Charles&Erik - Welcome To Westchester (X-Men First Class) Pt. 4

di Exelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


  Welcome to Westchester
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4
 
 
Non c’è inganno peggiore che l’essere innamorati.
Il mondo assume i contorni dell’assurdo e  le tonalità della gioia.
Solo il fiele della realtà, incrina l’illusione.
E.F.


CAPITOLO I
 
 
Westchester, New York, 1962
 
Nel diffuso bagliore giallastro del primo mattino, striature di nuvole cominciarono a coronare le irregolari creste degli alberi. Le loro sagome nere pian piano vennero strappate all‘oscurità, riprendendo i loro veri colori, mentre le ombre dei loro rami cominciavano ad allungarsi sul neonato verde dei prati ben tagliati. 
L’aria era fresca e non sarebbe stato difficile immaginare, più tardi, l’arrivo di una lieve brezza che avrebbe ben presto asciugato la rugiada sulle larghe foglie delle siepi d’alloro o nelle aiuole ornamentali lungo i vialetti.
Il cielo andava schiarendosi assumendo toni sempre più azzurrini, disperdendo il violetto delle ultime ore della notte. Solo l’ombra fantasma e lattiginosa della luna sopravviveva ancora, in attesa di essere scacciata dal sole, quando questo sarebbe sorto.
Charles Xavier, percepì con insofferenza la luce che entrava dalla finestra semi aperta, il monotono ronzio di un insetto intento a sbattere contro il vetro socchiuso.
Senza svegliarsi del tutto, Charles si girò su un fianco, tirando il più possibile le coperte sopra di sé, sentendo qualcosa di piccolo rotolare fra queste e cadere sul pavimento con una serie di  tintinnii aritmici. Charles non se ne interessò minimamente, preferendo raggomitolarsi su sé stesso, serrando le palpebre e schermandosi gli occhi con le braccia.  
Non aveva voglia di alzarsi; era stato stupido non chiudere le tende. Avrebbe potuto farlo prima di andare a letto e ora, avrebbe potuto dormire ancora. 
Dovevano ancora mancare un paio d’ore alle nove, forse. Charles fletté le dita, ispirando come se avesse il raffreddore; il sonno lo stava abbandonando, mentre cominciava a pensare in modo più ordinato. O si erano accordati per le otto? Charles non lo ricordava davvero, eppure era stato lui a stabilire l’ora, il giorno prima e quello prima ancora. Forse gli altri si erano già alzati e lui stava facendo la figura dello stupido, vittima della stanchezza, quando avrebbe dovuto essere il primo a dare l‘esempio.
Doveva proprio alzarsi, quindi?  O era maledettamente presto e lui si stava solo sbagliando?
Si rigirò ancora, mettendosi a pancia in giù e affondando la testa nel cuscino, sprimacciandolo prima con qualche pugno poco convinto, prima di arrendersi al fatto che ora era completamente sveglio. 
Aprì lentamente gli occhi, così che le ciglia sfregarono contro la stoffa morbida. La luce chiara gli dava un po’ meno fastidio, filtrata dalle lenzuola tirate sopra la testa. Ne afferrò un lembo, abbassandole lentamente, sbattendo le palpebre e mettendosi a sedere, una mano sulla fronte per proteggere gli occhi da quell’illuminazione così insopportabile eppure tenue.
Quando si mosse, altri scacchi rimasti in piedi sulle caselle nero e avorio tremolarono sulla scacchiera sempre più inclinata, fino a cadere anch’essi. Il rumore che fecero nell’incontrare il parquet ricordò a Charles il rovesciarsi di una scatola di chiodi. Solo un re, una torre ed un paio di temerari pedoni sopravvissero, rimanendo in piedi, seppur vaganti in caselle non loro. Charles ne fu stranamente disturbato, come se avessero commesso qualche imperdonabile sfrontatezza nei suoi confronti. Era irritante sapere che altri pezzi, altri di loro, giacevano a terra, sparsi per la stanza, mentre quelli avevano avuto mantenuto la loro posizione, disinteressandosi nel seguire la sorte degli altri. 
Charles sapeva quanto fosse stupido quel ragionamento, ma quell’irrilevante evento gli appariva una crudele ingiustizia, nella luce mattutina.
Dovevano cadere tutti, e il re nero con loro. Per questo, Charles non fermò il suo braccio, quando colpì la scacchiera, spedendola a terra con un colpo secco. Questa scivolò sul materasso, per poi inclinarsi e cozzare con l’angolo contro il parquet, mente i pezzi sopravvissuti descrivevano piccole parabole in aria. I pedoni tintinnarono sulle assi.
Il re, si limitò ad affondare nello spesso tappeto lanoso, senza emettere suono.
Il rumore metallico e vibrante si riverberò ancora un poco nelle orecchie di Charles, che cercò di raddrizzarsi, districandosi tra le coperte attorcigliate. Diede un’occhiata alla parete, dove l’orologio appeso, teneva i suoi sottili arti metallici piegati in un angolo acuto, con vertici il sei e una tacca pochi minuti dopo il due. Quasi le sei e un quarto.
Charles si appoggiò con la schiena al muro, dandogli una leggera testata ed aggrottando la fronte. Quante sciocche idee per nulla, quanti inutili problemi. A che serviva? Poteva tranquillamente dormire di più ora. Bastava chiudere la finestra e le tende, chiudere gli occhi…. oppure poteva alzarsi. Non gli avrebbe fatto male per una volta.
Si era così abituato agli orari di Oxford, alle lezioni pomeridiane e agli spostamenti delle missioni CIA da non poter più concepire l’idea di svegliarsi presto?
Si pizzicò sotto al naso, inspirando di nuovo ed abbassando le palpebre. Si sentiva accaldato e intorpidito e quasi del tutto sveglio. L’insetto alla finestra continuava a ronzare, anche se in modo più smorzato, come se stesse pian piano abbandonando la lotta contro il vetro. 
Charles ne ebbe pietà.
Scese dal letto, rabbrividendo al contatto tra con il freddo parquet lucido e i piedi nudi. Reprimendo uno sbadiglio si avvicinò alla cassettiera di legno scuro, frugando nel disordine di giornali, lattine, tavole numerate, manuali, scatole vuote, libri e disegni e bottiglie, vestiti e bicchieri che affollava il ripiano. Si chiese se quelle cose fossero lì da molto, alcune non gli apparivano nemmeno sue. Erano davvero tanti oggetti per essere lì solo da un paio di giorni. Quel disordine non gli apparteneva, non apparteneva al Charles che aveva vissuto a  Westchester un paio di anni prima.
Doveva essere stato distratto dalla nuova situazione. Erano passati anni dall’ultima volta in cui le stanze della villa si erano popolate di figure nuove, gente, ospiti.
Charles ricordava ancora con un misto di imbarazzo e desiderio, il sentire le voci degli invitati dei cocktail party di sua madre o le cene di rappresentanza per il patrigno. In estate,
la madre di Charles faceva allestire dei tavolini da buffet intorno alla piscina, tutt‘intorno, cosicché gli ospiti potessero conversare, mentre il loro riflesso faceva lo stesso nell‘acqua. Charles ricordava come le tovaglie bianche dei tavolini rotondi ondeggiassero al vento, fermate solo da piatti d’insalate e gamberetti e Bellini e tutto ciò che il catering di Cipriani portava per l‘occasione. Charles ricordava che ondeggiavano al vento allo stesso modo delle gonne a ruota delle ragazze e delle donne che sua madre giudicava frivole e sciocche, una volta che avevano ripreso i loro soprabiti e si erano allontanate verso le macchine parcheggiate nel viale, al braccio dei loro mariti, quasi tutti colleghi del patrigno di Charles. 
Charles non aveva mai osato chiedere alla madre a  chi si riferisse, se alle donne o al loro modo di vestire. 
Gli era bastato leggerle nella testa, cercando di non farsi scoprire.
Scostò un paio di dischi di seconda mano acquistati a Camden Town, e sorrise quando trovò un pacchetto di sigarette quasi pieno. Aprendo uno dei cassetti dello scrittoio vicino alla finestra, rinvenne anche un vecchio pacchetto di fiammiferi con una cupa illustrazione liberty di una donna dagli occhi spiritati.
Diede ancora un’occhiata al letto sfatto, per poi far scattare il gancio di ferro che teneva accostate le ante, aprendole verso l’interno. Charles vide un piccolo punto ronzante sfuggire fuori seguendo il vento e sorrise, infilandosi una sigaretta tra le labbra. Si appoggiò al davanzale, respirando quell’aria fresca e acquosa, sentendosi stranamente calmo.
Non era così ingenuo dal pensare che quel momento di calma fosse dovuto al suo rientro a casa. Non si era mai sentito del tutto vero, del tutto sé stesso a Westchester e stare lontano da lì, a Oxford e successivamente per gli affari della CIA, in giro per l’America, gli aveva fatto quasi dimenticare questa consapevolezza che no, non era del tutto nuova, ma lo amareggiava comunque. Sapere di sentirsi a disagio tra le mura della sua stessa casa era qualcosa che l’aveva sempre destabilizzato, come se dovesse sentirsi inferiore, perché se per lui non c’era posto dove si sentisse tranquillo e sicuro, equivaleva a sentirsi in difetto rispetto agli altri. E Charles voleva solo essere uguale a loro.
La testa rosso cupo del fiammifero sfregò contro il lato ruvido della scatoletta di carta. L’odore penetrante dello zolfo quasi gli ferì le narici e il primo tiro gli raschiò brutalmente le pareti della gola. Avrebbe dovuto fare colazione prima. Il fumo mischiato alla bocca impastata di sonno erano una brutta miscela e per lui, poco abituato a fumare, quasi insopportabile.
Ma non ci pensò. Pensava piuttosto alla colazione e allontanando la sigaretta dalle labbra, scosse la testa, sorridendo fra sé e sé. Era stato davvero un incapace. 
Aprì la mano, toccandosi la fronte con pollice e indice, chinandosi in avanti e guardando giù verso i giardini. L’erba verdissima era tagliata in modo fin troppo regolare, zone uniformi solcate dalle trincee dei vialetti e delle scale di pietra che s’infossavano, sparendo e aprendo altre stradine che attraversavano i roseti, per poi dileguarsi verso il limitare del bosco artificiale e scomparire del tutto tra i grandi alberi. Quel posto era troppo grande per lui solo.
Schioccò un dito sul filtro, rimanendo a guardare i minuscoli frammenti di cenere staccarsi dalla punta della sigaretta e cominciare a cadere, lenti e vorticanti, nel vuoto sotto la finestra.
Non avrebbero mai incontrato terra, perché il vento se li portò via, sparpagliandoli. Charles li seguì con gli occhi, fino a che non sparirono in direzione di uno dei prati.
Allora lo vide. Charles preferiva pensare che fossero stati i frammenti di cenere ad indicarglielo, e non l’aver avvertito il suo pensare nella sua testa.
Erik doveva essersi alzato altrettanto presto. Sembrava sicuro di dove stesse andando, come se avesse seguito quel percorso altre volte.
Lo guardò attraversare l’ampio spazio ghiaioso vicino all’ingresso di servizio, tagliare per una scaletta piastrellata che portava verso le vasche ornamentali, ancora vuote e incrostate di piante acquatiche ormai secche. Erik ne seguì per un po’ il perimetro, per poi imboccare un’altra stradina. Ad un tratto sembrò quasi fermarsi e voltarsi, come se si sentisse osservato. Charles alzò il braccio in un cenno di saluto, ma poi Erik non si girò, continuando a camminare e lui rimase lì, col braccio piegato a mezz’aria, mentre altra cenere cadeva dalla sigaretta scossa e volute di fumo creavano una patina grigiastra sul paesaggio.
Charles si strofinò la mano libera sui pantaloni del pigiama, come se la sentisse prudere. Avrebbe voluto chiamarlo, l’ipotesi di sussurrare un’ennesima il suo nome nella mente non era affatto malvagia. Ma si erano visti la sera prima e quella prima ancora. Gli unici momenti in cui erano rimasti soli, da quando avevano lasciato Stoccolma.
Non proprio nel modo in cui avrebbe voluto Charles, ma si erano parlati, guardati ed era come se quella barriera che avevano tentato di costruire fra loro al ritorno a Richmond,
non fosse mai esistita. C'erano solo stati altri problemi, quello sì.
Avevano dovuto mantenere dei limiti, o almeno, Charles l’aveva fatto, perché Erik non sembrava affatto porsi il problema. Era come se non ci fosse niente. In presenza di altri, si comportava con il solito distacco, parlando e dicendo solo il necessario, sorridendo raramente e standosene più spesso in disparte. 
Charles ogni tanto lo guardava e si chiedeva a cosa pensasse. Era una sensazione nuova, cercare di comprendere o anche solo d’immaginare che cosa pensasse davvero.
Charles risolveva sempre il problema leggendo della mente dei suoi interlocutori, anche se spesso non ce n’era alcun bisogno:  la maggior parte delle persone che lo circondavano risultavano fin troppo prevedibili e le loro emozioni si traducevano in espressioni, in lineamenti torti ad esprimere felicità, stupore, disgusto o rabbia. Sentimenti primari.
Charles non aveva mai nutrito interesse nell’analizzarli. Erano solo il movente o la risposta ad altre azioni che raramente lo riguardavano. E sembravano così tante, scialbe e opache, di fronte a quello che provava lui. Qualcosa di veramente autentico, unico, eppure faccettato e difficilmente riconducibile entro una recinzione di lettere. E sarebbe stato così brutto, bruciare quel sentire ignoto, entrando nella testa di Erik alla  ricerca di ogni singola spiegazione di ogni suo gesto, dipanandone le congetture, comprendendolo.
Ma la tentazione era sempre presente. E per quanto Erik si opponesse  lo pregasse, Charles non voleva ascoltarlo.
Non poteva, non poteva impedirglielo. Perché Erik non si fidava di lui?
Charles scosse ancora la sigaretta senza fumarla, fino a decidersi di spegnerla, schiacciandola sulla pietra lucida e marmorea del davanzale, nell’angolo in alto, lasciando una traccia nera e polverosa che dissolse, sfregandoci sopra il dorso della mano.
Si allontanò dalla finestra, gettando il mozzicone in uno dei due cestini di latta, passandosi una mano fra i capelli. Aveva bisogno di un bagno, si sentiva ancora leggermente sudato, come se avesse passato una notte agitata a contorcersi tra le coperte. Eppure non era così, perché poco dopo aver  parlato con Erik, la sera prima, ricordava di essersi coricato tranquillo, come se i pensieri riguardo le sue preoccupazioni non fossero stati intenzionati a disturbarlo. 
Andò verso il letto, fermandosi quando vide gli scacchi ancora a terra. Li aveva preparati inutilmente la sera prima, Erik non l’aveva raggiunto in camera alla fine. Si chinò a raccoglierli, modellando una conca tra le coperte scomposte in cui riporli, prima di prendere la scacchiera e ricomporre la scatola in cui richiuderli. Vide che dove era caduta, era rimasto il segno di uno degli angoli. Lo sfiorò con l’indice, premendo la carne del polpastrello, un gesto stupido, come se volesse nasconderlo. L’angolo di metallo aveva tracciato un segno netto e preciso che deturpava il parquet. Quell’imperfezione sembrava davvero evidente, rispetto alla superficie illesa del resto del pavimento. Charles sentiva di nuovo il fastidio, quello che aveva provato nel vedere quel re che si era rifiutato di cadere con gli altri pezzi, prendere possesso di lui.
Sua madre non l’avrebbe mai vista, quell’imperfezione. Ma comunque, non sarebbe mai tornata, rifletté rialzandosi un poco e raccogliendo il cadavere del re sul tappeto vermiglio. Charles non amava fantasticare, ma quel piccolo pezzo d’onice sembrava galleggiare in una pozza di sangue.
Sussultò un poco nell’evocare quell’immagine e cercò di scacciarla dalla testa, mentre guardava involontariamente su una delle mensole cariche di libri, fissandosi su un angolo preciso, cercando di scacciare vecchi fantasmi dalla mente. Strinse il piccolo re tra le dita, come se volesse conficcarselo nel palmo caldo. Poi, si affrettò a rimetterlo nella scatola, rinchiudendolo nel buio, insieme agli altri pezzi.
Gli piaceva giocare a scacchi. Gli piaceva giocare a scacchi con Erik. Non voleva rovinare tutto portandosi alla mente irreali e macabre fantasticherie.
Quel re non era un re, era solo un piccolo patetico oggetto. E non c’era sangue. Solo un vecchio tappeto che avrebbe dovuto decidersi a sostituire.
Fantasticare e giocare con la mente degli altri, ecco qual era il problema di Charles.
La luce pallida del mattino si fece più carica, i vetri catturarono i primi raggi lucenti. Charles si accorse anche di sentire freddo, nei suoi pantaloni a righine e la canotta leggera.
Era un abbigliamento da ragazzo e ora provava vergogna, perché la sera precedente quando aveva parlato con Erik, pensava solo che fosse un tocco informale che Erik avrebbe apprezzato. Ora, alla luce del giorno, gli appariva ovvio perché si fosse astenuto dal fare commenti. Era stato così… infantile. Era chiaro perché Erik non era rimasto con lui.
Eppure, quello che aveva fatto la notte prima, l’aveva fatto solo perché la sera dell’arrivo a Westchester gli aveva risposto fin troppo freddamente, quando Erik gli aveva chiesto di rimanere, dopo averlo accompagnato in una delle camere per gli ospiti. 
Charles se n’era allontanato, senza dargli una spiegazione. Charles non sapeva perché si fosse comportato così, tenendolo a distanza. 
Ancora adesso, questa scelta gli aveva lasciato un certo dispiacere, come se avesse commesso un danno irreparabile.  Il giorno dopo, mentre tutti dormivano, gli aveva detto di raggiungerlo. Non proprio in un modo ortodosso, e quello era stato l'errore di Charles. 
Ora, anche la seconda sera era scivolata via, trasformandosi nel mattino del terzo giorno. 
Charles si chiedeva se la colpa non fosse sua. Westchester non gli era mai sembrata tanto accogliente al pensiero che Erik fosse lì, che dormisse a poche porte di distanza dalla sua. Anche il solo vederlo aggirarsi per il parco…
Tra loro, avrebbe dovuto essere meglio di Savannah, avrebbe dovuto essere la risoluzione di tutti quei sentimenti contrastanti che l’avevano sempre bloccato e reso diffidente e angosciato. Ma a Westchester, Charles era anche in un campo scoperto. Quella era la sua vita, era parte di lui, per quanto la sentisse estranea come casa.
Era come mostrare ad Erik un’altra vulnerabile parte di sé… e questo poteva essere sia un bene che un male.
Si passò la lingua sui denti, sentendo un retrogusto acido e fumoso in bocca. Guardò di nuovo fuori dall’ampia finestra, ma nel biancore accecante del sole che sorgeva, il parco della villa sembrava scomparso, inghiottito dalla luce. E nessuna figura nera, nessun re, ne veniva illuminato.
 
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“Allora questa è Westchester.”
Charles si voltò lentamente. Sorrise. Erano le prime parole che Erik gli rivolgeva da quando erano rimasti soli, dopo che assieme a Raven si era occupato di assegnare le sistemazioni per gli altri ospiti.
L’ultima ad abbandonare il salone era stata Moira, fin troppo affascinata dalla collezione di carte nautiche del patrigno di Charles. Aveva detto qualcosa riguardo la carriera in Marina del padre e Charles aveva annuito, rivolgendole qualche domanda garbata, qualche osservazione sulla sua famiglia, ascoltandola con quanta più attenzione possibile.
Erik aveva seguito la loro conversazione distrattamente. Vicino alla finestra, il suo interesse si era rivolto in particolare alle file di libri che s’intravedevano nella biblioteca, oltre il corridoio, a quegli scaffali dominati dall’ombra che Charles gli aveva indicato nel pomeriggio, dopo aver fatto un giro per la grande casa.
“Non ti piace?” gli domandò Charles, avvicinandosi, le mani in tasca. Fece un altro paio di passi nella sua direzione, ma poi, ad un metro da lui, si fermò, come sul confine di una linea invisibile.
Erik lo vide guardare in direzione di una delle porte che davano sul corridoio, comprendendolo. Non se la sentiva di chiedere direttamente a Charles di stare assieme quella sera, erano arrivati da poche ore. Charles sembrava altrettanto titubante. Quella era casa sua, era naturale che fosse a disagio a fare e a ricevere proposte del genere. Anche Erik lo sarebbe stato.
 Aveva già provato una simile, sgradevole afflizione, mentre percorrevano il viale d’ingresso e la villa cominciava a fare la sua apparizione fuori dai finestrini dell’auto.
Qualcosa di simile al tradimento. E all’invidia.
Si era domandato come fosse cresciuto Charles in quella casa. Era lì che Charles aveva vissuto, mentre lui era chiuso dietro recensioni di ferro?
Erik sapeva di essere ingiusto, ma pregò dentro di sé che Charles non gli leggesse nella mente in quel momento. Non l’avrebbe perdonato.
Depose il drink su uno dei tavolini, sotto ad una delle lampade basse che illuminavano la stanza con luci giallo biancastre. I loro steli di metallo dorato erano curve eleganti, come se dovessero riprodurre grossi bulbi opalescenti con il calice all’ingiù. “E’ una bella casa” disse piano, cercando di non apparire del tutto piatto.
Charles si sarebbe fatto troppe domande, e lui non voleva.
“Grazie.” Charles abbassò un poco il capo, come se avesse un discorso scritto sulla punta delle scarpe, cercando qualcosa di adatto a cancellare il silenzio imbarazzante che era  scivolato fra di loro.
Erik avrebbe voluto domandargli molte cose. Aveva sottovaluto Charles; in lui, nella sua esistenza, sembrava esserci ben più di un qualche interrogativo irrisolto, o qualche dubbio non confermato.
Immaginare Charles vivere tra quelle pareti e quelle stanze però era strano. Era un ambiente troppo vuoto, troppo grande e dispersivo. 
“Ti mostro la tua camera” sbottò Charles all‘improvviso, facendo un mezzo giro su sé stesso e avviandosi verso la porta. “Vieni?”
Erik assentì e lo seguì nel corridoio, e poi nell’atrio, dove le lucide piastrelle bianco nere gli ricordarono una scacchiera. Ma qui le caselle parevano infinite, e i pedoni erano loro due soli, diretti verso la scala di legno scuro che saliva ai piani superiori.
Erik ricordava di averlo seguito e per tutto il tragitto, fino alla porta del secondo piano davanti a cui si era fermato Charles, non si erano scambiati una parola.
Ma, quando aveva visto Charles mettere una mano sulla maniglia e aprire uno spiraglio, l’aveva afferrato per l’avambraccio e finalmente, Charles l’aveva guardato dritto negli occhi.
“Non c’è bisogno che tu faccia il bravo padrone di casa” gli aveva detto in tono conciliante, cercando di ignorare la fronte aggrottata dell’amico. “Posso fare da solo.”
Charles aveva abbassato il braccio ed Erik l’aveva lasciato andare. “Ne sono sicuro” aveva replicato in tono freddo, prima di scuotere la testa e scusarsi.
“No, sono io che non mi sono spiegato in modo chiaro” rispose Erik. Spinse leggermente la porta, allargando lo spiraglio buio. “Resta.”
Charles nascose di nuovo le mani nelle tasche, lanciandogli un’occhiata distratta. Scosse di nuovo la testa, ma questa volta in segno di negazione. “Non stasera.”
“Resta e basta, Charles” Erik parlò a voce bassa, così che gli uscì un po’ roca. “Solo…”
Erik si sentiva strano. Voleva che Charles rimanesse lì, con lui, anche solo a parlare o a dormire. L’importante era avere Charles vicino.
Nel suo egoismo, sapeva che Charles avrebbe desiderato lo stesso.
Per questo, avvertì un moto di risentimento inacidirgli la gola, quando Charles indietreggiò nella penombra del corridoio, le mani ancora in tasca, allontanandosi da lui.
“Ci vediamo domani, Erik.”
Senza aspettare una risposta, si voltò e accelerò il passo, finché non scomparve del tutto alla vista.
Erik non rimase ancora a lungo nel corridoio. Cercò la luce sulla parete e dopo che il lampadario cominciò lentamente ad irradiare una luce accogliente, con una piccola scarica di elettricità che si perse nell‘aria, chiuse del tutto la porta della sua nuova camera. La sua unica valigia era stata deposta a lato del letto da mani sconosciute e lì stava intatta. 
Con un gesto meccanico, Erik si sfilò la moneta di Shaw dalla tasca della giacca. Senza guardarla, la depose sulla consolle di noce accanto all’ingresso e andò a sedersi sul letto.
Solo quando si distese si accorse di quanto in realtà fosse stanco. Forse Charles provava lo stesso. Forse era per quello che non era rimasto con lui.
In realtà, un altro pensiero catturò la mente di Erik. Charles era deluso. Deluso perché era stata la morte di Munoz a condurli lì, non certo una visita di cortesia. Forse la morte del ragazzo e del capo finanziamenti della Divisione X, avevano aperto la mente di Charles, facendogli capire che c’erano cose più importanti a cui pensare che a… 
 
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Erik cercò di smettere in fretta di pensare, come se fosse possibile.
Provò a concentrarsi su altre cose, cercando di smettere di ripercorrere mentalmente, per l’ennesima volta, la prima sera trascorsa a Westchester. 
Charles poteva sentirlo pensare. Era là, affacciato ad una delle finestre -la sua camera?-, il fumo azzurrino della sigaretta era stato un segnale troppo evidente nella mattina chiara.
Erik pensò che avrebbe potuto girarsi e salutarlo. Ci aveva già pensato mentre camminava accanto a quella che doveva essere una grande piscina vuota.
Fece quasi un mezzo giro su sé stesso, ma poi tornò a guardare di fronte a sé e continuò ad allontanarsi, in direzione di una macchia di betulle, piantate ad intervalli regolari. 
Era uno dei tanti viali alberati che portavano al limitare della proprietà. Il mattino prima l’aveva quasi percorso fino in fondo, inoltrandosi tra gli ippocastani, fino ad una strana radura acciottolata dove cresceva un cedro delle Indie, visibilmente malato.
Camminando nella foschia mattutina, Erik s’inoltrò di nuovo tra gli alberi, fino a ritrovare quel punto, rallentando man mano che si avvicinava all’albero. Spiccava tra gli altri, per le foglie ingiallite e macchiate e la recinzione malridotta che lo cingeva attorno al tronco. 
Erik si ritrovò a camminare sotto quelle fronde provate, dove i raggi del sole filtravano con facilità, rendendo i contorni bucherellati delle foglie e dei rami neri, quasi iridescenti.
Si chiese se dovesse proseguire. Il sentiero lastricato sembrava protrarsi all’infinito, tra file di alberi tutti uguali, le chiome ondeggianti piano nel vento leggero.
Erik si voltò verso la villa. Sembrava ancora così vicina, appena dietro gli alberi… ieri non gli era affatto apparsa così. 
Non riusciva più a scorgere Charles alla finestra però, era andato troppo lontano. Era un bene. Erik non era del tutto certo che Charles potesse sempre resistere all’idea di leggergli nella mente, non dopo il comportamento enigmatico che entrambi avevano mantenuto ultimamente, complice la disgraziata incursione di Shaw alla divisione di Richmond e le nuove direttive da Langley che Charles aveva voluto ignorare.
Erik l’aveva assecondato con piacere. Allenarsi e combattere ? Qualcosa di concreto da fare e a cui pensare, qualcosa di vero che l’avrebbe avvicinato a Shaw.
Quanto gli serviva per ucciderlo.
Si bloccò, le mani nelle tasche della giacca. Si girò ancora verso la villa, ma ormai si era allontanato davvero. Il sentiero aveva fatto un paio di curve ed ora Erik era circondato da file di alberi, tutti simili, rigidi nei loro filari. Era irritante, quella disposizione. Erano come schierati, in attesa di qualcosa; ad Erik quell’associazione riportò a galla ricordi dolorosi e solo quando vide che la terra era coperta da un soffice strato di erba verde e non da fango grigio e viscido, tornò un poco in sé. 
Non voleva pensare ancora al passato. Non mentre era lì, a casa di Charles. 
Sarebbe stato un torto imperdonabile da parte sua, anche se il suo scopo principale, il suo essere lì, era semplicemente perché grazie alla CIA -grazie a Charles- sarebbe arrivato a Shaw.
La prima sera a Westchester era stata strana.
Era quello il suo pensiero mentre cominciava a tornare sui suoi passi, che cosa importava, se Charles lo sentiva?  Anche se sarebbe stato meglio di no…
L’essere salutato da Charles tanto freddamente l’aveva spiacevolmente sorpreso, ma credeva di averlo capito. A Erik sarebbe piaciuto che fosse rimasto con lui, ma preferiva che Charles fosse prima a suo agio, che riprendesse contatto con casa sua. 
Il giorno seguente le cose erano andate meglio, con Charles che stabiliva le direttive e l’organizzazione delle loro giornate di allenamento, mostrando loro il gigantesco bunker sotto la casa, stanze quasi prive di mobili da poter usare come laboratori e altre sciocchezze. Sembrava davvero divertirsi un mondo, nonostante avesse il viso perennemente atteggiato in una smorfia seria e riflessiva. Rideva molto di meno. 
Erik sapeva che in parte, quella pantomima di scuola era stata messa in piedi perché lui gliel’aveva suggerito, ma non aveva mai creduto che Charles avesse reso quella follia quanto più concreta possibile.
Avrebbe voluto che Charles partisse con lui, andando a cercare Shaw insieme, da soli. Sarebbero stati più rapidi, più efficienti. Quella storia dell’esercito… era stata una scelta sconsiderata. Forse l’omicidio aveva aiutato quei ragazzi a crescere… Ma in così breve tempo? Erik si rendeva conto di quanto la sua valutazione fosse stata avventata, ma non avrebbe negato che in buona parte il suo suggerimento a Charles era derivato dal fatto che così facendo, il progetto X sarebbe andato avanti. Tutto portava a Shaw. 
Era solo per Sebastian Shaw che Erik si trovava lì, rifletté, ripetendoselo ancora una volta, quando uscendo dall’ombra delle betulle si ritrovò a percorrere la stradina che tagliava il grande prato in fronte alla villa. 
Per nient’altro. Il sole era mai sorto e la luce calda aveva dissipato l’umida foschia biancastra che aveva aleggiato sopra il terreno, fino a qualche attimo prima.
Charles non era più alla finestra. Questa era ancora aperta, ma le tende scure erano tirate. Si chiese perché si fosse svegliato tanto presto solo per fumare una sigaretta e anche se l’avesse sentito pensare. E, se così era stato, se gli avesse letto nella mente. Non che l’avesse avvertito, non dopo quello che si erano detti la sera precedente…
Ma Charles, come a Stoccolma, gli aveva dimostrato di riuscire ad usare un’altra sfaccettatura del suo potere, lasciandolo pensare ma inibendo la sua capacità di muoversi e anche...
Avrebbe potuto prevederlo ed evitare di aggredirlo. 
Erik rallentò il passo, mentre tornava verso la villa, verso quelle grigie finestre che riflettevano porzioni regolari di cielo. Occorreva solo del tempo. Ad entrambi. 
Mentre risaliva le scale che conducevano al patio vicino alla piscina, la mente di Erik si concentrò sulla sua seconda sera passata a Westchester. 
E anche se era strano, pensare a quei serali momenti frammentari, soprattutto sapendo che di lì a poco l’avrebbe di nuovo rivisto, Erik non poteva farne a meno.
Non riusciva più a capirlo.
 
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“Scusami. Non ti aspettavo, pensavo fossi…” Charles arretrò velocemente, mentre faceva un mezzo sorriso all’indirizzo di Erik, chiudendo la porta con un’ultima occhiata nel corridoio.
“Non mi hai detto un’ora precisa, Charles” replicò Erik sorridendo entrando nella stanza e cominciando a guardarsi attorno.
Non era proprio una camera da letto; almeno, non quella parte, con le pareti piene di scaffali e lampade a muro che sembravano fare a gara per nascondere la tappezzeria. Davanti a lui, due alte finestre a ghigliottina davano sul parco buio, simili a grandi occhi ciechi. Sotto le finestre, una grande scrivania in radica ingombra di plichi di carte, libri e un posacenere di ceramica immacolato, illuminati da una lampada da lettura verdastra.
Erik notò che buona parte dei libri trattavano di medicina; soprattutto, la sua attenzione fu colpita da una vecchia copia dell’Anatomia di Gray, riposta in orizzontale su uno dei ripiani, come se Charles avesse appena finito di sfogliarla, riponendola lì per venire ad aprirgli.
In una parete, si apriva poi un piccolo arco, che a quanto riusciva a vedere, sembrava condurre alla camera vera e propria.
Charles si frappose fra lui e quell’ingresso. Erik vide che era ancora vestito nello stesso modo in cui si era presentato a cena, cardigan e camicia chiari. Erik sollevò un sopracciglio, ma quando vide l’espressione di Charles non fece commenti. 
Voleva fargli un complimento, dire qualsiasi cosa su quanto fosse piacevole essere lì ma forse, l’avrebbe solo trovato come una sciocca frase di circostanza o peggio, falso. “Pensavo non venissi” disse Charles. 
Erik si voltò verso la porta e disse scherzosamente. “Posso sempre andarmene…” Quando si girò di nuovo verso Charles, lo trovò vicino a sé. Davvero vicino.
Charles gli mise una mano intorno al collo, mentre con l’altra gli afferrò la stoffa della maglia, quasi artigliandola. La differenza d’altezza tra loro non era molta, ma Erik chinò il capo comunque, quel tanto che bastava per baciarlo. Voleva solo essere gentile. 
E l’espressione di Charles era inequivocabile. Sembrava quasi aggrapparsi a lui; Erik sentiva la sua mano calda ancora più stretta dietro al collo,  le unghie graffiarlo leggermente. Charles lo baciava con fin troppo entusiasmo, premendo il corpo contro il suo. Foga, si corresse Erik, non entusiasmo. Era strano, come se non fosse Charles… 
Erik… Charles lo strattonò ancora, come se volesse invitarlo a togliersi quei vestiti di dosso. Erik gli mise le mani sui fianchi, per allontanarlo e guardarlo, ma Charles si strinse solo maggiormente a lui, cominciando a strusciarsi e insinuando una mano fra loro, iniziando  a toccarlo attraverso la stoffa dei pantaloni con insistenza. Suo malgrado, Erik si stava davvero eccitando. Respirava molto più rapidamente e quelle ondate di piacevole calore che lo attraversavano erano ben più che una conferma.
 Avrebbe dovuto immaginarlo. Lo sapeva, lo sapeva mentre percorreva il corridoio, lo sapeva mentre fletteva le dita e picchiava le nocche alla porta di Charles.
Lo voleva, pensò, assaporando l’umida bocca di Charles, mentre una fitta di piacere lo attraversava, nel sentire la lingua di lui sfiorare la sua. Avrebbe voluto stringere i denti, per trattenere un gemito. Riuscì solo a fare un debole verso strozzato, quando l’altro gli slacciò i pantaloni, sentendo la mano di Charles stringersi attorno alla sua erezione.
Si accorse che aveva difficoltà a ricordare quello che era successo fino a che non era entrato nella stanza. Ebbe la strana sensazione di essere uno spettatore in quella scena. Non ricordava nemmeno quando Charles gli avesse detto di venire nella sua stanza. Gliel’aveva detto? E dove era prima, prima di essere nel corridoio?
Erik non lo rammentava…
Mi sei mancato. Mi sei mancato, Erik. Le labbra di Charles ora lo baciavano sul collo, dopo avergli abbassato il colletto della maglia. Sentiva i suoi denti sfregare contro la pelle sottile della gola, ed Erik non poté fare a meno di tenere una mano tra i capelli di Charles, assecondando i movimenti della sua testa, e l’altra sulla sua schiena, sotto, accarezzando quella pelle pallida e madida. Poi Charles si spostò un poco e guardandolo negli occhi cominciò ad abbassarsi davanti a lui.
Stai con me, Erik. Stasera, vieni da me, stai con me... disse la voce di Charles nella sua testa. E allora Erik comprese.
Provò a pensare, ma quella situazione sembrava così reale, così vera, che ne fu quasi dissuaso…
“Smettila” disse Erik al falso Charles, che subito levò di nuovo la testa e si alzò, la faccia inespressiva. 
Scusami, disse la voce di Charles, ma Erik sapeva che non era stata la voce di quel Charles davanti a lui a parlare, ma quello che nella realtà, aveva creato quella sciocca illusione. 
“Finiscila qui.”
 
Erik aveva aperto gli occhi. Nella realtà questa volta, non in quella proiettata da Charles nella sua mente. 
Era seduto in biblioteca, solo. Era venuto lì proprio dopo cena, ora ricordava. C’era un libro aperto davanti a lui, un libro di Hawtorne. Ed era tardi, forse.
Dovevano essere andati già tutti a dormire, perché il brusio dei ragazzi e Moira nell’altra sala, quella adiacente, era scomparso.
Si raddrizzò lentamente, si era lasciato scivolare sul divano, schiacciandosi il braccio ed ora aveva il braccio addormentato. Cercò di scuotersi, passandosi un mano sulla faccia, sulle palpebre stanche. Era stato così reale.
Qualche istante dopo, il rumore di passi lo fece voltare verso la porta a due battenti, che ben presto si spalancò. Charles fece il suo ingresso trafelato, il viso arrossato e gli occhi stranamente lucidi. 
“Erik. Oh, Erik… “ disse andando verso di lui, accostando la porta dietro di sé.
Urtò quasi un tavolino, mentre avanzava verso di lui. “Scusami. Scusami. E’ stata una sciocchezza…”
Erik lo guardò inespressivo, il braccio ancora indolenzito. “Perché hai fatto una cosa tanto stupida?” gli domandò, la voce priva di particolari inflessioni.                                                                                                  Charles si passò una mano tra i capelli, sospirando e fermandosi ad un paio di passi da dove Erik era seduto. Aprì la bocca, come se stesse per iniziare un discorso, ma poi non disse  nulla. Rimase immobile davanti ad Erik, che chiuse seccamente il libro di Hawtorne e tornò a guardarlo, incrociando le braccia.
Charles era in pigiama o comunque vestito per dormire, con una canotta che lo faceva sembrare molto più magro di quanto non fosse e dei pantaloni gessati, un po‘ troppo lunghi e pieni di pieghe attorno ai polpacci. Sembrava davvero molto più giovane dei suoi anni. 
“Non so cosa…” Charles scosse il capo, correggendosi.
“So cosa volevo fare, ma mi dispiace, sono stato invadente. Non so cosa mi abbia preso... Erik, davvero, non era del tutto mia intenzione… Volevo solo che venissi da me.”
Erik fece quasi un mezzo sorriso, prima di tornare serio. Inclinando appena il capo, lo scrutò attentamente, finché non lo vide sedersi sul divano di fronte, leggermente curvo e le mani giunte. "Non potevi chiedermelo?"
Non ci voleva molto a capire che era abbastanza imbarazzato. Anche Erik lo era, ma a differenza di Charles riusciva a nasconderlo con maggior abilità.
Se c’era qualcosa che non si sarebbe aspettato, bè… Charles l’aveva davvero sorpreso. Non del tutto in modo spiacevole.
“Potevi chiedermelo” ripetè.
“E’ quello che ho fatto” replicò Charles. Fu lui ad accennare un mezzo sorriso, che Erik volle subito far sparire, dicendo freddamente: “Potevi chiedermelo senza giocare con la mia mente, Charles.”
L’altro aprì le mani un blando gesto di scusa. “Mi sono fatto trascinare. Ma non penso sia stato così spiacevole.”
Lo guardò dritto negli occhi. Erik sapeva che Charles l’aveva fatto con l’intenzione di sorprenderlo, ma c’era anche qualcosa di arrogante nel modo in cui gli aveva risposto.
 “No. Non lo è stato“ gli disse con sincerità, osservandolo. Era proprio davanti a lui e si ritrovò a pensare al modo aggressivo con cui Charles lo aveva baciato in bocca e sul collo,
il modo sicuro con cui aveva preso l’iniziativa, ed Erik si domandò perché non l’avesse capito subito che quella era stata solo una fantasia.
Un fantasia di Charles, questa era la cosa  inattesa. Somigliava...
“E’ stato piacevole” ammise Erik piano, “… Ma avrei preferito che non l’avessi fatto, Charles. Potevi chiedermelo.”
“Erik…” Charles stava per alzarsi, ma fu Erik ad alzarsi per primo, andando a sedersi al suo fianco, seppur mantenendo una decisa distanza e guardando davanti a sé,
sentendosi addosso gli occhi di Charles, quegli occhi azzurri, grandi e fin troppo sinceri.
“Charles, come posso essere alla pari con te, se devi sempre usare il tuo potere?”
“Cosa intendi dire?”
Erik s’incupì un poco, cercando le parole più adatte per esprimere quello che nella sua mente appariva così chiaro.
“Quando ti trovi in difficoltà, anche in cose così… Semplici…”
“Semplici?” domandò Charles, la voce carica d’incredulità e diffidenza. Erik lo ignorò, continuando a parlare:
“Tu ricorri al tuo potere. Non è un male e non è un’accusa… Ma Charles, c’è un divario enorme tra quello che sei e quello che puoi … Dannazione.”
Erik flettè le dita della mano, ricadendo contro lo schienale. Sembrava profondamente arrabbiato con sé stesso, per non riuscire a spiegarsi. 
“Lo sai meglio di me.”
Charles lo guardò interrogativamente. Aggrottò le sopracciglia, poi la sua fronte sembrò distendersi, il viso rasserenarsi.
“Se fossimo esseri umani normali non avremmo questi problemi.”
“Forse no” ammise Erik con un sorriso a mezza bocca.
Charles lo osservò socchiudendo un poco le palpebre. “Vorresti che io fossi umano?”
Erik sorrise mestamente, lanciandogli un’occhiata in tralice. 
“Tu sei anche questo, Charles. Ma in fondo…” il suo sorriso si adornò di una qualche forma di gioia, prima di dirgli: “E’ perfetto così.”
Mi vai benissimo così pensò Erik, ma non glielo disse. Sarebbe stato troppo chiaro.
Sentiva ancora lo sguardo di Charles su di sé. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare ora; girarsi e dirgli che era stato lui ad arrabbiarsi per nulla.
Se Charles si sentiva più libero di essere sé stesso giocando con la mente altrui… 
Erik avrebbe quasi potuto concederglielo. Non gli era dispiaciuto. Quell’eccitazione era stata quasi reale, era uno dei tanti legami che lo univano a Charles.
Persino adesso, sapeva che se l’avesse guardato non avrebbe potuto fare a meno di avvicinarsi di più e baciarlo, sfiorare la pelle morbida sotto la gola, pregarlo di fargli sentire la sua voce nella testa chiamandolo all‘infinito.
Ma sentiva che non avrebbe potuto farlo. Non prima di aver chiarito alcune cose almeno, ora che ne avevano l’occasione. “Non leggermi nella mente, a meno che non te lo chieda. Ci sono cose che…” Erik mosse un poco il capo, cercando le parole. “… Che non posso permettermi di mostrarti.”
“Che non puoi.. O non vuoi?” domandò Charles, serio.
“Entrambe. Charles” Erik si girò verso di lui, trattenendosi, vedendolo voltato nella sua direzione. “Puoi promettermelo? O quantomeno, puoi provarci?”
Charles lo guardò per un lungo momento, in silenzio, corrugando appena la fronte. “Erik, non chiedermelo ancora. Sai che non posso, se non posso sapere cosa pensi io…”
“Non significa che non potrai. Ma solo non farlo a mia insaputa, non sempre i miei pensieri sono…” ... gentili e veri. Molto spesso riguardano Shaw, Shaw e me, e io non voglio che tu capisca, non tutto. Non adesso.
Erik finì la frase solo pensandola. Non voleva litigare con Charles, non era quello il momento per parlare schiettamente del perché fosse lì.
“Non posso promettertelo, Erik.”
“Ma puoi provarci” Erik gli batté una rapida pacca sul ginocchio, lanciando un‘occhiata alla porta socchiusa.  Forse era meglio andarsene  a dormire.
Non avrebbe mai creduto che una conversazione potesse riuscire a stancarlo.
Sai che non lo farò. Tu sai che non lo farò. 
Erik si voltò verso Charles, ancora intento a fissarlo, ma con la mano vicino alla fronte, imperturbabile. Era ancora nella sua mente, Erik lo avvertiva come  un principio di mal di testa, tra le tempie leggermente pulsanti.
“Charles…” Charles. Erik non aveva voglia di ripetersi. C’era qualcosa negli occhi brillanti di Charles, in quelle iridi afflitte dalla tensione, che gli impediva di dire di stare fuori dai suoi pensieri. Non poteva dirgli di allontanarsi mentalmente da lui, perché ad Erik, quel mondo telepatico, dove le cose esterne erano solo un pallido riflesso, piaceva.
Era il mondo di Charles, controllato da lui e, in quel mondo, Erik coltivava l’illusione che niente potesse ferirlo, che non ci fosse niente da inseguire. Lui non l’avrebbe permesso.
Stai con me stasera. Non è un problema.
La mente di Erik venne attraversata in rapida successione dal ricordo dell’illusione di Charles. Il modo in cui gli aveva detto che gli mancava, quello strano Charles sicuro di sé stesso. Ricordò le sue mani, quella pelle madida che aveva accarezzato. E si accorse che era vero, era stato vero, almeno nel mondo di Charles, dove non esistevano né passato né avvenire, solo il momento corrente.
“Per favore…” Charles si piegò verso di lui, appena con il capo, senza toccarlo. Aveva abbassato la mano vicina alla tempia, ma le sue braccia erano ferme, lungo i fianchi,
le dita contratte strette al bordo del divano.
C’era un abisso tra la mente e l’uomo, rifletté Erik. Un abisso troppo profondo.
“Possiamo giocare a scacchi o parlare… Oppure… Quello che vuoi tu” iniziò Charles con voce malferma, come se non fosse sicuro di quello che stava dicendo. Ora che era uscito dalla testa di Erik, sembrava costretto a procedere a tentoni, del tutto privo di sicurezze. Come se dovesse interpretare quello che c’era dietro gli occhi cupi di Erik.
La voce di Charles s’affievolì, fino a dissolversi in una risata incerta.
“Oppure fare quello che immagini nella tua testa? Cosa, Charles?” chiese Erik un poco irritato.
“Quando ti ho detto che mi mancavi era vero” mentre lo diceva,  Charles arrossì ancora, ma Erik questa volta finse di non notarlo. “E non dirmi che non ci hai pensato.”
“Lo so.” Per me era lo stesso, ma non lo disse. Si limitò a pensarlo, anche se Charles non lo poteva più sentire.
“…. Ma è stato così patetico, Charles” aggiunse, prima di potersi trattenere. Erik lo guardò di sfuggita per vedere la sua reazione, vedendo i suoi occhi dilatarsi appena, sbigottito.
“Cosa?” disse piano. “Erik…”
Erik non sapeva perché l’avesse detto. Non lo pensava davvero, ma non sapeva come commentare altrimenti la sciocca fantasia di Charles.
Forse era quel disagio, quello che aveva provato nel vedere il luogo in cui era cresciuto Charles. Stare in quella stanza austera, piena di ombre e di mobili lucidi e libri rilegati con cura e denaro. Il sentirsi come… qualcosa che Charles non aveva, qualcosa che non aveva ancora.
Qualcosa che si era portato in quel mausoleo e con cui adesso intendeva giocare, per un po’… solo per un po’…
Questo era il pensiero di Erik, mentre lo sguardo di Charles si riempiva di tristezza e si allontanava impercettibilmente da lui. “Ti prego di scusarmi. Ancora.”
Erik avrebbe voluto domandare scusa per primo. Come poteva accusare Charles di essere tanto calcolatore, tanto insincero? Erano difetti che Charles non sembrava possedere… Charles non era così… oppure no?
“Domani dovrai spiegare a Cassidy come si vola. E’ meglio se vai a dormire, Charles.”
“Non voglio” rispose l’altro, abbandonando il tono incerto. “Come posso… Come posso aiutare qualcuno, aiutare loro, se devo trovarmi sempre in conflitto, sempre, con te?”
“Charles, tu non sei in conflitto con me. Smettila di pensarci, siamo solo…”
“Stanchi? Ma non è vero Erik, non è vero, io…”
“Charles. Abbassa la voce.”
Charles si zittì, mentre lo sguardo di entrambi andava alla porta socchiusa. Sembrava tremare leggermente, come se fosse davvero scosso, mentre si alzava e andava a chiuderla, abbassando piano la maniglia d‘ottone.
“Sono migliore di così. Ma sta diventando tutto così difficile ed insensato… E non posso fare a meno di pensare che sia io il problema” disse Charles sospirando, passandosi una mano sul viso e risedendosi. 
Insensato. Erik lo sapeva, era come se cercassero costantemente di sopraffarsi l’uno con l’altro, e contro loro stessi.
No, si corresse. Charles non capiva sé stesso, ecco con chi era in conflitto… mentre lui, Erik…
“Tu hai un vantaggio su di me” mormorò Erik sommessamente, sperando che Charles comprendesse quanto quelle parole gli costassero fatica. “Non posso combattere ad armi pari, non posso fidarmi davvero se...”
“Oh, Erik…” Charles sembrò riscuotersi un poco. Gli mise una mano sulla spalla, chinandosi appena nella sua direzione. “Non potrei mai abusarne, non farei mai una cosa del genere. Non a te.”
Erik apprezzò quel contatto. Avrebbe voluto anche credergli.
“Un giorno, Charles. Verrà un giorno in cui sbaglierai e capirai che il tuo…” Erik si voltò verso di lui, abbassandogli la mano che gli teneva sulla spalla, ma trattenendola nella sua. 
“Il tuo modo di ragionare, la tua etica… Sono troppo umane. Soccomberanno, perché il tuo potere è troppo grande. E allora cosa farai, Charles?”
Charles gli sorrise. Un sorriso fin troppo malinconico. “Cercherò te.”
 
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La ghiaia gemette sotto i passi di Erik, mentre attraversava l’ampio spazio che conduceva alla porta di servizio.
L’aveva lasciata semiaperta. Non aveva programmato di allontanarsi per tanto.
Non doveva essere stato fuori molto; il sole era ancora poco sopra le cime degli alberi, notò, girandosi verso il parco.
Sarebbe stata una bella giornata. Ampi sprazzi d’azzurro si aprivano, mentre la foschia delle ultime ore notturne, svaniva. 
Un altro giorno cominciava a Westchester. Erik però si domandava già come sarebbe finito. Aveva solo pensato a Charles, camminando nel parco. 
Alla prima sera, in cui si era allontanato senza una parola.
Alla seconda, a quello che si erano detti. Provò ancora una stretta, nel ricordare il modo in cui Charles l’aveva cercato. Nel modo in cui aveva usato i suoi poteri su di lui, di nuovo.
Non voleva davvero Charles lontano dalla sua testa. Voleva solo che non lo facesse a sua insaputa. Erik aveva pensato che sarebbe stato un bene, ribadirlo una volta ancora, una volta per tutte, spiegandosi…
Alla luce del giorno però, gli sembrava un errore. Forse si era scoperto troppo. Charles avrebbe potuto capire che, almeno un po’, Erik lo temeva.
Lo temeva, nello stesso modo in cui si poteva temere qualcosa di fin troppo affascinante ma potenzialmente distruttivo. 
Cercherò te, gli aveva detto Charles. Erik non gli aveva domandato perché. Si era limitato a sorridergli e andarsene, augurandogli la buona notte. Charles non l’aveva trattenuto.
Erano state quelle parole a chiudere la serata, tracciate in bilico tra una minaccia ed una promessa. Cercherò te.
Inutile aggiungere altro.
Erik spinse piano la porta con la punta delle dita, entrando tra le fredde mura della villa e chiudendo la luce mattutina dietro di sé. Mentre saliva al piano superiore, verso le camere, si chiese solo se Charles fosse riuscito di nuovo a prendere sonno. Quando fu davanti alla sua porta però, la oltrepassò senza guardarla.
C’era ancora tempo, aveva tutta la giornata davanti a sé.
 
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“Moira, mi occorrerebbe la tua pistola.” 
“Certo. Perché?” gli domandò, mentre Charles deponeva la tazza di Earl Grey sul bancone. Erano seduti nella grande cucina del pianterreno, al bancone metallico che attraversava la grande stanza. C’era una gradevole atmosfera casalinga, illuminata dalla luce del sole che entrava dalle finestre in alto.
Persino le credenze ingombre di piatti da esposizione non sembravano così intollerabili, agli occhi di Charles. 
“Vorrei solo… Vorrei solo provare una cosa, tutto qui.”
Moira afferrò un biscotto dal piattino davanti a sè, spezzandolo a metà tra le dita. “E’ di sopra. Posso andare a prenderla subito, se vuoi” disse senza altre domande.
Charles apprezzò il fatto che non s’interessasse minimamente alla questione. Era già difficile cercare di portare avanti quello a cui aveva pensato quella mattina.
“No, non mi occorre subito. E mi servirebbe anche che oggi stessi tu con Havok, giù al bunker, mentre Hank può occuparsi del progetto per aiutare Sean. Potete chiedere aiuto a Raven, se vi serve altro.”
Moira annuì piano, dando un piccolo morso al biscotto; alcune briciole caddero nella sua tazza di latte. Sembrava pensierosa. Forse si chiedeva perché Charles non avesse fatto direttamente il nome di Erik. Per eludere il suo sguardo, Charles scese dall’alto sgabello e andò verso il frigo, andando a recuperare un succo di frutta, mentre Moira parlava:
“Non avevi detto che oggi avresti aiutato tu Sean, Charles?”
“Ho cambiato idea” disse lui in fretta, chiudendo lo sportello. Charles vide Moira sollevare un sopracciglio, incuriosita. Si affrettò a dare una risposta più esaustiva.
“Non l’ho dimenticato, è solo che vorrei vedere se Erik… Vorrei capire meglio qual è il potenziale di Erik.”
“Sparandogli addosso?” chiese Moira in tono tranquillo e facendo un mezzo sorriso. “Credo che Lensherr avrà da ribattere in proposito.”
Charles rise piano, ma s’interruppe quando un rumore di passi aggredì le piastrelle a scacchi.
“A chi vuoi sparare Charles?” la figura di Raven fece capolino dall’ingresso, le palpebre ancora un poco abbassate. Sbadigliò, avanzando verso il frigo ed allontanando un poco Charles con il braccio, recuperando un succo anche per sé, prima di prendere una tazza vicino al lavello e sedersi al bancone. 
Moira le diede il buongiorno e le porse la teiera con un sorriso gentile che Raven ricambiò rapidamente e con fredda cortesia. Moira sembrò fare finta di nulla, come se avesse ormai accettato la scarsa disponibilità e l’atteggiamento scostante che Raven manteneva nei suoi confronti.
“Ciao Raven” la salutò Charles in tono stanco. Raven avrebbe potuto comportarsi in tono più maturo ed evitare di trattare Moira in quel modo.
Lì erano tutti uguali, e per quanto Raven potesse essere sua sorella e credere di avere più diritto su come muoversi a Westchester, non era nella posizione di escludere nessuno. Charles non voleva pensare e giudicare  quella strana forma di egoismo che stava dimostrando Raven negli ultimi giorni, ma guardandola passarsi una mano tra i capelli biondi e fare una smorfia nel bere il primo sorso di tè bollente, non poté trattenere un moto di disapprovazione. Era irritante.
“Vuoi sparare ad Erik?” gli chiese lei, non appena Charles si fu riseduto al bancone. “O lui deve sparare a te?”
“Cosa?” Charles strinse forse un po’ troppo convulsamente le dita attorno al freddo vetro della bottiglietta, sentendo l’acqua della condensa inumidirgli il palmo della mano.
“Perché dovrebbe…”
Raven fece spallucce, bevendo un altro sorso dalla tazza. “Magari per farti smettere di chiacchierare.”
Charles accennò una risata forzata, mentre lo sguardo di Moira passava da Charles a Raven.  “Come se parlassi tanto.”
Raven sollevò gli occhi al cielo. “Ma sentitelo. Come se a Oxford avessi fatto altro. Appena vedeva una ragazza carina in un pub, correva a leggergli nella mente per capire come parlargli e portarsela a casa. Era un po’ patetico, Charles.”
“Raven…” borbottò Charles spazientito. Era abituato ai commenti di Raven. Ma quella parola, patetico, proprio non gli piaceva. Proprio no.
“L’hai fatto anche con me?” replicò Moira ridendo piano, intercettando lo sguardo turbato di Charles con un sorriso scherzoso, cercando di distogliere l‘attenzione di Raven da lui.
Charles sentiva di stare arrossendo. Si chiedeva solo in che modo potesse andare peggio.
“Credo l’abbia fatto un po’ con tutte” disse Raven a Moira, con un sorriso smaliziato che non si estese agli occhi vagamente sprezzanti.
“A volte, anche con quelle non proprio carine. Non è così?”
“Raven…” cominciò Charles, prima di accorgersi che qualcun altro era entrato nella stanza, rispondendo all’implicita domanda di Charles su come quella situazione potesse peggiorare.
“Buongiorno” disse la voce di Erik alle sue spalle. Charles sentì una vampa di rossore assalirlo, si morse il labbro, girandosi lentamente, ma il suo debole saluto fu coperto dalla voce di Raven che esclamò:
“Erik!”
Lui sorrise. Era vestito nello stesso modo in cui Charles l’aveva visto, guardandolo all’alba dalla finestra, solo senza la giacca. Le scarpe erano ancora un poco sporche di terra, notò Charles. Come se fosse stato necessario quel dettaglio, per fargli capire che Erik nel parco, non era stata solo una sua allucinazione.
“Sei uscito?” gli domandò in tono noncurante, rivedendo Erik allontanarsi in direzione del bosco artificiale. Erik annuì piano, incrociando le braccia.
“Solo a fare un giro.”
Charles stava per dirgli qualcos’altro, ma fu interrotto da Raven che avanzò verso Erik con uno sciocco sorriso stampato in faccia, mentre gli porgeva una tazza di tè. 
“Per te.”
Erik fece uno strano sorriso, ringraziandola. La seguì verso il bancone, senza guardare nemmeno una volta in direzione di Charles, mantenendo quella strana espressione,
a metà tra il serio e il divertito.
Raven si risedette, facendogli segno di sedersi vicino a lei, ma Erik scosse la testa, bevve un sorso e si appoggiò al ripiano vicino ai fornelli, preferendo stare in piedi, un po’ in disparte.
“Stavamo parlando di quanto Charles fosse patetico” disse Raven girandosi verso Erik con un altro sorriso, artigliando il manico della sua tazza, posando i gomiti sul bancone.
Fece anche un sorriso a Charles, un sorriso che voleva essere scherzoso, ma che riuscì solo ad irritarlo di più. Charles avrebbe voluto entrare nella mente di Erik e farlo addormentare. O cancellare quella parte di giornata che stavano vivendo. Oppure parlargli nella stessa, qualsiasi cosa per distrarlo…
Ma non poteva farlo, anche se la sera prima non glielo aveva davvero promesso. Era impotente.
“Patetico? Perché?” domandò Erik. Sembrava incuriosito e Raven fin troppo felice di spiegargli perché. Cominciò a raccontare qualche sciocco aneddoto sulle serate trascorse ad Oxford, sulle ragazze che Charles aveva frequentato. L’argomento era troppo scomodo, Charles non sapeva come controbattere, se non strozzandola.
Le mani gli formicolavano; avrebbe voluto colpirla, tanto era arrabbiato, ma mantenne un falso sorriso, che si trasformò in una smorfia insofferente non appena gli occhi di Moira si posarono su di lui. Lei almeno, sembrava dispiaciuta per lui, anche se non capiva del tutto quella strana situazione.
“… Ed è per quello che deve usare il suo discreto talento, sempre. Tutte quelle ragazze soggiogate. Poverette.”
“Davvero interessante” commentò Erik con un sorriso storto.
Raven si voltò verso Charles, ammiccandogli in modo fin troppo divertito.  “Alcune magari ti trovavano davvero carino, ma non tutte Charles, è impossibile.”
“Raven…”
Raven guardò verso Erik, come se stesse cercando il suo appoggio. “E non ha mai pensato che potesse essere sbagliato leggere tutto nella loro testa! Vero, Charles? Effettivamente non mi ricordo nessuno con cui tu non l’abbia fatto…”
Charles aggrottò le sopracciglia, ne aveva davvero abbastanza. Voleva zittirla, ma aveva appena aperto la bocca per ribattere e dirle seccamente che lei non aveva nessun diritto di parlare in quel modo, se non qualcosa di più cattivo, quando venne di nuovo interrotto.
“Magari non lo racconta a te, Raven. Giusto, Charles?” disse Moira facendo spallucce. Aveva parlato in tono tranquillo, indirizzandole un sorriso cortese, ma il tono fermo suggeriva di mettere fine alla conversazione, almeno su quell’argomento. Charles provò un istintivo moto di gratitudine per Moira.
Riuscì anche a recuperare la sua solita espressione distesa, sorridendo ad entrambe.
“Può darsi che mi faciliti un po’ le cose. A volte” disse, sentendo lo sguardo di Erik su di sé.  “E sì, faccio anche degli errori” aggiunse in tono più serio, allontanando la bottiglietta di vetro da sé. “Patetico.”
Afferrò la teiera e si versò dell’altro tè, poi si alzò e tenendo sempre la tazza in mano, andò verso la porta.
“Non resti a far colazione con noi?” 
Charles distolse un momento lo sguardo dalla porta, dando appena segno di aver sentito la domanda di Erik, ignorando il tono divertito, vagamente beffardo. La parola colazione gli riportò alla mente una camera d’albergo, cieli neri e neve che cadeva. E le braccia di Erik attorno a lui, mentre lui gli rivolgeva quella stessa domanda. Solo un po’ diversa…
“Vado a svegliare gli altri” disse Charles piano in risposta, senza guardare verso nessuno in particolare. “
A quanto pare non si ricordano che alle nove dovevano essere in piedi.”
Era quasi sulla porta, quando trovò la forza di girarsi e guardare in direzione di Erik. 
“Fra mezz’ora ti aspetto fuori.”
Erik annuì e Charles si allontanò, mentre la voce seccata di Raven commentava:
“Credo voglia spararti addosso.”
 
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*“Sei sicuro?” 
“Sono sicuro.”
“Ok.” 
Charles fletté un poco il dito, inspirò e guardò Erik con decisione.  Si morse un poco il labbro, mentre il suo viso assumeva un‘espressione risoluta, cercando la forza per farlo. Doveva solo tirare il grilletto. 
Forse l‘avrebbe anche fatto, ma il luccichio deciso che aveva negli occhi ben presto sparì, sostituito da uno sguardo dolente.
“No, Erik. Non posso, scusa. Non posso sparare a bruciapelo a nessuno, figurati ad un amico.” 
“Oh, Charles! Lo sai che posso deviarla! Mi dici sempre che devo espormi di più…” Erik istintivamente prese la mano armata di Charles tra le sue, portandosi la Browning alla fronte, ma Charles si liberò dalla presa, allontanando il braccio da lui. 
“Se sai che puoi deviarla allora non ti stai mettendo alla prova. Che…” Charles lo guardò, incredulo. Come se fosse stato Erik ad avere quell’idea balorda e non lui. 
“Che fine ha fatto l’uomo che voleva sollevare un sottomarino?”
“Che?” sbottò Erik, innervosito dalle remissività di Charles. “Non ci riesco, non adesso. Per una cosa così grande mi serve la situazione, la rabbia…”
“No, la rabbia non basta” Charles gli passò l’arma. Non ne sopportava nemmeno la vista. L’aveva davvero puntata contro Erik? E perché, quando ci aveva pensato quella mattina a letto, gli era sembrata un’idea tanto brillante? Solo ora si rendeva conto di che stupido giochetto fosse. Era ovvio che Erik sarebbe riuscito a fermare quei proiettili.
Non aveva certo bisogno di lui.
“Mi ha permesso di farcela in tutti questi anni” replicò Erik, fissandolo.
“Ti ha quasi ucciso, in tutti questi anni” ribatté Charles, restituendogli lo sguardo. Gli diede una rapida pacca sulla spalla e diede un cenno come se volesse essere seguito, oltre la balaustra di pietra.
“Dai vieni con me, proviamo a fare una cosa un po’ più difficile.”
Charles si allontanò lungo il viale sterrato, costeggiando la balaustra e risalendo una delle scalinate. Sembrava che stesse tornando in direzione della villa. Erik strinse l’impugnatura della Browning e dopo un istante lo seguì. Sali gli scalini di pietra a passi rapidi, ritrovandosi nello spiazzo d’ingresso. Istintivamente guardò verso la villa, ma Charles lo aspettava  più in là, all’inizio di uno dei vialetti di mattoni che conducevano nel boscetto ornamentale attorno alla villa, le mani in tasca. Gli sorrise, facendogli un cenno amichevole.
“Per di qua.”
Erik lo guardò scettico. Era snervante. Sembrava di essere di nuovo scivolato nella mente di Charles, quello doveva essere senz’altro uno dei suoi giochetti. La premessa, seguimi, era sempre uguale. Come aveva potuto anche solo credere che sarebbe stato... Divertente? Charles avrebbe dovuto essere a progettare da quale tetto far cadere Cassidy.
Lui non aveva davvero bisogno del suo aiuto.
Charles si girò e cominciò ad incamminarsi. Erik lo seguì, mantenendosi comunque a distanza. Non aveva molta voglia di parlare. Non sapeva nemmeno perché lo stesse facendo.
Presto il cielo bianco opalescente e i raggi pallidi del sole vennero filtrati dalle fronde nere degli alberi, i mattoni del vialetto scomparvero sotto foglie secche e qualche erbaccia.
Erik si chiese ancora dove stessero andando, non poteva essere così lontano…
Finalmente, gli alberi terminarono, o almeno questa fu l’impressione di Erik, ritrovatosi in un ampio spazio lastricato. Su un lato c’era un gazebo di pietra e legno, con delle vecchie serrande accostate e grandi teli cerati con anelli di ferro per tenderli, accartocciati vicino a delle aste metalliche e a dei rettangoli di lamiera accatastati; un paio di panchine di pietra, si susseguivano al limitare del bosco, assieme ad un tavolino di ferro e alcune sedie, nell‘angolo più lontano. Al centro, vicino a dove si era fermato Charles, c’era una vera e propria piscina.
Sembrava un grande rettangolo verdeazzurro, grazie alle piastrelle che la rivestivano. Erik le vedeva attraverso l’acqua limpida, così come gli scalini che conducevano sul fondo, anche se ne era abbastanza distante. Si avvicinò lentamente al bordo, guardando l’ombra di Charles riflessa sull’acqua. Tutt’attorno alla grande vasca, c’erano delle luci interrate nel cemento e un trampolino di ferro, allungava la sua ombra sulla superficie liquida. Doveva essere un bel posto di notte. Non era nemmeno lontano dalla villa, che si intravedeva bene tra gli alberi. Un altro viale, un poco più ampio di quello che avevano percorso, sembrava condurre proprio a quella.
“Adorabile” commentò ironicamente Erik. “Vuoi spararmi qui?”
Charles sorrise, un poco forzatamente. Non avrebbe mai ammesso che la sua iniziativa era stata un’idea stupida. Anche perché Erik era stato ben felice di mettersi alla prova, come se non aspettasse altro che dimostrargli qualcosa. Fece qualche passo verso di lui, sfilandogli la pistola dalle mani, inserendo la sicura e infilandosela al fianco, dentro la cintura.
“Sai che non lo farei mai.”
"Forse questa mattina..." disse Erik ridendo. Charles arrossì un poco,fingendo di tossire, ma non replicò.
Lanciò un’occhiata al trampolino, Erik seguì il suo sguardo. Non era tanto alto, giusto un paio di braccia sopra la superficie dell’acqua; Erik notò anche che l’asse di legno era abbastanza malconcia. La lucida vernice bianca che doveva rivestirla era crepata in alcuni punti, in altri mancava, e la struttura di ferro non sembrava affatto solida, i tiranti e i sostegni erano quasi del tutto arrugginiti.
“Devo smontarlo?” chiese Erik divertito, girandosi verso Charles.
“Non è affatto necessario” replicò Charles tranquillo. “Anche se forse andrebbe sostituito, te ne do’ atto. Resta qui.”
Charles si allontanò lungo il bordo della vasca. Erik l’osservò, passandosi una mano sulla fronte e cominciando a ridere, mentre Charles saliva i pochi scalini metallici, fino a salire sul trampolino, mettendosi lentamente in piedi. Un po’ di vernice scrostata gli si era appiccicata sui pantaloni, all’altezza delle ginocchia, ma non sembrò farci caso.
Era vagamente comico, vederlo ritto su quell’asse, con la sua aria da giovane accademico in giacca di tweed, le mani in tasca. Gli sorrise e fece un passo in avanti.
Subito Erik avvertì lo scricchiolio metallico, come se la vecchia struttura di ferro si stesse lamentando.
“Charles…” disse Erik ad alta voce, perché potesse sentirlo. Gli veniva ancora da ridere, chiaro, ma qualcosa nella postura di Charles, non prometteva niente di buono.
“Che diavolo…”
“So che sarebbe divertente, ma non farmi cadere subito in acqua, Erik.”
Erik aprì le mani in un gesto spazientito. “E allora scendi, Charles. Quell’affare è per metà di legno. Se si rompe, posso al massimo tenere in piedi la scaletta."
Charles scosse un momento la testa, ridacchiando. “Appunto.”
Fece altri tre passi in avanti e l’asse elastica si curvò un poco sotto il suo peso, Charles era quasi vicino al limite, quando accennò un piccolo saltello sul posto.
Questa volta Erik riuscì anche a sentire persino lo scricchiolio del legno vecchio e provato. Ora non rideva più.
“Charles, non ti si addice” disse corrugando la fronte. “Scendi. Te lo chiedo per favore.”
“Voglio solo…” Charles si portò la mano al fianco, scostando un lembo della giacca e afferrando la Browning.  La guardò per un lungo momento, fece scattare la sicura e poi se la puntò con decisione alla tempia.
“Così è più semplice.”
Erik spalancò gli occhi. Tese una mano, ma tutta quella scena gli sembrava così assurda che si scoprì incapace a strappargliela dalla mano. Non poteva essere vero, era come stare dentro un gran brutto sogno. 
Non riusciva a concentrarsi, vedeva solo Charles e quella maledetta arma e l’unica cosa che riusciva a pensare era che Charles doveva nutrire per forza qualche istinto suicida, se voleva mettersi in situazioni del genere. 
Doveva arrabbiarsi con Charles, doveva avercela con lui per impedirgli di fare un’ennesima sciocchezza… ma Erik riusciva solo a sentirsi preoccupato, preoccupato per lui e con la  sola preoccupazione, Erik era impotente. Che sentimento inutile!
Charles accennò un altro saltello ed Erik cominciò a camminare verso di lui, ma Charles lo bloccò. Erik sentì la stessa forza che l’aveva immobilizzato a Stoccolma invaderlo, ma durò solo un rapido istante.
“Resta lì.”
“Charles, non lo farai” replicò Erik. “Se è perché ho sbagliato qualcosa…” cominciò a dire, ma Charles lo interruppe:
“Ti sto solo mettendo alla prova. E’ quello che volevi, Erik, me l'hai detto prima.”
Erik lo guardò duramente. “Non così. Non attraverso te.”
"Ma sembravi contento quando stavo per spararti!" ribattè Charles con un sorriso amichevole.
"Charles..."
“Se l’asse si spezza, potrei premere il grilletto” disse Charles, come se stesse spiegando qualcosa a sé stesso. “Oppure no.”
“Perché devi correre un rischio così stupido? Per una cosa così…”
Charles lo guardò, la pistola leggermente tremante nella sua mano, un poco malferma. La allontanò un poco da sé, ritraendo leggermente il braccio.
“…Patetica?” concluse lui sorridendo e facendo un altro saltello. Aveva appena poggiato i talloni sull’asse che questa si spezzò, con un suono secco. Erik spalancò gli occhi, mentre il suo sguardo spaventato si rifletteva nelle iridi sorprese di Charles, che aprì le braccia come una bambola di pezza, prima di piegarsi e cadere, mentre il suono dello sparo si riverberava nell’aria, spaventando un paio di corvi annidati tra gli alberi.
 
 
Continua....
 

Angolo delle Notizie a Casaccio 
 
Ultimamente sono in modalità Bernard Black,  ma questo non mi impedisce di mettermi al pc e scrivere qualche altra FF sulla coppia del momento.
Almeno a guardare un paio di pagine di Tumbrl.
Allora. Qualche veloce delucidazione su questo capitolo che è il primo della quarta parte e con un inizio super confuso tra varie serate e trampolini (Voleva fare un capitolo unico, ma Westchester è per me vera fonte d’ispirazione. Ho intenzione di tenere E&C in questo limbo felice almeno per altri due capitoli).
Nella FF ci sono al solito un paio di citazioni di cose che mi piacciono, of course. 
Non so se Cipriani abbia un catering, però. Facciamo finta di sì. La scatola di fiammiferi che usa Charles è quella che ho comprato dal tabaccaio l’altro giorno. Etc. 
La conversazione tra E&C relativa alla seconda sera è stata scritta in preda al delirio, perciò potrebbe risultare confusa e stazzonata (Come se altre parti della FF non lo fossero), perciò criticatela quanto volete, assieme agli errori che, sicura sicura ho lasciato in giro. Mi fa piacere ricevere recensioni che me li fanno notare, perché sono il genere di persona puntigliosa che quando rilegge le sue cose, bè pensa sia tutto ok, ignorando sviste madornali.
E naturalmente, fatemi sapere cosa ne pensate. Il parere di un lettore è sempre ben accetto!
Al solito, ringrazio coloro che mi hanno recensito e mandato messaggi. 
Può darsi che posterò il cap. 2 verso sabato. Nell’attesa, io vi saluto.

Exelle

(*) Il dialogo è tratto pari paro da X-Men First Class, versione italiana.Un po’ me ne vergogno. Ma non scriverò qui il perché.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


 
Welcome to Westchester
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4
 


And I could hear the thunder and see the lightning crack 
All around the world was waking, I never could go back 
Cos all the walls of dreaming, they were torn right open 
And finally it seemed that the spell was broken.
 
                                                                  Florence and the Machine, Blinding
 
 
 
 
CAPITOLO II
 
 

Charles sapeva di non averlo voluto fare veramente. 
Deglutì, cercando di non guardare giù. Non che fosse tanto in alto, ma vedere la scena di sé stesso intento a puntarsi la Browning alla testa, riflessa nell’acqua,
sarebbe stato insopportabile. Quasi quanto il caldo appiccicoso che gli stava facendo imperlare la fronte di sudore. 
Tuttavia, senza dare ascolto al buon senso, senza dare ascolto a niente che non fosse il momento che stava vivendo, rimase immobile. Tirarsi indietro adesso,
avrebbe fatto apparire il suo gesto ancora più sconsiderato.
Erik, fermo sul bordo della grande vasca, gli sembrava ancora troppo lontano, eppure i suoi occhi rilucevano e a Charles apparivano troppo freddi, per poterlo affrontare. 
Nessuna meraviglia che fosse seccato o, più probabilmente, davvero arrabbiato. O che pensasse che Charles fosse solo irrimediabilmente pazzo. 
Istinto suicida, l‘aveva definito.
Non era affatto istinto. Charles l’aveva calcolato, progettando chissà cosa ed elaborando una vaga intuizione, mentre cercava inutilmente di riprendere sonno, poche ore prima.
Gli era sembrata un’idea tanto furba quella i sfidare Erik, perché sapeva che lui avrebbe approvato. Quel mettersi alla prova…
Charles aveva voluto assecondarlo, gli aveva dato un‘occasione. Provare a sparargli. 
Gli era sembrata un’idea così buona, qualcosa che avrebbe smosso entrambi. Erik avrebbe comunque fermato i proiettili. O l’avrebbe disarmato. Avrebbe fatto qualcosa, avrebbero fatto qualcosa. Ma non aveva funzionato. 
Charles non sarebbe mai riuscito a premere quel grilletto.
 Tutta la sua malata idea si era ritorta contro di lui, e Charles non aveva potuto fare altro che mettere in piedi quella sceneggiata, puntando la pistola verso di sé, quando si era sentito incapace da rivolgerla verso Erik, incapace di simulare anche solo del male nei suoi confronti. Aveva dato lui l’avvio a quella situazione, che non stava affatto migliorando. Contribuiva solo a farlo apparire assurdo e ben poco sano di mente.
Avrebbero dovuto tornare in casa. Lui avrebbe dovuto essere con Raven, Hank e Sean, Alex e Moira.
Aveva il braccio indolenzito e formicolante, così allontanò un poco il braccio di sé. Togliere la pressione della canna della Browning sulla tempia gli diede un po’ di sollievo.
Sapeva che il suo comportamento stava risultando letteralmente folle, ma non poteva smettere adesso. C’era della preoccupazione degli occhi di Erik e Charles poteva vederla chiaramente, non c’era bisogno di leggergli nella mente. 
Non era delusione o rabbia, era timore. Forse stava funzionando.
Preoccuparsi di salvare qualcosa, non sé stesso. Era un buon sentimento, qualcosa che avrebbe privato Erik da quel suo continuo ricorrere alla rabbia, che avrebbe finito per distruggerlo. 
Charles aveva solo avuto la presunzione di usare sé stesso come cavia, contro ogni buon senso, rivestendosi di un‘importanza che non pensava davvero di avere.
Ma a guardare le iridi di Erik e l’espressione tesa sui suoi lineamenti, sembrava quasi che avesse fatto la scelta giusta…
Come se quell’avventatezza avesse bisogno di altre giustificazioni.
Sua madre non aveva mai voluto che usasse quel trampolino. Aveva spesso espresso il desiderio di toglierlo, era brutto oltre che pericoloso, diceva. Era già malconcio e usurato dal tempo quando avevano acquistato Westchester House, ma per qualche strana ragione, il trampolino era rimasto lì, unico guardiano della piscina.
Si erano limitati a farlo ridipingere, tanto per mantenere il contegno della villa. 
Non sapeva perché gli fosse tornato in mente. A dir la verità, Charles non credeva nemmeno che l’asse si sarebbe spezzata. Certo, cigolava e scricchiolava e traballava un po’ troppo sul lato destro… ma poteva reggerlo. Serviva solo che Erik gli strappasse la pistola dalle mani. Non sarebbe successo niente.
“… Patetico?” disse Charles, rispondendogli a qualcosa che gli aveva detto poco prima. Sì, Charles era davvero patetico.
 Forse Raven non aveva avuto tutti i torti, era lui che se l’era presa troppo. Era stato sciocco, prendersi tanto male non appena Erik era entrato in cucina, imbarazzarsi alle parole di lei che cercava solo di infastidirlo, reclamando la sua attenzione. Non dovevano forse essere tutti uguali, nessuna differenza? Erano parole sue.
E il fatto che Erik fosse lì era… Perché Erik lo voleva, perché Charles lo voleva.
Charles non mai stato tanto felice da quando l’aveva conosciuto, mai così tanto confuso… Mai così tanto poco tollerante verso sé stesso, così ansioso di trovarsi in difetto, pur di autopunirsi e tormentarsi. E comportarsi nel modo più avventato, come se necessitasse di attenzione, rientrava in questo nebuloso schema. 
Non si riconosceva più e ce l’aveva con sé stesso per questo. Perché c’era qualcosa che non andava, pensò continuando a fissare Erik. C’era qualcosa che rimaneva sempre irrisolto, quella sensazione di felicità che gli scivolava tra le dita… Charles voleva solo sentirla ancora, voleva che Erik e lui, e tutto tornasse… Che tutto tornasse di nuovo facile, se mai lo era stato. Era stanco di sentirsi debole e intrappolato tra tutte quelle emozioni che non riusciva ad analizzare.
E ora tutto questo fantasticare, ipotizzare, sperare, l’aveva portato lì, immobile su un vecchio trampolino, mentre l’aria mattutina sembrava essere diventata improvvisamente bollente e l’arma stretta nella mano più pesante di qualsiasi cosa che lui avesse mai sorretto.
Sorrise ad Erik. Avrebbe voluto dirgli che non c’era alcun pericolo, che sapeva che ora l’avrebbe disarmato, che si fidava di lui. Si sollevò un momento sulla punta dei piedi, simulando un vago saltello, pensando che era la prima volta che saliva su quell’asse elastica da quando Westchester era rimasta vuota.
Mentre ricadeva sui talloni, credette di perdere la presa sulla pistola. Forse Erik si era deciso a strappargliela via, si era deciso a fare qualcosa. Charles sapeva quanto fosse inutile, ma tuttavia la trattenne, stretta tra le dita, l’indice ancora sul grilletto, stringendola per l’impugnatura, un po’ troppo forte…
Crack!
 
