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La
soddisfazione che stava provando in quel momento, il sentire il potere che
scorreva nelle sue vene come fosse sangue, il sorrisetto superiore che restava
stampato sul viso come marchio della sua essenza: Sebastian Smythe non era mai
apparso tanto raggiante mentre camminava per i corridoi della Dalton con fare
maestro nonostante stesse in quella scuola da meno tempo della maggior parte
dei ragazzi che incontrava.
La certezza
di avere la partita nelle sue mani e di sapere precisamente quale sarebbe stata
la prossima mossa degli avversari gli dava una tranquillità superiore che gli
sia addiceva in maniera quasi inquietante.
Con fare
degno del red carpetdi una delle più importanti
stelle della serata, il nuovo capitano dei Warblers entrò nella biblioteca
della scuola, tracolla in spalla ed un macchiato appena preso alla caffetteria
dell'istituto – al “Lima Bean” era stato troppo l'entusiasmo per potersi
ricordare una simile sciocchezza.
Si sedette al
primo tavolo libero e tirò fuori il libro di trigonometria ed un quadernino su
cui svolgere gli esercizi assegnati – non che ne avesse bisogno, lui: la
matematica non era mai stata un problema, ma anzi si era sempre vantato di
capirla al primo colpo e di saperla applicare con facilità. Insomma era un po'
come organizzare le proprie mosse in uno dei piani che di solito architettava
per vincere: una serie di incognite che andavano risolte e poi i calcoli
andavano da sé in modo prevedibile e scontato. La matematica era scontata:
c'era la possibilità di una sola soluzione e lui di solito la conosceva sempre
prima degli altri.
Per questo,
quando una mano sbatté con forza sul suo tavolino, alzò uno sguardo
praticamente annoiato su quelli che il suo campo visivo individuò come Jeff,
Nick e Thad. Non ne fu sorpreso ed era certo del motivo per cui erano
lì.
Che
diavolo c'è che non va in te? anticipò mentalmente.
«Che diavolo
c'è che non va in te?», chiese furioso Thad.
Oh, quanto
era scontato! Forse era quasi meglio la matematica. Sospirò in modo teatrale e
fece una smorfia esasperata.
Come ti è
saltato in testa di continuare questa farsa con le Nuove Direzioni?
«Come ti è
saltato in testa di continuare questa farsa con le Nuove Direzioni? È
già stato sufficiente il casino che hai fatto con Blaine», continuò Jeff con lo
stesso tono.
Wow. Elemento
inatteso: sentimentalismo. Non si sarebbe mai abituato a quel soffice, roseo,
ammasso zuccheroso che avevano tutti lì, al posto di un normale cuore. Perché
anche lui aveva un cuore, sia chiaro, ma ringraziando in cielo non così.
«Quanto sono
pettegoli quelli! Lo avete saputo prima da loro che da me» si lamentò.
«Questa non è
di certo una gara a chi sparge prima la voce, Sebastian! E con le tue continue
macchinazioni stai solo infangando il nome del Warblers!».
Il diretto
interessato scattò in piedi, stizzito: ne aveva abbastanza di tutta
quell'ingratitudine! Lui stava solo cercando di assicurarsi quella vittoria e
se per farlo avrebbe dovuto mettere i bastoni fra le ruote a due o tre dei
coristi avversari, di certo non si sarebbe tirato indietro: il fine giustifica
i mezzi, no? E ad ogni modo, loro avrebbero dovuto sostenerlo in quanto
capitano, senza fiatare.
«Invece di
starvene qui a lamentarvi come poppanti, dovreste mostrare un briciolo di
riconoscenza per quello che sto facendo!».
«Cioè, per
cosa? Illuminami, Sebastian, per cosa dovremmo ringraziarti?», gridò Nick che
finora aveva cercato di mantenere la sua solita calma e compostezza «Per aver
quasi accecato uno dei nostri amici? Per averci coinvolti in questa specie di
guerra fredda con le Nuove direzioni? O per l'ultima idiozia che hai
fatto e che ha di nuovo messo a rischio la nostra credibilità e il nostro
onore?».
Per un attimo
il Warbler rimase in silenzio, contemplando mentalmente tutte le azioni che
erano state menzionate. Avrebbe dovuto sentirsi in colpa? Beh... sarebbe stato
un peccato se un bocconcino tanto carino come Blaine avesse perso un occhio, ma
cavolo, quante volte avrebbe dovuto ripetere che la granita era per Kurt e che
non voleva accecare l’ex-Warbler?. E per il resto... faceva semplicemente parte
del pacchetto “mettersi contro Sebastian Smythe”, quindi non c'era
perfettamente nulla di cui dovesse pentirsi. Ne andava invece fiero:
stava facendo un ottimo lavoro ed ormai era quasi certo che la partita fosse
conclusa. Ovviamente a suo favore.
«Sapete una
cosa? Siete una noia. Più della matematica» sbuffò, alzandosi e riponendo libri
nella borsa a tracolla «Mi ringrazierete quando avremo il trofeo del primo premio
e la possibilità di andare a New York» fece superiore e si incamminò con il suo
macchiato ancora intatto: gli era passata la voglia di studiare e soprattutto sapeva
che sarebbe stato pressoché impossibile
staccarsi di dosso quei tre e la loro filippica moraleggiante.
Oh, no. Che
non si dica che Sebastian Smythe stava fuggendo! Più che altro cercava di
preservare la sua salute mentale e quella era una cosa più che giusta.
«Non è altro
che uno scherzo per te, giusto? Noi
non siamo altro che uno scherzo per te»
La voce di
Thad, tanto ferma, solenne bloccò il
Warbler che era ormai arrivato alla porta.
«Ma sai cosa?
Non vorrei essere nei tuoi panni quando ti renderai conto che lo scherzo
finisce» concluse.
Per un attimo
Sebastian rimase fermo, la mente che tentava di riflettere sul significato di
quelle parole, sul perché sembravano
averlo colpito, quasi inconsciamente, fin nel profondo – dove solitamente non
permetteva che arrivassero. Poi si costrinse a smettere di pensare.
«Bravo, Harwood! Devo dire che le tue parole sono quasi commoventi.
E che pathos: ho i brividi» lo schernì – senza ammettere a se stesso che forse
aveva detto quelle cose solo perché la sua testa lasciasse perdere le parole
del suo compagno di stanza.
Poi uscì, il
solito sorriso beffardo sul volto e l’animo calmo – almeno in superficie.
***
«Direi...
direi che sei stato fenomenale», sentenziò Kurt, non appena la musica si
concluse e Blaine lo raggiunse.
Alcune
goccioline di sudore gli bagnavano la fronte ed aveva ancora l'espressione concentrata
che lo aveva accompagnato per tutta la performance. Kurt si chiese cosa lo
stesse turbando – o meglio, quello lo sapeva, ma avrebbe voluto che gliene
parlasse, che si sfogasse con lui al di là della canzone. Ma Blaine se ne stava
lì, di fronte a lui, senza dar parvenza di voler accennare alla rabbia che si
portava dentro.
«Vinceremo»,
cercò allora di rassicurarlo, alzandosi «al di là di tutte le macchinazioni che
ci sono contro di noi, vinceremo. Perché lo meritiamo».
Blaine lo
abbraccio stretto, con un bisogno che Kurt non aveva capito fino in fondo.
«Qualunque
cosa faccia, riesce ad irritarmi. È pazzesco!», sussurrò rabbioso sulla spalla
del suo ragazzo, evitando anche solo di ripetersi in mente quel nome, perché
non avrebbe portato che altra rabbia «Guarda ora che si è inventato! Minacciare
Rachel e Finn in questo modo!».
Kurt lo
strinse più forte: sapeva quanto tutta quella faccenda lo stesse turbando –
dopotutto, nonostante l’intervento fosse andato bene, di certo non si era
ancora del tutto liberato dal trauma per quello che era successo.
«Quello che
mi chiedo è…» riprese senza lasciarlo «prepara i suoi piani malefici di
notte?».
Blaine si
scostò da lui sorpreso: ci scherzava su?
«Intendo…
sai, me lo immagino: chino nel suo antro buio, con fogli e quadernini pieni di
calcoli e schemi».
Per qualche
istante, il moro lo guardò, scorgendo il suo sorriso. Stava provando a farlo
ridere: in un attimo, semplicemente standogli accanto, lo aveva calmato e fatto
sentire meglio. Non avrebbe mai smesso di sorprendersi di quanto Kurt fosse
speciale, di quanto lo facesse stare bene.
Scoppiò a
ridere, quasi più del dovuto – in fondo la battuta non era poi così esilarante
– ma ne sentiva il bisogno, doveva liberarsi almeno di una parte di tutta
quell’irritazione e ridere con Kurt era fin troppo facile. Lo strinse a sé,
senza perdersi la leggera sorpresa del suo ragazzo.
«Grazie… Io…
ti amo così tanto».
Kurt
semplicemente lo strinse a sé con maggiore forza e rimasero così per un po’,
prima di accorgersi di non essere soli sul palco. Si voltarono, staccandosi,
per scorgere un imbarazzatissimo Finn che, appena all’entrata dell’auditorium,
a testa basta, si torturava le scarpe pestandosele, senza sapere che fare.
Blaine
sorrise, prendendo la mano dell’altro per un istante e poi facendo qualche
passo verso il nuovo arrivato.
«Come ti
senti, Finn?», chiese inclinando un po’ la testa.
Il più alto
scrollò le spalle senza rispondere. Come si sentiva? Non ne aveva la minima
idea! Insomma, non sapeva neanche come prendere una cosa del genere: tutto, tutto si sarebbe immaginato che potesse
accadergli, ma non una cosa del genere. Era… irritato, tremendamente irritato.
Ok, era furioso. E deluso. Per Rachel, per quello che aveva detto. E… confuso.
Sbuffò,
sedendosi sconsolato a bordo del palco e lasciando che gambe e braccia come
senza forze. Kurt lanciò uno sguardo incerto al suo ragazzo che fu eloquente e
chiaro nel dirgli che avrebbe dovuto parlare a suo fratello. Lui annuì e gli si
sedette accanto.
«Ehi… con me
puoi parlarne, lo sai…», tentò, ma Finn non si mosse, né diede segno di averlo
sentito.
Come avrebbe
potuto parlare con suo fratello se lui per primo non sapeva cosa dire o anche
solo che cosa pensare? Forse stava esagerando a prendersela in quel modo?
Forse, dopotutto, non era così grave e per passare le Regionali occorreva fare
questo sacrificio? Perdere la faccia e reputazione? In fondo, peggio di così
non poteva stare, no? Continuava ad essere abbastanza sfigato e – riflettendoci
– non è che avesse una qualche reputazione da salvare, in fondo…
Allora forse
Rachel…
«Posso
sentire gli ingranaggi del tuo cervellino sforzarsi a tal punto da bloccare
tutto per un sovraccarico. Ne parli?».
Stavolta il
più alto si voltò verso suo fratello, accorgendosi subito che aveva assunto
l’espressione tipica da in-un-modo-o-nell’altro-parlerai-quindi-perché-soffrire-inutilmente?e che quindi non aveva scampo.
«Ho
esagerato? Intendo… nel reagire così al ricatto e alle parole di Rachel…»,
chiese incerto.
«Affatto.
Credo sia il minimo che potessi fare: insomma, è una situazione assurda! E per
Rachel… beh… sai com’è fatta…».
Kurt davvero
non sapeva in che modo giustificare le parole dell’amica, né se volesse davvero
farlo. Era stata egoista… ed era più che normale che Finn si sentisse così.
«Dovrei
essermi abituato ai suoi modi da prima donna, al fatto che la sua reputazione e
il suo successo vengono prima di tutto e tutti,
che io non…».
La voce gli
si bloccò in gola – o meglio la fermò non appena si accorse che avrebbe tremato
da un momento all’altro e no, non avrebbe fatto la figura del piagnucolone:
aveva imparato da tempo che non c’era nulla di sbagliato nel piangere, ma di
certo non lo avrebbe fatto adesso…
Una mano si
posò sulla sua spalla, ma non proveniva dal lato di Kurt. Alzando la testa vide
Blaine che lo osservava serio, ma con un accenno di sorriso sulle labbra.
«Rachel non
lo pensa, non davvero… è stato istintivo, ma sono certo che non intendesse
offenderti o ferirti. Insomma, lei ti ama, sei la cosa più importante e non
credo tu non ne sia consapevole…»
Finn guardò
il ragazzo quasi sorpreso da quelle belle parole: non che lo credesse capace di
dirle – anzi, era risaputo che Blaine fosse una ragazzo socievole e simpatico
con tutti e lui stesso aveva potuto testare quanto grande fosse la sua bontà –
ma sentirsi dire quelle cose su Rachel era stato… illuminante. Era andato via,
senza discutere con lei, senza lasciarsi spiegare perché avesse detto proprio
quelle cose. Dovevano parlarsi.
«Grazie,
Blaine», fece risoluto, alzandosi e sorridendo «E grazie anche a te, Kurt», poi
uscì velocemente, alla ricerca della sua ragazza.
I due ragazzi
tornarono vicini, sorridendosi lievemente.
«Sai»,
interruppe quel silenzio Blaine «Credo che dovremmo parlare con Sebastian» e
Kurt notò che non era scattato nervosamente come si sarebbe aspettato a quel
nome «E credo anche di sapere chi dovremmo portare con noi…», concluse il più
basso.
L’altro lo
guardò con fare interrogativo, per poi seguirlo fuori.
***
«Tu come lo
hai saputo?».
«Ormai la
notizia è ovunque, Nick».
«Ma… ma è
vivo, no?».
«Sì, è vivo –
il padre è arrivato in tempo – ma questo non toglie che quello che ha fatto…
Insomma, è una cosa tremenda…».
Il vocio dei
Warblers nella sala comune si interruppe bruscamente quando Sebastian entrò
nella stanza con la sua solita altezzosità falsamente mascherata. Per un attimo
il nuovo arrivato guardò tutti, sorpreso dall’improvviso silenzio e gli altri
risposero al suo sguardo con incertezza a dirla tutta forse anche immotivata.
«E allora?
Che succede?», chiese, stranamente innervosito da quegli sguardi puntati su di
lui pur non avendoli richiesti.
Jeff guardò
prima Nick, poi quelli che gli erano più vicini, indeciso sul da farsi. Nessuno
di loro era certo del perché stesse avendo tanta esitazione nel comunicare
anche a lui la notizia… eppure la sala restava in silenzio.
Insomma, non
era una bella cosa da dire… e poi quel ragazzo era gay e lo era anche
Sebastian… e magari – che ne potevano sapere loro? – finiva che quei due si
conoscevano e loro ci avrebbero fatto una pessima figura ad informarlo in modo
tanto leggero di una simile notizia… E poi, e poi, e poi…
«Un ragazzo…
un ragazzo ha tentato di suicidarsi. È sopravvissuto, ma è in ospedale», si
decise alla fine a parlare uno dei ragazzi e per un attimo la mancanza di un
sostanziale cambiamento nell’espressione di Sebastian, fece sperar loro che la
cosa gli fosse più o meno indifferente.
«Era… è gay. Hanno cominciato ad insultarlo ed
infastidirlo… non ha retto» azzardò ancora uno di loro, stavolta però guadagnandosi
un’istintiva occhiataccia da parte di Thad: certo, Smythe poteva anche essere
uno stronzo – e lo era, uno davvero bravo – ma l’indelicatezza di quelle parole
era a prescindere eccessiva.
Il nuovo Warbler sussultò appena, ma non si
scompose: non era certamente la prima volta che gli capitava di sentire
qualcosa del genere e sicuramente non avrebbe fatto una scenata per–
«Si chiama
David Karofky».
Sebastian non
si rese conto di quale delle voci presenti in sala avesse detto quel nome – non
importava. Sgranò gli occhi e sussultò, stavolta visibilmente. David Karofsky. Conosceva quel nome. Lo
conosceva…
«Quindi… cosa deve fare un ragazzo per piacerti?»
«Tu, piacere ad un ragazzo? Ma per favore…»
«Perché? Che cos’ho che non va?»
«Per prima cosa, sei circa 50 chili in
sovrappeso. Smettila di farti la ceretta alle sopracciglia, sembri Liberace. In definitiva... semplicemente resta nello
stanzino, amico»
Improvvisamente
sentì l’aria nella stanza mancargli, come se l’avessero risucchiata e stesse
respirando a vuoto. Si maledisse: quanta debolezza tutta in un solo istante!
Avrebbe decisamente attirato l’attenzione di tutti i presenti… Già li
immaginava: “Che ti succede?” “Stai
male?” “È per quel ragazzo?” e poi sarebbero arrivate le scuse di chi aveva
parlato e…
No, era
troppo. Si sentiva male e non ne capiva il perché – in quelle condizioni di
certo non avrebbe avuto la forza di affrontare tutte quelle domande e gli
sguardi di pietà.
Scattò verso
l’uscita come se ne andasse della sua vita e non sentendo nulla, sperò quasi
che quella sua fuga – Miseria! Fuggiva?
– non avesse destato alcuna reazione.
Dio, l’improvvisa debolezza ora ti rende
anche stupido?, si chiese rabbioso, non appena riconobbe la voce di Thad
che lo rincorreva. Che diavolo voleva ora Harwood da
lui? Da quando si preoccupava per lui?
«Sebastian,
aspetta! Stai male? Sei sbiancato, fermati un secondo e riprendi fiato!», gli
stava continuando a gridare il compagno di camera, in un modo che gli dava sui
nervi quasi quanto la sua reazione alla notizia del tentato suicidio.
Si voltò di
scatto per rispondergli a tono, quando si accorse che aveva il fiato corto – e
sarebbe stato sciocco dire che fosse a causa dell’improvviso passo veloce con
cui si stava allontanando. Sospirò e provò a respirare con calma, senza però
perdere il suo nervosismo.
«Stammi a
sentire, Harwood: non ho idea di quando ti abbiano
promosso a mia balia, ma ti assicuro che se ti troverò ancora dietro di me la
prossima volta che mi girerò, non mi farò problemi a stenderti con un pugno»,
fece minaccioso.
Thad restò
per un istante spiazzato da tanta rabbia, ma non si fece da parte.
«Sei
impallidito di colpo… Sicuro di stare bene? Conoscevi quel ragazzo…?»,
insistette.
Sebastian
stava per perdere il controllo: si sentiva fremere – no, non avrebbe detto che
stava tremando – e se quello stupido
fosse andato avanti così, a breve non avrebbe risposto delle sue azioni.
«Harwood. Lasciami. In. Pace», scandì, prima di girare i
tacchi e andarsene.
Thad restò a
guardarlo, senza capire che diavolo fosse successo: non aveva mai visto
Sebastian in quello stato e la cosa – per quanto non volesse ammetterlo – lo
inquietava e rattristava nel
profondo. Ma gli aveva detto di starne fuori e lui lo avrebbe fatto: in fondo,
che diavolo aveva da spartire lui con l’ultimo arrivato? Il fatto che fossero
compagni di stanza non significava nulla, considerato anche che passavano la
maggior parte del tempo ad insultarsi e il restante semplicemente ad ignorarsi.
«Lascialo
stare», gli si accostò Trent «Magari vuole solo stare
da solo per un po’».
Annuì,
tornando con lui nella sala comune. Quando vi entrò, capì come doveva essersi
sentito Sebastian: tutti gli sguardi erano puntati su di lui con così tanta
insistenza che si sentì tremendamente a disagio. Cosa volevano adesso? Di certo
non era una novità il fatto che litigasse con Smythe…
La cosa lo
infastidiva – più del dovuto.
«Pensavamo…»,
si fece avanti Nick «Sia Kurt che Blaine conoscono questo Karofsky. Kurt
particolarmente bene… Forse sarebbe il caso di fare una telefonata, giusto per
chiedere come stanno…».
Sottinteso:
non è che puoi chiamarli tu, Thad caro?
Il ragazzo
sospirò: l’inquietudine che gli si era insidiata in petto alla vista di Sebastian,
rischiava seriamente di aumentare, ma pensandoci si sarebbe sentito ancora più
in colpa a non chiamarli, considerato che era a conoscenza delle loro
implicazioni.
Si sedette su
uno dei divanetti e prese il cellulare, scorrendo con velocità la rubrica alla
ricerca del numero del suo amico. Quando l’ebbe trovato, avviò la chiamata e
attese che qualcuno rispondesse.
La vibrazione
del cellulare sulla scrivania, fece sussultare Blaine lasciandolo per qualche
istante indeciso sull’alzarsi o meno per rispondere. Kurt era tra le sue
braccia – entrambi semidistesi sul letto della camera di quest’ultimo – ed
aveva appena smesso di tremare: non voleva lasciarlo, ma la vibrazione
insisteva e dopo qualche altro istante, il riccio sospirò con un sorriso verso
il suo ragazzo e si alzò per prenderlo e tornare velocemente sul letto.
«Pronto?»,
sussurrò, quasi non volesse disturbare Kurt che, rimessa la testa sulla sua
spalla, aveva chiuso gli occhi.
«Ehi, Blaine», fece la voce familiare
del suo vecchio compagno della Dalton – a Blaine non sfuggì l’insicurezza di
quelle due parole.
«Thad, ciao!»,
lo salutò con una nota più colorita nella voce «È bello sentirti: come… come
va?».
L’ulteriore
esitazione nella risposta dell’amico, stavolta fece nascere qualche
preoccupazione in Blaine: non sapeva come avrebbe reagito a nuovi problemi –
Kurt così sconvolto era sufficiente…
«Mh, ce la caviamo».
Blaine egoisticamente tirò un istintivo sospiro di sollievo. «E a te come va?», volle sapere poi
l’amico.
Il ragazzo ci
rifletté un istante. Avrebbe dovuto raccontare loro tutto? Parlarne in presenza
di Kurt forse non era la mossa migliore e in definitiva non aveva motivo di
angustiare anche loro con una simile notizia, dato che, in ogni caso, non
conoscevano Karofsky.
«Emh… non male», mentì sentendo, tuttavia, che forse non
avrebbe dovuto…
Dall’altro
lato della chiamata, gli parve di sentire che Thad avesse sospirato con
pesantezza. Di nuovo l’allarme scattò nella sua testa: quella chiamata era
strana, ancora più se considerava chi lo aveva chiamato: Thad era raramente
angustiato e nonostante avesse aperto lui la comunicazione, sembrava non avesse
nulla da dire, considerati gli attimi che passavano, dopo le domande di
routine, nel silenzio scandito dai sospiri.
«Ehi, amico:
sicuro che vada tutto bene?», si decise a chiedere.
L’altro esitò
ancora a rispondere, ma prima che Blaine potesse continuare ad incitarlo,
rispose con tono stranamente stanco.
«Devo darti una notizia… e non è nulla di
buono».
Il riccio
cercò davvero di non farsi prendere dal panico dai pochi attimi di cui ebbe
bisogno l’amico per riprendere a parlare: strinse istintivamente a sé Kurt che
si destò, guardandolo negli occhi con curiosità.
«L’abbiamo saputo da poco qui alla Dalton…
e… Oh, Blaine, si tratta di Karofsky, il bullo che infastidiva Kurt. Dicono
abbia tentato il suicidio…».
Il riccio poteva
sentire chiaramente il disagio con cui Thad aveva dato la notizia e quasi ne
sorrise: era stato sempre un ragazzo a modo e dalla grande sensibilità.
«Oh, io… noi lo abbiamo saputo, sì», si affrettò
a dire, nonostante rendesse evidente la sua iniziale omissione – come si
aspettava, sentì Thad sospirare, stavolta sollevato.
«Come… come state?», esitò il ragazzo in
divisa, comunque preoccupato per l’impatto che una simile notizia aveva potuto
avere sui due – soprattutto su Kurt.
Blaine
sospirò, guardando il suo ragazzo e sfiorandogli con delicatezza una guancia.
«Noi… scossi.
Abbastanza scossi, Thad», confessò «Non è una cosa semplice… nonostante tutto».
Il Warbler
non sapeva più che dire e forse sarebbe stato inopportuno continuare, per
questo – sapendo che l’amico avrebbe capito – salutò con garbo e chiuse la
chiamata, riferendo ai compagni quel po’ che aveva saputo.
Dall’altro
lato, i due ragazzi restarono sul letto, Kurt accoccolato sul petto di Blaine e
questi che lo stringeva a sé con fare protettivo.
Ogni volta
che il primo sussurrava qualcosa di vagamente familiare a “è colpa mia”,
l’altro gli baciava i capelli. Aveva provato a spiegargli che non era vero, che
non poteva sapere cosa volesse in realtà Karofsky e che considerati i
precedenti nessuno avrebbe agito diversamente, ma Kurt non ne aveva voluto
sapere e continuava a colpevolizzarsi come un disco rotto. Allora Blaine aveva
capito che l’unica cosa da fare era stargli vicino e aspettare che si calmasse.
***
Tremo per il freddo. È solo il freddo. Il
freddo e nient’altro.
Sebastian non
sapeva da quanto stesse andando avanti con quella cantilena nella sua testa.
Era fuori, seduto su una panchina nel parco che precedeva la struttura della
Dalton, i gomiti poggiati sulle ginocchia ed il volto fra le mani.
Tremava.
Leggermente, ma tremava. E non per il
freddo.
Nella testa
regnava il caos puro. Che cosa gli stava succedendo? Perché, perché si sentiva così… male? Non ne aveva alcun motivo! Mai
come questa volta, lui non aveva fatto nulla! Non c’entrava con quel suicidio,
non gli aveva detto di farlo, né lo aveva aiutato. E certamente non era una
cosa che avrebbe voluto che accadesse. Quindi, se il più delle volte non si
faceva scrupoli quando era coinvolto, perché adesso stava male?
Sai di esserci dentro. Non puoi negarlo.
Ma non era
così! Aveva detto quello che pensava, fine della storia! Era la verità, in
fondo: quel tipo non era bello, neanche lontanamente e lui non aveva fatto
altro che metterlo di fronte alla verità –prima o poi se ne sarebbe accorto da solo, tanto valeva facilitargli le
cose.
Non ha tentato di suicidarsi per le mie
parole. Non sono stato io, continuò a ripetersi, ma le parole ripetute in
quel modo sembravano perdere consistenza di volta in volta, consumandosi.
In breve non
ne rimase nulla. Era colpa sua almeno quanto di tutti gli altri che lo avevano
insultato. Non si aspettava di certo che sarebbe finita così, ma ciò non
toglieva che fosse coinvolto.
«Non vorrei essere nei tuoi panni quando ti
renderai conto che lo scherzo finisce»
Sussultò. Le
parole di Thad gli vennero alla mente con violenza. Era questo che stava
succedendo? Lo scherzo era appena finito? Ma lui non voleva, maledizione! Non
voleva che finisse, non voleva sentirsi così male, così vulnerabile…
Sebastian si
strinse con forza la testa fra le mani. Non sapeva che fare e più cercava di
non pensarci, più finiva per ritrovarsi con quella scena davanti agli occhi: il
suicidio, che la sua immaginazione aveva ricostruito così bene, si sviluppava
davanti ai suoi occhi con crudeltà.
«Sei qui,
allora».
Quella voce
lo fece girare di scatto. Thad. Ancora Thad. Ma che diavolo voleva da lui? Da
quando si preoccupava per lui o semplicemente gli girava intorno? Insomma non
si erano mai sopportati ed ecco che ora non si scollava da lui?!
«Che diavolo
vuoi?», gli chiese senza alzare la testa.
«Non c’eri a
cena e allora mi sono chiesto dove fossi», spiegò.
«E da bravo
boy scout ti sei messo alla mia ricerca, i miei complimenti!», fece con
irritata ironia il nuovo Warblers.
«Qual è il tuo
problema?!», sbottò allora quello, improvvisamente innervosito
dall’atteggiamento talmente stronzo di Sebastian «Mi stavo preoccupando per te,
ma a quanto pare non serve, spreco il mio tempo!»
«Assolutamente!
E poi, ho da fare, quindi non seccarmi!» e con ciò, il più alto si alzò e si
avviò a grandi falcate verso l’entrata della scuola, lasciando Thad interdetto.
Sospirò:
perché si stava facendo tanti problemi per un tipo del genere? Non si erano mai
sopportati, perché tanti scrupoli? Sentiva di doverlo fare: cercarlo era stato
istintivo ed ora, stranamente, un simile comportamento da parte sua non lo
irritava.
Lo feriva.
___________________________________________
Ok, sono
approdata anche io alla Thadastian (o Thastian?). Non so come, quando o perché… so solo che un
giorno prima stavo bene (per quanto io possa stare bene) e il giorno dopo ero
in fissa con loro! Ovviamente il primo amore non si scorda mai, quindi ci sarà
anche del Klaine ♥ e chissà, altri xD
Tutto, come
spero si capisca, parte dal ricatto di Sebastian poco prima delle Regionali e
seguirà la vicenda del telefilm fino alle esibizioni, poi… vedrete! Ci andrò un
po’ pesante con gli avvenimenti (parte risata malefica) e spero davvero che
vogliate provare con me a seguire la vicenda!
Ringrazio la
mia controparte Pachelbel ♥ che pur non essendo
così in fissa con i due, mi ha sostenuto leggendo in anticipo tutto il cap ^^
Thad si
svegliò, quella mattina, con un’emicrania terribile. Era riuscito a prendere
sonno solo quando ormai stava albeggiando e la sveglia era suonata troppo
presto.
Si tirò su,
sperando che almeno una cosa andasse nel verso giusto; quando, però, vide che
il letto di Sebastian era vuoto e che del ragazzo non sembrava esserci traccia
da nessuna parte nella stanza, si convinse che la giornata era cominciata sul
serio male.
Sospirò. Non
era tornato quella notte. Lo aveva atteso: aveva sperato di sentirlo rientrare,
gli sarebbe bastato per prender sonno tranquillamente e invece non si era fatto
vivo e la preoccupazione non gli aveva dato tregua per tutto il tempo, fino a
che semplicemente la stanchezza non aveva avuto la meglio trascinandolo in
poche e tormentate ore di sonno.
Lanciò un
pugno alla scrivania, avvertendo subito il dolore che quel gesto ovviamente
comportava. Maledizione! Per quale motivo si era ridotto in quello stato?
Perché improvvisamente si stava preoccupando del ragazzo che più odiava al
mondo? Era pazzesco! Ci teneva così tanto a farsi del male da solo? Nonavrebbe dovuto. Semplicemente non c’era
motivo per cui–
Ah, al
diavolo! Qui non si trattava di avere o meno motivo di preoccuparsi per un
tizio che a stento sopportava, si trattava di calmare ciò che provava e che di
certo non avrebbe potuto semplicemente ignorare.
Avrà passato la notte fuori, si disse,
cercando con scarso impegno di convincersi, sarà
andato a divertirsi in qualche modo.
Si costrinse
a crederci e andò in bagno: una doccia era il modo migliore per scrollarsi di
dosso tutto quel groviglio di emozioni e poi lo aspettava un’intensa giornata
di prove: le Regionali ormai erano vicinissime e loro non potevano permettersi
di perdere. Non stavolta!
Si fiondò
sotto il getto di acqua calda e tentò di rilassarsi e di farsi scivolare da
dosso anche la stanchezza, ma il tepore in cui sprofondò ebbe l’effetto
contrario e in breve gli sembrò quasi di addormentarsi. Per questo fece in modo
che il getto si raffreddasse almeno di un po’ e si concentrò sulle canzoni
della scaletta per non crollare definitivamente.
Pessima idea
anche quella. Sebastian sarebbe stato il solista della canzone che stava
mentalmente ripassando e non poté fare a meno di chiedersi se lo avrebbe
trovato quella mattina alle prove.
A quel che ne so, potrebbe essere rientrato
dopo che mi sono addormentato ed uscito prima che mi svegliassi, si disse.
Quella cosa stava toccando livelli di pateticità assurdi, soprattutto perché
non gliene era mai fregato nulla di Smythe.
L’immagine
del suo compagno di stanza pallido e con un misto fra rabbia e sofferenza in
viso lo colpì come se lo stesse vedendo in quell’istante. Mai avrebbe creduto di poter vedere simili emozioni – e con tanta
intensità! – trasfigurare quelle fattezze; mai avrebbe pensato che una simile
visione avrebbe potuto scuoterlo così nel profondo: sentiva una strana ansia
chiudergli lo stomaco e farlo respirare male.
Da quando, Thad?, si chiese.
Non ci capiva
nulla, non riusciva a capacitarsi della cosa eppure stava male, non poteva
negarlo.
Uscì dalla
doccia peggio di come ci era entrato e si decise ad indossare la sua divisa
tentando di non pensare affatto – distrarsi con qualsiasi altro pensiero
sembrava non servire a nulla.
Quando fu
pronto, gettò un altro sguardo alla stanza, troppo ordinata per essere davvero
tutto a posto e poi si chiuse la porta alle spalle. Lo avrebbe trovato in sala,
col solito atteggiamento da prendere a pugni e magari anche qualche battutina
pronta a colpirlo – in fondo era in astinenza dalla sera prima, avrebbe dovuto
recuperare.
Quando, però,
entrò in sala comune, il cuore accelerò il battito alla ricerca del ragazzo e
non smise ma anzi si intensifico nel momento in cui si rese conto che non era
lì.
Sei assurdo, Harwood. Patetico. Smettila.
Sembri una ragazzina alla sua prima cotta, ti pare che-
Anche la sua
mente si bloccò appena realizzò che cosa aveva pensato. Una ragazzina alla sua
prima cotta? Lui? Per Sebastian?
Oddio.
No, affatto.
Era semplicemente preoccupato, come lo sarebbe stato per qualsiasi altro
ragazzo a scuola – e forse quella cosa li avrebbe dovuti offendere, considerato
che conosceva Sebastian da poco tempo a confronto e che non lo sopportava
affatto.
Semplicemente
non lo aveva mai visto così: era sconvolto e la cosa lo aveva turbato perché
non se lo sarebbe mai aspettato. Fine della storia.
«Ed il simpaticone dove lo hai lasciato?», gli
chiese Jeff alludendo ovviamente a Smythe.
«Speravo di
trovarlo qui, ad essere sincero», confessò quello sedendosi al suo posto, al
tavolo del consiglio.
Flint accanto
a lui, lo guardò, cogliendo il turbamento nei suoi occhi e con una lieve
gomitata parve chiedergli se ci fosse altro, ma il diretto interessato sorrise
scuotendo la testa e concentrandosi sul lavoro da fare: gli capitava spesso di
preoccuparsi, dopotutto… e con Sebastian nelle prime settimane aveva imparato
che quasi sempre – per non dire ogni volta – era inutile, che a lui non
interessava e che non ce n’era in ogni caso motivo.
Quindi pace.
Meglio concentrarsi sulle cose che meritavano davvero la sua attenzione.
«Dunque»,
comincio il terzo membro del consiglio, Cameron «Direi che anche se ormai a
così pochi giorni dall’esibizione, ogni cosa sia stata ultimata, non dobbiamo
bearci di questo e rilassarci, ma continuare a provare fino a che non
rasenteremo la perfezione. Ma… », si bloccò.
Ovviamente
non sarebbe potuto andare avanti: provare implicava inscenare l’esibizione che
avrebbero fatto di lì a pochi giorni e come sarebbe stato possibile senza il
loro solista nonché capitano? Era in momenti come quelli che l’assenza di
Blaine si faceva sentire: lui era sempre stato il primo ad arrivare e l’ultimo
a lasciare la stanza quando si trattava dei Warblers e per quanto Sebastian
aveva mostrato di tenere particolarmente alla squadra – forse anche troppo –
non poteva di certo concedersi assenze simili in un memento tanto cruciale.
Un silenzio
quasi imbarazzante scese nella sala quanto tutti focalizzarono quale fosse il
problema. Thad sospirò, guardando la porta d’ingresso, come se si aspettasse
che sarebbe spuntato da un momento all’altro. Avrebbe detto che aveva avuto da
fare tutta la notte e che lui poteva
farsi aspettare. Tutto normale. Eppure nessuno entrò e la brutta sensazione che
lo accompagnava da quella mattina tornò a farsi sentire.
«Beh», provò Flint «potremmo provare passi e
coro. Almeno non vanifichiamo la giornata: non possiamo permettercelo».
«Aspettate!»
Thad sussultò
e non avrebbe voluto che il suo cuore facesse una capriola appena la voce di
Sebastian interruppe la proposta. Tutti si voltarono verso il nuovo arrivato e
la perplessità si diffuse nella stanza. Che diavolo aveva fatto Smythe? I
capelli fuori posto e due leggere occhiaie a sporcargli il viso, senza giacca e
con la camicia fuori posto, sembrava avesse passato tutta la notte sveglio a
fare chissà cosa – e no, nulla di piacevole.
«Dove diavolo
eri finito? E che cosa hai combinato?» chiese furioso Flint, scattando in
piedi.
Sebastian
esitò abbassando lo sguardo – cosa che non sfuggì al compagno di camera che al
momento tratteneva a stento la paranoia – e per un attimo si persuase che fosse
una follia e che avrebbe semplicemente dovuto lasciar perdere. Poi i muscoli
delle braccia e delle gambe, lamentandosi, gli ricordarono quanto ci tenesse e
cheno, non avrebbe rinunciato.
«Io…
provavo», disse con rinnovata forza negli occhi «devo parlarvi… E per quanto la
cosa possa sembrarvi folle, vi prego di lasciarmi prima finire», chiese; poi
rimase in silenzio, in attesa.
Le buone
maniere non gli erano mai mancate e non furono di certo queste a sorprendere il
resto del gruppo quanto la richiesta, il tono di bisogno che, pur non volendo,
era trasparito da essa. Per questo il loro silenzio sorpreso fece capire
all’altro che poteva procedere.
«Dobbiamo
cambiare scaletta» disse tutto d’un fiato.
In un istante
più voci gridarono senza ritegno la follia di quella proposta. Cori di
“Sebastian ha voglia di scherzare” o “Ricordatemi perché è il nostro capitano”
e ancora grida indistinte e risate isteriche che esprimevano il malcontento
generale.
I Warblers,
semplicemente, erano esplosi: quello era troppo, la proverbiale goccia che fa
traboccare il vaso – non avrebbero sopportato oltre le iniziative del nuovo
arrivato, poco contava che fosse il loro capitano. Dopotutto quel titolo non
valeva se non aveva una squadra da capitanare.
Il consiglio
si era astenuto dall’unirsi ai cori impazziti e con lo sguardo fisso su
Sebastian attendeva che la rabbia scemasse. Dal canto suo, il ragazzo non era
sorpreso dalla reazione degli altri, quanto infastidito: aveva chiesto che lo
lasciassero parlare, prima di scatenare un simile putiferio, ma ovviamente
quell’avvertimento era andato a farsi benedire. Per questo attese anche lui che
la prima ondata di rabbia animale passasse per poi riprendere a parlare.
«Avevo–»,
tentò dopo alcuni minuti alzando la voce «avevo chiesto di lasciarmi finire di parlare.
È meno folle di quel che sembra ed è… per
una giusta causa».
Quelle parole
fecero scattare qualcosa in Thad che fino a quel momento lo aveva osservato in
silenzio, notando quanto fosse diverso dal solito. E quello sguardo, lo sguardo
che Smythe aveva assunto mentre parlava, sembrò così profondo da scuoterlo
dall’interno.
«Che causa?»
chiese ingenuamente Andrew.
Sebastian era
pronto a rispondere con una delle sue migliori – o peggiori, a seconda dei
punti di vista – battute, ma qualcosa lo bloccò. La stessa cosa che gli aveva
fatto provare le coreografie per tutta la notte o che gli stava rendendo
ridicolo davanti all’intera squadra. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi se
solo ne avesse avuto veramente la forza in quel momento.
Il silenzio
che era piombato nella stanza, ad ogni modo, fu abbastanza eloquente: non tutti
avevano già dimenticato cos’era successo il giorno prima e stavano collegando
le cose. Chi non era ancora riuscito a farlo, semplicemente stava zitto
intimorito dalla serietà improvvisa che aleggiava nell’aria.
«Che… che
canzoni avevi in mente di inserire nella nuova scaletta?».
Smythe si
destò con un lieve sussulto e guardò Cameron, che gli aveva posto la domanda
quasi con serenità. Lo guardò per un attimo prima di rispondere e quello che
vide non gli piacque affatto. Compassione. Compassione e pietà. Dio, quanto si
stava rendendo ridicolo in quel momento? Aveva davvero perso la spina dorsale? Strinse
forte la mascella per non esplodere in irripetibili imprecazioni, il nervosismo
che a stento riusciva a tenere a freno.
«Stand e Gladyoucame», disse,
con malcelato nervosismo: poteva essere scosso e poteva aver fatto cose che non
credeva possibili per uno come lui, ma a tutto c’era un limite e I Warblers
parevano volerlo avvicinare pericolosamente.
«E hai detto
di aver preparato anche le coreografie adatte», continuò Cameron con la stessa
calma.
Flint gli
scoccò uno sguardo allucinato: che diavolo stava facendo? Non era abbastanza
chiaro che era pura follia? Perché stavano continuando quella discussione? Il
sorriso pacifico del ragazzo lo mandò nella confusione più totale, ma lo
convinse a reggergli il gioco e non contraddirlo.
«Ci ho
lavorato tutta la notte», sottolineò Sebastian, sperando che capissero che era
la mossa giusta da fare e accettassero la proposta, quanto meno per tutto lo
sforzo che aveva fatto e il sonno che aveva perso.
«E sei certo
– al di là della tua personale richiesta di esibirci con queste canzoni – che
avremo più possibilità di vittoria così, o che almeno saremo competitivi quanto
lo siamo adesso?».
Stavolta era
stato Thad a parlare, capendo dove volesse arrivare Cameron: stavano tutti
giudicando quella proposta una pazzia, ma erano davvero certi che non ne
avrebbero ricavato dei vantaggi? La coreografia era pronta ed avevano ancora
dei giorni per impararla. Lo stesso poteva dirsi per il canto, considerato che
Sebastian sarebbe stato il solista e che certamente conosceva già entrambe le
canzoni.
L’interpellato
lo guardò senza sapere che dire. Gli chiedeva se obbiettivamente avrebbero
potuto vincere anche con un cambiamento tanto improvviso. Gli stavano dando
davvero ascolto, quindi? E chiedevano a lui di giudicare? Con un suo sì, la
cosa sarebbe stata approvata? Non aveva senso, dato che un sì era quello che
voleva e che non avrebbe mai risposto in modo negativo.
Al di là della tua personale richiesta di
esibirci con queste canzoni.
Thad era
stato chiaro. Voleva un giudizio obiettivo su quale delle due scalette fosse
migliore. E la chiedeva a lui perché, nonostante tutto, sapeva che non avrebbe
scelto che per il bene della squadra.
Si fidava.
«Sì, avremo
le stesse possibilità, se non superiori, di vincere. Non ci sono rischi. Semplicemente
le canzoni scelte avranno tutta un’altra portata».
Il suo tono
serio, il suo sguardo fisso in quello di Thad non lasciarono più dubbi al
Warbler – come se prima ne avesse avuti – e per un istante si sentì connesso a
quel ragazzo in un modo tutto suo. Personale.
Il sospiro di
Flint lo riportò alla realtà della stanza.
«Essendo una
scelta fondamentale, esigo una votazione di tutti i membri», disse, rassegnato.
Quando le
mani che si alzarono furono in numero superiori a quelle che rimasero
abbassate, troppo scosse da un cambiamento così repentino, la decisione fu
presa.
«Bene»,
riprese parola Cameron «ora, Sebastian, mostraci il tuo lavoro notturno».
*
«Ripetetelo».
Era la terza
volta che veniva fatta loro quella richiesta e la cosa stava diventando
leggermente assurda. Kurt sbuffò, seriamente innervosito e portò le braccia al
petto, in un chiaro segno che non l’avrebbe ripetuto di nuovo.
Blaine lo
guardò, divertito nonostante tutto, poi si apprestò a rispondere al suo posto.
«Sebastian ha
alzato bandiera bianca. Ha capito si essere stato uno stronzo e ha chiesto
scusa, prima a me e poi a tutti voi. Ha distrutto le foto di Finn e ha detto
che giocheranno pulito. Inoltre… loro dedicheranno le canzoni a Karofsky e alla
sua famiglia e… ci hanno chiesto se volevamo unirci».
Nel
pronunciare le ultime parole, il riccio aveva preso la mano del suo ragazzo che
aveva avuto un lieve sussulto. Stava meglio, aveva ripreso a mangiare e
dormire, ma non stava ancora del tutto bene e anche solo sentire quel nome lo
faceva tremare.
Rachel,
intanto, insieme agli altri della squadra, continuava a guardare loro due,
Santana e Brittany come se vedesse degli alieni.
Sebastian aveva cambiato idea? Era improvvisamente rinsavito e diventato buono?
Era quasi come dire che il paradiso fosse tutto ad un tratto andato in fiamme.
«Questo è
tutto?», chiese Will, sorpreso quanto gli altri.
«Questo è
tutto», confermò anche Santana «non ci darà più fastidio».
«Aveva la
faccia da cucciolo di cagnolino», disse poi la bionda, con sguardo adorante.
«Sì, sembrava
davvero pentito», aggiunse Blaine.
«Non mi fido:
chi ci dice che non sia una delle sue manovre per assestarci un altro colpo?».
Molti membri
del gruppo annuirono convinti alla supposizione di Mercedes che effettivamente
non faceva una piega. Come anche Kurt aveva detto, stavano semplicemente
aspettando che arrivasse il pugno allo stomaco.
«Non
stavolta. Era sincero, questo lo so», si espose ancora il riccio «non so
perché, ma era diverso, pentito, in un certo qual modo triste… e forse più
maturo. Non ho idea di come sia possibile in così poco tempo, ma mi fido».
Sguardi indecisi
attraversarono la stanza: le parole di Blaine era tanto belle quanto poco
credibili, data la loro esperienza, ma la convinzione che trasudavano aveva
messo in dubbio tutte le loro certezze.
«Quindi
possiamo stare tranquilli riguardo il ricatto e tutti gli altri sotterfugi?»,
volle assicurarsi Finn.
«Sì, credo di
sì».
«E per la
loro proposta di esibirci per Karofsky?».
In un attimo
lo sguardo di tutti fu rivolto a Kurt che riportò le braccia al petto quasi
volesse proteggersi dall’attenzione improvvisamente concentratasi su di lui.
Tuttavia sapeva che non se ne sarebbe liberato se non avesse espresso per primo
la sua opinione. In fondo era il più coinvolto e nessuno avrebbe messo in mezzo
alcuna “dedica” se lui non avesse voluto.
Sospirò
abbassando la testa, poi annuì.
«Sì, la
proposta è davvero buona. Io voglio farlo».
«Ma ci sarà
da rivedere la nostra scaletta», li avvisò Will, tuttavia fiero del fatto che i
suoi ragazzi avessero anteposto una cosa del genere alla buona riuscita della
loro esibizione.
«Non si
preoccupi professor Shue», lo rassicurò Rachel con un
sorriso inquietante «io ho già alcune idee in mente e ovviamente sono
fantastiche!».
Lo sguardo
generale di leggera indifferenza fece sorridere l’uomo. Certe cose non
sarebbero mai cambiate.
*
Blaine lasciò
l’auditorium per ultimo. Aveva provato ancora per un po’ la sua parte nella
prima delle tre canzoni della nuova scaletta ed ora poteva ritenersi
soddisfatto di come era venuta. Con un sorriso rilassato sulle labbra, che poco
aveva a che fare con la rabbia che lo aveva accompagnato nell’ultima
performance in quel posto, spalancò la porta per trovarsi Kurt che, appoggiato
al muro, sembrava averlo atteso fino a quel momento.
Sorrise di
tale premura – avevano dato tutti il massimo ed erano stanchissimi quando
avevano concluso le prove, compreso Kurt – quando si accorse che il ragazzo,
sorridendogli di rimando, manteneva però il cellulare all’orecchio.
Inclinò la
testa con una buffa espressione di curiosità e si appoggiò al muro accanto a
lui, per cercare di capire con chi stesse parlando, ma si accorse che
dall’altro lato si sentiva ancora il suono ad intermittenza della chiamata in
uscita. Solo dopo svariati squilli, una voce maschile rispose. Blaine la
riconobbe in un attimo, ma la cosa non fece che incuriosirlo ancora di più.
«Ciao, Thad.
Sono Kurt», lo salutò quello.
«Ehii, Kurt! Come…
come va?», esitò per un attimo il Warbler, ricordandosi della situazione.
«Bene, ti
ringrazio», rispose con un sorriso alla premura che quella frase sottintendeva
«ma ho bisogno di parlarti. Di Sebastian».
Blaine sgranò
gli occhi nello stesso modo in cui fece Thad dall’altro lato della
conversazione. Perché Kurt che voleva parlargli di Smythe era di certo una
delle poche cose che davvero nessuno dei due si sarebbe mai aspettato.
Hummel
sorrise ancora, stavolta con la tipica espressione di chi la sa lunga e si
appoggiò più rilassato contro il muro.
«Stamattina
ci ha chiamato e ha voluto parlare con una “delegazione” delle Nuove
Direzioni», disse, non sapendo fino a che punto i Warblers sapessero ciò che
faceva Sebastian.
Il sospiro di
Thad gli fece capire che forse non sapeva proprio nulla, ma prima che potesse
finire di spiegare fu altro a prendere parola.
«Ascolta Kurt… io davvero non so che passa
per la testa di quello lì, ma
qualunque stupidata anche solo vagamente offensiva abbia fatto, te ne chiedo
scusa. Non sappiamo più che fare con lui e davvero io–».
«Ma no, che
hai capito! Sebastian ci ha chiesto scusa!», si affrettò a spiegare Kurt, se
non per amore della verità almeno per calmare il tono così colpevole che aveva
preso la voce di Thad.
Per un attimo
tutti e tre restarono in silenzio, mentre il Warbler non riusciva a credere
alle sue orecchie: parlavano della stessa persona? Perché non era certo che “Smythe” e “chiedere scusa” potessero stare nella stessa frase. Poi ancora una
volta la sua mente lo smentì e gli parve di rivedere il Sebastian deciso eppure
bisognoso del sì della squadra che si era presentato loro quella mattina.
Forse….
«Wow, io… non so che dirti, Kurt»,
confessò, comunque spiazzato.
«Ed è questo
il punto! Noi non sappiamo che pensare… ci ha colti tutti di sorpresa e l’idea
che sia solo uno dei suoi folli piani sembra più plausibile della sua
improvvisa redenzione… Mi chiedevo se avessi notato qualcosa di strano… se
sapessi vagamente che progetta».
Thad restò
per un istante in silenzio. Non era una montatura. Non poteva esserlo.
Sebastian era davvero sconvolto per la notizia del suicidio; non aveva dormito
quella notte preparando un nuovo numero per le Regionali e si era scusato con
loro: tutto collegato. Non poteva far parte di un piano – sarebbe stato troppo
meschino e faticoso, persino per lui.
«Fidatevi. Negli ultimi giorni è cambiato.
Beh… in effetti da quando… lo sai», cercò di spiegare senza avere la forza
di essere chiaro, sicuro che l’altro avrebbe capito.
In effetti
Kurt ci mese un po’ per collegare lei due cose, poi sussultò appena. Blaine,
che per tutto quel tempo gli era stato accanto in silenzio, riuscendo a
cogliere le frasi di entrambi, lo guardò negli occhi, trattenendosi dal
prendergli la mano in un gesto che avrebbe potuto sembrare inopportuno.
«Lo… lo
conosceva?», chiese con voce sottile.
«Non lo so. Ma ero con lui quando ha saputo
e… avresti dovuto vederlo: è sbiancato di colpo, tremava ed è corso fuori dalla stanza. Ovviamente
quando ho provato a parlargli mi ha risposto in malo modo ed è andato via, ma
rimasto davvero sconvolto per quanto non lo ammetterà mai».
Stavolta era
il ragazzo delle New Directionad essere senza parole. Già vedere lo sguardo leggermente perso di
Sebastian mentre parlava con loro poche ore prima gli era sembrato strano, ma
ora il racconto di Thad era al limite dell’inverosimile. Non si fidava, non
riusciva a credergli fino in fondo, eppure qualcosa non quadrava, i dubbi
stavano cominciando a confondere anche lui.
Sospirò,
salutando l’amico con qualche imbarazzata parola di raccomandazione per il suo
compagno di stanza – per quanto si sentisse davvero assurdo a pronunciare una
cosa del genere.
Blaine lo
guardò non appena ebbe attaccato. Kurt non sapeva che dire e avrebbe voluto
credere che la cosa non lo sfiorasse più di tanto considerato l’odio che
provava per Smythe, eppure un leggero peso gli si era appena formato
all’altezza dello stomaco.
