Another POV: The Los Angeles Case

di Angel666
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


L’insegna al neon rossa della libellula era stampata a forza sotto le sue palpebre; come quando si osserva per lungo tempo il sole e rimangono le macchie scure negli occhi.
Cercò di fare mente locale sul suo significato. Il Dragonfly…certo.
Prima di aprire gli occhi cercò di affinare tutti i sensi per captare qualcosa sull’ambiente circostante. Rumore ovattato di voci con musica in sottofondo, tintinnio di bicchieri e risate soffocate: un club. L’orologio accanto al suo orecchio sembrava scandire con precisione le martellate che le colpivano le tempie.
Faceva caldo: aveva la pelle ricoperta da un leggero strato di sudore e i vestiti erano incollati al tessuto sintetico del divano.
“Alzati bella addormentata, tra 15 minuti tocca a te.” La voce distorta di qualcuno le trapassò il cervello rimbombando. Sentì la porta richiudersi.
Un respiro profondo e si fece coraggio ad alzarsi: si trovava nel salottino privato sopra il Dragonfly, il locale dove avrebbe suonato quella sera. Cinquanta dollari e consumazioni gratis, non male in fondo.
Arrancò fino al lavandino del piccolo bagno adiacente e tuffò la faccia sotto il getto di acqua fredda, fregandosene ampiamente del trucco. Due respiri e la stanza smise di girare.
Da quando il riflesso nello specchio aveva smesso di assomigliarle? Lunghi capelli neri spettinati, occhi leggermente sporgenti perennemente circondati da profonde occhiaie, accentuate dal trucco sbavato; carnagione di un pallore malato e un’espressione svampita, di chi sembra sempre persa in un mondo tutto suo.
Doveva decisamente smetterla di bere così tanto, soprattutto prima di un’esibizione. Si accorse di avere una gran fame: non ricordava l’ultima volta che aveva fatto un pasto decente. Più tardi si sarebbe fatta una bella scorpacciata di pizza.
Con questo pensiero afferrò la chitarra acustica davanti alla porta di vetro e scese al piano di sotto.
La clientela del giovedì sera al Dragonfly era piuttosto eterogenea: si potevano trovare tutti i peggiori strati della società di Los Angeles. Seduta su uno sgabello al centro del palco, con il faro puntato negli occhi, poteva permettersi di non vedere tutti quei delinquenti accompagnati dalle loro puttane. Poteva perdersi nelle note della sua musica e far finta di essere da un’altra parte, dove la gente l’ascoltava per davvero e non le venivano dati cinquanta dollari in una busta di carta bianca a fine serata, fuori dall’uscita posteriore.
Non era facile, ma quella era la sua vita al momento. Domani, in fondo, chissà dove sarebbe stata.

“Ehi Rumer, vieni con noi? Volevamo fare un salto da Peter.” Dopo la chiusura del locale Ed le porse la busta coi soldi, sorridendo speranzoso.
Caro, dolce, ingenuo Ed; il modo in cui ci provava con lei era così discreto che le faceva quasi tenerezza.
“Grazie, ma sono stanca. Stasera passo, ci vediamo domani!”
Non aveva voglia di imbucarsi all’ennesima festa piena di sconosciuti, e poi il dolore alla testa si stava rifacendo vivo. Tutto quello che desiderava al momento era arrivare a casa, buttarsi sotto la doccia e dormire dodici ore di fila.
Il rumore dei tacchi risuonò sordo sull’asfalto: la Città degli Angeli in quelle zone di notte assumeva i vaghi contorni dell’inferno. East LA era praticamente deserto alle 4 del mattino, di certo non un posto molto sicuro per una ragazza sola; ma lei era cresciuta per strada e le brutte zone, che fossero di Londra o Los Angeles, non cambiavano poi molto.
Finalmente, dopo aver passato il ponte della metropolitana, imboccò le scale del palazzo che potavano al suo modesto appartamento.
La sua coinquilina Joey era in vacanza a Santa Barbara con il fidanzato. Effettivamente restare in città il 27 Luglio, con quel caldo, era una vera tortura.
Entrò in casa senza aprire la luce: l’appartamento era piccolo e il mal di testa adesso era davvero forte. Lanciò le scarpe da una parte del salotto e si avviò verso il bagno per farsi una doccia e lavarsi via l’odore di fumo dai capelli.
Mentre l’acqua scorreva entrò in camera e iniziò a spogliarsi.
La finestra era aperta e le tende bianche ondeggiavano leggermente per la brezza notturna.
Si stava sfilando la maglietta quando lo sentì. Un rumore. Lo scricchiolio del pavimento dovuto a dei passi. Per un attimo pensò di esserselo solo immagino, ma quando invece subito dopo sentì chiaramente lo sbattere dell’anta del frigorifero, capì di non essere sola in casa.
Quale ladro si sarebbe mai fatto uno spuntino notturno, con lei dentro per giunta?
Il più silenziosamente possibile afferrò la mazza da baseball del ragazzo di Joey, dietro l’armadio e cercò di avvicinarsi alla cucina tramite il piccolo corridoio, passando davanti al bagno.
L’acqua nella doccia continuava a scorrere, riempiendo il silenzio dell’appartamento immerso nel buio.
La mazza di legno quasi scivolava tra le sue mani sudate; aveva sentito di alcuni furti avvenuti nel quartiere di recente, ma non si era mai decisa a prendere serie precauzioni al riguardo. Si maledisse: anche se non era di certo una persona ricca e non teneva roba di valore in casa, almeno un catenaccio alla porta poteva metterlo!
Varcò la soglia del soggiorno, trovandolo vuoto. La presenza di qualcuno nell’appartamento era sempre più tangibile.
Senza accorgersene aveva iniziato a tremare: il dolore alla testa era completamente passato, grazie all’adrenalina entrata in circolo, affilando al massimo i suoi sensi.
Improvvisamente l’acqua nella doccia cessò di scorrere.
Rumer si bloccò nel centro del soggiorno, come se gli arti si fossero congelati sul posto. Intravide un’ombra dietro le spalle, ma non fece in tempo a voltarsi. Brandì la mazza nel buio alla cieca, mancando il suo aggressore, e fece uno scatto in avanti inciampando nel tappeto.
Avrebbe urlato volentieri, con tutto il fiato che aveva in corpo, se un laccio da scarpe non si fosse prontamente chiuso attorno alla sua gola.
Percepiva il corpo dell’uomo pressato sulla schiena e il suo respiro accelerato nell’orecchio. Provò a dimenarsi tirando calci e pugni, ma non faceva altro che fendere l’aria, scivolando sul pavimento nella macabra imitazione di un nuotatore.
Perché diavolo non aveva accettato la proposta di Ed quella sera? In quel momento sarebbe stata con un ragazzo carino a divertirsi, anzi che sul pavimento del salotto con qualcuno che cercava di ucciderla.
La presa attorno al suo collo si fece più ferrea; la vista le si annebbiò per le lacrime, mentre la lingua era come inghiottita, pressata contro le tonsille. Sentiva i gomiti dell’aggressore puntati nelle sue scapole e le sue gambe che la tenevano inchiodata a terra: era in trappola.
L’unico pensiero fu che non voleva morire, non in quel modo, senza neppure aver visto in faccia il suo assassino.
Con le ultime forze rimaste fece scattare indietro la testa colpendo il volto dell’uomo con violenza; percepì nettamente i suoi denti fenderle il cuoio capelluto, ma tanto bastò per fargli allentare il laccio sul suo collo. Senza pensarci Rumer colpì le sue costole con un gomito, levandoselo finalmente di dosso. Sentì un lamento smorzato e la presa sulla sua gola cedere definitivamente.
Non si fermò a riprender fiato: un secondo di indugio sarebbe stato fatale.
Con un balzo in avanti si alzò dal pavimento e corse verso la porta di ingresso.
Inutile dire che la mancanza di ossigeno non rese i suoi muscoli abbastanza scattanti; era a metà del salotto quando si accorse che l’uomo si era alzato da terra ed era già dietro di lei. Si sentì afferrare da una mano gelida, prima che lui le facesse sbattere con violenza la testa sullo stipite della porta. Riuscì a intravedere un paio di occhi rossi nel buio.
L’ultimo pensiero che formulò prima di perdere completamente i sensi fu quello di essere finita in un incubo.


Un poco alla volta i contorni dell’ambiente circostante iniziarono a prendere fuoco.
Si trovava in una grande stanza, completamente spoglia: il pavimento sporco era ricoperto di vetri rotti e pezzi di legno. L’immensa vetrata opaca faceva filtrare la luce del mattino, mettendo in risalto la polvere che vorticava nell’aria. Sicuramente si trovava in un vecchio magazzino, o in qualche stabile in disuso. Ce n’erano molti come quello a Los Angeles.
Aveva male dappertutto: le membra erano intorpidite, la testa pulsava e la lingua sembrava un vecchio straccio annodato. Si accorse di avere i polsi legati con delle manette agganciate ad un tubo sopra la testa. I piedi sfioravano appena il pavimento.
Come una scarica elettrica le piombarono in mente tutte le immagini della sera prima: l’aggressore, il laccio che voleva soffocarla…occhi rossi come il sangue.
Se non altro era viva.
“Vedo che ti sei svegliata, finalmente.”
“Chi sei? Che cosa vuoi da me?” gracchiò. Parlare le faceva male alla gola.
“Questa è una cosa che scoprirai presto, Rumer.”
Sentire il suo nome pronunciato da quella voce incolore le mise i brividi addosso.
Provò a strattonare le manette, senza successo ovviamente.
“Ascoltami io non so chi sei, non ti ho visto in faccia. Lasciami andare ti prego, non ti denuncerò alla polizia. Non ho molti soldi, ma ti darò tutto quello che ho!” si accorse di tremare.
“Sciocca ragazzina, non sono i soldi che mi interessano. In un certo senso tu sei un ostaggio si…ma qui non è questione di denaro, bensì di potere.” Sembrava divertito, ma non poteva dirlo con certezza, dal momento che si trovava dietro di lei e le sussurrava in un orecchio.
“O - ostaggio?” non aveva nessuno al mondo, soprattutto non conosceva nessuno disposto a pagare una somma, anche minima, per salvarle la vita. Il suo pensiero andò un attimo a Ed, ma scartò subito quella possibilità.
“Hai preso la persona sbagliata.” Affermò con sicurezza.
“Io non credo. Ci ho messo parecchio tempo a trovarti: sei una che si muove spesso, senza radici…ma alla fine ti ho preso!”
Quell’uomo la stava tenendo d’occhio? “Perché?” chiese.
“Anche questa è una cosa che scoprirai presto.” La sensazione di un ago che le bucava la vena fu l’ultima cosa che percepì prima di scivolare nuovamente nell’oblio.



A/N: Salve a tutti io sono Angel, piacere. E’ da qualche mese che frequento il fandom di Death Note e probabilmente mi avrete visto recensire le vostre storie. Nonostante io scriva da molti anni, questa è la prima storia in cui mi cimento su questo libro (Another Note) che mi ha veramente colpito ed appassionato. Questa sarà l’unica nota che scriverò prima del capitolo finale, perché non amo le interruzioni nella narrazione, quindi vi chiedo solo un po’ di pazienza.
Questa storia, che ho iniziato a scrivere un mese fa, è già conclusa, quindi non dovete preoccuparvi che la lasci a metà. Io personalmente non sopporto l’idea di appassionarmi ad una storia e non sapere come andrà a finire; ma c’è anche da dire che questa è la prima long che finisco (nonostante ne abbia scritte parecchie) quindi mi sento anche soddisfatta per averla portata a compimento. Posterò regolarmente una volta alla settimana, penso di venerdì, e contiene all’incirca 8 capitoli ( ancora non ho scelto le divisioni precise). La storia, ovviamente, parla di tutto il romanzo Another Note, e contiene quindi spolier per chi non lo avesse ancora letto ( che aspettate? È una meraviglia!), raccontato dal punto di vista della protagonista. Ho messo l’avvertimento non per stomaci delicati, perché contiene un paio di scene di violenza, ma io non credo che sarà molto difficile da sopportare. Ho cercato di essere il più possibile realista nel descrivere un rapporto prigioniero/ sequestratore.
Sappiate inoltre che questa non è una storia romantica. Mi dispiace, spero di non perdere lettori per questo, ma non era quella l’idea di base. Ci sarà comunque una sorpresa se sarete pazienti! So che di solito l’idea di inserire nuovi personaggi è sempre rischiosa. Da parte mia posso dire che ho cercato davvero di rendere Rumer il più credibile possibile, ma questo potete dirmelo solo voi. Spero anche di aver reso bene Ryuuzaki perché odio l’OOC. Non è stato facile, ma io lo vedo molto diverso da L, chi ha letto il romanzo e ha in mente le parti in cui è solo e non finge davanti a Misora sa di cosa sto parlando. Spero che mi lascerete le vostre impressioni, e le vostre critiche che trovo sempre costruttive, perché ho speso tantissime energie in questa fan fiction . Come avrete capito amo parlare e discutere dei personaggi e della trama, quindi da parte mia avrete sempre il dialogo aperto, per qualsiasi dubbio o commento.
Cosa fondamentale: questa storia mi è venuta in mente leggendo la meravigliosa Strawberry Gashes della bravissima Luce Lawliet, quindi fate un salto anche da lei perché merita. Potrete trovare alcuni punti in comune, ma ho avuto il suo permesso per pubblicare la storia.
Spero di riuscire ad appassionarvi o quanto meno incuriosirvi. Buona lettura!