 
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“Charles!”
Erik mosse il braccio di scatto, tendendolo verso di lui come se volesse afferrarlo, mentre i suoi occhi scattavano dalla Browning in volo a mezz’aria, alla traiettoria del proiettile,
a Charles. 
Ebbe la fortuna di guardarsi intorno, gli occhi ancora spalancati, la bocca tesa in un ringhio, giusto un paio di secondi prima che Charles finisse in acqua.
Un momento di esitazione che gli consentì di ricordare.
Si voltò verso il gazebo di legno e tese la mano, contraendo appena le dita mentre uno dei ritagli di lamiera, delle dimensioni di una porta schizzò in volo sulla piscina, planando sull’acqua, alla giusta altezza per incontrare il corpo di Charles mentre cadeva. 
Erik lo vide piombare inerte sulla superficie rigida con un verso inarticolato e uno spasmo, il viso un poco riparato dal braccio piegato. Solo quando sentì l’asse spezzata finire nell’acqua, sollevando uno spruzzo abbastanza alto da bagnare in parte la figura di Charles, e uno stridio prolungato accompagnava l’inclinarsi della struttura del trampolino sulla piscina, Erik si accorse che la rapida scena si era svolta davanti ai suoi occhi nel più assordante silenzio. 
L’unica eccezione era il cuore che gli batteva martellante nelle tempie e il suo respiro irregolare. Teneva la fronte tanto aggrottata da fargli male, ed era curvo sull’acqua, tremendamente vicino al bordo.
Cominciò a calmarsi ripetendo che non c’era mai stato alcun pericolo. 
La pistola aveva sparato, sì, ma Charles aveva già  rivolto il braccio rivolto verso l’alto. Se per abilità o per istinto o per mera fortuna, Erik non lo sapeva.
Con una mezza torsione del polso, la lastra di metallo e il suo occupante con un braccio penzolante a sfiorare la superficie dell‘acqua, vennero allontanati sul bordo lastricato della piscina, dalla parte opposta ad Erik, che la fece levitare in basso, fino a posarsi sulla chiara pavimentazione. 
Vide Charles accennare a muoversi, girare un poco la faccia e socchiudere le palpebre, ma sembrava tremare e ancora incapace a realizzare appieno cosa fosse accaduto. 
Erik pensò che avrebbe fatto bene a lasciarlo lì e ad andarsene. Ebbe un flash di sé stesso che percorreva il viale d’ingresso all’inverso, allontanandosi da Westchester, allontanandosi da Charles. Ma gli bastò ripetere il suo nome nella mente per sapere che non l’avrebbe fatto e che tutte quelle considerazioni inutili si erano affastellate nella sua mente, mentre a passo rapido percorreva il perimetro della piscina e si avvicinava a lui.
Non si sarebbe allontanato, nemmeno se l’avesse voluto davvero.
Charles giaceva ancora a terra, appena sorretto dalle braccia piegate, guardando -Erik lo supponeva, non lo vedeva in faccia- la lamiera macchiata dalla ruggine, sotto di lui.
Erik rallentò il passo, avvicinandosi; si sentiva tremare le mani, così come tremava Charles. 
La sua giacca di tweed, dalla spalla destra in giù, sembrava essere inzuppata d’acqua, così come i pantaloni chiari, che sembravano essersi rovinati, strusciandosi sulla superficie malridotta della lamiera.
Charles fece un verso strano, a metà tra un colpo di tosse ed una parola vera e propria, poi sollevò il viso, rivelando una leggera abrasione sulla guancia ed incrociando lo sguardo di Erik, davanti a lui.
Rimasero un lungo momento a fissarsi, un momento che se si fosse prolungato, avrebbe visto Erik scoppiare a ridere. Forse sarebbe stato meglio che Charles fosse caduto in acqua. Decisamente, l’idea di farlo cadere su del vecchio metallo arrugginito, era al limite delle opzioni auspicabili per salvare qualcuno. 
Si era anche bagnato, il che aveva reso del tutto inutile il gesto di Erik. Sentì che stava davvero per sorridere e vedere Charles prostrato davanti a lui, indolenzito e con lo sguardo un poco smarrito, gli fece venire la voglia di circondarlo con le braccia e tirarlo su. Aiutarlo, sfiorare quel brutto segno che aveva in faccia con le labbra, infilare le dita fra quei capelli umidi. Ma Erik si costrinse a rimanere fermo, mentre l’idea di sorridere, svaniva.
Charles si mosse ancora, appoggiando i palmi a terra e mettendosi lentamente in ginocchio, respirando piano e continuando a fissare Erik.
Era davvero pallido adesso, così tanto che le labbra rosate e l’azzurro degli occhi spiccavano, fin troppo evidenti, sembrando quasi tratti dipinti. Si guardò solo le mani arrossate, contemplandosele come se fosse stupito di averle ancora, con tutte le dita al loro posto, prima di tastarsi il petto, il collo, il lato del viso. Fece una smorfia solo quando si sfiorò l’abrasione cremisi sulla guancia, così simile ad un lungo e spesso graffio. 
“Dov’è finita la…” cominciò a chiedere, con voce malferma.
Erik si voltò verso la piscina, aggrottando la fronte, lo sguardo indurito. “Sul fondo, immagino.”
Si voltò nuovamente verso Charles, ma questa volta, quando i loro sguardi s’incrociarono, sentì l’ironia dileguarsi, lasciandolo solo arrabbiato e sprezzante. E quando vide Charles cominciare ad articolare la parola ‘scusami’ mentre provava a rimettersi in piedi, non riuscì più a trattenersi.
Avanzò deciso verso di lui, afferrandolo per il bavero della giacca e per la camicia azzurrina, tirandolo quasi in piedi a forza. Vide le sue pupille dilatarsi un poco, mentre un’espressione desolata gli si disegnava sui lineamenti. “Erik…“
Per sorreggersi, si aggrappò ad Erik, al suo braccio e alla sua spalla. Provò ancora a raddrizzarsi, ma Erik lo tenne fermo, sentendo di nuovo quel suono ritmico, il cuore, martellante nelle tempie. Solo quello.
“Erik…” ripetè in un soffio. Erik per un attimo temette che l’avrebbe ostacolato con la mente, o peggio, insistendo a scusarsi, ma Charles ma non fece nulla. 
Erik staccò il braccio che lo reggeva per la camicia, preparandosi a tirargli un manrovescio, colpendo quel dannatissimo viso, per far serrare quei dannati occhi chiari con una smorfia di dolore. Se lo meritava.
Ma rimase fermo, limitandosi ad abbassare il braccio lungo il fianco, allentando la presa su Charles.
“Se ti colpisco…” disse amaro, “Dopo dovrò chiederti scusa. E non voglio, non voglio farlo, Charles.”
Lo strattonò e Charles poté mettersi in piedi, un po’ curvo, i vestiti scombussolati e il colletto storto. 
Ma anche così, l’immagine che Erik ne aveva, era tutto fuorchè patetica. Lo rattristava. Lo faceva infuriare. 
Non lo comprendeva, anche se immaginava di avere un ruolo in quello che era accaduto, di ritrovarsi ad essere la causa che aveva portato Charles a comportarsi così. 
Lo ricordava a Savannah, inquieto e sovrappensiero, indeciso ed incoerente. Nel ripensarci, la rabbia che pervadeva Erik, pian piano sembrò abbandonarlo.
Indietreggiò piano, flettendo le dita, come se volesse afferrare l’aria. “Non so perché ti comporti così. Non voglio saperlo. Ma te ne prego, Charles…”
Erik parlò educatamente, cercando di sembrare il più ragionevole possibile.  “Smettila.”
Gli occhi di Charles rimasero imperscrutabili. Erik avrebbe solo voluto leggergli nella mente, capire cosa gli stesse passando nella testa. Si ritrovò a desiderare qualche sciocco contatto mentale, qualsiasi…  ma fare quei pochi passi che l’avrebbero portato da lui, sarebbe stato troppo arduo. Fece un mezzo giro su sé stesso. Era intenzionato a tornare quanto prima alla casa, sperando che Charles per quel giorno avesse concluso. Era così diverso, da ciò a cui aveva sperato quella mattina, dopo la passeggiata nel parco.
Erik si ritrovò a pensare di essere stato un ingenuo. Cercherò te.
Se era così importante per Charles, perché doveva sempre metterlo in situazioni che alla meno peggio lo trascinavano in uno spiacevole disagio?
“Grazie.”
Erik gli gettò un occhiata da sopra la spalla. Charles si era voltato verso la sagoma della villa, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, chiazzati d’umido, vernice e ruggine. 
“Non è che sia stato…” Erik si sorprese a cercare le parole più adatte per rispondergli, suo malgrado. Si accorse che Charles aveva appena chinato il capo, la schiena scossa un poco dai sussulti. Per un folle secondo, Erik fu preso dal timore che Charles si fosse messo addirittura a piangere. Si girò verso di lui e lo prese per la spalla, e allora, si accorse che Charles stava solo ridendo sommessamente.
Quando gli occhi di Erik ne incontrarono il luccichio divertito, s’irrigidì appena. Non capiva. Di nuovo.
“E’ stato il peggior salvataggio della mia vita” disse infine Charles portandosi una mano alla fronte. “Erik…”
Erik scosse la testa incredulo, cercando di trattenersi dal mettersi a sua volta a ridere. Charles sembrava divertirsi un mondo adesso, aveva persino gli occhi lucidi, mentre la tensione si stemperava in un paio di occhiate. Poi Charles si piegò un poco in avanti, appoggiando la testa sulla spalla di Erik che non lo respinse. Gli passò un braccio attorno alle spalle, mentre Charles continuava a ridere piano, sentendo il suo alito caldo sul collo.
“Non ho capito da cosa cercavi di proteggermi” gli disse, quando cominciò un poco a riprendersi.
“Forse da te stesso” mormorò Erik sovrappensiero, prima di aggiungere: “Sei stato tu a dire che non volevi bagnarti.”
Charles si allontanò un momento da lui, senza però far scivolare il braccio con cui Erik gli cingeva il collo, indicando i suoi vestiti. Inarcò appena le sopracciglia, davanti all’espressione colpevole che Erik aveva assunto.
“Gran risultato” disse Charles, increspando le labbra in un sorriso ironico.
“Non ci ho pensato” disse Erik battendogli un colpetto sulla tempia. “Ero un po’ preoccupato all’idea che qualcosa ti aprisse in due la testa.”
Charles sollevò il capo. Sembrava un poco trionfante, ed Erik se ne chiese vivamente il perché.
“Preoccupato, Erik. Non arrabbiato. Non ti serve la rabbia, allora…”
Erik si trattenne dal fare uno sbuffo incredulo. “Giusto. In realtà ero furibondo. Sei tanto intelligente, Charles, ma come hai fatto a non pensare che…”
“Che?”
Erik abbassò le palpebre, scuotendo il capo come per scacciare un pensiero molesto. “Niente.”
“Dimmelo. Per favore. Voglio solo saperlo” chiese Charles gentilmente, con un mezzo sorriso. Che sensazione strana. Era come se ci fossero loro due, adesso.
Loro due soli e nient’altro.
“Non è davvero niente d’importante, Charles” Erik allontanò il braccio da lui, squadrandolo. Il momento sembrava essersi dissolto del tutto.
Era di nuovo una calda giornata estiva e loro erano fermi, uno di fronte all’altro, sul ciglio di una piscina, dove sull’acqua galleggiava l’asse spezzata, scheggie e qualche foglia trascinata lì dal debole vento, tra le increspature irregolari.
“Immagino di detenere ancora l’esclusiva, nel salvare le vite altrui.”
Erik si strinse nelle spalle e mostrò i denti in un ghigno. “Ma davvero. Se è così, l‘altruismo finirà con l‘ucciderti, Charles.”
“Se io non fossi così, Erik, saresti ancora a Miami” borbottò Charles in risposta, forse più parlando a sé stesso. Erik ne fu un poco infastidito; gli sfiorò il mento con la mano, inducendolo a sollevare un poco lo sguardo su di sé. “Immagino che un giorno dovrò ricambiare il favore, allora.”
Charles stava per controbattere, ma mentre Erik dava una rapida occhiata attorno a loro, indietreggiando dal bordo, allontanandosi ancora un poco da Charles lo precedette, parlando per primo. 
“Che ne dici di adesso?” chiese con noncuranza.
Charles aveva appena aggrottato la fronte, in un’espressione di cortese perplessità, quando Erik lo caricò, gettandoglisi addosso con tutto il peso del corpo, afferrandolo con le braccia intorno alla vita. 
Tenendolo stretto a sé, si lanciò in acqua. 
 
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“Non ho parole” cominciò Charles, tossendo. “Davvero.”
Si passò la manica intrisa d’acqua sul labbro superiore, socchiudendo un poco le palpebre, nel fissare  il luccichio del sole sulla superficie liquida della piscina. Si era tolto la giacca, completamente fradicia, e se l’era posata accanto, mentre una macchia più scura di bagnato cominciava ad allargarsi sul lastricato. Sentiva la stoffa bagnata aderirgli alla pelle e il sole caldo, invece di asciugarla, sembrava solo renderla un po’ più appiccicosa.
“Che c’è?” chiese Erik, girando il viso verso di lui, con un mezzo sorriso. Charles gli lanciò un’occhiata rapida, mentre sentiva un sospettoso formicolio invadergli la faccia,
come se si sentisse in dovere, almeno ora, fuori da casa e alla luce del sole, di non fissare Erik. Lui si era sfilato la maglia  e le scarpe,  e ora stava con le lunghe braccia incrociate, appoggiate sulle ginocchia raccolte, un poco piegato in avanti. Charles aveva pensato, ed ancora non poteva non pensare, che Erik era sì un po' più alto di lui, ma anche molto magro, così che i muscoli tesi e ben definiti, come sulla curva del ventre, risaltavano quasi in ogni sua parte del corpo. Era bello.
“Lasciamo stare” replicò Charles, slacciandosi  i bottoni della camicia, solo fino a metà torace, il viso un po’abbassato. Erik continuò a fissarlo, vedendo l’ombra di piccoli rivoli d’acqua scendergli dalla nuca, dai capelli appiattiti sul cranio, lungo il collo, fino a sparire tra le pieghe della camicia azzurrina, disegnando un reticolo semi invisibile sulla pelle chiara. Avrebbe voluto toccarlo, assicurarsi che stesse davvero bene.
“Non me l’aspettavo” disse Charles dopo un po’, schermandosi il viso con una mano e continuando ad osservare l’acqua, resa verde dalle piastrelle che rivestivano la vasca.
Cercava di impedire alle sue labbra di fare un altro sorriso, ma non ci riusciva. A meno di non farsi indolenzire le guance, a furia di trattenersi.
“Charles, credevo che volessi essere salvato.”
“Erik, mi hai aggredito!” sbottò in risposta, ma lo disse con una smorfia divertita e girandosi di nuovo verso di lui. Questa volta, si prese la libertà di fissarlo un po’ di più, studiando il profilo regolare di Erik, la linea decisa dello zigomo, il punto in cui il profilo del naso si univa alla fronte. Ancora una volta, Charles provò quella deprecabile sensazione che lo faceva sentire impacciato e inadatto, in sua presenza. 
Soprattutto ora, con i vestiti macchiati  e coperti da larghe zone umide e la pelle appiccicosa.
“Ma chi ti ha tirato fuori dall’acqua?” gli domandò Erik sollevando un poco l’indice, come se lo stesse rimproverando, inclinandosi un poco verso di lui.
“Erik, che diavolo…” Charles sgranò gli occhi arrossati, facendo un cenno verso la piscina. “Se non mi fossi liberato, mi avresti annegato!” 
Un lampo di comprensione attraversò gli occhi di Erik. “Ti avrei salvato prima, Charles, te lo assicuro.”
“Farò finta di crederci” replicò Charles in tono severo, tuttavia i tratti del viso rivelavano un’espressione mite e piacevolmente rinfrancata da ciò che Erik aveva detto.
Non si sorprendeva più di tanto, su ciò che sembrava divertire Erik. Era strano, ed imprevedibile e forse un po’ più ingarbugliato di lui, ma si stupiva di quanto quella giornata fosse del tutto cambiata, dopo quella balorda e iniziale tensione che lui stesso aveva creato, puntandosi la Browning alla tempia e sfidando Erik.
Charles ricordava il momento in cui erano caduti nella vasca, la mano di Erik che gli tappava la bocca per non farlo bere o annaspare. La loro breve lotta nell’acqua fredda,
Erik che ridendo cercava di tirarlo giù, fino a trattenerlo contro di sé e risalire. C’era del metodo, in quell’inconsueto modo di fare. Se così si poteva chiamare…
Charles si chiese se si fosse trattato di pura improvvisazione. Propese per un sì.
“Finirai per farmi del male” gli disse a bassa voce, espirando aria acquosa dal naso e scuotendo un poco la testa. Non lo credeva davvero, ma sarebbe stato interessante,
sapere cosa Erik avrebbe risposto.
Ma Erik non rispose. Si piegò solo un po’ in avanti, tendendo la mano verso la vasca, finché la Browning non affiorò in superficie, fino a fermarsi docilmente a pochi centimetri dalle sue dita tese, gocciolando un poco. Erik l’afferrò per la canna, stringendola saldamente e porgendola a Charles, che tuttavia non la prese.
Ne ricordava abbastanza bene il peso nella mano, lo sforzo di rivolgerla verso Erik, per capire che non l’avrebbe toccata. Mai più. 
“La probabilità maggiore, Charles, è che sia tu a fare del male a te stesso. Sappi però… ” disse infine Erik, scrutandolo intensamente, “… Che mi odierei in entrambi i casi e soprattutto, non permetterei mai che niente del genere si avveri.”
Lo aveva detto in tono calmo, forse un po’ più lento del solito, come se stesse scegliendo le parole, ma Charles si sentì improvvisamente più accaldato di quanto già non fosse. Percepì il sangue affiorargli al volto, gli occhi brucianti… e forse non era del tutto colpa del contatto prolungato con l’acqua.
“Ti prego…” cominciò lentamente, gli occhi un poco fissi. “Dimmi che te la sei preparata. Perché… perché non può essere così… non puoi, tu…”
L’espressione decisa di Erik, fu rapidamente sostituita da una smarrita e perplessa.
“Preparata?” chiese, appoggiando lentamente l’arma sul lastricato, fra di loro. “… Cosa intendi?”
Charles fece per allungare il braccio, in un improvviso quanto viscerale tentativo di toccare Erik, quella pelle resa tiepida dal sole. Ma poi Erik lo prese per il braccio, fermandolo, lanciando uno sguardo significativo alle finestre della villa, che si intravedevano sopra la cime irregolari degli alberi attorno allo spiazzo della piscina.
Charles ritrasse il braccio, mentre un fiotto di acido egoismo si traduceva in parole.
“E’ casa mia. Posso fare quello che voglio…” si pentì all’istante di quelle parole infantili, di quell’atteggiamento prepotente, ma Erik non disse nulla a riguardo. 
“Se ci avessero visto sarebbero già qui. Ma non li avverto...” aggiunse Charles contrariato. “Perché non…”
Erik sorrise, cercando di allontanare da Charles quell’espressione cupa, che gli faceva contrarre la fronte, delineando piccole rughe attorno agli occhi.
“Avrebbero visto te che cerchi di ucciderti o me, mentre cerco di annegarti?”
Charles arricciò il naso, gli occhi di nuovo sereni. “Avrebbero visto due idioti che si spintonavano nell’acqua.”
Erik rise, mettendogli la mano sulla spalla e tenendola, lì, sfiorando la stoffa umida, aderente alla pelle di Charles. “Mi dispiace. Sul momento mi era sembrata un…”
“Una buona idea?” Charles si morse il labbro inferiore, inclinando il capo. Una ciocca bagnata gli ricadde sul viso, e un paio di gocce d’acqua gli colarono sull’abrasione rossastra. Erik ne sfiorò il contorno con una nocca, chiedendosi come Charles avrebbe spiegato quello. Come avrebbero spiegato il fatto di essere fradici, bagnati e in disordine, quando erano solo usciti nel piazzale con una pistola.
“Prima o poi dovremo tornare. O penseranno che sono andato a seppellirti da qualche parte” disse Erik, accorgendosi di aver parlato quasi bisbigliando, come se si aspettasse di veder comparire qualcuno dai vialetti tra gli alberi. O sperare che Charles non fraintendesse.
“Raven ne sarebbe di certo scontenta” replicò Charles, lo sguardo un poco indurito.
“E’ pur sempre tua sorella…” provò a dire Erik con un sorriso gentile, reclinandosi un poco, appoggiando le mani aperte sul lastricato tiepido. 
Charles però non si fece distrarre. “Avrebbe un argomento di conversazione convincente in meno” mormorò, ripensando a quelle ultime sciocche smorfie ammiccanti della ragazza, al modo in cui trattava Moira, allo strano atteggiamento che negli ultimi tempi gliela faceva sentire quantomeno estranea.
“Davvero?” domandò Erik con forzata noncuranza. “Non ci ho fatto caso.”
“Non è vero.”
“Non puoi saperlo” ribatté Erik. “… Cosa intendi con convincente?”
“Oh, Erik. Non farmene parlare, lo sai che…”
“No, Charles, non lo so. Spiegamelo. Non parlare sempre con frasi a metà, non interromperti. Spiegamelo e basta” Erik si spostò di nuovo verso di lui, cercandolo con lo sguardo, ma Charles sembrava essere scivolato in un pensieroso silenzio, limitandosi a fissare la luce tremolante del sole sull’acqua e le schegge galleggianti, in disordine.
“Per favore” insistette Erik, scrollandolo appena per il braccio.
“No, Erik. Te l’ho promesso.”
“Non me l’hai affatto promesso, Charles” Erik gli sorrise ancora, sperando in una sua reazione. “Ma adesso, se vuoi… A me va bene. Per favore. Se non riesci a dirlo, mostramelo. Fa’ qualcosa, Charles” Erik lo tenne ancora un poco stretto. “Non mi da’ fastidio sentire che mi parli nella testa, ogni tanto. So che puoi, anche solo per…”
“Non… non voglio mostrarti niente” Charles si pizzicò la punta del naso, avvertendo una strana sensazione -acqua nelle narici, ancora?- ma continuando a pensare.
Come poteva spiegare quel fastidio che era germogliato dentro di lui, mentre Raven parlava di quello che lui era prima, prima che incontrasse Erik? Di quella strana mania di fantasticare -e realizzare- le situazioni più assurde, in cui potevano venire coinvolti, situazioni innescate da Charles, in cui lo stare assieme o il cercare di farsi del male, sembravano solo un pretesto, pur di coinvolgerlo? 
Non c’erano risposte, per quelle domande.
“Intendo… Erik, come faccio a mostrare qualcosa che non ha senso, nemmeno a pensarla?”
Charles alzò gli occhi di su di lui, prima di alzarsi in piedi, lasciando una macchia bagnata dov’era seduto. 
Erik pensò volesse andarsene, ma poi lo vide solo avvicinarsi al bordo della piscina, immergere la punta delle dita nell’acqua e passarsele, sfregando, sul viso.
Erik si domandò cosa diavolo stesse facendo, finché non lo sentì dire a voce bassa e in tono seccato:
“E adesso anche sangue dal naso.”
Charles si strofinò il dorso della mano sopra il labbro superiore, più volte, lasciando strisce rossastre sulla pelle, ormai asciutta. Sentiva il sapore del sangue persino in gola, e pregò che smettesse. Non era molto auspicabile avere un intermezzo del genere, proprio no. Ebbe voglia di tuffarsi nella piscina, non appena sentì il braccio di Erik toccargli la schiena, mentre con l’altra gli porgeva qualcosa che doveva essere stato un fazzoletto, ma ora era solo uno straccetto bagnato e spiegazzato. 
Charles si mise a ridere piano, tenendosi la mano premuta contro le narici e sentendo il sapore del sangue scendere giù per la trachea. Non doveva ridere, avrebbe solo peggiorato quella già pietosa situazione.
Erik ridacchiò, guardando la stoffa umida. “Scusa” gli disse, prendendolo per il polso e facendogli abbassare il braccio, prima di mettergli il fazzoletto sotto al naso, tenendolo lì.
“… Ma non ho niente di meglio.”   
La stoffa si macchiò di cremisi, ma Erik continuò a premergli il fazzoletto sulle narici, tenendo un braccio attorno alle spalle di Charles.
“Questo sì che è imbarazzante” disse Charles. La voce gli uscì un po’ smorzata, e quando provò a deglutire, sentì ancora il sentore metallico attaccato alle pareti della gola.
Erik alzò le sopracciglia. “Tu mi hai vestito da donna.”
Un luccichio scaltro attraversò gli occhi di Charles, mentre allontanava la mano di Erik dal viso, sentendo l’emorragia fermarsi. 
“Sul momento mi era sembrata una…” 
“Una buona idea?” concluse Erik per lui, socchiudendo un poco le palpebre. Si chinò verso l’acqua, le vertebre in risalto sulla schiena nuda, bagnando ancora un poco il riquadro di stoffa. Si rialzò rapido, prendendo la mano di Charles e cominciando a cancellare le strisce sanguigne con lenta accuratezza, facendo sparire la più piccola macchia vermiglia, premendo piano i polpastrelli attraverso la stoffa umida. Charles lo lasciò fare. Non avrebbe potuto fare altro: una strana sensazione di occlusione alla gola gli impediva di parlare e le membra, insolitamente fiacche, non gli avrebbero permesso di respingerlo. 
Casomai l’avesse anche solo lontanamente desiderato.
Le dita di Erik che gli cingevano il polso erano ferme e Charles le sentiva più calde sulla propria pelle, più di quanto potesse sentire il calore del sole. Non riusciva a guardarlo e non perché fosse a disagio, o perché gli venisse da ridere. Non voleva rovinare tutto, non voleva rovinare quel contatto.
Teneva gli occhi bassi, fissando le mani di Erik sulle sue, percorrendone ogni vena, ogni segno, il profilo delle ossa.  Poi risalì, guardandone il polso, un neo un po’nascosto, la piccola sporgenza dell‘ulna, risalendo sulla pelle più chiara dell’interno avambraccio, il sinistro, fino a guardare le cifre tatuate in modo irregolare.
Era la prima volta che le vedeva davvero. Anche le poche volte in cui Erik si metteva in maniche corte, ed era successo raramente durante il loro viaggio, o quando erano rimasti nella penombra di camere affittate, Charles aveva sempre evitato di soffermarcisi sopra con lo sguardo, facendo finta di non vederle. Ma ora l’osservava, quasi con disprezzo, pensando al prezzo inscrivibile che quei numeri comportavano, ma anche, e qui Charles si sentì profondamente vergognoso di sé stesso, che era grazie a quello se Erik era lì. 
Erik cancellò l’ultimo arco rossastro, quasi invisibile, giusto un poco più scuro sulla pelle di Charles, facendo sparire il fazzoletto nella tasca dei pantaloni, ormai quasi del tutto asciutti. 
“Lo terrai come ricordo della giornata?” domandò Charles sagace, cercando di riscuotersi dal confortevole torpore a cui si era abbandonato per un momento.
“Lo aggiungerò alla Browning, ad un proiettile irreperibile e ad una scheggia di legno bagnato” replicò Erik in tono compiaciuto, lasciando andare la mano di Charles, trattenendola poco a poco.
“E alla tua moneta” disse Charles divertito, prima di rendersi conto che un’ombra spenta aveva attraversato le iridi di Erik. “Quella che… “ provò ad aggiungere in tono convinto, prima di ricordare. Che idiota.
“Erik…”
“Non fa’ niente”  replicò lui con un mezzo sorriso. “Davvero.”
Charles, mortificato, fece finta di crederci.
 
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Alla fine, erano riusciti a tornare. Evitando anche lo spinoso problema di incrociare qualcuno, naturalmente.
Charles, ridendo, gli aveva spiegato che sarebbe bastato fare il giro della proprietà, accedendo ad una scala che sembrava condurre ad un seminterrato, nascosta da un muretto in cemento, quasi nascosta dalle siepi lungo il retro della villa. Doveva essere ad una profondità minore del bunker, pensava Erik scendendola.
Mentre Charles oltrepassava con sicurezza la porta di ferro e si addentrava nel buio, Erik l’aveva seguito, attraverso le cantine dai bassi soffitti a botte, cercando di ignorare il fresco, l’odore di umidità e le finestre polverose, risalendo una scala di legno, malamente illuminata da un vecchio e crepitante neon.
Erano riemersi abbastanza in fretta e sempre in fretta, si erano scambiati un’occhiata rapida, senza parlarsi e dirigendosi verso le rispettive stanze. 
Erik si era così cambiato e dopo poco aveva raggiunto Charles e gli altri, in tempo per vedere Cassidy provare il nuovo brevetto di McCoy, gettandosi giù da una delle finestre a ghigliottina del primo piano, dalle stanze sul retro. Era stato divertente, Erik doveva ammetterlo.
Charles aveva appena sorriso invece, come se dopo l’iniziale momento d’ilarità si fosse segnato quell’insuccesso come un suo personale fallimento. Non aveva detto nulla, a parte sparire per un’altra decina di minuti e infine annunciare l’intenzione di dirigersi al viale d’accesso con McCoy. 
Indossava una tuta ed Erik se ne era meravigliato; non ce lo vedeva Charles, preso a correre su un selciato ghiaioso. Anche se sembrava abbastanza sicuro di sé.
Quando Erik aveva accennato a venire con loro, l’aveva guardato, stirando le labbra in un sorriso, mimando il gesto di sparargli.
A dopo, Erik.
Erik era rimasto alla villa, incerto. Non aveva voglia di assistere Summers nel bunker, né di intrattenersi con Moira, dopo averle restituito la Browning, sufficientemente ripulita.
Alla fine, si decise per andare a cercare qualche libro da leggere, approfittando della biblioteca. 
Solo che Erik non ci arrivò. 
Una delle porte sul corridoio, una di quelle delle grandi stanze con le finestre a bovindo era aperta. La palestra, se non sbagliava. Immaginando già chi avrebbe incontrato, Erik spinse la maniglia.
Non c’era niente di male ad aspettare il ritorno di Charles, parlando con qualcun altro, per una volta.
La sera sarebbe arrivata in fretta, Charles sarebbe tornato presto.
 
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Aveva l’impressione che il resto della giornata fosse volato. 
Un attimo prima era in piscina, poi a consumare un pranzo rapido. Infine provare il brevetto di Hank  e saggiarne le sue capacità. Si meravigliava di essere uscito a correre.
Avrebbe dovuto farlo più spesso, era stato il suo pensiero, anche quando si erano seduti a cena, un paio d’ore prima. Ora era di nuovo sera, e l’unica cosa che gli era venuta in mente era stato rimettersi una camicia e ritirarsi in camera.
Finchè Erik non si era presentato alla porta, chiaramente.
Charles spostò velocemente alcuni giornali, ammucchiati sulla scrivania. Improvvisamente, mettere in ordine sembrava essere diventato estremamente importante, soprattutto dal momento che Erik era davvero sulla porta, e la stava richiudendo dietro di sé, dopo un‘occhiata nel corridoio buio. 
Charles lo osservò di sfuggita, mentre alzava gli occhi e guardava lo studio, soffermandosi sulla scrivania, sugli scaffali e sulle due finestre a ghigliottina.
“In un certo senso è come esserci già stato” commentò Erik incrociando le braccia, occhieggiando il lampadario a braccia sopra di lui. Charles sentì il sangue affiorargli al volto, ricordando quello che era aveva fatto la sera precedente, sapendo a cosa si riferiva Erik.
“Può darsi…” ribattè cauto, mentre una copia dell’Observer gli scivolava dalla pila che teneva tra le mani. Erik si avvicinò e gliela raccolse. Charles sillabò un grazie, infilando i giornali in uno degli scomparti bassi della libreria, fra copie dell’ American Journal of Medical Genetics, del Times e con suo grande imbarazzo, un vecchio numero di Hello!, che si affrettò a far sparire dietro al volume dell’Enciclopedia Romana.
Si rialzò lentamente, trovandosi a guardare lo studio vuoto.
“Erik?”
Avanzò nella stanza attigua, la camera da letto, oltrepassando un varco da cui la porta era stata rimossa da tempo. La camera era molto più grande dello studio, comprendeva anche un bagno personale oltre una porta un poco più piccola, e manteneva inalterato lo stile disordinato del primo. Oltre alle ovvie differenze d’arredamento, la stanza aveva un’unica, ampia e alta finestra, nascosta dalle tende semi aperte che ondeggiavano piano nell’aria fresca della sera. Charles si ripromise di chiuderla, ma la sua attenzione fu catturata di nuovo da Erik, che stava guardando con attenzione una piccola fila di flaconi e scatole di carta ricoperte di scritte su una delle mensole. Farmaci. 
“Mia madre. Credeva che il mio…” Charles si sforzò di ridere, avvicinandoglisi. “… Il mio problema… Potesse essere risolto con quelli.”
“Il tuo problema” Erik alzò un sopracciglio. “Charles quelli sono…”
Charles avrebbe tanto voluto un altro volume dell’Enciclopedia Romana da schiacciare quelle maledette confezioni, facendo sparire i vari antiepilettici, Clobazam, Oxcarbazepina e Fenobarbital.
Si sentiva stupido ad averli conservati. Forse perché erano uno dei pochi segni di attenzione che sua madre gli aveva dedicato; ma questo non lo disse ad Erik.
“Lei non era del parere di definirlo… Un talento. La… Non le piaceva. Non lo capiva.” Non lo accettava. La spaventava.
Charles fece un altro sorriso di circostanza, chiedendosi perché Erik non si fosse messo a commentare le sue brutte foto, i poster malconci, lo spathypilum malato, il disordine. Avrebbe preferito vederlo dimostrare un po’ di attenzione per la fila di vinili esposti in bell’ordine vicino al giradischi, o vederlo guardare le coste dei libri impilati sui mobili…
“E’ un potere, Charles. Il tuo. Non sminuirlo chiamandolo…” disse Erik, interrompendo il corso dei suoi pensieri. “… Talento.”
“E’ un potere che all‘inizio, avrei preferito non avere” disse Charles di colpo, guardandolo attentamente, come se quelle parole fossero precisi bersagli destinati a colpirlo.
“Per favore, non…”
“Spero non sia andata oltre quelli” continuò Erik cupo. “Non voglio pensare che…”
“Non ho molta voglia di parlarne” gli disse gentilmente, in tono tranquillo.
Tuttavia, Charles non aveva il coraggio di guardarlo. La conversazione si stava spostando su un piano troppo arduo da gestire. Non voleva che Erik avesse a che fare con quello che lui cercava solo di dimenticare. Si chiedeva perché Erik se ne interessasse; qualunque cosa il giovane Charles avesse passato, era sempre una sciocchezza che non meritava nessuna attenzione, in confronto a quello che aveva subito Erik undicenne.
Erik si voltò del tutto verso di lui, appoggiandosi distrattamente alla cassettiera. “Scusami. Di solito non sono così…” sembrò cercare una parola che però non trovò, proseguendo solo con un: “Perché?”
“Avevo, avevo delle crisi. Non le ricordo bene ma.. Non riuscivo a controllare niente al principio” disse Charles con semplicità. “Mi ero quasi convinto.. Insomma, di sentire delle voci. C’era così tanta gente nella mia testa e poi piano piano... Ho imparato a chiuderle fuori. Tutto qui. Non era normale, ma non era nemmeno sbagliato.. L‘ho solo capito un po‘ dopo, cos'era, insomma...”
In realtà, la storia era un po’ più lunga. Charles capiva che Erik l’aveva intuito, ma apprezzò il fatto che non gli rivolgesse altre domande.
Non sarebbe mai stato in grado di spiegargli la sensazione di …
... panico, puro panico. Sentivo solo il cuore che batteva e tutto era ovattato, e i pensieri di tutti erano nella mia testa e non riuscivo a zittirli. Perché sapevo, sapevo che se mi fossi concentrato troppo per farli tacere… Li avrei uccisi.
Charles si riscosse, sentendo il corso dei suoi pensieri prendere una svolta così improvvisa. Erik non sembrava essersi accorto di nulla. Lo vide prendere un disco; Charles lo riconobbe, un quarantacinque giri di Edith Piaf, finito fra i suoi chissà come; lo sguardo di Erik s’incupì appena nel vedere le parole La vie en rose sulla copertina, prima di rimetterlo al posto e incrociare nuovamente le braccia, guardando distrattamente le foto incorniciate sulle mensole e sui comodini.
“Vuoi giocare a scacchi?” domandò Charles cauto, passandosi una mano fra i capelli. 
Erik gli lanciò un’occhiata. “Ci abbiamo giocato prima, Charles” disse, alludendo alla partita che avevano fatto dopo cena in sala, abbandonando gli altri in cucina.
“Giusto” Charles annuì. Si sentiva a disagio. Mentre giocavano aveva chiesto ad Erik se quella sera sarebbe passato in camera sua, ovviamente con un contorto giro di pensiero, ma ora si rendeva conto di quanto fosse impacciato. Un Greyhound con ghiaccio in terrazza sarebbe stato più appropriato. Erano adulti, dopotutto. 
Cosa ci guadagnava Charles a mostrargli la sua camera se non per… Arrossì davvero questa volta, e si affrettò ad abbassare il viso, spostandosi verso la finestra e aprendo un po’ più le tende. Non era una ragazza, ed era così difficile.
Gli ritornò in mente lo sciocco giochetto mentale che aveva provato su Erik la sera prima e sentì le orecchie in fiamme. Come aveva potuto pensare che sarebbe riuscito, nella realtà, ad assumere un atteggiamento tanto spudorato? Se fosse stato una donna...
Stava per chiudere la finestra quando sentì Erik sopraggiungere alle spalle, prendendolo leggermente per il gomito. Si voltò piano, ritrovandosi faccia a faccia con lui e dovette trattenersi dal ridere, perché era così assurdo e…
“Charles.”
“Ehi.” Charles si schiarì la gola, corrugando le sopracciglia. “Stavo pensando…”
Inclinò il capo, continuando a fissare gli occhi di Erik così vicini ai suoi, l’imbarazzo che scivolava via, lento.
Rivide sé stesso, a come si era proiettato nella mente di Erik e allora trovò il coraggio, più o meno. Gli diede un bacio talmente rapido che non chiuse nemmeno gli occhi.
Tornarono a fissarsi, finché Erik non scoppiò a ridere, battendogli leggermente le dita sulla fronte.
Ziemlich.”
“Grazie, Erik” gli disse con voce ironica, ma profondamente abbattuto. Decisamente, la sua testa era molto più avanti nel proiettare scenari perfetti, dove ogni gesto era calcolato ed adeguatamente seducente. Lo oltrepassò, sedendosi sul bordo del letto, incurvando un poco le spalle e guardando il tappeto. 
“Non so davvero…”
Avvertì Erik sedersi accanto a lui, ad una certa distanza. Immaginava che stesse ancora sorridendo e per questo, non lo guardò nemmeno quando lo sentì dire:
“Ti assicuro che è stato meglio questo. Rispetto a ieri, intendo.”
Charles si azzardò a lanciargli un’occhiata, facendo uno sbuffo divertito. 
“Adesso mi dirai ‘perché era vero, Charles’.”
“Esattamente” replicò Erik tranquillo. “A cosa pensavi, mentre cercavi di ammazzarti?”
“Perché me lo stai…” cominciò Charles, prima di rispondergli davvero. “Al fatto che non avrei mai avuto il coraggio di scendere. Dovevo andare avanti, per quanto fosse stupido, o pericoloso… Perché sembrava così importante.”
Erik inclinò un poco la testa verso di lui. “Allora, sappi che va benissimo così.”
Charles capì a cosa si stava riferendo. Erano coinvolti entrambi e la situazione poteva anche essere del tutto incauta ed inaspettata ed abbastanza contorta, perché Erik, a quanto pareva, non era poi tanto più abile di Charles, nel parlare di quello che nelle ultime settimane era accaduto tra loro.  Ma Erik adesso gli stava solo confermando che andava tutto bene, e tanto bastò perché Charles gli si avvicinasse e lo baciasse davvero.
Erik gli mise una mano attorno al collo e si sistemarono meglio sul letto distendendosi l’uno davanti all’altro, abbracciandosi. 
Resta qui.
Erik aprì un poco gli occhi. Facendo scorrere la mano sul fianco di Charles gli prese il polso, allontanandogli la mano dalla testa.
“Charles, so che era già deciso, ma domani…”
“Resta qui a dormire.” disse Charles con un sorriso.
“Solo a dormire…”
Erik alzò gli occhi al cielo, prima di vedere Charles che lentamente tentava di riportare la mano alla tempia. Purtroppo per lui, Erik lo stringeva ancora per il polso e con un verso d’insoddisfazione, abbandonò la lotta.
“So che sei stanco” gli disse. “Ma ci sveglieremo un po’ prima, così potrai…”
“Tornare nella mia stanza prima che qualcuno mi veda?” Erik fece una strana smorfia. “Questa situazione è più compromettente di quello che pensavo.”
“La scelta è tua” replicò Charles, scostandosi un poco da lui e guardandolo oltre le ciglia un poco abbassate. Si tirò su, appoggiandosi ai cuscini ammucchiati contro la testata di legno, incrociando le gambe. Prese un libro sul comodino, fingendo di leggerlo, tenendo gli occhi fissi sulla pagina. Non riusciva a respirare.
Non ci volle molto perché Erik glielo sfilasse dalle dita, e ne leggesse il titolo. “’Il buio oltre la siepe‘?”
“E’ un bel libro. Dovresti leggerlo” mormorò Charles. Erik evidentemente fu quasi tentato dall’aprire e cominciare a sfogliarlo, ma poi si limitò a ridarglielo e a raddrizzarsi. Charles lo guardò sfilarsi la maglia, piegandola velocemente. Si accorse che si stava mordendo il labbro e si affrettò a distogliere lo sguardo. Non era normale, non era normale e continuava a pensarlo e voleva solo che smettesse. Però...
Quando lo sentì vicino, a fianco del lato del letto, vide che non si era spogliato del tutto, tenendosi solo i pantaloni di stoffa leggera. Charles avrebbe voluto domandargli se voleva qualcosa di più comodo, ma gli sembrava quasi inopportuno. 
Gli scostò appena le coperte, ancora senza guardarlo, lasciandosi scivolare sui cuscini. Sentì il materasso inclinarsi un poco al suo fianco e pochi istanti dopo, si rese conto di ritrovarsi appoggiato ad Erik, il suo braccio attorno alle spalle, e sé stesso intento a baciargli il collo. Era stato qualcosa di così automatico che Erik rise sommessamente. Si fermò solo quando Charles si voltò verso di lui.
“Charles, dobbiamo…”
Charles assunse un’espressione svogliata che cercò di cancellare in fretta. “Lo so. Scusami, ora… ora vado a cambiarmi.”
Sciolse rapidamente l’abbraccio con un sorriso cortese e scese dal letto, sbattendo un poco contro uno dei mobili, sentendosi osservato. Trovò i pantaloni del pigiama e la canotta abbandonati nella poltrona vicino alla finestra, irrimediabilmente spiegazzati. Fece finta di cercarli tra i vestiti lasciati lì sopra però, riflettendo che sarebbe stato saggio andare a cambiarsi in bagno. Era così disarmante doversi confrontare con Erik e il fatto che non c’era nulla di più difficoltoso per Charles, di ritrovarsi ad esporsi così con qualcun altro.
Si chiese perché a Savannah e le altre volte non ci fosse stato alcun problema. Più o meno... a ripensarci, sembrava essere stato più facile di adesso... 
Forse era un retaggio di quello che avevano passato giù alla piscina quel mattino. Vedere il corpo di Erik alla luce del sole e sé stesso, senza ombre a nascondere il primo e ad ingentilire il secondo, aveva segnato una differenza che Charles ora sentiva quasi incolmabile.
Strinse i vestiti, sfilandoli con decisione dal mucchio. “Torno subito” mormorò passando davanti a letto e infilandosi nella porta del bagno, attraversando il piccolo corridoio di comunicazione. Per un attimo fu quasi felice di mettere una porta fra lui ed Erik, almeno affinché potesse cambiarsi in fretta, cercando di fissare il meno possibile il suo riflesso poco robusto e un po’ fiacco nella parete. Avrebbe dovuto ricominciare a correre seriamente, non quel jogging sporadico e fatto con poco metodo.
Charles era magro ed obbiettivamente si considerava anche sufficientemente attraente, ma al pensiero di Erik, di quella muscolatura ben delineata e del suo viso, Charles non poteva che fissare i suoi lineamenti da efebo cresciuto con autentico odio.
Con un ultimo sguardo al suo riflesso che ricambiava il suo sguardo sgranato, s’infilò la canotta e tornò in camera, dopo essersi lavato velocemente i denti.
Erik aveva ripreso il libro e lo stava leggendo, la fronte solcata da linee di concentrazione. Charles fece il giro del letto e gli si accostò, infilandosi sotto le coperte, sedendosi rigidamente. 
“Charles.”
“Dimmi” Charles gli sorrise goffamente, mentre Erik posava il libro sul comodino, voltandosi verso di lui.
“Niente” gli passò la mano sul braccio, seguendone il profilo, fino a tenergli stretta la mano. “Credevo non ne saresti uscito più. Pensavo fosse un‘uscita di sicurezza o un passaggio…”
Charles rise, passandosi una mano sul viso. “Erik…”
“Ho pensato anche che con tutta probabilità, ne saresti uscito con addosso una specie di camicia... da notte? Si dice così?” continuò lui parlando rivolto al soffitto, gli angoli della bocca sempre più sollevati in un sorriso divertito e il tono pensieroso. “Non so, come un gentiluomo vittoriano o qualche sciocchezza del genere.”
“Questo che cosa implica?” domandò Charles, sforzandosi di non ridere.
“Dovremo trovarti un nome appropriato, capisci? Qualcosa come Charles Heatcliff. Charles Byron…” Erik gli lanciò un’occhiata. “… Charles Douglas.”
“Tu chi saresti in questa farsa?” azzardò Charles. 
Erik fece finta di pensarci su. “Sarei comunque quello ben vestito.”
Charles gli lanciò un’occhiata interdetta. “Ti assicuro che non possiedo niente del genere.”
“Fortunatamente” commentò Erik debolmente, come se non fosse più abituato a scherzare e il suo tentativo fosse destinato a falllire. “Se ti fossi azzardato a nasconderti sotto qualcosa del genere mi sarei offeso.”
“Accontentati di quello che hai visto in piscina” borbottò Charles con un debole sorriso e appoggiandosi ai cuscini con le braccia incrociate, sapendo di aver fatto una battuta sbagliata che Erik avrebbe subito colto. Cercava di essere leggero, ed era bravo di solito, ma con Erik non ci riusciva. Erik sembrava troppo serio ed in difficoltà nel cercare di mantenere un atteggiamento simile.
Erik gli mise la mano sul fianco, posandogli la testa sul petto e chiudendo gli occhi.
“E’ stato troppo poco. E poi eri comunque vestito” disse Erik dopo un po'; si sollevò un poco verso di lui, baciandolo velocemente, come per chiudere la conversazione, ma Erik lo ignorò. 
“Eri davvero…”
Charles mostrò i denti bianchissimi. “Goffo?”
“Bello” replicò Erik con fin troppa serietà, scrutandolo intensamente. Charles si ritrovò a distogliere di nuovo lo sguardo, irrigidendo le spalle. Sembrava che Erik gli avesse letto ciò che lo infastidiva di sé stesso nella mente, e questa considerazione lo paralizzò per un momento.
Probabilmente, Erik doveva indovinare cosa si nascondeva dietro i suoi pensieri, anche se trasparivano già con evidente facilità dal suo sguardo confuso.
“Non capisco perché ti preoccupi. Soprattutto adesso.”
“E’solo…” E’ come non sentirmi... a posto. Non capisco cosa possa trovarci tu in…
Charles lo fissò davvero, alla fine, risoluto. "In un maschio, ecco. Non lo ..." Erik nel sentirlo fece un movimento strano con la testa, corrugando la fronte e Charles si affrettò ad abbassare la mano, pensando che fosse quella la causa del turbamento che ne aveva attraversato le iridi.
“Non dire una cosa del genere” fu tutto il suo commento, prima di sistemare i cuscini dietro di sé e stendersi, imitato da Charles. Per un attimo pensò di averlo fatto arrabbiare, ma poi Erik cercò di nuovo la sua mano ed intrecciò le dita alle sue, rimanendo spalla a spalla e fissando l’intelaiatura del letto a baldacchino, cosa che sembrò strappare ad Erik un’altra risata. “… Charles Eyre.”
Charles, che ora si era allungato per spegnere le luci delle lampade e della stanza, gli allungò un colpetto sugli addominali, che non impedì ad Erik di trasformare il verso soffocato in una vera risata.
Voleva fingere di essere offeso, ma non ci riusciva, nemmeno sapendo che doveva solo recitare. Come poteva, mentre Erik si voltava verso di lui quel tanto che bastava per stringerlo e dargli un bacio sulla tempia, dandogli la buonanotte?
“Ora però dormiamo davvero, o sarò costretto a bandirti dalla mia proprietà” ribattè.
Sentì Erik mormorare qualcosa al suo orecchio, ma era troppo preso a crogiolarsi nella sensazione di avere quel corpo perfetto vicino a sé, ricordandone lo sguardo pieno di ammirazione e desiderio che Erik gli aveva rivolto prima, per pensare di rispondergli ancora, senza cedere alla tentazione di accompagnare alle parole qualche altra dimostrazione di apprezzamento.
“’Notte, Erik” mormorò, chiudendo gli occhi e respirando un po’ dell’aria fresca che ancora entrava dalla finestra aperta.
 
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“Charles.”
Doveva aver preso sonno da un po’, per questo la voce di Erik giunse debole al suo orecchio, ovattata. 
Sentì una dolce pressione sulla spalla, la mano di Erik che lo stringeva leggermente, scuotendolo appena. Charles aprì gli occhi e vide l’ombra di Erik proprio accanto a lui,
un poco curva. 
Sorrise, anche se forse non poteva vederlo nell‘oscurità. Ne distingueva appena i lineamenti, poco anche gli occhi, intenti a fissarlo nella penombra e questo preoccupò un po’ Charles. 
Forse l’aveva svegliato e se così era, ne era dispiaciuto. Istintivamente, gli passò il dorso delle dita sulla guancia, inclinando un poco il capo.
“Non riesci a …” Charles non poté finire la frase; si sentì mancare il respiro, mentre Erik si piegava verso di lui e premeva le labbra sulle sue, frettolosamente, mentre gli stringeva un poco il mento, cercandolo nella luce assente. Charles fece appena in tempo a celare un vago sorriso di soddisfazione, ricambiando il gesto, socchiudendo le labbra, avvertendo quella piacevole morsa allo stomaco con cui aveva ormai imparato a convivere e che associava alla sensazione di avere Erik vicino. 
“Hai cambiato idea?” mormorò Charles, staccandosi un attimo, appoggiando alla fronte alla sua. Erik soffocò un verso divertito, troppo breve per essere una risata. 
“Se vuoi che smetta, Charles…” sibilò, fingendo un tono contrito.
“Mai.”
Charles gli posò le mani sulle spalle, circondandolo con le braccia, cominciando a baciarlo più lentamente, sfiorandogli la lingua con la sua. Si accorse di quanto lo percepisse diverso, toccandolo dopo averne visto il corpo magro alla luce del sole. Charles avvertì un insolito fremito, nel ricordare quello che era successo quel mattino e nello stringere quella stessa schiena, seguendo con le dita la successione regolare di vertebre. 
Insospettabilmente, la cosa che gli faceva di più accellerare i battiti del cuore, era il ripensare a Erik che ripuliva la sua mano dal sangue, cancellandone le tracce con quei gesti lenti e precisi. Come se il sentire il suo peso caldo su di sé, il sapore della sua bocca, non fosse abbastanza.
Charles prese tra le mani il viso di Erik, cercando di tirarsi un po’ più su, Erik lo assecondò, prima di spingerlo e tenerlo con la schiena contro la testata del letto. Charles fece appena in tempo a stirare ancora le labbra in un sorriso, prima di tornare a baciarlo sentendo la punta del naso di Erik sfiorargli una guancia, mentre gli accarezzava il mento.
Non riusciva a fare a meno di sfiorargli il viso, ogni singolo lineamento. 
Come anche seguire la curva del collo, poi giù per il solco appena accennato dello sterno. Nella penombra non riusciva a vederlo davvero. Charles avrebbe anche voluto spogliarsi, ma non riusciva a staccare le mani da lui. 
Aveva quell’assurda paura che se l’avesse lasciato, il buio se lo sarebbe preso. 
Charles capiva quanto questo fosse irrazionale e profondamente infantile, ma quell’angoscia ingiustificata sembrava accompagnarsi così  troppo dolcemente alle fitte di piacere che dalla gola, sembravano riverberarsi in giù, al resto del corpo, spossandolo eppure mantenendolo in quella tensione carica d’aspettativa.
Reclinò la testa quel tanto che poteva, sfregando i capelli e la nuca contro la testata di legno, mentre Erik cominciava a baciarlo sull’orecchio, sotto l’orecchio e lungo il collo. 
Doveva aver allontanato il lenzuolo; Charles sentiva i piedi nudi scoperti e riuscì così a muovere un poco le gambe, in modo che Erik spostarsi e mettersi del tutto davanti a lui, tenendogli le mani sulle cosce. 
Charles si accorse dopo un po’ del proprio respiro accelerato. Era strano, provare a controllarsi, 
perché non voleva parlare nella testa di Erik. Per una volta, voleva che fosse tutto normale.
Voleva che ci fosse dell’oscurità, che lui fosse davvero immerso nel buio.
Eppure, cercare di non pensare nella testa di Erik stava avendo l’effetto di farlo concentrare fin troppo sulla realtà e ora Charles sentiva il suo stesso respiro ansimante troppo forte, quasi raschiante dal fondo della gola, mentre cercava di trattenersi, cercando di aprire poco la bocca, mentre sentiva le mani di Erik scendere lungo le gambe, risalire ai lati del bacino e insinuarsi sotto la maglia, all’altezza dei fianchi. Fu sollevato, nel sentire di nuovo la sua bocca sulla sua.
Ansimare e gemere in quel modo, non credeva potesse far piacere ad Erik…
Era meglio di qualsiasi fantasia creata dalla sua mente, rifletté per distrarsi, cercando di non lasciarsi del tutto andare, mentre Erik lo aiutava a sfilarsi la maglia, sfregando il più possibile le mani contro il suo torace e riabbandonandosi indietro, schiacciato tra Erik e la superficie di legno e i cuscini. Era tutto vero, vera quella sensazione che somigliava quasi a dolore nel basso ventre, così insopportabile che Charles sapeva di non riuscire a soffocare.  
Si scostò un momento da Erik, quando sentì un altro gemito salirgli alle labbra, umide di saliva, e scendendo con la mano a tentoni fra di loro, prese quella di Erik, trascinandola su di sé e facendogli sentire la sua eccitazione, sfregandosi e implorandogli di toccarlo. Sentì Erik sorridere contro la sua pelle, poco sotto l’occhio. 
“Charles…”
“Per… Per favore…”
Charles provò ad articolare ancora qualcosa, tenendolo la mano sulla sua, accompagnandone i movimenti, ma la voce gli uscì troppo roca, le parole strascicate in un gemito strozzato, mentre Erik continuava insistentemente a toccarlo attraverso la stoffa e anche solo così, Charles si chiedeva come avrebbe fatto a resistere, con il caldo che gli saliva alla testa e fra le gambe, il corpo di Erik che sfregava contro al suo. 
Sentiva la sua voce nell’orecchio bisbigliare il suo nome e frasi spezzate che in un altro frangente l‘avrebbero fatto scoppiare a ridere. Sciocchezze fondamentalmente, come chiedergli se aveva avuto paura di annegare. 
Niente che in quei momenti potesse sembrare anche solo reale.  
“Dovevamo… Dovevamo farlo mentre cercavi di annegarmi” biascicò ridendo Charles, facendo scivolare le mani sul bacino di Erik. 
Charles immaginò ancora il corpo di Erik stretto al suo sott’acqua, ripensando al sole che filtrava in quel verde iridescente. Si piegò in avanti, cozzando la bocca aperta contro la spalla di Erik. Erik gli tenne lì la testa con la mano libera, dietro la nuca, così che Charles si ritrovò a baciare e a mordicchiare quella pelle leggermente sudata, abbracciandolo e piantando le unghie nei muscoli delle spalle, mentre Erik spostava il braccio quel tanto che bastava per infilargli la mano oltre il bordo dei pantaloni, provando ad abbassarglieli, oltre la linea dei fianchi, muovendola su e giù, stringendo un poco.
Era lascivo, desiderare che Erik continuasse toccarlo, o che si decidesse a scoparlo, una volta per tutte, ma Charles non poteva fare a meno di volerlo, di pensarlo.
Si ritrovò a immaginare qualsiasi cosa, pur di non venire subito. Cercò di ripercorrere la scena in cui aveva provato a sparare ad Erik, immaginando di riuscirci, ma ottenne solo la rottura della tregua mentale che si era imposto.
Erik… Erik…  si ritrovò a blaterare nella mente, sollevandosi quel poco che bastava in modo che potesse finire di spogliarlo, più veloce adesso, attorcigliandogli i pantaloni e la biancheria giù fino alle caviglie, sfilandoglieli e ingaggiando una breve lotta, come se Erik stesso avesse improvvisamente la stessa fretta.
“charles sono qui...” gli mormorò Erik all’orecchio, baciandolo sulla tempia un poco sudata.  “Solo per curiosità…” aggiunse, scostandosi un poco, in modo che Charles potesse stendersi un po’ meglio sui cuscini ammucchiati dietro di lui.
Charles non rispose; gli mise le mani sui fianchi stretti, abbassandogli a sua volta, forse un po’ più maldestramente, i pantaloni leggeri con un fruscio trattenuto. 
“Davvero subdolo” sibilò Erik roco.
Charles lo attirò verso di sé, riuscendo quasi a intravederne il viso, nella debole luce notturna che entrava della finestra, passandogli i polpastrelli sul sottile rivolo di sudore che gli attraversava la schiena, prima di sentirlo sdraiarsi su di lui, sentire il suo bacino sfregare contro il suo, mentre lo baciava, lungo il mento e in bocca, quasi leccandolo, mischiando la loro saliva in baci umidi e sempre più impellenti. 
Charles si lasciò sfuggire un ennesimo lamento. L’erezione di Erik che sfregava contro la sua, sfiorandogli il ventre, era più vicino ad una tortura, ora. 
Era ancora diverso da Savannah e dalle volte precedenti. 
Quello di adesso, era qualcosa a cui Charles avrebbe voluto disperatamente fare l’abitudine, pensò, come se la novità fosse superata, pronta a raggiungere un nuovo livello di quasi perfezione. 
Stare con Erik, fare sesso con Erik in quel modo. Avere la certezza che la giornata prima o poi sarebbe finita e che ci sarebbe stato lui, in una routine così amabile e desiderabile. Affondare le dita tra i suoi capelli, lasciargli il segno dei morsi in attesa di fargliene di nuovi la notte successiva, sentire i gomiti sfregare sulle lenzuola calde e intrise del loro odore. Continuare a seguire le geografie che avevano le linee del suo corpo, all’infinito.
 Charles non avrebbe voluto nient’altro che quella routine. Si passò la lingua sul labbro superiore, prima che Erik cominciasse a seguire il morbido profilo della sua bocca con un dito, prendendo del tempo che Charles non era più in grado di concedere.
Erik, non …
Le iridi di Erik scintillarono un momento su di lui. Charles vedeva il profilo di alcune ciocche disordinate ricadergli su un occhio. “Chiedimelo, Charles.”
Charles lo guardò, gli occhi spalancati e l’accenno di un sorriso. Scopami.
“Chiedimelo davvero” mormorò Erik con voce roca, appoggiando le mani a lato della faccia di Charles. Sorrideva. Era inquietante, Erik sorrideva sempre quando era con lui.
“Scopami, Erik” rispose Charles, parlando dolcemente come se dovesse convincerlo. “Per favore.”
Erik si abbassò di nuovo su di lui, cominciando a baciarlo e mettendosi una mano di Charles vicino alla tempia.
Charles, lasciandosi scivolare un po’ più giù lungo il declivio dei cuscini, lo sentì pensare.
… Non ti rendi conto di quanto tu sia perfetto, Charles.
Charles gemette un poco nel sentire le labbra di Erik scendere lungo lo stomaco, accompagnandosi con le mani, verso il bassoventre, verso l’inguine, impedendogli subito di replicare.
“Erik intendevo…” ebbe solo la forza di sussurrare, cercando di vincere sé stesso. “Non così…” si protese verso di lui, tenendogli le mani intorno al collo. Lo tirò di nuovo su di sé, Erik lo assecondò, prima di allungare la mano a destra ed accendere la lampada bassa sul comodino. 
Una luce giallo arancio si riverberò nella stanza, ma era abbastanza smorzata da non dare loro del vero fastidio. Charles fu immediatamente rassicurato, nel vedere il viso di Erik senza le ombre a contenderselo. Gli veniva da ridere, era una richiesta assurda. Però era Erik, era come lui; non proprio una ragazza.
“Perché?” domandò Erik perplesso e ricadendo su di lui, recuperando un poco di respiro, la testa posata sul suo sterno.
Charles inspirò, ridendo sommessamente, sentendosi gli occhi lucidi e la pelle arrossata. Gli dolevano un po’ le labbra per la foga con cui lui ed Erik si erano baciati; sembravano pulsare leggermente. Ma apprezzava il sentire il caldo respiro di Erik sulla sua pelle. Riusciva quasi anche a sentirne il cuore, battere tra le costole. 
Forse Erik sentiva il suo.
“Perché…” cominciò seriamente, cercando una ragione valida, mentre Erik alzava un po’ il capo per guardarlo. 
Perché devi stare davanti a me.
"Divertente." Gli occhi di Erik si rabbuiarono per un attimo e Charles immaginò che forse si era solo incupito per avergli parlato, ancora intenzionalmente, nella mente. Dovette ricredersi quando Erik, facendo scorrere le mani sulle sue gambe e rimettendosi davanti a lui, lo invitò a divaricarle. Charles sorrise, sentendo Erik appoggiarsi nuovamente su di lui, e incrociando il suo sguardo gli indicò il cassetto del comodino.
“Perché?” mormorò quando fu di nuovo sopra di lui, guardandolo attentamente. “Per una volta, lascia che…” Erik gli accarezzò goffamente i capelli, scostandoglieli dalla fronte. Un gesto per nascondere il suo turbamento, probabilmente. 
“Potresti?” chiese Charles debolmente, socchiudendo le palpebre mentre quelle strane rughe premature si tracciavano attorno agli occhi.  “Io mi fido di te. E fa' ridere detto in questo modo ma...”
Erik alzò gli occhi al cielo.“Charles…”
“Dico davvero. Adesso, te ne prego…” Charles gli diede un bacio rapido, socchiudendo appena gli occhi. “Erik.”
Erik lo scrutò ancora a lungo, prima di raddrizzarsi un poco, le braccia tese. Puntellandosi sulle ginocchia, gli si stese meglio sopra cercando di non pesargli addosso, in apparenza senza guardarlo.
Charles gli sorrise soddisfatto, allungandosi meglio sul letto e circondandolo con le braccia. 
Erik si abbassò di nuovo su di lui, mettendo il viso a lato del suo, mentre Charles, da sopra la sua spalla, fissò intensamente il soffitto immerso nelle ombre confuse, sentendo Erik ridere piano e mormorargli  un’ultima volta di non ridere, perché avrebbero potuto sentirli davvero questa volta, non erano certo protetti dall’indifferenza di un albergo, mentre iniziava a cercarlo con le dita, infilandone prima una, poi due, muovendole lentamente avanti e indietro. Charles si lasciò sfuggire un debole ’sì’ prima di serrare le palpebre e sollevare un poco le gambe, per permettere ad Erik di muoversi, il quale, dopo ancora qualche attimo di apparente indecisione, s’inarcò un poco mentre entrava in lui.
Charles contrasse le dita sul suo torace e  si morse il labbro inferiore. Se l’avesse fatto solo un più forte forse si sarebbe tagliato, sentendo il sapore del sangue, ma resistette, mentre Erik scivolava dentro di lui cercando di rendere il movimento più fluido possibile. Si lasciò sfuggire un gemito prolungato, che coprì il respiro di Erik, vagamente più rapido e profondo, piegandosi di più. 
La prima spinta gli strappò una smorfia e un verso confuso, strozzato, storpiando il nome di Erik, che prontamente, tenendolo per la nuca, gli sollevò la testa, più stretta contro l’incavo tra la spalla ed il collo. 
Prima di rendersene conto Charles teneva la bocca semi aperta in un grido smorzato, premuta contro quella carne tenera, come se dovesse affondarci i denti, cosa che effettivamente fece, ma quando ormai il dolore era del tutto passato, era ben oltre dal preoccuparsene, soffocato da quella piacevole sensazione di abbandono che gli faceva dimenticare ogni cosa, tranne Erik e il modo in cui era dentro di lui.
Erik fu tentato di fermarsi, sentendo la voce di Charles farsi sempre più soffocata, i gemiti diventare simili a rantoli di dolore, ma Charles lo tenne comunque stretto a sé con le braccia, sempre più stretto, convulsamente, come se la presa potesse scivolargli nel toccare la sua pelle sudata. 
Erik s’inarcò su di lui, spingendo più a fondo; Charles era così adorabilmente stretto e caldo. Continuò ancora, ansante, premendolo contro i cuscini e il letto. Effettivamente, era sempre la scelta migliore.
Non sapeva perché, ma Charles che lo morsicava per trattenersi dal gemere, il ricordarlo con la Browning puntata alla tempia e come era uscito dall’acqua, abbattuto e un po’ curvo,
i vestiti appiccicati al corpo, gli occhi arrossati, le mani tremanti e graffiate…
Charles che gli diceva che non si sentiva perfetto, che non si sentiva alla sua altezza e che lui non capiva.
Quello stesso Charles che ora cercava il suo viso, baciandolo con lascivia e che gli chiedeva solo di scoparlo ancora, ancora e sempre, passandogli la lingua sui denti, le gambe strette ai suoi fianchi.
 Charles che lo pregava, che si fidava, che lo desiderava. Che lo supplicava. E non giocava a fare l'arrogante, per una volta.
Era come se non ci fosse altro, nella testa di Erik. Persino l’idea di non fargli del male venne cancellata, rifletté, spingendolo più giù, premendogli le mani sulle spalle, come se volesse schiacciarlo tra i cuscini, i suoi movimenti più rapidi.  
Non c’era più alcun timore di superare quella soglia, come se il vederlo soffrire e il vederlo felice, fossero la stessa eccitante cosa. Gli mise una mano sulla bocca, per frenare il suo grido, quando lo vide piegare il capo all’indietro, esponendo il collo e socchiudendo gli occhi lucidi, la pelle sanguigna. 
La presa di Charles sulla schiena di Erik, cedette. Le braccia gli ricaddero fiacche sul letto, sforzandosi appena di trattenere le lenzuola tra le dita, il corpo sempre più abbandonato, scosso solo dai movimenti di Erik dentro di lui. Erik allontanò le braccia dalle spalle di Charles, cominciando a toccarlo, accompagnandosi con i movimenti del bacino. 
Charles alzò appena la testa per guardarlo con occhi vacui e la mente di Erik si popolò di immagini.
Neve. Westchester sotto la neve, il cielo sfocato, violaceo, denso di oscurità. Una delle fontane del parco, irta di stalagmiti di ghiaccio. Erik sentiva talmente il freddo di quella sera invernale che si chiedeva perché  il suo respiro non si trasformasse in brina. Poi vide sé stesso, sé stesso con Charles, intento a pulirgli le mani insanguinate, come quello stesso mattino, appoggiati al bordo della fontana. E infine, Charles che lo abbracciava, nella notte.
Non era un ricordo vero. Non del tutto, Erik lo sapeva.
Era qualcosa che forse non si sarebbe mai avverato, eppure in quel freddo irreale, in quella realtà cadenzata dai loro respiri spezzati, per un momento sembrò vero.
Erik realizzò che avrebbe voluto stare con Charles. Non avrebbe mai voluto separarsi da lui. 
Sentì un fremito attraversargli il corpo e mosse i fianchi più lentamente, chinandosi su Charles, appoggiando il capo a lato del suo viso. La pelle di Charles era madida e bollente, e lui sembrava così debole, reagiva sempre meno ai movimenti di Erik, come se si stesse lasciando andare.
Poi, Erik sentì il liquido caldo e vischioso imbrattargli lo stomaco, mentre guardava Charles socchiudere le labbra, lasciandosi sfuggire un’ultima volta il nome di Erik.
Erik lo vide chiudere gli occhi e agganciandolo per le braccia con le sue, lo tirò verso di sé, mettendolo dritto e abbracciandolo, dondolandosi e spingendo ancora il bacino, sempre più dentro Charles, restando inginocchiato sul letto. Dopo un’ultima spinta, venne dentro di lui, storcendo la bocca in un verso strozzato, mentre Charles gli rimaneva aggrappato, la testa affondata nell’incavo del collo.
Rimasero in quella posizione per un tempo che sembrò loro lunghissimo, ansanti e stremati. Charles respirava sempre più piano, recuperando lentamente un ritmo regolare. Erik sentiva il suo torace alzarsi ed abbassarsi lentamente contro al suo. Gli sfiorò distrattamente la base del collo, all‘attaccatura dei capelli.
“Charles?” gli domandò a voce bassa, ancora affannato e un poco impensierito dal suo silenzio. 
Va tutto bene. Davvero… Sono solo… concluse con un sospiro, dopo un po‘.
Erik s’inclinò in avanti, mettendogli una mano dietro la schiena e accompagnandolo quasi, come se dovesse aiutarlo a rimettersi disteso e poi si scostò da lui, mettendoglisi accanto, al suo fianco.
“Mi dispiace” gli disse, rimanendo girato verso di lui e guardandone la faccia macchiata con vistose arrossature sanguigne, gli occhi lucidi nascosti dalle palpebre e le labbra appena aperte. Aveva un po’ di timore nel toccarlo, adesso.
“Credo di averti ... Charles...” non sapeva che dirgli. Sembrava sempre difficile parlarne così.
Charles scosse appena la testa,  guardandolo da sotto le ciglia, ancora un poco abbassate. 
“Smettila Erik. Non è così. E’ stato…” Charles aprì gli occhi, scrutando oltre la densa luce arancione, fra le ombre proiettate dalle cose che popolavano la sua stanza, i palmi delle mani aperti sulle lenzuola  spiegazzate.
Erik annuì, ancora non molto convinto. “Che cos’era quel… Quella specie di ricordo?”
Charles incurvò le labbra in un lieve sorriso.“Sai che non era un ricordo. Non fare l’ingenuo, amico mio…” rispose, dandogli un colpetto sul torace con il dorso della mano.
Erik lo trattenne, senza farci caso, intrecciando le dita alle sue.
“Era un ricordo falso?”
“Era... una possibilità.”
Gli occhi di Charles furono attraversati da un bagliore fugace, tanto che Erik pensò di esserselo solo immaginato. “Resta a Westchester” disse con noncuranza. “Con me.”
Erik si mise giù, ridendo piano, le spalle un poco sussultanti. “Ci sono già. Non hai bisogno di…”
E invece sì. Perché potrebbe accadere qualcosa, qualsiasi cosa, se Shaw…
Erik strinse le dita di Charles un poco più forte. “Non parlare di lui.”
“Dovremo parlarne prima o poi” replicò Charles imperterrito, mentre sulla sua fronte si disegnavano solchi profondi. “Perché dovremo affrontarlo, una volta fuori da qui. E tu lo sai meglio di me, Erik.”
Charles sapeva perché stava parlando così, quando si sentiva tutto fuorché deciso.
Ma ora, nell‘intimità della sua stanza, si sentiva sufficientemente pronto per dirgli perché, vincendo la diffidenza verso sé stesso.
Sono terrorizzato. Non so come andrà a finire. Non sono in grado di gestire questo. Sono pure riuscito a far uccidere…
“Non li hai uccisi tu, Charles.”
“Perché tu sei un esperto, vero?” domandò Charles stizzito, lasciandogli la mano di scatto e mettendosi seduto, prima di sbarrare  gli occhi nel sentire quello che lui stesso aveva detto. Aveva parlato senza pensare. 
Erik non se lo meritava; si aspettò di ricevere qualche dovuta risposta perfida, ma Erik si limitò a mettergli un braccio attorno alle spalle.
“Un po’ lo sono” replicò Erik dolcemente al suo orecchio, facendo sprofondare Charles nell’impaccio più profondo.
Non posso controllare tutto. Ma continuo a volerci provare, pensò. 
“Charles, tu non sei così. Se tu fossi davvero debole come dici, saresti…”
Un essere umano?
Erik corrugò la fronte. “Non saresti arrivato qui, non avresti fatto aiutato Moira, non avresti aiutato…  Noi non saremmo qui. Per una volta che non me la prendo con gli esseri umani, Charles, fa’ finta di ascoltarmi. Te ne sarei grato.”
L’espressione di Charles si distese un poco, prima che si voltasse verso Erik, appoggiandosi a lui.
“Però non ti dispiace che io possa sembrarlo, vero?”
“Umano?” domandò Erik con noncuranza, guardando la luce notturna filtrare dalla finestra socchiusa.
“Debole” rispose Charles. 
Un debole rossore affiorò sugli zigomi di Erik. “Ti avevo detto di non…”
“E’ un po’ difficile quando sono così… Ecco, vulnerabile?” replicò Charles con un sorriso compiaciuto, gli occhi brillanti. “Lo sai. E poi tu mi hai distrutto le cornici e chissà cos’altro, quindi ho tutto il diritto di vedere quello che pensi. Ogni tanto” aggiunse divertito.
“Cornici?” Erik gli rivolse un’occhiata smarrita, prima di seguire il cenno di Charles ad indicare i rettangoli argentei accartocciati su sé stessi ed irrimediabilmente deformati, esposti sul comodino.
“La prossima volta comprale di legno. Basta gettare denaro così” fu il commento impassibile di Erik.
“Cosa?” Charles aprì la bocca in una smorfia incredula, guardandolo ridistendersi con le braccia incrociate dietro alla testa, sui cuscini sprimacciati.
“Non darmi ordini su come amministrare il mio denaro” borbottò Charles fingendosi contrito, allungandosi a sfiorare una delle cornici ormai inservibili. Gli inquilini delle fotografie erano rimasti intrappolati all’interno, e Charles si chiedeva se li avrebbe mai rivisti. 
“Povero Einstein” mormorò, rimettendone una al suo posto.
“Avresti bisogno di qualcuno che ti sorvegli, Charles. Mi chiedo come hai fatto a mantenerti in vita.”
“Se è un modo contorto per dire che rimarresti qui, sappi che non lo accetto” ribattè Charles, mettendosi accanto a lui e coprendosi di nuovo con le coperte. Non specificò però che con ‘qui’ intendeva Westchester in generale. Intendeva lui stesso.
Erik rise, scivolando vicino a lui, in modo da fissarlo faccia a faccia.
“Vuoi che torni nella mia stanza?”
Charles inarcò le sopracciglia, irrequieto, sfoggiando un'espressione che voleva essere eloquente.
“Ma prima o poi dovrò farlo, Charles. Cosa succede se…” obbiettò Erik in tono serio, dopo avergli sorriso.
Charles scosse il capo, accarezzandogli la spalla, seguendo la linea del muscolo. “Non succederà. E comunque, per stasera preferisco correre il rischio.”
“Credevo che con il rischio avessi concluso questa mattina.”
“Erik…” Charles lo scrutò intensamente, poi si avvicinò e lo baciò. Essenzialmente per farlo tacere, almeno un attimo o Charles si sarebbe di nuovo messo a ridere. Si aspettava di venire respinto, di venire rimesso al suo posto con un’altra risposta arguta, ma Erik lo prese per la schiena tirandolo su di sé, rotolandosi un poco fra le coperte disordinate.
Charles si ritrovò a guardare il viso di Erik sotto di lui, a schiacciare le sue braccia contro il materasso, i capelli davanti alla fronte.
Erik lo guardò, le iridi chiare luccicanti, quasi sfidandolo. 
“Se resto qui, puoi fare del male a me, Charles.”
 
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Il temporale aumentò d’intensità lo scroscio della pioggia divenne più insistente. 
Charles si accorse di aver lasciato la finestra aperta. Sentiva le tende chiare ondeggiare e frusciare strenuamente nell’aria che le gonfiava e le faceva sbattere contro i vetri socchiusi, che a loro volta cozzavano tra loro con un suono cadenzato. Sbatté le palpebre nella luce scarsa, liberandosi dal lenzuolo e scostandosi un poco da Erik, sfilandosi dalla sua presa.
“Che c’è?” lo sentì chiedere sommessamente, la faccia per metà seppellita nel cuscino. “Charles?”
“Vado solo…” Charles gli sfiorò la guancia. “Torno subito. Temporale.”
Posò i piedi sul parquet fresco, camminando sulle assi lucide. Sicuramente stava lasciando delle belle impronte opache. Fece scorrere la mano sulla maniglia di ottone, e spinse le ante, mentre il colpo di un tuono faceva tremare i vetri. Charles rabbrividì. Non gli erano mai piaciuti i temporali. Erano… difficili da controllare. Da prevedere. Però, l’aria fredda della notte sulla pelle accaldata, non gli dispiaceva.
Rimase un poco lì, a fissare le sagome nere degli alberi piegarsi sotto alla sferza del vento, respirando quell’aria fresca e satura di pioggia.
Il bagliore di un lampo giallastro si riverberò nel paesaggio notturno. 
D’istinto, Charles si girò verso l’interno della camera e il sopraggiungere di quell’istante di luce, gli fece intravedere il corpo di Erik, accoccolato nel letto, una mano tesa in avanti fra le lenzuola scostate, come se lo stesse aspettando.
La luce del lampo presto si dissolse e Charles, in quel momento realizzò.
Mentre lo schianto di del tuono veniva rinchiuso fuori dalla finestra, un paio di ricordi si aprirono nella mente di Charles; Erik che dormiva in macchina e lui che guidava sotto la pioggia. Erik che lo baciava per primo, quando aveva capito quello che Charles non riusciva ancora bene a realizzare. Lo svegliarsi assieme, l’unica volta che era successo, a Savannah. Erik che lo supplicava di perdonarlo, Erik che gli diceva che lo voleva. 
E per ultima, la prima volta in cui aveva realizzato che Erik gli faceva un effetto molto più viscerale di quanto in realtà Charles potesse anche solo sospettare, qualcosa di più profondo di un semplice sentimento d’amicizia.
… Io sono con Charles.
Era un attimo durato niente, forse nemmeno così importante… Ma Charles non si era mai sentito tanto preso, tanto catturato, come in quel momento. Tanto affascinato da qualcuno. Soggiogato.
E Charles aveva riempito tutto quel tempo solo concentrandosi sul presente. A esistere, senza cercare di dar troppo peso a quello che sentiva, solo a viverlo. Senza pensarci davvero, senza definirlo, mascherandosi dietro sceneggiate e fantasie e discorsi inutili che in realtà, non portavano da nessuna parte. 
Se non ad Erik, che era il punto comune di tutti quegli ultimi mesi. 
Erik, che era diventato tutto ciò a cui Charles pensava, tutto ciò che lo accompagnava.
Ecco quello che gli impediva di vedere chiaro, quello che si ergeva dietro quelle minuzie, quei segnali inconsci, quelle sciocche paranoie. Era innamorato di lui.
L’aveva già sospettato a Stoccolma, ma non era ancora riuscito a definire quella strana sensazione di amabile felicità e indistinta gioia che gli pervadeva il cuore, anche solo nel sentire il suo nome. Ma adesso…
Era innamorato di Erik. Era qualcosa di così atrocemente bello che non sarebbe più riuscito a prendere sonno, riflettè Charles, rimettendosi contro di lui, sentendo le sue braccia tiepide abbracciarlo.
Avrebbe voluto svegliarlo e dirglielo, subito. Il suo coraggio gli appariva inesauribile, adesso. 
Ma s’impose di aspettare. Charles voleva che quello fosse il primo di lunghi giorni, il primo esempio perfetto di come avrebbe voluto che fosse il resto del suo tempo, di lì a venire.
Giorni forse uguali, forse ripetitivi, forse carichi di aspettativa. Ma ci sarebbe stato Erik e per Charles, quella era l’unica cosa che contasse veramente.
 
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Passarono dei giorni, prima che Charles potesse anche solo sperare di trovare un’occasione adatta, per dire ad Erik ciò che avrebbe voluto dirgli.
Avrebbe voluto anche solo sussurrarglielo di sfuggita, non appena lo incrociava per la villa, non appena si ritrovavano fianco a fianco a commentare i progressi di Alex o Sean, o a commentare le ultime modifiche di Hank, o a parlare con Moira. Non appena si sedevano l’uno di fronte all’altro per un Whiskey Sour serale, osservandosi sopra gli eserciti di pedoni, torri, alfieri, parlando distrattamente di quello che era stata la giornata, aspettando il momento in cui tutti sarebbero andati a dormire ed Erik si sarebbe presentato, casualmente, in camera di Charles.
Non che non avessero occasione di rimanere da soli quindi, ma Charles arrivava solo al punto di fissarlo negli occhi e il coraggio gli veniva meno.
Si costringeva a sorridere e parlare tranquillamente, mentre l’unica cosa che desiderava era metterlo al corrente di quello che finalmente, nella sua testa, era riuscito a concretizzare.
Non si era chiesto se Erik provasse lo stesso, non davvero. Non pensava che il modo in cui avevano iniziato a passare e a dividere le giornate era già sintomo di qualcosa.
Anche se, chiaro, la nuova gestione del tempo a Westchester, dio, era già un maledetto sì. Non poteva non esserlo.
Charles, non sapeva nemmeno stabilire quale fosse il momento più bello di quelli che passava con Erik. Forse il parlare con lui, raccontandosi i progressi della giornata. Forse, lo stare a letto assieme e quello, già bastava a far dimenticare a Charles tutto quello su cui stava riflettendo. O ancora, quando distrattamente gli raccontava quella che era la sua vita prima di incontrarlo, lasciandosi sfuggire dettagli che lo incuriosivano, e cominciava una lotta verbale perché Charles si affidava solo alla sua umana capacità di persuasione, per saperne di più. 
Il vederlo confuso e più propenso a ridere mentre Charles cercava di spiegargli qualche base di genetica. Il sentirlo leggergli Hermann Hesse o qualcun altro autore che Erik scovava fra i libri di Charles, fino a mesi prima ignorato, prima che si addormentasse o preso a rovinargli il finale degli Agatha Christie che Charles aveva messo da parte, nella speranza di avere del tempo libero, un giorno. 
Non conosceva il momento perfetto. Era un’infinita successione di tempo amabile, tranne forse al mattino, quando la luce dell‘alba cominciava a filtrare fra le tende.
Quello era sicuramente l’arco di tempo che Charles temeva di più, perché voleva dire che un’altra giornata con Erik era trascorsa e che lui se ne sarebbe tornato nella sua stanza, perché dovevano mantenere in piedi quella farsa, non vivevano certo da soli, gli spiegava Erik ogni volta con calma, ribadendo che era Charles quello paziente e che avrebbe dovuto capirlo da solo. Quello che avrebbe dovuto sbatterlo fuori, non certo implorarlo di restare per un altro paio di minuti…
E che, per quanto gli dispiacesse, le cose dovevano andare così.
“Tornerò” gli bisbigliava Erik ridendo, gli occhi un po‘ in ombra e dispiaciuti, dopo essersi rivestito e provando a commentare divertito quella situazione. E Charles, non poteva fare altro che sorridergli di rimando, facendogli un cenno con la mano, accarezzandogli un’ultima volta il viso e provare a riaddormentarsi fra le lenzuola stropicciate, una volta che se n’era andato. Si rifiutava però di sconfinare nella parte di letto dove dormiva Erik, limitandosi ad appoggiarci una mano sentendone lentamente il calore, svanire.
Ogni qual volta vedeva la luce pallida filtrare dalla fessura delle tende, allungarsi un poco sul lucido parquet, Charles temeva il momento in cui Erik lo avrebbe sfiorato, sentendo una morsa allo stomaco nel sentire il suo ‘a dopo’.
Non che non ci provasse a pregarlo di rimanere. 
Erik stesso, un mattino aveva quasi ceduto, finché Charles non si era arreso prima, sapendo che se per disgrazia qualcuno li avesse visti...
Charles non sapeva esattamente cosa sarebbe accaduto, ma non voleva correre il rischio. 
C’era solo un accordo che Charles gli aveva pregato di mantenere; che Erik non se ne andasse mai dalla stanza senza avvisarlo, anche a costo di svegliarlo del tutto.
Non l’avrebbe sopportato.
Erik non sembrava aver avuto troppi problemi a concederglielo, nonostante l‘iniziale disappunto. Se Charles si fosse mostrato stanco e affaticato, gli ‘alunni’ avrebbero cominciato ad approfittarsene, aveva scherzato.
Charles, irremovibile, aveva ribattuto che se dopo le ultime notti passate assieme era in grado di comportarsi con irreprensibile normalità, cinque minuti di sonno rubato non avrebbero rappresentato qualcosa di estremamente gravoso da sopportare.
Ecco perché ci stava mettendo tutto quel tempo, a dirglielo. Sembrava mancasse sempre qualcosa, sembrava non esserci mai il momento migliore. 
Nel caso peggiore, si era immaginato di parlargli poco dopo che Erik aveva spinto Sean giù dal satellite, esaltato dal successso della prova di volo, ma poi si era ricordato della presenza di Hank e decisamente, aveva dovuto astenersi.
A volte, era Charles stesso che si rifiutava di trovare la situazione, pensando che sarebbe stato più utile stare giù al bunker con Alex a sostituire i manichini o andare ad aiutare Moira a mettere in piedi le intelaiature di vetro per Sean, o imparare a sparare, dannazione. Aveva anche ripreso a correre.
Nell’ansia di voler passare sempre più tempo con Erik, nel desiderio di stargli sempre più vicino, Charles era arrivato a riempirsi la giornata di attività a cui Erik sembrava non interessarsi affatto. 
Oltretutto, aveva cominciato a notare che c’era qualcun altro che osservava Erik e lo cercava con frequenza. Qualcuno che non era lui.
Tuttavia, Charles godeva di quella sciocca sicurezza, prerogativa delle persone innamorate, che lo portava a credere di essere superiore ad ogni cosa in fatto di sentimenti, protetto dalla sua indifferenza verso tutti e connesso ad Erik da una speciale fiducia che rendeva lui e i suoi desideri inavvicinabili agli altri.
Qualcosa che li proteggeva da una qualsivoglia influenza esterna.
E l’idea che Raven potesse anche solo costituire il barlume di una minaccia, non lo sfiorava affatto.
Lui era innamorato di Erik.  In quella considerazione, c’era già un divario che lo rendeva del tutto diverso, del tutto speciale agli occhi degli altri, se fossero stati in grado di vedere. E migliore, lo rendeva migliore.
C’era stato un momento in cui aveva davvero pensato di dirglielo. Dirglielo davvero. 
Un momento in cui si era sentito così vicino ad Erik che si era meravigliato, nel sentirsi commentare il suo successo solo con una risata felice ed una pacca sulla spalla.
Sapeva che dentro la mente di Erik c’era molto di più del solo dolore. Molto più che ricordi violenti o strazianti. 
Erik gliel’aveva detto, anche a Savannah, tuttavia Charles non aveva saputo subito cosa cercare. Ma ci aveva  riflettuto un poco e infine aveva capito. Una prima forma d’amore. Qualcosa di luminoso, il sacrificio che Erik aveva dovuto subire perché incontrasse Charles.
Sua madre.
I poteri di Erik potevano essere condizionati dalla rabbia, dalla preoccupazione e dalla paura. Charles si era limitato a dargli un punto fisso, qualcosa libero da qualsiasi condizionamento esterno. Questo lo rendeva davvero molto più forte, rispetto a Charles, perché permetteva ad Erik di controllarsi meglio di quanto lui potesse fare, lo rendeva in grado di dominare ciò che lo circondava.
Perché se la vera concentrazione di Erik stava tra rabbia e serenità, quella di Charles sembrava essersi smarrita del tutto, poiché questa non stava affatto tra due poli opposti. 
Aveva un unico ingovernabile centro,  e quel centro era Erik.
 