Nello stesso
tempo, anche Thad con un sospiro simile aveva posato il cellulare il tasca. Non
sapeva che pensare e di certo non si aspettava un simile passo indietro da
parte di Sebastian: chiedere scusa non era da lui, no davvero.
La
preoccupazione che già lo stava assillando dal giorno prima incrementò la sua
presa alla bocca dello stomaco e fece muovere le gambe del ragazzo senza che
questi se ne rendesse veramente conto. In breve si trovò si fronte alla porta
della sua camera; vi entrò, sperando che l’altro fosse lì e per la prima volta
da quella mattina la fortuna sembrò sorridergli, perché il ragazzo era steso
sul proprio letto, un braccio posato sugli occhi e l’altro che penzolava:
sembrava dormisse.
Thad gli si
avvicinò, cercando di vedere se riposasse davvero o comunque come stesse. Si
mosse nella maniera più silenziosa e avvicinatosi al bordo del letto si sporse
verso il ragazzo. Sembrava respirare con una certa regolarità, proprio come se
stesse dormendo e restò a guardarlo per qualche istante.
«Vattene».
Quella semplice
parola lo fece rabbrividire. Era sveglio. Ovvio che era sveglio. Ed era il
solito stronzo.
Sbuffò,
spostandosi sul suo letto, infastidito da tanta maleducazione. Si sistemò, con
le braccia dietro la testa, intenzionato a non parlargli, né preoccuparsi più,
dato che davvero l’altro sembrava non avere bisogno del suo aiuto, ma il suo
proposito non durò che pochi minuti.
«Non mi
aspettavo ti arrendessi in questo modo», tentò, guardando un punto indefinito
del soffitto e cercando di dare alla voce un tono disinteressato.
Sebastian non
si mosse, né rispose e le parole andarono sprecate per la stanza. Per un attimo
il Warbler credette di aver solo pensato quelle parole e che non gli erano
davvero uscite dalla bocca – semplicemente non riusciva a capacitarsi del fatto
che il suo compagno di stanza lo stesse ignorando in quel modo.
Lo fa praticamente sempre, per quale diavolo
di motivo ora te ne sorprendi?, si chiese stizzito, facendo difficoltà a
stare fermo sul letto – non avrebbe mai ammesso che più che sorprenderlo, la
cosa sembrava fargli male. Non aveva senso: era abituato ad essere trattato
così da lui e non c’era motivo di reagire in modo differente proprio ora.
«Il Grande
Sebastian Smythe che chiede pubblicamente scusa delle meschinità fatte in
precedenza! Sono allibito» e lo era davvero.
Accadde in
una manciata di secondi: poco, troppo poco perché la mente di Thad riuscisse a
comprenderlo. Un secondo prima aveva osato un po’ troppo con le parole ed un
attimo dopo Sebastian era scattato dal proprio letto arrivando sul suo, lo
aveva preso per colletto del blazer e sbattuto contro la spalliera del letto
con violenza, occhi negli occhi.
Gli mancò
improvvisamente il fiato, sia per il colpo alla schiena che per lo sguardo con
cui l’altro lo stava trafiggendo. Non se l’aspettava, ovviamente, e gli
sembrava di aver dimenticato come si respirava mentre rabbia ed odio si
riversavano su di lui.
E fece male.
Fece male perché sapeva di non andare a genio a Smythe e sapeva che non
avrebbero fatto altro che deridersi e sbeffeggiarsi a vicenda, ma di certo non
si sarebbe mai aspettato tanto disprezzo.
«Cosa non ti
è chiaro della parola “vattene”?»,
soffiò tra i denti Sebastian con nervosismo.
Thad davvero
non sapeva come si facesse a rispondere. Era pietrificato, le mani dell’altro
che ancora lo stringevano per il colletto. Per alcuni istanti rimasero
semplicemente così: la rabbia dell’uno e la sorpresa dell’altro parevano aver
congelato ogni cosa. Poi Sebastian parve rendersi conto di quello che stava
facendo e lentamente lo lasciò andare.
«Sarò chiaro,
un’ultima volta», disse con un controllo forzato «Di tutto quello che faccio, nulla, nulla
ti riguarda. Non devi metterti in mezzo, non ne hai alcun diritto. Lasciami
semplicemente in pace».
«Ma io…
diavolo, io mi stavo semplicemente preoccupando per te!».
Stavolta fu
Thad a scoppiare, sporgendosi in avanti.
«Tu non hai alcun diritto di trattarmi in questo modo, io mi sto solo
preoccupando, perché non mi sembri più tu! Maledizione, non c’è simpatia tra
noi, ma siamo compagni di stanza, almeno questo concedimelo!».
«E chi
diamine te l’ha chiesto?! Io non ci
certo! Quindi smettila! Smettila di preoccuparti, smettila di essermi compagno, smettila di parlarmi! Non
voglio più sentire nulla!» e senza aggiungere altro, al limite del
sopportabile, Sebastian uscì dalla stanza praticamente correndo.
Ancora una
volta Harwood era senza parole. Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto sfogare
tutto quello che sentiva in qualche modo, ma rimase lì, fermo, senza dir nulla
e con il cuore a pezzi.
*
Quando anchele New
Direction ebbero concluso la loro esibizione, la
giuria chiese come al solito una mezz’ora per ritirarsi e votare. I vari gruppi
si ritirarono nei rispettivi camerini aspettando il verdetto e cercando di non
farsi divorare dall’ansia che li agitava.
«Abbiamo la
vittoria in pugno. Abbiamo la vittoria in pugno», continuava a ripetere Rachel,
seduta sulle gambe di Finn «il mio assolo è stato magnifico e le altre canzoni
perfette: non saremmo potuti andare meglio», si complimentò.
Il suo
ragazzo le regalò un sorriso, stringendola a sé con affetto.
«Rachel ha
ragione: siete stati davvero bravi», si complimentò il professor Shue, facendo partire un applauso di apprezzamento da parte
di tutta la squadra – si erano sentiti davvero motivati stavolta, su questo non
c’erano dubbi.
Blaine
sorrise, abbracciando con dolcezza Kurt da dietro.
«Sei stato
davvero bravo», gli sussurrò questi voltandosi e lasciandogli un leggero bacio
sulla guancia, a cui il riccio rispose incontrando le sue labbra.
A nessuno dei
due sfuggirono i sorrisi che il resto del gruppo stava rivolgendo loro e il
petto parve gonfiarsi ancora di più. Era così che doveva essere: stare con loro
e regalarsi quelle semplici attenzioni era la cosa più semplice del mondo.
«Sono la sola
ad essere nervosa per la premiazione?», chiese Mercedes e un paio di ragazzi le
fecero eco.
Santana
sorrise in modo sfacciato.
«La vittoria
è nostra, tranquilli!».
Si poteva
forse diluire il dolore e la rabbia bevendo? E no, non alcool, ma semplice acqua?
Thad non lo sapeva, ma al momento era la seconda bottiglina che prosciugava,
come se, in mancanza di altre cose da fare, bere continuamente potesse riempire
il tempo.
Sospirò,
poggiando l’involucro di plastica vuoto sul tavolo della mensa deserta del McKinley
e prese la testa fra le mani. Ecco un’altra cosa che non smetteva di fare, come
se i pensieri fossero così pesanti da non riuscire a reggerli senza aiuto.
Eppure aveva
un solo pensiero in testa. Sebastian.
«Smettila di preoccuparti, smettila di essermi
compagno, smettila di parlarmi! Non voglio più sentire nulla!»
Quelle parole gli provocarono una pesante fitta allo stomaco. Aveva
creduto fosse uno sfogo momentaneo, un’esagerazione dovuta alla rabbia e che di
certo non avrebbe dovuto prenderle alla lettera. Invece era successo proprio
questo: Sebastian non gli aveva più rivolto la parola da quel momento e quando
si erano trovati a stare in camera insieme lo aveva completamente ignorato.
E lui aveva provato a parlargli, gli aveva addirittura chiesto scusa
senza essere sicuro di avere un motivo per farlo. Non era servito a niente:
quando diventava insopportabile – e in alcuni momenti si era davvero impegnato
– semplicemente Smythe levava le tende e non si faceva vedere per ore o notti.
Come avessero preparato il numero delle regionali in quelle
condizioni restava un mistero. La tensione fra loro era palpabile e nessuno
sapeva come comportarsi. Dopo il terzo giorno, Thad aveva semplicemente
rinunciato ad avere un qualsiasi rapporto col su compagno di stanza, sperando
che la cosa sarebbe passata da sé.
Non era ancora successo.
Erano stati davvero bravi nell’esibirsi: tutto era stato fatto alla
perfezione ed il pubblico ne era parso davvero entusiasta. Sebastian era stato
il migliore: lo aveva osservato – era l’unica cosa che gli restava da fare al
momento – ed era stato maledettamente bravo a nascondere tutto e sorridere in
quel modo ammiccante e stupendo che solo lui aveva…
Thad sospirò. Era patetico. Fare simili apprezzamenti era assurdo,
soprattutto se rivolti al suo… suo cosa?
Non aveva senso: loro due non erano nulla e comunque a lui non piacevano i
ragazzi… e…
«Thad!».
La voce di Kurt lo porto fuori da pensieri troppo pericolosi e il
ragazzo gli fu immensamente grato.
«Ehi, Kurt», lo abbracciò sincero «è bello vederti! Come stai?».
«In ansia. Siete stati fantastici: è stata dura competere con voi!»,
si complimentò.
«Lo avete fatto egregiamente», ricambiò con un sorriso il Warbler.
«Quando tu sei in ansia… bevi?», chiese Kurt notando le due
bottigline vuote sul tavolo dietro il ragazzo; Thad arrossì, abbassando lo
sguardo in imbarazzo.
«Diciamo… di sì», rispose senza sbilanciarsi.
L’altro lo guardò un po’ sospettoso, poi si sedette al tavolo.
«Problemi?», volle indagare, leggermente preoccupato – in effetti, a
guardarlo, Thad non sembrava avere una bella cera.
«No, affatto», tentò di mentire quello, ma lo guardo di Kurt pareva
dire “so che è così, cerco solo di farlo dire a te”, quindi rinunciò «sì…
Sebastian…», sussurrò come se sé ne vergognasse.
«Sebastian… cosa?»
Harwood alzò immediatamente lo sguardo: il tono del ragazzo non gli
era affatto piaciuto e anche gli occhi con cui lo stava guardando adesso non
promettevano nulla di buono.
«Ascolta, sono il primo a non sapere che pensare a riguardo, ok?», si
mise sulla difensiva «è completamente cambiato in questa settimana e non mi ha
più rivolto la parola. È il mio compagno di stanza ed io… sono preoccupato per
lui, ecco».
Lo disse tutto d’un fiato, quasi non sarebbe stato in grado di farlo
se si fosse dato più tempo. Kurt lo guardò senza sapere cosa dire: non si
sarebbe mai aspettato una simile reazione da parte di Thad, eppure non poteva
di certo ignorare la preoccupazione che ora leggeva nei suoi occhi.
«Ouh… io… non so che dire…», confessò «Hai
provato…?».
«Ho provato tutto, credimi.
Mi ignora! O va via…», abbassò la testa sconsolato e l’altro gli poggiò una
mano sul braccio, tentando di confortarlo.
Non ce ne fu tempo. Non ci fu tempo per fare nulla. In un attimo finì
ogni cosa.
Né Kurt, né Thad o chiunque altro all’interno della scuola capì cosa
successe.
Un’esplosione. Improvvisa, che non diede scampo. Un boato sordo che
sconvolse tutto ed annullò ogni altro suono. Ogni cosa ne rimase investita
senza possibilità di scampo: oggetti e persone scaraventate via dalla sua forza
improvvisa.
In un attimo sembrò tutto finito, distrutto da qualcosa di cui
nessuno lì dentro riuscì a rendersi conto.
Poi, il silenzio.
___________________________
Chiedo venia per l’enorme attesa, ma mi ha fatto compagnia un
terribile blocco e non sono riuscita ad andare avanti per un po’. Anyway, ora sono qui ^^
Ringrazio chiunque stia prestando attenzione a questa cosetta e
soprattutto alle anime pie che stanno recensendo!
Che sarà mai successo al McKinley? Spero di aver suscitato almeno un
po’ la vostra curiosità!
Thad non
avrebbe mai immaginato che fosse possibile provare tanto confuso dolore tutto
in una sola volta, ma quando tentò di riaprire gli occhi – in un punto
imprecisato di quella che una volta era la mensa del McKinley – dovette
ricredersi.
la testa
pulsava con violenza, come se qualcuno la stesse colpendo in quel momento con
un bastone; respirare gli sembrava impossibile, perché ad ogni più piccolo
tentativo un bruciore insopportabile lo colpiva al petto, per non parlare dello
stomaco che gli stava dando nausee insopportabili. Non si azzardò neanche a
muoversi, innanzitutto perché sembrava aver dimenticato come si facesse e poi
perché non ne sarebbe derivato che altro dolore.
Con l’occhio
destro – l’altro non era riuscito a tenerlo aperto – cercò di capire dove si
trovasse e che cosa fosse successo. La testa doleva troppo perché fosse in
grado di compiere un qualsiasi pensiero anche solo vagamente logico, ma aveva
comunque capito che non poteva restare in quella situazione.
Per questo,
facendo mente locale su dove fossero le mani, tentò di muoverle: ci riuscì solo
a metà, una delle due braccia era bloccata dal gomito in giù e non c’era modo –
con le poche forze che si ritrovava ad avere – di liberarla da chissà poi cosa.
Sospirò
istintivamente e una nuova scarica di dolore lo attraversò facendolo gridare.
Dio, ma che diavolo stava succedendo? Tornò immobile e stavolta si costrinse a
pensare. Cosa ricordava? La confusione che aveva al momento in testa faceva
impallidire le sue migliori sbornie, ma alla fine parve afferrare qualcosa.
Le Regionali.
Erano alle regionali. Quindi… Al McKinley. Bene. Altro…? Sì, c’era dell’altro.
Ricordava Kurt. Forse si erano incontrati…? Probabilmente avevano parlato del
più e del meno come due vecchi amici… e poi?
Poi non
ricordava più nulla. qualunque cosa fosse successa, nella sua testa non ce
n’era alcuna traccia. Ma se Kurt era il suo ultimo ricordo, allora dov’era?
Quello che il campo visivo del suo occhio inquadrava era un ammasso di… non
sapeva neanche come definirlo – se macerie non fosse stato troppo melodrammatico,
avrebbe usato proprio quel termine. Doveva trovare Kurt, vedere se stava bene.
Il ragazzo si
fece forza e decise di tentare ancora un movimento, stavolta delle gambe: ebbe
maggiore successo – riusciva a muoverle entrambe abbastanza liberamente. Cercò
di restare concentrato nonostante il mal di testa stesse diventando sempre più
forte: l’unica cosa che gli impediva di spostarsi, ora, era il braccio, quindi
avrebbe potuto provare con una mossa più incisiva e magari sarebbe riuscito a
liberarlo.
Prese coraggio
e con la spalla diede un rapido strattone al braccio. Si sentì immediatamente
male. Il braccio parve strapparsi e il dolore che avvertì gli provocò un conato
di vomito tremendo. Istintivamente portò in avanti il busto per quel che
poteva, ma la testa girò in modo tremendo e in breve Thad si trovò di nuovo
steso a terra, privo di sensi.
Non sapeva
che Kurt era poco lontano da lui, bloccato dalle stesse macerie e allo stesso
modo privo di sensi.
Il ronzio che gli invadeva la testa era la cosa più rumorosa che
avesse mai sentito nei suoi pochi anni di vita – e c’era da dire che stando a
stretto contatto con gli altri Warblers aveva avuto esperienze sonore di ogni
tipo.
Nick tentò di capire che diavolo gli fosse successo, ma la testa
faceva male da morire e gli pareva di avere le vertigini, nonostante fosse per
terra. Per terra. Come ci era finito
per terra? Lamentandosi, si fece forza per mettersi quanto meno seduto e
riconobbe a stento, in ciò che lo circondava, un corridoio: la polvere che
volava pesante nell'aria gli impediva di vedere le cose con nitidezza e affaticava
il suo respiro.
Non capiva. Per quanto si sforzasse non riusciva a capire che cosa
fosse successo. Un attimo prima camminava - o almeno così credeva - per il
corridoio ed un attimo dopo... quello.
«Qui ce n'è un altro!».
Una voce arrivò confusa alle orecchie del ragazzo che ora pareva
riuscire a liberarsi almeno un po' dal fastidioso ronzio che lo opprimeva. Non
ebbe tempo per guardarsi intorno che qualcosa - qualcuno lo tirò su quasi con violenza e lo costrinse a camminare.
«C-che sta succedendo?», tentò allora di chiedere, ma non ottenne
risposta e chi lo stava trascinando incrementò ancora di più la velocità con
cui spostava entrambi.
Il sole che illuminava l'ambiente al di fuori della struttura
scolastica colse gli occhi scuri di Nick completamente impreparati. Li strinse
con forza, abbandonandosi ormai senza più alcuna lamentela ai movimenti
dell'uomo – sì, ne aveva visto il viso in maniera confusa eppure abbastanza
bene da chiarirne il sesso – fino a che non lo fece sedere sul bordo di...
un'ambulanza.
Era in un'ambulanza. Oddio.
il panico cominciò a farsi strada nel suo corpo prendendo innanzitutto lo
stomaco che si chiuse in una stretta terribile. Sentì la terra mancargli da
sotto i piedi nonostante toccasse perfettamente a terra. Per non seppe quale
riflesso incondizionato, alzò lo sguardo verso ciò che gli era di fronte e gli
mancò il fiato: il McKinley era un ammasso di macerie e polvere, un caos totale
dal quale entrava ed usciva gente indefinita.
«Mio Dio...», sussurrò senza essere capace di dire altro, gli occhi
che vagavano increduli per la vista di un simile scenario.
Non c'erano parole che potessero descrivere quello che stava provando
al momento.
La struttura scolastica era praticamente crollata per metà, mentre la
parte dell’auditorium si reggeva ancora in piedi per chissà quale equilibrio
della fisica, ma di certo non ci sarebbe voluto un genio per capire che non
sarebbe durata a lungo in quello stato.
Uno dei paramedici che lo aveva soccorso gli prese il mento con una
mano, mentre l’altra reggeva una piccola torcia, di quelle con cui si
controllava la reazione delle pupille alla luce – doveva andare tutto bene,
perché non fece commenti e lo lasciò andare. Gli diedero poi una mascherina da
cui respirare un po’ di ossigeno per fargli riprendere fiato, ma Nick credette
di aver dimenticato come si introducesse aria nei polmoni: quello che vedeva
attirava completamente la sua attenzione, tanto che sembrava non essersi minimamente
accorto delle cure che i due paramedici gli avevano prestato.
Era surreale: di certo da un momento all’altro si sarebbe svegliato
nel suo letto, alla Dalton, e avrebbe raccontato l’assurdità di quel sogno a
Jeff che ci avrebbe riso su prendendolo in giro per chissà quanto tempo.
Già, Jeff lo avrebbe rassicurato subito, anche senza volerlo.
Jeff.
Dov’era Jeff?
Come se fosse stato punto da un ago, il Warbler scattò in piedi,
ignorando il capogiro e facendo cadere la mascherina con cui stava respirando.
Jeff!
Jeff era ancora dentro! Jeff… e tutti gli altri! I Warblers. Blaine, Kurt e le New Direction! Per
non parlare di tutte le persone che erano venute a guardarli!
L’incubo stava acquistando un realismo che lo terrorizzava:
guardandosi intorno non vedeva altro che confusione e gente che correva via o
barcollava; l'aria era invasa dalla polvere soffocante e dai rumori assordanti
di sirene e grida. Si stava sentendo male ed aveva bisogno di sapere come
stessero i suoi amici. Ringraziando il cielo i suoi genitori e sua sorella
proprio quella mattina avevano fatto tardi e non erano ancora arrivati,
avvertendolo con una rapida chiamata al cellulare, ma tutti gli altri erano
dentro e lui doveva fare qualcosa!
Si mise a camminare senza neanche sapere dove stesse andando, ma
quasi immediatamente fu bloccato da un uomo che lo trattenne, con forza
cercando di spingerlo di nuovo all'interno dell'ambulanza.
«I miei amici! Devo trovare i miei amici!», scattò Nick con una forza
di cui egli stesso si sorprese «Erano all'interno della scuola, sono rimasti
bloccati dentro! Devo trovarli!».
Nonostante le sue grida, l'uomo non accennava a lasciarlo andare, ma
anzi lo tenne ancora più stretto fino a che non riuscì a metterlo seduto.
«Cosa diavolo credi che stiamo facendo noi o i vigili del fuoco? Tu
devi solo restare qui e lasciarci lavorare senza complicare ancora di più le
cose: ce ne sono ancora troppe di persone, tra studenti e spettatori – l'ultima
cosa di cui abbiamo bisogno è uno stupido che torna dentro dopo essere stato
tirato fuori».
Nick si sentì davvero un idiota e completamente inutile: che cosa
avrebbe potuto fare lui, del resto, per aiutarli? Non era di certo un vigile
del fuoco e non conosceva nessuna della pratiche di primo soccorso di cui
necessitavano simili situazioni. Con un sospiro che parve strappargli le ultime
forze, appoggiò la testa contro il freddo dell'ambulanza: non aveva idea di
come si sentisse né di cosa dovesse provare in quel momento – probabilmente
avrebbe pianto se solo non fosse stato di nuovo così distante da quello che lo
circondava da non rendersi conto delle lacrime che premevano agli angoli degli
occhi.
Era convinto che per far sì che la testa girasse, bisognasse avere
gli occhi aperti; che per rendersi conto che qualcosa non andava, avrebbe
dovuto avere dei punti di riferimento, tipo gli oggetti che lo circondavano e
che non la smettevano di muoversi. Eppure Finn si rendeva conto che la testa
stava girando come non aveva mai fatto prima, nonostante il buoi più completo
lo avvolgesse.
Si accorse che il fiato gli mancava di più ogni volta che tentava di
respirare e che non aveva la minima idea di dove fosse o di quello che era
successo.
«Ragazzi! Qualcuno mi risponda, ragazzi!».
La voce del professor Shue lo raggiunse
lontana e disturbata dal fastidioso ronzio di sottofondo. Tentò di alzare una
mano, di farsi vedere in qualche modo, ma ogni gesto sembrava un'impresa
titanica. Alla fine, riuscì in qualche modo a farsi notare, perché in breve
sentì qualcosa, o meglio qualcuno che lo toccava e lo muoveva.
Si lamentò istintivamente: ora avvertiva con chiarezza la testa
pulsargli e muoversi era qualcosa di inconcepibile.
«Finn, grazie al Cielo! Come stai?», chiese Will preoccupato.
«Non... non lo so... io... mi fa male... tutto...», cercò di rispondere
con calma, ma la voce usciva strozzata, forzata; poi un pensiero lo fece
tremare «Rachel! Dov'è Rachel? Che cosa è successo?».
In un attimo andò in completa paranoia: non vedeva nessuno, non
sapeva dov'era e la sua ragazza non era con lui.
«Eccola, Finn – sta calmo. È accanto a te», lo rassicurò il
professore, sporgendosi in avanti ed aiutando la stordita ragazza a mettersi
seduta.
Will tirò un sospiro di sollievo: almeno loro due sembravano stare
bene ed aveva trovato anche Quinn, Puck, Rory, Tina e
Mike pressoché illesi, se si escludevano ferite superficiali, mal di testa e
difficoltà respiratorie dovute alle polveri. Lasciò che i due fidanzati si
rassicurassero a vicenda, stretti in un abbraccio che sapeva di paura e
confusione, e cercò di farsi spazio nel resto delle macerie di quella che era
l'aula di musica.
Grazie al cielo Emma ha la febbre, si trovò a pensare. Non era
lì con loro, stava bene ed al sicuro. Almeno lei...
Un lamento soffocato attirò la sua attenzione verso destra, tra le
macerie di quello che fino a quella mattina era stato il loro pianoforte.
Cercando di non farsi più male di quello che già aveva – un braccio gli stava
sanguinando per un taglio che non sapeva bene come o quando si era fatto – si
avvicinò alle macerie riconoscendo la sedia a rotelle di Artie
e quello che sembrava la mano scura di Mercedes.
«Finn, Puck! Datemi una mano, ci sono altri qui!», chiamò, la paura
che gli aumentava di nuovo il ritmo cardiaco e gli spezzava il fiato.
I ragazzi si alzarono a fatica e raggiunsero il professore che si
stava già facendo spazio tra le macerie; in breve riuscirono a liberare
entrambi e con un sospiro di sollievo – che mai avrebbero pensato di tirare per
una situazione del genere – si resero conto che respiravano entrambi.
«Mercedes? Mercedes, apri gli occhi, coraggio!», la incitò Will con
dei lievi colpetti sul viso e tenendole la testa alta per cercare di farle
riprendere conoscenza.
In breve, la ragazza aprì gli occhi e con un espressione di dolore in
viso cercò di guardarsi in torno confusa come tutti gli altri: non sembrava
avere nulla di rotto, ma solo qualche graffio superficiale e tanta paura. Il
professor Shue la aiutò a mettersi seduta con calma,
mentre Puck faceva rinvenine alla stesso modo anche Artie, stringendolo poi a sé in uno slancio di affetto
dovuto alla confusione e allo spavento del momento.
Ad un tratto un grido bloccò tutti facendoli tremare. Ad emettere un
simile urlo era stata Santana, che ora balbettava parole sconnesse prese dal
panico più totale, mentre si muoveva frenetica accanto a quella che si
accorsero essere Brittany.
«Vi prego, vi prego, non respira! Aiuto, aiuto, aiutatemi»,
piagnucolava terribilmente agitata e a quella richiesta tutte le si
avvicinarono, pur non sapendo effettivamente cosa fare.
«State indietro, fatele spazio», ordinò l'adulto, cercando di
mantenere la calma.
Si avvicinò alla ragazza e dopo essersi accertato che davvero non
respirasse, guardò l'ispanica, prendendole le spalle.
«Ascoltami, Santana. Ascoltami! Dobbiamo farle un massaggio cardiaco,
ma ho bisogno del tuo aiuto: farò trenta compressioni dopodiché dovrai
immetterle ossigeno nei polmoni, mi hai capito?», ma la ragazza non sembrava
molto presente, nonostante avesse annuito – probabilmente più per un movimento
istintivo che per altro.
Per questo Will, prima di cominciare la pratica, le disse di tenersi
concentrata e contare con lui. Gli altri stettero impotenti e sconvolti a
guardare i due che con compressioni ed insufflazioni rianimavano la bionda. A
Santana scapparono delle lacrime quando baciò la sua ragazza respirando per lei
e pregando chissà chi perché si svegliasse. Non poteva perderla, era
semplicemente inconcepibile.
Mentre il professore faceva una nuova serie di compressioni sul petto
della ragazza, le prese la mano e la strinse nella sua con disperazione, come
se avesse potuta trattenerla a sé con quel semplice gesto. All'inizio credette
che fosse solo immaginazione – il suo inconscio che le faceva sentire ciò che
voleva, per quanto non fosse vero – poi, però, si rese conto che stava
succedendo davvero. Un battito. Uno, due, tre, dei battiti. Lenti, ma c'erano.
Li sentiva dal polso.
«Batte...», sussurrò come se non fosse davvero lì «Le sento il polso,
è viva!», gridò poi in modo frenetico guardando Will che subito smise di fare
pressione e alzò la testa di Brittany, cercando di
farla riprendere, mentre Santana le sfiorava il viso con parole sconnesse.
«Sono qui... avanti, apri gli occhi... sono qui...», ripeteva con
dolcezza, fino a che quegli occhi non le risposero sollevando lentamente le
palpebre e facendole scappare un sussulto di pianto e gioia.
«San...», la chiamò la bionda con voce sottile; non disse altro e
l'ispanica la strinse a sé con amore e delicatezza, come a dire che ora era al
sicuro, con lei.
Gli altri non erano capaci di dire come si sentissero – ognuno
commosso a modo proprio per quel salvataggio e per il pericolo appena scampato.
«Professor Shue... i nostri genitori...?».
La domanda di Mike era stata poco più che un sussurro, ma tutti si
voltarono verso l'adulto con lo stesso terrore negli occhi. Will avrebbe voluto
dire a tutti che ogni cosa si sarebbe sistemata, ma la verità era che ne sapeva
quanto loro e non poteva rassicurarli in nessun modo. Deglutì, sperando di
riuscire a trovare le parole giuste.
«Non... non è questo il momento di pensarci, ragazzi: dobbiamo
trovare gli altri ed uscire da qui. Andrà tutto bene, vedrete».
Non era stato in grado di trattenere quell'istintiva scintilla di
speranza nelle sue parole e pregava perché la sorte lo mettesse nella
condizione di tener fede a ciò che aveva detto.
Sam e Sugar furono recuperati dalle macerie con nessun danno
particolare, tranne il polso della ragazza probabilmente slogato. Solo Blaine
risultava ancora disperso tra i ragazzi delle New Direction
e nonostante ognuno di loro – secondo le relative possibilità – avesse
controllato ovunque, non sembrava essercene traccia.
«Era andato a cercare Kurt», sussurrò ad un tratto Tina, come se
l'avesse improvvisamente ricordato «Deve essere uscito dalla stanza, prima
che...» e si guardò intorno, perché davvero non sapeva come continuare.
Finn scattò in avanti, verso quella che una volta era la porta e
dalla quale, nonostante le macerie, si riusciva ancora per miracolo ad passare
con facilità e una volta in corridoio si guardò in torno alla ricerca del
ragazzo.
«Blaine!», chiamò con voce strozzata e sentì subito un lamento poco
lontano da lui.
Tra il fumo ne distinse la sagoma e gli si avvicinò.
«Ehi, amico! Come ti senti? Ce la fai ad alzarti?», chiese, aiutandolo
a mettersi in piedi, per quanto quello non collaborasse particolarmente.
«Mi... mi fa male... la testa... Finn...», sussurrò Blaine con
debolezza, lasciando che l'altro lo tirasse su senza opporre resistenza;
osservandolo bene, quest’ultimo vide che un brutto taglio, proprio sopra
l'occhio, perdeva molto sangue.
Per un attimo fu preso dal panico: sapeva di dover tamponare la
ferita, ma la vista di tutto quel sangue che – si rese conto subito dopo –
sporcava anche la camicia nera gli strinse lo stomaco in un conato di vomito
che trattenne con difficoltà. Aveva bisogno d'aiuto.
«Professore! Professor Shue! Ho trovato
Blaine!», gridò, sperando che qualcuno giungesse ad soccorrerli, perché il
ragazzo stava lentamente perdendo conoscenza.
«Kurt...», sussurrò il più basso, con voce trascinata, attirando di
nuovo l'attenzione di Finn «Dov'è... Kurt...?».
Una nuova paura lo colse. Suo fratello! Dov'era? Cercò di fare mente
locale sulle ultime cose che ricordava prima che tutto crollasse: era uscito in
anticipo – non sapeva più per quale motivo... Ed ora... dove si trovata? Come
stava? Non sapeva neanche se...
Finn avrebbe voluto piangere, gridare che non stava più capendo
nulla, che improvvisamente il mondo aveva preso a girare nel senso sbagliato e
trascinava con sé nell'errore tutto ciò che incontrava. Strinse con più forza
Blaine, che stava che ormai aveva perso i sensi e in lontananza vide qualcuno
venire verso di loro. Pregò che li aiutassero.
«Nick?! Nick, dove diavolo sei?».
La voce strozzata dal fumo sembrava essere troppo bassa, troppo poco
forte in quella situazione perché qualcuno potesse davvero ascoltarla, ma non
per questo Jeff si era dato per vinto. Stava continuando a chiamare il suo
compagno di stanza da quando si erano ripresi e accertati di stare tutto
sommato bene.
I soccorsi non erano ancora arrivati e loro non sarebbero potuti
uscire dalla stanza senza aiuto, dal momento che l'esplosione aveva fatto
crollare parte del soffitto bloccando la porta.
«Accidenti, Nick! Rispondi! Dove sei?», continuò a gridare il Warbler
in preda al panico, muovendosi con frenesia per la stanza, nonostante la gamba
gli desse delle fitte dolore a causa di un brutto taglio che Cameron gli aveva
prontamente fasciando, bloccando quanto meglio l'emorragia.
«Non è qui», sussurrò Trent guardandolo dar
di matto.
«Nick! Nick!», continuò imperterrito il biondo, dando l'impressione
di non aver sentito le parole dell'amico e muovendosi con ancora più velocità.
Sebastian, che intanto continuava a guardarsi la mano sanguinante, alzò
la testa sul ragazzo con uno sbuffo nervoso. Non poteva semplicemente starsene
zitto e fermo? Perché diavolo continuava a gridare? Era ovvio che Duvall non
fosse lì e di certo continuando in quel modo non lo avrebbe fatto
materializzare – ma era sulla buona strada per fare impazzire lui o per farsi
picchiare.
All'ennesimo grido del biondo, scattò prima che potesse davvero
rendersene conto e lo prese per le spalle, nonostante la mano gli facesse male.
«Sta. Zitto!», gridò «Non è qui! Per essere il suo migliore amico,
hai davvero una pessima memoria: poco prima di... questo si è
allontanato perché doveva rispondere al cellulare, quindi sarà fuori!».
Jeff lo guardò per qualche istante sorpreso, come se faticasse a
capire quello che l'altro aveva appena detto. Poi, lentamente, ricordò. Nick
che si destava improvvisamente dai pensieri in cui era immerso a causa della
vibrazione, tentava con scarso successo di far fare silenzio nella stanza e
senza riuscirci usciva di corsa. Poi più nulla. Era letteralmente crollata ogni
cosa e lui era rimasto bloccato lì, senza sapere dove fosse l'altro. E se gli
era successo qualcosa? E se si era trovato vicino all'esplosione che aveva
provocato tutto questo?
In un attimo sentì il fiato mancargli: Smythe non lo aveva rassicurato,
gli aveva messo in testa altri mille pensieri. Il panico arrivò con efficiente
velocità e la testa del biondo girò così tanto che dovette aggrapparsi al
compagno per non cadere.
«Jeff!», si sorprese quello, aiutandolo a sedersi e frenando le prime
battute che si erano formate nella sua testa sulla debolezza del Warblers
perché – strano a pensarsi – era davvero preoccupato.
«E se... e se... è morto?».
Quella domanda congelò tutti, in primis chi l'aveva formulata. Nick?
Morto? Era semplicemente inconcepibile, assurdo, una di quelle cose che per
natura non possono verificarsi. Eppure Jeff si sentiva improvvisamente così
vuoto, così male che l'idea che fosse successo qualcosa a Nick era diventata
fin troppo possibile nella sua testa.
E non poteva essere, no! Loro avevano ancora così tante cose da fare
insieme, tante stupidaggini da dire, battute pessime su cui ridere, scherzi
idioti con cui tormentare gli altri Warblers... troppe cose ancora da fare.
E da solo non sarebbe stato nulla, come quando Fred aveva lasciato da solo
George... semplicemente inconcepibile.
Doveva ancora dirgli così tante cose, alcune davvero importanti...
«Credete che i nostri genitori stiano bene?», chiese Trent con voce incrinata dalla paura; Flint gli mise una
mano sulla spalla e poi lo tirò a sé in un abbraccio: avevano tutti paura di
quello che era successo.
«Thad! Manca anche Thad, ragazzi!».
La voce di Andrew, così alta rispetto ai sussurri precedenti stordì
tutti e li fece fremere ancora una volta. Sebastian sussultò in modo tremendo,
non appena realizzò che cosa l'altro aveva detto. Thad non era con loro, Thad
era lì fuori e nessuno sapeva come stesse. Stranamente cominciava a capire la
paranoia di Sterling... Ma lui si stava facendo prendere dal panico per Harwood!
Per la persona che aveva trattato male, o meglio ignorato per tutta la settima,
per la persona a cui come ultima cosa aveva gridato di stare lontano da lui...
Come ultima cosa...
Era assurda una simile preoccupazione e semplicemente giustificata
dal fatto che quella situazione aveva messo perfino lui a dura prova, arrivando
a farlo preoccupare perfino per quell'idiota di Harwood. In situazioni normali
non gliene sarebbe fregato nulla di nessuno. Non c'erano dubbi.
«Era andato a prendere una bottiglina d'acqua in mensa», ricordò
Richard «Probabilmente sarà già fuori», tentò di rassicurarli, ma la stretta
allo stomaco di Sebastian non accennò a diminuire e se possibile, invece,
aumentò, per quanto lui cercasse di ignorarla – come se così facendo avrebbe
potuto anche farla sparire.
«C'è qualcuno qui? Mi sentite, c'è qualcuno?»
Una voce esterna interruppe ogni cosa e fece calare il silenzio per
alcuni istanti, come se ognuno avesse bisogno di capire davvero che quella che
avevano sentito era la voce di qualcuno che stava portando loro soccorso.
«Siamo qui!», si riscosse Sebastian «Aiuto, siamo qui!».
Sentirono rumori confusi, voci che si aggiungevano a quella già
presente e in breve videro le prime macerie franare e la luce dell'esterno
illuminare la stanza semibuia a causa del crollo.
In pochi minuti – che pure parvero un'eternità – quattro uomini con
la divisa dei vigili del fuoco entrarono e controllarono che ognuno stesse bene
e non ci fosse bisogno di prestare soccorsi immediati. Uno di loro si avvicinò
al biondo che era ancora a terra, ma questi non seppe cone
che forza, fece capire che stava bene. Quando furono certo che nessuno fosse
grave, uno ad uno li fecero uscire dalla stanza, conducendoli attraverso un
corridoio fino all'aperto.
Rivedere la luce del sole fu per ognuno di loro come tornare a
respirare. Erano talmente frastornati da non riuscire a rendersi conto del
pericolo appena scampato: si sentivano tutti come sospesi, quasi non stessero
davvero vivendo quella situazione, ma la stessero più che altro osservando da
lontano.
«Datemi una mano, questo ha una gamba rotta e perde del sangue!».
La voce di un paramedico fece voltare tutti i ragazzi, così che
videro un paio di uomini che correvano verso l'ambulanza più vicina.
Egoisticamente cercarono di capire se conoscessero il ferito e tirarono un
sospiro di sollievo quando si resero conto che non era né delle New Direction né dei Warblers che ancora mancavano all'appello.
Un simile pensiero fece destare Jeff, che ricordò di come ancora non
avesse notizie di Nick. Barcollando, arrivò fino ad un vigile del fuoco,
sperando che potesse dargli notizie sicure.
«Mi scusi: avete già soccorso un ragazzo che aveva la mia stessa
divisa?», chiese con un filo di voce.
L'uomo lo guardò per qualche istante, indeciso se rispondere o evitare
di perdere tempo e continuare a portare soccorso agli altri feriti. Poi sospiro
e il ragazzo non poté non notare come il suo volto si fosse scurito. Temette
inconsciamente il peggio.
«Lo abbiamo estratto dalle macerie poco fa. Le sue condizioni sono abbastanza
gravi: lo abbiamo già trasferito all'ospedale di St. Marcus», spiegò con
voce atona.
Jeff si sentì mancare. Non poteva essere. Nick... Lui non–
«Jeff!».
Trasalì. Le lacrime cominciarono a bagnargli il viso prima che
potesse davvero capire che cosa stava succedendo. Perché l'uomo aveva detto che
Nick era in ospedale ed era grave, ma la voce che lo aveva appena chiamato era
proprio quella di Nick... quindi... stava impazzendo?
Si voltò, giusto per capire se ci fosse una spiegazione logica a
tutto quello e vedere il suo amico di fronte a lui, il viso sporco ma che
pareva illuminarlo tutto, lo bloccò sul posto facendolo tremare. Non poteva
essere vero eppure era lì, sano e salvo. Jeff non sapeva cosa pensare. Non
sapeva neanche se volesse davvero pensare, quasi temesse che facendolo,
trovando l'inghippo, avrebbe dissolto quella bellissima fantasia.
Semplicemente si lanciò tra le sue braccia, mentre la paura e il
sollievo continuavano a farlo piangere in modo imbarazzante; ma non contava in
quel momento: Nick era lì e stava bene, il resto non era importante. Non si
rese davvero conto di cosa stesse facendo finché non sentì la morbidezza delle
labbra del suo amico sotto le proprie: aveva sentito il bisogno di baciarlo
come se ne dipendesse la vita – il terrore di perderlo era stato terribile ed
ora non aveva potuto fare a meno di volerlo sentire così vicino, come se
non baciandolo in quel preciso attimo, non avrebbe potuto farlo mai più.
E sarebbe potuta essere così, si trovò a pensare, ancora con
un lieve sussulto, mentre le sue lacrime bagnavano anche il viso dell'amico.
Nick non si tirò indietro, non fece nulla se non assecondare, dopo un
attimo di smarrimento, quel bacio. Le labbra di Jeff non gli erano mai sembrate
tanto perfette e poi... era una cosa che non gli dispiaceva fare.
Quando si separarono, il bruno sorrise con dolcezza.
«Quando tutto questo sarà finito, chiariremo un po' di cose», gli
sussurrò prima di stringerlo di nuovo a sé; il biondo non ebbe paura di cosa
volessero significare quelle parole: non si era mai sentito meglio.
Gli altri Warblers non avevano potuto trattenersi dal sorridere a
quella vista. Tutti, tranne Sebastian. E non perché fosse il solito stronzo,
pronto con una delle sua battute pungenti a rovinare l'atmosfera di quel momento,
ma perché la sua mente ragionava ancora sulle parole del vigile del fuoco.
Aveva detto che avevano soccorso un ragazzo con la loro stessa divisa
e che era grave. Ma Nick era lì con loro e stava bene. ...Non mancava solo Nick
tra i Warblers.
«Thad...», sussurrò capendo perfettamente come stavano le cose.
Proprio in quel momento sentì dire da un paramedico che l'esplosione
era partita fortunatamente dalla mensa e che per questo l'auditorium in
cui c'era la maggior parte delle persone non era crollato causando una strage.
Ma Thad era proprio lì. In mensa.
Era lui quello in divisa, lui quello trasportato d'urgenza al St.
Marcus.
Sebastian si lasciò cadere in ginocchio sena più forza, spiazzato
dalla notizia e da quello che sentiva. Perché stava male, non poteva negarlo a
se stesso, non più.
_________________________
Ok, lo so. Sono in un ritardo
stratosferico, di quelli che mai avevo fatto prima d’ora edavvero vi faccio tutte le mie scuse: non
credevo che la maturità mi avrebbe sottratto così tanto tempo ed energie da
permettermi di concludere il capitolo solo oggi.
Che dirvi? Spero che ci sia
ancora qualcuno che abbia voglia di vedere come continuerà la storia – che vi
avviso vedrà anche nei prossimi capitoli un alta dose di angst.
Come al solito chi mi preoccupa
di più è Sebastian. Spero che risulti anche solo vagamente IC e vi prometto che
mi concentrerò sulla sua introspezione nei prossimi capitoli.
Per il resto… conosciamo più o
meno le sorti di quasi tutti i ragazzi… alcuni sono stati fortunati, altri un
po’ meno. Vedremo come si evolverà la situazione.
Insomma… spero di sentirvi
presto.
Ancora mille scuse per il
ritardo e grazie per l’attenzione.
«La
pressione è di nuovo in calo, bisogna tenersi pronti con altri 10 mg di
epinefrina».
«Dall'ospedale
ci hanno comunicato che la sala operatoria è pronta, lo portiamo direttamente
lì».
«Le
pulsazioni sono in diminuzione: di questo passo, operarlo adesso sarà
difficile».
Respirare.
Doveva solo ricordare come si facesse a respirare. E non era facile, non in
quel momento, con il proprio figlio che rischiava di morire davanti ai suoi
occhi, su un ambulanza e con una ferita allo stomaco che non la smetteva di
sanguinare. Per non parlare di quella alla testa...
Burt
trattenne a stento un conato di vomito per la situazione in cui si trovava.
L'ultima volta che si era sentito così era stato quando sua moglie era morta e
davvero non avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovato a provare di nuovo
quella serie di emozioni così presto.
Non
per Kurt.
Era
frastornato, confuso, quasi fuori dalla scena che gli si svolgeva davanti e a
stento riusciva a cogliere il significato delle parole che lo raggiungevano.
Che cosa doveva fare? Che cosa poteva fare? Nulla. Quella consapevolezza
lo distruggeva. Non c'era nulla che potesse fare per salvare la vita della
persona a cui era più legato, per suo figlio.
«É
entrato in arresto cardiaco: dammi una scarica da 260», ordinò uno dei
paramedici e quelle parole, la loro gravità, parvero rendere l'uomo di nuovo
pienamente consapevole della situazione.
«Oddio...»,
sussurrò tremando «Oddio, no... Kurt!»: quel nome uscì con forza dalla sua
bocca, come un grido disperato.
Uno
degli uomini lo allontanò dal corpo del ragazzo, al quale si era istintivamente
avvicinato, con un movimento brusco e senza degnarlo di uno sguardo.
«Si
allontani», disse con voce atona, mentre caricava il defibrillatore per poi
assestare la prima scarica sul petto di Kurt.
Burt
sarebbe voluto morire. Scappare da lì, correre lontano dove non potesse
raggiungerlo il rumore fisso dell'elettrocardiogramma piatto che suonava come
una condanna. Avrebbe voluto svegliarsi, accanto a Carole che l'avrebbe accolto
con un sorriso ed un “buongiorno” soffiato sulle labbra, prima di alzarsi per
preparare la colazione a tutta la famiglia.
Avrebbe
fatto di tutto pur di non essere lì, in quel dannato momento, quasi credendo
che se non l'avesse visto non sarebbe mai accaduto.
Ma
accadeva. Con o senza di lui, il cuore di Kurt restava fermo e l'uomo che lo
aveva allontanato preparava una nuova scarica per strapparlo alla morte.
Non
lasciarmi, non farlo, non farlo, non–
Un
bip. Non avrebbe mai detto che tutta la sua vita sarebbe stata così
disperatamente aggrappata ad un semplice bip elettronico, ma quando lo avvertì
fu come se il mondo, improvvisamente fermo, avesse ripreso a girare; come se le
cose fossero tornate al loro posto e sentì una scarica di adrenalina ed ansia
abbandonare il suo corpo.
Kurt
era ancora vivo. Poteva respirare di nuovo e sperare.
Il
viaggio in ambulanza sembrò durare ore invece che i pochi minuti effettivi che
avevano impiegato a raggiungere l'ospedale. Burt non aveva idea di se ci fossero
stati altri feriti, di come stessero i compagni di Kurt e soprattutto Finn:
aveva lasciato Carole a cercarlo ed aveva seguito la barella di suo figlio –
fino a quel momento non aveva ricevuto chiamate.
Corse
insieme ai medici che avevano preso in consegna il ferito e cercò di capire dal
loro vociare concitato quanto grave fosse la situazione: i discorsi erano pieni
di termini particolari e in ogni caso non sarebbe stato capace di capire anche
se avessero parlato in modo elementare, perché era come se il cervello fosse
scollegato o meglio bloccato sulla figura di suo figlio, pallido non del
chiarore naturale che rendeva la sua pelle simile a quella di sua madre, ma di
un grigiore che trasudava malattia.
Faceva
male vederlo in quel modo, come se la vita gli stesse sfuggendo e lui non
avesse possibilità di fermarla.
«Lei
non può passare, deve aspettare qui».
Nonostante
la voce arrivasse ancora lontana, Burt capì perfettamente che cosa gli aveva
detto uno dei medici e il panico lo avvolse.
«Dove
lo state portando? Vi prego, vi prego è mio figlio!», gridò, senza staccare gli
occhi della barella che si allontanava, ora senza di lui.
«Mi
ascolti, lei non può venire con noi: deve aspettare qui! Suo figlio deve essere
immediatamente operato o l'emorragia potrebbe ucciderlo», spiegò pragmatico il
medico e Burt nonostante tutto notò che qualcosa era cambiato nei suoi occhi:
che cosa gli stava nascondendo?
«Mi
dica la verità: quante speranze ha di farcela? La prego... m-mi dica
s-solo...», balbettò senza forze.
L'uomo
esitò, incerto. Poi sospirò: odiava il suo lavoro in momenti come questi.
«Al
momento non posso garantirle nulla signor...».
«Hummel».
«...Signor
Hummel. La ferità è abbastanza profonda e potrebbe aver lacerato tessuti
interni: per questo motivo c'è bisogno di operare immediatamente, prima che la
perdita di sangue sia troppa. Non posso garantirle nulla. Le faremo sapere
appena avremo finito».
Burt
annuì meccanicamente e osservò distrattamente il medico allontanarsi e sparire
dietro la porta attraverso la quale avevano portato anche Kurt. Si sedette,
improvvisamente stanco, e si ritrovò a stingere con forza il cravattino dorato
che avevano tolto dal collo di suo figlio non appena lo avevano soccorso. Che
cosa stava succedendo? Perché si trovava in quella situazione? Perché ora e
perché suo figlio?
*
L'ospedale
da sempre gli era sembrato uno di quei pochi posti dove si dovesse mantenere un
religioso silenzio, dove anche solo un fiato respirato con troppa forza avrebbe
potuto disturbare qualcuno. Quello che ora si stava svolgendo sotto i suoi
occhi buttava a terra qualsiasi sua precedente teoria o convinzione a riguardo.
La
confusione assoluta, fatta di gente che gridava, uomini e donne in camice
bianco che correvano da una stanza all'altra, vocio concitato e fastidioso
odore di sangue e disinfettante regnava nella hall e pur avendo fatto solo
pochi passi, Finn se ne sentì sopraffatto. Gli mancò il fiato, mentre a stento
riusciva a realizzare tutto ciò che stava succedendo davanti ai suoi occhi.
Sentì la stretta di sua madre attorno al suo braccio e quel gesto parve dargli
un po' di stabilità, facendo sì che si muovessefino alla reception.
«Finn
Hudson», disse alla ragazza che gli offrì un sorriso «Stiamo cercando Kurt
Hummel, lo hanno portato qui poco fa».
Quella
controllò qualcosa al computer per pochi istanti.
«Lo
stanno operando in questo momento. Siete parenti?».
«Sono…
il suo fratellastro, lei è mia madre», spiegò il ragazzo, esitante per la
preoccupazione.
«Mio
marito dovrebbe essere già qui, è venuto con l’ambulanza».
«Credo
lo troverete in corridoio. È da quella parte» ed indicò verso sinistra.
I
due non aspettarono altro e biascicando un sottile “grazie” si precipitarono
verso il corridoio indicato dalla ragazza. Tutto era terribilmente bianco e la
cosa cominciava ad infastidire entrambi: dava un senso di anonimato opprimente,
come se le malattie ed i dolori lì si confondessero e diventassero un solo
grande disagio, opprimente fino a togliere il fiato.
Burt
non era il solo fermo in quel corridoio: svariate persone, molte delle quali
probabilmente coinvolte nello stesso incidente, sostavano appoggiate con la
schiena al muro ed un aria stanca in volto oppure camminavano avanti e indietro
lentamente, per far passare il tempo e tentare di scaricare l’ansia.
L’uomo
se ne stava seduto in disparte, il cravattino di Kurt ancora stretto in una
mano e la testa basta. Sembrava invecchiato di anni in poche ore e Carole sentì
le lacrime salirgli con forza davanti agli occhi alla sola vista di suo marito
in quelle condizioni.
Gli
si avvicinarono con calma, quasi avessero paura di quello che avrebbero visto o
meglio sentito. La donna gli si sedette accanto, attirando la sua attenzione;
Burt la guardò negli occhi per pochi istanti e poi semplicemente si abbandonò
nelle sue braccia: quella era una cosa troppo grande da sopportare da solo,
sapeva di non potercela fare senza la sua famiglia. Sentì Finn sedersi
dall’altro lato e poggiargli una mano tremante sulla spalla.
Finn!
Stava bene, quindi! Si staccò velocemente dalla donna per guardarlo e notando
un graffio che gli tagliava la guancia pallida, lo fiorò istintivamente con il
pollice in un gesto affettuoso che fece sussultare il ragazzo.
«C-come…
sta?», ce la fece a chiedere, il fiato corto e la voce tremante.
Burt
non sapeva bene che cosa dire o come farlo. Era difficile da accettare e
parlarne ad alta voce lo avrebbe reso più reale di quello che già non fosse.
Sospirò, tuttavia, sapendo che non avrebbe potuto esimersi e cercò tutto il
coraggio che gli era rimasto.
«Lo
stanno operando al momento. Ha… ha una brutta ferita all’addome ed una la
testa; ha perso molto sangue… Il dottore con cui ho parlato mi ha detto che…che
non poteva garantirmi nulla ed io non… non so…».