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


Quando riprese i sensi si accorse che la luce era cambiata: doveva essere pomeriggio inoltrato.
Era ancora legata con le braccia sopra la testa, e cominciavano a farle parecchio male per via della circolazione intorpidita.
Tese l’orecchio per cogliere la presenza dell’aggressore, ma si accorse di essere completamente sola.
“Aiuto!!! C’è qualcuno che riesce a sentirmi?” sbatté le manette con forza sul tubo di ferro, urlando con quanto fiato avesse in gola.
Anche se il magazzino sembrava abbandonato, riusciva a cogliere dei rumori dalla strada. Non era in un luogo isolato, forse l’avrebbero sentita.
Ma più urlava, più si rendeva conto che nessuno sarebbe venuto a salvarla. Era abbandonata a se stessa, come sempre del resto.
Presto si stancò di gridare e fare rumore. Lacrime di frustrazione  le rigarono le guance. Si sentiva svuotata, impotente.
In quel momento si accorse della telecamera posata sul cavalletto proprio davanti a lei. La luce rossa era accesa: stava registrando.
Quel pazzo maniaco voleva anche riprendere le sue vittime!
Guardò dritta nell’obiettivo con aria di sfida: si sarebbe piegata a lui , ma non si sarebbe mai fatta spezzare, qualunque fosse stato il suo gioco.
Dopo un po’ il rumore della porta sbattuta annunciò il suo rientro.
Rumer era pronta davvero a tutto, tranne a quello che gli si presentò davanti agli occhi.*
Capelli neri.
Una maglia a tinta unita, jeans scoloriti.
Era un ragazzo giovane. La fissava con gli occhi cerchiati di nero, come un panda.
Snello, doveva essere piuttosto alto, ma la sua schiena era curva e sbirciava la sua prigioniera dal basso verso l’alto. Non era un bel tipo, al contrario: aveva un aspetto così inquietante e deviato che Rumer si chiese perché non si fosse ancora suicidato.
Non appena lui si accorse che era sveglia fece un sorriso malvagio, che le mise i brividi.
In una mano aveva una ciotola colma d’acqua e nell’altra un barattolo con dentro una sostanza gelatinosa rossa, probabilmente marmellata.
Sembrava piuttosto gracile, eppure Rumer si ricordava perfettamente con quanta forza l’aveva afferrata e sbattuta conto il muro, fino a farle perdere i sensi.
Il ragazzo poggiò la ciotola e il barattolo a terra, prima di alzarsi sulle punte dei piedi e afferrarle i polsi.
Per un secondo si trovarono faccia a faccia, tanto che lei poté sentire il suo alito dolciastro invaderle le narici.
“Se provi anche solo a fare una mossa azzardata ti ammazzo.” le sussurrò con tono disinteressato; eppure la minaccia risultò piuttosto convincente.
Prese le manette e trascinò la ragazza fino al muro opposto all’ingresso legandola lì, con le braccia dietro la schiena, dopo di che le avvicinò la ciotola con l’acqua.
Lei lo guardò con un misto tra sfida e disgusto: non si sarebbe mai abbassata a bere come un cane, nonostante ogni fibra del suo corpo reclamasse quel liquido fresco.
Lui non si fece troppi problemi, le afferrò per i capelli con forza e la strattonò verso la ciotola, fermando il suo viso ad un pelo dalla superficie.
“Credo che dovremmo imparare ad andare d’accordo in fretta, visto che passeremo insieme un bel po’ di tempo. Hai bisogno di bere, altrimenti rischi la disidratazione, e mi servi viva al momento. Lo sanno tutti che un ostaggio morto non vale a nulla.”
La presa nei suoi capelli era ferrea: sentiva il cuoio capelluto tirato al massimo, eppure non la stava spingendo verso l’acqua, voleva che fosse lei ad abbassarsi a tanto, di sua iniziativa.
“Bevi.” Ordinò.
Rumer ricacciò indietro le lacrime di frustrazione. Si abbassò leggermente e non appena le sue labbra si infransero sulla superficie fresca, scordò completamente l’orgoglio e bevve avidamente, fin quasi a strozzarsi. Succhiò più acqua che poté, mentre le punte dei capelli si attaccavano alle guance. Quando ebbe finito il ragazzo la lasciò andare soddisfatto, accovacciandosi davanti a lei e prendendo il barattolo di marmellata.
Non appena Rumer lo vide seduto in quella strana posizione, i ricordi la investirono di colpo, e iniziò a provare un forte senso di nausea. Scacciò via quei pensieri dalla testa e si concentrò nuovamente sul ragazzo, che intanto aveva aperto il barattolo e mangiava direttamente con le dita portandosi quella sostanza rossa alle labbra come se niente fosse, lasciandola esterrefatta.
La fissava come si fissa un quadro interessante. Ogni tanto i suoi occhi cremisi si spostavano su un punto imprecisato sopra la sua testa.
“Dimmi Rumer, hai mai sentito parlare di L?” chiese con tono indifferente.
La domanda spiazzò leggermente la ragazza “Il detective?”
Lui annuì.
“Tutti ne hanno sentito parlare.” Rumer non era una di quelle persone che leggevano assiduamente i giornali o guardavano sempre i notiziari in tv. Il mondo era già abbastanza deprimente senza che qualcuno glielo ricordasse ogni ora del giorno; ma L era un personaggio talmente noto da sfiorare la leggenda.
“E cosa sai di lui?” continuò.
Ma dove diavolo voleva andare a parare?
“Non molto. Dubito che qualcuno sappia davvero qualcosa sul suo conto, ammesso che esista veramente questo L.”
Questo parve accendere l’interesse del ragazzo “Che cosa intendi dire?”
“Che trovo molto difficile credere nell’esistenza di un singolo uomo così dotato, tanto da governare l’intera polizia mondiale e da risolvere qualsiasi caso gli venga sottoposto.”
“Quindi tu non credi nell’esistenza di persone, come dire, con un quoziente intellettivo superiore alla media?”
Quella conversazione la stava mettendo a disagio: si sentiva come a scuola durante un’interrogazione di cui non ci si ricorda la materia.
“Si…credo nell’esistenza di persone geniali, ma uno da solo non può essere in grado di fare così tanto. E poi mi spaventa il fatto che un singolo individuo abbia tutto questo potere. Magari L è solo una facciata e dietro esiste una specie di organizzazione segreta.”
Il ragazzo annuì, leccandosi un lungo dito tinto di rosso.
“Teoria interessante, ma errata. L, il più grande detective del mondo, esiste davvero ed è un unico uomo.”
Era inutile discutere con un pazzo, così Rumer decise di assecondarlo. “Capisco. E dimmi, per caso lo conosci personalmente?” chiese con sarcasmo.
“Si.” Rispose lui, tranquillo.
La cosa la spiazzò completamente. “Allora non è bravo come dicono se ha lasciato in libertà un individuo come te.” Sputò con veleno.
Lui sorrise divertito “Permettimi di raccontarti una storia, Rumer. Forse alla fine tutta la situazione in cui ti trovi ti risulterà più chiara.” Disse con calma.
La ragazza lo guardò con occhi sgranati. Improvvisamente non era più tanto sicura di volerlo stare a sentire, ma non aveva altra scelta che stare lì seduta.
 
“Questa storia inizia molto tempo fa nella lontana Inghilterra. Il nostro piccolo eroe è un bambino di soli 8 anni. Passa molto tempo in solitudine e non sembra essere capito da quelli che lo circondano: questo perché è una persona molto speciale. Ha un’intelligenza superiore alla norma, e presto attira l’attenzione di un uomo piuttosto importante.
In seguito ad un tragico incidente il piccolo viene preso sotto l’ala di un geniale inventore e benefattore, che avendo notato il suo enorme talento, è subito tentato di sfruttare questo potenziale per realizzare il suo progetto più grande: combattere il male nel mondo e far trionfare la giustizia.
Un sogno piuttosto utopico a ben pensarci, che però sembra prendere forma proprio grazie alle doti di questo bambino.
Molto presto l’inventore si accorge che una sola persona non è abbastanza per i propri scopi, perché se mai gli dovesse accadergli qualcosa tutti i sforzi andrebbero in fumo.
Così decide di crearne una copia.
Grazie agli enormi capitali ricavati dai suoi brevetti, apre una scuola speciale dove poter allevare piccoli geni provenienti da tutto il mondo. Questa scuola oltre che insegnare materie particolari come criminologia e fisica meccanica, ha come vero scopo trovare il degno sostituto della sua migliore invenzione.
Tuttavia creare la copia di una persona non è facile come inventare un oggetto, così il nostro benefattore è costretto a procedere per tentativi.
I bambini che vengono selezionati devono avere tutti un quoziente intellettivo sopra la media; devono essere orfani, in modo da non avere legami con nessuno e potersi concentrare solo sul loro obiettivo; e soprattutto non sanno nulla l’uno dell’altro.
Vengono privati di tutto, perfino dei loro stessi nomi, come fossero automi.
Ognuno cresce all’ombra del suo mito, senza sapere nulla di lui in realtà; senza averlo mai incontrato neppure una volta.
Non c’è da stupirsi se alcuni di loro non riescono a sopportare il peso di questa responsabilità, in fondo stiamo parlando di bambini, anche se geniali.
All’inizio vengono considerati semplici prototipi, il loro fallimento è dato per scontato, nel nome di un bene più grande.
Alcuni di loro si tolgono la vita, altri impazziscono, altri ancora vengono semplicemente scartati.
Non esiste altro all’infuori di Lui: per ognuno è un incubo e un’ossessione; il centro di tutto l’universo.
All’interno di questa scuola poi gli studenti vengono costantemente valutati in base a frequenti test che servono a stilare una graduatoria. Puoi immaginare la terribile competizione che si viene a creare tra di loro, il cui unico scopo è quello di piazzarsi ai primi posti.
Ebbene, tra tutti io ero il secondo: quello che avrebbe dovuto sostituire il grande L in persona.”
Rumer aveva intuito fin dall’inizio dove sarebbe giunto quel discorso, ma sentirsi dire che davanti a lei c’era colui che avrebbe dovuto sostituire L, fu peggio che ricevere un pugno allo stomaco.
Quella storia era agghiacciante: non poteva credere che qualcuno avrebbe approfittato in quel modo di bambini!
Eppure lei stessa aveva vissuto in un orfanotrofio da piccola, sapeva bene che gli adulti non si fanno scrupoli davanti a nessuno.
Nonostante questo sentiva il sudore freddo colarle lungo la schiena. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso e aspettare la parte che avrebbe riguardato lei.
Il ragazzo, che era sempre rimasto accovacciato in quella strana posizione, aveva parlato in modo disinteressato per tutto il tempo, con gli occhi persi nel vuoto, come se la cosa non lo riguardasse minimamente. Solo l’ultima frase sembrò riscuoterlo dai suoi pensieri.
“Non trovi ingiusto che sia stato fatto tutto questo in nome di una così detta giustizia? Ci è stato tolto tutto, per una causa che non abbiamo mai neppure chiesto. Abbiamo passato la nostra infanzia ad idolatrare un uomo che non abbiamo mai conosciuto, con il solo scopo di sostituirlo. Siamo stati sfruttati.
Ma rimpiazzarlo per me non è abbastanza, no! Non dopo tutto quello che ho dato. Non mi nasconderò dietro la sua lettera a fare finta di niente; non dopo la morte di A.”
La sua voce adesso era più tagliente di una lama, mentre continuava a scrutarla con quegli occhi rossi colmi di rabbia e follia. “ Io supererò L! Dimostrerò al mondo che sono molto di una semplice copia; ma per farlo ho bisogno di eliminare l’originale, mi capisci? E per sconfiggere il tuo nemico devi prima conoscerlo. Ed è qui che entri in gioco tu.” Si portò con calma un dito alle labbra e leccò via tutta la marmellata.
“Dimmelo. Dimmi cosa c’entro io in tutta questa storia.” Sussurrò la ragazza con voce strozzata dalla paura.
Lui la guardò per un lungo istante negli occhi, senza dire niente; quando emise la sua sentenza Rumer si sentì schiacciare dal peso di quell’affermazione.
“L è tuo fratello.”
 