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Il suo primo pensiero fu che era ancora presto. 
La lama di luce che s’insinuava fra le lunghe tende accostate era di una fioca tonalità bianca, il colore che Charles aveva imparato ad associare all’alba. Ciò che non quadrava, era il fatto di essersi svegliato da solo, come se adesso il suo dispiacere di dover salutare Erik, fosse diventato tanto pungente da obbligarlo a svegliarsi prima di lui.
Convinto che questa mancanza meritasse un rimprovero accurato, Charles si rigirò lentamente con un vago sorriso e vide, sbattendo le palpebre e sbadigliando un poco, che era solo.
Corrugò un poco le sopracciglia ed automaticamente guardò verso la porta del bagno, ma quella era chiusa e anche i vestiti sulla sedia dove solitamente Erik li appoggiava, dopo averli ripiegati, erano spariti.
Charles si mosse il labbro, strofinandosi il dorso della mano sugli occhi, cercando di dissipare quel poco di spossatezza che ancora gli impediva di pensare coerentemente.
L’orologio alla parete segnava le sei e mezza passate, e lui non riusciva ad immaginare perché Erik se ne fosse dovuto andare tanto presto.
Era brutto e inutilmente avvilente, rifletté scalciando via le coperte e andando a scostare le tende, prima di affacciarsi dalla finestra torcendosi le mani, per cercare di vedere se Erik fosse uscito di nuovo a passeggiare nel parco. O bussare insistentemente alla porta del bagno, aspettando di ricevere una risposta che non arrivava.
E soprattutto, non era normale farsi venire un attacco d’ansia per una cosa così banale. No davvero.
Charles stava per arrendersi, portandosi la mano alla tempia e sondare l‘intera casa, quando vide il biglietto, infilato nella cornice dello specchio appeso sopra la cassettiera. Ancora barcollante per i postumi del sonno, sentendosi la pelle appiccicaticcia per il caldo afoso che cominciava a entrare dalla finestra e per l’essere appena uscito dal letto, si avvicinò, sfilandolo con un colpo secco.
C’era scritta un’unica parola e Charles all’inizio pensò che fosse solo uno scherzo, l’ennesimo di Erik, perché non poteva certo immaginarlo intento a …
 
 
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“Ehi” lo salutò, lanciandogli un’occhiata di sbieco e appoggiando un piatto vuoto, sulla tavola già quasi del tutto apparecchiata. 
Charles ricambiò il sorriso, stringendo nel pugno il biglietto che Erik gli aveva lasciato, quello con scritto Frühstück? assieme a qualcosa, cancellato da segni decisi di penna, che avrebbe dovuto essere la parola ‘colazione’ in inglese. Per un po’ rimase sulla soglia con le braccia lungo i fianchi guardando il pavimento, rimpiangendo di non aver messo un paio di pantaloni veri, preferendo quelli del pigiama, senza tasche. Spostò il peso da una gamba all’altra, guardando ogni tanto Erik indaffarato a controllare la fiamma sotto le pentole, a rigirare qualcosa che sembravano pancakes e respirando l’aria che sapeva quasi inspiegabilmente di zucchero a velo. Solo quando lo vide di nuovo girarsi verso di lui e fargli un cenno verso la tavola, mosse dei passi verso il tavolo, scostando la sedia con secco stridio, che lo infastidì. Si affrettò a mettersi seduto, continuando a guardare fisso davanti a sé, stringendo ancora più saldamente il biglietto nel pugno, fino a posarlo sul tavolo, tutto accartocciato.
Era strano. Erik l’aveva sorpreso, ancora una volta, e ora Charles si rendeva conto di sentirsi più impacciato che mai, anche se dannazione, era mattina, e quella era solo una colazione. Niente di pericoloso, o sconveniente sotto altri punti di vista.  
Il rumore della spatola di metallo che cozzava contro il bordo della padella, riportò Charles alla curiosa scena che aveva davanti.
Erik Lensherr ai fornelli che spegneva la fiamma e metteva pancake dorati, in un piatto coperto da un tovagliolo per asciugarli, prima di avvicinarsi al frigo, aprirlo e dopo una rapida scorsa, tirare fuori un piccolo vassoio di waffles di fragole e uva, come se sul tavolo, ingombro di pane e uova strapazzate e vasetti di marmellata che dio solo sapeva dove fosse andato a trovare, non ci fosse abbastanza.
Charles, allibito, si ritrovò a sperare che smettesse di muoversi fra i ripiani, aprendo gli scomparti, a volte senza nemmeno toccare le ante, e tirando fuori cose che Charles non aveva mai pensato di possedere dentro casa sua, figurarsi dentro la sua cucina.
Aveva persino rintracciato qualcosa che dovette spacciargli per una teiera, quando gli prese la tazza che aveva davanti, versandogli del tè. Earl Grey, indovinò Charles riconoscendo il sentore di bergamotto, guardando ancora in basso. Perché Erik non si sedeva? Non riusciva a ….
Solo quando si fu accertato che fosse tutto in tavola, con lunghi sguardi cupi verso la zuccheriera momentaneamente scomparsa, e dopo aver portato i pancakes davanti a Charles, Erik si sedette davanti a lui.
Charles trovò il coraggio di alzare il viso. Avrebbe voluto chiedergli come aveva fatto e perché l’avesse fatto soprattutto, mentre una piacevole morsa, che non era possibile attribuire solo alla fame, gli artigliava lo stomaco. Si ritrovò solo a guardare gli occhi di Erik, mordendosi il labbro inferiore. Si sentiva felice.
“Sei silenzioso.”
“Non me l’aspettavo” disse Charles dopo un momento. Gli sorrise, allontanando i gomiti dal tavolo, cercando di tenersi appoggiato solo con gli avambracci. Fece scorrere il dito sul manico argentato della forchetta, diffidando dell’idea di alzare ancora lo sguardo su Erik, finché era lui ad osservarlo. 
“Grazie” disse. “Mio dio, Erik. Non sapevo che sapessi…”
“Non lo sapevo nemmeno io” replicò Erik sovrappensiero, prendendo il piatto di Charles e riempiendoglielo con qualche fetta di pane tostato. “Penso sia colpa del vivere negli alberghi” aggiunse sovrappensiero. 
“Non puoi aver fatto tutto da solo” replicò Charles, contemplando un waffle troppo ben riuscito.
Erik sollevò un sopracciglio, indispettito. “Non ti fidi di me?”
“Solo se ti aspetti che io mangi tutto” mormorò Charles fingendosi preoccupato. “Dovrò mettermi a correre come un disperato, appena avrò finito.”
Erik afferrò il piatto che aveva spostato verso Charles, ritirandolo verso di sé. Charles, ridendo, mise la mano sulla sua, ritirandola in fretta. “Scusa.”
Sentì lo sguardo interrogativo di Erik su di sé e si affrettò a spiegare. In un attimo, si accorse che non era per nulla difficile ad Erik quanto quello che aveva fatto per lui gli facesse piacere, assaggiando quello che aveva preparato. 
La luce calda che entrava dalle finestre alte, rendeva l’atmosfera in cucina più accogliente di quanto non lo fosse mai stata e forse era anche grazie a quella, che Charles riuscì a parlare, chiedendogli come gli fosse venuto in mente, da quanto tempo era sveglio, se oggi sarebbero potuti tornare al satellite, farsi spiegare davvero come aveva imparato a cucinare…
Erik, che tuttavia non aveva apparecchiato niente per sé, a parte una tazza di tè e un piattino di biscotti dolci, continuava a guardarlo, con sommo imbarazzo di Charles anche mentre mangiava, rispondendo quanto più concisamente alle domande, inclinando un po’ il capo a destra quando era pensieroso e ridendo quando si sentiva messo in difficoltà.
Solo quando lo vide distratto a guardare qualcosa nell’angolo, Charles smise.
“E’ meglio che torni in camera” mormorò Charles seguendone lo sguardo, intento ad osservare l’orologio. 
“Vuoi prenderti il merito di aver cucinato la colazione?” replicò Erik ridendo piano, alzandosi lentamente e posando la tazza sul lavello, sciacquandola rapidamente. 
Si voltò per guardare un momento fuori dalla finestra e così facendo, Charles potè vedere di sfuggita i segni lividi che gli aveva lasciato sul collo e più in basso, sulla gola, con i denti. Si sentì arrossire, notando quel particolare. Sembravano così fuori luogo, nell’atmosfera domestica della cucina. Appartenevano a dei momenti delle loro giornate che c’entravano poco con l’adesso. C’entravano poco con la responsabilità, con il fatto che avrebbero dovuto muoversi, cercando di salvare le apparenze davanti agli altri.
“Non mi permetterei mai” ribatté Charles alzandosi a sua volta per dargli una mano, riponendo la bottiglia del latte nel frigo, facendosi passare le altre cose da Erik.
Recuperò la sua tazza e andò al lavello, tenendo anche i piatti affollati di briciole, ma mentre cercava di passare si ritrovò a sbattere contro lo schienale della sedia, nel tentativo di lasciare spazio ad Erik. Sentì lo stridore della porcellana e fece un mezzo giro su sé stesso, portandosi piatti, tazza e forchette al petto, sgranando gli occhi.
“Charles!” Erik aggiunse la stretta a quella di Charles per aiutarlo a tenere le stoviglie in bilico, per poi sfilargliele di mano ed appoggiarle al ripiano, salvando anche la tazza dalla sua posizione compromettente.
Charles barcollò un poco, afferrando con le mani il bordo del mobile dietro di lui, socchiuse gli occhi, scrollò il capo e scoppiò a ridere. Stava per iniziare a commentare la sua proverbiale incapacità di coordinazione in presenza di Erik, quando se lo ritrovò vicino, quasi a schiacciarlo contro il ripiano della cucina, vicino al lavello.
Gli era praticamente contro; se Erik lo avesse spinto con la giusta forza, con tutta probabilità si sarebbe ritrovato seduto sul piano. Almeno era questo che pensava, mentre Erik gli metteva le mani sui fianchi e si chinava verso di lui, finché il campo visivo di Charles non fu del tutto invaso dal viso di Erik. Charles sentiva la pelle formicolare e cercò inutilmente di trattenere il respiro. Involontariamente, o così preferì pensare, gli mise le mani attorno alla vita, tirandolo ancora più contro di sé, allungandosi quel tanto che bastava per sfiorargli la guancia con la bocca, prima di socchiudere le labbra sulle sue.
Erik si spinse ancora contro di lui e la testa di Charles sbatté contro l’anta di uno degli armadietti. Erik sorridendo fece per scostarsi e controllare che non si fosse fatto male, ma Charles gli tenne ferma la testa prendendolo per la nuca. Mentre continuava a baciarlo, aprì un poco le palpebre, guardando di sbieco l’ingresso della cucina. 
Non voleva che arrivasse qualcuno. Mancava ancora tempo alle nove, e in fondo…
Sentì le mani di Erik scendere più in basso lungo la sua schiena, Charles allontanò appena la bocca dalla sua, incapace di trattenere un lieve gemito di soddisfazione, cercando di rimettere in ordine i pensieri. Non sembrava fosse possibile, così preso dal sentire Erik e lui stesso eccitarsi, semplicemente baciandosi, tenendosi stretti con le braccia.
Soprattutto adesso, dimenticandosi di dove fossero, come se la possibilità di venire scoperti fosse solo un incentivo a continuare.
Sfiorandogli i segni dei morsi e le contusioni sulla gola con le dita, il disagio per averglieli fatti che l’aveva assalito prima venne scacciato completamente, dalla considerazione che comunque gliene avrebbe fatti ancora ed ancora, ogni notte, perché Erik era suo e gliel’avrebbe lasciato fare, perché Erik sarebbe rimasto sempre e quelli erano solo uno dei tanti segni di quello che succedeva tra loro. Erik non li nascondeva nemmeno, Charles doveva esserne solo orgoglioso.
 E adesso, riusciva solo a pensare che l’unico motivo per cui se la sarebbe presa se qualcuno fosse entrato, sarebbe stato quello di averli interrotti. Incrociò lo sguardo di Erik, prima di vederlo osservare con la sua stessa ben celata apprensione l’ingresso sul corridoio.
Charles si chiese perché lo facesse. Non importava, avrebbe potuto far addormentare tutti gli altri se solo Erik l‘avesse voluto.
“Erik…”
Erik si scostò un attimo da lui, Charles poteva vedere l’accenno di un sorriso cominciare a incurvargli le labbra.
“E‘ meglio se…”
Alzò gli occhi al soffitto, un gesto abbastanza significativo. Charles però si sentiva stranamente audace, per una volta che non era lui a preoccuparsi…
Continuò a guardarlo, con quella che pensava essere un’aria abbastanza smaliziata, cominciando a slacciargli i bottoni della camicia e cercando di abbassargliela con entrambe le mani, incurante dello sguardo sorpreso di Erik che dopo un attimo gli afferrò i polsi, bloccandoglieli.
Charles sollevò un poco la testa, aggrottando la fronte, ma stava ancora sorridendo quando Erik gli domandò bruscamente:
“Cosa succede, Charles?”
Era una domanda strana. Questo fu il primo pensiero di Charles. Il secondo fu che era quello il momento, a prescindere dalla situazione studiata, dalle sue fantasticherie e da quello che stavano facendo. Voleva solo dirglielo.
“Sono innamorato di te” disse in un sospiro, fissandolo. Sapeva di avere i capelli un poco disordinati, di essere rosso in viso e di avere gli occhi lucidi, tutte cose che la calda e abbagliante luce del mattino, nella cucina ordinata, metteva in risalto.
Per non parlare dell’aria ancora un po’ assonnata, dei vestiti stropicciati, della canotta un po’ troppo larga che mostrava il torace e le sue braccia pallide. E del fatto che sapeva di avere davanti Erik, davvero. niente fantasticherie, ci era riuscito.
Per un momento, gli sembrò quasi che stesse per sorridergli ancora. 
Solo dopo poco, Charles si rese conto che si stava sbagliando.
Vide gli occhi di Erik diventare gelidi ed imperscrutabili e il sentirlo scostarsi da lui fu quasi doloroso, mentre la tensione irrigidiva Charles, portandolo istintivamente a ritrarsi da lui, sentendolo lasciargli i polsi. Charles abbassò le braccia lungo i fianchi, mentre Erik cominciava a riallacciare i bottoni della camicia.
Non disse niente. Si limitò a guardarlo con quell’espressione fredda ed indecifrabile, prima di voltarsi e andarsene senza guardarlo più, sparendo nel corridoio a passo deciso, lasciando Charles malfermo sulle gambe e i resti della loro colazione ancora sulla tavola.
 
 
CONTINUA….
 
 
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Angolo delle Notizie a Casaccio
 
Allora, non so quando la mia FF è passata da esperimento a vera e propria considerazione del fatto che, cavolo, voglio fare una bella FF slash. 
Qualcosa che sia davvero piacevole leggere e possa far pensare ‘Oh, gods, ma questi sono Erik e Charles!’.
Perciò, se ci trovate orrori, cose che non vi convincono e poco realistiche, scrivetemi le vostre impressioni. 
Il mio terrore è che ciò che scrivo manchi di punti di forza e sia monocorde e ripetitivo.
In questo secondo capitolo ho fatto un po’ di tutto, sperando di non essere sconfinata nell’assurdo. 
La scena della colazione mi girava nella testa da Stoccolma, chiaramente. Avevo anche l’idea che Erik cucinasse male come me, ma diavolo, ho preferito immaginarlo con l’abilità culinaria del ramo buono della mia famiglia. Non parlerò della scena focale del capitolo, se volete dirmi se vi è piaciuta fatelo voi, trincerandomi dietro un no-comment e dandovi delle notizie a casaccio in generale:
-La storia di Erik che si butta con Charles in piscina è parzialmente autobiografica.
-Il buio oltre la siepe è uno dei libri che vanno assolutamente letti secondo S. King.
-Charles Douglas è un nominativo creato con il nome di Alfred Douglas, che fondamentalmente era un pazzo insopportabile e un poeta un po’ poco apprezzabile.
Etc… Non mi vengono in mente altre annotazioni. Se avete dubbi o ho fatto cavolate, scrivete.
Ah, oltre a ringraziare coloro che mi scrivono e mi lasciano recensioni, a cui risponderò il prima possibile, ringrazio BloodyVery a cui presto spero di spiegare perché questo capitolo è dedicato a lei, nonostante sia mia rara abitudine dedicare qualcosa a qualcuno.
 
Alla prossima (Sul finale della prossima settimana) con il III capitolo di questa quarta parte.
 
Saluti, 
Exelle

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


WELCOME TO WESTCHESTER
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4 
 
 
What you touch do not feel 
Do not know what you steal 
Destroy everything you touch today 
Please destroy me this way 
 
Destroy everything you touch today 
Destroy me this way 
Anything that may delay you 
Might just save you 
 
                                                                         Ladytron, Destroy Everything you Touch
 
 
 
CAPITOLO III
 
 
 
Westchester, New York, 1962
 
“Credo che Erik abbia davvero ragione” disse Moira, richiudendo la cartelletta di plastica blu. 
I fermagli metallici scattarono con un colpo secco, facendo trasalire Charles, cancellando l’ espressione meditativa dalla sua faccia.
Sentendo gli occhi di lei su di sé, annuì lentamente. “Shaw sarà a Cuba.”
“E non sarà il solo” disse Hank allontanandosi dalla scrivania metallica sul fondo della stanza e raggiungendoli, seduti all’altro capo, ad un tavolo sotto alle alte finestre.
Charles si grattò la fronte, raddrizzando un poco la schiena e spostando a lato un plico di incartamenti della CIA.
“Dovremmo partire domani, non è vero?”
Moira assunse un‘aria pensierosa. “Potevamo già partire oggi, ma non me la sento di…”
“Nemmeno io.”
Moira tolse l’elastico attorno ad un tubo di cartone rigido, sfilandone quella che sembrava una mappa plastificata blu, con lunghi tracciati bianchi e rivelando la ricostruzione cartografica di un’isola grande e altre più piccole vicino, in tratti più marcati. 
Charles sapeva bene di cosa si trattava, era l'argomento di discussione principale tra lui e Moira. Kennedy alla TV non era stato il solo, a ribadire quante delle sorti mondiali si stessero giocando nell’arcipelago dei Caraibi Settentrionali, ma adesso, Charles riusciva solo a pensare che l’annuncio del Presidente, era seguito subito dopo al momento in cui aveva aiutato Erik a capire qual era la forza necessaria a far voltare il satellite. A dimostragli che aveva un potere più grande del suo. 
Sbatté le palpebre, appoggiandosi meglio sulle braccia ora conserte, chino sul tavolo. Sentì Hank avvicinarsi al suo fianco.
Stava chiedendo a Moira la posizione precisa degli SS-5 Skean sovietici già sull’isola e la posizione probabile dove Shaw avrebbe potuto trovarsi, per essere vicino alla zona del fuoco incrociato. Una posizione che gli avrebbe consentito di sopravvivere e tuttavia anche in grado di permettergli di intervenire, se la situazione non si fosse svolta a suo favore.
Moira indicò la rotta tenuta dalle due flotte, tracciando con una penna dei punti probabili. Charles tuttavia, era così concentrato dal pensare a cosa dire per cercare di non apparire del tutto indifferente, che non diceva nulla. Si limitava a fissare le linee delle rotte con gli occhi, senza formulare un vero pensiero concreto su quello che stava facendo in quel momento.
Era così negligente da parte sua, ma non poteva farne a meno.
“Il jet è pronto a partire, ho solo bisogno di qualche ora per approntare le ultime modifiche” spiegò Hank, aggiustandosi gli occhiali.
Charles si voltò a guardarlo, cercando di riscuotersi.
“Ore?” chiese sorpreso.
Hank sospirò. Sembrava dispiaciuto. “Non me la sento di chiedervi più tempo, anche se…”
“Ti occorre più tempo?” domandò Charles, guardando sia Hank che Moira. La donna si strinse nelle spalle, lanciando un’occhiata alla mappa.
“Io non so se…”
“Con tutta probabilità… Non saranno alla linea di confine prima di mezzogiorno, non è vero?”
“Charles…”
“Shaw sarà già sicuramente là” puntualizzò Hank aggiustandosi gli occhiali sul naso. “Ma le navi sono navi da guerra con armamento pesante e anche viaggiando alla massima velocità di nodi da loro consentita… Potrei calcolare l’ora precisa in cui raggiungeranno la linea…”
“Da Langley ti hanno passato quest’informazione?” Charles lo disse come una domanda, anche se aveva già letto la risposta nella mente di Moira, mentre si voltava verso di lei.
Moira tamburellò lentamente le dita sulla carta, colpendo ogni volta lo stesso punto con l’indice. “Se partissimo prima avremo più probabilità di…”
“Ma è anche vero che con il jet pilotato da qualcuno di esperto, potremo essere lì in molto meno di due ore” osservò Charles, tracciando con l’indice un immaginario percorso aereo che dal ripiano del tavolo, si fermava a pochi centimetri dal luogo prefissato.
“Essenzialmente, il problema dell’essere puntuali non si pone.”
Moira corrugò le sopracciglia. “E dove troviamo…”
“…Un pilota abbastanza bravo? Hank” spiegò Charles facendo un cenno con la mano verso il ragazzo. “Non pensare che saremmo stati così impreparati” aggiunse con un sorriso. “E da quello che mi hai detto, tu stessa non hai scarsa difficoltà a volare.” 
Moira annuì, anche se i sui occhi non sembravano ancora del tutto convinti.
“Pensi che sia una buona idea?” chiese, guardando Hank che a sua volta lanciò un’occhiata a Charles.
“Se Charles pensa che sia così, io sono d’accordo con lui. Domani mattina.”
Con gli occhi di lei ancora su di sé, Charles afferrò un plico di  documenti, parte della documentazione che la CIA aveva fatto avere a lui e Moira, mettendoseli sottobraccio. Sorrise fiduciosamente ad entrambi, quando dopo aver chiesto a Moira di avvisare gli altri,  disse ad Hank che se fossero sorte delle difficoltà sarebbe stato più che felice di aiutarlo.
Per un attimo Moira sembrò quasi che volesse seguirlo, ma forse ebbe solo la delicatezza di notare che il passo di Charles era un po’ più affrettato e i suoi occhi un po’ preoccupati, per pensare che volesse parlare ancora.
 
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“Dov’è Charles?”
“Non ne ho la minima idea” replicò Raven allontanandosi dalla finestra. “Sarà da qualche parte con Moira, probabilmente” aggiunse, con un’ultima occhiata al cielo grigiastro. “Pioggia, eh?”
Erik annuì lentamente, lanciando un’occhiata alla porta. Non era nemmeno interessato a cercare una parola educata per allontanarsi dalla stanza, né triviali commenti sul tempo, ma era combattuto; poteva andare a cercare Charles, che era quello che davvero voleva fare, o rimanere a lasciare che le sue ultime ore a Westchester scivolassero via, nell’oblio di qualche conversazione inutile.
Non era colpa di Raven, in fondo.
Gli andava a genio, a suo modo. Era decisa e schietta, e il suo unico problema era quella spasmodica ricerca di attenzione che sembrava portarla ad aggrapparsi spasmodicamente a chiunque le capitasse a tiro.
Guardandola sedersi sul divano, con le gambe accoccolate davanti a sé, ancora intenta a guardare il cielo di ferro, Erik comprese che fondamentalmente, lei non gli dispiaceva.
Poteva mascherarsi con i capelli biondi, con un viso ordinario e un aspetto convenzionale, ma lei era tutt’altro. Si ritrovò a domandarsi che cosa ne sarebbe stato di lei, se si fosse decisa a lasciar perdere quella facciata, se finalmente avrebbe scelto di essere ciò che era.
Un po’ come aveva fatto lui.
E Raven, Raven era anche l’esempio di ciò che significava vivere a contatto con Charles ogni giorno. 
Si chiese se fosse stato lui a spingerla a mantenere quasi sempre inalterata la sua apparenza esteriore, ma poi scacciò quell’idea. 
Charles non era così, si disse. Ma poi, si ritrovò a rendersi conto che non aveva alcuna base per sostenere questa teoria e che fondamentalmente, anche se Raven  forniva un chiaro esempio di come doveva essere crescere a Westchester in compagnia di Charles Xavier, non era un esempio poi così gratificante.
Era Raven che voleva essere considerata normale o era Charles che l’aveva… No, non poteva essere così.
Charles si era sempre e solo dimostrato felice di parlare, discutere e, dio, di far sapere a chiunque che essere un mutante non era per nulla strano. Che era normale, nella sua eccezionalità, perché non erano soli.
Gliel’aveva detto e dimostrato ogni giorno da quando si erano conosciuti, ma ora, con Raven a pochi passi, quella che Charles chiamava sorella e che sembrava essere l’unica persona vicina a lui, non poteva non apparire come un esperimento.
Come se Charles, potesse aver in qualche modo influito su di lei, facendola apparire come il modello perfetto di mutante integrata.
“Perché cerchi Charles?” gli chiese d’un tratto, roteando gli occhi verso di lui. “Avete litigato?”
“Cosa?” domandò Erik bruscamente.
Lei sembrò per un attimo sorpresa, ma poi sorrise, riprendendo a guardare distrattamente fuori dall’ampia vetrata.
“Charles non è mai stato capace di farsi degli amici” disse con noncuranza, flettendo le dita. “Non che sia mai stato capace di trovarne. O di tenerseli, ma… E‘ come se non ne avesse mai avuti. O voluti.”
“Non dovresti parlare così” le disse Erik in tono indifferente.
Raven inarcò le sopracciglia, dubbiosa. “Se tu glielo chiedessi ti direbbe la stessa cosa. Non che sia un problema di carattere… Ma forse, è solo un po’ difficile per uno… Per lui contano solo i suoi mutanti, adesso. Preferisce il ruolo del capo, non di quello alla pari degli altri.”
Erik alzò un sopracciglio, poco convinto dalle parole di lei. “Tu sei sua amica. Sua sorella”
Raven alzò gli occhi su di lui. “Se introdursi in casa sua di nascosto da’ questo diritto, sì, lo sono. Ma non credere che io lo stia criticando.”
“Ma non ne stai nemmeno parlando bene” disse lui con calma, facendo un altro passo nella stanza. 
C’era qualcosa di piacevole nel sentire parlare di Charles senza che lui ci fosse. Forse non era corretto, ma Erik sembrava avvertire che era qualcosa che portava molte meno complicazioni, di quelle che avrebbe portato l’affrontarlo direttamente, dopo quello che era successo quella mattina. E anche sentire i giudizi severi e  ben poco celati di Raven su di lui, era un modo come un altro per non pensare alla considerazione che Erik non aveva mai passato tanto tempo, senza vedere Charles, a Westchester. E c’erano ancora tante ore lunghe e vuote davanti a lui, ore che non voleva riempire né con libri, né contemplando il cielo, in attesa che si facesse scuro. 
“Non è così. Sono abbastanza contenta che finalmente Charles parli con qualcuno. Spero solo che tu sappia qualcosa di genetica.”
Erik  accennò un sorriso diffidente.
“Charles parla con Cassidy, con Moira e Summers e con McCoy, non credo che faccia differenza. Parla con tutti noi.”
Raven lo squadrò, sorridendogli in un modo che voleva essere accattivante. “Rispetto a te, sicuramente.”
“Non stiamo parlando di me.” 
“Giusto” replicò lei, strascicando fin troppo la ‘s’. “Stiamo parlando di Charles. Buffo, è sempre al centro dei pensieri di tutti, anche quando non c’è. Comincio a credere che siete così abituati a vederlo nel ruolo di capo che non quando sbaglierà, non farete altro che dargli ragione.”
“Non sembra che gli dispiaccia quel ruolo” le disse Erik un po’ sovrappensiero, incrociando le braccia.
“Tutt’altro. Lo adora” il viso di Raven s’incupì. “Credevo avrebbe buttato la sua vita vivendo solo in quel modo in cui viveva Oxford… Pensavo avrebbe lasciato tutto andare, non sembrava gli importasse niente, a parte festeggiare sciocchezze e trovarsi qualche ragazza di cui poi si sarebbe dimenticato il nome, e adesso…” la fronte di Raven venne attraversata da rughe di perplessità. “Forse sarebbe stato meglio, da un certo punto di vista. Ora passa il suo tempo a dirci quanto siamo speciali, quanto dobbiamo essere fieri, di quanto lui è fiero di noi…”
“E non deve essere così?”
Raven alzò gli occhi su di lui, con espressione dura. “Non farti ingannare, Erik. Ti dirà che un giorno avrai un potere più grande del suo e questo ti lusingherà, e tu gli crederai, perché è così che Charles si comporta. Ma te lo ripeto, è solo un trucco, perché lui sa di essere più forte di te, di me e probabilmente di tutti gli altri che incontrerà. Lo fa solo per accondiscendenza. Non lo nasconde neanche tanto, ma dietro quella sua ottimistica facciata cortese, è fin troppo arrogante e soprattutto, egoista.”
Erik le restituì un’occhiata in tralice. Raven parlava con la voce di chi è stata messa da parte, ma Erik, dentro di sé, cominciava a sentire che quelle parole, in fondo, erano vere. Ma non poteva neanche darle ragione perché, anche se per lei Charles poteva essere pienamente nel torto, lui voleva ancora concedergli il beneficio del dubbio.
Quel suo essere arrogante, non poteva essere così negativo come Raven lo dipingeva.
“Non sono qui per Charles.”
“Anche questo è vero.”
Gli occhi di Raven si adombrarono un poco. Erik si chiese perché avesse scelto proprio lui, per parlare del risentimento che sembrava dominarla. Un risentimento quasi scontato. Il suo ruolo a Westchester era stato messo in discussione e qualunque fosse lo speciale legame che la univa a Charles, aveva cominciato ad indebolirsi il giorno in cui Charles aveva compreso che non erano più soli.
“Con loro parla” riprese Raven, girandosi ancora verso la vetrata. “Ma tratta te come se fossi al suo livello. Ma Erik…” e qui si voltò di nuovo su di lui. “Temo che ci consideri solo come le sue pedine. Forse adesso gli è venuta voglia di condividere il suo gioco con la CIA con qualcun altro, ma qualunque cosa lui possa dirti, credimi… Ormai c‘è solo lui. E‘ solo lui, non aspettare che ti comprenda, non fino in fondo. Può essere capace a leggerti nella mente, ma non può essere in grado di capire, non tutto…” 
C’era un certo innegabile disprezzo nel suo tono di voce, ma Erik, pur capendo la sua amarezza, rifiutava di concordare pienamente con lei. Poteva anche conoscere Charles da più tempo, ma Raven sembrava più presa a considerare ciò che era importante per lei, ciò che le spettava, ciò che lei pensava, per accettare di considerare un orizzonte più ampio in cui lei non era contemplata personalmente. Aveva solo bisogno di attenzione e quell’essere scostante e il prendersela con Charles ne erano solo una manifestazione. 
Erik si chiese se la cura che McCoy stava preparando, l’avrebbe aiutata a riconciliarsi un poco con quella parte di sè che la portava a denigrare quello che Charles stava cercando di fare.
Indifferente al silenzio di Erik, Raven si aggiustò una ciocca di capelli che si curvava appena vicino alla guancia, aggrottando appena la fronte.
“Credo che l’abbia baciata” disse piano. Era ben più che un’affermazione decisa, ed Erik suo malgrado, si ritrovò a spalancare un poco gli occhi, cercando di allontanare l’espressione sorpresa che per un attimo gli aveva attraversato il volto. “Cosa?”
Raven fece un verso quasi, come se stesse cercando di smorzare una risata derisoria che le saliva alle labbra.
“Moira, naturalmente.”
“Immagino tu li abbia visti” replicò impassibile Erik ma evitando di guardarla direttamente, questa volta.
“Ho detto che non ne sono sicura” Raven abbassò le gambe, sedendosi meglio e voltandosi verso di lui. “Ma potrei anche benissimo dire che forse è assolutamente vero. Basta vedere il modo in cui…”
“Se non l’hai visto, non è vero” le disse Erik cortesemente, cercando di nascondere il suo fastidio. “E anche se fosse, ti pregherei di non parlarne con me, perché non mi interessa.”
Raven lo fissò un momento, poi abbassò gli occhi con un‘aria che poteva solo essere descritta come colpevole.
Erik si chiese nuovamente perché dovesse sentirsi messo al corrente dei suoi problemi sentimentali. Raven non poteva essere così futile, non fino a questo punto. 
“Perché dovrei aver litigato con Charles?” domandò Erik con noncuranza, cercando di allontanare l’argomento McTaggert da quella conversazione, argomento che sembrava infastidire esteriormente Raven molto meno rispetto a quello che Erik sentiva, inopportunamente, dentro di sé.
“Scusami?” lei sembrò trasalire, riscuotendosi dai suoi pensieri.
“Prima, mi hai chiesto…”
“Ricordo cosa ti ho chiesto, Erik” mormorò. “Era una sciocchezza. Credo che se litigasse con te, sarebbe talmente dispiaciuto che si metterebbe a piangere” ma prima che Erik potesse replicare, gli sorrise e aggiunse: “Ora sto scherzando.”
Erik, colmo di disappunto, fece un verso sarcastico prima di inclinare un poco la testa e guardare il cielo perlaceo fuori dalla finestra.
“Non sono qui per Charles” le disse ancora, senza una ragione precisa, mettendosi le mani in tasca. “Ma a te farebbe bene smettere di pensare a lui.”
“Perché?”
Erik le sorrise, gentilmente questa volta. Non mancò di notare che i suoi occhi erano diventati gialli, e quel particolare insolito, in quel viso di una bellezza così ordinaria, lo affascinò.
“Perché ti rende cattiva” le rispose, prima di uscire con calma dal salone, pronto ad andare alla ricerca di Charles.
 
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“Charles, seriamente…”
Charles rise, sfilandogli il drink di mano e posandolo sulla balaustra di pietra dietro di lui. 
“E’ un problema perché non siamo un uomo e una donna?” gli chiese scaltramente, con un sorriso che voleva essere ammiccante, aggiustandosi i bottoni del cardigan.
Erik sbuffò, distogliendo lo sguardo da lui. “Temo sia un po’ tardi per porsi il problema per quello.”
Charles abbassò il capo, nascondendo la sua espressione divertita prima di dire: 
“Eri comunque attraente vestito da donna, amico mio. Credimi” disse Charles, compiacendosi un poco nel vedere che era riuscito a mettere Erik in difficoltà. La pausa di tempo che ci stava impiegando per replicare, aveva già il dolce gusto della vittoria. 
Il sorriso trionfante di Charles si allargava sempre più ed Erik dovette notarlo, perché incrociò le braccia e lo guardò sprezzante.
“L’ho trovato poco adorabile da parte tua, Charles” commentò accarezzandosi pensierosamente il mento.  “Credo che l’aggettivo più giusto per definire quello che hai fatto sia ancora...  perverso.”
Charles spalancò gli occhi. “Non è assolutamente vero. Era per divertire la ragazza” affermò in tono convinto. “Sarebbe venuta a Richmond con più facilità se avesse visto che eravamo persone… Persone divertenti.”
Erik sollevò le sopracciglia, diffidente. “Ti assicuro che sembrava molto più compromettente.”
“Io l’ho trovato divertente” provò a giustificarsi Charles, anche se stava di nuovo arrossendo.
“Tanto divertente che siamo finiti qui, mentre cerchi di invitarmi per…”
Charles abbassò le sopracciglia sottili in un‘espressione furba. “Devo invitarti?”
“Charles, smettila. Non so perché ti sia venuta quest’idea malsana…” Erik socchiuse un poco gli occhi, cupo. “Ma se hai intenzione di essere banale, o scontato, o qualunque sciocchezza ti sia venuta in mente, sappi che non è così che si fa’.”
Charles abbassò gli occhi, turbato. Non voleva fare arrabbiare Erik, voleva solo scherzare con lui. 
La sera precedente, era stato così ingenuo da credere che invitarlo in camera sua sarebbe bastato a fargli passare una serata piacevole.
Charles arrossì, perché in parte, in buona e grandissima parte, era stato davvero così, ma questo non gli aveva impedito di chiedere ad Erik di raggiungerlo sulla terrazza vicino al tetto, arrampicandosi sulle vecchie scale dei piani alti, quasi tutti chiusi, con un giradischi e i drink,
prima di dirgli dov’era.
Ma a quanto pareva Charles non ne era in grado, non era in grado di divertirlo e tuttavia, Erik ora lo stava di nuovo, inspiegabilmente, assecondando. 
Nella sua mania di fare qualcosa di più, Charles aveva di nuovo fallito. Fece per allontanare le mani, aggrappate alle sue braccia conserte e allora, Erik si raddrizzò con la schiena, prendendolo per le spalle, tenendolo un poco distante da sé per poi prendergli le mani, palmo contro palmo, intrecciando le dita.
“Vai un po’ indietro” mormorò, facendo un passo in avanti, nella sua direzione. Charles annuì. Credeva che l’imbarazzo si sarebbe presto impossessato di lui, ma stranamente non sentiva niente, nemmeno soddisfazione nel vedere che Erik sembrava assecondarlo.
Voleva solo seguire qualsiasi cosa lui gli avesse detto.
“Ti assicuro che il prossimo libro che ti leggerò sarà Delitto e Castigo”  gli disse Erik sottovoce, mentre stringeva ancora le mani di Charles, sentendo le sue dita incastrarsi saldamente alle sue, quando furono quasi al centro della terrazza.
Aveva la testa un po’ inclinata a destra, e non si capiva bene cosa stesse davvero guardando.
Charles lo osservava di sottecchi. Per quanto quella fosse stata una sua idea, si era reso conto che non aveva mai pensato a come comportarsi,
se mai Erik l’avesse accontentato. Ma ora, inevitabilmente, il problema sembrava essere stato cancellato.
Era Erik che decideva, e a lui andava benissimo che fosse così. Perché era così semplice essere tanto arrendevole nei suoi confronti, così semplice pensare che Erik si preoccupava per lui, che ci sarebbe stato, che avrebbe esaudito qualsiasi inezia per farlo felice.
Erik sciolse un attimo la stretta e con un cenno della mano verso il giradischi, l’astina si sollevò e andò in posizione, e il disco cominciò a scorrere, grattando leggermente.
“Lo stiamo facendo veramente?” domandò Charles a mezza voce.
Erik gli mise le braccia sulle spalle, unendo le mani dietro alla sua nuca. “Non ho alcuna obiezione sullo smettere adesso, tanto perché tu lo sappia. Ma se vuoi… ”
Charles lo guardò, meravigliato, accennando un passo indietro prima di immobilizzarsi.
“Lo stai davvero facendo solo perché io te lo chiesto, anche se non vuoi?”
Erik sembrò quasi mordersi il labbro, perplesso. “Ci devono essere altre ragioni?”
“Pensavo…”
Erik sembrava infinitamente a disagio. “Charles, se una cosa ti può far piacere…”
Cercò quasi di distogliere lo sguardo da lui, ma poi abbassò solo le mani, liberando quelle di Charles dalla stretta. L’unica cosa che lui riuscì a fare, fu passargli il dorso della mano sulla linea tagliente dello zigomo.
“Anche se è qualcosa di inopportuno?” chiese Charles piano.
“Charles…”
“Anche se è qualcosa che giudichi insensato?” 
Erik non rispose, limitandosi ad osservarlo a lungo, aspettandosi forse che Charles, trovasse da solo la risposta che più gli piaceva. Lo vide sbiancare dopo un momento.
“Oh, Erik, quanto sono stato cieco” disse infine, allontanandosi da lui ed andando a spostare l’astina, bloccando la musica graffiata. Tornò lentamente da lui, mettendoglisi di nuovo di fronte, dopo aver recuperato il bicchiere.
“Non saprò mai bene come comportarmi davvero, con te, amico mio.”
“Charles…” rispose Erik con un mezzo sorriso. “Sinceramente. Credevi davvero che sarei stato felice di ballare con te?”
“Pensavo…” Charles socchiuse un poco gli occhi, abbassandoli. “Pensavo…”
“Tu pensi sempre” disse Erik sorridendogli, a metà tra il divertito e l‘ironico. “Sempre. Vorrei provare a immaginare cosa ti ha portato a questo.”
Charles si strinse nelle spalle. Il tono di Erik era leggero, ma presupponeva che ora avrebbero dovuto di nuovo affrontare una qualche conversazione spinosa in cui Charles, non era mai sicuro di riuscire a spiegarsi bene.
“Non l’ho immaginato. Insomma…” Charles incrociò le braccia, dopo aver sporto il Cointreau a Eric che ne prese un lento sorso, guardandolo da sopra il bordo, nell’attesa che Charles finisse di parlare.
“Erik io voglio passare del tempo con te. Ma non è possibile passarlo sempre a … Capisci …” Charles gli lanciò un’occhiata rapida e che sperava il più allusiva possibile, pregando che i capelli gli nascondessero le orecchie in fiamme.
“Chi lo dice?” domandò Erik serio, facendo tintinnare il ghiaccio semisciolto contro il vetro.
Charles sollevò le sopracciglia, interdetto. “Il… Il buon senso, ritengo. Ma non è questo il punto, Erik, io so che un giorno…”
Con la fronte sempre più aggrottata, Erik gli ripassò il bicchiere, che Charles prese distrattamente. “Io so che un giorno ti stancherai.”
“Che intendi?” mormorò Erik, un poco perplesso.
Charles guardò il liquido opalescente, quasi come se potesse trovarci la risposta più adatta.
Ho paura che tu possa stancarti di me.
“Ti ritieni così poco interessante?” replicò Erik, gli angoli della bocca che cominciavano a tendersi in un altro sorriso, prima di tornare serio. “Perché ti fa paura qualcosa che non sai nemmeno se succederà?”
“Perché quando ho una cosa bella, ci tengo a non farla allontanare da me.”
Ballandoci assieme?”
“Non stavo parlando di te… Era in generale, stavo parlando in termini figurati, cerca di comprendere”  sbottò Charles, improvvisamente agitato, tanto che Erik dovette trattenergli la mano che reggeva il bicchiere. Charles lo guardò, un poco offeso. “Non sono così sbadato.”
“Farò finta di crederci.”
“Erik...”
Con un’occhiata molto poco convinta, Erik lo lasciò andare, dubbioso. “Non lo capisco, perché dovrei essere io quello che si stanca? Charles, se dovessi io venirti a noia? Cosa dovrei fare?”
“Credo che una simile eventualità non sia possibile” disse Charles serio, aggrottando la fronte, suscitando di nuovo la risata di Erik. 
“Se riguarda te, va bene sminuire tutto vero? L’irreprensibile Charles…”
“Non mi sto sminuendo. Ma è ovvio che venga da pensarlo, Erik.”
“Quando parli di genetica sembri molto più sicuro di te, Charles. Mi dispiace ammetterlo, ma appena esci dal tuo campo, sembri un completo incapace.”
“Dunque questo è il tuo campo?” obbiettò Charles sollevando un sopracciglio nel sentire Erik ridere ancora, girandosi un poco per posare il bicchiere ed appoggiarsi con la schiena alla balaustra. Erik lo imitò, ma ancora non gli rispose. Rimasero in silenzio, a fissare alcune falene instupidite dal riflettore, posto sulla porta d’accesso alla terrazza, che illuminava parte del lastricato con una luce bianca e asettica.
“Non capisco come ti vengano certe idee, comunque.”
Charles scosse la testa guardando fisso davanti a sè, ed incrociando le caviglie. “Non chiedermelo adesso. L‘ho fatto solo perché volevo… Volevo passare del tempo, e…”
“Non potrei semplicemente venire a correre con te ed Hank?” domandò Erik tranquillo.
Charles alzò le spalle, innervosito. “Non voglio che tu mi veda correre, Erik. Sarei impresentabile, tutto… tutto sudato … e accaldato. Non corro da tantissimo tempo e sarei davvero…”
Erik sollevò un sopracciglio, un poco perplesso mentre Charles sgranava gli occhi. “Giusto. E io non ti ho mai visto in quelle condizioni, vero?”
“Erik…”
Cadde di nuovo il silenzio, finché Erik non chiese, con una voce un poco strana:
“Charles, tu pensi… Tu pensi che io sia come una donna?” 
Charles si girò di scatto verso di lui, appena in tempo per vedere che Erik stava di nuovo per ridergli in faccia. 
“Non…” cominciò alzando l’indice e sentendo la pelle del viso tendersi e accalorarsi fin troppo intensamente. “Non…”
Erik gli lanciò uno sguardo obliquo, cercando di congelare il suo stesso sorriso. “Te lo sto solo chiedendo. Non è… Non è un'accusa. Voglio solo capire se è…”
“E’ una sciocchezza, ecco, perché non è così…” ribattè Charles alla svelta fulminandolo con lo sguardo, cercando di dissimulare con l‘ironia il suo disagio. “Ti assicuro che posso capire benissimo la differenza tra te e una… E una donna.”
Erik lo scrutò, le palpebre un poco abbassate sugli occhi scintillanti e un mezzo sorriso sulle labbra.
“Te lo domando perché… Charles, cerca di comprendere, il ballare e qualsiasi cosa tu possa magari progettare…” gli disse, dando un cenno al giradischi. “Forse non fa’ per noi. Tutto qui.”
“Non è mai stato niente del genere” sbottò Charles, preso alla sprovvista. “Non mi sono mai posto questo problema.”
“Seriamente?”
“Davvero. E nel caso tu abbia dei dubbi…” Charles voltò la faccia verso di lui, pregando che il rossore se ne fosse del tutto andato, “Sappi che io non sono così” A me piacciono davvero le ragazze.
Un bagliore interdetto attraversò per un momento gli occhi di Erik, prima di venire sostituito da un‘espressione imperscrutabile.
Charles lo fissò ancora un poco, prima di allontanare gli occhi da lui e seguire la traiettoria di una falena malandata, che si affannava a sbattere contro la griglia di ferro del riflettore, intestardita a battere sempre nello stesso angolo.
Solo che adesso preferisco te.
Charles sorrise e probabilmente Erik doveva aver fatto lo stesso, sentendolo nella sua mente, ma ne ebbe solo la conferma quando sentì la sua mano posarsi a lato del suo viso, prima di avvicinarsi per baciarlo.
Di tutti i modi in cui Erik lo baciava, quello con cui Erik lo baciava adesso era forse quello che Charles preferiva. 
Non era aggressivo, né troppo gentile od indulgente; era come qualcosa di abitudinario, qualcosa che era diventato ormai così normale accettare, che Charles si domandava perché ogni volta dovesse ritrovarsi sorpreso, con il respiro spezzato e la voglia di averne ancora, come se in quel modo potesse appropriarsi di Erik, tenerlo sempre e solo vicino a sé, quasi dovesse impossessarsi di un pezzo di lui, piano piano,
come un collezionista paziente.
Da qualche parte, nell’universo della scienza, Charles era perfettamente a conoscenza che un sistema di leggi e sistemi ormonali poteva benissimo spiegare ogni sua minima reazione, anche il  semplice fatto che non poteva fare a meno di accarezzare Erik, cercando di spingerlo nella parte un po’ più buia della terrazza, facendogli una leggera pressione sui fianchi con le mani e arretrando un poco nell’ombra.
Ma quei sistemi erano tentativi di spiegazione astratti e sterili, rispetto a loro, rispetto a tutto ciò che Charles sentiva.
“Charles” Erik allontano appena la testa, guardandolo di sottecchi. “Entriamo in casa. Qui siamo…”
“No.” Scosse il capo, sfiorandosi distrattamente la tempia. “Stanno dormendo tutti.”
“Charles…” cominciò come se volesse rimproverarlo, ma Charles fu più svelto e premette di nuovo la bocca sulla sua, socchiudendo le labbra finché Erik non si fece di nuovo convincere. Non che ci volesse molto, notò Charles con soddisfazione. Forse era vero, ed Erik aveva ragione. Forse tra loro bastava solo quello, forse l’amore non c’entrava e la notte passata, Charles si era sbagliato.
Forse Erik era solo una cosa nuova che lui adesso voleva disperatamente come sua, perché non aveva avuto mai niente di più vicino…
Niente di più vicino a sé stesso.
“Vuoi ancora andare in casa?” mormorò Charles, cercando di celare l’affanno, tenendo la fronte premuta alla sua, sentendo le mani di Erik che dal stringergli le spalle, erano passate a cingergli saldamente i polsi.
“Fammi sentire a cosa pensi” chiese Erik con un mezzo sorriso, schiacciandolo con il bacino contro la balaustra di pietra. Charles deglutì, mordendosi il labbro, prima di tornare a guardare con un’espressione che sperava il più sincera possibile. “Prova ad indovinarlo.”
Erik scosse un poco il capo, senza perdere il sorriso. “Voglio sentire quello che pensi davvero.”
“Ma Erik…”
Erik lo strattonò via dalla balaustra, di modo che si ritrovarono a fare un mezzo giro su sé stessi. Charles si sentì scivolare a terra, cadendo goffamente sul lastricato. Si sarebbe fatto quasi male se Erik non l’avesse un poco trattenuto, prima che anche lui s’inginocchiasse sul lastricato, tenendolo giù.
“Vuoi picchiarmi?” sbottò Charles con una smorfia divertita, non appena il peso di Erik gli fu quasi del tutto addosso, mal distribuito sulle sue gambe. Erik si piegò su di lui, ridendo piano, schiacciandogli le braccia a terra.
“Abbassa la voce…”
“Hai fatto tutto da solo” sibilò Charles, senza riuscire a trattenere un altro sorriso e una risata gorgogliante. “Dovrò buttare anche questi vestiti, Erik…”
Erik si sistemò un po’ meglio e Charles provò a sollevarsi, divincolandosi dalla sua stretta, ma Erik lo inchiodò di nuovo a terra, cercando di trattenersi dal ridere, almeno finché un cigolio sospetto non attraversò l‘aria. 
“Abbassa la voce!” bisbigliò Charles, sgranando un poco gli occhi. Si girarono di scatto verso la porta metallica. 
A quanto pare doveva esserci della corrente d‘aria, perché la porta sbatté ancora, anche se più  piano, facendo tintinnare il chiavistello ritratto.
Charles alzò un poco la testa, ma Erik stava ancora osservando la porta, incupito.
“Ehi” Charles gli stinse il braccio, sorridendogli gentilmente. “Non è niente. Torniamo in casa, se… Se preferisci…”
Erik lo guardò un attimo e si alzò, togliendosi da lui, ma non si mise in piedi. Anzi, non fece altro che sdraiarsi accanto a Charles che sospirando, si rannicchiò un poco per terra, a guardare con lui il cielo nero.
“Vedi qualche stella?” domandò Charles incuriosito, dandogli una leggera pacca sul braccio, cercando di rompere il silenzio. Lo sentì sospirare, ma solo dopo un po’ la mano di Erik cercò quella di Charles, che accettò di buon grado la stretta, stupendosi nel sentire quanto le loro mani fossero diventate fredde.
“Credevo che non sarei mai più riuscito a stare bene” mormorò Erik dopo qualche altro attimo silenzioso, accarezzando lentamente, con la punta delle dita, le nocche della mano di Charles.
“Se potessi…” gli rispose dopo un momento, “Se avessi potuto scegliere, sarei venuto prima da te.”
Erik sorrise, appoggiando meglio il capo sulla dura e fredda superficie di pietra. “Non mi conoscevi neanche, Charles…”
“Sto cominciando a credere che ti avrei trovato comunque” replicò Charles sfiorandosi la tempia, anche se Erik, sdraiato dalla parte opposta, non poteva vederlo.
“Saresti venuto a salvarmi, Charles?” chiese Erik ridendo e allora, Charles si ritrovò solo a constatare che il suo cuore fu attraversato da una fitta, e all’improvviso la gola gli serrò, stretta, tanto che forse non sarebbe più riuscito a deglutire, ma non come se dovesse piangere.
Solo come se non avesse la risposta, come se non potesse parlare, anche se la conosceva. Era un sì, un maledetto sì… 
Perché Charles, poteva anche girarci intorno ed illudersi che quella fosse solo un‘altra delle sue novità, un‘altra cosa che poteva desiderare, ma era davvero innamorato di Erik. 
Era una considerazione così chiara che avrebbe potuto abbagliarlo.
Temendo di non riuscire a trattenersi, preferì non dire nulla. Lo pensò, si limitò a pensarlo fra sé e sé perchè non voleva condividere i suoi pensieri con lui. Non voleva che succedesse così.
“Credi che ci abbiano sentito?” lo sentì domandargli dopo un po‘, voltando un poco il viso in direzione della porta.
“Dormivano, a quanto ne so…” Charles scosse la testa, levando gli occhi divertiti al cielo. “E se non ci hanno sentito ieri…”
“Sai quanto sarebbe imbarazzante, vero?” chiese Erik pacatamente.
“Per me o per te?” replicò Charles divertito, cercando di allontanare la sua preoccupazione.
“Charles…”
“Chiedevo…” risose Charles in un sospiro. “ E comunque posso sempre cancellarglielo dalla mente.” 
“Lo faresti?” chiese Erik cauto, aggrottando appena la fronte.
Charles pensò a cosa rispondere, ma non se la sentiva di dire menzogne ad Erik.
“Se fossi costretto, sì.” 
Erik non disse nulla. Charles non pensava che Erik si sarebbe messo a giudicarlo, non sull’uso del suo potere, ma quel silenzio era strano lo stesso, da parte sua.
Respirò profondamente l’aria della notte. Era fresca e piacevole sulla pelle, eppure Charles non riusciva a trarne davvero piacere. Una sensazione di freddo, un freddo viscerale che avvertiva solo lui, s’era impossessato delle sue membra.
Come se si sentisse schiacciato ed oppresso, da qualcosa più grande di lui.
“Quando troveremo Shaw, cosa intendi fare?” aggiunse ad un tratto, mentre il silenzio cadeva di nuovo tra di loro.
Charles sentì la stretta di Erik allentarsi e dovette cercare di reprimere sia l’istinto di alzare il capo per guardarlo in faccia, sia quello di entrargli nella mente, per capire come aveva reagito a quella domanda che cercava di porgli da fin troppo tempo.
“Perché vuoi parlarne adesso?” gli disse Erik, con voce fin troppo bassa.
“Perché altrimenti non me ne parleresti mai” replicò Charles con semplicità.
“Questo non è vero. E’ solo che non mi sembra il momento…” disse Erik laconico. “Comunque, non lo so ancora.”
“Non lo sai o non vuoi dirmelo?”
“Charles, cosa vorresti che facessi?” Erik alzò un poco il capo, girandosi verso di lui, in modo da guardarlo.
Charles sorrise appena, inclinando il capo fino ad appoggiarsi alla spalla e rinsaldando la stretta di mano. Le stelle notò, erano del tutto scomparse e il cielo sembrava solo infinitamente nero e vuoto, con qualche cresta di nuvola irregolare, poco più chiara della notte.
“Non voglio essere io a dirti quello che è meglio fare. Vorrei solo che tu lo capisca da solo.”
“Hai mai notato quante volte parli di volere, Charles?”
Charles sorrise, alzando gli occhi al cielo. “Solo quando si parla di te.”
 
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Charles spalancò gli occhi e venne quasi accecato dal verde smagliante.
Vincendone il bagliore, contemplò quel verde marino, che ricordava sia il colore di un camice, sia quello di piante acquatiche.
Ma era troppo omogeneo e lucido per essere naturale.
Non era stata la superficie verde della piscina a catturarlo. Solo i suoi stessi pensieri.
Charles scosse la testa, cercando di provare a non rimuginare ancora su un’altra delle varie sere che ultimamente -sempre- aveva trascorso con Erik. 
Si chiese, tuttavia, perché fosse scivolato proprio nel ricordo della sera della terrazza. 
Era stato…. cinque, sei sere prima, non lo ricordava bene. Era successo proprio dopo la prima sera che Erik era venuto in camera sua, e ancora non riusciva a ricordare perché dopo tutte le rassicurazioni di Erik, sul fatto che anche se Charles si fosse limitato a stare zitto e seduto davanti a lui, Erik l’avrebbe trovato comunque piacevole -adorabile, era il termine che aveva usato-, Charles si era impegnato a inventare qualche altra solenne sciocchezza, astenendosi, fortunatamente, dal chiedere in prestito altre armi a Moira o mettersi volontariamente in situazioni potenzialmente pericolose.
Il trampolino, ormai rotto, era ancora lì, reso monumento alle sue strane inclinazioni e idee di divertimento.
Charles era stato così avventato. Alla meno peggio, avrebbe rischiato di rompersi l’osso del collo, se non addirittura di spararsi addosso.
E volontariamente, oltretutto.
Proprio lui, Charles, che odiava anche la minima influenza, il minimo dolore solo perché poteva debilitarlo, si era messo in testa di rischiare la vita per una dimostrazione.
Forse era per quello che aveva ripiegato su una cosa innocua come il ballo. Solo per divertire Erik, ma Charles era così preso dal considerare divertente quell’idea, che non aveva calcolato che forse Erik non l’avrebbe affatto trovata così. Anzi, forse credeva addirittura che Charles lo considerasse alla stregua di una …fidanzata?
Il pensiero lo fece rabbrividire, ma non certo per dispiacere. Erik aveva ragione, forse in qualcosa Charles era davvero perverso, ma era stato… Non avevano ballato, grazie a dio no, ma anche solo rimanere a guardare per un po’ il cielo, finchè Erik non si era alzato e tenendone stretta la mano, aveva lasciato che lo guidasse di nuovo nella sua stanza… L’aveva reso contento.
Charles si domandava se sarebbe cambiato qualcosa, se gli avesse detto quello che l’aveva fatto allontanare dalla cucina poche ore prima, se gliel’avesse detto una di quelle sere passate. 
Se gliel’avesse detto su alla terrazza o quando, poco dopo essere stato con lui, rimanevano entrambi un poco ansanti a parlare, o anche solo abbracciati, sfiorandosi ogni tanto, aspettando il momento in cui si sarebbero davvero addormentati.
C’erano cose che non poteva dire ad Erik, cose che rimanevano e dovevano rimanere, su piani separati. 
Erik era come una parte di lui che doveva rimanere nascosta ed era così tanto importante, così infinitamente importante, che Charles desiderava solo tenerlo fuori da tutto.
Ogni variabile rappresentava un pericolo. Shaw, Cuba, la vendetta, lui stesso… Charles non poteva controllarlo e questo era ingiusto.
Non voleva controllarlo davvero, ma era una tentazione troppo forte, una necessità… Era innamorato di lui, e questo bastava a giustificare tutto, a mettere tutto in una luce positiva, possessiva.
Sistemò il plico di fogli davanti a sé, lanciando un’occhiata storta ai grafici e ai bilanci, poi abbandonò il tutto sul ripiano smaltato del tavolino, allungandosi sulla sedia e recuperando la sua Seltz&Lime.
Come avrebbe fatto ad evitare Erik, evitarlo fino a…
Non poteva evitarlo, avrebbe dovuto vederlo. E soprattutto, voleva vederlo, anche se non avrebbe mai saputo come comportarsi, adesso.
C’era ancora una bruciante vergogna, mista a piacere nel ripensare alla scena di quel mattino.
Erik era stato gentile e Charles, Charles si era lasciato trasportare. 
Si chiese perché avesse trovato attraente, l’idea di farlo con Erik in cucina, quando tutti avrebbero potuto vederli. La sola voglia di stare lì, davanti a lui, a tracciare con le dita il contorno dei morsi che gli aveva fatto, a toccarlo e a farsi toccare, concentrandosi lo sul fatto che non avrebbe mai voluto smettere di baciarlo.
Era stato qualcosa che in quel momento l’aveva del tutto destabilizzato, alterando la sua capacità di giudizio. 
Come se l’averlo ogni sera non fosse abbastanza, come se si fosse fatto … non c’era altra parola, trascinare. 
L’intera idea era sbagliata, l’intera maledetta successione di eventi, lo era. Lui aveva sbagliato, perché se avesse mantenuto il controllo, non gliel’avrebbe detto. Non gli sarebbe nemmeno sembrato poi così importante …
Si passò una mano sul viso, sentendolo arrossato. Si vergognava, ma non poteva fare a meno di pensarci, non poteva fare a meno di chiedersi se sarebbe successo di nuovo. Non riusciva a non rimpiangerlo veramente.
Avrebbe dovuto tenere per sé quello che pensava davvero su cosa lo legava ad Erik, ma non l’aveva fatto ed ora, era solo vittima dell’umiliazione e della pietà verso sè stesso. Ed era costretto ad arrabbiarsi, ad essere arrabbiato con Erik, perché non aveva la minima idea del perché si fosse comportato così, del perché se ne fosse andato.
Poteva guardargli nella mente, certo, ma Charles non se la sentiva di risolvere la questione in quel modo. Era troppo importante, doveva risolverla con lui, anche se la sua unica tentazione adesso, era cercare un modo per evitarlo.
Lanciò uno sguardo obliquo al bicchiere. Non faceva tanto caldo. Avrebbe potuto prendere qualcosa di più, non aveva affatto bisogno di un qualcosa di così insipido e soprattutto, analcolico.
Il sapore amaro in bocca lo disgustava e con un sospiro contrito, non poté che alzarsi dalla sedia, avvicinandosi a passi lenti al bordo della vasca. Con uno scatto, mosse il braccio e una liquida striscia di seltz si disegnò nell’aria, prima di cadere e dissolversi nell’acqua piscina, che si rifletteva negli occhi spenti di Charles. 
Era ancora arrabbiato e non si stupì quando, con un gesto meccanico, fece finire anche il bicchiere nella vasca, lanciandolo verso il centro, lo sguardo fisso. E allora, avvertì la presenza di qualcuno che si era avvicinato. 
Era qualcuno a cui non credeva di dover dare nessuna spiegazione per quel gesto, perciò, con un altro sospiro e gli occhi guardinghi, incrociò le braccia, aspettando che Erik si avvicinasse.
L’avrebbe mandato via, già lo sapeva. Era troppo a disagio, perché potesse affrontarlo.
 
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“Và via” gli disse Charles a voce bassa, continuando a guardare davanti a sé. 
“Charles…”
“Per favore.” 
Erik sentì il tono quasi addolcirsi e per un attimo pensò che forse era tutto passato, che Charles avrebbe capito, che gli avrebbe permesso di spiegarsi. Che avrebbe messo da parte la sua reazione di quella mattina, giungendo a capire che entrambi avevano sbagliato. 
Non era così, quando lo vide allontanarsi dal bordo della vasca, dandogli le spalle e cominciando a raccogliere i fogli sul tavolino, più velocemente che poteva, affastellandoli con malagrazia.
“Per favore, vattene via” ripeté in tono smorzato. “Per favore, torna …”
Erik si era accorto di non poter sopportare quella cantilena, così si era avvicinato e ignorando le alte finestre della villa in lontananza, l‘aveva afferrato per le spalle, cercando di tirarlo verso di sé.
“Smettila” gli disse quasi all’orecchio, con la voce che gli usciva roca dal fondo della gola. Era quasi certo di sentire il cuore di Charles battere con un ritmo più accelerato, ma era così crudele non riuscire a guardarlo in viso e non capire cosa volesse fare. 
Finché non lo senti divincolarsi ed Erik dovette lasciarlo andare. Alcuni fogli gli erano sfuggiti dalle mani, ma Charles non si chinò a raccoglierli anzi, si girò verso di lui, pronto ad affrontarlo, la fronte corrugata.
“Non voglio dover sentirmi in contrasto con te, Erik. Non voglio litigare per una sciocchezza. Se…” Charles abbassò un momento il capo, inspirando appena e tornando ancora a guardarlo. “Domani sarà tutto finito. Dobbiamo affrontare Shaw come alleati e non è mia intenzione complicare la situazione. Pertanto, amico mio…”
“Mi dispiace per quello che è successo.”
“Non è successo niente” replicò Charles in tono fermo. “Va bene così.”
“Charles, tu non…” Erik si accorse di non sapere cosa dire. Come giustificarsi. 
Non poteva né raccontare la verità, né mentirgli. In entrambi i casi avrebbe fatto qualcosa di sbagliato. 
In entrambi i casi, avrebbe fatto un torto a qualcuno. Perché Charles si era instupidito tanto da dirgli una cosa del genere?
“Tu sei qui solo perché è ciò che ti conviene. Nient‘altro” disse Charles con semplicità, lanciando un’occhiata di sbieco alla piscina. Niente riflessi del sole oggi, sull’acqua; solo un verde smorto, il connubio delle piastrelle e del cielo plumbeo.
“Sono stato così ingenuo da fingere di averlo dimenticato, da non pensarci…” proseguì Charles, chinandosi a raccogliere due fogli ai suoi piedi. Sembrava sorridergli quando tornò a guardarlo, soffocando una risata, in cui mostrò appena i denti candidi. “Credevo davvero che fosse vero.”
Erik sapeva che la teatrale scelta del passato non era casuale. Avrebbe apprezzato di più che Charles d’introducesse nella sua mente, cercando la verità che lui non poteva rivelare. Voleva dirgli che era vero. 
Ogni singolo gesto, ogni singola parola. Ogni singolo istante che aveva passato con lui, Erik lo sentiva, era un singolo istante per cui era valsa la pena mettere da parte la rabbia e il dolore. Dimenticare la vendetta, l’abbandono e tutte le complicazioni che la sua solitaria esistenza comportavano. Charles riusciva a farle sparire del tutto e non perché fosse perfetto o infinitamente speciale, ma proprio perché aveva dei difetti, perché era quasi umano ed eppure non lo era. Perché era Charles. 
Non sembrava essere niente all’inizio, ma inspiegabilmente, per Erik era diventato tutto. 
Lui stesso, era stato così cieco da non pensare che anche per Charles fosse così, solo perché sarebbe stato troppo bello da concepire. 
Non aveva capito quanto lui stesso era importante per Charles, perché era troppo preso a pensare a quanto Charles, fosse importante per lui.
Era stato tutto vero. Non ammetterlo, non rendersi conto di quello che era stato e che c’era ancora, perché Erik si rifiutava di accettare che dagli occhi di Charles fosse sparito quello scintillio sincero, era insano.
Ma non riuscì a contraddirlo. Ribattere, avrebbe significato rinunciare a Shaw, cedere all’idea di vendicarsi e mancare alla promessa che aveva fatto a sé stesso. Avrebbe distrutto lo scopo che lo portava ad essere lì, di fronte a Charles. Lo avrebbe reso impotente, obbligato ad una scelta che per quanto piacevole, non poteva fare perché avrebbe precluso qualcosa che avrebbe voluto comunque. 
Avrebbe voluto accettare quello che Charles gli aveva detto quel mattino, senza riserve, ma non ci riusciva, non del tutto.
Avrebbe significato arrendersi e per tanto, l
’amore di Charles poteva apparirgli reale solo nella luce di essere un ricatto. 
Qualunque cosa fosse passata per la testa di Charles quella mattina, non era amore. Raven forse aveva davvero ragione.
Era solo mero egoismo e aveva avuto l’arroganza di pensare che per lui, Erik, sarebbe stato facile da accettare.
Che ne sarebbe stato solo… felice, senza complicazioni.
Guardando Charles davanti a lui, ripensò a tutte le volte in cui aveva ribadito che sarebbe stato meglio con Moira. A quando aveva provato ad allontanarlo, vedendolo così confuso e incerto.
Non erano cose che avesse mai voluto davvero. Aveva invece ottenuto tutto l’opposto e non se ne sarebbe mai pentito, ma non poteva accettare che Charles desse un prezzo e stabilisse un legame preciso fra di loro. 
Non così, non ora che era così vicino a Shaw.
“Charles…”
“Charles! Charles!” Charles sgranò gli occhi, flettendo le dita. “Non sai dire altro?” gli domandò aspramente, prima di mordersi il labbro e cercare di assumere un’espressione più composta, prima che i lineamenti gli si componessero in un’aria profondamente colpevole.
“Non sono un ragazzino. Non ho bisogno…”
“Non è questo che penso di te” lo corresse bruscamente Erik. “Tu sei come me.”
Charles appoggiò le carte sul tavolino, incrociando le braccia. “Non è così.”
“Ti sto solo chiedendo di capire.”
“Allora dimmelo in modo chiaro, perché io non sono in grado di comprenderlo.”
“Certo che puoi.” Erik fece un cenno verso la sua tempia, lanciandogli uno sguardo allusivo. Charles scosse la testa in un cenno di diniego.
“Non è così che intendo risolvere questo problema.”
“Da quando è un problema?”
“Lo è sempre stato, Erik. Non è mai stato semplice, ma ho solo creduto che potesse funzionare.”
“Charles, il tuo funzionare vuol dire chiudere tutto fuori Westchester, tutto fuori…”
“Puoi biasimarmi?” replicò di slancio, aggiungendo: “E comunque non è vero.”
“Charles, essere qui… stare qui… Non è mai stato niente di definitivo, non adesso, per quanto tu possa fare progetti nella tua testa. E tu lo sapevi” proseguì Erik con calma.
Charles annuì piano, questa volta senza contraddirlo. “Lo so. Me ne rendo conto, non passerei tutto quel tempo a cercare di capire cosa dovremmo fare con Moira se non…”
“Perché ho l’impressione che tu lo viva solo come un passatempo? E’ quella la cosa più importante, Charles. E’ come se tu te ne sia quasi dimenticato, come se la cosa principale fosse diventata…” Erik non finì la frase. Non aveva voglia di specificare tutto, Charles quello poteva comprenderlo, perché era la stessa cosa che riusciva a leggere dietro ai suoi occhi, improvvisamente opachi.
“Credi che sia incapace di affrontare il resto?”
Erik scosse la testa. “Non sto dicendo questo.”
“Però pensi che io non sia in grado di distinguere quello che è giusto fare da… Da… Maledizione” Charles strinse le mani a pugno. “Non so neanche perché ne stiamo parlando. E’ stata una nostra scelta, Erik.”
“Di cosa stai parlando adesso?”
Charles arrossì, suo malgrado. “Del fermare Shaw. Dell‘essere qui. Non ho intenzione di venire criticato da te per questo.”
“Non ti sto criticando. Ti ho sempre appoggiato e qualunque cosa deciderai di fare…”
“Mi appoggerai anche se decidessi di non intervenire? Io non credo.”
Erik lo scrutò severamente, un poco adirato. Perché Charles doveva essere così cieco? “Ci sono cose che possono essere risolte solo affrontandole, basta con il cercare compromessi.”
“Se non volessi aiutare la CIA, sarebbe una scelta definitiva. Questa scelta andrebbe bene a te?” gli domandò Charles sardonico.
“Charles” sbottò Erik, irritato. “Questo è fuori questione. Non dirmi che il tuo senso del dovere si è compromesso a tal punto, perché allora sei più sprovveduto di quanto pensassi.”
“Era solo una possibilità” sibilò Charles, fissandosi le mani. “Non ho più intenzione di veder morire nessuno, di non vedere ferito nessuno, anche se sarà uno scontro. E non ho intenzione di tirarmi indietro, l‘ho promesso a Moira.”
Erik cercò di ignorare il fatto che Charles sembrava tirare fuori un po‘ troppo spesso il nome dell‘agente MacTaggert.
“Questo è quello che mi aspetto da te.” 
“Certo” Charles fece ancora quel sorriso strano, quello in cui sembrava quasi che si mordesse il labbro, mentre distoglieva lo sguardo. Quel sorriso che ad Erik piaceva, ma che ora riusciva a vedere solo come qualcosa di falso e sarcastico. Nonostante Charles non possedesse né l’una né l’altra inclinazione.
“Ma se lo facessi, tu cosa faresti?” disse, approfittando del silenzio di Erik. “Tu ti aspetti qualcosa da me perché ti porterà a Shaw, Erik.”
“Questo è vero” concordò Erik con semplicità. “Ma perché, appena dobbiamo affrontare qualcosa che non sia solo quello che riguarda solo te o me, dobbiamo…” Erik scosse la testa, guardandolo interrogativo. “Perché è così difficile accettare che c’è dell’altro? Oltre a te e me, Charles.”
“Perché per te c’è solo Shaw, Erik” disse Charles, lasciandosi per un momento andare all’esasperazione. “Ma c’è qualcosa di più di una singola vendetta. Non siamo più solo noi, siamo noi e il mondo e ti assicuro che non sto ignorando questo. Non ho scordato che c’è qualcosa da portare avanti.”
“Non saremmo qui altrimenti e non si è mai trattato di te o me, non all’inizio” aggiunse. “E‘ stata solo una conseguenza.”
“Le conseguenze sono inevitabili, Charles” affermò Erik con un mezzo sorriso, che Charles sembrò quasi ricambiare quando disse:
“Allora chiamiamolo incidente” gli sorrise, ma gli occhi erano vacui e dolenti.  
“C’è qualcosa di più grande che non riguarda noi, Erik. Cercare di trovare un equilibrio con gli altri è un obbiettivo ben più importante di Shaw e di quello che avverrà domani. Più grande di quello che vuoi tu e di quello che voglio io, e se sbagliassimo qualcosa… Ci ritroveremmo tutti contro, forse. Non voglio ignorare questa possibilità. Ma non chiamarmi ingenuo, se pensi che io non sia in grado di capirlo o che io, sia così egoista da dimenticare tutto il resto, amico mio.”
Erik annuì lentamente; si sentiva quasi convinto. Charles in fondo era così. 
Lui voleva andare d’accordo, mettere d’accordo. L’idea di un conflitto poteva destabilizzarlo, ma non fermarlo. Erik era pronto a riconoscere di avere sbagliato a dargli dell‘egoista, su quell‘argomento.
Charles non faceva esclusive, non faceva scelte. Si adattava, sistemava le cose, cercava il compromesso, tutto per risolvere e mettere a posto, e nel fare questo, non si arrendeva. Tuttavia, Erik provò ancora a domandarsi che tipo di compromesso implicasse il fatto che Charles fosse innamorato di lui.
Ma a parte considerare che quell’ammissione non fosse altro che un ricatto, non riuscì a trovare altro.
Rimasero per un po’ in silenzio, finché Erik arrendendosi, provò a chiedere se ora era tutto a posto. 
Se tutto era risolto, se mai c’era qualcosa da risolvere.
“Non lo so” rispose Charles, avvicinandosi al bordo della piscina, scrutando la superficie dell’acqua. 
Erik rivide sé stesso lanciarsi in acqua con lui, ricordando la sensazione di stringerlo e il modo in cui si era messo a ridere quando erano riemersi dall’acqua. E ora era fermo lì, e non lo guardava.
“Mi stai leggendo nella testa Charles?” gli domandò all’improvviso, incurvando appena le sopracciglia. Non sapeva perché gliel’avesse chiesto, ma forse non era stata una mossa sbagliata, perché quando Charles si voltò, sgranò gli occhi, le mani tanto serrate che le nocche erano sbiancate.
“Non…”
“Lo stavi facendo?” continuò Erik. Non era arrabbiato, ma si rendeva conto che la rabbia sarebbe sopraggiunta molto presto, se Charles non si fosse affrettato a spiegarsi.
I suoi occhi si fecero stranamente risoluti quando rispose: “Non ti ho mai promesso che non l’avrei fatto.”
“Non giocare con me, Charles” ribatté Erik, guardandolo allontanarsi dal bordo e mettersi di nuovo davanti a lui, ma ancora distante.
“Te lo chiedo per favore.”
Charles sembrò incassare il colpo, rimanendo in silenzio, sapendo forse quello che Erik aveva intenzione di dire adesso. Perché non c’era un vero e valido motivo da parte sua per avercela con Erik, non sul piano della missione a Cuba. Era un motivo che era solo nella testa di Charles e che chissà perché, non aveva la forza di trattenere dentro di sé. Alzò gli occhi su Erik, cercando di costruirsi una facciata indecifrabile, affrontando le sue parole.
“Ti comporti così solo perché non ti ho detto…” 
“Non voglio sentirlo. Non mi importa, è stato solo un errore” replicò Charles in fretta impedendogli di continuare, torcendosi  un poco le mani. Erik continuò a scrutarlo, inflessibile.
“Guardami e dimmi che non è vero.”
Charles distolse lo sguardo. Non era mai stato tanto in difficoltà in vita sua. Le increspature calme dell’acqua sembravano un rifugio tanto invitante. Vide che l’asse spezzata del trampolino e la marea di schegge di legno si erano arenate in uno degli angoli, galleggiando pigre e impregnate d’acqua, come mosche morte. Avrebbe dovuto far rimuovere quell’obbrobrio. Portare via tutto, rimettere tutto a posto e in ordine, come era all’inizio…
“Non volevo andarmene questa mattina. Ma non sapevo cosa risponderti. Non lo so nemmeno ora e puoi pensare che non ti abbia risposto perché Shaw è più importante” Erik fece una pausa, ma poiché Charles non rispondeva, proseguì:  “Puoi anche pensare questo, perché io non lo so, Charles. Non lo so.”
“Non voglio nessuna risposta” replicò Charles con calma. “Non importa. Ho sbagliato.”
Erik sospirò. Non sapeva davvero cosa dirgli. Non l’aveva saputo quella mattina, quando l’unica risposta possibile gli era sembrata quella di andarsene, e non lo sapeva adesso, mentre si sentiva invadere da un sentimento che, disgraziatamente, era fin troppo simile ad una vaga pietà,
per Charles e per sé stesso.
“Non volevo ferirti Charles. Sai che non lo vorrei mai.”
Charles lo guardò, raddrizzando le spalle. Erik banalmente si ritrovò a considerare quanto fossero azzurri quegli occhi e quanto era diverso il modo in cui lo guardavano adesso.
“Ma l’hai fatto, Erik. E forse non è poi così importante, perché non conta più… Dopo domani non conterà più.”
Era la sua prima ammissione sincera. O forse voleva solo esserlo, perché probabilmente stava solo cercando di appianare le cose, in vista dello scontro con Shaw. Ma nonostante quella fosse la strada giusta, ora Erik non se la sentiva di accettare quella correttezza, quella diplomazia. Perché si sarebbero rivoltate contro entrambi.
Ricordò lui e Charles pochi giorni prima, sul bordo di quella stessa piscina. A quello che gli aveva detto, al voler ribadire che non gli avrebbe mai permesso di farsi o subire del male, in qualsiasi forma, in qualsiasi modo. Era stato solo felice.
“Ci sono cose più importanti, Charles” disse Erik laconico. Si accorse di non provare niente nel dirlo; era come essere un automa, dire le cose nel tono più inflessibile, lasciar trasparire il meno possibile. 
Ma era crudele, così tanto crudele, dover fargli sempre del male e trovarlo sempre piacevole, a dispetto della sofferenza che questo provocava ad entrambi. Erik non poteva certo lasciarlo così… Non voleva, combattuto tra il chiedergli di perdonarlo e l'essere freddo.
“Tu sai come mi sento quando sei con me. L’hai visto, e lo sai. Io sto bene con te.”
Charles fece una breve risata, come se volesse apparire incredulo, arretrando un poco, anche se erano già lontani l‘uno dall‘altro.
 “Stare bene. Certamente.”
“Non posso mentirti inventando cose che non sono assolutamente vere. Non sarebbe onesto” proseguì Erik.
“Non è…” cominciò Charles, passandosi una mano sulla fronte. “L’ho detto ma non è vero. Lo penso ma non posso dirlo, Erik io non lo so, non riesco a pensare di poter essere così, non è giusto.”
Erik si chiese cosa intendesse dire, perché a quanto pareva nemmeno Charles aveva capito quello che lui stesso aveva detto. Forse era meglio chiudere in fretta quella conversazione, tentare di chiarire quello che sembrava affliggere Charles. 
“Charles non potrei mai darti di più. Non posso prometterti… ”
“Io non ti ho chiesto niente” disse Charles a voce bassa, andando a recuperare il plico di fogli, tenendoli sotto al braccio, raccogliendo quelli caduti e rimasti a terra. “Io non l’ho detto perché voglio qualcosa in cambio.”
Erik fece un passo verso Charles, flettendo il braccio, come se volesse tenderlo verso di lui, per farlo voltare e guardarlo in faccia. Perché non c’era nessuna ragione per essere in conflitto, non c’era nessun motivo per mettersi l’uno contro l’altro.
Ma erano troppo distanti, ed Erik non gli si avvicinò.
“Perché allora sembra che tu pretenda qualcosa da me? Che cosa vuoi davvero, Charles?”
“Fare finta che non sia successo.”
“Mi hai già detto queste parole, Charles. E non hanno affatto funzionato.”
Lo vide ancora scuotere il capo, guardandolo di sbieco. “Mi hai frainteso. Intendevo… parliamone dopo domani. Sempre se…” contrasse un poco la fronte, stringendo un poco più saldamente il plico di carte. Poi sollevò il viso su di lui e lo guardò: “Non ha senso rovinare l’ultimo giorno a Westchester parlando di questo.”
Sembrava sereno, come se la sua strana forma di nervosismo si fosse dissipata del tutto. 
Erik accennò un sorriso gentile.“Giusto.”
“Io torno a casa. Devo parlare ancora un attimo con Moira.” 
Lanciò un’ultima occhiata alla piscina ed Erik capì, anche senza seguirne lo sguardo, che la sua attenzione era rivolta al tratto di bordo dove si erano seduti mattine prima. 
Se con intenzione o per casualità, non lo sapeva.
Si guardarono ancora per un po’, finché Charles non cominciò ad arretrare, voltandosi. Non gli chiese nemmeno di accompagnarlo, tuttavia, quando ebbe fatto due passi, lo vide girarsi ancora verso di lui, sorridendogli amichevolmente.
“Dopo cena potremmo fare una partita a scacchi.”
“Come sempre” rispose Erik sedendosi al tavolino, senza nemmeno guardarlo avviarsi.
 
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Erik non poteva dirgli che lo amava. 
Non sarebbe stato del tutto onesto, anche se c’era una parte di lui che sapeva, sapeva che Charles era la risposta. Una parte di lui che avrebbe voluto restare a Westchester, così, per il resto del tempo a venire.
Quando era con Charles, ogni altra opzione veniva rimossa e niente, fuorché lui, aveva importanza. 
Ma ora che Shaw era più vicino e più pericoloso, Erik doveva fare quel che andava fatto. 
E quello era qualcosa che Charles non sarebbe stato in grado di concedergli. L’avrebbe considerato un punto di non ritorno.
Provare a considerare che l’amore di Charles non fosse niente più che un sentimento egoista, sembrava rendere tutto più semplice e lineare… Ma Erik non riusciva a convivere con l’idea, ben peggiore, che forse era vero.
Charles si era messo fra lui e Shaw, l’unico motivo per cui era sopravvissuto per quasi vent’anni.
L’unico scopo con cui aveva convissuto, andando avanti da solo.
Questo imponeva una scelta che Erik non voleva fare.
Avrebbe voluto stare con Charles, assecondare il suo desiderio di rimanere a Westchester con lui, risolvere e lottare per la situazione inevitabile che si sarebbe creata dopo Cuba, se mai sarebbero riusciti a tornare indietro vivi da laggiù…
Ma Erik, Erik doveva togliere di mezzo Shaw. Non c’era futuro per lui, se l’assassino di sua madre era vivo. 
Era colpa di Shaw, se ora lui era così, pieno solo di rabbia e odio, incapace di accettare qualcosa che non fosse bello e amabile, condannato a vivere con il terrore che potesse essergli tolto, condannato a convivere solo con un’ombra di minaccia.
Accettare Charles e tutto quello che comportava, avrebbe significato rinunciare all’idea di liberarsi di quel senso di oppressione ed infelicità. Accettare di dimenticare e mettere da parte l’odio per quello che gli avevano portato via una vita normale. Per questo, Erik doveva uccidere il suo creatore.
Ma così facendo, l’idea di riprovare a costruire tutto non appena Shaw fosse morto, si dissolveva nel nulla, acquistando contorni sempre più sfocati, una concretezza sempre più sfuggente e indeterminabile.
Il futuro, rappresentato da Charles era destinato a sparire. 
Non era mai esistito, se non nello spazio di pochi giorni e ora, Erik avrebbe solo dovuto essere onesto con lui ed andare avanti, con la minima speranza che forse, una volta che tutto fosse finito, Charles sarebbe riuscito a comprenderlo.
Allora, forse, lo avrebbe amato.
 
