso. Non voleva restare in Inghilterra un momento di più: dovevano andarsene alla svelta se non volevano essere catturati dai Mangiamorte; Sammy avrebbe potuto studiare da Veggente in qualsiasi altro paese dove non sarebbe stato arrestato per le sue origini Babbane.
Fu Paciock a rispondere alla sua domanda: «Se è questo che volete, vi aiuteremo. Ma ci serve qualche giorno per organizzare la cosa in modo sicuro, perché dobbiamo usare mezzi che il Ministero non possa rintracciare».
Rachel guardò suo marito, sconvolto e atterrito da tutte quelle novità, guardò il figlio David, allucinato per ciò che stava accanendo sotto i suoi occhi, Sam, intimorito e spaventato da quello che gli avevano rivelato, e infine posò gli occhi su Esther: sapeva che la figlia era dell'idea di levare le tende alla svelta, per non rischiare di farsi beccare. Lei, invece, non era il tipo di donna a cui piaceva scappare: preferiva affrontare con astuzia e buona volontà i problemi che le si ponevano di fronte. Ma sapeva anche che non poteva mettere a repentaglio la vita di tutta la sua famiglia, tanto più perché suo marito, David e Sam non erano in grado di difendersi da soli.
«Va bene» mormorò infine. «Aiutateci a scappare».







Ebbene ecco che l'Ordine della Capra è al completo! Vi aspettavate Neville?
Ho anche rivelato il mistero (nemmeno troppo misterioso, in realtà) del titolo: Sam è un Veggente. Uno
vero!, sebbene la McGranitt ci ricordi a pag 94 del III libro che (cito): "La Divinazione è uno dei settori più imprecisi della magia. [...] I veri Veggenti sono molto rari..." ;)
Io la vedo così: veri Veggenti sono coloro che hanno avuto come prima manifestazione della magia una visione; costoro infatti hanno una naturale predisposizione (o sensibilità, chiamatela come volete!) a "vedere con l'occhio", che può essere affinata con lo studio e si può manifestare nello scrutare il cielo, la palla di cristallo e tutte quelle diavolerie lì; i non-Veggenti possono imparare la Divinzione solo se hanno un minimo di predisposizione (se no che senso avrebbe insegnarla a Hogwarts?). Ci sono poi le Profezie vere (quelle dell'Ufficio Misteri), che sono certe e immutabili; anche le altre visioni, in realtà, sono certe (vedi un futuro che non può essere modificato), ma il vero problema è interpretarle correttamente, come dice la McGranitt. Per fare un esempio stupido, il bulletto John avrà sicuramente a che fare con una gabbia, ma potrebbe andare in prigione così come semplicemente andare allo zoo. ^^
Spero di essere stata chiara al riguardo. Se ci fossero dubbi, chiedete pure!
A presto e grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 6
*** Spirito di autoconservazione ***


Spirito di autoconservazione

Quartier Generale dell'Ordine della Capra,
dopo pranzo



Finito il pranzo, Esther si alzò da tavola per cominciare a sparecchiare. Con in mano una pila di piatti sporchi, si diresse verso la cucina, mentre Dennis le teneva la porta aperta per permetterle di passare. L'ambiente era ampio, con un caminetto spazioso e una di quelle vecchie stufe per cucinare del secolo scorso.
«Oh Merlino, un'altra Babbana?» gracchiò una voce ruvida.
Esther per poco non fece cadere i piatti a terra, quando vide chi aveva parlato: era una creatura con due enormi orecchie pelose, una casacca bianca di lino e un medaglione appeso al collo.
L'essere la squadrò con i suoi occhi penetranti e poi mormorò: «Cielo, è proprio Babbana. Mai visto un elfo domestico, dice Kreacher?»
Finalmente Esther si riprese. «Non sono Babbana!» esclamò indignata, riponendo i piatti nel lavabo.
«No? Allora perché non usa la magia, si chiede Kreacher?» replicò l'elfo, arrampicandosi su uno sgabello per arrivare al piano della cucina.
«Perché...» cominciò a dire Esther, ma poi la sua attenzione venne rapita da un foglio di pergamena attaccato all'anta di uno degli armadietti sopra il lavabo. Vi era scritta una frase che recitava: “Anche se combatti contro il Pelatone, ricordati di prepararmi la colazione”.
Kreacher vide dove puntava lo sguardo della ragazza e commentò con un certo disappunto: «L'ha fatto il signorino Dean, per prendere in giro la signorina Minerva. Kreacher ha provato a toglierlo, sì, ma quel disgraziato ci ha scagliato contro un Incantesimo di Adesione Permanente».
Esther si sfregò il naso con aria perplessa. «Pelatone?»
«È il modo in cui chiamiamo Tu-sai-chi» intervenne Lunatica, con aria sognante, usando la bacchetta per far fluttuare una pila di piatti nel lavabo. «Sai, è per via...» spiegò, facendo un gesto con la mano per mimare una testa rasata.
«Lunatica, ma... Pelatone?» ripeté Esther, sempre più scioccata.
«È Luna, se non ti dispiace» chiarì Dean con un tono stranamente severo per lui, entrando in cucina proprio in quel momento.
Esther si sentì un'idiota. Aveva passato anni di scuola a chiamare Luna con quel nomignolo: certe vecchie abitudini sono dure a morire, per quanto offensive.
«Comunque, il suo nome è tabù: se lo pronunci, il Ministero ti rintraccia dovunque tu sia» spiegò Dean, decidendo di soprassedere sul soprannome di Luna. «Chiamarlo Tu-sai-chi lo faceva apparire come una cosa terribile, mentre Pelatone sdrammatizza un po'».
«Certo» annuì Esther, fingendosi completamente d'accordo. «Fantastico».
E con quelle parole se la svignò al più presto da quel covo di matti.
Il professor Vitious aveva detto che le protezioni si estendevano anche per buona parte del parco della villa, così Esther ne approfittò per prendere una boccata d'aria. Era una tipica giornata di novembre, di quelle uggiose e umide, che mettono addosso tristezza e sonnolenza. Il cielo era grigio e monotono, le foglie cadute formavano una patina vischiosa e appiccicaticcia sul terreno bagnato dalla rugiada. Esther se ne stava imbacuccata nel suo cappotto grigio, con le mani in tasca e il volto affondato nella sciarpa di lana, nella speranza di scaldare il naso arrossato per il freddo, quando una voce alle sue spalle la richiamò.
«Ehilà!»
«Paciock» rispose Esther, con poco entusiasmo.
Il ragazzo indossava un cardigan verde scuro, davvero poco elegante, con le maniche arrotolate all'altezza del gomito, nonostante il freddo pungente. Tra le mani, aveva una pianta di orchidea con i fiori talmente candidi che pareva brillassero. Le rivolse un sorriso tranquillo che accese i suoi occhi castani di una luce serena. «Ti va di accompagnarmi alla serra?» le chiese, accennando con il capo all'orchidea.
Esther si strinse nelle spalle e si lasciò condurre da Paciock verso un lato della casa. Vista da fuori, pareva proprio una di quelle ville settecentesche abbandonate: grigia, spoglia, con il giardino incolto e i vetri sporchi. La serra si trovava sul fianco destro, unico segno di vita umana nel parco altrimenti spoglio.
L'interno era stracolmo di piante e vegetali di varia natura che avrebbero fatto invidia anche alle serre di Hogwarts. Esther capì immediatamente perché Paciock avesse indossato solo un maglione: lì dentro c'era un caldo umido davvero pazzesco.
«Attenta a quelle, le foglie sono velenose» la avvertì con tranquillità il ragazzo, indicando alcune piante che si muovevano placide formando curve sinuose.
Esther, per sicurezza, si tenne a debita distanza da qualsiasi vaso dall'aria sospetta.
Paciock si fermò di fronte ad un tavolo che ospitava una ventina di orchidee, alcune delle quali mettevano in bella mostra dei meravigliosi fiori variopinti dall'aspetto esotico. «Sai, curare le piante mi rilassa. Scaccia via i pensieri cupi» confessò il ragazzo, asciugandosi con il dorso della mano una goccia di sudore che gli colava dalla fronte.
Esther, per testardo e sciocco stoicismo, si rifiutò di levare il cappotto nonostante il caldo, anche perché in quella serra non c'era un posto pulito dove appoggiarlo. «Come mai così tante orchidee?» buttò lì, tanto per fare un po' di conversazione.
Paciock le rivolse un sorriso sincero, che si estese anche ai suoi occhi nocciola, illuminandoli di una luce di speranza. «Compro una nuova orchidea ogni volta che riusciamo a salvare delle vite» spiegò, depositando quella bianca che aveva tra le mani sul piano di lavoro, pronta per essere rinvasata.
«Quindi questa...» cominciò a dire Esther, mentre una vaga sensazione di disagio le attanagliava lo stomaco.
«Esatto, l'ho presa perché siamo riusciti a mettere in salvo voi» completò Paciock, appellando un sacco di terriccio per riempire il nuovo vaso. «Sai, nei momenti difficili, mi aiuta guardare queste orchidee: penso a quanta gente abbiamo aiutato e quanta ancora ne possiamo aiutare».
Esther indietreggiò di un passo, scuotendo la testa. Non sapeva dove volesse andare a parare quel discorso, ma non le piaceva per niente sentirsi un'orribile egoista. «Senti Paciock, a Hogwarts io ero una Serpeverde e un motivo c'era» lo avvertì, mettendo una distanza di sicurezza tra lei e il ragazzo.
Lui la guardò con aria stranita, senza capire che cosa volesse dire con quell'affermazione.
«A me... non interessa salvare il mondo, ma soltanto me stessa. E la mia famiglia» chiarì Esther, alzando le mani ben davanti a sé, come se volesse dimostrare di essere disarmata. In realtà, voleva tenere lontano l'opprimente senso di colpa che scaturiva dal buonismo di Paciock e dai suoi modi pacati.
«Non ti sto giudicando, né voglio costringerti a fare qualcosa che non è nelle tue corde» rispose tranquillamente il ragazzo, cominciando a sollevare delicatamente l'orchidea con la spatola per travasarla nel nuovo recipiente.
«È per via di Sam, vero?» esplose Esther, usando la cattiveria come sciocca arma di difesa dal senso di colpa. «A tutti farebbe comodo avere un Veggente nelle proprie file, per sapere in anticipo quello che accadrà!»
Il ragazzo si voltò verso di lei, ma non perse quel suo sorriso tranquillo, nonostante gli insulti che aveva appena ricevuto. «Non voglio Sam, non voglio te, né voglio obbligarti a restare» rispose sempre in tono pacato, voltandosi verso di lei. «Volevo solo mostrarti, a mio modo, quello che facciamo qui, perché tu non ci consideri solo degli sciocchi coraggiosi amanti del rischio».
«Neville, senti...» cominciò a dire Esther, scuotendo la testa.
Perché diavolo l'aveva chiamato Neville? E perché diavolo lui era così vicino, con quei suoi occhi liquidi che emanavano serenità?
L'aria era davvero calda lì dentro. Si soffocava, per la precisione.
Esther si afferrò la sciarpa per allentarla un poco, mentre sentiva le guance bollenti e arrossate. Neville era ancora lì a guardarla, con le maniche del maglione arrotolate sulle braccia e le mani sporche di terriccio. La fissava con uno sguardo sereno, ma Esther si sentì messa a nudo nelle sue più intime certezze.
«Io... devo andare» borbottò alla fine, incapace di sopportare più a lungo quella imbarazzante conversazione. Si fiondò fuori dalla serra e solo quando l'aria gelida le riempì i polmoni si sentì di nuovo calma.
Che cosa le era successo lì dentro? Era sempre stata in grado di difendere le proprie convinzioni, in particolare la sua massima “vivi e lascia vivere”. Era un principio a cui non avrebbe mai rinunciato, soprattutto non per mettere a repentaglio la propria vita per salvare la pellaccia di perfetti sconosciuti. Egoistico da parte sua, ma il mondo non andava certo avanti grazie ad eroiche azioni altruistiche. Ognuno pensava al proprio interesse, per questo si stava così bene.
Fare l'eroe non rientrava proprio nelle sue prospettive. Mero spirito di autoconservazione.
Per questo si era trovata alla perfezione tra i Serpeverde. Non era Purosangue, vero, e non si poteva definire una donna ambiziosa, ma aveva sempre amato essere indipendente da qualsiasi cosa (regole comprese, se intralciavano la sua autonomia) e il suo non scarso acume andava di pari passo con l'assoluto menefreghismo per tutto ciò che le stava intorno. Purché lei fosse lasciata in pace, ovviamente.
Ma Neville aveva messo in discussione tutti i suoi ideali, anche se non direttamente. Era vero, non l'aveva accusata, non l'aveva giudicata, ma il suo sguardo sereno aveva sciolto le sue certezze come neve al sole. Nessuno l'aveva mai fatta vacillare prima.
Che cosa diavolo le stava succedendo?







E con Kreachr l'Ordine della Capra è al completo! Vi avverto, è una vera gabbia di matti... a cominciare dal fatto che chiamano Voldie il Pelatone! ahahahah!
Si è anche scoperto come mai Esther sia una tipa coooooosì altruista: ehi, Serpeverde! XD
Scherzi a parte, lei è uno dei personaggi più difficili da descrivere perché è completamente lontana dal mio modo di vedere; sebbene io mi definisca una Serpeverde (intelligenza, ambizione, testardaggine, orgoglio e... ehi, modestia! ^^), credo di aver ereditato da Tassorosso un alto senso di onore, lealtà e giustizia. Esther, invece, è una Serpeverde dura e pura, alla Malfoy-style, per intenderci: me ne infischio di tutto il resto del mondo purché io (con la mia famiglia) stia bene. Ma presto le sue convinzioni verranno messe in crisi! ;-)
Prossimo capitolo: Diagon Alley e una new entry!
Nel frattempo, QUI un'immagine di Luna, Dean, Esther e Neville! Enjoy! A presto e grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 7
*** Il volto del Ministero ***