Fu
troppo. Burt comincio a piangere senza più forze, sorretto immediatamente dalla
moglie che lo strinse a sé con amore. Finn non sapeva più cosa pensare: stava
succedendo davanti a loro, Kurt rischiava di morire. Morire. Non aveva idea di
cosa significasse davvero. Certo, non era la prima volta che aveva a che fare
con simili cose – era cresciuto senza suo padre e qualche mese prima c’era
stato il funerale della sorella della Sylvester – ma questo era decisamente
diverso. Ora riguardava suo fratello e lui non poteva fare nient'altro se non
aspettare.
Alzò
la testa, poggiandola al muro e guardando il soffitto bianco dell'ospedale,
cercando un conforto che non sarebbe arrivato.
«Le
ho detto che mi sento bene, deve lasciarmi andare!».
Quella
voce, familiare, distolse l'attenzione del ragazzo dalla cupezza dei pensieri
in cui si stava addentrando. Si alzò dalla sedia e mosse qualche passo verso la
porta dalla quale, socchiusa, gli pareva avesse sentito quella frase.
«Non
sia stupido e resti seduto, devo controllare questi punti e in ogni caso è
troppo debole per muoversi!».
Quella
era la voce di un adulto, probabilmente un infermiere a cui l'altra continuò ad
opporsi.
«Ma
le ho detto che sto bene!».
Finn
si era ormai accostato alla porta, quando questa si spalancò ed un Blaine in
fuga lo urtò sbilanciando entrambi. Fortunatamente il più alto fu stranamente
abile a mantenersi in equilibrio e a non lasciare che l'altro cadesse.
«Blaine!
Amico, come stai?», chiese, abbracciandolo stretto, con bisogno.
«Finn...»,
sussurrò quello, stringendolo a sé con lo stesso sentimento, cercando in quel
contatto un po' di stabilità, qualcosa a cui aggrapparsi. «Hai... hai notizie
di...», tentò.
L'altro
non lo lasciò finire e lo portò con sé, tenendoselo stretto con un braccio
intorno alle spalle, fino a raggiungere di nuovo i suoi genitori. Alla loro
vista, Burt si alzò in piedi con uno scatto improvviso; si avvicinò al ragazzo
e notò subito il taglio profondo che marcava la pelle sopra l'occhio e che i
punti coprivano appena.
«Io...
Kurt? Sapete come sta? Non ero con lui... io non ero con lui...».
L'uomo
capì immediatamente cosa stesse pensando Blaine e si sporse velocemente ad
abbracciarlo.
«Ssh...», sussurrò con voce tremante, «non potevi fare
nulla, sta calmo».
Non
ebbe cuore di dirgli che sarebbe andato tutto bene: non poteva saperlo e non
aveva la forza di illuderlo, né di illudersi.
*
Richarddiede l'ennesimo sguardo dallo specchietto
retrovisore, ma la scena non era cambiata, così come restava ugualmente
immobile il ragazzo che gli stava seduto affianco. Guidava da più di un quarto
d'ora ormai e la cosa stava cominciando a preoccuparlo, soprattutto perché era
da solo con loro tre e non sapeva che cosa sarebbe potuto succedere.
Sebastian
era seduto al suo fianco, ma era come se non ci fosse. Da quando li avevano
fatti uscire tutti nel parcheggio della scuola, non aveva detto più una parola:
si era accasciato a terra, spaventando tutti, e da allora sembrava un oggetto
inanimato, che faceva le cose perché erano gli altri a dargli l'imput, ma non sembrava essere davvero lì o capire quello
che lo circondava.
Dietro
erano seduti Nick e Jeff che, dopo quel bacio davanti a tutti, erano
sprofondati in un mutismo che non aveva nulla di romantico. Nick restava
perplesso, con lo sguardo nel vuoto e ovviamente senza pronunciare parola; Jeff
all'inizio lo aveva tirato a sé, con parole di conforto e sguardo preoccupato,
ma quando quello si era divincolato dalla sua stretta, evitando di guardarlo
negli occhi, anche l'altro si era chiuso in sé, senza dar parvenza che gli
importasse nient'altro di quello che stava succedendo.
Gli
altri ragazzi si erano divisi ed avevano preso alcune auto – per lo più dei
genitori – per raggiungere velocemente l'ospedale alla ricerca di Thad e delle New
Direction e loro tre erano capitati con Richard.
Che
fortuna, si trovò a pensare, prima di rendersi conto di quanto fosse
cattiva una cosa del genere. Alla fine dei conti, anche lui era sconvolto per
tutto quello che era successo – soprattutto per le condizioni di Thad – e se
riusciva ancora a ragionare era solo per una diversa reazione ad una situazione
del genere.
Sospirò
e buttò un'altra occhiata su Sebastian, la cui testa ferma contro il sostegno
del sediolino e il lo sguardo fisso davanti a sé lo inquietavano un pochetto.
Certo che da lui, in ogni caso, non si sarebbe aspettato un comportamento del
genere: sembrava essere il più scosso di tutto, quando era sempre sembrato che
degli altri Warblers non gli importasse nulla.
Anche
le pietrehanno cuore?, non poté trattenersi dal chiedersi
mentalmente – stavolta con pochissimo rimorso, considerato quanto Smythe fosse
stato stronzo con loro e con i Glee Club avversari fino a quel momento. E poi
nell'ultima settimana le cose sembravano andare ancora peggio del solito
proprio con Thad: erano arrivati al punto di non parlarsi, anzi di non prendere
affatto in considerazione l'idea che l'altro fosse nella stessa stanza – o
meglio era stato Sebastian a fare tutte quelle cose, Thad aveva semplicemente
dovuto abituarsi, a malincuore, a quel trattamento, dopo aver provato a porvi
rimedio o almeno a capirne il motivo.
Ed
ora, invece, a guardarlo sembrava che gli fosse caduto il mondo addosso.
Richard
sospirò: quella situazione lo destabilizzava particolarmente ed avrebbe almeno
voluto essere con qualcuno. Sapeva che cosa volesse dire cadere in depressione
e Sebastian in quello stato gli ricordava tremendamente sua sorella, come era
cominciato tutto... e, per quanto gli costasse ammetterlo, la cosa lo
spaventava.
Contro
ogni logica, fu inizialmente sollevato nel vedere la struttura dell'ospedale
stagliarsi sempre più grande davanti a loro: tra poco sarebbe stato con gli
altri, e forse sapendo delle condizioni di Thad anche Smythe si sarebbe
destato.
Parcheggiò
nel posto libero accanto alla vettura guidata da Trent
e scese con un sospiro. Si accorse subito che, però, gli altri passeggeri non
avevano fatto lo stesso e con le dita urtò il finestrino del sedile posteriore,
dal lato di Jeff che si destò quasi subito e sbattendo per qualche istante le
palpebre, come se avesse bisogno di mettere a fuoco, scese con lentezza, seguito
da Nick che uscì però dall'altro lato. Nessuno dei due ruppe il suo mutismo e a
mala pena il biondo lanciò uno sguardo trafilato all'altro che però si era già
avviato verso i ragazzi.
Solo
Smythe era rimasto in macchina, senza rendersi affatto conto del cambiamento di
posto o del fatto che fossero arrivati all'ospedale. Richard fu per qualche
istante indeciso sul da farsi e si voltò a guardare quelli dei Warblers che
erano rimasti indietro ad aspettarli. Cameron intercettò il dubbio nei suoi occhi
chiari e gli fece cenno di aprire la portiera e destarlo, avvicinandosi anche
lui, nel caso in cui ci fosse bisogno di aiuto.
«Sebastian?
Siamo arrivati, puoi scendere», tento di destarlo, senza ottenere risposta.
Quando
provò a scuoterlo, portando una mano alla spalla di quello, si accorse con
malcelato spavento che stava tremando. Gli mancò il fiato: succedeva anche a
lei, spesso, di tremare così. Respirò con fiato spezzato, mentre realizzava che
la sola cosa che voleva fare era scappare lontano, che aveva paura e che in
ogni caso non sarebbe potuto essere d'aiuto – lo sapeva.
«Tranquillo.
Non agitarti».
La
voce alle sue spalle lo colse di sorpresa e lo fece sussultare. Si voltò di
scatto alla sua destra e si scontrò con il sorriso sincero di Cameron. Restò
così a fissarlo per alcuni istanti, con l'impressione che gli mancasse il fiato
e non fosse in grado di respirare; poi il calore della mano di Cameron sulla
sua, che ancora cercava di destare il ragazzo in macchina, lo fece riprendere
del tutto.
Lo
ringraziò con un sorriso: sarebbe perso senza lui – ne era certo, aveva avuto
modo di constatarlo.
«Sebastian?»,
sentì chiamarlo anche da lui, ma non ebbe ugualmente effetto.
Convennero
quindi che fosse meglio tirarlo direttamente fuori della macchina, nella
speranza che un simile gesto lo destasse almeno un po'. Lo presero per le
braccia e fecero in modo che si mettesse in piedi – fortunatamente era in grado
di star su da solo, era un progresso.
«Siamo
in ospedale», provò ancora Richard «Mi senti? Siamo qui per Thad...».
Qualcosa
parve rompersi in quel momento, un attimo dopo che quel nome fu pronunciato e
non ci volle molto perché i due lo capissero. In un qualche strano ed assurdo
modo, Sebastian doveva – forse inconsciamente – tenere al suo compagno di camera...
e certo, suonava strano, ma sembrava la sola spiegazione per quella reazione.
Perché il ragazzo alzò la testa e parve vederli davvero prima di avviarsi con
loro per raggiungere il resto dei Warblers.
«Non
è la stessa cosa, lo sai, vero?», sussurrò Cameron, avvicinandosi di più a
Richard.
«Tu
non sai come comincia. Non saranno gli stessi motivi... ma erano terribilmente
simili», lo smentì questi; l'altro scosse la testa.
«Non
farti trascinare giù».
«Ci
proverò», gli sorrise un po' stanco il diretto interessato.
«Ed
io con te», promise Cameron.
Quando
furono nella hall dell'ospedale, non ci volle tanto per trovare i ragazzi: le
loro divise spiccavano in tutto quel caos e anche se sgualcite, sporche e
stracciate in vari punti, sembravano fuori posto, troppo in ordine per quello
che era successo.
«Per
la terza volta: no, non potete vederlo per adesso, primo perché è ancora in
sala operatoria e secondo perché non siete parenti. Se sarà possibile oggi, lo
vedrete nell'orario delle visite, dalle 5:00, altrimenti dovreste attenervi
alle disposizioni dei medici», stava dicendo con un tono tra il nervoso e lo
scocciato una delle infermiere.
«E
fino ad allora non possiamo sapere come sta Thad?», chiese, quasi gridando
Flint.
«No,
se non siete parenti», ripeté quella con lo stesso tono.
«Questo
è assurdo: siamo i suoi migliori amici!», si lamentò Trent,
ma la ragazza li aveva già lasciati, impegnata com'era a causa dell'incidente.
«Immagino…
immagino che la sola cosa da fare sia aspettare…» Suggerì Cameron, prendendo
posto sul primo sediolino libero, seguito da Richard e Flint, che però
continuava a borbottare su quanto fosse assurdo non poter sapere nulla solo
perché non si aveva lo stesso sangue nelle vene – i Warblers erano una
famiglia, non c’era bisogno di legami di sangue per considerarsi tale.
Gli
altri rimasero a girovagare, ognuno in compagnia dei propri pensieri e la sola
nota positiva – se così poteva dirsi – era che Sebastian sembrava aver ripreso
un po’ di colorito e se anche non aveva ancora pronunciato parola, anche lui
aveva preso a muoversi lentamente, immerso in chissà quale pensiero.
È un progresso, si disse Cameron,
guardando poi il suo compagno di stanza con un sorriso incoraggiante. Quello
ricambiò il gesto con un po’ di esitazione: per quanto agli occhi di tutti
sembrasse forte, c’erano cose del suo passato che avevano ancora il potere di
spaventarlo, come incubi dai quali non riesci a svegliarti. Vedere lentamente
la propria sorella sprofondare nella depressione, assistere ad un suo tentativo
di suicidio era una di quelle cose.
Richard
non ne aveva mai fatto parola con nessuno alla Dalton, almeno non all’inizio.
Era arrivato all’inizio del suo primo anno e tutti si sarebbero aspettati
grandi energie e anche un carattere estroverso e strafottente da un ragazzo
della sua stazza, ma quello che avevano trovato era introversione e passione
per la musica. I primi tempi nessuno pareva capirlo, nessuno tranne il suo
compagno di stanza, Cameron.
Forse
era stata la sua discrezione, la sua calma o la sua gentilezza; magari lo
avevano convinto i tratti asiatici, ma Cameron era stato la prima persona con
cui si era aperto, la prima a cui avesse parlato di Annie e quello che poi lo
aveva aiutato a fidarsi degli altri. Avere Cameron era come essere certo di non
essere solo, mai ed anche stavolta gli aveva dimostrato di essere
indispensabile nel momento di bisogno.
«Nick,
Jeff…».
Una
voce, un sussurro porto di nuovo tutti i ragazzi con la testa all’ospedale e al
corridoio in cui sostavano. Una donna sulla cinquantina, tenuta stretta da un
uomo leggermente più vecchio, stava spostando lo sguardo su di loro ed aveva
appena riconosciuto Duvall e Sterling.
I
due ragazzi si voltarono e dopo un attimo di esitazione riconobbero la coppia.
«Signori
Harwood!», esclamarono in contemporanea e no, non fu la scelta migliore
guardarsi, perché Jeff lesse qualcosa negli occhi di Nick, qualcosa che ebbe il
potere di spezzarlo dentro.
Abbassò
la testa e restò in silenzio: il terrore che aveva letto negli occhi dell’altro
non aveva nulla a che fare con l’esplosione o con le condizioni di Thad.
«Avete
avuto notizie di Thad?», gli sentì chiedere ai coniugi.
La
donna sospirò tremante e si stinse un po’ più al marito.
«È
stato fortunato. Così hanno detto i medici. Aveva… una ferita preoccupante
a-alla spalla, ma sono riusciti a fermare l’emorragia e… l’hanno ingessata», un
singhiozzo sfuggì al suo controllo prima che potesse continuare «Ha perso molto
sangue e per q-questo lo terranno in terapia
intensiva per almeno ventiquattro ora. Se-se tutto va bene, lo sposteranno
poi in reparto», concluse a fatica.
«Voi
ragazzi come state?», chiese l’uomo con affetto, nel vederli così sconvolti
dalla situazione.
«Bene,
noi…».
A
Flint mancarono le parole per dire una smile cosa. Perché non era vero, non
stavano bene… semplicemente non avevano ancora del tutto realizzato la cosa.
Tremavano a tratti e i rumori forti li spaventavano: sarebbero voluti tornare
nelle loro case e stare con i loro genitori, che trovandosi nell’Auditorium
erano stati tutti terribilmente fortunati, ma le condizioni di Thad – e delle New Direction,
ricordarono improvvisamente – li avevano spinti fin lì, probabilmente a causa
dell’adrenalina che ancora li stordiva e aveva impedito loro di crollare.
«Siamo
qui», intervenne James con un sorriso tirato «Non è per noi che deve
preoccuparsi, signore».
La
donna gli accarezzò una spalla e si sedette accanto a Jeff che però non ebbe la
forza di sorriderle, neanche per cortesia. Lei non se ne rammaricò: era
comprensibile, dopo tutto quello che era successo, che fossero sconvolti.
«E
il nuovo compagno di stanza di Thad? Dov’è?», chiese, con quel tono familiare
che solo le madri sanno avere, non importi in che situazione si trovino.
Sebastian,
che pur non muovendosi, né rivolgendo lo sguardo ai nuovi arrivati, non aveva
perso una sola delle parole della donna, si alzò istintivamente, avvicinandosi.
«Sono
qui», sussurrò con meno forza di quella che avrebbe voluto.
«Eccoti,
sì: sei proprio come ti ha descritto», disse quella rivolgendogli un nuovo
sorriso «Sarai preoccupato per lui, immagino, ma c’è una cosa che devi sapere
su Thad: può sembrare fragile, fin troppo permissivo o gentile, ma è forte, più
forte di molti altri. E se vuole qualcosa fa di tutto per averla. Si riprenderà
in fretta… lo so, è il mio bambino».
Sebastian
avrebbe voluto gridarle che si sbagliava, che non era affatto preoccupato, che
non aveva bisogno di essere rassicurato riguardo il suo compagno di camera.
Avrebbe voluto gridarlo, così forse se ne sarebbe convinto anche lui. Ma tutto
quello che fece fu annuire e tornare a sedersi, un po’ più in là rispetto agli
altri, come suo solito.
Non
era spaventato, era terrorizzato. Da
quello che era successo al McKinley, dalle condizioni di Thad e da quello che
sentiva. Si sentiva improvvisamente vulnerabile e debole ed era una cosa che lo
irritava, oltre a confonderlo.
E
l’unico motivo, alla fine dei conti, era proprio Thad.
*
«Sì,
mamma, te l’ho detto: sto bene», sospirò per l’ennesima volta il riccio.
«Se fossi andato alla Dalton, invece che a
questa scuola pubblica da quattro soldi, tutto questo non sarebbe successo», sentì
dire da suo padre, con tono d’accusa.
«Mamma,
per favore potresti dirgli che sarebbe stato lo stesso dal momento che sono
rimasti coinvolti anche loro?», chiese stanco Blaine.
«Sono rimasti coinvolti anche loro?»,
chiese invece la donna, nuovamente allarmata «E come stanno? Qualcuno è ferito?».
Il
ragazzo rimase per un momento interdetto. Qualcuno era rimasto ferito? Non lo
sapeva: tra la sua ferita e le condizioni di Kurt, non aveva avuto il tempo di
chiedere come stessero gli altri; si sentì in colpa: erano i suoi amici
dopotutto e sarebbe dovuta essere una delle prime cose da fare!
«Io…
io non lo so ancora, mamma», confessò con un sussurro.
«Va bene, tesoro. Noi ora dobbiamo andare.
Qui è quasi sera e ci aspetta una cena importante: non esitare a chiamare se ci
dovessero essere novità», concluse quella.
Blaine
non ebbe neanche la forza di salutarla e chiuse direttamente la chiamata. Che cosa
si aspettava? Che si sarebbero precipitati da lui col primo volo perché la sua
scuola era crollata e lui era rimasto ferito?Finché era vivo e tutto sommato stava bene non c’era bisogno che
tornassero, no? Poteva benissimo cavarsela da solo, era un uomo ormai.
Poco
contava se il suo ragazzo stesse male – cosa di cui, ad ogni modo, si era ben
guardato dal dire per non aprire nuove polemiche – o se fosse così sconvolto da
continuare a tremare. Erano cose con cui avrebbe dovuto vedersela lui: loro non
potevano farci nulla.
Sospirò,
posando il cellulare e dando uno sguardo al grande orologio appeso in
corridoio: c’era così tanto silenzio in quel momento che poteva sentirlo mentre
scandiva i secondi.
«Stanno
venendo?».
La
domanda di Finn lo fece sussultare: aveva quasi dimenticato la presenza della
famiglia di Kurt e di praticamente tutte le New
Direction e ovviamente tutti avevano ascoltato la
sua parte di conversazione.
Sorrise
lievemente al ragazzo e fece un cenno di diniego con la testa.
«Viaggio
d’affari in Europa, non si libereranno prima di una settimana», spiegò breve e
sperò che capissero.
Vide
qualcuno dei ragazzo sporgersi, probabilmente pronti a dire qualcosa
sull’assurdità di quelle parole, ma Burt gli poggiò semplicemente una mano
sulla spalla, stringendola con affetto e guardandolo serio. Lui capiva, lui
aveva capito da sempre e per questo non avrebbe detto nulla: a che sarebbe
servito sdegnarsi per un simile comportamento, dire quanto fosse poco da
genitori o commiserarlo? Erano cose che certamente Blaine sapeva e che non
aveva bisogno di sentirsi dire ancora una volta. Burt voleva solo che sapesse
che lui, che loro erano lì.
Per
la prima volta da ore, il riccio sorrise con sincerità: Kurt aveva un padre
grandioso, non si sarebbe mai stancato di dirlo.
«Blaine!».
Il
ragazzo si voltò, come tutti gli altri, verso la voce che lo aveva chiamato,
per riconoscere Nick e Jeff che, a passo svelto, si dirigevano verso di lui,
seguiti da una terza figura qualche passo più dietro, che non riconobbe subito.
«Ragazzi!»,
si sporse per abbracciarli stretto, rendendosi conto solo in quel momento di
quanto fosse stato anche solo istintivamente in pensiero per loro «Come state?
Siete tutti qui?».
I
due Warblers esitarono, poi si fecero
coraggio a parlare.
«Noi
stiamo bene… gli altri sono qualche corridoio più in là… sai… per Thad…»,balbettò Nick.
Blaine
si sentì mancare. Che cosa era successo a Thad?
«Lo
hanno operato», continuò Jeff, parlando per la prima volta da quando erano
arrivato «Sta meglio ora… ma eravamo tutti spaventati e non sapevamo dove
fossi, perciò…».
All’ex
Warblers non servì altro per capire: anche a loro era successa la stessa cosa.
Li strinse di nuovo a sé e per un attimo gli parve di dimenticare perché lui
invece fosse lì senza possibilità di muoversi. Solo per un attimo.
«E
tu?», chiese Nick ovviamente notando il profondo taglio sul sopracciglio
dell’amico.
«Io
sto bene», gli si incrinò la voce «Noi siamo qui per Kurt», le lacrime
premettero per uscire.
I
due ragazzi rimasero interdetti: stavolta la paura invase loro, accresciuta
dalla reazione di Blaine e dal fatto che non si fosse affrettato come loro a
tranquillizzarli per le condizioni del suo ragazzo.
«Lo-lo
stanno ancora operando e…non sappiamo nulla», disse quello, cercando di non
piangere davanti a loro.
«Oh,
Blaine…».
Fu
un sussurro appena accennato, ma nel silenzio di un simile posto non poté non
essere avvertito da tutti, che si voltarono verso la terza figura che si era
avvicinata loro insieme ai due Warblers. Il riccio sussultò: tutti si sarebbe
aspettato di vedere, davvero tutti, tranne lui.
«Cooper…».
Il
ragazzo gli si avvicinò e lo abbracciò stretto, gesto che però il minore non
ricambiò, cercando, invece, di divincolarsi per poterlo guardare negli occhi.
«Cooper
che diavolo ci fai qui?!», quasi gridò, gli occhi che ancora trattenevano le
lacrime, ma la voglia di piangere che, invece, era del tutto scomparsa,
sostituita da uno scatto di rabbia.
«Ho
sentito la notizia alla TV e non ero così lontano, quindi mi sono precipitato
qui arrivando in breve tempo. Ho incontrato quei ragazzi e, riconosciute le
divise della Dalton, ho pensato che potessero sapere dov’eri».
«Scusa,
Blaine, ma lui chi è?», si intromise Rachel, senza potersi trattenere.
«Quando
se ne ricorda, è mio fratello», rispose quello, con amarezza; il maggiore degli
Anderson abbassò lo sguardo: si aspettava una simile risposta, non poteva
negarlo, ma sentirla dire da suo fratello faceva comunque male.
«Non
avevo mai visto il fratello di Blaine».
Jeff
interruppe il silenzio in cui il corridoio era di nuovo sprofondato dopo l’arrivo
di Cooper, quando questi si era seduto accanto al fratello e altro aveva preso
ad ignorarlo, senza staccare gli occhi dalla porta della salaoperatoria da cui sarebbe dovuto uscire il
dottore.
Il
biondo si era sporto verso il compagno di camera e lo aveva sussurrato
abbastanza vicino al suo viso, per essere sicuro di attirare la sua attenzione
in un modo o nell’altro.
Quello
infatti sussultò, ma non parlò, facendo sospirare il primo.
«Si
può sapere almeno che ti ho fatto?», si decise a chiedere «È per il… bacio? È per
quello che ora non mi parli?».
Nick
trasalì al ricordo di quel gesto e portò istintivamente gli occhi in quelli di
Jeff – avrebbe voluto che non fosse così, ma la verità era che aveva davvero
sofferto ad evitarli per tutto quel tempo e gli erano mancati.
Gli
era mancato Jeff.
«Ero…
ero sollevato dal fatto che tu stessi bene. Ero felice. Ecco tutto», spiegò
«Solo questo. Voglio che sia chiaro che è stato solo questo».
Qualcosa
in Jeff si ruppe definitivamente: sentirlo dire da lui era la cosa più crudele
che potesse capitargli. E non era vero, lo sapeva che non era vero… insomma non…
Non piangere. Non piangere, Sterling! si
impose e riuscì a trattenere le lacrime, anche se con difficoltà.
Era
solo sollevato. Niente di più. Avrebbe convissuto con quella bugia. Poteva farcela.
Ad
un tratto passò improvvisamente tutto in secondo piano, quando un uomo in
camice bianco uscì dalla sala operatoria e la famiglia Hummel-Hudson scattò in
piedi, seguita da Blaine.
«Come
sta?», chiese con urgenza Burt.
«Lei
è il padre?», volle accertarsi quello; continuò solo quanto l’uomo annuì
«Abbiamo fatto il possibile. l’emorragia allo stomaco era davvero grave ed
abbiamo dovuto applicare una segmentectomia al
fegato, asportandone una parte.
Ha perso molto sangue e al momento è entrato in coma».
Blaine sentì, come tutti, il
mondo cadergli addosso.
Kurt, il suo Kurt, rischiava di
non svegliarsi mai più.
__________________________
Non
uccidetemi vi prego! *cerca un posto in cui nascondersi*. Lo so, lo so che sono
ancora in ritardo, ma anche questo capitolo è stato davvero un parto e non
avere un plot o una scaletta è destabilizzante xD Ad
ogni modo vi chiedo scusa, per il ritardo e per tutto l’angst
che ho inserito anche in questo capitolo… sembra che non possa farne a meno,
eh? >///<
In
particolare voglio scusarmi con i fans Niff. Lo so
che inserire il ben che minimo problema tra i due è un enorme sacrilegio… e ve
ne chiedo infinitamente scusa… ma insomma, pensavate davvero che se ne
sarebbero stati calmi calmi in tutto ciò? *ghigna* Anyway, keepcalm
and stillbelieve!
E
poi… che ne dite di Richard e Cameron? Non so come sia uscito fuori, ma
improvvisamente li ho resi shippabili! Bah, mente
malata, sapete?
Né
la Thadastian che la Klaine se la passano bene,
insomma e l’arrivo di Cooper non pare essere positivo per il momento… Insomma quando
pensate che non possa andare peggio, va peggio!
Cooper era sempre stato elogiato per i
riflessi pronti e gli scatti da fermo di cui era capace, cose che, se sei il
capitano della squadra scolastica di football, sono decisivi per il match.
Ma mai avrebbe pensato che simili doti gli
sarebbero state utili per prendere in tempo suo fratello, che dopo le ultime
parole del dottore, semplicemente si era accasciato e avrebbe impattato col
suolo se lui non si fosse lanciato afferrandolo saldamente.
Col cuore che martellava all'impazzata, si
adagiò per terra, con suo fratello stretto tra le braccia e un groppo che
prendeva sempre più consistenza all’altezza della gola. Un infermiere gli si
avvicinò con una certa fretta e cercò di aiutarlo, prendendo il minore, ma
Cooper scattò come se in realtà volesse fargli del male.
«Lo lasci, me ne occupo io!», gli gridò,
facendo voltare tutti e lasciando interdetto l'uomo «Sono suo fratello»,
ribadì, come se la cosa lo rendesse in grado di prendersene cura in qualunque
circostanza.
L'infermiere lo guardò ancora per qualche
istante, indeciso su cosa fare, poi se ne andò con un'alzata di spalle,
lasciandoli lì. Il maggiore si lasciò andare a un sospiro di sollievo, quasi
avesse davvero salvato suo fratello e poi, scivolando sul pavimento, tirò
entrambi fino a far appoggiare la propria schiena contro il muro, tenendo
Blaine quanto più sollevato possibile, facendolo posare contro il proprio
petto. Gli scostò i capelli umidi dalla fronte e si accorse immediatamente del
taglio sopra l’occhio – lo sfiorò con calma e delicatezza, per poi scendere al
viso sporco di polvere e di pianto e solo allora una lacrima rigò anche la sua
guancia. Il suo fratellino era cresciuto, quasi stentava a riconoscerlo in quel
corpo da uomo e lo odiava perché non gli era stato accanto nei momenti più
difficili.
Si odiava anche lui per questo.
«Forse sarebbe stato meglio lasciarlo alle
cure dell'infermiere...», suggerì Puck, che in tutto quel caos non sapeva più
per chi essere preoccupato.
Cooper gli riservò uno sguardo sprezzante
di fastidio.
«No. Sono suo fratello, so prendermi cura
di lui», rispose acido.
«Come hai fatto fino ad ora, insomma», lo
attaccò stavolta l'altro, perché stava davvero cominciando a perdere le staffe
e non gli era sfuggita la poca gioia che Blaine aveva mostrato non appena lo
aveva visto – il fatto che ora a quel tizio fosse venuta voglia di giocare al
fratello maggiore gli dava sui nervi.
Anderson sussultò a quella frase, come se
fosse stato colpito con un coltello. Aveva ragione: non c'era mai stato per
Blaine negli ultimi anni, perché ora il suo intervento avrebbe dovuto contare
qualcosa?
«Sto... solo cercando di rimediare. Tu non
sai nulla di noi, non intrometterti!».
Avrebbe voluto rispondere con meno rabbia e
sgarbatezza, ma non era stato capace di trattenersi, nonostante l'unico con cui
avrebbe davvero voluto prendersela era se stesso. Strinse con più forza suo
fratello, e avrebbe voluto davvero che le sue scuse fossero abbastanza da
rimettere tutto a posto. Ma sapeva bene che non era così.
«Vi pare il mo-momento?».
La voce così incrinata e sporca di pianto
di Finn attirò l'attenzione di tutti sulla famiglia Hummel-Hudson che dal
momento in cui aveva davvero realizzato che cosa fosse successo, non aveva
detto una parola. Burt si era semplicemente riseduto sulla sedia, con lo
sguardo perso nel vuoto, senza fiatare, né fare nulla: lo shock aveva bloccato
ogni cosa; Carole gli stava accanto, il viso rigato dalle lacrime e una mano
che massaggiava quelle del marito, mentre gli sussurrava inutili parole di
conforto, anche solo per tentare di riscuoterlo.
Finn invece non si era mosso di un
centimetro. Era rimasto lì, in piedi, senza neanche accorgersi del fatto che
Blaine avesse perso i sensi o dell'intervento di Cooper. Le voci del battibecco
gli erano arrivate lontane, ovattato dal dolore e dall'incredulità in cui era
sprofondata. Aveva continuato a ripetersi che era solo un incubo, che davvero
non era possibile che una simile cosa fosse accaduta a loro, fino a che
l'esterno non gli era piombato addosso con le parole urlate dai due contendenti
e lo aveva turbato quasi più delle ultime notizie ricevute.
Suo fratello era in coma e loro litigavano
come se nulla fosse. Era una cosa che non avrebbe sopportato oltre – di questo
era certo.
«Scusa, Finn.. Io...», si pentì
immediatamente Puck e anche Cooper si sentì davvero in colpa – avrebbe dovuto
avere un po' di considerazione per quella famiglia e dopotutto il fatto che
quel ragazzo – Kurt? – fosse entrato in coma era il motivo per cui anche suo
fratello era in quelle condizioni.
Restò in silenzio, troppo in imbarazzo per
dire qualcosa, e prese a concentrarsi su Blaine, ancora incosciente tra le sue
mani. Doveva farlo rinvenire. Con dei lievi colpetti sul viso cercò di
riscuoterlo e quando vide che le cose non cambiavano, prese a chiamarlo.
«Blaine? Hey,
fratellino? Blaine, avanti apri gli occhi...».
Stava sul serio cominciando ad avere paura,
quando le palpebre del riccio si mossero per poi spalancarsi, gettando sguardi
d'ambra a tutto ciò che lo circondava. Per qualche istante Blaine ci sperò
davvero, che fosse stato solo un brutto incubo, ma quando riconobbe l'ospedale
e Cooper, la realtà tornò a schiacciarlo come non mai.
Non resistette oltre e scoppiò in un pianto
dirotto tra le braccia di suo fratello – non che gli importasse, in quel
momento non contava altro che piangere, perché sentiva che se non l'avesse
fatto sarebbe potuto scoppiare.
«Non posso perderlo, capisci?!», gridava
con voce indecifrabile «É la sola cosa buona che c’è nella mia vita... io non
posso perderlo! Non avrebbe più senso nulla... Cooper non posso perderlo!»,
continuava a gridare come un forsennato e il maggiore degli Anderson avrebbe
così tanto voluto promettergli che non sarebbe successo, che Kurt sarebbe stato
bene, ma la sola cosa che riuscì a fare fu stringere il più piccolo a sé e
tentare inutilmente di calmarlo.
Rachel, singhiozzando, strinse a sé Finn
che davvero non avrebbe voluto apparire tanto abbattuto, ma ancora non riusciva
a credere a quello che stava succedendo. Avrebbe voluto prendere suo fratello e
scuoterlo come aveva fatto Cooper fino a farlo svegliare tra le sue braccia;
allora gli avrebbe sussurrato che l'incubo era finito, che da allora tutto
sarebbe andato bene – avrebbe potuto farlo, perché sarebbe finalmente stata la
pura e certa verità.
Le restanti New Direction
si aggiravano nel corridoio più o meno tutti nelle stesse sconvolte condizioni.
Alcuni erano stati raggiunti dai genitori, ma dopo averli rassicurati, avevano
preferito restare con gli Hummel-Hudson ad aspettare che si sapesse qualcosa di
più di Kurt: per il momento non permettevano ancora a nessuno di vederlo.
Il professor Shuester
si era fatto medicare il taglio al braccio e dopo aver rassicurato per una
buona mezz'ora Emma sulle proprie condizioni e su quelle generali – senza tuttavia
entrare nei particolari per non farla agitare inutilmente, dato che non poteva
muoversi – aveva raggiunto i ragazzi, informandosi delle condizioni di Kurt e
offrendo il proprio sostegno a chiunque lì ne avesse bisogno.
«Sai, dovresti farti guardare quella
ferita», disse, rivolgendosi a Jeff, che dopo le brutte notizie riguardo Kurt
era rimasto in quel corridoio con Nick in attesa di novità.
Il biondo lo guardò come se ci stesse
impiegando del tempo per capire a cosa si riferisse e in effetti non disse
nulla fino a che l'uomo non gli indicò la gamba che recava una fasciatura rozza
e sporca di sangue. Come aveva fatto a dimenticare di essersi ferito? In
effetti bruciava e pulsava non poco, ma si accorse di sentirla davvero solo
facendoci attenzione: tutto quello che era successo, la catasta di cattive
notizie che continuava a cader loro addosso e le parole di Nick avevano fatto
in modo che non provasse nulla di definito, come se non fosse davvero lì
insieme agli altri e faticasse ad entrare nella scena.
«Io... lo farò, grazie», rispose,
probabilmente più per meccanica cortesia che per altro – tornò, infatti,
immediatamente a fissare il vuoto davanti a lui.
*
Dal vetro della stanza, osservava i due
adulti accanto al figlio con attenzione meticolosa, come se avesse voluto
imprimere nella sua mente tutti i particolari. L'affetto con cui la donna gli
accarezzava il volto, il pallore di quei lineamenti; la paura con cui l'uomo
invece gli teneva la mano, la fragilità di quella pelle invasa da tubicini e
sonde così estranee ad essa da sembrare invasori da scacciare con rabbia.
Osservava. Si limitava a quello. Non
sarebbe mai entrato, non l'avrebbe mai accarezzato, non avrebbe mai tenuto
quella mano. Non ne aveva alcun diritto e dopotutto non voleva farlo.
Oh, se avesse voluto farlo!
No, la verità era che non si sarebbe mai
permesso di farlo. Non lui, non Sebastian Smythe. Doveva innanzitutto fare
chiarezza nella sua testa, mettere in ordine le cose, tornare in sé e solo
allora si sarebbe concesso un qualunque gesto che fosse più avventato del
respirare o guardare. Perché ora non era lucido e Dio solo sapeva a cosa si
sarebbe lasciato andare, se solo non avesse avuto questo saldo controllo di sé.
Quindi meglio star fermi.
E poi, in fondo, non c'entrava nulla con
quel quadro familiare. Loro erano le persone che più tenevano a Thad, quella
che avrebbero fatto di tutto per lui e che non si sarebbero allontanate
pernessuna ragione al mondo. Lui... lui
no, lui non aveva fatto altro che trattarlo male ed tenerlo a debita distanza.
Lui non aveva mai usato parole di cortesia e di certo nessuno dei due avrebbe
potuto dire di poter contare sull'altro, neanche come conoscente.
Probabilmente, se Thad di fosse svegliato e l'avesse trovato accanto al proprio
letto, gli avrebbe semplicemente chiesto con disgusto cosa diavolo ci facesse
lì, per poi mandarlo via – e in fondo non era la stessa cosa che aveva già
fatto anche lui?
Il pensiero di rivederlo sveglio
improvvisamente gli tolse il fiato. Si accorse che davvero in quel momento non
avrebbe voluto altro che vederlo scherzare con gli altri Warblers e rassicurare
i suoi genitori, sorridere con semplicità e grattarsi la nuca con imbarazzo per
qualche aneddoto carino che la signora Harwood si sarebbe lasciata scappare con
qualcuno dei suoi amici.
No, lui non c’era in quella scena, non gli
importava esserci, non del tutto. Gli sarebbe bastato restare lì come
spettatore.
Non si accorse neanche per un attimo di non
essere solo un osservatore, ma anche un osservato: poco lontano da lui, seduto,
Richard non gli aveva staccato gli occhi da dosso. Ne studiava anche lui i
lineamenti ed ogni minima parvenza di movimento con attenzione meticolosa, come
se si aspettasse qualcosa da un momento all’altro.
«Sta reagendo bene».
La voce di Cameron non lo fece spaventare,
nonostante fosse così concentrato da non essersi accorto del momento in cui non
era stato più solo sui sediolini di plastica del corridoio.
«Sono uno stupido», sospirò, guardando il
suo compagno di stanza per un attimo, prima di abbassare gli occhi sul pavimento.
«E perché?», si sorprese quello «Solo
perché hai pensato che Smythe avrebbe potuto star male per questa cosa, non
significa di certo che sei stupido! Anzi, mostra quanto tu tenga davvero a
tutti i tuoi amici».
«Io... ero certo che avrei visto nei suoi occhi
lo stesso sguardo vuoto e la voglia di non fare nulla. Ero sicuro di sapere
come sarebbe finita e la cosa mi terrorizzava».
Cameron sospirò, facendosi improvvisamente
serio: doveva aspettarsi che una simile cosa, in un modo o nell'altro, avrebbe
destabilizzato Richard e anche se Sebastian stava bene, questo non aveva
evitato i mille pensieri che ora affollavano la testa del suo amico.
«È una cosa normale! Non serve farsi
problemi per questo: quello... quello che è successo a tua sorella... non è una
cosa che si supera così, in poco tempo–».
«Anni, Cam. Ci ho
messo anni e a quanto pare non mi è ancora passata», lo interruppe quello.
«Sai, credo sarà una cosa che, nel bene o
nel male, ti porterai sempre dietro. Sta a te, però, lasciare o meno che ti
condizioni così tanto. Non c'è nulla di sbagliato nell'aver avuto paura di
quello che sarebbe potuto succedere a Sebastian... l'importante è che non hai
dato di matto», tentò di scherzare per risollevarlo di morale.
«Questo solo perché tu mi hai calmato», gli
fece notare in modo scoraggiato.
«Arriverà il momento in cui saprai fare
tutto da solo e non avrai più bisogno di me», lo rassicurò Cameron, ma Richard
lo guardò improvvisamente serio.
«Non farò mai a meno di te», gli promise.
Sorrisero poi entrambi, come se per un
attimo quasi potessero dimenticare a quale pericolo erano appena scampati e
come alcuni dei loro amici, invece, erano stati meno fortunati. Erano quei
pochi istanti che spesso si intromettevano fra loro, senza un preciso preavviso
e li facevano sentire bene. Solo loro due. Tutto il resto scompariva.
Il rumore della porta della sala intensiva
che si chiudeva mise fine a quegli istanti, riportandoli senza alcun rimpianto
alla situazione in cui si trovavano. Si alzarono entrambi, raggiungendo l'altro
Warbler che non aveva ancora avuto la forza di dire nulla alla donna – questa
aveva sorriso verso di lui, poi si era appoggiata al vetro, osservando il
marito che ancora teneva la mano di Thad. Era difficile separarsi, ma la
signora Harwood aveva sentito l'improvviso bisogno di prendere aria, o avrebbe
rischiato di impazzire lì dentro.
«Vuole che le vada a prendere qualcosa da
bere? Magari una camomilla?», chiese gentile Sebastian, perché certo, era
stronzo, ma sapeva quando essere educato e soprattutto con chi.
La donna gli sorrise, scuotendo appena la
testa.
«Non preoccuparti, basterà una bottiglina
d'acqua» e Sebastian si allontanò verso il distributore prima che la madre di
Thad potesse anche solo pensare di mettere mano al portafoglio.
Si fermò davanti al primo che trovò, dopo
una svolta in fondo al corridoio, ricordandosi solo allora, guardando le
diverse marche di acqua, di non aver chiesto alla donna se avesse una qualche
preferenza particolare, né se di solito la prendesse liscia o gasata. Optò per
la prima, che essendo quella comune non avrebbe dovuto dispiacere in nessun
caso e ne prese per sé una gasata, così al limite avrebbe potuto fare cambio.
Le bottigline scesero con una lentezza
assurda, facendo poi un botto che non ci si aspetterebbe da cose così piccole.
Il ragazzo le raccolse con pigrizia, sussultando lievemente al freddo che
portavano e si mosse di nuovo verso la stanza del reparto davanti alla quale
era statofermo per non sapeva più
quanto tempo.
Camminando, notò che Nick e Jeff erano
fermi a pochi passi dalla stanza: sapeva che avevano accompagnato il fratello
di Blaine dalle New Direction
e per un attimo si chiese se ci fossero stati feriti anche tra di loro. Poi
notò che qualcosa fra i due non andava. Nick si muoveva freneticamente avanti e
indietro, mentre Jeff se ne stava appoggiato al muro senza fare o dire nulla.
Nonostante tutto quello che era successo, non aveva potuto fare a meno di capire
che le cose fra loro, dopo il bacio che si erano scambiato fuori dal McKinley,
non stavano andando affatto bene – e l'esplosione doveva c'entrarci davvero in
minima parte.
Era stato tra i primi a sostenere che c'era
un legame particolare tra di loro e credeva che alla fine il mistero fosse
stato svelato; invece, le cose parevano essere peggiorare. Si fermò poco
lontano da loro, colto da una curiosità che non gli apparteneva così tanto, ma
a cui in quel momento non aveva saputo resistere.
All'improvviso Nick si fermò, come se
avesse finalmente trovato la risposta a qualcosa di davvero importante, e si
voltò verso il compagno che sembrava ad anni-luce da quel corridoio.
«Jeff», lo chiamò, prendendolo per le
spalle e costringendolo a guardarlo negli occhi «Voglio che tu mi prometta una
cosa», la voce gli tremò.
Anche il biondo sussultò a quella
richiesta, ma al momento aveva così poche forze che avrebbe davvero accettato
di tutto.
«Qualunque cosa accada, voglio che tu mi
prometta che noi saremo sempre migliori amici, che niente potrà cambiare
questo. Me lo prometti?»
Jeff sbiancò. Sapeva esattamente che cosa
in realtà Nick gli stava chiedendo: non voleva che il loro rapporto cambiasse,
né in peggio, né in meglio. Gli stava dicendo di non farsi strane idee, che
sarebbero potuti essere solo amici, migliori amici, ma nulla più. Lo stava uccidendo.
E Nick in quel momento di odiava, si odiava
perché sapeva quanto anche l'altro stesse soffrendo – perché era ovvio che
avesse capito ogni cosa –, ma non era in grado di fare diversamente: la paura
di perdere ogni cosa, in quel momento, era troppo forte. In una giornata era
stato come se il mondo gli fosse crollato addosso e Jeff era rimasto il suo
unico punto fisso: per nessuna ragione al mondo lo avrebbe alterato, in nessun
modo.
«Io... io lo prometto».
La voce del suo compagno di stanza, del suo
migliore amico non aveva mai fatto tanto male come allora. Avevano accettato
entrambi qualcosa di falso, qualcosa a cui Nick potesse aggrapparsi con
disperato bisogno e che Jeff aveva concesso senza aver la forza di far valere
le proprie ragioni.
Sebastian li guardò abbracciarsi e fu certo
che quello fosse il gesto più triste del mondo.
Non fece che qualche passo oltre i due
ragazzi che improvvisamente una strana lentezza, la stessa che sentiva in ogni
suo movimento, si diramò nella scena al di fuori di lui, in tutto ciò che lo
circondava. Gli parve di vedere le cose a rallentatore: dei medici,
riconoscibili dal camice bianco, che correvano verso la stanza, la signora Harwood
che si allontanava col marito, tenendo le mani sulla bocca, gli altri Warblers
in fermento che si muovevano a destra e manca senza fare davvero qualcosa. Poi
delle voci lontane.
«Portate un defibrillatore!».
«È entrato in arresto cardiaco!».
«Chiamate il medico!».
Gli mancò il fiato. In un attimo, ebbe di
nuovo la sensazione che l'intero mondo gli stesse franando addosso e che lui
non potesse fare altro che lasciare che tutto crollasse e stare ad aspettare.
Magari pregare e sperare che le cose non andassero così male – perché bene di
certo non sarebbero potute andare.
Le bottigliette gli scivolarono di mano
come se queste fosse fatte di burro. Si accorse che gli stavano tremando le
ginocchia e che se non si fosse seduto a breve, non sarebbero più state in
grado di reggere il suo peso. Tuttavia l'inerzia lo portò a muoversi verso
l'epicentro di quel nuovo terremoto senza neanche rendersene conto: si trovò
accanto ai suoi compagni, lo sguardo irrimediabilmente fisso sulla scena che si
svolgeva all'interno della stanza.
Thad. Thad era in arresto cardiaco. Thad
stava morendo. Thad.
In quel momento si rese conto che avrebbe davvero
potuto sopportare tutto, davvero tutto, ma non quello. Con ce l'avrebbe fatta
ad andare avanti con una cosa del genere. Non con la morte di Thad.
Se ne rese conto e ancora una volta ebbe
paura.
Ti prego, Thad. Ti prego. Non morire.
*
Non era mai stato così pallido. Blaine
aveva sempre amato la carnagione chiara di Kurt, la delicatezza che
trasmetteva, il modo in cui si colorava quando era in imbarazzo, sotto sforzo o
quando facevano l'amore. Amava ogni aspetto di quel colorito, ma ora stentava a
riconoscerlo. Non c'era nulla di quello che amava su quella pelle così pallida,
malata. E tutti i tubicini che la violavano non facevano altro che accrescere
il senso di inadeguatezza, di sbagliato che sentiva in quella situazione.
Non dovevano esserci loro lì, non doveva
esserci Kurt su quel lettino, né lui al capezzale, con Burt, Carole e Finn.
Loro dovevano essere a scuola in quel momento, a festeggiare per la vittoria
alle Regionali, o a consolarsi l'un l'altro per la sconfitta che avrebbe
bruciato per un po', ma poi li avrebbe resi più forti ed agguerriti. Quello
sarebbe dovuto essere l'ultimo anno di Kurt, alla fine avrebbe dovuto prendere
il diploma e andare a New York, per cominciare i corsi alla NYADA o ovunque
sarebbe stato.
E ci sarebbero stati problemi e litigate;
avrebbero sofferto per la lontananza, stringendo i denti battendo i pugni
contro il muro; si sarebbero lasciati perché uno avrebbe creduto di non essere
abbastanza per l'altro e paranoie simili e poi si sarebbero trovati di nuovo.
Blaine avrebbe sopportato ogni litigio,
ogni parola cattiva che senza volerlo davvero sarebbe uscita dalle loro bocche,
ogni lacrima, ogni dolore. Giurava che avrebbe sopportato tutto, davvero tutto
pur di avere ancora Kurt nella sua vita. Pur di non lasciarlo andare così,
senza poter fare nulla.
No, questo non l'avrebbe accettato.
Ti prego, Kurt. Ti prego. Non morire.
Un sospiro tremulo scappò dalle labbra di
Burt ed attirò la sua attenzione. Sollevò lo sguardo per scorgere l’uomo che
teneva la mano di suo figlio con un’espressione indefinibile sul volto: tutto
il dolore che si poteva immaginare non avrebbe eguagliato quello che leggeva su
quei lineamenti e non aveva mai visto quegli occhi chiari così spenti. Gli si
strinse ancora di più il cuore.
«È per quando sono stato male io, vero? Me
la stai facendo pagare per l’infarto dell’anno scorso, eh?», parlò con voce
spezzata «Ma ora siamo pari ed io mi sono svegliato, quindi devi farlo anche
tu, mi hai capito? Non ti azzardare, non ti azz-».
Non ce la face ad andare avanti, le parole
pesavano troppo e ferivano: non aveva la forza di farle uscire e perciò se ne
stesse di nuovo in silenzio, accanto a Carole, ad accarezzare quella mano,
pregando che anche quella storia, come un anno fa, finisse bene.
Finn si teneva un po’ più lontano, lo
sguardo basso che solo a scatti e per meno di pochi secondi alla volta sfiorava
suo fratello, quasi temesse che quella fragilità potesse essere accentuata da un
gesto di troppo. Sembrava così disorientato da fare tenerezza ed ora teneva lui
in mano il papillon che Kurt aveva indossato durante le performance.
Tutto sembrava così terribilmente lontano
per essere successo nella stessa giornata che a Blaine girò improvvisamente la
testa. Osservò di nuovo i genitori di Kurt e si rese conto che aveva bisogno di
uscire, anche solo per qualche minuto, dalla stanza: gli mancava il fiato e
sapeva perfettamente che quello era l’inizio di un attacco di panico di cui
davvero non aveva bisogno in quel momento.
«P-prendo una boccata d’aria», si scusò,
uscendo, sotto lo sguardo comprensivo degli altri.
Si chiuse la porta alle spalle e ci si
appoggiò contro come se non fosse in grado di tenersi in piedi da solo. Sospirò
lento e lasciò che le palpebre calassero sui suoi occhi per concedergli un
attimo di pausa da tutto quello. Solo quando sentì i battiti del cuore tornare
regolari e riuscì a respirare con una certa libertà, si decise a muoversi, ma
non fece neanche un passo che notò suo fratello, seduto in corridoio, con i
gomiti puntati sulle gambe e le mani che nascondevano il viso. Non lo aveva mai
visto così: sembrava… disperato e lui non aveva la minima idea del perché.
Gli si sedette accanto, senza dire nulla,
sperando che fosse l'altro a parlare:non aveva idea di come comportarsi con lui e nonostante la rabbia e il
risentimento fossero più che presenti nel suo animo, qualcosa al momento lo
bloccava – forse Kurt, forse il fatto che continuava a rimanere in quella
posizione così drammatica o più semplicemente il rendersi improvvisamente conto
che, dopotutto, Cooper era lì, aveva lasciato il suo lavoro ed era corso da lui
non appena aveva sentito la notizia.
«Che succede?», ebbe allora il coraggio di
chiedere e ringraziò il cielo che la sua voce non avesse alcuna sfumatura
particolare.
Il maggiore non rispose subito, ma alzò la
testa e incrociò gli occhi ambrati del fratello, sostenendo quello sguardo.
Blaine si rese immediatamente conto che aveva pianto, perché l'azzurro era
lucido in una maniera che non lasciava dubbi.
«Ho parlato con mamma e papà», rispose semplicemente
e almeno la voce era abbastanza ferma da far capire che aveva avuto tempo per
riprendersi.
«Suppongo non sia stata una bella
chiacchierata».
«Ho semplicemente detto loro che ero con te
e che magari avrebbero potuto raggiungerci visto che qua le cose non… vanno
così bene», spiegò esitando nel finale; Blaine semplicemente annuì.
«Non verranno», lo anticipò, sempre con
tono calmo, fin troppo atono per lui.
Cooper ebbe solo la forza di scuotere la
testa, confermando quelle parole. No, i loro genitori non sarebbero venuti, non
avrebbero lasciato gli affari in Europa per raggiungere i figli, neanche se uno
di loro aveva rischiato di morire.
Il maggiore degli Anderson sentì il sangue
ribollirgli nelle vene al pensiero di quello che gli avevano detto: aveva
sempre saputo che non erano genitori modelli, soprattutto con Blaine, ma
quello, quello proprio non se lo sarebbe aspettato, neanche da loro. E poi...
il modo in cui lo avevano trattato non appena aveva detto loro di Kurt...
ancora non riuscivaa venire a capo di
quelle parole.