 
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“Allora è davvero per domani.”
Erik si appoggiò un momento allo stipite della porta, incrociando le braccia. Il suo sguardo attraversò la stanza, soffermandosi al centro, dove era seduto Charles, a testa bassa. Lui alzò gli occhi poi, con un cenno e dopo aver disposto i pezzi sulla scacchiera, gli fece cenno di entrare.
“E’ così” disse, quando lo vide sedersi di fronte a lui. “Vuoi bere qualcosa?”
Erik annuì lentamente, osservandolo allontanarsi verso una consolle alla parete carica di bottiglie e servizi da cocktail, afferrando alla svelta i bicchieri.
“Mi dispiace per oggi.”
La schiena di Charles s’irrigidì. Erik sentì la bottiglia di scotch venire posata sul ripiano forse un po’ troppo bruscamente, prima che lo vedesse ricominciare ad armeggiare col ghiaccio in uno dei secchielli.
“Non parliamone più” Charles si girò, portando i bicchieri sul tavolino, posandoli lentamente, prima di rialzarsi con un’espressione corrucciata. “Non ti ho nemmeno chiesto cosa volevi” disse piano.
“Che cos’è?” 
“Chandon” disse Charles prendendo posto di fronte a lui, posando lentamente le mani sui braccioli della poltrona bassa. “Möet e Chandon.”
Ringraziandolo con un sorriso un po' debole, Erik afferrò il bicchiere, dopo un averlo levato in un lieve brindisi che Charles non sembrò interessato a ricambiare. Si limitò a sorridergli con fin troppa cortesia e a far avanzare uno dei suoi pedoni.
Dopo un'ultima lunga occhiata verso di lui, Erik ne prese un breve e lento sorso.
“Non è veleno, come vedi” mormorò distrattamente Charles ma con un luccichio deciso negli occhi, aspettando la successiva mossa di Erik.
“Non mi ha nemmeno sfiorato la mente” replicò Erik tranquillo, muovendo uno dei suoi pezzi e congiungendo la punta delle dita. “Da te mi aspetterei qualcosa di più elaborato.”
Charles si morse il labbro, contraendo appena le sopracciglia sottili. “Non volevo finire a parlare di questo. Scusami.”
Erik levò un poco il capo, scrutandolo fin troppo intensamente. “Se non ti va’ di giocare…”
Charles si limitò a spostare un altro pedone, in direzione opposta alla mossa di Erik, che considerò il suo gesto una risposta sufficiente.
Erik cercò inutilmente di capire a cosa pensasse, ma il suo sguardo era fin troppo sfuggente per chiarirglielo, finché lui stesso non pensò:
Sei di nuovo nella mia testa, Charles?
Lo vide trasalire appena, stringendo i braccioli della poltrona, come se cercasse di trattenersi, finché non si decise ad incrociare il suo sguardo.
Sì.
Erik sorrise, vinto. Fece una mossa a caso sulla scacchiera, senza riflettere e prendendo in mano il suo bicchiere. Spero tu  abbia trovato quello che ti interessa.
Charles scosse la testa. Voglio solo… Voglio solo che tu capisca che quello che faremo domani… “… non è importante solo per te, Erik.”
“Hai usato di nuovo la parola ‘voglio’, Charles” mormorò Erik tranquillo, guardandolo spostare un altro pezzo.
Lo stava accerchiando. Per un po’ giocarono in silenzio, ma Erik non chiese più a Charles se fosse ancora nella sua mente.
“Non stavo cercando quello che credi” replicò infine Charles con altrettanta calma, dopo aver tolto di mezzo uno dei suoi alfieri. Erik diede ancora uno sguardo alla scacchiera, bevendo un altro sorso di Chandon.
“Perché Shaw è diventato tanto importante per te, Charles?” gli domandò, anche se ormai, la risposta era chiara. Era fin troppo stanco dei tentennamenti di Charles, del suo girare attorno alle cose; forse era davvero ora di parlare direttamente. Non aveva più voglia di trucchi o lunghi discorsi. 
Niente più cose come la discussione che avevano avuto ore prima, nel parco.
Charles sospirò prima di fare la sua mossa, allontanando la mano dalla fronte.
(*)“Cuba… Russia, America… Non fa’ differenza. Shaw ha dichiarato guerra all’umanità, a tutti noi” disse, accavallando le gambe e raddrizzando la schiena contro allo schienale.
Erik lo guardò. In quel momento, avvertì che la scacchiera, quella facciata di cortesia, quella stanza, tutto era inutile. Lui voleva solo essere onesto su quello che sarebbe successo, qualcosa che Charles non sembrava essere in grado di accettare, esattamente come la reazione di quella mattina.
Era il momento di andare avanti. Di mettere le cose a posto.
“Io non voglio fermare Shaw” disse Erik, guardandolo intensamente. “Voglio ucciderlo.”
Gli occhi di Charles s’incupirono, diventando quasi freddi. Erik avrebbe voluto sorridere di quell’espressione fin troppo seria e immota, ma non poteva farlo. Sentiva ancora la sua espressione severa su di lui, quando, dopo aver posato il bicchiere sul mobile a fianco, si chinò verso la scacchiera muovendo un altro pezzo per liberarsi dall’accerchiamento.
Charles l’avrebbe senz’altro considerato un tradimento, forse l’avrebbe odiato. Ma con sua sorpresa, Erik si rese conto che non gli importava più, perché se Charles non era in grado di accettare qualcosa di tanto lineare, tanto giusto, forse Raven aveva ragione e Charles era davvero solo un egoista. 
Per questo, non si sentì quasi per niente in colpa nel domandargli con calma:
“Tu sei in grado di permetterlo?” 
Tolse un altro pezzo al suo esercito, continuando a guardarlo anche quando si curvò sul tavolino, appoggiando i gomiti alle gambe e unendo le mani, gli occhi fissi sulla scacchiera. Sembrava quasi che avesse voluto soffocare un verso simile ad una risata, ma se perchè l’aveva sempre sospettato o solo per disprezzo, Erik non lo sapeva.
“Sapevi fin dall’inizio perché ero qua, Charles. Ma le cose sono cambiate” continuò Erik con decisione, ma mantenendo il solito tono pacato. “E’ iniziata come una missione segreta, ma domani l’umanità saprà che i mutanti esistono. Shaw, noi, non faranno differenza.”
Charles smise di fingere di stare studiando la sua mossa successiva ed alzò gli occhi su di lui.
“Avranno paura di noi e la paura si trasformerà in odio” proseguì Erik con decisione.
“No. Non se impediamo una guerra, se riusciamo a fermare Shaw rischiando la nostra vita per riuscirci” replicò Charles, la fronte aggrottata e le spalle curve, scuotendo appena il capo. Aveva distolto appena il suo sguardo, ma Erik finalmente vedeva della risolutezza nei suoi occhi.
“Loro lo farebbero per noi?” gli domandò ancora, con un sorriso storto.
Charles gli restituì uno sguardo impassibile. “Ciò che abbiamo deve renderci uomini migliori.” 
Erik spalancò un poco gli occhi, sorpreso. “Lo siamo già. Siamo lo stadio successivo dell’evoluzione umana, sei stato tu a dirlo ” gli spiegò irrequieto, ma Charles scosse la testa sillabando un deciso ‘no‘ e bevendo un altro sorso del suo scotch, abbassando gli occhi sulla scacchiera e rifiutandosi di guardare Erik. 
Perché Charles non capiva? Era così semplice, non c‘era affatto bisogno di giocare con l‘idealismo e le grandi ambizioni. Certo, non era in grado di capirlo davvero perché non l’aveva vissuto, ma avrebbe potuto immaginarlo.
Avrebbe potuto vederlo e l’aveva visto in lui, Erik era l’esempio perfetto. C'erano obbiettivi che richiedevano prezzi fin troppo alti, ma non erano sbagliati se portavano ad uno scopo.
Eppure Charles continuava a chiudere gli occhi di fronte a quella così lampante verità. Non lo guardava nemmeno più in faccia adesso, e questo innervosiva Erik ancora di più. “Sei così ingenuo da non credere che non lotteranno per la sopravvivenza della loro specie?” 
Charles non rispose, così che Erik esasperato da quell’atteggiamento, gli domandò sprezzante:
“O la tua è arroganza?”
Charles adesso lo guardò, punto sul vivo, la fronte appena contratta.
“Scusami?”
“Dopodomani si rivolteranno contro di noi,  ma tu non vuoi vederlo perché tu credi che siano tutti come Moira” gli spiegò con calma. Non voleva fare il nome dell’agente MacTaggert, ma quello doveva essere senz’altro uno dei motivi per cui Charles trovava gli esseri umani tanto… adorabili.
“E tu credi siano tutti come Shaw” replicò Charles impassibile, osservandolo. 
Erik rimase in silenzio, perché in parte era vero, ma a ragione. Tutti gli uomini erano potenziali Sebastian Shaw, se la situazione lo richiedeva, perché erano esseri inferiori che avrebbero solo provato paura e terrore di fronte a loro, a quello che erano lui e Charles.
E la paura rendeva gli uomini cattivi e abbietti, e lui, Erik, lo sapeva fin troppo bene. 
Charles si chinò ancora un poco verso di lui. Parlò in tono calmo e fermo, ma gli occhi erano decisi e ogni luccichio dubbioso od offeso che fosse, si era ormai dileguato dal suo sguardo.
“Ascoltami con molta attenzione amico mio” disse lentamente. “Uccidere Shaw non ti porterà la pace.”
Erik scosse la testa, accennando appena un sorriso sicuro. “La pace non è mai stata un’opzione.”
“Ma esistono le scelte, Erik” ribatté Charles a bassa voce, riappoggiandosi allo schienale, trattenendo il bicchiere tra le mani pallide. “Il fatto che tu non voglia farne, non implica che queste non esistano.”
“Dovrei scegliere tra Shaw e te?” mormorò in tono tranquillo, limitandosi a guardarlo arrossire violentemente, gli occhi più cupi che mai. “O fra l’uccidere e il non uccidere?”
“E’ una semplice distinzione tra giusto e sbagliato, Erik. Una semplice…” ribattè Charles, sbattendo un po’ troppo forte il suo bicchiere sul tavolino, facendo tremare gli scacchi della partita ormai dimenticata. “Per te non può esserci altra soluzione?”
“Credimi, vorrei tanto che ci fosse” disse Erik, distogliendo lo sguardo da lui. “Ma io voglio che Shaw muoia. E voglio essere io ad ucciderlo, perché è questo che voglio e che devo fare, Charles.”
Charles scosse di nuovo la testa, mormorando ‘no’ fin troppe volte, tanto che Erik, infastidito, si alzò di scatto e si protese verso di lui, posandogli una mano sulla spalla. Charles si divincolò ed alzò il viso, gli occhi carichi di disapprovazione.
“Non sono in grado di lavare via il sangue che c’è sulle tue mani, Erik” mormorò in tono fermo. “Né quello che ci sarà, se vorrai andare avanti con quest’idea insana.”
“Ma io non te l’ho chiesto” rispose Erik gentilmente, abbassandosi un poco verso di lui. “Charles…”
“No. No. Non deve andare così” disse in fretta, lo sguardo fisso sulla scacchiera e sul suo disordinato disegno di pezzi. “Non c’è solo la vendetta, non c’è solo…. Ci sono delle alternative, ci sono…”
“Non c’è niente del genere, Charles” commentò Erik in tono freddo e arretrando. Riprese il suo bicchiere, e dopo un lungo sorso disse:
“Se Shaw muore, finirà. E potremo riparlarne.”
Charles gli lanciò uno sguardo smarrito, le mani posate sulle ginocchia. “Riparlarne? Erik, davvero ti aspetti che io possa parlare con qualcuno che crede che solo togliendo di mezzo il problema, questo possa essere risolto? E‘ follia” disse, abbassando di nuovo lo sguardo. “Follia.”
Erik vuotò il bicchiere, riposandolo lentamente sul tavolino. Lo squadrò, incattivito dalle sue parole.
“Vorresti che Shaw si unisse alla tua squadra di mutanti, per caso? Credi che ti aiuterà a collaborare per una pacifica collaborazione con gli umani o che sarà un perfetto alleato, nel caso tu abbia torto e loro si rivoltino contro di te?”
“Io non ho torto” sbottò Charles. “Io consegnerei Shaw alla CIA e loro decideranno cosa ne sarà di lui. E’ un assassino e dovrebbe pagare per quello che ha fatto, lo sai meglio di me.”
Erik rise freddamente, socchiudendo appena le palpebre. “Mi chiedo se ci sia differenza tra me e Shaw, nella tua testa.”
“Scusami?” ripeté Charles in tono meno calmo. 
“Dovresti consegnare anche me alla CIA, secondo il tuo brillante ragionamento.”
Charles lo squadrò, inclinando un poco il capo e l‘espressione imperscrutabile. “Questo lo stai dicendo tu, Erik. Sai che non lo farei. Sai che non è questo che penso di te.”
“Però nella tua testa, chi uccide qualcuno è sempre sullo stesso livello. I moventi non contano nulla, per te... Correggimi se sbaglio” replicò Erik freddamente. Charles non rispose, limitandosi a bere l’ultimo sorso di scotch, come se non lo stesse più ascoltando.
“Io voglio uccidere Shaw. E la tua opinione su questo non conta” tagliò corto Erik, avvicinandosi alla consolle carica di bottiglie. Si versò altro champagne, prima di porgerne un bicchiere anche a Charles, che si limitò a restituirgli uno sguardo cupo.
Si risedette davanti a lui posando entrambi i calici, anche se la voglia di giocare era ormai scemata del tutto. Era un peccato, perché Charles avrebbe potuto vincere in appena tre mosse, ma ora era solo impegnato a guardarlo male.
“Non voglio che le cose vadano in questo modo” gli disse Erik dopo un po’, cercando di parlare in tono più calmo, sopportando la tensione di quello sguardo, dolorosamente accusatore. Voleva solo che capisse...
“Io vorrei davvero restare a Westchester, ma questo non è possibile, non con Shaw vivo, non alle tue condizioni.”
Il luccichio negli occhi di Charles s’indurì appena. Essere innamorato di te, non è una condizione.
“Quella è una sciocchezza, Charles” replicò Erik alla leggera, facendo un cenno di diniego. “Sei più intelligente di così…”
Le mani di Charles artigliarono i braccioli ma lui rimase in silenzio. Erik avrebbe voluto che reagisse, che replicasse, che gli facesse capire qualsiasi cosa… Ma Charles sembrava scivolare sempre di più nell’indifferenza.
“Perché non riesci ad accettare una cosa così semplice?” gli domandò in tono calmo. Voleva solo capire, anche se sospettava già il perché Charles trovasse così orribile l’idea della morte di Shaw. 
Ma Erik voleva solo sentirlo dire da lui, dalla sua bocca.
“Perché le persone non si comportano così, Erik” gli rispose, guardandolo in tralice.
Erik si allungò sulla sedia, nuovamente spazientito. “Noi non siamo persone, Charles. Noi…”
“Forse tu no, Erik, ma io ho una coscienza e so che è sbagliato” ribatté Charles aprendo le mani in un gesto esasperato, prima di mettersi a raccogliere gli scacchi. “E’ sbagliato credere che uccidere non porti con sé delle conseguenze.”
“Non era sbagliato, quando hai fatto uccidere Muñoz.”
Charles allargò solo un poco di più gli occhi, lasciando cadere malamente i pezzi che tratteneva tra le dita, che caddero rotolando sulla scacchiera e per terra. 
Erik non avrebbe mai voluto dire una cosa del genere, non l’avrebbe mai fatto. Soprattutto, perché non era una cosa vera. In circostanze normali, non si sarebbe mai permesso di ferire così Charles, soprattutto non dopo averlo già fatto quel mattino, dandogli le spalle. Ma nella foga negativa dell’intera giornata, non sembrava poi così brutto dargli la colpa anche di quello che era successo, non se serviva ad arrivare a Shaw.
Non se serviva a fargli capire.
Eppure, Erik non poté fare a meno di sentirsi in colpa, di sentirsi ingiusto. Immaginò che adesso Charles l’avrebbe meritatamente aggredito. Che gli avrebbe dato dell’assassino, o forse gli avrebbe dato ragione, dicendogli che l’unico motivo per cui si comportava così era perché era terrorizzato dall’idea di perderlo…
Erik avrebbe desiderato una qualsiasi di queste reazioni, ma non accadde assolutamente nulla. 
Charles non lo guardò nemmeno, quando si alzò dalla sedia, sistemandosi la piega dei pantaloni, ignorando i pezzi caduti.
“Credo che la conversazione sia conclusa” disse lentamente, prima di alzarsi. Erik scattò in piedi, posando il bicchiere e afferrandolo saldamente per il braccio. “Charles, sai che non era… Non era vero, l‘ho detto solo perché tu devi capire. Quello che voglio io è solo liberarmi di lui e andrà tutto bene, saremo...” ma le parole gli morirono freddamente in gola, soffocate dal suo sguardo amaro.
“Non posso accettare tutto quello che vuoi tu, Erik. Come tu non puoi accettare tutto quello che voglio io. Tutto qui” Charles lo fissò, con quei suoi occhi un poco cerchiati di rosso, forse sia per la stanchezza, che per la tensione. “La soluzione è così semplice, amico mio…”
Erik si avvicinò un poco di più a lui, lo sguardo immobile. Provava un sentimento strano, il doloroso bisogno di venire perdonato, di ricevere un’assoluzione che solo Charles poteva dargli.
Ebbe la fugace idea che forse era lui ad essere nel torto, che forse tutta quella situazione poteva essere risolta…
“Qual è la soluzione?” domandò Erik a bassa voce.
Con un ultimo sorriso, troppo triste e compassionevole, Charles si sottrasse alla sua stretta e si allontanò verso la porta.
Erik avrebbe voluto seguirlo, dirgli di fermarsi… Ma si rese conto di non poterlo fare, finché Charles non fu del tutto sparito nell’oscurità del corridoio, lasciandolo solo.
 
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“Togliti quel sorriso compiaciuto dalla faccia, Charles.”
“Per favore, Erik.”
“Dov’è finita la tua infinita pazienza?” sospirando, Charles aspettò che Erik posasse La morte a Venezia fra le cose che ingombravano il comodino. Erik pareva dispiaciuto. Non riusciva ad andare oltre il capitolo due, ma poi gli mise il braccio attorno alle spalle, accarezzandolo piano e Charles non si sentì più colpevole per quella seconda, o terza interruzione. Di qualunque natura essa fosse.
“Non dovevi dirmi una cosa del genere” rispose Charles scrollando le spalle e voltandosi verso di lui.
“Se questa è la tua reazione, ricordami di non toccare più questo argomento.”
Charles arrossì violentemente, dandogli le spalle e recuperando la canotta, scivolata sul parquet. Se la rinfilò lentamente, forse con gesti un po’ più impacciati del solito, tanto che sentì la voce di Erik dietro di lui:
“Lo so che lo stai facendo apposta.”
“E’ solo…” cominciò rimettendosi appoggiato alla testata e ad Erik, risistemando nervosamente le coperte attorno a sè. “E’ solo… Tu l’hai capito prima di me. Perché?”
Erik sollevò un sopracciglio, guardandolo stupito. “Sono più sveglio, ovviamente.”
“Erik…”
“Che c’è?” chiese ridendo, sistemandosi meglio sui cuscini. “Vuoi forse dirmi che non è vero?”
Charles rimase in silenzio, lo sguardo fisso davanti a sé. Le labbra gli si stirarono in un sorriso, quando sentì le dita di Erik accarezzarlo più insistentemente, lungo tutto il braccio, alchè si lasciò scivolare al suo fianco e gli cinse il polso delicatamente.
“Allora, l’hai capito quando ti ho chiesto di andare in Georgia?” gli domandò in tono leggero, provando a fare finta di essere indifferente alle sue attenzioni, ma Erik si limitò ad aggrottare la fronte, come se la risposta richiedesse ben più di pensiero, per essere articolata.
“Prima.”
Charles scosse la testa, incredulo. “Non può essere così. Non l’avevo capito nemmeno io.”
“Il fatto che tu non l’abbia capito chiaramente, non vuol dire che non potesse essere intuito, Charles. O che io non l‘avessi compreso.”
“Non ti credo” replicò Charles in tono mite, ma per quanto si sforzasse non riusciva  ad essere del tutto scettico. Forse Erik non gli stava mentendo. Forse si era davvero accorto che c’era qualcosa tra loro, o che poteva esserci, ben prima di lui.
“E poi hai detto che non l’hai nemmeno trovato poi così strano” proseguì Erik lentamente, sfiorando con le sue dita l'interno dell'avambraccio di Charles. “Era come.. Come se te lo aspettassi.”
Nonostante l’inevitabile timidezza che spronava Charles ad abbandonare quella conversazione -anche se da una parte voleva solo portarla avanti-  e da quella stanza, correndo più rapidamente di quanto già non facesse per star dietro ad Hank, rispose:
“Non mi sono affatto sentito strano. Quello che mi ha spaventato… è stato capire quanto fosse normale e semplice da accettare.”
Erik gli lanciò un’occhiata in tralice, le labbra sottili atteggiate in un sorriso. “Spaventato?”
“Erik…”  lo pregò Charles con una nota d’insofferenza. Eppure sorrideva, perché non riusciva ad averne nient‘altro che quell‘espressione in sua presenza. Quel suo sorriso un po’ ebete e un po’ troppo ingentilito, era sempre lì sulla sua bocca, non appena Erik varcava la soglia della sua camera. Non appena lo vedeva o lo pensava.
“Che cosa avete fatto tu e Cassidy, oggi?” mormorò Erik inspirando, sistemandosi meglio contro di lui e abbassando le palpebre, circondando i fianchi di Charles con un braccio. Charles sentì il peso della sua testa sulla spalla e un po' arrossì, sentendo contrarsi un poco lo stomaco.
Nonostante fossero un paio di giorni che Erik seguitava a venire nella sua stanza e ad addormentarsi da lui, prima di sparire allo scoccare delle sei, Charles faceva ancora un po’ fatica -anche se era una fatica piacevole- a gestire quel ménage improvvisato. Finiva sempre con Erik che commentava gli ultimi eventi della giornata o cercava di farlo parlare di argomenti che, il più delle volte, lo facevano sprofondare nella vergogna più profonda. Ma Charles era sempre ben al di là dal lamentarsi. Se significava avere Erik, tutte le sere per delle ore intere, non c’era alcuna difficoltà da parte sua, nell’accettare ogni singola  disagevole interrogazione.
“Prima o dopo che hai cercato di ucciderlo?” gli domandò, sospirando in tono rassegnato.
Erik fece un lamento insofferente prima di ribattere: “Era divertente. E’ stato divertente.”
“Poteva farsi male, Erik” replicò Charles cercando di apparire serio. “Grazie al cielo era pronto, non voglio pensare a cosa…”
“Charles” Erik aprì gli occhi e gli diede un colpetto sulla guancia, come per rimproverarlo. “Non è successo, Charles.”
“Ma Erik, era sotto la mia responsabilità e se si fosse fatto male, o peggio…” 
Erik si rimise seduto puntellandosi sulle mani, prima di passarsi una mano sul viso, esasperato. Charles smise subito di parlare, credendo di averlo infastidito, accalorandosi, ma poi lo vide ridere ancora e allora alzò gli occhi al cielo.
Abbiamo un ruolo di responsabilità, Erik. Non possiamo certo permettere che si danneggino da soli” proseguì un po' irritato, un po' esasperato, lanciandoli uno sguardo obliquo. “E nemmeno permettere di essere noi, a fargli del male.”
Erik annuì, nella parodia di una smorfia saccente. “Quando sei tu a farti del male da solo però, io devo stare in silenzio. Corretto?”
Charles non gli rispose. Tenne solo un’espressione terribilmente corrucciata, ma gli occhi erano brillanti e divertiti.
“E da quando dobbiamo condividere anche la responsabilità?” chiese Erik in tono leggero, scrutandolo oltre le palpebre un poco abbassate. 
“Non stavamo parlando di Sean, adesso” ribatté Charles, le orecchie in fiamme, chiudendo le mani a pugno e posandosele in grembo. 
Non era arrabbiato; ma Erik aveva quel brutto vizio di dirottare sempre e solo la conversazione su di lui, come se trovasse divertente vederlo offendersi o intimidirsi, solo per poi mettersi a rassicurarlo.
Era imbarazzante, era come giocare ad un gioco in cui Charles conosceva solo metà delle regole, e tutto ciò che poteva fare era rimanere a seguire le oscure intenzioni di Erik, senza mai capirle.
Lo guardò ridere, reclinando la testa sui cuscini. “Perché deve sempre finire che un qualsiasi argomento non ti piace?”
“Non dovevi dirmi…” provò a dire Charles, ma alla fine scosse il capo e si arrese.
“Che mi piacevi già mentre eravamo alla CIA?” chiese Erik con indifferenza, ma guardandolo di sottecchi mentre sbiancava e arrossiva, nel medesimo momento. Sembrava che solo Charles riuscisse a fare una cosa del genere, imbarazzandosi sempre di più, mentre le sue pupille schizzavano da sinistra a destra, come se cercasse una via di fuga, soffermandosi sull‘arco che portava allo studio.
“Erik…” mormorò con un filo di voce, nel quasi tono di una supplica. “Non dire cose del genere… Non è…”
“Come vuoi che lo dica?” le sopracciglia di Erik si aggrottarono tanto da sembrare un‘unica linea severa, mentre un’espressione furba attraversava il viso di Charles. “Puoi limitarti a pensarlo.”
Erik inclinò il capo, come se stesse soppesando la sua risposta. “Non mi va di gestire una conversazione a senso unico.”
Charles si morse il labbro, abbassando lo sguardo, come se dovesse proteggersi da quello che Erik poteva leggerci dentro. “Lo capisco, ma…” Parlarne è più difficile di quanto pensassi, ammise, senza trovare il coraggio di sollevare il viso.
Tuttavia, appoggiando la mano libera a lato del viso di Charles, sfiorandogli il disegno irregolare dell’attaccatura dei capelli, Erik rimase comunque ad aspettare che Charles parlasse.  Ma era fin troppo pensieroso e non sembrava ancora deciso a spiegarsi.
“E’ stato a Washington” cominciò Erik ad un certo punto, quando il silenzio era ormai diventato insopportabile, facendo avvicinare la testa di Charles alla sua spalla. “Dove abbiamo giocato a scacchi, ricordi?”
Charles si staccò da lui, mettendoglisi  quasi di fronte con una leggera torsione del busto e guardandolo con franchezza.
“Erik” disse piano. “Abbiamo giocato a scacchi… Bè. Ovunque.”
“Allora…” mise le mani avanti, e con le lunghe dita gli strinse i polsi, provando a sollevargli le braccia. 
Charles sorrise e provò a tirarsi indietro, ma con uno strattone Erik lo tirò versò di sé, finché Charles non ricadde su di lui, in un disordine di coperte e arti. Represse un verso soffocato, quando parte del peso di Charles gli finì addosso, sullo stomaco, ma poi si ritrovò ancora a ridere.
Sollevandosi sulle braccia, Charles lo guardò, con il viso acceso e gli occhi vividi, i denti bianchi visibili oltre le labbra rosse, scuotendo la testa come se fosse davvero davanti ad un caso senza speranza. “Non so davvero più cosa devo fare con te, Erik.”
“Leggimi nella mente. Non limitarti a parlare” replicò lui in risposta, mentre il suo sorriso si smorzava un poco. “Se non vuoi che te lo racconti, guardalo tu stesso.”
“Erik…”
“Prima non aspettavi che l’occasione di farlo” ribatté Erik, scrutandolo con un severo cipiglio interrogativo. “Vuoi forse giocare a fare l’essere umano?”
“Io sono anche quello, Erik. Me l’hai detto tu” replicò Charles cortesemente, socchiudendo appena le palpebre. 
“E allora cos’è cambiato?” provò ancora a domandargli, ma Charles non se la sarebbe mai sentita di rispondere ad una domanda tanta diretta e quindi, a sua volta lo sentì chiedere: “Perché ora sembri fin troppo felice nel desiderare che io lo faccia?”
“Semplice” spiegò Erik alzando un poco le spalle. “Perché io non posso farlo.”
Charles alzò ancora gli occhi al cielo, prima di tentare di tirargli un destro deciso, che Erik bloccò con il palmo della mano, facendogli un sorriso affilato. Risero entrambi, anche quando Charles provò di nuovo a colpirlo con un sinistro che, puntualmente, Erik bloccò con una semplice torsione del polso.
“Per favore” lo pregò ancora, lasciandolo lentamente liberarsi. “Non può essere niente di così terribile.”
Charles, sorridendogli in segno di scusa, abbassò piano le braccia. Era incerto, non sapeva se accontentarlo. Ultimamente, aveva  sempre resistito alla tentazione di entrare nella mente di Erik, solo perché non voleva ritrovarsi nella condizione di essere tentato di poter scoprire da sé, quello che voleva sentirsi dire da lui, solo da lui. Niente trucchi.
Forse, Charles avrebbe dovuto decidersi a spiegarglielo prima, anche se adesso, era nella malaugurata condizione di ritrovarsi a desiderare di essere ovunque, tranne che lì.
“C’è una cosa che devo dirti però…” cominciò  in tono incerto, osservando i solchi perplessi sulla sua fronte distendersi appena. “Perché io… Io credo…Ah” s’interruppe, lasciandosi andare ad un ennesimo sorriso, scoprendo i denti davanti. Sollevò gli occhi limpidi su di lui, osservando con decisione la sua silenziosa attesa.
“Io credo…” sospirò ancora, aggrottando le sopracciglia, confuso dalle mani di Erik intente ad accarezzargli le gambe. 
“Cosa?” chiese Erik in tono leggero, inclinando appena il capo e osservandolo con attenzione.
“Niente. Non è poi così importante.” Charles non ce la faceva, non adesso, perciò sorrise all‘espressione perplessa di Erik. 
Vinto, avvicinò una mano alla tempia, vedendo Erik accennare un sorriso, prima di chiudere le palpebre e scivolare nella sua mente, cominciando a sentire il calore del sole, attraverso la stoffa di vestiti che non erano i suoi.
… Era una giornata fin troppo calda e quel caldo sarebbe stato insopportabile, senza quel vento fresco a far ondeggiare le creste degli alberi ornamentali. L’obelisco a Washington, sullo sfondo, sembrava infinitamente piccolo e sottile e non si rifletteva -scenograficamente, come asserivano le guide- sulla vasca d’acqua, la Reflecting Pool, più simile ad una lastra di opaco e freddo metallo che ad una superficie d‘acqua. 
Il cielo non vi si specchiava e nemmeno il paesaggio attorno. Era solo un rettangolo antracite, una lunga superficie triste e desolata, tra il verde brillante dei prati e della vegetazione del National Mall.
Avrebbe voluto mettersi in maniche corte, ma il sole se ne sarebbe andato presto, erano già le cinque del pomeriggio….
“Fa’ ridere, non è vero?” disse la sua voce, alla sua sinistra, così si girò e si ritrovò a guardare sé stesso, intento a rimettere i pezzi e la scacchiera nella borsa, lentamente e con precisione.
“Cosa?” si sentì chiedere, con una voce un po’ troppo rigida e poco gentile che tuttavia, non scalfì minimamente l’espressione cortese che lui, Charles aveva sul viso, mentre chiudeva le fibbie con gli stessi gesti accurati con cui sembrava fare ogni minima cosa.
“Andare in giro con questi” spiegò Charles, battendo lievemente le dita sulla sua borsa di cuoio e rimettendola accanto a sé. Si ridistese in quel modo un po’ scomposto in cui era stato seduto per quasi tutta la durata della partita, storcendo appena il naso mentre inspirava, guardando verso quel panorama che la Travelling America definiva spettacolare, ma adesso sembrava solo asettico e un po‘ desolato. 
Charles, che adesso era Erik, in quel momento che sembrava così lontano nel tempo, annuì ma non commentò. 
Si sentiva spossato, anche se non ricordava di aver fatto niente di particolarmente stancante, in quel secondo giorno a Washington. Aveva solo camminato, per ore, lungo i viali della città, seguendo Charles e cercando di partecipare ad una conversazione educata e che avrebbe potuto interessarlo davvero, se non si fosse preoccupato di mantenere il riserbo su ogni cosa, cercando di parlare poco di sé, cercando di rivelare il meno possibile sulle impressioni di quella giornata. 
In fondo, a sentire Charles era come se ormai sapesse tutto di lui. Era meglio stare solo ad ascoltarlo, non c’era poi molto di cui parlare di quello che era e faceva lui, Erik…
“Ce ne stiamo andando?” si sentì ancora domandare, dopo qualche attimo di silenzio.
Charles spalancò gli occhi e si girò di scatto, come se l’avesse spaventato di colpo, raddrizzandosi con la schiena. “Certo. Ti prego di scusarmi Erik, ma… Non ho pensato che…”
Erik storse appena la bocca in un sorriso, dandogli un breve cenno di diniego. “Non è necessario, non mi va di tornare subito. Va bene così.”
L’espressione di Charles tuttavia, s’incupì appena. “Mi dispiace, Erik. Ti avevo promesso che avremmo visto qualcosa di meglio, delle solite banalità da turisti e invece... Se avessi viaggiato un poco di più, sarei stato in grado di essere un poco più soddisfacente.”
“La biblioteca era interessante. Mi ha fatto piacere vederla” replicò Erik gentilmente. Non sapeva bene perché, ma il dispiacere di Charles era anche il suo. Superficialmente, per il motivo per cui Charles ora si lamentava; ma non davvero per quello, comprese, cercando di capire il perché di quella sensazione di rammarico. 
Era dispiaciuto perché Charles era dispiaciuto.
“La biblioteca del Congresso?” l’espressione di Charles s’incupì, se possibile, ancora di più ed Erik trattenne un lieve sorriso quando lo sentì dire: “Ti ho trascinato lì solo perché io volevo vederla” confessò Charles, abbassando lo sguardo come se si sentisse davvero colpevole di un delitto, prima di tornare ad incrociare i suoi occhi. “Ti prego di scusarmi. Di solito sono attento a certe cose, mi sono comportato da vero maleducato.”
“Non importa. Davvero” replicò Erik, cercando di scacciare il malumore di Charles usando un tono affabile e sperava, gentile. 
Era un po’ arrugginito su quel fronte, ma quando disse a Charles che in realtà l’aveva trovata una giornata interessante perché i libri non gli dispiacevano, l’espressione di Charles si rasserenò, esattamente come poco tempo prima, quando aveva cominciato a spiegare quali inediti orizzonti la collaborazione con la CIA apriva loro.
“Però avrei voluto mostrarti di più. L’America non è tutta qui” sospirò Charles, risistemandosi sugli scalini.
Erik gli lanciò un’occhiata, insospettito, anche se il vero sospetto era rivolto verso sé stesso. Era bastata quella strana scintilla di dispiacere; quello strano bisogno di volerlo rassicurare per una cosa così futile che ora, anche il suo modo scomposto di stare seduto non era nemmeno più fastidioso, solo… rilassato.
Rimasero in silenzio a guardare quello strano panorama essenziale, le gradinate bianche che scendevano, oltrepassavano la strada e scomparivano nell’acqua scura, e pian piano anche Erik sentì che la sua posa così rigida, non era poi più così rigida.
Erano stati giorni sfiancanti, passati a reclutare coloro che avevano, a detta di Charles, i requisiti più opportuni -quanto poco gli era piaciuta quella frase-, e ora erano alla fine del viaggio, pronti a tornare a Richmond. Quella fine, aveva un curioso sapore amaro. 
Non era nemmeno una fine, solo un ritorno ad un posto che non era suo, ma Erik non sapeva come altrimenti definirla. 
Forse, persino i suoi pensieri erano semplificati, nel contemplare quel paesaggio dove le cose avevano contorni netti e  i semplici colori del bianco marmoreo, del verde e del rosso cupo che cominciava a tingere il cielo.
C’erano solo lui e Charles, e già quella era una stranezza, perché con Erik… c’era sempre e solo Erik. 
Nessun altro. 
Eppure, era riuscito a passare quasi due settimane in compagnia di qualcuno. Ed era stato… piacevole.
Gli lanciò un’altra occhiata, di sfuggita, come se fosse qualcosa che ricordava circospezione. Sperava che non gli leggesse nella mente, perché ora lo sentiva, c’era qualcosa di strano e confuso dentro di sé, qualcosa di strano nei suoi pensieri, quelli che riguardavano Charles. 
Non era più davvero solo. 
Lo era stato per tanto, e ora che si era ritrovato a dividere le sue giornate con qualcuno, qualcuno che gli piaceva -e qui Erik doveva ogni volta dissimulare il suo disagio, perché quanto era bizzarra quella parola associata a Charles, e non perché fosse un ragazzo, o perché lo conoscesse da poco. Era semplicemente strana e gli faceva contorcere l‘addome, come se dovesse provare sia rammarico che piacere, nel pensare una cosa del genere-, qualcuno con cui stava bene.
Quelle semplici osservazioni lo stavano destabilizzando, tanto più perché avrebbe voluto ricambiare la gentilezza di Charles, dirgli quanto il fermarsi a Washington per mostrargli la città fosse stato un gesto gentile… 
E soprattutto, dirgli che la sua compagnia non gli dispiaceva, quello era importante; non sembrava affatto una frase così malvagia, almeno a pensarla. Tuttavia lo confondeva, perché quelli erano i suoi pensieri e i suoi pensieri non erano mai stati tanto disordinati e ambigui in vita sua. Quanto sarebbe sembrato strano, dire a voce una cosa del genere?
Non aveva alcun senso…
“Non vorrei sembrarti scortese, ma temo che se adesso non mi muovo a fare due passi, rimarrò ancorato qui” mormorò Charles alzandosi con uno sbuffo e tirandosi un poco i lembi della giacca grigio chiaro, raddrizzandola sulle spalle. “Vieni con me?”
Chissà perché s‘immaginava che se Charles avesse usato quel tono con una ragazza, questa sarebbe accorsa in fretta e furia. Erik scosse un poco la testa.  “Va’ pure. Ti aspetto qui.”
“Credo che senza il mio pessimo aiuto tu non possa andare tanto lontano” disse Charles in risposta, scendendo due scalini. La sua risata si smorzò quasi subito, interrotta da uno -scusami- che Erik non capì.
Si voltò ancora un attimo, come se volesse aggiungere altro ma poi, con le mani nelle tasche dei pantaloni chiari cominciò a scendere gli scalini con passo flemmatico, in direzione della Reflecting Pool.
Erik seguì con lo sguardo la sua figura, parallela a quella dell’obelisco.
Era un essere strano. Era ottimista. 
Erik non credeva che sarebbe mai stato in grado di usare quella parola riferendosi a qualcuno che avrebbe avuto occasione di conoscere personalmente, ma era così.
Era ottimista e con una strana mania di voler creare e salvare che gli riusciva incomprensibile da comprendere appieno. Charles vedeva il futuro, là dove Erik vedeva solo scopi ed obbiettivi.
Al principio, aveva pensato che sarebbe solo riuscito ad etichettarlo come insopportabile. Aveva già provveduto a pensare ad un paio di utili scuse, per far sì che le loro strade si divedessero subito dopo il loro incontro.
Ma Erik, era stato quasi subito smentito dalla sua stessa malsana curiosità. 
Dietro quei sorrisi compiaciuti, quelle pose fin troppo educate e quell’aria da leader che sembrava coltivare con cura ed attenzione, doveva pur esserci una scalfittura. Qualcosa di nascosto, dietro quella facciata perfetta, così ben costruita e metodica, così prevedibile, era inevitabile. Così buona e gentile da apparire molto poco concreta. Eppure era vero e autentico allo stesso tempo e questo lo affascinava.
Erik aveva perso contatti e fiducia con le persone, e difficilmente riusciva a credere che una persona come Charles Xavier potesse esistere.
Ma era lì. Letteralmente davanti a lui, e questo lo rendeva così irreale eppure tangibile.
Perché era uguale a lui, perchè era tutto quello che Erik avrebbe potuto diventare, quello che sarebbe voluto diventare, se Shaw, se Auschwitz… Se la storia fosse andata diversamente.
Una così bella persona.
Charles si era spinto ancora un po’ più lontano; sembrava volesse raggiungere il bordo della Pool, ma si girò ancora verso il Lincoln Memorial, ed Erik distolse lo sguardo da lui, sentendosi osservato.
Sperava solo che non gli stesse leggendo nel pensiero, mentre, fingendo di non notarlo, lo vedeva salire, molto più lentamente di quando era disceso, come se fosse troppo preso a pensare.
Gli sembrava così costruito quando erano alla CIA, quando era in compagnia di qualcun altro. 
Come se Charles avesse seppellito il vero sé da qualche parte e solo ogni tanto questo sembrava riemergere, quando per ragioni ad Erik incomprensibili, lui veniva a cercarlo, preferendogli la compagnia di quelli che dovevano essere i suoi amici.
E allora le sue pose, per ragioni ancora più oscure ad Erik, sembravano sparire. Non lo faceva apposta, ma c’era una così grande differenza tra il Charles con gli altri e Charles con lui.
O forse, pensava Erik vergognandosi e stupendosi di sé stesso, forse era lui a voler pensare che quella differenza ci fosse.
Niente atteggiamenti troppo sicuri. Niente frasi fatte. Era solo Charles, un po’ sognatore e infinitamente gentile… Ed Erik, indipendentemente dal pensare quanto quel giudizio fosse strano, lo trovava piacevole.
Anche lui sarebbe stato come Charles, se avesse avuto una vita normale? 
Bisognoso di allontanarsi ogni tanto da quel mondo impostato e ben delineato, salvando ogni tanto qualcuno, accollandosene la storia e il peso della responsabilità?
Non lo credeva appieno, ma era pronto a perdonargli quel sentimento di pietà, perché negli ultimi giorni, Charles sembrava essere riuscito a fargli dimenticare di essere solo. Ed era qualcosa di cui gli sarebbe stato sempre e solo grato.
Charles  adesso era a dieci scalini da lui. A quel punto, fingere di non guardarlo sarebbe stato impossibile, nonché maleducato, così si limitò a sorridergli, ricambiato.
Lo vide mordersi il labbro, però. Come se stesse riflettendo su qualcosa di importante da dirgli, ma quando parlò disse solo tre parole.
“E’ un peccato.”
“Cosa?” gli domandò con noncuranza, sfilandosi gli occhiali da sole dalla tasca, ma limitandosi a tenerli in mano.
Charles gli diede un poco le spalle, indicandogli l’obelisco o forse solo il cielo, sempre più rosso bruno, mentre la sera si avvicinava, prima di tornare a guardarlo. “Non avere più tempo.”
Non c’era enfasi nel suo tono. L’aveva detto solo come un’osservazione casuale, senza niente di specifico, senza allusioni di nessun genere, ma Erik si ritrovò a dover distogliere lo sguardo dal suo, di nuovo.
Il bianco del marmo georgiano era più sicuro da contemplare. Erik scacciò la strana immagine, forse appena più di una sensazione, che l’aveva sorpreso quando Charles gli si era messo davanti.
Erano solo lui e Charles. E rimaneva tutto nell’ombra e nel silenzio. Era a dieci scalini da lui, relativamente distante, considerando il fatto che si erano trovati ben più vicini, quasi fianco a fianco, senza fastidio, senza farci caso, in varie situazioni durante il viaggio per le reclute. 
Eppure, Erik si ritrovò a volere che Charles salisse quei gradini, che annullasse quella lontananza.
Avrebbe voluto scenderli lui, e non capiva perché. Avrebbe voluto che la distanza non ci fosse più, perché ogni volta che si creava, Erik si ritrovava a perdere qualcosa. Come una selezione.
E tutti quei pensieri sembravano così ridicoli e così seri, associati a Charles Xavier, perché era assurdo non riuscire a non volerlo avere vicino a lui. Ed era ridicolo volerlo, in un modo che Erik non capiva davvero.
Diede la colpa al turbamento, a quella momentanea confusione. Ma poi parlò.
“Rimaniamo qui, allora. Solo qualche giorno” si ritrovò a dire, alzando piano gli occhi, guardingo suo malgrado. “Non credo ci sia niente di male.”
Con sua scarsa sorpresa, gli occhi chiari un poco socchiusi, Charles assentì con un sorriso.
Forse anche per Charles, non c’era niente di male a voler restare ancora con lui, disse Erik a sé stesso.
 
Percorso da uno strano fremito, lo stesso che si poteva provare quando sognava di cadere, Charles riaprì gli occhi di scatto, ritrovandosi a fissare quelli di Erik, che lo scrutavano intensamente, poco sotto di lui.
Gli era ancora sdraiato sopra, ma in parte era Erik a sorreggerlo, tenendolo per le spalle. 
Sentiva il braccio su cui si era appoggiato tremendamente indolenzito, come se fosse in quella posizione da ore. Tuttavia, ignorando quella seccante sensazione, Charles si ritrovò a baciare Erik con foga, mettendogli entrambe le mani ai lati del viso e tenendolo stretto, inarcandosi un poco su di lui, scalciando via le lenzuola attorno a loro, districandosene velocemente. Erik lo cinse con le lunghe braccia magre, stringendolo sul costato, per poi scivolare giù, fino a soffermarsi sui fianchi, premendo la punta delle dita nella sua carne morbida. 
Forse voleva solo dirgli di aspettare, ma Charles lo ignorò, limitandosi a socchiudere di più le labbra e a baciarlo profondamente, sentendolo fare lo stesso. E poi Erik non si era nemmeno rivestito, quindi…
Charles non si sentiva affatto inopportuno; era colpa di quella curiosa agitazione, qualcosa che il ricordo di Erik aveva smosso dentro di lui, come se adesso dovesse dimostrargli qualcosa. 
Era stato come vedere davvero sé stesso, pensava Charles, affondandogli una mano tra i capelli, distruggendo la piega ordinata di quel taglio antiquato e troppo regolare. Voleva solo tenergli il capo un po’ piegato così che potesse baciarlo meglio, cercando la sua lingua, mischiando il sapore della sua bocca al suo.
Non era certo una novità, il modo in cui lo guardava Erik. 
Ma ogni volta, ogni maledetta volta, era talmente ammaliante e sorprendente che Charles avrebbe solo desiderato trasferirsi nella testa di Erik e restarci per sempre. Perché nel modo in cui Erik lo guardava, lui era vero. 
Non c’era niente di brutto o noioso, in lui. Era semplicemente una persona migliore, e nell’apprenderlo attraverso Erik, Charles poteva esserne solo lusingato e felice. 
Erik lo vedeva per come era, per come lui si percepiva. Lo comprendeva, senza bisogno di leggergli nella mente. 
E sapere che Erik aveva iniziato a guardarlo in quella maniera, molto prima di quei patetici e confusi giorni, in cui Charles aveva passato a domandarsi se fosse legittimo pensare ad Erik in un certo modo, faceva solo sospettare che  non sarebbe mai stato più in grado di andare da nessuna parte, se non avesse avuto Erik vicino.
Aprì un momento gli occhi, ritrovandosi a incrociare quelli chiari di Erik, che forse non si erano mai chiusi e soffocando l’impulso di sorridere, continuò a baciarlo, con inaspettata avidità, almeno finché non fu Erik a reclinare la testa, quel tanto che bastava, staccandosi da lui, dandogli una breve carezza sul mento, come per scusarsi.
“Aspetta, Charles.” 
“Devi spiegarmi cos’era davvero” gli domandò dopo un po‘, scostandosi appena da lui, mordendosi le labbra tiepide e chinandosi ancora verso di lui, sfiorandogli il profilo della mascella, senza davvero voler aspettare. Aveva il respiro un po' ansante e le membra formicolanti, e l'unica cosa che desiderava davvero era tornare a baciarlo, cercando di soffocare la curiosità.
“Te l‘ho detto” spiegò Erik piano. “Solo quello che ho visto.”
“Perché per te era così chiaro?” chiese Charles interdetto, inarcando appena le sopracciglia. 
“Non così chiaro come lo intendi tu, forse.”
“Ti sbagli” replicò, scuotendo il capo. “Solo… Perché?”
Distogliendo gli occhi dal suo guardo insistente e fin troppo concentrato, Erik sorrise, beffardo. “Perché a me non faceva paura, Charles.”
Charles annuì senza contraddirlo, appoggiando il peso sulle braccia e sistemando meglio il suo peso sul corpo slanciato di  Erik. “Mi dispiace che per me non sia stato così semplice. Avrei evitato un paio di problemi…”
Erik gli prese il viso tra le mani, guardandolo solo un po‘ più intensamente. “La realtà è che tu sei più complicato di quanto gli altri pensino” disse piano, curvando l‘angolo della bocca nell‘accenno di un sorriso. “Ma va benissimo così.”
Charles si ritrovò di nuovo catturato dall’imbarazzo, ma Erik lo tenne fermo, così fu costretto a rispondergli guardandolo negli occhi, cercando di trovare il coraggio, incapace di nascondere un sorriso divertito.
“Detto da te, è una considerazione alquanto improbabile” mormorò, allungando ancora un poco il collo e posando le labbra sulle sue, baciandolo piano, finché anche Erik non si decise a lasciargli andare il viso, spostando le sue mani calde sulla sua schiena, cingendolo e tirandolo contro di sé, con un sospiro impaziente. 
Charles non era più preoccupato dal pesargli addosso, di essere pesante tra le sue braccia. Erik era certo più sottile, ma sicuramente più forte. 
E non era poi così male farsi sostenere, rifletté, facendo scorrere ed aderire le mani al torace magro di Erik, dove ogni osso e muscolo risaltavano con un disegno preciso, fino a soffermarsi sulla linea tagliente del fianco, carezzando quella pelle tesa.
Era una fortuna che l’avesse spogliato prima, almeno ora poteva evitare quella fatica, benché piacevole, risparmiandosi altri gesti impacciati.
Era bella la sua mente e bello il suo corpo, e Charles, nonostante il suo sempre presente senso d’inferiorità, non poteva non compiacersi, nel sapere che lui e solo lui aveva quello strano privilegio di vedere entrambi per ciò che erano. 
Lo conosceva in un modo che nessuno avrebbe mai potuto eguagliare, perché Erik era certo suo adesso, e Charles poteva anche stare nella sua testa e vedere tutti i suoi pensieri e le sue considerazioni e i suoi ricordi. Ogni volta meravigliarsi, perché erano sempre nuovi e sorprendenti, nati da chissà dove, eppure così veri ed accettabili. 
Perché Erik era come lui e tuttavia non lo era. Perché non si sarebbe mai consumato, non si sarebbe mai ridotto all’ombra di sé stesso.
Sarebbe sempre stato nuovo per lui. Perché era autentico e un’insieme inesauribile di piacere e fascino; tanto bastava, perché Charles potesse pienamente sentirsi soggiogato. 
Non c’era altra via, se non quella di amarlo.
Sollevò un momento il viso, appoggiando la guancia allo zigomo affilato di Erik, un poco preoccupato. “Se sei stanco…”
Erik rise piano al suo orecchio e per tutta risposta posò le sue mani sulle sue scapole, tenendolo meglio contro di sé.
“Non sono così stanco, Charles.”
Charles sentì un paio di ciocche ondulate scivolargli sulla fronte, in parte lungo le basette, mentre piegava ancora di più il capo, cominciando a baciargli e a mordicchiargli la pelle morbida alla base del collo, poco sopra la clavicola, considerando quel suo gesto una risposta più che adeguata. Sentì Erik espiare piano e fremere un poco, mentre Charles inarcava la schiena, ondeggiando e strofinandosi un poco su di lui.
La familiare sensazione di calore e languore cominciò ad impossessarsi delle sue membra, un po’ come si sentisse ubriaco, un po’ come se sentisse sopraggiungere la febbre, per niente aiutato dal fatto che il suo corpo sfregava contro quello di Erik stesso -in alcuni punti più insistentemente che in altri, se Charles avesse avuto il coraggio di pensarlo-, ugualmente caldo e sensibile. Forse Erik era davvero un po’ più bravo di lui a controllarsi, il suo respiro era solo un poco più rapido del solito.
Charles semplicemente si rifugiava nella foga, anche a rischio di risultare sgraziato, evitando di ragionare su quello che faceva, per non perdere il coraggio. 
Voleva che ad Erik piacesse, soddisfacendolo… Almeno quanto piaceva a lui, ma non si sentiva davvero in grado di essere alla pari, perché gli sembrava di farsi prendere troppo.
Calarsi in quei panni inesperti, lo destabilizzava ancora come la prima volta che ci aveva provato.
Sentì la salivazione aumentare e gemette un poco contro la pelle di Erik, quando lo sentì che cominciava a sbottonargli i pantaloni, accarezzandogli insistentemente l’addome, infilando le mani sotto la stoffa, prendendo tempo.
Charles schiacciò di nuovo le labbra sulle sue con rinnovato impeto, sperando di distoglierlo da quello che aveva intenzione di fare, almeno per il momento. Ebbe la fugace visione di sé stesso mentre si spostava su un fianco e supplicava per l’ennesima volta Erik di prenderlo, perché era stufo di quell’amabile tortura, era così preferibile che Erik prendesse l’iniziativa… Ma il solo pensiero di dimostrarsi così scioccamente debole in una cosa che lo soddisfaceva, gli diede solo la spinta necessaria per andare avanti senza indugi. 
Erik gli disse qualcosa, roco; Charles gli rispose, ma senza davvero rendersi conto di che cosa avesse articolato, con quella voce così poco ferma e incerta, in cui le parole venivano mangiate dal suo stesso respiro.
Allontanò le mani dalle sue spalle, posandogliele ai lati della testa e si sistemò meglio sulla superficie morbida del letto. Alzandosi un poco sopra di lui, incrociò gli occhi un poco socchiusi di Erik e il suo sorriso affilato -un poco beffardo, un poco addolcito dal vederlo-, e Charles rise, perché era quello che gli veniva da fare, ogni volta che prendeva l’iniziativa e si ritrovava in una situazione di stallo.
“Charles…”
Sentì la sua stretta sulle spalle, e avvinghiato com’era ad Erik, questi lo spinse un poco più in giù lungo di sé, finché Charles si ritrovò non più a cavalcioni, ma inginocchiato tra le sue gambe ed ancora chino su di lui.
“Mi stavi soffocando” disse Erik ridendo, mettendogli una mano a coppa sul viso, cercandolo con lo sguardo mentre si sollevava un poco verso di lui con la schiena arcuata. 
“Perdonami” mormorò Charles piano, contraendo impercettibilmente le dita "Non me ne sono accorto.". Abbassò le palpebre sugli occhi lucidi, la pelle arrossata; gli fece un sorriso storto, socchiudendo un poco le labbra. Si accorse che stava sudando vicino all’attaccatura dei capelli, sulla nuca. 
Cercò di pensare a quell‘insignificante dettaglio, non a quanto lui potesse essere inadeguato.  
Non a fare confronti con Erik, il quale, apparentemente ignorando il turbamento di Charles, prese a sfiorargli le labbra morbide con le dita, seguendone il disegno, incuriosito e affascinato.
Erano rosse, pensava Erik, ma non del rosso intenso di cui scrivevano i romanzieri o i poeti, associandole al sangue o ad una rosa. Era un rosso tenue, quasi rosato, come quello che si mischiava al viola bluastro del cielo del mattino, quando spuntava l’alba. Ed era anche  - Erik sorrise- il colore di una vecchia etichetta di Möet&Chandon.
Con un fremito, Charles si riscosse e i suoi occhi chiari tornarono su di lui, vividi e un po’ più consapevoli, come se lo strano contatto l’avesse riportato indietro, da ovunque i suoi pensieri l’avessero trascinato.
Erik fece per allontanare la mano dal suo viso, ma Charles lo fermò, stringendogli il dorso della mano con la sua, accarezzandogli con il pollice le dita, di nuovo intente a sfiorare di nuovo le sue labbra sottili.
Con lo sguardo fisso e imperscrutabile su di lui, Charles ne baciò lentamente le estremità, fino a socchiudere un poco quelle stesse labbra, lasciando che Erik - con il respiro ben più accelerato e una strana, piacevole torsione nel ventre-, si prendesse la libertà di infilarne due in quella stessa bocca, superandone la soglia morbida. 
Charles le mordicchiò leggermente con i denti candidi, sfiorandole con la lingua umida ed Erik si alzò ancora di più con la schiena, riducendo tra distanza tra loro, posandogli la mano libera sulla coscia, accarezzandolo insistentemente ed avvicinando il volto al suo, come se volesse baciarlo ancora. Con le dita ancora inumidite gli sfiorò la guancia morbida, finchè Charles non inclinò la testa, allontanando infine il suo braccio, cancellando un velo di saliva lucida sulla bocca semi aperta, con la punta della lingua. 
Ansimava leggermente, come Erik. Poi, con lo sguardo un poco febbrile e un sorriso dolce, gli posò le mani sulle spalle, facendolo ridiscendere sotto di sé, premendolo contro le lenzuola disordinate.
Charles represse un vago commento di soddisfazione, nel sentire l’eccitazione di Erik contro la sua e con rinnovata iniziativa, riprese a baciarlo, cercando di assecondare i movimenti avidi di Erik attorno ai suoi fianchi, sfilandosi maldestramente i pantaloni del pigiama.
“Devi…” sospirò Erik contro le sue labbra, sentendo il suo alito caldo. “Devi spiegarmi perché ti rivesti sempre, quando sai che….”
Charles premette ancora la bocca sulla sua, in un bacio tanto rapido quanto poco controllato, soffocando i gemiti di entrambi, prima di dire:
“Perché sono un bravo ragazzo” mormorò, un po’ insicuro e un po’ ironico. Erik rise di quello guardo limpido e prendendolo per la nuca lo tirò su di sè, sollevando solo un poco di più le gambe magre contro di lui, lasciando che le mani di Charles lo stringessero per le cosce. 
Charles piegando il capo, evitava di incrociarne lo sguardo, dondolando appena. Avrebbe desiderato accarezzare il torso, i muscoli affinati di Erik, facendo aderire e scendere i palmi delle mani dalle spalle, oltrepassando il petto e la superficie piatta del ventre, seguendone ogni avvallamento, ogni sporgenza muscolare ed ossea... Charles riusciva a immaginare quei possibili gesti con infinita precisione. Non si capacitava di provare qualcosa del genere, di trovare attraente un uomo. Erik era come lui, e non era solo una questione di menti affini. Ma le sue mani erano come incollate alle sue gambe e finchè non fu lui a sfiorargliele, Charles non riuscì a riscuotersi.
"Charles..." Erik socchiuse gli occhi, piegando il capo di lato e sospirando s’inarcò appena, mentre Charles cominciava a toccarlo, prima di decidersi a prenderlo, dopo solo un breve momento di esitazione, insinuandosi dentro di lui con un lento movimento. Gli strappò solo un gemito rauco, trattenuto tra i denti, almeno finché non prese a muoversi con colpi rapidi e nervosi.
Charles cercò di smettere di mordersi il labbro inferiore, spostando il suo peso sui gomiti piegati attorno alla testa di Erik, sopportando piacevolmente il peso caldo delle sue ampie mani strette sulla schiena. Fitte sferzanti di piacere scivolavano dall’addome fra le sue gambe, e lui era sempre più accaldato, mentre desiderava che la pressione delle ginocchia di Erik contro i suoi fianchi non lo abbandonasse, mentre si concentrava sul ritmo dei suoi stessi movimenti.
Sotto di lui, Erik reclinò il capo, espirando solo un po’ più forte, mentre la piega obliqua dei capelli lisci gli spioveva sulle palpebre serrate, i gemiti bassi mischiati al suo stesso respiro. 
Cercando di rallentare i movimenti frenetici e la foga iniziale, Charles quasi lo coprì con il suo stesso corpo, come se dovessero aderire perfettamente l’uno all’altro, il capo a lato del suo ma girato dalla parte opposta, toccandolo insistentemente con i movimenti della mano, resi un po’ disordinati dall‘eccitazione e dalla piacevole sensazione di annebbiamento che andava pian piano ad offuscargli i sensi.
Una mano di Erik, risalì la sua spina dorsale sotto la canotta e si aggrappò alla sua spalla. A Charles non restò altro che girare il viso  con un movimento indolente e cercare la sua bocca, in un lento e prolungato scontro di lingue e denti, mentre le sue spinte rallentavano, cosicché lo sfregare sempre più arrendevole dei loro corpi sulle lenzuola stropicciate e i lievi gemiti -che Charles cercava di trattenere, quelli di Erik erano soffocati-, divennero gli unici suoni della stanza.
Un verso rotto gli sfuggì dalla bocca. Incrociò gli occhi di Erik, semiaperti, intenti a guardarlo. Lo sentì dire il suo nome e Charles chiuse gli occhi, aggrappandosi a lui, la pelle madida che sfiorava duramente la sua. Non voleva venire prima di Erik, non voleva cedere così, perciò si concentrò e come sempre accadeva, una successione di pensieri -i pensieri di Erik- confusi e annebbiati, rapidi e dio, maledettamente belli da contemplare, fiorì e morì nella sua mente, in una sequenza veloce che lo lasciò affascinato e stremato.
S’inarcò su e dentro di lui con uno scatto, trattenendo un gemito, schiacciando la testa nell’incavo della sua spalla. Sentì la voce strozzata di Erik poco dopo, mentre la mano che lo teneva gli si riempiva di liquido caldo. Charles sorrise, storcendo l’angolo della bocca, quasi in una smorfia.
Percepiva i fremiti di Erik sotto di lui contro il suo stesso tremare, e il caldo era sempre più insopportabile.
Fu quasi una liberazione quando, con un ultimo colpo di reni e dopo aver incrociato gli occhi con quelli di Erik, un po’ lucidi, un po’ spossati, raggiunse l’orgasmo. Erik gli tenne un poco serrata la mascella con la pressione delle dita, cosicché Charles in uno scatto poco volontario, nascose il viso nel palmo della sua mano, serrando le palpebre.
Rimase curvo su di lui, anche quando Erik allontanò il suo braccio, dopo avergli asciugato un rivolo di saliva all’angolo della bocca. Inspirò profondamente, uscendo da lui e lasciandosi cadere al suo fianco, un po’ distante, le membra indolenzite mentre la sensazione di soddisfatta stanchezza, sostituiva pian piano quella di fremente eccitazione che  l’aveva pervaso fino a pochi momenti prima.
Ascoltò il respiro di Erik confondersi con il suo, mentre una fitta nell’addome si faceva sempre più pressante. Voleva averlo ancora vicino, solo vicino, e  tastando lo spazio di lenzuola umide fra di loro incontrò il suo braccio, stringendolo.
Lentamente, lo sentì girarsi verso di sé, il respiro ancora profondo.  
Erik si limitò ad abbracciarlo, ma era tutto quello che Charles voleva, adesso.
Lo sentì sorridere contro la sua guancia. “Sei stato bravissimo” mormorò, la voce un po’ troppo bassa.
Charles deglutì, ridendo sommessamente. “Sta’ zitto.”
“E’ vero” aggiunse ancora Erik, sollevando un poco il viso su di lui, di modo da poterlo guardare in volto. “Non mentirei mai su una cosa del genere.”
Charles lo guardò con gli occhi lucidi, appena socchiusi. “Tu menti?”
Erik gli sorrise di rimando, quel sorriso affilato un po’ malvagio, un po’ troppo carico di promesse, che con tutta probabilità gli avrebbe fatto tremare le ginocchia se fosse stato in piedi. Charles lo guardò incuriosito, tenendogli una mano sul ventre liscio, finché l’espressione di Erik non si distese, mentre si metteva a ridere.
“Non a te. Non potrei mai. “ Lo strinse per il polso, fino a lasciar scivolare la mano nella sua, intrecciando le dita.
“Devo sentirmene lusingato?” gli chiese Charles piano.
Erik gli lanciò un’occhiata ovvia. “Charles. Tu leggi nella mente, non potrei mentirti a prescindere.”
“Ah”  rifletté Charles un poco deluso, anche dalla sua stessa ingenuità. “Giusto.”
Restarono in silenzio per un po’. Charles sentiva che le palpebre cominciavano a pesargli e le luci delle lampade basse sui comodini, brillavano più vivide, lottando con le calde ombre della stanza, infastidendolo. 
I profili dei mobili lucidi emergevano dalla penombra e lui ne seguì i contorni, cercando di distinguere le sue cose mentre con la mano libera accarezzava la nuca di Erik, intento a baciargli piano la curva del collo, risalendo fino alla tempia.
Lo sentì staccarsi solo dopo un po’, mentre tirava le lenzuola e le coperte stropicciate su entrambi, aggiustandole attorno a loro, tirandole delicatamente su di lui.
Ringraziandolo con un sorriso lieve, lo pregò di riprendere il suo posto accanto a lui. Certo, Charles si sentiva i capelli un po’ flosci e la pelle appiccicosa, ma quando disse ad Erik che sarebbe volentieri andato a fare un bagno, Erik lo tenne solo più stretto.
E poi, Charles adesso era davvero molto stanco e l’idea di affrontare il buio e il freddo parquet, in direzione del piccolo bagno, apparivano un ostacolo insormontabile con Erik vicino.
Sempre con la mano di Erik stretta nella sua, si girò su un fianco, dandogli le spalle.
“Vuoi dormire?” mormorò Erik contro la sua pelle, da qualche parte vicino al suo orecchio.
Charles inspirò dal naso, sfregandosi la fronte con il dorso della mano libera. “Prima o poi mi addormenterò.”
Avrebbe voluto addormentarsi così, con Erik intento a baciargli il collo, leccandolo un poco sotto il lobo e sulla nuca, ma c’era un ultimo quesito che opprimeva la mente ormai già un po’ annebbiata dal sonno di Charles.
“Per te sono una bella persona?” chiese piano, sentendo una vaga stretta al torace nel porre quella domanda.
“Lo hai visto. Lo sai” mormorò tranquillo Erik, sfregando lentamente il naso con la sporgenza delle vertebre del collo di lui. “Sei molto più di quello, Charles. Per me.”
Charles annuì, un sorriso affiorante sulle labbra. Era così bello sentirselo dire da Erik, solo da Erik. Sembrava quasi vero, sembrava che i suoi difetti si riducessero ad insignificanti  e misere scalfitture.
“E’ un po’ come se tu fossi mio fratello, credo” mormorò Erik pensierosamente, avvicinando la mano che stringeva la sua al petto di Charles, sistemandosi un po’ su di lui, le loro gambe intrecciate.
Charles gli lanciò un‘occhiata girando la testa quel tanto che poteva. Un’occhiata un poco atterrita, un poco divertita.
“Questo sì che è perverso, Erik.”
Erik sospirò,la parodia di una smorfia infelice gli attraversò il volto mentre sistemava meglio il capo sui cuscini dietro di lui. “Dovrò davvero arrendermi al fatto che troverai allusiva qualunque cosa io dica, dunque?”
“Non sempre" rispose di rimando con un sorriso gentile. “E’ solo… curioso.” 
Erik fece un sospiro rassegnato. “Non so cosa sei, Charles. Non so cosa sei per me… Perciò posso solo andare avanti così. Non credo…” aggrottò la fronte, leggermente incupito. “Non credo esista una parola precisa.”
“Provaci.”
Lo sentì sorridere, una breve risata. “Domani, Charles. Tu devi dormire.”
“E tu no?” chiese, abbassando le palpebre e sfregando la testa sul cuscino schiacciato.
“Non finché non ti addormenti, Charles. Almeno, controllerò che tu non mi prenda a calci nel sonno.”
Charles rise sommessamente. Voleva ribattere con veemenza, ma la voce gli uscì solo molto assonnata. “Io non mi muovo mentre dormo…”
“C’è sempre una prima volta.”
Sollevò un poco la mano libera e con un cenno rapido, entrambe le catenelle d’ottone delle abat-jour si abbassarono docili, così come lui, stendendosi meglio contro Charles e il suo corpo tiepido.
Sentì che il respiro di Charles divenne presto regolare ed Erik credette che finalmente si fosse addormentato, ma poi lo sentì di nuovo mormorare, in apparenza rivolto al buio della stanza.
“E’ come se io fossi te?” 
“No, Charles” disse Erik in tono tranquillo nell’oscurità, chiudendo gli occhi. “E’ come se tu fossi qualcosa che mi è stato restituito.”
 
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La morte a Venezia, descrisse una breve parabola arcuata attraverso la stanza, prima di colpire con un rumore secco le cornici accartocciate sul comodino, facendole cadere a terra, sul parquet vecchio.
Ognuna cadde con suono deciso e metallico che si riverberò un poco nell’aria, ma non fu niente di più che un suono sterile che non produsse nemmeno fastidio.
Una pagina si strappò nel malaugurato atterraggio, e il frammento di carta color avorio, volteggiò fino a posarsi sul pavimento.
Charles lo calpestò con indifferenza, tornando nello studio e sedendosi alla scrivania semi sgombra, sentendosi solo molto stupido. Era un comportamento irrazionale e improduttivo. E non aveva senso, non da lui.
Tornò in fretta sui suoi passi, in camera, affrettandosi a raccogliere il libro e a passare il palmo sulla copertina, togliendo della polvere inesistente, sfogliandolo e cercando il segno della pagina strappata.
Il segnalibro messo da Erik era scivolato via, e Charles non aveva idea di dove andasse rimesso. 
Se l’avesse ascoltato, la sera precedente, invece di… Charles arrossì, abbassando il libro sul comodino, posandovi sopra il segnalibro spiegazzato. Se l’avesse ascoltato, avrebbe saputo dove rimetterlo, ma non l’aveva fatto.
L’aveva solo assecondato quando gli aveva detto di leggergli nella mente.
Voleva tornare indietro, tornare giù nel salone, tornare da Erik.
Di fronte all’idea di essere in conflitto con lui, l’idea di sacrificare Shaw, era un’inezia. Era un prezzo debole, e giustificabile. Nessuno si sarebbe lamentato se fosse stato tolto di mezzo, avrebbe aiutato Erik…
Ma non era vero, rifletté Charles. Non era affatto così che le cose andavano risolte ed Erik non era in grado di comprenderlo. Se Shaw fosse morto, Erik non sarebbe stato comunque libero.
Era tutto nella sua testa e nel suo cuore, era colpa dell’odio che gli impediva di vedere le cose come stavano, gli impedivano di trovare una soluzione umana per risolvere la questione.
Erik era una brava persona. Per questo, Charles si rifiutava di credere che non potesse accettare una soluzione più semplice, più semplice e diplomatica. Era il dolore, a distorcere la sua percezione.
E s’intestardiva a pensare che Erik non avrebbe mai dovuto farlo, perché non sarebbe più tornato indietro.
Non sarebbe più tornato da lui, una volta ottenuto quello che davvero Erik voleva.
La morte chiama morte, aveva letto Charles da qualche parte, ma era falso, era una menzogna per chi non viveva nella vita reale. L’idea della vendetta, così come la intendeva Erik, era un’idea distorta ed infantile, il sogno di un ragazzino a cui era stato portato via tutto, troppi anni prima.
Nella testa di Erik non c’era altro, o c’era spazio per poco altro. Era un dubbio atroce, per Charles.
Ma poteva, doveva pur comprendere che esistevano altre possibilità, altre strade…
Lui stesso non poteva non incolparsi. Era stato anche un suo errore, perché Charles aveva chiuso gli occhi, di fronte a tutto quello che in realtà doveva passare nella testa di Erik. 
Era vero, per un po’ aveva messo da parte quella parte di Erik che non aveva voluto vedere, quella parte che lui gli aveva mostrato sporadicamente. Quella dominata dalla rabbia.
Perché Erik non era quello. Erik era Erik quando stava con lui, non quello che Shaw l’aveva fatto diventare. 
Non era stata solo una parentesi fra loro. 
Charles sarebbe stato pronto a tutto per dimostrarlo, ma adesso, non ci riusciva. Non voleva arrendersi, doveva solo organizzarsi; aveva bisogno di una soluzione, doveva parlare con Erik… 
Ma ne era anche intimidito e l’unico reale sollievo adesso, sarebbe stato riuscire a smettere di pensare.
Chi cercava di stare con lui, finiva sempre col calpestarlo o non capirlo, ed entrambe le opzioni erano terrificanti, perché presupponevano una dose d’indifferenza che Charles non sarebbe mai riuscito a comprendere, né ad accettare.
E Charles, a sua volta, non poteva tenersi nessuno vicino, perché nessuno era come lui, nessuno era in grado di conoscere gli altri meglio di lui. Erano solo specchi tra loro e l’unico vero in quel mondo di riflessi era Charles, l’unico in grado di vederli per ciò che erano. 
Tranne che con Erik, perché Erik era come lui, doveva essere come lui. 
Ed era stato Charles ad adeguarsi a lui, sentendosi ricambiato perché Erik era ciò che Charles cercava e lo stesso era per lui. Gliel’aveva detto. Odiava, la sola idea della distanza tra loro.
Ma non era stato così…
Aveva condiviso pensieri, ore, discorsi e ipotesi su quello che si prospettava davanti ad entrambi, ma l’unico risultato quale era stato? Doverlo lasciare indietro, prima di essere abbandonato a sé stesso.
Non era affatto una persona migliore. 
Era un egoista e un ipocrita, perché voleva solo che Erik stesse con lui.
A cosa serviva tutta quella correttezza morale, tutta quell’integrità e quelle sue belle parole, se non a nascondere il fatto che lo desiderava? In quel modo così viscerale e profondo che Charles chiamava amore, ma era ben oltre quella semplice affinità, quei banali eppure dolorosi scambi di sguardi…
A cosa serviva essere migliori, pensò Chares, se non riusciva a tenere vicino a sé la parte migliore di sé?
Il suo sguardo attraversò la stanza, posandosi sulle sedie, sulle sue cose, sui mobili… sul letto rifatto velocemente.
Non c’era niente di Erik, niente davvero suo in quella stanza. Non lasciava mai niente, come se non ne avesse bisogno, era legato così profondamente a Charles… ma ora il fatto che non lasciasse alcunché, divenne una considerazione amara.
Aveva pensato che Erik si sarebbe preso cura di lui. Che non l’avrebbe lasciato solo, perché anche Erik si sentiva nel medesimo modo, gliel’aveva detto… Ma non era mai stato vero. Era così afflitto dal quel triste pensiero…
Charles si avvicinò alla mensola dove teneva tutte quelle scatolette che sua madre, nella sua volontà, nel suo desiderio di prendersi cura di lui, gli aveva dato.
Promettevano il paradiso, promettevano l’oblio, gli diceva, contraendo le labbra lucide di rossetto -sempre rosse, sempre perfette- in un sorriso gentile. Ed era sincera, in parte, perché i suoi occhi non gli avevano mai mentito e nemmeno i suoi pensieri. Era quella la soluzione.
Non pensare, smettere di ascoltare sé stessi e la confusione.
Lasciare che le cose scivolassero via, perché tutto aveva il suo corso, indipendentemente da lui.
Bastava solo accettarlo.
 
 
 
 
 
CONTINUA….
 
Angolo delle Osservazioni a Casaccio
 
Innanzitutto, scusate. 
Stando al conta lettori presente nella mia dashboard, dovrebbero esserci un po’ più di quattro gatti in attesa di questo capitolo. Incredibile eh?
Siete anche voi tra coloro che lo aspettavano?
Oltre al fatto di dover affrontare numerosi impegni, creati con simpatia dal mio corso universitario, e dal fatto che spesso e volentieri ultimamente la mia vita sociale si consuma al tavolino di un bar a sorvegliare Campari, ci ho messo un po’ a concludere quest’ultimo capitolo. Perciò, perdono!
Avevo detto da qualche parte che questa sarebbe stata l’ultima parte a Westchester e bè…
Mentivo. Sono stata così presa a scrivere da essermi accorta che avevo prodotto un numero fin troppo alto di pagine, perciò ho deciso di spezzare il III capitolo in un’altra parte ancora. 
Come leggete, l’ultima notte a Westchester non è ancora finita. E ancora non so se è un bene o un male.
Finisce sempre con Charles che cerca di uccidersi (Maybe). Che brutto cliché.
La brutta notizia è che nelle prossime settimane avrò un paio di esami da dare e l’università con cui rimettermi in pari, quindi non vi so’ dare una data precisa per il nuovo capitolo, se non invitarvi a controllare… 
Verso la fine di ottobre.
Scusate, ma sappiate che la prima ad essere rammaricata di questo, sono proprio io.
Le mie annotazioni sul capitolo sono alquanto ristrette. Come avrete notato, è il capitolo con la maggior parte di dialoghi -spero credibili- e credo riferimenti ad alcolici e libri (Dostoevskij e Mann) . Coff coff.
Niente situazioni semi autobiografiche, grazie al cielo.
So di aver rischiato grosso nella scena del ballo, che ballo non è stato… Era un po’ troppo da FF, vero? Però alla fine questa è davvero una FF, quindi mi sono regolata di conseguenza.
E’ assieme all’altra scena -Voi sapete quale…- uno degli intermezzi per alleggerire questo altrimenti triste e malaugurato capitolo. Avrei dovuto essere coerente e descrivere solo il disagio… ma non mi sembrava poi così entusiasmante. Ho voluto concedere loro un po’ di spensieratezza, diciamo.
Ringrazio Bloody Very per l’indiscutibile supporto fornitomi per questo nuovo capitolo. E’ incredibile quello che due righe di apprezzamento possono spingerti a fare, n’est pas?
Ringrazio anche coloro che recensiscono e leggono la mia storia, confidando sempre che la troviate piacevole e bella da leggere.
 
Alla prossima,
 
Exelle
 
(*) dialogo preso pari paro da X-Men, First Class
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


WELCOME TO WESTCHESTER
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4


So when tears flow
And you don't know
What on earth to do
And your world is blue
When your dream dies
And your heart cries
Shahadaroba
Fate knows what's best for you


                                                       Ray Orbison, Shahadaroba

 


CAPITOLO IV




Quasi due mesi prima, Washington D.C, 1962

“Non è niente di malvagio.”
“Davvero, Erik. Non voglio andare a vedere un film del genere.”
“Perfetto, allora ci vediamo in albergo. Non è un problema.”
“Dico sul serio, Erik.”
“Certo. Non c’è nessun problema, Charles.”
“Ma non sono stanco.”
“Ah-a.”
Charles si morse il labbro inferiore, infilandosi le mani in tasca. Incrociò lo sguardo di Erik e si ritrovò quasi a ridere,
lanciando ancora un’occhiata alla locandina.
La pioggia aveva slavato il disegno, rivoli rossi e neri su sfondo pergamena, scivolavano sulle lettere che componevano la parola…
“Sterminatore, Erik. Che assurdità può mai essere? E’ un film su un angelo sterminatore, che altro…”
Erik alzò gli occhi al cielo, facendo un cenno verso il nome del regista.
“Charles, non essere sciocco. Certo che non parla di angeli sterminatori.”
“Qual è il titolo?”
Erik alzò lentamente un sopracciglio. “Non essere sempre così letterale.”
Charles si morse il labbro, evitando di ridere. “Non lo sono mai.”
“E’ una figura retorica. E’ solo cinema sur…”
“E’ un film europeo, Erik” disse Charles fingendosi un po’ troppo esasperato. “Con tutto il rispetto…”
“Il cinema è nato in Europa, Charles”  replicò Erik tranquillo, arretrando un poco sul marciapiede,
fissando l’ingresso del vecchio cinema. I fari delle sue insegne brillavano troppo vistosamente,
a dispetto della vernice stinta e scrostata, con le locandine appese un po’ storte, un po’ di sbieco.
“Persino tu dovresti saperlo.”
“Sì, ma il cinema americano è migliore” replicò Charles con tono sornione.
Erik si mise le mani in tasca con decisione, gli lanciò uno sguardo obliquo e cominciò a camminare.
“Continua pure a crederlo”, disse quando gli passò vicino, superandolo. Charles lo seguì,
camminando al suo fianco, sorridendo. Pensò che Erik adesso l’avrebbe assecondato.
Sarebbero probabilmente finiti a concludere la serata in qualche bar nella zona della Fifth Avenue,
e la cosa non gli dispiaceva. Erano già varie sere che uscendo dal Four Season,  le ore passavano così,
tra una cena e un lungo giro per la città, come se fossero intrappolati in una vacanza forzatamente
autoimposta. E non gli dispiaceva.
Charles non se la sentiva di interrompere quella breve routine appena stabilita; nemmeno per
assecondare quella strana passione che Erik sembrava avere per film sconosciuti e dal dubbio titolo.
Angelo sterminatore era un brutto soggetto per uno come Erik, per quanto metaforico potesse essere.  
A Charles, la cosa non piaceva e cosa più rilevante, sembrava che quella considerazione cominciasse
a stargli davvero più a cuore del necessario.
Avrebbe voluto prenderlo per la manica e tirarlo via non appena l‘aveva visto fermarsi, ma Erik
fortunatamente  si era spostato prima. Charles non era sicuro di come avrebbe potuto giustificare
il suo gesto.  Anche adesso, si ritrovava a rimuginare a che cosa sarebbe successo se l’avesse fatto.
Ce l’aveva nel sangue. Non riusciva a toccare le persone, a fare verso di loro gesti insignificanti,
tanto per cercare un contatto.
A volte, si scopriva infastidito persino se Raven, -Raven, con cui viveva da anni- lo abbracciava senza
una precisa ragione, allungandosi in ingiustificate manifestazioni d‘affetto.
Per Charles, cose del genere erano come se dovessero rispettare un codice; il contatto fisico era ammesso
solo  in date situazioni. E di certo non con Erik, che oltre ad essere un uomo adulto, era anche qualcuno
che conosceva da poco meno di un mese.
Qualcuno che preferiva cinema e libri, alle persone. Qualcuno che parlava poco, qualcuno che nonostante
tutto, Charles non era ancora riuscito e per ora, non voleva capire. Se gli fosse venuto a noia, lo sapeva,
sarebbero già tornati a Richmond da giorni. Era molto più volubile di quello che dava a vedere.
Ma per adesso andava bene così.
Era una fortuna che Erik non fosse davvero come lui, che non riuscisse a leggergli nella mente.
Fecero quasi un isolato in silenzio, Erik guardandosi attorno incuriosito, Charles apparentemente
immerso nei suoi pensieri, cercando di tenere le mani nella tasca della giacca, al riparo dal freddo.
“Non credo comunque che fosse un bel film” disse, tanto per parlare.
Strizzando gli occhi nella gelida aria notturna, Erik abbassò un poco la testa, nascondendo un mezzo sorriso.
“Farò finta di non aver sentito.”
Charles scosse la testa, sospirando; era combattuto, erano giorni che cercava di ripromettersi di essere
gentile ed amichevole, ma non riusciva a trattenersi dal comportarsi così, come se volesse infastidirlo.
Non nel modo consueto, come se volesse davvero disturbarlo, ma come se volesse attirare la sua attenzione,
il più spesso possibile. Non era una gran cosa come comportamento. Di solito, era qualcosa di ammissibile
con le ragazze.
Doveva smetterla di bere a cena. Doveva smetterla di bere e basta, rifletté, tornando per un momento
con la mente al suo patrigno. Cercò di scacciarlo dalla mente, un poco disgustato da sé stesso.
Guardò di nuovo Erik, sperando di trovare qualcosa da dirgli, ma non ci riusciva.
L’unica cosa che avrebbero potuto fare adesso, due come loro in una città grande e apparentemente
accogliente, sarebbe stato andare in qualche bar, o club, ovunque. Sedersi a bere e parlare fino ad annoiarsi,
finchè non si fosse fatto tardi ed entrambi non fossero stati d’accordo sul tornare in albergo.
Sembrava che negli ultimi tempi la gente non facesse altro che bere e fumare centinaia di sigarette
e dire sciocchezze. E anche Charles si comportava così; il suo patrigno l’avrebbe senz’altro trovato un
uomo adatto ai suoi tempi.
Si sarebbe complimentato con lui, probabilmente. Gli avrebbe regalato un fermacravatta d’oro,
se fosse stato ancora in giro. Però adesso Charles voleva bere di nuovo e non riusciva a non pensarci.
Forse, se avesse bevuto ancora, l’euforia sarebbe passata e sarebbe subentrata la calma.
Così, non avrebbe dovuto più preoccuparsi di rischiare di assomigliare al suo patrigno, o di assecondare
Erik, solo perché gli sembrava qualcuno così abituato a sparire senza avvertire nessuno, che avrebbe
potuto lasciarlo lì con i suoi progetti, le sue idee, senza tanti problemi. Non voleva sembrargli monotono,
non voleva annoiarlo, voleva dimostrarsi interessante almeno quanto lui, non era così superficiale.
Sarebbe stato così facile. Semplice, se fosse riuscito a capire davvero com‘era Erik.
E tutto senza leggergli nella testa; aveva il presentimento che avrebbe rovinato tutto.
Lo guardò ancora, di sfuggita, accanto a lui, socchiudendo appena le palpebre.
Provò a immaginarlo con lui a Oxford, sarebbe sembrato così fuori contesto, pensò con una vaga e
ingiustificata felicità. Charles sarebbe sembrato nel suo elemento, sarebbe stato più a suo agio di lui
e questo gli dava una certa pretesa di superiorità.
Anche questa ingiustificata, vero, ma Charles la trovava così confortante…
Non riusciva ad essere sempre alla pari su ciò che sembrava interessare ad Erik.
A Charles, poco importava dei libri, se non contenevano formule e classificazioni e di certo,
come aveva appena scoperto da sé,  non sarebbe diventato un estimatore del cinema europeo.
Preferiva credere che lui e Erik avessero altro su cui intendersi, qualunque cosa fosse.
Era inutile trovarsi d’accordo su cose superficiali; voleva essere amico di Erik perché lo trovava
interessante come persona, non perché spendevano quattro dollari di biglietto per lo stesso film…
Il promontorio della paura” disse ad un certo punto, soffocando un colpo di tosse.
Erik lo guardò. “Come?”
“L’ultimo film che ho visto” spiegò Charles. “Non è uscito da molto, ed è americano. Non dirmi che…”
“Mai sentito.”
Charles sollevò le sopracciglia. “Conoscerai almeno Gregory Peck.”
Erik fece appena una smorfia, apparentemente perplesso: “Prego?”
“E’ il protagonista.”
Erik lo guardò, inespressivo e Charles si grattò la tempia, pensando.
“E… Un certo… Non ricordo il nome del cattivo. L’avevo già visto, ma…”
“Ci sarà stata anche un’attrice” replicò Erik in risposta, rallentando il passo. “Di solito…”
Charles lo guardò di rimando, incuriosito. Non capiva dove stava andando la conversazione.
“Sì, ecco, sono loro i protagonisti, quindi…”
“Ricordi i nomi degli attori ma non delle attrici?” domandò Erik, incuriosito. Charles non ne comprendeva
il perché. In verità, di cinema in generale, conosceva molto meno di quanto dava ad intendere, perciò
decise di saltare quella parte di discorso. Non capiva a cosa potessero alludere le parole di Erik, casomai
alludessero davvero a qualcosa.  Probabilmente era solo un’ennesima delle sue frecciate incomprensibili.
Forse, era il modo che aveva Erik di infastidirlo e Charles riusciva solo a pensare che quello era proprio
il modo con cui aveva cominciato a parlare con lui.
Era una strana evoluzione, rispetto alla facciata un po’ troppo educata e sostenuta, e soprattutto scostante,
che Erik aveva avuto all’inizio.
Se con loro ci fosse stata Raven, anche solo Hank, sarebbe stato tutto molto diverso. Si ritrovava a preferire
che le cose andassero così, per un po’.
Erik sembrava essere molto più interessante di una missione alla CIA, non gli andava di subordinarlo ad altro.
L’unico quasi rimpianto, era non aver chiesto a Moira di accompagnarli, ma a pensarci bene, Charles non
aveva nemmeno mai voluto davvero chiederglielo. E non perché fosse umana, anche se Erik era stato chiaro
su quel punto. Solo i mutanti cercano i mutanti.
Immaginò  Moira con loro, nel club dove avevano trovato Sputafuoco-Ali-di-Fata,  -il soprannome era di Erik,
aveva dato un soprannome a tutti quelli che Charles aveva voluto cercare. Charles pregava che nessuno di loro
scoprisse quali- , la immaginò a chiacchierare con loro, in quella via a tarda sera.
Sembrava qualcosa di così sbagliato. E non solo perché quello non era il posto per una donna, non per una
donna, anche solo spettatrice. Non ci sarebbe mai andato senza Erik.
“Però ricordo dove l’hanno girato” disse Charles, rispondendogli come se quasi dovesse scusarsi per quella sua
apparente mancanza. “In Georgia.”
“Notevole” disse Erik vago. Adesso il suo tono sembrava un po’ stanco. Charles decise di astenersi dall’iniziare
a parlare di qualcosa che sembrava annoiarlo.
Si era preparato un bel discorso, rapido rapido; avrebbe anche potuto iniziare a parlargli di quali posti avesse visto.
Forse così, Erik avrebbe fatto lo stesso; a quanto ne sapeva Charles, non sembrava mai essere stato tanto a lungo
nello stesso posto e questo un po’ lo incuriosiva. Però, non riusciva più a fargli nessuna domanda diretta.
Erik senza dubbio sapeva che Charles aveva visto quasi, se non tutto, ciò che lo riguardava, ma da quando erano
partiti aveva evitato con cura l’argomento.
Non aveva avuto nessun problema a dirgli quanto comodo sarebbe stato per lui farsi degli amici, nell’affrontare Shaw.
Però, a ben guardare, sembrava che l’unico amico che Erik avesse guadagnato -e agli occhi autocritici di Charles
non era un grande affare- fosse lui. Ed era stato lui a fare in modo che fosse così.
Charles non era abituato ai giri di parole, preferiva essere diretto e schietto, ma con Erik era come se dovesse trattenersi;
non sarebbe sembrato molto normale dire tutto ciò che ultimamente gli passava per la mente.
Avrebbe voluto entrargli nella testa, sarebbe stato così facile. Che poteva fare, Erik di rimando?
Charles continuò a guardarlo di sottecchi, ogni tanto, mentre oltrepassarono le pozze d’acqua lucida.
L’avrebbe odiato, ecco cosa sarebbe successo. Erik sembrava tenerci molto a quello che pensava e probabilmente era
molto più che insofferente a stare con qualcuno, che in ogni momento, avrebbe potuto decifrare le sue intenzioni.
“Vuoi tornare in hotel?”
“Scusami?” domandò Charles, trasalendo nel sentire la sua stessa voce.
“Non…” cominciò Erik, distraendosi nel guardare la strada buia, fermandosi al centro del marciapiede.
I lembi del suo lungo soprabito si mossero un poco nell’aria fredda della sera. Si era anche vestito con un
ennesimo completo scuro, insolitamente elegante per solo una cena. Quel dettaglio, già da solo, sarebbe
bastato a far decidere Charles.
“Solo se va bene a te” replicò Charles prendendo tempo, tornando a fissarlo. Lo vide sorridere.
“Non è una risposta che mi lasci molta scelta.”
“Allora è quella sbagliata, immagino.”
Charles gli sorrise, in segno di scusa. Non aveva voglia di andare a dormire, non era stanco. E a quanto aveva capito,
durante quell’ennesimo giorno a Washington, lui ed Erik non sarebbero partiti nemmeno il giorno dopo.
Sarebbero rimasti ancora, forse un altro giorno o due. Sarebbe rimasto finché Erik non gli avesse detto
che dovevano tornare indietro, perché Charles non aveva voglia di pensarci.
“Charles…”
“Vuoi sapere cosa vorrei davvero?” gli rispose, quasi ghignando. “Un Tom Collins, una ragazza e un bel tavolo.”
Erik annuì, mentre con un mezzo sorriso riprendeva a camminare nella sera fredda.
“C’è sicuramente una soluzione.”
Charles fin troppo soddisfatto, lo seguì, aggiustandosi il bavero della giacca .