Il volto del Ministero

Diagon Alley,
la mattina successiva



Rachel si strinse nel mantello e si calò il cappello a punta sugli occhi, nella speranza che la tesa larga le nascondesse il volto. La gente si affaccendava per le strade di Diagon Alley con una certa fretta, come se restare troppo all'aperto fosse pericoloso; e non c'entrava nulla il tempo che minacciava pioggia.
«Non fare il loro gioco, fingiti disinvolta» le suggerì all'orecchio Dean, che per l'occasione aveva assunto l'aspetto di un rispettabile signore di mezz'età, rubando il capello per la Pozione Polisucco ad un Babbano che abitava nel paese vicino al Quartier Generale dell'Ordine.
Si erano dovuti recare a Diagon Alley perché, a detta di Aberforth, avevano da incontrare un informatore, che avrebbe spifferato qualche notizia sui traffici del Ministero, ovviamente dietro lauto compenso. Ab, Dean e Luna si erano mascherati con un sorso di Pozione Polisucco, mentre lei, che non era una pericolosa ricercata, aveva indossato un abito da strega di Andromeda e si era mimetizzata tra la folla.
Aveva deciso di accompagnarli a Diagon Alley con la scusa di recarsi al Ghirigoro per comprare dei libri sulla Divinazione a Sam. In realtà, aveva bisogno di uscire a prendere un po' d'aria. Aveva sempre odiato restare chiusa in casa, figuriamoci poi se si trattava di una villa abbandonata più che altro simile ad una prigione.
Certo, non si era immaginata che Diagon Alley fosse ridotta a quel modo: negozi chiusi, con le finestre sprangate, squadre di maghi incappucciati che pattugliavano le strade, gente infagottata a terra che chiedeva le elemosina.
Il volto di Neville li scrutava guardingo dai cartelloni con cui erano tappezzate le pareti: sopra il ritratto, capeggiava la scritta “Indesiderabile n° 1”, sotto, le parole “Dead or Alive”, con segnata la ricompensa in galeoni per chi l'avesse catturato. Anche gli altri membri dell'Ordine della Capra erano ricercati e considerati potenzialmente pericolosi.
«Mi fanno sempre questa faccia incagnita» si lamentò Dean, osservando il proprio ritratto sui cartelloni dei ricercati. «Avanti, io sono un tipo sorridente!» commendò, indicando con un dito il suo sorriso a trentadue denti comparso sul volto del signore che stava interpretando.
«Piantala di fare l'idiota» commentò burbero Aberforth, tirandogli un sonoro colpo sulla nuca.
Rachel si lasciò sfuggire un sorriso, ma poi i suoi occhi furono rapiti da un altro tipo di cartellone, posto in alto sopra il palazzo dove aveva sede la Gringott: non si trattava di ricercati, ma del volto sorridente di un mago di bell'aspetto, con dei morbidi riccioli biondi che gli incorniciavano il perfetto profilo del viso. Il belloccio lanciava sguardi ammiccanti ai maghi e streghe che passavano sotto di lui, mentre alle sue spalle lampeggiava la scritta: “Ricordati, il Ministero ti protegge”.
Rachel non lo vedeva da anni, ma non ci voleva molto per riconoscerlo. «Gilderoy Allock» mormorò incredula. Ultimamente si era rivelato uno squallido arrivista, ma Rachel non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato al punto di prestare il suo volto per un governo tirannico.
«Il Ministero ha sempre avuto armi migliori» commentò Dean, con un sospiro, vedendo dove puntava lo sguardo di Rachel. «Il volto accattivante di Allock attira alla causa dei Mangiamorte decisamente più fanciulle di quante potrebbe attirarne il grugno di Ab».
La battuta era buona, ma Rachel non se la sentiva di ridere. Almeno, non vedendo che Gilderoy era sceso a così ignobili compromessi.
«Non è del tutto conscio di farlo, sai?» intervenne Luna, che appariva decisamente meno stravagante nelle vesti di una distinta signora anziana. Eppure, non aveva perso quella sua spiccata sensibilità verso le emozioni e i pensieri degli altri.
Rachel non poté evitare di guardarla con aria interrogativa, così Luna fu costretta a spiegarsi: «Sai, una decina di anni fa fu vittima di un Incantesimo di Memoria, che gli fece tabula rasa completa. Gli uomini del Pelatone lo recuperarono dal Reparto Lungodegenti per Lesioni Permanenti da Incantesimi qualche anno fa, lo indottrinarono per bene e poi sfruttarono la sua naturale predisposizione all'autocelebrazione per usarlo come volto del Ministero».
Rachel fissò ancora per qualche tempo il sorriso seducente di Gilderoy, mentre un peso opprimente le schiacciava il cuore. Dunque, lui non sapeva a chi stava offrendo la propria immagine, o forse, cosa ancora peggiore, era convinto che i suoi sponsor fossero nel giusto. La sorte gli aveva riservato un destino davvero crudele.
Proprio in quel momento, qualcuno si aggrappò alla veste di Rachel e cominciò a baciarle l'orlo. La donna represse un urlo, quando vide che un barbone stava piagnucolando ai suoi piedi.
«La prego, signora, la prego. Mi hanno portato via la bacchetta, mi dia un pezzo di pane... qualcosa, ho fame. La prego, io sono un mago, sono un mago!»
«Non provare mai più a infangare la veste di una Purosangue con il tuo sudiciume, lurido Sanguesporco!» latrò invece Aberforth, facendo un gesto brusco con il piede, come se volesse tirare un calcio al barbone.
Quello mugugnò come un animale ferito e si ritrasse.
Rachel, invece, si voltò allibita verso Aberforth, incapace di accettare la sua reazione. Ma l'uomo le rivolse un occhiolino complice, poi la prese per un gomito e la trascinò lontano, sussurrandole all'orecchio: «In situazioni come queste, la miglior difesa è l'attacco».
In realtà, non riuscirono a fare che pochi passi, perché furono raggiunti da un gruppo di maghi incappucciati che avanzavano verso di loro a passo di marcia. La tensione divenne palpabile. Un paio di streghe si allontanarono in tutta fretta.
«Ehi, qualche problema?» domandò una voce accattivante che proveniva del centro del gruppo. I maghi incappucciati si aprirono a ventaglio, rivelando Gilderoy Allock in persona. «Ho visto che quello straccione vi stava importunando, madame» trillò il mago, facendosi avanti con un sorriso luminoso.
«Nulla... nulla di che» borbottò Rachel, con una frazione di secondo di ritardo. Aveva impiegato un attimo di troppo a realizzare che Gilderoy stava parlando proprio con lei. Certo, doveva per forza essere lei la Purosangue, visti gli abiti raffinati e preziosi che Andromeda le aveva prestato.
«Proprio scocciatori, questi Sanguesporco» commentò Gilderoy, scuotendo la testa con disappunto. «Comunque, non ci siamo già visti da qualche parte, noi?»
Rachel ingoiò un sospiro. No, non era possibile che l'avesse riconosciuta, con trent'anni di separazione e un Incantesimo di Memoria di mezzo. Ci impiegò qualche tempo, ma alla fine rivolse un sorriso tirato al mago. «Non credo, herr Allock. Io ho studiato a Durmstrang e ho vissuto per lungo tempo in Germania» rispose, fingendo un leggero accento tedesco. L'imbroglio era necessario: le famiglie Purosangue non erano poi così tante e probabilmente i loro componenti erano più che conosciuti; fingersi straniera era la mossa migliore.
Gilderoy parve piacevolmente sorpreso dalla notizia. Sorrise, com'era ovvio, poi si infilò una mano sotto il lungo mantello turchese che si intonava al colore dei suoi occhi, alla ricerca di una tasca interna. Ne tirò fuori una piuma piuttosto vistosa e una sua fotografia. «Posso lasciarle un autografo, allora, frau
La cosa sembrava decisamente fuori luogo, ma nessuno pareva far caso all'eccentricità della richiesta. «Certo» fu costretta a rispondere Rachel.
«A nome di chi?»
«Rachel» mormorò la donna, pensando che rivelare il suo vero nome non rischiava di compromettere la sua copertura.
«Rachel?» ripeté Gilderoy e uno strano barlume di coscienza brillò nei suoi occhi azzurri.
La donna trattenne il fiato. L'aveva riconosciuta?
«Bel nome» commentò invece Gilderoy, firmando la foto con un movimento lezioso. La porse a Rachel riservandole un gran sorriso, poi fece un cenno ai suoi uomini perché si muovessero. Prima che il cerchio di guardie si richiudesse intorno a lui, Gilderoy le lanciò un ultimo sguardo. «Si ricordi, frau, il Ministero la protegge». E, con l'ennesimo sorriso, svanì.
Calò il silenzio nel piccolo gruppetto di ribelli. Ci volle una manciata di secondi, perché tutti si riprendessero da quel terribile spavento. Se l'erano vista brutta, quella volta.
«Te la sei cavata bene» si complimentò infine Aberforth, con un cenno del capo. Rachel annuì, più per scacciare l'ansia che per vera risposta.
«Tu lo conoscevi? Il professor Allock, dico» intervenne Luna, guardandola dritta negli occhi.
Rachel rimase sorpresa per quella domanda, ma non aveva senso negare. «Io e Gilderoy abbiamo la stessa età» spiegò, con un sospiro. «Eravamo insieme a Hogwarts, entrambi Corvonero. Lui... era il mio migliore amico» rivelò, anche se la sua voce era sporcata da un velo di amarezza. «Sapete, Gilderoy non aveva grande successo, all'inizio, perché per i primi anni era decisamente cicciotto e imbranato. Non aveva nessun talento particolare, se non quello di saper sempre architettare qualche mascalzonata per sfuggire ai guai».
Rachel si concesse un sorriso nostalgico a quelle parole, poi riprese a narrare: «Ci mettemmo insieme al quarto anno, quando per tutti era ancora “Allock, la Pluffa parlante”. Ma verso i sedici anni si alzò, si smagrì e divenne decisamente un bel ragazzo. Allora, tutti dimentichi di come l'avessero preso in giro per secoli, divenne popolare, perché era bello e sapeva giocare a Quidditch discretamente bene. Lui cominciò ad essere ossessionato dal suo aspetto fisico, consapevole che era stato quello a garantirgli il successo invece del disprezzo.
«Ci lasciammo un anno dopo aver concluso gli studi a Hogwarts, quando lui cominciò a viaggiare per il mondo alla ricerca di avventure da scrivere nei suoi libri. Io sapevo benissimo che erano tutte frottole, perché lo conoscevo bene e, sinceramente, è sempre stato un imbranato. Da allora non l'ho più rivisto, se non sulle copertine dei suoi libri».
Al termine del racconto, tutti si voltarono automaticamente a guardare il grande manifesto che mostrava un sorridente Allock. Rachel, ne approfittò di quel momento di distrazione per infilarsi sotto la giacca la foto autografata di Gilderoy. Non che per lei rappresentasse qualcosa: amava suo marito Joseph, ma... la prima cotta non si scorda mai, ammise con se stessa, mentre un sorriso amaro le si disegnava sulle labbra.
«Buffo» commentò in quel momento Luna, con un sospiro. «Allock mi dava l'impressione di essere una persona che è sempre stata bella» mormorò, come sovrappensiero. «Ma, si sa, le persone cambiano molto a quell'età» concluse poi, e c'era da giurare che il suo commento si riferisse più all'atteggiamento che al fisico.
«Meglio se andiamo, va'» borbottò infine Aberforth, scuotendo il capo. «Mundungus ci aspetta e pare proprio che abbia delle buone notizie, questa volta. O sarà peggio per lui».

Quartier Generale dell'Ordine della Capra,
tardo pomeriggio


David si annoiava a morte. All'inizio, ok, era stato divertente scoprire tutte quelle magie che si potevano fare con la bacchetta, ma non era un bambino di cinque anni che si divertiva con poco. Insomma, era un adolescente, e neanche tanto amante dell'aria aperta. Quel posto non aveva la televisione e, in realtà, non aveva nemmeno la corrente elettrica!
Perciò, dopo aver passato la mattinata a giocare con il Nintendo, questo aveva preso la bella decisione di scaricarsi e fine della storia. Ora, steso su uno dei divani del salotto, si stava decisamente annoiando.
«David, per favore, vai di sopra a chiamare mia moglie?» gli domandò Dennis, perso da qualche parte nella stanza accanto, dove si trovava la libreria.
Il ragazzo mugugnò qualcosa, ma la fortuna lo assistette: vide con la coda dell'occhio sua sorella Esther, che stava accingendosi a salire le scale. «Ehi, Etty, vai a chiamare Abigail per favore?» le urlò dietro.
Il volto contrariato della ragazza sbucò da dietro la porta. «Sei schifosamente pigro» commentò scuotendo la testa con disappunto.
«Ehi, adolescente. Ho il sacrosanto diritto di essere pigro» le rispose il fratello, con un sorriso furbo.
Esther, rassegnata, salì al primo piano dove si trovava la stanza della famiglia Worming. Trovò Abigail che pregava su un inginocchiatoio, lo sguardo fisso ad un quadro, piuttosto brutto e sciupato, di una madonna. Quando si accorse di essere osservata, la donna si voltò verso la porta.
«Scusa, non volevo disturbarti» mormorò Esther, leggermente a disagio. In quella casa vigeva la regola che erano tutti sullo stesso piano, ma lei faceva fatica a dare confidenza agli adulti, tanto più se, come Minerva e Filius, erano stati suoi professori.
Abigail, invece sorrise tranquilla, per nulla turbata dall'interruzione. «Non ti preoccupare, tutto a posto» rispose, terminando con un segno di croce la sua preghiera. «Sai, io sono Babbana. I miei genitori erano Cattolici e mi hanno trasmesso la loro fede» spiegò, accennando con il capo all'inginocchiatoio.
Esther si morse la lingua: voleva fare una domanda, ma non sapeva se... oh, al diavolo! Scosse la testa, poi disse: «Mio padre è ebreo. Il mio popolo ha visto compiersi così tante tragedie, senza che il suo Dio intervenisse. Come puoi credere che esista un Dio, con tutto il male che c'è in questo mondo?»
Abigail non parve per nulla scossa da quella domanda provocatoria. «Come puoi credere che non esista un Dio, con tutti il bene che c'è in questo mondo?» ribaltò la questione, con un sorriso sincero.
Esther rimase turbata: non aveva mai visto la cosa da quella prospettiva e non seppe cosa dire.
Abigail, allora, le mise una mano sulla spalla e sussurrò: «Nei momenti difficili, guarda alla vita, all'amore, alla famiglia. E ricordati che ci sono tante cose belle in questo mondo per cui vale la pena di combattere».
E con quelle profetiche parole, si affrettò a raggiungere il marito al piano di sotto.
Esther ci impiegò parecchio tempo a riprendersi. Ultimamente, tutti si divertivano a mettere in crisi le sue convinzioni, il suo pessimismo e il suo menefreghismo. Se gente come Abigail riusciva ancora a trovare qualcosa di buono nel caotico disastro in cui versava il loro paese, forse allora valeva davvero la pena di combattere per quel bene.
Esther scosse la testa. No, quella guerra di eroi non faceva per lei.
Scese lentamente le scale e si diresse in sala da pranzo, sperando di evitare Abigail e la sua fede genuina. Vi ritrovò Aberforth, seduto a tavola a leggere la Gazzetta del giorno.
«Il giornale è manovrato dal Ministero, che lo leggi a fare?» domandò Esther, in tono scanzonato.
Aberforth si strinse nelle spalle. «È interessante scoprire come il nemico ti vende le notizie» rispose con un certo disinteresse. «Comunque io non entrerei in cucina, fossi in te» aggiunse poco dopo, vedendo la direzione che aveva preso la ragazza.
«Perché?» chiese Esther.
«Perché quei tre si stanno divertendo come pazzi là dentro e Merlino solo sa cosa ci propineranno questa sera a cena» borbottò Aberforth, senza alzare gli occhi dal giornale.
Esther sapeva benissimo che quei tre erano suo padre Joseph, Andromeda e Kreacher. Lui aveva sempre avuto una passione smisurata per la cucina e evidentemente si era convinto di poter insegnare qualche ricetta yiddish all'elfo domestico. La ragazza sbuffò e si lasciò cadere su una sedia di fronte ad Aberforth. Per un po' regnò il silenzio nella grande sala, ma poi gli occhi di Esther si posarono sul quadro della fanciulla sorridente e non poté evitare di chiedere ad Aberfoth chi fosse.
Lui abbassò il giornale e si voltò a guardare la ragazzina. «Lei è Ariana Silente» rivelò infine, con un sospiro. «Mia sorella».
«Sorella?» ripeté Esther, sorpresa. «Vuol dire che tu sei... il fratello del professor Silente!» realizzò la ragazza, dando finalmente un significato a quella impressionante somiglianza tra i due maghi.
«Già, bell'affare» biascicò Aberfoth, in tono burbero.
Esther non era mai stata una persona particolarmente delicata, se ne rendeva conto, ma certe domande andavano fatte. «Che cosa successe ad Ariana?» domandò, guardando il vecchio burbero dritto negli occhi.
Aberforth deglutì, ma alla fine si rassegnò a raccontare quella storia dolorosa. «Lei morì giovane. Da bambina, dei piccoli Babbani la videro fare magie e la aggredirono, quando lei non seppe spiegare cosa avesse fatto. Da quel momento lei cercò di reprimere ogni goccia di magia, ma questa era troppo forte e, ogni tanto, le esplodeva intorno in modo involontario. A parte questi attacchi, però, era una ragazza dolcissima» narrò Aberforth, con un sorriso nostalgico per i dolci ricordi. «Mio padre venne rinchiuso ad Azkaban per aver aggredito e punito i Babbani che avevano attaccato sua figlia e quando anche mia madre morì, mio fratello Albus dovette cominciare a prendersi cura della fragile Ariana. Oh, gli andava stretto questo compito, lui che aveva sempre giocato a fare il giovane genio!
«E poi incontrò quel Grindelwald e insieme si misero a fare gli eroi con grandi sogni di gloria. Quando io gli aprii gli occhi sulla malvagità di Grindelwald, scoppiò il finimondo: ci affrontammo in duello tutti e tre e... Ariana si mise in mezzo...» la voce gli morì in gola e Esther non ebbe difficoltà a capire come fosse andata a finire.
«Non riuscimmo mai a capire chi avesse scagliato l'incantesimo che la uccise» riprese a raccontare Aberforth, in tono dolente. «Stava di fatto che lei era morta e la nostra famiglia distrutta».
«Mi... dispiace» fu l'unica cosa che riuscì a dire Esther, in un sussurro. Non era mai stata brava a consolare la gente.
Aberforth scosse la testa con vigore. «È per lei che combatto, perché nessun innocente debba finire vittima delle manie di dominio dei potenti» decretò con sicurezza. Sembrava che il discorso fosse finito lì, ma poi Aberforth aggiunse: «Ricordati questo, Esther: la maggior parte della gente non combatte per gli ideali di giustizia, pace, virtù e bontà. La maggior parte della gente combatte per vendicare una persona che ama e che ha subito un torto. E questo è il movente più forte che tu possa immaginare».








E nella rassegna dei miei personaggi preferiti, non poteva mancare Gilderoy Allock! Non è un gran simpaticone? Ovvio che non sa quello che sta facendo, né che il governo per il quale ha prestato la faccia è, giusto un tantino, tirannico: gli hanno fatto il lavaggio del cervello! ;)
Quanto al suo passato a Hogwarts, non so se fosse a Corvonero, ma alcuni nel fandom lo mettono in quella casa. Si sa anche che ha giocato a Quidditch (almeno, lui lo dice a Harry), ma per quel che rigarda la sua storia, è tutta invenzione mia! E credo che sia verosimile perché c'è un amico di mio fratello che è un gran bel ragazzo e sono rimasta sconvolta quando mi hanno detto che a 16 anni pesava più di 100 chili... mi è venuto da dire quello che ho messo in bocca a Luna: mi dava prorio l'aria di uno che è sempre stato bello! Invece... lo stesso è accaduto ad Allock: almeno ora ha una buona scusa per essere così ossessionato dal suo aspetto fisico!
Infine, ovvio che non poteva comparire, ma non potevo evitare di almeno citare il mio adorato Geller Grindelwald! Anche perché, tutta la seconda parte del capitolo è un altro sadico modo per mettere in crisi gli ideali della povera Esther!
L'aggiornamento di sabato salta perché sarò a Roma a vedere la partita di rugby Italia/Scozia (sbavvvvv! *-*), ergo, buon San Patrick day a tutti (perché il mio spirito irlandese non muore mai!) e ci vediamo lunedì 19!
Beatrix

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Capitolo 8
*** Sogni di morte ***


Sogni di morte

Quartier Generale dell'Ordine della Capra
qualche giorno dopo, ad una tarda ora notturna