Incredulità, rabbia e rifiuto. Tutte queste emozioni la investirono nello stesso momento. “No. No, no, no, non è vero! Stai mentendo. Io non ce l’ho nemmeno un fratello.” Scuoteva la testa con forza, come per scacciare via le sue parole.
“Si che ce l’hai. Ho impiegato 5 anni a trovarti. Non saresti qui se non fossi sicuro al 100% di quello che sto dicendo.” Disse lui con calma.
“Sei un bugiardo!” urlò con tutto il fiato che aveva, mentre lacrime bollenti le solcavano le guance.
L suo fratello? Il cervello si rifiutava di assimilare un’informazione simile. Accettarlo sarebbe stato come ammettere che suo fratello era il più famoso detective del mondo. Che non solo era ricco sfondato mentre lei spesso viveva per strada senza saper mettere insieme il pranzo con la cena; ma che in tutti quegli anni lui avesse sempre saputo dove lei si trovasse, senza averla mai contatta neppure una volta. Sarebbe stato come ammettere che lui l’aveva rinnegata completamente, venendo meno alla promessa che le aveva fatto anni prima. Questo lei semplicemente non poteva accettarlo.
“Sei libera di non credermi se preferisci, ma sappiamo tutti e due che non avrei alcun motivo di mentirti. So che eri molto piccola quando siete stati divisi, ma non puoi non ricordarti che già allora lui aveva delle singolari peculiarità.”
“Come fai a saperlo? Come hai fatto a trovarmi?” ringhiò.
“Ho letto il suo fascicolo il giorno stesso in cui sono scappato dalla Wammy’s House. Sono quasi sicuro che appena l’hanno scoperto lo abbiano distrutto. Ammetto che non è stato facile da reperire, ma in un certo senso sono stato istruito in modo da superare tutti i miei obbiettivi. Lì, oltre a molte informazioni interessanti, era riportata l’esistenza di sua sorella, dalla quale era stato diviso anni prima. Così mi sono messo sulle tue tracce. Che razza di detective sarei se non riuscissi a trovare una ragazzina?” chiese ingenuamente. “Ammetto che all’inizio io stesso ho fatto fatica a credere che fossi davvero tu. Possibile che la sorella dell’uomo più intelligente della terra fosse una stupida ragazza col vizio di bere, senza uno straccio di diploma, e neppure in grado di tenersi un lavoro decente per un mese di fila? Difficile a immaginarsi.”
Rumer sentì la rabbia montarle nel petto; come si permetteva quel pazzo maniaco a sparare sentenze su di lei?
“Tu…non ti permettere di giudicarmi! Non mi conosci nemmeno.” Urlò.
“Ti sbagli. Ti ho detto che sono cinque anni che sto preparando la mia vendetta, e sarei uno sciocco se non conoscessi alla perfezione ogni minimo dettaglio del mio piano. Conosco ogni tua più piccola abitudine: so come trascorri le giornate, so qual è il tuo cibo preferito, la marca del tuo shampoo, dove compri gli alcolici scadenti e le tue sigarette. So che non hai nessun amico, perché non stai ferma più di sei mesi in un posto. So che quando sei nervosa ti stendi su un prato e che ti piace suonare la chitarra. So tutto di te, meglio di quanto tu possa immaginare.”
Era vero: quell’essere inquietante l’aveva studiata in ogni singolo dettaglio, in modo maniacale.
“E sentiamo, quale sarebbe il mio scopo nel tuo piano?” in realtà non le interessava molto, era come svuotata; eppure si sentì in diritto di doverglielo chiedere, dopo tutti gli sforzi che lui aveva fatto per prenderla.
“Secondo i miei calcoli dovrai restare rinchiusa qui ancora per un po’, a tenermi compagnia. Sarai il mio ‘Gran Finale’. La vedi quella telecamera lì giù?” disse indicando dietro di sé. “ Ogni giorno manderò un nastro al LAPD, indirizzato ad L. Voglio che il tuo caro fratellino sappia che sono in grado di trattare bene una signora. Tu non dovrai fare altro che stare buona e fare quello che ti dico.”
“Che intenzioni hai?” chiese lei impaurita.
“Lo vedrai Rumer. Se ti svelassi tutto adesso dove sarebbe il divertimento?” scoppiò a ridere in modo isterico e forzato. “Ma non illuderti, nessuno verrà qui a salvarti prima che io l’abbia stabilito. Non dimenticarti che so esattamente come ragiona L, e quindi so anche quando deciderà di entrare in azione, sebbene c’è in gioco la vita della sua stessa sorella. Quando giochi in nome della giustizia si trovano sempre pedine sacrificabili. Io voglio solo ripagarlo con la stessa moneta.”
Si alzò, pulendosi le mani sporche sui jeans, e si diresse verso la porta, lasciando la ragazza legata a terra.
“E’ solo un gioco per te?” chiese lei.
“Esatto. Non è nient’altro che una partita; e io sono disposto a tutto pur di vincerla.”
Rumer si accucciò contro la parete e finalmente permise alle lacrime di annebbiarle la vista.
 
 
 
Da  piccola ero solita trascorrere i pomeriggi dopo la scuola nel piccolo parco giochi che avevamo vicino casa. Era un semplice prato in realtà, con due altalene rotte, uno scivolo arrugginito e un girello che non aveva mai svolto il suo compito. Ma a me sembrava il paradiso. La mamma si sedeva su una delle panchine a chiacchierare con le sue amiche, mentre io e mio fratello giocavamo in disparte.
Ricordo che agli altri bambini non piaceva mio fratello; erano intimoriti dalla sua strana figura, ma allora io ero troppo piccola per farmi domande. Se loro lo deridevano per il suo corpo gracile e lievemente ingobbito, ci pensavo io a tenergli compagnia, perché per me mio fratello era la persona più speciale del mondo. Ancora oggi, se penso a lui, lo immagino appollaiato su quell’altalena, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre si rosicchia l’unghia del pollice.
A quei tempi ero una bambina allegra e vivace, sempre circondata da un sacco di persone: per me era estremamente facile fare amicizia. Lui al contrario, avevo solo me. Non si trovava bene con gli altri bambini della sua età, diceva che non sapeva di cosa parlare con loro. Come se un bambino dovesse parlare, pensavo io, troppo presa dai miei giochi infantili.
Il giorno in cui ci divisero è ancora marchiato a fuoco nella mia mente, come il peggiore degli incubi. Perché quello è stato il giorno in cui morirono i nostri genitori e la mia vita cambiò completamente.
Avevo cinque anni, e come spesso accedeva mi trovavo in quel vecchio prato vicino casa. Mancavano pochi giorni a Natale, e tutto era ricoperto da un pesante manto di candida neve.
Faceva freddo: da poco aveva iniziato a nevicare ed il parco era completamente deserto.
Mio fratello se ne stava accovacciato accanto allo scivolo a tracciare non so cosa nel terreno, con un bastoncino di legno. Io invece stavo costruendo un bellissimo pupazzo di neve. Fu un attimo.
Un boato enorme ci investì in pieno, come se la terra si fosse squarciata in due e avesse iniziato ad urlare. Mio fratello, con un’agilità che non pensavo gli appartenesse, mi afferrò per un braccio e mi trascinò con lui sotto lo scivolo.
Ero terrorizzata, non capivo che cosa stesse succedendo, volevo correre a casa dai miei genitori e sentirmi dire che sarebbe andato tutto bene.
Invece mi trovavo con la faccia pressata nella neve gelida; i vestiti stavano iniziando a bagnarsi e io tremavo di freddo e di paura. Percepivo il corpo di mio fratello accanto a me, mentre mi premeva con forza le mani sulle orecchie e mi teneva la testa piegata verso il terreno, per non permettermi di guardare.
Non so per quanto tempo restammo nascosti sotto quello scivolo, ore forse, ma quando finalmente lui mi prese per mano e mi trascinò fuori da quel parco, pensai di essere finita all’inferno.
La strada che percorrevo tutti i giorni per andare a casa era stata completamente distrutta. Auto in fiamme, negozi con i vetri rotti;  riuscivo a vedere l’interno di alcuni palazzi e tutto intorno a me sentivo urla e pianti di gente disperata. L’unico punto fermo era la mano di mio fratello che stringeva con forza la mia, senza il minimo tremore.
Non tornai più a casa. Non rividi più i miei genitori e i miei amici. Non andai più nella mia vecchia scuola, o in quel piccolo parco giochi.
La mia vita finì il giorno del bombardamento di Winchester.
Pensavo che almeno sarei potuta restare con mio fratello, invece mi tolsero anche lu.
Fu un signore ben vestito, con un bel paio di baffi candidi e un accento impeccabile a farmi un lungo discorso sul perché lo avrebbero portato in un posto speciale, come lo era lui del resto. Io non possedevo le sue stesse qualità, quindi sarei andata in un orfanotrofio diverso dal suo. Ero troppo piccola allora, e non avevo capito neanche la metà di quello che quell’uomo mi aveva detto; ma sapevo che stava per portami mia l’unica persona che mi era rimasta, e io non volevo.
Non servì a nulla piangere, urlare, supplicare. Dovettero tenermi ferma in due per evitare che corressi dietro a quella macchina nera che me lo stava portando via.
Con il suo solito tono tranquillo, troppo stonato per un bambino di otto anni, mio fratello mi disse che avrei dovuto dare ascolto a quel signore, che era per il mio bene e che prima o poi ci saremmo sicuramente rivisti; ma lui ora doveva andare a fare una cosa importante, per vendicare i nostri genitori.
Non so se ha pensato a me ogni giorno come mi aveva promesso, ma so che sono passati 15 anni e io non l’ho più rivisto, né ho avuto suo notizie.
Quando sono uscita dall’orfanotrofio che mi aveva cresciuta, ho provato a cercarlo, ma il mondo degli orfani è un mondo senza vere identità, e mio fratello era stato risucchiato in quel buco nero senza lasciare alcuna traccia di sé, come se non fosse mai esistito.
Ho finito per scordarmi la sua voce, il suo volto, il suo modo di parlare pacato. L’unica cosa che ricordo di lui è il suo strano modo di sedersi e la sua estrema solitudine.
Suonavano le campane il giorno in cui ci divisero, e aveva da poco ripreso a nevicare. Avevo solo cinque anni allora, eppure fu quello il primo giorno in cui desiderai morire.
 
 

*descrizione ripresa dal romanzo Another Note.

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


Non sapeva di preciso da quanto tempo stesse fissando quella maledetta lucetta rossa della telecamera. Era stesa a terra nella polvere, circondata dal buio, mentre sentiva i rumori della città provenienti dalla strada.
La vita delle persona continuava a scorrere inesorabilmente fuori da quel magazzino; nessuno poteva immaginare che una ragazza era stata rapita e veniva tenuta prigioniera sopra le loro teste. Perché mai avrebbero dovuto? In fondo neppure lei si era mai preoccupata di ciò che le accadeva intorno. Non era diversa da tutte quelle migliaia di persone che tiravano dritte per la propria strada, senza guardare in faccia a nessuno.
Pensava a suo fratello.
Non riusciva a togliersi dalla testa le parole di quell’uomo. La sua parte razionale le diceva che era inutile credere ai vaneggiamenti di un pazzo, ma dentro de sé Rumer sapeva che aveva detto la verità. Quando le aveva parlato lo aveva fatto con calma assoluta, restando lucido tutto il tempo, e portando argomentazioni dalla validità schiacciante.
Era arrabbiato certo, ferito, glielo si leggeva negli occhi; ma non sembrava un bugiardo. Perché lei aveva sempre saputo che suo fratello era una persona speciale.
Il dolore di quella scoperta l’aveva avvolta come un bozzolo, lasciandola completamente senza forze. Lui le aveva detto che suo fratello non sarebbe venuto a salvarla, poiché il suo ruolo era quello di mera pedina. Vederla in quelle condizioni avrebbe dovuto farlo soffrire, ma lei non era tanto sicura che ciò sarebbe successo.
Non aveva mai considerato L come un essere umano dotato di sentimenti, per lei era solo una lettera potente che rappresentava la giustizia. E adesso che quella lettera aveva un volto e un nome? Che cosa avrebbe detto vedendola in quello stato? Non lo sapeva e non voleva nemmeno pensarci. Erano 15 anni che viveva completamente da sola, contando esclusivamente sulle sue forze, non poteva cedere proprio adesso.
Chiuse gli occhi e l’immagine di un bambino pallido e incurvato, con una folta massa di capelli neri, le apparve davanti. Strinse con forza la catena delle manette. Pensava che lo avrebbe odiato, e invece sentì di non ci riuscirci davvero.
Guardò il colore delle pareti cambiare a poco a poco, mentre il sole sorgeva sulla città degli angeli, regalandole un nuovo giorno da prigioniera.
Sentì i passi del suo carceriere al di là del muro; si era alzato e presto sarebbe venuto a controllarla.
Aveva un piano e doveva attuarlo prima che lui guardasse il nastro della videocamera: era tutta la notte che stringeva quella dannata scheggia di vetro tra le mani; si era quasi rotta i polsi per allungarsi a prenderla, ma alla fine era riuscita a nasconderla dietro la schiena.
Appena l’uomo entrò nella stanza, si alzò a sedere “Devo andare in bagno.”
Lui la guardò sorpreso. Aveva delle terribili occhiaie, nonostante dava l’impressione che si fosse appena alzato dal letto. “Ti prego, è da ieri che sono legata qui, non ce la faccio più.” Usò il tono più convincente possibile.
Il ragazzo sospirò e si avvicino per toglierle le manette. Evidentemente confidava nella sua forza fisica, poiché stavolta non le fece nessuna minaccia.
Rumer agì di scatto: non appena le manette vennero sganciate dal muro gli assestò un calcio all’altezza dello sterno con tutte le sue forze, facendolo cadere all’indietro. Afferrò la scheggia di vetro e la piantò nel suo petto alla cieca. Non voleva ucciderlo; voleva solo ferirlo per poter scappare.
Si alzò di corsa, ma lui le afferrò una caviglia facendola ricadere a terra, così lei lo colpì con il piede in pieno viso, facendogli sanguinare il naso.
Non appena lui lasciò la presa con un gemito strozzato, Rumer si precipitò fuori dalla stanza.
Come aveva immaginato era un vecchio magazzino abbandonato, adibito ad appartamento.
Corse davanti a quella che doveva essere la camera da letto: intravide un muro interamente ricoperto di fogli , con foto di varie persone spillate sulla mappa della città, e diverse date e iniziali scritte con il pennarello rosso. Senza fermarsi oltrepassò il bagno e un'altra serie di stanze vuote fino raggiungere la porta d’ingresso.
Provò a strattonarla, ma con orrore si accorse che era chiusa da un lucchetto con una pesante catena di ferro. E lei non aveva la chiave.
Si voltò di scatto per raggiungere la cucina e prendere un coltello, ma quello che vide le fece gelare il sangue nelle vene.
Il ragazzo, ancora più curvo del solito, avanzava lentamente verso di lei, con il volto ricoperto di sangue e la scheggia di vetro ancora piantata nella spalla destra, sotto la clavicola.
“Dove pensavi di andare?” rantolò con una smorfia di dolore. Allungando una mano verso il collo tirò fuori dalla maglietta una catenina da dove pendeva una chiave.
Urlare o pregare non le sarebbe servito a nulla in quel momento: doveva affrontarlo e sperare di batterlo.
Anche se lei era una ragazza, minuta per giunta, di risse ne aveva fatte parecchie. Racimolò tutto il suo coraggio e si piegò in posizione d’attacco. Poteva contare sul fatto che il ragazzo fosse ferito.
“Stammi bene a sentire: forse non sarò un fottutissimo genio, ma non dimenticarti che sono cresciuta per strada e ho dovuto imparare in fretta a difendermi da sola.” Si scagliò con forza contro di lui e iniziò a colpirlo ovunque con pugni e calci.
Non aveva mai imparato una specifica arte di combattimento, facendo sempre affidamento sulla rabbia e sulla paura; e in quel momento ne aveva entrambe da vendere.
Presto finirono a terra coinvolti in una furiosa lotta corpo a corpo, fino a che Rumer non si ritrovò schiacciata contro il pavimento con lui seduto sullo stomaco e la scheggia di vetro che prima era nella sua spalla ora puntata alla gola.
Aveva il fiato grosso, e la chiazza di sangue sulla sua maglietta bianca si stava allargando a vista d’occhio “Non è ancora arrivata la tua ora ragazzina, ma ti giuro che se provi un’altra volta a scappare non mi farò problemi ad accorciare la tua durata vitale.”
Rumer lo guardò confusa per un istante, prima che un pugno si infrangesse contro il suo naso con violenza. Lanciò un urlo soffocato appena percepì il setto rompersi e un fiotto caldo invaderle il mento.
“Questo è per renderti il favore.”  L’uomo si alzò in piedi e la colpì ripetutamente sui fianchi, con una forza disumana, per renderla innocua.
Rumer provò a chiudersi a riccio, cercando di proteggere la testa; ma ad ogni calcio sentiva il respiro mozzarsi in gola. “Basta! Ti prego smettila!” Stava per perdere i sensi dal dolore, mentre sentiva la bile risalire su per l’esofago.
Lui l’afferrò per i capelli, senza alzarla da terra, e la trascinò lungo l’appartamento fino alla stanza con la telecamera.
“Ho provato ad essere gentile con te, ma vedo che non è servito a nulla. Mi serve che tu rimanga in vita ancora per un po’, il resto non ha importanza.”sbottò.
Non lo aveva mai visto così furioso: la sua maschera di falsa apatia era definitivamente crollata, lasciando il posto ad una rabbia folle. Gli occhi rossi bruciavano come brace mentre la legava nuovamente con le braccia al soffitto, al centro della stanza.
Rumer temeva che l’avrebbe usata come sacco da boxe per sfogarsi, invece si limitò a lasciarla appesa con la vista annebbiata dalle lacrime e il sangue rappreso sulla maglietta.
Il dolore era così forte che le impediva di restare lucida; l’unico pensiero fisso nella sua mente fu quello di essere quasi riuscita a scappare. Dovette mordersi con forza l’interno dell’avambraccio per non scoppiare a piangere: la minima espressione facciale le mandava scariche elettriche al cervello.
Passò l’intera giornata in uno stato di semi – incoscienza, provando ogni tanto a pregare, come le avevano insegnato da piccola nell’orfanotrofio.
 