         _________________________________
 

“Lo stai facendo?”
“No.”
“E adesso?”
Charles sorrise contro il bordo del bicchiere. Bevve e lo posò lentamente, guardandolo. “No.”
Erik fece un vago cenno verso un tavolo, verso uno dei separé che si succedevano contro la parete.
Charles, dopo un momento si girò con noncuranza,
leccandosi appena le labbra.
Erano due uomini e una donna. Lei era molto bella, notò Charles. Il tipo di donna che rideva rovesciando la
testa all’indietro, scuotendo i capelli biondi e mettendo in mostra la collana di perle.
Rigorosamente vere, rigorosamente regalate. Per un momento, ripensò a sua madre.
Si girò di nuovo verso Erik e lo squadrò. Impassibile, era tornato a guardare al piano di sotto, verso la sala centrale.
I suoi occhi si spostavano lenti, sulle teste di quelli che ballavano. Charles si sfiorò la tempia, concentrandosi appena,
arricciando le labbra in un sorriso lieve.
“Non è quel tipo di donna.”
Erik sorrise. Afferrò il bicchiere, ma si limitò a rigirarlo tra le lunghe dita.
“Non è quello che volevo sapere.”
“Però è abbastanza interessante. Non è sposata con nessuno dei due.”
“Ah. Curioso.”
Charles socchiuse appena gli occhi.
“Lavora con loro e… Ah. No. Ha un figlio” Charles lanciò ancora una vaga occhiata verso il tavolo.
Erik alzò gli occhi su di lui. “Ed è un problema?”
“Leggergli nella testa? Non è un problema, no.”
“Charles. Stai ignorando la mia domanda.”
Charles si allungò sulla sedia, guardandolo divertito. “Tu lo fai di continuo. Allora, chi altro…”
Tornò a guardarsi in giro, senza mai davvero sfiorarsi la tempia, sapendo che Erik lo stava guardando.
Forse fu per quello che smise, preferendo tornare a guardarlo, nuovamente incuriosito.
“Ti piaceva?”
“Chi?”
Charles fece un leggero cenno verso il tavolo dietro di loro. Inclinò appena il capo, ma Erik non si disturbò
a seguire la sua occhiata. “Veramente…” disse, “Veramente pensavo potesse piacere di più a te.”
Charles rise. “E’ più grande di me, Erik.”
“Non di molto” replicò Erik. “Non pensavo potesse essere un problema.”
“Non lo è, però…” Charles fece una smorfia. Come se fosse terrorizzato.
“Due anni in più. Mi tratterebbe come un bambino.”
“Che sciocchezza.”
“Perché dovrebbe piacermi?”
Scoccò solo un’ultima occhiata alla donna e ai suoi accompagnatori, decisamente più vecchi e non altrettanto attraenti.
Erik alzò le spalle. “Non ne ho la minima idea. Perché è bionda, magari?”
Charles scrollò la testa, cercando di non ridere. Ancora.
“Se fosse mora quindi non dovrebbe piacermi, secondo te? Vuoi sistemarmi?”
“Non mi permetterei mai. Però hai il tavolo. E qualcosa da bere.”
“A dire la verità, stavo pensando a Moira, ultimamente” disse.
“Non l’avrei mai detto” rispose Erik, con un tono così pacato che Charles ritenne vero.
“Non è male. Un po’ troppo sostenuta ma…” Charles fece un sorriso vago. “Che ne pensi?”
“Non ci penso.”
“Allora devo ritenerla una fortuna.”
“Perché?” Posò il bicchiere lentamente. La donna dietro di loro rise, gettando all’indietro il capo.
“Credevo che con te in giro, avrei avuto problemi con lei” disse Charles ridendo. Ma lo disse in fretta,
come se temesse che Erik non sentisse e così, quella che doveva essere una battuta, divenne un‘affermazione.
Erik vide che i suoi occhi luccicavano, stranamente vividi, come se in realtà pensasse ad altro.
“Non sono qui per preoccuparmi di certe cose” disse pacatamente.
Charles, senza esserne davvero dispiaciuto, temette di averlo infastidito, poi però, lo vide sorridere e
distogliere lo sguardo, inclinando la testa. Per un istante, Charles pensò che quella fosse la cosa più vicina
ad una forma d’imbarazzo che Erik potesse mostrare. Sorrideva per qualcosa che sembrava conoscere solo lui.
“Perché?”
Charles si sporse oltre la balaustra, soffermandosi a guardare le luci scintillanti del lampadario che illuminava
la sala sottostante.
“Perché ritengo che tu sia una persona attraente” disse, serio, cercando di sembrare indifferente.
Era poco a suo agio a dire cose del genere, però non se la sentiva di inventare scuse. Che Erik fosse attraente,
una di quelle persone dai tratti fortunati che affascinavano Charles -aveva un insolito ereditato vizio per la bellezza-
gli sembrava la cosa più evidente del mondo.
E probabilmente, lo stesso Erik ne sembrava profondamente consapevole quando, con la coda dell‘occhio,
lo vide sorridere ancora.
Charles si aspettò che facesse una battuta. Qualsiasi cosa, ma Erik si limitò a ringraziarlo educatamente.
Aveva immaginato una reazione così diversa che ne rimase sorpreso.
“Sono tutti così in Germania?” Charles non avrebbe voluto dirlo. Lo stava solo pensando.
Erik inclinò il capo, come se lo stesse studiando, per capire se fosse serio o scherzasse. Charles cercò di mostrare
l’espressione più rilassata e possibile che gli potesse riuscire.
“Sono tutti così, in America?” chiese Erik ironico, guardandosi appena attorno.
Charles afferrò il bicchiere, annuendo e sorridendo. Con sua sorpresa, si accorse di avere caldo, ma probabilmente
era normale, stava bevendo e quel locale era così affollato. Forse in America erano tutti così.
“Tu sembri in tutto e per tutto un perfetto ariano” scherzò.
Gli occhi di Erik s’incupirono. Nonostante continuasse a sorridere, Charles sapeva di aver detto qualcosa di
profondamente sbagliato, ma non se la sentiva di giustificarsi. Il gin nel suo bicchiere era sceso ulteriormente
di livello. Se Erik apprezzava la sua onestà, perché non poteva tollerare anche questo?
Erik stava quasi per replicare, ma poi sollevò solo le sopracciglia, preferendo cambiare argomento:
“Dovremmo tornare a Richmond. Non ci sono più mutanti qui.”
Il sorriso sulle labbra di Charles si restrinse, componendosi in un’espressione seria. Sapeva che ora Erik gli
avrebbe fatto pagare ciò che aveva detto. Gli avrebbe di nuovo ricordato di essere responsabile,
ma perché Erik non lo capiva? Charles era responsabile. Non c’era bisogno che glielo ricordasse.
“Lo so.”
“Però?”
“Però non mi va” replicò Charles bevendo un ultimo, lungo sorso, guardandolo fisso.
“Charles…”
“No.” Non pensare che non voglia. So che vuoi trovare Shaw. E lo faremo, ma adesso non voglio pensarci.
Charles immaginò che ora si sarebbe arrabbiato perché gli avrebbe parlato nella mente. O perché aveva
nominato Shaw. E forse anche perché gli aveva detto che non sarebbero tornati subito alla CIA…
Ma Erik si limitò ad annuire, quasi distratto, sorprendendolo ancora. Allentò solo la presa sul bicchiere,
come se si fosse tranquillizzato. Charles non gli domandò il perché. Provò ad indovinarlo, ma i suoi pensieri
rimasero privi di immaginazione.
Avrebbe tanto voluto leggergli nella mente, adesso. Cominciava a desiderare di farlo così spesso che presto,
forse, avrebbe trovato il coraggio di chiederglielo.
“Potremmo provare ancora a cercare. Solo qualcun altro, come noi.”
“Potremmo, sì.”
Charles incrociò le braccia, posando i gomiti sul tavolo e si protese verso di lui, in modo da non dover parlare
a voce troppo alta. “Pensi ancora che questo ci renda speciali?” chiese divertito.
Erik non staccò gli occhi dalla folla del piano inferiore. “Pensi ancora che sia solo normale evoluzione?”
“La verità è che non lo so” disse Charles con semplicità. “Ma è confortante sapere che non sono solo.”
“Tu avevi Raven” commentò Erik, scrutandolo.
Charles aggrottò appena la fronte. “Eravamo soli in due.”
Erik sorrise, un po’ beffardo, un po‘ sorpreso. “Non si può essere soli in due.”
Charles abbassò appena la testa. Era un po‘ egoista dire certe cose proprio ad Erik.
“Forse no. Ma devo anche ammettere…” Strizzò appena gli occhi chiari, osservandolo. Non è stato male trovarti.
“Perché sono più simile a te?”
Charles non capiva cosa Erik intendesse. Ma non gli venne difficile dirgli che sì, era proprio così.
E non perché fosse la risposta che Erik voleva sentire, ma perché, a dispetto di tutto, era la più onesta che
potesse dargli. Quando alzò gli occhi ne incrociò ancora lo sguardo e gli sorrise, perché era quello che prevedeva
il momento, suppose Charles. Stava passando troppo tempo con Erik. Aveva imparato che di qualunque cosa
stessero  parlando, se ne avesse intercettato lo sguardo sorridendogli gentilmente, Erik sapeva che aveva capito.
Era quasi un felice inganno, perché Charles non si era mai sentito tanto smarrito.
Rimasero in silenzio per un po’. Charles si appoggiò alla balaustra, guardando ancora la folla sottostante;
i suoi occhi si posavano sull’uno o sull’altra, velocemente, sfogliandoli velocemente, scartandoli, sorridendo
ogni tanto quando incontrava un pensiero buffo, strano o senza senso.
 “Ci sono solo persone per bene qui.”
“Nessun assassino pluriomicida?”
Charles si voltò verso di lui, sorridendo beffardo. “Oh. Un cacciatore di nazisti.”
Erik s’irrigidì, distogliendo in fretta lo sguardo.
“So solo che li hai cercati” mormorò Charles, questa volta preoccupandosi dell’ennesimo passo falso.
“Non ho visto nient’altro, non preoccuparti.”
“Quando…”
“Solo quando te ne stavi andando. Non l’ho più fatto da allora.” Charles sperò che il suo tono non tradisse
quanto in realtà desiderasse il contrario.
“E comunque, anche una persona normale trova poco credibile andare in palestra a quell’ora di notte.”
Erik roteò gli occhi, vagamente irritato. “Il fatto che tu non ci vada a nessuna ora del giorno…”
“Non c’è nessuna palestra nello stabile di Richmond, Erik” ribatté Charles ridendo, risentendosi un poco,
appena appena, per la frecciata. Charles pensò che se Erik fosse stato solo un poco meno attraente lo avrebbe
odiato. Erik lo guardò storto, prima di sorridere a sua volta.
“Come qui non c’è nessuna cameriera” aggiunse Charles, lanciando uno sguardo per il piano.
“Scusami un momento.” Si alzò lentamente, avvicinando in un gesto vago la mano alla tempia.
Erik parve non sentirlo. Aveva preso il suo posto alla balaustra e guardava la gente, come prima aveva
fatto Charles che ora lo guardava di sottecchi, interessato. Avvertiva una strana sensazione di costrizione,
come se fosse impossibilitato a fare qualcosa. Avrebbe voluto, ogni tanto, vedere il mondo dal punto di vista di Erik.
Doveva essere così ristretto, sicuro. Qualcosa su cui era facile orientarsi, concentrarsi.
Erik era solo, era tenuto a preoccuparsi solo di sé stesso, era lui che sceglieva.
Quello che c’era nella testa di Charles era troppo vasto  e il rischio di perderne frammenti, troppo grande.
“Charles? Charles Xavier?”
Erik si girò, incontrando lo sguardo di Charles, che si voltò a sua volta, ritrovandosi di fronte ad un ragazzo,
poco più basso di lui e sufficientemente più largo, tanto che la giacca da sera che indossava era brutalmente
tesa sulle spalle. Aveva lisci capelli rosso scuro, pettinati con una decisa scriminatura laterale e la sua faccia
somigliava ad un cartellone pubblicitario sulle buone intenzioni.
Erik lo detestò all’istante. Lui stesso fu il primo a sorprendersi. Fu qualcosa di così profondo che dapprima,
riuscì a giustificare quel sentimento solo con il fatto che il nuovo arrivato fosse umano.
Oltre il tavolo, Charles percepì l’immotivato odio di Erik attraversarlo come uno spettro e si
ritrovò interdetto e spiazzato. Sfoderò in fretta un sorriso affabile, simulando un vago smarrimento.
“Howard? Howard Williams?”
“Xavier. Mio dio, sono Howie, per te. Gli anni cancellano le cose così alla svelta?”
Charles finse di ridere, ma non con lo stesso entusiasmo del ragazzo che fece tremare abbondantemente
la mano in cui reggeva il suo drink. Erik lo guardò, imperscrutabile, ma soprattutto guardò Charles e
il suo essere diventato rigido e molto poco tranquillo.
“Cosa ci fai a Washington?” domandò, sostituendo l’espressione gioviale ad una profondamente seria,
con sorprendente velocità.
“Dovresti essere in Inghilterra, Xavier. Dovresti essere in un qualche buco a bere tè, a correre sotto la
pioggia con dei montoni.” esclamò di colpo. Il drink tremò ancora, alte onde rosse contro le pareti di vetro.
Il sorriso cordiale di Charles si restrinse di un paio di denti. Erik osservò la sua mano contrarsi appena.
Pregò silenziosamente che Charles s’infilasse nella mente di quel volgare umano, facendolo sparire dal
grottesco teatrino da cui sembrava essere uscito.
“Ah. La verità è che mi sono laureato.”
Fu il turno del sorriso sciocco di Howard a restringersi. “Capisco. Che disgrazia” disse, cercando di essere
scherzoso. “Interessante. In cosa se è lecito? Aspetta… Roger, Roger Falstaff ricordi? Bè, me l’aveva detto...”
Howie assunse una vistosa espressione pensierosa, poi s’illuminò:
“Legge!” esclamò. A confermare il suo entusiasmo, diede una vigorosa e trionfante pacca sulla spalla di
Charles che arretrò un poco, infilandosi le mani in tasca.
“Veramente no. Genetica.”
Fingendosi un po’ troppo inorridito, Howie sorrise beffardo. “E’ c’è bisogno di una laurea?”
“Più di una” intervenne Erik, scrutandolo fisso.
Howard fece un lento movimento con la testa, voltandosi. Erik non ne fu sorpreso, doveva essere difficile
muovere il capo con quel collo tarchiato. Gli avrebbe volentieri prestato una delle sue maglie a collo alto,
giusto per vederlo strozzarsi, pensò malignamente.
“Non credo di conoscerla” mormorò Howie con le labbra lucide d’alcool.
“Lui è Erik Lensherr, Howie. E’…”  Charles guardò Erik, guardingo. “Un mio amico.”
Emergendo dalle profondità rosse del suo bicchiere, Howie continuò a fissare Erik negli occhi.
I suoi erano piccoli, vide Erik, un po’ allungati e completamente neri, le iridi fuse con la pupilla.
Gli occhi di un insetto, rifletté Erik.
“Eri alla St. John?” domandò Howie abbassando le palpebre, sospettoso.
“Temo di no.”
“Come hai detto che ti chiami?”
“Non l’ho detto” ghignò Erik affabile. Gli occhi da insetto di Howie divennero due sottili fessure e
la sua bocca una smorfia volgare.
“Divertente. Che college hai frequentato? Dartmouth? Lebanon? ”
“No, Howie. Non… Erik non è di qui” intervenne Charles in fretta, cercando quasi di riportare
l’attenzione su di sé, sorridendo.  “Erik è tedesco. Dell‘Ovest.”
“Credevo li avessimo uccisi tutti nel ‘45” sbottò Howie, ridendo fragorosamente.
Charles contrasse la mano e non riuscì a nascondere un’espressione visibilmente disgustata.
Erik lanciò una rapida occhiata alle ceste di posate -coltelli- in uno dei carrelli del personale,
vicino alla parete, accarezzano piano il suo bicchiere.
“Non fraintendermi, sto scherzando” continuò Howie dopo essersi ripreso.
“Brava gente i tedeschi. Efficienti. Forse un po‘ troppo scostanti, ma se non ci fossero loro e i loro soldi,
mio padre non sarebbe seduto dove sta’.”
“Ne sono lieto” replicò Erik con un sorriso affabile e gelido. Intercettò lo sguardo allarmato di Charles
e il suo ’Non’ appena accennato sulle labbra rosee, ignorandolo.
“Dev’essere seduto in un posto molto comodo” aggiunse.
Howie sfoderò il migliore dei suoi sorrisi, gongolando nella sua giacca stretta. “In effetti sì. E’ al Senato.”
Erik fu troppo catturato dal fissare la smorfia insofferente di Charles per ribattere, mentre Howie continuava.
“Dove avrebbe dovuto esserci anche quello di Charles, ma certe cose non vanno mai come dovrebbero, vero?”
“Già. Sorprendente. Sei qui per tuo padre?” chiese Charles educato. La sua voce si era abbassata appena e
aveva appena sollevato il braccio, come per aggiustare
i capelli vicino alla tempia che Howie esclamò, con la sua voce chiassosa e gli occhi illuminati:
“Molto meglio, Xavier. Vieni a conoscerla!”
Lo afferrò per il polso, abbassandogli il braccio con foga, in un lampo di improvvisa eccitazione.
“Vieni Xavier” disse, prima di spostare distrattamente i suoi occhi liquidi su Erik. “Se tu vuoi seguirci.”
“Veramente…” attaccò Charles cercando di sottrarsi alla sua fin troppo confidenziale stretta.
“Veramente noi…”
“Abbiamo tutto il tempo del mondo, Charles” disse Erik, congiungendo appena la punta delle dita,
la personificazione stessa della calma e dell’educazione.
“Perché no?” aggiunse.
Perché no? Pensò irritato Charles, conscio del ghigno di Erik che lo seguiva, dei passi di Erik dietro di lui.


 

                                                                            __________________________________ 

 

“Charles, ti presento Sheila Frazer. Sheila, lui è Charles Xavier, studiavamo insieme alla Beauvouir.”
“Piacere, Sheila Fraser.”
La ragazza gli sorrise. “Frazer. Senza ‘S’.”
“Scusami” rispose Charles lasciandole la mano, guardandola negli occhi. Avrebbe tanto voluto suggerirle
telepaticamente di sparire, di allontanarsi da Howard Williams III,
dal seggio in Senato del padre e dai suoi soldi. Da tutto ciò che rappresentava, da tutto ciò che aveva fatto e
potuto far parte della vita di Charles.
Avevano preso posto al lungo tavolo di Howie da poco. Howie non si era disturbato a presentare Sheila ad Erik,
così come non si era disturbato a presentarlo gli altri invitati al tavolo. Charles si maledì di non aver scandagliato
anche l’area del ristorante, più in fondo, rispetto alla pista da ballo che vedevano dalla balconata.
Almeno li avrebbe evitati. Avrebbe evitato di essere stato visto da Howie.
Ora si ritrovava seduto tra loro. E la colpa era di Erik, perché l’aveva voluto. Charles si odiava, ma non voleva
opporsi ad Erik, non dopo tutte le fastidiose battute che gli aveva fatto, più o meno volontariamente,
durante la serata. Per Erik, seduto al suo fianco ed era apparentemente scivolato nella fredda immobilità
che lo spingeva ad osservare con più attenzione l’arredamento attorno a lui, piuttosto che le persone.
In realtà, Charles conosceva ben più di uno di loro. Pian piano, riconobbe nelle loro facce parecchi ex-membri
della Beauvouir, la scuola privata che aveva frequentato in New Hampshire, prima di iniziare l’università.
Abbastanza lontana da Westchester per non disturbare e non troppo lontana da far pensare che non lo volessero
a casa. E come aveva odiato quel posto, si riscoprì ad odiare le facce attorno a quel tavolo.
Perché stava sopportando tutto questo?
Perché?
Credevo ti annoiassi.
Non è vero.
E’ un tuo amico?
Secondo te?

Charles vide gli angoli delle labbra di Erik curvarsi un poco all’insù. Dagli tempo.
Ti leggerò nella mente, per questo.
Lo stai già facendo.
Ti sto solo parlando. Ma lo farò se resteremo qui…

“… Ed è incredibile, perché ero assolutamente convinto che Xavier fosse ad un oceano di distanza!” si stava sgolando
Howie, il bicchiere nuovamente pieno. “Fai un altro giro, Augusten” ordinò alla svelta ad uno dei camerieri.
A quanto pareva, riflettè Charles, aveva beccato anche il locale preferito di Howie e quasi sorrise
della propria sfortuna. Howie si risedette, cercando in fretta di coinvolgere Charles in una conversazione
con Wade Coddington e l‘immancabile Sheila, che sembrava appoggiata ad Howie come se fosse un‘estensione
del suo corpo.
Oltre ad aver frequentato la stessa scuola, Charles si ricordava di Wade perché possedevano entrambi una
casa nel Rhode Island. Quella di Wade era solo un po’ più grande e vicina a quelle dei Vanderbilt,
come non mancò di nuovo di ricordargli, trascinando Howie nella sua riscoperta di vecchie
reminescenze scolastiche. Charles cercò di parlare il meno possibile, cercando con i gesti di trovare una scusa
per avvicinare la mano alla tempia, lasciando cadere un commento ogni tanto. A dire la verità, la sua priorità
al momento era la conversazione che stava avendo luogo nella sua testa, e in quella di Erik, che impassibile,
fingeva di assaporare il Gin Tonic offerto da Howie con fin troppo interesse.
Ti prego Erik. Basta, andiamocene.
Erik fece un impercettibile sorriso. Ancora cinque minuti.
Se vuoi vendicarti della maleducazione di Howie te lo concedo, ma per favore…
Non ho bisogno che tu me lo conceda.
Non intendevo questo.
Voglio solo ascoltarlo.
E’ un povero idiota.
Charles si azzardò a girare il capo verso di lui, Erik fece lo stesso.
Charles sentì un vago senso di deja-vu. Per favore. Perché?
Erik fece un mezzo ghigno, tornando a guardare le facce degli altri presenti, intenti a chiacchierare,
ridere e bere. Charles si sentì molto solo. Lui ed Erik non c’entravano niente lì. Potevano andarsene molto in fretta;
bastava portarsi la mano alla tempia, annebbiare le loro menti.
Charles rimpiangeva di non essersi cancellato dalle loro teste, dalle loro memorie.
Solo perché voleva avere anche lui un passato. Ridicolo.
Il suo passato faceva così schifo. Per un attimo invidiò sinceramente Erik. Avrebbe cavato volentieri i denti
a Howie, se fosse servito a trasformare le sue parole in biascichii incomprensibili. Lo disgustava profondamente.
Perché ti interessa? Chiese di nuovo a Erik, cercando di dare al suo pensiero un tono arrabbiato.
Perché ti conosce, ovviamente.
Charles alzò le sopracciglia, annuendo alle parole di Wade.
Se vuoi sapere se possiedo una casa nel  Rhode Island basta chiederlo.
Ma è tuo amico.
Non è un mio amico.

Non è quello che voglio dire.
Erik, per favore.

Io non posso stare nella tua testa, Charles.
E allora ti racconterò tutto quello che vuoi, ma per favore…
Charles, tu non ti sai divertire.
Questo non è divertirsi, Erik.

Charles si girò verso di lui di nuovo, flettendo appena il braccio e guardandolo con aria di sfida.
Erik sollevò appena le sopracciglia, mentre allungando un braccio gli stringeva il polso, facendogli
abbassare il braccio.
“E tu di cosa ti occupi?”
 La perfettamente modulata voce di Sheila svolazzò sulla tavola come un colibrì, catturando l’attenzione
degli altri presenti, impegnati fino a quel momento nelle loro conversazioni.
“Di varie cose” replicò Erik in tono piatto, degnandola appena di un’occhiata, tornando a girarsi
verso Charles. Gli aveva lasciato andare il braccio. Non se ne era accorto nessuno, ma ora Charles sembrava
essere scivolato in un profondo stato di confusione, combattuto tra il desiderio di scappare da lì,
abbandonando quella gente ed Erik e il rimanere, solo per vedere dove il suo grado di presunta
perversità potesse condurlo.
Sheila non si arrese. Batté le lunghe ciglia arcuate, una, due, tre volte, allontanandosi impercettibilmente
da Howie. “Varie?”
Erik spostò lentamente lo sguardo su di lei. Charles lanciò appena un’occhiata a Sheila, ma ne lesse
brevemente i pensieri, riemergendone profondamente disgustato. Avrebbe voluto mostrare ad Erik
quello che vedeva, ma non gli fece nulla. Non si meritava di sapere.
“Investimenti” disse Erik pacatamente.
“Erik non lavora” disse Charles contemporaneamente. Sheila spalancò gli occhi confusa.
Fiutando un vago inganno in cui avrebbe potuto facilmente far valere qualche suo sprezzante commento,
Howie si protese verso di loro, spalleggiato da Wade e da un certo Thomas Elder. Charles sapeva che il padre
di Elder aveva recuperato un po’ dei privilegi e contatti perduti con dei buoni affari durante la guerra di Corea.
Privilegi e contatti che gli erano stati sottratti dal patrigno di Charles.
“Investimenti?” chiese Howie a voce ancora più alta del normale.  “E come fa se …”
“Ho un fondo fiduciario” replicò Erik lanciando un’occhiata irritata a Charles che gliela restituì, ignorando
le molte paia di occhi che avevano cominciato a seguire la loro discussione. La cosa sorprendente, era che a
quel tavolo molti vivevano esattamente nello stesso modo di Erik, a quanto lui aveva detto, ma a giudicare
dalle loro facce, sembrava che un simile diritto fosse riconosciuto solo a loro.
“Un tedesco che vive di sola rendita” sillabò Howie lentamente. “Curioso.”
“Forse non lo è poi tanto, vero, Howie?” rilanciò con una risata qualcuno dal fondo del tavolo.
Charles alzò nuovamente gli occhi e vide Erik continuare a sorridere affabilmente. Charles avrebbe tanto
voluto allungarsi strattonarlo per la manica sinistra fino a strappargliela e mostrare a tutti quello che Erik
aveva sul braccio, facendoli morire di vergogna uno dopo l’altro.
Anche se probabilmente sarebbe servito solo ad acuire il loro odio. Se c’era qualcosa che Howie faceva sfoggio
di disprezzare oltre ai nazisti -per quanto parte dei suoi soldi venissero anche da lì- erano gli ebrei.
“E’ più comune di quanto non s’immagini” spiegò Erik in tono tranquillo.
Howie annuì, ma era evidente che non credeva ad una sola parola.
“Di cosa si occupa tuo padre?”
“Industria pesante” replicò Erik con la medesima calma, poi sfoderò un sorriso affilato. “Metalli.”
Questo fece scoppiare a ridere Charles che, prima di riuscire a controllarsi si era portato una mano alla fronte,
piegandosi sul tavolo. Erik lo guardò e sorrise a sua volta.
“Che c’è? E’ vero” mormorò.
Charles avrebbe voluto scuotere la testa e ridere ancora, poi si ricordò dov’era e il sorriso sparì.
Avrebbe voluto avere un orologio per fingere che si era fatto tardi.
“Ma davvero” borbottò Howie. “Immagino facciate un sacco di soldi.”
Immagina bene, pensò Erik. Charles lo sentì e il suo sorriso si allargò.
“Sicuramente un po’ più di quelli che ha Charles adesso” sghignazzò Howie all’improvviso, gettando indietro
la testa. Charles fece un sorriso abbastanza educato; Howie era ubriaco. Avrebbe voluto esserlo anche lui.
Va bene, adesso andiamo?
Erik non gli rispose.
“Allora Charles, dove hai trovato un industriale che vive di rendita tedesco?” gorgheggiò Howie, alzandosi
e ordinando un altro giro.
“Già” continuò l’allampanato Wade, tamburellando piano le dita sulla tavola, mentre le conversazioni
attorno al tavolo riprendevano, fra gruppi più piccoli. “Dove l’hai trovato?”
“Credo che continuino comunque a piacergli le ragazze, Wade” rincarò Howie, sghignazzando per la battuta.
“Sto scherzando Charlie, naturalmente” aggiunse con noncuranza.
“Naturalmente” rispose Charles, fingendosi sufficientemente divertito e bevendo l‘ennesimo bicchiere di gin.
Pregò che il suo viso non si chiazzasse di rosso. Normalmente avrebbe buttato in faccia a Howie tutte le cose
pessime che sapeva e vedeva su di lui, galleggianti tra i suoi pensieri. Ma non voleva dare spettacolo. C‘era Erik.
Howie guardò entrambi con i suoi lucidi occhi da insetto.
Charles ne sostenne lo sguardo con i suoi, cordiali ed azzurri. Di regola, era sempre andato d’accordo con
le altre persone. Non si era mai sentito particolarmente destato; forse non aveva molti veri e propri amici,
ma nessuno l’aveva mai fatto oggetto di disprezzo. A Oxford, ad Harvard e nel resto della sua vita in generale
si era sempre fatto una gradevole reputazione.
Tranne per alcune vistose eccezioni. Howie e i suoi amici del Beauvouir, rientravano tra quelle.
C’era qualche cosa di disgraziato, nell’aver trovato proprio loro, mentre l’unica cosa che avrebbe voluto fare
sarebbe stato passare una solita serata tranquilla con Erik, a parlare delle infinite possibilità che il contatto
con la CIA poteva offrire, delle dieci mosse con l’alfiere che avrebbero potuto attuare, di come Erik avrebbe
voluto affrontare Shaw.
“Mi dispiace ancora per la storia di Rose” disse Charles accennando un sorrisetto ironico e guardandolo con franchezza.
“Ma era molto carina, vero?”
Fu il turno di Howie per arrossire. Sheila di quella storia non ne sapeva niente, ma rise comunque in modo irritante,
tanto che Howie la fulminò con un’occhiataccia.
Era carina davvero, disse intanto Charles ad Erik. Avresti dovuto vedere quanto ha pianto Howie quando gli ha detto
che amava un altro
.
Erik prese un altro sorso di Gin&tonic, facendo sparire la sua smorfia divertita. Charles involontariamente sorrise,
contagiato dal divertimento di Erik e questo fece sbottare nuovamente Howie.
“Sono sicuro che somigliava a tua madre, Xavier” disse Howie, buttando giù un sorso di Wild Irish Rose.
Questo fece ridere tutti coloro che stavano ascoltando.
Charles inspirò appena. Poi si portò la mano alla tempia e in quell’istante Howie finì riverso sulla tavola,
sbattendo la testa  e appiattendo il centro tavola, rovesciando un gruppo di bottiglie.
Era stato colpito all’istante da un oggetto che Charles e gli altri a tavola ci misero un po’ ad identificare.
Quelli più lontani si alzarono con il loro bicchiere, assiepandosi accanto ad Howie che si rialzò imprecando,
facendo atterrare fragorosamente il cumulo di dolci e il pesante vassoio di metallo sul pavimento, maledicendo
Augusten il cameriere e la sua incapacità. Augusten sembrava anche più sconvolto di lui, non capendo.
Era molto lontano da Howie, molto lontano dal loro tavolo e non era colpa sua, voleva parlare con il direttore…
Mentre la gente accorreva e chi rideva, guardava e gli inservienti si avvicinavano, il responsabile di sala
con la mortificazione negli occhi, Charles si girò verso Erik, bevendo lentamente. Erik non lo degnò di uno sguardo,
impegnato a fissare malignamente Howie e la sua schiena imbrattata. Cadendo, Howie aveva allargato le braccia e
la sua costosa giacca da sera si era lacerata all’altezza delle spalle.
Tu sei completamente…
Erik si girò verso Charles, dandogli un colpetto e facendogli scostare la mano dalla tempia.
Sono solo un po’ più veloce di te.
Charles alzò un poco gli occhi al cielo. Saremmo dovuti andarcene prima.
Sai anche tu che non è vero.

Hai sopportato tutto questo solo per scoprire che avevo una casa nel Rhode Island?
Non esattamente per quello, pensò Erik, rimanendo impassibile.
Però è così che è andata.
Questo è vero.

Charles bevve un lungo sorso ancora. Forse era l’alcool che cominciava ad annebbiargli il cervello e  a dare
una veste nuova ai suoi pensieri, ma si ritrovò a credere di essere stato irrimediabilmente raggirato.
Come se il vero problema di quella serata umiliante e stressante, non fosse colpa di Howie e la sua megalomania,
o della risata irritante della sua ragazza, ma fossero Erik e le sue stranezze.
Lo sapeva che dopo un paio di giorni avrebbe cominciato a mal sopportarlo.
Erik percepì forse il suo fastidio, perché un solco sottile si disegnò sulla sua fronte e quando parlò ancora lo fece a
bassa voce, di modo che le imprecazioni di Howie contro Augusten distraessero tutti gli altri presenti, ma non Charles.
“Mi dispiace.”
Charles lo guardò di sottecchi. Non gli serviva leggere le ragioni del perché di quella stupida serata nella sua testa.
Gli bastava vedere l’espressione di Erik; era curiosa, per la prima volta. Erik voleva sapere almeno quanto lui cosa
c’era nella sua testa. Perché sì, forse erano davvero uguali e sì, voleva solo la conferma di quello…
Ma Charles non era affatto disposto a concederglielo, ora. Non con delle spiegazioni e nemmeno per vie traverse.
Si accorse di essere profondamente arrabbiato.
E allora fece l’unica cosa buona che aveva imparato da Howie, ignorando Erik. Continuò a bere.


______________________________

 

“Fai più piano.”
Charles pensò che fosse una buona idea. La seconda buona idea sarebbe stato chiederle di togliersi il vestito,
rendendo la cosa semplice… Ma a quanto sembrava, le fantasie perverse di Sheila Frazer, non si estendevano
al di là dei suoi lobi temporali.
Però baciava davvero bene. E solo il pensiero che baciasse Howie in quello stesso modo, era il motivo che
frenava Charles dal dirglielo.
C’era un vistoso banco di nebbia nella testa di Charles.  Non sapeva quando avesse iniziato a smettere di
considerare tutto ciò che lo circondava, quando l’unico obbiettivo era stato finire nei corridoi delle sale private,
verso la zona delle toilette. Sale che erano in linea perfetto stile con il resto del locale con la moquette blu notte,
i pannelli di legno lucido, le appliques dorate e appena ronzanti che disegnavano deboli coni di luce sul soffitto
basso e color crema. Era tutto così elegante e curato là dentro, tutto così artefatto che sembrava quasi un delitto
non approfittare del basso divano nel salottino, accanto al bagno delle signore.
Assieme alle luci basse e al bere e a tutto il resto…
In realtà, c’erano un numero infinito di ragioni per l’essere finito lì.
Charles cercava d’ignorarle, ridacchiando, mentre sussurrava a Sheila di spostarsi un po’, scendendo lungo il collo.
Era la dinamica che era poco chiara. Certo alla fine, riuscire a portare Sheila lontano da Howie non era stato
particolarmente difficile. Non ricordava di averle detto nemmeno particolarmente brillante. Forse voleva divertirsi
senza il suo fidanzato dai vestiti troppo stretti. Forse era stanca quanto lui di quella serata.
Forse aveva bevuto ed era eccitata quanto lui.
Le infilò una mano nella stretta scollatura, schiacciandosi su di lei. Sheila si lasciò andare ad un gemito, fin troppo
costruito. Un po’ come l’arredamento finto europeo. Cominciò a sospirare, alternando il tutto con mugolii stridenti
che provocarono a Charles un crescente fastidio. Avrebbe voluto dirle di smetterla, ma stava per farlo quando lei
allargò le gambe, supplicandole di tirarle su la gonna. Charles le sorrise, trionfante.
Era sempre così facile. Bastava dire solo quello che si volevano sentir dire.
Si stese su di lei, sentendo una delle sue gambe aggrapparsi alle sue, intrecciandole, sfregando i polpacci ancora
avvolti dai collant. Riprese a baciarla sul collo, seguendo il disegno della gola, e lei rovesciò il capo all’indietro,
schiacciando la piega ondulata dei capelli chiari. Le labbra lucide di rossetto, si aprirono un po’ di più, mentre
inclinava la testa verso la spalla. Mise una mano fra i capelli di Charles, tirandolo su di sé.
Charles si accorse di avere un ghigno ben poco appropriato in faccia. Cercò di non guardarla, fingendosi più
interessato ad accarezzarla, mentre lei allungava le mani verso la cintura dei suoi pantaloni.
“Che direbbe il tuo ragazzo di questo?” le sussurrò, scivolando un po’ a lato di lei, tirando una delle sue gambe
contro di sé. Lei lo attirò a sé, baciandolo esasperata. “Non è proprio il mio ragazzo” sospirò, rauca.
“Lui sembra convinto di sì” disse Charles. Era un po’ deluso. Se Sheila non era proprio la ragazza di Howie, 
questo diminuiva la soddisfazione di quello che stava per fare. Non sarebbe stata un’altra Rose, purtroppo.
La gonna del suo vestito si schiacciava tra loro come un voluminoso cuscino, ma non impedì a Charles di far
scivolare le mani sulle gambe di lei, oltre il bordo dei collant, cercando la pelle nuda delle cosce.
Si accorse che avrebbe potuto vomitare con facilità, adesso. La testa gli girava insopportabilmente e i mugolii
raschianti di Sheila sembravano una cantilena strozzata e registrata su vinile.
Faceva l’amore come se stesse leggendo un copione, rifletté Charles, sorprendendosi.
Amore era una scelta di termine strana, soprattutto per lui. Troppo, inutilmente retorica.
Charles non parlava così, i suoi pensieri neanche. La realtà era molto più banale e superficiale.
Voleva concludere con Sheila perché Howie comunque l’avrebbe scoperto, lo scopriva sempre.
Mezzo interessante per vendicarsi dell’orribile serata che stava passando…
Le baciò la spalla, abbassandole la spallina sottile dell‘abito con un gesto lento. La sua pelle aveva un
vago profumo di limone. Charles avrebbe trovato poetico anche questo, se non si fosse ricordato di un
paio di Gin Lemon che aveva bevuto mezz’ora prima, con Thomas e Sheila, dopo essere saliti al piano superiore,
per guardare dall’alto la pista da ballo e seguire una nuova sfuriata di Howie a distanza.
Era stato così concentrato a guardare Sheila in un certo modo, a fingersi divertito, a regalarle sorrisi gentili,
promettenti, a sfiorarla innocentemente col braccio mentre le proponeva insensati brindisi,
che si era dimenticato di lui.
Il suo viso già accaldato si colorò maggiormente di rosso. Si sentiva la pelle bollente e non perché stava baciando,
leccando, la pelle di Sheila, accarezzandola frettolosamente, stringendola più che poteva, ridendo ai suoi sussurri,
sentendo la sua lingua sulla guancia, le sue labbra sulle orecchie.
Non doveva vendicarsi di Howie, realizzò. Forse non ce l’aveva nemmeno davvero con Howie. Howie era fatto così,
Charles lo sapeva da tempo.
L’aveva capito già da sobrio, quasi sobrio, poi si era cancellato tutto ed era finito con Sheila che sembrava così felice,
alla prospettiva di stare lontana da Howie, che si era persino lasciata coinvolgere da Charles.
Charles avrebbe potuto sentirsi lusingato. Ma aveva visto i pensieri di Sheila al tavolo, aveva ascoltato la sua risata
troppo acuta e troppo gioiosa, le sue smorfie affettate e sapeva qual era la verità, che cosa Sheila avrebbe voluto,
a chi stava pensando adesso, facendo quasi finta.
Saperlo lo faceva arrabbiare e lo umiliava, ma era così…  così fuori di sé, frustrato e annoiato che non cercava di
passarci sopra, a costo di continuare a pensarci e tuttavia ignorarlo. Se non si fosse sentito così, forse avrebbe
avuto il coraggio di allacciarsi di nuovo i pantaloni e lasciarla lì, con la pettinatura scomposta e il suo vestito di
Chanel spiegazzato.
Ma era così ubriaco che solo la certezza dei punti fissi, il pensarci assiduamente, sembrava essere diventata
la cosa più giusta da fare. Non riusciva a impedirselo. Continuò a pensarci, non c’era soluzione. Sorrise.
Dov’era Erik?
Si ricordava solo che era al tavolo con lui. L’ultimo ricordo certo era lui che si scusava, ancora, impercettibilmente,
sparendo per prendere un altro drink. Avrebbe voluto sondare il locale, ma cosa avrebbe fatto se avesse scoperto
che se ne fosse andato? Non voleva sapere. Socchiuse gli occhi; le orecchie piene del sospiro di Sheila,
la bocca del suo alito caldo e dolce. Caramello.
Forse si era trovato una ragazza anche lui. Più bella di Sheila, senza dubbio. Con facilità.
Le persone belle cercavano le persone belle, solitamente. Sempre. E Charles lo trovava persino giusto,
accettabile. Sheila invece non aveva ricevuto più di un’occhiata distratta da Erik.
Nulla più che uno sguardo di sufficienza. Eppure lei lo stava pensando, anche con le mani di Charles addosso.
E Charles - per qualche grottesco e assurdo motivo, nemmeno a lui chiaro- era felice di questo. Così poteva ridere
delle fantasticherie di lei, lasciandosi andare al languore dell’eccitazione, mentre lei gemeva, seguendo le sue battute,
scena per scena. No. Non era la ragazza che avrebbe scelto Erik.
Probabilmente, se Erik ne aveva trovata una, l’aveva portata al Four Season. Nella sua comoda camera.
Dava l’idea di essere attento a quei dettagli; di certo, avrebbe agito molto diversamente di Charles, a cui era bastato
cercare una superficie piana e morbida nel raggio di venti metri. Per l’ennesima volta, sentì di stare sbagliando.
Le morse dolcemente il collo. La sentì ridere.
Aveva messo da parte quel modo di fare fin da quando Moira l’aveva contattato… Ma non era cresciuto affatto.
Era ancora lì, sdraiato scompostamente a cercare di tenere gli occhi aperti, la bocca umida di saliva non sua.
Forse Erik aveva pietà di lui. Se era così, lui aveva pietà di Erik, perché non capiva proprio niente.
Il mondo non era fatto solo da lui, gli altri non erano tasselli intercambiabili e sostituibili, cose temporanee,
destinate a sparire. Si accorse che ora le guance avevano cominciato a fargli male, e non perché stesse baciando
avidamente la bocca rossa di Sheila, sperando di lasciarle il segno dei denti, qualcosa di inequivocabile che Howie
avrebbe visto. Con Erik stava bene. Lo confondeva abbastanza da pensare che forse sì, aveva un amico.
Doveva essere per forza un amico importante, perché ci stava pensando così intensamente anche adesso,
con le mani di lei strette a lui.
Charles sorrise ancora. Sheila pensò che era per la sua abilità, per il suo fascino femminile. Si complimentò con lui,
gli disse che l’aveva trovato carino dal primo momento in cui Howie gliel’aveva presentato. Charles ghignò di quel
momento d’ingenuità perché sapeva che stava mentendo e perché in tutta franchezza,
era una cosa così ridicola da dire, con la mano di lei dentro i suoi pantaloni e la sua lingua dentro l’orecchio.
Forse Erik aveva ragione e alcune persone -esseri umani-, erano così scontati, prevedibili e grotteschi che era meglio
non averci a che fare. Chiuse gli occhi mentre Sheila lo toccava. Smise di stringerla sulla schiena e allontanò le
braccia da lei, accarezzando il velluto del divano, sospirando.
Howie non aveva poi questa grande fortuna. Sheila si muoveva troppo lentamente, per inerzia.
Era meccanica come i suoi gemiti. Orribile.
Faceva persino rimpiangere Marie McGowan, una matricola che aveva conosciuto ad Harvard.
Però si rese conto che non era così spiacevole. Anche se il rischio di vomitare gin, whiskey e forse persino il misto
di seltz e vodka, era sempre presente. Era grottesco, ma sopportabile.
Si ritrovò a immaginare Erik al suo posto, e dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Non ci riusciva.
Ma sapeva che probabilmente l’avrebbe uccisa con un pesante vassoio.
Non avrebbe portato una ragazza come Sheila a vedere un film sugli angeli sterminatori.
Non le avrebbe mai dato ragione. Non avrebbe mai cercato di essere gentile con Howie, solo perché pensava che
l’andare tutti d’accordo fosse il più alto dei pregi. Non si sarebbe rinchiuso in un salottino opprimente per
vendicarsi di un paio di battute e fastidi, facendosi una ragazza che, a conti fatti, stava benissimo attaccata
al braccio di Howie. Erik non l’avrebbe baciata. L’avrebbe osservata gelidamente. Forse nemmeno quello.
Non l’avrebbe vista.
E così aveva fatto.
Erik non vedeva nessuno. Doveva avere un livello di cecità così profondo che questo terrorizzava Charles.
Lo invidiava e ne era spaventato, perché se era così lui forse era invisibile. E al sicuro.
Anche se da quello che Erik cercava di dirgli, ogni tanto, senza mai dilungarsi troppo, era una paura infondata.
Charles aveva cominciato a chiamarlo amico mio, sporadicamente, come il principio di un vizio. Amico mio.
Quanto valevano quelle parole, agli occhi freddi di Erik? Molto poco, sospettò Charles. Non avrebbe mai avuto
il coraggio di guardarlo nella sua testa.
Charles girò appena il viso, quando Sheila sollevò il capo per baciarlo. Non chiuse nemmeno gli occhi.
“Sono tutta tua” disse, giocosa. Charles pensò che purtroppo, almeno fisicamente, era vero. Congiunse la  mano
alla sua e le sorrise. Le disse ancora un po’.
Le disse di continuare. Che gli piaceva, era così brava. Howie era così fortunato. Le avrebbe presto restituito il
favore, le sussurrò maliziosamente.
Intanto, pensò ad Erik che gli diceva che erano uguali.
Charles avrebbe voluto che fosse vero, accarezzando Sheila, persuadendola. Lei reclinò il capo, ancora.
La gola era un segmento bianco, in un corpo banale. Aveva un bel collo.
Avrebbe voluto che Erik fosse lì per poterglielo dire. Non sembrava un desiderio così strano. Certo, sembrava
un desiderio che potevano avere degli amanti, non degli amici… Ma forse i confini non erano poi così netti.
Erik non gli sarebbe mai venuto a noia, non gli avrebbe mai dato fastidio. Gli era sembrato, a quel tavolo,
dopo le sue insistenze, Erik fosse un po‘ troppo insopportabile, incomprensibile, lontano, egoista…
Ma gli mancava. Era da lunghi giorni che stava sempre con lui. Avrebbe voluto averlo lì con lui per
commentare la stravagante teatralità di Sheila. Avrebbe voluto dirgli che gli dispiaceva per tutto,
che l’unico motivo per cui non parlava di sé era perché non c’era niente di importante da dire.
Nessun mistero, niente di interessante.
Sheila s’inarcò appena mentre Charles si premeva contro di lei, scostandole i capelli dal viso, scivolando
sullo zigomo rotondo e artificialmente rosato. Lei cercò scherzosamente di mordergli le dita, dicendogli di
smetterla di giocare.Charles sentì che l’avrebbe volentieri lasciata lì.
Avrebbe tanto voluto ridere di lei con Erik.
Erik che non sarebbe mai andato con Sheila perché era troppo attraente, troppo superiore. Erik si sarebbe
trovato solo qualcuno di simile a sé, rifletté Charles, puntellandosi sulle spalle di Sheila, sollevandosi su di lei.
Tutto era troppo offuscato, agitato, incerto. Immaginò di lasciarla andare. Non l’avrebbe fatto, ne aveva bisogno.
Non necessariamente si Sheila, era solo quello che poteva dargli a interessarlo.
La baciò ancora, con urgenza, comprimendole la bocca con la sua. Lei quasi rise, deliziata, inappagata.
Se Erik voleva qualcuno di simile a sé stesso, avrebbe dovuto andare con Charles.
Fu un pensiero così veloce. Così veloce che il ritrovarsi raggelato e con gli occhi sbarrati, le mani strette
convulsamente alle spalle di lei, sembrò una conseguenza eccessiva.  Il suo bacino aderiva a quello di Sheila.
Quel contatto avrebbe dovuto bastare a guidare i suoi pensieri e i suoi gesti, ma era tutto così lontano adesso.
Non aveva senso.
Avrebbe voluto dare la colpa all’alcool. Ma non era del tutto così. Probabilmente era perché Erik era bello e
questo confondeva la sua capacità di giudizio. Charles non avrebbe voluto essere così sensibile, così capace di
rimanere affascinato da certe cose. Era tutta questione di geni. I geni di Erik l’avevano reso bello e lui,
Charles, era affascinato dalla bellezza. Perciò trovava attraente Erik. Era così semplice, una spiegazione
così primordiale e universale. Persino la differenza uomo-donna smetteva di esistere.
La bellezza non serviva forse a quello? Distruggeva le divisioni elementari creandone di nuove, più sottili,
aveva letto Charles da qualche parte. Filosofia.
Ed Erik era una persona. Che altro modo c’era per possedere una persona, rifletté, posando gli occhi su Sheila,
senza veramente vederla. Le mise solo una mano tra i capelli, stringendo appena, afferrandoli, sollevandole la testa.
Che altro modo c’era, per possedere una persona?
“Charles?” mormorò lei, un po’ sorpresa, un po‘ risentita da quell‘atteggiamento.
Inclinò il capo e la guardò. Aveva lasciato Erik per quella ragazza. Si era arrabbiato con lui, quando voleva tanto
essere suo amico. Aveva preferito lei. Per il suo troppo acceso e volgare rossetto, per la sua risata stordente e per il
fatto che andava a letto con Howie. Era carina però. E lui, soffocato da pensieri e sensazioni così contrastanti che
non capiva granché. Quello che pensava nella sua testa era così diverso da quello che stava facendo. Le mosse la testa
come se fosse una bambola, incuriosito.
“Charles…” Lei gli strinse il polso, allontanandogli il braccio, i suoi occhi un poco più seri.
“Che ne dici se concludiamo?” disse, sfoderando di nuovo il tono da gatta. “Prima o poi Howie…”
Charles le sorrise, gentilmente adesso, come per scusarsi. Le fece scivolare le mani sui fianchi, sollevandosi un poco.
Era in ginocchio sul divano adesso,
le gambe di lei strette saldamente a lui. Ancora di più, quando cercò di farlo avvicinare a sè. Charles si morse il labbro, indugiando, poi le chiese di spostarsi.
Gli bastò appena calcare un po’ la mano con la gentilezza, con la malizia, per convincerla. Sheila sorrise indulgente, lamentandosi appena e solo nella sua testa, quando scesa dal divano s’inginocchiò per terra, davanti a lui.
Charles dovette solo chiudere gli occhi. Vedere la piega di Sheila disfatta, le forcine allentate che avevano
provocato un crollo di onde bionde e il vestito abbassato sul petto, poteva anche essere squallidamente eccitante
ma non ne poteva più. Voleva solo godersi il momento e, almeno in quello, lei era brava.
Si morse le labbra, cercando di non lasciarsi sfuggire né un gemito, né un sospiro. L’ubriachezza, la frustrazione
e la rabbia si erano ormai così impossessate di lui, che ci mise un po’ a capire che stava pensando di nuovo ad Erik.
Aveva sempre pensato ad Erik e non era niente di normale.
Deviato, si disse. Allungò una mano, toccando la testa di Sheila fra le sue gambe e aprì gli occhi, rivolto al soffitto.
Non poteva essere vero.
Maledisse le associazioni di idee. Però si ritrovò solo a pensare al modo in cui Erik lo guardava mentre parlavano
e si ritrovò a socchiudere le labbra, il respiro rallentato. Pensò che aveva sbagliato.
Aveva sbagliato tutto. Aveva sbagliato a trovarlo -come se fosse stato possibile-. Aveva sbagliato a non farsi trascinare
dal mare e sparire, lasciandolo solo.
Aveva sbagliato a non dare retta a sua madre. Aveva sbagliato a non ignorare il suo singolare potere e a non
essere diventato amico di Howie, complimentandosi a vicenda per i seggi al Senato dei loro padri, più o meno biologici.
Era ubriaco e avrebbe voluto bere ancora, soffocando ogni cosa.
Non poteva  essere così semplice. Non si poteva cadere in un baratro così facilmente.
Stava succedendo solo perché era ubriaco, ubriaco di gin, rabbia e smarrimento.
Ed era una gran brutta cosa, provare tutte quelle cose assieme.
Una cosa deplorevole, Charles. Deplorevole, ricordò.
Non poteva essere vero. Lui era una persona normale e certe cose non aveva il diritto di pensarle.
Era lui che pensava di essere in qualche modo simile ad Erik. Era lui che gliel’aveva detto e gliel’aveva fatto capire.
E non per quello a cui Charles pensava ora, cercando di ricordare i dettagli di Erik, il modo in cui stringeva il bicchiere, quell’impercettibile ironia che aveva sempre nello sguardo. Quel sorriso affilato e inquietante.
Quello che lo divertiva, che lo interessava.
Non conosceva Erik come un amico. Non si era relazionato così, rifletté, gli occhi puntati al soffitto chiaro.
Lo aveva conosciuto perché lo giudicava uguale a lui e ne subiva il fascino. L’aveva voluto conoscere come le cose che
si volevano avere per sé, per trovare un modo per non farle andare via.
Non era niente di grave, non poteva esserlo, vero?
Era qualcosa d’ingenuo, ma lo faceva sentire così colpevole, perché a quello si mischiavano altri pensieri, che non
avevano proprio nulla di normale, di coerente.
Quelle spiegazioni non spiegavano perché avrebbe voluto stare con Erik, in un modo che ricordava parecchio quello
in cui ora era impegnata Sheila. Anzi, di più. Riusciva a immaginarlo con facilità preoccupante e non riusciva a
porre nessun tipo di resistenza. E non solo quello, rifletté, turbato e appagato dal piacere crescente.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa. Si sarebbe lasciato fare qualsiasi cosa.
Avrebbe solo voluto avere Erik, che fosse con Erik. Ma non era giusto che fosse così e lui si sentiva sempre peggio,
ma non riusciva a scacciare quei pensieri dalla testa. Non voleva niente se non trattenerli.
Così chiuse gli occhi.
Pensarci adesso, non poteva costituire alcun problema. Si sentì improvvisamente calmo, rilassato.
Pensava ad Erik, era come se fosse lì. E Charles, per quanto fosse turbato dalla sua stessa immaginazione,
continuò a pensare. Era qualcosa che gli riusciva così bene.

 

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“Erik.”
Erik si girò piano, con circospezione. Sembrava essere qualcuno a cui piaceva poco essere sorpreso alle spalle.
Charles sapeva che era esattamente così. Ma non sapeva perché Erik fosse uscito, fuori dal Victorian, al riparo
sotto la tettoia e a fissare la nebbia umida e fosca che s’era impossessata delle strade e del cielo di Washington.
Avrebbe potuto leggerglielo nella testa.
Erik lo guardò a lungo, come se lo stesse valutando. Poi parlò.
“Sei orribile.”
Charles si sentì sbiancare. Si aspettava di trovarlo arrabbiato, ma non al punto da…
“Volevo dire, hai un aspetto orribile” Erik lo squadrò ancora, un po‘ preoccupato. “Mi sono espresso male.”
Charles si sentì insolitamente sollevato. Se ora aveva un aspetto orribile, ci sarebbe stato sicuramente del
tempo per migliorarsi. Si sentiva gli occhi febbricitanti, lucidi, e i capelli e i vestiti appiccicosi.
Con tutta probabilità, aveva macchie di gin sulla giacca e sui pantaloni. E la faccia arrossata, per il caldo della
sala, per la serata e ora per il freddo della notte. I vestiti di Erik erano appena spiegazzati, la sua faccia recava
appena qualche segno di stanchezza e di certo, il mondo non gli appariva attraverso un filtro opaco e vorticante.
Si accorse di stare dondolando sul posto e di stare deglutendo un po’ troppo spesso. Girò i suoi occhi vividi verso
Erik e lui lo afferrò per il gomito, trascinandolo lontano dall’ingresso del Victorian.
Charles strizzò appena gli occhi, soffocando un conato di vomito, barcollando. Non guardò Erik, ma il sapere che
- adesso, adesso dopo un tempo indefinitamente lungo- era a due passi da lui, lo faceva anche ridere.
Si appoggiò al muro a cui si erano accostati, sentendo Erik che gli lasciava il braccio. Non vomitò, ma il mondo
attorno a lui girava comunque troppo veloce e si sentiva la gola così stretta e un persistente senso di malessere
e insoddisfazione, che gli impediva di ritrovare l’autocontrollo.
Avrebbe dovuto scoparsi la cara Sheila, realizzò. Perché non aveva concluso? Almeno si sarebbe sfogato.
Anche se ha giudicare da come stava adesso, sarebbe stata una mossa avventata; aveva seriamente rischiato
di vomitare sul suo Chanel, rovinandole la festa. Forse un po’ di più di quanto non aveva fatto, macchiandole
qualcos’altro. Si pentiva di averla solo baciata, di non averci fatto altro, a parte lasciare ogni cosa a lei,
quando avrebbe tanto voluto solo qualcosa di più. Se fosse stato al gioco, se fosse stato sé stesso, sapeva che avrebbe
pensato ancora a Sheila, non a chi e cosa voleva davvero.
E invece se ne era stato lontano. La ragazza era stata solo un mezzo.
Se Erik sapeva, non vedeva anche quello?
Non vedeva la vergogna sulla sua faccia?
Era ubriaco, era fuori città e l’unica cosa che era riuscito a combinare, era stato ridurre il mondo ad un universo
languido e vorticante, sprecando il suo tempo con persone che non sopportava, solo perché Erik ne aveva espresso
il desiderio. Era lui ad averlo trascinato in quella situazione, obbligandolo a comportarsi così, no? 
Avrebbe avuto anche un senso. E poi Erik era solo rimasto a guardare.
Se Erik si fosse comportato come lui, se avesse cercato di adeguarsi ed evitare giochetti cerebrali; evitare
stratagemmi per conoscerlo meglio, per cominciare. Charles era così stanco di parlare, di indovinare le cose.
Poteva far finta che fosse normale, per una sera? Quasi un essere umano…
Di certo, la festa l’avevano comunque rovinata a Howie. Si pentiva di non essere un poco malvagio, un poco subdolo.
Avrebbe ridotto Howie e tutti gli altri a larve dementi. Li aveva sempre sopportati solo perché voleva dimostrare
a sé stesso che ogni tipo di convivenza era possibile.
E questa era la sua ricompensa.
“Stai meglio?”
“Oh. Ehi.” Charles si lasciò sfuggire un singhiozzo. Voleva dirgli che in realtà non era così ubriaco.
Che sì, stava meglio… ma quel problema, quella legge morale di non dover mentire ad Erik, sembrava pesare molto sulla coscienza fradicia di Charles. Stava male. Era stanco e arrabbiato, e in parte ancora con Erik.
No, si corresse. Non era arrabbiato. Lo odiava, ne era quasi sicuro. Come faceva ad essere così tranquillo,
a guardarlo come se fosse preoccupato per lui?
Non vedeva che era così disgustosamente chiaro? Fingeva?
Charles tirò ancora su col naso, aveva la gola inacidita. Era profondamente desolato e aveva solo l’intenso desiderio
di tornare di gran carriera a Richmond, lontano da quella strada, con quella sporadica pioggia, fine come spilli che
gli bagnava la testa, i capelli, le mani.
Quando aveva cominciato a piovere?
“Faccio chiamare un taxi?” disse la voce di Erik, da un punto molto lontano alla sua destra. Charles scosse la testa.
La mano che teneva sul muro scivolò appena, raschiando sul cemento.
“Era un sì?”
“N-No” Charles si raddrizzò. Cercò di scacciare la sensazione di occlusione alla gola tossendo, ma riuscì solo a farsi
contrarre le viscere e costringersi a cercare di nuovo il sostegno del muro. “No” ripeté, inspirando profondamente.
Aveva la vaga sensazione di avere le lacrime gli occhi e sapeva di doversi soffiare il naso.
La sera sembrava insolitamente movimentata e vorticante; appoggiò la fronte contro al muro, cercando di fermarla, inchiodarla. Nasconderla.
“Charles.”
Lo aveva chiamato? Perché?
Non poteva stare zitto, lasciarlo pensare?
“Charles? Aspettami qui.”
Mormorò qualcosa, qualcosa che voleva solo somigliare ad un vattene via. Fece solo uno strano verso smorzato.
A metà strada tra un insulto e una vaga richiesta. Erik non lo capì.
“Charles. Mi aspetti qui?”
Riuscendo a voltarsi, si ritrovò Erik davanti a pochi passi. Dall’ingresso del Victorian, poco lontano, era uscito un
gruppetto di persone. Ridevano e parlavano così forte che quello che disse Erik, non lo sentì. I suoni rimbombavano
così forte nella sua testa e l’unica cosa che sentiva distintamente, era il rumore della pioggia fine sull’asfalto.
Le luci erano bianche macchie liquide e l’asfalto un profondo fiume nero. Avrebbe avuto paura ad attraversare
la strada, pensava, la corrente l’avrebbe trascinato via.
“Non so nuotare” mormorò, gli occhi fissi sulla strada nera.
“Cosa?”
Charles lo guardò. Non vedeva chiaramente il viso di Erik, con le ombre a contenderselo.
Si sentì stringere per la spalla, però. Quando realizzò che era stato lui, indietreggiò di scatto, finendo con le spalle
al muro, ancora.
Erik, quasi per riflesso, indietreggiò lentamente a sua volta e Charles, grazie alle luci baluginanti dei lampioni
riuscì a vederlo meglio. Aveva i capelli bagnati. Logico, pioveva. Solo che gli erano scivolati su un occhio, quasi.
Charles inspirò col naso e deglutì. Aveva la sensazione di aver ballato tutta la sera e di ritrovarsi di colpo paralizzato.
Non voleva che Erik lo toccasse di nuovo. Era … Era disgustoso, provò a pensare. Non era vero, lo sapeva, ma lo
confortava fare finta di crederci.
Almeno per adesso.
“Non chiamare niente. Nessuno” disse piano, abbassando lo sguardo. Si allontanò piano dal muro. Era il peggior
venerdì sera della sua vita, pensò meravigliandosi. Era già venerdì? Da quanto tempo doveva essere a Richmond
e invece era ancora lì? Non era frustrante? Che incapace.
“Vado a piedi” disse in tono piatto. Fino a Richmond, pensò. Vado a piedi fino a Richmond e non mi fermo.
“Charles…”
“Non ho detto che debba farlo anche tu.”
Iniziò a sorridere, finché non riuscì più a trattenersi, battendosi le mani sulle gambe e piegandosi. Rise così forte
che un paio di teste all’ingresso si girarono.
Immaginò Erik che gli diceva di non dare spettacolo; sembrava proprio il tipo di frase che avrebbe potuto dirgli.
Però non gli disse nulla. Ovvio, faceva sempre il contrario di quello che pensava Charles. Questo riaccese il fastidio
che provava verso di lui. Come se quello che provava già non fosse abbastanza.
“Che cosa vuoi fare?” domandò Erik. Non sembrava spazientito, né offeso dal suo comportamento.
Sembrava solo gentile.
Ancora scosso dai sussulti, Charles fece un paio di passi in avanti, guardando lungo la via, ignorando l‘asfalto
che continuava a scorrere. Quella nebbia acquosa faceva vedere molto poco. Da che direzione erano arrivati?
Non lo ricordava.
“Torno in hotel” disse piano, passandosi una mano fra i capelli umidi, sperando che Erik non intuisse il suo
piano di correre a Richmond. Avrebbe voluto dirglielo solo per vedere la faccia che avrebbe fatto.
“Charles, prendiamo un taxi.”
Mordendosi il labbro inferiore, Charles lo guardò a lungo. Avrebbe voluto dirgli di lasciarlo in pace, e quasi
si sentiva soffocare dal bisogno di dirglielo. Voleva dirgli che lo sapeva che era tutta una menzogna, che non
poteva credere che fosse venuto in mente solo a lui. Ma rimase zitto e si girò, allontanandosi in direzione
opposta ad Erik. Camminando davvero lentamente, nonostante si fosse convinto di essere arrivato abbastanza
lontano, sentì presto Erik sopraggiungere dietro di lui. Camminò fin quasi ad affiancarlo, mantenendosi
sempre però ad una certa distanza.
“Parliamo un momento?” chiese Erik con calma.
Charles, a testa bassa, sospirò, aggrottando la fronte, chiudendo le mani a pugno dentro le tasche. “No.”
Camminarono per più di quattro isolati. In silenzio, incontrando qualche figura sporadica, finendo illuminati
dai fanali di qualche auto, seguendo i cerchi di luce dei lampioni.
Charles non ricordava la strada, ma pian piano, Erik si era spostato impercettibilmente in avanti, cosicché ora
era Charles a seguire Erik, e non il contrario. La fredda calma di Erik somigliava incredibilmente all’indifferenza
della pioggia, che ben presto smise di cadere. Rimasero solo l’asfalto bagnato e grandi pozze lucide.
La strada smise di essere un fiume e tornò lentamente solo una strada.
Con la stessa lentezza, Charles si tranquillizzò e ben presto, cominciò ad essere annoiato dal silenzio. Forse non
odiava nemmeno Erik poi così tanto. Non abbastanza da sopprimere le parole. Poteva concedergli una conversazione.
“La prossima volta vada per gli angeli sterminatori.”
Lo sbuffo divertito di Erik fu il primo suono vivo che sentì Charles. “E’ solo un’allegoria.”
“La prossima volta ti darò ragione.”
“Forse” rispose. “Ma credo che nemmeno quella fosse la scelta giusta.”
Charles alzò un po’ più la testa. Provava il desiderio di dirgli di stare zitto, di smetterla di parlare in quel modo
che sottolineava una fin troppa esclusività. Perché gli piaceva che parlasse così.
Ora Erik era giusto un passo davanti a lui. Rallentò appena, così Charles riuscì a metterglisi alla stessa altezza,
camminando al suo fianco. Era ancora ubriaco e lo sarebbe stato ancora per un pezzo, a giudicare dal reticolo
delle fessure nel marciapiede che si dipanava davanti a lui, come se avessero un senso. Però la rabbia acuta
che aveva provato si era quasi dissolta; era solo ancora un po’ a disagio, contrastato, dispiaciuto e stranamente
euforico. Era tutto finito, realizzò. Era tutto finito.
C’erano solo lui ed Erik adesso. Era tornato tutto normale.
Bastava non pensare troppo a quello a cui aveva pensato mentre era con Sheila. Fare finta di niente.
Il Four Season non poteva essere così lontano e lui voleva solo dormire. Il posto migliore per seppellire le cose
era tra le pieghe di un cuscino. Avrebbe dimenticato tutto se avesse dormito, ne era sicuro.
Certe cose si dimenticano. Però aveva anche voglia di parlare, parlare con Erik. Anche se prima voleva l’opposto.
La realtà stava cambiando troppo velocemente, ora voleva tutt’altro. Fargli capire che gli dispiaceva, se si erano divisi.
Che gli dispiaceva, se era così.
Che gli dispiaceva se conosceva gente come Howie. A cui aveva rischiato di somigliare.
“Sono disgustosi.”
Erik si girò appena verso di lui, poi tornò a guardare la strada. “Non parlare così.”
“Perché?”
“Non è da te, Charles” rispose Erik tranquillo.
“Vuoi che ti dica che erano simpatici?”
Erik sorrise. “Ecco. Solo un po‘ di sforzo.”
“Mi dispiace se…”
“Perché?”
“Perché…”
Erik alzò gli occhi al cielo, fingendo una divertita disperazione. “Perché li conosci?”
Charles rimase in silenzio. In realtà, sentiva di doversi dispiacersi di un sacco di cose. Forse di nessuna.
“L’importante è aver fatto una buona impressione” aggiunse Erik divertito.
Charles soffocò un colpo di tosse, strizzando appena gli occhi. “Secondo te quella era una buona impressione?”
“Ho detto buona. Non migliore” Erik lo stava guardando ancora. “Sei … Vuoi ancora parlare?”
“Non sto così male” mentì Charles. Parlare lo aiutava. Se parlava pensava alle risposte, non a quello che in
realtà aveva per la testa. Non voleva cadesse il silenzio, era una prospettiva spaventosa.
“Tuo padre era davvero un industriale?”
“Mio padre era un farmacista, Charles.”
Charles accennò un sorriso debole. “Povero Howie. Ingannato così.”
Erik aggrottò le sopracciglia. Anche lui aveva un sorriso appena accennato sulle labbra.
“Tuo padre, invece?” gli chiese piano, dopo un po‘.
“Ah. No.” Charles s‘irrigidì appena, guardando fisso la strada ondeggiante davanti a sé.
“Volevo dire, quello di cui parla Howie non è mio padre. E’ il mio patrigno.”
Al suo fianco, Erik annuì lentamente. Non fece nessuna domanda a riguardo. Sembrò stranamente intuire il
disagio di Charles, ma per la prima volta fu lui stesso a desiderare che quell’argomento non cadesse nel vuoto.
“Avrebbe dovuto essere con il padre di Howie al Senato. Ma non ci è mai arrivato.”
Erik si girò ancora verso di lui. La sua curiosità ebbe la meglio. “Cos’è successo?”
“Non è poi così importante” disse Charles sospirando. La voglia di affrontare l’argomento gli era già passata.
Gli venne un vago giramento di testa e si sentì spingere in avanti. In realtà stava solo barcollando.
O era inciampato? Cozzò solo contro Erik e il suo soprabito scuro. Tenendolo per il gomito, Erik lo rimise dritto.
Charles cercò di guardarlo negli occhi, ma quelli di Erik si erano già spostati altrove.
Charles provava qualcosa di molto simile al soffocare. Forse aveva perso l’uso della parola, perché la sua mente
era nel panico. I ricordi della serata si sovrapponevano in modo confuso e c’era solo Erik, solo Erik come punto
comune. E per qualche ragione ricordò il soffitto della stanza in cui aveva portato Sheila. Ma c’era Erik.
Doveva essere così lampante nei suoi occhi che era impossibile non accorgersene. Era qualcosa di molto simile
all’elettricità, al pizzicare di infiniti spilli sulla pelle, ma non pioveva più. Tutto era sempre più chiaro.
Adesso che gli era così vicino.
Poi Erik riprese a camminare.
“Fa’ più attenzione.”
“Che hai sulla manica?”
“Cosa?” Erik si bloccò, guardandosi distrattamente il braccio, fasciato dalla stoffa scura.
“Non lì. Sul polso.”
Charles gli indicò il polsino della camicia bianca. Era vero. C’era un piccolo arco scuro irregolare, quasi
uno schizzo. Erik lo lasciò andare e si mise le mani in tasca, cautamente sulla difensiva.
“Probabilmente quando il tuo amico ha rovesciato il vassoio.”
Charles sorrise involontariamente, mordendosi appena il labbro inferiore. “Erik.”
Erik allora lo guardò, sfoderando il suo miglior sorriso da squalo.
“Sapevo che si sarebbe rotto la giacca” esclamò. O almeno, quello che disse somigliò vagamente ad un’
esclamazione controllata. Parlò giusto a voce un poco più alta del normale; il genere di esclamazione
che sembrava appropriata per Erik. Charles rise, eccessivamente forse, dandogli una spallata, fingendo
di barcollare ancora. Erik non sembrò infastidirsi; era troppo soddisfatto di sé stesso.
“Avevo pensato anche al lampadario” disse, guardandosi le mani. “O al suo fermacravatta.”
“Mio dio, Erik. Che gli avresti fatto con un fermacravatta?”
Charles appoggiò la fronte alla sua spalla, soffocando le risate che lo facevano sussultare contro di lui.
Si allontanò in fretta però, nonostante Erik non gli desse alcun segno di fastidio, anzi. Era stranamente
esaltato, mentre raccontava tutto quello che aveva pensato di far pagare a Howie, descrivendogli quanto
avesse trovato insopportabili le facce di Wade, e Helder, e Gibson e gli altri… Chiese a Charles se le scuole
private americane educassero in quel modo le persone, seriamente preoccupato, scusandosi con Charles
più volte. Chiese se aveva altre case oltre che nel Rhode Island. Charles gli spiegò che sì, era così.
Spesso ci era andato in vacanza. Al freddo? Sì, al freddo. Anche dettagli. Cosmopolitan, Francis, Bruges.
Chiese che cosa Charles aveva fatto a Rose e Howie, e perché Howie sembrava detestarlo così tanto.
Faceva domande dirette e precise, spesso sconnesse, non collegate tra loro e forse, fu proprio questo a
spingere Charles a rispondere.  
L’alcool gli rendeva la testa leggera e gli mostrava ogni risposta giusta rapidamente, nella forma migliore,
facendola praticamente galleggiare davanti. Non doveva nemmeno scegliere le parole.
Gli raccontò ogni cosa. Spiegò che con Howie tutto si riduceva sempre ai soldi, alle ragazze e al prestigio,
alla competitività. Come lui aveva convinto Rose a scappare ad Aspen, a lasciarlo. Era davvero così bella.
Che sì, aveva anche una casa più al Nord, vicino al mare, ed era la sua preferita, perché era più piccola e
sembrava quasi una villa dell’Europa Settentrionale. Spiegò che aveva sempre detestato le scuole private.
L’unico motivo che l’aveva spinto a continuare gli studi ed ottenere la laurea era il voler scoprire cos’era,
cos‘era quella dote che gli permetteva di essere sempre un passo avanti agli altri. Essere il migliore di tutti.
Erik a quelle parole si fermò e gli sorrise. Per uno spaventoso attimo, Charles si rese conto di cosa era successo.
Sentì la propria voce come una cantilena, ripetere ogni cosa, dire ogni cosa ad Erik. Temeva di impazzire;
era stato così avventato, aveva detto qualcosa di sbagliato? Poi però, arrivò subito il sollievo.
Aveva fatto bene. Era quello che Erik voleva, fin dal principio: voleva sapere solo qualcosa di lui.
Voleva solo che gli parlasse, niente di più semplice…
Era stato così terrorizzante? No.
Erik non gli parlava mai. Preferiva lo facesse lui.  A Charles non sembrava più così sbagliato. Solo un po’ strano,
solo un po‘ troppo altruista. Egoista.
Lo confondeva.
Ma Erik sorrideva. Andava tutto bene. Sorrise a sua volta.
“E perché te ne sei andato?” domandò ancora Erik, abbassando appena le palpebre, come se lo stesse studiando.
“Prima, intendo.”
“Non me ne sono andato” replicò Charles sollevando le sopracciglia, sorpreso. “Dove?”
Lo fissò in silenzio per un lungo momento, smettendo di camminare. Charles si bloccò a sua volta, sostenendo
il suo sguardo. Poteva farla semplice; poteva leggergli nella testa e vedere cosa sapeva e cosa voleva sapere Erik,
e decidere di conseguenza. O mentirgli. Ma non erano le soluzioni giuste.
“Potrei fare la stessa domanda a te.”
Erik inclinò il capo. “Giusto.”
Il viso di Erik fu appena attraversato da un’ombra. Charles fece finta di non vederla, preferendo il silenzio.
 Ricominciò a camminare, vacillando appena. La nebbia, quella vera, non quella che gli offuscava i sensi,
si era diradata. Camminava dentro un sogno distorto quasi, ma riconosceva la zona, il viale più ampio,
scintillante di luci. L’obelisco a Washington che tagliava il cielo scuro, lontano, ma non poi così tanto…
Il Four Season era vicino.
Proseguì. Ora Erik a seguire lui.

 

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Charles aveva di nuovo cambiato umore, spingendo la grande porta girevole dell’hotel. Non guardò nei
numerosispecchi della grande hall, temendo di incontrare il suo orribile aspetto; preferì far scricchiolare
le suole sul pavimento lucido. Era agitato e non aveva affatto sonno. Era euforico. Sarebbe stato pronto ad
uscire di nuovo e bere ancora, se Erik glielo avesse chiesto. Tornare al Lincoln Memorial, pensò. Tornare
al Memorial e bere Cointreau aspettando il sorgere del sole.
L’idea lo fulminò. Era la migliore che avesse mai avuto.
Era anche una sciocchezza improponibile, e qualcosa dentro di lui lottava per farglielo capire, ma era più
semplice ignorare quella considerazione. Per una sera poteva fare quello che voleva. Cominciò a strattonarlo,
indicandogli di nuovo l’ingresso forsennatamente ma senza parlare. Come se fosse un segreto, una cosa che
dovevano sapere e fare solo loro due. Quando glielo suggerì nella mente, Erik lo guardò con divertito
compatimento, scuotendo la testa. Mentre si avvicinavano alla reception, diede un altro spintone ad Erik.
Questa volta, sperò, abbastanza evidente. Aveva solo voglia di farlo.
Non voleva cercare nessun perché.
Mentre l’umano alla reception -cominciava a capire come ragionasse Erik, pensò Charles sogghignando-
cercava le loro chiavi alla parete, Erik gli restituì la spinta. Troppo forte, pensò. Charles barcollò vistosamente,
tentando una finta e cercando contemporaneamente di farlo cadere.
Ridendo silenziosamente, Erik cercò di prenderlo per il collo e lo mollò solo perché il concierge si era finalmente
voltato verso di loro, allungando le chiavi sul bancone lucido, in silenzio. Erik le afferrò con un rapido grazie.
Charles rimase educatamente concentrato a fissare l’affresco finto rinascimentale sul soffitto.
Solo quando arrivarono nel corridoio che portava agli ascensori, provò di nuovo a farlo cadere, a colpirlo,
cercando il modo migliore per assalirlo, come se fosse uno scontro vero, trattenendo le risate, cercando di
bloccargli le braccia. Dopo una breve occhiata attorno, Erik chinandosi lo caricò e lo buttò su una delle file
di poltrone, arretrando e ridendo ancora.
“Adorabile, Charles.”
Se lo lasciò sfuggire senza allarmarsi, continuando a sorridergli. Scosse appena la testa.
“Cosa?” chiese Charles, mettendosi seduto compostamente e ricacciando indietro i capelli con noncuranza.
“Il tuo essere adulto.”
Charles tirò un po’ indietro la testa come aveva visto fare a Sheila e socchiuse gli occhi, ridendo sommessamente,
gli occhi lucidi. Come faceva Erik a non capirlo? A dire cose del genere e fare finta di niente? Adorabile.
Nessuno parla così, non davvero. Giusto? Chiedeva ancora, quella parte così ubriaca e sicura di lui che continuava
a prendere il posto della sua coscienza razionale. Quella parte di lui che gli diceva come sarebbe finita,
se avesse continuato a comportarsi così, rendendola una prospettiva disperatamente allettante.
Erik si avvicinò, facendo tintinnare le due chiavi. Charles, guardandolo seriamente adesso, finse di vedere
qualcosa alle sue spalle. Erik fece per girarsi e Charles allungò una mano, sfilandogliele entrambe dalle dita.
Erik alzò gli occhi al cielo. “Charles.”
“Dimmi.”
Si lasciò scivolare scompostamente sulla poltrona, giocherellando con le chiavi e sorridendogli beffardo,
inclinando un po‘ la testa, sentendosi stupido, fuori luogo, diverso da sé stesso. Non si comportava così,
era qualcosa di troppo difficile. Non ci era abituato. Sospirò e poi rise ancora, passandosi la lingua sulle
labbra. L’ambiguità aveva lo stesso sapore del whiskey mischiato al gin e a qualcosa di dolce.
Non era così cattivo.
Fingendosi immancabilmente frustrato, gli occhi di Erik tornarono di nuovo su di lui. Charles non credeva
lo fosse per davvero. Erik si preoccupava e si dispiaceva. Erano dettagli di cui poteva approfittare, per un po‘.
Ne ricambiò il suo sguardo, sorridendo finché lui non fu costretto a fare altrettanto.
Erik si sentì costretto. Gli occhi azzurri troppo azzurri per sembrare veri. Eppure lo erano.
Non c’era alcun dubbio. Azzurri. Potevano far pensare al cielo, all’acqua… ma l’azzurro degli occhi di Charles
non era né frutto della rifrazione, né di un liquido che di logica era trasparente.
Vividi, come il riflesso di uno specchio. Non c’erano regole genetiche per spiegare dettagli del genere.
Charles sorrideva, mordendosi il labbro inferiore. Agitò appena le chiavi, poi se le infilò svelto in tasca.
“Le posso riprendere quando voglio.”
“Non ne dubito” rispose Charles, alzandosi lentamente.
Erik non si spostò subito. Vide che Charles si stava mordendo la lingua e lo fissava di nuovo, come se non
aspettasse altro che dirgli qualcosa. Qualche sciocchezza, senza dubbio, era ubriaco.
Aspettava solo il momento di sorprenderlo ancora.
“Andiamo?” chiese, indicando con un cenno della testa il fondo del corridoio.
Charles sembrò riscuotersi solo dopo un lungo momento, la mano destra in tasca, come se temesse sul serio
che Erik gli avrebbe sottratto le sue chiavi, così, impunemente.
“Andiamo.”
Non parlarono per tutto il breve tragitto. Charles era di nuovo scivolato nel silenzio apatico e negli sguardi
sfuggenti al pavimento. Nel silenzio, Erik si rese conto di essere molto stanco, così tanto che persino
addormentarsi gli sarebbe costato fatica. Che peccato. Ultimamente, credeva che tutti i suoi problemi
di sonno si fossero risolti.
Non voleva riprendere a sprecare le ore guardando i soffitti, cercando le forme delle ombre.
Arrivarono al nono piano, seguendo la ormai familiare strada che portava alle camere 200-239.
Erik preferiva prendere le camere vicine di numero, per comodità, aveva spiegato a Charles.
Non aveva specificato quali fossero queste comodità. Charles non gliele aveva chieste. Effettivamente,
nemmeno lui sapeva quali fossero. Era una banalità come un’altra da dire.
Anche se questa volta non gli era andata benissimo. Avevano più di dieci numeri di distanza.
Passarono davanti alla 203, la camera di Erik, e lui continuò a camminare.
Charles lo guardò appena, smarrito.
“Ti accompagno” disse Erik a voce bassa, rallentando il passo. Charles abbassò un poco le palpebre,
rassegnato. Arrivarono quasi davanti alla 221, quando Erik gli chiese se stava meglio.
“Sì e no” replicò Charles stancamente, fermandosi.  Guardò in direzione della sua porta,
poi ancora Erik. Aveva cercato di non pensarci, cominciò a dirsi, sentendo la pelle formicolare e farsi rossa.
Si era impegnato, non è vero? Lo aveva fatto, era stato bravo.
Non era così? Ci aveva provato a non immaginarlo più.
E sembrava essere tornato tutto normale, ma man mano che si erano avvicinati al Four Season,
tutto ciò che Charles aveva realizzato nel corso della serata, aveva ripreso a comporsi davanti ai
suoi occhi, fino a smarrirlo.
Adesso era in un limbo così incerto che riusciva solo a vedere il colore sanguigno e pulsante della
moquette. Cosa doveva dire? Cosa doveva fare?
Che importava, se ora era come se non avesse metabolizzato niente?
Era colpa di Sheila. Se fosse stata più brava, se fosse stata più seducente. Meno drammatica, meno teatrale.
Più vera. Era la verità che cercava Charles, la risposta. Le cose chiare, certe, giuste. Normali.
Quello che realizzava invece, mentre i suoi passi su quel percorso color sangue diventavano solo più lenti,
non lo era. Era lontano dalla sincerità, dalle cose corrette che andavano fatte.
Era una considerazione troppo abbagliante, non riusciva a vederla bene. Poteva essere falsa e ingannarlo.
Amico mio.
La soluzione era semplice. Dargli le sue chiavi, salutarlo e andare a dormire.
Ma non era quello che voleva fare. C’era un’altra possibilità che a cui riusciva
pensare senza riflettere. Quella che lo faceva comportare così. Non voleva conviverci di nascosto,
non voleva ritrovarsi nella posizione di mentirgli, di fingere.
Era così che cominciava? Non poteva essere vero. Teneva gli occhi sbarrati e si sentiva la faccia più scarlatta
della moquette. E continuava a pensarci.
Lui non era così. Era solo perché Erik era attraente eppure gli somigliava e perché era ubriaco, no?
Era così. Doveva esserlo. Charles non era così.
E tuttavia non sarebbe riuscito a far finta di niente. Tanto più ora che Erik era al suo fianco.
E ci aveva pensato metà della sera, arrabbiato, furioso, annoiato e tutto il resto. Aveva sempre voluto passare
il tempo con lui.
Era spaventoso perché era tutto vero e avrebbe solo voluto toccarlo. Era così facile, così spontaneo da credere.
Non sapeva solo bene come fare. L’alcool gli forniva un’indefinita serie di possibilità. Lo affascinavano.
Chiamalo, diceva quel liquido confidente che gli scorreva in corpo. Aveva la voce uguale alla sua, pensò Charles
sorridendo, solo più dolce e rassicurante. Seducente. La voce della ragione che non si nascondeva, dietro porte
o giustificazioni. Era piacevole da sentire. Lo faceva sentire disponibile, estroverso, sicuro di sé.
Non gli faceva vedere che male c’era a provarci; nascondeva e sfumava le conseguenze.
Era la voce che gli aveva detto di comportarsi in quel modo nella hall, di guardare in quel modo Erik, con le
palpebre abbassate e gli occhi fissi su di lui.
Parlava sotto forma di pensieri istantanei. Veloci, quasi veritieri.
Amico mio. Anche Erik sa che è solo un lieve eufemismo, lo è diventato. Fai scivolare la mano nella sua, non è difficile.
Lui capirà. Lo sa. Prendigli il polso, fingi di porgergli le chiavi. E’ quello che vuole anche lui. Fingi.
La bellezza cerca bellezza, ma quando chiude gli occhi vede te. Vede me. Ne dubiti? Prova a immaginarlo.
E’ qualcosa che vorresti fare. Lo vuole anche lui. Chi c’era al posto di Sheila fra le tue gambe? Non devi leggergli nella
mente, puoi fare una cosa così facile anche da umano. Provaci.
Perché credi sia così gentile? Con te, proprio con te?
Perché credi che abbia quell’espressione, quel modo di parlare… Adorabile.  Nessuno lo dice così spesso.
E lo dice solo a te. Solo a me.