Quella volta non c'era sangue, ma l'aria era impregnata di morte. Sam piangeva e si sentiva schiacciato da un opprimente senso di angoscia. Il ragazzo che lo teneva per mano non aveva i tratti del volto definiti, ma Sam aveva come l'impressione di sapere chi fosse. Era una sensazione.
Trascinava i piedi pesanti come macigni, anche se averebbe voluto scappare, perché tutto intorno a lui l'aria fremeva di pericolo. Era quasi palpabile.
E poi accadeva.
Il lampo di luce verde, che squarciava l'oscurità dell'ambiente.
Il ragazzo che lo teneva per mano si accasciò a terra, in una scena che si era ripetuta tante di quelle volte da risultare quasi banale. Sam sapeva che sarebbe successo: la sua coscienza gli gridava che era un'immagine che aveva già visto, che accadeva ancora, e ancora, e ancora.
Sam si inginocchiò in fianco al corpo senza vita del ragazzo. Sapeva chi era, ne aveva una netta percezione. Prese tra le mani il suo volto prima anonimo e ne riconobbe i tratti che si erano delineati in modo inequivocabile: occhi nocciola spalancati nella fissità della morte, viso paffuto e sereno.
Neville.
Era stato Voldemort a ucciderlo e ora si sentiva la sua risata stridula che riempiva l'aria.
Sam batté i pugni sul petto ormai insensibile di Neville e cercò di strillare, anche se nessun suono uscì dalla sua bocca.
Doveva essere un sogno, per forza. Non poteva essere vero.
Voleva solo svegliarsi, adesso, uscire da quell'incubo. Neville era morto, morto!
Aveva bisogno di aria, non riusciva più a respirare. Si agitò e cominciò a divincolarsi, ma era come se fosse avviluppato in un telo.
Qualcosa di duro lo percosse su tutto il corpo.
Sam aprì gli occhi, ma c'era solo buio intorno a lui e un freddo pavimento di marmo. Ci impiegò parecchio tempo a realizzare dove fosse: furono le parole biascicate nel sonno da Luna e il martellante russare di David a riportarlo alla realtà. Era nel salotto del Quartier Generale ed era sicuramente notte fonda. Doveva essere caduto dalla brandina provvisoria che era stata preparata per lui, a causa dell'incubo che aveva sconvolto il suo riposo.
Neville, aveva sognato Neville morto. Di nuovo.
Era la terza volta che aveva quell'incubo. Ogni sera i particolari di contorno erano diversi, ma la sostanza non cambiava: lui e Neville erano mano nella mano e poi quel raggio verde lo centrava in pieno petto e il ragazzo stramazzava al suolo. Morto.
Era un brutto incubo, certo, ma non si sarebbe preoccupato se non avesse saputo di essere un Veggente. Uno vero, aveva specificato Minerva. E se quel sogno fosse stato profetico, una sorta di anticipazione di quello che doveva accadere?
Non lo conosceva da molto, ma Neville gli era sembrato fin da subito un ragazzo gentile e coraggioso. Era una specie di modello ideale, qualcuno a cui avrebbe voluto assomigliare. E continuare a sognarlo morto non era per nulla piacevole.
Sam si alzò lentamente da terra, stringendosi la coperta di lana addosso, perché di notte faceva parecchio freddo in quella vecchia casa. Procedendo a tentoni, ciabattò fino al divano dove dormiva Esther: pian piano i suoi occhi si abituarono al buio, finché non riuscì a scorgere la sagoma della sorella che si muoveva placidamente nel sonno. Restò immobile a guardarla per parecchi minuti, indeciso se svegliarla o meno. Avrebbe voluto ricevere conforto dai suoi abbracci o dalle sue parole tranquille sussurrate al suo orecchio, ma aveva troppo riguardo e non voleva disturbarla. Prese a guardarla intensamente, nella speranza che si svegliasse da sola, in modo da non sentirsi responsabile, ma Esther si limitò a sbuffare nel sonno.
Alla fine, Sam si arrese e si rassegnò ad andarsene. Strascicò i piedi verso il suo lettino, ma non aveva alcuna voglia di coricarsi di nuovo. I suoi occhi erano gonfi di sonno e le membra spossate, eppure la sola idea di chiuderli e di piombare di nuovo in quell'incubo sulla morte di Neville gli metteva i brividi.
Così, attraversò il buio ingresso e si diresse verso la cucina, nella speranza di darsi una calmata bevendo una bella camomilla. Sua mamma gliela faceva sempre, quando lui aveva degli incubi. Imbacuccato nella sua coperta, si trascinò verso la vecchia stufa per cucinare, ma al buio non sapeva dove mettere le mani. Il problema era che non c'era l'elettricità, lui non sapeva accendere il fuoco e non aveva nemmeno una bacchetta per farsi luce.
Rimase fermo in piedi in mezzo alla cucina, mugugnando tristemente. Non aveva mai avuto particolare paura del buio, ma in quel momento si sentiva parecchio a disagio: non sapeva cosa fare, non poteva farsi luce e non voleva in nessun caso tornare a letto, per paura di ciò che avrebbe visto se si fosse addormentato. Se fosse rimasto lì in piedi, forse avrebbe potuto restare sveglio, nonostante la stanchezza.
Passò parecchio tempo immobile in quella posizione, nella speranza di non dormire. Ma le sue palpebre erano pesanti, il capo ciondolava in avanti. La vecchia pendola della sala da pranzo batté quattro colpi e Sam si ridestò all'improvviso. Doveva stare sveglio, maledizione. Sveglio!
Si pizzicò le braccia e cercò di darsi qualche colpo alle guance, ma dopo pochi minuti la stanchezza ebbe di nuovo la meglio: gli occhi gli si chiusero e Sam piombò a terra addormentato.
Il tonfo della sua caduta non raggiunse le orecchie degli occupanti del salotto, ma c'era qualcun altro che dormiva nella dispensa dietro la cucina.
Kreacher si svegliò di soprassalto quando udì un suono sordo provenire dalla cucina. Mascalzoni, cosa stavano combinando nel suo regno?
Si alzò di malavoglia e andò a controllare cosa fosse successo, lamentandosi sommessamente che un elfo vecchio come lui non aveva più le forze di governare la casa come si deve. Accese il fuoco della stufa con uno schiocco delle dita e per poco non urlò quando vide il fagotto di coperte steso a terra. «Per la purezza del sangue! Il signorino Dean sente Kreacher, questa volta!» sbottò con aria lagnosa. Ma quando si avvicinò al mucchio di coperte, vide una testina spelacchiata che sbucava fuori e notò che il fagotto si alzava e si abbassava al ritmo di un respiro. «Kreacher deve fare anche la bambinaia, adesso. Signorino Samuel, sveglia» borbottò di malumore l'elfo, dando una pacca delicata al bambino per destarlo dal sonno.
«No, Neville no!» esclamò quello, spalancando gli occhi all'improvviso. Aveva sognato di nuovo Neville, ma questa volta era stato svegliato prima di vedere la sua morte. Solo quando riconobbe il volto rugoso di Kreacher, capì di dover essere crollato di sonno mentre era in piedi in cucina. Si mise a sedere per terra e si strinse nella coperta, trattenendo a stento le lacrime.
«Che cosa faceva il signorino?» domandò Kreacher, per una volta meno burbero del solito.
Sam tirò su con il naso. «Io... cercavo di non dormire. Non voglio avere paura» confessò con un mugugno.
«Paura?» gli fece eco Kreacher, in tono apprensivo. «Tutti hanno paura, signorino Samuel. Anche padron Regulus ne aveva, ma il segreto è saperla vincere» spiegò l'elfo domestico, picchiettando con un dito secco e nodoso il medaglione che portava al collo.
Sam si sfregò il naso con la manica del pigiama, poi si avvicinò a Kreacher. «Chi era Regulus?» domandò curioso.
L'elfo domestico sgranò i suoi enormi occhi a palla in un'espressione di pura sorpresa. «Vieni, vieni signorino Samuel, Kreacher ti mostra» esclamò l'elfo, afferrando il polso di Sam per trascinarlo verso il suo giaciglio nel magazzino dietro la cucina, ricavato dentro lo sportello di una vecchia credenza. Frugando tra le sue coperte, Kreacher ne estrasse una vecchia fotografia ingiallita, che mostrava sette giovani, tutti con indosso la stessa divisa verde. «Lì, lì il ragazzo in prima fila, il Cercatore» mormorò Kreacher, passando l'immagine a Sam.
Il bambino per poco non la lasciò cadere a terra, quando vide che le figure si muovevano. Girò la fotografia, come aspettandosi si scoprire i suoi trucchi, poi vi spiaccicò il naso contro per osservare meglio: i ragazzi avevano tutti in mano una scopa e alcuni avevano anche delle mazze. Quello che gli aveva indicato Kreacher era moro e piuttosto magro, ma non si riuscivano a distinguere molto bene i lineamenti.
«Qui si vede meglio» mormorò l'elfo, mettendogli tra le mani un'altra fotografia, inserita in una cornice d'argento che un tempo doveva essere stata preziosa, ma ora era completamente ossidata.
Sam osservò il ritratto del ragazzo e ne ammirò i lineamenti giovanili e delicati, i capelli scuri e lisci che gli incorniciavano il volto e quegli occhi grigi così intesi ma insieme profondamente tristi.
Una targhetta un po' arrugginita recava il nome Regulus Arcturus Black.
«Che cosa gli successe?» domandò Sam, senza distogliere gli occhi dal viso di Regulus.
«Kreacher sa, e racconta sempre la storia di padron Regulus. Lui era un vero eroe» sentenziò l'elfo domestico, rigirandosi tra le mani il medaglione. «Padron Regulus dimostrò il coraggio più grande di tutti: ammise con se stesso di avere sbagliato e rimediò al suo errore, sì, Kreacher lo sa. Padron Regulus è andato incontro alla morte non per far vedere che era buono, per ottenere gloria o gli applausi del pubblico... lui lo fece per sé, per sentirsi a posto dentro» spiegò il vecchio elfo, con gli occhi illuminati dall'entusiasmo. «Kreacher sa, perché Kreacher ha visto. Una morte orribile...»
Il corpicino rachitico della creatura venne attraversato da un brivido. «Kreacher è un bravo elfo, Kreacher ha obbedito al suo padrone... ha scambiato i medaglioni, ha preso quello cattivo del Signore Oscuro, ma padron Regulus è stato trascinato sott'acqua...»
La voce gli morì in gola, ma non ebbe bisogno di continuare il racconto perché Sam riuscì a vedere la scena come se si fosse disegnata davanti ai suoi occhi. L'empatia per il dolore di Kreacher scosse a tal punto il piccolo e inesperto Veggente che gli procurò una visione del passato. Vide il giovane Regulus Black insieme all'elfo Kreacher in un oscuro antro dall'aspetto tetro; li vide salire su una barca e attraversare il lago nero della caverna fino all'isoletta che sorgeva al centro. Il ragazzo bevve una strana pozione che si trovava in un bacile e Sam riuscì a percepire il suo dolore, come se anche lui lo stesse provando sulla sua carne. Pianse e si contorse insieme al giovane Black, partecipe degli stessi affanni. Poi vide Kreacher che sostituiva i medaglioni, mentre Regulus veniva afferrato per le caviglie da delle creature orribili simili a zombie, e spariva inghiottito dalle acque increspate del lago.
Sam cominciò a boccheggiare perché sentiva che gli mancava l'aria e si accasciò a terra piangendo. La visione scomparve all'improvviso e con essa il senso di soffocamento.
«È morto» boccheggiò Sam, come se l'evento fosse appena accaduto.
Kreacher annuì mugugnando. «Ma padron Regulus è stato molto coraggioso: non ha detto a nessuno quello che doveva fare e ha impedito a Kreacher di spiegarlo alla sua famiglia, anche se la signora era così disperata quando padron Regulus morì... ma Kreacher non ha ha detto niente, no, finché non gliel'ha ordinato padron Harry. Allora Kreacher ha raccontato tutto e padron Harry ha distrutto il medaglione cattivo, sì, e ha regalato questo a Kreacher» mormorò l'elfo, picchiettandosi il ciondolo che portava sul petto. «Oh, Kreacher era molto felice per questo regalo, molto felice».
Sam osservò il medaglione che l'elfo portava al collo e non poté trattenersi dal chiedere: «Perché Regulus voleva distruggerlo?»
«Kreacher non lo sa, signorino Samuel. Kreacher è solo un vecchio elfo domestico» rispose, scuotendo la testa.
Sam tornò a guardare la fotografia di Regulus e fu rapito da quei suoi occhi così intensi e profondi. «Era davvero coraggioso» mormorò infine, con un sospiro.
«Padron Regulus era buono con Kreacher e Kreacher può dire che era molto più che coraggioso» asserì l'elfo, rigirandosi il medaglione tra le mani. «Padron Regulus voleva bene alla sua famiglia e li ha protetti. Non ha detto niente, si è sacrificato per loro e li ha salvati tutti».
Sam capì immediatamente che avrebbe voluto essere impavido come Regulus Black. Lui aveva taciuto sulle sue vere intenzioni per proteggere gli altri, eppure aveva compiuto il suo estremo atto di coraggio, senza ricerca di gloria.
Sam ripensò al suo sogno su Neville: aveva letto sul libro “I rudimenti della Divinazione”, quello che gli aveva comprato la mamma a Diagon Alley, che il futuro non poteva essere cambiato. Le profezie, così come le visioni dei Veggenti, mostravano un futuro che in un modo o nell'altro doveva avverarsi. Ma se Sam non poteva salvare Neville, poteva sempre cercare di cambiare gli elementi della cornice del suo sogno. L'unico fattore costante, oltre alla morte del ragazzo, era la sua presenza.
Lui era un elemento essenziale della sua visione.
Lui, se se ne fosse andato, avrebbe cambiato le condizioni della profezia. Era semplice. Se lui non c'era, Neville non moriva.
Sam fissò per un'ultima volta gli occhi di Regulus e gli sembrò quasi che il ragazzo rispondesse al suo sguardo.
Sì, avrebbe dovuto essere coraggioso come lui.
Si sarebbe dovuto sacrificare, come Regulus Arcturus Black.








Questo capitolo è dedicato a Julia Weasley! *-*
Ovvio che il tanto adorato Regulus non poteva comparire da vivo, ma un tributo in suo onore era più che necessario... e chi meglio di Kreacher poteva farlo? Rivolto a qualcuno che saprà sfruttare in pieno il suo messaggio: Sam il Veggente.
Povero, gli incubi e le inquietudini del piccolo Sammy stanno diventanto pressanti. Spero che vi sia piaciuto il modo in cui li ho rappresentati.
Prossimo capitolo, punto di svolta nella vicenda! A dopodomani!
Beatrix

ps. lo so che non vi interessa, ma l'Italia ha vinto contro la Scozia alla partita di rugby di sabato! yeeeeeeeeh!

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Capitolo 9
*** Il sacrificio ***


Il sacrificio

Quartier Generale dell'Ordine della Capra
il giorno successivo, dopo pranzo



Sam si era fatto regalare da Kreacher una vecchia foto di Regulus e l'aveva messa nella tasca dei jeans, dove teneva le cose importanti: il sasso a forma di cuore che una volta Esther aveva trovato sulla spiaggia e la macchinina blu che suo padre gli aveva regalato per il compleanno.
Aveva passato tutta la mattina a meditare sulla sua decisione: sinceramente, Neville era un ragazzo gentile, ma lo conosceva solo da tre giorni. Perché diavolo avrebbe dovuto sacrificarsi per lui?
Eppure aveva come l'impressione che quella fosse la cosa giusta da fare. Dopotutto, la sua presenza metteva in pericolo non solo la vita di Neville, ma anche quella di tutta la sua famiglia. Era stata colpa sua se gli uomini del Pelatone li avevano rintracciati ed erano stati costretti a fuggire. Era potenzialmente dannoso per chiunque entrasse in contatto con lui. Non aveva alternative, se ne doveva andare.
La spinta decisiva gliela diede l'ennesima visione che ebbe quel pomeriggio, subito dopo pranzo. Se ne stava tranquillo in cucina insieme a Dean, a sgranocchiare i biscotti preparati da Kreacher, quando Neville entrò nella stanza. Sam sgranò gli occhi e inghiottì un urlo, quando vide che il ragazzo aveva le mani completamente ricoperte di sangue. Si alzò di scatto dalla sedia, terrorizzato, e scappò fuori dalla cucina.
«Che diavolo gli è preso?» domandò Neville, colto di sorpresa.
«Che ne so» rispose Dean, stingendosi nelle spalle. «Tu, piuttosto, che hai fatto alle mani?»
Neville si lasciò sfuggire un sorriso. «Mi è esploso un bulbo di Pizzallora tra le dita e mi sono ricoperto del suo pus rossastro» spiegò con un sospiro, avvicinandosi al lavandino per sciacquare via il puzzolente secreto della pianta.
Sam, nel frattempo, aveva raggiunto il salotto, per recuperare il suo zainetto. Esther, sua madre, Filius, Minerva, Ab, Luna e Dennis erano sul retro del giardino ad esercitarsi negli incantesimi. Aberforth aveva detto che Esther e Rachel avrebbero dovuto imparare a difendersi, almeno nelle fratture base, se qualcosa fosse andato storto nel loro piano per fuggire in Francia. Quanto al fratello David e a suo padre, dovevano essere da qualche parte in giardino a giocare a calcio, l'unica passione che li accomunava. Dean e Neville erano in cucina, Percy come al solito chiuso in camera sua, Andromeda stava dando lezioni di piano ad Abigail e dei piccoli Ted o William non doveva affatto preoccuparsi.
Era il momento migliore per svignarsela senza dare nell'occhio.
Indossò il suo giubbotto, infilò lo zainetto sulle spalle e calò la cuffia con il pompon sulla testa. Pronto per partire. Attraversò il giardino a passo di marcia, come se stesse per andare incontro ad un duello epico come quelli dei film western. Quando ormai aveva raggiunto il misero cancellino divelto dai cardini che segnava il confine della proprietà, sentì la voce di Esther che lo chiamava, ma decise di ignorarla: non voleva essere fermato, non questa volta.
«Samuel, torna immediatam...»
Non appena il bambino scavalcò il cancello, la voce di Esther scomparve. Sam si voltò, ma la vecchia villa abbandonata era sparita: al suo posto, lo stesso prato desolato e brullo che circondava la casa. Sam fece qualche passo indietro, ma del Quartier Generale non c'era più traccia. Era come se non fosse mai esistito.
«Ops...» mormorò Sam, ben consapevole che non c'era più modo di ritornare sui propri passi. Voltò nuovamente le spalle al luogo dove si sarebbe dovuta trovare la villa e riprese il suo cammino.
«Samuel, sei impazzito?» strillò Esther, comparendo all'improvviso dietro di lui. «Dove pensi di andare?»
«Non ti impicciare, Etty» replicò Sam, senza nemmeno voltarsi.
Esther allora lo afferrò per il braccio e lo strattonò per costringerlo a fermarsi. «Mi impiccio eccome! Che diavolo ti è saltato in mente?» gli gridò contro, facendolo voltare verso di sé.
«Tu non puoi capire!» strillò in risposta Sam. «Io devo andare!»
«Tu non vai da nessuna parte» ordinò Esther in tono perentorio. Sam notò che con la bacchetta in mano aveva un'aria decisamente più minacciosa del solito.
«Siamo anche bloccati fuori. Dobbiamo aspettare Ab che venga a prenderci» sbottò la ragazza, accennando al paesaggio desolato alle loro spalle. Sembravano persi nel nulla.
Sam scosse vigorosamente la testa. «No, io non posso tornare» replicò, con maggiore convinzione.
«Sammy, ti prego...»
«No!» gridò il bambino, liberandosi con uno strattone dalla presa della sorella. Proprio in quel momento, fu assalito da un'altra visione. Ormai aveva capito che dipendevano dai suoi stati d'animo, ma non era ancora in grado di controllarle. Vide di nuovo la scena della morte di Neville, ma quella volta era tutto estremamente dettagliato: si trovavano in un antico castello, con preziosi tappeti sui pavimenti di marmo. Correvano, stavano scappando da qualcosa, poi una terribile figura intralciava il loro cammino... quel lampo verde e Neville che stramazzava a terra.
La visione si interruppe bruscamente e Sam realizzò si essere accasciato sul prato, con il volto rigato di lacrime.
Esther si inginocchiò al suo fianco e lo strinse in un abbraccio, nel tentativo di calmarlo. «Ci sono qui io, Sammy» gli sussurrò all'orecchio, cullandolo nella sua stretta materna. Andava tutto bene. Sam si era lasciato prendere dal panico, com'era normale. Ma, ora, avrebbero aspettato Aberforth e sarebbero tornati al più presto nel perimetro della villa, al sicuro.
Fu in quel momento che arrivarono. Si materializzarono intorno a loro, comparendo dal nulla. Li circondarono.
Mangiamorte.
E lord Voldemort in persona.
Esther ne aveva tanto sentito parlare, se l'era immaginato spesso dalle descrizioni, ma non aveva mai pensato che potesse essere così terrificante, con quella pelle bianca tirata sugli zigomi, il naso da rettile e quegli occhi rossi che sembravano cerchi dell'inferno. Non era rimasto più nulla di umano in lui.
La ragazza si alzò di scatto da terra, la bacchetta levata davanti a sé. Ma chi voleva prendere in giro? Aveva di fronte il più grande mago di tutti i tempi, che sarebbe stato in grado di ucciderla tanto rapidamente da non avere nemmeno il tempo di accorgersene.
Lord Voldemort, infatti, scoppiò a ridere, una risata acuta e squillante che provocò a Esther un brivido ghiacciato sulla schiena. «Sei patetica, ragazzina. Spostati, non voglio te» le intimò con la sua voce simile al sibilo di un serpente.
«Non avrai mio fratello» replicò Esther. Avrebbe voluto dare un tono sicuro e spavaldo alle sue parole, ma non le uscì altro che un sussurro. Non riusciva nemmeno a controllare il tremore della mano che reggeva la bacchetta. Il mago oscuro aveva ragione, era patetica.
«Oh, il Veggente è tuo fratello?» si informò lord Voldemort, con un tono che voleva essere cordiale. Ma bastava guardare i suo occhi per sentire la morte addosso. Il mago sorrise. «Aspettavo da giorni che la sua magia si manifestasse di nuovo. Sai, per rintracciarlo».
Rintracciarlo. Certo, non aveva usato a caso quel termine: Sam era minorenne, quindi aveva addosso la Traccia. Era bastato uscire dal perimetro di protezione della villa perché le sue visioni venissero registrate dagli apparecchi del Ministero.
«Ora, ragazzino, vieni da me e risparmierò tua sorella» ordinò lord Voldemort, allungando la sua mano ossuta e biancastra verso Sam.
«Sammy, non lo ascoltare!» gridò Esther, questa volta con maggiore determinazione.
«Vieni da me, Sammy» ripeté il Signore Oscuro, in un tono di voce melodioso. Sembrava ipnotico.
Sam si alzò lentamente da terra. Era terrorizzato, certo, ma non voleva che accadesse qualcosa di male alla sua sorellona. Dopotutto, era colpa sua quello che era successo: aveva cercato di salvare Neville e invece aveva trascinato con sé nel baratro Esther. Lo sapeva, lo sapeva di non essere altro che un pericolo per le persone che amava. Fece un passo incerto verso il mago oscuro e vide che un sorriso di vittoria si disegnava sul suo volto incavato.
«Bravo, Sammy, così» lo incitò, mentre una folle luce di bramosia illuminava i suoi occhi come tizzoni ardenti.
«Sam, no!» gridò invece Esther, cercando di fermarlo.
Ma lui, ormai, era arrivato di fronte al Signore Oscuro. Allungò incerto la mano verso di lui e poi le loro dita si sfiorarono. Quelle di lord Voldemort erano fredde come delle sottili stalattiti.
Il Signore Oscuro sorrise. Alzò gli occhi sulla ragazza, uno sguardo di sprezzante vittoria. «Uccidetela» sibilò. E poi strattonò il giovane Veggente verso di sé e si smaterializzò.
«Nooo!» gridò Esther, lanciandosi in avanti, in direzione del punto in cui, fino a poco fa, si trovavano suo fratello e lord Voldemort.
Uno dei Mangiamorte puntò la sua bacchetta contro la ragazza, per eseguire gli ordini del suo Signore, ma qualcosa si frappose sulla sua traiettoria. Anzi, qualcuno: Neville Paciock.
Improvvisamente comparvero altri membri dell'Ordine della Capra, tutti con le bacchette levate, pronti a battersi. Scoppiò una veloce scaramuccia, ma i Mangiamorte capirono subito di essere in netta minoranza e presero la saggia decisione di abbandonare il combattimento.
«Sammy, no!» strillò Esther, quando delle braccia la strinsero da dietro per impedirle di scagliarsi contro i Mangiamorte, che si stavano smaterializzando. Erano quelle di Neville, le riconobbe dal maglione di pessimo gusto e dalle mani sporche di terra.
«Esther, è meglio se rientriamo» le sussurrò all'orecchio la voce calda di lui.
«Nooo!» gridò la ragazza, come un animale ferito, scoppiando a piangere per la disperazione.
Si erano portati via il suo Sammy, il suo fratellino!
«Non possiamo fare più nulla qui» mormorò Neville, quando anche l'ultimo Mangiamorte se ne fu andato.
Una raffica di vento investì la landa desolata, sputando in faccia a Esther le prime gocce di pioggia di un prossimo temporale.
«Torniamo dentro» sussurrò infine Neville, senza lasciare la presa intorno alla vita di Esther, per evitare di vederla accasciarsi a terra ai suoi piedi.
E i superstiti membri dell'Ordine della Capra ritornarono nel sicuro perimetro della villa.