Non sono mai stata una persona credente, per questo quasi mi viene da ridere a pensare che la mia intera giovinezza è stata scandita dalle preghiere dell’istituto cattolico dove sono cresciuta. L’ orfanotrofio Holy Mother of God era un vecchio casermone grigio, situato nei sobborghi di Londra. Ospitava all’incirca 200 bambini, provenienti da tutta l’Inghilterra e garantiva loro la minima istruzione indispensabile e due pasti caldi al giorno.
Non ho bei ricordi nella mia infanzia: nonostante quel luogo fosse abitato da bambini trasmetteva una tristezza infinita. Se di giorno si potevano sentire le loro grida mentre giocavano in cortile, la notte invece c’era sempre qualcuno che piangeva. Non tutti erano fortunati da non ricordare i proprio genitori: alcuni bambini arrivavano già grandi, e per loro era molto difficile ambientarsi. Ognuno viveva  nella speranza di un’adozione che non sarebbe mai arrivata.
I primi tempi, di notte, sgattaiolavo sul tetto e pensavo a mio fratello. Chissà se anche lui era in un posto simile al mio? Quell’uomo  aveva parlato di una scuola speciale….magari lui non era costretto a dormire in una camerata con altri 20 bambini, e forse non doveva alzarsi ogni mattina alle 6 per recitare le lodi al Signore. Più mi imponevo di non pensare a lui, o ai miei genitori, più sentivo la loro mancanza.
Poco tempo dopo il mio arrivo feci amicizia con una ragazzina più grande. Si chiamava Rachel e stava lì da quando aveva tre anni. Era un tipa tosta; molto spesso la mettevano in punizione perché andava matta per i biscotti e li rubava sempre in mensa. Che poi a pensarci bene quei biscotti erano duri come pietre e non sapevano di niente.
Grazie a lei imparai ad adattarmi in fretta a quell’ambiente ostile. Era incredibile quanto ci si potesse sentire soli anche se circondati da centinaia di bambini. Avevamo tutti una storia simile, triste; nessuno lì ti avrebbe compatito o sarebbe stato ad ascoltarti.
Le suore dicevano sempre di trovare conforto in Dio tramite la preghiera e le buoni azioni. Noi pregavamo cinque volte al giorno e facevamo volontariato nella chiesa del quartiere ogni domenica, ma quel macigno sul cuore era sempre fermo lì, pronto a toglierti il respiro di notte.
Ero sempre stata una bambina vivace, per questo non riuscii mai ad adattarmi alle rigide regole dell’istituto.
La prima volta che mi misero in punizione non fu neanche per colpa mia: provai a spiegarlo, ma solo dopo capii che un colpevole ci doveva sempre essere per fare da monito agli altri.
Nonostante tutto iniziai a fregarmene e a fare di testa mia. Ogni tanto uscivo di nascosto con Rachel  e me ne andavo in giro. Vivevo per quei momenti di libertà.  Quando scoprii che non molto lontano dall’orfanotrofio c’era un piccolo parco con delle giostrine, mi rifugiai lì ogni volta che potei.
Studiavo pochissimo, anche perché lì nessuno ti spiegava davvero le cose: bisognava imparare le materie a memoria, come le preghiere, ed  era di una noia mortale. Perché mai avrei dovuto impegnarmi tanto, se non facevano altro che ripeterci che eravamo scarti della società, e mai nessuno ci avrebbe preso in considerazione da grandi?
Scappai da quell’inferno a 16 anni,  la notte di Halloween. Rachel era andata via un paio di anni prima, e non avevo più avuto sue notizie, nonostante avesse promesso di scrivermi.
Pioveva quella volta, eppure le strade erano piene di persone in maschera che andavano in giro a fare scherzi ed elemosinare dolci.
Amavo quel giorno perché era il compleanno di mio fratello e la mamma faceva sempre le frittelle alla zucca. Nessuno fece caso ad una ragazzina malnutrita che dormì su una delle panchine di Hyde Park.
In seguito lavorai per un po’ di tempo in un fast-food, e quando ebbi abbastanza soldi presi il primo aereo per gli Stati Uniti, lasciandomi alle spalle quel luogo che mi aveva dato solo dolore, sperando in un futuro migliore.
 
 
La sensazione di bagnato sul viso la riportò alla realtà.
Era notte e la stanza era immersa nel buio; l’unica fonte di luce proveniva dalla camera adiacente.
Il ragazzo le stava passando uno straccio umido sul viso, per ripulirla dal sangue.
Rumer stentò quasi a credere che la stessa persona che le aveva rotto il naso, e probabilmente qualche costola, fosse in grado di maneggiare con tanta delicatezza quel pezzo di stoffa.
La sua faccia era tornata ad essere una maschera di cera, ma gli occhi rossi brillavano nel buio.
Quando finì di togliere tutto il sangue rappreso, passò alla medicazione delle ferite.
Rumer istintivamente fece scattare indietro la testa, non appena il batuffolo imbevuto di disinfettante le sfiorò una tempia.
“Sta ferma.” Ordinò lui a bassa voce.
“Perché lo stai facendo?”
“Ho esagerato oggi: non posso permettermi che ti capiti qualcosa di grave; non ho il materiale necessario per curarti qui.” Constatò, senza la minima traccia di pentimento nella voce.
Finito di medicare il viso le alzò la maglietta. Lei si mosse a disagio, ma essendo incatenata non poteva certo sfuggire alla sua presa. Il torace scarno e lo stomaco erano completamente ricoperti di tagli ed ematomi scuri. Le sue mani calde e asciutte le scorrevano sulla pelle per tastare le costole.
Aveva un tocco fermo e leggero: sembravano le mani di un medico esperto. “Sono solo incrinate, e non riesco a trovare segni di emorragie interne.” Decretò infine.
“Cosa sei, un dottore?”
“Ho anche una laurea in medicina, se la cosa ti può interessare.” Rispose con noncuranza.
Rumer sgranò gli occhi incredula; sembrava impossibile.
 “Come anche? Ma quanti anni hai?”
La guardò negli occhi “Ventuno. E ti ho già spiegato che il mio q.i. è superiore alla media.”
Aveva solo un anno in più a lei. Sospirò.
“Cosa c’è, ti da fastidio ammettere l’esistenza di persone che alla tua età sono molto più dotate di te?” chiese sarcastico.
“No. Stavo solo pensando che se io avessi la tua intelligenza la userei per ben altri scopi: per soldi, per fare del bene… per qualsiasi cosa ma non per vendicarmi.” Rispose sinceramente.
Temeva di averlo fatto di nuovo arrabbiare, quando lui la guardò per un lungo istante; invece disse soltanto “Tu non lo sai che cosa vuol dire…”
“Ti sbagli.” Lo interruppe lei. “Io so esattamente come ci si sente quando la vita ti volta le spalle. Sono stata privata di ogni cosa, proprio come te: ho perso la mia famiglia, la mia casa, ho passato la mia infanzia in un orfanotrofio orribile, dove non facevano altro che punirmi e umiliarmi, dicendomi che non valevo niente come persona solo perché avevo perso tutto. Sono arrabbiata? Si da morire, perché alla fine avevano ragione loro: non ho fatto niente per cambiare le cose e riprendermi in mano la mia vita. Mi sono nascosta dietro questa maschera da fallita solo perché mi faceva comodo. In fondo non è colpa mia se sono stata sfortunata no? Quindi non venirmi a dire che non capisco come ti senti. Ma io non mi abbasserei mai ad uccidere degli innocenti solo per sfogare la mia rabbia.”
“Quelle persone sarebbero destinate a morire in ogni caso quel determinato giorno. Io mi limito semplicemente ad usarle come pedine. Tu non hai mai avuto uno scopo fisso nella tua vita, per questo non puoi capire. La vendetta, e la consapevolezza di voler superare L, sono tutto quello che mi resta. E non ho intenzione di rinunciare proprio adesso che sono così vicino a batterlo.”
Rumer provò a ribattere, ma il ragazzo raccolse una bottiglia d’acqua e gliela accostò alle labbra, impedendole di parlare.
“Bevila tutta, sei a rischio disidratazione.”
Più che sete, Rumer stava morendo di fame: erano due giorni ormai che non mangiava qualcosa.
Lui sembrò leggergli nella mente “Domani ti porterò qualcosa da mangiare, per il momento è meglio se ti limiti ad assumere solo liquidi.”
Stava per lasciare definitivamente la stanza, quando improvvisamente la ragazza chiese “Qual è il tuo nome?” Si era accorta che in quei due giorni lui non gliel'aveva mai rivelato.
“Puoi chiamarmi Ryuzaki.”