«Hai detto loro anche di quello che è
successo a Kurt?», parve leggergli nel pensiero il più piccolo.
«Quello è stato... il peggio del peggio»,
confermò l'altro «Io credevo... insomma, conoscendoli non mi aspettavo che
facessero i salti di gioia per la cosa, ma davvero non pensavo che potessero
arrivare a tanto, con le parole e anche con le azioni, solo perché tu sei gay.
Davvero non credevo che le cose stessero sul serio cos-»
«Questo perché tu non ci sei mai!», scoppiò
improvvisamente Blaine «Perché l'ultima volta che ti ho visto per bene è stato
quando sei partito per il college, dopodiché tanti saluti e a mai più! Perché
le tue telefonate si sono ridotte a telegrammi e ho fatto quasi fatica a
riconoscere la tua voce quando sei venuto, perché non ho idea di cosa tu stia
facendo al momento così come tu non hai idea di quello che è successo a me, di
come la mia vita abbia fatto abbastanza schifo ultimamente!».
Per un attimo si guardarono, entrambi
sorpresi. Poi fu la volta di Cooper di scoppiare.
«Non essere scorretto, questo non è vero!
Ero con te quando... è successo, so come sei stato, non dimenticherò mai lo
sguardo che avevi in quel letto d'ospedale», ed era vero: gli occhi di Blaine,
così feriti e scoraggiati, così spenti, erano qualcosa che lo aveva
perseguitato per molte notti dopo l'aggressione: aveva davvero temuto che non
fosse più in grado di riprendersi, ma fortunatamente lo aveva sottovalutato.
«Certo. Ci sei stato. Ma per quanto? Due
giorni, forse tre? Poi sei dovuto tornare al tuo lavoro e alla tua vita, troppo
separata dalla nostra – dalla mia – per poter capire che era proprio dopo i
primi giorni che veniva il peggio. Perché vedi, Cooper, l'aggressione è stata
un qualcosa di pubblico, la notizia è comparsa sui giornali ed improvvisamente
tutti sapevano che il figlio minore degli Anderson era gay. E credimi tra fare coming-out solo con mamma e papà e questo c'è molta
differenza. All'improvviso avevo l'impressione di essere qualcosa da
nascondere, qualcosa di cui provare vergogna e per quanto loro dicano che
l'unica ragione per cui mi hanno iscritto alla Dalton sia stata la mia
sicurezza, io ho ancora i miei dubbi a riguardo: lì almeno nessuno mi avrebbe
visto troppo, né mi avrebbe additato come “il figlio gay degli Anderson”».
C'era un disprezzo in quelle parole, una
rabbia che Cooper non si sarebbe mai aspettato da Blaine. Lui ricordava solo il
bambino troppo buono e gentile per essere apprezzato da tutti, quello sempre
pronto a regalare un sorriso, a cui non importava nulla se non che fossero
tutti felici. Ora di quel bambino vedeva ben poco mentre gli occhi chiari
scintillavano di risentimento.
E la colpa, almeno in parte, era anche sua.
Lui non era stato migliore dei suoi genitori, troppo preso da se stesso e dalla
sua vita per rendersi conto che stava lasciando indietro la persona più
importante; troppo desideroso di essere libero ed andare via da non rendersi
conto che così facendo avrebbe lasciato suo fratello in balia di confronti ed
aspirazioni sempre più alti e alla fine anche del disprezzo di chi non sa che
cosa significhi davvero amare.
Non aveva pensato a tutto questo, o forse
aveva preferito non farlo, allontanandosi sempre più da loro, volendone sapere
sempre meno. Ora vedeva chiaramente tutti gli errori che aveva commesso e
soprattutto si rendeva conto di non poter rimediare a nessuno di essi.
«Nella sfortuna sono stato... fortunato»,
aveva ripreso Blaine, perché certo, stava raccontando tutto quello che gli era
successo, del male che aveva provato, ma doveva raccontare anche – soprattutto
– il modo in cui ne era uscito. «Qualche mese dopo il mio trasferimento,
all'improvviso, è arrivato un nuovo ragazzo. In realtà all'inizio era solo una
spia della concorrenza... ma poi, dopo vari problemi, si è trasferito anche lui
alla Dalton. Kurt è stato una boccata di aria pulita, come riprendere fiato dopo
non so quante vasche di nuoto. Alla nuova scuola stavo bene, i ragazzi erano
fantastici, ma... mancava qualcosa, sentivo come se in qualche modo mi stessi
trattenendo, come se non fossi più davvero io. Avevo paura, credo. Paura di
fare continuamente la mossa sbagliata e Kurt mi ha innanzitutto insegnato che
non si più evitare di sbagliare, ma che bisogna avere la forza ed il coraggio
di rimediare alle proprie azioni. Kurt mi ha lentamente riportato in superficie
e per quanto lui possa dire che sono stato io a salvarlo, non ha idea di quanto
lui, invece, abbia salvato me».
Cooper lo aveva osservato per tutto il
discorso ed il modo in cui gli occhi di suo fratello avevano brillato gli aveva
fatto stringere il cuore. Capiva quanto Kurt significasse per lui e poteva solo
immaginare che cosa stesse passando Blaine in quel momento.
Una lacrima scese sul viso del più piccolo:
improvvisamente aveva davvero posto l'attenzione su come sarebbe stata la sua
vita se non avesse mai conosciuto Kurt e l'idea di perderlo stava diventando di
attimo in attimo sempre più insopportabile. Si portò le braccia al petto e si
curvò in avanti, come a volersi proteggere da tutto il male che stava
minacciando di nuovo la sua vita. Cooper si mosse istintivamente verso di lui
perché era vero, non c'era stato ed aveva sbagliato, ma questo non gli impediva
di provare a rimediare adesso. Blaine però si scansò istintivamente, come se
non riconoscesse in quel gesto l'amore ed il supporto che il più grande avrebbe
voluto dargli.
In fondo, non c'era abituato.
«Lascia che ci provi, fratellino. Lascia
che provi a rimediare adesso. Non è troppo tardi, vero?», chiese in una maniera
così accorata che Blaine non poté non sollevare lo sguardo su di lui.
«Non lo so. Non lo so se è troppo tardi. Ma
credimi, quello che ho sempre voluto è che per te non fossi così invisibile...»
«Non lo sei mai stato!»
«Coop... tutte le chiamate che non hai
fatto, tutte le parole che non hai detto o i gesti che non mi hai rivolto, pur
sapendo che non ci sarebbe voluto chissà quale grande sforzo, nulla di tutto
questo avrebbe dovuto farmi pensare che ero semplicemente invisibile per te?»,
c'era una disperata rassegnazione in quell'accusa, come di discorso fatto già
fin troppe volte e mai capito fino in fondo.
«Non ho mai voluto farlo intenzionalmente,
credimi».
«Ma lo hai fatto. Questo non cambia le
cose».
Cooper sapeva che Blaine aveva ragione e
davvero se avesse potuto avrebbe trovato il modo di aggiustare tutto, ma ancora
una volta si rese conto che semplicemente non c'era un modo.
*
Bip. Bip. Bip. Probabilmente ci si poteva
assuefare a quel rumore come ad una droga leggera e lasciarsi cullare da esso
come se tempo e spazio non fossero che mere parole lontane, senza più senso.
Era così che si sentivano i coniugi
Harwood: assuefatti a quel posto, a quei rumori, a quella situazione, alle
lacrime che erano scese e alla possibilità che ce ne fossero altre, senza avere
la forza di opporsi o semplicemente reagire, come se avessero già da ora
accettato passivamente qualunque cosa sarebbe successa, bella o brutta che
fosse.
Erano riusciti a salvare Thad. Il suo cuore
si era fermato per 34 secondi, ma erano riusciti a farlo battere di nuovo.
Adesso erano lì, ancora in quella stanza d'ospedale, il loro ragazzo che
dormiva – sì, la parola coma li spaventava troppo per poterla pensare – e quei
macchinari che continuavano la loro lenta litania fatta di suoni troppo
stonati, troppo freddi per essere anche solo vagamente gradevole.
Il signor Harwood continuava ad accarezzare
i capelli del figlio come se non se ne rendesse veramente conto, quasi fosse un
movimento automatico con cui cercava di contenere l'ansia e scacciare
l'instabilità di quella situazione; la moglie era appoggiata con la testa sul
bordo del letto e probabilmente era stata colta dal leggero sonno del tardo
pomeriggio.
L'uomo lasciò scorrere gli occhi sui
lineamenti abbastanza marcati di Thad. Era cresciuto, ne aveva fatta di strada
da quando, bambino, si divertiva a lanciare palle da baseball in giardino con
lui, la lingua che appariva appena tra le labbra per la concentrazione e
l'esultanza così genuina e piena di energia dei tiri più precisi. Kevin Harwood
si chiese per quale motivo si stava rendendo conto di quelle cose solo ora,
perché per tutto quel tempo non aveva osservato con la stessa precisione suo
figlio: da quando era andato alla Dalton avevano cominciato a vedersi di meno e
gradualmente anche il dialogo si era ridimensionato. Non sapeva come stesse e
se le cose andassero davvero bene – lui diceva di sì, ma con i ragazzi non si
poteva mai essere certi –; diavolo, non sapeva neanche se aveva una ragazza, se
frequentava qualcuno o se semplicemente aveva una cotta ancora segreta.
«Mi pare che tu mi sia sfuggito dalle mani
come un uccellino che impara improvvisamente a volare, Thaddy»,
sussurrò, concedendosi di chiamarlo con quel nomignolo affettivo che pure suo
figlio non sopportava – o almeno così diceva.
Sapeva che non aveva molto senso parlare in
quel momento, quindi tornò silenziosamente ad osservarlo, continuando a giocare
con i suoi capelli. Doveva aver usato della lacca o del gel, perché erano
unticci in alcuni punti: probabilmente li aveva sistemati per l'esibizione dei
Warblers, ma ora era difficile capire in che modo stessero e quanto fossero
belli. Ora erano scompigliati e pieni di polvere.
«S-sai ch-e Jeff
c-ci ha mes-so se-coli per si-stemarli?»
D'un tratto l'attenzione dell'uomo si
concentrò sul volto del figlio. L'aveva solo immaginato, oppure aveva appena
parlato?
Il volto era sereno, come prima, ma un
sorriso leggero allargava giusto di un po' le labbra chiare.
«Thaddy»,
sussurrò sperando che rispondesse, che gli dicesse che-
«Non m-i è m-ai pia-ciuto
quel sopran-nom-e».
Kevin trattenne a stento le lacrime mentre
gli sfiorava il viso e guardava finalmente gli occhi scuri e così profondi di
suo figlio, rendendosi conto solo in quel momento che aveva pensato di non
rivederli mai più. Ma suo figlio era forte, come aveva detto Melissa, sua
moglie. Suo figlio era forte e ce l'aveva fatta a tornare da loro.
«Mel, tesoro! Svegliati, svegliati!», la
chiamò con la voce incrinata dall'emozione.
La donna si destò con lentezza e si guardò
intorno spaesata prima di capire che cosa stesse succedendo. Quando incrociò il
viso di suo figlio, sveglio, pensò che stesse ancora sognando e poi comprese
che non le importava: se quello era un sogno, allora era il migliore che avesse
mai fatto. Si gettò al collo di Thad con una felicità che non aveva mai provato
prima e lo strinse a sé così tanto che il ragazzo credette di soffocare; tuttavia
non si staccò, ne protestò: doveva essere successo qualcosa di davvero
terribile per aver spaventato così tanto entrambi e avrebbe potuto fare tutte
le domande dopo averli rassicurati.
Nella gioia generale, nessuno si accorse
che Sebastian li stava osservando – come del resto non aveva potuto evitare,
soprattutto da dopo il collasso. Il nuovo Warblers vide la donna abbracciare
stretto il figlio e tutti e tre ridere di gusto, senza avere davvero un motivo
per farlo. Vide come i due adulti sembravano non poteva fare a meno di tenere
un contatto fisico con Thad, come se temessero che perdendolo avrebbero perso
anche lui.
Li vide e fu felice, felice come non era
mai stato nella sua vita. Felice perché Thad era vivo e sembrava stare bene,
felice perché quel peso allo stomaco si stava lentamente sciogliendo. Era così
felice che delle lacrime premevano al bordo degli occhi.
Poi sussultò. Si rese d'un tratto conto di
quanto fosse sentimentale, vulnerabile in quel momento. Era umano in un
modo quasi osceno e non poteva essere. Semplicemente non poteva concederselo,
perché lui non era così. Era colpa di Thad. Tutto quello era semplicemente
colpa di Thad.
Che cosa mi hai fatto?, si chiese in
modo quasi disperato. Quando c'era lui di mezzo non riusciva più ad essere lo
stesso, quando c'era lui di mezzo si perdeva nella marea di sensazioni che
provava e non sapeva più come uscirne. Quando c'era lui trovava un modo nuovo
di sentire le cose, un modo che, a dirla tutta, lo spaventava. Un modo
così... vivo, così intenso da sopraffarlo.
Sebastian prese la sua decisione.
Era colpa di Thad se lui era così
vulnerabile. E lui non sarebbe mai più stato così, mai più.
Avrebbe lasciato stare Thad e tutto il
resto. L'avrebbe evitato e avrebbe tirato per la sua strada. Alla fine di
quell'anno se ne sarebbe andato e tanti saluti. Avrebbe fatto di tutto, davvero
di tutto per non essere così debole. Mai più.
Si concesse un ultimo sguardo al ragazzo,
poi si girò e lasciò l'ospedale.
___________________________________
Aaaaaaaaaaaaaaaaah sono in un
mega-ritardo anche questa volta, lo so!! Scusate, scusate, scusate!
Non è mia intenzione farvi soffrire tanto, ma davvero ogni capitolo è un parto
^^’
La buona notizia è che almeno su un fronte le cose sembrano non andare più così
male, no? Almeno Thad sta bene! Ora c’è solo da sistemare tutto il resto xD *ho detto nulla!*
Ad ogni modo vi ringrazio tantissimo: in un modo o nell’altro
avete mostrato che questa storia non è proprio da cestinare e davvero vi
ringrazio per gli apprezzamenti e la pazienza che avete con me!
«Ok, qualcuno ora si decide a
dirmi di preciso che cosa è successo?».
La domanda di Thad lasciò
tutti senza parole, costringendo i sorrisi che avevano avuto fino a quel
momento a lasciare le loro labbra e gli occhi a guardarsi fra loro indecisi.
Il ragazzo, che si era da
pochissimo svegliato, non riusciva a capire il motivo di tutta quella reticenza:
che cosa gli stavano nascondendo? Era successo qualcosa che non volevano sapesse?
Qualcosa di grave, forse?
«...Devo preoccuparmi?»,
chiese ancora, con voce più incerta.
«No, tesoro. È tutto a posto:
semplicemente, ti sei appena svegliato e nessuno vuole stancarti troppo...»,
tentò di rassicurarlo la madre, ma il Warbler non aveva alcuna intenzione di
mollare, soprattutto perché i suoi amici non sembravano avere un bell'aspetto e
– diavolo! – lui si era appenaripreso
in un letto di ospedale, con un braccio ingessato dalla spalla in giù, un
terribile mal di testa, svariati graffi e lividi e almeno dieci persone accanto
al letto.
Meritava assolutamente una
spiegazione. E poi... alcuni mancavano all'appello. Nick e Jeff, ad esempio – e
Dio solo sapeva che cosa lo stesse trattenendo dall'andare completamente in
paranoia.
E Sebastian. Mancava anche
Sebastian.
«Sto benissimo, mamma. Sto
abbastanza bene da poter sapere che cosa ci è successo!», si impuntò e
nonostante gli sguardi severi che gli lanciarono i suoi genitori, spostò lo
sguardo sui suoi compagni, deciso a non smettere di guardarli fino a che
qualcuno di loro non avesse ceduto, parlando.
«C'è... c'è stata...
un'esplosione», sussurrò Trent, il primo a crollare
«Al McKinley».
Thad si sentì gelare: tentò di
ricordare qualcosa, ma tutto quello che ottenne fu una fitta alla testa che
prese a girare. Chiuse gli occhi e respirò con lentezza, cercando di mantenere
la calma.
«Qua-qualcuno si è ferito?
Qualcuno oltre a me?», riuscì a domandare con voce tremula.
Gli altri si guardarono
attorno per un attimo, mandandolo stavolta davvero in panico.
«No, nessuno in particolare.
Siamo tutti un po' ammaccati, ma nulla di grave», lo rassicurò Flint, ma Thad
continuava a guardarli come se sapesse che c’era qualcosa che non gli avevano
ancora detto.
«Allora dove sono Nick e Jeff?
Manca anche Sebastian…».
Quell’ultima frase l’aveva
sussurrata a mezza voce, quasi fosse indeciso se dirla o meno.
«Nick e Jeff hanno
accompagnato un ragazzo alla ricerca di Blaine – diceva di essere suo fratello,
ma abbiamo dovuto davvero fare uno sforzo per ricordare se qualche volta aveva
accennato al fatto che ne avesse uno. Sebastian invece… è andato via poco fa,
sta bene anche lui».
Tipico, si ritrovò a pensare il Warbler e si rifiutò di
constatare che quel pensiero faceva davvero male. La madre gli sfiorò la ciocca
di capelli che calava sulla fronte.
«Sai, a me sembra davvero un
ragazzo a modo, un bravo compagno di stanza».
La risata che sfuggì dalle
labbra di Thad fu quasi spaventosa e gli provocò una brutta fitta al petto.
«Tu non hai idea di come sia Smythe, mamma! Ti potrà anche essere parso
a modo, ma lo avrà fatto solo per rispetto di persone che non conosce e della
situazione, non per altro. E non è affatto un bravo compagno di stanza,
considerato che ormai passa il tempo ad ignorarmi! Effettivamente, non ho un compagno di stanza. Non più. E
la dimostrazione sta nel fatto che ora non è qui con gli altri».
Lo aveva detto. Finalmente
aveva sfogato quanto meno la rabbia e la frustrazione che stava provando da una
settimana ormai. Non era ancora stato in grado di dire che la tutta quella
storia lo feriva terribilmente, ma quello avrebbe richiesto una riflessione
maggiore, prima con se stesso.
A Thad pareva di tremare una
volta gettato fuori un simile sfogo ed improvvisamente aveva voglia di
piangere. Perché non poteva negare che Sebastian era stato uno dei suoi primi
pensieri non appena si era svegliato ed il fatto che non fosse lì con gli altri
era una cosa che, certo, si aspettava, ma che comunque faceva male.
Si distese un po' meglio nel
letto, chiudendo gli occhi: di certo non poteva permettersi di crollare in un
momento del genere, quindi doveva ritrovare la calma ed il controllo che aveva
sempre avuto e che lo stava aiutando da quando erano cominciate le
incomprensioni con Smythe.
Proprio in quel momento Nick e
Jeff entrarono velocemente in stanza, bloccandosi per qualche istante, sorpresi
di vedere il loro amico davvero sveglio, e poi gettandosi su di lui con una
certa goffaggine, di cui si resero conto quando Thad si lasciò sfuggire un
lamento.
«Ragazzi, calma, così mi fate
male!», li pregò, ma tutti si resero conto delle sfumature di gioia che aveva
nella voce e quando i due ragazzi lo lasciarono andare, stava sorridendo ad
entrambi, gli occhi lucidi ed il pensiero di Sebastian un po’ più lontano.
«Quando non vi ho visti, mi è
preso un colpo!», spiegò come se volesse rimproverarli della momentanea
assenza, ma lo sguardo serio di Nick lo trattenne dal continuare.
Li osservò per qualche
silenzioso momento, prestando attenzione ad ogni parte del viso, agli occhi
stanchi, alle leggere rughe che solcavano la fronte, le labbra tese, il
colorito pallido. No, non era affatto un buon momento per scherzare, neanche
per tentare di scherzare. Jeff soprattutto pareva così diverso dal solito, che
ancora una volta Thad ebbe paura gli stessero nascondendo qualcosa.
«Hey…»,
sussurrò, prendendo la mano del biondo e facendo sì che lo guardasse.
«Ci… ci hai spaventati, Thad»,
disse quello, tremante e sarebbe bastato guardare gli altri negli occhi per
capire che stavano pensando tutti la stessa cosa.
«Abbiamo pensato che tu… che,
insomma, tu…», ma neanche Nick ce la fece ad andare avanti – non che servisse a
capire dove stava per andare a parare quella frase.
Il ragazzo si voltò, serio,
verso i genitori.
«Sto bene, per ora. E mi
dispiace per quello che avete passato…», si scusò, facendo sorridere un po’
tutti, tranne gli ultimi arrivati che tornarono quasi subito seri.
«Si può sapere che avete voi
due?», chiese allora Thad, ignorando una fitta al petto.
Nick e Jeff si guardarono per
qualche istante, come se fossero indecisi su quale risposta dare.
«Abbiamo… accompagnato il fratello di Blaine
fino al reparto dove sono le New Direction e-».
«Lui sta bene?», intervenne James, e Jeff annuì appena.
«Lui sì… ma… Kurt, lui… è in coma».
Dire quelle parole gli parve al contempo una liberazione
ed una condanna. Non doveva portarselo più dentro, da solo, ma allo stesso
tempo dirlo a qualcun altro, dirlo ad alta voce lo rendeva così vero da star
male. In un attimo, tutti gli sguardi furono su di lui, sconvolti, mentre
pregavano di aver capito male. Il biondo abbassò la testa ed annuì ancora, come
a confermare loro che non si stava inventando nulla.
«… era con me», la voce di Thad ruppe il triste silenzio
«era con me quando è successo, eravamo in mensa e stavamo parlando e poi…».
Singhiozzò. Singhiozzò perché non ci stava capendo più
nulla, perché Kurt era in coma e lui era sveglio nonostante fossero nella
stessa stanza, perché i suoi genitori ed i suoi amici potevano tirare un
sospiro di sollievo e sperare bene, mentre Blaine, gli Hummel-Hudson e le New Direction
non sapevano neanche se si sarebbe ripreso.
Mentre piangeva, si accorse a mala pena che la madre gli
si era avvicinata e lo stava, ora, stringendo a sé con amore.
«Va tutto bene, tesoro mio. Starà bene anche lui,
vedrai».
«Era con me, mamma! Nella stessa stanza… perché io posso
abbracciarti e lui non può farlo? Perché io sono sveglio e lui invece no?».
Thad piangeva come un bambino, i singhiozzi scandivano il
tempo in quella stanza. Non riusciva a capacitarsene, non poteva essere così…
era tutto sbagliato: non sarebbe dovuta esserci alcuna esplosione e soprattutto
se lui era sveglio, allora avrebbe dovuto svegliarsi anche Kurt.
Perché non era così?
Melissa non seppe rispondergli, perché in fondo non c’era
una ragione.
*
«Come sta?».
«No-non è cambiato nulla...»
Carole sospirò, il viso stanco e pallido, mentre il
professor Shuester poggiava una mano sulla spalla di
Burt in un affettuoso gesto di conforto. L'uomo quasi sussultò a quel contatto
caldo e ringraziò Will con un rapido sguardo.
«Sono ragazzi», continuò l'insegnante «Sono molto più
forti di quello che ci aspetteremmo, molto più forti di noi. Kurt lo ha già
dimostrato tante volte: ora non sarà da meno», tentò di rassicurarli, per quel
che poteva.
Burt gli diresse uno sguardo fiero: ovvio che Kurt ce
l'avrebbe fatta, era il suo ometto ed era abbastanza forte da venire a capo
anche di quella complicazione – o almeno quella era la convinzione a cui
cercava di aggrapparsi quanto più saldamente possibile.
Si guardò intorno: tutti i ragazzi del Glee erano ancora
nel corridoio, storditi e sporchi, ma ancora lì che cercavano di farsi forza a
vicenda ed ogni tanto sbirciavano dal vetro della stanza per vedere se c'erano
dei cambiamenti: tutto sembrava loro così strano che, a parte Finn, soltanto
Rachel e Mercedes aveva avuto il coraggio di entrare in camera e sedersi
accanto all’amico, mentre gli altri aveva scosso la testa e fatto un passo
indietro, intimoriti.
Blaine, invece, era un caso a parte. In quelle ore non
aveva lasciato da solo Kurt se non per prendere una boccata d'aria. Era sempre
lì, ora seduto accanto a lui, ora in un angolino della stanza per lasciare il
posto ad altri, ma non lo aveva perso di vista neanche un attimo, i suoi occhi
vigili pronti a catturare ogni minimo cambiamento. Suo fratello era rimasto
seduto in corridoio, un po' in disparte, e si guardava intorno come se si
sentisse fuori posto, ma non avesse intenzione di lasciare il più piccolo da
solo. Ogni tanto aveva provato ad avvicinarsi, a dire qualcosa a Blaine, ma
questi il più delle volte era parso non sentirlo, così che dopo un po' ci aveva
rinunciato. Nessuno sapeva che cosa fosse successo tra loro, ma era chiaro che
non fosse nulla di buono.
«Ragazzi, dovrete essere stanchi e tra poco sarà notte,
perché non tornate tutti quanti a casa? Prometto che avviseremo tutti se ci
dovessero essere dei cambiamenti, ma adesso credo che farebbe bene anche a voi
riposarvi un po'», li incoraggiò Carole.
I membri delle New Directionsi guardarono dubbiosi: certo, l'idea di tornare a casa, dalle proprie
famiglie e stare con loro era la migliore al momento, ma nessuno aveva davvero
il coraggio di lasciare Kurt da solo, anche se la loro presenza non avrebbe di
certo fatto la differenza per la sua guarigione.
«Tranquilli, tornerete domani», si unì la voce del
professore «Ora abbiamo davvero tutti bisogno di un po' di riposo».
Quelle parole incoraggiarono i primi, che si alzarono
dalle sedie e si avvicinarono al vetro, per dare un ultimo sguardo all'amico.
Tutti esitarono nello staccarsi da lì, chi più chi meno e Mercedes si sciolse
in lacrime fra le braccia di Sam prima di andare via.
L'unica a non essersi mossa, neanche dopo di lei, che
pure ci aveva messo tanto a lasciar andare Kurt, era stata Rachel. Finn le si
avvicinò cauto, sedendosi accanto a lei e tirandola a sé con un braccio intorno
alle spalle.
«Vuoi che ti accompagni a casa?», le chiese gentile, ma
lei scosse appena la testa.
«Non voglio lasciarlo e neanche te».
Il più alto la guardò dolce: le aveva dato il primo
sorriso, anche se leggero, della giornata.
«Non siamo da soli: ci sono i
miei genitori e Blaine, staremo bene. Ma tu che puoi, va a casa».
«Posso accompagnarti io», si
offrì Will «Così Finn non dovrà lasciare suo fratello».
Rachel ci pensò per qualche
istante, poi annuì, alzandosi. Qualche altra lacrima scappò dalle sue ciglia
mentre salutava il suo migliore amico ed il professor Shue
dovette quasi trascinarla via o non se ne sarebbe più andata.
«Forse sarebbe il caso che
riposaste un po' anche voi...».
La voce di Cooper attirò
l'attenzione della famiglia Hummel-Hudson. Burt lo osservò per qualche istante,
cercando di capire che tipo fosse: era come il resto della famiglia di Blaine,
la pensava allo stesso modo? O forse era diverso? Era l'unico membro degli
Anderson che si era degnato di correre dal ragazzo di suo figlio, questo era
vero, ma sentiva di non potersi ancora fidare di lui, soprattutto per il modo
in cui lo trattava Blaine.
«Che intenzione hai con tuo
fratello?», chiese, senza curarsi di quello che l'altro aveva appena detto: suo
figlio era in coma e lui stava troppo male per permettere che anche Blaine
soffrire – più di quanto non stesse anche lui già facendo.
«Io... sono qua per lui», rispose
spiazzato il maggiore degli Anderson.
«Come ci sono ogni giorno i
suoi genitori?».
«Non ho nulla a che fare con
loro, signore», stavolta il tono era uscito nervoso e risentito.
«Sarà meglio per te. Ho già un
figlio in coma, non lascerò che ne feriscano un altro, soprattutto in un
momento del genere», si premurò di mettere da subito in chiaro Burt.
Cooper lo guardò stranito per
qualche istante. Che cosa aveva detto? “Ferire un altro figlio”? Non gli ci
volle più di qualche istante per capire che si era davvero riferito a Blaine
con quell’appellativo. Restò a guardare quell’uomo, che pure in una simile
situazione si stava preoccupando per suo fratello, abbastanza a lungo da far
capire che non avrebbe replicato.
Burt gli si avvicinò, senza
perdere il contatto visivo con il suo sguardo azzurro.
«Hai la sua stessa luce negli
occhi e forse anche lo stesso cuore», sussurrò, con tono rassicurato.
«Voglio solo stargli accanto»,
disse l’altro, senza sapere se ci fosse una reale connessione con il resto
delle cose dette. «Ho sbagliato, ma sono pronto a fare ammenda».
L’uomo annuì.
«Ad ogni modo…», tentò di
riprendersi il più giovane «Credo che voi potreste quanto meno prendere
qualcosa alla mensa e cenare: resto io con Blaine e vi chiameremo si ci fossero
dei cambiamenti».
Burt rimase incerto per
qualche istante, voltandosi a guardare la stanza dove c’era Kurt: gli giròla testa solo al pensiero che sarebbe potuto
succedere qualcosa mentre non c’era – e chissà poi che cosa avrebbe poi potuto
fare lui, se le condizioni di suo figlio fossero peggiorate!
A Cooper si strinse nuovamente
il cuore, ma i suoi occhi non persero la fermezza di quella proposta, così che
quando anche Carole incoraggiò il marito a prendersi una pausa, l’uomo cedette
e si avviò lentamente lungo il corridoio con il resto della famiglia. Il
maggiore degli Anderson si accostò alla porta della stanza, per un attimo
indeciso su se entrare o lasciare ancora un po’ Blaine da solo con Kurt.
Tuttavia aveva detto che gli sarebbe stato accanto e voleva davvero farlo.
Suo fratello se ne stava nella
stessa posizione in cui lo aveva lasciato, seduto accanto al fidanzato, una
mano nella sua e l’altra che al momento gli sfiorava i capelli. Gli si avvicinò
con lentezza, senza sapere se quello lo avesse sentito entrare o meno, almeno
fino a che, però, non lo vide sorprendersi della sua mano che gli stringeva la
spalla.
Blaine si voltò di scatto,
guardandolo fisso, quasi non lo riconoscesse.
«Hey,
sono io...», lo rassicurò il maggiore «Come... come stai?».
«Avevo dimenticato che fossi
qui... scusa...».
Coop annuì. Sì, era naturale.
Restò a guardarlo ancora per qualche istante, poi si sedette ai bordi del
letto, senza perdere di vista i suoi movimenti.
«Starà bene. Da quello che mi
hai detto, è forte abbastanza da superarlo, no?», cercò di rassicurarlo.
«Poco ma sicuro. Tu non sai
quanto sia forte. Ne ha passate tante e...».
Tacque. Lentamente, la
consapevolezza di quello che stava succedendo cominciava a schiacciarlo fino a
togliergli il respiro. Si sarebbe ripreso. Sì, si sarebbe ripreso: era
inconcepibile il contrario, una vita senza lui. Si sarebbe ripreso... giusto?
Le lacrime scesero prima che
potesse fermarle. Dopo lo scoppio iniziale, aveva cercato di controllarsi,
anche solo per sembrare forte agli occhi degli altri, per non essere quello di
cui avere pietà, un’altra vittima. Ora che era da solo, però, sentiva che stava
per crollare. Non era certo di nulla e neanche riusciva ad immaginare una vita
in cui non fosse compreso Kurt.
Suo fratello si sporse verso
di lui e lo strinse a sé con l'intenzione di non lasciarlo andare, neanche se
si fosse opposto a quel gesto, ma stavolta Blaine non fu in grado di rinunciare
a quell'affetto, al calore umano di cui aveva bisogno. Odiava sentirsi così, ma
non poteva fare a meno dell'abbraccio che gli stava offrendo suo fratello.
«Non devo essere debole. Lo
devo a Kurt e al signor Hummel – avrà bisogno di tutto il sostegno possibile,
non posso venir meno».
Cooper lo guardò per qualche
istante: negli occhi d'ambra del fratello c'era una convinzione ed un affetto
che non si sarebbe aspettato.
«Non devi fare la parte l'eroe
impavido davanti a me, fratellino...», sussurrò, ma l'altro scosse la testa.
«No, tu non capisci... Non
posso diventare un altro peso per la sua famiglia, al momento», spiegò
guardando di nuovo Kurt.
«Non lo sei, credimi. Il
signor Hummel… ho notato che tiene particolarmente a te», azzardò, pensieroso e
vide suo fratello sorridere per la prima volta da quando era arrivato.
«Sai, lui è il contrario di papà.
Quando Kurt ha fatto coming-out, la prima cosa che
gli ha detto è stata che lo aveva sempre saputo, che non cambiava il fatto che
fosse suo figlio e che lo avrebbe amato allo stesso modo. Sono il primo ragazzo
che Kurt abbia avuto e all’inizio avevo il terrore che il signor Hummel ci
spiasse dalla serratura ogni volta che andavamo in camera da soli, pronto a far
fuoco col fucile alla prima mossa falsa… Invece, per quanto sia protettivo, mi
ha introdotto nella sua famiglia come se fosse la cosa più naturale del mondo e
in breve è diventato una delle persone di cui mi importa di più il giudizio,
forse il solo da cui correrei per un consiglio…».
«Tiene a te come ad un
figlio», sorrise Cooper e fu difficile nascondere gli occhi lucidi di
commozione.
Anche quelli di Blaine si
illuminarono, diventando due pozze profonde. In fondo lo aveva immaginato,
sapeva che Burt fosse affezionato a lui, ma sentirlo dire da qualcuno gli aveva
provocato una fitta allo stomaco dolorosamente dolce, che non avrebbe saputo
descrivere e in qualche modo lo rendeva orgoglioso.
Sfiorò di nuovo i capelli del
suo ragazzo, guardandolo con affetto. Quando rialzò lo sguardo sul fratello, lo
trovò in lacrime: alcune erano ancora trattenute tra le ciglia e nello sguardo
chiaro, altre gli avevano già bagnato le guance e scendevano verso il mento.
Restò per qualche istante paralizzato: non aveva mai visto Cooper piangere, non
così apertamente, non davanti a lui. Era come se fosse senza alcuna difesa,
come se si stesse mostrando a lui nel modo più fragile che conoscesse.
«Coop… cosa?».
«Mi dispiace, mi dispiace così
tanto…», balbettò tra i singhiozzi, con voce spezzata «Io… tu avevi bisogno di
qualcuno che ti stesse vicino ed io… io neanche sapevo che cosa stessi
passando. Dovrò ringraziare Kurt e tutta la sua famiglia per quello che hanno
fatto…».
Blaine non sapeva che cosa
dire. La rabbia era ancora lì ad agitarlo, così come la paura che suo fratello
se ne sarebbe andato di nuovo, eppure vederlo in quello stato stava lentamente
abbattendo il muro di diffidenza che aveva eretto a sua difesa.
Cooper sembrava sincero e
stava piangendo. In fondo non era una cattiva persona, non lo era mai stato… e,
certo, avevano avuto i loro disaccordi, anche abbastanza profondi, ma
appartenevano al passato.
«C’è sempre tempo per
migliorare, Coop», gli concesse e seppe che ne era valsa la pena non appena
vide il brillio di speranza che illuminò l’azzurro di quello sguardo. Gli
strinse una mano e parve che la vertigine che lo accompagnava da quella mattina
gli desse un po’ di tregua.
Aveva nuova forza per sperare.
*
«La ringraziamo davvero tanto
per essersi occupata di lei ed averla portata a casa, professore».
«Si figuri, signor Berry, è il
minimo che potessi fare dopo…».
Will trattenne il fiato, il
ricordo di quello che era successo solo quella mattina che gli faceva girare la
testa. Sembravano secoli.
«Posso… possiamo offrirle
qualcosa, magari un caffè?», propose gentile Hiram, facendo un passo verso
l’interno, come ad invogliarlo ad entrare, ma l’uomo scosse la testa con un
sorriso.
«No, la ringrazio tanto. Devo
tornare a casa, Emma sarà sicuramente in pensiero», spiegò.
Diede poi un ultimo sguardo ad
una confusa Rachel, stretta nell’abbraccio di LeRoy e li salutò, augurando un
grottesco “buonanotte” di cortesia.
Guidò verso casa con quanta
più velocità potesse, il bisogno improvviso di essere stretto tra le braccia
della sua fidanzata che gli attanagliava il petto; le lacrime, che dopo una
simile giornata non erano mai riuscite ad abbattere il suo muro di compostezza
e forza, ora minacciavano di scendere senza pudore e sapeva che sarebbe stato
meglio se fosse successo tra le braccia di Emma, al sicuro da tutto.
Appena ebbe parcheggiato,
scese e percosse correndo il vialetto che lo separava da casa. Non ebbe neanche
bisogno di fermarsi, perché Emma aveva sentito la sua macchina e gli aveva
appena aperto la porta, così che non dovette fare altro che volarle tra le sue braccia
e si sentì a casa.
La rossa lo strinse forte a
sé, incurante del fatto che fosse ancora sporco di polvere e Will respirò a
pieni polmoni il suo profumo di pulito – una boccata d’aria in tutta quella
situazione. Le prime lacrime cominciarono a scendere senza che avesse più
bisogno di trattenerle: aveva cercato di essere forte per i ragazzi, per essere
qualcuno su cui contare, ma adesso aveva semplicemente bisogno di piangere.
«Ssshh»,
cercò di calmarlo Emma «Sei a casa ora… tranquillo».
Senza sciogliere l’abbraccio,
entrambi si sedettero sul divano del soggiorno, la donna che gli massaggiava la
schiena, sussurrandogli parole di conforto come se fosse un bambino.
Quando a Will parve di
sentirsi un po’ meglio, provò a staccarsi e a guardare Emma negli occhi.
Entrambi avevano lo sguardo lucido e stravolto e non c’era di certo bisogno di
parlare, perché capissero a cosa stesse pensando l’altro.
«Come stanno i ragazzi…?», si
azzardò a chiedere Emma.
Will sospirò, abbassando di
poco la testa.
«Sono per lo più sconvolti e
per lo più con graffi superficiali. Tutti… tranne Kurt… lui… è in coma…»,
sospirò e vide la paura attanagliare la donna, gli occhi inumidirsi
improvvisamente.
La strinse a sé e stavolta fu
lei a tremare per quella notizia.
«Che cosa è successo, Will?
Perché qui, perché ora? Insomma, che cosa abbiamo fatto per meritarci una cosa
del genere?» balbettò sulla sua spalla.
Lui scosse la testa, senza
sapere che cosa dirle, e si accoccolò sul divano, tenendola ancora stretta
nelle sue braccia. Era egoistico da pensare, ma in quel calore e con accanto la
persona che amava, credette di riuscire a trovare un po’ di tranquillità. Il
mondo sarebbe anche potuto crollare, ma lui sarebbe rimasto con i piedi saldi a
terra.
*
Rivedere le mura della Dalton
fu assurdo. La struttura se ne stava lì, maestosa e vecchia come sempre, senza
dare alcun segno della catastrofe che i Warblers si stavano portando dietro;
come se appartenesse ad un altro mondo e la cosa non la sfiorasse minimamente.
Da lontano potevano vedere le luci accese di alcune stanze e, nel silenzio
della sera, si sentiva il chiacchiericcio di chi occupava ancora le sale
comuni.
I ragazzi non riuscivano a
capacitarsi della cosa: la terra sotto i loro piedi pareva ancora tremare e
invece per il resto del mondo, per gli altri ragazzi della Dalton, quello era
stato un giorno come tanti: lezioni, compiti, chiacchierata con gli amici, come
se le cose fossero a posto.
Ma non lo erano. Non lo erano
affatto. Come era possibile che solo a poche ore da McKinley tutto già sembrava
aver dimenticato – no, meglio, sembrava non essersi affatto accorto di quello
che era successo? Era come se fossero in una bolla d’aria e il resto del mondo
fosse irrimediabilmente escluso da quello che provavano.
Quando misero piede
all’interno della Dalton, la bolla tremò.
L’uomo alla reception li
riconobbe immediatamente e scattò in piedi, superando la scrivania e
abbracciandoli come se fossero dei figli. Tutti, ognuno a modo proprio,
conoscevano Thomas e il suo abbraccio fu qualcosa di rassicurante.
«È bello avervi tutti qua»,
sorrise brevemente l’uomo, per poi tornare subito serio «Abbiamo saputo di
Thad. Sta bene, vero?», chiese preoccupato.
Alcuni annuirono senza forze
per parlare.
«Ora sì, Tom», sussurrò poi
James.
L’uomo stette a guardarli per
un po’, cercando di trovare qualcosa che potesse farli stare meglio, ma senza
riuscirci. Stava infatti per aprire bocca, quando un Sebastian pulito e
profumato comparve sulla scena, un sorrisetto sghembo in viso e la solita aria
spavalda. Sembrava il solito stronzetto di sempre, come se avesse stampato in
faccia “Sono tornato. Temete tutti”.
«Era ora!», si lamentò «Ho
quasi creduto che aveste tutti deciso di prendere una camera lì, dato che non
tornavate più!».
La sorpresa di quella battuta
così inappropriata, superficiale e stronza
freddò le risposte di tutti, almeno fino a che Flint non scattò in avanti,
pronto a colpirlo con un pugno se Luke non lo avesse fermato in tempo. Anche
Richard era scattato di un mezzo passo in avanti, ma lo sguardo vagamente
sereno che Cameron gli aveva rivolto lo aveva fermato prima che potesse agire.
«Come diavolo ti permetti!»,
sbottò Jesse «Tu saresti dovuto essere con noi, ad accertarti che Thad stesse
bene!».
«Che inutile perdita di tempo:
la mia presenza non avrebbe di certo fatto la differenza sulla sua salute!».
«Questo non significa un bel
nulla!» controbatté Nick, alterato da quella mancanza di rispetto «E sai che
Kurt è in coma? Rischia di non svegliarsi!»
Sebastian diede loro solo la
soddisfazione di una scrollata di spalle a quella notizia.
«Una faccia da checca in meno
in America», disse atono, prima di voltar loro le spalle e andare via,
lentamente.
Flint fece per inseguirlo,
nero di collera, ma stavolta fu Thomas a fermarlo, scuotendo la testa.
«Immagino sia il suo modo di
elaborare la cosa», gli concesse, ma gli altri scossero la testa: quello era
semplicemente Smythe.
«Comunque, nella sala dei
Warblers sono già arrivati i vostri genitori e il preside è con loro», li
informò.
I ragazzi si guardarono fra
loro: tante volte, in quella maledetta giornata, avevano desiderato rifugiarsi
tra le braccia dei loro genitori, ma adesso che era davvero possibile, un nuovo
senso di vertigine sembrava sconvolgerli: la sensazione che quella visita
improvvisa non facesse altro che aumentare le incongruenze con la classica
routine, ora che invece il bisogno di normalità si faceva sentire. Certo, era
stato strano rendersi conto che la Dalton non era stata affatto sfiorata da
quella tragedia, ma metterci di nuovo piede era stato anche rassicurante,
perché sembrava esserci un posto in cui avrebbero potuto semplicemente
dimenticare e fingere che non fosse successo nulla.
Quando entrarono nella grande
sala e gli occhi degli adulti furono su di loro, la bolla che miracolosamente
li stava tenendo in piedi esplose del tutto.
Ognuno strinse i propri
genitori come se non li vedesse da anni, come il sopravvissuto di un naufragio
– e davvero potevano definirsi sopravvissuti – e alcuni si lasciarono andare
alle lacrime, senza pudore: la scuola in cui si stavano esibendo era esplosa,
crollata – piangere era il minimo che potessero fare.
Il vecchio preside li guardò
commosso, cercando allo stesso tempo di lasciare ad ognuno la privacy che
meritava, e si decise a parlare solo quando si rese conto che la situazione si
era fatta leggermente meno tesa.
«Che notizie avete del vostro
compagno Harwood?», volle innanzitutto accertarsi.
«Sta... sta abbastanza
bene...», sospirò Trent, ancora stretto tra le
braccia della madre. Il preside tirò un pesante respiro di sollievo.
«Si sa cosa ha provocato... tutto
questo?», chiese con voce sottile Ethan.
«Una fuga di gas dalla cucina...
pare sia stata aperta un'inchiesta e coinvolta la ditta di manutenzione che
avrebbe dovuto fare dei controlli approfonditi la scorsa settimana», riferì
l'uomo e i ragazzi si guardarono tra loro.
Ecco perché Thad aveva
rischiato più di tutti: era in mensa quando era esploso tutto. E da quello che
aveva detto di ricodare, Kurt era con lui. Era stata
solo fortuna la loro. Fortuna sfacciata nel trovarsi nei camerini, lontani
dalle cucine, fortuna sfacciata nel non avere avuto fame o sete in quel
momento. Erano semplicemente stati fortunati.
«Se... volete, potete tornare
a casa con i vostri genitori. Almeno qualche giorno. Per stare... più
tranquilli», si preoccupò di consigliare ancora l’uomo, avendo accortezza di
specificare che era una loro scelta.
Gli adulti guardarono i propri
figli come a dir loro di seguire quell'indicazione, ma i più scossero la testa.
No, per quanto sarebbe stato piacevole, finanche rassicurante tornare a casa,
al momento l’unica cosa che volevano davvero era tornare nelle proprie stanze,
con i propri amici, e tentare di dimenticare almeno per una notte. Andare a
casa sarebbe stato strano, fuori routine, non avrebbe fatto altro che ricordar
loro quello che era successo. Invece tutti sentivano semplicemente il bisogno
di un briciolo di quotidianità in quella situazione.
«Sarebbe meglio se tornaste a
casa, almeno per un paio di giorni»,intervenne il padre di Nicolas, con tono abbastanza serio, ma lo sguardo
del figlio – così simile a quello degli altri Warblers – lo fece esitare.
«Stiamo bene, dopotutto»,
spiegò il ragazzo «E preferiremmo restare qua, tra noi… conservare almeno un
po’ della quotidianità che è stata stravolta oggi… Staremo bene».
Il sospiro tremulo di Jeff
attirò lo sguardo del suo compagno di camera. Il padre lo teneva ancora stretto
a sé, mentre la madre cercava di parlargli senza essere veramente ascoltata.
Abbassò lo sguardo e si strinse nell’abbraccio di sua sorella. Non sapeva che
cosa fare. Probabilmente non avrebbe fatto proprio nulla.
Le proteste degli adulti e le
mediazioni del preside andarono avanti ancora per un po’, ma nessuno dei
ragazzi cambiò idea e anzi si fecero forza tra loro per restare uniti fino a
che non ebbero la meglio. Quando riuscirono tutti a tornare in camera, ormai la
mezzanotte era passata da molto. Se avessero potuto sarebbero rimasti nell’aula
comune tutti insieme, magari passando la nottataa parlare di altro, come in un classico
pigiama party; ma alla fine avevano ceduto – anche sotto insistenza di Thomas –
ed erano tornati nelle rispettive stanze. Vederle, così calme, così pulite ed
ordinate, aveva fatto bene e allo stesso tempo malissimo, come se avvertissero la
strana sensazione di essere al sicuro e allo stesso tempo che quella sicurezza
fosse sbagliata, ma nessuno ci si concentrò troppo – la stanchezza, la voglia
di chiudere gli occhi anche solo per cinque minuti, era troppo forte.
Tranne che per Jeff.
Non che non ci stesse
provando. Si era lavato, scrollandosi da dosso polvere e paura, ed si era
infilato sotto le coperte, salutando il suo compagno di stanza debolmente e
sperando che il sonno avesse la meglio su qualsiasi pensiero. In breve aveva
sentito il respiro di Nick farsi pensate e regolare, segno che almeno a lui
Morfeo aveva concesso un po’ di tregua.
Da quel momento aveva sentito
così tante volte il suo respiro da perderne il conto – non sapeva più neanche
che ora fosse. Non stava dormendo, le parole del moro rimbombavano nelle
orecchie insieme al suono sordo del suo cuore a pezzi ed il sonno se ne stava
quanto più lontano possibile. A nulla era valso cercare di smetterla, cambiare
posizione o leggere qualche pagina del libro che aveva sul comodino: tutto
pareva riportarlo allo stesso punto, fino a che non ci aveva praticamente
rinunciato.
Quanto avrebbe voluto parlarne
con Thad!
Per un attimo, l’idea di
chiamarlo lo accarezzò in modo così suadente che quasi si fece convincere. Solo
quando il cellulare aveva fatto il primo squillo, si rese conto della stupidità
della sua azione. Staccò, sperando che l’amico avesse impostato la vibrazione e
che non avesse svegliato nessuno. Sospirò, stringendo il cellulare tra le mani
e fissando il soffitto buio; poi qualcosa si mosse. Non capì subito cosa fosse,
almeno fino a che non vide il display del cellulare accendersi ad
intermittenza, seguendo le vibrazioni della chiamata in arrivo.
Sussultò. Ecco, aveva svegliato
tutti.
«ScusaThadnonvolevochiamareaquest’oraesvegliarvitutti»,
pronunciò, senza quasi staccare le parole.
«Non hai svegliato nessuno, tranquillo», disse piano l’amico, ormai
abituato a decifrare le sue accozzaglie di parole «Non ho chiuso occhio da quando ve ne siete andati».
«Neanche io…», confessò Jeff,
una volta calmatosi «Tu perché? La spalla fa troppo male? Brutti pensieri?».
«Sai… ho provato a ricordare qualcosa di stamattina… ma
davvero non ci riesco. L’esibizione è confusa e dopo ho il vuoto assoluto. Ricordo
cose a sprazzi, alcune battute, la mensa, tu che mi sistemi i capelli e…» e Sebastian «e nient’altro».
«Non sforzarti. Non è comunque
nulla di importante! Quello che conta è che tu stia bene, che tutti stiamo
bene… e che…» si ricordò improvvisamente di Kurt «…che Kurt si riprenda presto.
Perché è fuori discussione che succeda».
Thad sorrise dell’ottimismo
convinto del suo amico. In fondo, era sul serio inconcepibile che morisse, solo
il pensiero gli faceva girare la testa quasi più del fatto che lui stesso aveva
rischiato di morire. Morire. Non vedere più nessuno, niente più mamma o papà,
niente più Jeff, niente più Nick o Warblers.
Niente più Sebastian.
Quella constatazione lo fece
fremere. Ecco che tornava nella sua testa, come prima che ci fosse l’esplosione
e tutto il resto – perché questo poteva ricordarlo chiaramente. Il suo chiodo
fisso, il fatto che Sebastian non gli parlasse da… da troppo tempo, il fatto
che avesse smesso di considerarlo e che, soprattutto, la cosa lo facesse stare
male come se fosse il suo migliore amico, quando invece restava solo il suo compagno di stanza. La
sensazione di non aver che grattato la superficie con lui e la voglia, invece,
di scoprirlo nel profondo erano cose con cui ormai conviveva da troppo tempo,
che aveva accettato ma a cui non voleva rassegnarsi senza fare nulla.
Ma Sebastian non c’era,
Sebastian non si era fatto vedere da quando lui si era ripreso e la cosa
continuava a fargli male.
«A cosa pensi?», chiese in un
sussurro Jeff, che fino a quel momento aveva rispettato il silenzio dell’amico.
Thad si riscosse con lentezza,
ricordando appena che stava ancora parlando a telefono con il biondo.
«Scusa, io… mi sono distratto».
«Ho notato», sorrise l’altro.
«Jeff… quand’è che se n’è andato?».
L’amico ci mise meno di
qualche istante per capire che si riferiva a Smythe e Thad non si sorprese
neanche del fatto che la cosa fosse così chiara.
«Prima che ti svegliassi,
questo mi pare assodato», rifletté «Quando abbiamo accompagnato Cooper dalle New Direction
c’era ancora…Non ero presente quando tu...
hai avuto... quella crisi, ma credo se ne fosse andato anche lui allora…».
Harwood sospirò piano,
sperando che l'altro non lo sentisse. Nonostante il fatto che Sebastian non
fosse rimasto bruciasse come la peggiore delle ferite che aveva riportato, non
riuscì a trattenersi.
«Ma sta davvero bene?», chiese preoccupato, sempre col timore che fosse ancora
all’oscuro di qualcosa, e Jeff sentì un improvviso moto di rabbia verso Smythe:
non meritava quella preoccupazione, neanche lontanamente – sarebbe dovuto
essere lui quello agitato, lui quello con tono tremante! Non avrebbe dovuto
permettere che invece Thad si preoccupasse così, e il biondo sentì che avrebbe
dovuto fare qualcosa per l’amico, ma non sapeva cosa.