Malfoy Manor,
quella sera

L'altera donna si era offerta di prendersi cura dei prigionieri solo perché ce n'era uno che le interessava particolarmente: suo figlio.
Malfoy Manor non aveva mai avuto delle celle, ma il Signore Oscuro aveva fatto alcuni cambiamenti da quando aveva eletto il luogo come sua dimora personale. I criminali maggiori venivano sbattuti ad Azkaban, ovviamente, ma quelle segrete erano comode per punire Mangiamorte inadempienti o per tenere vicini a sé prigionieri di cui il Signore Oscuro aveva bisogno frequentemente. Erano state sistemate nei sotterranei, sorvegliate giorno e notte da solerti Mangiamorte di basso livello.
«Prego, signora Malfoy» biascicò uno, aprendole la porta che conduceva al corridoio dove si trovavano le celle.
La donna entrò con il mento sollevato e lo sguardo altero. Sapeva che i Malfoy erano caduti in disgrazia, che gli altri Mangiamorte ridevano alle sue spalle e qualche volta anche davanti a lei, ma non aveva alcuna intenzione di abbassare gli occhi. Soprattutto non in casa sua.
Aprì la porta della prima cella con la bacchetta, per portare la cena al nuovo prigioniero. Rannicchiato sul fondo, stava un fagottino smunto e tremante. Cielo, ma è solo un bambino! pensò Narcissa, con un sospiro. Era proprio brutto, povero, con la testa spelacchiata, delle strane macchie bianche sulle mani e gli occhi cerulei spalancati. Erano arrossati, doveva aver pianto.
«Ti ho portato la cena» mormorò con un debole sorriso, tirando fuori il suo lato materno. Non sapeva chi fosse, né cosa avesse fatto al Signore Oscuro per meritarsi quella punizione, ma le faceva comunque pena.
Il bambino tirò su con il naso, reprimendo un singhiozzo. «È vostro figlio?» domandò poi, in modo del tutto inaspettato.
«Chi?» chiese Narcissa, allarmata.
Il bambino poggiò una mano sulla parete umida della segreta e la guardò come se potesse vederci attraverso. «Il ragazzo nella cella qui a fianco».
«Come fai a saperlo?» esclamò la donna, spaventata. Che fosse un trucco del Signore Oscuro per farle ammettere colpe inconfessabili?
«L'ho visto» rivelò il bambino, con un debole sorriso. «È biondo e ha i vostri stessi occhi. Siete una Black, non è vero?» si informò Sam, ricordandosi della foto di Regulus e dei suoi occhi grigi così intensi, che assomigliavano in modo impressionante a quelli della donna che aveva davanti e del figlio rinchiuso nella cella a fianco della sua. La strega, tuttavia, restò in silenzio, troppo preoccupata di capire come il prigioniero potesse sapere tante cose di lei per essere in grado di rispondere.
Sam, però, non si arrese. «E poi, perché una strega Purosangue dovrebbe abbassarsi a fare la carceriera, se non per venire a trovare suo figlio?»
Narcissa appoggiò a terra il vassoio e retrocedette di un passo, decisamente spaventata. Quel bambino aveva qualcosa di inquietante nello sguardo e i suoi modi tranquilli stridevano con l'umida cella in cui era rinchiuso.
Sam strisciò lentamente verso la sua cena, affamato come non lo era mai stato in vita sua. Addentò con foga un boccone di pane, come una bestia rabbiosa. La donna era ancora ferma in piedi a commiserare le sue penose sventure e fu allora che Sam capì che era arrivato il momento di giocare il suo asso nella manica. «Lui morirà, lo sa vero?» chiese con perfetta innocenza.
«Cosa?» esclamò Narcissa, incredula, gli occhi grigi sbarrati per il terrore. «Come... tu come fai a saperlo?»
Sam si strinse nelle spalle con disinvoltura. «Sono un Veggente» rispose, bevendo un sorso dalla brocca dell'acqua che gli avevano portato e che sapeva vagamente di ruggine.
«Un vero Veggente?» sussurrò Narcissa, cercando di trattenere le lacrime.
Sam non si fece troppe domande sul contenuto acquoso del suo piatto, nel quale galleggiavano strani pezzi di verdure cotte, e prese a mangiare con ferocia. Lasciò la domanda della donna in sospeso per una manciata di secondi, non solo perché aveva troppa fame per pensare a rispondere, ma soprattutto perché voleva accrescere il senso di tensione.
«Sì» mormorò infine, quando ebbe concluso la sua razione di minestra. «Uno vero. È per questo che il Pelatone mi ha catturato e mi tiene rinchiuso qui».
Una singola lacrima attraversò il volto stanco di Narcissa. Era sempre stata una donna forte, ma nessuna madre poteva reggere al dolore portato da una notizia del genere. «Quando accadrà?»
«Presto, molto presto» rivelò Sam, in tono grave.
Un sospiro scivolò fuori dalla bocca di Narcissa, debole come la brezza del mattino, profondo e intenso come il suo dolore.
«Ma... io ho visto anche un'altra cosa» annunciò il bambino, dopo una pausa di silenzio. Il suo tono di voce sembrava studiato apposta per ridare speranza alla strega. «Vi ho visto insieme ad una giovane donna mora. Vi ho viste andare all'Ordine della Capra a chiedere aiuto».
Narcissa arretrò ancora di un passo, atterrita. Per suo figlio Draco avrebbe fatto qualsiasi cosa, ma... tradire? E se l'avessero scoperta? E se quello fosse solo un teatrino messo in scena dal Signore Oscuro per testare la sua fedeltà?
«Io... è impossibile. Ti sbagli! Io accetto gli ordini del Signore Oscuro, gli sono fedele» mormorò a fatica, cercando di dare alla sua voce tremula un tono fermo e sicuro.
Sam le rivolse un sorriso sereno. «Non sono una spia, fidatevi di me» le sussurrò. In realtà, non era stato del tutto sincero con lei: sì, aveva visto il ragazzo biondo e aveva visto le due donne che si recavano al Quartier Generale, ma non aveva avuto alcuna visione sulla morte del figlio. Ma aveva capito che, se il futuro non poteva essere cambiato, ciò che vedeva si doveva realizzare in qualche modo; e lui doveva esserne l'artefice, trovando tutto da solo il modo di convincere la signora bionda a compiere il suo destino.
«Io voglio solo aiutarvi» mormorò infine Sam, fissandola con uno sguardo intenso.
Narcissa osservò per un attimo quegli occhi cerulei, infine si lasciò sfuggire un sospiro. E, chissà perché, decise di fidarsi.









Vi avevo promesso un punto di svolta, no?
Altro che punto di svolta, qui cominciano i guai! Per fortuna che Sam è un tipo sveglio, e sa come sfruttare le situazioni sfavorevoli a proprio vantaggio. Il tradimento di Narcissa... be', avviene anche nella realtà (ricrodo che Narcissa mente a Voldemort dicendo che Harry è morto pur di salvare il figlio!), quindi perché non fare leva di nuovo sull'amore materno della cara Black?
E chi sarà la donna mora che accompagna Narcissa?
Surprise!
Prossimo capitolo: vediamo se almeno questo riesce a smuovere quell'egoista di Esther! ;)
Alla prossima,
Beatrix

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Capitolo 10
*** Cambio di rotta ***


Cambio di rotta

Quartier Generale dell'Ordine della Capra
la stessa sera



Esther se ne stava rannicchiata su una sedia, avvolta nella stessa coperta di lana che aveva utilizzato Sam per dormire, in quelle ultime notti. Non curante del freddo, aveva appoggiato i piedi nudi sulla balaustra di marmo del balcone al primo piano. Li sentiva leggermente intorpiditi, in effetti, ma nulla era in confronto al gelo che sentiva all'altezza del cuore.
Il temporale era passato, lasciando il cielo limpido e freddo nel cupo blu della notte. Una manciata di timide stelle riempiva la volta celeste, come se un gigante si fosse divertito a spargerle su quel mare di oscurità. Esther le contemplava e pensava che non le erano mai parse così belle e così tristi.
«Ehi...» sussurrò Neville, appena uscito sul balcone. Si avvicinò a lei, poi agitò la bacchetta in aria per far comparire una sedia e prese posto al suo fianco. «Come stai?» si azzardò a chiederle, guardandola di sottecchi.
Esther si strinse nella coperta, scossa da un brivido di freddo. «Le stelle non si vedono così bene a Londra» mormorò, eludendo la domanda dell'altro. «Erano anni che non le ammiravo così» aggiunse poi, con un sospiro.
«Qui sono sempre bellissime» asserì Neville, concedendosi un veloce sguardo al cielo notturno.
«Ti ricordi quelle della Sala Grande di Hogwarts?» chiese allora Esther, con un sorriso nostalgico.
Neville si limitò ad annuire. Non sembrava eccessivamente interessato a guardare le stelle, in realtà: i suoi occhi indugiavano su Esther, pieni di apprensione. Ci impiegò parecchi minuti a decidersi, ma alla fine trovò il coraggio necessario e poggiò delicatamente la mano sul ginocchio di lei.
Esther si voltò a guardarlo, distogliendo lo sguardo dal cielo puntellato di stelle luminose. Assurdo come il blu della notte si rispecchiasse negli occhi limpidi e sereni di Neville. Esther non riuscì a sopportare più a lungo la vista del suo sorriso tranquillo, così riprese a guardare il cielo.
«Che cosa avresti fatto tu, se non ci fosse stata questa guerra, se non fossi stato obbligato a combattere?» chiese Esther.
Neville emise uno sbuffo divertito, sapendo perfettamente che quella prospettiva era pressoché irrealizzabile. «Be'... mi sarebbe piaciuto aprire un vivaio. Sai, curare le piante, crescerle e poi venderle» rispose con un sorriso.
Per un po' regnò il silenzio, interrotto solo dal verso di qualche animale notturno che sfidava il gelo di novembre.
Alla fine, Esther si voltò a guardare Neville. «Tu per chi combatti?» buttò lì, di getto.
Neville rimase un attimo perplesso. «Come, scusa?»
Esther sorrise, rendendosi conto di aver fatto un'uscita davvero assurda. «Ab mi ha detto che tutti combattono per qualcuno» spiegò, nel tentativo di essere più chiara. «Per vendicare qualcuno» aggiunse poi, sottovoce. Forse stava solo farneticando. Dopotutto, parlava a un Grifondoro e si sapeva che quelli combattevano da sempre per i grandi ideali. Erano gli eroi, in fondo.
Ma quando tornò a guardare Neville, lui stava sorridendo. «Ab è più saggio di quanto non si creda: sembra che lui ami solo le sue capre, ma conosce molto bene anche l'animo dell'uomo» le rivelò, con una strizzata d'occhio. «O forse ama le capre proprio perché sa com'è fatto l'uomo» concesse poi, strappando un sorriso anche a Esther.
«Comunque...» riprese Neville, dopo un attimo di silenzio. «Io combatto per i miei genitori» ammise, con un sorriso amaro.
«Che cosa successe loro?» domandò di getto Esther, per poi maledirsi a causa della sua meschina sfacciataggine.
Per una frazione di secondo sembrò che Neville non volesse rispondere, poi lui sospirò e prese a raccontare: «Erano due Auror che combattevano contro il Pelatone, all'epoca della Prima Guerra. Quando lui perse tutti i suoi poteri, alcuni Mangiamorte vennero dai miei genitori, convinti che sapessero dove fosse il loro padrone. Li... torturarono».
Neville si interruppe e deglutì, cercando di respingere indietro il nodo che gli si era formato in gola. Erano passati anni, ma tutte le volte gli faceva male come se fosse accaduto solo ieri.
«Bellatrix Lestrange li torturò per ottenere le informazioni che credeva possedessero. Li torturò fino a...» Il ragazzo si interruppe di nuovo, ma quando sentì la mano di Esther che stringeva la sua, da sotto la coperta in cui era avvolta, ritrovò il coraggio per continuare: «Li torturò fino a farli uscire di senno. Per questo io sono cresciuto con mia nonna Augusta, mentre i miei genitori erano ricoverati nel Reparto Lungodegenti per Lesioni Permanenti da Incantesimi, al San Mugo».
Esther si sentì stingere il cuore a quel racconto. Era strano, perché non aveva mai avuto grandi doti di empatia: di solito, poco le importava delle disgrazie altrui. Ma questa volta era diverso: sentiva il dolore di Neville come se fosse il suo e percepiva lo strazio della sua anima lacerata, che avrebbe voluto sanare in qualche modo.
Neville riprese il racconto, anche se ora il suo tono era più duro e aspro: «Tre anni fa, quando il Ministero decise di sopprimere definitivamente reparto dove erano ricoverati i miei genitori, considerato solo uno spreco di risorse, i pazienti inutili vennero eliminati. Come bestie».
Lo sputò, quasi, con rabbia e rancore. I suoi occhi di solito sereni furono attraversati da un lampo di furore e minuscole rughe comparvero sulla fronte aggrottata.
«Neville» sussurrò Esther, in tono afflitto.
La voce della ragazza ebbe il potere di farlo ritornare calmo.
Sorrise perfino, con amarezza. «Uccisero tutti i pazienti, ad esclusione di quelli che potevano sfruttare in qualche modo, come Gilderoy Allock» riprese a raccontare. «Mia nonna cercò di opporsi e procurò parecchi guai al Ministero, ma alla fine la presero e le riservarono lo stesso trattamento dei pazienti che aveva cercato di difendere con tanto coraggio».
Esther fece sgusciare fuori dalla coperta l'altra mano e afferrò quella di lui poggiata sul suo ginocchio. Non sapeva consolare la gente, ma quel gesto le era venuto spontaneo.
«È per loro che combatto, Esther. Per i miei genitori e mia nonna» rivelò Neville, con un tono straziante. «Voglio che siano orgogliosi di me, di quello che faccio, perché nessun altro debba subire ciò che hanno subito loro».
Una sola, singola lacrima attraversò il volto di Neville, che in quel momento era più infantile che mai: pareva semplicemente un bambino che attendeva l'approvazione dei genitori.
Esther si sentì lacerata dal suo dolore. Gli occhi le si inumidirono e sentì uno spiacevole peso all'altezza del cuore. Allungò la mano che era riemersa dal fagotto di coperte e gli asciugò la lacrima con una carezza delicata.
«Oh, Neville, io sono sicura che sarebbero molto orgogliosi di te» gli sussurrò, con un sorriso che voleva essere rincuorante.
Neville annuì e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, le ciglia erano imperlate di minuscole goccioline di lacrime. Sorrise, nuovamente sereno.
Esther lasciò cadere la mano in grembo a lui e distolse lo sguardo. «Credi che... io potrei combattere per Sam?» domandò alla fine, con un sospiro. Dopodiché tornò a guardare Neville e aggiunse: «Non ho mai combattuto per niente, io. Non mi piace fare l'eroe».
«Combattere per gli altri è una motivazione molto potente» le rispose Neville.
«Lo so» sospirò Esther, affranta. «Ma io... non so se ce la faccio» confessò, con la voce rotta dalle lacrime, distogliendo lo sguardo da lui per non far vedere che stava piangendo. «Ho paura, dannatamente paura».
Neville strinse più forte la presa sulla mano di lei, quella che ancora stava avvolta dalla coperta. «È normale avere paura, tutti ce l'hanno».
«Non voi».
«Io ho paura tutti i giorni» le rivelò Neville, con un sorriso bonario. «Essere coraggiosi non significa non avere paura, ma trovare un motivo per combattere che sia più forte della paura stessa. E Sam è un ottimo motivo».
Esther tornò a guardare Neville, ormai arresa alle lacrime che le attraversavano il volto. «Io non voglio lasciarlo nelle mani dei Mangiamorte!» esclamò, terrorizzata alla sola idea di quello che avrebbero potuto fargli.
«Non ce lo lasceremo» la rassicurò Neville, in tono deciso. «Ti prometto che faremo tutto ciò che è in nostro potere per salvarlo».
Esther annuì con gratitudine. Poi chiuse gli occhi e quando li riaprì aveva scovato dentro di sé una determinazione che non credeva di possedere. «Non sarete soli» decretò con sicurezza. «Combatterò anche io».
«Combatteremo insieme» le assicurò Neville, con un sorriso.
Esther guardò Neville e si perse nei suoi occhi caldi e sereni. Santo cielo, non aveva mai notato come fossero luminosi quando sorrideva.
È Neville Paciock! gridò una voce nella sua testa. Lo sfigato Grifondoro che gioca a fare l'eroe!
Oh, al diavolo!

Esther si sporse in avanti e lo baciò.
L'ebrezza di quel gesto durò un secondo, poi Esther realizzò quello che stava facendo e si separò di botto, imbarazzata.
Neville sgranò gli occhi, decisamente sconvolto. «E questo?»
«Scusami» borbottò Esther, dandosi ripetutamente dell'idiota e ritraendosi nel suo baco di stoffa, come una lumachina.
Ma prima che potesse rintanarsi completamente sotto la coperta, Neville le sfiorò con delicatezza una guancia.
Esther si voltò verso di lui con il cuore che batteva all'impazzata nel petto.
Sorrideva.
Anche Esther sorrise e abbassò gli occhi, imbarazzata.
Idiota! si disse.
Poi alzò gli occhi e lo baciò di nuovo. Ma questa volta Neville rispose al bacio.