Doveva andare in bagno, stavolta per davvero. Sapeva che a breve sarebbe scoppiata se qualcuno non le avesse tolto quelle dannate manette. Le strattonò per l’ennesima volta, con l’unico risultato di approfondire le abrasioni violacee sui polsi.
Era sola in casa: Ryuzaki era uscito prima ancora che il sole sorgesse. La telecamera era sempre ferma davanti a lei, pronta a registrare ogni sua mossa.
Sentiva la mente cedere lentamente, sotto il peso di quelle torture: oramai aveva superato lo stato del dolore fisico e il corpo era pervaso dall’intorpidimento dovuto a quella assurda posizione. Gli svenimenti per l’assenza di zuccheri erano sempre più frequenti di ora in ora, e il caldo opprimente non aiutava.
Improvvisamente sentì la vescica cedere: il liquido bollente scese lungo le cosce, bagnandole i pantaloni e formando una pozza per terra.
Aveva decisamente toccato il fondo, eppure non aveva più la forza di piangere.
Sperò che suo fratello si sentisse in colpa da morire a vedere quei nastri, per non aver pensato che un uomo nella sua posizione aveva il dovere di proteggere le persone vicino a sé.
Perse i sensi, e si svegliò per l’ennesima volta a metà pomeriggio: le era sembrato di sentire la porta di ferro sbattere.
Poco dopo infatti il rapitore apparve sull’uscio. Il suo sguardo si depositò sulla chiazza per terra, facendola avvampare di vergogna.
Senza dire una parola lo vide sparire, per poi ritornare con dell’acqua e un barattolo di marmellata rossa tra le mani.
“Non hai una bella cera Rumer, credo che un po’ di zuccheri ti tireranno su.” Constatò.
Si permetteva anche di prendersi gioco di lei, il bastardo? Voleva urlargli in faccia che se si trovava in quella situazione era solo per colpa sua, ma strabuzzò gli occhi quando lo vide immergere le dita nella marmellata e avvicinarle alle sue labbra.
“Fai la brava adesso, apri la bocca. Devi mangiare qualcosa o collasserai di nuovo. Ah, se ti azzardi anche solo a mordermi ti strapperò via i denti uno per uno; sai che non scherzo.” Aggiunse serissimo.
Lei lo guardò senza capire, così lui le ficcò due dita in bocca a forza.
Il sapore dolcissimo delle fragole le esplose sulla lingua, facendole salire istantaneamente la nausea. Senza pensarci due volte sputò la marmellata a terra.
Ryuzaki sorrise divertito “Non pensavo che dopo tre giorni di digiuno fossi ancora così schizzinosa in fatto di cibo.”
Rumer era abituata a non mangiare per molto tempo, fin da quando era piccola e la mettevano in punizione all’orfanotrofio. Eppure il suo corpo debole reagì istantaneamente allo zucchero, smorzando un poco il giramento di testa.
“Al momento è tutto quello che ho in casa, quindi vedi di fartelo piacere.”disse.
Immerse nuovamente la mano nel barattolo e stavolta Rumer aprì la bocca volontariamente, prendendo a succhiare e leccare le sue dita, impregnate di quella dolce sostanza .
In una remota parte del cervello pensò che quello che stava facendo poteva sembrare estremamente erotico; eppure Ryuzaki aveva un’espressione assolutamente annoiata mentre portava meccanicamente la mano alla sua bocca, guardandola negli occhi senza fare commenti.
Dopo la nausea iniziale, si abituò piuttosto in fretta al sapore forte delle fragole, e percepì un leggero retrogusto amaro, che doveva appartenere alla pelle del ragazzo. Sentiva le guancie andare a fuoco mentre percepiva le sue dita gli accarezzargli la lingua, bagnandosi di saliva. Per fortuna il barattolo finì in fretta.
Ryuzaki si pulì la mano sui jeans e face un passo indietro. “Domani è il gran giorno.” Disse sorridendo e tirando fuori da una tasca posteriore dei jeans quella che sembrava una croce di paglia.
“Dimmi Rumer, sai che cos’è questa?”
La ragazza annuì sorpresa “ Una wara ningyo. E’ una bambola di origine giapponese che viene usata generalmente con lo scopo di maledire qualcuno. Dove l’hai presa?”
“L’ho fatta io. Ti piace?” Lei lo guardò storto senza rispondere.
“Vedi, questa piccola bambolina di paglia avrà un ruolo fondamentale nella mia storia.” Fece criptico.
“Non sapevo ti interessassi di cultura giapponese.” Disse cupa.
“Tu non sai assolutamente nulla di me.” Constatò lui tranquillamente.
Era vero. L’unica certezza era la sua ossessione malata nei confronti di suo fratello e un attaccamento innaturale alla marmellata di fragole.
“Io invece so che vostra madre era di origini giapponesi*; quindi possiamo affermare che oltre ad avere un ruolo di depistaggio nei confronti della polizia, queste bamboline indicheranno indirettamente anche a chi sono rivolte. L non si lascerà mai sfuggire un indizio del genere, è sempre molto attento ai dettagli. Da quando sono scappato dalla Wammy’s House non ha fatto altro che aspettare che commettessi il crimine che avrebbe dato inizio alla nostra partita.” Si rigirò la bambolina tra le mani con aria assorta. “Diciamo che questo, insieme ad altri indizi che seminerò, gli farà capire che il momento di scendere in campo è finalmente arrivato.”
Rumer non capiva “Quindi tu vuoi che lui sappia che l’assassino sei tu?” insomma, era come firmarsi da solo la condanna a morte.
Ryuzaki sbottò a ridere “Ovviamente! Dal primo omicidio capirà che sono stato io. E’ proprio questo il fulcro del mio piano.” Sembrava enormemente divertito.
“Dal primo?” chiese lei con voce strozzata. “Quante persone hai intenzione di ammazzare?”
Per tutta risposta lui si avvicinò e le infilò la bambolina nella tasca dei pantaloni.
“Lo vedrai.”
 
 
*l’informazione che L sia per metà di origini giapponesi è riportata nel vol.13

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


Per tutto il giorno Rumer fu pervasa da un’ansia terribile. Ad ogni minimo rumore la sua testa scattava in direzione della porta.
Ryuzaki era uscito presto come al solito, senza dirle una parola. Pur augurandosi che il killer non riuscisse nel suo intento, una piccola parte di lei sperava di vederlo tornare. Se gli fosse successo qualcosa chissà quanto tempo ci avrebbe messo la polizia a trovarla; sarebbe sicuramente morta di stenti!
Aveva ormai perso le speranze quando, appena dopo il tramonto, lo sentì rientrare.
Si accorse di tremare come una foglia: lo avrebbe visto ricoperto di sangue? Ferito da qualche parte? Non sapeva cosa aspettarsi.
L’acqua della doccia le fece capire che il ragazzo aveva preferito risparmiarle quello spettacolo.
Qualche minuto più tardi infatti, lo vide comparire sulla soglia della stanza con dei vestiti puliti e i capelli  ancora bagnati.
“Sei tornato.” Disse incolore.
“Avevi dei dubbi?”
“Sinceramente speravo il contrario.” Sputò velenosa.
Il ragazzo aveva la sua solita espressione neutra stampata in faccia: non aveva affatto l’aria di qualcuno che aveva appena commesso un omicidio.
Si squadrarono per qualche minuto in silenzio: lui appoggiato allo stipite della porta, lei ammanetta al centro della stanza; finché Rumer non ce la fece più a reggere quel suo sguardo di fuoco.
“Allora?” sbottò in fine.
Ryuzaki fece un sorriso crudele “Dunque ammetti di essere curiosa.” Disse trionfante.
Finalmente si decise ad entrare nella stanza e fece una cosa che sorprese la prigioniera, ma che gli avrebbe visto fare molte altre volte successivamente: spense la telecamera.
“Non vogliamo togliere tutto il divertimento al nostro detective, vero?”
Si accovacciò davanti a lei, nella sua solita assurda posizione, e prese a mordicchiarsi l’unghia del pollice.
Rumer ancora una volta distolse lo sguardo da quello spettacolo familiare e doloroso.
“Ti ho portato un regalo, a proposito.” Se ne uscì lui. “Immagino che la tua permanenza qui non sia delle più divertenti, così intanto potresti leggere qualcosa, per passare il tempo.”
Dalla tasca posteriore dei jeans tirò fuori quelli che avevano tutta l’aria di essere due fumetti, poggiandoglieli davanti.
“Non dirmi che non conosci Akazukin Chacha!” sembrò sconvolto di fronte alla sua espressione accigliata.
“A parte il fatto che quei volumi sono scritti in lingua originale Ryuzaki, e io non leggo il giapponese. Ma poi dimmi, come pensi che possa farlo con le mani legate sopra la testa?” sbottò la ragazza.
“A questo in effetti non avevo pensato. Davvero non sai leggere il giapponese?” chiese sorpreso.
“Si, davvero. Non ho mai potuto impararlo per bene visto che mia madre è morta quando avevo appena 5 anni.”
“A volte do per scontato che tu sia, almeno in parte, come tuo fratello.” Disse.
“Mi spiace deludere le tue aspettative allora.” Si sentiva una vera stupida.
“E’ una storia molto carina comunque; Believe Bridesmaid aveva tutta la collezione.”
“E allora perché mi hai portato solo due volumi? Il 4 e il 9 per giunta, neanche il primo! Non ci avrei capito molto neppure volendo.” Disse, senza fare caso che lui gli aveva appena rivelato il nome della prima vittima.
Ryuzaki la guardò con attenzione “Hai una buona capacità di osservazione, lo sapevi?” chiese, spiazzandola.
“Ecco, io…” no, non ci aveva mai fatto caso.
“Questi due volumi, sommati, danno un numero di pagine ben preciso che mi serviva per lasciare un indizio.” Non si aspettava che le rispondesse davvero.
“ In che senso?”
“Vuoi che ti metta alla prova?” chiese lui con un sorriso malvagio.
Anche se ancora le bruciava la frase di prima su suo fratello, quello non era un gioco a premi televisivo: qui si stava parlando di omicidio!
“Non so ancora chi sceglierà L per raffrontarsi con me; anche se sarà sicuramente qualcuno dotato di una certa intelligenza. Ma devo vedere se la polizia riuscirà a cogliere lo stesso i miei indizi.” Disse il ragazzo pensieroso, mordicchiandosi l’unghia del pollice. Sempre dalla tasca posteriore dei pantaloni tirò fuori un pennarello nero e iniziò a scrivere per terra.
 
XVILIXMCDXIIICLIXXIIIVIIDLXXXIIDCCXXIVMIXLLIXXXI
 

“Questo è il messaggio che ho lasciato a L. Che cosa ti sembra?”
Rumer fissò la scritta in silenzio. Ryuzaki l’aveva tracciata in modo che lei potesse leggerla dal verso giusto.
Ad una prima occhiata sembrava solo un’accozzaglia di lettere messe una dopo l’altra; ma lei sapeva che quello era un messaggio, quindi doveva per forza comunicare qualcosa.
Forse era un codice criptato? Magari ad ogni lettere in realtà ne corrispondeva un’altra. Scosse la testa: no non aveva senso perché ponendo per esempio la X come vocale, non esisteva nessuna parola con tre vocali attaccate, e la stessa cosa valeva per le consonanti. Erano sempre le stesse lettere ripetute.
Ryuzaki continuava a fissarla accovacciato in silenzio, tormentandosi l’unghia in attesa di una risposta, senza metterle alcuna fretta.
Rumer riprese a fissare la scritta. La X in particolare, ripetuta così tante volte, sentiva che l’avrebbe portata ad una soluzione.
Che fosse una formula matematica? Impossibile: non c’erano segni in mezzo che facessero intuire la funzione. Cosa si poteva comunicare con un’equazione? Una data, un orario forse.
Un’ora.
Si la strada dei numeri era quella giusta, ma mancava comunque qualcosa di fondamentale, era troppo lungo come messaggio…si morse un labbro, prendendo ad esaminare ogni singola lettera; quando l’illuminazione la colpì in pieno.
“Sono dei numeri romani.” Affermò con sicurezza.
Il ragazzo sorrise “Molto bene.”
Ma cosa stavano a rappresentare? Lo sguardo le cadde sui due volumi di fumetti, ai suoi piedi.
“Ryuzaki, tu prima hai detto che per l’indizio avevi bisogno della somma delle pagine di questi due volumi. Se li hai portati via vuol dire che lì hai lasciato qualcos’altro dello stesso spessore…un libro magari. Ma non capisco cosa c’entrano i numeri romani. Le pagine dei libri solitamente hanno la numerazione araba, quindi perché…”
Un messaggio. L’idea della sostituzione adesso non era così strana, eppure “Sostituendo i numeri romani con i numeri delle pagine di quel libro potrebbe venire fuori una data con un orario, ma la frase è troppo lunga e le lettere non corrispondono. Un distretto di Los Angeles forse? No, non ci starebbe comunque.” Si arrese. Lo guardò negli occhi in attesa di un chiarimento.
“La tua teoria è interessante e in parte corretta, ma la sostituzione dei numeri non va applicata solo alle pagine del libro;  indica delle lettere contenute in queste pagine, che insieme compongono il messaggio.” Spiegò con calma.
“Ma è impossibile da capire! Come puoi pensare che qualcuno ci arrivi spontaneamente?”
“L non si servirà di un poliziotto qualunque. E poi chiunque decida di scegliere non sarà solo nelle ricerche.”
Lei lo guardò interrogativa.
“Ho intenzione di prendere parte alle indagini sul mio conto.” Disse lui alzandosi.
“Oh certo! E in che veste, pubblico ministero?” sbottò sarcastica.
“No. Investigatore privato.”
“Lo capirà. Ti farà arrestare prima che tu possa commettere gli altri omicidi.”
Il ragazzo prese a grattarsi un piede con l’altro in tutta tranquillità “Ti sbagli. L per principio non si interessa mai a casi con meno di dieci vittime e con danni inferiori a milioni di dollari. Stiamo parlando del più grande detective del mondo, in fondo. Colui che al momento possiede capacità pari a cinque volte una normale struttura investigativa e sette volte maggiori ad un servizio di intelligence. Pur conoscendo la maggior parte dei crimini che avvengono nel mondo, non si occupa personalmente di ognuno di loro. Chiunque manderà al suo posto, per quanto intelligente, all’inizio non potrà fare alcun collegamento con me.”
Rumer era senza parole, suo fratello possedeva davvero quelle capacità straordinarie? Una cosa del genere sfiorava la fantascienza…eppure che razza di vita poteva avere una persona che aveva a che fare costantemente con il male? Rabbrividì senza volerlo.
“Secondo i miei calcoli L interverrà tra un paio di settimane. Il primo omicidio è servito per attirare la sua attenzione, gli altri serviranno per distogliere ogni dubbio.”
“Come fai ad esserne così sicuro?”
“Perché io so in che modo ragiona L.” disse semplicemente.
Se voleva mettersi in gioco in prima persona, tanto meglio per lei: c’erano buone possibilità che lo avrebbero arrestato in fretta.
“Devo dire che sono rimasto colpito dal tuo ragionamento, non pensavo ci arrivassi così in fretta.” Disse poi, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
“Ci sono arrivata solo perché mi hai mostrato il messaggio e mi hai detto dei libri. E poi non ho mica trovato la soluzione.” Si sentì improvvisamente in imbarazzo.
“Se avessi avuto la mente riposata, e non provata da questa situazione di stress, probabilmente ci saresti arrivata prima. Inoltre per conoscere la risposta avresti bisogno di controllare quel libro.”
“Per curiosità, dove hai lasciato scritto il messaggio?” chiese.
Per tutta risposta Ryuzaki si batté un dito sul petto.
 