Non essere ansioso. Charles non lo era più. Ascoltare quello che gli diceva l’istinto non poteva essere così
sbagliato per una volta…
Bastava prendergli la mano, stringerla nella sua intrecciando le dita e lasciar scivolare quel tempo alcolico
così lento, così a mezz’aria. Non doveva controllarlo. Non doveva pensare. Guardò la mano di Erik, chiara
contro la stoffa nera, come se dovesse metterla a fuoco. Riusciva a visualizzare perfettamente il movimento…
“Com’era la ragazza?” gli chiese Erik all’improvviso.
Charles sbarrò gli occhi, bloccandosi.  “Come?”
Erik si toccò il colletto con due dita. “Hai del rosso. Qui.”
Charles non controllò. Lo fissò, sentendo la pelle accaldata farsi lentamente fredda. Sapeva cosa aveva fatto lui.
La voce alcolica tacque. Quindi prima Erik gli aveva mentito, rifletté, contraendo appena le dita con cui avrebbe
voluto stringere la mano di Erik e…. Rabbrividì impercettibilmente. Era una fortuna che Erik non potesse
leggergli nella mente. Avrebbe visto cosa pensava. Avrebbe saputo cosa stava pensando mentre lo faceva con
Sheila. Avrebbe visto sé stesso. Ora sembrava di nuovo qualcosa di disturbante.
“Non era proprio la sua ragazza” spiegò, lentamente.
Erik rise. “Certo. Com’era?”
“Carina” replicò Charles, sfregandosi il naso con la manica. “Perché? Piaceva anche a te?” gli domandò, cercando
di ignorare i bagliori ondeggianti delle applique alle pareti. E la rabbia che cominciava a riaffiorare.
Perché Erik non gliel’aveva detto subito? Perché ancora insisteva con quei giochetti?
E perché lui era stato zitto? Avrebbe dovuto dirglielo, subito. Dirgli che sì, era stato con Sheila, la ragazza di Howie.
Sbatterglielo in faccia, che Sheila era incredibile. Una delle serate migliori della sua vita, una delle ragazze, una
delle scopate migliori della sua vita. Tra le tante, naturalmente.
Perché sì, lui, Charles era proprio fatto così. Ragazze, Sheila. Ne era proprio valsa la pena. E gli era così piaciuto.
Tanto. Anche a lei.
Quando invece aveva chiuso gli occhi e pensato a tutt’altro.
“Solo curiosità” spiegò Erik alzando le spalle.
Charles l‘osservò, ma Erik era di nuovo il solito, controllato, distante. Avrebbe voluto chiedergli perché, ma i
fiori della tappezzeria del corridoio, alle spalle di Erik, si contorcevano tanto da distrarlo, in volute e spire,
verdi e rosa. Come un’allucinazione. Abbassò gli occhi, cercando di scacciare il fastidio e appena lo fece,
si sentì vacillare di nuovo.
“Charles?”
Erik lo afferrò per il braccio, come per trattenerlo. Ma Charles non stava cadendo; si scostò dalla sua presa
e fece un passo all’indietro, guardandolo con gli occhi spalancati.  Era come se tutto  fosse tornato alla
giusta velocità. Chiaro, comprensibile e lineare nella sua mente dopo la confusione. Era da Oxford che
non provava quella sensazione, associata al bere. Era confortante. L’alcool ingannava, vero, mai poi
tutto tornava limpido e lui, libero.
Immaginava Erik con lui. Ma quell’Erik nella sua testa era diverso da quello che era lì, adesso. O no?
Era tutto un inganno, una distorsione, sì?
Erik lo stava osservando. Aveva di nuovo quella faccia inespressiva, quella che Charles non capiva. Sentiva
di odiarla, non era umana.
Come faceva ad essere  così controllato? Sapeva che Erik poteva arrabbiarsi, offendersi e divertirsi, non c‘era
più bisogno che non facesse trasparire nulla mentre era con lui. Aveva smesso da giorni. Doveva smetterla,
poteva fidarsi di lui.
Poteva essere serio e gentile, santo cielo. Forse caustico, ma piacevole. Inebriante fino a soffocare,
Charles lo sapeva. Probabilmente, provava tutto quello che provavano le persone normali, come Charles.
Nonostante fosse sempre pronto a negarlo.
Si era arrabbiato e divertito con lui quella sera. Aveva colpito Howie quando era stato esasperato dall’
ennesimo attacco a Charles. E non avrebbe negato perchè. Non per sé stesso. Per Charles.
Charles l’aveva capito senza che Erik glielo dicesse, non ce n’era stato bisogno. Era così percepibile.
Quello che provava Erik, riusciva ad attraversarlo, come se fosse un‘estensione di lui.
Forse sì, era solo un poco più addolorato e rabbioso della media ma ora, ai sensi offuscati di Charles, questa
appariva come una scusa insufficiente. Voleva solo stare con lui, vedere com’era. E voleva mettere almeno
tre porte tra lui e quell’ammissione. Erano due possibilità e coesistevano, insieme. Le cose opposte a volte
non si eliminavano, coesistevano, semplicemente. Però… Però…
Rischiava d’impazzire, di marcirgli dentro, se non riusciva a dirglielo… Ma Erik rendeva le cose così difficili.
Non poteva essere così controllato. Se erano tanto simili come Erik gli aveva detto, se era davvero come lui,
avrebbe dovuto bere e divertirsi, con lui.
Avrebbe dovuto trovarsi una ragazza con cui finire la serata; anche se, agli occhi lucidi di Charles, continuava
a sembrare tanto sbagliato.
Avrebbe dovuto fare la persona normale. Come lui.
Ma ormai lo sapeva. Non l’avrebbe mai fatto, non ce lo vedeva Erik a provarci con la ragazza di Howie perché
lo trovava odioso. Era più drastico, era troppo, troppo... Era una maledetta differenza d’aspetto, di carattere,
no? Anche se Erik, con Sheila, non avrebbe nemmeno dovuto provarci, casomai avesse voluto...
Charles era riuscito a trattarla così anche perché vedeva Erik nei pensieri di lei. Ed era comunque e sempre
nei suoi. Era come essere perseguitato.
Avrebbe dovuto capire quello che voleva Charles. Doveva averlo capito da tempo. Forse lo sapeva meglio di lui.
Forse era proprio quello che voleva. Charles si fissò sulle spirali di edera e rose. Se l’avesse guardato negli occhi
avrebbe capito tutto e non serviva certo leggere nella mente. Perché si era ridotto così?
Erano amici. Poteva avere tutti i problemi del mondo, ma Erik era solo suo amico. Charles lo considerava così,
era quello che intendeva con amico mio.
Non poteva essere falso. A Charles non piaceva mentire.
“Charles, per favore. Non è mia intenzione…”
Le sue parole scemarono nel nulla. Erik non comprendeva perché Charles si fosse bloccato così, in mezzo al corridoio.
Non lo stava nemmeno più guardando direttamente; appariva solo stralunato e fuori dal mondo.
Nonostante lui stesso si sentisse stanco e un po’ intontito, sapeva che lo avrebbe accompagnato fino in camera,
perché non sembrava affatto stare bene. Non era più così divertente.
Si avvicinò di nuovo e Charles alzò il braccio, come se volesse colpirlo. Erik lo parò e vide che stava ridendo.
Forse stava sbagliando, pensò. Charles era ubriaco ma stava bene. Era di nuovo allegro. Mutevole, cambiava
umore troppo velocemente, forse presto anche lui si sarebbe stancato.
“Non riuscirò mai a coglierti di sorpresa?” chiese Charles, scrutandolo.
Erik non capì le ultime parole distintamente. Suonava come un vago mormorio che lo fece sorridere.
Charles abbassò un poco le palpebre, guardandolo carico di diffidenza. “Stai ridendo di me?”
“Je ne voudrais pas, jamais” disse Erik d’istinto.
Charles socchiuse le labbra. Aveva ancora quell’espressione sospettosa, che poi sparì , sostituita da un sorriso
più mite. Chinò il capo e fece un passo verso di lui.
“Touché” disse Charles, ma prima che Erik potesse ridere del suo magro francese, mormorò: 
“Ne pensez pas que je n'oublierai ce sourire. Il n'est pas approprié venant de vous, mon ami.”
 Charles batté le palpebre, azzardando una smorfia soddisfatta. Anche un po’ perfida, non da lui.
Sorpreso, Erik scoprì i denti in un sorriso, forse, agli occhi ubriachi di Charles, il migliore avesse visto in
tutta la serata.
“Dove hai..?”
“Scuole costose” sbottò Charles, riportando lo spettro di Howie e dei compagni della Beauvouir nella conversazione.
Però Erik non sembrò prendersela, anzi. “Soldi ben spesi, immagino” disse e fece per tirargli una pacca sul braccio.
Charles provò a bloccarlo, all’altezza della spalla, sbilanciandosi però all’indietro. Erik allora lo bloccò per il polso,
sicuro che questa volta sarebbe caduto. Lanciò un’occhiata rapida lungo il corridoio.
Non c’era nessuno e pregò che nessuno fosse particolarmente attento, dietro le file di porte bianche.
Un ubriaco molesto era scusabile, due adulti che fingevano di picchiarsi solo perché gli andava, era un’altra
questione. Ma non lo lasciò andare.
“Basta, , basta…” mugolò Charles, ridendo, sentendo la stretta di Erik sui polsi. Però rideva ed Erik anche,
perché Charles con gli occhi lucidi e quell’espressione vaga sulla faccia era qualcosa che non aveva mai visto.
“Basta, dai” disse ancora Charles. Erik lo lasciò andare, sorridendogli amichevolmente.
“Avresti dovuto portarti quella ragazza.”
“No, non è vero.”
“Charles” disse, lanciandogli un’occhiata abbastanza significativa che lo fece quasi arrabbiare:
“Je sais que c'est vrai.”
“Non lo è, Erik” disse Charles incupito. Lasciò che il sorriso di Erik sparisse. Se Erik avesse potuto, avrebbe capito
anche perché. Se Erik avesse potuto, avrebbe capito perché Charles stava così.
Eppure Erik doveva saperlo. Come  faceva ad ignorarlo? Era colpa delle sue azioni se Charles si era trovato a
reagire, se ora aveva in testa certe cose.
Forse Erik era … contagioso?
Sicuro. Proprio come una malattia. Alcuni dicevano che era una malattia. Il suo patrigno pensava che lo fosse,
certo. Una schifosa malattia da deviati. Charles era così? Non si sentiva così? Un deviato.
Ignaro dei pensieri di Charles, Erik sospirò, mettendosi le mani in tasca e inclinando il capo. Era dispiaciuto per
Charles, di nuovo, ma considerava la conversazione conclusa.
“Va’ a dormire.”
Charles s‘infilò le mani in tasca. Strinse le chiavi nel palmo, quasi conficcandosele nella pelle, ma non gliele porse.
Non le tirò nemmeno fuori. Si limitò a fissarlo. Lo fissava sempre, guardava sempre e solo Erik. Lo prese per il braccio,
come se volesse fermarlo. Anche se Erik non se ne stava andando affatto.
“Erik.“
“Charles?”
“Non sono come loro.”
Sperava capisse a cosa si riferiva. Non era come Howie e i suoi amici, ecco. Erik annuì. Avrebbe voluto esserlo però.
Così avrebbe pensato alla ragazza mentre era con lei. Ad annoiarsi e a divertirsi in cose normali.
Non al disegno degli zigomi di Erik. Non al modo in cui lo guardava quando parlavano. Al modo in cui sorrideva.
Davvero Erik non se ne rendeva conto? O faceva solo finta di ignorarlo? Pensava le stesse cose, su di lui?
Se lo considerava alla sua altezza, doveva essere così. Charles lo desiderava disperatamente. Scacciava persino
la paura del non essere normale, dell’essere un deviato. Non importava più.
Solo… Essere come lui. Uguale a lui.
Erik gli sorrise, ancora. “Lo so.”
Charles accennò un debole sorriso. Non doveva guardarlo così. Non doveva parlargli così.
Gli amici non si parlavano così, si ripeté, ci doveva essere una differenza.
Perché Erik la voleva rendere così sottile? Solo perché pensava solo a sé stesso, rifletté Charles.
Era il suo pensare solo a sé stesso che lo faceva stare così male. Non vedeva a che conseguenze portava?
“E non perché loro sono umani.”
Questa volta lo fece ridere davvero, di nuovo. Charles fu soddisfatto, guardandolo abbassare un po’ la testa e poi
rialzare gli occhi, sinceramente divertiti, su di lui. Era un’espressione che Erik assumeva spesso.
Charles la conosceva, l‘aveva già vista. Solo con lui, solo da quando erano partiti.
E perché aveva sempre il suo viso sempre in mente. Gli piaceva contemplarlo.
Le persone attraenti cercavano sempre le persone attraenti. Le persone normali si limitavano a guardarle.
E tuttavia, quando deglutì e la mano aggrappata a Erik sembrò pesare tantissimo, si stupì, quasi avesse fatto
un gesto irrispettoso; Charles non era affatto a suo agio, anche se era stato lui a richiamare la sua attenzione così.
Nella sua immaginazione era molto più sciolto, sospettosamente naturale. Solo per Erik sembrava esserlo.
Forse, l’essere salvato in mare da lui lo rendeva immune dal vago fastidio che Charles, invece, provava
ad essere toccato da persone con cui aveva scarsa confidenza, anche se di loro poteva conoscere i pensieri
più reconditi. Anche se ora, era stato lui a cercarlo.
Non capì perché Erik fosse più tranquillo di lui, come se fosse normale, come se fossero vecchi amici.
Ne era invidioso. Eppure era giusto, era così, no?
Amico mio. Era così che lo chiamava. E non aveva cominciato Erik a farlo. Erik l’aveva accettato e ne
sembrava felice. Amico mio. Il tempo forse non contava.
Non così. Solo per una sera.
Perché Erik era suo amico. Il modo di parlare, di guardare, di pensare… era solo lui. Lo affascinava perché
era così e questo non portava necessariamente a quello che Charles credeva di volere adesso.
Anche se adesso quella parola, amico, sembrava troppo riduttiva per quello che cercava di dire ad Erik
con gli occhi, vergognandosi sempre di più. Amico mio sembrava il prologo di una menzogna.
Se Erik avesse salvato lui, -e qui ebbe la conferma di essere pesantemente ubriaco-, se Erik avesse salvato lui,
tutto sarebbe andato a posto, e non importava che quei suoi pensieri non avessero senso.
Charles fece per abbassare il braccio, ma aveva appena deciso di farlo, che ci ripensò. Cosa c’era di diverso?
Non era stato affatto un problema bere, cercare di divertirsi, infilarsi tra le gambe di Sheila e lasciarsi toccare
da lei. Non sarebbe stato un problema nemmeno per Erik; però Erik non l’aveva fatto.
Era quello a confonderlo, doveva essere quello.
L’aveva fatto lui, desiderando di fare tutt‘altro. Se le cose avessero seguito un corso normale, pensava Charles,
avrebbe fatto sesso con lei, lasciando perdere Erik e i suoi stessi impegni, le sue promesse, la CIA, e Moira e tutto
il resto, per un po’… Lasciando perdere Erik.
E continuava a rifiutarsi di leggergli nella mente, perché Charles non voleva rovinare tutto.
Era una verità troppo intricata per risolverla così, renderla spiegabile e semplice.
“Ti stavi annoiando?” gli domandò in fretta.
“Come?”
Charles si avvicinò, flettendo le dita sulla stoffa scura della manica.
“Quando ero con la ragazza di Howie…”
“Allora era davvero la sua ragazza” replicò Erik, accennando un mezzo sorriso.
“Non cambiare argomento” continuò Charles, serio, distogliendo appena lo sguardo da lui. La tappezzeria ad
edera e fiori poteva anche fondersi, non era quello che a Charles interessava. “Perché non mi hai cercato?”
Il sorriso di Erik si restrinse e poi sparì del tutto. Aggrottò appena la fronte, guardandolo interrogativo.
“Come?”
“Perché…?”
Charles sapeva qual era la risposta. La immaginava. Perché la temeva.
Perché non avevo bisogno di te, avrebbe detto Erik. Charles aveva bisogno che lo dicesse.
Erik si prese la fronte tra le dita. Stava sorridendo di nuovo, come se non capisse. Faceva finta, pensò Charles,
faceva certamente finta, Erik era più intelligente di così.
“Perché sapevo dov‘eri, Charles.”
“No.”
“Ma te lo sto dicendo adesso.”
“No,” Charles scosse la testa, indicandosi il colletto.
“Tu non lo sapevi. L’hai capito solo adesso, Erik, solo quando hai visto…”
“Abbassa la voce, Charles.”
“No” ripeté bisbigliando piano adesso, rischiando di sembrare un pazzo, con lo sguardo fisso. “Non è vero.”
“Charles, non essere..” mise la mano sulla sua, forse solo per allontanarlo. “Va’ a dormire.”
“Perché non mi hai cercato?” chiese, in un tono che voleva essere ragionevole. Sembrava che la vergogna
e il senso di ciò che era opportuno non contassero più nulla. Charles voleva sapere. Sembrava così importante.
Erik si passò una mano sul viso, vagamente esasperato. “Charles, non costringermi a dover…”
Si liberò dalla sua stretta. Poi la sua espressione divenne stranamente fredda.
“Ho visto che tu andavi con lei. Perché avrei dovuto cercarti?” Erik sfoderò il suo sorriso affilato. “E comunque,
non ha alcuna importanza.”
Charles fu attraversato da un fremito, quasi riscuotendosi, gli occhi fissi in quelli di Erik. Era la cosa più
ragionevole del mondo. Eppure sembrava così sbagliata. Perché Erik avrebbe dovuto impedirglielo.
Charles non voleva lasciarlo da solo e poi... E poi era Erik ad essere sparito, era Erik che non era più tornato
al tavolo. Era Erik che l’aveva lasciato da solo, anche se gli aveva detto che gli spiaceva. Giusto?
Charles l’aveva aspettato ed Erik non era più tornato… non era andata così? I suoi ricordi erano tanto confusi.
Erik si era alzato. Lui aveva continuato a bere … Lui lo aspettava, non era andata così. Erik si sbagliava.
Avrebbe voluto essere ancora seduto a quel tavolo per dimostrarglielo.
Forse Erik non l’avrebbe guardato così, adesso.
“Perché non mi hai fermato?” mormorò. La voce gli uscì così bassa che pensò che presto non avrebbe avuta più.
E avrebbe tanto voluto urlare di rabbia quando Erik si mise a ridergli in faccia, abbassando appena la testa.
Smise subito però, quando si accorse dell’espressione mortificata di Charles.
“Charles, che…” Erik fletté appena le dita, corrugando un poco la fronte. “Che stai dicendo?”
“Però…” Charles inspirò. Poi chiese, indifferente alle parole di Erik: “L’avresti baciata?”
“Cosa? Charles…”
“Quello che ti ho chiesto, Erik.”
Erik sembrava spazientito. “Charles. Non voglio parlare con te, non così. Che importanza…”
Charles lo afferrò per le spalle, gentilmente, scuotendolo appena. Cercando di sottrarsi alla sua stretta, Erik fece
un verso divertito, quasi sprezzante e distolse lo sguardo. “Non ha senso, perché chiedi…”
“L’avresti baciata? Se fossi stato al mio posto, l‘avresti baciata?” insistette Charles.
“Charles.” Ora Erik sembrava davvero irritato. “Che differenza fa’?”
Charles sorrise. Cercava di essere disinvolto, di formulare una scusa sensata per una domanda che alle orecchie di
Erik non lo era. Aveva visto Erik cambiare espressione più di una volta, in quei pochi minuti.
Era cambiato qualcosa in Erik, e Charles non aveva nemmeno dovuto leggergli nella mente. Doveva solo dargli
fastidio, come se dovesse stuzzicarlo, ancora. Sempre. Non aveva nemmeno paura che si arrabbiasse con lui,
lo avrebbe sopportato. Era tutto vero.
Non serviva leggere nella mente.
“Cosa te ne importa?” chiese ancora Erik, ancora senza guardarlo. Ma la sua voce era cambiata; era divertito,
era gentile. Accondiscendente, perché quelli per lui erano solo vaneggiamenti. Per Erik, Charles era solo ubriaco
e abbastanza confuso da qualcosa che non capiva davvero. Perché non gli interessava, perché non doveva
coinvolgere Charles. Doveva starne fuori.
E allora Charles lo cinse con le braccia. Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra, cercando di cancellare il suo
stesso sorriso furbo. Si vergognò di sé stesso, perché se  fosse stato sobrio ci sarebbe stata solo una parola per
etichettare quello che stava facendo.
Lo sentì dire qualcosa, forse ridere. Ma non era un problema, Erik sapeva che era ubriaco.
Però era vero. Ora il fastidio era scomparso e c‘era solo Erik contro di lui. Immaginò di chiedergli di
abbracciarlo a sua volta, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito, nemmeno dopo un altro paio di bicchieri,
anche se riusciva immaginarsi inginocchiato davanti a lui, o il contrario e un infinito numero di scenari
che l‘avevano turbato e appagato mentre era con Sheila. Gli sembrava ancora strano, dopotutto,
se non era nella sua testa.
La verità era che presto il fastidio, il capire che stava sbagliando…
Sarebbe arrivato, lo stava quasi aspettando. Doveva succedere.
Se non altro -e si concentrò su quello- adesso sapeva che Erik aveva addosso persino un profumo,
perché non capiva cos’altro potesse essere quell’odore fresco, quasi marino, vagamente dolce.
Non l’aveva mai sentito. Solo adesso mentre gli era così vicino, quasi gli lacrimavano gli occhi.
Lo strinse ancora di più, come se dovesse aggrapparsi. Voleva che Erik facesse qualcosa.
Che si imbarazzasse, che non fosse sempre così composto ed impassibile. Ma fu Charles a sussultare,
non Erik. Era praticamente contro di lui, la testa sulla sua spalla.
“Charles?”
Che pensasse pure che era ubriaco e molesto, non importava. Era una scusa validissima, anche se falsa
e non vera per quello che stava facendo adesso.
Si scostò giusto un po’ quando Erik piegò il capo verso di lui, quanto bastava per guardarlo.
Charles cercò di imitare l’espressione imperturbabile che ad Erik riusciva così bene, senza rispondergli.
“Charles. Che stai…”
Deviato, fu tutto ciò che gli venne in mente, posando in risposta il capo sulla spalla di Erik, ancora.
Doveva allontanarsi da lui, aveva combinato già abbastanza. Era colpa di Erik, se era stato costretto
a concludere la serata. E per quanto poteva saperne, magari adesso era nel giusto, anche se il cuore
stava battendo come un cronometro implacabile.
Era quello che anche Erik voleva. Ce l’aveva negli occhi, a Charles bastava solo pensarci. Sentiva le
mani di Erik sulla schiena, ma anche che non cercava di allontanarlo. Lo stringeva e basta e gli diceva
solo di smetterla e di allontanarsi, e non rideva più e non si scostava. Solo se per una sera… pensò Charles.
Era come il verso di una canzone. Sembrava essere dentro un brutto copione. Ma Erik e lui erano veri e
non recitavano, non come Sheila.
Erano migliori di lei, migliori di Howie, migliori di ognuno di loro.
Era una fortuna sorprendente avere Erik. Con lui non doveva voler somigliare a nessuno. Non doveva
adeguarsi.  Non doveva far finta di essere al livello di nessuno. Per una volta, poteva  solo essere il migliore.
Ciò che era.
C’erano davvero momenti in cui la realtà coincideva con l’immaginazione.
Se solo Erik avesse messo una di quelle sue maglie scure a collo alto, pensò Charles inspirando.
Avrebbe voluto bere ancora. Non era stato affatto difficile abbassargli il colletto di quella camicia,
di quel maledetto e funereo completo elegante che lo rendeva così diverso da lui, - così attraente ripensò
Charles. Avrebbe dovuto farsi curare, era troppo.. -, come se già non ci fossero delle ovvie differenze.
Le mani di Erik si contrassero sulle sue scapole, ma ancora non lo allontanava, e Charles era solo leggero e
soddisfatto. Era così semplice, per niente sbagliato.
Era quello che voleva Erik. Lo faceva per lui.
Quando Erik chiudeva gli occhi pensava a lui. Non era così? Sembrava proprio così.
“Charles. Smettila …”
Deviato, continuò a pensare Charles senza sentirsi davvero colpevole, mentre sfregava la bocca contro la
pelle del collo di Erik, inspirando piano, socchiudendo le labbra. E non capiva se quel pensiero era dentro di
lui o dentro la testa di Erik, perché quando cominciò a baciargli il collo, gli occhi chiusi, perché non avrebbe
mai avuto il coraggio di vedere quello che stava facendo, tutto sembrava solo molto semplice e lontano.
Non voleva conoscerne più il perché, e nemmeno perché ora avessero indietreggiato contro la parete e le
mani di Erik fossero ancora strette a lui, come se lo assecondasse - lo stava davvero assecondando, realizzò,
sicuro, perché non dovrebbe? -, e stesse respirando in quel modo roco, ascoltando sé stesso e non sentendo
nient‘altro, lottando contro la sensazione famelica che lo spingeva a mordere piano la sua pelle, a sfregare
le labbra sulla sua gola.
Erik voleva solo qualcuno come lui, ecco. Qualcuno come Charles, giusto?
E Charles  era convinto che non ci fosse nulla di strano, ora. Voleva solo dargli fastidio. Voleva solo che reagisse,
perché non era possibile che Erik non si sentisse vivo in niente. Perché non poteva non capirlo?
Lui, Charles, lo vedeva così chiaramente. Non era quello che Erik voleva?
“Che stai facendo?”
Ignorandolo, ignorando le sue mani strette ora sulle sue spalle, Erik provò svogliatamente ad allontanarlo.
Charles però si schiacciò ancora contro di lui, le mani appoggiate alla parete, come se stesse -illuso- cercando
di bloccarlo.
Quella serata non gli aveva dato nessuna soddisfazione. Odiava Howie, odiava conoscere tutte le meschinità
che c’erano nella sua testa. Odiava dover essere sempre cordiale anche con gente simile, sempre corretto sempre
giusto, anche se era il ruolo migliore, quello che più gli si addiceva. Odiava Carter e Wade, e odiava quello che
era lui stesso, perché si erano dichiarati suoi amici. Charles non ne aveva mai avuti, ma come dirlo ad Erik?
Si dispiaceva che avessero dovuto incontrarli, perché Charles non voleva essere associato a loro.
Esistevano persone migliori, Charles era migliore di loro. E trascinato da quell’astio, aveva odiato anche la
ragazza. Perché era come se non fosse affatto cresciuto e, a ben guardare, sembrava proprio così.
Se solo, fin dal principio, avesse cercato Erik. Non sembrava così strano, con i sensi così offuscati.
Sembrava un desiderio così innocuo, così normale. Avrebbe voluto riderne, ma riusciva solo a pensare che
forse era questo il modo migliore per ripagarlo. Avrebbe sempre potuto cancellarglielo dalla mente, dopo.
Voleva solo provare. Non poteva essere pericoloso. Non poteva essere così terribile.
Avrebbe voluto convincere Erik che il mondo non era poi un posto insignificante e marcio, che c’erano cose
più grandi, vicine a ideali nobili e realizzabili. Avrebbe voluto capire perché Erik era tutto quello che lui non era,
avrebbe voluto incontrarlo prima.
Si rese conto che gli stava piacendo e si sentì così colpevole e sporco che  immaginò  le lacrime salirgli agli occhi,
cominciando a farneticare delle scuse. Ma ora tutto era lontano e semplice e lui era tranquillo e andava bene.
Avrebbe voluto dirgli tutto questo, ma riusciva solo a baciarlo, le labbra sulla sua gola, e a dire il suo nome,
come se lo stesse chiamando sottovoce, come per dirgli un segreto.
Avrebbe tanto desiderato sapere perché pensare tutto questo, sembrava fornire una motivazione a quello
che stava facendo, quando la mano di Erik lo prese saldamente per la nuca, facendolo trasalire.
Charles realizzò che -non riusciva a capacitarsene ma era così- l’avrebbe baciato sulla bocca, in quello stesso
momento. E non perché per un perverso istante, volesse capire cosa si provava a baciare qualcuno che non
era una donna, ma solo baciare Erik. Era qualcosa che non andava, qualcosa di incomprensibile a mente lucida,
ma per una volta Charles non voleva capire. Non sarebbe stato difficile.
Bastava sollevare un po’ il viso e guardarlo, cercando in lui una spiegazione. E così fece.
“Charles?”
Terribile, Erik sembrava quasi… Divertito. E la stretta sulle spalle ancora così poco decisa, come se trovasse
interessante l’idea di vedere fin dove Charles si sarebbe spinto. Allora tornò quasi lucido, si allontanò
appena e lo guardò negli occhi. Respirava così forte che era sorpreso che il petto non gli facesse male.
Si accorse di stare di nuovo stringendo la stoffa sulla schiena di Erik, allora distese le dita.
Anche se era ancora così, ancora troppo vicino a lui.
Forse avrebbe vomitato.
Gli occhi di Erik erano freddi come una stilettata di ghiaccio. Ancora.
L’occasione di baciarlo morì, se di occasione si era trattata. Charles comprese di essere finito.
L’improvvisa euforia si dissolse. Quell' ottenebrante tensione fatta di attesa e infinito piacere, come se
stesse per gettarsi nel vuoto, o fosse in attesa di qualcosa, scomparve. Eppure, sentiva ancora quell’odore
di aria gelida e dolce nelle narici e in gola, come se avesse rischiato di soffocare, respirandolo.
Era stordito dall’alcool, e cose così irrilevanti rimanevano impresse. Solitamente, non faceva mai caso a
certi dettagli, ma ora gli era rimasto solo quello.
Ed Erik, davanti a lui.
Sì, anche Charles era sorpreso da sé stesso, sì, prima o poi si sarebbe vergognato, e sì, presto avrebbe sentito
l’imbarazzo assalirlo. Ma ora tutto era immobile; giusto per qualche secondo, ancora un attimo, pregò Charles.
Se fosse rimasto tutto così fermo, non ci sarebbero state conseguenze. Lui sarebbe sopravvissuto, perché non
avrebbe dovuto affrontarlo. Cancellarglielo, cancellarglielo dalla mente…
Voleva, aveva voluto baciarlo. Sarebbe stato un gesto tanto facile e tanto assurdo insieme…
Non dovevo, non l‘avrei mai fatto davvero, pensò tuttavia Charles, vergognandosi di sé stesso, il respiro
ancora accelerato. Eppure accennò un sorriso, perché non sembrava poi tanto importante, non doveva
nessuna spiegazione ad Erik. Era stato lui a dargli l’occasione, no? Sapeva che gli era venuto in mente di
fare una cosa del genere -  E che quello che aveva fatto Charles equivaleva sia ad aggredirlo, accusarlo,
stare con lui, toccarlo, immaginarlo con una donna, perché sarebbe stato tutto uguale-,
mentre era con la ragazza di Howie. Forse ci pensava da tempo, troppo. Sempre.
Era colpa sua, di Erik; era troppo attraente.
Sapeva che erano settimane che avrebbe voluto sapere cosa si provava ad essere Erik.
Sapeva anche che quelle erano tutte scuse.
Solo un momento in più e sarebbe scivolato nel ridicolo. Ancora di più. Non c’era stato niente di veramente
prestabilito, però. Era durato tutto poco meno di trenta secondi e Charles sapeva che doveva solo esserne felice.
Ora le conseguenze sembravano pesare tantissimo.
Erano in un corridoio del Four Season, nono piano. Ed Erik era suo amico, il suo unico amico.
Non avrebbe più bevuto niente in vita sua però -non era vero, lo sapeva, ma ora sembrava la
promessa più concreta che potesse fare a sé stesso-, non avrebbe più considerato Erik più di quanto
meritasse e non si sarebbe certo fatto aiutare da lui. Non se questo era il risultato; provare impulsi
del genere era più che anormale e decisamente insano. Cose che non solo lo rendevano incosciente
ed inspiegabilmente felice, ma lo facevano apparire così diverso da sé stesso da potersi spaventare.
Desiderava sparire, perché quello non era lui. Sparire o supplicarlo, perché non voleva che finisse.
Aveva solo voluto metterlo in difficoltà e ora aveva compromesso tutto. Però, adesso…
Non aveva giustificazioni, pensò Charles ancora, con le tempie dolorosamente martellanti.
Eppure lo stava ancora guardando negli occhi. L’avrebbe volentieri ucciso. Sembrava proprio il tipo
di cosa per cui Erik poteva decidere di ucciderlo. O almeno provarci.
Charles avrebbe voluto ricordarsi come ci si scusava, ma sentiva di non aver più voce e il respiro era
ancora troppo affannoso.Ci avrebbe pensato tutta la notte, e non sarebbe bastato.
Avrebbe solo voluto bloccare il tempo. Avrebbe voluto controllare sé stesso. Avrebbe voluto controllare tutto.
Non gli era sembrava nulla di terribile, per ora. Lo era, sì. Ma per ora era solo importante.
Forse poteva evitarlo di cancellarglielo; solo provare a passarci sopra.
E solo quando sarebbe arrivata la mattina… arrivata mattina avrebbe potuto solo vergognarsi davvero,
sentirsi davvero colpevole, deviato o fare finta di niente.
Avrebbe dovuto fare quello che voleva Erik, andare al cinema. Perché così i suoi sogni sarebbero stati popolati
solo di angeli sterminatori, o di paurosi promontori frequentati da assassini senza scrupoli. Non di Erik.
Non del suo completo elegante, non della sensazione che si provava a sfregare le sue labbra sul suo collo e
di quell‘inspiegabile voglia di averne ancora.
Non del fatto che gli veniva da vomitare.
Domani non sarebbe stato più ubriaco, avrebbe potuto solo vergognarsi senza sentirsi compiaciuto ed esaltato.
Avrebbe dovuto calmare la sua di mente, la sua mente da vigliacco, perché sapeva, sapeva che aveva superato
un limite e d’ora in avanti ci avrebbe solo pensato imbarazzandosi, e odiando sé stesso.
Ma ora non ci riusciva. Non ora.
Cosa si provava a baciare qualcuno come te? Era un piacere perverso. Si chiese che cosa avrebbero detto il suo
patrigno, sua madre, Raven, chiunque.
Non era normale, ma nemmeno lui lo era davvero.
Era confuso. Non capiva come fosse successo, l‘aveva solo desiderato. Era un’altra parte di sé.
“Va’ a dormire” disse Erik, lanciando un’ occhiata veloce lungo il corridoio e tornando implacabilmente a guardarlo,
fisso.
Charles gli restituì uno sguardo vacuo. Lo invidiava. Nella sua di testa c’era troppa confusione e troppi desideri.
Dentro Erik solo cose definite, l’oblio, la conferma sicura della rabbia cieca. Charles non era così, però avrebbe
voluto esserlo. Deviato, si disse. Schifoso deviato. Lo pensava, ma non ci credeva, non riusciva a pentirsi,
a dispiacersi.  Avrebbe dovuto concludere con la ragazza, rifletté, sostenendo lo sguardo fermo di Erik.
Portarsela in camera e fare quello che faceva un uomo con una donna. Non lasciarsi andare ad un impulso
famelico, alle fantasie, alimentate dal bere e dal fastidio e da tutto quello che lui, Charles, non era.
Invece si era preoccupato di Erik. Santo cielo, Erik era un suo amico. Gli amici non facevano quelle cose a cui
Charles pensava adesso. Non credeva nemmeno di riuscire a pensarle certe cose. Ebbe la certezza che non sarebbe
mai più riuscito ad addormentarsi.
Di Erik sapeva tutto e niente. Dell’Erik non legato alla vendetta, la parte basica di Erik, Charles conosceva
molto poco.  E quel conoscerlo così poco era la risposta del perché ora Erik non gli diceva niente, e si limitava
a guardarlo fisso, come se a sua volta potesse indovinarne i pensieri. Meglio di no. Avrebbe distrutto Erik.
Charles comprese anche di sapere molto poco anche di sé stesso.
L’avrebbe baciato, e non perché quel gesto avesse un significato particolare.  Avrebbe potuto, allo stesso modo,
entrargli nella mente e capire tutto quello che voleva, distruggere ogni suo ricordo e renderlo innocuo;
uguale a tutti gli altri. Sarebbe stato solo giusto, sentiva che sarebbe stata la cosa migliore per lui.
Ma non sarebbe mai riuscito a tentare qualcosa del genere su Erik.
Nemmeno ora che le conseguenze apparivano lontane, ma sentiva ancora le mani di Erik tenerlo per le spalle,
indeciso tra l’allontanarlo e il tenerlo fermo e Charles, Charles non riusciva a dispiacersi davvero.
Aveva  le labbra arrossate e le membra formicolanti non per la stanchezza, non per il bere, non per la rabbia.
Non era stato così sbagliato, anche se gli occhi di Erik erano così freddi e seri. Non se la sentiva di dispiacersi.
Voleva solo provare, si disse, solo provare, proprio così.
Charles si morse le labbra. Sapeva di avere gli occhi lucidi, di essere accaldato e con l’imbarazzo più profondo
sul viso. E di non essere in grado di dire niente. Staccò le braccia da Erik e provò a distogliere lo sguardo da
quello fermo e implacabile di lui, e allora Erik lo afferrò, per la nuca e per i fianchi e lo tirò contro di sé,
lasciandosi andare contro la parete, soffocando un gemito. Charles sbarrò gli occhi. Dapprima non capì.
Poi, Erik cominciò a baciarlo. Lo baciò sulle tempie, sulla fronte, sugli occhi, indugiando. Sulle guance e sulla gola,
come se avesse fretta, il fruscio della camicia contro la stoffa del suo completo, del suo soprabito.
Erik gli disse di smetterla, che aveva tirato troppo la corda, che lo sapeva, che lo voleva, che non era come gli
altri. Lo supplicò di andarsene, perché non era la cosa giusta, eppure continuò a stringerlo per i vestiti,
come se fosse arrabbiato e volesse solo strattonarlo fino a farlo cadere e calpestarlo. O trattenerlo, solo più vicino,
pregandolo. Che non era corretto, ma non poteva farne a meno, non ne poteva più. Lo pregò di rimanere con lui,
gli disse che andava bene, come se dovesse rassicurarlo. Qualsiasi cosa. Solo per una sera, solo per una sera…
Sei così.. Seì così..
Erano solo frasi spezzate e Charles, stretto contro di lui, lentamente si rese conto che non avrebbe voluto
mai saperle. Non voleva sentirle da Erik, per quanto queste lo affascinassero, facendogli contrarre lo stomaco.
Era schiacciato dalla sorpresa, la sorpresa era solo un metallico sapore in gola che gli impediva di parlare.
Lui era solo uno stupido che aveva sbagliato tutto. Si comportava come se le persone fossero sagome da
muovere a piacimento. Era terribile. L’aveva fatto anche con Erik. Erik non poteva essere così.
Erik non era così.
Erik gli infilò le mani tra i capelli e cercò i suoi occhi; gli disse che l’aveva immaginato. Immaginato cosa?
Pensò Charles allarmato, improvvisamente riscuotendosi, comprendendo e odiando sé stesso, stretto ad Erik,
provando stancamente a divincolarsi e rimanendo inevitabilmente incastrato a lui.
Cosa aveva fatto? Era una trappola troppo ben congegnata e ora voleva solo scappare. Aveva confuso gentilezza
e amicizia, non era forse così? Uno sbaglio.
Immaginare come avrebbe reagito, e immaginare come lui stesso si sarebbe comportato…
Non era poi così divertente, anche se parte di lui pensava a lasciarsi andare. Per Charles, era stato come giocare
ad un gioco alterato e distorto, ma Erik, Erik era serio. Così serio che lo accarezzava con gentilezza.
Deviato? Era così che succedeva? Ma era uguale, sempre uguale, c’era solo quell’odiosa urgenza, quel sentirsi
sporco e sbagliato.
Tutto si riduceva a quello, eppure le mani di Erik sui fianchi non erano così spiacevoli, nemmeno le sue labbra
sulla pelle. Era come avere la febbre, di colpo. Erik aveva provato lo stesso, quando l’aveva fatto lui? Santo cielo,
era lui che gli aveva fatto questo? Era Erik eppure non lo era più, pensò Charles, gemendo piano.
Era come se si fosse trasformato in qualcos’altro, qualcosa di sconosciuto, ancora. Era inafferrabile, sorprendente.
E la sua voce non era più così fredda. E lo affascinava e lo confondeva e avrebbe voluto lasciarlo annegare e
salvarlo infinite volte.
Non credeva fosse possibile. Doveva calmarsi, era ancora ubriaco.
Aveva voluto sentire Erik dire il suo nome; ora ne aveva piena la testa.
Un esorcismo, ecco, ecco di cosa aveva bisogno. Entrambi.
Era lui che aveva fatto questo, pensò incrociando gli occhi di Erik. Se non avesse mai…
Forse era meglio non sapere. Distogliendo lo sguardo, Charles chinò la testa, sentendo poi le sue labbra sul
suo orecchio, baciarlo dolcemente, facendolo sospirare. Stavano sbagliando. Stava sbagliando.
Tutto portava a questo, sì?
Gli mise una mano sul viso, voleva allontanarlo e accarezzarlo, per favore Erik. Ne aveva abbastanza,
non ne avrebbe mai avuto abbastanza, ma erano andati troppo oltre.
E non riusciva nemmeno a pensare Smettila. Che ipocrita.
Erik tenne la sua testa contro la sua, attaccate per la fronte quasi, e ne cercò lo sguardo, ancora.
Quello di Erik era così piacevolmente, orrendamente simile a quello che aveva immaginato mentre
era con Sheila, realizzò Charles, abbassando gli occhi, dicendogli lentamente di lasciarlo andare. Di finirla.
Ora stava male veramente. Come se la febbre gli fosse salita e tutto fosse solo confuso e piacevole e ingiusto;
insopportabile.
Era debole e fiacco, e il sentire nuovamente il suo respiro, ora mischiato a quello altrettanto agitato e
rauco di Erik, fastidioso. Aveva le gambe così fragili che temeva potessero spezzarglisi da un momento
all’altro, sotto il peso di quello che stava accadendo. Non era possibile. Non poteva averlo voluto. Non davvero.
Cercò di convincersi che era così, più della stretta convincente di Erik. Appoggiò le mani contro la parete e
cercò di allontanarsi, con scarsa convinzione. Poi Erik disse ancora una volta il suo nome e lo baciò all’angolo
della bocca e allora Charles distolse il viso, indietreggiando un poco sulle gambe malferme.
“Io sono ubriaco” mormorò piano, guardando fisso il corridoio. “Tu che scusa hai?”
Lo sentì irrigidirsi a quelle parole. Erik lo lasciò andare.
Erano in un corridoio in piena notte, ricordò Charles. Al Four Season. Washington. Perché non c’era Moira?
Perché non era a provarci, perché non era a letto con lei? Perché, ancora meglio, non era ancora ad Oxford?
Niente Erik. Come se non esistesse. Quello era giusto.
E perché non stava bevendo? La nebbia alcolica se ne stava andando; non voleva che accadesse.
Avrebbe dovuto guardare Erik con onestà e non se la sentiva. Era solo un ipocrita. Ci era andato così vicino,
solo per voler schiacciare Erik, vedere cosa voleva davvero... E ora voleva ancora le sue mani strette al viso.
Che altra spiegazione c’era? L’aveva provocato lui, Charles, ma non doveva succedere niente.
Ci aveva solo sperato, e ora stava malissimo. Aveva di sicuro qualche problema, un problema che né Raven,
né coloro che di solito gli stavano vicino avevano notato. Si scopriva solo con Erik e ora lui aveva scoperto Erik.
E ne era spaventato, perché voleva solo dire una cosa.
Ciò che Charles immaginava, Erik lo pensava. Non sapeva se esserne felice.
Quanto valeva Erik ai suoi occhi? Era colpa dell’ascendente che aveva su di lui. Lo condizionava.
Se solo Erik non fosse stato così. Se fosse riuscito ad essere suo amico e non come qualcuno a cui voleva
disperatamente piacere per una volta, solo perché sembravano tanto simili.
Amico mio. Per Erik valeva tantissimo. Per Charles, spaventosamente troppo.
Non poteva rinunciare a quello che era. A quello che era giusto fare.
Erik si allontanò un poco da lui. Charles alzò gli occhi, ma li riabbassò subito a terra, nell’universo vermiglio
della moquette. Avvertì un giramento di testa, più forte degli altri e avanzò verso la parete e le sue spirali
vegetali che roteavano infide, appogiandovisi. Avrebbe voluto fondersi con la tappezzeria, dissolvere
l’imbarazzo tra le spine e i gambi e i fiori ricurvi che diventavano artigli e uncini.
Però, desiderare di sapere che cosa sarebbe successo se non si fosse allontanato, non era un desiderio del tutto
malsano adesso. Era troppo volubile, rifletté. Troppo infantile, capriccioso e stupido.
“Charles?”
 Voltandosi, il braccio ancora teso per sorreggersi alla parete, Charles alzò gli occhi, scuotendo un poco la testa.
Era tanto umiliato, divertito e fuori di sé che non si sentiva nemmeno imbarazzato.
Avrebbe tanto voluto ridergli in faccia, se solo non si fosse sentito così poco sicuro di sé adesso.
Cosa aveva fatto? Era Erik quello che doveva stare male. Era Erik che la confondeva.
“Sono ubriaco” rispose Charles con semplicità, fissandolo di sottecchi.
Ad un paio di passi da lui, Erik lo guardò, imperscrutabile. Il colletto appena storto e la cravatta allentata;
con le mani in tasca, era l’immagine stessa della calma. Dell’indifferenza. Era lo stesso Erik che lo aveva
stretto convulsamente e gli aveva detto che capiva, che gli dispiaceva e che tuttavia non riusciva a non
pensarci? Quello non era Erik.
“Perché?” chiese solo, stancamente.
“No” Charles scosse il capo, prima di voltarsi e appoggiandosi con tutto il corpo alla parete, come prima
si era appoggiato ad Erik. “Certo che no. Non so cosa…”
Il silenzio scivolò inesorabile fra di loro. Charles si toccò la gola e si accorse che parte dei bottoni della
camicia erano slacciati. Arrossì violentemente che fu costretto a girare la faccia per non farsi vedere
da Erik, finché non lo sentì dire:
“Mi dispiace.”
“Non è colpa tua.”
Se non mi fossi permesso, guarda che cosa ho fatto, rifletté Charles. Ma non glielo disse.
Nemmeno nella mente.
Erik fece uno sospiro rassegnato. Passandosi una mano sul volto, replicò stancamente:
“Mi dispiace lo stesso, Charles.”
Charles chiuse gli occhi e dondolando il capo contro la parete, respirò profondamente. Aveva un acuto
principio di mal di testa. Voleva solo che Erik se ne andasse, adesso. Non sarebbe venuto a dormire con lui,
non gli avrebbe più detto che erano simili. Lui non gli avrebbe più detto amico mio. Mai più.
Forse se ne sarebbe andato via e basta.
“Mi viene da vomitare” disse Charles piano, aprendo gli occhi e guardandolo come se non fosse lì.
Sembrava quasi, per qualche inspiegabile ragione, che Erik stesse sorridendo. Batté le palpebre.
Il sorriso di Erik era sparito, le sue labbra una linea decisa.
“Non giocare con me” chiese piano, gli occhi fissi, oltre lui. “Te ne sarei grato.”
Charles annuì stancamente. Qualunque cosa, qualunque cosa, voleva solo che finisse.
In silenzio, Erik gli si avvicinò, poi, come se ci avesse ripensato, sfilò una mano dalle tasche e gli lanciò
le sue chiavi. Con fin troppa fortuna, Charles riuscì a prenderle al volo, sbilanciandosi appena in avanti.
Charles immaginò che gli avrebbe detto altro. Doveva dirgli qualcos’altro.
Ci credette anche quando lo vide allontanarsi per il corridoio, dopo avergli fatto un breve cenno.
E l’unica cosa a cui pensò Charles, era che le sue chiavi erano sempre state nella sua tasca.


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Contro ogni previsione, quella notte Charles non si sentì male. Dormì bene, come non gli accadeva da giorni. 
Anche se si svegliò sudato e insofferente per il caldo, attribuì la colpa solo ai grandi riquadri di sole che
illuminavano la stanza. E non sognò nulla. Nulla che sarebbe riuscito a ricordare volontariamente.
Per un momento pensò di essersi svegliato nel corpo di qualcun altro, in una stanza che non era la 221 del
Four Season di Washington D.C. C’era troppo sole fuori per rendere quel risveglio nella capitale credibile.
Il mattino era troppo tranquillo. Mancava solo un pezzo di Roy Orbison e le tapparelle un po’ abbassate.
Forse era in California. Sarebbe stato bello crederlo. Umano e in California, in vacanza con una ragazza come Sheila.
Bionda, rossetto ciliegia, come i bordi del costume bianco. Con un cocktail ghiacciato color arancio.
Assolutamente perfetto. Una ragazza proprio come Sheila. Era anche ammirevole credere di star pensando
davvero a Sheila, al sole e ad un’ipotetica spiaggia della West Coast quando invece riusciva solo a guardare
la lucida porta bianca come se dovesse entrare qualcuno. Lo spioncino scuro sembrava un foro di proiettile.
Si tirò su a sedere, poi si lasciò di nuovo ricadere tra le lenzuola, combattuto.
Non aveva mal di testa. Lo stomaco sembrava a posto. Non si sentiva stanco; aveva persino una leggera fame.
Il mondo non girava, ogni cosa era fissa e al suo posto. I suoni al di là dei vetri del giusto volume, attutiti dalla
distanza e dalla mancanza d’attenzione.
Poteva fissare il soffitto immacolato senza sentirsi oppresso e tutto scivolava via tranquillo e senza peso.
Non c’era molto a cui pensare, in verità. Credeva di svegliarsi confuso e dolorante, con un mal di testa e afflitto
dai sensi di colpa. A come avrebbe dovuto affrontare Erik, Erik che l‘aveva stretto e baciato e guardato in
quel modo. Che gli parlava come se fosse importante, che era stanco e non ne poteva più. Erik.
Doveva affrontarlo. Sempre che non se ne fosse andato nel cuore della notte, rifletté, rabbuiandosi.
Lui, Charles, l’avrebbe fatto.
Ma forse Erik era ancora nella sua stanza, un paio di mura più in là.
Scappare era l’ultima cosa che avrebbe potuto fare. Erik sapeva che avrebbe potuto ritrovarlo,
ovunque fosse fuggito; sapeva che non poteva fare niente, assolutamente niente. Charles sorrise.
Non era stato male. Era solo.. Felice. Non c’era ancora spazio per rimorsi o dubbi, solo cose semplici,
solo adesso, un po’ di pace, si era appena svegliato. Non c’era di mezzo una guerra. Solo un paio di
questioni minori, controllabili, risolvibili forse.
Non capiva perché lo avesse allontanato, adesso. Dove aveva trovato la forza?
Solo perché si era spaventato? Solo perché aveva avuto la conferma di quello che voleva?
Era così ridicolo adesso.
C’era più verità nel modo tormentato e combattuto con cui Erik l’aveva stretto e baciato sul viso che
Charles poteva solo credere che il dover affrontare quell’incerta e interminabile serata, fosse stato solo
un calvario necessario, solo per scoprirlo. Non c’era bisogno di fuggire da una cosa del genere.
Sorrise, socchiuse gli occhi. Non si sentiva in imbarazzo se era da solo; poi pensò alle chiavi.
Aveva seriamente rischiato di svegliarsi con Erik a fianco.
E non era una cosa che faceva ridere. Solo.. Una morsa allo stomaco, pensò un poco sbigottito. Però faceva
anche ridere davvero, si disse Charles fissando l’altro lato del letto, dove le lenzuola erano ancora tese.
Ma solo se ci pensava seriamente.
Quindi, a conti fatti… Non era successo niente di così grave. Niente Erik. Se si sentiva così, così rilassato
e tranquillo, era perché non era accaduto niente.
Niente di particolarmente importante. Non era così?
A pensarci, faceva più che abbastanza ridere. Non doveva aver paura di affrontarlo, lui non aveva fatto proprio nulla.
Era Erik, pensò tirandosi su dal letto, era sempre stato Erik.
Da qualche parte lo sapeva, Charles aveva solo voluto provare, gli aveva dato un‘occasione.
Non era poi così freddo e controllato, vero? Non era poi così legato solo alla vendetta, all’ignorare
tutto il resto, rifletté Charles sogghignando al suo riflesso nello specchio.
Sentiva già che cominciava a confondersi, a dispiacersi. Perché sì, ammise, studiando la piega
disordinata dei suoi capelli, non gli era dispiaciuto provarci. Sapeva che presto avrebbe dovuto
cominciare a convivere con questa consapevolezza. Non gli era dispiaciuto dire e fare e pensare,
nemmeno adesso.
Ogni volta che si era scusato con Erik aveva mentito. Perché non doveva averlo fatto anche lui?
Poteva essere spaventato. Spaventato all’idea di sedersi allo stesso tavolo di Erik e cercare di
risolvere e discutere e spiegare. Divertente. Oppure poteva sedersi al tavolo e comportarsi normalmente,
perché niente era successo. Oppure…
Charles comprendeva che sapeva qualcosa in più di Erik e vagamente, qualcosa in più su sé stesso.
Qualcosa che voleva capire davvero, ma per farlo.. Gli occorreva del tempo. Giusto un po’, quel tanto
che bastava. Perché adesso si sentiva sicuro, sì… Ma poi? Non potevano tornare a Richmond, non così,
non subito. Era troppo importante, è troppo importante amico mio. Tempo, solo dell’altro tempo.
Il suo riflesso gli sorrise. Trova il tempo.
Non giocare con me. Erik l’aveva pregato di non giocare con lui. Ma Charles non stava affatto giocando,
era tutto maledettamente serio. Serio e interessante, troppo perché venisse liquidato con una discussione.
Se erano tanto simili, erano migliori e deboli nello stesso modo. Se erano simili, qualsiasi cosa avrebbe deciso
Charles sarebbe andata bene per entrambi.
Non era andata così, la sera prima? Era Charles che aveva scelto, solo per provare certo, ma Erik…
Charles si ritrovò a sorridere ancora e si passò una mano sul viso. C’era da impazzire, da mettersi a correre.
Da infilarsi sotto la doccia e cercare di annegare o fare infiniti cerchi nella sabbia, pensando. Progettare. Però…
Però non era difficile. Bastava solo andare avanti, guadagnare del tempo, crearlo, aspettare.
Bastava fingere. Erik non se ne sarebbe accorto, avrebbe fatto finta di niente. Era Charles che decideva.
Se gli avesse dato l’opportunità di scegliere, potevano andare avanti assieme. Se lo volevano entrambi.
E ora sapeva che era proprio così. Un po’ faceva paura per davvero.
Guardò l’orologio, accanto alle chiavi della stanza. Era già tardi. Erik poteva essere a far colazione o
sul primo aereo per l’Europa, destinazione ignota. Charles strinse le chiavi.
Doveva decidersi alla svelta, perché presto avrebbe cominciato a pentirsi.
Tornò in stanza e si vesti lentamente, guardando il sole, la luce abbagliante. Poi si sedette sul bordo del
letto sfatto. Chiuse gli occhi e sospirò. Pensò al primo stato che gli venne in mente, alla prima scusa da sfoggiare.
Decise.
Erik avrebbe voluto seguirlo, lo avrebbe assecondato. Presto Charles avrebbe ricominciato a pensare,
a convincersi che era stato sbagliato. Che basarsi sull’attrazione non era qualcosa di normale, di naturale.
Presto avrebbe voluto tirarsi indietro e cancellare ogni cosa, fare finta che niente era accaduto.
Ma per una volta doveva lottare, non risolvere, non aggiustare. Doveva andare avanti, se voleva andare oltre.
Oltre a quelle difficoltà, oltre ai dubbi che cominciavano ad affastellarsi nella sua testa.
Sentiva le mani di Erik strette ancora intorno alla sua testa, e se chiudeva gli occhi vedeva i suoi e
non c’era nient’altro.
Se gli avesse detto che c’era ancora tempo, che il viaggio non era finito, prima che lui, Charles,
avesse avuto il tempo di cominciare a riflettere razionalmente, forse avrebbero avuto una possibilità.
Amico mio. Non era una menzogna, comprese Charles aprendo la porta, incamminandosi per il corridoio.
Non lo era mai stata. Era solo… Era colpa delle maledette parole. Erano sempre così riduttive, ambigue.
C’erano cose così importanti che dette a parole diventavano insignificanti.
Occorreva solo del tempo per farlo accettare ad Erik, e a sé stesso. Non sarebbe stato difficile trovarlo.

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Westchester, New York, 1962

Come il picchiettio della grandine, le pastiglie cozzarono sulla porcellana, rimbalzando. Quando le ultime
sparirono nell’acqua e l’ultima scatola di Fenobarbital fu schiacciata e lanciata nel cestino, Charles
intrecciò le mani dietro la schiena e tornò in camera. Guardò attentamente ogni oggetto, mobile, superficie.
Ordine. Calma.
Prese i libri sul comodino, la pila traballante accumulata da Erik nei giorni, e li impilò nello spazio liberato dai
farmaci sulla mensola. Molto meglio. Sospirò.
Forse Erik era ancora nel salone, a raccogliere gli scacchi. A farsi un altro bicchiere di champagne.
Forse lo stava aspettando e Charles poteva ancora tornare indietro. Non riusciva a stargli lontano.
Era così egoista. Tutte quelle paranoie, sui discorsi sul volersi allontanare, sul giusto, su cosa era errato…
Sciocchezze.
Forse accadeva perché non era abbastanza innamorato di Erik? Se ne fosse stato più innamorato sarebbe
riuscito a passarci sopra. Come dimostrarglielo?
E poi… E poi, perché Erik voleva il suo permesso per uccidere Shaw? Era davvero così importante…?
No, certo che no. Lo farà comunque. Indipendentemente da me.
Shaw era sì un prezzo debole, e giustificabile. Nessuno si sarebbe davvero lamentato se fosse stato tolto
di mezzo. Ma non era questione di come andassero o meno risolte le cose. Né del dolore che spingeva Erik ad agire.
O del fatto che la scelta rendeva Erik una brava o una  cattiva persona. Sciocchezze.
Niente del genere. La verità era sempre quella; Charles non contava niente. Si era solo illuso di scegliere,
di controllare, di risolvere. Ma era impotente, del tutto impotente con Erik. Non poteva prevederlo.
Era troppo lontano da lui ed Erik non se ne rendeva nemmeno conto. A cosa serviva essere migliori,
ripensò Charles, se non si riusciva a tenere vicino la parte migliore di sé? Valeva per lui, certo.
E valeva allo stesso modo per Erik.
Cosa poteva fare quindi? Solo.. Aspettare e aspettare ancora. Evitare che Erik si facesse trascinare.
Dovevano solo arrivare alla fine del giorno dopo. Doveva lasciare che le cose facessero il loro corso,
era giusto così. Ma era terribile dover aspettare da solo. Erik lo sapeva almeno quanto lui.
Erik. Erik aveva già deciso quello che avrebbe voluto da Charles. Senza dirgli niente.
Charles si era sempre adeguato a lui, aveva fatto tutto ciò che voleva. Solo perché Erik, altrimenti,
non si sarebbe mai scoperto. E… Fondamentalmente…
Che importava? Erik lo conosceva anche se non gli leggeva nella mente. Non giocava con lui, era solo onesto.
Quindi, quindi non importava niente, si disse Charles. Per una volta, poteva adeguarsi.
Solo tenersi quello che voleva. Solo se per una sera... Solo per una sera.
Era l’ultima notte a Westchester, no? Basta rovinarsi. Poteva fare finta che non ci fosse niente.
Che tutto fosse a posto.
In ordine.
Si portò una mano alla tempia, voleva quasi chiamare Erik, dirgli che voleva solo che tornasse.
Poi la riabbassò lentamente, sorridendo. Non subito, pensò. Sarebbe sceso prima in cucina,
avrebbe bevuto qualcosa, avrebbe pensato a cosa dirgli. Con calma, lentamente, con ordine.
Era giusto, era giusto così.


Continua.....


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Angolo delle Notizie a Casaccio


Con immenso ritardo ecco il quarto capitolo! Allora due o tre note. L'Angelo Sterminatore e Il Promontorio della paura
sono entrambi film del '62, abbastanza famosi, spero li abbiate visti entrambi.
In particolare, Il promontorio della Paura fu in parte girato a Savannah. Volevo fare un contorto giro di
pensiero per spiegare perchè dal film, a Savannah e la Georgia etc... Cazzate. Cioè, alla fine, chi se ne frega.
Quello che è importante è che 5 capitoli sono meglio di quattro e prima o poi finirò. Devo dire che questa è la
parte secondo me più slash dell'intera FF su C&E che ho scritto.  Ancora prima di Savannah, spiegare
perchè Charles è confuso etc. Tanto per chiudere il cerchio e ultimare il finale.
Al solito, spero vi sia piaciuta, spero abbiate voglia di farmelo sapere, spero di aver rispettato il Canon che
ogni fan di C&E si costruisce giorno per giorno etc. Credo che per la prima volta ho dovuto ricorrere a più di
un personaggio originale. Spero fossero credibili.
Le donne fanno sempre una brutta figura, in storie del genere. E... Mentirei se dicessi che gente come Howie e
Sheila non sono ispirati a persone vere però così è.
Concludo. Ringrazio naturalmente Bloody Very senza cui questo capitolo non esisterebbe e non sarebbe così com'è,
per il supporto e per l'aiuto a risolvere alcuni miei dubbi su 'Cosa accadrebbe se...'
Grazie anche, come sempre, a coloro che seguono la storia, me, che recensiscono, che mi scrivono o che capitano in
questa pagina per caso.

Exelle



Ps: Ehi, Tonie, apprezzalo XD Fa' finta che sia un regalo di esame non passato
       e come ringraziamento per il pranzo
.








 

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Welcome to Westchester


CAPITOLO V

 
 
 
 
 

1962. Un notte di un po’ di tempo fa.
Monroe’s Motel. Savannah, Georgia.

 
Nessuna meraviglia se si fossero baciati ancora. E ancora.