Ehilà, non sono scomparsa, eh! Ho solo in ballo 7 giorni di studio matto e disperatissimo post-partita-di-rugby, pre-esame-di-italiano!
Mi scuso anche per l'imperdonabile ritardo nel rispondere alle recensioni, ma da martedì 27 prometto di essere super attiva e recuperare tutto!
Comunque, Esther finalmente si è decisa: dopotutto, come diceva anche Ab, combattere per qualcuno è il movente più forte, no?
Nel capitolo di domenica: Narcissa e la donna misteriosa metteranno in atto il loro tradimento!
Grazie a tutti, a presto
Beatrix

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Capitolo 11
*** Il tradimento di una madre ***


Il tradimento di una madre

Quartier Generale dell'Ordine della Capra
la mattina successiva



Rachel preferiva starsene fuori al freddo, immersa nella nebbiolina mattutina che avvolgeva la brughiera, piuttosto che sopportare ancora quegli sguardi addolorati e compassionevoli che le riservavano gli altri membri dell'Ordine.
Tra le mani, aveva quella stupida fotografia autografata che Gilderoy le aveva regalato qualche giorno fa. All'epoca (e le sembrava fossero passati anni da allora) le aveva fatto piacere rievocare quell'episodio della sua giovinezza, perché le aveva ricordato in un certo modo i tempi in cui la magia era stata parte della sua vita e tutto le sembrava più vivo. Che sciocca illusa, che era stata!
Ciò che era passato apparteneva al passato, e là doveva restare. Non aveva senso cercare di ritornare giovane attraverso la rievocazione dei bei tempi andati. Ora aveva una famiglia a cui badare, una famiglia che aveva bisogno di lei.
Sammy aveva bisogno di lei. Non l'avrebbe abbandonato nelle mani di Voldemort e dei Mangiamorte senza lottare.
Rachel strappò d'impulso la fotografia del sorridente Gilderoy, la ridusse in piccoli pezzi, che poi lanciò in aria e lasciò che il vento li portasse lontani.
Il sole stava cominciando a intravvedersi in alto nel cielo, sopra la nebbiolina uggiosa di novembre. La terra era umida, intrisa della pioggia abbondante che si era riversata dalle nubi nere durante lo scorso pomeriggio. Le foglie morte creavano uno strato scivoloso di fanghiglia dal colore giallognolo.
Rachel sospirò e prese dal portafoglio la vecchia fotografia Babbana che ritraeva la sua famiglia durante il Natale dell'anno precedente. Sammy sorrideva, stretto nell'abbraccio della sorella, mentre David indossava la felpa gialla e blu dei Lakers che gli avevano regalato i genitori. Lei e suo marito Joseph avevano le mani intrecciate, come due fidanzatini alle prime armi. Sorridevano tutti e parevano felici.
Nessuno si muoveva in quella foto: era stata scattata in un momento di gioia che apparteneva al passato.
Ma quello era anche il suo presente e non voleva rassegnarsi alla perdita di Sam.
In fin dei conti, ogni madre è disposta a tutto pur di salvare proprio figlio.
Rachel era immersa in questi pensieri, quando si accorse che due figure ammantate erano comparse poco fuori dal perimetro di protezione della casa. Dovevano essere due donne, a giudicare dalla corporatura esile, anche se non si distinguevano i volti, celati sotto i cappucci. Fecero qualche passo e poi si fermarono a fianco dell'albero presso il quale era solito sostare Neville quando usciva da solo e aveva bisogno che Aberforth venisse a recuperarlo. Sembravano in attesa di qualcosa.
Ma, come era possibile? Nessuno, a parte i membri dell'Ordine della Capra, sapeva che lì si trovava nascosta la villa che fungeva da Quartier Generale.
Rachel decise di avvicinarsi alle due figure, per poterle vedere da più vicino senza correre il pericolo di essere individuata. Scrutando sotto i cappucci, le parve di riconoscere il volto di una delle due donne; e poi ricordò: era una sua compagna di Hogwarts, una certa Black di Serpeverde. L'altra ragazza, invece, che pareva avere più o meno l'età di sua figlia Esther, non l'aveva mai vista.
Rachel capì che era il caso di avvertire qualcuno dell'Ordine, così si diresse a passo svelto verso la villa, ma per poco non si scontrò con Andromeda che usciva di corsa dal portone.
«È mia sorella!» esclamò Andromeda, incredula, gli occhi fissi sulla Black.
Rachel la guardò stranita, ma il suo cervello aveva già tirato le conclusioni. «Sei anche tu una Black?» le chiese, ricordandosi improvvisamente che la sua vecchia compagna di Hogwarts aveva due sorelle più grandi, una delle quali aveva dato scandalo sposando un Nato Babbano.
«Già» mormorò Andromeda, in tono dimesso.
Dalla sua risposta, Rachel intuì che fosse proprio lei la rinnegata della famiglia. Eppure, Andromeda non aveva perso quell'aurea di rispettabilità che sono uno con il sangue nobile poteva possedere.
«Chi diavolo sono quelle due?» sbraitò una terza voce: Aberforth, comparso in quel momento in giardino. A giudicare dal suo tono, doveva essere parecchio contrariato.
«Una è mia sorella Narcissa, l'altra non lo so» rispose Andromeda.
«Tua sorella? La moglie di Malfoy?» latrò Aberforth, ma prima che la donna potesse rispondere, aggiunse: «Cosa diavolo ci fanno qui?»
«Ab, non lo so, ma credo che dovremmo parlarle» decretò con decisione Andromeda. Era l'unica dell'Ordine che sapesse tenere testa a Aberforth anche quando lui era visibilmente alterato. E, di solito, chissà come, Andromeda riusciva anche a spuntarla contro Ab.
«Stai scherzando, vero? Sarà sicuramente una trappola!» replicò Aberforth, come se la donna avesse dato di matto.
Andromeda scosse la testa. «No, impossibile, non Narcissa. Lei non ha mai davvero militato nelle file del Pelatone. Ci possiamo fidare».
«Ah, sì» borbottò sarcastico Aberforth. «Ci possiamo fidare di sicuro della moglie di un Mangiamorte!»
«Io mi fido» sentenziò duramente Andromeda.
«E forse loro lo sanno, per cui hanno deciso di sfruttare proprio la Malfoy. Per tenderci una trappola» replicò Aberforth, con una logica infallibile.
«Andiamo, Ab. È mia sorella!» esclamò esasperata la donna. E, a giudicare dal tono che aveva usato, si aspettava che la conversazione finisse lì.
Aberforth borbottò contrariato. «Vatti a fidare dei parenti» sbuffò, ma alla fine annuì. «Va bene, ma fuori le bacchette, tutte e due» ordinò alle donne, con un cenno del capo. «E se qualcosa va storto, non ci sono parentele che tengano».

Narcissa per poco non trasalì quando vide tre figure comparire nel bel mezzo del nulla. Aveva cominciato a disperarsi e a temere di essere caduta in una trappola, dal momento che non si era presentato nessuno per dieci minuti buoni. Ma, alla vista di quelle tre figure, realizzò che il bambino le aveva dato le informazioni giuste. Trattenne il respiro quando riconobbe una delle persone: erano passati quasi trent'anni, ma quel volto era inconfondibile.
«Andromeda» mormorò, con un sospiro.
«Narcissa» le rispose la sorella, in un tono indecifrabile. Le dividevano trent'anni di odio per il reciproco abbandono, di disprezzo per le diverse scelte di vita, di rabbia e di rinnegamento. Ma, ad unirle, c'era ben più di un mero legame di sangue: c'era l'affetto di un'infanzia passata insieme, a condividere gioie, speranze ed attese che si erano infrante contro il muro dell'aspro rigore della famiglia d'origine.
«Come fate a sapere di questo luogo?» le aggredì il mago barbuto, rompendo quell'incanto di silenzioso rappacificamento.
Narcissa distolse lo sguardo dalla sorella e si voltò verso l'uomo burbero. «Me l'ha rivelato il bambino Veggente».
«Sammy? È vivo, sta bene?» intervenne l'altra donna che era con loro.
Narcissa era sicura di averla già visto da qualche parte, ma non ricordava dove. Doveva essere la madre, comunque. «Sì, sta bene» rispose, con un cenno del capo.
«Oh, Dio, ti ringrazio!» esclamò la donna, che parve sciogliersi a terra. Andromeda le passò un braccio intorno alla vita per sostenerla, mentre questa scoppiò in un pianto liberatorio.
«Che cosa ci fate qui?» si informò l'uomo burbero, con un tono a metà tra il sospettoso e l'interessato.
Narcissa pensò a suo figlio Draco e ritrovò la determinazione. «Siamo qui per proporvi un patto».

Esther era sprofondata in una delle poltrone del salotto a leggere. Ma per la maggior parte del tempo sbirciava da sopra la copertina del libro il profilo di Neville, che stava giocando a scacchi con Dean davanti al caminetto. Ad un certo punto si accorse di Luna che, seduta di fronte a lei a fare non si sapeva bene cosa con dei tappi di Burrobirra, lanciava delle occhiatine ammiccanti a Dean. E lui le rispondeva.
Cielo, come aveva fatto a non accorgersene prima? Era chiaro come il sole che tra i due c'era qualcosa. Be', Dean era un bel ragazzo, ma... che cosa ci trovava lui in lei? Luna era decisamente strana.
Tu stai zitta. le disse una vocina maligna nella sua testa. Che Neville non è certo il prossimo vincitore di Mr Universo!
Ma era tanto dolce! Con quei suoi caldi occhi castani e l'amorevole pazienza con cui si prendeva cura delle sue piante.
Esther si accorse di fissarlo da parecchi minuti con uno sguardo languido solo quando lui le rivolse un sorrisetto divertito.
Idiota! Manco fossi una scolaretta di dodici anni!
E sprofondò il volto rosso di vergogna dietro la rassicurante copertina in pelle del suo libro.
Per fortuna, ulteriore imbarazzo le fu evitato dalla comparsa in salotto di cinque persone. Una, in particolare, fece scattare in piedi Esther come se fosse stata punta da un insetto.
«Greengrass!» esclamò incredula. Non era possibile! La sua vecchia compagna di Hogwarts! Un solo anno di differenza, stessa casa; solo che la Greengrass era l'esatto contrario di lei: bella, Purosangue e popolare. Era naturale che fossero state acerrime nemiche per tutti gli anni di scuola.
«Lechner!» replicò l'altra, altrettanto stupita. «Lunatica» aggiunse poi, notando la svitata di Corvonero.
«È Luna, se non ti dispiace» replicò in automatico Esther. Buffo come le cose potessero cambiare in pochi tempo: solo qualche giorno fa lei stessa aveva usato quel nomignolo ed era stata corretta da Dean. Eppure, le sembravano passati secoli.
Le due ragazze si squadrarono con astio, riservandosi sguardi di puro odio, ma ogni altro possibile insulto fu impedito loro dall'ordine perentorio di Aberforth: «Riunione straordinaria!»
Esther approfittò dell'occasione per defilarsela dal salotto con la scusa di andare a chiamare i Worming. Quando tornò insieme alla famigliola, tutti si erano già radunati attorno al tavolo della sala da pranzo. Esther constatò con un certo piacere che la Greengrass sembrava decisamente a disagio; in fin dei conti, era in mezzo a Babbani, Sanguesporco e rinnegati.
Aberforth era dritto in piedi davanti alla Black, con le mani poggiate sui fianchi e lo sguardo severo. La donna si guardava attorno con aria spaesata e preoccupata assieme, ma la posizione nervosa e impettita del suo corpo lasciava presagire che, oltre ad una certa ansia, c'era anche una grande determinazione.
«Che cosa siete venute a proporci?» domandò Aberforth, in tono imperioso.
«Un patto» replicò Narcissa, in tono flebile ma comunque chiaro. «Un patto per penetrare a Malfoy Manor e salvare i prigionieri lì custoditi». «Che cosa vuoi in cambio?» chiese Aberforth, senza mitigare il suo tono duro.
Narcissa deglutì. «Che li saliviate tutti. Compreso mio figlio».
«Draco?» intervenne Neville, decisamente sorpreso. «Draco è in prigione?»
Narcissa annuì, chinando il capo fino a guardarsi le mani che teneva accoccolate in grembo. «Il Signore Oscuro... punisce chi non esegue i suoi ordini» rivelò in tono sommesso.
«Draco doveva catturare un bambino Veggente, invece se l'è lasciato scappare» si intromise Astoria, con un certo disappunto.
Esther lanciò uno sguardo veloce alla madre. Dunque era stato Draco Malfoy il capo della spedizione che li aveva raggiunti a casa con l'obiettivo di catturarli. L'intervento dell'Ordine della Capra era stato provvidenziale: li aveva salvati, obbligando così Draco a tornare dal suo Signore a mani vuote.
«Io ho un'altra proposta, invece» intervenne Aberforth, prendendo a camminare intorno al tavolo. «Noi vi teniamo qui come ostaggi e proponiamo al Pelatone uno scambio: voi in cambio di Sam» mormorò, fermandosi proprio alle spalle delle due donne.
Narcissa trasalì a quell'agghiacciante prospettiva, mentre Astoria si voltò verso di lui e replicò con sarcasmo: «Non funzionerebbe. Noi non valiamo tanto per il Signore Oscuro: preferisce il suo piccolo marmocchio prodigio».
Esther ebbe uno scatto nel sentire la sua avversaria che apostrofava con poca grazia il fratellino, ma Neville la tranquillizzò posandole una mano sulla gamba.
«Chi ci dice che possiamo fidarci di voi? Chi ci dice che non sia una trappola?» se ne uscì Percy, di solito così silenzioso. Perfino gli altri membri dell'Ordine si stupirono del suo intervento, visto che il ragazzo ascoltava sempre passivamente le riunioni e accettava senza problemi le varie decisioni.
Gli occhi di Narcissa si inumidirono di lacrime e la sua voce, quando riprese a parlare, era tremula e flebile. «Draco è mio figlio. Si sarebbe dovuto sposare fra un mese» spiegò, e i suoi occhi indugiarono su Astoria. «Ma... il bambino Veggente mi ha detto che morirà presto e... non posso permetterlo. È mio figlio e... ogni madre è disposta a tutto pur di salvare proprio figlio».
Narcissa si interruppe e represse un singhiozzo. «Vi prego» mormorò, questa volta con maggiore decisione.
«Io le credo» intervenne Andromeda, in tono sicuro. La sorella le lanciò un veloce sguardo di gratitudine, superando d'un colpo tutto l'odio e il risentimento che le aveva divise per quei lunghissimi anni.
«Io penso che potremmo sfruttare la situazione a nostro vantaggio» intervenne Dean, con un tono insolitamente ragionevole, per lui. «Mundungus ci ha dato quella preziosa informazione sul carico di bacchette magiche che è stato consegnato a Malfoy Manor in questi giorni. Non ci sarà data un'altra possibilità di penetrare nel castello... potremmo unire le due cose e sfruttare al meglio l'occasione che ci è stata offerta».
Era da tempo che i membri dell'Ordine della Capra erano a conoscenza del monopolio che il Ministero aveva imposto sulla fabbricazione delle bacchette magiche; la logica era molto semplice: il Ministero controllava tutte quelle che venivano prodotte sotto la sua supervisione da Ollivander e dal suo staff, le registrava e così ogni bambino che comprava la sua nuova bacchetta era schedato. Controlli la bacchetta, controlli il mago.
Ma se fossero riusciti a penetrare nel cuore di Malfoy Manor, ormai divenuto sede distaccata del Ministero sotto il diretto controllo di lord Voldemort, avrebbero potuto liberare Sam e Draco e, al contempo, sequestrare il carico di bacchette nuove.
Un bel colpo, per il Pelatone e i suoi.
«Io ci sto!» asserì Percy, con convinzione. Sembrava che non aspettasse altro che quell'occasione per riscattarsi e vendicarsi.
Esther incrociò gli occhi apprensivi di sua madre, in spasmodica attesa del verdetto, almeno quanto Narcissa, poi si voltò a guardare Neville. Lui le sorrise e Esther capì immediatamente cosa avrebbe dovuto dire. «Anche io ci sto» decretò, seppure ancora un po' titubante.
Dean si voltò verso di lei con un sorriso incredulo prima e soddisfatto poi. «Così si fa!» la incoraggiò, battendo i pugni sul tavolo. «Saresti quasi potuta essere una Grifondoro!»
Esther rabbrividì alla sola prospettiva. «Oh, no, ti prego!» esclamò in tono divertito, trovando finalmente la sicurezza per credere nella sua personale battaglia. «Io sono nata Serpeverde e morirò Serpeverde. Solo, non toccare la mia famiglia».
Perfino Narcissa si ritrovò a lanciare uno sguardo di approvazione alla ragazza che aveva parlato: era sempre pericoloso andare toccare a qualcuno le persone che amava, tanto più se si parlava di Serpeverde. Potevano diventare molto vendicativi.
«Anche io ci sto!» esclamò improvvisamente David, con foga ed entusiasmo, suscitando parecchie occhiate perplesse e critiche.
«Sei un Babbano, David» fece notare Filius, in un tono pacato e indulgente. «È meglio che tu stia a casa».
«No!» sbottò il ragazzo, alterandosi. «Non mi importa se sono Babbano! Voglio fare anche io la mia parte, per quanto piccola. Voglio farlo per Sammy».
Esther strabuzzò gli occhi e guardò il fratello come se gli stessero spuntando due enormi orecchie da asino. Che fine aveva fatto il pigro e grasso adolescente che conosceva? Quello che si sorbiva due ore di documentario naturalistico alla televisione perché era troppo poltrone per alzarsi a prendere il telecomando?
David era sempre lo stesso, eppure c'era un qualche strano barlume di consapevolezza nel suo sguardo che faceva capire una semplice verità: stava maturando da ragazzino a uomo.
Minerva sorrise con un certo compiacimento. «Io credo che potresti fare il palo, David» suggerì, in un tono che faceva capire quanto la prospettiva di attaccare la eccitasse.
Ormai pareva che tutti dessero per scontato che il piano era stato approvato. L'unico ancora scettico pareva Aberforth, ma lui stesso aveva deciso che l'Ordine della Capra non avesse capi, quindi era costretto a rimettersi alle scelte del consiglio.
«E sia» mormorò infine, con un sospiro.
Neville strinse la mano di Esther, nascosta sotto il tavolo poi, dopo averle rivolto un impercettibile accenno di sorriso, decretò: «E sia. Per stanotte».