«Fin troppo bene. È il solito
stronzo».
No, non lo era. Di questo Thad
era sicuro. Qualunque cosa fosse successa, nessuno poteva essere così
stronzo, neanche Sebastian. Tirò un sospiro di sollievo e si stese meglio sul
letto: la spalla tirava particolarmente ed era davvero uno dei motivi per cui
non stava ancora dormendo. Ma Jeff? Per Jeff lo aveva chiamato?
«Scusami, tu mi hai chiamato ed io ho monopolizzato la
tua attenzione. Perché mi cercavi?».
Il biondo non era più così
sicuro di volerne parlare. La faccenda di Sebastian sembrava coinvolgere Thad
più di quanto aveva capito.
«Te ne stai innamorando?»,
chiede invece, a bruciapelo, sorprendendo il ragazzo dall’altra parte del
telefono.
«...Cosa...? Perché pensi che io...?».
«Perché sei preoccupato per
lui, quando quello ad essere in ospedale sei tu. E perché saresti pronto a
giustificarlo qualunque cosa ti dicessi sul suo conto».
Thad non sapeva che cosa dire.
Se ne stava innamorando? Lui? Di Sebastian? Non sapeva come rispondere:
la cosa di cui era certo era che voleva vederlo e parlargli, capirlo. Sentiva
di non poterne fare a meno.
«Sento di volergli stare accanto. Cercare di capirlo. C'è
tanto dietro di lui, Jeff. Così tanto… ho l’impressione di non essere più in
grado di allontanarmi da lui».
«Lo amo».
Il bruno sussultò. Che cosa
aveva detto? Lo amava? Chi amava? Di cosa stava parlando adesso?
«Nick. Lo amo. Ora ne sono
certo».
Thad sorrise. Lui ne era
sempre stato certo – e sarebbe stato sconvolgente se si fosse invece riferito a
Smythe. Il tempismo con cui Jeff dava le notizie era una cosa a cui ancora non
si era abituato.
«Lo sapevo! L'ho sempre saputo!», disse felice «Insomma, eravate gli unici a non esserne
ancora consapevoli, noi ci chiedevamo a che momento saremmo dovuti inter-».
«Ha detto di no. Lui non mi ama.
Non sono che un amico».
Quella frase lo freddò come se
lo avessero colpito allo stomaco. Cosa?
«No... non è possibile... Nick-».
«Lo so», sospirò con voce
tremula Jeff «Lo s-so. E... e lo sa a-anche lui».
«Mi sto perdendo, Jeff», ammise Thad, confuso e
nuovamente preoccupato.
«L'ho baciato. Quando l'ho
visto lì fuori, sano e salvo, non sono riuscito a trattenermi e l'ho baciato.
Ero così sollevato, così felice che stesse bene, che la sola cosa che ho
pensato di fare è stato baciarlo. Mi è sembrato così gusto e così bello! E lui
ha ricambiato: mi è parso di alzarmi mezzo metro da terra!».
«Jeff, continuo a non capire quale sia il problema», intervenne l'altro, ma il
sospiro tremulo che sentì lo fece pentire di aver parlato.
«Da quando è successo... non
mi ha più parlato. Neanche una parola. E p-poi mi ha detto c-che non
significava nulla. Che era s-stato solo per il s-sollievo di vedermi v-vivo e
nient'altro».
Stava piangendo. Harwood lo
sentiva singhiozzare e non sapeva cosa fare per calmarlo. Odiava essere così
lontano da lui: avrebbe voluto stringerlo a sé e lasciare che si sfogasse sulla
sua spalla. Ma erano lontani e non aveva altro che le parole da usare.
«Si è spaventato, Jeff. In tutto questo casino si è
spaventato e ha detto la prima cosa che gli è passata per la testa. Sai com'è
fatto Nick...».
«No, non lo so, non lo so più...
è sembrato s-serio mentre parlava, così c-convinto delle parole che d-diceva...
ed io mi sto convincendo che mi va bene così, che alla fine non è cambiato
nulla... ma n-non è vero, cavolo! Non è vero! Perché adesso che l'ho ammesso,
adesso che sono consapevole di amarlo nulla è come prima. Neanche lui!».
«Sssh, tranquillo, tranquillo
Jeff. Ascoltami: cerca di calmarti e di dormire un po'. Ora è tutto così
confuso, compreso Nick. Ma ti vuole bene, davvero bene e tu dovresti saperlo».
«E se non mi bastasse più? Se
lo avessi perso, se avessi fatto una stupidaggine nel baciarlo? Sembrava così
perfetto quel momento ed ora non c'è attimo che passa senza che io me ne
penta».
«Smettila, Jeffie, smettila
subito! Non sei lucido abbastanza per giudicare. Baciarlo è stato giusto,
perché lo ami e sono certo che lui corrisponda. Devi solo dargli tempo».
«Vorrei che fossi qui,
Thad...».
«Anche io, Jeff. Si sistemerà tutto, tornerà tutto alla
normalità, te lo prometto», azzardò: non poteva essere certo di quella promessa, ma
era ciò di cui l'altro aveva bisogno, qualcosa a cui aggrapparsi, anche se non
corrispondeva alla realtà.
Staccare la chiamata fu
difficile per entrambi, ma erano stanchi e alla fine il sonno ebbe davvero la
meglio su tutto. Jeff si addormentò tra le lacrime, che si asciugarono sul suo
viso. Quello di cui non si era accorto era che Nick si era svegliato a metà
delle loro conversazione.
Non era solo Jeff a piangere
in quella stanza.
*
Cooper era stato sempre certo
che, prima o poi, nella sua vita, avrebbe subito una rapina. Dal momento in cui
aveva dovuto fare i conti con un appartamento tutto suo, quella era stata una
certezza che lo aveva accompagnato per tutta la vita, ancora di più quando
aveva cominciato a lavorare ad Hollywood. Insomma, era un bocconcino niente
male e c’erano svariate cose di valore nel suo attico che sarebbero potute
essere poi facilmente vendute ai mercati neri – nozioni basi che aveva dovuto
imparare per il ruolo da ricettatore.
Quello che davvero non si
sarebbe aspettato era di subire la suddetta rapina proprio a casa dei suoi. Insomma,
quante possibilità c’erano che si sarebbe trovato a trascorrere una nottata lì
proprio quando a qualcuno sarebbe venuto voglia di svaligiare casa? Eppure ecco
che qualcuno in piena notte si muoveva furtivo in corridoio per poi aprire
lentamente la porta della sua stanza.
Cooper si irrigidì, tenendo
gli occhi chiusi ma senza perdere neanche uno dei bassissimi rumori che l’altro
faceva muovendosi ed avvicinandosi sempre più al suo letto. Si accorse di
essere in svantaggio nei confronti dello sconosciuto, perché gli voltava le
spalle, ma si decise ad aspettare la sua mossa prima di agire.
Quando sentì, però, il letto
piegarsi sotto il leggero peso dell’altro, non si trattenne e con uno scatto
rapido si voltò verso di lui, pronto a colpirlo. Salvo poi trovarsi davanti
nessun altro se non suo fratello.
«Blaine…», sussurrò sorpreso,
accendendo la lampada che aveva sul comodino «Mi hai spaventato».
«Mi spiace…».
La voce del minore era rotta
dal pianto e Cooper ebbe improvvisamente paura. Era successo qualcosa e non aveva
sentito il telefono squillare? Anzi, era probabile che avessero contattato
Blaine al suo cellulare! Kurt, doveva essere successo qualcosa a Kurt, perché
solo in quel caso suo fratello poteva essere così distrutto.
«Blaine, dì qualcosa! Ti hanno
chiamato? Hai saputo qualcosa delle condizioni di Kurt?», chiese allarmato, ma
il riccio scosse la testa.
«Scusami, scu-sami
tanto C-Cooper, ma non sapevo che cosa fare… lui era lì, così bian-co, era m-morto e mi diceva di lasciar-lo andare e che
mi avrebbe a-amato per sempre… ed io mi s-sono svegliato piangen-do…
e mi fa così male il pet-to che mi sembra di
soffocare. Non sapevo che c-cosa fare, allora ho ricorda-to che tu sei qui e-».
Cooper lo zittì tirandolo
stretto a sé. Tramava e non era di certo per il freddo.
«Sssh…
hai ragione, sono qui con te. Va tutto bene, Blaine. Era solo un brutto sogno e
non si avvererà, tranquillo».
L’altro gli si strinse contro
come se cercasse protezione.
«Ti sembrerò così pa-tetico, Coop. Non sto facendo a-altro che piangere…ma il
pun-to è che a momenti mi sembra di impaz-zire…».
«No, no, Blaine. Stammi a
sentire» e prese il volto del fratello tra le mani «Tu sei uno dei ragazzi più
forti che conosca. Sappiamo quante ne hai passate, tutto quello che ancora
adesso stai affrontando… eppure guardati, sei ancora qua! Ce la stai mettendo
tutta e va bene così: nessuno ti chiede di fare altro. Avere bisogno di
sostegno non è segno di debolezza, solo di intelligenza. Ed io ti ho promesso
che sarei stato accanto a te, per prenderti tutte le volte che avresti perso l’equilibrio.
Quindi ora cerca di calmarti e dormi un po’, d’accordo?».
Il più piccolo annuì appena.
«Di là, da solo, fa freddo…
posso… restare qua con te?».
Cooper non aspettava altro che
quella richiesta. Lo strinse di nuovo a sé e si assicurò che dormisse, prima
che un respiro tremulo uscisse dalle sue labbra.
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Speravate di esservi liberati di me e di questa orribile
storia, non è così? E invece, anche se sono passati davvero secoli dallo scorso
aggiornamento, eccomi di nuovo con un nuovo capitolo!
Ormai non esistono più scuse che reggano per il mio ritardo e ne sono davvero
dispiaciuta.
Spero che il capitolo valga l’attesa e ringrazio tutti
quelli che stanno prestando attenzione a questa storia ♥
Ad Emilia, perché parte del capitolo la dobbiamo solo
a lei.
«Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto».
«Com’è successo? Cosa… cosa…».
«Una complicazione imprevista. Ha avuto un
collasso ed è morto prima che riuscissimo a capire che cosa stesse andando storto.
È stato troppo repentino per poter intervenire».
La donna abbassò la testa, annuendo mentre
il corpo tremava e si appoggiò al marito che, shoccato,
guardava ancora di due medici davanti a lui come se si aspettasse altro, come
se fosse convinto che da un momento all’altro avrebbero sorriso, dicendo che
era tutto uno scherzo e suo figlio sarebbe uscito dalla sua camera sulle
proprie gambe, con il suo meraviglioso sorriso e delle scuse imbarazzate per lo
spavento.
Sì, aspettava anche lui quella scena, poco lontano dai genitori
della vittima. Si aspettava di vederlo da un momento all’altro e tanto gli
sarebbe bastato. Niente di eclatante, nulla di eccessivo. Solo vederlo e
sarebbe stato di nuovo bene.
Ma non succedeva. I medici rimanevano seri,
la porta della stanza chiusa. L’aria in quel corridoio troppo bianco cominciava
a mancare e l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di scappare.
Scappare, dove la verità non avrebbe mai
potuto raggiungerlo, dove il dolore non avrebbe fatto male, dove le speranze
non sarebbero state vane. Perché se non sapeva, se non glielo avessero detto,
per lui non sarebbe stato vero, giusto?
Corse via, senza badare a chi si sarebbe
trovato davanti ed avrebbe travolto. Non si sarebbe fermato fino a che non
sarebbe stato al sicuro. Anche se non sapeva dove lo sarebbe stato davvero. La
luce pallida di una giornata nuvolosa lo colpì in modo violento, accecando gli
occhi e costringendolo a continuare a camminare a testa bassa, senza davvero
vedere dove andasse.
In un attimo fu a terra, senza sapere bene
come fosse caduto – non che gli importasse, poi. Il ginocchio bruciava in modo
fastidioso e anche il braccio su cui era caduto faceva male. Tentò di
rimettersi in piedi con difficoltà, ma gli bastò arrivare a mettersi in ginocchio
per sentire un dolore lancinante alla testa. Chiuse forte gli occhi e portò una
mano alla fronte, accorgendosi che doveva averla sbattuta sull’asfalto, perché
perdeva sangue.
Sangue. La sola vista fece girare tutto ciò
che lo circondava. Non che di solito gli desse fastidio, ma adesso la sola
vista era quasi insopportabile.
«Oddio…», sussurrò stravolto.
E’
colpa tua. È il suo sangue. E continua a scorrere per colpa tua: passa il tempo
e non stai facendo nulla per lui. Lo stai uccidendo, lentamente.
Si prese la testa tra le mani perché gli
sembrava stesse per esplodere. A corto di fiato non poté fare altro che
accasciarsi senza forze per terra, il freddo che lo stordiva. Magari avesse
potuto portare via anche il dolore che stringeva il suo petto.
La
sensazione di cadere nel vuoto, come se si fosse lanciato dal tetto della
Dalton, lo colpì togliendogli il fiato e svegliandolo di botto, come se fosse
impattato col materasso da chissà quale altezza. Spalancò gli occhi, spossato,
i viscidi rimasugli di un sogno troppo vivido che lo sporcavano, e l’unica cosa
che desiderò fu dimenticare: il tentato suicidio, l’esplosione al McKinley, il
coma di Thad, le sue parole, il suo viso, la sua e la propria assenza.
Dimenticare tutto, estraniarsi, tornare ad essere il ragazzo superficiale e
distaccato che era sempre apparso. Questo gli sarebbe bastato, ma probabilmente
era chiedere troppo.
Le
lacrime uscirono con disperazione dagli occhi, unica valvola di sfogo in quella
assurda situazione e gli diedero parvenza di stare meglio, di svuotarsi mentre
soffocava i singhiozzi nel cuscino.
*
Cooper
Anderson tornò dalla sua corsa mattutina quando l’orologio non segnava ancora
le 7:00. Aprì lentamente il portoncino di casa e lo richiuse cercando di non
fare rumore – anche la scorsa notte, nonostante ormai fosse passata una
settimana dall’incidente al McKinley, Blaine aveva faticato a prendere sonno,
addormentandosi poi solo poco prima dell’alba. Per nulla al mondo avrebbe
rischiato di svegliarlo.
Con
il passo felpato che aveva imparato al corso di recitazione, attraversò il
corridoio per arrivare in camera sua e prendere un cambio prima di andare a
farsi una doccia, ma quando entrò rimase spiazzato. Blaine era in ginocchio
davanti al suo armadio, stringeva qualcosa tra le mani e tutti i cassetti della
stanza erano aperti.
«Credevo…
credevo che fossi andato via… E non poteva essere vero… perché me l’avevi
promesso, che saresti rimasto con me… e allora ho pensato che se la tua roba
era ancora qui, voleva dire che dovevi esserci anche tu…».
Il
balbettio del suo fratellino riscosse il maggiore dal lieve stato di trance in
cui era finito per lo stupore di quella scena; gli si avvicinò lentamente, da
dietro, per poi inginocchiarsi ed abbracciarlo.
«È
così: non ti lascerò da solo, Blaine. Ero solo… andato a fare una corsa…», lo
rassicurò, ed il minore gli si strinse contro.
Cooper
sussultò: un improvviso bisogno di piangere gli aveva attanagliato la gola.
Avrebbe dovuto aspettarselo, dopotutto: non poteva di certo credere che
sarebbero bastati pochi giorni per sistemare le cose tra loro, fare sì che
avesse completa fiducia in lui e nelle sue parole, come se quegli anni di
lontananza semplicemente non fossero esistiti. Eppure ci aveva sperato. Per un
attimo aveva pensato che con Blaine il peggio fosse passato, che il resto
sarebbe stato solo in discesa. Illuso. Mentre lo stringeva tra le braccia, capì
di essere solo un povero illuso: chissà se Blaine sarebbe mai riuscito a
perdonarlo del tutto.
Quando
gli parve di essersi calmato e che anche suo fratello stesse meglio, si azzardò
a lasciarlo andare, per alzarsi. Blaine non fece una piega, ma si mise in piedi
lentamente, stringendo a sé un maglioncino di filo blu. Cooper lo guardò
interrogativo.
«Lo
avevi l’ultimo giorno che ti ho visto… prima che partissi per il college»,
sussurrò il riccio «Lo ricordo perché io e la mamma lo avevamo scelto insieme.
Doveva essere il mio regalo per la tua partenza, non so se te l’ho mai detto…».
Gli
occhi del maggiore luccicarono, velati di nuove lacrime.
«Sì,
lo so. Per questo è lì, per questo l’ho portato con me. Lo porto sempre con
me».
Stavolta
fu Blaine a sorprendersi. Lo sapeva? L’aveva sempre saputo e l’aveva portato
con sé?
«Non
ti ho mai dimenticato, Blaine. Per quanto possa essere sembrato il contrato ai
tuoi occhi, io non ti ho mai messo da parte: hai sempre fatto parte della mia
vita, in un modo o nell’altro… e mi spiace così tanto di averti trascurato,
vorrei davvero che tu capissi quanto…».
«Ci
sto provando, Coop. Dammi solo ancora un altro po’ di tempo», sussurrò il
minore: avrebbe davvero voluto non aver paura che ogni volta che suo fratello
usciva sarebbe potuto essere per non tornare, ma la paranoia lo attaccava
spesso, non poteva farci molto per ora.
«Mi…
mi accompagneresti da Kurt?», chiese poi.
«Ma
certo! Corri a vestirti!», acconsentì Cooper, facendogli notare che era ancora
in pigiama.
«Sì,
tesoro, tutto come al solito... non ci sono stati cambiamenti particolari. Non
so se esserne sollevato o meno», sospirò Burt Hummel, reduce da una notte
insonne, a vegliare sul figlio.
«Ma hanno detto che risponde a determinati
stimoli dolorosi e che le pupille sono in parte recettive, è solo questione di
tempo, tesoro: si risveglierà», cercò di incoraggiarlo, come sempre Carole.
Burt
annuì. Sì, aveva fiducia in suo figlio, tutta la fiducia del mondo, ma
cominciava a chiedersi per quanto avrebbe parlato con Kurt senza essere
risposto, quante altre notti avrebbe passato al suo capezzale, quante altre
volte avrebbe dovuto ascoltare le stesse parole incoraggianti di sua moglie.
Sospirò leggero. Quello che davvero lo spaventava era il non sapere per quanto
sarebbe riuscito ad andare avanti. Certo, abbandonare suo figlio al momento era
inconcepibile, ma sapeva anche che il tempo logora le persone e non poteva fare
a meno di chiedersi se sarebbe stato lì anche nel caso peggiore, nel caso in
cui Kurt non si fosse più svegliato, o se il dolore sarebbe stato troppo forte
per sopportare una cosa simile. Il non sapere come avrebbe reagito alla cosa lo
terrorizzava.
«Passi da casa adesso?», chiese la
moglie in un sussurro.
«Sì…
appena Cooper e Blaine saranno qui, vengo».
Non
avrebbe voluto, ma come al solito le parole del fratello di Blaine erano state
persuasive e categoriche: sarebbero stati entrambi lì, quindi lui avrebbe
potuto riposarsi un po’.
Pochi
minuti dopo che ebbe salutato Carole, il viso pallido del ragazzo di suo figlio
apparve dal corridoio. Con passo svelto arrivò davanti alla stanza di Kurt e fu
sufficiente uno sguardo tra i due per parlarsi. Erano sette giorni che andavano
avanti così le cose, per la precisione. Sette giorni che a loro parevano nello
stesso momento attimi e secoli destinati a non passare più.
Blaine
si gettò tra le braccia di Burt quasi con bisogno quella mattina e l’uomo
dovette capire che c’era qualcos’altro che l’aveva turbato, perché lanciò uno
sguardo serio a Cooper. Il maggiore degli Anderson sospirò lentamente e scosse
la testa, senza aggiungere nulla, così che Burt si trovò semplicemente a stringere
più forte a sé il riccio.
«Se
dovesse esserci qualsiasi novità-».
«Sarà
il primo a saperlo, signor Hum- Burt», concluse per
lui Blaine, ancora indeciso su come chiamarlo, nonostante avesse avuto il
permesso di farlo da tempo.
L’uomo
annuì un’ultima volta, stringendo la spalla del ragazzo, prima di andare via,
lasciando il solito sguardo di monito a Cooper. Loro due non avevano mai
parlato davvero da quando si erano trovati in quella situazione, semplicemente
perché non ne avevano mai sentito il bisogno effettivo. Era un tacito accordo
di protezione e sostegno reciproco che andava avanti da giorni sempre allo
stesso modo. Burt era grato del fatto che da simili genitori erano comunque
cresciuti due ragazzi d’oro come quelli.
Blaine
fece qualche passo avanti, fermandosi davanti alla porta bianca, come era già
successo nelle mattine precedenti. Vi poggiò contro la fronte e chiuse gli
occhi per qualche istante, facendosi forza. Non che non avesse il coraggio di
entrare, ma l’impatto con Kurt, ancora in quel letto, così lontano nonostante
fosse bloccato a pochi passi da lui, era sempre tremendo.
Riaprì
gli occhi con lentezza, ma allo stesso tempo con fermezza, ed abbasso la
maniglia fredda, entrando nella stanza. La prima cosa che lo accolse fu il
“bip” ritmico dei macchinari che monitoravano il suo ragazzo, poi il restante
silenzio della stanza.
Si
guardò intorno per qualche istante, come a volersi accertare che fosse tutto
come l’aveva lasciato la sera precedente, poi prese una sedia e si accostò a
Kurt sorridendogli e lasciandogli un bacio a fior di labbra prima di sedersi.
«Stamattina
Coop mi ha spaventato. Ho forse sono stato io a spaventare lui. Resta il fatto
che, nonostante sia qui con me da una settimana, alle volte ho ancora paura che
vada via. Lo so, sono un idiota a pensarlo perché davvero ho perso il conto
delle volte in cui mi ha detto che sarebbe stato con me… ma di tanto in tanto
succede qualcosa, anche solo una minima cosa e penso che se ne sia andato, come
se mi aspettassi che succeda da un momento all’altro… Sono una persona orribile
vero? Mio fratello mi chiede scusa e mi fa da balia ed io do di matto ogni
volta che non c’è, quasi non vedessi l’ora di constatare che se n’è andato per
davvero per piangermi addosso».
Blaine
aveva smesso di sentirsi in qualche modo stupido per tutte le volte che, in
fondo, parlava da solo in quella camera d’ospedale. Una parte di sé credeva che
Kurt potesse in qualche modo ascoltarlo, anche se non riusciva ancora a
comunicarglielo; un’altra parte semplicemente aveva bisogno di parlare,
sfogarsi, e Kurt era stato il suo migliore amico per così tanto tempo che
restava la sola persona con cui volesse parlare, anche in quelle condizioni.
Alzò
la testa, concentrandosi sul viso calmo del suo ragazzo e sorrise lieve: il coma
lo sfiorava senza riuscire a togliergli però la bellezza leggiadra che lo aveva
lasciato senza fiato da quel primo momento sulle scale; il pallore leggermente
più accentuato lo faceva sembrare fragile ma allo stesso etereo, come se non
appartenesse veramente a quel mondo. Blaine non sapeva quando quel pensiero
smettesse di affascinarlo per cominciare a spaventarlo.
«Sai,
stamattina mi ha chiamato Mercedes, mentre venivo qui. Mi è sembrata stanca
dalla voce, ma ha detto di stare bene e che sarebbe passata a trovarti nel
pomeriggio. Le manchi… manchi a tutti, Kurt. A me in modo tremendo. Perciò – a
costo di diventare ripetitivo e rompiscatole, perché so che puoi sentirmi,
spero che tu possa – ti prego, ti prego
svegliati. Insomma, prenditi il tempo che ti serve, ma torna da noi, da me».
Una
lacrima scese sul viso di Blaine che la scacciò velocemente, sorridendo, come
se non fosse mai esistita. Prese la mano di Kurt tra le sue e sospirò piano. Sapeva
che si sarebbe svegliato, ne era cecamente convinto e avrebbe atteso – solo, il
non sapere quanto gli toglieva il fiato.
«Allora è vero…»
Una
voce tremante – una diversa dalla sua – interruppe il silenzio e fece voltare
di scatto Blaine verso la porta. Sulla soglia, lo sguardo sconvolto che fissava
il letto, c'era Dave Karofsky, l'ultima persona che
si sarebbe aspettato di vedere. Il riccio sussultò, quel lieve sorriso che era
riuscito a mettere su per Kurt svanì e nonostante i “progressi” fatti nei confronti
di quello che era stato uno dei bulli del suo ragazzo, Blaine non riuscì a non
provare un'improvvisa rabbia per quella – a suo parere – inopportuna presenza.
«Che
diavolo ci fai qui?».
Il
ragazzo sussultò, come se solo in quel momento si fosse accorto realmente della
presenza dell'altro. Lo guardò per qualche istante senza battere ciglio né
proferire parola.
«Ho
sentito... ho sentito dell'esplosione e del fatto che alcuni ragazzi fossero
stati ricoverati… Ho saputo che Kurt era qui…», si giustificò Dave facendo qualche passo in avanti. Blaine non gli staccò
gli occhi da dosso, innervosito.
«Che
cosa ci fai qui?», chiede ancora, più freddo.
«Volevo
vederlo, sapere come stesse».
Era
vicino al letto, ora, troppo vicino, così vicino da poterlo toccare e Kurt non
si sarebbe spostato, non avrebbe fatto nulla per impedirlo.
«Non
voglio che tu sia qui».
La
freddezza con cui il riccio pronunciò quelle parole bloccò l’altro che alzò per
la prima volta gli occhi su di lui, dimenticandosi di Hummel. Lo guardò fisso,
quasi si stesse chiedendo perché fosse lì, perché lo stesse interrompendo: era
venuto per Kurt, solo per Kurt, non certo per il suo ragazzo. Poi ricordò:
aveva scelto lui, Kurt aveva scelto Blaine. Ecco perché era lì con lui. Questo
era quanto, però. Il suo compito non doveva andare oltre.
«Non
l’ho chiesto a te, se non sbaglio», si difese con forza «Sono qua per Kurt,
perché tengo a lui».
Per
Blaine fu troppo. Teneva a lui? Teneva a Kurt, al suo Kurt?!
«Tieni
a lui?!», gridò senza riuscire a controllarsi «Tieni a Kurt? E dimmi, tenevi a
lui anche quando lo sbattevi contro gli armadietti, quando l’hai spaventato a
tal punto da fargli cambiare scuola? Anche allora ti importava come stesse?!».
«Ho
smesso di essere quella persona».
«E
hai la presunzione di credere che questo cancelli ogni cosa! Come se potessimo
semplicemente tirarci su un bel colpo di spugna e tutto tornasse alla
normalità, giusto? Non funziona così, Karofsky!».
«Non
m’interessa quello che pensi tu, Anderson. Kurt mi ha perdonato, ha detto che
potevamo essere amici».
«Solo
perché lui è troppo buono. Tu non hai idea del male che gli hai fatto, non hai
idea di come si sia sentito, solo a causa tua. Potrai essergli amico, potrà
averti concesso questo, ma non credere che ti abbia perdonato: nessuno può
perdonare una cosa del genere».
«Lui
sì».
«Ti
sbagli. Kurt ha solo deciso che non gli importa, ha solo deciso di darti una
seconda possibilità e tu l’hai sprecata tentando il suicidio. Hai minacciato
lui per mesi e non hai retto neanche una settimana ed ora vieni qui a dire che
ti ha perdonato – come tu perdoneresti quelli che ti hanno spinto a tentare una
cosa del genere? Continui a ferirlo. Kurt era sconvolto dal tuo gesto, credeva
che fosse colpa sua-»
«Ma
non è stata colpa sua!»
«Credeva
che se avesse risposto alle tue chiamate da stalker
forse non avresti provato ad ammazzarti. Si sentiva in obbligo verso di te e tu
non hai fatto altro che farlo stare male, ancora. Quindi non venirmi a dire che
tieni a lui. Non è vero».
Dave era così sconvolto da quelle parole che ci mise
qualche istante in più del necessario per rispondere.
«Non
hai il diritto di parlarmi così. Forse non saprò come si è sentito Kurt, ma tu
non sai come mi sono sentito io. Non sai che cosa ho provato, non sai che cosa
provo. Stai solo sparando sentenze che neanche capisci».
«So che cosa si prova. So che cosa si
prova ad essere ferito e so che cosa si prova a cedere. E soprattutto so che
cosa si prova a stare accanto alla persona che ami senza poter far nulla per
aiutarla. So che Kurt è stato male – per molto tempo – e che gran parte della
colpa è tua, quindi non ti permetterò di andare oltre. Ora vattene».
Karofsky
si sentì punto sul vivo. Aveva fatto state male Kurt. Lo sapeva, ma sentirselo
dire aveva un altro effetto. Improvvisamente si sentì un verme e per quanto
avrebbe voluto battersi per difendere la propria posizione, capì che Blaine
aveva ragione, più ragione di lui quanto meno.
Si
disse che non sarebbe finita così, che avrebbe parlato con Kurt non appena si
fosse svegliato, ma quella mattina desistette ed uscì dalla stanza, come aveva
chiesto Blaine – ma non perché lo avesse chiesto lui.
Il
riccio lo guardò andare via, mentre ancora fremeva per la rabbia e poi tornò a
concentrarsi sul suo ragazzo. Se fosse stato sveglio probabilmente non gli
avrebbe permesso di cacciarlo così, ma non
era sveglio, quindi toccava a lui proteggere entrambi.
*
Muoversi
tra i corridoio della Dalton era una cosa che, dopo una settimana, gli risultava
così odiosa che se non avesse avuto impegni da rispettare si sarebbe
semplicemente accasciato in un angolo per il resto della sua vita, senza più
fare un passo.
Ma
ovviamente Jeff non poteva permetterselo: aveva le lezioni, i Warblers, la
preoccupazione per Thad che lo tormentava anche se il ragazzo stava migliorando
e di lì a qualche giorno lo avrebbero dimesso. E poi c’era Nick.
Nick
era il suo più grande problema e il fatto che mai si sarebbe sognato di poter
formulare una simile affermazione era forse la cosa che lo destabilizzava di
più. Perché Nick non era più lui, non era il suo Nicky, per quanto agli altri
apparisse fin troppo uguale a sempre.
Il
biondo sbuffo, appoggiandosi al muro del corridoio e riprendendo fiato. I
medici erano stati chiari: avrebbe dovuto muoversi quanto meno possibile e con
l’ausilio fisso delle stampelle per favorire la guarigione della gamba, ma la
verità era che non ce la faceva ad andarsene in giro in quel modo. Sarebbe
stato come avere i riflettori puntati continuamente addosso ed un indicazione
al neon che diceva “superstite devastato” e quella era la sola cosa di cui non
aveva affatto bisogno. Non voleva attenzioni, non voleva sguardi di pietà a
parole di conforto.
Rivoleva
la sua vita, i suoi amici, il suo Nick. Perché lui sembrava essere il solo a
non accorgersi della scritta al neol e dei riflettori
– con o senza le stampelle.
«Jeff!
Siediti qui!».
La
voce squillante di Cameron attirò la sua attenzione e il ragazzo camminò con
lentezza e, per quanto non avesse voluto, zoppicando vistosamente fino al posto
in mensa che il Warbler gli aveva tenuto.
Una volta a farlo era Nick.
Sospirò,
mentre si sedeva e non poté non notare lo sguardo leggermente preoccupato di
Richard. Gli sorrise, stanco ma consapevole che se non l’avesse fatto avrebbe
scontato una seria punizione – un interrogatorio senza fine sul “come ti senti”
di cui avrebbe sicuramente fatto a meno. Non ce l’aveva con lui, anzi: Richard
era carino a preoccuparsi, o anche solo a notare che le cose non andavano affatto
bene, ma dopo una settimana di domande era stanco di continuare a mentire a se
stesso e a lui dicendo che per quanto non stesse bene le cose si sarebbe
sistemate a breve. Perché era ovvio che non sarebbe successo.
«Come
va la tua gamba?», chiese Flint per interrompere lo strano silenzio che era
sceso non appena Starling si era seduto.
«Bene»,
mentì quello «Tra un paio di giorni devo farmi sostituire i punti, ma magari li
tolgono definitivamente».
Tutti
annuirono più o meno sollevati, alcuni dando delle pacche sulla spalla del
diretto interessato. Jeff però non aveva occhi che per Nick, che dal canto suo
non aveva detto nulla, ma stava anzi guardando da tutt’altra parte, come se non
fosse interessato alla cosa.
Una volta a Nick sarebbe importato.
«Ragazzi,
pensavo, perché dalla prossima riunione non improvvisiamo qualcosa?».
La
domanda di Nick sorprese tutti. Sebastian si lasciò scappare un sorrisetto.
«Non
so...», intervenne James «Con Thad ancora in ospedale e Jeff che non può
ballare...»
«Che
lagna, signori!», si lamentò il capitano dei Warblers «Per quanto ancora
andremo avanti con questo atteggiamento di impasse?
Insomma basta! Diamoci una svegliata!».
«Potevamo
morire tutti!», si oppose con forza Nicholas, esprimendo lo sconcerto generale
per parole tanto irrispettose «È un miracolo il fatto che siamo tutti qui a
parlarne e ti ricordo che Thad, il tuo
compagno di stanza, ha seriamente rischiato di non farcela! Solo perché tu
non ti interessi di nient’altro che di te stesso non vuol dire che dobbiamo essere
tutti quanti stronzi e senza cuore come te!».
Sebastian
sussultò. Avrebbe voluto gridare che si sbagliava su tutta la linea, ma in
fondo quelle parole erano ciò che voleva ottenere, quindi gli andavano bene.
Giusto?
«Il
fatto che l’abbiamo scampata bella non ci autorizza a piangerci addosso e a
ragionare sulla caducità della vita e delle cose umane», ribatté cercando di
essere quanto più fermo e pungente possibile «Questo pomeriggio abbiamo una
riunione alle 4. Sarà meglio che siate pronti a lavorare come sempre»,
consigliò freddamente, alzandosi dal tavolo ed avviandosi.
Si
fermò dopo pochi passi e voltò appena il capo, inquadrando il resto del gruppo
con la coda dell’occhio.
«Ah,
Nicholas: non parlarmi più di Harwood. Sai che le cose sono cambiate», concluse
con un sussurro, prima di andarsene veramente.
Il
resto della squadra si guardò perplesso: Smythe non aveva mai fatto mistero
della poca affabilità di cui era capace e ancora meno del fatto che
fondamentalmente non tenesse a nessuno lì dentro, ma avevano pensato che in un
momento simile anche lui si sarebbe comportato in modo quanto meno umano. Invece, sembrava che la cosa non
lo avesse minimamente sfiorato, anzi era peggio di prima.
Richard
guardò Cameron come se quel gesto bastasse a comunicare. L’altro sorrise con
fare rassicurante, ma annuì perché aveva compreso quello che gli stava dicendo:
qualcosa non andava con Sebastian e se quello era il suo modo di reagire
all’incidente loro capitato, beh, non sarebbe andato avanti per molto prima di scoppiare.
Era lui quello nella fase di impasse.
«Vado
anche io: torno in camera. Non verrò alla riunione: non potrei comunque fare
nulla».
Jeff
ruppe il silenzio con tono sconsolato e senza lasciare che qualcuno dei ragazzi
replicasse si allontanò traballante.
«Si
può sapere che cosa ti ha fatto?», chiese Trent,
ovviamente rivolgendosi a Nick, non appena il biondo fu abbastanza lontano.
Il
diretto interessato sembrò cadere dalle nuvole.
«Cosa…
cosa mi ha fatto?»
«Lo
tratti in modo pessimo da quando siamo tornati!», gli fece presente Jonh «Che cosa è successo?».
«Nulla…
noi… nulla, non è successo nulla», si difese Nick, preso alla sprovvista: non
pensava che se ne fossero accorti, non pensava che fosse così evidente il modo
in cui stava evitando di farsi coinvolgere da qualunque cosa implicasse il suo
compagno di stanza.
«Amico,
qualunque sia il tuo nulla, vedi di
risolverlo alla svelta: Jeff sta male e non permette a nessuno di avvicinarsi»,
consigliò, con una punta di risentimento Richard e tutti gli altri annuirono.
Nick
si sentì mancare il fiato: improvvisamente si sentì in colpa per quello che
stava facendo, per come si stava comportando da una settimana. Aveva chiesto a
Jeff di rimanere quelli che erano, ma in fondo lui stava solo continuando ad
allontanarlo, senza un reale motivo che non fosse la sua codardia.
«I'm
still alive but I'm barely breathing. Just prayed to a god that I don't believe
in, 'coz I got time while she got freedom, 'coz when a heart breaks no it don't
break even».
La
voce sottile di Jeff si espandeva per la stanza, triste. Ormai i ragazzi erano
andati alla riunione e almeno per un po’ sarebbe stato solo in camera per
davvero e non soltanto perché Nick si ostinava ad ignorarlo. Era ironico.
Avevano passato interi giorni a discutere su quanto dovesse essere frustrante
che il proprio compagno di stanza ti ignori ed ora si trovava nella stessa
situazione. Allora i soggetti erano Thad e Smythe, adesso loro due.
Era
così ironico da far male.
Gli
aveva detto che tutto sarebbe rimasto come sempre, gli aveva fatto promettere
che loro due non sarebbero cambiati e poi invece aveva semplicemente cominciato
a far finta che non esistesse. E dannazione, l’indifferenza era davvero la
peggiore delle cose. O forse lo era il fatto che lui sembrasse stare bene...
Nick stava bene anche senza di lui e questo lo uccideva perché aveva sempre
pensato di contare qualcosa nella vita del suo migliore amico – altrimenti a
cosa valeva la definizione di migliore
amico? A quanto pareva si era sempre sbagliato. Perché lui si sentiva
morire dentro ogni istante che passava e Nick era con gli altri Warblers a
cantare e ballare come se nulla fosse.
Come
se lui non esistesse.
«What am I supposed to do when the best part of me was always you? What
am I supposed to say when I'm all choked up and you're ok? I'mfalling to pieces. I-»
«I'mfalling to pieces».
La
voce del biondo si bloccò non appena una seconda prese il suo posto in quella
canzone. Si voltò di scatto per vedere Nick, a pochi passi da lui, il viso
pallido e gli occhi lucidi.
«Sto
cadendo a pezzi, Jeff», sussurrò il bruno, riprendendo il verso della canzone
che gli aveva appena sottratto «Stiamo entrambi candendo a pezzi».
Starling lo guardò come se non potesse davvero credere che
fosse lì, che stesse parlando di nuovo con lui, che ci fosse una speranza per
loro, per mettere le cose a posto. Perché era quello che voleva, giusto? Se era
lì era per sistemare tutto quello che era successo...
O
forse no. Forse era un altro dei suoi inganni, dei suoi maledetti compromessi.
Stavolta però sapeva come difendersi.
«Io
sto cadendo a pezzi, Nick. A te non frega nulla», lo corresse freddo,
alzandosi con sforzo per il movimento improvviso.
Il
bruno annuì senza staccare gli occhi dal compagno di camera: era vero, a lui
non era fregato nulla di Jeff in quella settimana, o almeno aveva fatto di
tutto perché sembrasse così. Ma se solo avesse saputo la verità, se solo avesse
saputo che cosa si agitava in lui, Jeff non avrebbe mai pensato una cosa del
genere. A lui importava, importava terribilmente.
«Sono
stato uno stronzo, hai ragione Jeffie, ma-».
«Jeffie?», gridò il biondo con risentimento – la
rabbia era la sola cosa che sentisse al momento e non sarebbe stato più in
grado di trattenerla «Come osi chiamarmi così adesso? Jeffie non c'è più, lo stai ammazzando, come stai
ammazzando Nicky e la colpa è solo mia perché te lo sto lasciando fare! Sto
lasciando che tu distrugga me e che distrugga il ricordo che ho di te, del vero
te, il te di cui ero innamorato».
Non
avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto mantenere quell'aria incazzata da
sfida, fredda ed impassibile, l'aria che aveva avuto Nick in quei giorni e che
in realtà non era mai appartenuta a nessuno dei due. Eppure le lacrime rigarono
il suo viso prima che se ne potesse rendere conto, mentre stava ancora
parlando. Faceva male dare voce ai pensieri, faceva malissimo.
Nick
trattenne il fiato come se ogni sillaba lo avesse colpito allo stomaco. Non se
l'aspettava. Poteva solo immaginare il male che stava facendo a Jeff, ma non si
aspettava una simile reazione. E poi... aveva detto che era innamorato di lui?
Assurdo, ma in tutto quello sfogo ora era la sola cosa su cui stesse
focalizzando la sua attenzione.
«E
sai cosa mi fa più rabbia? Che io stia qui a deprimermi mentre tu invece te ne
vai in giro come se nulla fosse, come se avessi cancellato in un sol colpo anni
di ricordi e non sapessi più neanche chi sono. Un cuore quando si spezza non
lo fa mai a metà, giusto? È ingiusto, tu sei ingiusto e vorrei che tutto
questo non facesse così male».
«Sei
innamorato di me?».
Jeff
avrebbe voluto ridere e piangere nello stesso momento, ma non ebbe la forza di
fare nessuna delle due cose. Da quanto Nick era diventato tanto idiota?
«Possibile
che io stia gridando da minuti e minuti e tu ti sia concentrato sull'unico dato
inutile di tutta la questione?!».
«Ma
è così, giusto? L'hai detto?», continuò a chiedere il bruno, avvicinandosi
sempre più all'altro.
«Se
non fossi innamorato di te non staremmo qui ad avere questa discussione, io non
starei piangendo, tu non staresti facendo lo stronzo e magari, dico magari,
staremmo ancora parlando come due persone civili, anziché gridare come matt-».
Le
labbra di Nick interruppero la voce arrabbiata e spezzata di Jeff, poggiandosi
sulle sue con leggerezza ed istinto, come se fosse stata la cosa più naturale
ed appropriata da fare in quel momento. Il biondo trattenne il fiato, senza
sapere che cosa fare, fino a che le braccia agirono quasi da sole nell'allontanarlo
da sé.
«Cosa
cazzo pensi di fare ora?», sputò come se lo avesse ferito ancora di più –
perché gli era piaciuta quella sensazione, perché ne aveva sentito la mancanza
nonostante l'avesse provata una sola volta.
«Ti
bacio».
«E
perché lo fai?».
«Perché
sono innamorato di te».
In
quel momento Jeff sentì il tremendo bisogno di prendere Nick a schiaffi. O
magari se stesso. Perché era tutto completamente assurdo e non poteva che
essere uno scherzo di pessimo gusto. Non riusciva a capacitarsi di quello che
il bruno gli aveva detto: non aveva senso! Non aveva senso che anche Nick fosse
innamorato di lui, ma che avesse al contempo deciso di tagliarlo fuori dalla
sua vita, non aveva senso che lo stesse facendo soffrire così...
«Ho
avuto paura. Lo so che sono stato uno stronzo, lo so che ti ho fatto stare
male... ma ho avuto paura che accettare quello che provavi, quello che anche io
provo sarebbe stato troppo. Se ti avessi perso? Sei la sola cosa sicura che
abbia al momento, la sola cosa a cui io possa aggrapparmi senza avere paura e
il fatto che mentre una scuola ci cadeva addosso tu mi abbia baciato è stato
destabilizzante. Ho pensato che se le cose non fossero andate nel verso giusto
non saresti stato più con me, neanche come amico... ed io non posso perderti, capisci?
Non posso. Non credo sarei capace di sopravvivere senza di te».
«Quindi
meglio trattarmi male e ferirmi... logico», sussurrò ancora rabbioso Jeff.
«No,
affatto. Non c'è nulla di logico. C'era solo paura, Jeffie.
C'ero solo io che non sapevo che cosa fare mentre sembrava che tutto mi stesse
cadendo addosso».
«Stava
cadendo addosso a tutti, Nick».
«E
tu non hai avuto paura? Non ti sei sentito al limite, pronto a dare di matto?».
«Sì,
certo che sì! Ma mi sono sentito così perché tu non eri con me!».
Il
bruno non riuscì a reprimere uno scoppio di pianto. Aveva davvero fatto tutto
questo? Fatto del male a Jeff così tanto senza rendersene conto? Ed ora… ora lo
aveva perso… ora non sarebbe stata la stessa cosa… ora…
Jeff
gli alzò il mento e lo guardò dritto negli occhi. Poteva vedere la loro
lucentezza che schiariva il colore delle iridi e non ci pensò per più di
qualche istante prima di baciarlo con lentezza, mischiando le loro lacrime,
lasciando che Nick capisse che era perfettamente
la stessa cosa, che con lui non sarebbe stato mai troppo tardi.
«Jeff…»
riuscì a sussurrare il bruno prima di riprendere le sue labbra morbide tra le
proprie e baciarlo ancora, come se fosse la sola cosa di cui avesse bisogno al
momento.
Si
chiese come avesse fatto fino a quel momento senza, perché quella sensazione di
morbidezza, di stare sospeso mezzo metro da terra, di non riuscire a staccarsi
da Jeff ed avere il cuore così pieno di gioia da poter scoppiare sembrava tutto
ciò di cui avesse bisogno.
«Non
ti ho perso, non ti ho perso, non ti ho perso», si ripeté non appena riuscì la
lasciar andare la sua bocca e lo strinse a sé con forza.
Jeff
poggiò la sua testa nell’incavo della spalla di Nick e si lasciò tenere così:
non l’aveva perso e lui era dannatamente grato per questa cosa. Era il suo
Nicky ora, il suo Nicky…
«Ti
amo…», sussurrò senza rendersene conto subito; quando lo capì, ebbe paura di
aver sbagliato di nuovo.
Il
bruno lo allontanò quel tanto che bastava per vederlo ed annuì, il suo miglior
sorriso messo lì solo per Jeff.
«Ti
amo» ripeté con semplicità, prima di tornare a stringerlo a sé.
*
Sebastian
trattenne a stento un nuovo lamento mentre il medico continuava a disinfettare
la ferita alla mano per mettere nuovi punti. Era più un gemito di nervosismo e spossatezza
per la situazione che per altro – lungi da lui lamentarsi come una femminuccia
per un taglietto – ma l’uomo non smetteva di alzare la testa in sua direzione
ogni volta che non riusciva a contenersi e la cosa lo stava irritando
terribilmente.
«Apra
molto lentamente la mano», gli disse e Sebastian fece quanto gli era stato
detto anche se con riluttanza.
Il
graffio che si era procurato durante il crollo andava dall’indice fin oltre il
polso e nonostante non fosse così profondo da suscitare preoccupazioni, il
medico che lo aveva disinfettato e gli aveva applicato i dovuto punti lo aveva
costretto ad tornare per un controllo ogni due-tre giorni, adducendo come scusa
il fatto che aveva lasciato trascorrere quasi una giornata intera prima di
avere il buon senso di farsi medicare.
«Ora
provi a toccare con il pollice, una dopo l’altra, tutte le dita. Sempre
lentamente», disse di nuovo l’uomo.
Il
ragazzo fece quanto gli era stato chiesto, ma stavolta non riuscì a trattenere
quello che era un vero gemito di dolore, quando provò ad arrivare all’anulare.
«È
normale che le faccia ancora male, ma dopo dieci giorni posso dire che la
cicatrizzazione sta procedendo bene: non ci sono segni di alcun tipo di
infezione e penso proprio che questa sarà l’ultima medicazione di cui avrà
bisogno. Torni tra cinque giorni e toglieremo tutto», concluse soddisfatto il
medico, congedando definitivamente un sollevato Sebastian che quasi scappò
dalla stanza, non appena capì di essere “libero”.
Si
sistemò meglio la giacca del giubbino non appena fu fuori e si avviò
velocemente lungo il corridoio, massaggiandosi la mano quasi senza rendersene
conto. Odiava gli ospedali: erano ciò che lo spaventava di più al mondo – molti
avrebbero detto di sentirsi sicuri tra quelle mura, tra le mani di specialisti
che sapevano cosa stava loro succedendo, ma la verità era che non c’era posto
più vicino alla morte e alla debolezza di quello. Lì era come se la sofferenza
di chi era ricoverato e dei parenti formasse una cappa che avvolgeva ogni cosa:
non importava se avessi davvero un motivo per star male o essere triste, in
quel posto lo saresti stato ugualmente, come per osmosi. E Sebastian non voleva
stare male, non voleva essere triste o fragile, quindi doveva scappare quanto
prima da lì dentro, trovare l’uscita e la salvezza prima che qualc-.
«Trovate il modulo di dimissioni da firmare
alla reception del piano, signori Harwood. Serve solo una firma e poi potrete
portare vostro figlio a casa».
Smythe
non provò neanche a tirare dritto, ma fece qualche passo indietro e si nascose
contro la parete, in modo da intravedere appena gli interlocutori senza essere
visto da loro. C’erano un paio di medici in camice, i signori Harwood e Thad.
Scorgere il suo viso fu più liberatorio di quanto Sebastian avrebbe mai ammesso:
stava bene ed accertarsene di persona era una cosa meravigliosa.
«Alla
Dalton. Non a casa», li corresse il ragazzo, senza lasciare che lo sguardo di
disapprovazione dei genitori sminuisse la sua convinzione «Sono tutti lì:
sapete che a casa non resisterei neanche un giorno».
«Basta
che stai a riposo completo per ancora altri due o tre giorni», si preoccupò di
ricordare uno dei medici.
Thad
sorrise, il viso ancora un po’ pallido che prendeva un po’ di colorito con quel
gesto, e lasciò che il padre lo tirasse a sé con affetto poggiandogli un
braccio sulle spalle. Non sarebbe servito uno psicologo o un indovino per
capire quanto rafforzato fosse uscito il loro legame da quella situazione e
ancora una volta Sebastian provò l’istinto quasi doloroso di intervenire ed
unirsi alla scena.
Mosse
anche qualche passo, prima di fare resistenza su se stesso e fermarsi. Che
diavolo di senso avrebbe avuto entrare in quella scena? Non ne faceva parte,
aveva scelto di non farne parte per il proprio bene ed ora doveva semplicemente
rigare dritto.
Si
scrollò di dosso l’esitazione che lo aveva colto e si decise ad andare avanti
ed uscire da quel posto. Ecco cosa intendeva parlando di ospedali. Ecco perché
li temeva.
«Prima
di andare devo fare una cosa».
Melissa
guardò suo figlio con fare interrogativo, mentre tutti e tre si muovevano per i
corridoi del reparto, moduli firmati in mano, pronti a lasciare quel posto.
«C’è
un mio amico ancora ricoverato qua, ricordate?», spiegò Thad ed entrambi i
genitori annuirono: Kurt, era quello il nome del ragazzo. Lo avevano trovato
tra le stesse macerie di Thad, aveva rischiato di morire come lui ed era ancora
in coma. Avevano anche parlato con il padre una volta e avevano sentito come
proprio il dolore di quell’uomo tanto che alla fine Kevin si era scusato e si
era allontanato – non avrebbe retto ancora per molto.
Erano
passati dieci giorni da quell’incidente, dieci giorni dal ricovero in ospedale
e quel ragazzo non si era ancora svegliato. Nessuno dei due poteva immaginare
che cosa volesse dire aspettare per così tanto tempo che il proprio figlio
aprisse gli occhi.
Nel
corridoio di Terapia Intensiva, la famiglia Harwood riconobbe Finn Hudson che
sedeva distrattamente su uno dei seggioli di fronte la porta della camera di
Kurt. Non si accorse di loro fino a che Thad non lo salutò gentile; solo allora
scattò in piedi salutando a sua volta e sorridendo: il Warbler non lo aveva mai
conosciuto per bene, ma poteva ugualmente notare quanto fosse stanco e agisse
in modo meccanico, quasi tutto quello fosse diventato un abitudine.
«Blaine
è dentro… vuoi entrare?», propose il ragazzo facendo un cenno verso la porta
Thad
esitò qualche istante prima di annuire ed avviarsi: in fondo era andato lì per
vedere Blaine e Kurt, non aveva senso rinunciare in quel momento. Dovette però
ricredersi quando, non appena fu entrato, l’immagine di quelli che un tempo
erano stati suoi compagni di squadra gli tolse il fiato, procurandogli un
capogiro che lo costrinse ad appoggiarsi al muro per non perdere l’equilibrio.
Blaine sentì immediatamente il movimento alle sue spalle e si voltò di scatto.
«Thad!»,
lo chiamò sorpreso, muovendosi verso di lui e prendendolo per le spalle «Ti
senti male?».
Il
Warbler lo guardò per qualche istante prima di abbracciarlo forte – per quanto
il braccio limitasse i movimenti – e non si sorprese nel sentire la presa
stretta con cui il riccio ricambiò il gesto, come se in fondo quello a reggersi
con difficoltà in quel momento fosse proprio lui.
«Siediti.