La cena per lei quella sera consisteva in sandwich al burro d’arachidi e succo d’arancia. Evidentemente quel pazzo era in vena di festeggiare il suo primo omicidio.
Rumer pensava che l’avrebbe di nuovo imboccata, come con la marmellata, invece Ryuzaki le tolse le manette e si accucciò davanti a lei. Oramai aveva capito che era inutile tentare di scappare, inoltre si sentiva troppo debole.
Mangiarono in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.
Un paio di volte la ragazza era stata tentata di chiedergli notizie su suo fratello, ma aveva paura di scoprire la persona che era diventata attraverso gli occhi di un killer esaltato.
Un’altra domanda però la tormentava da un po’ di tempo.
“Chi era A?”
Non gliene importava niente se quella era una domanda indiscreta; dopo giorni di isolamento aveva bisogno di parlare di qualsiasi cosa.
E poi era sinceramente curiosa.
Ryuzaki l’aveva nominata il giorno precedente, ed era stata l’unica volta in cui le era sembrato umano.
Il ragazzo inizialmente diede segno di non aver sentito la domanda, continuando a magiare in silenzio; Rumer aveva quasi perso la speranza di ricevere una risposta, quando la sua voce incolore riempì l’aria.
“Era un bambino della Wammy’s House. Faceva parte della prima generazione di successori, insieme a me. All’apparenza sembrava un ragazzino piuttosto tranquillo ed anonimo, ma possedeva un’intelligenza straordinaria. Era stato scelto da L in persona come suo successore.
Il giorno in cui glielo comunicarono si chiuse ancora di più in sé stesso, tagliando qualsiasi rapporto con il mondo esterno. Alla Wammy’s non era difficile incontrare tipi strani: ognuno aveva le sue manie. Tuttavia lui dava l’impressione di essere assolutamente normale, solo piuttosto timido.”
“Eravate molto amici?”
“No. Non era facile fare amicizia in quel posto: troppa competizione.
Diciamo solo che condividevamo lo stesso destino. Però passavamo molto tempo insieme; mi è dispiaciuto quando è morto.”
In realtà dal suo tono non si percepiva minimamente il dispiacere.
“ Vedi Rumer per diventare L non basta essere estremamente intelligenti: bisogna essere geniali. Poter vivere come vive lui, essere in grado di gestire la quantità di informazioni che gestisce lui, non è affatto semplice. Loro ti insegnano un metodo, sta a te saperlo applicare alla tua persona.
A aveva un cervello superiore alla norma: era capace di risolvere qualsiasi problema in pochissimo tempo, eppure non fu in grado di gestire questo suo dono. Molti pensano che si sia suicidato perché il peso di questa responsabilità era troppo grande per lui, ma in realtà io so che non è stato così.
Il vero motivo per cui A si è legato un cappio al collo è stato perché non poteva più sopportare di vivere in quel modo.
A 13 anni non aveva mai avuto una vita degna di questo nome: loro lo avevano sfruttato e avevano già deciso il suo futuro al suo posto; l’unica cosa che gli era rimasta era quella singola scelta.
Non poteva sopportare di dover passare ancora tanti anni al servizio di un bene superiore, mettendo completamente da parte sé stesso. Comprensibile, se ci pensi bene.”
Rumer lo guardava sconvolta; quanto male era stato fatto a dei bambini in nome di suo fratello? Anche Ryuzaki aveva subito tutto quello da piccolo, non c’era poi da sorprendersi se la sua mente avesse completamente ceduto alla follia.
“Bè, deve essere stato comunque un brutto colpo per te.” Disse.
“No. Io sapevo esattamente quando sarebbe morto.”
“Ti aveva detto che voleva suicidarsi? Perché non lo hai fermato? Potevi avvertire qualcuno!” sbottò lei incredula.
“Non mi aveva detto che voleva togliersi la vita: era abbastanza intelligente da non farlo capire a nessuno. Io lo sapevo per un motivo diverso. Se lo avessi salvato sarebbe morto per qualche altro motivo: un incidente magari. Come ti ho già detto ho voluto lasciargli almeno quella scelta. Quando arriva la tua ora non c’è più niente da fare.” Affermò.
Rumer stava facendo scorrere il dito sul bordo del suo bicchiere, con movimenti ipnotici “Non è la prima volta che affermi una cosa del genere. E’ la stessa cosa che mi hai detto ieri.” Disse sovrappensiero.
“E’ la verità.”
“Come fai ad esserne così sicuro?” chiese.
“Lo so e basta.” Lo aveva detto con lo stesso tono con cui uno direbbe che il sole sorge ad est.
Lei lo guardò negli occhi, quei pozzi rossi e imperscrutabili che tanto le mettevano i brividi. “Nessun uomo sulla terra può prevedere la morte di qualcuno con esattezza.”
Lui si limitò ad alzare le spalle afferrandola per un braccio e ammanettandola nuovamente al centro della stanza.
“Fino a pochi giorni fa non credevi che potesse esistere un singolo uomo con le capacità di L, e adesso sai che lui è addirittura tuo fratello.”
“E’ diverso, qui stiamo parlando di roba soprannaturale!” disse indignata. Non era un genio, ma neppure tanto stupida da farsi abbindolare da certi discorsi.
“Tu credi in Dio, Rumer?” Ryuzaki era vicinissimo al suo viso; la pelle diafana, gli occhi rossi leggermente socchiusi coperti dai capelli neri, quell’odore forte che le invadeva le narici.
Sembrava lui il demone in quel momento.
“No.” Disse con voce ferma.
“Per quale motivo?” sussurrò. “Perché non puoi vederlo, o toccarlo; perché non ci hai mai parlato?”
“Perché se ci fosse non permetterebbe l’esistenza di un mostro come te.”
Ryuzaki rise leggermente “La solita presunzione umana. Noi non siamo il centro dell’universo sai? Perché mai un essere trascendente dovrebbe preoccuparsi di qualcosa di così piccolo ed effimero come l’uomo?” non la stava neppure sfiorando, ma quella vicinanza improvvisa le fece girare la testa. “Il bene non può esistere se non c’è il male a contrapporsi ad esso.”
Quel discorso la stava confondendo e basta. “Va bene, ma questo non spiega un bel niente.”
Lui si allontanò di colpo “Fintanto che non riuscirai ad ammettere a te stessa l’esistenza di cose che non posso essere spiegate razionalmente, non sarai mai in grado di capire. Buona notte Rumer.”
Se ne andò, spegnendo la luce e lasciandola sola con la sua confusione.

 

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


Rumer si trovava imprigionata in quel maledetto magazzino da una settimana precisa.
Vedeva l’alternarsi dei giorni passare sul muro bianco di fronte a lei.
Dopo la sera del primo omicidio non aveva avuto nessun'altra conversazione rilevante con Ryuzaki, anche se il loro rapporto era in un certo senso migliorato.
Il ragazzo le aveva fatto cambiare posizione, legandola a terra con la schiena attaccata al muro (dopo aver accuratamente controllato che non ci fossero altre schegge di vetro nelle vicinanze) e le lasciava abbastanza cibo e acqua davanti ai piedi, dal momento che passava la maggior parte delle sue giornate fuori casa. Ma la cosa migliore era che poteva andare al bagno due volte al giorno, anche se sotto sua stretta sorveglianza.
Sbuffò annoiata; non sapeva quando Ryuzaki avrebbe commesso il secondo omicidio, eppure aveva una strana sensazione.
Guardò la telecamera fissa davanti a lei: suo fratello riceveva quei nastri ogni giorno. Pensò che oramai doveva essersi fatto un’idea precisa di dove la tenevano nascosta, dall’alto della sua genialità.
Certo, l’obiettivo era posizionato in modo che non si capisse che tipo di stanza fosse, dal momento che veniva ripreso solo un muro bianco con delle tubature; ma se davvero L aveva più mezzi di una squadra d’intelligence, avrebbe come minimo controllare palmo a palmo quella dannata città pur di trovarla.
Los Angeles era una metropoli, e una settimana era troppo poco per controllarla tutta, bisognava ammettere; inoltre Ryuzaki non era tanto stupido da permettere alla polizia di risalire al mittente dei nastri.
Eppure Rumer sapeva che queste erano tutte scuse che trovava per sentirsi meglio: se suo fratello non l’aveva ancora trovata era per il semplice fatto che non aveva ancora deciso di intervenire.
Perché la sua inutile coinquilina aveva deciso di prendersi un mese di ferie proprio adesso? Non avevano neanche un magnifico rapporto, quindi di certo non l’avrebbe chiamata tutti i giorni.
Come spesso le capitava ultimamente, si mise a pensare a Ed: magari lui aveva avvertito la polizia, non vedendola più venire al lavoro.
Ma lei era considerata una tipa strana e non a torto; poteva benissimo aver deciso di cambiare città senza avvertire nessuno.
Maledizione! Quel suo stile di vita solitario ed estremo le aveva solo procurato un mare di guai.
Sentì i passi di Ryuzaki avvicinarsi, e infatti poco dopo apparve sulla soglia con la sua solita postura ingobbita.
Rumer, che era sdraiata di traverso per terra, non si preoccupò di mettersi a sedere, guardandolo dal basso verso l’alto con espressione interrogativa.
“Hai un odore  nauseante. Riesco a sentirlo dalla mia camera.” Disse mangiucchiandosi l’unghia del pollice, fissandola con i suoi enormi occhi da panda.
Quel pazzo riusciva sempre a farla rimanere senza parole: stavolta era stato il suo ammirabile tatto.
“Complimenti per i riflessi genio. Sono incatenata ad un muro da una settimana; il mio livello di igiene è pari a zero, e per di più siamo in Agosto. A Los Angeles.”
Per tutta risposta Ryuzaki si chinò a sganciare le manette. “Vieni.” La tirò su senza sforzo, caricandola in spalla.
“Ehi fermo! Mettimi giù!” urlò lei, iniziando a colpirlo debolmente sulla schiena ingobbita.
Lui non fece una piega e la portò in bagno, scaricandola senza molte cerimonie sul piatto della doccia.
Il getto di acqua ghiacciata sulla pelle calda le tolse il respiro per un momento.
“AHHHH!!!” probabilmente quell’urlo lo avevano sentito fino in strada.
Ryuzaki la teneva incollata al muro con un braccio, mentre con l’altro reggeva il rubinetto della doccia, come quando si lava un cane.
“E’ ghiacciata!” si lamentò la ragazza.
“Mi dispiace, ma qui non c’è l’acqua calda.” Disse lui tranquillamente, passandole un flacone bianco.
Bagnoschiuma alla fragola. “Scherzi?” disse guardandolo sconvolta.
“Era in offerta.” Un sorriso enigmatico gli illuminò il volto.
Rumer aveva la pelle d’oca e i vestiti completamente incollati al corpo. “Hai intenzione di rimanere qui tutto il tempo?” chiese.
“Certo. Non vorrei che provassi a fare qualche mossa azzardata come l’ultima volta.”
“Sei proprio un maniaco!” sbottò furibonda.
Ryuzaki alzò gli occhi al cielo di fronte alla reticenza della ragazza; non capiva tutto quel pudore improvviso: l’aveva vista in situazioni ben più imbarazzanti. “Credimi, in questo momento non ispireresti pensieri impuri neppure ad un erotomane condannato all’isolamento. E’ uno dei motivi per cui ho tolto lo specchio.” Biascicò annoiato.
“Se il tuo era un tentativo di fare una battuta non sei stato divertente, sappilo.”
“Hai a disposizione tre minuti, dopo di che passerà un’altra settimana prima che potrai usare la doccia di nuovo. Io ne approfitterei se fossi in te.”
Rumer aveva uno sguardo di fuoco “Bene!” sbottò.
Prese a spogliarsi con gesti meccanici, senza però levarsi la biancheria, e ad insaponarsi con forza. Voleva togliersi dalla pelle tutto lo sporco, il sudore, il sangue e l’umiliazione di quei giorni.
Il profumo stucchevole della fragola riempì presto il bagno. Dopo l’impatto iniziale, l’acqua fredda non era poi così male, in fondo era piena estate. Sentì i muscoli sciogliersi lentamente sotto quel getto, regalandole nuova vitalità.
Per un attimo si dimenticò persino che il suo aguzzino la stava guardando; chiuse gli occhi mentre l’acqua le scorreva tra i lunghi capelli scuri, appesantendoli sulla schiena. Si lasciò scappare un sospiro di piacere.
Ryuzaki la osservava insaponarsi come si osserva un muro bianco: senza il minimo interesse. Non sapeva per quale motivo la cosa le creasse una punta di fastidio, orgoglio femminile forse. Insomma non si era mai considerata bella, tutt’altro: aveva le forme di un ragazzino e quel periodo di torture non doveva aver certo giovato sul suo fisico. Ma era pur sempre una donna!
Magari Ryuzaki era gay, pensò la ragazza osservandolo di sottecchi. Questo avrebbe spiegato anche quella malsana ossessione nei confronti di suo fratello.
“So a cosa stai pensando.” Disse lui d’un tratto, porgendole un asciugamano ruvido ma pulito.
“A si? Sentiamo.”
“Credi che io preferisca gli uomini perché non ti trovo desiderabile.”
Rumer si congelò sul posto, mentre cercava di legarsi addosso l’asciugamano.
“Come diavolo hai fatto?” si sentì imporporare le guance dalla vergogna.
“Ho tirato a indovinare. Sembravi quasi contrariata prima quando non ho fatto apprezzamenti sul tuo corpo. Voi donne siete tutte uguali.” Sbuffò.
“Dunque è vero?” chiese lei.
“Non che la cosa ti riguardi, ma no. E per la cronaca: tu sei molto più carina di tuo fratello.” Disse atono.
Rumer abbassò lo sguardo imbarazzata, finché lui non parlò di nuovo.
“Tieni, puoi indossare questo vestito mentre lavo la tua roba.” Le porse un semplice abito rosso senza maniche.
“Immagino che tu non abbia intenzione di voltarti, giusto?” Il ragazzo annuì.
Rumer si fece scivolare l’abito sopra la testa e poi, con movimenti contorti, sfilò da sotto l’asciugamano e la biancheria bagnata.
“Sei una persona davvero buffa, lo sai?” chiese Ryuzaki.
Il vestito era un po’ largo, ma era pulito e molto carino.
“Dove lo hai preso?”
“Perché, non ti piace? Penso che il rosso sia un colore che ti doni molto.”
“No, non è per quello…ero solo curiosa.” Aveva uno strano profumo addosso, si vedeva che era usato.
“Appartiene alla madre della mia prossima vittima.”
Fu come essere colpita in pieno da un fulmine “Come?”
“Gliel’ho sottratto oggi, durante il mio ultimo sopralluogo. Lei non c’era ovviamente: è partita per un viaggio di lavoro.”
Rumer era tentata di strapparselo di dosso, ma non riuscì a muoversi, mentre cercava di assimilare l’ultima informazione ricevuta.
“Hai detto madre della vittima?” il respiro si era incastrato in gola, rendendole la voce strozzata.
“Si.” Ryuzaki la stava fissando con interesse.
“Quanti…” non riuscì a finire la frase, ma lui parve capire lo stesso.
“Tredici anni. Si chiama Quarter Queen.”
Tredici anni? Era una bambina! Rumer fu pervasa dall’orrore, mentre il bagno prese a girare vorticosamente e il fiato abbandonava del tutto i suoi polmoni.
“O mio Dio.” Si portò una mano alla bocca, iniziando a tremare.
“Rumer, calmati.” Ryuzaki adesso aveva l’aria preoccupata. Doveva essere sbianca di colpo, perché le afferrò i polsi e le ordinò di respirare, scuotendola con forza.
Scivolarono insieme sul pavimento del bagno, lui in ginocchio davanti a lei.
“Come puoi fare una cosa del genere? E’ soltanto una bambina.”  urlò.
“Sarebbe morta comunque domani.” La stretta sui polsi si intensificò leggermente.
“Smettila di dire così, sei un mostro!” Rumer iniziò a piangere senza ritegno. Lui aspettò in silenzio che i suoi singhiozzi scemassero, senza mai lasciarla andare.
“Perché proprio lei?” chiese dopo un po’.
“Era necessario che andasse così. Fa tutto parte di un piano più grande; lo capirai presto.” Il suo tono era più incolore del solito.
Non sarebbe servito a nulla tentare di fargli cambiare idea. Senza aggiungere altro si fece trascinare e incatenare nella stanza, come se fosse una bambola rotta.
Non toccò cibo quella sera, e restò sveglia per tutta la notte.
Alle prime luci dell’alba del 4 agosto Ryuzaki uscì da quel magazzino abbandonato, mentre Rumer scivolava in un sonno agitato.
 