Scusate per ieri, ma ero immersa nello studio e quando ho finalmente deciso che era tempo di aggiornare, internet ha smesso di funzionare; ergo, per evitare crisi isteriche che si cncludessero con il lancio del pc giù dalla finestra (visto poi che è quello di mio fratello!), sono sndata a rannicchiarmi sul divano! Comunque, ecco il nuovo capitolo! Abbiate pazienza, da domani pomeriggio, inshallah, riprenderò la mia normale vita da EFP-dipendente!
Comunque, la misteriosa donna è Astoria Greengrass, promessa sposa del caro Draco. L'ho inserita perché era il personaggio perfetto per contrapporsi a Esther.
Ebbene, prossimo capitolo: battaglia a Malfoy Manor! *-*
A domani,
Beatrix

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Capitolo 12
*** La battaglia di Malfoy Manor ***


La battaglia di Malfoy Manor

Malfoy Manor,
quella sera



Quella notte, una pesante coltre di nubi aveva invaso il cielo, oscurando completamente le stelle e la luna. L'aria era fredda e pungente, minacciosa, ma forse era solo una sensazione di Narcissa. Le pareva che l'atmosfera a Malfoy Manor fosse più cupa del solito, come se l'intero castello sospettasse di lei. Le sembrava che perfino gli austeri occupanti dei ritratti puntassero lo sguardo su di lei con aria diffidente.
«Narcissa!» esclamò qualcuno, afferrandole il braccio.
La donna trasalì, ma si rilassò non appena riconobbe il marito Lucius.
«Che cosa stai facendo in giro a quest'ora?» le sibilò all'orecchio, guardandosi intorno come se temesse di venir scoperto a compiere chissà quale delitto.
Narcissa assunse un'aria offesa e bellicosa insieme, come solo una Black sapeva fare. «Mi stai dicendo che non mi è concesso andare in giro per casa mia?» sussurrò in risposta, con un tono duro.
«Non con quell'aria sospetta» le replicò il marito, gli occhi sfuggenti che controllavano in giro. «Lo sai che questa gente non aspetta altro che una buona occasione per screditarci».
Narcissa si liberò con uno strattone dalla presa di Lucius e lo fissò con i suoi glaciali occhi grigi. «Non gliene darò l'opportunità» rispose secca, prima di allontanarsi a grandi passi.
L'incontro con Lucius le diede maggiore forza: quella situazione non poteva essere sopportata oltre, o sarebbe stato seriamente pericoloso per tutti loro. Se suo marito non aveva la forza per reagire, l'avrebbe avuta lei per entrambi e avrebbe salvato la sua famiglia.
Narcissa diede un'ultima occhiata alla pendola che stava in ingresso: mancavano cinque minuti a mezzanotte ed era arrivata l'ora di andare ad aprire i cancelli. Era arrivata l'ora di tradire.
Attraversò il parco avvolta in un pesante mantello, non solo per proteggersi dal freddo, ma anche per evitare di attirare troppo l'attenzione su di sé. Raggiunse il cancello e si guardò intorno, in attesa. Poi apparvero: delle figure sfuocate emersero dal buio sul vialetto ghiaioso. Narcissa notò che le tremava la mano quando la allungò verso il cancello per aprirlo, ma cercò di nasconderlo. Prese un profondo respiro e poi lo aprì.
I Membri dell'Ordine della Capra, insieme ad Astoria Greengrass, scivolarono dentro, silenziosi come ombre. Uno di loro stringeva al petto un vecchio cappello logoro, che aveva molto l'aria di essere la Passaporta di emergenza preparata per una fuga rapida. In teoria, avrebbero dovuto agire di soppiatto, sena farsi scoprire, ma la prudenza non era mai troppa.
Avevano affidato la Passaporta a David e gli avevano intimato di proteggerla a costo della vita. Il ragazzo, ovviamente senza farlo sapere ai genitori, aveva convinto Dean e Minerva ad accompagnarlo ad un negozio di caccia e pesca, dove aveva speso tutti i suoi risparmi per comprarsi una pistola che ora stava nascosta sotto il mantello da mago che gli avevano prestato. Non che sperasse di farci molto, ma lo faceva sentire più sicuro.
«Rachel, Neville e Esther seguite la Black ai sotterranei» ordinò Aberforth, usando un tono insolitamente basso, per lui. «Io, Minerva, Dennis e Percy seguiamo la Greengrass che ci porterà al deposito delle bacchette. Filius, Luna, Dean e David restano di guardia al cancello».
«Perché io sempre di guardia?» si lagnò Dean, con uno sbuffo.
Aberforth non si degnò nemmeno di rispondergli. «Muoviamoci» sibilò invece e ad un suo cenno del capo le tre squadre si divisero.
Narcissa guidò gli altri verso i sotterranei, curandosi di passare per i corridoi che sapeva non essere frequentati dai Mangiamorte. Tutti i membri dell'Ordine si erano camuffati con mantelli scuri, ma sarebbe stato comunque poco credibile farli passare per seguaci del Signore Oscuro.
«Signora Black, cosa...?» domandò infatti uno dei due Mangiamorte di guardia, ma Narcissa lo zittì alla svelta, con un incantesimo silente ben piazzato, mentre Rachel mise fuori gioco l'altro, prima che potesse reagire.
«Alohomora» sussurrò Narcissa, aprendo la prima cella.
Il piccolo Veggente, questa volta, non era raggomitolato sul fondo: se ne stava ritto in piedi davanti alla porta, con un sorriso raggiante stampato sul volto. «Mamma!» esclamò entusiasta, gettando le braccia al collo di Rachel. «Sapevo che sareste venuti tutti!»
«Non ti avremmo mai lasciato qui» gli sussurrò la donna all'orecchio, ricambiando la stretta.
Narcissa, nel frattempo, liberò suo figlio Draco che, alla vista dei membri dell'Ordine, si ritrasse sconvolto. «Mamma... cosa hai fatto?» mormorò, scuotendo la testa.
«Ti ho salvato la vita» rispose decisa Narcissa.
«Ma... se ci scoprono? Siamo finiti!» proruppe Draco, terrorizzato dalla prospettiva.
«Non ti preoccupare, ti proteggiamo noi, Dracuccio» scherzò Esther, strappando una risatina a Neville.
«Andiamo» decretò poi Narcissa, senza permettere al figlio di replicare.
Il gruppetto ripercorse i corridoi deserti a passo svelto, nella speranza di non essere visti. Quando arrivarono alla rampa di scale che li avrebbe riportati a piano terra, si bloccarono sul fondo, raggelati dalla vista della figura che era comparsa alla sua sommità: Bellatrix Lestrange.
Aveva le mani poggiate sui fianchi e un sorriso trionfante, come se non aspettasse altro che coglierli in flagrante.
Neville sguainò la sua bacchetta e la puntò contro la strega, improvvisamente serio. Ogni tranquillità era sparita dai suoi occhi, sostituita da una spaventosa determinazione.
Bellatrix sollevò il braccio sinistro, si calò lentamente la manica e tese un dito scarno, sfiorando il Marchio Nero. Rivolse loro uno sguardo di sfida, facendo trattenere a tutti il respiro quando gli occhi di lei indugiarono in quelli della sorella. Ma poi l'espressione di Bellatrix divenne feroce e la donna premette il dito sul Marchio, avvertendo i Mangiamorte della loro presenza nel castello.
«Ora tutti sanno che siete qui!» gridò Bellatrix, in preda al furore. «Siete spacciati!»
Neville fece un gesto rapido con la bacchetta, ma si interruppe quando una voce dietro Bellatrix decretò: «No, lei è mia».
Percy avanzava verso Bellatrix con la bacchetta tesa davanti a sé. Con lui erano arrivati anche Minerva, Dennis, Aberforth e Astoria.
A quella vista, Bellatrix scoppiò a ridere senza ritegno. Estrasse la sua bacchetta e la puntò contro Percy, pronta al duello. «Vuole vendicarsi, il povero piccolo Weasley?» lo provocò, con un ghigno detestabile e irriverente.
«Hai ucciso tutta la mia famiglia» mormorò Percy, le orecchie che si facevano paonazze. «Lei è mia. Voi andate» ordinò poi agli altri, in tono deciso.
Esther colse al volo l'occasione: afferrò la manica di Neville e corse in direzione di Aberforth, subito seguita da sua madre e Sam. Se avessero sfruttato il momento favorevole per fuggire, avrebbero lasciato indietro Percy, ma, in fondo, era quello che aveva chiesto lui. Il suo brillante piano, però, fu rovinato fin sul nascere dalla comparsa di un gruppo di Mangiamorte, richiamati dal Marchio Nero.
«Fuori le bacchette!» ordinò Aberforth, anche se il comando fu piuttosto superfluo, visto che tutti avevano già estratto la propria. «Dividiamoci!»
Esther, Neville, Rachel e Sam imboccarono una porta a caso perché, senza la guida di Narcissa, non avevano la più pallida idea di dove andare. Presero ad avanzare con la bacchetta levata davanti a sé, pronti ad attaccare qualsiasi cosa si trovassero davanti agli occhi.
Ad un certo punto entrarono in un ampio salone e si ritrovarono accerchiati da una decina di Mangiamorte. Alcune maledizioni volarono per la sala, mandando in frantumi uno specchio alle spalle di Esther. «Ripariamoci lì!» esclamò la ragazza, gettandosi insieme agli altri dietro alcune poltrone di pelle, anche se era chiaro fin da subito che non avevano nessuna speranza di uscirne vivi.
«Tappatevi le orecchie!» ordinò loro Neville, mentre trafficava con la saccoccia a tracolla che si era preso dietro. Vi estrasse degli orribili paraorecchie pelosi, che si infilò senza preoccuparsi del loro aspetto terrificante; dopodiché tirò fuori una pianta in vaso che non poteva materialmente stare dentro quella sacca senza un incantesimo di qualche genere che ne aumentasse la portata. Esther si coprì le orecchie con le mani appena in tempo per non sentire l'ululato assordante della neonata mandragola che Neville aveva estratto dal vaso. Gli ignari Mangiamorte furono investiti in pieno dal suo pianto e, sebbene la mandragola fosse troppo piccola per ucciderli, li mise fuori gioco per un bel po'.
«Ottimo colpo, Neville» si complimentò Esther, sbucando dal suo nascondiglio e osservando i corpi degli avversari riversi a terra.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Ognuno ha le sue armi» rispose, rinfilando mandragola e paraorecchie nella sua sacca. «Ora, forza, muoviamoci».
Esther e Rachel imboccarono un altro corridoio ma un Mangiamorte apparve improvvisamente in fondo alla sala e scagliò una maledizione contro di loro. Le mancò per un soffio, tuttavia gli effetti del suo incantesimo furono ben più disastrosi: colpì il muro poco sopra la porta, provocando un crollo che bloccò il passaggio.
Neville e Sam rimasero bloccati nel salone insieme al Mangiamorte.
«Stupeficium!» gridò il ragazzo, parandosi davanti a Sam per tentare di proteggerlo.
Il Mangiamorte si scansò agilmente di lato, evitando lo Schiantesimo e poi lanciò una maledizione contro Neville, che per fortuna lo mancò.
«Pietrificus totalus!» attaccò Neville e questa volta lo sfortunato Mangiamorte fu colpito in pieno petto.
«Neville!» lo chiamò Esther. La sua voce giungeva soffocata, dall'altra parte del crollo.
«Tutto bene, voi?» si informò Neville, cercando di ricordare qualche incantesimo che potesse tornargli utile in una situazione come quella.
«Sì, sì. E voi?» chiese a sua volta Esther.
«Tutto bene» rispose Neville. «Ma siamo bloccati qui e ci vorrebbero secoli per togliere tutte queste macerie. Andate avanti e cercate l'uscita, noi vi raggiungiamo».
«No, non vi lasciamo qui!» replicò Esther, in tono deciso, anche se sapeva che Neville aveva suggerito la cosa migliore da fare.
«Non vi preoccupate per noi» disse infatti il ragazzo. «Troveremo un'altra strada. Ora muovetevi, prima che arrivino altri Mangiamorte».
Esther si lasciò sfuggire un sospiro. «State attenti» fu l'ultima cosa che raccomandò loro, prima di allontanarsi insieme alla madre, con la netta sensazione di star sbagliando qualcosa.
Neville nel frattempo allungò una mano verso il piccolo Sam e, ripercorrendo gli stessi corridoi che li avevano portati lì, cercò un'altra via d'uscita.
Sam si lasciò trascinare lungo le stanze riccamente arredate, coperte da tappeti preziosi, con la netta sensazione di aver già vissuto quella scena: lui e Neville che correvano mano nella mano, con quell'opprimente senso di morte dato dalla fuga disperata attraverso le sale di un prezioso castello.
Finché...
«No!» gridò, fermandosi in mezzo a uno degli ampi saloni che stavano attraversando. Aveva gli occhi sgranati e l'espressione sconvolta: aveva ricordato dove avesse già visto quella scena.
Non era un semplice déjà vu. Era l'avverarsi del suo sogno premonitore.
«No!» gridò ancora, sottraendo la sua mano dalla presa di Neville.
Il ragazzo si voltò verso di lui, senza capire che gli fosse successo. «Sammy, che c'è?» gli chiese in tono preoccupato.
Sam scoppiò a piangere. Era tutta colpa sua: pur di non far avverare il suo sogno, era scappato dalla villa dell'Ordine della Capra e aveva manovrato Narcissa Black per venire a farsi liberare, tutto nella speranza di modificare gli eventi. Invece non era stato altro che inerme strumento di compimento nelle mani del Fato. Se lui non fosse scappato, tutto quello non sarebbe successo.
Era di nuovo colpa sua. Era davvero pericoloso per chi gli stava attorno.
«Forza, Sammy, andiamo» lo incoraggiò Neville, allungando la sua mano verso di lui, perché l'afferrasse.
«No, Neville! Scappa via da me, lasciai qui, o morirai!» strillò Sam, allontanandosi da lui.
«Io... non capisco» mormorò Neville, ma non poté aggiungere altro, perché qualcuno entrò nella sala.
Una lunga veste nera, il cranio simile a quello di un serpente e due infuocati occhi rossi: lord Voldemort in persona, con un sorriso trionfante che gli incrinava le labbra sottili.
«Neville Paciock, che piacere averti qui nella mia umile dimora» sibilò Voldemort, allargando le braccia come un perfetto padrone di casa.
Neville si voltò lentamente, frapponendosi tra lui e Sam nella vana speranza di proteggere il bambino. Non avrebbe mai vinto contro di lui, lo sapeva, ma il suo ultimo tentativo doveva essere quello di salvare Sam da Voldemort.
Alzarono entrambi la bacchetta e se la puntarono addosso. Una singola goccia di sudore attraversò la fronte corrugata di Neville, mentre i suoi occhi incrociarono quelli rossi e beffardi dell'avversario. Per una frazione di secondo regnò un silenzio tombale, rotto solamente dai sommessi singhiozzi di Sam.
Infine, tutti e due scagliarono le loro maledizioni, ma Voldemort fu più veloce.
Un lampo verde attraversò la sala, colpendo Neville in pieno petto.
Il ragazzo rivoltò indietro gli occhi e stramazzò al suolo.
La profezia si era compiuta.








OMMIODIO! Che cosa ho fatto? O.O
Non lo so...
Lo scoprirete...! ;)
A dopodomani,
la vostra sadica e perfida Beatrix

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Capitolo 13
*** L'ospedale di San Mungo ***