Come stai?», chiese Blaine non appena fu in grado di lasciarlo andare,
accompagnandolo con attenzione fino alla sedia accanto al letto di Kurt.
Harwood
avrebbe risposto se i suoi occhi non si fossero incollati al viso pallido del
ragazzo steso sul letto in un modo così forte che fu impossibile per lui
concentrarsi su qualsiasi altra cosa che non fosse quell’espressione a metà tra
la calma e il dolore che aveva sul volto Kurt. Perché sembrava semplicemente
dormire, ma tutti – compreso lui – sapevano che non era così.
«Dovrai
odiarmi così tanto, Blaine», sussurrò con voce spezzata.
«Che
cosa stai dicendo?».
Thad
si voltò a cercare gli occhi dell’amico: sapeva che i suoi dovevano essere già
lucidi, ma non importava purché potesse vederlo per bene mentre gli chiedeva la
cosa che forse lo stava tormentando di più da quando era successo tutto quello
– Sebastian a parte.
«Devi
odiarmi. Io sono qua, sto bene, mentre Kurt è in coma e non sappiamo neanche
quando… Eravamo nella stessa stanza, esposti allo stesso pericolo eppure io sto
bene, mentre lui è bloccato in un letto di Terapia Intensiva. Devi per forza
odiarmi, devi esserti chiesto perché a lui e non a me… E hai ragione: è
ingiusto… tutto questo è semplicemente ingiusto ed io vorrei che ci fosse un
modo per-».
Il
ragazzo si bloccò: non che volesse farlo, aveva ancora tanto da dire, ma Blaine
gli si era buttato tra le braccia e aveva cominciato a singhiozzare sulla sua
spalla come un bambino, scuotendo la testa, ma non riuscendo a proferire parola
per l’impeto del pianto. Thad gli accarezzò la schiena, stringendolo a sua
volta non appena ebbe ripreso coscienza di quello che stata accadendo.
«Non
ho m-mai sentito uno d-discorso meno s-sensato di questo. S-soprattutto da te»,
balbettò il riccio, cercando di ricomporsi; quando poté vedere di nuovo il
volto dell’amico, scorse anche su quello qualche lacrima che lo bagnava,
dolorosa.
«Ho
passato questi giorni pensando a come dovevate stare, a come dovevi sentirti e
non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che se avessi fatto qualcosa tutto
questo non sarebbe successo, che magari le cose sarebbe potute andare
diversamente per Kurt… Non sono venuto prima per questo... Non sapevo cosa
fare...».
«Non
c’era nulla che tu potessi fare, Thad. Non potrei mai avercela con te! Anzi…
avrei dovuto venire io a trovarti in questi giorni… ma sai… Non…».
«Lo
so», lo rassicurò Harwood «Non avrei mai preteso una cosa del genere,
considerato tutto... questo. E poi sto bene!».
Blaine
annuì: sì, stava bene, se si escludeva il lieve tremore che lo scuoteva e che
il riccio riusciva a scorgere per quanto Thad sapesse nasconderlo bene e quegli
occhi che lo osservavano in modo così diverso dall’ultima volta che aveva
parlato con lui.
Stava
bene. Stavano tutti bene.
«Ti
hanno dimesso, quindi?», chiese allora, sperando di cambiare argomento ed
alleggerire la conversazione.
«Appena dimesso, sì», confermò con
entusiasmo quello «Finalmente torno alla Dalton!».
Blaine
annuì: poteva capire perché fosse tanto contento. I Warblers erano sempre stati
una famiglia e certo, ora aveva le New Direction, ma
non sarebbero mai stati in grado di sostituirli, non completamente.
«Se
vuoi… potresti venire con me, almeno per stasera, e stare con noi. Ti farebbe
bene uscire un po’…».
Thad
sapeva che Blaine non avrebbe mai accettato, ma non aveva potuto fare a meno di
proporlo: gli occhi stanchi dell’amico sembravano supplicare una pausa che il
cuore non avrebbe mai ammesso di necessitare. Blaine non se ne sarebbe mai
andato da lì, non avrebbe mai lasciato Kurt da solo, nonostante sembrasse terribilmente
vicino al limite.
«No.
Sai che non posso».
«Sì.
Lo so».
Thad
lo abbracciò un’ultima volta, promettendo che sarebbe tornato presto, forse
anche il giorno seguente, e che sicuramente anche gli altri avrebbero fatto
altrettanto: se c’era una cosa su cui avesse mai avuto ragione Sebastian era
proprio che un Warbler non smetteva mai di essere tale.
Il
riccio gli sorrise, stringendolo forte, e lo ringraziò di tutto,
ripromettendosi di chiamarlo per chiedere degli altri, anche se il ragazzo lo
aveva rassicurato sul fatto che, fisicamente, stessero tutti bene. Aveva
ovviamente evitato di menzionargli i propri problemi con Smythe o peggio le
incomprensioni di Nick e Jeff: sarebbe stato inutile e lo avrebbe solamente
fatto preoccupare inutilmente.
Quando
andò via, Harwood non poté fare a meno di sentirsi in colpa, come se stesse
lasciando un compagno indietro e la cosa non lo faceva affatto stare bene.
Blaine invece sospirò, leggermente meno stanco, come se la visita di Thad gli
avesse portato un po’ di vecchia quotidianità ormai persa. Prese il suo posto,
accanto al metto di Kurt, e posò la propria mano sulla sua.
«Thad
è davvero un grande amico. Mi ha fatto bene vederlo…», sussurrò, abbassando
distrattamente lo sguardo, forse per celare un sorriso sincero che gli era
spuntato sulle labbra a quel pensiero.
Quando
lo rialzò, un giramento di testa gli tolse il fiato. Le dita di Kurt si erano
mosse, si stavano muovendo proprio davanti a lui. Spalancò gli occhi,
impedendosi di prendere aria. Era tutto un sogno, vero? O una sua
immaginazione, o il primo sintomo della sua follia. Non poteva essere la
realtà, non poteva aver davvero mosso le dita, perché questo voleva dire che…
«Kurt…?
Kurt puoi sentirmi?».
Le
parole, la loro speranza saltò fuori prima che Blaine potesse essere abbastanza
cauto da non alimentare false aspettative. Forse ne aveva semplicemente
bisogno: la voglia di sperare ancora che Kurt potesse davvero svegliarsi era
più forte della paura per la delusione che avrebbe potuto atterrarlo se mai si
fosse sbagliato.
Kurt
mosse ancora la mano.
Quando
Thad Harwood mise finalmente piede alla Dalton, una decina di ragazzi festosi e
con grossi sorrisi lo accolse nel modo più caloroso che potesse immaginare – e
a poco contava se nell’impeto qualcuno gli urtasse il braccio facendogli male:
quegli abbracci, quell’affetto, quel calore gli erano mancati troppo.
«Sono
così felice di vedervi tutti!», esclamò appena riuscì a riprendere fiato, con
le lacrime di commozione che premevano agli angoli degli occhi.
«Ci
sei mancato terribilmente», gli saltò di nuovo al collo Jeff e Thad dovette
chiedersi in che modo riuscisse a nascondere la tristezza che fino a qualche
giorno fa gli aveva confessato nelle continue chiamate.
Gli
bastò guardarlo un secondo di più negli occhi per capire che non stava fingendo
o nascondendo nulla, che aveva semplicemente fatto pace con Nick, che tutto era
tornato a posto, se non meglio. Sorrise verso il biondo mostrandogli di aver
capito e gli occhi che luccicarono per la felicità furono la cosa più bella che
Thad avesse chiesto quella sera. Inutile dire che Nick non fu da meno, anzi:
Harwood si trattenne a stento dal esclamare un grido di vittoria per la
riconciliazione, ricordandosi all’ultimo che se non l’avevano detto a lui,
forse era perché non lo avevano ancora detto a nessuno.
«Scenderò
per cena, ma ora datemi il tempo di salire in camera e mettermi la divisa: non
avete idea di quanto ne abbia sentito la mancanza!», si scusò ad un tratto il
ragazzo, avviandosi infine verso le scale, seguito con lo sguardo da tutti i
suoi compagni.
Thad
osservava ogni cosa con la dovuta attenzione, soffermandosi su ogni particolare
come se fosse la prima volta che li vedeva – e forse era davvero così che si
sentiva, come se stesse vivendo tutto per una seconda prima volta e la cosa lo
entusiasmava ed estasiava come se non ricordasse più nulla e stesse scoprendo
tutto daccapo, con una stretta allo stomaco per lo splendore del posto.
Lentamente, però, i ricordi della vita che aveva vissuto tra quelle mura cominciarono
ad affiorare, impreziosendo le immagini che gli capitavano davanti. Ora c’era Trent che lo svegliava portandogli del caffè fumante dopo
una delle sue nottate di studio dietro la matematica; ora invece Flint
rincorreva Jeff dopo l’ennesimo scherzo che quest’ultimo gli aveva fatto; poi
c’era Cameron e la sua pace serafica che aiutava James a venir fuori da chissà
quale melodrammatico fatto di donne, mentre più avanti poteva riconoscere
perfettamente il momento in cui Andrew si era presentato davanti camera sua
chiedendo asilo politico dopo una lite con Luke.
Erano
tutti lì ed improvvisamente quella nuova prima volta si colorava delle
sfumature migliori dei sui ricordi, fino a che non si trovò finalmente davanti
alla porta della sua camera.
«Ciao! Posso aiutarti?».
Un ragazzo longilineo dai bellissimi occhi
chiari lo guarda sorpreso, prima di sorridere – o sarebbe stato più appropriato
definirlo ghigno? – ed allungare una mano verso di lui.
«Sebastian Smythe, piacere: credo di essere
il tuo nuovo compagno di stanza».
Thad deve trattenere uno sguardo di
disappunto e sfoggiare uno dei suoi migliori sorrisi, mentre stringe la mano di
uno sconosciuto. Non che non ne fosse informato: sapeva che con il
trasferimento di Blaine erano cambiati gli ordini nelle stanze e che lui si
sarebbe trovato con un nuovo ragazzo… ma il fatto che fosse davvero davanti a
lui in quel momento rendeva la cosapiù
reale di quel che pensasse.
Sperava solo che si sarebbe trovato bene.
Il
ragazzo sospirò ed abbassò la maniglia della porta, quasi sicuro di trovare lì
Sebastian: in fondo non era andato a salutarlo con gli altri, quindi era
probabile che fosse semplicemente steso sul proprio letto, con fare
indifferente.
Quando
entrò però una cosa lo colpì in modo terribilmente veloce. La stanza era vuota;
e non solo perché effettivamente non vi era nessuno dentro, ma soprattutto
perché mancavano molte delle cose che era abituato a vedere. La chitarra
nell’angolo accanto alla scrivania era scomparsa, così come la parte dei CD
sulla mensola e alcuni libri che occupavano un paio di scaffali accanto ai
letti. Istintivamente Thad aprì l’armadio del suo compagno di stanza, per
trovarlo vuoto come aveva immaginato. Le cose di Sebastian semplicemente non
erano più in quella stanza.
«Avremmo
voluto dirtelo, Thad… ma eri così felice di essere tornato e noi di averti
ancora qui, che non ce la siamo sentiti di rovinare tutto».
La
voce lieve di Nick fece girare il Warbler verso la porta, così da poter
scorgere l’amico, accompagnato da Trent e Jeff.
«Che
cosa è successo?», chiese, nonostante sapesse perfettamente la risposta.
«Smyhte ha cambiato stanza non appena tornato
dall’ospedale».
_________________________
*Fa
finta che il ritardo con cui pubblica non abbia superato le tre settimane e
fila dritta nelle note d’autore senza fare una piega*.
Ma
salve! Ancora una volta non siete riusciti a sbarazzarvi di me! E in più,
finalmente qualcosa ha deciso di andare davvero per il verso giusto! La parte Niff poi, come anticipato, è dovuta alla carissima Emilia,
che dopo avermi minacciata consigliato di far tornare insieme quei due
al più presto, mi ha anche suggerito di farli cantare, trovandomi la meravigliosa
cover di Curt Mega di “Breakeven” degli Script,
di cui mi sono follemente innamorata e che ho infine inserito (era troppo adatta
al momento e al “mio” Jeff per non farlo).
Per
il resto… AngstAnderbros
che va e viene, la Thadastian che non riesce a
riprendersi (e spero che Sebastian sia stato ancora una volta credibile *paura*)
e Kurt che forse, invece, qualcosa sta riuscendo a fare.
Perché hanno
fatto in modo che non gettassi la spugna.
Vi voglio
bene ♥
Non
deve far male. Non deve farti male. Non lui. Non hai rapporti con lui, lui non
è nessuno, non è degno di nota, non è degno del tuo dolore. E per amor del
cielo non lasciare che vedano le tue lacrime, avrai tempo per versarne e
renderti ridicolo e patetico quando sarai da solo. Da solo. Sarai da solo...
Thad
continuava a fissare i tre compagni della Dalton dando l'impressione di non
aver colto a pieno il significato di quello che gli avevano appena detto.
Invece aveva capito fin troppo bene che cosa significassero quelle parole. Era
finito, ecco cosa voleva dire. Qualunque cosa ci fosse – o non ci fosse
stata fra lui e Sebastian, era finita e inspiegabilmente, nonostante tutte le
volte in cui si era lamentato di quella spina nel fianco, ora improvvisamente
non si era mai sentito tanto solo.
Jeff
gli si avvicinò e prima che Harwood potesse rendersene conto si era lanciato
tra le sue braccia, nascondendo le prime lacrime nell'incavo del suo collo; il
biondo lo strinse quanto più possibile a sé, accarezzandogli la schiena e
guardando Nick e Trent con occhi tristi.
«Posso
andare a dirgliene quattro anche ora, se vuoi», sussurrò poi all'amico, non
potendo sopportare oltre quelle lacrime, ma sentì Thad scuotere la testa,
ancora nascosta.
Ci
volle qualche altro istante prima che riuscisse a riprendersi del tutto,
nascondendo alla bene e meglio le ultime lacrime e sorridendo con gli occhi
lucidi.
«Tuttto a posto. È stato un attimo. Sto bene», li rassicuro,
sperando di riuscire a crederci anche lui. «Ora devo sul serio fare una doccia
e cambiarmi. Sarà giù per cena».
I
ragazzi capirono che stava chiedendo loro spazio e annuirono con un sorriso
prima di lasciare la stanza così che Thad potesse prendere un attimo fiato e
cercare di sistemare le cose nella sua testa. Non appena la porta si chiuse
alle sue spalle, Harwood si lasciò scappare un sospiro, sedendosi sul letto e
nascose il viso fra le mani. Avrebbe tanto voluto trattenersi, ma sapeva che
sarebbe stato solo peggio e che invece, se fosse riuscito a sfogarsi, magari
dopo sarebbe stato meglio e non ci avrebbe pensato. Si spogliò con lentezza –
non avrebbe dovuto dar conto a nessuno da ora in poi – e si trascinò in bagno,
sotto il getto di acqua calda che avrebbe nascosto le sue lacrime e difeso il
suo orgoglio.
Il
getto caldo lo rilassò, avvolgendolo nel vapore ed annebbiando ogni cosa,
dandogli la sensazione che per un po' avrebbe semplicemente potuto dimenticare
tutto e tutti, lasciarsi vivere senza doversi preoccupare di quello che gli
stava succedendo intorno. Fu in quel momento che una consapevolezza lo colpì,
forte come poche altre nella sua vita.
Non
avrebbe fatto il suo gioco. Non questa volta. Ormai Sebastian Smythe aveva
smesso di avere influenza sulla sua vita: aveva deciso di uscirne, bene.
Sarebbe stato per sempre e non ci sarebbe stato ritorno. Doveva essere così.
Uscì
dalla doccia con una nuova carica, di quelle che giungono alla fine e qualcuno
chiamerebbe forza della disperazione. Lui la chiama “voltare pagina”, o “darsi
pace” o quel che era. erano scuse, solo nomi che non significavano nulla, che
non potevano coprire quello che provava. Si sarebbe limitato semplicemente ad
ignorarlo, come si fa quando si scopre di avere una malattia, ma si decide di
far finta di nulla. Avrebbe mentito fino a che non sarebbe diventata la realtà.
Indosso
la divisa della Dalton, legò con un bel nodo la cravatta e mise su la giacca:
si sentiva così a proprio agio con quei vistiti, quasi fossero una seconda
pelle, un’armatura. Quasi come se con quelli addosso, qualsiasi cosa si sarebbe
risolta. Uscì dalla stanza senza badare al fatto che era da molto che non la
sentiva così silenziosa, e si incamminò per il corridoio, arrivando nella mensa
in pochi istanti, senza neanche prestare attenzione al percorso che aveva
fatto. Fu buffo pensare che l’ultima volta in cui era stato in una mensa era
letteralmente saltato in aria, ma quella constatazione non gli fece perdere la
carica, non lo rallentò. Arrivò al proprio posto, al tavolo con gli altri
Warbler, con un raggiante sorriso e fu accolto da tutti con un caloroso
applauso.
Tutti
tranne Sebstian. Thad abbassò il capo, un po’ in
imbarazzo, ma lusingato e quando lo rialzò, scoccò in se possibile ancora più
grande sorriso al suo ex-compagno di
stanza.
«Grazie»
disse, sedendosi «Non avete idea di quanto sia felice di essere qua. Smythe»,
sorrise ancora in sua direzione.
L’altro
fu così spiazzato da non rendersi affatto conto di aver ricambiato con un
leggero sorriso, di quelli che si fanno per abitudine e cortesia e ci volle
tutto il suo autocontrollo per evitare di chiedergli che problema avesse. Si
aspettava quanto meno una delle sue sfuriate, qualcosa sul “siamo compagni di
stanza, vorrà pur dire qualcosa per te”; mai avrebbe immaginato un viso tanto
cordiale ed una simile indifferenza alla cosa, come se per lui la sua presenza
– o assenza – non fosse affatto rilevante.
Meglio così, si costrinse a pensare In fondo era quello a cui stai lavorando e
per una volta Harwood non ti sta rendendo le cose difficili.
*
La
prima volta che aveva provato ad aprire gli occhi, la luce lo aveva ferito come
fosse una lama sottile; quindi ora stava fermo, completamente immobile,
cercando di capire dove fosse e come stesse. Frammenti di ricordi gli
attraversavano la mente regalandogli nient'altro che fitte laceranti alla testa
ed ebbe improvvisamente paura di cosa sarebbe successo se avesse anche solo
provato a muoversi.
«Kurt...
Kurt ti prego, dimmi che ti sei mosso, che riesci a sentirmi...».
Quella
voce. La conosceva, aveva qualcosa di così familiare da far male; eppure per
qualche istante parve tutto spento, come se non riuscisse a ragionare, a
mettere due parole di seguito e comporre un pensiero. Ma doveva sapere, doveva
ricordare, doveva capire chi fosse...
«Bla-a-ine...».
La
voce gracchiante, affaticata, diede finalmente voce a quell'istinto. Era
Blaine. Improvvisamente era Blaine. Il suo Blaine. Come aveva potuto metterci
tanto a ricordarlo? Tenne ancora gli occhi chiusi: muoversi gli faceva male e
voleva fare le cose gradualmente, capire prima se aveva davvero sentito la voce
di Blaine o era stato solo nella sua testa. Poi qualcosa cambiò. Una nuova
sensazione, diversa dal dolore o dal suono della voce: impiegò del tempo a
capire che cosa fosse e quando ci riuscì, ancora una volta si chiese come
avesse fatto ad essere così lento. Qualcuno stava stringendo la sua mano.
«Stavolta
ti ho sentito, sono sicuro di averti sentito... Ku-rt...».
Un
singhiozzo. Quello era un singhiozzo. Blaine singhiozza, probabilmente
piangeva. Perché piangeva?
«Che…
co-sa… è suc-cesso?».
Spalancò
gli occhi, come se improvvisamente sapesse di poterlo fare, di doverlo fare.
Spalancò gli occhi e il bianco della stanza lo ferì, facendogli trattenere il
fiato. Quando si concesse di espirare di nuovo, si accorse di avere qualcosa
alla base del nato, qualcosa di sottile, duro, che lo solleticava,
infastidendolo. Cercò di alzare una mano per togliere qualsiasi cosa fosse, ma
sentì l'arto destro tremendamente pesante e voltandosi vide un tubo che
arrivava fino al suo avambraccio.
«N-non
muover-ti». Di nuovo quella voce, di nuovo Blaine. «È la flebo, n-non puoi
toglierla».
La
voce gli tremava ancora a tratti e gli occhi di Kurt lo cercarono, sollevandosi
di poco, non senza sforzo, rispetto al punto del braccio che stavano fissando.
Eccolo lì, bello come sempre, come lo ricordava, gli occhi chiari che
brillavano per le lacrime, alcune delle quali stavano già scendendo sul viso, e
le labbra rosse distese nel sorriso tremulo di chi trattiene il pianto a
stento.
«Ciao...»,
gli sussurrò, cercando di sorridere e sentì il ragazzo prendergli di nuovo la
mano e stringerla nella sua con forza, quasi avesse paura che potesse scappare.
«Tu
non hai i-dea di quan-to sia felice al mo-mento...», singhiozzò Blaine, prima di nascondere il
viso tra le lenzuola bianche e cominciare a piangere.
A
Kurt mancò il fiato per la disperazione che sentiva nei gemiti del suo ragazzo
e nonostante pesasse quanto un blocco di cemento, ce la fece ad alzare il
proprio braccio e posare la mano sui suoi capelli, stranamente liberi dal gel.
Lo accarezzo, provando a dargli conforto per qualcosa che non era certo di conoscere:
doveva essere grave a giudicare dalla reazione del riccio.
«Che
cosa… è successo?», si azzardò a chiedere, ma la risposta di Blaine fu
interrotta dall’arrivo di Finn che, allontanatosi per prendere un paio di
caffè, non esitò a farli cadere per la sorpresa di vedere suo fratello sveglio
– proprio ora che aveva cominciato davvero a perderci le speranze.
«Kurt!»,
esclamò con voce strozzata, raggiungendo poi il letto del ragazzo «Dio, sei
sveglio!» e anche il suo volto si bagnò di lacrime, mentre gli prendeva la mano
– e lo avrebbe sicuramente abbracciato stresso se non fosse stato per il
sondino, la flebo e il pallore di Kurt che ai suoi occhi lo rendeva più fragile
del cristallo.
Dal
canto suo, il ragazzo avrebbe davvero voluto dire ad entrambi di smetterla di
piangere, che non ce n’era motivo perché stava bene, ma sentiva qualcosa
chiudergli la gola per cui si limitò a guardarli senza sapere che cosa dire.
«Credo
che», riprese a parlare Blaine, schiarendosi la gola roca per le lacrime «Dovremmo
avvisare i dottori… e magari anche Burt!».
Finn
annuì, uscendo dalla stanza non senza prima aver dato un ultimo sguardo dietro
di sé a suo fratello, quasi a volersi accertare che fosse davvero lì, sveglio,
e che non fosse solo uno dei suoi sogni. Quando il sorriso di Kurt si fu
impresso abbastanza nella sua mente da convincerlo che stava accadendo davvero,
riuscì a superare la soglia della porta e ad uscire in corridoio.
Blaine
invece rimase immobile, gli occhi fissi nel vuoto, quasi senza fiato. Il tocco
del suo ragazzo riuscì a stento a farlo tornare alla realtà.
«A
cosa pensi?», gli chiese Kurt, con quel cipiglio tra il curioso e il
preoccupato che lo caratterizzava tanto.
«Che
non ce l’avrei fatta se tu non ti fossi svegliato».
Blaine
si voltò verso di lui, gli occhi umidi ed un sorriso che stentava a rimanere
fermo. Stavolta il ragazzo non ce la fece a reggere quella vista e si sporse
quanto bastava per baciarlo: aveva come la sensazione che fossero passati
secoli dall’ultima volta che aveva sentito il sapore di quelle labbra sulle
proprie e il modo quasi disperato in cui anche Blaine si stava aggrappando a
quella sensazione gli fece capire che non doveva essere il solo a provare una
simile sensazione.
«Qualunque
cosa sia successa, mi dispiace», disse non appena riuscirono a staccarsi,
prendendolo per mano.
«Kurt!».
Burt
Hummel entrò nella stanza del figlio con una forza che il ragazzo non si
sarebbe aspettato. Non chiese scusa ai medici che lo stavano ancora visitando,
controllando i diversi valori sul monitor, né rivolse loro domande:
semplicemente camminò a grandi passi verso Kurt e lo strinse a sé, in un
abbracciò così forte che al giovane mancò il fiato.
«Ho
imparato la lezione, Kurt. Non azzardarti mai più a farmi uno scherzo del
genere!», gracchiò con voce roca e il figlio lo strinse con le lacrime agli
occhi.
«Mai
più», sussurrò prima di lasciarlo andare.
Gli
stessi medici parvero provati da quella scena e rimasero in silenzio,
attendendo che anche Carole lo abbracciasse e che la famiglia si ricomponesse:
volarono sguardi carichi di parole, di emozioni inespresse, fino a che Kurt non
ebbe finalmente il coraggio di chiedere che cosa gli fosse successo.
«C’è
stata un’esplosione, al McKinley. Ricordi che stavamo gareggiando per le
Regionali?», cominciò Blaine, seduto accanto a lui.
Il
ragazzo scosse la testa: gli ultimi ricordi erano così confusi che se solo
provava a recuperarli, una fitta alla testa lo paralizzava.
«Con
simili traumi è normale non ricordare gli ultimi eventi», spiegò loro uno dei
medici.
Kurt
stette a guardarlo per qualche istante, come se si aspettasse altro, poi tornò a
guardare la sua famiglia.
«E
gli altri? Stanno bene?».
«Niente
più di qualche graffio, tranquillo. Sei tu che ci hai fatto preoccupare. Hai
dormito per dieci giorni!», esclamò Finn, scompigliandogli i capelli e
ringraziando il cielo perché poteva vedere ancora una volta lo sguardo truce
che il fratello gli stava lanciando.
«A
tal proposito, Mr. Hummel, dovremmo scambiare qualche parola con lei».
L’uomo
guardò le tre persone in camice bianco mentre un brivido gli attraversava la
schiena. Suo figlio si era appena svegliato, stava bene: che cosa avevano di
tanto importante da dovergli dire?
«Qualcosa
non va?», sussurrò Carole: era un’infermiera, lei: sapeva per esperienza che un
discorso che cominciava in quel modo, raramente portava a qualcosa di buono.
Lo
sguardo fugace che uno dei medici lanciò al primario non fece che confermare i
suoi sospetti. Il più anziano sospirò: avrebbe voluto parlarne con i genitori
in disparte, ma dal momento che non sembrava esserci altra soluzione, decise di
mettere al corrente tutti nello stesso momento.
«Dai
primi controlli che abbiamo effettuato su suo figlio», cominciò, sempre
rivolgendosi a Burt «abbiamo rilevato un ritardo agli stimoli di tipo motorio
che interessano la parte sinistra del corpo. In particolare l’arto inferiore».
Improvvisamente,
a tutti parve come se l’aria della stanza fosse troppo poca. Finn avrebbe
voluto alzarsi per aprire la finestra, ma aveva la sensazione che si fosse mosso
anche solo di un centimetro, anche solo per un istante, sarebbe crollato tutto.
Improvvisamente, desiderò non aver ascoltato tutto e non riuscì a fare a meno
di spostare lo sguardo su Kurt.
Il
ragazzo, dal canto suo, non aveva emesso un fiato. In quel momento si stata
semplicemente concentrando sulla stretta con cui Blaine gli teneva la mano –
più forte non appena il dottore aveva smesso di parlare – e gli sembrava di non
poter fare altro. Non voleva sapere altro. Erano troppe informazioni in una
sola volta, troppe cose fuori posto perché potesse reggerle.
«Questo
che cosa significa?».
La
voce di Bart suonò quasi atona. L’uomo cercava di non mostrare nessuna delle
emozioni che lo stavano scuotendo: erano troppe e contrastanti, così diverse
che non avrebbe saputo trovare modo di mostrarle senza impazzire almeno un po’.
«Il
danno non è molto grave e soprattutto non è permanente. Quando si tocca il
cervello così in profondità, il rischio di simili complicazioni post-operatorie
è alto. Faremo altri accertamenti ed una nuova TAC, ma posso essere fiducioso
sul fatto che la fisioterapia risolverà completamente la cosa».
Carole
accarezzò la schiena del marito con un sorriso tirato ad allargarle le labbra,
mentre quest’ultimo annuiva appena, perso nei suoi pensieri. Finn riuscì a
spostarsi accanto al fratello, che però sembrava fissare il vuoto senza essere
realmente presente. Kurt non riusciva più neanche a sentire la stretta della
mano di Blaine.
*
Il boato è così forte che improvvisamente
crede di aver perso il senso dell’udito. Respira a fatica, senza riuscire a
capire che cosa lo circondi e il silenzio che ne consegue è improvvisamente
troppo perché possa reggerlo senza impazzire. Ha gli occhi chiusi: non vuole
vedere che cosa lo circonda, non vuole sapere che cosa è successo, perché
qualcosa gli dice che non ne verrebbe fuori nulla di buono.
Quindi sta fermo, senza vedere nulla, senza
sentire nulla. Immobile.
«Credevo fossi morto».
Quella voce, nel silenzio totale, pare
rimbombare come in una stanza vuota. Thad l’avrebbe riconosciuta fra tante e
forse è proprio per quello che fa male più di quanto avrebbe voluto. Si
costringe ad aprire gli occhi, soltanto per controllare che non sia
semplicemente la sua immaginazione e vederlo lì, con la sua impeccabile divisa
e un sorriso strano, cattivo sul volto riesce solo a peggiorare la situazione
«Sebastian», sussurra, facendo un passo
verso di lui.
Il sorriso dell’altro diviene, se possibile,
ancora più storpiato, come la smorfia di un cartone disegnato male. Lo
inquieta.
«Sei una sorpresa, Harwood. Sopravvivere,
deve essere stato un miracolo».
Che diavolo sta dicendo? Perché sta parlando
in quel modo? Fa ancora qualche passo nella sua direzione, fino a trovarselo di
fronte.
«Che cosa è successo?», chiede, senza
riuscire a staccare lo sguardo da quello del compagno di stanza – ex-compagno,
si corregge.
«Sono stupito, ecco cosa. Non avrei mai
detto che saresti stato tanto bravo da uscire vivo da un’esplosione. Ti dovrei
rivalutare?».
Thad vorrebbe seriamente gridare che nessuna
delle parole che Sebastian sta dicendo ha senso, ma qualcosa lo paralizza.
Improvvisamente, tutto intorno a lui è buio e persino il ragazzo, a pochi passi
da lui, sembra sparire nell’oscurità. Sussulta, la paura lo travolge in un
attimo e istintivamente, si aggrappa a Sebastian, come se fosse la sola cosa
sicura in quello scenario. Lo stringe quasi gli mancasse la terra sotto i piedi
e la testa comincia a girare tremendamente, mentre uno strano dolore alla
spalla gli toglie il fiato.
Che diavolo sta succedendo, ora? Chiude gli
occhi con forza, come a voler far sparire tutto semplicemente non guardando. Ma
è quello che sente a destabilizzarlo. Le dita affusolate di Sebastian stanno
stringendo i suoi polsi, costringendolo a lasciare la presa sulla sua schiena.
D’un tratto smette di opporsi a quella cosa, lascia semplicemente che Smythe lo
allontani da lui e lo guarda aspettandosi il colpo di grazia.
«Vattene».
Quella parola, quell’ordine, troppo
familiare ebbe il potere di riportare ogni cosa al posto giusto. A Sebastian
non importava nulla di lui. E lui non si sarebbe mai esposto tanto,
abbracciandolo stretto in quel modo. Che cosa gli era saltato in mente? Non c’è
nulla fra loro. Smythe era addirittura sorpreso – deluso? – dal fatto che fosse
ancora vivo…
Lo sguardo freddo del ragazzo,
la forza con cui gli stava stringendo ancora i polsi lo stavano ammazzando
lentamente
Thad
soffocò un grido nel cuscino senza rendersene davvero conto. Si sentiva
appiccicoso e le coperte lo stavano avvolgendo così stretto che si stupì di non
essere soffocato prima. Cercò di prendere fiato e tornare a respirare in modo
normale, ma ci volle più tempo di quello che voleva concedersi.
Un
incubo. Nulla di strano o inaspettato. Solo un incubo. Sospirò, girandosi e
cominciando a fissare il soffitto. Era troppo stanco per potersi permettere di
non dormire, ma più pensava a quanto avesse bisogno di quelle ore di sonno, più
faticava a riaddormentarsi.
Quella
si prospettava una notte tremendamente lunga e per quanto non sarebbe cambiato
molto, Thad sentì tremendamente la mancanza del respiro pacato e regolare di
Sebastian nel letto accanto al suo.
«Penso
di dover aggiungere un’altra cosa alla lista».
Nick
spostò lo sguardo dal soffitto alla testa bionda del suo ragazzo poggiata
contro il suo petto. Sorrise. Facevano quella cosa più o meno da quando erano
diventati compagni di stanza: avevano una lista, divisa in due colonne, su cui
scrivevano le cose che più amavano al mondo. La sola regola, tutto ciò che
scrivevano doveva prima essere stato sperimentato almeno una volta.
«Cosa
scriverai?».
«Che
amo passare la notte con la testa sul tuo petto ed il calore del tuo corpo
contro il mio».
Ancora
una volta il bruno si trovò a sorridere e strinse un po’ più a sé Jeff,
perdendosi nell’odore della sua pelle.
«Io
aggiungerò il magnificò profumo che hai», sussurrò, socchiudendo gli occhi.
«Mh… penso che aggiungerò anche te», continuò il mondo, alzando la testa stavolta per poter
guardare Nick negli occhi.
«Questa
dovrò copiarla, temo», fece l’altro, accarezzandogli il viso.
Una
parte di lui aveva stupidamente pensato che ora che si erano dichiarati, ora
che si erano messi in gioco completamente, le cose sarebbero state diverse. Che
ci sarebbero stati silenzi imbarazzanti e sguardi carichi di ansia, che sarebbe
stato difficile portare avanti una qualsiasi conversazione o prendersi in giro
come facevano di solito. E per un attimo, aveva creduto di aver ragione, quando
erano rimasti soli in camera, dopo aver salutato Thad ed essersi accertati che
avesse tutto ciò che gli serviva – o quantomeno tutto ciò che loro avrebbero
potuto dargli.
Jeff
si era seduto sul letto e lo aveva guardato come se non sapesse bene che cosa
fare. Anche lui si era seduto sul proprio, sfilandosi la giacca e trattenendo
il fiato per qualche istante.
«Non
dobbiamo per forza essere… così»,
aveva sussurrato il biondo, con un sorrisetto.
«Così…
impacciati?».
«Così
poco noi», si era alzato e in un attimo si era seduto accanto a lui,
prendendogli la mano «Questo non
cambia nulla e di certo non cambia noi due, Nicky».
E
lui aveva semplicemente sorriso, il petto si era gonfiato ed era riuscito di
nuovo a respirare. Perché Jeff aveva il potere di calmare tutte le sue
paranoie, di esserci e aggiustarlo semplicemente con la sua presenza.
Il
resto era trascorso come sempre: avevano visto un film, poi erano andati a
letto, ma avevano preso a parlare di così tante cose che si erano scoperti
svegli ad un orario indecente e alla fine Jeff era sgattaiolato nel suo letto
con una scusa che Nick in quel momento neanche ricordava. E gli stava bene,
perché averlo così vicino non era mai stato tanto bello. Si beavano
semplicemente della presenza l’uno dell’altro, delle carezze che di tanto in
tanto si facevano, dei sorrisi appena visibili nel buio e tanto bastava a farli
stare bene.
Poi
un rumore sfumò l’incantesimo, riportandoli alla realtà. Non lo riconobbero
subito, non finché non divenne più insistente. Qualcuno stava definitivamente
bussando alla porta e il verso di disappunto che uscì dalle labbra di Jeff fece
ridere di gusto Nick, prima di spostarsi con gentilezza, accendere la luce
dell’abatjour e andare a vedere chi fosse.
«Trent, se è per la faccenda degli insetti che si insinuano
nella tua testa, come è successo con Lady Morgana, sappi che-».
Smise
di parlare immediatamente, perché aveva aperto la porta e gli si era presentato
di fronte un Thad sconvolto come non l’aveva visto mai. Boccheggiò per qualche
istante, perché nonostante la poca luce, il pallore dell’amico era fin troppo
evidente, così come riusciva a distinguere il suono forzato del suo respiro.
«Jeff!»,
chiamò allarmato, passandogli un braccio intorno alle spalle e facendolo
entrare – quando anche l’altro vide il ragazzo, Nick non seppe più se aiutare
Thad o correre da lui perché divenne più pallido di quanto non fosse già
Harwood.
Fece
sedere il primo sul proprio letto e disse all’altro di prendergli un bicchiere
d’acqua. Jeff esitò per qualche istante prima di fare ciò che gli era stato
detto e riacquisire quel po’ di calma necessaria a coordinare pensieri e
movimenti.
Le
mani di Thad tremavano mentre reggeva il bicchiere e solo allora il biondo
riuscì ad essere abbastanza lucido da sedersi accanto a lui e tirarlo a sé in
un abbraccio.
«Qualunque
cosa sia, è passata», gli sussurrò, come ad un bambino -e il tremore di Thad, estesosi a tutto il
corpo, per poco non lo fece di nuovo andare in panico.
«Vuoi
parlarne?», continuò Nick, seduto di fronte ai due, senza ben sapere quanto
sarebbe potuto essere di aiuto.
«Avreste
preferito che fossi morto?», parlò finalmente Harwood, con un filo di voce.
«Sei
forse impazzito?!», gridò allora Jeff, spaventandosi sul serio, perché quella
era di certo la domanda più assurda che avrebbe potuto fargli. Anche il bruno
lo stava guardando con occhi sbarrati dalla sorpresa.
«Thad!
Non hai idea di quanto possa farci stare bene il fatto che tu sia qui con noi,
sano e salvo», disse, senza più poter resistere e spostandosi sul loro stesso
letto, dal lato opposto a quello del biondo.
«Lui lo avrebbe sicuramente preferito»,
continuò Thad, come se non li avesse neanche sentiti.
Smythe, ovviamente. Jeff sarebbe voluto
andare in camera di quello stronzo per prenderlo a pugni nel sonno. Nick ne era
certo e quasi istintivamente gli prese il polso, raggiungendolo da dietro la
schiena dell’amico – per ogni evenienza. Sterling gli lanciò uno sguardo
riconoscente, prima di tornare a concentrarsi su Thad.
«Lui non avrebbe preferito un bel nulla,
hai capito?».
«Hai
ragione. Neanche esisto per quel che gli riguarda».
Quelle
parole per Nick furono troppo. Prese l’amico per le spalle, con forza, e lo
fece voltare verso di lui.
«Thad
Harwood, stammi bene a sentire. Quell’idiota di Smythe ha già fatto troppo, per
i nostri gusti, quindi tu ora devi smetterla di dargli importanza. È uno
stronzo, lo abbiamo sempre saputo ed ora si sta definitivamente comportando da
tale. Non ti permetto di parlare così, di autocommiserarti in questo modo. Questo non sei tu, chiaro? E lui di
certo non merita il male che ti stai facendo. Quindi basta. Tutto questo
finisce qua».
Thad
lo guardò negli occhi, senza sapere che cosa dire. Sapeva che Nick aveva
ragione, sapeva che con tutto quello che era successo, Sebastian doveva essere
l’ultimo dei suoi pensieri e che non meritava un briciolo delle attenzioni che
gli stava riservando, considerati i suoi recenti comportamenti, eppure…
semplicemente non ce la faceva. Non riusciva a smettere di pensarci, di
preoccuparsi. E non sapeva spiegarsene il motivo.
«Io…
ho visto qualcosa. Per questo non
riesco ad andare oltre. Ho visto qualcosa», sussurrò e sembrò una confessione
fatta dopo una lunga meditazione.
«È
questo, quindi?», si infervorò Jeff «Ti ha minacciato? Hai scoperto qualcosa
dei suoi loschi piani e lui ti ha intimato di tacere? Di cosa si occupa?
Spaccio, rapine? Forse ha addirittura ucciso qualcuno e ha tenuto il cadavere
nella vostra stanza fino ad ora? Magari ha approfittato della tua assenza per
spostarlo e il cambio di stanza è solo un diversivo-».
Harwood
soffocò a stento uno scoppio di risa che contagiò anche gli altri due; almeno
Sterling poteva dire di essere riuscito a farlo ridere, anche solo per un po’.
«È
solo che… ho visto qualcosa, sul
serio, Jeff. In lui. C’era qualcosa prima se succedesse tutto questo, quando si
è impegnato con le nuove coreografie, quando si è scusato con le New Direction.
Semplicemente, non posso più guardarlo con gli stessi occhi di prima, perché
ora sono certo che ci sia qualcosa al di là del semplice essere stronzo. E voglio continuare a vedere quello che si
nasconde dietro tutta questa reticenza mascherata di sarcasmo e finta
cattiveria… Non posso più farne a meno…».
Ora
Jeff lo stava guardando dritto negli occhi, in silenzio, con un’espressione
seria che il ragazzo era abituato a vedere davvero di rado. Non disse nulla, bastò
fra loro quello sguardo per capire quanto Thad avesse imparato a tenere a
Sebastian, nonostante tutto. Nick, semplicemente, accarezzo la schiena
dell’amico con affetto, per poi stringerlo a sé.
«È
proprio cieco, eh?», gli sussurrò – e non ci fu bisogno di specificare il
soggetto.
*
Kurt
non pensava che ci si potesse stancare di essere semplicemente abbracciati.
Insomma, negli ultimi anni si era abituato ad essere stretto, oltre che da
Blaine, anche dai suoi compagni del Glee, eppure ora avrebbe solo voluto
mandarli tutti via, perché da quando era cominciato l’orario delle visite,
quella mattina, i ragazzi non smettevano di arrivare e lui doveva salutarli
tutti e sorridere ed essere gentile, quando invece avrebbe solo voluto
stringersi sotto le coperte e dormire.
Essere
stretto addirittura da Santana era stato assurdo – e almeno per una volta non
era stato il solo ad esitare in quel gesto. Brittany,
al suo fianco, aveva detto qualcosa riguardo l’immortalità degli unicorni e una
particolare linfa che avrebbe potuto farlo stare bene da subito, ma lui aveva
annuito senza prestare veramente attenzione a quelle parole.
«Ci
hai fatto prendere un bello spavento, Kurt!».
Oh,
perfetto: mancava solo Mr. Shue, sorridente e con i
capelli impeccabili, accompagnato da Ms. Pillsbury. Il ragazzo rivolse loro
l’ennesimo sorriso di circostanza – quello che a quanto pare accontentava tutto
– e si lasciò stringere con entusiasmo. Spostò lo sguardo sulla sola figura davvero
nuova in tutto quel quadro, la sola che gli aveva stretto la mano anziché
abbracciarlo. Cooper Anderson.
Finalmente
conosceva il fantomatico fratello del suo ragazzo e da quel po’ che l’aveva
osservato, non era proprio come lo aveva immaginato: se ne stava in disparte,
senza parlare con nessuno, semplicemente lanciando di tanto in tanto qualche
sguardo al fratello – come a volersi accertare che stesse bene – per poi
tornare ai suoi pensieri. Kurt immaginò che si dovesse sentire un po’ a disagio
tra tutti quegli sconosciuti. Incrociò il suo sguardo, mentre ci pensava –
stavolta stava fissando lui invece di Blaine e la cosa lo incuriosì per
l’intensità di quella occhiata. Sembrava provasse a leggergli la mente, come se
volesse sapere a cosa stava pensando in quel momento.
Lo
infastidì.
«Ti
ho portato una regalo», sentì dire da Emma e si costrinse a concentrarsi di
nuovo sugli ultimi arrivati. «Sono solo cioccolatini, ma magari ti fanno bene»,
continuò imbarazzata, mentre gli porgeva una scatola colorata.
L’istinto
agì prima della mente e Kurt mosse la mano sinistra verso la donna prima di
rendersi conto di quanto sarebbe stato difficile quel gesto. Il braccio si
fermò quasi subito, per l’impeto troppo leggero e tremò mentre lento ed incerto
raggiungeva la scatola. Il ragazzo non poté fare a meno di sentirsi gli occhi
di tutti puntati addosso e la cosa non fece che innervosirlo ancora di più
della situazione in sé: stupido braccio che non era in grado neanche di
muoversi.
Quando
ebbe appoggiato alla men peggio i cioccolatini sul ripiano accanto al letto,
cercò di nascondere il braccio sotto le coperte più svelto che poté, quasi potesse
eliminare il problema ed il disagio semplicemente coprendolo. A muovere la
gamba neanche ci aveva provato più dalla sera precedente, quando il
fisioterapista aveva provato a fargli fare alcuni esercizi: alle volte la
sentiva a malapena, quasi fosse addormentata e quando provava a spostarla, gli
sembrava di sforzarsi a vuoto, come se stesse cercando di alzare dei blocchi di
cemento. I medici gli avevano detto che era solo questione di tempo, che doveva
riabituare il cervello a comandare gli arti e che sarebbe andato tutto a posto
in qualche mese, ma lui non ci credeva. Ora come ora non credeva a nulla e a
nessuno e tutta quella gente, che ora lo fissava quasi fosse un alieno, non faceva
altro che aumentare il suo disagio.
Sentì
Blaine tossire, quasi volesse smorzare la strana tensione che si era
improvvisamente creata nella stanza. Se fosse stato per lui avrebbe
semplicemente mandato tutti via, ma non sapeva come – avrebbe richiesto energie
che in quel momento non aveva. Per questo si limitò a dissimulare il fastidio
cercando di spostare la conversazione su altro.
«Come…
come state facendo con la scuola? E il Glee Club?», chiese.
La
stanza rimase in silenzio ancora per qualche istante, prima che Mr. Shue prendesse parola e rispondesse, eliminando l’esitazione
dalla sua voce via via che aggiungeva parole al discorso.
«Le
lezioni sono sospese per ora: probabilmente la prossima settimana saremo pronti
a riprendere in alcuni stabili affittati finché il McKinley non sarà dichiarato
di nuovo agibile. Per le prove del Glee, una volta ripreso il ritmo scolastico
provvederemo a trovare una sede adatta».
Kurt
vide uno strano brillio negli occhi dell’uomo, quasi non vedesse l’ora di
riprendere la routine fatta di lezioni e prove, quasi ne sentisse un disperato
bisogno. Un po’ lo capiva: era rassicurante avere una routine da seguire,
giorno dopo giorno, senza stanze che esplodevano o gente che finiva in
ospedale. Avrebbe voluto riavere la sua con la stessa facilità.
«Quanto
tornerai anche tu sarà davvero tutto a posto», sussurrò Mercedes, guardandolo
con affetto.
«Se tornerò», si lasciò scappare il
ragazzo e di nuovo gli occhi di tutti furono su di lui – ottimo.
Li
osservò per qualche istante – Puck e Rachel sembravano sul punto di intervenire
per fargli qualche ramanzina, Mercedes e Tina invece avevano gli occhi lucidi e
gli altri lo guardavano semplicemente sconvolti. Blaine gli aveva stretto la
mano – quella destra, quella che poteva sentire bene – ma lui non aveva il
coraggi di spostare lo sguardo su di lui.
«Scusate»,
sospirò «Sono… sono solo stanco. Mi dispiace».
Alcuni
annuirono come se la risposta spiegasse tutto, qualcuno restò a guardarlo
ancora per un po’ e fra questi Kurt individuò di nuovo Cooper Anderson. Ancora
una volta lo fissava come se potesse leggergli dentro, come se sapesse
esattamente che cosa stava succedendo e aspettasse solo il momento adatto per
agire. Non voleva che agisse, non voleva parlarne – soprattutto non con uno
sconosciuto.
«Magari…
sarebbe meglio se ora andassimo e ti lasciassimo riposare un po’», propose Will
e per la prima volta Kurt fu felice di sentir qualcuno di loro parlare.
«Ci
vediamo più tardi, ok?», lo salutò Finn, con sguardo non del tutto sereno, e
così fecero tutti quelli dopo di lui, chi con sorrisi, chi con nuovi abbracci –
stavolta fu facile resistere, perché diminuivano anziché aumentare.
In
breve nella stanza rimasero solo i suoi genitori, Blaine e Cooper. Il maggiore
degli Anderson si avvicinò a fratello e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, poi
si scusò con i presenti ed uscì dalla stanza. Kurt non aveva alcuna voglia di
rispondere alle domande che, era certo, gli avrebbero posto, per questo si
voltò di lato, ignorando la presenza del suo ragazzo e chiudendo gli occhi.
Se ne andranno tra poco, se ne andranno tra
pochissimo… si disse, trattenendo il fiato.
Sentì
il bacio leggero di Blaine sul suoi capelli e pochi istanti dopo il rumore di
una porta che si apriva e subito richiudeva. Solo allora si concesse di
respirare di nuovo.
_________________________
Ebbene sì,
chi non muore si rivede! Vi avevo detto che non avrei lasciato questa storia
incompleta. Certo, ci ho messo mesi e mesi per scrivere il capitolo, ma alla
fine eccolo! Insomma, tra esami e blocco dello scrittore davvero non vedevo
come andare avanti… e poi, semplicemente, sono riuscita a scrivere #miracolo.
Ci tengo
ancora a ringraziare Robs e Vals
che mi hanno incoraggiata a continuare e non perdere le speranze. È soprattutto
merito loro se questo capitolo è online!
Umh… per il resto, spero che la storia non vi deluda e che
ci sia ancora qualcuno disposto a leggerla! Non dovrebbe mancare molto alla
fine – 3/4 capitoli, credo…
Cooper
stava imparando a conoscere suo fratello da davvero troppo poco tempo perché
potesse azzardarsi a dare un qualsiasi tipo di giudizio a suo riguardo. Certo,
lui non era tipo da poter zittire con così tanta facilità e non si era mai
trattenuto dal dire quello che pensava, anche quando non era la cosa più
conveniente da fare – o forse soprattutto in quei casi. Ma ora si parlava di
suo fratello, del suo Blainey e le cose erano
completamente diverse. Con lui ci sarebbe andato con i piedi di piombo: aveva
fatto già troppi errori.
Eppure,
vederlo sbucare in cucina, quella mattina, con il viso assonnato ma sereno ed
un leggero sorriso a rischiararlo, gli diede la perfetta concezione di quanto volesse bene Kurt. Di quanto lo
amasse. Non che tutta la sofferenza che aveva provato fino al giorno prima non
fosse stata sufficiente, ma il modo radicale in cui era cambiato non appena il
ragazzo si era ripreso, l’aveva convinto di quanto fosse profondo il legame che
condividevano.
«Buongiorno,
Schizzo», lo salutò mentre quello si sedeva davanti ad una tazza di latte caldo
che gli aveva preparato da poco.
Blaine
alzò appena lo sguardo quando sentì quel nomignolo.
«Era
da tanto che non mi chiamavi così».
«Già».
«E
ricordi che non lo sopporto, vero?».
«Davvero?
Ed io che ho sempre pensato che ti piacesse…», lo prese in giro Cooper, ridendo.
«Affatto.
È ridicolo».
«Oh,
ma ti addice così tanto! Soprattutto ora che hai quel broncio tanto carino».
Blaine
lo guardò per qualche istante negli occhi, prima di mandarlo al diavolo con uno
scoppio di risa, seguito a ruota dal più grande. Vedere il suo fratellino così
rilassato era bellissimo e Cooper si maledisse per essersi perso così tanto
della sua vita.
«Pensavo
di andare un po’ prima da Kurt: oggi comincia la riabilitazione e vorrei essere
con lui», disse il ragazzo, tra un sorso di latte e l’altro.
«Certo.
Dimmi quando sei pronto e and-», le parole si bloccarono per la suoneria del
cellulare di Blaine. Questi scattò dalla sedia e corse in camera sua,
rispondendo con maggiore velocità quando lesse il nome “Hummel” sul display.
«Pronto?».
«Blaine…ti ho svegliato?».
«No,
signore. Facevo colazione». Qualcosa diceva al riccio che quello era solo un
preambolo educato.
«Vorrei che tu venissi qui quanto prima».
Il
ragazzo si sentì improvvisamente gelare, mentre sulla soglia apparve Cooper.
«È
successo qualcosa a Kurt?».
«Sì».
«Bisogna
dargli del tempo, Burt. Quello che gli è successo… non è qualcosa di facile da
accettare, men che meno per un ragazzo».
«Credi
che non lo sappia? Ma conosco mio figlio, è un ragazzo forte e dovrebbe combattere.
Hai sentito cosa hanno detto i medici: stare fermo, rifiutare la fisioterapia
non farà altro che peggiorare la situazione!».