Da parte sua, non c’era alcuna fretta. Certo, andava contro ogni  buona intenzione, contro ogni giusto proposito. Ma forse era un po’ come uccidere qualcuno, un po’ come fare qualcosa che solitamente non andava fatto. Era sempre così e non gli dispiaceva mai. Era stata  l’idea migliore che potesse avere, e per questo,era grato a sé stesso.  L’idea migliore dell’intera giornata. Non era stata nemmeno una giornata vera. Solo tempo grigio ed incoerente, come se quelle ore fossero state solo un’indispensabile preludio di apatia. Non si sentiva una persona meschina. Non c’era niente del genere in lui, niente di subdolo, niente di nascosto. Forse lui pensava di sì, per quello non gli parlava. Non chiaramente. Almeno finché non arrivava la sera. Almeno finché non era ubriaco.
Finché non era così, quando sembrava che non guardasse nient’altro.
Non sapeva mai cosa pensasse Charles, ecco. Probabilmente perché Charles poteva, a differenza sua, vedere tutto, vedere ogni cosa. E forse, a dispetto della sua indecisione, capiva. Poteva rovinare tutte le sorprese, tutti i progetti... Però era lì. Era una fortuna?
Come si faceva a nascondergli qualcosa?
Credeva, aveva creduto di riuscirci. E, al contrario, Charles poteva nascondere qualsiasi cosa… Ci era riuscito così bene, fino a qualche giorno prima a Washington, così bene.. Lui no. Che ingiustizia. Eppure non aveva cominciato lui. Avrebbe voluto litigarci solo per dirgli che un paio di giorni prima…Perché metterci tanto?
Perché scappare in un altro stato, quando bastava cominciare così?
Charles sembrava l’avesse solo fatto per giocare. Non aveva capito quanto fosse serio…
Ma ora non era più così. Resta con me, aveva detto. Ed era così che cominciava. Perché se Charles si fosse tenuto per sé quello che credeva fosse la scelta migliore…Difficile ignorarlo.
Si era solo fatto trascinare. Ecco la scusa che avrebbe usato. Niente indecisione, né prese di posizione. Solo lasciarsi andare, nient’altro. Ed era giusto, giusto così.
Chiudere gli occhi, tirarlo per i capelli, e magari ripensarlo appoggiato al muro in una strada fredda, magari al modo in cui gli era sembrato tanto sicuro di sé nella hall del Four Season. Ripensare a come l’aveva guardato dopo, con l’odio vivo negli occhi.
Come se davvero, Charles credesse che fosse colpa sua.
Non era stato odio vero, no. Però lo aveva fatto preoccupare. Charles sembrava fatto apposta per quello. Per fare insieme da ostacolo e da soluzione.E poi l’odio era sparito. Correzione. Forse non c’era mai stato e lui adesso aveva tutto quello che voleva. Bastava guardarlo adesso, a come lo baciava adesso.
Non voleva aprire gli occhi, andava bene, anche solo così. Tutto quello che voleva. Non sembrava più tanto indeciso. E a lui non importava nemmeno della ragazza. Un’altra ancora -aveva pensato, incrociandola giù nel parcheggio- non gli poteva dare fastidio se era solo una ragazza, se era umana.
Non avrebbe mai avuto diritto di dire cosa fosse giusto e sbagliato sull‘argomento, non a Charles. Non voleva avere la pretesa di cambiare tutto, gli bastava così, averlo ogni tanto. Sperava bastasse.
Poteva avere tutto quello che voleva, Charles, perchè tanto Charles era uguale a lui e a lui solo.
E il fatto che ora non l’avesse lasciato andare via era abbastanza chiaro.
A differenza sua -ma era così chiaro che non se ne sarebbe mai andato, che non si sarebbe mai allontanato, non dopo quello che gli aveva detto, non con Charles seduto sul letto. Era così ovvio, così…-. Certo, era stata un’altra sceneggiata, ma sì, bisognava essere teatrali a volte. E magari riuscire anche ad adattarsi.
Charles sapeva? Da quanto? Leggeva nella mente ed Erik.. Erik non credeva che non l’avesse fatto di nuovo. Magari sì. Sapeva che avrebbe voluto stare con lui fin da quando se l’era ritrovato addosso, stretto tra lui e la parete del corridoio al Four Season. Gilel’aveva praticamente detto; poi se ne era vergognato, perché aveva ceduto, proprio così. Così debole. Charles non l’aveva nemmeno baciato, non si era poi compromesso così tanto, non aveva… Sarebbe ancora riuscito a farlo passare per un errore….
Continuando a baciarlo, solo con un po’ più di fretta adesso, cercò di farlo stendere. Charles fece ancora un po’ di resistenza; ma sembrava quasi pronto a ridere quando  cominciò a baciarlo sul collo. Mormorò che era assurdo, tutta la situazione era assurda, e gentilmente lui gli disse di stare zitto.Tornò a baciarlo sulla bocca.
Presto ne avrebbe avuto abbastanza. Lo aveva immaginato che l’avrebbero fatto lentamente, ma ora era come se avesse fretta. Era così stanco di dover aspettare, ma non sapeva bene come comportarsi. Charles gli sembrava così ... Quasi assente. Eppure continuava a baciarlo, in un modo che era  adorabile e lascivo insieme, giocando con la sua lingua. Quante ragazze baciava Charles, così? Ma non lo toccava. Lo teneva solo abbracciato. Come se stesse aspettando. Possibile? Era...
Era tanto diverso da come era a Washington. Molto meno sfrontato. Forse allora era stato solo l’alcool a spronarlo.
Forse era davvero tutto un errore…
Ma era per quello che erano in Georgia, pensava Erik, solo per quello, per quante scuse cercasse Charles. Per qualcosa che in realtà era tanto facile …
Era da giorni che aspettava, che sopportava il suo comportamento incerto e scontroso, sempre pronto a scusarsi, sempre in imbarazzo, perché sì, era ovvio che ricordava. Era ovvio che ci pensava.
Doveva solo dargli un po’ di tempo, si era detto, ma adesso basta, erano andati abbastanza lontano. fino in Georgia. Erik voleva solo chiedergli cosa gli piaceva, come gli piaceva farlo. Voleva solo dirgli quello che adesso gli sarebbe piaciuto fare.
 E contemporaneamente pensava a come Charles l’aveva provocato la prima volta. Era stato solo l’aver bevuto? Forse no. Ma era anche vero che se Charles non ci avesseprovato per primo, bè, lui non lo avrebbe seguito. Non lo avrebbe assecondato così docilmente. Avrebbe solo fatto finta di niente. Continuando a desiderare quasi inconsciamente che qualcosa succedesse davvero, probabilmente. Voleva disperatamente chiedergli se era la prima volta, ma l’idea della risposta lo frenava. Quanto a lui, Erik.. Bè, poteva anche far finta che lo fosse. Gli sembrava quasi così.
Gli piaceva così tanto, Charles. Ed era da quando era arrivato in America che non faceva sesso con qualcuno. Aveva quasi smesso di pensarci, non rientrava nemmeno tra le sue priorità dopo aver trovato Shaw….  finché non aveva incontrato Charles, e anche se non era certo stato subito quello che aveva voluto da lui -non voleva niente da lui, all‘inizio, per la verità, niente- , era diventato inevitabile. Ma, comunque fosse, se Charles aveva scelto di spingersi fin laggiù in Georgia, dopo quello scontro a Washington, doveva sapere bene quello che voleva Erik, come lo voleva Erik.
Eppure Erik era stanco di prendere tempo, di aspettare. Era, erano così vicini. Era quello che voleva anche Charles, si ripeté. Non poteva immaginarlo diversamente. Lo voleva da giorni, era per quello che erano venuti lì. Non era così?
“E’ per questo che siamo in Georgia?”
Non aspettò una risposta. Parlare cominciava a sembrare inutile. Si dondolò un po’ contro di lui, abbassandosi. Voleva che Charles facesse lo stesso, che lo toccasse di più magari, ma lo teneva solo abbracciato, e lo baciava sempre più lentamente. Erik cercò di ignorarlo, fingendo di non accorgersene. Era troppo.. Oltre. Charles faceva solo così perché era la prima volta che gli capitava. Probabilmente doveva esserne spiazzato.
Lo ricordava con quella ragazza a Washington, al modo in cui l’aveva guardata, sfiorata, lusingata. Non dovevano essere serviti molti giochetti mentali. Aveva tecnica, sembrava venirgli così facile, naturale. E forse, ora che i ruoli erano un po’ confusi, non sapeva cosa fare adesso. Anche se Erik gli avrebbe fatto fare tutto ciò che voleva.
Bastava così poco, e Charles era così bravo.
Hai cominciato tutto tu, gli mormorò all‘orecchio, passandogli una mano fra i capelli. Charles accennò un sorriso, un po’ colpevole, un po’ incerto… poi allontanò lo sguardo e disse che non ne era così sicuro. Una frase come un’altra.
Erik cominciò a slacciargli i bottoni della camicia, a caso. Uno sulla pancia, due sulla gola, disordinatamente. Non riusciva a togliergli le mani di dosso. Aveva la pelle così calda. Era colpa di quel caldo soffocante. Da quanto tempo non gli succedeva?
Aveva solo bisogno di qualcuno come Charles. Era stanco di svegliarsi inappagato dopo averlo sognato steso sotto di lui, gemente. Era stanco di doverlo solo osservare, di parlare, parlare senza cercare di dirgli nulla.  Di essere solo suo amico. Poteva essere molto di più. Doveva esserlo.
Quanto avrebbe voluto che fosse successo prima, gli disse. Se lo lasciò praticamente sfuggire. Charles non rispose. C’era solo il suo respiro piano, e quell’odore di doccia appena fatta e la pelle calda del viso. E un incastro di braccia e bocche affannate. 
Non riusciva a trattenersi. Gli disse che andava bene, che l’aveva fatto impazzire nella hall, a Washington, nell’albergo, che voleva che stesse nella sua testa, che era incredibile. Che sapeva che era come lui, aggiunse, ignorando gli occhi di Charles, freddi per un attimo. Erik smise di slacciargli i bottoni e lo guardò.
Doveva andare avanti? Charles si sollevò appena e lo baciò piano, all‘angolo della bocca. Sembrava troppo lontano ora.
Poteva ancora stare calmo e parlare poco. Bastava che lo lasciasse fare, gli disse Erik, che lasciasse fare a lui. Poteva farlo smettere, non doveva pensarci, non volevadargli fastidio. Effettivamente, Erik si rese conto che gli avrebbe detto qualsiasi cosa. Era stanco che fosse tutto così lento.
Affondò con decisione la lingua nella sua bocca, lasciando scivolare le mani a stringergli seccamente i fianchi. Si lasciò sfuggire un gemito basso e roco, schiacciandosi su di lui, e Charles provò di nuovo a sollevarsi. Erik lo ignorò, gli disse che era così, non c’era niente, assolutamente niente che non fosse a posto. E che lo stava eccitando solo di più. Voleva spogliarsi, che Charles lo spogliasse magari. Gli sarebbe solo piaciuto.
Inclinò la testa, le mani di Charles si raccolsero sulla sua nuca, trattenendolo. Poi però Charles allontanò le labbra dalle sue.   
Perché non gli parlava nella mente, cazzo, almeno avrebbe potuto continuare a baciarlo, pensò Erik, un po’ frustrato. Gli era venuto duro, a furia di baciarlo, di toccarlo, di abbracciarlo. Doveva decidersi, ma Charles si limitava a tenere le palpebre socchiuse, la bocca semiaperta. Limitandosi ad accarezzargli il viso e la schiena. Non poteva bastargli solo quello.
Gli fece scivolare le mani sulle gambe, stringendogli  le cosce, risalendo fino al sedere. Poi lo tirò contro di sé, con forza. Charles si sollevò appena, verso di lui.Erik continuò a dirgli che era ok, che era così, andava bene. Era come se dovesse andargli addosso; cercò ancora la sua bocca, mentre glielo faceva sentire.
Lo sfregò soltanto contro di lui, all’inizio, mentre infilandogli le mani sotto la camicia, tirandogliela su, cercando di scoprirgli la schiena. Chissà come era fatto Charles.
L’aveva sempre visto solo con i suoi completi grigi, con quei cardigan blu scuro ne camicie chiare. Ne era curioso. Ad un certo punto, sfiorandolo senza guardarlo, Erik gli sussurrò che gli sarebbe piaciuto se lo avesse toccato a sua volta. Lo sentiva, era proprio contro di lui. Era eccitato, non poteva certo fregarlo. Non così.
Doveva piacergli tanto quanto a lui. Charles scosse la testa.
“Erik…”
Lo ignorò ancora, lasciandosi scappare un verso insofferente.
“Va tutto bene.” Gliel’avrebbe ripetuto quanto bastava. Non riusciva nemmeno a concepire l’idea di smettere adesso.
Il ventilatore ronzava piano sopra le loro teste. E quel caldo umido appiccicava addosso i vestiti. Si spinse su di lui e gli spinse la lingua in bocca, ancora. Era sfiancante.
La stretta di Charles diventò impercettibilmente più leggera. Come se non ne fosse più tanto convinto. Erik cercò di vincere l’impulso di scusarsi. Voleva schiacciarlo, voleva continuare a giocare con la sua bocca, voleva vedere come era fatto.
Nella stanza faceva troppo caldo. Sentiva i pantaloni e la maglia tirare sulla pelle sudata. Faceva così caldo perché era schiacciato contro Charles. Voleva che si svestisse, voleva svestirlo, voleva infilarglielo dentro e farla finita. Che bastardo. Lo faceva sentire così. Gli faceva desiderare cose che di solito non pensava.
Era una meravigliosa distrazione. Voleva che non finisse. Ma voleva anche concludere. Se fosse finito tutto adesso non sarebbe più riuscito a guardarlo in faccia. Si poteva morire di eccitazione insoddisfatta? Come faceva a dirgli che non era strano, che gli poteva piacere? Dirlo a Charles, Charles che  sembrava così educato, tanto perbene, tanto a posto. Tranne quando parlava di ragazze.
E perché non capiva? Quello che faceva con loro, poteva farlo con lui. Non c’era alcun problema, era solo un po’ diverso. Erano solo uguali. Ma non poteva dirglielo. Non poteva dirgli una cosa così. Non erano cose che poteva dire a parole.
Se solo avesse dato uno sguardo ai suoi pensieri…
Lo sentì dire qualcosa, meno divertito. Più serio. Stava facendo qualcosa di sbagliato? Non avrebbe fatto preoccupare Charles.
Lo avrebbe fatto stare bene, se solo si fosse lasciato trascinare un po’...
“Andrà bene. Andrà bene.”
Sembrava essere qualcosa di così importante…
Non è normale.
Charles lo aveva pensato davvero, realizzò Erik. Cazzo. Tirò su la testa. “Cosa?”
Charles distolse lo sguardo. Forse non voleva parlargli nella testa. Forse gli era solo sfuggito.
“Cosa?” chiese ancora Erik. Ora era arrabbiato. Di nuovo.
Stava sbagliando lui, forse? Voleva solo che fosse tutto a posto. Forse però non poteva esserlo. O forse era solo Charles che faceva finta di niente. Non c’era niente
di sbagliato, avrebbe voluto urlargli. Assolutamente niente, qualunque cosa pensasse.
Era normale. Se gli piaceva, volerlo fare era normale. Per Charles non lo era?
Charles sembrava stesse cercando a sua volta una motivazione. Poi lo sentì spostarsi sotto di sé. Ed Erik si accorse, anche se non aveva bevuto, che non era stanco, che non era offeso, che quella rabbia cieca che ogni tanto lo prendeva, si era di nuovo riversata verso Charles. Voleva solo rendergli le cose più difficili, perché Charles era fatto così. Così … confuso? All’inferno.
Erik cominciò a stringerlo per i polsi e lo schiacciò di nuovo sul letto, mettendosi su di lui, implorandolo, dicendogli ancora quanto avrebbe solo voluto farlo stare bene, che non era niente di sbagliato, quanto gli piaceva, aveva quello strano controllo su di lui, Charles....
Charles si divincolò un po’, poi lo senti gemere, quando lo sfiorò con una gamba, mentre cercava di sistemarsi ed Erik gli disse che lo sapeva. Lo voleva quanto lui e lo sapeva e lui non leggeva nella mente. Charles ansimando gli disse di sì. Allora, Erik lo lasciò andare e dopo aver fatto scivolare una mano lungo il torace, lo toccò di nuovo.
Un altro gemito. Erik sentì quasi dolore in mezzo alle gambe, premendosi contro Charles, trattenendosi dal dirgli che sapeva che andava bene anche per lui. Era troppo intenso. Gemeva così, Charles? Gli aprì di più la camicia, tirandogli su la maglia in fretta, accarezzandogli il torace, la pancia, continuando a tenerlo giù. Cominciò a slacciargli la cintura, poi lo baciò sul collo, con la bocca troppo aperta. La fibbia tintinnò e Charles girò la faccia. Anche se aveva quasi lottato per andarsene, ora era fermo. Non faceva più niente. Erik non voleva che se ne andasse. Stava bene con Charles, voleva solo stare con lui. E adesso era così facile dirglielo.
“Non voglio…. Non voglio che te ne vada.”
Poi Charles si mosse di scatto, stringendolo per le braccia, e come se stesse ingaggiando una lotta, tirò indietro la testa. Erik cercò di allontanarlo e lui lo strattonò ancora, ma non disse niente. E allora Erik non poté fare altro che trattenerlo. Gli afferrò le braccia, strette, cercando di abbracciarlo. Ci provò, almeno.
Charles lo respinse, anche se non più bruscamente, e non si divincolò subito dalla stretta. Rimase solo lì, contro di lui.
“Va tutto bene, non c’è…” Gli venne quasi da ridere. Cosa non c’era? Pericolo? Fretta? Il niente? Era il niente che non andava?
Erano così tante domande. E tutte stupide.
Passandosi una mano fra i capelli, Charles lo guardò, quasi seccato, poi guardò oltre. Respirava molto più lentamente, ed Erik si sentì di nuovo sulla difensiva per come gli era uscita la voce, così calma. Come se stesse cercando di rassicurarlo. Effettivamente era così. Non voleva che andasse via. E poi quella era la stanza di Charles.
Avrebbe dovuto andarsene lui, ma non ne aveva la minima intenzione. Se fosse andato via sarebbe finito tutto. Lo lasciò andare, un po‘ bruscamente. Non voleva essere lui a stabilire cosa fosse giusto e cosa no. Non voleva infastidirlo, ma era anche così stanco. Stava bene con Charles. Quindi voleva stare con Charles. Ma forse per Charles non era così semplice.
Non se era sobrio o se ci pensava troppo.
Non sapeva cosa fare adesso. Perciò si sdraiò accanto a lui e provò ad accarezzargli il braccio, ma gli sembrava tutto così finto che preferì lasciar perdere. Non era più quello che Charles voleva? Poi lo sentì mormorare qualcosa d‘indistinto.
“Cosa?”
Charles rimase in silenzio. Poi parlò ancora.
“Non ci riesco.”
Erik si sporse sopra di lui. Si accorse anche di stare sorridendo, ma effettivamente non c’era niente da ridere. Solo... Non capiva. Andava così bene…
Era così bello, baciare Charles, stare con lui nel modo migliore. Non era quello che doveva volere anche lui?
Charles però era serio. E lui incapace a capire cosa pensava veramente.
“A te piacerebbe?”
Erik sentì il suo sorriso smarrito congelarsi. “Come?”
Charles distolse lo sguardo e - Erik non lo credeva- fece per scendere dal letto. Così lo trattenne per la mano, ma era appena riuscito a stringergliela, che Charles si ritrasse, guardandolo di nuovo adesso, ma ancora in quel modo serio e imperscrutabile che lo tagliava fuori del tutto da quello che succedeva nella sua testa. Se solo…
Se solo gli avesse parlato. Ma non glielo chiese. Sembrava sempre così inutile.
“Charles…” Non voleva supplicarlo. Non voleva nemmeno che finisse tutto però.
“Fottiti” sbottò Charles, sollevando appena la testa. Erik spalancò gli occhi. Charles fece altrettanto, come se fosse sorpreso a sua volta. Sembrava una parola così fuori posto su quelle labbra gentili. Gliele aveva fatte diventare rosse, a fuori di morderle, di baciarle.
Nessuna ragazza era così. Non avrebbe avuto mai niente di meglio. niente di così vicino a sè stesso.
“Ti ho chiesto se ti piacerebbe, Erik.”
Sì, è ovvio che è così. E’ così, devi solo fidarti di me. Però non riusciva a dire niente. Non poteva. Quello che a lui sembrava giusto e piacevole a Charles doveva sembrare…
Non voleva pensarci. Era come doversi sentire in colpa, anche se non era né giusto, né vero. Charles, Charles, perché non capisci?
Erik provò ancora a baciarlo, mettendoci un po‘ troppa foga. Era nervoso, era arrabbiato ed era dispiaciuto, e non capiva perché dovesse essere tutte quelle cose assieme quando Charles era così freddo e assente, quando l‘aveva illuso del contrario. Per qualche momento, Charles lo assecondò, ma poi lo respinse ancora.
Erik inspirò, distogliendo lo sguardo. Per un momento fu tentato dal domandarsi cosa ci facesse lì.
“Sono io?”
Charles non rispose.
“Cosa… Cosa credevi che sarebbe successo? Cosa…” Erik lo afferrò per le braccia, poi lo accarezzò piano sul viso. Voleva solo capire, voleva solo essere gentile, ma forse era più agitato di lui. “Se è perché è la prima…”
Atterrito, Charles lo fulminò con gli occhi. Io non sono come te. Non devi parlarmi come... “Come se lo fossi” aggiunse, incattivito.
Erik tacque e rimasero a fissarsi.
Erik respirava pesante. Aveva le mani appoggiate ai lati della sua testa. Gli sarebbe stato facile strozzarlo, pensò, strozzarlo e farlo smettere di pensare. A Charles venne di nuovo da ridere, forse stava ascoltando quello che pensava. Poi tornò serio. Erik non capiva.
C’era qualcosa di fastidioso, di invidiabile negli occhi di Charles. In qualunque modo lo guardasse, sembrava che si stesse prendendo gioco di lui. Che fosse divertito, sempre. forse non era affatto gentile e diplomatico e amabile forse era solo....
Ma, Cherles era anche... Charles era divertente. Lo faceva divertire. Voleva solo che stesse bene, voleva solo… Ricambiarlo?
Si sdraiò accanto a lui, ancora, rimanendo a fissare il soffitto. Sospirò.
“Vorrei che non fosse mai successo.”
Le pale del ventilatore sopra di loro giravano sempre più lente. Ora riusciva quasi a sentire la pioggia sul tetto. Quel letto era scomodo e scadente. Qualità Monroe’s Motel.
Non è vero.
Non c’era più molto da dire. Voleva solo che stesse tranquillo.
“Non farei.. Non farei mai niente che non vada bene a te, Charles.”
Dopo un po’, non sapeva quanto tempo, Charles si girò verso di lui. Non disse nulla, si strusciò un poco e poi lo baciò. Fu un bacio lungo. Erik provò a circondarlo con le braccia ma Charles si mosse contro di lui, mentre cercava di abbassarsi i pantaloni e lui lo lasciò fare. Poi, quando si avvicinò per baciarlo di nuovo, Erik lo rovesciò ancora con la schiena sul letto, aiutandolo in parte a svestirsi. Ora era Charles ad abbracciarlo.
Erik non sapeva perché avesse cambiato idea, non glielo chiese. Cercò di dimenticare ogni cosa, di non pensare a niente. Rischiava di impazzire, altrimenti. Charles s’inarcò appena quando Erik cominciò a toccarlo. Glielo avrebbe fatto diventare ancora più duro. Lo avrebbe fatto venire. Charles cominciò a lamentarsi.
No, non si stava lamentando. Stava godendo. E aveva smesso di guardarlo. Teneva gli occhi chiusi e la faccia rivolta al soffitto.
Lo accarezzò, ancora, più a lungo, sotto e risalendo. Poi più energicamente, sentendo Charles gemere piano, ansante e fremente.
Più lo toccava e più Erik si eccitava; doveva resistere all’idea di girarlo e… Dio, meglio non pensarci. Charles si rannicchiò su sé stesso, sospirando di piacere, indolente. Erik lo sentì digrignare i denti. Si strinse ancora a lui, sentendosi indolenzito.
Nemmeno lui ce la faceva più. Riuscì solo a slacciarsi i pantaloni, prendendo a sfregarsi contro di lui, accarezzandolo in fretta. Sembrava solo la cosa giusta, gli sarebbe piaciuto.
“Charles…”
Lui aprì appena gli occhi. Erano strani, assorti e luccicanti. Gli accarezzò la testa, quasi con espressione di scusa, ed Erik ci rinunciò. Forse non era il momento?
Charles lo strinse a sè, trattenendolo per la maglia. Lo sentì dire che era complicato, che era difficile, che ancora non ci credeva.
Erik gli credette, perché ora era Charles a baciarlo, ancora. Socchiuse le labbra volentieri; allora, gli sussurrò che avrebbe fatto tutto quello che voleva, gli avrebbe dato solo piacere, scoparlo in qualsiasi modo. Non importava come. Cominciò a toccarsi a sua volta, guardandolo e spostandosi più in basso, al suo fianco, accucciandosi vicino alle sue gambe.
Guardò le sue palpebre abbassate sugli occhi lucidi, ascoltando i suoi gemiti bassi. Guardando la sua bocca semiaperta, un po’ lucida di saliva, gli veniva solo voglia di toccarselo. Era sicuro che così , sarebbe venuto subito anche solo guardandolo.
A volte, lo aveva immaginato così; aveva immaginato che Charles glielo prendesse in bocca. E che lo guardasse, mentre lo faceva. Dopo, si era sentito male quando ci aveva pensato; ingiusto, stupido. Sbagliato. Ma il desiderio di essere guardato da Charles, da quegli occhi, era troppo forte. Adesso avrebbe voluto che lo facesse.
Ma non lo avrebbe fatto. Non era colpa sua. Forse era così che doveva andare, non poteva avere tutto.
“Erik…”
Charles gli restituì lo sguardo, gli occhi vacui. Aveva il viso arrossato. Sembrava un ragazzino ed Erik riflettè; aveva quasi trent’anni. Lo invidiava, lui, lui e quella sua faccia di solito tanto gentile e scherzosa. Era tutto quello che avrebbe potuto essere. Charles, Charles che aveva fiducia in tutto. Anche adesso che era così diverso.
Erik odiava sé stesso perché si era scoperto, perché ne era attratto così visceralmente da spaventarsi. Si lasciò sfuggire un verso roco, allungandosi per baciarlo. Poi, quasi mormorando svogliatamente, Charles gli disse di finirla, perché non ce la faceva più. Lo disse come se gli fosse sfuggito; non lo pregò.
Erik avrebbe voluto che lo facesse. Era un po’ troppo diverso da come se l’era aspettato. Però era Charles. Non riusciva a staccarsi da lui.  Non era ubriaco. Non l’avrebbe lasciato andare via. Non ora. Aveva bisogno di lui.
Trattenendolo per la camicia, scese giù, fino al suo inguine. Guardò Charles e Charles fece finta di niente. Erik si chinò sulla sua erezione, e Charles girò del tutto la faccia. Erik cominciò a leccarglielo piano, prima di farselo scivolare in bocca. Strinse di più la stoffa della sua camicia, tenne gli occhi chiusi.
Forse quello era ciò a cui pensava Charles, dopotutto. Volerlo fare come … Come qualcosa che poteva controllare.
Inclinò la testa per prenderlo meglio, muovendosi, aiutandosi e accarezzandolo con la mano libera. Charles non lo spinse via. Per un attimo, Erik pensò che tutto si fosse capovolto. Forse, nella testa di Charles, lui sembrava debole. Si sentiva strano; gli sembrava tanto giusto e tanto sbagliato insieme che persino il vero motivo per cui lo stava facendo, quel volere così tanto Charles...
“Dio… Mio dio, Erik, Erik…”
Charles gli mise una mano sulla testa, ansimando convulsamente. Sembrava pesare tantissimo. Lo sentì dire qualcosa. Sul fatto che che era meglio, qualcos'altro che finiva in ..ila...
Ma ansimava troppo, e tutto quello che riusciva a fare era mangiarsi le parole. Erik lo sentiva accarezzargli la testa disordinatamente, scompigliargli malamente i capelli e tirandoglieli, ma non per allontanarlo. Gli mosse la testa quel tanto che bastava per poterlo quasi ingoiare ed Erik si senti piacevolmente costretto ad obbedire.
Charles disse altro, respirando rauco, ma Erik non lo sentiva. Aveva la parte più intima di lui in bocca. Carne pulsante in gola e sulla lingua, mischiata a saliva. Lo stava scopando.
Era quello che voleva. Meglio, quello che voleva anche Charles. E Charles glielo stava dicendo, gli stava chiedendo di farlo venire. Charles che gli diceva quanto lo conosceva, che sapeva quanto tutto questo in realtà gli piacesse, quanto ne dovesse prendere. Non era più Charles. Non lo era più.
Era così diverso da quello che aveva conosciuto. Ma anche lui, anche lui si sentiva diverso. Era la prima volta, erano soli. Era come voleva davvero che stessero le cose tra loro. Ed era colpa di Charles, di Charles che gli faceva quell’effetto. Erik era stanco di essere, di sembrare, sempre controllato. Non era così.
Charles doveva saperlo che lo pensava, anche senza quelle parole gentili, senza sentire il bisogno di difenderlo, di assecondarlo, di capirlo. Lo voleva anche così, toccarlo, sentire la sua carne tiepida, scoprire come era fatto, sentirlo parlare in quel modo lascivo, andare a letto con lui. Tenerlo vicino, abbracciarlo, magari dormirci assieme. Eccitarlo.
Cose così normali… E non doveva essere importante, né difficile capirlo. Era eccitante ed interessante, e sì, era Charles.
Era un maschio e sì, la cosa non gli creava alcun problema. Anzi era meglio. Molto meglio, perché diverso da com‘era, non l‘avrebbe mai guardato.
Voleva solo sapere cosa si provava ad averlo, però. Fece per sollevare il capo, voleva dirglielo, voleva baciarlo. Voleva sapere se era lo stesso anche per lui. Alzò il viso.
“N -non ti fermare. Cazzo, non… Oh, Erik… oh, Cristo.”
Charles gli spinse più giù la testa e gli afferrò stretti i capelli. Come se volesse imporgli qualche stupido movimento, come se dovesse controllarlo. Lo sentì inarcarsi ancora sotto di lui, poi gli prese la testa fra le mani, con foga, gemendo e dicendogli di continuare, pregandolo piano.
Lo sentì scalciare, ed Erik  si allontanò un momento, finendo di svestirlo dai pantaloni attorcigliati ai polpacci. Poi tornò su di lui, le mani agganciate alle sue gambe, accarezzandolo insistentemente. Gemette e lo riprese fra le sue labbra, lanciandogli un’occhiata. Ma Charles, adesso, teneva la testa troppo reclinata. Erik vedeva solo la sua gola, il pomo d’Adamo muoversi, mentre deglutiva.
Erik chiuse gli occhi, muovendo solo il capo e la bocca e la lingua. Ora Charles lo teneva quasi stretto sia con le mani che con le gambe, spingendo il bacino contro di lui. Forse era meglio che non lo guardasse. Forse, per Charles, era più corretto non guardarlo mentre glielo succhiava. Così poteva fare finta di niente. Come se in realtà non stesse succedendo. Come se fosse possibile.
Se l’avesse guardato direttamente, gli avrebbe detto che non era normale, di smetterla, forse.
Erik era stanco di pensare in termini così definitivi. Aveva la schiena sudata; la maglia completamente appiccicata al torace. Faceva troppo caldo. Alzò ancora gli occhi verso Charles, muovendosi più lento.
Ci era vicino, piegato su di lui. Perché non lo guardava? Lo stomaco e il bassoventre gli dolevano, non vedeva l’ora che quella tensione se ne andasse. Fece scivolare le mani all’interno delle sue cosce, accarezzandolo, allargandogli meglio le gambe. Ancora pelle calda e sudata. Aveva un bel corpo. Da ragazzino cresciuto.
Era più pallido di quanto aveva pensato, e meno magro, più robusto. Perché anche Charles non lo guardava? Perché non lo guardava come faceva lui?
Adesso che erano...  Forse non era importante.
Poi sentì Charles iniziare a rilassarsi, scosso solo da qualche fremito; ricominciò ad accarezzarlo sulla testa, più gentilmente adesso. Aveva smesso di parlare, rantolava e basta. Erik ne fu quasi sollevato. Continuò a darsi da fare, il suo respiro in accordo con i suoi movimenti, suoni umidi che si mescolavano ai mugolii soffocati e più fitti, alla voce rotta, ai movimenti convulsi di Charles. Sarebbe cambiato tutto. Charles poteva andare con tutte le donne che voleva, ma non sarebbe più stata la stessa cosa. Ma ad Erik non dava alcun fastidio. Pensò a Charles con Moira; non sarebbe stato un problema, no...
A lui, Erik, bastava, giusto ogni tanto, giusto così…
Quasi ci credeva.
Lo sentì fremere. Come se avesse i brividi. Stava per farlo venire e poi, accadde.Charles era nella sua testa.
Non se lo aspettava, ma era possibile. Se perdevi il controllo. A lui sembrava accadere solo se si arrabbiava.
Vide cose che non credeva di ricordare, di pensare. Poi tutto si confuse, ancora. Non era niente di terribile, una manciata di ricordi piacevoli e passati da tempo. Spesso insignificanti. Altri di qualche giorno prima. Poi, ebbe l’impressione di sentire anche i pensieri di Charles, molto più confusi, a tratti solo la sua voce.
Niente che avesse senso, al principio. Poi cominciarono le frasi spezzate, confuse. Avvertì di nuovo il freddo, ebbe l’impressione di camminare per lunghe stanze buie e infine la sensazione di essere sotto le coperte, al caldo.
C’era una luce chiara; ma non veniva dalle finestre, fuori era notte. E quel mormorio. Era ancora Charles? Non conosceva quel posto, però ci stava bene. Non era casa sua.
Non conosceva quel posto. Era davvero nella testa di Charles, adesso.
C’era una donna bionda in una delle stanze. Beveva. Sorrideva.
Non poteva fare altrimenti con una bocca del genere, lucida di rossetto. A forma di cuore. Avrebbe voluto baciare anche lei. Sarebbe stato bello. Lei e Charles. La scena cambiò.
Ora fissava un  soffitto azzurro scuro. Era sempre una stanza buia, più piccola; c‘era un‘altra donna, bionda anche lei, inginocchiata fra le sue gambe a fare qualcosa di abbastanza simile a quello che lui stava facendo ora a Charles.
La ricordava, questa. E lui, Erik pensava… Poi capì.
Era Charles adesso, era Charles che pensava a lui nel ricordo. Lo pensava e ne era eccitato, ed era sicuro che se non fosse uscito, se non l‘avesse trovato, tutto sarebbe finito. Ne era eccitato morbosamente, e odiava quella ragazza perché non era lui, non era Erik, immaginava solo di scoparsi Erik, si sarebbe rovinato? Non era un idea così brutta.... Andare da lui, provare a... Qualsiasi cosa.
Dio, se solo fosse stato Erik. Subito.... E poi, il ricordo e quei vecchi pensieri sfumarono.
Quando era successo? Quando? Era così importante… Poi rapidamente, tutto sembrò esplodere, sparendo, inghiottito nel buio.
Erik spalancò gli occhi e Charles, ansimando, venne nella sua bocca. Sentì il suo gemito rauco rompere gli ultimi frammenti di ricordo, come se improvvisamente si fosse risvegliato, come se avesse di nuovo avvertito il sonoro.
Dopo, si staccò lentamente da lui, posandogli la testa in grembo, di colpo affaticato. Lo accarezzò ancora, piano, passandosi una mano sulle labbra umide e indolenzite.
Era inspiegabilmente euforico e terrorizzato, mentre, senza nemmeno cercare di mettersi seduto, si tirava su. Trascinandosi quasi, sdraiandosi stancamente al suo fianco.Era come tornare vivo, e con il tornare, si ricordò di sé stesso, di quanto era eccitato, del fatto che lì c’era Charles, che quella non era la sua immaginazione. Charles. Tutto quello di cui aveva bisogno.
“Charles. Charles… ?”
Gli mise una mano a lato del viso. Charles si girò appena. Gli diede appena un’occhiata, gli occhi azzurri troppo seri, offuscati da un piacere acido e dalla stanchezza. Anche lui era stanco. Ora voleva che finisse. Si sporse per baciarlo, ma Charles si limitò a girare la faccia dall’altra parte, sospirando. Gli disse di no. S’irrigidì e non lo guardò più, rimettendosi lentamente in ordine i vestiti. Come se il tempo a disposizione fosse finito. Almeno il suo.
Erik era quasi venuto, solo sentendolo nella testa. Ne era affascinato, insoddisfatto e spaventato insieme e non capiva. Non era giusto. E quando Erik glielo disse, la voce roca, anche se stava scioccamente cercando di scherzare, Charles rispose serio che era vero, non era giusto, ma lui non poteva farci niente.  Non lo disse in tono cattivo, o sfrontato. Lo disse solo come una constatazione.
 “… Perché?”
Charles si girò, dandogli in parte la schiena, rannicchiandosi. Mormorò qualcosa, forse di nuovo -scusami-, ma un po‘ troppo brusco.
Erik cominciava ad odiare le sue scuse. E poi  Charles non lo guardava più. Non era più nella sua mente. E gli dispiaceva.
Erik mise solo la testa contro la sua, la fronte appoggiata contro la sua nuca. Non era giusto, non era così che doveva andare.
Non così.
Lo baciò sulla tempia, sull’orecchio, lasciando scivolare le labbra sulla sua guancia arrossata, sul suo viso immobile.
Allora si masturbò, sentendo quel piacere crescente che l‘aveva tanto tormentato, abbandonarlo del tutto. Soffocò il suo orgasmo tenendo la bocca semiaperta, premuta contro la gola di Charles, cercando di ricordare quella scena. Non sarebbe mai stato più così adesso, non così intenso. Si lasciò lentamente ricadere sulla schiena, sconfitto.
Charles non sembrò reagire. Il suo respiro stava tornando normale, l‘affanno quasi sparito. Erik adesso voleva solo trovare la forza per uscire, anche solo guardare fuori da quella stanza malmessa e scadente. Per un attimo gli era sembrata il paradiso.
Le tende ingiallite schermavano l’unica finestra. Anche le tapparelle erano giù. Non si vedeva niente. Forse però fuori piovigginava. Persino il panorama di una finestra da cui non si vedeva niente, era meglio che guardare quella camera scadente. Forse, se fosse successo al Four Season sarebbe stato meglio. Forse gli sarebbe piaciuto di più.
Per quanto lo riguardava gli sarebbe piaciuto anche farlo in quel corridoio al nono piano, sere prima. Andava bene ovunque, si era detto, bastava che quello strazio finisse.
Avevano guidato lungo tutta la 64, e ad ogni dannato motel, ad ogni VACANCY, Erik aveva immaginato cosa sarebbe successo se solo Charles si fosse deciso a
fermare quella dannata macchina. Scopare con Charles. L’unico prezzo sarebbe stato mantenere quella facciata sul perché erano in Georgia. Non erano obbligati a parlarne direttamente. Non lo erano stati. E adesso, adesso…
Charles. Sbattersi una cameriera, una ragazza qualsiasi, inconsistente… nella sua testa doveva essere così semplice, come leggere un giornale o bere un caffè. L’avrebbe fatto comunque e ovunque. Si girò pigramente verso di lui, sentendolo muoversi. Si stava aggiustando la camicia e sembrava profondamente a disagio.
C’era solo il copriletto stropicciato tra di loro. Aveva pensato che gli bastasse solo una ragazza? Gli avrebbe volentieri fatto cambiare idea, aveva pensato. Ma se lui era presuntuoso, Charles era meschino.
A Washington l’aveva eccitato da morire e poi si era tirato indietro. E l’aveva solo baciato sul collo. Poteva, sarebbe potuto essere magnifico, Erik l‘aveva capito subito. L’aveva immaginato così spesso negli ultimi giorni. Non gli capitava spesso. Sarebbe stato solo bello. Lui e Charles, tutto quello di cui aveva bisogno.
E poi basta così, tutto era finito adesso. Come se si fosse spaventato. O schifato, che era anche  peggio. A Washington, era tornato in camera con un erezione quasi dolorosa e un senso di delusione anche peggiore. Anche quella sera si era masturbato pensandolo e aveva pregato che a Charles non gli saltasse in testa di entrargli nella mente. Perché non era la prima volta che lo faceva. Sorprendentemente, ora che l’aveva fatto sdraiato a qualche centimetro da lui, non si vergognava neppure.
Forse non era Charles quello davvero anormale.
Lui, Erik, era solo stato chiaro. Quello che voleva doveva volerlo anche Charles, no?
Però ora... Non ne era più così sicuro. Ma non poteva  nemmeno giocare così, non con lui. Charles l’aveva fatto. E ora lo faceva di nuovo. Non era giusto.
Charles disse qualcosa sul tempo. Gli rispose a bassa voce. Non si voltava nemmeno.
Pioveva ancora, fuori ? Faceva insopportabilmente caldo.
L’aria nella stanza sembrava immobile. Erik si riallacciò la cintura, poi lento, si sporse dal letto e raccolse la giacca che era scivolata a terra. Doveva averla scalciata giù. E quel pavimento di linoleum era pessimo e macchiato. Adesso avrebbe voluto bere. Però era tardi e ai distributori al piano di sotto, vicino al parcheggio avevano solo
quelle bottigliette piccole, da alcolizzati disperati, con nomi e marche che non conosceva. Per la prima volta da quando aveva incontrato Charles, si sentì davvero solo.
Non aveva immaginato che andasse così. Per niente.
“Non doveva andare così.”
Charles aprì gli occhi, rivolti al soffitto. Si strofinò il naso, poi richiuse gli occhi. Non si girò. Era qualcosa di enorme. Non voleva pensarci.
Non voglio parlarne adesso.
Lo immaginava. Sempre così. Quanto avrebbe desiderato che gli entrasse e gli cancellasse ogni cosa dalla mente. Non sembrava un’opzione così brutta. Dimenticare, pregò Erik, dimenticare tutto…
“Te ne stai andando.”
“Non lo so” mormorò dopo un po’. Era il peggior scambio di parole da giorni. Si alzò, ma lasciò la giacca sul letto, in fondo. Guardò di sfuggita la macchia sul copriletto e sentì lo stomaco contrarsi. Non gli avrebbe dato fastidio, non così tanto. Se Charles non si fosse voltato e messo a sedere. Si alzò a sua volta e cominciò a disfare le lenzuola, tirando il copriletto indietro. La macchia sparì dalla vista. Charles ora era calmo, non aveva rughe a solcargli la fronte.
Solo la camicia un po’ stropicciata. Prese il suo cuscino, lo sprimacciò, lo sistemò. Fece una faccia strana.
“Resta” disse piano.
Incrociò le braccia dietro la schiena e scrutò ancora il cuscino. Sembrava insofferente.
Fottimi, ancora, ancora… Oh, mio dio. Per favore, per favore, Erik, Erik, Fallo ancora. Mi piace, va bene... Non smettere, Cristo, non smettere, so che ti piace... Fottimi, cazzo. E’ meglio, è meglio così, Dio… Erik…
La faccia di Charles diventò scarlatta. Erik abbassò lo sguardo. Non voleva ricordarlo. Ma era un po’ difficile pensare che il Charles che aveva davanti adesso era lo stesso che pochi minuti prima gli aveva tenuto stretta la testa contro la sua erezione, incitandolo a scoparlo con la bocca. Ora, ora sembrava Charles.
Guardò l’orologio alla parete. “E’ meglio se…”
Charles si sedette sul bordo del letto. Non lo guardò. Ti avevo chiesto di restare.
“Charles…”
“Non mi va di parlarne.”
Ci mise un po’, forse. Alla fine, si stese contro di lui. Gli permise anche di abbracciarlo. E dopo, anche Charles sembrò lasciarsi andare, abbastanza vicino, circondandolo a sua volta con le braccia. Lo accarezzava piano e non diceva niente.
“Charles?”
Lui lo strinse solo e non rispose.
“Charles. A va bene anche così. Non m’importa, se non vuoi... Non importa. Mi basta…”
Era sincero. Pensò che forse avrebbe potuto riuscirci, almeno provarci. Bastava stare con Charles, forse non dovevano farlo per forza. Non se non si sentiva a suo agio. Però non riusciva a convincersi. Non voleva che andasse così. Non poteva essere suo amico perché non lo era più, era troppo diverso adesso. Non riusciva più a guardarlo senza pensarci. Ma lo voleva così tanto che avrebbe potuto fare finta, fare altro, niente sesso. Solo.. Così.
Forse poi sarebbe cambiato, forse doveva solo aspettare, forse, forse, forse… Poi lo vide scuotere la testa. Erik non insistette.
Passò forse una mezz’ora. Era ancora vestito. Stava scivolando in un’indifferente dormiveglia. Charles mormorò qualcosa e lo sentì allontanarsi. Poi sentì il rumore dell’acqua scrosciante. Non era la pioggia, ma riuscì a svegliarlo. Faceva ancora caldo, era l’una e mezza di notte. Non era più così stanco. Si alzò dal letto e guardò verso la porta del bagno. Charles l’aveva lasciata aperta; lo intravedeva, era sotto la doccia, oltre i vetri appannati.
Lo guardò ancora un po’, ma Erik non riusciva a sentirsi in errore.
Aveva solo bisogno di uscire forse, adesso. Il tempo era così lento.
C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quello che era successo. Le cose erano molto più complicate, quando si svolgevano fuori dalla sua testa.
 

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La grondaia doveva essere rotta.
Dal tetto, la pioggia colava in fii liquidi, ininterrotti. L’acqua aveva formato una pozza sulle assi del corridoio esterno del motel. La pozza si era estesa, col passare delle ore e aveva formato una cascata quasi, giù per quattro scalini. Stranamente, solo i primi quattro in cima, quelli dove si era seduto, appoggiandosi con la schiena al muro, erano abbastanza asciutti. Meglio così.
Guardò la lunga fila di finestre buie. Giusto un rettangolo più chiaro in fondo. Poi tornò a guardare oltre la ringhiera, tra la massa nera degli alberi. L’aria della era più fredda, ma il caldo era ancora soffocante da artigliare alla gola. Caldo umido, pesante.
Era un clima che non gli piaceva. Era strano. Erik non ci era abituato.
Si era cambiato e lavato, tornando nella sua camera, ma sentiva i vestiti  di nuovo appiccicosi, e un rivolo di sudore sulla tempia.
Le assi cigolarono. Alzò appena gli occhi, lanciandogli uno sguardo obliquo poi, dopo un momento, abbassò le gambe, facendogli spazio. Dopo un istante, Charles si sedette.
“Torni a dormire?”
“Fra un po’.”
Teneva le mani intrecciate, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. “Non adesso, comunque” aggiunse Erik.
La luce bassa dell’ingresso ronzava pigramente sotto di loro. Era una luce giallastra. Non era molto gentile con il colorito acceso di Charles. Sembrava arancione. Rise piano. Charles lo guardò, un po’ incuriosito.
“Non è niente.”
“Non è mai niente.” Però sorrise e gli porse la lattina che aveva preso al piano di sotto. Non l’aveva nemmeno aperta. Se la divisero. Non era più tanto fredda, ma andava bene.
“Non c’era niente di meglio.”
“Non importa... Davvero, va bene lo stesso.”
Scese ancora il silenzio, anche se quella notte non lo era affatto. C’era la pioggia, incessante. E sul tetto risuonava sorda e ritmica, come se contasse il tempo scivolare via.
“Ti succede sempre?”
Charles abbassò la lattina dalle labbra. Poi si sfiorò la tempia. Capì di cosa parlava Erik e arrossì. La sua faccia si colorò di macchie rosso acceso. Era ancora più arancione.
“Sì. A volte.” Contrasse la fronte. “Dipende da con chi sono, credo.”
“Anche se perdi il controllo... Arrabbiandoti?”
Charles rise piano. 
“Quello succede meno spesso.”
Erik rimase zitto. Forse scherzava. Lo avrebbe preferito. Finirono di bere. Charles disse che probabilmente erano soli. Probabilmente erano soli in Georgia.
Non sapeva cosa intendesse, ma era un po’ malinconico.
“Possiamo partire anche adesso” disse Erik a voce bassa. “Arriveremmo a Richmond domattina sul tardi, ma..”
“Vuoi partire, Erik?… Ora?”
“Non sono io a decidere.”
Ennesimo silenzio. La pioggia diminuì, i fili d‘acqua che colavano dalla grondaia si diradarono.
“Perché hai voluto venire qui?” chiese Erik, dopo un po’.
“Lo sai. Sai perché.”
“Se è… Se è per quello che è successo prima, Charles… L’avrei fatto anche a Washington….” Charles rimase zitto, ma Erik continuò, guardandolo. “…Ma forse lo sai già. Non è così?”
“Erik…”
“Non voglio arrabbiarmi.”
“Ne hai tutto il diritto.”
“Non so a cosa pensavo. Non lo so neanche adesso.”
“Cosa?”
“E’ vero.”
“Stavamo pensando la stessa cosa, Charles.” Allora lo guardò. “So che è così.”
Charles scosse con decisione la testa. “Erik…”
“Se è perché pensi che fosse squallido o deplorevole..”
“Non l’ho pensato” … Erik, non l’ho pensato, credimi. Non è per  quello.
“E allora…”
“Tu sei… Tu sei il mio migliore amico. Però… E’ come se…non sempre, non...”
“Ora sì che è chiaro” provò a scherzare Erik, senza sorridere.
La mano di Charles tremò appena.
... Ma io non ti guardo come se fossi solo mio amico.
 
 

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Westchester, New York, il presente.
 
“A cosa stai pensando?”
Erik riaprì lentamente gli occhi.
“Niente d’importante.”
“A Charles?”
Erik inarcò un sopracciglio, perplesso. “Dovrei?”
“Dovresti.”
“Come credi. Adesso rivestiti.”
Raven rise, girandosi un poco verso di lui. “Non ho vestiti.”
“Non credo tu sia arrivata qui così.”
“Credici. E‘ notte e io sono… Blu. E‘ semplice.”
Erik rise, lanciandole un’occhiata.
Raven gli sorrise di rimando, poi però si fece seria. Non sarebbe riuscito ad ignorarla.
“Non lo scoprirà, se è quello che ti preoccupa. E anche se lo scoprisse, che importa?”
Erik fece finta di non aver sentito, ma Raven si voltò ancora e ripeté la frase e lui fu costretto a rispondere.
“Perché no?”
“Oh, Erik… Lo sai perché” Raven rise, lisciandosi i capelli sul cranio. Sembrava troppo presa dal suo riflesso, gli occhi gialli che saettavano dallo specchio a lui. “E’ troppo preso da sé stesso.”
“E’ la tua tesi preferita, immagino.”
“Anche da Moira. O da te. Adora le cose nuove.”
Guardò fuori dalle finestre scure, un po’ stanco. “Non mi interessa.”
La sentì avvicinarsi e quando la cercò di nuovo con gli occhi,  la vide sdraiata a pancia in giù, abbastanza vicino a lui, intenta a guardarlo. Sorrideva, il sorriso bianco
vivido sul viso blu notte. Erik si fece serio.
“Non puoi restare qui.”
“Ma non voglio restare qui a dormire.”
“E’ lo stesso.” Erik la scrutò, più intensamente che poteva. “Non voglio che Charles pensi male.”
Raven fece un sorriso furbo. “Ma a Charles non importa. Ne sarebbe solo contento.”
“Non credo.”
“Perché allora?”
“Come?”
“Perché non vuoi che pensi male?”
“Perché sei sua sorella e non mi sembra…” Erik le fece un sorriso affilato e divertito. “…Corretto.”
“Potrei essere la tua” replicò lei con un sorriso più ampio e gli occhi d’oro.
“Divertente.”
“Se devo essere ancora la sorella di Charles, non potrei rimanere così” disse, passandosi una mano sul collo bluastro e guardandosi ancora nel grande specchio
appeso alla parete. “A Charles piacciono solo le ragazze normali. Umane.”
Una ruga sottile si delineò sulla fronte di Erik. Ragazze normali, provò a dirsi. Forse prima. Forse ancora. Scopami. Sentì un brivido, pensando a Charles ansante sotto di lui, schiacciato tra lui e il letto, la sua bocca sulla sua, le sue mani avvinghiate alle spalle, dicendo cose che non avrebbe mai detto a nessun altro, figurarsi ad una donna.
Ma non l’avrebbe mai detto a Raven. Non l’avrebbe mai detto a nessuno in effetti. Perché non c’era niente da dire; erano lui e Charles, riguardava solo lui e Charles.
Raven cominciò ad accarezzargli piano l‘avambraccio. Lui non le ripeté di andarsene. “Se domani accadesse …”
“Sì?”
Raven battè le palpebre. “Se domani accadesse qualcosa, qualunque cosa… Potrei… Potrei venire con te?”
Erik rise piano. “Dove credi che voglia andare?”
“Ah” Raven sorrise. “Questo io non posso saperlo.”
“A Charles non piacerebbe.”
Lei ridacchiò, ma in un modo freddo, un modo nuovo. Con decisione, quasi.
“Ti importa di quello che pensa Charles? Credevo di no.”
“A volte” disse Erik, “A volte importa.”
“Secondo me non è davvero così. Dovresti fare quello che vuoi” Raven si mise seduta, appoggiandosi alla spalliera, contemplando le lucide scaglie blu tra le dita. “Potresti fare quello che vuoi. Non hai bisogno di avere il suo permesso.”
“Lo so” disse Erik piano, quasi controvoglia. “Lo so benissimo.”
“Dovresti ucciderlo.”
“Come?”
“Shaw. Se è quello che vuoi, dovresti farlo. Io lo farei.”
Erik fu tentato di stare in silenzio, ma poi disse: “E’ quello che farò.”
“Com’è uccidere qualcuno?”
“Non difficile” disse Erik laconico.
“Non sbagliato?”
“Non devi chiederlo a me.”
“Sei l’unico che conosco che l’abbia fatto.”
“Non è una cosa molto onorevole.”
Gli occhi gialli di lei si restrinsero a fessure. “Quelle sono parole di Charles.”
Erik distolse lo sguardo. “Vero.”
“Quindi?”
Erik rimase in silenzio.
Raven fissò dritta davanti a sé, il loro riflesso nello specchio. L‘uno di fianco all‘altra. “Se tu me lo chiedessi, io lo farei. Per te.”
“Non dire sciocchezze” disse piano Erik, voltandosi verso di lei. “Perché dovrei…”
“Perché potrebbe succedere qualsiasi cosa. E se venissi con te…”
“Non succederà niente.”
“Sai che non è vero” disse lei avvicinandosi. “Westchester non è un posto per quelli come noi, adesso. Non ho più voglia di fare finta che sia tutto.. Normale.”
Tornò ancora all’aspetto umano che aveva assunto di solito, poi lo baciò languidamente.
Erik non la respinse, non chiuse nemmeno gli occhi. Le mise ancora una mano sul viso e lei cambiò ancora e ora la fissava negli occhi gialli. La sentì sorridere ancora e poi lei cambiò di nuovo; divenne l’agente McTaggert, i capelli castani sciolti su una spalla.
Lui le strinse appena il braccio e lei tornò Raven e poi divenne Angel e infine la vera Raven, Raven in blu. Solo allora, Erik si lasciò un po’ andare, abbracciandola e tenendola un po’ contro di sé, almeno finchè lei non accennò ad accarezzarlo, mettendogli una mano sul petto. Avrebbe potuto, solo un momento, così...
"No".
Erik l’allontanò da sé e riprese fiato, cercando di non guardare le loro sagome nello specchio.
Raven gli sorrise. “Posso essere quello che vuoi. Puoi permettermi di venire con te.”
Erik la guardò fisso. Raven. Non sapeva se essere felice per il fatto che non capisse, che non capisse niente. Che pensasse che, a dispetto di tutto, ci fosse ancora qualcosa di normale. Però, però…  Per un folle attimo, avrebbe voluto chiederle di diventare Charles. Un Charles che era solo come appariva.
Ma non sarebbe mai stato uguale. Non aveva bisogno di un essere vuoto. Non era così che funzionava… Però l’avrebbe voluto e tanto, ammise con sé stesso.
E Raven era lì e gli sorrideva e gli diceva che poteva essere qualunque cosa. Charles era innamorato di lui, ma in fondo non funzionava davvero così. Non c’era bisogno di alcuna esclusiva.  Era così stanco. E poi Charles? Pensava sempre a sé stesso.
Meglio... Un Charles senza conseguenze, senza tutti quei problemi per la testa, gli sarebbe stato così preferibile… forse non migliore, meno amabile…
Ma non erano certo quelle le cose che l’avevano attratto la prima volta, non lo erano affatto…
Solo, una copia magari? Ora che Charles era così lontano.
Uccidere Shaw voleva dire quello, no? Ottenere qualcosa, perdere altro. Stupida etica. Stupido Charles….
“Erik?”
Lui tornò a metterla a fuoco. Lei sorrise. “Dico sul serio.”
“Non ne dubito.”
“A Charles piaceva.”
“Cosa?”
Lei si passò una mano fra i capelli, rannicchiandosi contro di lui e la testiera. “Voleva che diventassi sua madre. Ogni tanto.”
“Ah.” Erik cercò di allontanare il più possibile tutti i pensieri che gli stavano venendo in mente. Era meraviglioso, pensò ironicamente; Charles era più disturbato di lui.
Però era Raven a dirglielo, e per quanto lei lo affascinasse, lui non le credeva  davvero. Non voleva crederle. Non voleva sapere niente delle insicurezze di Charles; gli facevano solo venir voglia di andarlo a cercare e dirgli che avrebbe fatto ogni cosa per lui.
“Non mi interessa.”
Raven stirò la bocca in un sorriso storto. “Non devi pensare male.”
“Non è così. Ma non è giusto che tu lo dica a me.”
Lei distolse appena lo sguardo.
“Volevo solo farti capire che… Per me, per me non è un problema se.. Erik, capisci?”
Per un momento si ritrovò a fissarla. Avrebbe voluto dirle tutto, ma come poteva? Poi il momento passò. Non avrebbe fatto nulla di così stupido, di così avventato. “Capisco. Ma non ho intenzione di farlo.”
Raven sorrise come se fosse sua complice. “Possiamo parlarne però…”
“Ho detto no.”
“Per me non è un problema” continuò lei. “E’ il mio potere, no?”
Lui scosse la testa. “Non essere infantile.”
Gli occhi gialli s’indurirono, ma il sorriso non sparì. “Credi che stia giocando?”
“No” replicò Erik. “E’ proprio questo il problema. Non dovresti rimanere così.”
Raven sorrise docilmente. “Dovrei rimanere sempre blu?”
Lui le sorrise di rimando. “Solo quando non hai un motivo migliore.”
“Charles lo sa che dai questi consigli?”
Il sorriso di Erik s‘incrinò appena. “Non vedo nessun Charles adesso” rispose in tono freddo.
“E ora?” Raven rise. Ma quando rise, lo fece come Charles.
Lei era Charles. Lui ne guardò solo il riflesso nello specchio. Non riusciva a sopportarlo.
“Cambia.”
Lui la fissò. Charles gli restituì uno sguardo troppo altero. Era un’espressione che il vero Charles non avrebbe mai assunto.
“Cambia.”
“No.”
“Non so che giochetti tu sia stata abituata a fare ma, Raven, seriamente. Non mi interessa.”
Lei tornò col suo aspetto umano. “Lo faccio per te.”
“Mi va bene come sei. Non ho bisogno di copie.”
Lei tornò blu. Cambiava così velocemente da far male agli occhi.
“Sono meglio di una copia.”
“Non ne dubito.”
“Non è mia intenzione usarti così. Non mi interessa.”
“Carino” disse lei inclinando il capo.
“Solo corretto” replicò Erik. “E’ diverso.”
“Erik, te lo sto chiedendo io. Posso essere chiunque tu voglia. Non è così terribile” disse, allungandosi verso di lui, sorridendogli divertita.
“Marilyn Monroe.. ? Rita Hayworth… Marlene? Chiunque tu voglia. Consideralo un regalo.”
“Ci hai provato così anche con il piccolo scienziato?”
“No.”
Una piccola ruga si disegnò sulla fronte di Erik.
“Con Charles?”
“Bè, lui sì, ma…” Lei rise. “E’ stato lui a chiederlo, ma non per… Se gliel’avessi proposto io… Mi avrebbe cacciato. Una lunga storia. Sono io che lo chiedo a te… Erik.”
Nonostante l’impulso di allontanarla, di gridarle che no, grazie, in tutta onestà preferiva altro, le sorrise.
“Non ti chiederei di diventare mia madre. Se è quello che ti preoccupa.”
Lei rise e lui si pentì. Erano appena, appena vagamente riusciti ad allontanare l’ombra di Charles dalla conversazione… Ma lui non ci riusciva. Ormai glielo aveva detto. Ed Erik non riusciva, non riusciva a non pensarci.
“Perché?” chiese. “Perché te lo chiedeva?”
“Perché lui era gentile” rispose Raven, avvicinandosi ancora. “Perché era sempre solo.”
Questa volta fu di nuovo Erik a baciarla per primo. In realtà, non gli dispiaceva. Non riusciva nemmeno a sentirsi davvero in colpa. Le fece scorrere la mano sulla spalla, lentamente, indugiando. Quella pelle era così curiosa. Particolare e insolita. Lei non era la sorella di Charles. E lui non era davvero suo amico. Non c’entravano niente con lui.
“Perché era sempre solo?” le chiese piano.
“Perchè lo odiava” disse lei accarezzandolo sulla nuca. “Lei aveva paura di lui.”
Erik sorrise contro le sue labbra. Non per ridere di Charles. Era solo… Triste. Raven aveva gli occhi chiusi, non lo percepì.
Raven era legata  a Charles. Quasi come se ne fosse davvero innamorata. Perciò, non trovava strano parlare di Charles anche quando erano così, anzi. Forse, le faceva piacere, la rassicurava; era Charles che sbagliava, che fingeva che fosse sempre tutto a posto e normale. Non loro. Charles era solo qualcosa che li univa, inevitabilmente. E faceva piacere a lui.
Perverso, pensò Erik. 
“Lui le voleva disperatamente piacere…” disse ancora Raven, staccandosi e mettendosi ancora al suo fianco, stringendosi  a lui. “Ma lei … Lei se n’è andata.”
“E cosa ha fatto?”
“Come?”
“Charles. Che ha fatto, quando lei se ne è andata?”
“Quello che farà con noi.” Raven fece un sorriso strano. “L’ha lasciata andare.”
Erik appoggiò la testa contro la sua. Forse non sarebbe stato tanto male. Forse stare lontano da Charles non poteva essere così brutto. Adesso non gli mancava.
Appena appena… Con il tempo, sarebbe andato tutto a posto. Forse non l’avrebbe dovuto vedere più. Gli era già successo. Succedeva di continuo, vero? E poi era meglio che lui stesse da solo. Non era fatto per gli altri. Uccidere Shaw risolveva parte del problema, ma non risolveva sé stesso.E non poteva tenere Charles vicino, no. Charles in realtà non lo capiva davvero, se lo avesse capito, gli avrebbe lasciato uccidere Shaw, anzi, l’avrebbe aiutato e l’avrebbe lasciato rimanere a Westchester… Oppure, oppure avrebbero potuto andarsene assieme, da qualche parte, dopo. Solo lui e Charles, non c’era bisogno di niente.
Gli avrebbe dato tutto quello che voleva. Avrebbero avuto solo giorni. Giorni e notti come quella a Savannah.
Niente di più, pensò Erik premendosi contro Raven, la sua gamba contro la sua.
“Diventa lei.”
“Cosa?”
Erik abbassò il viso verso di lei, parlando contro il suo orecchio, come se dovesse sussurrarglielo. Non avrebbe voluto dirglielo davvero. Però ora lo desiderava.
“Diventa lei.”
Raven lo guardò. Gli occhi topazio fissi, le pupille nere e strette, implacabili.
Lui non abbassò gli occhi. Batté appena le palpebre e poi Raven si spostò davanti a lui, scrutandolo. Dopo un attimo, Raven cambiò.
Erik la riconobbe. L’aveva già vista, più di una volta. Non solo quella sera a Savannah. Tutte le volte che riusciva ad entrare nella mente di Charles, tutte le volte che Charles pensava così intensamente da cancellare ogni barriera che li divideva. Come se anche Erik fosse, per qualche momento, alla pari con lui.
Vista con gli occhi di Charles gli era sembrata solo molto più bella. Ma a vederla ora, duplicata da Raven, il viso non era così dolce, le labbra non erano così piene e invitanti. Semmai dure e decise e gli occhi inspiegabilmente fissi e rigidi, come se fossero finti, come se non vedessero davvero oltre sé stessa.
Però erano azzurri.
Azzurri come quelli di Charles… E i capelli biondi impeccabili e il disegno degli zigomi erano gli stessi di come li aveva visti nei ricordi di lui. Raven -la madre di Charles- sorrise.
Lei gli si avvicinò, ancora sorridendo, aggiustandosi i capelli dietro l’orecchio. Sembrava uscita dagli anni quaranta. Erik stesso non sapeva perché ne era così affascinato. Forse perché era una delle prime immagini che aveva visto nella mente di Charles.
Un'immagine che gli era rimasta vivida della mente perché l’aveva vista la prima sera in cui l’avevano fatto. Forse perché quella donna, era parte di Charles. Non lo era davvero; era solo uno specchio.
Lo specchio di una donna che aveva amato Charles e poi -stando a quanto diceva Raven, ma anche pensando a quel poco che Charles si era lasciato sfuggire, ora sembrava più che vero-quella era la donna l’aveva abbandonato a sé stesso…
Quanto avrebbe voluto dimenticarsene…
Gli aveva chiesto di diventare lei, perché non poteva chiedergli di diventare Charles, pensò mentre la baciava. Era già abbastanza strano che fosse così.
Raven aveva riso all’inizio. Lui non aveva cercato nemmeno di difendersi, ma si stavano baciando ancora e lei disse che non aveva intenzione di smettere, se era quello che lo divertiva. Se lo trovava strano, non lo disse.
Erik non voleva smettere. E poi.. E poi aveva cominciato lei…
Così è come va, aveva letto una volta Erik. Non aveva mai baciato una donna così, almeno da quel che riusciva a ricordare adesso. Forse nessun altro uomo.
Ricordava solo di aver baciato Charles. Sempre e solo Charles. Voleva solo andare a cercarlo. Quando pensava, tutto si collegava a lui.
Non aveva voglia di tenerlo fuori dalla sua mente.
Sarebbe stato difficile se Charles avesse scoperto la verità. Una verità che nemmeno Erik sapeva bene, che non sarebbe riuscito nemmeno a pensare, definendola. Però era lì, gli aleggiava davanti, se fosse stata solida avrebbe potuto prenderla…
Era innamorato di lui. Era così innamorato che qualunque cosa si legava a Charles gli faceva perdere la testa, dalla prima volta in cui aveva capito che voleva molto di più. Era il suo migliore amico, era il suo salvatore. Se Charles fosse stato con lui avrebbe sempre avuto ragione, sarebbe stato solo completo, perché
Charles, Charles era tanto… Straordinario.
Riaprì gli occhi. Sotto di lui, Raven\La madre di Charles aprì le palpebre e all’azzurro per un momento si sostituì il topazio.
Sentiva il peso delle sue gambe intrecciate alle sue, agganciata a lui in un modo che non era poi così diverso da quello con cui stava con Charles.
Non sarebbe stato troppo complicato, pensò Erik. Non c’erano molte conseguenze da considerare adesso… Però avrebbe voluto che lei rimanesse così. Bionda, bella ed elegante, con quella vaga ombra di rossetto poco sopra il labbro.
“E’ divertente vero?” mormorò lei piano. Anche se non sembrava poi così convinta.
Erik non disse niente. Le tenne le braccia sopra la testa, strette per i polsi e la baciò ancora. Lei inarcò la testa, esponendo il collo. La baciava lentamente e poi intensamente, schiacciandola sul materasso, fra le lenzuola e le coperte che profumavano di pulito. Più la baciava, più serrava le palpebre, accarezzando quel viso che conosceva così poco. E vedeva Charles, e continuava a vederlo. Riaprì gli occhi e fu quasi sicuro di vederlo nella cornice dello specchio.
Ne era perseguitato. Sentiva come un fischio nella testa, un suono distorto. Ad un certo punto, credette di sentire la sua voce. Stava impazzendo? Ci era molto vicino.
L’azzurro dei suoi occhi era identico a quello di quelli di Charles. Come se quella fosse una motivazione a quello che stava facendo. Lei lo abbracciò, sembrava stringerlo così forte. Molto di più. Anche se era una donna, una donna alta, sì, ma molto magra.
Era quasi convinto adesso, pensò, scoprendole il collo. Chiederle di diventare Charles.
Chiederle di diventare quello che voleva davvero, solo per un po’, solo per qualche ora…  Non sarebbe stato così terribile, non sarebbe stato così….
Incrociò ancora i suoi occhi e vide che erano di nuovo gialli, oltre le palpebre abbassate. Non ci sarebbe riuscita. E lui, nemmeno lui.
Alzò la testa e si fermò.
“Che c’è?”
“Non mi va.”
"Cosa?"
Erik la guardò ancora per un momento, poi rotolò giù, sospirando di rabbia, ricadendo di fianco a lei. Era tornata sé stessa e forse era una fortuna, a pensarci.
Restarono a fissare il soffitto, finché Erik non si passò le mani sul viso, sospirando. Non voleva dare delle spiegazioni, aveva solo un po’ di timore a come giustificare questo a Raven. Ma lei non disse niente, non chiese nulla. Le era vagamente grato. E non era stanco.
“Sono stanco.”
Raven gli passò una mano sul braccio, accarezzandolo piano.
“Mi hai sentito?”
“Sì.”
“Vorrei che te ne andassi.”
“Erik…”
Lentamente, lui si girò e le sorrise. Sperò di essere convincente.
“Non è colpa tua.”
Lei gli restituì lo sguardo, spostandosi appena su di lui. “Portami con te.”
Erik la guardò a lungo, poi scosse la testa.
“No. Se vorrai, potrai seguirmi. Ma io non ho intenzione di portarti da nessuna parte, Raven. Sei tu che scegli.”
A quelle parole, Raven sorrise. Augurandogli la buonanotte, uscì silenziosa dalla stanza, la figura blu inghiottita da uno spiraglio d’ombra.
 
 

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(*)
“Sai… A volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita, se quella sera non mi avessi trovata.”
“Scusa come … ah…”  con una smorfia, Charles si girò distrattamente verso la voce e poi si girò di nuovo, quando la vide in controluce.

“Per l’amor del cielo Raven” le disse, chiudendo il frigo e distogliendo lo sguardo.
“Dove sono i tuoi vestiti? Mettiti qualcosa addosso.”
Distolse ancora la faccia, cercando di non guardare nella sua direzione. Era davvero a disagio. Avrebbe dovuto bere whiskey, whiskey e basta, non volerlo con l’acqua. Non aveva voglia di parlare.
“Non hai detto questo la prima volta che mi hai vista… Ma gli animali domestici sono sempre più carini da cuccioli, vero?” rispose lei, sedendosi al tavolo.
“Non so cosa ti prenda da qualche tempo” replicò avanzando verso di lei a testa bassa. Non aveva voglia di litigare anche con Raven, aveva già abbastanza pensieri per la testa. Meglio risolverla subito, un conflitto già in corso era sufficientemente stressante.
“Pensavo fossi di buon umore...” cominciò sedendosi e guardandola ostinatamente in faccia. “Hank mi ha detto di aver trovato una soluzione al tuo problema… estetico.”
Lei rimase in silenzio.
“Vuoi dirmi cosa ti preoccupa, o devo leggerti nel pensiero?” le chiese pacatamente.
“Mi hai promesso che non l’avresti mai fatto” replicò Raven piano, un po’ incattivita.
“Fino a oggi, non ho mai dovuto usare il mio potere per capire che cosa pensassi.”
Lei scoprì appena i denti e si protese verso di lui, le mani intrecciate sul tavolo.
“Sai Charles, ho sempre pensato che tu ed io saremmo stati insieme contro il mondo, ma per quanto il mondo diventi cattivo, tu non vuoi metterti contro di lui, vero? ...”
“...Tu vuoi farne parte!” sibilò, alzandosi di scatto e dandogli le spalle, si allontanò.
Charles si allungò sulla sedia, guardando verso la soglia vuota e attese. Sbuffò ancora, alzò gli occhi al soffitto, guardò ancora verso il corridoio e poi si alzò a sua volta.
“Raven? Raven… fermati.”
La raggiunse nell’ingresso. Lei era già sulla scala e la sua pelle blu, risaltava nel colore indaco della notte che entrava dai lucernari. Inspirò appena. “Qual è il problema?”
Lei scosse appena la testa. “Sei così cieco, Charles.”
“Non parlare così.”
“Perché non dovrei? E‘ vero. Sei incapace di capire quello che sta succedendo.”
“Non devi parlare così…” Charles fece un paio di passi sul pavimento a scacchi. “Perché questa non sei tu.”
“Mi stai leggendo nella testa?” chiese lei, inclinando la testa, il bianco degli occhi che risaltava nella penombra. “Non ti azzardare…”
Charles rimase in silenzio. Le mani incrociate dietro la schiena, le sentiva formicolare. In realtà avrebbe voluto prenderla a schiaffi, prenderla a schiaffi e farla rinsavire.
Era suo amico, perché le parlava così? Non aveva bisogno di altre persone arrabbiate con lui.
“Possiamo parlarne, Raven?”
“Mi stai leggendo nella testa?”
“No.” Scosse la testa. “Non m’interessa. Voglio che me lo dica tu.”
“Non parlarmi come se fossi…”
“Se fossi… cosa?”
“Vecchio. Vecchio, ingenuo e umano, Charles, esattamente cose che non sopporto.Vorrei solo che tu capissi, ma tu non riesci ad andare oltre te stesso, vero?”
Charles rimase interdetto. Cercò di trattenersi mettendo le mani in tasca. Aveva una strana sensazione, un brivido gelido che risaltava nelle ossa. Era un gran brutto presentimento, ma riusciva solo a fissare gli occhi di Raven, brillanti nella notte. Quel color ambra.
Non conosceva più bene quegli occhi.
“Non voglio litigare anche con te, Raven.”
“Non è Raven” affermò lei testardamente. “ E’ Mystica.”
“Che? Oh, … Santo Cielo”, sbottò Charles, avanzando verso la scala. I suoi passi risuonarono appena sul pavimento lucido.
“Perché hai in testa certe sciocchezze? Chi…”
Poi però si zittì e lei lo guardò appena, parlando a voce più alta, facendolo tacere.
“Io sono così, Charles, vado bene così, sono stanca di dover… di dover essere normale. Non vogliamo essere tutti come te, Charles. Pensaci. Non puoi credere ancora che sia ancora tanto semplice.” Strinse il corrimano e sali un altro paio di scalini. “Noi siamo perfetti così. Non siamo noi a doverci adeguare” aggiunse in tono gentile, e Charles si accorse che il suo stomaco  era orribilmente contorto e che non riusciva a risponderle perché aveva la gola bloccata. Era così teso, ed era tanto vicino alla soluzione di come e perché Raven parlava così e non voleva pensarci, perché se fosse stato vero sarebbe stato solo orribile e lui sarebbe stato solo.
Restò in silenzio.
La sentì augurargli la buonanotte e lui la guardò salire le scale, cercando di non pensare a niente. Era così concentrato a fissarla che ci mise qualche secondo a realizzare che era comunque scivolato nei suoi pensieri e che lui era rovinato, perché ora capiva.
La vera Raven… Perfezione. Perfetta così. Straordinaria. Charles capì ogni cosa e si ritrovò a fissarla con gli occhi sbarrati. 
Diventa lei. Se vorrai, potrai seguirmi.
Charles si riscosse. Era terrorizzato, più che furioso, poi tutto sembrò sparire e divenne insensibile. Come aveva potuto? E lui non se n’era nemmeno accorto…
“Charles.. Mi hai letto nella mente?“
Raven si fermò e si girò lentamente, gli occhi famelici. “L’hai fatto?”
Lui le restituì uno sguardo incerto, ma rimase in silenzio. Non era arrabbiato, non era offeso, non era triste.
Non sentiva assolutamente niente.
Lei capì; lo guardò con l’odio vivo nelle iridi d‘oro. Poi gli diede di nuovo le spalle e si allontanò in fretta, sparendo sullo scalone, nelle ombre.
 


 

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Un po’ di tempo fa, Monroe’s Motel.
Savannah, Georgia.

 
.... Ma io non ti guardo come se fossi solo mio amico.
Charles contrasse le mani sulle ginocchia.  “Se tu fossi solo il mio migliore amico, non vorrei mai.. Non dovrei mai… Cazzo.”
“Se non vuoi parlarne, non parliamone” tagliò corto Erik.
A lui sarebbe piaciuto però, pensò. Parlare e parlare ancora. E magari tornare a letto. Non era arrabbiato. Non si era arrabbiato nemmeno prima, in realtà, provò a convincersi. Non sul serio. Charles sembrava pensarlo, da come continuava a parlargli, con quella voce bassa, come se si sforzasse di essere gentile.
Aveva fatto male ad aspettarsi chissà cosa, che sarebbe andato tutto bene. Non era così che funzionava. Non era così.
“Io non ci riesco.”
Erik non lo guardò nemmeno. Charles insisté.
“Non doveva andare così. Tu sei il mio migliore amico. Io non posso... non posso volere, nemmeno tu vuoi... Questo.”
Erik sentì le mani formicolare. Stava scherzando o era davvero serio?
“Charles, smettila di ignorarlo. Il tuo migliore amico? Non mi conosci da nemmeno un mese. Chi credi di essere per ..”
“Sto' solo dicendo che.. Che dovresti esserci abituato. Quindi perché tocca a me decidere cosa fare?” Charles gli sorrise un poco divertito, le palpebre leggermente abbassate. “Mi chiedo come ho fatto a non vederlo. A non capirlo. Di solito… Se l‘avessi visto…”
“Avresti preso delle precauzioni?” chiese Erik a mezza bocca.
Il sorriso sparì.“Mi sarei… Mi sarei solo comportato diversamente.”
“Charles.”
“Scusa. Volevo solo..”
“Cosa, cercare di capire? Non farlo.”
Perché lo faceva sempre, sempre arrabbiare? Non erano già stati cinque giorni difficili? Non voleva litigare con Charles. Come quando era solo suo amico e non aveva ancora l’abitudine di guardarlo strano e di dirgli quanto lo trovasse attraente, per poi toccarlo e confonderlo e tutto questo assieme e lasciargli credere che...
Come se avesse quasi bisogno di lui. Quando era Charles e basta, lo desiderava così tanto. Non che adesso volesse il contrario, però non poteva non sentirsi in colpa.
Forse Charles non lo faceva apposta. Probabilmente era così.
“Io non ci riesco, Erik. Mi dispiace, credo che sia stato…”
Erik lo fulminò con lo sguardo. Non lo sopportava più. Fu quell’occhiata cattiva, a far diventare risoluti gli occhi di Charles.
“Credo che sarebbe successo comunque, in verità.”
“Non è vero.”
“Perché?”
“Perché io non mi sarei mai comportato come te” disse Erik freddamente.
Charles arrossì violentemente, ma gli occhi s’incupirono. A dispetto di tutto, sembrava più alterato che imbarazzato. 
“Ah, certamente. Ne sono sicuro.”
“Non mi riferisco a quello che è successo adesso” continuò Erik, ignorandolo. “Se tu non avessi… A Washington… Io non ti avrei mai detto nulla. Non mi aspettavo niente, Charles.”
“Quindi è colpa mia?” chiese Charles.
“Non sto dicendo…”
“Ma lo stai pensando.”
Erik alzò gli occhi al cielo. Intercettò quasi per sbaglio lo sguardo di Charles e si accorse che sorrideva. Sentì che gli sorrideva a sua volta. Charles allora rise brevemente e lui si limitò a distogliere lo sguardo, verso la ringhiera.
“Stupido” mormorò.
“Dicevi sul serio prima?” chiese Charles dopo un altro po’, tornando serio.
“Quando?”
“Quando hai detto che non era importante se io… Se noi non avessimo…”
Erik guardò fisso nella massa nera davanti a lui. “Sì.”
“E ci.. Ci credevi?”
“Per un momento” disse lentamente. “Per un momento ho voluto crederci.”
“Perché… Perché non… Non mi è dispiaciuto, se è quello che pensi, ma…”
“Immagino tu sappia benissimo, cosa sto pensando.”
Charles si ricacciò indietro i capelli. Con quella luce arancio sembrava  più vecchio adesso, aveva un reticolo di piccole rughe vicino agli occhi. Forse perché teneva la fronte contratta, forse perché in realtà Erik lo vedeva sempre in un altro modo.
“Giusto. Posso sapere qualsiasi cosa.”
Forse stava cercando di scherzare, ma il tono era troppo serio e lo innervosì ancora di più. Non ne poteva più, erano così tante parole. Tutte così inutili…
“Che cosa pensavi?” continuò Charles. “Pensavi davvero che sarei stato…”
“Che stai…”
“Io non sono come te, Erik. Non così, almeno.”
“Sta’ zitto.”
“Non è così semplice, se solo lo fosse… Io…”
“Charles.” Si girò verso di lui di scatto, insofferente. Avrebbe voluto ucciderlo davvero.
Perché non stava zitto?
“Non credo che sia una buona idea.”
Erik alzò gli occhi al cielo, passandosi una mano sulle tempie. Così fastidioso era…
“E’ semplice, Charles!” sbottò infine, gli occhi fissi nei suoi. “… Prima è stato semplice, sei tu che complichi ogni cosa, ogni cosa! Perché devi farlo?”
Charles alzò le sopracciglia, interdetto. Sembrava dispiaciuto, ma anche troppo serio.
Erik inspirò. Ora era furioso; gli tremavano le mani.
“Credi che a me vada bene così? Quanto ancora vorrai andare avanti? Siamo venuti fino a qui, fino a qui… Solo perché a te fa’ tanto schifo, perché non è tanto normale. L’unico che può sapere tutto sei tu, se sei tanto stupido da pensare che io…”
Erik s’interruppe. Non funzionava, si accorse che era inutile. Charles era tanto sveglio, tanto acuto, tanto brillante… ma non capiva. Di nuovo, si sentì come se fosse lui, fosse lui quello poco normale. A giudicare da come lo guardava Charles, sembrava proprio così.
“Cancellalo” disse infine, piano.
“Cosa?”
“Cancellamelo dalla testa. Giochi con la mente, no? Sono sicuro che puoi farlo.”
Charles scosse la testa. “No.”
“Perché no? Perché tu lo sapresti comunque?” chiese Erik con voce fredda.
“Perché non voglio.”
“Dovevamo tornare subito a Richmond.”
“Non è colpa mia.”
“Charles…”
“Io non ci riesco. Non riesco ad essere così, ma non voglio nemmeno che sparisca.”
“Immagino che sia perché non sono una femmina” bisbigliò Erik rabbioso. Non voleva dirlo. Ma non ne poteva più di non dire quello che sapevano benissimo entrambi.
“Se tu fossi una donna non ti avrei nemmeno guardato” replicò Charles a bassa voce.
Erik che stava per alzarsi, rimase seduto. Non sapeva che dire.
Poi Charles parlò ancora, anche se non lo guardava.
“Non avrei mai… Non avrei mai fatto niente. Se tu non fossi… Se tu non fossi stato così, non sarebbe mai successo niente.”
“Se io non fossi cosa, Charles?”
“Lo sai.”
“Charles…”
“Non ne voglio parlare, Erik. E’ troppo…”
“Vorrei solo…”
“Non è tutto a posto, Erik. Non lo è.”
“Lo so. Vorrei solo che lo fosse per te.”
Charles fece un sorriso storto. “Questo non deve importarti.”
Erik tacque.
“Avrei dovuto chiedere a Moira di venire.”
Il sorriso di Erik fu più storto che mai. “Sarebbe stato meglio.”
“Questo non lo possiamo sapere.”
Erik gli si avvicinò, provando ancora a baciarlo. Durò poco, perché Charles distolse presto il capo, senza alzare la faccia.
Sotto la luce arancione riusciva solo ad indovinare che era arrossito ancora. Ed era sempre serio con lo sguardo così fisso e pensoso.
“Per favore, Erik. Io non sono così.”
“Allora dimmi di smetterla.” Non lo lasciò andare e nemmeno Charles lasciò lui. Lo stringeva solo per le braccia, ma era il modo migliore in cui avrebbe voluto stringerlo adesso.
“Non ho mai detto che tu debba esserlo. Quando dico che sei simile a me…. Charles, guardami. Io…”
“No.”
Interdetto, Erik lo lasciò andare. Mentre guardava Charles di sottecchi, cominciò a pensare a quanti problemi avrebbe avuto in meno se Charles non si fosse messo nella sua strada. Sarebbe morto nel porto di Miami. Morto. Niente problemi, niente Shaw, niente giochi mentali; una liberazione. Ma c’era una parte di lui, quella parte che l’aveva spinto a seguire Charles, a essere gentile, ad apprezzarlo, a essere d’accordo con lui, ad arrabbiarsi quando l’aveva visto in difficoltà…
Una parte che gli impediva di credere che quella sarebbe stata la scelta migliore.
“Charles, che cosa pensi davvero?” gli chiese, dopo un po’.
Lui -dopo un tempo esasperatamente lungo- finalmente si girò.
“Scusami?”
“Pensi davvero tutto quello che dici?” chiese Erik gentilmente.
Charles si morse appena il labbro, gli occhi vividi e i capelli appiccicati alla tempia. Poi scosse la testa, senza distogliere lo sguardo da lui. “No.”
Lo disse dopo un po’, dopo un po’ che era sceso il silenzio. Anche Erik aspettò a parlare, forse parlare non serviva più tanto.
Sono tutte scuse? Provò a pensare. Lo sentiva nella sua testa.
Gli occhi di Charles si restrinsero appena.
Sì.
“Sai anche che non l’avrei mai fatto se tu…”
Sì.
“Voglio solo che vada bene a te.”
“Non c’è niente di sbagliato, lo so” rispose Charles piano.Non c’è niente di sbagliato in questo. E’ così, e non riesco a non pensarci. So che è giusto,che va bene, ma poi? Ma non c’è una soluzione giusta... Non riesco a vederla. Non c’è…E poi cosa succede?
Erik contrasse appena la fronte. “Non devi… dobbiamo… Possiamo non pensarci adesso?”
Il cielo era scuro. Un uccello stridette, fra gli alberi. Gli alberi erano una massa nera e opprimente. II vialetto che portava al parcheggio, si perdeva nel buio, nel nulla.
Erano soli, per quella sera. Non sarebbe arrivato nessuno. Non sapeva come riuscisse a crederlo, con così tanta certezza.
E non aveva sonno, forse non avrebbe mai più dormito bene. Ora lo capiva, quando avevano detto che erano soli in Georgia.
Faceva parte tutto della stessa scusa. Come l‘essere ubriaco. E anche se erano lontani, da qualunque cosa opprimesse Charles, andava bene. Era sempre una scusa.
Ed Erik si sorprese, quando capì che non gli importava. La pioggia ricominciò a scendere, picchiettando più forte, sul tetto di lamiera.
Non si mossero, però. Erik capì che lo stava solo aspettando.
Allora, si girò verso Charles e lo guardò. Anche Charles lo stava fissando, non sapeva da quanto.
Per la seconda volta o terza volta, quella sera, fu Charles a baciarlo per primo.
Aveva la bocca fresca e dolce. Erik socchiuse le labbra volentieri, mentre lo prendeva per la nuca, tirandolo verso di sé.
Sentiva la sua lingua sfregare contro i denti, il palato. Sospirava raucamente, come lui. Come se dovesse sforzarsi. Charles, che lo baciava come se stessero litigando.La pioggia batteva più forte contro il tetto, e una mano di Charles gli accarezzava la gamba che teneva premuta contro la sua, sfregandola.
Ad Erik sembrava solo normale. Ma c’era da impazzire, a stare dietro a Charles. E poteva sembrare stupido, e inutilmente doloroso, ma era disposto a dargli tutto il tempo del mondo. A sopportare ogni cosa. E non gli importava che Charles lo sapesse, che adesso stesse nella sua testa. Erano abbastanza lontani da quello che costituiva davvero un problema per Charles, adesso.
Se non altro, aveva smesso di dispiacersi, di scusarsi. Forse, perché in fondo gli dispiaceva davvero, tanto da non volerne più parlare. Forse doveva andare così, prima. Doveva solo faticare un po’ di più.
Sentirono il rumore di una macchina, ma era lontano, e poi passò. Lo scroscio dell’acqua sulla veranda era più forte. Si staccarono appena, poi lo prese per le spalle, sbilanciandolo contro la parete, ricominciando a baciarlo, mentre Charles lo stringeva, tirandolo contro di sé.
Ad un certo punto, Erik sentì le dita schiacciate tra la schiena di Charles e il muro rivestito di assi. Si graffiò le nocche nella foga di trattenerlo, ma non gli importava.
Non voleva che fosse niente di calmo o dolce o carino. Non del tutto, almeno. Non era così che funzionava per lui.
La voglia che aveva di avere Charles era così accompagnata dall’idea di dovergli fare del male che in parte anche lui ne soffriva.
Gli spiaceva, ma era così che lo sentiva. Non c’era altro modo, gli disse. Non poteva fare altrimenti.
Lasciò che Charles lo accarezzasse. Che cominciasse almeno; aspettava solo il momento migliore, quello per dirgli di tornare in camera. Certo, lì fuori faceva un poco più fresco e l’odore della pioggia e del legno vecchio non erano così terribili, ma non vedeva l‘ora di chiedergli di tornare dentro. E poi era notte fonda e loro erano soli in Georgia, no?
Anche adesso che lo stava baciando, continuava a pensare a quello che avrebbero fatto dopo, a immaginarlo. Era per quello che erano venuti lì, il resto erano solo scuse, per quanto Charles fosse insicuro e temporeggiasse.
“Pensi ancora che io sia un deviato?” gli mormorò all’orecchio, prima di appoggiare le fronte alla sua. Charles sorrise e non rispose.
Lo baciò ancora, profondamente assorto. Poi disse qualcosa d’indistinto. Disse che era un ipocrita. Che lui, Charles, era un ipocrita. Erik si sentì stringere le viscere.
Era ancora meglio di quando era arrendevole, pensò. Quando ammetteva di aver sbagliato…
“…Non l’ho mai pensato” aggiunse dopo. Poi rise. “Ho solo.. Solo dubitato di me stesso.”
Erik lo strinse ancora e gli chiese cosa avesse provato a Washington, a come si era comportato quando erano tornati in albergo, se ci pensava e Charles glielo disse con la voce spezzata, tra un bacio e l'altro. Gli disse che non pensava ad altro. Sapeva benissimo quello che faceva e ne era terrorizzato.
E più Charles parlava e più gli veniva voglia di baciarlo e si schiacciava contro di lui, quasi ad inchiodarlo contro la parete.
Non lo prese per mano. Non gli disse niente, e forse neppure lo pensò. Sapeva solo che ad un certo punto si erano alzati.
Non ricordava nemmeno il rumore dei loro passi sulle assi di legno, né se fosse stato lui o Charles a deciderlo. Forse era inevitabile.
Si erano come staccati, come se fosse tornato tutto normale. Charles davanti a lui, la pioggia che cadeva di traverso, colpendo secca il tetto, gocciolando incessante dalla grondaia. E il caldo appiccicoso, e un paio di strida tra gli alberi. Aveva pensato di prenderlo, farlo voltare e baciarlo ancora ma poi erano di nuovo alla 23, con la luce che filtrava dalle tapparelle abbassate. L’unica differenza con il solito era che tra loro adesso non parlavano più e lui faceva maggior attenzione persino al suo respiro.
Con uno scatto secco, la porta si chiuse dietro di loro e Charles vi si appoggiò con le spalle. Gli sorrise appena.
Ora che non c’era più quella luce arancione sembrava solo più pallido e la pelle un po’ più invecchiata. Teneva le mani appoggiate, solo con i polpastrelli, alla porta. Sembra molto più losco di quello che è in realtà.
Erik sorrise e abbassò la testa. Ora era in imbarazzo. Quel piccolo problema di Charles di pensare sempre…
“Non pensi mai che sia ingiusto?” lo sentì chiedere a voce bassa.
“Cosa?”
Io posso sapere tutto quello che pensi. Se voglio.
Erik reclinò un poco la testa contro la parete, trattenendo una risata. Si sentiva insolitamente tranquillo. Forse non era solo Charles a sentirsi calmo e pronto a parlare, stando rinchiusi da qualche parte, nella penombra.
“Sono attratto da te, Charles. Non mi interessa che tu lo sappia.”
Charles alzò gli occhi e con gemito rauco, si schiacciò contro di lui, lasciando che le mani di Erik si stringessero sul suo viso, fino a scendere e  stringerlo dappertutto, disordinatamente. S’inarcò appena e ne cercò la bocca, il naso premuto contro la sua guancia, respirando fin troppo affannosamente. Lo sentì infilare le mani sotto la sua maglia, sentirne i muscoli frementi, tirandolo contro di sè.
Era uno strano giorno, pensò Erik, assecondandolo. Il muro contro la sua schiena era ruvido, e non sembrava fornirgli un vero appoggio, mentre cercava di districarsi nel disordine di gambe. Cominciò a tenerlo per la vita, facendo scivolare le mani più in basso. Era molto meglio, stava così bene. Stavano così bene. 
Lo baciò ancora, poi Charles allontanò un momento il viso. “Magari…”
“C-cosa?…”
“Magari posso…” Charles gli slacciò lentamente il colletto. Aveva linee di concentrazione sulla fronte, lo sguardo fisso sulla sua gola. Charles, che prima lo baciava con foga e poi chiedeva permesso. Reclinò un po’ la testa mentre Charles si dava da fare, baciandogli la gola e risalendo lungo il collo, tenendo le mani premute sul petto. Era… Era così interessante. Non era ubriaco, e non era davvero in imbarazzo o a disagio. Tutt’altro, si disse Erik, come se avesse bisogno di convincersi che fosse vero.
Persino il suo respiro era più veloce, mentre fissava lo spiraglio di camera visibile dall’ingresso. C’era ancora il letto semisfatto e le lampade basse. Aveva pensato che farlo con Charles - puro egoismo- in un posto tanto malmesso sarebbe stato sicuramente il modo migliore per farsi odiare da lui. Non era…
Non gli sarebbe già sembrato abbastanza strano?
Anche se, mentre si avvicinavano a Savannah, sarebbe stato pronto  a chiedergli di fermarsi ovunque. Certe cose ... Non erano importanti, non andavano pensate.
Adesso decise che non importava affatto. Quella squallida stanza andava benissimo.
Aveva solo voluto che tutto fosse a posto per Charles, ma ora che lui era così, tutto il resto non importava. Poteva fare tutto quello che voleva. Aveva come il sospetto -sorrise- che Charles sarebbe stato perfettamente in accordo, a giudicare dal modo impegnato in cui adesso si occupava di lui.
Lo baciò ancora, tenendolo stretto per il viso. Peccato non averlo conosciuto un paio di anni prima; ma andava bene, andava bene anche così. Sentiva la pelle formicolare, percorsa da brividi, anche se faceva  così caldo. Avrebbero dovuto tenere la porta aperta, tanto non c‘era nessuno, erano completamente soli. Gli passò le mani tra i capelli, facendogli piegare la testa all’indietro e Charles rise e lo prese per i polsi, cercando di premerlo a sua volta contro la parete. Erik lo tirò contro di sé.
“E’ meglio se…”
Era ancora un po’ curioso, parlare standogli così vicino.
“Charles…”
“Sì… Sì, Erik, io…” Però scosse la testa e gli sorrise. “Solo… Ancora…”
Erik lo baciò di nuovo; non riusciva a farne a meno. Gli disse che voleva andare di là, di nuovo, che sarebbe stato meglio. Però continuava a tenerlo stretto, come se non riuscisse davvero a decidersi. Si sentiva bloccato. E Charles riusciva solo a dirgli che non pensava, che non avrebbe mai pensato di finire così con quel tono incredulo e gentile assieme. Erik per un momento, pensò che sarebbe finita esattamente nello stesso modo… Charles poteva tirarsi indietro e, ancora…
No.
Lo fissò negli occhi e lo sentì chiedere ancora se per lui fosse mai stato un problema.
No, mille volte no, rispose, mentre  teneva Charles contro di sé. Come a dirgli che andava bene. Aveva la faccia arrossata ed Erik riusciva a guardare solo quelle macchie rosse, anche mentre allungava una mano tra di loro e gliela spingeva nei pantaloni. Charles socchiuse appena le labbra, poi premette di nuovo la bocca sulla sua, sospirando. Era un po’ strano. Baciare Charles e sentirlo nella sua testa, vedere di sottecchi il modo in cui teneva la mano attaccata alla tempia.
Lo distraeva talmente tanto da non rendersi conto che avevano varcato la soglia della camera, e che Charles l’aveva trattenuto verso il letto, che gli era bastato toccarlo a sua volta e che lui, Erik, non aveva voglia di trattenersi dal pensare dal  quello che avrebbe voluto fare con lui. Non era più così importante che Charles lo vedesse.
Quando si era sentito particolarmente porco, aveva pensato a come gli sarebbe piaciuto sbattersi Charles; veniva quasi subito se pensava a Charles con il culo sollevato e il suo cazzo dritto e dentro. Aveva pensato anche al senso di colpa e all'imbarazzo che ne sarebbe derivato se Charles l’avesse scoperto a fantasticare su cose del genere…
E ora faceva così ridere, gli disse, sentendo Charles gemere. Era viscido sì, continuò facendogli saettare la lingua nell’orecchio, le mani di Charles avvinghiate a lui, i suoi gemiti contro la gola. Ma non poteva farne a meno.
“Erik…”
Charles lo guardò e lui si zittì. Non riusciva ad indovinare cosa pensasse.
Era davvero strano. Aveva esagerato? Gli era successo raramente, di sentirsi in quel vago imbarazzo. Poi Charles arretrò, continuando a fissarlo e cominciò a svestirsi, abbassando il capo. Erik evitò a sua volta di guardarlo; era già abbastanza difficile così, nonostante la voglia di aiutarlo.
Non sembrava più davvero a disagio, pensò Erik, cercando di evitare di guardarlo direttamente. Charles finì di spogliarsi e s’infilò a letto, guardandolo di sottecchi. Aveva delle gambe ben fatte, notò. Probabilmente correva; forse non era poi solo un topo da laboratorio e libri. Prima non era riuscito nemmeno a dirglierlo, era stato troppo preso, concentrato solo sul fatto che lo voleva far venire, che dovesse sembrare a tutti i costi qualcosa di normale.
Forse perché Charles era la sua fantasia preferita. Sentiva il desiderio corroderlo dentro; quel corpo, Charles, adesso giaceva lì, a pochi metri da lui, nella penombra in cui erano solo loro. Lo poteva toccare, era bellissimo. Si spogliò a sua volta e s’infilò a letto, protendendosi verso di lui, cercando la sua bocca, stendendosi al suo fianco, accarezzandogli le gambe, risalendo il torace, lasciando che Charles facesse lo stesso.
Charles lo accarezzava incuriosito, sorpreso e interessato dal fatto che per la prima volta poteva toccare in quel modo un corpo così simile al suo. Sembrava persino concentrato e serio, osservò Erik. Ripensò a quando Charles gli aveva confessato di trovarlo attraente. Era quello ad eccitarlo tantissimo, gli disse, mentre lo toccava ancora, chiedendogli come facesse ad essere così.
Charles rispose che spesso faceva finta di niente finchè lo guardava, poi, appena si girava o si distraeva, era come rubargli il fisico, come se dovesse consumarlo in quegli istanti brevissimi e intensi.
Disse anche che era la cosa più spaventosa che gli fosse mai successa. Spaventosa ed eccitante.
“E prima?”
Charles capì a cosa si riferiva. Ma arrossì molto meno e lo strinse di più, lasciando che gli socchiudesse ancora le labbra con la lingua. Poi intrecciò una gamba alle sue, mentre cominciava lentamente a stimolarlo con la mano. Erik sospirò lamentoso, socchiudendo gli occhi. Gli disse quanto adorava giocasse con lui, che non voleva chefacesse altro. Poteva permetterglielo. Poteva essere indeciso e confuso e dubbioso, ma Erik avrebbe fatto ogni cosa purchè Charles gli prestasse attenzione.
Qualsiasi cosa, perché adesso, adesso…
Era incredibile. Non riuscì a trattenersi dall’ansimare. Era Charles, cristo. Charles che diceva che non era come lui, che non voleva, che gli diceva quanto fosse poco normale. Lasciò che lo toccasse ancora e gemendo, chiuse gli occhi. Gli era venuto davvero duro e lui era sempre più eccitato, dal modo in cui Charles lo toccava.
Immaginò  a quando si sarebbe abbassato, baciandolo e mordendolo dolcemente. A quando gli avrebbe chiesto di girarsi e sì, Charles l’avrebbe fatto, sentendolo risalire con la lingua dal basso, attraversando la schiena, arrivare al collo, convincendolo.
Erik pensò a come si sarebbe sdraiato su di lui, a come pian piano gliel’avrebbe affondato dentro, cominciando a pomparlo con delicatezza, afferrandolo per le anche. Non gli avrebbe fatto nemmeno male.
Ora era veramente in estasi e teneva solo le sue mani strette al viso di Charles. C’era una vena che pulsava, pompava sangue proprio vicino alla trachea. Charles lo stringeva, e lo accarezzava. Indugiava e ricominciava e sembrava concentrato ed insicuro assieme e questo lo faceva impazzire. Non era quello che si aspettava all‘inizio, a quello che sognava. Era molto meglio.
Mise la mano su quella di Charles, cercando di rallentarlo. Poi cercò anche di spingerlo, di farlo rotolare di lato, ma lui sembrò quasi sorridere, trattenendolo.
Charles smise e si spostò sopra di lui a cavalcioni. Erik si lasciò sfuggire un lamento d’insoddisfazione, sentendolo ricominciare a baciarlo, a morderlo sul collo, schiacciandosi su di lui. Gli disse che non gli bastava, di non smettere, e sentì Charles ridere piano, un po‘ incerto. Che bastardo. Non si sarebbe certo arreso così, anche se era sul punto di chiedergli di prenderglielo in bocca. Qualsiasi cosa, ne aveva così bisogno. Ma non c’era modo di dire una cosa del genere.
Lo aveva appena pensato che lo sentì arrossire, pelle bollente contro la sua, altrettanto accaldata. Charles si tirò su. Lo guardava, serio. Forse appena un po’ titubante.
Erik si sollevò appena sui gomiti, e poi lo tirò verso di sé, baciandolo.
“Scusami. Non importa, davvero.”
“Erik…”
“Non importa, non fare… Non ti fermare, Va… va benissimo così…”
 Charles lo fissò ancora. Aveva di nuovo le labbra rosse e gonfie. Poi, con quella strana espressione concentrata, Charles si allungò su di lui, cominciando a sfregarglisi contro, muovendosi come se lo stesse fottendo, strappandogli un gemito. Ora lo toccava solo con la sua erezione, proprio contro la sua. Ansimando, Erik lo agganciò con le braccia per le spalle, solo per tenerlo più vicino, per lasciare che ogni suo movimento fosse solo contro di lui. Gli prese la testa fra le mani, avvicinandolo a sè.
Voleva disperatamente che lo guardasse, mentre si muoveva. Si sarebbe fatto scopare da Charles, pensò. Avrebbe voluto fare qualsiasi cosa con lui. O che Charles si sarebbe fatto scopare, ancora meglio.
Impazziva, sentendo i loro due corpi strusciarsi così. Avrebbe potuto continuare ad immaginarlo e non sarebbe mai bastato per eguagliare ciò che provava adesso.
Il corpo di Charles sprizzava eccitazione. Quel muoversi accelerato del suo respiro lo rendeva stupendo. Non ho mai avuto nessuno come te, disse Erik e Charles, curvandosi su di lui, gli spinse la lingua nella bocca, stringendogli la testa, come se volesse intrappolarlo, schiacciarlo nel cuscino. Non gli dava più fastidio che facesse così caldo, che Charles non fosse proprio del tutto perfetto. Era vero, e tanto bastava.
Credo che la cosa sia reciproca.
Charles cercò ancora il suo sguardo. Sembrava avesse frenato un gemito, ancora. Sembrava avesse un perenne gemito sulle labbra, pensò Erik eccitato e confuso. Era stanco di quello, voleva fotterlo davvero. Charles era una continua sorpresa; non credeva possibile che cambiasse tanto, da come era fuori, da tutte quelle costanti e contorte paranoie e come era adesso, così diverso. In imbarazzo e incerto, sì ma anche così…
Era perché poteva leggergli nella testa che riusciva a controllarlo così? Capiva così in fretta quello che doveva fare per eccitarlo? O era semplicemente l’attrazione convulsa che provava per lui, a renderlo tanto sensibile, tanto vinto, tanto debole?
Erik non ne aveva la minima idea. Debole. Aveva pensato che Charles lo fosse.
Forse non era poi così vero. Avrebbe voluto pensarlo, perché Charles poteva capirlo tanto bene.
Poteva controllarlo così facilmente, pensò, mentre Charles si sdraiava al suo fianco e ricominciava a masturbarlo, con movimenti più goffi ed indolenti, come se lui stesso non sopportasse più tutta quella tensione.
Erik fece scivolare una mano lungo il fianco, accarezzando quella carne morbida. Avrebbe voluto leccarlo, ogni centimetro di pelle, pensò, tirandolo contro di sé, accarezzandolo insistentemente. E non gli sarebbe bastato, rifletté, tornando ad accarezzargli il viso.
L’aveva solo potuto guardare, ma ora poteva essere tutto suo, ne era assuefatto. Sicuramente anche Charles voleva di più.
Non voleva venire così, non sotto gli occhi di Charles che lo fissavano, altrettanto eccitati e soddisfatti. Come se fosse compiaciuto di sé stesso. Era felice di averlo sorpreso, era così chiaro, pensò Erik, ma lui voleva solo che fosse diverso…
Trattenne un gemito e poi si tirò su. Con un verso soffocato, si spinse su di lui, ignorando le sue braccia strette alle sue, Erik lo fermò, bloccandolo per le spalle, schiacciandolo contro il materasso e quelle lenzuola ruvide. Charles cercò di spingerlo via e rise, ma lui riuscì solo ad articolare il suo nome, sentendo un rivolo di sudore colargli lungo la tempia, un altro sulla schiena.
Charles, sorpreso, rimase ansante a fissarlo, gli occhi spalancati. La sua espressione indolente era quasi un poco contrariata. Poi, dopo un tempo infinito, Erik lo vide rilassarsi e sorridergli disteso; l’attimo di smarrimento passò.
Erik gli rovesciò la testa all’indietro, cercando di tranquillizzarlo, baciandolo e sussurrandogli che non c‘era problema, andava tutto bene. Se fosse stato del tutto lucido si sarebbe disprezzato, ma Charles era sotto di lui, era così adorabile ed invitante e si accorse di capire molto poco, mentre scivolando fuori dal letto avanzava quasi intontito verso il bagno. Era la parte che odiava di più. Gli dette persino fastidio incrociare i suoi stessi occhi chiari negli specchi, e poi la sua faccia, così grande su quello più ampio ed incrinato. Vedere i capelli appiattiti sul cranio, disordinatamente spostati ad un lato della fronte,
mentre cercava qualcosa che andasse bene.
Era abbastanza strano così. Si sentiva stordito e agitato e le dita scivolavano sui ripiani plastificati e vuoti. Quel colore bianco sporco faceva male agli occhi e il ronzio delle lampadine troppo forte e aveva un‘orribile tensione nel bassoventre. Ci stava mettendo così tanto, odiava i motel, non c’era mai niente…
Davvero divertente, andare nel panico così. Era molto meglio quando accadeva nella sua testa, dove non c’era mai alcuna interruzione, dove Charles era così facilmente disponibile e lui non doveva preoccuparsi di niente, se non…
“Erik?”
Si voltò di scatto e Charles era a pochi passi da lui, sulla soglia. Erik cancellò in fretta  la più improbabile delle espressioni, sostituendola con un sorriso smorzato.
“Io…”
Charles lo guardò  ancora un po’ più intensamente e arrossì appena.
“Capisco.”
Poi batté appena la mano su uno degli specchi laterali.
“Si aprono.”
“Ah.”
“Dacci un’occhiata.” Charles gli sorrise appena. Come se avesse una paralisi per metà della faccia, in verità. Lanciò un’occhiata alla lampadina ronzante e come se si fosse reso conto di dove si trovava, con chi era e come era, arretrò rigidamente nella stanza, come se fosse scomparso. Scrollando la testa, Erik aprì lo specchio -era vero, aveva ragione- e trovò dei campioncini sparsi. Terrificante. Avrebbe dovuto davvero sapere cosa c’era nella testa di Charles, pensò, cercando qualcosa di passabile. Avrebbe voluto sapere anche cosa ci fosse nella sua, pensò aprendone uno, spargendone un po‘ sulla mano.
Gli veniva da ridere ed ebbe quasi l’impressione che quella risata riecheggiasse nella sua testa, da qualche parte.
Era tutto il contrario di quello che aveva immaginato.
“Dove hai…”
Cominciò, tornando nella penombra della stanza ma Charles lo abbracciò e sentì ancora le labbra sulle sue e non era davvero poi così importante. Era molto meglio così, pensò quando si fu di nuovo steso accanto a lui, ricominciando ad accarezzarlo, con un po’ più di urgenza adesso.
Charles, la sua fantasia preferita. Non doveva più immaginarlo fare delle smorfie di dolore e piacere, pensò premendosi contro di lui, chiedendogli solo di rilassarsi. Poteva guardarlo e parlargli quanto voleva.
Charles aprì di più la bocca, Erik ci appoggiò contro la sua. Lo accarezzò ancora sulla schiena, scendendo, aspettando, poi lo penetrò con le dita umide. Charles ebbe un piccolo sussulto e gemette appena, quando Erik mosse la mano.
Charles rovesciò gli occhi verso di lui e sillabò qualcosa mentre lo stringeva. La sua testa era affondata nel cuscino e aveva la fronte imperlata di sudore.
Erik le mosse ancora, un poco più a fondo e Charles, inarcandosi, si premette del tutto contro a lui. Lottò contro il desiderio di chiedergli se gli piaceva, se poteva continuare. Sentiva la sua eccitazione; duro e pulsante premeva contro il suo bassoventre.
Erik si sentiva proprio come lui. E poi non riuscì a trattenersi.
Si alzò un poco e lo afferrò bruscamente per la vita, tirandolo un poco su. Ansimando, Charles si girò sullo stomaco, sorreggendosi sui gomiti, mentre Erik si spostava dietro di lui. Gli accarezzò le gambe, erano così ben fatte, pensò, stringendogli le cosce.
“E-Erik…”
In risposta, gli disse solo di rilassarsi e Charles non insisté oltre, quando lui lo accarezzò, massaggiandolo tra le gambe, infine, cercandolo di nuovo con le dita.
Charles mormorò qualcosa che finì in un rantolo, poi ondeggiò contro di lui, la schiena umida. Forse era vero, Charles non era come lui. Era molto di più, pensò per un istante Erik.
Era bellissimo. Nudo e bellissimo sul letto, a pancia sotto, i muscoli tesi. Era indifeso, era suo. Era quello che voleva da lui. Cominciò a farglielo sentire, appoggiandoglielo vicino all’anello stretto del culo, poi entrò lentamente in lui.
Charles gemette, tendendosi in avanti e afferrando la spalliera del letto. Erik lo accarezzò ancora, si tirò indietro e si spinse dentro di nuovo, piano, pigramente, muovendosi lento, lasciando che si rilassasse. Lo stringeva già, era così stretto.
Sentì Charles respirare più forte. Voleva che godesse, non che gli facesse solo male. Gli allargò di più le natiche e lo sentì gemere mentre si spingeva ancora un poco dentro di lui. Cercava di pensare ad altro, ma era inutile.
Chiuse per un attimo gli occhi, ma riusciva a vedere sempre e ancora, solo la schiena, i muscoli tesi di Charles, piegato sotto di lui. Charles tremava e sospirava e digrignava i denti, ma non gli disse di smetterla.
Erik strinse quella carne bianca; aveva un bel corpo, meglio di come l’aveva immaginato. Rispondeva bene, sembrava fatto per fare sesso così. Entrò ancora di più, e gli si mozzò il respiro. Poi lo sentì iniziare a lamentarsi, mentre Charles si spingeva contro di lui e tremava, abbandonando la presa della testata del letto.
Le lenzuola sotto di loro erano tese, Charles le tratteneva nervosamente tra le dita adesso. Gli disse - a fatica- di stare tranquillo. Non voleva che si agitasse, anche se era una paura infondata e lui per primo se ne rendeva conto. Era così abituato all’idea che non sarebbe mai successo niente, che Charles non lo voleva, che anche adesso che lo stavano facendo, l’idea che Charles lo respingesse ancora sembrava ben più che plausibile. Poi quell’idea passò; era tutto suo.
Charles fece un altro verso strozzato e si piegò in avanti, abbassando la testa e scoprendo la nuca. Erik ne risalì la schiena con le mani, accarezzandolo insistentemente, poi scese di nuovo e lo strinse saldo per i fianchi.
Il respiro di Charles era un tutt’uno con il suo e lui non sentiva più la pioggia.
Non voleva più aspettare. Non voleva più che fosse lento. Lo voleva e basta.
Non riuscì a resistere. Ne aveva così voglia. Non immaginava che Charles, eccitato così, potesse fare gemiti del genere. Lamenti di dolore e piacere. Non voleva fargli male, proprio no, ma aveva così voglia. E faceva così caldo, e Charles era così stretto, ed era tutto così bello. Non riuscì a resistere. Glielo infilò dentro tutto, in un movimento deciso, gemendo e curvandosi su di lui. Charles sotto di lui sussultò. Erik vide un brivido percorrergli la schiena.
Charles sembrò scivolare in avanti, le braccia deboli di colpo, maledicendolo. Erik lo trattenne per i fianchi, stringendolo, accarezzandolo, piegandosi più che poteva per baciargli la schiena. Glielo stringeva in modo incredibile.
Erik si accorse di avere il respiro pesante. Si ritrovò a pensare a come sarebbe stato venirgli dentro. Charles si lasciò andare ad un
lungo, ansimante lamento. Per un attimo, credette che sarebbe finito tutto.
Poi però, sentì Charles spingere verso di lui, premere le natiche contro il suo inguine, invogliandolo a colpirlo di più, ad affondare del tutto in lui. Charles tremava per la vergogna e il piacere più assoluti, ma cominciò a muovere i fianchi contro di lui, gemendo, assecondandolo. Era molto meglio di quando accadeva nella sua testa.
Erik seguì un brivido percorrergli la schiena e gli ansiti di Charles divennero più profondi, il suo stesso respiro più roco. Iniziò a muoversi a sua volta, riuscendo appena a pensare, sentendo quei gemiti fitti, non importava più se imploranti e di dolore.
Gli disse che quello presto sarebbe finito, che non era solo così, che sarebbe andato tutto bene.
Con il viso contratto, la bocca umida, Charles si piegò ancora di più, abbassando le braccia, stimolandosi il membro turgido. Disse che gli piaceva, che voleva che continuasse, di colpirlo, di fotterlo. Aveva aspettato solo lui, lo desiderava così tanto.
Erik non capiva più se fosse tutto vero o se fosse quello che fantasticava di sentirgli dire nella sua testa; ma continuò a muoversi con decisi colpi di reni, sospirando rauco.
Charles ansimava più in fretta, il sudore che gli colava lungo il collo, la pelle madida. Come se lo stessero strappando a pezzi, pensò. Non che fosse un pensiero coerente.
Poi, Charles fu scosso da un altro lungo brivido. Erik vide la colonna vertebrale risaltare e immaginò di spezzare Charles seguendo quella linea. Di spaccare, squarciare il corpo di Charles come  se fosse un burattino. Ricomporlo e romperlo ancora, colpendolo così, un colpo dopo l’altro, facendolo sussultare ed implorare, incessantemente.
Strappargli le parole, renderle lamenti, rendere tutto solo bellissimo e semplice. Farlo godere e consumarlo, perché già lo adorava e si sentiva tanto sottomesso e legato a lui, che solo spezzandolo sarebbe riuscito a sfuggirgli. Ma non credeva che ci sarebbe riuscito, non con la testa sempre e solo piena dei suoi pensieri.
Non era vero che non poteva sapere cosa pensava.
 