L'ospedale di San Mungo

In qualche luogo non meglio definito,
non si sa bene quando



Neville aprì lentamente gli occhi, ma fu investito da un fiotto di luce e non riuscì a distinguere nulla. Dovette abituarsi alla luminosità del luogo, per poter vedere qualcosa: era steso a terra su un pavimento biancastro che puzzava di ammoniaca, in un ambiente piuttosto ampio, dai caratteri non ben definiti.
Si mise a sedere e si guardò intorno, alla ricerca di indizi che potessero identificare il luogo. C'era quello che sembrava un bancone informazioni e due porte alle estremità della sala, una di fronte all'altra.
Era una specie di aldilà, quel luogo? Dopotutto, lui si ricordava benissimo di essere stato colpito in pieno dall'Anatema di Voldemort. Non era stata un'esperienza poi così traumatica, morire. Era come se... si fosse addormentato.
Neville si alzò da terra e si chiese se fosse il caso di aprire una delle due porte. Ma quale avrebbe potuto scegliere? E, soprattutto, dove lo avrebbero portato?
«Ciao, Neville» disse qualcuno alle sue spalle.
Non era possibile! Quella voce...
Neville si voltò si scatto, incredulo. «Harry!» esclamò, incapace di credere di poter rivedere il suo vecchio amico. «Sono morto, non è vero?» domandò poi, realizzando che non poteva essere altrimenti.
«Non proprio» rispose Harry, con un sorriso. Il ragazzo indossava una tunica da mago verde bottiglia, elegante nella sua semplicità. Sembrava pulito e riposato, come se avesse passato le sue giornate a rilassarsi in un albergo di lusso.
«Non proprio?» gli fece eco Neville, scioccato. Poi allargò le braccia per indicare l'enorme sala in cui si trovavano. «Che posto è mai questo?»
Harry strinse le spalle. «Non lo so, Neville. Secondo te che posto è?» gli rigirò la domanda, guardandosi in giro come se vedesse quel luogo per la prima volta.
Neville osservò meglio la stanza e notò che si erano delineati nuovi dettagli dall'ultima volta che vi aveva gettato il suo sguardo: sulla sinistra del bancone era comparso uno strano cartello con alcune scritte che non riusciva a leggere, e una serie di traballanti seggioline di legno erano spuntate lungo le pareti della sala. Sembrava proprio...
«È l'ingresso dell'Ospedale San Mungo» decise Neville con una certa sicurezza.
«Curioso» commentò Harry, osservando l'ambiente.
Neville sospirò. Era stato mille volte in quel luogo, ma non gli era mai sembrato così in ordine e silenzioso. Soprattutto, così... sereno. Ogni volta che si era recato in ospedale, era stato per visitare i suoi genitori e, per quanto gli facesse piacere vederli, quelle visite gli mettevano sempre addosso angoscia e tristezza. Invece, in quel momento si sentiva decisamente in pace.
«Come sarebbe che non sono morto?» domandò infine, incapace di capire quella situazione.
Harry indicò le misere seggioline di legno e sussurrò: «Forse è meglio se ci sediamo, Neville».
I due ragazzi presero posto proprio di fronte al bancone delle informazioni. Harry sospirò, poi cominciò a raccontare: «Vedi, Neville, la notte in cui Voldemort cercò di uccidermi, mia madre sacrificò la sua vita per salvare la mia. Per questo io sono sopravvissuto alla sua maledizione, rispedendola contro di lui e facendogli perdere tutti i suoi poteri».
«Questo che c'entra con me?» si informò Neville, decisamente perplesso per tutta quella faccenda.
«Lo stesso che fece mia madre quella notte, io lo feci per voi, il giorno della Grande Battaglia. Nessuno degli incantesimi di Voldemort funziona su coloro che combatterono quella notte, perché sono protetti dal mio sacrificio» spiegò Harry, con un sorriso sereno
«Oh, ok. Ehm... grazie» mormorò Neville, senza sapere bene cosa dire. «Ma che ci facciamo qui, adesso?» domandò, non del tutto sicuro che esistesse un “qui” e un “adesso”. In fin dei conti, stava parlando con un morto.
Harry gli rivolse un altro sorriso, ma si leggeva un velo di dispiacere nei suoi occhi verdi. «Sul tuo capo pende una spiacevole profezia» rivelò infine, con un sospiro. «La stessa che pendeva sul mio, in effetti».
«Non capisco» mormorò Neville, anche se aveva la terribile sensazione di aver capito eccome.
«Ti ricordi quella profezia che tentammo di recuperare dall'Ufficio Misteri, il nostro quinto anno di scuola?» domandò Harry.
Neville si limitò ad annuire, anche se avrebbe voluto far notare che sarebbe stato pressoché impossibile dimenticare un episodio del genere.
«Ecco, secondo quella profezia, era destino che io e Voldemort ci scontrassimo in duello, perché nessuno dei due non poteva vivere se l'altro sopravviveva. Ma la profezia, che fu pronunciata più di vent'anni fa, poteva riferirsi a me così come ad un altro bambino, nato alla fine di luglio, i cui genitori avevano affrontato Voldemort tre volte» raccontò Harry, guardandolo fisso negli occhi.
Neville si sentì a disagio, ma forse quella sensazione era data dal fatto che aveva lo spiacevole presentimento di sapere chi fosse quell'altro bambino. Visto che Harry non sembrava avere intenzione di proseguire, Neville mormorò: «Sono io, non è vero?»
«Già» asserì Harry, con un cenno affermativo del capo.
«Mitico» commentò Neville, in tono piatto. Non sapeva bene il motivo, ma non si sentiva particolarmente sconvolto dalla notizia. Tempo fa, forse, ne sarebbe stato terrorizzato, ma ormai erano anni che combatteva contro Voldemort, con la paura della morte come sua compagna di avventure. Certo, non aveva la più pallida idea di come avrebbe potuto sconfiggere Voldemort, lui che aveva impiegato mesi solo per domare l'Incantesimo di Disarmo. Era quanto meno ridicolo.
Harry, però, sembrava del tutto convinto che lui potesse davvero competere con Voldemort e, addirittura, batterlo. «Interpretare il resto della profezia è stato più complicato» continuò il ragazzo, con aria meditabonda. «Il pezzo in cui diceva che Voldemort ti avrebbe designato come suo eguale era spiegabile con il fatto che, dopo la mia morte, il suo chiodo fisso sei diventato tu. Lui voleva ucciderti a tutti i costi, per evitare che la profezia, della quale lui aveva sentito solo la prima parte, avesse qualche possibilità di avverarsi» spiegò Harry. «Ma c'era un punto che non ci era chiaro... quando diceva che tu avresti avuto un potere a lui sconosciuto».
«Scherzi, io non ho nessun potere sconosciuto!» intervenne Neville, ben conscio delle sue mediocri qualità di mago. Gli dicevano tutti che aveva un buon cuore e tanto coraggio, ma gli sembrava un po' poco per sperare di battere il più terribile mago oscuro di tutti i tempi.
«Oh, no, ce l'hai. Il professor Silente è riuscito a capirlo solo ora» replicò Harry, con un sorriso luminoso. «È Samuel».
«Sammy?» domandò perplesso Neville.
«Sì, il bambino Veggente» asserì Harry, in tono compiaciuto. «Sam non solo ha il raro dono della preveggenza, ma ha anche una grandissima forza d'animo: era disposto a scappare, a sacrificarsi pur di salvarti. La sua purezza è grande, tanto grande che Voldemort non riesce a vederla, né a capirla. Grazie a lui, tu puoi sconfiggere Voldemort una volta per tutte».
«Quindi ora devo tornare indietro?» domandò cauto Neville, giochicchiando con l'orlo liso del suo maglione.
Harry si limitò ad un sospiro. «No, se non vuoi» rivelò infine, guardandolo con intensità. «Anche a me fu offerta la stessa possibilità: tornare indietro o... andare avanti. Io scelsi di andare avanti: ero stanco, stanco di affrontare la morte; volevo solo riposare in pace, finalmente» confessò, fissandosi le mani come se si aspettasse di venir punito per le sue colpe.
«Sei stato davvero coraggioso» commentò invece Neville, con sincera ammirazione. «Sai, siamo tutti talmente attaccati alla vita che non so quanti avrebbero avuto la forza di andare avanti» mormorò, rivolgendo all'amico un sorriso autentico.
«Grazie, Neville» replicò Harry, che si sentiva leggermente in colpa per aver scelto la quiete, abbandonando gli altri al loro destino.
«Ma io non sono coraggioso come te, Harry» aggiunse Neville, osservandosi le unghie sporche di terra. «Non lo sono mai stato» completò, tornando a guardare l'amico in faccia.
«Non sono pronto a morire. Voglio tornare indietro» decretò, cercando di dare un tono sicuro alla sua voce. Aveva paura anche a tornare indietro, ma non ce la faceva a lasciare i suoi compagni dell'Ordine, Sam e soprattutto Esther.
Un sorriso commosso di allargò sulle labbra di Harry e i suoi occhi verdi furono illuminati da un barlume di speranza. «Ho sempre saputo che eri migliore di tanti altri, Neville» gli rivelò, poggiandogli una mano sulla spalla con fare incoraggiante.
I due amici si scambiarono un sorriso sincero, poi entrambi si alzarono, pronti a dirsi un nuovo arrivederci pieno di speranza.
«Questa cosa sta accadendo dentro la mia testa, vero?» domandò Neville, che non si era mai dato pena di capire tutte quelle questioni filosofiche.
L'espressione di Harry si fece enigmatica. «È possibile, ma questo non significa che non sia avvenuta davvero».
Neville scosse la testa, poi si avviò verso la porta di sinistra, improvvisamente consapevole che sarebbe stata quella a farlo tornare indietro.
«Un'ultima cosa» lo fermò Harry, prima che si separassero. «Severus Piton. È sempre stato un uomo di Silente, ha sempre combattuto dalla nostra parte» rivelò in tono serio.
Neville si limitò ad una smorfia. «Ok. Grandioso. Lo sposterò nella categoria “alleati”» commentò poi, con un certo sarcasmo.
«Era giusto che lo sapeste, tu e gli altri dell'Ordine» mormorò Harry, per giustificare quella sua uscita.
Neville annuì, per far intendere che aveva capito. «Hai ragione, Harry, ma scusami se non chiamerò mio figlio con il suo nome» annotò, in tono beffardo. «Con me non si è mai comportato in modo giusto e onesto».
Harry sospirò: capiva benissimo le ragioni di Neville, ma voleva cercare di riabilitare Piton anche tra coloro che l'avevano sempre considerato un traditore doppiogiochista. «Era un uomo molto coraggioso, a suo modo. Lottava per fedeltà alla donna che aveva amato per tutta la vita» spiegò, tacendo però sul fatto che quella donna era sua madre Lily.
Neville fece per rispondere con sarcasmo, ma si bloccò. Gli vennero in mente le parole di Esther, quando gli aveva fatto capire che tutti combattevano per qualcuno che amavano o avevano amato. Esattamente come Piton.
Forse, allora, non erano tanto diversi. Uomini che lottavano per qualcuno.
Doveva tornare indietro, al più presto. Per gli altri, per Sammy, per Esther.
«Grazie, Harry» mormorò, con un ultimo sorriso al vecchio amico.
E poi varcò la porta.








Visto?
Vi pareva che potessi ammazzare il mio adoratissimo Neville? Soprattutto ora che aveva appena incontrato Esther? No, non sono così sadica! E poi mi piacciono i lieti fini, credo che ormai lo sappiate!
Tra l'altro, non avevo scritto che era morto, nel capitolo prima... ho solo detto che la profezia si era compiuta! ;)
Ok, sono sincera nel dire che non so se il mio trucchetto sia stato più o meno canonico, ma ho cercato di spiegarlo al meglio delle mie possibilità. Tra l'altro, non ho mai capito bene cosa fosse successo nemmeno nella saga originale, quindi mi sono concessa la licenza poetica di interpretare a mio modo la questione.
Ho anche cercato di riabilitare Piton, che se lo meritava. La freddezza di Neville è data dal fatto che, comunque, Piton l'ha maltrattato per anni, a suo parere senza un vero motivo. Io non credo che potrei riscattare i professori che ho odiato solo perché scopro che stavano dalla parte dei buoni: insomma, con Neville Piton è sempre stato una vera carogna! Certo non darà il nome Severus a suo figlio... ogni riferimento è puramente causuale! ;)
Nel prossimo capitolo vedrete quale sarà il ruolo di Sam il Veggente in tutta la faccenda!
Grazie a tutti e scusate se vi ho fatto venire un infarto! =)
Beatrix

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Capitolo 14
*** La fine e l'inizio ***


La fine e l'inizio

Malfoy Manor,
la stessa sera, pochi minuti dopo



La prima sensazione che fece capire a Neville di essere tornato indietro fu il formicolio ai piedi, seguito da un intenso mal di testa. La sensibilità gli ritornò pian piano: inizialmente fu l'odore di bruciato, poi il suono di un pianto e infine, aprendo adagio gli occhi, riconobbe la sagoma sfuocata di Sam.
Il bambino era chino su di lui e stava singhiozzando disperatamente, la testa adagiata sulle braccia incrociate sul petto di Neville.
«Non puoi fare più niente per lui, ora» sibilò una voce fredda, in un tono apparentemente neutro. In realtà lord Voldemort era invaso da una gioia furiosa, conscio che quel patetico tentativo di ribellione al suo potere sarebbe morto quella stessa sera.
«Sei un mostro!» strillò il piccolo Sam, con il volto rigato dalle lacrime.
Voldemort scoppiò in una risata fredda e squillante. «No, no. Sono solo uno che sa quello che vuole, e sa come ottenerlo» rispose, concedendosi un sorriso.
«Sei un mostro!» ripeté Sam, alzandosi in piedi. «Un mostro, un mostro! Un assassino!» gridò, la voce acuta rotta dai singhiozzi.
Voldemort non sembrava particolarmente spaventato dall'attacco isterico del marmocchio. Solo, avrebbe preferito avere a che fare con un Veggente un tantino più maturo.
«Sei un assassino, un assassino! E morirai anche tu!» strillò Sam, facendosi avanti con fare minaccioso. «Morirai, morirai!»
Puntò il suo dito bianchiccio per la vitiligine contro Voldemort e lo insultò: «Tu sei solo un codardo!»
«Non osare...!» sibilò il Signore Oscuro, alzando la bacchetta verso il marmocchio, ma la sua voce aveva perso ogni spavalderia.
Sam fece un altro passo verso di lui. «Codardo, codardo!» gli sputò addosso, con una violenza inaudita per un bambino di nove anni.
«Io... non...» balbettò lord Voldemort, indietreggiando di un passo. Aveva ancora la bacchetta levata davanti a sé, pronto a colpire il piccolo Veggente, ma c'era qualcosa che gli impediva di agire.
Era come se fosse paralizzato... dalla paura?
«Codardo! Codardo! Hai solo paura della Morte, ma la Morte colpirà anche te!» ripeté Sam, gli occhi cerulei spalancati verso di lui.
«No!» gridò il Signore Oscuro, in preda alla follia. «Io vivrò per sempre!»
E poi Sam cominciò a dire cose di cui non conosceva nemmeno l'esistenza, ma era che certo fossero quelle giuste, come se qualcuno gliele stesse suggerendo all'orecchio. «Nessuno può vivere per sempre. I tuoi Horcrux sono tutti distrutti, Tom».
«Non osare chiamarmi in quel modo!» sbraitò Voldemort, fuori di sé dalla rabbia. «E cosa ne sai tu dei miei Horcrux?»
Sam sorrise enigmatico. Non sapeva nemmeno cosa fossero, ma aveva la netta percezione che si trattasse di qualcosa di importante per il mago. Qualcosa di vitale.
«Il diario, l'anello dei Gaunt, il medaglione di Serpeverde, la coppa di Tassorosso, il diadema di Corvonero e il serpente Nagini» snocciolò tranquillamente, come se stesse ripetendo l'elenco della spesa. Non aveva la più pallida idea di come gli fossero venute alla mente quelle cose, ma le sapeva e basta. Le percepiva.
Voldemort indietreggiò ancora di qualche passo, atterrito. «Come... come le sai queste cose?» domandò, incapace di credere che qualcuno fosse venuto a conoscenza di tutti i suoi più profondi segreti.
Sam si stinse nelle spalle. «Le so e basta» rispose con tranquillità. Poi fece un altro passo verso Voldemort e, per quanto fosse piccolo e minuto, pareva più minaccioso che mai. «Sono tutti distrutti, Tom» gli rivelò, senza bene capire da dove gli venisse l'idea di chiamarlo con quel nome. «Sei mortale. Arrenditi».
«No!» gridò Voldemort, il suo volto serpentesco trasfigurato in mostro dalla pura rabbia. Alzò la bacchetta, pronto a scagliare la maledizione su quel fastidioso marmocchio, ma...
«Morirai. Morirai. Morirai. Morirai» cominciò a cantilenare Sam, avanzando verso di lui.
Voldemot strinse la presa sulla Bacchetta di Sambuco, ancora levata in aria, incapace di muoversi. «Smettila di ripeterlo!» gridò in preda al furore.
«Morirai. Morirai. Morirai...» continuava a ripetere Sam, ma poi fu colto da uno spasmo, si irrigidì e spalancò gli occhi, che parvero ancora più grandi e fissi del solito.
«Accadrà questa notte» prese a dire, con una voce dura e innaturale.
«Il Signore Oscuro morirà questa notte, per mano di ciò che lui teme più di ogni altra cosa: la Morte. La Morte verrà, questa notte, e giustizierà colui che ha tentato di sfuggirgli».

Neville si alzò lentamente da terra, ma Voldemort non parve nemmeno accorgersene, preso com'era a fissare allibito il piccolo Veggente.
Sammy era stato colto da qualcosa di strano: era tutto rigido e parlava con una voce che non era la sua. Neville estrasse lentamente la sua bacchetta dalla tasca dei pantaloni, ma rimase immobile, in attesa di chissà cosa.
Eppure, capiva che era quello il momento migliore per agire.

«Accadrà questa notte. Il Signore Oscuro morirà, ucciso da ciò che teme più di ogni altra cosa...»

E Neville agì. Levò la bacchetta davanti a sé e gridò: «AVADA KEDAVRA!»
Un raggio di luce verde illuminò per un attimo la sala e centrò il suo obiettivo, prima che questo potesse accorgersi di quello che era successo. Voldemort sgranò gli occhi per la sorpresa, poi stramazzò a terra.
Morto.

La cantilena di Sam si interruppe e il bambino crollò a terra.
«Sammy!» esclamò Neville, correndogli incontro per soccorrerlo. Si inginocchiò e lo strinse a sé, accarezzandogli il viso con il dorso della mano.
Sam si riprese lentamente, come se si destasse da un sonno profondo. «Io... non so cosa ho detto» mormorò in tono sconnesso, lasciandosi sorreggere dalle braccia di Neville.
«Sei stato bravissimo, Sammy» lo rassicurò il ragazzo, con un gran sorriso.
Solo allora Sam si accorse del corpo riverso a terra alle sue spalle. Lo guardò, incredulo, ma era decisamente lui: lord Voldemort. «È... morto?» sussurrò con un filo di voce, come se dirlo troppo forte rischiasse di rompere l'incanto.
«Sì, Sammy. È finita» rispose Neville, anche lui in un sussurro. Il bambino gli gettò le braccia al collo e Neville si alzò in piedi, tenendolo in braccio. Per un attimo si strinsero in silenzio, poi insieme scoppiarono a piangere. Era un pianto liberatorio, per scacciare tutte le ansie e timori accumulati. Era la libertà non più sperata, era il pianto della vita strappata dalle dita fredde della morte, il pianto della rinascita. Una boccata d'aria dopo minuti d'apnea, un sorso d'acqua fredda nel deserto.
Fu un gridò che squarciò la notte a riscuoterli.
«Mio Signore!» gridò uno dei Mangiamorte più fidati, entrando nel salone e vedendo il corpo a terra. Si gettò al suo fianco nel vero senso della parola e cominciò a baciargli la veste e a chiamarlo in tono supplichevole, come se sperasse di farlo svegliare. I suoi ululati di disperazione richiamarono anche altri Mangiamorte che, increduli alla vista del cadavere del loro Signore, si gettavano a terra e si strappavano ciocche di capelli, in patetiche dimostrazioni di dolore, oppure, consci di essere vicini alla loro fine, pensavano bene di darsela a gambe, abbandonando il loro padrone ormai morto.
I primi dell'Ordine ad arrivare di corsa sul luogo furono Aberfoth, Minerva e Dean, che sorreggeva Percy. Quest'ultimo era messo piuttosto male, con numerose ferite che gli inzuppavano di sangue il maglione.
«Per la barba di Merlino!» esclamò Aberforth, alla vista del cadavere di Voldemort. «È morto!»
«Neville?» lo interpellò Minerva, allibita.
«È morto» confermò il ragazzo, con un sorriso stanco.
Ci fu sono una frazione di secondo di incredulità, poi scoppiarono delle urla di giubilo tanto potenti da far sembrare che le pareri della sala avessero preso a tremare. Aberforth e Minerva si abbracciarono, gridarono e piansero. Arrivarono anche Filius e Luna, quest'ultima con un brutto taglio che le attraversava la faccia, ma con un gran sorriso che le illuminava gli occhi. Abbracciò Dean con foga e poi rivolse uno sguardo pieno di gioia anche a Neville, che stringeva ancora a sé il piccolo Sammy, come se avesse paura di vederselo portare via di nuovo.
«Molto bene!» esclamò Aberforth, sovrastando i festeggiamenti. «Mi rivolgo a voi Mangiamorte, ora» disse, burbero come sempre, ma sicuramente con un senso pratico maggiore degli altri. «Se vi arrendete subito e senza lottare, prometto a tutti voi un equo processo».
Narcissa si fece avanti tra la folla, trascinando il figlio Draco per una manica. Guardò Aberforth dritto negli occhi e poi depositò la sua bacchetta ai piedi di lui. Aberforth la guardò impassibile, ma poi si chinò a terra, prese la bacchetta e gliela restituì. «Tu non sarai incriminata. Ci hai aiutati anche a scapito della tua vita» la rassicurò, con un cenno del capo, il gesto più gentile che fosse in grado di fare.
Dopo di lei, anche se con una certa riluttanza, pure Draco depositò la sua bacchetta a terra, seguito da suo padre Lucius e da molto altri. Per ultimo, anche il Mangiamorte che si era gettato a fianco di Voldemort e aveva baciato le sue vesti si avvicinò a Aberforth, ma il suo sguardo non faceva presagire nulla di buono: non sembrava per nulla disposto ad arrendersi.
Ci fu una frazione di secondo di tensione, poi il Mangiamorte sputò in faccia ad Aberforth.
«Non mi avrete mai!» gridò l'uomo, ma Minerva fu più veloce: estrasse la sua bacchetta con una rapidità impressionante per la sua età e gli scagliò addosso un incantesimo che lo sbatté contro la parete. Poi fece uno scatto con la mano e i due grossi serpenti di pietra che ornavano il portone presero vita e si avvinghiarono attorno alle braccia del Mangiamorte.
«Non osare mai più, Lestrange!» scandì per bene Minerva, mentre i membri dell'Ordine scoppiavano in un fragoroso applauso.
Proprio in quel momento, però, Percy, ancora sorretto dal braccio di Dean, tossì e sputò sangue. Dean lo adagiò delicatamente a terra, tenendogli il capo sollevato, appoggiato sul suo grembo. «Resisti, Perce, ora torniamo a casa e guarirai» lo incoraggiò, anche se nemmeno lui sembrava credere alle sue parole.
«No» mormorò Percy, in un sussurro. Sul suo volto era comparso un sorriso beato, come se avesse finalmente ritrovato la serenità dopo anni di sofferenze. «Ho ucciso Bellatrix Lestrange. Mi sono vendicato e il Pelatone è morto: ora ritornerà la pace, ma io non sono fatto per questa pace».
«Non dire così...» sussurrò Dean, afferrandogli la mano con forza.
Minerva si avvicinò e si chinò al fianco di Dean, mettendogli una mano sulla spalla per rincuorarlo. «Dean, lascialo morire in pace» gli mormorò, con un sorriso triste.
«Loro... mi aspettano!» esclamò Percy, spalancando gli occhi come se avesse avuto una visione. Due singole lacrime gli attraversarono le guance e un sorriso gli si disegnò sulle labbra. Poi, con un ultimo spasimo, morì.
Dean chiuse gli occhi e appoggiò la sua fronte a quella di Percy.
«È tornato dalla sua famiglia» lo rassicurò Luna, cingendogli un braccio intorno alle spalle.
«Porca vacca!» esclamò proprio in quel momento David, arrivato sulla scena con Dennis e Astoria. David stringeva ancora al petto la Passaporta, come se da quella dipendesse la sua stessa vita. Lanciò una veloce occhiata al cadavere di Voldemort, poi commentò con aria schifata: «Cielo, era proprio brutto!»
La sua uscita strappò qualche risatina divertita tra i membri dell'Ordine.
«Mamma!» esclamò Sam, quando vide comparire sull'uscio la madre, accompagnata dalla sorella Esther.
«Sammy!» esclamò Rachel, con le lacrime agli occhi.
Neville lo fece scivolare a terra, per permettergli di correre incontro alla madre, mentre lui rivolgeva un sorriso timido a Esther. La ragazza non esitò nemmeno un secondo: gli corse in contro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò, lì, in mezzo a tutti.
«Oh, Esther» mormorò Neville, affondando il viso nel suo abbraccio. Esther cercò di ricacciare indietro le lacrime di commozione, ma capì che era una lotta inutile perché stretta nella presa di Neville, con il capo nascosto nell'incavo tra il collo e la spalla, ad annusare il suo profumo di verde e di terra, era la donna più felice del mondo.
«È finita, è finita» la rassicurò Neville, quando si sciolsero dall'abbraccio.
«Finita?» latrò Aberforth, richiamando l'attenzione di tutti su di sé. «Questo non è che l'inizio! Ora comincia il duro lavoro: bisogna rimettere in sesto il Ministero».
«E anche Hogwarts» precisò Minerva, in tono puntiglioso, ricevendo lo sguardo d'approvazione di Filius.
Aberforth si avvicinò a Neville e gli mise una mano sulla spalla. «Tu sei l'eroe di questa battaglia, Neville Paciock. Preparati a glorie, onori e tanto lavoro» lo avvertì, con una strizzata d'occhio, un gesto decisamente troppo frivolo per lui.
«Glorie? Onori?» gli fece eco Neville, scuotendo la testa. «Io non voglio niente di tutto questo» disse, cercando la mano di Esther. Quando la trovò, gliela strinse e le rivolse un accenno di sorriso. Se ci fosse stata lei al suo fianco, sarebbe andato tutto bene.
«Io... coltiverò piante» spiegò, in tono tranquillo. «E aprirò un vivaio».