Carole
accarezzò la schiena del marito annuendo. Capiva che cosa intendesse Burt e
capiva anche il punto di vista medico della situazione, ma quando quella
mattina Kurt si era rifiutato di scendere nella palestra dell’ospedale per
cominciare le sedute di riabilitazione, probabilmente lei era stata quella meno
sorpresa della cosa. E questo non perché volesse vantarsi di conoscerlo meglio
anche del padre – proposito assurdo – ma semplicemente perché, a differenza
degli altri, guardando il ragazzo dall’esterno, si era accorta da subito che non
stava affatto bene.
Aveva
provato a farlo ragione, così come ci aveva provato Burt e perfino Finn aveva
insistito perché facesse quello che i dottori avevano programmato per lui, ma
non c’era stato verso di farlo muovere dal letto. In alcuni momenti Carole non
era stata neanche certa del fatto che Kurt li stesse ascoltando.
«Dov’è?».
La
voce di Blaine interruppe la scena e fece sospirare di sollievo Burt: forse il
ragazzo sarebbe riuscito a mettere un po’ di buonsenso nella testa di suo
figlio.
«In
camera, dove altro? Non ha voluto saperne di muoversi dal letto. C’è Finn con
lui: cerca ancora di persuaderlo, anche se credo che Kurt abbia smesso di
ascoltarlo da un po’».
Il
riccio annuì e guardò appena Cooper prima di entrare in stanza. C’era silenzio:
il suo ragazzo aveva lo sguardo rivolto verso la finestra, mentre Finn spostò
subito il proprio verso di lui, speranzoso.
«Blaine!»,
lo saluto, con fin troppo entusiasmo.
«Buongiorno»,
salutò questi, con un sorriso, rimanendo composto come se nulla fosse accaduto;
si avvicinò a Kurt, sfiorandogli con gentilezza il viso e baciandogli appena le
labbra – gesto a cui l’altro non rispose. Senza perdere il sorriso, poi, si
sedette accanto a lui sul letto.
«Sai…
è normale essere esitanti,
all’inizio. Quando sono stato in ospedale… ci ho messo un po’ prima di decidere
che era arrivato il momento di alzarmi dal letto. Era più… facile restarmene lì senza muovermi. Alle volte ricordo di aver
pensato che non mi sarei più mosso… ma alla fine ho dovuto farlo. Per me
stesso, perché dovevo andare avanti. Pensa a quante cose avrei perso se non mi
fossi più alzato. Non avrei mai
incontrato te».
Blaine
aveva cominciato a parlare senza pensarci troppo su, dicendo ciò che pensava,
sperando che Kurt capisse che cosa intendeva. Quelli annuì appena alle sue
parole, forse solo per dargli segno del fatto che, effettivamente, lo aveva
sentito, ma non disse nulla: non ne aveva né la forza né la voglia.
«Questo
è… diverso. Lo capisco».
No. Non puoi affatto capirmi.
«Quello
che è successo è… assurdo. Ma, Kurt: stai bene! Stiamo bene!».
Sono stato compito da un’esplosione, Blaine.
Nella mensa della scuola! Non sto affatto bene!
«…E
ci vorrà un po’ perché tutto torni alla normalità, ma non puoi mollare adesso».
Davvero? …perché no?
«Kurt–».
Blaine gli prese la mano – quella sinistra, quella danneggiata e fece male sentire quel tocco così lontano nonostante
fosse proprio accanto a lui. «Devi muoverti, devi usare questa mano e la gamba.
Dipende da te e lo sai».
Dipendeva
da lui? Davvero? E se non ce l’avesse fatta? Se non avesse più mosso la gamba o
il braccio? Non avrebbe potuto fare più nulla. Non sarebbe stato più nulla e non sarebbe dipeso da lui. Poteva
affrontare quello? Ne aveva davvero la forza?
Guardò
Blaine negli occhi, vide la sua speranza, il suo entusiasmo e avrebbe davvero
voluto condividerlo, ma semplicemente non ci riusciva. Ritrasse lentamente la
propria mano da quella del ragazzo e si rannicchiò sul fianco, voltandogli le
spalle. Il riccio sospirò, spostando di nuovo lo sguardo su Finn, che era
rimasto in silenzio fino a quel momento, e cercò di sorridergli, anche se sul
viso non apparve altro che una smorfia incerta.
*
Il
vociare dei ragazzi, unito alle continue occhiate nella sua direzione, quasi
impedivano a Thad si sentirsi pensare. Insomma, era sopravvissuto ad
un’esplosione, era tornato a casa sano e salvo, qual era il problema? C’era
davvero bisogno di fissarlo in quel modo per poi sussurrare qualcosa al
compagno seduto accanto?
«Hey, hai sentito?
Quello è Harry Potter! – Harry Potter? Quell’Harry Potter?».
Harwood
sussultò per quelle parole sussurrategli praticamente ad un palmo dall’orecchio
e voltandosi scorse Flint, che accompagnato da Nick e Jeff si sedette accanto a
lui al tavolo.
«Sei
davvero simpatico, Wilson», sbuffò, facendo finta di essere infastidito.
«Sono
solo realista. Sembra di stare nella Sala Grande prima dello smistamento di
Potter a Grifondoro. Tutti che parlottano e gettano sguardi fugaci in questa
direzione. Tra qualche ora avrai un fanclub di
ragazze che vorranno vedere le tue cicatrici».
Thad
quasi si strozzò con un boccone, senza sapere se dover cogliere o meno la
celata malizia di quel commento. Alzò lo sguardo verso l’amico e… sì, doveva decisamente
cogliere la malizia.
«Idiota»,
borbottò – e per un istante si sentì il petto più leggero. Flint sorrise
appena, stavolta genuino e il ragazzo ricambiò quel gesto per ringraziarlo. Era
splendido provare quella sensazione di calma e spontaneità che faceva sembrare
tutto uguale a sempre e cancellava quello che era successo.
L’entrata
in scena di Sebastian Smythe mise fine a quella sensazione di benessere,
facendo tornare a galla il nodo alla gola che, volente o nolente, stringeva
Thad ogni volta che lo vedeva. A Flint non sfuggì il cambiamento improvviso e
guardò gli altri per avere chiarimenti su quello che era successo. Nick e Jeff
scossero la testa, come a chiedergli di lasciar perdere e il biondo lanciò uno
sguardo truce al problema che se ne
stava in fila, con un vassoio in mano ed aria assente.
«In
fondo, non è neanche colpa sua: la mensa è comune, è ovvio che sia qui»,
sussurrò sovrappensiero Harwood.
«La
voglia di dargli un pugno è comunque molto alta», ribatté piccato Jeff, senza
voler sentire ragioni e in altre occasioni Thad avrebbe riso. Ora invece aveva solo
voglia di andare via, chiudersi nella sua
stanza e darsi dello stupido per il resto della giornata: ci stava male tanto
da essere patetico, quando non avrebbe dovuto fregargliene nulla.
Mentre
si alzava in piedi, si chiese quando avesse cominciato a provare qualcosa per
Sebastian. Era stato quando aveva deciso di cambiare scaletta alle regionali in
onore di Karofsky? O prima, quando alla notizia del tentato suicidio era
sbiancato così tanto da star male? O forse, in fondo, nonostante tutte le volte
che aveva asserito – credendoci – di odiarlo, in realtà non lo disprezzava poi
così tanto?
La
verità era che lui era abituato a parlare con le persone, ad interagire. E
invece con Smythe non si andava oltre la superficie di malizia e battutine: la
cosa non faceva altro che irritarlo, perché non sapeva mai come comportarsi o
che cosa dire, se poter contare o meno su di lui, quanto poteva essere sincero
e quanto di veritiero c’era in quello che il suo compagno di stanza diceva.
Tutto
quello che aveva sempre provato a fare era stato andare al di là del massiccio
strato di indifferenza e stronzaggine per vedere che cosa si nascondesse
dietro, per provare a capirlo davvero, provare a stabilire un qualche contatto.
Essergli quantomeno amico.
Ed
era finito in quella situazione. Ben fatto, Harwood.
«Non
dovresti farlo».
Thad
era così sovrappensiero, in quel momento, che sussultò scattando dritto sulla
schiena e sudando freddo. Chiuse gli occhi il tempo necessario per riprendere
fiato prima di voltarsi e mandare al diavolo l’idiota che lo aveva avvicinato
di spalle.
Salvo
scontrarsi col viso serio di Sebastian. Boccheggiò qualche istante, prima di
parlare.
«F-fare
cosa?».
«Saltare
i pasti».
La
sorpresa per la persona si tramutò in sorpresa per le sue parole. Non doveva
saltare i pasti? Perché non avrebbe dovuto salt- ma
poi che ne sapeva lui dei suoi pasti? Lo stava forse spiando?
«A
te che importa?».
«Dico
solo che sei appena tornato dall’ospedale, non sei al massimo delle tue forze,
quindi saltare i pasti non è la cosa migliore da fare».
Smythe
manteneva lo sguardo fermo e distaccato, come se non avesse alcun interesse nel
dire quello che stava dicendo, ma fosse solo uno scrupolo fastidioso; eppure
qualcosa in lui si agitava mentre le parole lasciavano le sue labbra e faceva una
difficoltà assurda nel trattenersi dal dire altro, dal dirgli che lo aveva
osservato in quei giorni ed aveva visto il modo distratto con cui aveva
giocherellato col cibo senza mangiare davvero e che se fosse andato avanti si
sarebbe sentito male. Gli avrebbe detto che in realtà la stanza era vuota ora
che aveva deciso di stare da solo e che si chiedeva spesso come stesse lui, se
avesse ancora dolori o dormisse bene la notte. Perché lui faticava a prendere
sonno, invece. Gli avrebbe detto…
Ma
Sebastian restò fermo, non disse nulla. Si limitò a guardare ancora per qualche
istante il ragazzo davanti a lui e quando si rese conto che l’espressione di
stupore e confusione non avrebbe lasciato presto il suo viso, si voltò e tornò
in mensa, facendo finta che non fosse successo nulla, che non avesse ceduto.
Thad,
da parte sua, stette a guardare l’altro che tornava sui suoi passi senza sapere
davvero che cosa pensare e rifiutandosi di classificare o anche solo di porre
la mente a quello che era appena successo. Probabilmente sarebbe impazzito del
tutto.
*
«La
coreografia per le Nazionali procede a gonfie vele, Kurt! Avresti dovuto
vederci. Ovviamente il mio assolo non potrebbe essere migliore, ma i ragazzi si
stanno impegnando tantissimo anche per il numero di gruppo! Sarà davvero
bellissimo».
La
voce fin troppo alta di Rachel ormai riempiva le orecchie dei ragazzi nella
stanza di Hummel da così tanti minuti che nessuno portava più il conto. Aveva
cominciato con lo spiegare che la giuria aveva già scritto il proprio voto
prima dell’esplosione e che quindi non c’era stato bisogno di far altro che
proclamare il vincitore – nonostante tutto – e che ovviamente erano risultati essere loro, per poi gettarsi a capofitto
su tutte le opzioni fra le quale aveva scelto l’assolo, elencandone i pregi e i
difetti e aggiungendo le motivazioni che l’avevano portata a scartarle una dopo
l’altra, fino a trovare quella perfetta.
Kurt
la guardava senza ascoltarla davvero. Conosceva da così tanto tempo Rachel che
se anche non avesse sentito quale pezzo si era aggiudicato la vittoria, avrebbe
potuto indovinarlo dall’espressione sul suo viso – e con giusto un briciolo di
fortuna.
«Mr.
Shue dice che non appena tornerai, saremo pronti a
vincere le Nazionali. Quest’anno il titolo sarà nostro, senza alcun dubbio!».
Il
ragazzo guardò Mercedes, a lato del suo letto, e non ebbe la forza di
sorriderle. In fondo sapeva perché i ragazzi delle New Directions erano venuto quel
pomeriggio. Non era difficile immaginare che Blaine avesse parlato con loro della
sua intenzione di non spostarsi da quel letto – o magari era stato suo padre a
dirlo direttamente al professore. Speravano di invogliarlo a muoversi con la
promessa di una magnifica competizione, ma l’idea di salire sul palco, in quel
momento, gli dava solo la nausea.
«Sarà
nostro», sussurrò «Se stavolta la scuola non decide di caderci addosso mentre
siamo ancora in scena».
Il
gelo fu improvvisamente percettibile nella stanza, quasi avessero acceso un
condizionatore. I ragazzi si voltarono verso di lui, Kurt poteva sentire lo
sguardo ammonitore di Blaine su di sé anche se stava evitando di guardarlo
dalla mattina.
«Oh,
non fate quelle facce! Non vorrete farmi credere che alla prossima occasione di
esibirsi per una competizione, sarete in grado di far finta che non sia
successo nulla! Tutti vi chiederete se crollerà di nuovo tutto! Perché è
successo, che abbiate intenzione di accettarlo o meno: il McKinley è esploso e
noi saremmo potuti morire tutti!».
«Ma
siamo qui, Kurt. Siamo tutti qui», disse Puck, alzandosi in piedi «E piangerci
addosso di certo non migliorerà le cose».
«Neanche
far finta che sia tutto come prima solo perché non siamo morti», ribatté il più
piccolo – e si poteva dire che non lo vedevano così energico da davvero troppo
tempo.
«Nessuno
sta facendo finta, accidenti!»; stavolta fu Blaine a parlare, alzando la voce,
zittendo tutti «Ci stiamo provando, Kurt, ci stiamo davvero provando a non
farci bloccare dalla cosa, ma tu sembri voler semplicemente buttare tutto a
terra!».
«Non
è rimasto molto da buttar giù, in fondo…».
«Eccoti.
Ecco di nuovo il pessimismo gratuito che salta fuori. Cosa credi, che noi qua
stiamo perfettamente bene? Che abbiamo passato la spugna su quello che è
successo e semplicemente lo abbiamo rimosso? Rachel mi ha detto di non riuscire
a dormire ancora bene da quand’è successo e Santana passa la maggior parte
delle notti a controllare che il respiro di Brittany
non si fermi nel sonno, perché abbiamo rischiata di perderla nell’esplosione.
Noi ragazzi non stiamo messi meglio: personalmente non so cosa voglia dire
dormire bene da quando tu… Ma ci stiamo provando, ad andare avanti, mentre tu
hai deciso di arrenderti e restare qui… e non fare nulla».
Kurt
non sapeva che cosa dire. Blaine stava gridando come non aveva mai fatto con
lui, neanche nelle loro peggiori liti: poteva sentire lo sforzo che stava
facendo per non far incrinare troppo la voce e vedeva le lacrime accumularsi
davanti ai suoi occhi, pronte a farlo crollare.
Ma
non capiva. Non poteva capire che cosa intendesse lui.
«Vuoi
sapere una cosa? Sono stato seduto su questa sedia per giorni. Mentre tu
dormivi, ho parlato, ho cantato, ti ho raccontato quello che mi succedeva, ti
ho pregato di svegliarti perché credevo che una volta sveglio le cose sarebbero
andate meglio, che tutto sarebbe tornato come prima. Certo, non da subito, ma
col tempo, insieme, saremmo tornati ad essere quelli di prima…».
«Mi
dispiace deluderti, Blaine, ma non si ottiene sempre quello che si vuole»,
disse freddo Kurt, quasi fosse infastidito da quelle parole, ma senza capire il
perché.
«Hai
ragione. Perché questo non è il mio
Kurt. Tu non sei il mio Kurt! Il mio
Kurt non si è ancora svegliato!».
«Scusa!
Scusami se non sono allegro e pimpante, Blaine, ma tu non c’eri! Tu non eri lì quando tutto è successo! Io ero nella mensa, io c’ero ed è stato orribile!». Ora stava urlando anche lui:
andavano a ruota libera, quasi senza pensare prima di aprire bocca – o peggio,
agendo con spietata sincerità.
«E
chi ti ha mai chiesto di essere “allegro e pimpante”?! Ma ti stai arrendendo e
se c’è una cosa che il mio Kurt non
farebbe mai è arrendersi agli eventi senza fare nulla! Dov’è adesso il coraggio
che ti ha fatto affrontare il bullismo o che ti ha fatto portare un ragazzo al Prom per poi ballare con lui davanti a tutti? E in ogni
caso, potrai aver ragione nel dire che non ero in quella dannata mensa con te,
ma anch’io c’ero quel giorno. E tu
non eri con me. Ed è stato orribile».
Nessuno
osò emettere fiato dopo quelle parole – neanche Kurt. Blaine uscì velocemente
dalla stanza, prima che le lacrime lo scoprissero più ferito di quanto era
disposto a concedersi.
«Ok,
ascolta: se fai così non posso aiutarti! Prendi fiato e raccontami che cosa è
successo».
Blaine
Anderson si odiava per quello che stava facendo: piangere nell’auto del
fratello senza neanche riuscire a respirare per i troppi singhiozzi era una
cosa che avrebbe davvero evitato, ma semplicemente non ce l’aveva fatta. Quelle
parole, gli occhi di Kurt così diversi dal solito, si era semplicemente sentito
sopraffatto ed aveva gettato tutto fuori. Per poi trovarsi a singhiozzare non
appena fuori dalla stanza d’ospedale.
«Schizzo,
ti prego…».
Cooper
– che lo stava aspettando in macchina, dal momento che l’orario delle visite
volgeva ormai al termine – se l’era improvvisamente ritrovato in macchina,
sconvolto e in lacrime e fino a quel momento non era stato in grado di fargli
dire una sola parola: tutto quello che aveva ottenuto erano singhiozzi e
tentativi vari di formare una frase, che puntualmente erano finiti in un
respiro mozzato. Aveva paura che potesse avere un attacco di panico da un
momento all’altro.
«Kurt.
L-lui dice. Lui dice che non vuole… non vuole fare la riabilitazione. N-non
vuole fare nulla. Ha i-intenzione di rimanere in quel letto e fine della
storia. Dice che-che non so cosa si p-prova perché non ero con lui. Non ce la
faccio, Coop. Gli ho u-urlato contro e s-sono scappato via».
Il
fratello maggiore lo guardava con una tristezza infinita, chiedendosi perché le
cose non potessero semplicemente prendere la strada più facile, per una volta.
Era così stanco di vedere Blaine soffrire, così stanco di quelle lacrime, che
avrebbe fatto di tutto per cacciarle via.
Fu
per questo che scattò fuori dalla macchina e si diresse verso l’entrata
dell’ospedale di corsa. Chiunque lo aveva conosciuto almeno un po’, aveva
imparato che poteva essere davvero una testa calda e che molti errori li aveva
commessi proprio per questo – eppure in quel momento Cooper Anderson non si era
mai sentito tanto bene nel gettarsi così a capofitto, senza pensare.
Ignorò
l’infermiera che gli diceva che l’orario delle visite era finito e salì le
rampe di scale senza curarsi di quegli ultimi che si affrettavano a trovare
l’uscita. Quando raggiunse la stanza, fece di tutto per riprendere fiato quanto
prima e non appena gli sembrò di poter sostenere quello che stava per fare, si
getto nella camera, che ormai ospitava solo il diretto interessato.
«Non
se lo merita», esordì, catturando l’attenzione di Kurt.
«Sei
venuto a farmi la paternale anche tu?»,
lo contrastò il ragazzo.
«Sta’
zitto!», gridò Cooper «Io so che cosa
vuol dire ferire Blaine Anderson, perché l’ho fatto – più e più volte – e sarà
probabilmente la sola cosa che non riuscirò mai a perdonarmi, quindi ora stammi
a sentire! È rimasto su quella dannata sedia per tutto il tempo che l’ospedale
gli ha concesso, senza mangiare, senza dormire; ti ha parlato in continuazione,
anche quando i singhiozzi cercavano di fermarlo. Ti è rimasto accanto, pregando
che tu ti svegliassi: è stato un incubo per lui. Ed ora che credeva di esserne
uscito, tu vuoi di nuovo gettarlo a terra? Non hai visto com’è stato, non hai
idea di quanto possa stare male per te, dannazione. E non puoi, non ti permetto di fargli altro male.
Non so che problema tu abbia, per quale assurdo motivo tu abbia deciso di non
fare più nulla della tua vita, ma non ti lascerò trascinare giù Blaine. Non me
ne starò a guardare inerme mentre si spegne».
Kurt
non aveva parole per poterlo contrastare. Gli mancava anche solo il fiato per
respirare, nel sentire quelle parole. Aveva accusato tutti – e soprattutto
Blaine – di non capire, di non poter capire nulla di quello che provava, ma
alla fine quello che non aveva capito niente era solo lui. Osservò Cooper
andare via nello stesso modo improvviso con cui era arrivato e quando suo padre
rientrò in stanza per fargli compagnia quella sera, nascose le lacrime contro
il cuscino.
*
Ci
sono delle cose che, semplicemente, devono accadere. Che sia destino o altro,
tutto improvvisamente concorda perché ci si ritrovi in un determinato posto in
un preciso istante, giusto in tempo per vedere o sentire il necessario.
Cameron
fu certo di quella teoria nel momento stesso in cui aprì gli occhi, nella sua
camera semibuia. Si voltò di lato, scorgendo l’orario sulla sveglia digitale e
quando arrivò a chiedersi per quale motivo si fosse svegliato nel bel mezzo
della notte, lo vide: Richard, di spalle, aveva le braccia appoggiate al
davanzale della finestra e sbirciava all’esterno, nel buio del paesaggio che le
gli si offriva.
Il
ragazzo stette a fissarlo per un po’, cercando di capire a cosa stesse
pensando, ma solo quando l’occhio ricadde sulla sveglia tutto gli fu chiaro:
era l’anniversario. Aveva avuto tutto gli indizi del caso, dopotutto: erano
giorni che Richard era silenzioso ed assente, ma con tutto quello che era
successo, aveva pensato che fosse solo il suo modo di metabolizzare tutto. Per
qualche giorno aveva completamente rimosso il fatto che si stesse avvicinando
quella data ed ora era del tutto impreparato – e si sentiva in colpa.
«L’ho
rimosso. Sono successe così tante cose in questi giorni che semplicemente me ne
sono dimenticato. Scusami».
Il
ragazzo alla finestra si voltò lentamente – il pallido bagliore della luna lo
faceva sembrare sfocato, senza precisi contorni, quasi non fosse realmente lì.
Cameron notò subito la scia di lacrime sul suo viso e quello bastò a
stringergli il cuore, mentre un groppo si formava all’altezza della gola. Poi
però, Richard inaspettatamente sorrise. Fu uno strano ossimoro, che l’altro non
seppe spiegarsi.
«Non
c’è niente da scusare, Cam», sussurrò con voce
controllata «La cosa più interessante è che per qualche giorno è passato di
mente anche a me. Ero così preoccupato per Thad, così attento a vedere come
stesse anche Smythe che il pensiero di lei è scivolato in secondo piano. E poi
mi sono svegliato, a mezzanotte precisa, e tutto è tornato a posto. L’ho
ricordato».
Cameron
scese dal letto e gli si avvicinò, appoggiandosi al davanzale della finestra e
tirandolo un po’ a sé. Richard non si oppose ed appoggiò la testa contro la sua
spalla: era l’unico che riusciva a calmarlo quando si trattava di sua sorella.
«Alle
volte mi chiedo che cosa sarebbe successo se l’avessi trovata io anche quella volta. Se anche quella sera fossi rimasto a
casa, come al solito, e fossi andata io ad avvisarla della cena. Lo facevo
sempre, sarebbe successo… l’avrei vista lì, sul letto, vuota e sarei impazzito…».
Il
compagno di stanza lo ascoltava in silenzio, senza guardarlo. Odiava vederlo
così triste, ma sapeva anche che parlarne gli faceva bene, quindi restava lì e
lo ascoltava. Richard diceva che bastava questo, ma lui non ne era mai stato
davvero sicuro.
«Anche
se immagino di essere un po’ impazzito comunque, no? L’ho vista provarci e poi
è successo davvero, basta sommare le cose…».
«È
completamente diverso, invece!», si oppose Cameron «L’hai salvata, ricordi? Se
non fossi arrivata, sarebbe morta!»
«È
morta comunque!».
Non
fu un grido, ma qualcosa di strozzato che sapeva di detto troppe volte.
«Ma
non è stata colpa tua. Non potevi farci nulla».
Ora
Cameron lo aveva preso per le spalle e lo guardava dritto negli occhi. Quella
era una conversazione che entrambi avevano vissuto più di una volta, ma lui non
si sarebbe mai stancato di ripetergli che non era colpa sua se Annie si era
uccisa, che non poteva farci nulla. Richard era convinto che avrebbe potuto
salvarla, perché una volta era successo, una volta l’aveva trovata in bagno,
con le forbici in mano, e aveva capito che cosa stava per fare, interrompendola
in tempo. Non aveva detto nulla, ma da allora non aveva distolto lo sguardo da
lei, mai; non l’aveva mai lasciata sola, era sempre stato pronto a proteggerla.
E poi, quella sera, si era concesso uscita di poche ore e lei l’aveva fatta
finita. Quando era tornato a casa, le volanti della polizia aveva confermato le
sue paure.
«Potevo
restarle accanto, potevo… aiutarla a superare tutto…»
«No,
non potevi».
«Sì,
invece! Se ne avessi parlato con qualcuno, se avessi detto quello che sospettavo
ai nostri genitori…».
«Annie
era una ragazza dall’apparenza così solare ed aperta che nessuno avrebbe
prestato attenzione alle parole di un ragazzino… è stata brava a nascondere
tutto, finché non ha potuto più. Non è colpa di nessuno, Richard… Non è colpa
di nessuno».
Il
ragazzo prese a piangere, la calma che aveva pochi minuti prima si era
improvvisamente frantumata. Sapeva che Cameron aveva ragione, che probabilmente
non sarebbe stato in grado di far capire i suoi genitori che qualcosa in Annie
non andava, che stava lentamente scivolando verso il fondo e si mostrava
realmente per quello che era solo quando credeva che nessuno potesse vederla.
Ma lui la vedeva, lui la vedeva sempre,
a differenza dei genitori, sempre troppo impegnati per prestarle un po’ di
attenzione in più della minima richiesta.
Probabilmente
non avrebbe fatto la differenza e le cose sarebbero andate allo stesso modo, ma
Richard non riusciva a togliersi dalla testa il viso spento di sua sorella o
gli sguardi shoccati ed increduli dei suoi genitori,
la notte di tre anni prima, quando avevano trovato il suo corpo. E il dubbio
restava a tentare di buttarlo giù ogni volta che abbassava la guardia.
«…stavolta
me ne sono addirittura dimenticato, Cam. Come ci si
può dimenticare della morte della propria sorella, me lo spieghi?».
Stava
venendo tutto fuori, come un fiume in piena e Cameron doveva essere la diga che
calmava le acque.
«Sono
successe tante cose, più… imminenti di questa. Non l’hai dimenticato, hai solo
dato la priorità ad altro».
«Ho
dato la priorità a qualcosa che non fosse Annie!»
«Hai
dato la priorità a qualcosa che potevi ancora cambiare. A Thad, uno dei nostri
migliori amici e a Smythe che è ancora con noi, ancora sconvolto. Ti sei
preoccupato per lui, nonostante non sia così amichevole con noi, hai fatto una
cosa bellissima!».
«Non
ho fatto niente, invece! Sono stato di nuovo lì ad osservare, da lontano, senza
muovere un dito».
«Osservare
ed ascoltare non sono poco. Lo dici ogni volta che mi lamento di fare troppo
poco con te», gli ricordò l’amico e solo allora Richard si fermò.
Cameron
aveva imparato che quando tutto tornava a galla, Richard aveva un punto di
rottura ed uno di freno. L’aver dimenticato l’anniversario era stato il suo
punto di rottura, e l’avergli ricordato che loro avevano imparato a fare sempre
tutto quello che potevano nel modo più discreto possibile era stata la cosa che
lo aveva calmato.
«Touché»,
sussurrò, stringendosi un po’ di più all’amico «Come diavolo fai a sopportarmi
ogni volta?».
«Osservare
ed ascoltare. Sono specializzato ormai», disse l’altro, sorridendo appena e
passandogli un braccio intorno alle spalle.
Richard
non si sentiva mai così al sicuro come quando era con Cameron: sapeva che lo
avrebbe sempre tornato al suo fianco, non importava quante volte avrebbe dovuto
ripetergli le stesse cose.
Un
improvviso rumore alla porta fece sobbalzare entrambi. Si voltarono di scatto,
ma restarono fermi, in attesa di qualcosa che non tardò ad arrivare: di nuovo
lo stesso rumore confermò ad entrambi che qualcuno stava bussando alla porta
della loro stanza con una certa insistenza. I due ragazzi si guardarono, stranamente
indecisi sul da farsi, quando qualcosa fugò ogni loro dubbio.
«Lo so che siete lì dentro, avanti
apritemi!».
Era
la voce di Smythe e non avevano bisogno di guardarlo per capire che era
ubriaco. Cameron scattò in avanti ed aprì la porta prima che quell’idiota
svegliasse tutto il dormitorio. Non poté comunquetrattenere la sorpresa quando lo vide, con la
divisa fuori posto, i capelli arruffati ed il volto a metà fra l’isterico e il
distrutto. Quello era solo una pallida copia del Sebastian che erano abituati a
vedere.
Il
ragazzo gli si appoggiò addosso quasi non avesse più forze e Cameron faticò a
tenere in piedi entrambi. Lo portò dentro, aiutato da Richard a cui scoccò
un’occhiata leggermente preoccupata: quella situazione non gli avrebbe fatto
bene, non in quel momento.
«Poggiamolo
sul letto», gli disse pratico.
«Ce
ne avete messo di tempo per aprire, uh? Interrompevo qualcosa?», biascicava
intanto Sebastian, lasciando nell’aria l’odore forte di tutto l’alcool che
aveva bevuto.
La
malizia con cui aveva pronunciato quelle parole bastò a far arrossire Richard,
mentre Cameron si lasciava scappare un sorrisetto alla reazione dell’amico. Non
c’era che dire: Smythe non si smentiva in nessuna circostanza.
«Non
che non l’avessi sospettato da prima, eh», stava ancora continuando l’ubriaco
«Insomma, era abbastanza chiaro quello che c’era sotto, capite? Ma devo dire di
aver avuto una bella prova, stanotte».
«Che
ti è successo?», gli chiede Richard, senza sapere se gli interessasse davvero
sapere perché si fosse ridotto così o avesse parlato solo per farlo stare
zitto.
«Ditemi,
quale letto usate?», ribatté quello, senza dar parvenza di aver sentito la
domanda, al che Richard si avvicinò con uno sguardo improvvisamente serio.
«Sebastian,
dico davvero, che cosa è successo?». Ora gli interessava sapere perché stesse
sviando il discorso.
«Sbronza
con gli amici!», esclamò questo a voce troppo alta «Mai capitato, eh? Tutti
troppo seri e rigidi qui, l’ho sempre detto!».
Sembrava
andasse a ruota libera eppure a nessuno dei due ragazzi era sfuggito il fatto
che non avesse ancora detto effettivamente perché si fosse ridotto così. Era troppo ubriaco per una semplice sbronza
con gli amici.
«Possiamo
aiutarti, Sebastian… se hai bisogno di parlare, sai, siamo qui», si fece
coraggio Richard. Cameron lo guardò annuendo e lui si sentì un po’ più calmo
nel saperlo accanto anche in quella occasione. “Osservare ed ascoltare” sarebbe sempre stato il loro principio.
La
risata che uscì dalle labbra del ragazzo era improvvisamente così distorta da
gelare i due. Si guardarono, senza capire, e quando si volsero di nuovo verso
Smythe, il suo volto era completamente diverso. Era così serio e triste e a
tratto furioso da fare spavento.
«Non
siate stupidi», sussurrò flebile «Nessuno… nessuno può aiutarmi… È che… io ci
provo, davvero. Faccio di tutto per non lasciarmi andare, per essere sempre
vigile e fermo nelle decisioni che ho preso, ma poi lui mi compare davanti e non posso fare a meno di cedere. E mi odio
per questo. E odio lui, perché sta rovinando ogni cosa. Credevo che cambiare
stanza avrebbe fatto in modo che si allontanasse, eppure continua a… ovvio,
certo, siamo nella stessa scuola, ma è assurdo che proprio mentre sto cercando
di ricreare un equilibrio, lui salti fuori e… non avrei dovuto parlargli.
Questo è colpa sua, è colpa del fatto che da quando gli ho rivolto di nuovo la
parola non sono riuscito a non pensare a lui… e tutto questo…»
Sia
a Cameron che a Richard era chiaro che Sebastian stesse parlando di Thad, ma
non avevano capito che il ragazzo fosse così coinvolto dal suo ex compagno di
stanza. Smythe non era mai sembrato il tipo di persona che perde il controllo
di sé eppure ora sembrava completamente a pezzi.
*
«Non dovresti farlo».
«F-fare cosa?».
«Saltare i pasti».
Thad
si rigirò nel letto facendo attenzione al gesso che ancora gli bloccava
fastidiosamente il braccio, mentre la prima luce dell’alba cominciava ad
illuminare la stanza. Avrebbe voluto alzarsi e chiudere meglio le tapparelle,
considerato che quel giorno non avrebbero avuto lezione e sarebbero potuti
restare a letto qualche ora in più, ma il corpo non volle proprio saperne di
muoversi. Riuscì a malapena a girare la testa verso il letto accanto a quello
in cui si trovava, per vedere Nick e Jeff che dormivano abbracciati, l’aria
pacata di quando si è nel posto giusto e nulla potrebbe andare storto.
Un
sorriso gli increspò le labbra, ma sparì immediatamente quando la testa associò
la stessa immagine a lui e Sebastian. Ma che diavolo andava a pensare? Lui e
Sebastian in quella situazione…? In fondo gli sarebbe bastato semplicemente un
“lui e Sebastian”, non importava il contesto.
In
quei giorni odiava la solitudine, perché gli permetteva di fare pensieri come
quello. Cercava di tenersi impegnato quanto più possibile e di essere sempre in
compagnia, così da non avere neanche un istante per sé. Nick e Jeff avevano
accettato volentieri la sua richiesta di asilo notturno, così che ormai lui
dormiva nel letto di Jeff e i due piccioncini potevano passare le notti
abbracciati.
Eppure,
a quanto pareva, quel piano doveva avere qualche falla, dal momento che si
trovava di nuovo in quella situazione e non aveva neanche la voglia di
svegliare qualcuno per potersi sfogare – nonostante Jeff gli avesse ripetuto
fino alla nausea che era pronto ad ascoltarlo a qualsiasi ora del giorno e
della notte.
Era
colpa sua. Se non gli avesse rivolto la parola, non si sarebbe ritrovato in
quello stato. Che diavolo gli era passato per la testa? Erano giorni che lo
ignorava e poi si metteva improvvisamente a dispensare consiglio salutari, come
se gliene fregasse davvero qualcosa di lui.
Thad
si rigirò tra le coperte, sempre più inquieto. Aveva smesso di illudersi,
eppure quel crampo allo stomaco restava. Perché Sebastian non gli aveva mai
detto qualcosa di così simile ad un consiglio affettuoso e lui non poteva fare
a meno di pensare che almeno un po’, in uno strano modo a lui ancora poco
chiaro, Sebastian ci tenesse.
Ma ti rendi conto di quanto risulti patetico
ogni volta che lo pensi?, si chiede, improvvisamente infastidito da tutto
quello che riguardava il ragazzo. Che altro voleva, un documento con bollo
imperiale che gli garantisse che a Smythe non importava nulla di lui?
Probabilmente non si sarebbe arreso finché non gliel’avesse sentito pronunciare
chiaramente. Ed avrebbe fatto male, ne era certo, ma probabilmente sarebbe
stato risolutivo. Definitivo. Ci avrebbe messo una pietra sopra e avrebbe
potuto continuare con la sua vita, senza più stupide distrazioni.
Niente
più Sebastian. Niente più illusioni.
Harwood
scattò in piedi e si diresse in bagno. Aveva portato alcune delle sue cose in
quella stanza, così da potersi lavare e vestire lì – ormai la sua camera era
solo un luogo di passaggio. Gli era estranea. Si fece una doccia veloce e mise
su la divisa, facendo attenzione a fare quanto meno rumore possibile.
«Mmh… lo sai che non ci sono lezioni oggi, vero?», mugugnò
Jeff, ancora mezzo addormentato, mentre l’altro si stava facendo il nodo alla
cravatta davanti allo specchio.
«Non
vado a lezione, infatti!», rispose, concentrato su quello che stava facendo,
come se fosse un complicato problema di matematica.
«E
allora perché non stai dormendo?».
Per
essersi appena svegliato, Sterling faceva fin troppe domande.
«Vado
a parlare con Smythe», rispose ancora, vagamente atono «Metto fine alla cose.
Stamattina».
Quella
frase svegliò del tutto il migliore amico, che si tirò su, colpendo un ignaro
Nick, che biascicò qualcosa di poco comprensibile.
«Che
hai intenzione di dirgli?».
Solo
in quel momento Thad incontrò gli occhi di Jeff. Bella domanda, la sua. Cosa
aveva intenzione di dirgli?
«Non
mi sono di certo preparato in discorso!», si mise sulla difensiva «Ma sarò
chiaro. Carte in tavola: che vuole da me? Voglio mettere fine a qualsiasi
dubbio, qualunque cosa accada. Non si può andare avanti così, mi sembra di
stare in guerra fredda».
Qualcosa
di poco chiaro uscì dal cuscino sotto il quale si era istintivamente rifugiato Duval.
«Nick
dice che è rischioso», tradusse il ragazzo.
«Tu
lo capisci quando fa così?», si sorprese Thad.
«Deformazione
professionale», spiegò quello alzando le spalle «E comunque… ha ragione».
«Lo
so. Ma tutto è meglio di questo».
Harwood
uscì dalla stanza sperando di avere ragione.
Forse non è in camera, pensò Thad mentre
colpiva di nuovo la porta della stanza di Smythe con una certa insistenza. Anche se è assurdo che se ne vada in giro a
quest’ora del mattino in un giorno in cui non abbiamo lezione.
Sospirò.
Forse non era affatto tornato. Magari era rimasto a dormire da un amico… o da
qualcuno che aveva incontrato allo “Scandal”. Il
pensiero lo fece star male.
Buon Dio, smettila di essere così stupido!,
si disse, ma non c’era modo di cacciare l’immagine di Sebastian nel letto di un
altro. Non c’era nulla fra loro, non era neanche sicuro di quello che provava
per lui, eppure la gelosia lo stava improvvisamente corrodendo, più veloce di
un acido.
«Se stai cercando Smythe, non è in camera
sua».
La
voce di Cameron lo fece voltare ed il ragazzo entrò nel suo campo visivo.
«Sai
dov’è?», gli chiede, sorpreso.
Cameron
parve esitare qualche istante, indeciso. Richard, accanto a lui, prese parola.
«Stanotte
aveva dimenticato le chiavi della stanza, così io e Cam
lo abbiamo ospitato nella nostra. Lo trovi ancora lì». Non sapeva perché avesse
deciso di mentire e coprire Smythe, ma era stato istintivo e fortunatamente
Cameron gli stava reggendo il gioco, annuendo.
Harwood
non pensò che per un attimo a quanto improbabile fosse la scena descritta dai
due ragazzi, perché si diresse velocemente nella stanza e aprendola, trovò
Sebastian che aggiustava il colletto della camicia appena indossata.
«Smythe»,
lo chiamò, facendo qualche passo avanti.
Il
ragazzo si voltò verso di lui, sorpreso e per qualche strano motivo agitato.
Thad, invece, era divorato dall’ansia che minacciava di far cadere la
convinzione che lo aveva sostenuto fino a quel momento.
«Harwood»,
disse di rimando, cercando di apparire disinteressato.
«Dobbiamo
parlare…», azzardò l’altro e la frase suonò così male alle sue orecchie da non
poter fare a meno di chiedersi quanto peggiore potesse apparire a Sebastian.
Questi infatti non riuscì a trattenere una risatina di scherno.
«…parliamo»,
concesse, con fare superiore.
Thad
sbuffò. Era così dannatamente stanco di quell’atteggiamento…
«Cos’è
che vuoi, Sebastian?», sbottò, innervosito, cogliendo l’altro di sorpresa «Mi
dici di starti alla larga, cambi stanza pur di non vedermi, mi ignori in modo
tremendamente palese e poi mi dici di non saltare i pasti, perché non fa bene?!
A che gioco stai giocando? Vuoi farmi impazzire?».
«…ma
di cosa diavolo parli?», chiede Smythe, con tono incredulo, come se Thad avesse
appena detto che la Luna era al centro del Sistema Solare e la Terra le girava
attorno «Sapevo che prima o poi sarebbe successo: sei una persona così
melodrammatica che davvero mi chiedevo quando saresti venuto a farmi una
scenata del genere!».
Thad
era senza parole. Si sentiva preso in giro: improvvisamente era passato alla
parte del torto senza in realtà aver fatto nulla. O forse non era abbastanza
obbiettivo da vedere quanto in realtà fosse patetico?
«Ti
basta poco per montarti la testa, uh?», lo schernì «Ricorderò di non rivolgerti
più la parola neanche per un semplice consiglio».
Al
ragazzo sembrò girare la testa: perché continuava a prenderlo in giro in quel
modo? Che cosa aveva fatto di male lui?
«Non
era un semplice consiglio!», gridò al limite della sopportazione «Eri tu, che
ti interessavi! Tu, che mi avevi detto che non ti importava nulla, che dovevo
solo starti lontano! Me ne ero fatto una ragione, ci stavo riuscendo e poi
sbuchi e mandi tutto all’aria! Perché mi stai facendo questo, dopo tutto quello
che io-».
«Che
tu cosa? Cosa, Harwood? Cosa te ne
frega di me, in fondo? Tutto questo è colpa tua! Tua e della tua stupida mania
di ficcare il naso dove non dovresti, di interessarti a persone che non
vogliono saperne nulla del tuo buon cuore! Tu che-».
A
Sebastian morirono le parole in bocca. Thad era diventato improvvisamente
pallido e poté vedere chiaramente il momento in cui gli occhi ruotarono e il
corpo privo di sensi cadde al suolo con un rumore sordo, reso ancora più
inquietante dal fatto che il gesso era sbattuto contro il pavimento.
La
testa gli girò improvvisamente, mentre si precipitava su di lui, cercando di
tenerlo su passandogli un braccio sotto le spalle. Vederlo in quello stato, si
rese conto, era il peggiore degli incubi che avrebbe mai potuto sognare.
«Harwood?
Thad?! Thad, apri gli occhi! Thad!?», lo chiamò, la voce tremante, il buonsenso
e la freddezza ormai mandate a farsi benedire.
Si
sentì morire dentro quando il ragazzo non diede segno di ripresa.
__________________
Sì,
sono incredula quanto voi per questo improvviso aggiornamento! Eppure,
nonostante la sessione estiva minaccia di farmi collassare da un momento all’altro,
sono riuscita a completare questo capitolo! ** Lo so, solo la solita casinista:
a quei poveri ragazzi non ne va bene una ^^’’ ma che volete farci? Troppa calma
mi annoia. I Klaine hanno faticato a collaborare ma alla fine sono venuti fuori
– spero in maniera decente, così come il resto delle vicende! In particolare
ringrazio Vals perché in qualche modo mi ha suggerito la scena di Cameron e
Richard ^^
Per
il resto… credo che il prossimo capitolo potrebbe essere l’ultimo *parte l’Alleluja*. Ebbene sì, probabilmente anche questa storia
volgerà presto al termine!
Quindi,
sperando di non essere sempre così in
ritardo, vi rimando al prossimo capitolo, ringraziando tutti per l’attenzione
♥
We do not choose love. It
claims each man as it will.
(Spartacus.)
Gli sembrava di non essere più in grado di respirare e allo stesso tempo
che la cosa non gli importasse affatto. Non aveva idea di quello che lo
circondava né del proprio corpo: tutto quello che percepiva – e che contava – era il corpo inerte di Thad
Harwood tra le sue braccia, il pallore malato che lo copriva, la ripugnante
sensazione che fosse colpa sua.
Doveva fare qualcosa, risvegliarlo in qualche modo, ma non sapeva come,
cosa gli fosse concesso e cosa no, fin dove potesse spingersi, mentre il panico
lo prendeva al petto con forza sempre maggiore.
«Thad? THAD?!», lo chiamò scuotendolo senza successo per le spalle: il
ragazzo rimaneva al suo posto, il pallore malato che pareva renderlo più chiaro
ogni istante che passava, come se stesse sul punto di scomparire.
Sebastian si accorse di non essere in grado di tenere ferme le proprie mani
e la cosa lo bloccò di nuovo: tremava tutto. Non stava succedendo davvero, non
a lui. Stupido. Idiota masochista che non sapeva tenere a bada emozioni che
neanche avrebbe voluto provare: ora ne avrebbe pagato le conseguenze. E non sarebbe stato il solo.
Non si sentì gridare, la voce parve arrivare da lontano, sfiorare appena le
sue orecchie, così improbabile, così estranea che la mente non la prese neanche
in considerazione. La prossima cosa che il suo corpo registrò fu il movimento
di qualcuno davanti ai suoi occhi e una strana sensazione di freddezza: non
stringeva più tra le braccia il corpo di Thad – qualcuno doveva averlo preso,
portato via. Quell’assenza sembrò così definitiva da minacciare di farlo
crollare, ma allo stesso tempo fu troppo brusca perché Sebastian non reagisse.
In un istante tornò in sé, ricompose i propri pezzi e si ordinò di reagire.
«Dove l’hanno portato?», chiese, senza sapere bene chi avrebbe risposto.
«Nick ha chiamato un’ambulanza, James l’ha portato di sotto».
La voce di Richard, accanto a lui, fu improvvisamente qualcosa di logico, atteso: aveva notato gli sguardi
discreti ma vigili con cui in quei giorni lo aveva osservato, aveva intuito la
sua preoccupazione e ne aveva inconsciamente preso nota, nonostante il
superficiale fastidio che sentiva di dover
provare per quell’ingerenza non richiesta. Trovarlo lì, in quel momento,
era stato naturale.
«Voglio andare con lui».
Non si concesse tempo per riflettere, per prendere atto della propria
scelta: ci avrebbe sicuramente ripensato e non voleva farlo.
Richard intanto aveva guardato Cameron che si era immediatamente mosso
verso le chiavi della macchina. Anche Smythe riuscì a prestare attenzione a
quel movimento ed annuì, alzandosi – era ancora riverso in modo scomposto sul
pavimento – e sistemandosi la giacca. Non disse altro: non pensò neanche per un
istante di fare il viaggio in ambulanza – qualcosa gli diceva che Nick e Jeff
erano con Harwood e non riusciva ad immaginare una compagnia migliore per il
ragazzo.
Salì in macchina cercando di non pensare a nulla, per quanto stralci del
litigio di poco prima gli ronzavano in mente come mosche fastidiose.
“Non era un semplice consiglio!
Eri tu, che ti interessavi!”
Era stato così palese, quindi? Anche quel semplice consiglio, che sarebbe
potuto essere di chiunque, se pronunciato da lui nascondeva un particolare interessamento?
Non era quello che voleva, dannazione! …O forse sì? Non c’era dubbio che quella
di rivolgergli simili parole dopo tutto il silenzio che si era imposto era
stata una mossa particolarmente stupida: una parte di lui era stato sempre
certo che non avrebbe portato a nulla di buono, ma forse proprio per questo non
si era fermato, per questo aveva agito pur sapendo che c’era l’altissimo
rischio di mandare all’aria tutti i buoni propositi con cui si era bloccato
fino a quel momento.
Voleva farlo. Era stanco. E sentiva la mancanza di Thad.
*
Burt Hummel leggeva il giornale con una certa leggerezza, come se si fosse
abituato a quella nuova routine fatta di nottate passate a vegliare su suo
figlio e mattine accompagnate da caffè scadente e quotidiano da sfogliare.
A Kurt, invece, quella situazione dava la nausea – il che, probabilmente,
si sarebbe potuto considerate un progresso rispetto all’apatia dei giorni
precedenti.
«Papà… ricordi quando ho imparato ad andare in bicicletta?».
L’uomo alzò lo sguardo dalle pagine inchiostrate, cercando di capire il
significato di quella domanda.
«Certo. Ti sei impegnato a farlo per una decina di giorni, fino a che non
sei stato in grado di andarci bene. Sei stato veloce!».
Kurt ebbe l’improvviso desiderio di mettere fine a quella conversazione:
suo padre aveva mancato il punto della questione e a lui proprio non andava di
spiegargli che cosa intendesse dire riportando alla memoria quel ricordo.
Tuttavia desistette, senza tornare sui suoi passi e dando al padre una seconda
possibilità. Aveva bisogno di parlarne.
«Quello è stato dopo…».
Burt stava davvero facendo fatica a seguire suo figlio. Dopo cosa? Il ragazzo, invece, sentiva
lentamente le lacrime salire agli occhi: doveva per forza confessare lui ogni
cosa? Non poteva avere le cose facili, per una volta nella sua vita?
«All’inizio… non volevo neanche provarci. Te lo ricordi?».
«Ma se eri così entusiasta della bici che ti avevo comprato!».
«Sì… ma poi sono caduto ed ho aspettato giorni prima di provare di nuovo a
salirci sopra», gli ricordò, ora guardandolo fisso, senza preoccuparsi degli
occhi chiaramente lucidi: doveva capire
che cosa intendesse, doveva capire perché stavano parlando di uno stupido
ricordo di tanti anni prima.
Solo in quel momento l’uomo afferrò davvero il concetto che si nascondeva
in quelle parole, che sembravano scelte a caso. In un attimo, fu come se
qualcuno gli avesse pulito le lenti degli occhiali o avesse dissolto la nebbia
con una magia: vedeva chiaramente che cosa stava cercando di dirgli suo figlio
e si chiedeva come aveva potuto essere tanto cieco.
“Ma eri così entusiasta di poter andare in bici,
piccolo!”
“Ed ora non mi va più”. Gli occhi luccicavano,
velati di lacrime.
“Non vuoi almeno dirmi perché?”. La voce del
padre era amorevole, come sempre.
“Perché… ora so com’è cadere. E se non riuscissi
più a farlo? Tipo, per sempre? Sarei certo di non poter andare mai più in bici…”
“Ma non ci andrai comunque, così…”.
“Sì, ma lo scelgo io. E se mi
andasse di riprovare potrei farlo sempre…”
Burt sospirò, lasciando la sedia e appoggiandosi al bordo del letto.
«Preferisci non decidere affatto, piuttosto che scegliere e perdere. Non è
da te…», gli fece notare.
«Ho troppo da perdere perché badi a questo ora», fece Kurt, stizzito «E se
provassi con la fisioterapia e fallissi? Se non riuscissi più a camminare, a
muovermi come una volta? Allora che cosa ne sarebbe di me?».
«”Meglio aver amato e perduto…”».
«Ma perderei ogni cosa, non capisci?! Tutti i miei sogni, Broadway ed il
palcoscenico, tutto ciò per cui ho sempre lottato… Non avrei più nulla».
«Ci sarei io. E la tua famiglia. E Blaine…».
A quel nome lo stomaco di Kurt si strinse: Blaine. Lo aveva trattato così
male da non essere più davvero sicuro di poterlo considerare ancora fra ciò che
restava. Era stato egoista e meschino: solo ora si rendeva conto di quanto male
gli avesse fatto respingendolo, tagliandolo fuori da tutto ciò che gli era
successo, accusandolo di non essere stato in mensa con lui. Non intendeva
dirlo, non lo avrebbe mai pensato! Una delle poche cose di cui era stato grato
in quell’orrenda situazione era proprio il fatto che Blaine non fosse stato con
lui… Se gli fosse successo qualcosa – ed era dannatamente probabile – lui non
avrebbe potuto… Immaginare una vita senza Blaine non era neanche concepibile.
E Blaine ci era passato. Per dei giorni aveva creduto di averlo perso. E
lui lo aveva respinto. Gli veniva da star così male che sarebbe voluto sparire.
«Preferisci restare nel dubbio?». Le parole del padre lo riportarono alla
conversazione e ci mise un po’ per riconcentrarsi sull’argomento delle sue
parole «Durerebbe comunque poco, lo sai… Se non eserciti i muscoli ora, ben
presto non avrai più possibilità di farlo. Che tu voglia o meno».
Il ragazzo sapeva perfettamente che Burt aveva ragione. Il groppo alla
gola, che si era formato poco alla volta, mentre le parole avevano lasciato le
sue labbra e i pensieri invaso la sua mente, si sciolse improvvisamente. Sapeva
che cosa fare, aveva solo paura di fallire.
Si rifugiò tra le braccia del padre, in quella stretta e quel calore tanto
familiari che sembravano poterlo guarire da qualsiasi cosa e sperò di fare la
scelta giusta.
*
La pressante sensazione di vivere un dejà vu disgustava Sebastian, mentre
con i gomiti ben piantati sulle gambe, aspettava fuori dalla stanza di Thad.
