Terribili piaceri e Dolcezze spaventose

di Canada
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Huddle together into the common grave of mankind ***
Capitolo 2: *** Thou profoundest hell receive thy new possessor ***



Capitolo 1
*** Huddle together into the common grave of mankind ***


1. Huddle together into the common grave of mankind


Dimenandosi convulsamente, il giovane Edgar Wordsworth tentava disperatamente un appiglio per potersi sollevare e uscire da quella prigione soffocante. Eppure non si trovava tanto in profondità da non poter riuscire ad emergere da quel luogo oscuro e sempre più agghiacciante.
Le cose sarebbero state più semplici se non fosse stato avvelenato.
Mano a mano che i secondi passavano il ticchettio del suo orologio rimbombava ritmicamente nella sua mente, irritandolo senza alcuna pietà. Roteava e scuoteva il capo continuamente, incapace di contenere l’enorme dolore che si stava diffondendo in tutto il suo corpo. Sentiva ogni sua singola membra prendere fuoco e consumarsi lentamente nelle fiamme di quell’incubo che a fatica lo teneva in bilico tra morte e vita. E mentre perdeva il controllo di sé cercava disperatamente di emettere un suono; un flebile tentativo di comunicare con il proprio carnefice, sfortunatamente malriuscito. Aprì la bocca nella speranza che ne uscissero parole, ma l’unica cosa che fu in grado di produrre furono versi incomprensibili, suoni gutturali che riecheggiarono nel piccolo antro in cui era incastrato. Invano compiva i suoi sforzi e venne colpito da spasmi e da conati di vomito. Dalla bocca incominciarono a fuoriuscire saliva e schiuma, accompagnate da un grido smorzato. Si sentiva morire.
Ben presto i muscoli incominciarono ad irrigidirsi e a fatica riusciva a mantenersi padrone del proprio corpo. Le sue mani non rispondevano al suo comando, le gambe non si muovevano più, guidate dalla sua volontà. Il busto si irrigidì, il collo rifiutava di cambiare posizione. Restò disteso in modo scomposto, innaturale, con la sola possibilità di muovere a tratti i propri occhi. E più si bloccava più veniva preso dall’agitazione. Nel suo sguardo si poteva leggere l’immensa disperazione con cui vanamente cercava di opporsi agli effetti del veleno. Un veleno che gli stava annebbiando sempre più la vista, causando piccole emorragie nei globi oculari. Le cornee si tinsero di rosso vivo. Il viso divenne paonazzo e assunse una colorazione violacea.
Ma nonostante questo riuscì a recuperare un barlume di senno e pensò a l’unica cosa che in quel momento fosse in grado di fare: levò gli occhi verso l’uomo che sino a quel momento era rimasto immobile, ai piedi di quel sepolcro in pietra. Quando incrociò il suo sguardo incominciò a fremere, preso da un’improvvisa accelerazione del battito cardiaco. Il tonfo del suo cuore dilaniato dal terrore era insopportabile. Esso si era ormai sostituito al regolare scorrere delle lancette del suo piccolo orologio da taschino, e si era impossessato del suo udito, senza lasciargli via di scampo.
“Non disperare mio caro Edgar!” Esclamò improvvisamente l’uomo ai suoi piedi.