 

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Westchester, New York, il presente.
 
Faceva vomitare. Era disgustoso, assolutamente disgustoso.
Cosa aveva fatto di male? Ce l’avevano con lui, complottavano alle sue spalle, volevano rovinare tutto… Ecco cosa stava succedendo.
Rovinare ogni cosa e lui lavorava con fatica e s’impegnava e loro.. Loro..Lui
Cosa doveva fare? Continuava a rivederlo nella sua testa. Malato, pensò, doveva avere qualcosa in testa che non funzionava. 
Cosa gli era saltato in testa, a lui e a Raven?
Li odiava entrambi, pensò. Li odiava davvero. Poi, cominciò a riflettere, ancora, capendo che non era colpa di Raven.
Non poteva essere lei…
Era diventata strana da quando lui era entrato nelle loro vite e anche lui, Charles, lo era… Non si riconosceva più.
Ripensò a Savannah e di nuovo il sapore acido gli salì alla gola. Un brutto sogno, un brutto e disgustoso sogno. Quello non era lui.
Lui era controllato e perfetto e in ordine e certo… Era solo sé stesso, prima di Erik.
Perché gli aveva concesso di venire a Westchester? Era a quello che portava la compassione? … Amore? Com’era stato ingenuo.
Era così che ci si sentiva, allora. Era deluso e ferito. Sconfitto. Era una mossa che avrebbe dovuto aspettarsi ma era stato così cieco… Quella era casa sua. Era stato gentile e ne era stato ripagato così.
Avrebbe sempre e solo fatto di testa sua, pensò sdraiandosi, il viso tra le mani.
Pensava ad Erik in continuazione, non riusciva a sbarazzarsene, aveva perso la ragione. Era qualcosa di così subdolo e terribile, da eliminare…. E... Poteva, ma non lo voleva fare.
Allontanare Erik era sempre stata la soluzione più ovvia, sempre. Ma come poteva farlo? Era tutto quello che aveva. Pensava sempre a lui anche se non era giusto. Cercava sempre di capire cosa volesse, lo lasciava fare, solo perché voleva che fosse sempre a posto. Faceva sesso con lui anche se da qualche parte una voce gli diceva che era sbagliato, che non era quello che voleva davvero.
Ma gli piaceva ed era sconcertante. E poi era l’unico modo per averlo davvero vicino.
E ora Erik lo ripagava così. Era a quello che portava la gentilezza verso gli altri? Gentilezza....
Faceva venire il mal di testa. Doveva calmarsi o sarebbe impazzito. Doveva calmarsi e fare finta di niente. Aspettare solo che Erik se ne andasse da solo da Westchester, che se ne andasse dalla loro vita. Dimenticarlo… Dimenticare ogni cosa…
Era la soluzione migliore...

 

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‘Cosa sei tornata a fare?’
‘Charles. Erik, non lo sopporto. Adesso credo abbia iniziato a guardare dentro la testa di tutti noi. Non è infantile? Probabilmente crede che cospiriamo contro di lui.’
‘Raven, torna nella tua stanza per favore. Adesso basta, non m’interessa.’

 Invece gli interessava eccome, e non appena lei era uscita dalla stanza per la seconda volta in quella sera, era sceso al primo piano. Dov’era Charles? Voleva solo trovarlo.
Non ce l’aveva con Raven, ma se era vero, che cosa poteva aver pensato Charles, di lui, di tutto, di …. Il salone principale era vuoto, il tavolino degli scacchi era
sgombero i bicchieri e le bottiglie riposti in bell’ordine. Sembrava che non fossero mai stati lì, sembrava tutto così… finto. E Charles?
Sicuramente era in camera sua ed è lì che Erik si diresse, pensieri incoerenti ronzanti nella mente.
Che gli avrebbe detto? Cosa sapeva Charles?
Cosa aveva visto, nella testa di Raven?
Era nervoso e i corridoi bui sembravano infiniti, assorbendo il rumore dei suoi passi. Quella casa sembrava un mausoleo, riflettè. Gli sembrava così solo se era da solo.
Quando era con Charles, gli era apparsa la casa più sicura e migliore del mondo. Ora, con quella luce notturna era così… fredda.
Gli era ostile, ma lui non aveva fatto niente, aveva solo seguito il suo istinto. Lo avrebbe rifatto.. Ma avrebbe evitato che Charles lo vedesse. Avrebbe voluto scaricare la responsabilità su Raven; ne era tentato, ma non poteva. Se Charles aveva visto quello che era successo, lui non aveva giustificazioni.
Ci mise un’eternità,  poi fu davanti alla porta di Charles. Sospirò e non aveva ancora alzato il braccio per bussare, che sentì una ormai famigliare sensazione di leggerezza annebbiargli la mente. Era sempre così che si sentiva, quando Charles lo cercava. Lo sentiva sempre prima nella testa; glielo aveva raccontato un paio di giorni prima, un po’ al confine della proprietà…
Non credeva che Charles lo avrebbe trovato subito, non così semplicemente… Era stata una bella giornata.
Una delle tante, vicino ai laghi artificiali, sembravano così lontane…
“Erik.”
Aveva aperto la porta. Charles era davanti a lui e per un attimo, Erik si ritrovò incapace di parlare.
Cosa doveva dirgli?
Lo trovò ancora vestito. Solo il colletto della camicia era un poco fuoriposto, come se fosse stato indeciso se svestirsi o no. Aveva il cardigan blu sbottonato e i capelli lisciati all’indietro, come per mostrare meglio gli occhi stanchi.
Si osservarono per un po’. Charles non lasciava trasparire nulla. Più che mai, Erik desiderò leggergli nella mente, scoprire cosa pensava, cosa sapeva.
Sembrava tutto così normale…
“Charles.”
“Entra.”
Erik scosse la testa, poi lo guardò. Non riusciva a chiedergli niente. Non sapeva cosa fare.
Charles si scostò appena dalla porta. “Entra.”
Dopo un altro lungo momento, Erik entrò circospetto. Charles gli sembrava innaturalmente calmo. Forse Raven si era davvero sbagliata…
L’anticamera della stanza era in disordine. Sulla scrivania erano ammucchiati libri e blocchi di carta stampata e appunti e, in parte, anche sul divano. C’erano fogli di e grafici per terra, abbandonati. Come se avesse lavorato furiosamente, senza ottenere nulla.
Sentì la porta chiudersi dietro di lui e Charles lo precedette in camera. Erik lo seguì lentamente guardandolo aprire la finestra.
C’era un bicchiere semivuoto abbandonato tra le coperte ammonticchiate ai piedi del letto, notò Erik, e altri libri sul divano basso vicino alla finestra. Persino le bottiglie nel carrello, nell’angolo più lontano della stanza avevano una disposizione diversa. Doveva essere rimasto sveglio per qualche ora. Che ora era, a pensarci?
Dormivano così poco e ne avrebbero avuto bisogno, se domani...
Charles spostò un posacenere sporco dal davanzale, tirando le tende seccamente, dandogli ancora le spalle. Erik non ci fece caso. Rimase immobile a studiare la stanza, cercando di sgombrare la mente. Sembrava impossibile.
Charles doveva essere tornato in camera subito dopo la partita -non finita- a scacchi. Con tutta probabilità era rimasto lì in stanza, ad aspettarlo.
Quasi Erik ci credeva. Come ogni sera, come ogni sera a Westchester, ma quella non era una sera normale. Era tutto cambiato.
Lui, Erik aveva qualcosa da nascondere. Voleva dirglielo. Era giusto così, ma Charles sembrava così tranquillo e calmo e lui non sapeva se…
Credevo saresti venuto prima.
Erik lo guardò senza dire nulla. La voce di Charles aveva interrotto - come sempre- il corso dei suoi pensieri. Era vicino a lui adesso, e la tentazione di chiedergli -cosa hai visto?- e di spiegarsi e di chiarire, era molto, molto lontana. Era l’ultima sera e lui l’aveva quasi passata con Raven. Se solo Charles fosse stato arrabbiato…
Almeno avrebbe capito come comportarsi. Se solo Charles non si fosse mosso da quella stanza. Oh, vero.
Lui poteva essere ovunque.
Erik non gli rispondeva. Gli occhi di Charles si fecero un poco più cupi.
Credevo non saresti venuto affatto.
C’era ancora quell’atmosfera pesante, di quando si erano lasciati nel salone. Non avevano risolto niente e se ne avessero parlato di nuovo, tutto si sarebbe risolto in un altro litigio. E non era così che doveva essere. Non era così che doveva andare.
“Mi dispiace.”
“Perché?”
Charles non sembrava affatto arrabbiato, pensò Erik, abbassando appena le palpebre. Non gli era mai apparso così privo di preoccupazioni, pensò, mentre Charles si avvicinava per baciarlo, mettendogli le mani strette al viso. Fu un bacio lungo.
Erik avrebbe voluto che lo fosse di più, abbastanza da cancellare tutto.
Lo strinse per i polsi, abbassandogli le braccia, scostandosi un poco.
“Charles…”
Di nuovo l’espressione controllata di Charles, di nuovo i suoi occhi lucidi -aveva bevuto, ancora, ne era sicuro- gli restituirono lo sguardo.
Era bloccato; non riusciva a dirglielo. Voleva dire Raven, dirgli che non era stato niente, ma non ci riusciva se era così vicino.
La fronte di Charles si aggrottò appena. “Non è per questo?” chiese piano.
“C -come?”
“Non è per questo che sei qui?”
Erik rimase interdetto. Doveva dirglielo, doveva dirglielo e affrontare le conseguenze, ormai aveva già rovinato tutto, non poteva essere peggio di così...
Ma ignorò quello che avrebbe dovuto dire e fare adesso. Era l’ultima sera a Westchester e lui era stanco e non voleva che Charles fosse arrabbiato.
E nemmeno lui voleva esserlo.
Era stanco, stanco della rabbia. Non voleva associare la rabbia a Charles. Non se lo meritava. Charles era il suo punto tranquillo e lui non voleva rovinarlo, pensò baciandolo a sua volta. Cosa importava? Avrebbe potuto spiegarglielo dopo, rifletté, cominciando a spingerlo verso il letto, con le mani di lui strette alla schiena, obbligandolo a stendersi.
Charles arretrò in fretta, aggrappandosi ai suoi vestiti, tirandolo su di sé, circondandogli in fretta il capo con le braccia.
E’ questo che vuoi no? Ricordò. Sì, sì, sempre sì. Era una risposta così facile.
Molto più facile che dirgli di Raven e ritrovarsi a discutere, pensò Erik spingendosi su di lui. Charles fece un gemito soffocato.
E se lo avesse visto nella sua mente?
Nascose l’espressione atterrita nell’incavo della sua spalla, cominciando a baciargli il collo. Se lo avesse visto adesso, proprio quando… 
Charles cominciò a svestirsi in fretta e gli era un po’ difficile con Erik addosso, slacciarsi il cardigan e la camicia. Erik cercava quasi di tenerlo intrappolato.
Non voleva che lo guardasse in faccia ma non voleva nemmeno che smettesse di baciarlo, perché era sicuro che la colpa gli si leggesse negli occhi, almeno quanto il desiderio di fotterlo…
“Siamo passati da Shaw a questo?” bisbigliò Charles, allontanando appena il viso, scrutandolo. A Erik venne quasi da ridere, ma smise quando Charles gli chiese di svestirlo, perché con lui così non ci riusciva. Erik invece si sfilò la cintura, armeggiando con i pantaloni, cercando di mantenersi in equilibrio sulle ginocchia proteso su di lui, respirando pesantemente.
Voleva solo baciare Charles, non riusciva a pensare a nient’altro. Voleva solo Charles, che Charles avesse lui. Sentì le sue mani insinuarsi nei pantaloni e reclinò appena il capo. Non ne avrebbe mai avuto abbastanza, pensò abbassando quelli di Charles con uno strattone e toccandolo a sua volta, sentendolo indurirsi.
Le labbra di Charles siarricciarono in un sorriso soddisfatto. Era leggermente sudato. Erik fece scorrere la mano libera sul suo petto bianco e si chiese perché, adesso, si sentisse vuoto. Era una sensazione strana, non ricordava di aver mai provato nulla di simile. Si sentiva calmo e tranquillo, come se gli avessero tolto un peso. Non ricordava più, non ricordava più con chiarezza che cosa doveva davvero dirgli… E lentamente toccava Charles… Ormai lo conosceva così bene…. Era più importante godersi Charles, in verità...
Charles aveva la faccia sgradevolmente arrossata. Gli occhi socchiusi.
“Perché?” lo sentì chiedere. Era una domanda criptica, ma la risposta sfuggi dalle labbra di Erik come se fosse sempre stata lì.
“S-sono affascinato da te… Nessuno si è mai innamorato di me…”
Rabbrividì  e sospirò. Non voleva dirlo davvero, ma non poteva trattenersi.
Il sorriso di Charles si allargò ancora, mentre si tirava su per baciarlo. Erik s’immobilizzò, ansimando. Sarebbe bastato che Charles lo guardasse e lui sarebbe stato bene, se Charles avesse avuto sempre solo tutta l’attenzione per lui, perché lui non aveva, non voleva altro. Non ricordava più cosa lo preoccupasse; forse non c’era mai stato nulla a preoccuparlo. C’era sempre stato Charles e adesso Charles gli stava dicendo che era innamorato di lui; lo disse più di una volta.
Erik si accorse che non lo toccava più, ma si era spogliato e ora era Charles ad essere sopra di lui e a dirgli che sì, era innamorato, che non c’era nient’altro all’infuori di lui eche non se ne sarebbe andato mai, e lo ripeteva, come una litania….
La bocca di Charles era di nuovo sulla sua. E poi sui suoi occhi. Sulla sua gola, mentre si lasciava scivolare al suo fianco. Ed era eccitato e anche calmo, perché quel peso che lo opprimeva -qualunque fosse-gli stava venendo strappato via, pezzo a pezzo e non ricordava bene… Non aveva mai pensato che sarebbe sopravvissuto.
E ora era lontano, in salvo…. Era sopravvissuto… ma da cosa? Charles lo aveva salvato, oh, era successo molto tempo fa’…
Aveva l’impressione che si fosse salvato nello stesso momento  in cui aveva incontrato Charles.
Ed era successo da così tanto tempo... Ricordava di essere sempre stato con lui, pensò cercandolo con la bocca, scendendo e baciandolo vicino all’inguine, accarezzandolo, andando con sicurezza su e giù con la mano, poi con la bocca. Sospirando, Charles gli toccò la testa e allungato sul letto, allargò di più le gambe, accarezzandogli la testa.
Lo guardava ed Erik guardò lui e non era più come la prima volta, adesso stava bene.
Charles socchiuse gli occhi, le sue labbra lucide dissero fatica di smetterla, di aspettare, non così adesso perché era troppo...
Erik lo assecondò, tirandosi su. Non poteva fare altrimenti, non era per quello che esisteva? Sempre e solo Charles… Aveva voluto dirgli qualcosa…
Era per quello che era venuto in camera sua…. Ma lui, lui e Charles non dormivano assieme? Non dormivano nella stessa camera?
Lo baciò con foga, le sue mani conficcate nelle scapole, la sua erezione pulsante e dura contro la coscia. Da quando era a Westchester… Ma lui aveva sempre vissuto a Westchester, con Charles, giusto? E sua madre… C’era una madre, pensò Erik? Mia madre? Ma se ci pensava, ricordava solo il suono di quello che sembrava uno sparo e un posto grigio…
Ma anche quelli, quei ricordi, erano così lontani… La lingua di Charles gli stava solleticando l’orecchio e con la testa stretta tra le sue mani sudaticce era così difficile mettere assieme i pensieri.
Aveva caldo, caldo come il sole dell’Argentina… Però… non sapeva se in Argentina facesse così caldo. Che ne sapeva, lui? Era solo un nome sulla carta geografica…
Forse se Charles avesse voluto andarci, solo così sembrava importante… Ma era sempre come se mancasse qualcosa, c’era qualcosa di sbagliato, non poteva essere così semplice, era andato da Charles per un motivo… Ma non lo ricordava più… Non più…
Guardò Charles negli occhi e per un attimo li vide colmi di una strana preoccupazione. Forse era solo la sua immaginazione, doveva essere così…
Era come essere ubriaco. Eppure lui non aveva bevuto tanto, Charles doveva aver bevuto di più, non doveva aver fatto altro, e forse era anche per quello che adesso aveva cominciato a baciarlo, scendendo lungo la linea dello sterno.
Continuando a fissarlo, Erik si stese meglio sulla schiena, con un senso di mollezza e di languore, allargando le gambe e cominciando a stimolarsi sotto gli occhi di Charles.
I suoi sospiri erano sempre più intensi e quando disse il suo nome, Charles gli si avvicinò di nuovo, la bocca semiaperta, ansimando.
Erik gli accarezzò i capelli, la la testa appoggiata a lui, sul suo stomaco e lo guardava distrattamente, come se dovesse decidere.
Come se fosse molto lontano da lui in verità, ed Erik sentì quella subdola frustrazione riprendere possesso di lui. Prendilo, chiese.
Non voleva forzare Charles, ma rese la sua carezza fra i suoi capelli più decisa e le sue mani iniziarono ad esercitare una certa pressione sulla sua testa. Charles allora unì la mano alla sua, finchè non preferì baciarlo ancora, profondamente.
“Cristo…”
Erik s‘inarcò appena, affondando la testa nel cuscino, poi rialzò il capo di scatto. Charles. Si domandò se mia qualcuno li avesse sentiti, ma che importava?  Ad un certo punto, iniziò a desiderare un contatto più intimo. Premette di più  la testa di Charles contro di sé. In fondo era naturale. Charles adesso era in ginocchio fra le sue gambe: il suo cazzo era a pochi centimetri dal
suo viso. Sarebbe bastato un niente per baciarlo. Istintivamente Erik cessò di masturbarsi; lo guardò e Charles, abbassandosi senza staccare gli occhi da lui, cominciò a lavorarselo con la lingua e la bocca, deciso e appassionato, accarezzandogli l'addome.
Erik si lasciò andare ad un lungo gemito roco, poi ad altri, più rapidi. Charles stava diventando gradualmente più sicuro di sè e sembrava perfettamente consapevole di quanto ad Erik piacesse osservarlo mentre lo faceva. Si allontanò un poco e le sue labbra si abbassarono fino a baciare e a leccare i testicoli e la carezza delle mani di Erik sui suoi capelli, si stava facendo ora più decisa:  tentava di spingergli nuovamente la testa, avvicinandoglielo alla sua bocca, accennando un sì quando Charles si decise ad ingoiarlo di nuovo. Erik, eccitato a dismisura, si ritrovò a guardare il soffitto, lasciando che Charles si desse da fare, a chiedersi che aspetto avesse con la bocca così aperta. Anche se era parte del gioco, vedere come reagiva. Sembrava tanto naturale adesso, Charles in ginocchio fra le gambe di un uomo, in atteggiamento di assoluta sottomissione,  prendendoglielo in bocca come se fosse la cosa più normale, eccitato persino dai rumori che faceva.
Charles gli stava procurando davvero piacere e nient’altro, non c’era nient’altro, pensò Erik, sentendolo riprendere
la masturbazione con la mano, afferrando la parte che non riusciva ad ingoiare. Erik iniziò a dondolare il bacino, inarcandosi come se non ne avesse abbastanza, accompagnando ad ogni sua spinta un gemito roco, desiderando che ne prendesse di più.
Charles si tirò appena indietro, e boccheggiando se lo tolse dalla bocca per masturbarlo teneramente, stando  attento a non farlo venire. Anche se avrebbe voluto farsi scopare così, Erik cercò ancora le sua bocca. Non c’era bisogno di parlare granché, si disse, tirandolo contro di sé e baciandolo sulle labbra rosse e gonfie. Era così diverso da quella lontana prima volta a Savannah, pensò, con Charles ansimante allungato su di lui, intento a strusciarsi lungo tutto il suo corpo.
Non sembrava nemmeno più lo stesso… Meglio così…
Tenne le sue grandi mani sulla schiena, poi le fece scivolare in basso trattenendolo sui reni e poi più giù, affondando le dita, cercando di rilassarlo, sussurrandogli che era perfettamente così che doveva andare, che era il momento migliore della loro giornata, quanto lo amava, quanto sarebbe stato con lui, non l’avrebbe lasciato mai…
Oh, Erik, oh, Erik…
Charles, si lasciò scivolare ancora accanto a lui e riprese fiato, accarezzandogli le tempie, fissandolo. Nonostante l’eccitazione, nonostante il desiderio fosse vivido e chiaro negli occhi di Erik e in lui stesso. Ora era così lontano, così lontano… Erik era felice, anche se si sentiva a pezzi. Si stava spezzando qualcosa e si ritrovò a strattonarlo, immaginandolo su di sè…
Perché no? Chiese toccandolo, leccando la sua carne morbida, abbracciandolo. Lo sentì gemere e dire il suo nome, ed Erik gli disse di come avrebbero dovuto rimanere intrappolati lì. Voleva solo l’attenzione di Charles e allora, con fatica ricordò che il motivo per cui stavano litigando era Shaw, però non ricordava cosa avesse fatto
Shaw. La parola vendetta aleggiò nella sua mente, ma non sarebbe mai riuscito a dirla, a identificarla…
Shaw… Non ricordava nemmeno la sua faccia….
“Erik! No!”
Erik spalancò gli occhi. Li aveva già aperti, ma ora fu come se vedesse per davvero. Tutto cominciò a tornare chiaro.
Non c’era più Charles a riempire il suo campo visivo; niente più labbra e muscoli bianchi e occhi azzurri e beffardi e dolci. Charles aveva finito di giocare con lui.
Erik era assordato dal suo stesso respiro. Abbassò il braccio con cui aveva allontanato Charles, spingendolo giù dal letto e si asciugò le labbra lucide di saliva. Con l’altra mano stringeva ancora il copriletto convulsamente, come prima aveva stretto Charles. E ora lo guardò ancora, e l’affanno lo rendeva debole e confuso ma sentiva la rabbia crescere dentro di sé ed era come se volesse esplodere e riversargliela addosso.
“Mi dispiace… Mi dispiace…” cominciò Charles a voce bassa e gli occhi sgranati. E forse nel vederlo a terra svestito, sorpreso e un po’ raggomitolato, Erik sarebbe riuscito a credergli.. Prima.
Era terrorizzato. Erik scosse la testa.
“Hai provato a…” deglutì. “Hai provato a cancellare…”
“Erik…”
Erik scosse ancora la testa. Aveva le mani scosse da un’incessante formicolio e l’adrenalina dell’eccitazione lo spingeva ad avventarsi su Charles e cancellargli quell’espressione di delusa sorpresa dalla faccia. Charles voleva che dimenticasse… Tutto? Sè stesso?
Erik si sforzò di pensare, sentendo i ricordi che tornavano piano piano al loro posto, rinsaldandosi. Più aveva baciato Charles e più aveva rischiato di perderli, in quella foga, per un po’ di lussuria. Come se glieli stesse asportando.
Charles si allungò verso di lui, in ginocchio vicino al letto, tendendo le braccia. Era abbastanza goffo. Era un brutto tentativo di supplica.
“Erik… ” disse piano. “Erik… Ti prego, Erik, io…”
Erik era talmente sconvolto da non sapere cosa dire. Il bravo e onesto Charles, non si era aspettato niente di così subdolo da lui… Niente di così….
“Sono innamorato di te, Erik, l’ho fatto per te… Solo perché… Così…. Io sono...”
Erik si ritrasse ancora e scese dall’altra parte del letto, cominciando in fretta a rimettersi e a  riallacciarsi i pantaloni, le mani tremanti e lo sguardo fisso.
Le parole di Charles morirono e lui ricominciò a vestirsi, infilandosi la maglia.
Nessuno mi ha mai amato, aveva confessato a Charles. E di certo, avrebbe voluto aggiungere adesso, non in un modo così deviato ed egoista. Era meglio non essere amati affatto. Non al prezzo di parlare di cose che lui voleva sentirsi dire. Era meglio…
“Se solo tu non fossi andato da Raven.”
Erik si girò di scatto verso Charles, finendo di allacciarsi la cintura. Ora Charles era in piedi e teneva gli occhi appena un po’ bassi e lo sguardo lucido.
Era più credibile di quel Charles supplichevole, ma sembrava sempre così debole.
“Quello che hai fatto adesso non è nemmeno…”
“Non lo avrei mai fatto se tu non fossi andato da lei.” Charles lo disse appena a voce più alta ed Erik capì, nonostante la sua rabbia, che almeno per quello aveva ragione.
Era stato lui, era sempre colpa sua, avrebbe sempre ferito Charles. Ma non riusciva ad esserne completamente dispiaciuto.. Non poteva essere sempre e solo colpa sua a rovinare tutto, non era così che doveva andare… Se solo fosse morto in Polonia.
Un pensiero rapido. Se solo fosse morto laggiù, Charles non avrebbe mai sofferto, non sarebbe mai diventato meschino. Sarebbe stato solo felice. Non lo meritava. era per colpa sua se Charles era così, ora.
“Tu hai fatto questo, non c’era altro modo…” disse Charles piano, ed Erik capì che era vero. Le accuse di Charles erano fondate; qualcosa Erik glielo aveva fatto davvero.
“Perché Raven?”
“Charles…”
“Perché?”
“Non è stato niente, Charles.”
“Non sembra nemmeno umana.”
Erik lo guardò appena, facendo finta di non averlo sentito. Quella frase lo sconvolse un poco. C’era qualcosa di sbagliato, nel sentirlo dire da Charles. Non sembrava falso, ma non era nemmeno giusto. Era solo perché era geloso, provò a dirsi. Era sicuramente così.
Lo sarebbe stato anche lui, come lo era quando vedeva
Moira troppo presente, troppo vicina a Charles. Quando la sera, Charles spariva per un po’ con lei, non per molto, ma c’era qualcosa….Solo che Erik stava semplicemente in silenzio. Chi era lui per impedire a Charles di fare ciò che voleva in casa propria? Bastava non pensarci…
Non credo di aver mai odiato nessuno. Ma è stato così deludente, Erik…
“Finiscila.”
Charles si tirò su. Aveva gli occhi arrossati dalla stanchezza, i tratti del volto irrigiditi. “Ho visto ogni cosa” disse a voce bassa, un po’ tremando, e con gli occhi bassi.
“E ti prego, non dire che sono solo io ad essere…. Così, perché… Non è… Non è…”
“Charles, lei era solo…”
“Cosa?  Era disperata?” Accennò un sorriso. “Cerchi tutti quelli che ti fanno pena?”
Erik rimase in silenzio. Charles era geloso, geloso e triste, anche se i suoi occhi erano vividi e decisi. “Stai cospirando contro di me o vuoi solo…”
“Charles” gli si avvicinò. Era tutto così confuso. Era arrabbiato con lui, ma non riusciva ad essere obbiettivo non riusciva a lasciarlo andare. E Charles glielo lesse negli occhi e la sua decisione svanì, così come era comparsa.
“Dimentica, Erik” bisbigliò afferrandolo per gli avambracci. “Per favore, voglio solo… Se te ne dimentichi andrà tutto a posto e potremo…”
“Charles, ma cosa…”
“Se te ne dimentichi, non succederà niente… Se..”
“Charles!”
Charles sembrò rinsavire. Sbatté appena le palpebre. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, come se stesse cercando di capire perché fosse così, e dove si trovasse. Infine, si lasciò scivolare a terra, la schiena contro la parete. Affondò i palmi nelle orbite, le spalle appena sussultanti. Poi s’immobilizzò del tutto e rimase accucciato lì in silenzio, come se sperasse che tutto finisse. Rassegnato, Erik si sedette sul bordo del letto, un po’ curvo in avanti.
Per il bene di Charles, sperò che fosse così.
Solo per lui, ecco. Non desiderava più niente per sé.

 
 

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Un po’ di tempo fa,  Savannah, Georgia.
 

Charles ordinò prosciutto, uova strapazzate e del caffè. Erik, dall’altra parte del tavolo, guardava fuori dalla vetrina, oltre le scritte dipinte sul vetro. Erik col suo cazzo in mano e in bocca, coperto di saliva. Trasalì. Era disturbante. Distolse in fretta lo sguardo.
“Stavo pensando che forse dovrei guidare io.”
Charles cominciò a giocherellare con i tovaglioli, piegandoli in forme strane.  Si accorse di non avere nessun talento nel creare origami. Li accartocciò e li mise nel posacenere sporco.
“Sì. Forse sì.”
Erik rimase zitto. Avrebbe voluto chiedergli se era stanco. Se faceva ancora male -a rischio di sembrare indelicato-, e se aveva pensato a… Però stare zitto era meglio.
Charles sembrava sì stanco e di certo non era contento, e di sicuro stava ancora pensando -poteva essere altrimenti?- a tutto quello che era successo, perché ancora non riusciva a guardarlo. Si guardava intorno, concentrandosi sugli altri tavoli, poi lontano, verso il bancone. La cameriera era sparita chissà dove, mentre il ragazzo dietro al banco era uscito a scrivere i piatti del giorno sulla lavagna vicino all’ingresso. Erik lo stava guardando, oltre i vetri.
Era così preso a studiarlo che si accorse dopo che Charles, gli aveva parlato.
“Come?”
“Ne hai avuti altri?” Non lo guardava. Ma il tono sembrava quasi tranquillo.
Erik sorrise lievemente e scosse la testa. “Non quanti pensi.”
Charles inclinò un poco il capo. “A-ah.”
“Non erano come te, comunque.”
“Questo è sicuro” mormorò Charles.
“Se vuoi, potresti…” azzardò Erik battendosi un dito sulla tempia. Nemmeno lui ne era tanto convinto, ma Charles gli sembrava così scontento che per quanto riguardava, poteva anche sacrificare parte dei suoi ricordi privati. Non gli importava che Charles sapesse alcune cose, cose che a voce non poteva dirgli, anche se non costituivano nessun pericolo.
Charles scosse la testa con decisione, dopo un momento.
“Meglio di no.” Non specificò perché.
“Non mi darebbe fastidio.”
“Forse darebbe fastidio a me” disse Charles con scarsa convinzione. “Forse.”
Erik accennò una risata. “Ti darebbe fastidio?”
“No. Non so” Charles scosse la testa. “Non ho idea di come funzioni.”
“E allora perché…”
“Non lo so. Non è importante.”
“Sarebbe strano. Se fosse così, intendo.” Erik prese il bicchiere, ma poi lo riappoggiò senza bere. Che cercava di dire, Charles?
Che avrebbe dovuto essere cosa, geloso?
Però non lo era. Non lo era affatto. Forse il problema era del tutto diverso; era Charles che aveva scelto, nonostante tutto quello che provava, di portarsi a letto quella ragazza a Washington - e non era andata proprio così- e provarci di nuovo con quella cameriera, giusto la sera prima. Non certo lui. Non voleva ascoltare cose così inutili, non da lui.
“Charles, non cominciare. Sono sciocchezze.”
“Non sto cominciando niente” La fronte di Charles si contrasse appena. “Forse non è il posto dove parlarne.”
“Charles, non c’è nessuno. Non…”
“Mi sono sbagliato. Non voglio parlarne e basta.”
Erik sostenne lo sguardo serio di Charles, poi tornò a guardare fuori dai vetri, finché la cameriera non arrivò con le ordinazioni. Erik parlò solo per dire che no,
grazie, non c’era bisogno di altro. Se avessero voluto altro, l’avrebbero chiamata.
Charles sembrò astenersi dal guardarla, ostinandosi a fissare il suo piatto, almeno fino a quando non si allontanò, sparendo oltre una porta. Erik quasi ne sorrise. “Guarda che non è un problema per me.”
Charles alzò la testa, incuriosito. “Scusami?”
“Non è… A me non da‘ fastidio.”
Charles alzò appena le spalle. “Come preferisci.” 
Entrarono altri clienti, ma si sistemarono dall’altra parte della tavola calda, salutando calorosamente  il ragazzo, tornato al bancone.
“Cosa facciamo?” disse Charles dopo un po’, posando la forchetta.
Erik si schiarì la voce, poi bevve un sorso di caffè.
“Torniamo indietro. Non c’è altro.”
“E poi?”
“Possiamo…” Erik contrasse appena la fronte, guardandolo fisso. “Qualunque cosa vada bene a te.”
“Perché devo decidere io?”
Erik distolse la faccia, spingendo avanti il piatto. Non aveva affatto fame. Non sapeva perché avesse ordinato, in effetti. Poi, ricordò che l’aveva fatto per fare compagnia a Charles. All’inizio era sembrata una buona idea. Aveva pensato che gli avrebbe fatto piacere. Però anche scoparsi Charles gli era sembrata una buona idea, ma ora, trovandoselo davanti con la faccia stanca e lo sguardo un po’ abbattuto, non rientrava certo nelle conseguenze auspicabili.
Non riusciva a dispiacersi solo perché in realtà non lo era. Ecco tutto. Forse non era Charles l’unico egoista…
“Vorrei trovare una soluzione.”
“Adesso va bene però” obbiettò Erik. “Andrà bene.”
“Erik. Tu credi?”
Erik prese la forchetta. Piegò un momento quello strana omelette -lo era?- ma poi ci rinunciò. Allontanò a lato il piatto, appoggiandosi con i gomiti al tavolo, chinandosi un po’ di più verso Charles. Sembrava decisamente insofferente, così diverso dalla persona con cui si era svegliato appena un’ora prima…
“Charles, a me non dispiace che sia successo.”
Charles tenne gli occhi bassi, come se in realtà non lo avesse ascoltato.
“Questo l’avevo capito.”
Poi riprese a mangiare, ancora senza guardarlo. Passò ancora del tempo prima che si decidesse a parlare di nuovo.
“Di solito… Di solito come funziona?”
“Come?”
Charles parlò continuando a tenere il viso basso, concentrato sul suo piatto.
“Se ne hai avuti altri, immagino che… Vada tutto nascosto. Giusto? E che non è come se… Insomma. Cosa facevi? Finiva così o ne.. Ne trovavi uno… uno fisso?” Gli lanciò un’occhiata rapida. “Per, bè. Per un po‘? Ed erano… come te o più, ecco… Non so. Io credevo fosse un po‘ diverso… Non è che non ci abbia mai pensato, intendo... So che succede e… C‘era una ragazza Linda, e lei aveva, bè, era un po‘ bizzarra, insomma, però era molto bella e ci sono uscito un paio di volte, e…  bè… Non le avevo mai letto nella mente perché lei, lei mi piaceva davvero molto, Linda, e non volevo giocarmela subito, capisci? Infatti, quando poi l’ho fatto -a proposito chissà che fine avrà fatto adesso?- Comunque, bè, non ero io quello che cercava. Però è stato divertente, insomma, non dico fosse sbagliato, effettivamente è stato abbastanza triste per me, però…”
Charles prese un’altra forchettata di uova,  facendo stridere fastidiosamente la posata sul piatto. Gli tremava leggermente la mano, ma Erik era troppo atterrito per notarlo. “…Era davvero bella. Avresti dovuto conoscerla, piaceva a tutti, Linda. E’ stato questo che… Bè. Mi ha un po’… Un po’ sorpreso e, io, bè. Ci sono rimasto male. Non dico che non fosse normale, detto da me sarebbe terribile, insomma…” Charles sorrise tra sé. “Io non lo sono del tutto, vedo quello che pensano gli altri. Però era così curioso. Non capivo perché dovesse preferire… Altro a me, ed era… curioso. Se sì è così, così…”
Charles s’interruppe. Era rosso come il ripiano del tavolo.
“Charles. Che cosa stai cercando di dire?”
“Niente. Solo… “ Abbassò ancora la voce. “Un po’ di conversazione, io…”
“Conversazione?”
“Sì. Cosa.. Non va?”
Erik contrasse le mani a pugno e non disse niente. Charles divenne serio.
“Parlavamo” disse Charles piano, un po‘ contrariato. “Prima.”
“Non è cambiato niente.”
“Non è vero.”
“Prima non parlavamo di cose inutili” sbottò Erik, irritato.
“Non sono inutili.” Charles mise le posate ai lati del piatto e lo fissò.
“E’ evidente che c’è un problema e mi piacerebbe…”
Erik si allungò sullo schienale, squadrandolo con sospetto. “Un… problema?”
“Non volevo dire…”
“Oh, naturalmente. Charles, come ti piacerebbe chiamarlo? Malattia?”
“Non scherzare.”
“Sono più serio di te.”
“Mi dispiace.”
“Ti dispiace sempre.”
“Ed è divertente?”
Ora Charles lo guardava. Lo guardava fisso e lui non sapeva cosa rispondere. Era folle.
“Non posso farci niente.”
“Ma potevi fare finta di niente. Se tu… Lascia stare.”
Charles si morse le labbra, guardandolo, quasi arrabbiato. E stanco.
“Sei stato tu.”
“Non è una questione di colpa.”
“Se tu non fossi…”
Erik si accorse che gli avrebbe riso in faccia. Era assurdo. Però, forse non doveva aspettarsi che Charles diventasse subito così..
Disponibile e gentile, e pronto ad ascoltarlo e ad assecondarlo in tutto.
“Dico solo che…”
Erik abbassò le palpebre, guardando disgustato la sua colazione. “Non mi sembrava fosse un problema per te, non…” disse piano.
Charles lo guardò imperturbabile, anche se chiaramente aveva letto il resto della frase nella sua testa.
Sembrava quasi aspettarsi una battuta del genere.
Non era stato per niente come farlo con una donna. Era tutta un’altra cosa. Credeva di aver visto, di essere abituato a tutto, con un potere come il suo. Era successo solo perché avevano passato troppo tempo assieme, pensò, guardandolo di sottecchi, senza rispondergli.
Tornati a Richmond sarebbe tornato tutto a posto, ma non riusciva a crederci perché ormai era accaduto e anche se ne aveva il potere, non avrebbe mai voluto cancellarlo. Era colpa di Erik perché lo era così attraente ed era anche colpa sua, perché ora riusciva solo ad accettare che Erik gli piacesse e non pensare ad altro che a quello. Era lui ad avere qualche problema, pensò. Era successo e desiderava che succedesse ancora; non si era mai sentito tanto coinvolto ed era quasi disorientato, solo a pensarci.
Non era stato per niente come farlo con una donna. Per niente. Gli aveva fatto male e insieme, non aveva mai provato un piacere così grande; aveva supplicato per averne ancora.
Era colpa di Erik certamente. Ma era anche colpa sua.
Erik ora lo ignorava. Si rigirò il bicchiere fra le mani, tornò a guardare la strada fuori dalla vetrina.
C’era il sole, e le case dai colori chiari erano illuminate dalla luce.
Non sembrava minaccioso, tutto era molto diverso senza il buio, lo squallore e la pioggia scrosciante.
“Avrei voluto fare finta di niente” disse Erik cauto. “Stava andando bene. Era solo… troviamo qualcuno. Mandiamolo a Richmond e andiamo avanti, no? E quello che c’era in mezzo non doveva… Non doveva contare. Non era niente.”
Charles non rispose. Gli lanciò uno sguardo obliquo, poi si guardò intorno. Ma parlavano a voce bassa, nessuno poteva sentirli. Nessuno era interessato a sentirli.
“Sono sicuro che non lo fai apposta. Ma vorrei solo che la smettessi di preoccuparti. Non serve pensarci adesso, c’è ancora un po’ di tempo” abbassò ancora un po’ la voce. “Non ho intenzione di dire niente. Non sono fatto così. Voglio solo che vada bene a te, qualunque cosa tu decida, Charles. Non mi interessa nient’altro. Non voglio nient‘altro da te.”
Charles fece una strana faccia, a metà tra il divertito e l’imbarazzato. A parte me?
“Riguarda sempre quello che voglio io, vero?” ribatté Erik. Però non si sentiva più così nervoso. Forse…
Charles riprese a mangiare, un po’ più tranquillo. Sembrava ancora stanchissimo, ma la sua espressione non era più così scontenta. Non era ancora l’espressione che aveva avuto quando si era svegliato quel mattino, quando si era accorto di essersi svegliato sdraiato accanto ad Erik, ma poteva recuperare.
Occorreva solo un po’ di tempo.
“Non mangi?”
“No.”
Charles lo guardò, Erik si chiese cosa volesse ancora.
“Ah. Prendilo pure.”
Charles guardingo tirò il piatto verso di sé. Lo fissava ancora con circospezione quando disse: “Dovresti mangiare invece. Non ci fermeremo fino a Richmond.”
“Bene.”
“Ma non è quello che stai pensando.”
Erik pensò intensamente a tutto quello che aveva sentito uscire dalla bocca di Charles durante la notte. Charles cominciò a tossire, quasi strozzandosi. Si aggrappò al bordo del tavolo, facendo tintinnare la forchetta.
Quando si fu calmato, lo guardò malissimo. Strano, non gli era sembrato un modo brutto per farlo stare fuori dalla sua testa, ma l‘espressione di Charles era davvero risentita. Erik a bassa voce, si scusò. Ora era Charles ad ignorare lui.
Lo lasciò mangiare e andò a pagare, poi uscirono e ripresero la strada. Avevano lasciato la macchina al parcheggio del motel, e lì si diressero.
Non era un tragitto lungo, ma si sentì dispiaciuto nel sentire che Charles ora non gli parlava più e camminava lento e contrito, con le mani nelle tasche della giacca leggera. Non erano passate neanche due ore da quando si erano svegliati. Stentava a credere che Charles fosse di nuovo cambiato così, ma forse non era poi così strano, non fuori dalla stanza.
Si era svegliato e l’aveva guardato e Charles era stato gentile, forse persino contento.
E non aveva resisto e aveva dovuto chiedergli se gli era sembrato strano e Charles gli aveva detto che no, andava bene, lo sapeva se voleva stare con lui e che gli dispiaceva, perché non era semplice. Qualunque cosa intendesse.
Forse, però, gli aveva semplicemente mentito.
“Charles, guardami.”
“Cosa?” chiese voltandosi di scatto. “Perché?”
“Volevo solo sapere se…” cominciò Erik, bloccandosi.
“Smettila.”
“Charles, onestamente. A te è piaciuto?”
“Cosa?” Charles rovesciò gli occhi al cielo, fermandosi.“Oh, Cristo.”
“Charles.”
Charles cercò di evitare di guardarlo negli occhi. Era come se gli avessero preso a calci la pancia e lasciato dolorante sulla strada, oltre a quella -reale e tremenda - sensazione al fondoschiena a cui cercava di non pensare perché davvero, per adesso di imbarazzo ne aveva già abbastanza da provare.
Con che coraggio, Erik chiedeva se gli era piaciuto? Non era stato abbastanza chiaro? Charles aveva ignorato il rumore. Si era dimenticato dei suoni strani, del bruciore, del casino che dovevano aver fatto, della vergogna, del dolore. Degli insulti e di quel piagnucolio che non poteva essere uscito dalle sue labbra.
Ancora non ci credeva. Aveva cercato di mettere da parte il dolore e l’umiliazione. E anche se quando tutto era finito il primo pensiero era stato mai più, ora ne avrebbe voluto ancora. Gli era bastato guardarlo. Era quello che Erik intendeva con piacere?, si chiese, lanciandogli un’occhiata di sottecchi.
Avrebbe solo dovuto guardargli nella mente, sarebbe solo stato così facile…
Charles.”
Non era stato per niente come farlo con una donna. Per niente. Credeva di essere abituato a tutto con un potere come il suo, però per ora era meglio dare la colpa di tutto ad Erik. Era lui ad avere qualche problema… Però, ormai lo accettava. Accettava che gli piacesse perché anche per Erik era lo stesso -e sembrava così incredibile-.
Sarebbe successo ancora? La risposta era chiara, ma alla sola idea di pensarci, Charles si sentiva morire, perché lui non era così.
Era colpa di Erik, di Erik che era attraente e così affine a lui. Se non lo fosse stato…
Era successo perché avevano passato troppo tempo assieme. Tornati a Richmond sarebbe tornato tutto a posto, ma non riusciva a crederci davvero, a convincere sé stesso. Perché ormai era accaduto e anche se poteva cancellarlo, non voleva farlo.
Gli aveva mentito quella mattina. L’aveva sì trovato strano, l’aveva trovato…
“Charles?”
Charles tenne ostinatamente le mani in tasca. “Per piacere, Erik.”
“Voglio solo saperlo.”
“Non voglio che ne parli. Non devi parlarne… così” disse Charles sbiancando. “E’ disgustoso.”
Erik per un momento sembrò trasalire, ma Charles lo intuì solo perché era calato il silenzio. Forse non era quello che avrebbe dovuto dire. Ma in realtà non aveva la minima idea di cosa volesse sentirsi dire Erik. O di cosa bisognasse dire in casi del genere.
Appena sveglio era stato facile. Era ancora mezzo addormentato in sogni non suoi.
“Charles, io non ho altro modo per chiedertelo, se non così.”
Charles fece per andare verso la macchina, sfilando le chiavi, poi si bloccò, irritato.
“Secondo te c’è bisogno di parlarne?”
Erik allungò un braccio verso di lui. “Charles…”
“Non farlo” disse lui arretrando e guardandosi in giro nel parcheggio deserto. “Erik, non qui…”
Erik però lo ignorò. Lo trattenne e lo tirò con sé, al riparo della vecchia veranda, rimanendogli distante. Non sapeva se essere davvero felice che Charles l’avesse seguito, che non l’avesse respinto, anche se con un’ espressione ben poco contenta. Poi lo lasciò andare.
Charles continuava a guardare ostinatamente verso il parcheggio. C’erano altre tre macchine ora, ma nessuno in vista.
Il sole faceva luccicare le larghe pozze di pioggia che andavano lentamente rìtirandosi.
“Erik, non puoi chiedermi di pensarci adesso.”
“Sono sicuro” disse lui piano. “Che ci stai già pensando.”
“Possiamo parlarne in macchina?” Charles spalancò gli occhi, esasperato. Se proprio dobbiamo. “Per favore?”
“Charles, sono ancora tuo amico, voglio solo sapere se…”
“Se sto bene? Erik, hai intenzione di chiedermelo ancora? Per quanto?”
Erik rimase zitto, lo guardò solo come se lui stesso fosse smarrito, per la prima volta. Non voleva sentirsi così, non era giusto. Se solo Charles avesse capito…
“Ti ho detto che sto bene. Erik…” Si morse appena il labbro, abbassando la voce. “Sono stato bene, questo è il problema e non è stato… Disgustoso” disse Charles in fretta, tornando a guardare verso la Plymouth. “Ma non voglio essere come te. Non lo desidero affatto” aggiunse.
“Questo non significa niente” provò a dire Erik, ma Charles lo fulminò con lo sguardo.
Mi piace stare con te. Ma forse non abbastanza.
“Non è vero” replicò Erik dopo una pausa lunghissima.
“Fa’ almeno finta di crederci. Non rovinarmi tutto, Erik.”
Non era più esasperato adesso, era solo cauto e gentile. E fu allora che fece un errore.
Alzò gli occhi, ed Erik capì. Capì che non l’avrebbe lasciato andare. Comprese che per quanto ne parlassero, Charles ormai era coinvolto e anche se sarebbe stato difficile e avrebbero dovuto litigare ancora e ancora e forse sarebbe successo altro, ma per adesso, per adesso a Charles andava bene.
Lui era così, perché non poteva fare altrimenti. Non poteva fare a meno di parlare così.
E allora  Erik gli sorrise. Era un po’ come essere innamorati, forse. Innamorato di Charles. Sembrava quasi vero, una grande e disperata infatuazione. Un po’ dipendente e tremendamente stupido e desiderabile.
Charles lo squadrò, incuriosito.
“Cosa c’è?”
“Niente.”
Charles si sfiorò appena la tempia e il sorriso di Erik s’incrinò appena.
“Divertente, Erik.”
Adorabile.”
“Sai che non voglio pensarci adesso.”
“Charles, non voglio rovinare tutto. Non te.”

 

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Westchester, New York, il presente.
 

Più tardi, quando il cielo fuori dalla finestra assunse una diversa gradazione di blu ed entrambi riuscirono a stendersi, staccandosi, Charles comprese che quella era davvero l’ultima sera a Westchester. L’ultima sera e lui era quasi riuscito a rovinarla del tutto… Notte, si corresse, notte. E stava finendo.
Tutte le notti finivano e così i giorni e così…
“Charles, smettila.”
“Non stavo….”
“Ti si sente pensare dappertutto ormai.”
“Ma non è…” Charles alzò gli occhi, vagamente esasperato. “Già. Succede.”
“Se succedesse solo più spesso…” replicò, tentando quasi di scherzare. Non era forse giusto, adesso? Non voleva pensare a niente che non fosse adesso.
Era solo gelosia, e non la voleva mostrare. Era qualcosa di così umano che solo il vederlo in Charles lo poteva affascinare. Più lo fissava, più desiderava capire a cosa stesse pensando. Charles scosse la testa.
“Oh, Erik, per favore. Non continuare a cambiare idea.”
“Non ho cambiato idea.. Charles, se tu l’avessi fatto prima, avresti visto che Raven…”
“Ne stai ancora parlando?” sbottò Charles, un poco irritato. Però adesso gli veniva anche da ridere; sembrava così sciocco ora, tutto quanto. Senza peso, senza importanza. Fece per allontanare il braccio di Erik intorno a lui, ma Erik lo strinse solo di più e non lo respinse, stavano bene così.
Charles lo sentì sorridere contro la sua testa. Anche lui si sentiva stranamente leggero. Tutto era lontano.
Era passata più di un ora da quando se ne era rimasto lì, imbambolato, contro la parete, incapace di combattere ancora.
Era stato tutto, un unico grande e lungo scontro e non sarebbe mai finito. Era rimasto seduto curvo per un tempo indefinito; se fosse stato qualcun altro, si sarebbe messo a piangere. Ma il suo viso era rimasto asciutto, le orbite aride, a guardare solo il buio. Aveva voluto che Erik se ne fosse andato ma lui era rimasto lì.
E lui era stanco e aveva vacillato. Allora si era alzato, Erik gli aveva fatto spazio e lui si era steso. E non era riuscito a lasciarlo andare via, dopo. Non era giusto.
Dopo un tempo interminabile Erik l’aveva  abbracciato. Gli aveva chiesto come stava e lui sì, era calmo era tutto a posto -per quanto potesse esserlo dopo quell’ intricata serata-. Poi gli aveva detto di rilassarsi e l’avevano fatto davvero e lui era quasi riuscito ad essere normale, a stare quasi fuori del tutto dalla testa di Erik, cercando di non sentirsi umiliato, di non pensare a quanto era successo, a Raven. Il dolore lo aveva eccitato; il modo in cui era dentro di lui, sì, era sempre umiliante e, certo, non era stato come al solito.
Aveva solo cercato di fare in modo che non notasse niente di diverso, di non crogiolarsi nelle parole di Raven ed Erik, nelle armi
che lei aveva dato a lui per farlo apparire più instabile di quello che già era.

Erik aveva cominciato a fotterlo, prima piano poi sempre più forte. Aveva sentito il dolore e il piacere crescere,  Erik si era messo a spingere, un gemito soffocato ad ogni colpo. Schiacciandolo a pancia sotto, allargandogli le natiche. Sentendo il suo respiro sul collo, Erik lo aveva fatto godere.
E nonostante fosse eccitato da quello strano modo di fare, Charles aveva cercato di soffocare la vergogna e l’imbarazzo; con Raven, Erik non si sarebbe mai comportato così. Era come se avesse voluto sfogarsi. E a Charles era piaciuto, ma era stato giusto?
Non lo sapeva. Che ne sapeva di come funzionava la testa di Erik, davvero?
Leggere i suoi pensieri non voleva necessariamente dire capirlo…
Ti piace, Charles? Prendilo, sei così stretto, se sei innamorato di me Charles, vuoi che lo sia anche io?… Lo imbarazzava. Erik  lo metteva a disagio e adesso non riusciva a dirglielo. non era come lui, era questo che aveva voluto intendere. Erik riusciva ad essere quello che lui non voleva diventare. Aveva desiderato zittirlo, mentre il piacere veniva meno. Aveva cominciato a sentirsi stupido. Si stava facendo umiliare e ne era innamorato. E lui non l'avrebbe mai capito. Erik gli aveva chiesto se gli era piaciuto prenderlo in bocca, che non l'avrebbe mai più obbligato, che non voleva nient'altro da lui, ma era stato molto meglio delle altre volte, no? No, non era stato come le altre volte; era stato squallido e lascivo e sapeva che Erik si stava comportando così, lasciandosi andare, dicendogli solo di farsi scopare, perchè in fondo era lui, era sempre stato lui ad allontanarlo da sè.
Voleva solo renderlo più semplice.
Poi, Erik aveva aumentato il ritmo della scopata ed era venuto mentre lui, muovendo un’ultima volta i fianchi sotto la sua spinta, aveva sporcato il lenzuolo. Si era chiesto a cosa pensasse Erik, se a lui o a Raven, o a quello che era successo prima, cercando di non entrare nella sua mente, nemmeno per errore. Charles si era lasciato andare ad ansimare e aveva cercato di star fuori dalla sua testa.
Ed era finito; erano rimasti sdraiati tra le lenzuola umide.
Conosceva tutte le fantasie di Erik, le aveva viste. Lo conosceva e diceva di esserne innamorato e per questo  non riusciva a credere di aver cercato di sopprimere i suoi ricordi.  Era stato così meschino. Era così innamorato da essere disposto a tutto… Ma forse, non era stato amore. Non solo. Gelosia, ecco.
Si era fatto trascinare e aveva rischiato di compromettere tutto. E adesso riusciva addirittura a riderne. Solo perché non c’era più tempo… Non c’era più tempo da sprecare con l’essere arrabbiati…
Capisco che tu abbia interessi e gusti particolari, amico mio. Ma preferirei che ti limitassi.
“A te?”
Charles sospirò. Finchè sei a casa mia almeno. Te ne sarei grato.
“E io ti sarei grato se non dicessi cose del genere” replicò Erik piano. “Non sono vere. Sai che…”
So che cosa? Che non farai quello che vuoi, indipendentemente da…
“Dal buon senso?” provò a scherzare Erik.
No.
“Da te?”
Charles rimase in silenzio. Voleva tirarsi su e vestirsi e andarsene. Tutte cose buone e giuste sì, ma Erik continuava a trattenerlo e lui non era poi così arrabbiato. Non più. Avrebbe voluto esserlo però, almeno avrebbe avuto il controllo di quell’intricata situazione. Era Erik che decideva, che controllava sempre tutto fra loro,
ricordò a sé stesso. Agli occhi di Erik, lui, Charles, contava molto poco.
Avrebbe contato sempre molto poco nelle decisioni che non riguardavano Charles strettamente. Però non sembrava nemmeno una considerazione spaventosa, adesso.  Era… Comprensibile? Non faceva così male. Perché non finiva tutto? Ora era il momento.
"Non andava bene?"
Charles distolse lo sguardo. “E’ tardi.”
Erik rovesciò gli occhi verso di lui, poi verso l‘orologio a colonna. La sua testa era ancora affondata nel cuscino. “Ora lo è di sicuro.”
“Ha sistemato tutto Hank per domani. Ma credo sia meglio se…”
Erik si passò una mano sul viso. “Ora me ne vado. Non preoccuparti.”
Charles corrugò impercettibilmente la fronte. “Non lo sono. Ma voglio che te ne vada” disse, cercando di mantenere il tono più normale possibile. Anche se fu lui ad alzarsi per primo; si avvicinò al carrello con le bottiglie, dall’altra parte della camera e si versò
del Goose Trip lentamente, senza ghiaccio, fissando la sagoma distorta di Erik che si rivestiva riflettersi sulle bottiglie.
In realtà non voleva che se ne andasse. Non l’avrebbe voluto mai, ma che scelta aveva?, si chiese.
Sarebbe stato bello se avesse dormito lì, ancora per una sera. Ma che scelta c’era?
“Rhode Island.”
“Come?”
“Non hai detto di avere una casa, lassù?”
Charles si girò lentamente verso Erik, il bicchiere ondeggiante in mano. “E allora?”
“Va bene anche un altro posto. Savannah, magari o… Atlantic City?” continuò Erik fissando assorto la notte chiara fuori dalle finestre, abbottonandosi lentamente la camicia.
“Un posto vicino all‘Oceano.”
“Erik, ma che stai…” poi Charles si toccò la tempia e vide a cosa Erik pensava e ne rimase triste e colpito assieme.
Fece lentamente qualche passo verso il letto, risiedendosi e avvolgendosi in un lenzuolo. Faceva così freddo adesso. E anche i pensieri incoerenti di Erik lo erano.
Strinse gli occhi nella penombra, come se dovesse metterlo a fuoco.
“Non mi piacciono molto  le spiagge. Belle, ma non ci starei. Troppi granelli di sabbia.”
“Dicevo solo…”
“Le alternative per te sono diventare una specie di leader mutante o seguirti da qualche parte? Che vorresti che facessi, Erik?” sorrise controvoglia, in modo beffardo.
“Che andassimo da qualche parte? Magari al nord, da qualche parte che somiglia alla Germania e che stessimo lì, finchè…”
Charles si bloccò e il suo sorriso quasi estasiato sparì, sostituito da un’espressione quasi dispiaciuta. "No. Non è per me."
Erik lo fissò, muto.
“Lo vuoi davvero?” insistè Charles. Ma non ce n’era bisogno. Lo vedeva così chiaramente dentro di lui…
“Se tu restassi con me, potremmo…”
“Non è credibile Erik. Non è possibile.”
“Allora non leggermi nella mente, Charles.”
Charles sollevò appena un sopracciglio. “Non quando non serve a te, immagino.”
“Smettila, Charles. Vivi nella convinzione che io non ti voglia mai dire nulla. Per una volta…”
Charles si rimise a sedere sul fondo del letto, ma lo ignorò.
“E Shaw?”
Trasalendo appena, Erik smise di scrutare fuori dalle finestre. Ancora mezzo svestito, si voltò, protendendosi verso di lui e cercando di assumere un tono pratico. “Charles, è solo un ostacolo, perché non riesci a guardare oltre? Concedimi di… ”
“Non c’è nessun oltre, Erik. Perché hai bisogno del mio permesso, se lo farai comunque?”
“Perché è importante.”
“Non abbastanza” replicò inflessibile. “Se fosse importante mi ascolteresti.”
“E’ al di là di una cosa così banale, Charles.”
“Banale?”
“Pensa a cosa potremmo fare. Insieme, tu ed io” disse Erik piano, avvicinandosi di più e  stringendolo per il polso. 
“Senza più Shaw di mezzo, io e te… Io e te…. Ogni cosa sarebbe diversa. Non dirmi che non ci hai pensato.”
Charles lo guardò a lungo. Poi scosse la testa. “Non ci penso.”
“Potresti avere tutto, Charles, ogni cosa.”
Charles scosse ancora la testa. “Non mi interessa.”
Erik rise e Charles lo squadrò.
“Non sto’ mentendo.”
“E’ proprio per questo che fa’ ridere.”
“Io non voglio vederti uccidere Shaw, Erik.”
Erik sorrise freddamente. “Non sei costretto a guardare.”
“Lo vedrei comunque.”
“Morboso.”
Charles aggrottò appena la fronte. “Non posso farci niente.”
“Non stiamo parlando di …”
“Non stiamo mai parlando” replicò Charles posando il bicchiere vuoto sul comodino. “Parliamo sempre di me, di quanto è importante che ti abbia trovato, di quello che
faremo, di… Di… Che importa? Va bene così.”
“Non stanno così le cose.”
“Infatti. Sai cosa sarebbe dovuto succedere?..  Avrei dovuto scegliere Moira. Fare ciò che era giusto.
Erik s‘irrigidì appena. Quant‘era odioso, quando cominciava con le scuse e le alternative. Quant‘era odioso e sciocco. Non lo sopportava. “Charles, perché stai parlando così?”
“Non voglio litigare, non fraintendermi, ma è così, avrei dovuto fare… Fare ciò che è giusto.”
“Per poi comportarti così?”
Sul viso di Charles prese forma un’espressione quasi crudele, crudele per quanto poteva esserlo il viso di Charles.
“Se uccidi Shaw non sarai più ben accetto a Westchester.”
Gli occhi di Erik si strinsero appena. “Vuoi rimanere da solo, Charles?”
Non lo pensava, ma quanto avrebbe voluto ferirlo…
Tuttavia, nell’ascoltare quelle parole, Charles sembrò quasi risoluto.
“Correrò il rischio” rispose, fissandolo con sufficienza.
“Da solo? Solo contro degli stupidi e sciocchi…”
Charles alzò gli occhi al cielo, stringendosi nel lenzuolo. Erik tacque. La sua espressione contrita si dissolse e solo guardando le pieghe del lenzuolo riuscì a dire piano, scegliendo con cura le parole, quello che davvero gli passava per la testa.
“Voglio solo che tu stia al mio fianco. E’ solo un piccolo prezzo, Charles.”
Charles sospirò, senza guardarlo più. “La vita di Shaw.”
“Non è niente d’importante.”
“Però, per te, vale tantissimo.”
“Solo se posso togliergliela” ribatté Erik impassibile.
“Porta Raven con te. Non ti basta?”
“Non è lei che voglio.”
Charles fece un sorriso molto vago. “Accontentati.”
“E non credo che non le impediresti di andarsene.”
“Non esserne così sicuro.”
“Charles…”
Per tutta risposta, Charles andò a versarsi ancora da bere, il lenzuolo drappeggiato attorno a sé, nella parodia di una toga. Si sentiva rilassato e innaturalmente calmo. E nonostante tutto sentiva il brusio inquieto ed ininterrotto dei pensieri di Erik scivolare fra i suoi, confondendoli e tentandoli.
Non sembrava così brutto il futuro che Erik prospettava…
Scivolò per un momento nella testa di Erik e si chiese come sarebbe stato. Immaginò la casa di Portland, grigia e grande.
Il vento freddo sul mare.
Sarebbe andata bene, no? Potevano essere normali, fare finta e ogni tanto… Ogni tanto…
Però… Però…. Non era giusto. Non lo era mai, non poteva esserlo. Sembrava così irreale. Stare sempre con Erik. Era qualcosa di così bello… Ma improponibile. Che rapporto era? Non era normale…non era per loro. Per lui.
Fece tintinnare il ghiaccio nel bicchiere. Era così fastidioso. Un rumore fastidioso, non adatto a quell’ora, in un così amabile posto.
Era tranquillo, lui era tranquillo ed Erik.. quello che pensava Erik erano minacce. Avrebbe rovinato tutto, stava rovinando tutto…
Con che diritto si permetteva di imporsi? Quella non era casa sua. Non lo era affatto.
“Charles, spiegamelo.”
 Charles piegò il capo e fece uno sbuffo divertito.“Perché dovrei? Ha importanza?”
“Non credere che non voglia quello che vuoi tu.”
“Pace e coesione fra i popoli? Non ne dubito… ” il sarcasmo però riuscì fiacco. Stava cominciando a venirgli mal di testa, ascoltando la voce di Erik fuori e dentro di lui. Strinse il bicchiere, trattenendosi dallo scagliarlo. Che fastidio. Sempre le stesse parole, all’infinito… non capiva, non si sarebbero capiti mai.
Non quando le cose diventavano davvero importanti, pensò Charles. Oh, sì, aveva creduto che  Erik fosse  uguale a lui… al contrario però. Non sarebbe mai riuscito a vedere la luce. Mai una soluzione onesta e giusta…
“… Dopodomani ci cercheranno, ci identificheranno…  inizieranno a cercare il modo migliore per ammazzarci tutti, devo dirtelo ancora? Perché sei così... Così cieco, Charles… Ascoltami. Siamo una minaccia, per loro….”
“Solo se ci comportiamo come tali, Erik. Santo cielo, non riesci ad andare oltre?” sbottò Charles, irritato, la bocca impastata di whiskey. La voce gli uscì aspra ed Erik s’interruppe. La sua faccia  allora divenne seria e cattiva.
“Tu non sei innamorato di me, Charles. Tu sei innamorato dei tuoi cari esseri umani.”
La fronte di Charles si contrasse appena.
“Vorrei fosse così, Erik. Lo vorrei davvero...” Con calma,  finì il drink con un ultimo sorso. “…Va’ via. Sono stanco.”
Era stanco davvero. Ma non per il sonno. Stava finendo, realizzò.
Qualunque cosa fosse stata ora finiva e lui era lì e poteva accettarlo, no? Non sembrava così spaventoso…
Oh, certo, era stato bello. Meraviglioso. E… sbagliato e lui si era compromesso e terrorizzato e scoperto e… Felice.
Non era mai stato tanto sé stesso.
Allontanarsi da Erik voleva dire allontanare tutto questo. Però poteva farcela. Erano già tanto lontani…
Charles si avvicinò a lui, lentamente. Lo vedeva così, chiaro, così semplice e lineare. Eliminare, estirpare, risolvere. Finire. Non ne poteva più.
Ne valeva la pena, lo sapeva. Avrebbe dovuto impegnarsi, farsi trascinare, supplicarlo, conquistarlo... Non arrendersi.
Erik avrebbe fatto di tutto per lui, a patto che gli concedesse quello che voleva…. Ma era una questione di principio, no? Erano migliori, ma non come lo intendeva Erik.
Erano migliori perché magnanimi e misericordiosi e in grado di essere… Perfetti?
“L’unico motivo per cui non ho cercato la risposta da me…” cominciò Charles. “E’ che io non voglio niente. Assolutamente niente.”
“Dagli umani o da me?” Erik non si fece impressionare; quasi sorrise. “In entrambi i casi, è qualcosa a cui non posso credere… Innamorato? No…”
Charles lo fissò impassibile.
“… E’ stato così egoista, Charles. Perché forse è questa la verità. In fondo, è l’essere egoista a farti muovere come un burattino. A dire le cose così, senza riflettere… Solo se suonano bene nella tua testa?” aggiunse Erik. Gli veniva da sorridere.
Era innamorato di Charles e non gliel’avrebbe mai potuto dire.
Da quando l’aveva incontrato. Innamorato tanto assolutamente ma…. Non poteva confermarglielo, mai dirglielo in modo chiaro…
E non perché non volesse. Ma perché Charles non l’avrebbe mai capito. Charles era innamorato di sé stesso, ecco la verità.
Ne era conscio? Capiva di mettere sé stesso, il suo essere davanti a tutti? A volte sembrava persino di no… Ne era ignaro?
E lui, Erik, lui era così sciocco e solo, perché avrebbe tanto voluto essere sempre e solo con lui…
“… Ma non m’importa. Non m’importa. Posso sopportarlo, Charles.”
Charles si morse appena il labbro. Poi socchiuse  gli occhi.
Aveva uno strano fastidio, come polvere negli occhi e continuando  a stare vicino ad percepiva solo un grande freddo. Sé stesso in trappola…“Va’ via.”
Erik si alzò, mettendosi di fronte a lui. Lo strinse per le spalle, scrollandolo un poco come se volesse svegliarlo.
Charles lanciò un’occhiata fuori dalla finestre,sorrise e tornò a guardarlo. Niente era importante, si disse. Nemmeno questo. Tantomeno Erik.
“Volevi davvero che dimenticassi tutto?” chiese, fissando gli occhi di Charles dilatarsi appena. Poi lo sentì rilassarsi.
“Mai.”
“Charles…”
“Mai…”
“E allora perché? Tu e io, Charles… Potremmo fare.. Ogni cosa, ogni cosa insieme… Non dovremmo preoccuparci di niente, ogni cosa.. Sarebbe nostra. Sarebbe tua.”
Charles gli rispose solo con quel sorriso. Quello gentile e beffardo. Era più lontano di lui. Più lontano della notte fuori dai vetri.
Alla fine, cosa contava? Erano sempre stati soli. Collisione planetaria. Ma non ci credeva, non poteva essersi arreso così, doveva esserci un modo…
Uno sciocco, singolo e chiaro modo per capirsi, per risolvere… non ce la faceva più.
Lo fissava e l’attesa lo distruggeva, voleva solo un cenno, una supplica, una reazione. Rabbia o tristezza, non solo..
Quello stabilire per forza una priorità così assoluta da schiacciarli. Quella resa.
Quello non poteva essere Charles, non così…
“Cosa vuoi che faccia, domani?”
Charles smise di sorridere
“Scegli.”
 
 
 
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Circa tre mesi dopo, Westchester, NY.
 
Faceva un po’ tristezza vedere il mondo sempre da seduti. L’orizzonte sembrava posto più in alto, come un muro da scavalcare.
Però, ormai era inchiodato lì; non avrebbe mai cercato di andare oltre, anche volendo, anche avendone il coraggio.
L’orizzonte era più su. L’orizzonte era un muro invalicabile che non aveva bisogno di filo spinato.
Tutto, effettivamente, sembrava un po’ più in alto adesso, un po’ più difficile da fare. Bastava adattarsi., si era detto.
Forse non era poi un passo indietro, forse era solo un’evoluzione un po’ diversa. Adattarsi.
Non lo spaventava nemmeno più tanto. Non quando era sveglio.
A volte, all’inizio soprattutto, rimpiangeva di aver lasciato andare Moira.
Nella sua testa, c’era stato così tanto senso di colpa da poterla tenere lì, a Westchester, per tutti i giorni a venire. Ma lasciarla restare, sarebbe equivalso ad un ricatto. Non sarebbe stato corretto.
Charles credeva che i giorni sarebbero diventati più lunghi e penosi. Si sbagliava. Certo, erano solo un po’ più tristi, ma le ore erano sempre le stesse. Forse, in verità, non era poi cambiato nulla. Forse era tutto nella sua mente.
Eppure, ultimamente, quando la mattina faceva capolino dalla finestra della sua stanza, Charles guardava tra la foschia che avvolgeva Westchester, quando l’orizzonte era invisibile, nascosto com’era dalla luce pallida e dal cielo bianco.
Si chiedeva se sarebbe riuscito a vedere Erik camminare verso il bosco, oltrepassando le vasche ornamentali, scendendo le scalinate che sparivano come trincee nella terra.
Si chiedeva se Erik si sarebbe voltato per salutarlo, sperando che lo raggiungesse.
 
 



FINE





Angolo delle cose a casaccio e dei panni sporchi 

 
 
E, sorprendentemente, siamo giunti alla fine di questa ultima parte dell’ultima FF dedicata a Charles ed Erik. La mia incursione nel mondo slash penso si concluda qui, perché sono notoriamente una persona sfaticata e sono troppo pigra per cercare un altro fandom anche solo un decimo credibile rispetto a C\E su cui scrivere... Forse. 

Vi chiedo -al solito-  scusa per il ritardo. Sono sicura che mi leggeranno giusto 3 persone per un totale ottimistico di mezza recensione. Devo anche confessare che questa FF in sé un po’ una farloccata, ma ha avuto il merito di farmi trovare un’amica in più che non smetterò mai di ringraziare per questo e per altro. E’ solo Grazie a Bloody Very (e anche alla cara Tonie -grazie di aver risposto ai miei questionari a crocette sulla fame nel mondo- ) se questa FF è andata avanti e non si è arenata al capitolo 2, rimanendo spiaggiata come una balena in procinto di morire sotto al sole dei tropici eccetera eccetera.
Ah, oltre a coloro che mi hanno recensito in questi mesi, e sempre positivamente, con mio disappunto, ringrazio in particolare anche TheElektra, che mi ha supportato in più di un’occasione.
Bene. Se faranno un secondo film magari scriverò la 5’ parte, ma al momento, dato che spero già abbastanza di arrivare indenne al domani, non faccio progetti a lungo termine.


EXELLE
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