La svegliò l’intenso odore dolciastro della marmellata di fragole. Ryuzaki era accovacciato davanti a lei, intento a leccarsi con gusto le lunghe dita pallide. Il rosso sulle sue dita, così simile al sangue, le fece venire i brividi di colpo.
Rumer guardò fuori dalla finestra: aveva dormito tutto il giorno, e ora la notte stava calando su L.A.
Senza dire una parola afferrò la bottiglietta d’acqua e la scolò d’un fiato.
“Hai intenzione di continuare lo sciopero della fame?” chiese Ryuzaki.
“Lasciami in pace.”
“Perché ti comporti così?”
Lei lo guardò sbigottita “E me lo chiedi pure? Ho addosso il vestito di una donna a cui hai appena ammazzato la figlia! Riesco a sentire il suo odore.”
“Tu non la conoscevi.”
“Non c’entra niente.”
“Allora spiegami per quale motivo hai reagito in questo modo. Non è la prima persona che uccido da quando sei qui. La scorsa volta ho ammazzato un uomo di 44 anni: l’ho strangolato e gli ho inciso 12 numeri sul petto con un coltello. Vuoi forse dirmi che è meno grave? Eppure tu non hai battuto ciglio anzi, ti sei messa a giocare con me alla piccola investigatrice.”
Rumer era disgustata dalle sue parole. “Non mi sono mai divertita in questa storia Ryuzaki. Mi hai rapito, torturato e umiliato nei modi peggiori che possano esistere, e mi parli di gioco? Sapevo che eri un folle ma non pensavo fino a questo punto!” Aveva il fiato corto per la collera.
Il killer l’aveva fissata per tutto il tempo con espressione indecifrabile “Non pensavo che saresti crollata così in fretta, Rumer; ti credevo più forte.” Disse con disappunto.
Lei non ci vide più: caricò tutto il peso del corpo sulle gambe e gli sferrò un potente calcio al fianco destro.
Ryuzaki lo schivò per un pelo, balzando all’indietro e lasciando cadere il barattolo di marmellata che si infranse ai suoi piedi.
“Maledetto!” urlò “Ho resistito fin troppo invece. Non sono il tuo animale da compagnia, sono una persona.”
Dentro di sé, sapeva perfettamente che urlare come una pazza non sarebbe servito a nulla se non a farlo arrabbiare, ma aveva bisogno di sfogarsi in qualche modo. “Vuoi sapere perché me la sono presa tanto? Perché quella era solo un bambina, ecco dove sta la differenza! Una bambina che doveva ancora crescere, fare le proprie esperienze, sbagliare e imparare a vivere; ma soprattutto che non aveva alcuna possibilità di difendersi di fronte ad un uomo come te.”
Ryuzaki le si avvicinò di colpo, cogliendola di sorpresa, e la spinse con forza contro la parete, avvicinando la bocca al suo orecchio* “Ascoltami bene Rumer, perché non voglio che ci siano dei rancori tra di noi, proprio ora che abbiamo imparato ad andare d’accordo. Tu non hai mai compreso davvero il motivo per cui io lo stia facendo. So che non mi credi, ma quando scelgo una vittima uno dei fattori in base a cui lo faccio è davvero la loro data di morte.
Mi ritengo molto più di un assassino qualsiasi che uccide per il solo gusto di farlo. Ti sembro forse il tipo di persona che si diverte a sventare e mutilare bambine a caso? No!
Io ho un dono e mi limito semplicemente ad usarlo per uno scopo più grande; sono solo un mezzo. Un mezzo per dimostrare che la giustizia su cui si basa L è una giustizia fittizia. E’ facile nascondersi dietro ad una lettera ed essere libero di usare mezzi e uomini di tutto il mondo per compiacere i propri scopi. Non si dice forse che la giustizia è uguale per tutti? Che uguaglianza c’è nel nascondersi, Rumer? L è solo un opportunista. Ma io non lo sono e sto semplicemente cerando di dimostrare quanto tutto questo sia patetico.”
Quel discorso era un concentrato di pura follia; Rumer avrebbe voluto urlargli tacere, ma il fiato era bloccato in gola, mentre sentiva il corpo di Ryuzaki tremare contro il suo e le sue mani artigliarle le spalle, tenendola inchiodata al muro, senza lasciarle alcuna via di scampo.
“Quando ti dico che con Quarter Queen non c’era niente di personale, capisci che ti dico la verità? Anche tu sei una vittima di L se ci pensi bene. Ha fatto qualcosa per proteggerti in tutti in questi anni, quando hai vissuto per strada, quando sei stata aggredita, quando da piccola vivevi in quel terribile orfanotrofio? No. Ha fatto qualcosa per prevenire che qualcuno ti rapisse per ricattarlo, ricoprendo lui un ruolo così importante? No. Ma soprattutto, ha fatto qualcosa per venirti a salvare da quando sei rinchiusa qui dentro, sebbene fosse al corrente delle torture che hai subito in base ai nastri che gli ho inviato ogni singolo giorno? No, maledizione!”
“Stai zitto!” ruggì allora tra le lacrime, come risvegliata da uno stato di trance.
Ma lui continuò imperterrito, stringendola ancora più forte a sé “ Nonostante abbia forze e mezzi a sufficienza per farlo non ha mosso un dito. Perché a L non importa non importa nulla al di fuori della sua sfera d’azione, a meno che non gli intralci il percorso. E’ questo quello che sto cercando di fare: io gli sto dando fastidio. Sono l’unico che può fare una cosa del genere, l’unico che può sbattergli in faccia la verità, perché io sono come lui. Mi hanno fatto diventare come lui! Tutto quello che mi sto limitando a fare è prendere il corso della natura degli eventi ed usarlo a mio piacimento. Io ho sfidato L e lui ha accettato la sfida. Quindi non biasimare solo me, perché in questa storia la colpa si trova nel mezzo.” Concluse, staccandosi finalmente da lei, per guardarla in faccia con i suoi occhi cremisi.
Rumer lo fissò con odio, riprendendo finalmente fiato, con la testa in confusione “Lasciami sola. Non voglio starti a sentire stanotte: lasciami almeno il diritto di crollare in pace.” Si rannicchiò su se stessa, poggiando la testa sulle ginocchia per non dover soccombere sotto il suo sguardo di fuoco, mentre Ryuzaki si decideva finalmente ad abbandonare la stanza in silenzio.
 
Restò molto tempo al buio, con le braccia serrata attorno alle ginocchia, ad ascoltare il battito furioso del suo cuore.
Non aveva mai provato tanta rabbia e paura in tutta la sua vita. Si impose di calmarsi, ma le parole di Ryuzaki non facevano altro che rimbombarle nel cervello.
Uccidere era sbagliato, su questo non c’erano dubbi. Ma alcuni crimini erano peggio di altri, o no? Da quando aveva conosciuto quell’uomo sentiva che tutte le sue conoscenze venivano puntualmente messe in discussione.
Sciocchezze. Non doveva farsi incantare dalle sue parole. Però era vero  che aveva reagito in modo diverso stavolta.
Quell’uomo era stato strangolato e usato come lavagna per scrivere; ma una bambina era sempre una bambina.
Quarter Queen: non riusciva a togliersi quel nome dalla testa. Era insolito, sicuramente molto raro da trovare in giro.
Più se lo ripeteva in testa, più capiva che c’era qualcosa di strano nascosto dietro. Sapeva bene che Ryuzaki non aveva un legame personale con le sue vittime, quindi doveva sceglierle in base a connotati precisi.
Che le vittime si conoscessero tra loro? Magari Believe Bridesmaid era un amico della madre di Quarter. No, si sentì di escludere questa ipotesi. Sarebbe stato troppo facile per la polizia trovare un collegamento.
Believe Bridesmaid. Quarter Queen.
Entrambi avevano uguali le iniziali del nome e del cognome; poteva essere solo una coincidenza?
Il suo sguardo vagò per la stanza fino a posarsi sulla scritta nera nel centro del pavimento: l’enigma dello scorso omicidio.
Ryuzaki aveva detto che sul petto della vittima erano stati incisi dodici numeri. I numeri non solo corrispondevano a delle pagine, ma anche a delle lettere all’interno di queste.
Quarter Queen: 12 lettere.
Non era affatto una coincidenza, quella bambina era già stata scelta come seconda vittima da tempo.
Il suo cervello stava lavorando freneticamente alimentato dalla rabbia: chiuse gli occhi e si focalizzò sui due nomi.
Believe Bridesmaid era un adulto mentre, Quarter Queen era una bambina.
B. B. e Q. Q.
Sentiva che era sulla pista giusta, ma mancava un dettaglio: la B e la Q non erano lettere simili, e solitamente un serial Killer sceglie sempre elementi in comune che uniscano le vittime.
L’assassino aveva detto che c’era un motivo se quella bambina era stata scelta come vittima. Per quale motivo bisognerebbe uccidere una bambina? Non era altro che un essere piccolo e indifeso.
Piccolo.
E se quella fosse la chiave? Se Quarter Queen fosse stata uccisa proprio perché era una bambina?
Sospirò.
Era solo un gioco, una partita tra due geni: il detective e il criminale. Non c’era posto per lei, dotata di un cervello assolutamente normale.
Eppure Ryuzaki seminava apposta indizi sulle scene del crimine, quindi anche stavolta doveva averne lasciato uno. Se per Quarter era troppo tardi, forse per la prossima vittima si poteva ancora fare qualcosa.
Ma lei non sapeva assolutamente nulla di questo omicidio; avrebbe dovuto farsi raccontare ogni dettaglio dal killer, e non sapeva se avrebbe retto.
Alzò la testa di scatto guardando la telecamera; doveva provarci a qualunque costo.
Era l’unica persona ad essere a conoscenza di quei crimini, quindi aveva il dovere morale di intervenire.
Doveva solo calcolare bene i tempi.
Tra il primo omicidio e il secondo erano passati 4 giorni: questo voleva dire che, se Ryuzaki seguiva una linea temporale tra i delitti, le restavano ancora tre giorni. Se riusciva a farlo parlare senza destare troppi sospetti L avrebbe avuto il nastro il giorno prima del terzo omicidio.
Poteva bastare, si disse.
 
 
 
*il discorso di B è liberamente tratto dal discorso che fa Joker nel film “Il cavaliere oscuro.” Non so perché abbia pensato a lui, ma credo che tra geni folli ci sia sempre un certo feeling.
 