Che cosa, era difficile da dire. O quantomeno, lui non ne aveva idea.
I medici era andati via da un po’, rassicurando familiari ed amici che
quello di Harwood era stato solo uno svenimento dovuto alla stanchezza e al
fatto che aveva mangiato poco ultimamente. Aveva chiaramente sentito,
nonostante la porta chiusa, i rimproveri preoccupati della madre, quando il
ragazzo aveva ripreso conoscenza e il vocio confuso degli altri compagni.
Poi c’era stata una sua risata, cristallina, bellissima e si era concesso di perdersi in quel suono tanto
rassicurante, senza curarsi minimamente della sua ragion d’essere – una battuta
di Starling, un commento sbadato di Nilson. Poi più nulla. I suoni si erano fatti più bassi,
più indistinti e lui aveva rinunciato ad ascoltare. Così era tornata la
preoccupazione per tutto il resto. E la pressante esigenza di entrare lì, di
vedere che stesse effettivamente bene.
Ma non si era mosso, non si era concesso un singolo gesto e l’autocontrollo
stava sfogando i suoi sforzi nella pressione dei gomiti sulle cosce: se avesse
continuato così, probabilmente sarebbero comparsi dei lividi.
«Credimi, vederti lì a terra è stato un colpo durissimo», stava intanto
dicendo – per la seconda o terza volta – Jeff, senza sapere bene per quale
motivo, forse solo per far sì che l’amico si rendesse davvero conto di quanto
fosse stato sciocco trascurarsi fino a quel punto – qualunque fosse la ragione.
«Pensi l’abbia fatto a posta?», cercò di difendersi Thad, senza essere sicuro
di riuscirci «Non mi aspettavo una cosa simile, stavo bene…».
Lo sguardo eloquente che la maggior parte dei ragazzi nella stanza gli
lanciò lo fece pentire delle proprie parole. Era stato così evidente il suo
malessere? Anche per quelli con cui non ne aveva parlato, quelli ai quali aveva
fatto in modo di apparire come il ragazzo di sempre, la cosa sembrava essere
fin troppo chiara, come se aspettassero solo che a rendersene conto fosse lui.
«Non avrai in ogni caso modo di riprovarci, tranquillo», lo rassicurò Nick, con uno sguardo
stranamente freddo «Faremo a turno e ti terremo d’occhio fino a che non saremo
sicuri che una simile cosa non possa più accadere».
Harwood non sapeva come far capire loro che non era stato qualcosa che
aveva fatto di proposito, che non si era messo alla scrivania con uno dei piani
malefici dei cattivi dei cartoni animati, progettando passo dopo passo la
propria rovina. Era semplicemente successo: si era trascurato, non aveva avuto
voglia di mangiare, dormire o preoccuparsi di altro.
Era stato dannatamente facile. Ed ora era anche dannatamente spaventoso. Ma
sapeva come uscirne, aveva raggiunto il suo punto di rottura già prima di
quello svenimento e di certo non aveva dimenticato che il discorso con Smythe
era rimasto a metà.
«È rimasto alla Dalton?».
Sapeva che ormai non c’era bisogno di specificare il soggetto. Non si
aspettava però che Trent, primo fra tutti, scuotesse
la testa in segno di diniego.
«È qua fuori», gli fece eco Flint, mentre con la testa indicava la porta
della camera.
Thad non riuscì a nascondere la sorpresa. Aveva scosso anche lui, quindi?
Doveva essere stato qualcosa di particolarmente rovinoso – o particolarmente
patetico, così tanto da richiedere una notifica della cosa di persona.
Dopotutto, l’essere patetico era stata una delle ultime cose che Sebastian gli
aveva detto.
Quasi lo avesse chiamato, Smythe si materializzò dietro la porta aperta con
così tanta discrezione e lentezza che nessuno si accorse di lui fino a che non
fu lui a parlare.
«Noi stavamo… avendo una discussione. Mi chiedevo se potessimo completarla
adesso, così sono libero di andare».
Pronunciò ogni parola con calma controllata, cercando di non esitare e non
lasciar trasparire il nervosismo che gli scuoteva le mani, ben nascoste dietro
la schiena asciutta. Pregò che l’improvviso groppo alla gola andasse giù senza
lasciar traccia del suo passaggio e che soprattutto fosse una cosa rapida – non
aveva molte speranze che fosse anche indolore.
L’altro Warbler guardò i suoi compagni e i genitori, facendo loro un cenno
d’assenso per rassicurarli e questi, più o meno lentamente, lasciarono la
stanza. Thad sapeva che probabilmente avrebbe dovuto dare spiegazioni per
quella situazione più tardi, ma ora la cosa non lo preoccupava. Improvvisamente
il cuore gli martellava nel petto con una forza pazzesca. Aspettava il duro
colpo che, sapeva, stava per arrivare e più i secondi passavano più l’attesa si
tramutava in sofferenza.
«Mi dispiace».
Quelle parole stordirono Harwood più di quanto avrebbe mai potuto fare un
insulto o qualcosa di cattivo. Perché sentirle pronunciare da Sebastian era
davvero l’ultima cosa che si aspettava – ancora di più in quella situazione.
«Non avrei dovuto attaccarti in quel modo, conoscendo le tue condizioni», continuò Smythe, come se sapesse di
dover quanto meno dare una precisazione a quella prima frase «La convalescenza,
checché ne dica la gente, è la parte più delicata ed io… ho esagerato».
Stava semplicemente dicendo che era stato poco carino a prendersela con un
malato. Ecco tutto. La mente di Thad catalogò velocemente le parole di
Sebastian, giusto per non cadere in nuovi equivoci. Il cuore si rifiutò di
seguire lo stesso processo e sussultò quando avvertì la figura di Smythe
voltarsi di spalle e muovere un passo verso la porta.
«Quindi ora te ne vai e finisce tutto».
Le parole avevano lasciato le sue labbra senza pensarci su due volte, ma
ebbero la forza di fermare Sebastian. Thad prese nuovo coraggio da
quell’esitazione.
«Sono semplici scuse per avermi fatto agitare troppo, giusto? Nessun
interesse, nessuna preoccupazione, nulla che possa essere anche solo vagamente
definito come “avere a cuore una persona”. Te lo chiedo, nel caso poi mi “monti
la testa” senza alcun motivo».
Smythe sussultò appena, senza riuscire a muovere un muscolo, ancora di
spalle. Improvvisamente, avrebbe voluto sdraiarsi da qualche parte e
semplicemente lasciar perdere: tutta quella storia era diventata così pesante, stancante da poter essere appena
sopportata.
«Perché devi essere così?»,
sospirò. A Thad sembrò che qualcuno avesse posato sulle sue spalle un peso a
giudicare dal modo in cui erano cascate, quasi schiacciate da una forza
invisibile.
«Così come?».
«Così… te stesso».
«Immagino di non poter essere altrimenti, sai com’è».
«Potresti provarci!».
Sebastian aveva gridato, esasperato e si era voltato di nuovo verso il suo
ex compagno di stanza, fulminandolo con uno sguardo a metà fra rabbia e dolore.
Lui stava portando avanti tutto quello da così tanto, sforzandosi di essere
qualcosa che – ora lo capiva perfettamente – non era più da molto tempo: perché
Harwood non poteva fare uno sforzo e venirgli in contro? Perché invece doveva
fare sempre in modo che le cose fossero ancora più difficili di quello che
erano?
«Credimi, mi riesce a malapena essere me stesso, figurarsi qualcun altro…»,
stava rispondendo intanto Thad, ormai certo che gli sfuggisse almeno una parte
di quella conversazione, come se ci fosse un secondo livello di lettura a cui
non aveva accesso.
«Posso assicurarti che invece ci riesci perfettamente», ribatté ancora
Smythe «Tu non sai stare al tuo posto. Non riesci a passare oltre, a lasciar
perdere. Per quanto dannatamente ci provi, non riesco a farmi lasciare in pace
da te».
Detta così, sembrava che Thad lo stesse stalkerando.
«…Io dovrei lasciarti in pace,
quindi?», chiese incredulo il ragazzo.
«Esatto! Devi smetterla di starmi addosso, di preoccuparti, di notare
qualsiasi cambiamento ancora prima che io stesso me ne renda conto. Perché lo
fai? Perché ti importa tanto?».
Harwood riusciva chiaramente a vedere le difese di Sebastian sgretolarsi
man mano che pronunciava quelle parole, come se ognuna di esse ne buttasse giù
un pezzo, lentamente ma con mirabile precisione.
«Perché non dovrebbe importarmi? Siamo stati compagni di stanza, questo
vuol dire-».
«Cosa, Thad? Che cosa vuol dire?
Per quale motivo il semplice fatto che siamo compagni di stanza avrebbe dovuto
coinvolgerti così tanto?».
«Perché è così che funziona!».
Stavano gridando di nuovo, come quella mattina in camera, ma stavolta Thad
avrebbe raggiunto il suo scopo – qualunque fosse.
«Non per me! La gente ti guarda, ti giudica, non va oltre ciò che vede la
prima volta e – bam! – si è fatta un opinione di te. Il
resto lo basa su quella semplice constatazione, fine della storia. E a me sta
bene. Mi hai sentito? Mi sta bene così! Invece no: tu devi scavare, devi
prenderti il tuo tempo, sospendere il giudizio fino a che non trovi il punto
debole e poi colpire, senza renderti conto del male che fai».
«Io ti sto facendo del male? IO?
Sei tu che non fai altro che sputare cattiverie, quando l’unica cosa che
cercavo di fare era starti accanto!».
«E perché dovresti?!».
«Perché ci tengo a te!».
Qualunque cosa Sebastian stesse per dire morì tra le labbra. Thad, di
fronte a lui, aveva le lacrime agli occhi, quasi fossero il prezzo da pagare
per quelle parole. Eppure lo guardava fisso, senza alcuna intenzione di
rimangiarsi qualcosa, anzi quasi a sfidarlo ad andare oltre, come un battitore
che ha appena fatto fuoricampo e corre alle basi guardando con sfida i
giocatori avversari, consapevole che non potranno fare nulla.
«…era questo che intendevo», soffiò piano, quando riuscì a prendere di
nuovo fiato «Non riesci a fare a meno di legarti alle persone. Dovresti
smetterla». Non c’era un decimo della solita convinzione in quella frase.
«Perché dovrei? Solo per rendere la vita più facile a te? Ho imparato da
tempo a non mettere da parte quello che provo solo per fare un favole agli
altri; di certo non tornerò indietro per qualcuno che neanche ha idea di cosa
significhi».
«Io so che legarsi rende
vulnerabile. Che non si è più padrone delle proprie azioni, che non si dipende
più solo da se stessi. E non mi va, non mi va affatto».
«Perché nel tuo grandissimo ego non c’è spazio per nessun altro, giusto?».
«Perché faccio già fatica a mantenermi in equilibrio così, non ho bisogno
di qualcuno che mi butti definitivamente giù».
«…io ti terrei a galla».
Smythe chiuse gli occhi con violenza. Perché era la cosa migliore che
potesse aspettarsi. E allo stesso tempo la peggiore. Perché confermava ogni sua
paura con una bellezza assassina. Perché ora sapeva, era certo che non ci
sarebbe stato un ritorno: si era spinto troppo oltre, aveva superato la boa di
sicurezza e non gli rimaneva che nuotare in acque libere e sperare di non annegare
troppo presto.
«Smettila». Fu un sussurro, eppure fin troppo forte nel silenzio della
stanza.
Stavolta Thad non ebbe parole con cui fermare i passi di Sebastian. Lo
lasciò andare senza forza, perché quelle parole erano state inaspettate anche
per lui, perché non avrebbe mai voluto esporsi tanto, mettere in gioco davvero
tutto quello che provava, mostrare ogni sua carta senza avere la certezza che
l’altro non avrebbe imbrogliato per poi assestargli il colpo definitivo. E lui
gli aveva detto di smetterla.
Sebastian poteva aver paura di farsi coinvolgere, ma di certo lui non era
più sicuro dell’altro.
*
Blaine picchiettava le dita sul cruscotto con fare nervoso, senza seguire
un ritmo preciso, ma cominciando a snervare il fratello che, all’altro lato
dell’abitacolo, lo guardava fisso, sperando che magari si sarebbe accorto di
lui e avrebbe fatto qualcosa.
«Che c’è?!», sbotto infatti dopo alcuni istanti il più piccolo.
«Nulla, Blainey, mi chiedevo solo quand’è che
avevamo intenzione di scendere dalla macchina ed entrare in ospedale. No,
perché credevo che lo scopo del nostro viaggio fosse quello di parlare con
Kurt, non di controllare il parcheggio».
Il ragazzo sostenne lo sguardo del fratello per un po’, poi si arrese
sospirando: sapeva perfettamente che Cooper aveva ragione, ma per quanto fosse
deciso a parlare ancora con Kurt, l’idea di poter di nuovo litigare gli
attanagliava lo stomaco: le loro voci alte, l’ultima volta, erano ancora un
ricordo che lo stordiva – non era abituato, faceva male.
«Tu lo sai che se restiamo qua non risolveremo nulla, vero?», la voce di
Cooper sembrava quello del grillo parlante per quanto l’abbinamento fosse dei
più surreali.
Il ragazzo si limitò ad annuire, poi prese un bel respiro ed aprì la
portiera, scendendo. L’idea che quello potesse essere il momento prima della
definitiva rottura con Kurt gli toglieva il fiato, ma come aveva detto suo
fratello, stare fermo senza fare nulla non sarebbe stato di alcun aiuto.
Salì le scale con passo lento, nella testa i diversi scenari con cui
sarebbe potuta finire quella storia. Quando fu sul piano in cui c’era la stanza
del suo ragazzo, si fermò del tutto, cercando di riordinare le idee nella sua
testa: scacciò qualsiasi ipotesi, positiva o negativa che fosse e prese una
nuova boccata d’aria prima di continuare a camminare.
Bussò alla porta con più fermezza di quella che credeva di avere e non fu
sorpreso quando non sentì arrivare risposta dalla stanza: il modo apatico in
cui si stava comportando negli ultimi giorni Kurt rischiava di diventare
familiare e persino naturale – ormai non riusciva neanche più a stupirsi. Per
questo entrò senza ulteriori indugi e… oh, quello che vide lo sorprese,
assolutamente.
La stanza era completamente vuota. Si aspettava di trovare Kurt nel suo
letto, magari con lo sguardo fisso nel vuoto oltre la finestra: quella
situazione lo aveva completamente spiazzato.
«Kurt? Sei in bagno?», chiamò ancora, ma anche quella stanza era vuota.
Per qualche istante andò in panico: era successo qualcosa? Non si era sentito
bene, magari? O avevano dovuto trasferirlo in un'altra stanza per una ragione a
lui sconosciuta? Magari Burt aveva pensato che quel litigio li avesse separati
in modo definitivo, che non stessero più insieme e che quindi non ci fosse
bisogno di avvisarlo… poi notò la giacca di pelle scura appoggiata alla sedia e
riuscì a prendere fiato. Se la giacca era lì… e c’era anche il resto della roba
di Kurt e qualcosa del padre o di Finn, allora non doveva essere cambiato
nulla. La stanza era ancora la sua, era ancora abitata, scomposta e piena di
effetti personali.
«So dov’è».
Le parole di Cooper avevano qualcosa di entusiasta che il ragazzo non
riuscì a spiegarsi: lo guardò stupito. Come faceva lui a saperlo?
«Ti ha scritto?», ipotizzò, ma vide il fratello scuotere la testa.
«Puro e semplice intuito Anderson, mio caro», gli sorride, afferrandogli
l’avambraccio e trascinandolo in corridoio. Blaine si lasciò semplicemente
portare senza capire nulla di quella storia, ma lo strano sorriso che ora Coop
aveva sul volto in qualche modo lo stava contagiando dandogli un senso di
leggerezza: improvvisamente il litigio, quelle grida, le parole che lui e Kurt
si erano detti non gli mettevano più tanta ansia; improvvisamente, seppe che
era stato solo qualcosa di passeggero, probabilmente una tappa obbligatoria, ma
nulla di irreparabile.
Capì che cosa stesse passando nella testa del fratello solo quando lesse
l’insegna della grande stanza in cui stavano per entrare. Gli ultimi corridoi,
fortunatamente, erano sgombri: Blaine non era certo che potessero stare lì.
Il ragazzo lasciò vagare lo sguardo nell’ambiente nuovo, pieno di specchi
ed attrezzi vari; un lato della sala era adibita con dei lettini e in tutto
conteneva una quindicina di persone fra pazienti e fisioterapisti. Ci mise
pochissimo ad individuare, su uno di quei lettini, la figura concentrata del
suo ragazzo. E fu come se un grosso peso si togliesse dalla sua schiena e lo
lasciasse libero di respirare.
«Bene così, ripetiamo
l’esercizio ancora una volta».
La voce dell’uomo che lo stava aiutando a muovere la gamba raggiunse Blaine
ed amplificò il senso di leggerezza che lo stava invadendo. Per qualche istante
rimase lì, vagamente nascosto dalle altre persone e guardò il suo ragazzo:
l’impegno che gli leggeva sul viso lo stava facendo sorridere senza che se ne
rendesse conto.
C’era tutto quello che l’aveva fatto innamorare in quei lineamenti così
decisi, nel sudore che scendeva ai lati del volto, nel fiato che si spezzava
per lo sforzo: Kurt era sempre stato un combattente – l’aveva capito dalla
prima volta che l’aveva visto, dalle lacrime che avevano bagnato le sue guance
mentre parlava dei suoi problemi. Allora, come in quel momento, aveva mostrato
che poteva piegarsi ma non si sarebbe spezzato, che se anche l’avessero buttato
a terra lui si sarebbe rialzato. Sempre. Stavolta aveva solo avuto bisogno di
un po’ di tempo in più.
Notò appena la mano di Finn sulla spalla del ragazzo, il sorriso raggiante
che anche quello aveva sul viso nel constatare i progressi del fratello. Poi
spostò lo sguardo sul padre, che stringeva Carole a sé con lacrime di gioia
agli occhi: doveva essere incredulo tanto quanto lui per l’improvviso
cambiamento di idea del figlio. Erano quelli che lo conoscevano meglio, eppure
in quel momento erano i più sorpresi della cosa.
«Blaine!».
La voce del suo ragazzo lo riportò alla realtà. Lo vide, i suoi occhi
luccicarono per un’istante, per la gioia improvvisa, poi si spensero per
qualcosa che non seppe capire. La seconda volta che brillarono, fu per le
lacrime.
Il ragazzo gli si avvicinò, improvvisamente sentì l’urgenza di averlo tra
le braccia, di sentire l’odore della sua pelle, il calore del suo corpo. Di
sentire che era ancora con lui. Come sempre.
Kurt si alzò di scatto, non appena vide l’altro avvicinarsi: aveva così
tante cose da dirgli, così tante scuse da fargli, ma voleva sentirlo accanto a
lui, voleva affondare ancora una volta il viso nell’incavo del suo collo e
dimenticare tutto, come sempre quando erano insieme. Loro due, il resto del
mondo fuori. Si accorse appena di aver spostato tutto il peso del suo corpo
sulla gamba sinistra, che non era pronta a stare così in piedi e la testa gli girò senza preavviso, mentre il campo
visivo cambiava pericolosamente, avvicinandosi al pavimento.
Le braccia forti – e stranamente tempestive – di Finn lo presero prima che
si accasciasse completamente e lo tennero su. Kurt guardò suo fratello stupito:
doveva averlo tenuto sotto controllo per tutto il tempo a giudicare
dall’inusuale prontezza con cui era intervenuto. Per un istante gli mancò il
fiato al pensiero di quante altre scuse dovesse ancora alla sua famiglia per la
stupidità del suo comportamento e la preoccupazione che aveva suscitato. La
lista era tremendamente lunga, ma il bel sorriso di Finn gli diede quantomeno
una tregua dai sensi di colpa.
«Attento a non fare altri danni, fratellino», gli sussurrò con affetto,
rimettendolo a sedere con facilità.
«Grazie…». Avrebbe voluto evitare di arrossire, ma fu naturale mentre lo
guardava ancora negli occhi; poi si concentrò su Blaine che adesso era
praticamente davanti a lui, ma non osava fare una mossa. Anche lui si concesse
qualche istante per guardarlo: non avevano litigato neanche da ventiquattro
ore, eppure gli sembrava di essere stato solo per giorni.
Quando si alzò di nuovo in piedi fu per affondare nel petto di Blaine, certo che lo avrebbe preso e tenuto
stretto a sé. Respirare di nuovo il buon odore del suo gel per capelli e
dell’ultimo profumo che gli aveva regalato fu un po’ come tornare a casa,
sentirsi nel posto giusto al momento giusto.
«Mi dispiace tanto per tutto quello che ti ho detto, Blaine…», sussurrò, il
groppo alla gola che tornava a farsi sentire. «Io-».
«Va tutto bene, Kurt…», lo anticipò quello, stringendolo ancora di più
«L’importante è che ora tu sia qui, che ti sia deciso a riprendere in mano le
cose, come fai sempre». Anche la voce di Blaine in qualche modo tremava:
sentiva finalmente che le cose stavano prendendo la giusta direzione e una
piccola parte di sé aveva paura che potessero deviare ancora.
«Mi sei mancato…», si lasciò scappare e quasi sperò che Kurt non lo avesse
sentito perché sarebbe sembrato così patetico…
«Non ho intenzione di andare più da nessuna parte», sussurrò di rimando il
ragazzo, le lacrime che ormai gli bagnavano il viso per quanto aveva fatto
soffrire tutti.
«Ti amo …».
«Ti amo anch’io, Blaine. Scusami, scusami, scusami…».
Kurt alzò la testa dalla spalla del suo ragazzo solo per guardare, dietro
di lui, la figura sorridente del maggiore degli Anderson. I loro sguardi stettero
l’uno nell’altro per qualche istante e il più piccolo seppe che Cooper era
l’unico a cui anziché dovere una scusa doveva un enorme grazie.
*
Il lieve venticello che ancora soffiava, fresco, lasciava le foglie libere
di muoversi tra gli alberi, creando una rilassante melodia. Qualcuno l’avrebbe
definita malinconica o anche triste, appropriata a quel luogo, ma Richard la
trovava semplicemente abituale, quasi intima. C’era stato un tempo in cui ogni
giorno, in un modo o nell’altro, senza neanche rendersene conto, si ritrovava
in quel posto a qualsiasi ora, come se semplicemente le sue gambe decidessero
che era arrivato il momento per una visita. Si ritrovata tra quel marmo bianco,
davanti a quel nome, senza ricordare il percorso fatto o dove avesse programmato
di andare. Il suono delle foglie tra gli alberi era la sola costante ad
accompagnarlo, aveva imparato a conoscerlo così bene che ormai gli dava
conforto come poche alter cose.
Si volse di nuovo a guardare la lapide che conosceva tanto bene. Lasciò che
gli occhi vagassero tra le lettere scure come in cerca di qualcosa di diverso
dall’ultima volta che vi era stato, mentre la luce del tramonto lasciava
riverberi rossastri un po’ ovunque, avvisandolo che ormai era tempo di andare.
Cameron, come suo solito, lo aveva fedelmente accompagnato, ma era rimasto
in disparte, qualche passo più in là, con la schiena appoggiata contro un
grosso salice piangente, le foglie che interrompevano qua e là la vista
dell’amico.
Si chiedeva se Richard stesse davvero bene come voleva fargli credere, se
quello della notte precedente fosse stato solo un crollo o ci fosse altro,
nascosto anche alla sua vista così ben allenata. Lo aveva spaventato vederlo
così vulnerabile: non succedeva da tempo. E se tutto il trambusto delle ultime settimane lo avesse destabilizzato più
di quanto volesse dar a vedere? Sarebbe stato in grado lui di fargli forza, di
aiutarlo?
Cameron sospirò: il suo compagno di stanza, il suo migliore amico era
convinto che insieme sarebbero stati in grado di superare qualsiasi cosa, ma
c’erano delle volte in cui lui ne dubitava: in fondo, ne sapeva tremendamente
poco di quello che bisognava fare in situazioni del genere. Andava
semplicemente a tentativi, cercando di tenerlo calmo, di rassicurarlo e fare in
modo che tutto quello che aveva visto non gli pesasse troppo. Eppure, la
persistente sensazione che non fosse mai abbastanza, che in realtà non facesse
altro che cercare di riparare una diga con un tovagliolo, non lo abbandonava
mai e di tanto in tanto tornava a morderlo con mira fin troppo esperta.
«Posso sentire gli ingranaggi
del cervello faticare, anche da qui».
La voce di Richard lo fece sussultare, più vicina di quanto ricordasse.
Mise a fuoco quello che aveva davanti e se lo ritrovò accanto, mentre studiava
uno dei ramoscelli che il salice piangente portava praticamente ad altezza
delle loro spalle. Sorrise, sperando di non dover dare spiegazioni, ma vide
l’altro guardarlo con strano interesse: se ne sentì quasi infastidito. Era così
che lo guardava lui ogni volta che lo vedeva in difficoltà?
«A cosa pensi?», gli chiese Richard, ormai del tutto disinteressato alle
foglie.
«Io… solite cose», sviò quel, ben sapendo che l’arte della menzogna non gli
apparteneva.
«Sei come i Vulcaniani», gli sorrise l’amico «Tremendamente pessimo a
mentire».
Cameron sorrise al riferimento e fece qualche passo avanti. Come i
Vulcaniani, in quel momento anche lui si trovava a disagio a parlare dei propri
sentimenti.
«Come stai?», riuscì a chiedere quando gli ebbe voltato le spalle.
«Meglio», sospirò Richard, ancora col sorriso sulle labbra, anche se
stavolta non poteva essere visto.
L’asiatico si girò di scatto, pronto a cogliere la bugia negli occhi
dell’altro, ma non ve ne trovò traccia. Osservando i lineamenti dell’amico,
Cameron non riuscì a trovare altro che un barlume di inaspettata calma, dietro
alla solita esuberanza. Sembrava stare davvero bene.
«Stanotte ti ho spaventato». Era un semplice dato di fatto. Tra di loro
calò il silenzio, uno dei pochi che solitamente li guardava, forse l’unico.
«La cosa bella, sai qual è?», chiese Cameron, d’un tratto, interrompendolo
«Per quanti sforzi facciamo alla fine ci ritroviamo sempre allo stesso punto».
«Che punto?». Richard non riusciva a seguirlo.
«Il punto in cui tu ti incolpi della morte di Anne ed io di fare ben poco
per aiutarti».
Richard lo guardo, consapevole adesso di quello che l’altro stava provando.
Era vero: prima o poi finivano sempre a star male per colpe che non avevamo.
Era quasi un obbligo nella loro amici stare male l’uno per l’altro.
Senza pensarci su, lo strinse a sé con tutta la forza che aveva, quasi
volesse calmarlo solo con quell’abbraccio. Sentì Cameron sussultare appena,
prima di rilassarti tra le sue braccia e nascondere la fronte nell’incavo del
suo collo. Rimasero così per un po’, fino a che i battiti accelerati dei loro
cuori non si regolarizzarono l’uno con l’altro.
«Lo sai che siamo due stupidi?», disse Richard con un filo di voce.
L’altro annuì contro il suo collo. Era tremendamente stupidi, ma a quanto
pareva non riuscivano a farne a meno, neanche una volta.
«Sai una cosa, però? Io sto bene. Sto davvero bene oggi».
Stavolta Cameron non ebbe bisogno di guardarlo negli occhi per capire che
non stava mentendo: la sua voce tratteneva una pacatezza che solitamente tra i
due era lui a possedere e che lo rassicurò come invece solitamente succedeva a
Richard.
«Posso sapere il perché?»; probabilmente avrebbe dovuto lasciarlo andare,
ma stava troppo bene tra le sue braccia per interrompere quel contatto. E poi
sapeva che a Richard non sarebbe dispiaciuto.
«Perché ho visto gli occhi di Sebastian, stamattina e brillavano».
L’asiatico annuì appena, aspettando la spiegazione di quella frase.
«Quando Thad si è sentito male… credevo sarebbe stato troppo per lui, che
si sarebbe di nuovo bloccato come dopo l’esplosione, dato quello che è successo
stanotte. Ero pronto a prevenire qualsiasi tipo di crisi, ad esserci… e invece
si è rialzato, ha racimolato le sue forze e l’ha seguito. I suoi occhi non
hanno mostrato alcun segno di debolezza: erano fermi, decisi e brillavano di
una scintilla che non ho mai visto. Come se avesse capito qualcosa».
Richard ne parlava come se fosse una bellissima esperienza, col fiato che
mancava appena per l’eccitazione e la felicità. Non era del tutto certo che
l’amico avrebbe capito che cosa significasse per lui aver visto quel
cambiamento in Smythe: era stato tutto.
Improvvisamente, gli aveva mostrato un finale alternativo, uno in cui il
lasciarsi andare non avrebbe avuto la meglio, dove l’attaccamento alla serenità
sarebbe stato più forte. Vederlo, gli aveva ridato la speranza – neanche si era
reso conto di averne persa così tanto in quei giorni.
«Dovrò ricordarmi di ringraziarlo, quando lo incrocio», disse alla fine
Cameron, lasciando andare l’amico: ora poteva vedere chiaramente il cambiamento
sul suo volto. Una minima parte di lui si scoprì gelosa del fatto che tale
svolta fosse stata determinata da qualcuno di abbastanza lontano come
Sebastian, ma ricacciò indietro il sentimento: se era il prezzo da pagare per
vedere Richard così vivo, allora lo
avrebbe accettato ben volentieri.
«Torniamo alla Dalton», gli sorrise, circondandogli la schiena con le
braccia e tirandolo a sé.
*
Il freddo gli punse inaspettatamente il viso quando uscì nel giardinetto
interno della Dalton con in dosso solo la camicia della divisa. Sebastian fece
qualche passo incerto, prima di individuare l’obiettivo della sua ricerca, ma
quando l’ebbe visto si fermò del tutto. Era dannatamente insicuro e odiava
sentirsi in quel modo. Odiava tutta la situazione e sarebbe voluto scappare
via, cambiare Stato pur di non doverlo
affrontare. Ma era lì, perché in fondo non sarebbe potuto essere in nessun
altro posto al mondo.
Fece qualche passo avanti, ancora incerto, ma non più così spaventato.
Sentiva che il momento della negazione era finito, che in qualche modo Thad era
riuscito a smuoverlo abbastanza da non poter più tornare indietro. Non sapeva
davvero come sarebbe venuto a patto con quello che provava, ma era certo che
non avrebbe potuto continuare con quella situazione di stallo.
«Non capisco davvero che cosa tu ci trovi di interessante nello startene da
solo, in giardino, di notte», sussurrò, quando fu arrivato di spalle all’amico
– se poteva permettersi di pensare a loro in quei termini.
«È rilassante», rispose Harwood, senza scomporsi né voltarsi.
«È spaventoso», lo corresse
Smythe con un’espressione di disgusto sul volto.
«Paura del buio?», si lasciò scappare con una risatina l’altro.
«Ma per chi mi hai preso?», corse subito ai ripari il Warbler «Dico solo
che è abbastanza inquietante starsene qui, da soli, al buio. Devi avere
decisamente qualcosa che non va, Harwood».
«Su questo, almeno, siamo d’accordo», annuì Thad, spostandosi di qualche
passo verso una delle panchine, ma senza sedersi, indeciso su se continuare a
dare le spalle all’altro o guardarlo negli occhi. Stava probabilmente dando
l’impressione che non ci fosse nulla che non andasse, ma la verità era che una
parte di lui era spaventata dalla novità che gli si presentava: Sebastian che
lo cercava, che in qualche modo apriva una conversazione con lui, una seria a
giudicare dal tono, era una cosa rarissima. Gli ricordava la conversazione di
quella mattina e il punto fino a cui si era spinto – fin quasi a dirgli in
qualche modo scomposto che cosa provava per lui – lo aveva spaventato.
«C’è qualcosa che non va, quindi?», stava chiedendo intanto Sebastian, con
tono ancora più serio.
«Mi sfugge la logica per cui non ti abbia ancora lasciato perdere».
Le parole erano saltate fuori da sole, senza che il ragazzo neanche ci
pensasse. Per qualche istante, Thad trattenne il fiato: doveva pentirsene?
Aveva sbagliato? A Smythe sembrò che qualcuno lo avesse appena colpito con un
destro dritto nello stomaco. Voleva davvero lasciar perdere proprio in quel
momento? Proprio quando lui, invece, si era deciso a fare un passo avanti?
«Te l’ho detto: non sei in grado di lasciar perdere»; la voce lo sostenne
magistralmente, senza tremare, sbavando appena sulle ultime sillabe.
«Dovrei?». Harwood non avrebbe saputo dire se quella domanda fosse rivolta
più a se stesso o all’altro, ma sentì la necessità di guardare Sebastian negli
occhi mentre la pronunciava, fosse anche solo per carpirne la reazione.
«…Non lo so, Thad»; questi scosse
la testa, senza sapere davvero che cosa dire o fare. Sentiva una parte di lui
gridare che no, dannazione, non avrebbe dovuto lasciar perdere. Eppure c’era
ancora troppa confusione nella sua testa, troppa indecisione.
«Ma sì, non è nulla di cui preoccuparsi. Mi passerà», sussurrò il ragazzo,
scoraggiato ed improvvisamente stanco: quella era stata una giornata tremenda,
gli sembrava passato un mese da quando era cominciata e non aveva la forza di
discutere con Smythe, soprattutto perché aveva l’impressione che sarebbe stato
un discorso a senso unico. Per questo si incamminò lentamente, quasi per
inerzia, verso il portone dell’Istituto.
«…Non riesco più a dormire bene, da quando non sei più in stanza con me».
Sebastian aveva parlato quasi mosso dalla disperazione, come se sapesse che
quella sarebbe stata una delle poche cose che avrebbero fermato il cammino
dell’altro. Si impose di non pensare a quanto patetico sarebbe risultato, a
quanto poco da lui fosse quella frase: non voleva che Thad se ne andasse.
E Thad, infatti, si fermò, voltandosi indietro solo con la testa,
guardandolo con la coda dell’occhio.
«Se non sbaglio sei stato tu a voler cambiare camera», gli rinfacciò senza
provare alcun rimorso.
«Hai ragione. Ma non vuol dire che sia stato facile».
«Evidentemente lo è stato abbastanza da permetterti di farlo».
«Smettila di essere così!»
«Così come? Menefreghista,
schietto, cattivo? Ho avuto modo di
imparare, sai?». Thad non aveva idea del perché si stesse comportando così, ma
non riusciva a smettere o a dispiacersi per le parole che continuavano a venir
fuori dalla sua bocca.
«Questo non sei tu», continuò Sebastian.
«No, ti sbagli di grosso: questo sono proprio io. Un io stanco di questa situazione, che decide di darci un taglio, di
mettere tutte le carte in tavole e per una volta far prevalere il proprio bene
su quello di chi gli sta intorno». Non stava gridando, ma le parole avevano
comunque una forza micidiale.
«Ma perché ti ostini a non capire?!», Sebastian, invece, aveva alzato la
voce, quasi non potesse farne a meno.
«Capire cosa?!».
«Che ho paura! Che tutto…questo è
dannatamente incasinato e confuso ed io non so che cosa fare!».
«Definisci “questo”». Thad si impose di non pensare che ci stava di nuovo
ricascando, che stava di nuovo cercando di capire, mettendo da parte se stesso
e il suo pur giustificato rancore: sapeva perfettamente che, trattandosi di
Sebastian, sarebbero stati solo moniti vani.
«Questo. Me e te. Quello che… provo».
Le parole parevano pesare come macigni mentre venivano fuori. Thad si voltò
completamente verso di lui, facendo qualche passo in avanti: ora Sebastian gli
sembrava così vulnerabile che pur volendo non sarebbe potuto andare via. Per un
istante gli ricordò la sera in cui era andato a cercarlo, in quello stesso
giardino, quando avevano saputo del tentato suicidio di Karofsky. Allora era
stato lui a cercarlo e Smythe lo aveva scacciato in malo modo; stavolta la
situazione era quasi invertita.
«Tu… non ti rendi conto di quello che…», aveva ripreso a parlare l’altro
«Io sono così, Thad. Mi piace avere tutto sotto controllo, essere quel mezzo
gradino più in alto rispetto agli altri».
«Per guardare il mondo dall’alto in basso e compiacerti della tua
superiorità»; non era riuscito a trattenere quella battuta, per quanto avrebbe
potuto davvero risparmiarsela.
«Sta’ zitto, Harwood. Lasciami parlare!».
Thad trattenne il fiato e Sebastian abbassò lo sguardo. Il primo sentì
improvvisamente il cuore battere all’impazzata, come se solo in quel preciso
istante si fosse reso conto di quanto importante potessero essere le parole
dell’altro: non era abituato a prenderlo sul serio, perché la maggior parte
delle volte era lo stesso Sebastian a rendersi così odioso da allontanare
tutti, lui compreso.
«Ho bisogno di sentire che ho il pieno controllo su quanto mi è intorno.
Sono bravo, sono cresciuto con la concezione che è possibile avere tutto e sì,
sono dannatamente arrogante. Capirai bene che tutto questo non coincide affatto
con l’insicurezza e la confusione. Ma tu hai il potere di… quando parlo con te,
io davvero non so cosa fare o dire. Mi… destabilizzi.
E la sola idea che qualcun altro possa condizionarmi a tal punto…».
Rialzò gli occhi e incontrò quelli di Thad. Non c’era più alcuna traccia di
rabbia o sarcasmo: erano seri, giusto una punta di sorpresa li sporcava. Smythe
si chiese quando avrebbero smesso di fargli quello strano effetto, come se
avesse potuto perdersi in essi, come se nascondessero così tante cose che lui
non si era mai preso il disturbo di capire, cose di cui non gli era mai
importato e che ora rimpiangeva di aver lasciato andare.
Harwood non sapeva che cosa dire, che cosa pensare. Una parte di lui cercava di trovare la logica in quella
situazione che mai si sarebbe aspettato di vivere; un’altra parte,
semplicemente, avrebbe voluto piangere. Per tutto, per il fatto che ora si
rendeva davvero conto che non avrebbe accettato altro da Sebastian, che aveva
creduto di poter affrontare qualunque tipo di risposta, ma che invece non
sarebbe mai stato in grado di scendere a compromessi con un rifiuto. Restava
semplicemente fermo, anche lui perso negli occhi chiari dell’altro.
«Di’ qualcosa…», lo esortò quello: si aspettasse una risposta, quantomeno
una reazione. Aveva fatto la sua parte, no? Insomma, era stato chiaro. Giusto?
Thad se ne stava semplicemente lì, impalato, e a lui quella cosa sembrava
impossibile da sopportare, come se d’un tratto non potesse tollerale più la
distanza che lui stesso aveva messo fra loro.
Per questo l’annullò del tutto, stringendolo a sé come non aveva mai fatto
prima: Thad profumava di qualcosa che non riusciva ancora bene ad identificare
ma che gli piaceva. Non si era mai accorto che avesse un così buon odore.
Perché non si era mai avvicinato così a lui, mai. Sentì lentamente le braccia
dell’altro sfiorargli la schiena, prima con incertezza, poi sempre con maggiore
convinzione, finché anche Thad non lo stava stringendo a sé, quasi con urgenza.
«Tienimi a galla…», sussurrò allora, contro la sua spalla, per poi
abbandonarsi nell’incavo del suo collo, come senza forze.
Ma durò poco, pochissimo, perché Thad lo aveva preso per le spalle ed
allontanato da sé quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi. Poi,
semplicemente, lo aveva baciato. Non sapeva perché, non l’aveva programmato:
gli era semplicemente sembrata la cosa giusta da fare e quando sentì le labbra
di Sebastian rispondere al movimento delle sue, capì che era stata la mossa
esatta. Non aveva idea di come si sentisse: la terra sembrava essere fuggita da
sotto i suoi piedi, mentre la mano dell’altro si posava con forza sulla sua
nuca, per tirarlo ancora più a sé, le labbra ormai dischiuse e le lingue che
imparavano a conoscersi, studiandosi per la prima volta, regalando brividi ad
entrambi che parevano dire “ne è valsa la pena, aspettare”. Ed era vero: se
c’era una cosa su cui i due avrebbero potuto concordare in quel momento era che
qualunque male si fossero fatti ne era valsa la pena. Perché quel bacio era
perfetto, era loro…
Quando si separarono fu troppo presto. Probabilmente sarebbe stato sempre
troppo presto. Thad appoggiò la testa contro la spalla di Sebastian, quasi
avesse davvero bisogno di aggrapparsi a qualcosa per non cadere a terra e a
giudicare dal modo in la mano di Smythe si era stretta alla sua giacca, doveva
essere così anche per lui.
Restarono così, l’uno tra le braccia dell’altro, ad ascoltare i loro
respiri che si rincorrevano fino a trovarsi ed unirsi andando a tempo.
Sarebbero potuti rimanere in quella situazione per sempre, non importava che
cosa sarebbe successo intorno a loro.
Improvvisamente, Sebastian non si era mai sentito più sicuro di quello che
provava. Aveva la sensazione che sarebbe potuto esserlo solo con Thad accanto.
***
Cinque mesi dopo.
Il sole caldo di quella mattina minacciava di far evaporare qualunque cosa
i suoi raggi toccassero con effetto istantaneo. Jeff pensò che la divisa della
Dalton era tremendamente inappropriata alla temperatura di quella giornata, ma
avevano deciso che sarebbero andati in uniforme perché era la cosa giusta da
fare.
Nick, accanto a lui, sembrava stranamente nervoso: probabilmente era il
posto a turbarlo: rievocava momenti che avrebbe volentieri evitato di
ricordare. Gli prese una mano e la strinse tra le sue per farlo rilassare: col
pollice disegnava ghirigori senza senso sul dorso perché sapeva lo avrebbe distratto
da qualsiasi brutto pensiero lo stesse innervosendo.
Proprio in quel momento scorse la testa di Thad farsi strada tra la gente e
raggiungerli con un sorriso raggiante per poi sedersi accanto a loro. Non disse
nulla, a corto di parole in una simile occasione e guardò la struttura davanti
a sé con una certa serietà. Se lo avesse rilassato, come succedeva a Nick, Jeff
avrebbe preso anche la sua di mano.
«Sei venuto da solo?», gli chiese per intrattenerlo.
Thad ci mise qualche istante a recepire la domanda, poi scosse la testa.
«Sebastian sta cercando parcheggio, io non ero certo che foste arrivati e
volevo mantenere dei posti», spiegò, ma una parte di lui sembrava ancora
lontana e il biondo decise di non insistere in una conversazione che sarebbe
ben presto caduta in monosillabi e silenzi.
«Sta bene?», gli sussurrò Nick all’orecchio, guardando di sottecchi il
ragazzo.
«Non lo so… non credo. Insomma, se noi siamo abbastanza scossi dalla cosa, lui non starà certo meglio».
Duvall annuì appena, poggiando la testa sulla spalla del suo ragazzo.
Avevano deciso di voler essere tutti presenti in quell’occasione anche se
consapevoli che non sarebbe stato come una giornata al luna park. Ora però si
chiedeva se magari Thad avrebbe potuto risparmiarsela. Mentre fissava ciò che
lo circondava, le immagini si sovrapponevano a quelle di alcuni mesi prima,
dandogli uno strano senso di dejà vu incompleto, come in quei giochi in cui
bisognava trovare le differenze fra due immagini apparentemente simili.
Trovare le differenze, in questo caso, era dannatamente facile. Ora tutto
era più calmo, fermo: Nick ricordava il rumore assordante delle sirene, il
vociare convulso e forte delle persone e il tono più secco e deciso dei vigili
del fuoco. C’era stato un caos di gente che si muoveva in ogni direzione e fumo
che impediva la vista e faceva lacrimare gli occhi. Ma soprattutto, non in quel
quadro mancava Jeff. Non era stato con lui e questo lo aveva fatto quasi
impazzire.
Chiuse gli occhi, prendendo una boccata d’aria e stringendo più forte la
mano dell’altro che gli sorrise ancora una volta.
«Tu non hai idea di quante macchine siano parcheggiate qui intorno!», si
stava lamentando intanto Smythe, appena arrivato, mentre prendeva posto accanto
ad Harwood.
Questi annuì appena, fissandolo per qualche istante, poi tornò a guardare
di fronte a sé. Aveva creduto che il fatto che non ricordasse nulla di com’era
stato quel posto negli scorsi mesi lo avrebbe aiutato a non essere così a
disagio, ma era come se sentisse
quello che era successo in quel posto, come se l’immaginazione avesse sopperito
alla lacuna visiva, portandolo all’interno di quel caos che in realtà non aveva
sperimentato. Perché era incosciente. Sotto un cumulo di macerie, troppo vicino
al punto dell’esplosione. Ferito.
Thad si sentì improvvisamente mancare l’aria, mentre vaghi sprazzi di
quando si era svegliato, bloccato tra i detriti della mensa del McKinley, gli
tornavano inopportunamente alla mente.
«Stai bene?».
La voce gentile di Sebastian lo strappò a quello che si sarebbe ben presto
trasformato in un attacco di panico e lui gli si strinse contro, in cerca di
calma. Non credeva sarebbe stato tanto difficile.
«Va tutto bene, Thad. Va tutto bene», gli sussurrò quello, fino a che non
sentì l’altro rilassarsi; poi gli lasciò un lieve bacio sulle labbra e tra i
capelli. «Sono qua con te», lo rassicurò e Thad annuì appena. Doveva ancora
abituarsi al modo assurdo in cui solo Sebastian riusciva a calmarlo in certi
momenti: ringraziò il cielo di averlo lì con lui.
Lentamente, il resto dei posti allestiti nel cortine della scuola si
riempirono: studenti del McKinley, amici e parenti presero posto e anche i
restanti ragazzi della Dalton si affiancarono a quelli già arrivati. Richard si
sedette accanto a Cameron, come suo solito, proprio alle spalle di Jeff. Con la
coda dell’occhio trovò immediatamente Smythe, ma il contatto non durò che pochi
istanti.
«Lo tieni ancora sotto controllo?», scherzò Cameron, dandogli un colpetto
sulla spalla.
«No, non davvero», rispose quello «Sebastian sta bene. Soprattutto da
quando sta con Thad».
«Suppongo dovesse finire così dall’inizio», disse con fare filosofico il
primo, al che Richard scoppiò in una fragorosa risata, qualcosa che Cameron non
si aspettava davvero e che lo lasciò positivamente sorpreso: Smythe non era
stato il solo a cambiare.
Burt parcheggiò la macchina più lontano dalla scuola di quando avrebbe
voluto e maledisse il tempo che suo figlio aveva perso a prepararsi. Ora
avrebbero dovuto fare più strada del previsto, nelle loro condizioni, e la cosa
non gli faceva di certo fare i salti di gioia.
«Papà, non sarà che qualche metro in più, smettila!», si lamentò Kurt,
guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore.
«Non ho detto nulla», si difese quello, sorpreso come sempre dal modo in cui
il ragazzo leggeva i suoi pensieri.
«Certo, non hai detto nulla, ma
posso sentire il tuo cervello fumare dalla rabbia e dalle supposizioni fin da
qui. Sarà una bella passeggiata.
Blaine, accanto al ragazzo, sorrise al suo buonumore e si apprestò a scendere
dalla macchina: c’erano stati dei giorni in cui non aveva sperato di vederlo
così felice, anche una volta cominciata la riabilitazione. Delle volte,
semplicemente, Kurt perdeva la fiducia in quello che stava facendo, per la
stanchezza o la spossatezza, e si lasciava scivolare giù. Lui era lì, tutte le
volte, per fargli forza, con Finn e i suoi genitori; di tanto in tanto c’era
anche Cooper, ma lui più che altro osservava, e anche così Kurt sembrava
giovarne, perché il giorno dopo era pronto a riprendere da dove aveva lasciato.
Ora erano almeno tre settimane che aveva lasciato l’ospedale e stava
continuando a fare pratica da sé, a casa. I muscoli erano tornati a funzionare,
come previsto, ma avevano bisogno di continuo allenamento per rafforzarsi e
tornare alla vecchia tonicità. Non che al ragazzo dispiacesse fare esercizi:
era sempre stato abbastanza fissato con la forma fisica ed allenarsi lo
rilassava, ora che poteva muoversi come una volta. Ma Burt era un’altra storia:
era diventato quasi paranoico, con la paura fissa che il figlio strafacesse e
si stirasse un muscolo o peggio.
Kurt mise per bene i piedi a terra per poi scendere dalla macchina: alzarsi
in piedi e camminare gli faceva ancor uno strano effetto, come di un traguardo
appena raggiunto. Ne assaporava ogni momento, muovendosi quasi con lentezza.
Blaine gli era sempre al fianco, anche se gli serviva una mano sempre più di
rado, mentre Finn solitamente era alle sue spalle, da bravo fratello. Fece
qualche passo con cautela, poi si mosse con sempre maggiore scioltezza,
prendendo il giusto ritmo.
«Kurt!», si sentì chiamare e voltandosi scorse Rachel, Tina e Mercedes a
pochi passi da loro. Le attese per poi lasciarsi abbracciare e coccolare da
tutte, soprattutto da ‘Cedes, che se lo mise
sottobraccio, lasciando Blaine senza cavaliere. Quello sorrise e raggiunse
Tina, facendole compagnia con un sorriso, mentre Rachel si accoccolava accanto
a Finn.
Quando raggiunsero il cortile della scuola, il preside Figgins
aveva già preso parola e c’era silenzio. I ragazzi presero posto salutando
rapidamente quei pochi che incrociarono. Kurt notò Thad, accanto a Sebastian,
le loro mani intrecciate e uno dei pochi ricordi di quel giorno gli tornò alla
mente. Thad era stato l’ultimo con cui aveva parlato, in mensa, prima
dell’esplosione. Gli aveva detto qualcosa riguardo al fatto che non riusciva ad
avere a che fare con Sebastian, che era improvvisamente cambiato e lo stava
evitando. Allora non aveva saputo che cosa dire, ma guardandoli adesso, si rese
conto che in qualche modo la soluzione era stata dannatamente facile.
«…Ed è per questo che oggi sono lieto di annunciarvi la riapertura del
McKinley! I lavori sono stati svolti nel più veloce dei tempi per rientrare
nell’anniversario dei cinque mesi da quel brutto giorno ed ora abbiamo fatto un
altro passo verso la conquista della quotidianità che ci siamo visti strappare
così brutalmente!».
Il preside concluse il suo discorso fra gli applausi generali ed alcuni
fischi entusiasti.
Kurt si strinse a Blaine, felice come poche altre volte era stato; più
avanti, anche Sebastian aveva avvicinato Thad a sé, circondando le sue spalle
con un braccio, mentre Nick stringeva forte la mano di Jeff e Cameron
applaudiva più per la nuova risata di Richard che per le parole dell’uomo.
Alcuni avrebbero potuto considerare quello come un ulteriore passo verso la
quotidianità di sempre. Altri preferivano pensare ad esso come al primo di una
nuova normalità.
Fine.
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Umh… non so bene che cosa dire. E’ finita e non me ne
capacito ancora del tutto. Sono rimasta calma per tutto il tempo della stesura
di questo epilogo, ma non scherzo quando vi dico che la parola più difficile da
scrivere è stata quel “fine”. Fa ogni volta uno strano effetto, credo che non
mi ci abituerò mai.
Questo
epilogo è stato chilometrico e me ne scuso, ma non me la sono sentita di
dividerlo in nessun punto: nella mia testa doveva essere postato come uno solo (e
doveva essere anche molto più breve, ma vabbe’).
Ad ogni
modo… è finita. Spero nel modo migliore, nel modo che più vi soddisfa. Da parte
mia, posso dire che nonostante il tempo infinito che ho impiegato a scriverla,
ho preso seriamente a cuore questa long. È stata diversa dal solito per varie
ragioni: è stata la prima che sia partita da una di quelle idee totalmente
folli che solitamente scarto a priori, è stata la prima sulla Dalton e la prima
in cui abbia gestito contemporaneamente più personaggi e più coppie. Quindi
spero davvero di aver fatto un lavoro quantomeno decente.
Devo un
grazie a tutti quelli che hanno letto questa storia, dandomi fiducia capitolo
dopo capitolo, e soprattutto a quelli che si sono fermati un istante, lasciando
una recensione, aiutandomi a migliorare. Un grazie a parte lo meritano Vals, Robs
e Luna che hanno
fugato i miei dubbi, letto in anteprima, mi hanno incoraggiata e sono state
fonte di ispirazione. Senza di voi questa storia forse neanche ci sarebbe
stata.
Detto
questo… probabilmente sono arrivata alla fine anche di queste note. Quindi
vado, sperando di tornare presto con qualche nuova follia (ma anche no).