“L’umanità intera che fu attende il tuo trapasso, proprio qui, ora!”.
Trionfava dall’alto della sua postazione, occupando con la sua espressione sogghignante tutto lo spazio davanti agli occhi di Edgar. Quello sguardo, di pura follia. Quel sorriso, orribilmente disumano. Tutto di quell’uomo si stava facendo spazio nella sua mente, arrancando sulle sue pareti.
“Nella morte non siamo mai soli. Mai! Persino adesso, alla fine della tua esistenza, un corteo di anime reclama a gran voce il tuo ultimo respiro! Le senti? Riesci a sentire questo forte tremito, che ti colpisce proprio qui, in fondo al cervello. Nelle viscere delle tue sensazioni, dei tuoi desideri. Del tuo intelletto! Non senti questa forte presenza?! Sono loro! E hanno fame, credimi. Presto si sazieranno del tuo spirito.”
Il ragazzo lo colpì con tutto il suo disprezzo e tutto il suo risentimento, cercando invano di ribellarsi agli effetti del veleno. Ma ormai sentiva le forze che lentamente lo stavano abbandonando. Sentiva che non aveva più la volontà di restare a vita. Quel dolore straziante che pulsava in ogni singola fibra del suo corpo stava diventando troppo per lui. Troppo da sopportare.
“Non biasimarmi, mio caro Edgar. Dopotutto, cosa mai avresti potuto sperare di ottenere da un essere umano? Incolpa te stesso, piuttosto, della tua disfatta. Nel profondo del tuo cuore lo hai sempre saputo. Ne eri consapevole! Eppure hai sperato di potermi ingannare. Proprio io!
Io che ti ho insegnato ogni cosa che sai. Hai forse dimenticato che gli uomini sanno essere imprevedibili, a volte? Io, sono imprevedibile.”
Edgar non era più in grado di restare cosciente di quanto stava accadendo. Con orrore si accorse che all’interno delle pareti di quel tugurio si stava diffondendo sempre di più odore di orina. La sua orina. Non era nemmeno più in grado di tenere a freno i propri istinti primordiali. Era in un totale stato di umiliazione. E di questo, a malincuore, ne fu consapevole sino all’ultimo istante di vita.
“Nemmeno ora, mentre nuoti nel disonore e sei circondato dal tuo piscio riesco a provare pietà nei tuoi confronti. Mi hai deluso molto, mio caro Edgar.”
L’uomo ripose a fatica il coperchio della tomba del ragazzo, facendolo combaciare. Mentre ultimava la sua opera un ultimo suono provenne dall’interno, seguito da spasmi convulsi. Incastrò la pietra con un leggero sforzo e rimase per qualche istante ad ammirare il suo capolavoro: un sepolcro attorniato da fregi e rilievi dai motivi circolari. La tomba di colui che sarebbe rimasto ancora per pochi istanti il suo assistente.
“Cadrai insieme a loro. In compagnia di quelle anime”.
Si compiacque del frutto del suo ingegno, e con un sorriso ostentato si diresse verso l’uscita di quel piccolo santuario. Si sentiva davvero soddisfatto di quel semplice piano ben congeniato e altrettanto ben riuscito. Si ingloriò delle proprie gesta, a sua detta esemplari e impeccabili. Un atteggiamento totalmente privo di modestia, che era solito sfoggiare, come di consuetudine, al termine delle sue imprese.
 