Eccoci giunti, ormai, all'ultimo capitolo di questa storia! Lunedì posterò l'epilogo e (per ora... non si sa mai!) diremo addio ai protagonisti della storia!
Comunque, Sam ha pronunciato la sua prima vera profezia, di quelle che si meritano un posticino all'Ufficio Misteri. Il fatto che sia Sam l'asso nella manica per eliminare il Pelatone è spiegabile con l'idea che uno come Voldemort ha paura del futuro e teme il proprio passato. Diciamo che è facilmente impressionabile da un Veggente, sotto quest'aspetto! XD E il caro Sammy ci è andato giù pesante!
Ebbene sì... il Pelatone è morto, la guerra è finita! Ma, come ricorda gentilmente Ab, il bello deve ancora arrivare: c'è da rimettere in piedi uno stato che ha passato gli ultimi 5 anni sotto una specie di dittatura. A quanto pare, però, Neville non ha alcuna intenzione di stare sotto i riflettori della fama! ;)
Ah, per chi aspettava il momento di gloria di David, ve l'ho servito su un piatto d'argento: "Porca vacca, era proprio brutto!" hahahah! Povero Pelatone... insultato così da un Babbano! XD Anche Minerva, comunque, ha avuto la sua occasione, quando mette fuori gioco con un colpo di bacchetta Lastrange!
E Percy... mi piange il cuore per lui, ma non potevano salvarsi tutti durante una battaglia del genere: Percy era la persona adatta a morire, dopo aver ucciso Bellatrix, perché si ricongiunge con la sua famiglia; dubito che, anche in tempi di pace, avrebbe potuto vivere serenamente sapendo di essere l'unico Weasley sopravvissuto.
Ok, basta chiacchiere! A dopodomani con l'epilogo!
Beatrix

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


Epilogo

19 anni dopo,
1 settembre 2022, alla stazione di King's Cross



Faceva piuttosto freddo quell'anno, pur essendo appena terminato il mese di agosto. Le foglie sugli alberi erano ancora verdi, ma il cielo era bianco lattiginoso, come nelle peggiori giornate autunnali. Tutti i pendolari che affollavano la stazione di King's Cross erano imbacuccati in sciarpe e cappotti, frettolosi nel loro incedere lungo i binari.
Una bambina con due codini che le incorniciavano il volto paffuto e lentigginoso, spingeva con orgoglio un enorme carrello stracolmo di valige, coronato da una pianta in vaso dall'aspetto tentacoloso. Al suo fianco, camminava tranquilla una coppia di signori che dovevano essere sicuramente i genitori, a giudicare dall'incredibile somiglianza con il padre.
«Sono così emozionata, papà!» esclamò la bambina, scuotendo allegramente i codini.
Il padre le rivolse un sorriso incoraggiante. «È normale, Alice, ma non ti devi preoccupare. Andrai benissimo» cercò di rassicurarla, posandole una mano sulla spalla.
Nel mentre, due ragazzini talmente simili da non poter essere altro che gemelli, li sorpassarono di corsa, spingendo ciascuno il proprio carrello con le valige. Non rallentarono il passo quando divenne evidente che a quella velocità non potevano che schiantarsi in pieno contro la barriera tra i binari 9 e 10. Ma, invece di sbattere addosso al muro, lo attraversarono come se fosse fatto di gelatina.
Nell'attraversare la parete, uno dei due ragazzi urtò con una spallata il gemello.
«Mi hai spinto deliberatamente!» esclamò quello dei due che era stato colpito.
«Deliberatamente?» gli fece eco l'altro, fingendosi innocente.
«Sì, Jacob, deliberatamente. Lo so di aver usato una parola con troppe sillabe per il tuo ridotto vocabolario, ma speravo che mi capissi ugualmente» gli rispose il gemello, con un certo sarcasmo.
«Sei un insopportabile saputello» lo insultò Jacob, dandogli uno spintone, questa volta ben più che deliberatamente.
«Jack, Elias, piantatela» li rimproverò la madre, che li aveva appena raggiunti attraversando la barriera magica.
Si ritrovarono sul binario fumoso e affollato da cui partiva l'espresso per Hogwarts. Genitori commossi salutavano i propri figli che non avrebbero rivisto fino a Natale, mentre i compagni di scuola si rincontravano dopo l'estate. Alcuni occhi curiosi indugiarono sulla famigliola che aveva appena raggiunto la banchina: apparentemente non aveva nulla di diverso rispetto alle altre, ma chiunque avesse un minimo di coscienza di quanto era accaduto negli ultimi trent'anni, non avrebbe potuto non riconoscerli. Neville Paciock e Esther Lechner, gli eroi della Seconda Guerra contro Voldemort, con tanto di figli.
«Perché ti guardano tutti, papà?» domandò Alice, notando improvvisamente un gruppo di streghe che distolsero gli occhi quando lei si accorse che li stavano fissando.
Neville soffocò una risatina nervosa: erano passati quasi vent'anni, ma ancora non si era abituato ad essere al centro dell'attenzione. «È perché sanno che il mio vivaio è il migliore della Gran Bretagna, tesoro» le rispose con un sorrisetto.
«Ehi, ci sono i Thomas!» esclamò allegro Jacob, richiamando l'attenzione di tutti su una famigliola che si stava facendo strada attraverso la folla.
Dean cominciava ad avere alcuni riccioli grigi all'altezza delle tempie, ma nel complesso era decisamente un uomo affascinante. La moglie Luna, che pendeva dal suo braccio, era stravagante come sempre: indossava una ampia gonna variopinta e aveva arricciato quello che pareva un pennello per dipingere attorno ai suoi capelli biondo sporco perennemente arruffati. Il suo sorriso, però, alla vista dei vecchi amici, non poteva essere più luminoso. Li accompagnava Lysander, il loro unico figlio, un bel ragazzo mulatto dall'aria simpatica, con gli occhi vispi e una massa di disordinati capelli ricci.
«Buongiorno a voi» li salutò Luna, con un'espressione beata in volto.
Jacob e Lysander si scambiarono un qualche tipo di saluto che solo due ragazzi di tredici e dodici anni potevano pensare desse loro un'aria da macho. Elias, infatti, si limitò ad una smorfia di scherno nei loro confronti.
«Vinceremo noi la Coppa delle Case, quest'anno, Jack!» decretò Lysander, pieno di buoni propositi per il nuovo anno scolastico.
Jacob allungò la mano per farsi dare il cinque dall'amico, poi rivolse un sorrisetto al gemello. «Certo che la vinceremo noi. Grifondoro è il meglio» esclamò, entusiasta di essere stato scelto per la casa degli eroi coraggiosi.
Elias sbuffò sonoramente, per dimostrare tutta la sua disapprovazione. Lui, ovviamente, era finito tra i Serpeverde, come sua madre. Ambizioso e un tantino menefreghista: non avrebbe potuto trovare una casa migliore. Ma questa differenza aveva fatto sì che tra i due gemelli Paciock non corresse propriamente buon sangue. Almeno, per quel che riguardava la disputa sulle case.
«Ehilà!» esclamò una voce allegra, proprio in quel momento, facendo voltare tutti. Era appena comparso un ragazzo che indossava un giubbotto blu elettrico e un cappellino da baseball con la visiera che nascondeva a stento due fissi occhi cerulei.
«Bel cappello» commentò Luna, con un sorriso.
«Sammy! Che ci fai qui?» domandò sorpreso Dean.
Sam si strinse nelle spalle, ostentando naturalezza. «La vecchia Cooman è finalmente andata in pensione» rivelò, creando un po' di suspance.
«E la preside ha preso te?» domandò Lysander, curioso.
Sam si limitò ad un sorriso vago. «Be', Minerva avrebbe voluto eliminare Divinazione dai programmi di Hogwarts, ma io l'ho convinta a tenerla» spiegò, scrollando le spalle. Aveva un tono tranquillo e indifferente, che avrebbe potuto ingannare gli altri, ma per chi lo conosceva bene, era evidente che moriva dalla voglia di raccontare quello che era successo.
«E...?» chiese Alice, morsa dalla curiosità.
«E mi ha scelto come nuovo insegnante di Divinazione. Dopotutto, quale candidato migliore di me?» rivelò Sam, con un grande sorriso soddisfatto che gli illuminava il volto. Un barlume di ambizione e orgoglio brillò per un attimo nei suoi occhi azzurri e improvvisamente fu chiaro perché il Cappello Parlante l'avesse assegnato a Serpeverde: non solo perché lui stesso l'aveva chiesto, per finire nella medesima casa a cui erano appartenuti sua sorella Esther e Regulus Black, ma anche perché, sopite sotto cappellini da baseball e sorrisi sereni, Sam aveva tutte le credenziali per portare gloria alla casa di Salazar Serpeverde.
«È fantastico, Sam!» si complimentò Esther, abbracciando il fratello. Era così orgogliosa di lui: a soli ventiquattro anni aveva già preso la sua vita in pugno, scegliendo con decisione la strada che avrebbe voluto percorrere.
«Io non ho scelto Divinazione tra le discipline del terzo anno, zio» borbottò Elias incrociando le braccia, mentre tutti si complimentavano con Sam per il risultato raggiunto. «È una materia imprecisa, dove, più che altro, si tira ad indovinare».
«Certo, Elias, ma...» cominciò a dire Sam, quando sgranò gli occhi e si interruppe. Posò una mano sulla spalla del nipote e prese a fissare un punto da qualche parte dietro di lui.
«Cosa hai visto?» domandò Elias, con una certa preoccupazione.
«Niente!» rispose allegro Sam, ritornando improvvisamente sorridente. «Però la tua faccia era impagabile!»
Elias si imbronciò, quando tutti scoppiarono a ridere. Si era lasciato fregare come uno scolaretto.
Per fortuna, ulteriore imbarazzo gli fu evitato dal tempestivo arrivo della famiglia Lechner.
«Miriam!» esclamò Alice, correndo ad abbracciare la cugina.
David, Babbano e con una moglie Babbana, non avrebbe mai immaginato che la figlia ereditasse dalla nonna le capacità magiche. Era stata una grande sorpresa quando era arrivata la lettera da Hogwarts anche per Miriam. Certo, lui era avvezzo alla magia, ma non si immaginava assolutamente che avrebbe avuto una figlia strega. A volte il destino aveva proprio uno strano senso dell'umorismo.
«Andremo finalmente a Hogwarts!» esclamò la piccola Alice, con un gran sorriso. «Non sei eccitata?»
«Un pochino» concesse Miriam, che più che altro era preoccupata per quello che avrebbe trovato alla nuova scuola. I maghi nati da genitori Babbani non erano più così disprezzati e lei avrebbe sicuramente potuto contare sull'appoggio dei cugini Paciock, ma era comunque consapevole che avrebbe dovuto lavorare di più per essere considerata come gli altri. Be', non sarebbe stato un problema: suo padre le aveva rivelato che con onestà e duro lavoro avrebbe potuto raggiungere qualsiasi meta.
«Guardate chi c'è» sibilò Dean in quel momento: il fumoso vapore del treno si diradò per un attimo e tre persone si stagliarono nitide sullo sfondo. Draco Malfoy e sua moglie Astoria Greengrass, con un figlioletto biondino che assomigliava parecchio al padre. Astoria se ne stava appesa al braccio di Draco e lanciava in giro occhiate di superiorità. Quando si accorse che i suoi vecchi avversari li stavano fissando, sussurrò qualcosa al marito e i due si limitarono ad un secco cenno con il capo.
«E così quello è il piccolo Scorpius» commentò Esther, nemmeno troppo sottovoce. «Vedi di ricordargli ogni tanto che i suoi genitori sono vivi grazie a noi, Alice. Magari si tolgono quella smorfietta di superiorità dalla faccia».
«Esther, ti prego, non metterli contro prima ancora che cominci la scuola» ridacchiò Neville, anche se era leggermente preoccupato dallo sguardo di sfida che sua figlia Alice aveva lanciato al piccolo Malfoy.
«Forza, ragazzi, è ora di andare» li incitò David. La sua corporatura decisamente massiccia attirava non pochi sguardi, ma il peso eccessivo era l'unico retaggio adolescenziale: per il resto, aveva mitigato la sua originaria pigrizia con un'etica di impegno e lavoro onesto. Quella breve esperienza tra i maghi dell'Ordine della Capra gli aveva insegnato che ognuno poteva fare la sua parte, anche piccola, per la realizzazione di qualcosa di grande.
I ragazzi presero a salutare i genitori, con abbracci e baci. Anche Sam salutò gli altri, perché aveva deciso di fare il viaggio in treno: non aveva mai apprezzato molto la Materializzazione, forse perché la prima volta che l'aveva sperimentata era stata insieme a lord Voldemort. Comunque fosse, preferiva i mezzi tradizionali; e poi il treno era un'ottima occasione per fare due chiacchiere.
Elias e Jacob presero a spintonarsi per riuscire a salire per primi in carrozza.
«Andranno mai d'accordo?» sospirò Neville, alzando gli occhi al cielo.
«Papà?» lo richiamò Alice, con una vocina insolitamente sottile per lei. «E se divento una mollicciona Tassorosso?»
Neville le rivolse un sorriso bonario. «Alice, tesoro, in qualsiasi casa finirai, noi saremo orgogliosi di te» le rivelò dandole un buffetto sul naso lentigginoso.
«Be', proprio Tassorosso magari no, eh?» intervenne Esther, ma si bloccò all'occhiataccia del marito. Non poteva farci nulla: vecchi retaggi dei pregiudizi Serpeverde.
«Va bene, tesoro, qualsiasi casa» si arrese, abbracciando la figlia. «Ma cerca di diventare una Serpeverde» le sussurrò all'orecchio, in modo che solo lei potesse sentire.
Alice soffocò una risatina. «Vedremo, mamma, vedremo» le rispose con un sorriso sibillino.
Esther sospirò. Sapeva che caratterialmente la figlia era più vicina a Grifondoro, ma sperava che il Cappello Parlante patteggiasse per lei, questa volta.
Quando tutti i ragazzi furono saliti sul treno, Esther li guardo sporgersi dal finestrino per salutare. Elias e Jacob si spintonarono per conquistare il posto migliore, Lysander si sbracciò, mentre Miriam e Alice, eccitate e ansiose insieme, rivolgevano ai genitori saluti nervosi e impacciati.
Finalmente il treno cominciò a muoversi e la banchina fu invasa da enormi nuvole di vapore che avvolsero tutti, rendendo i contorni sfumati e tremuli. Esther alzò la mano per salutare i figli e non poté evitare di commuoversi alla vista dei ragazzi che si allontanavano, ricordando le sue stesse emozioni quando prendeva il treno per raggiungere Hogwarts.
E così, lei e Neville sarebbero rimasti soli fino a Natale.
«Se la caveranno?» domandò con un sospiro, rivolta al marito.
Neville le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse a sé. «Se la caveranno, vedrai» la rassicurò, posandole le labbra sulla fronte per un bacio delicato.
«E noi? Ce la caveremo senza di loro?» sospirò Esther, appoggiando la testa sulla spalla del marito.
Il treno sparì oltre una curva e Neville sorrise sereno.
Erano anni, ormai, che andava tutto bene.
«Ce la caveremo, Esther» le rispose in tono tranquillo. «Ce la caveremo»..








Ebbene, eccoci giunti all'epilogo, conclusione di questo mio esperimento (spero riuscito!) con what if e personaggi della saga.
I gemelli sono, senza dubbio i miei preferiti! Elias, soprattutto... ah, cari vecchi Serpeverde! Il nome di Jacob non ha nulla a che fare con la saga di Twilight, ma è semplicemente un nome biblico (come molti altri, del resto: Samuel, Elias, David, Esther, Joseph, Miriam), visto che i Lechner sono di origine ebraica. Quanto ad Alice, ovvio che non poteva aver paura di finire a Serpeverde come il caro Albus Severus (io non darei mai il nome di Piton ai miei figli! ndNeville), ma volevo inserire qualcosa che ricordasse quella scena: ergo, paura di finire tra i Tassorosso, che hanno la fama dei buoni a nulla (poveri!); comunque, lei sarà Grifondoro (mi spiace per Esther!) e Miriam Tassorosso (un po' di giustizia anche a loro!). Lysander ha il nome di uno dei due gemelli figli di Luna nella versione della Rowling; qui è uno solo perché ci sono già i gemelli Paciock! E, ovviamente, è mulatto, visto che Dean è di colore! ^^
Quanto a Scorpius, ho posticipato di qualche tempo la sua nascita (ufficialmente è nato nel 2006, qui invece nel 2011) visto che il matrimonio di Draco e Astoria è stato un tantino posticipato dal prolungamento della guerra per 5 anni. Per questo Scorpius è coetaneo di Alice e Miriam.
A proposito di questa originale new generation, QUI il link dell'immagine che li rappresenta!
E non si sa mai che prima o poi non mi metta a scrivere qualcosa su di loro! *-*
Comunque, Sam è tra i Serpeverde, perché ha dimostrato di avere la tempra necessaria per la grande casa di Salazar! Vi ricordo che ha manipolato Narcissa per spingerla a chiedere aiuto all'Ordine! ;)

Basta note chilometriche! Grazie a tutti quelli che hanno seguito, letto e recensito questa storia. Spero che vi abbia entusiasmato e regalato qualche emozione.
Alla prossima occasione,
Beatrix B.

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