Giunto alla porta dell’edificio si voltò un'ultima volta verso il loculo di pietra, prima di richiuderla alle sue spalle per non riaprirla mai più.
“Dopotutto, mio caro Edgar, tutti moriamo prima o poi. Ma alcuni prima di altri.”

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Capitolo 2
*** Thou profoundest hell receive thy new possessor ***


2. Thou profoundest hell receive thy new possessor

Il giorno in cui Percy Godwin conobbe Alexander Strauss fu davvero un giorno infausto per lui.
Eppure, nell’ignara mente del ragazzo, rimase per molto tempo il migliore di tutta la sua vita.
 
Percy non si sentì mai tanto fortunato come in quella fredda e pungente mattinata d’autunno, mentre camminava con passo spedito verso la casa del Signor Ian Moone. Aveva appena superato le sontuose Broadstreet e Cornhill Ward  e si stava dirigendo verso la Banca d’Inghilterra: da lì sarebbe proseguito fino a Cheap Ward, verso Thames Street, una delle strade più importanti di Londra e meta del suo cammino.
Mentre ripercorreva quelle strade sporche e dal tanfo tanto fetido quanto familiare, la sua mente ripercorse quei lunghi e faticosi 19 anni trascorsi in compagnia di farabutti e delinquenti. Era stato cresciuto da Mrs. Jenkins e Mr. Chapman in uno dei tanti orfanotrofi dell’Inghilterra post-Rivoluzione Industriale, e sin da piccolo aveva imparato a destreggiarsi tra gli infiniti e sudici vialetti londinesi, senza mai perdersi. Chiamiamolo senso dell’orientamento innato, se vogliamo, ma oltre a questo Percy aveva altri talenti nascosti nella manica. All’età di 8 anni gli avevano insegnato a sfilare i preziosi gioielli delle Miss di Londra in poche abili mosse e a derubare i Lord delle loro monete scintillanti, e per riuscire in tutto ciò gli ci erano voluti solamente 2 mesi. “Si può vivere alla giornata anche da signori” diceva sempre Mr. Chapman, e grazie al ragazzino i suoi sogni di gloria giornalieri venivano soddisfatti e consumati assieme ad un’abbondante riserva di alcolici. Erano di più le botte che riceveva in un singolo giorno che le sagge parole che sentiva nell’arco di un anno intero.
Ma in tutta la sua vita, mai si era sentito dire un solo grazie da parte dei due aguzzini.
Percy era stato cresciuto nell’ignoranza, e di questo ne era più che consapevole, suo malgrado; non sapeva leggere e a stento sapeva scrivere il proprio nome. Ma nell’epoca in cui viveva la mancanza d’istruzione non era esattamente al centro delle problematiche del Parlamento inglese, e tanto meno lo sfruttamento minorile. Al contrario di Mrs. Jenkins e Mr. Chapman, però, Percy aveva sempre ringraziato il Cielo per non essere capitato in uno di quegli orfanotrofi degli orrori. Il Cielo, si capisce, mai Dio: come poteva pregare colui che gli aveva portato via sia la madre che il padre?
Durante quelle giornate lunghe e lugubri un solo colore faceva da sfondo alla sua vita: il grigio.
Ma ora era giunto il momento che da tempo stava aspettando, il momento della sua rivincita.
Aveva diciannove anni ed era intelligente, gli bastava soltanto trovare qualcuno che lo proteggesse sotto la sua ala e gli insegnasse qualcosa, e finalmente si sarebbe riscattato dopo tutti quegli anni buttati tra un furto e l’altro. Per questo motivo si stava dirigendo da Ian Moone.
Ora stava imboccando Thames Street, tendendo ben saldo nella mano l’indirizzo che si era fatto trascrivere su un foglietto sudicio ingiallito; non sapeva leggere quello che vi era scritto sopra, e in sé non se ne sarebbe fatto nulla, ma per lui era addirittura più prezioso dell’oro.
Era stato il proprietario della bettola più lercia di tutto il suo quartiere a darglielo, Tumbledown.
“Cercano gente come te.” È stata la prima cosa che gli aveva detto “Se fossi in te, però, ci starei molto attento.” Era stata l’ultima. Non era preoccupato per quella frase, anzi, l’idea di invischiarsi in qualcosa di emozionante e avventuroso lo eccitava moltissimo. Tumbledown si era fatto promettere da Percy che sarebbe tornato quanto meno il prima possibile per informarlo su quanto sarebbe accaduto, e questo perché, in fondo in fondo, quell’omone tutto d’un pezzo, burbero e trasandato aveva sempre avuto a cuore Percy. Sin sa subito aveva capito che lui era diverso dagli altri bambini, nelle cui orbite infossate si riusciva a veder riflessa l’ombra della morte. No, a Percy non sarebbe toccata la morte, almeno non subito, a lui sarebbe toccato un destino diverso.
Imboccata la strada nulla riusciva a distogliere l’attenzione di Percy verso quell’edificio singolare e stranamente pulito, nemmeno il tanfo di escrementi e rifiuti della fogna a cielo aperto che passava lungo la strada.
Era affascinato dalla casa dell’uomo che gli avrebbe cambiato la vita, che, a detta di quelli che si trovavano nella stessa via, era in realtà una casa del tutto normale, lercia quanto le altre.
Percy rivolse lo sguardo verso il cielo e fissò le nuvole. Presto sarebbe incominciato a piovere.
 
Busso alla porta di Ian Moone e attese. Dopo qualche secondo sentì un rumore provenire da dentro.
Ipotizzò che fossero passi ma all’improvviso non riuscì ad udire più nulla. Aspettò per circa due minuti, cercando di trattenersi dal bussare una seconda volta.
Ad un certo punto la porta si spalancò e comparve un uomo dagli occhi incredibilmente chiari e dallo sguardo ipnotico.
“Finalmente sei arrivato”. Gli sorrise e proseguì “ti stavo aspettando”.
Scomparve dalla sua vista e Percy rimase immobile ad osservare il vuoto più totale, indeciso sul da farsi.
“Allora?”. Il ragazzo sussultò “Non stare lì impalato. Entra”.
Percy fece un passo avanti e restò sorpreso: un gatto bianco lo stava fissando.

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