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


Ryuzaki decise di lasciarla in pace fino al pomeriggio seguente, quando entrò per cambiare il nastro della telecamera e portarle da mangiare.
“Grazie.” Disse Rumer, addentando una mela.
Lui la guardò lievemente sorpreso, così la ragazza decise di partire subito all’attacco. “Ascoltami, ci ho riflettuto. Ieri mi sono comportata come una pazza: questo isolamento mi sta dando alla testa, ma tu hai ragione, sono più forte di così.”
“Mi fa piacere vedere che ti sei ripresa.”
Si accovacciò davanti a lei nella sua solita posizione a guardarla mangiare.
“Sai, quando ti siedi così me lo ricordi molto.” Se ne uscì ad un tratto la ragazza.
“Stare seduto in questa posizione aumenta le mie capacità di ragionamento del 40%.” La informò.
 Rumer represse una risatina e continuò “In realtà non è che mi ricordi proprio bene di lui. Ho solo degli sprazzi di memoria, come quando al mattino appena sveglio ti sforzi di ripensare ad un sogno. Se mi chiedessi che faccia ha o come parla probabilmente non ti saprei rispondere, ma mi ricordo che sedeva sempre in questo modo strano. E che amava i dolci: si abbuffava di crostate e pasticcini. Ricordo anche che non dormiva mai. Ho imparato a dormire con la luce accesa perché lui stava sempre rannicchiato nel suo letto a leggere, tutta la notte. Non abbiamo mai litigato o giocato insieme come fanno tutti i fratelli: lui viveva in un mondo tutto suo, per questo era estremamente solo. Ma gli volevo davvero bene, con lui mi sentivo…al sicuro.” Tutto il contrario di adesso, pensò amaramente.
Ryuzaki si stava mordicchiano il pollice come al solito, con occhi sgranati per l’interesse “Tu conosci L come persona, io lo conosco come detective.” constatò.
“Ti sbagli. Io credo che nessuno al mondo lo conosca per davvero, sotto qualsiasi punto di vista.” Affermò Rumer con sicurezza.
“Perché mi stai raccontando queste cose?”
“Non lo so, è solo che me lo ricordi ogni tanto. Quando non vai in giro ad ammazzare la gente, ovviamente.”
Seguì un breve silenzio.
“A proposito di omicidi…riguardo Quarter Queen. Ci ho riflettuto e vorrei sapere come sono andate le cose.” Era piuttosto inutile girarci intorno.
Ryuzaki fece un ghigno storto “Temevo che non saresti mai arrivata al punto.”
“Cosa intendi dire?”
“Che so che vuoi chiedermelo da quando sono entrato in questa stanza.”
Sospirò sconfitta, in fondo era sicura che almeno su questo era impossibile ingannarlo “Sono così trasparente per te?”
“Meno di quanto pensi in realtà, ma si vedeva che eri nervosa per qualcosa che volevi chiedermi, nonostante il tuo tentativo di distrarmi con il discorso su tuo fratello, che tra l’altro ho apprezzato molto. Dunque cosa ti interessa sapere di preciso?”
“Tutto.”
“D’accordo.” Decise di accontentarla Ryuzaki. Si alzò e spense la telecamera.
Nella mezz’ora successiva le raccontò nel dettaglio di come si fosse introdotto nel minuscolo appartamento della vittima, che si trovava sola in casa, e di come le avesse fracassato il cranio con il posacenere in marmo della madre.
Rumer dovette reprimere un conato di vomito alla descrizione degli occhi maciullati della bambina, ma sapeva che quella era la notizia fondamentale che stava aspettando.
“Sembri pallida.” Disse Ryuzaki, interrompendosi.
“Non mi sento molto bene in effetti.”
“Sei stata tu a chiedermi di raccontarti tutto. Per quale motivo hai cambiato idea?”
“Perché volevo sapere e pensavo di essere pronta per la verità, ma mi sbagliavo.” Sussurrò tremante.
“Capisco.” Finì il racconto in breve tempo, dopo di che la lasciò sola.
 
Aveva a disposizione due giorni di tempo.
Il secondo omicidio era stato a dir poco brutale: Ryuzaki aveva compiuto un vero e proprio accanimento sul cadavere. Il dettaglio degli occhi poi, era agghiacciante. Che motivo c’era di essere così crudeli con una bambina che non era in grado di difendersi? La chiave secondo lei era proprio questa.
Una cosa fondamentale che Rumer aveva capito era stata riguardo la posizione dei cadaveri. Se Believe Bridesmaid aveva il  messaggio inciso sul ventre, quindi era stato trovato in posizione supina, Quarter Queen invece aveva il cranio sfondato ed era stata adagiata a terra prona.
Questo dettaglio, su cui Ryuzaki si era soffermato più di una volta, avvalorava la tesi delle iniziali da lei formulate: la q non era altro che una b rovesciata, così come il prono è l’inverso del supino. Lei non aveva avuto modo di vedere i cadaveri, ma attraverso le sue descrizioni dettagliate sapeva che il killer si era divertito a fare delle stesse vittime gli indizi principali.
Passando ad analizzare il dettaglio fondamentale degli occhi, Rumer trovò parecchie difficoltà nel formulare una tesi.
Stando a quanto Ryuzaki le aveva detto gli occhiali erano stati aggiunti alla bambina solo dopo che lui le aveva estratto gli occhi dal cranio; dunque quello era il messaggio lasciato dall’assassino, dal momento una persona senza occhi con indosso gli occhiali è una cosa piuttosto eclatante.
La polizia se ne sarebbe sicuramente accorta, soprattutto se la bambina da viva non era abituata a portarli.
Aveva rabbrividito dal disgusto quando lui si era soffermato sul fatto che il visetto di quella bambina era decisamente fatto per portare gli occhiali.
Il problema era che quell’oggetto poteva indicare qualsiasi cosa. Magari le iniziali della prossima vittima?
Non aveva molto senso però come ipotesi: se l’assassino voleva continuare sulla scia delle iniziali, l’unica lettera che le veniva in mente per la successione tra b e q era la p; ammesso che non intendesse ricominciare da capo con la b, e la parola occhiali non ne conteneva nessuna.
Quindi escludendo quella pista, e l’ipotesi dei numeri, di cui proprio non riusciva a trovare un collegamento con l’oggetto, l’unica opzione rimasta era che indicassero un posto.
Occhiali.
Se ripeté questo nome nella mente per almeno una ventina di volte, prima che le venisse in mente un luogo corrispondente.
Glass station.
Era una fermata sulla linea della metropolitana nel Westside, che prendeva qualche tempo prima per andare al lavoro. Los Angeles non era dotata di molte linee della metro, soprattutto per lei che veniva da Londra era stato piuttosto facile imparare tutte le fermate a memoria.
Rumer strinse le ginocchia al petto cercando di concentrarsi: i tasselli del puzzle combaciavano, ma lei non poteva esserne sicura al 100%.
Era frustrante, come camminare nella nebbia; ma non le venivano ipotesi migliori, per quanto si sforzasse a formularle.
Ricapitolando: sarebbe stato sufficiente per la polizia cercare qualcuno che abitasse nei pressi di Glass Station avente le iniziali B.B. o P.P.
Questo però poteva rappresentare un bel problema: Los Angeles era una metropoli immensa, e di persone con iniziali del genere ce n’erano davvero parecchie. Se poi si prendevano in considerazione i turisti in vacanza e gli extracomunitari senza permesso di soggiorno, ecco che il numero saliva.
Ma Ryuzaki voleva che gli indizi venissero risolti, quindi doveva aver messo in considerazione un’ipotesi del genere.
Si morse con forza un ginocchio, presa dalla frustrazione. Dio quanto avrebbe voluto avere anche solo una piccola parte del cervello di suo fratello in quel momento! Avere la consapevolezza di poter salvare una vita era elettrizzante, ma anche terribilmente rischioso.
Ryuzaki aveva acconsentito troppo di buon grado a raccontarle tutti i dettagli dell’omicidio. Che volesse metterla alla prova anche stavolta?
Rumer sapeva che per quanto folle, quel ragazzo era dotato di un’intelligenza sicuramente sovrasviluppata; magari si stava solo annoiando e voleva testare ancora le sue capacità.
Guardò la telecamera davanti a lei. Era avvantaggiata a vedere i fatti dal punto di vista dell’assassino; le possibilità che si stesse sbagliando, dopo tutte le informazioni ricevute, erano estremamente basse.
Se il suo ragionamento fosse risultato corretto avrebbe salvato la vita di una persona, quindi non poteva permettersi di tentennare.
E poi sapeva che lei gli serviva viva: cosa avrebbe potuto farle peggio di quello che già le aveva fatto fino a quel momento? Tanto valeva provare.
Aspettò con calma che Ryuzaki uscisse la mattina dopo, poi si sdraiò a terra con il viso rivolto verso il soffitto e chiuse gli occhi, restando immobile, come se dormisse. Aveva pensato che il ragazzo magari facesse scorrere il nastro velocemente, tanto per non controllare che facesse qualcosa di stupido durante le sue assenze.
In fondo era ammanettata ad un muro e non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, per poterlo comunicare. Inoltre lui le aveva raccontato solo cose che la polizia avrebbe visto con i propri occhi alla scoperta del cadavere, insistendo su alcuni dettagli certo, ma non confidando che lei potesse arrivare a mettere insieme i pezzi del puzzle.
Iniziò a parlare con voce forte e chiara, esponendo tutto il suo ragionamento a partire dal primo omicidio ( che la polizia ormai doveva aver scoperto) fino alle sue ipotesi sull’ultimo caso; senza tralasciare i dettagli sull’assassino e il posto dove l’aveva rinchiusa. Si era ripetuta quel discorso nella mente per tutta la notte, per paura di scordarsi qualche dettaglio.
Alla fine tirò un sospiro. Sua fratello l’avrebbe presa per una stupida o ammirata per i suoi ragionamenti? Non ne aveva la minima idea. Non sapeva neppure se queste cassette gli venissero davvero recapitate, ma era valsa la pena tentare.
Scivolò nel sonno in quell’assurda posizione, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze al risveglio.
 
 
Si svegliò di soprassalto, quando si sentì afferrare e sbattere al muro con violenza. Non fece in tempo ad urlare per la botta alla testa che due mani si serrarono in una morsa d’acciaio attorno alla sua gola.
“Che cosa credevi di fare?” Ryuzaki era davanti a lei, livido dalla rabbia.
“Pensavi davvero che io fossi così stupido da non controllare i nastri prima di inviarli? Io, che non ho lasciato una singola impronta digitale sui luoghi degli omicidi, per quanto sono stato attento!” Le mani si strinsero ancora di più attorno alla gola, facendole lacrimare gli occhi. “Ammetto di averti sottovalutata: non pensavo che saresti arrivata così in fretta alla soluzione, sebbene ti abbia fornito parecchi dettagli; ma sappi che hai fatto male i tuoi conti: il terzo omicidio non avverrà domani.” La sbatté nuovamente contro il muro, facendo cozzare la spina dorsale contro il tubo di metallo a cui erano legate le manette.
“Volevi dimostrare quanto sei brava? Volevi salvare una vita? Stupida! Ti ho già spiegato che loro sono destinati a morire comunque.”
Rumer percepì i capillari attorno agli occhi rompersi e le guancie andare a fuoco mentre le ultime molecole d’ossigeno abbandonavano i suoi polmoni definitivamente.
Stavolta lui l’avrebbe uccisa, ne era certa.
Ryuzaki parve accorgersene perché le lasciò andare di scatto la gola, scostandosi leggermente.
La ragazza scivolò lungo la parete, prendendo a tossire convulsamente, mentre cercava di incamerare più aria possibile. Lui era davanti a lei, tremante di rabbia.
“Sei intelligente, mai hai commesso un errore piuttosto stupido nel sottovalutarmi. Probabilmente volevi giocare a fare la detective al pari di L, ma sappi che lui  non si sarebbe mai fatto fregare così.” Disse.
“Io non sono come mio fratello.” Rantolò.
Ryuzaki la afferrò per i capelli, tirandola leggermente su e accostandosi al suo orecchio sussurrando piano “Tu…sei più simile a lui di quanto pensi.” Fece scorrere il naso sul suo collo, creandole un lungo brivido, inspirando il suo profumo e percependo il pulsare impazzito del suo cuore “Sei la cosa più vicina ad L che io abbia mai posseduto.”Disse, prima di fiondarsi sue labbra in un bacio famelico. Rumer sgranò gli occhi, provando a scansarsi, ma la presa sui suoi capelli era ferrea. Riusciva a vedere quelle iridi cremisi vicinissime attraverso le ciglia socchiuse.
Si sarebbe aspettata qualunque cosa da lui, tranne quel gesto. Aprì la bocca per protestare ma il ragazzo ne approfittò per far scorrere la lingua tra le sue labbra. Sapeva di fragole.
Ryuzaki approfondì il contatto attirandola a sé, affondando le mani tra le sue ciocche scure, mentre quella lingua di zucchero lottava contro la sua, succhiandola e accarezzandole il palato.
Il bacio che le stava dando non aveva assolutamente nulla di dolce o romantico: era un concentrato di pura rabbia e violenza, che reclamava il possesso nei suoi confronti, stordendola.
Ad un tratto Ryuzaki le affondò i denti nel labbro inferiore, mordendo con forza. Rumer urlò, percependo il sapore ferroso del sangue mischiarsi a quello dolce della bocca del ragazzo. Il dolore la riscosse immediatamente e gli sferrò una ginocchiata al basso ventre, riuscendo finalmente a staccarsi da lui.
Ryuzaki davanti a lei la fissò con il fiato corto e le labbra rosse, mentre un rivolo di sangue scorreva lungo il suo mento candido. Lo raccolse con un pollice e se lo portò alle labbra, succhiandolo con gusto.
Lei lo fissò sconvolta; sentiva il labbro pulsare per la ferita aperta, ma non aveva il coraggio di muoversi.
Quando lui fece per avvicinarsi e pulirle il mento con la manica della maglietta, scattò indietro impaurita.
“Non mi toccare!” urlò.
Il ragazzo fermò il braccio a mezz’aria, fissandola per un lungo istante prima di alzarsi e uscire in fretta dalla stanza.
Rumer sentì un botto contro la parete davanti a lei, seguito da un rumore di vetri infranti.
Il suo cervello stava ancora assimilando quello che era successo negli ultimi minuti: il suo carnefice l’aveva appena baciata e si era succhiato con piacere il suo sangue. Un conato di bile le risalì per la gola.
Sputò a terra, fermandosi ad osservare la macchia rossa sul pavimento bianco. Rossa come i suoi occhi.
Quando lui rientrò nella stanza, parecchio tempo dopo, il suo viso non tradì la minima emozione.
“Non avresti dovuto sottovalutarmi.”
“Potrei dire la stessa cosa di te. Sapevo che avesti guardato la cassetta, ma ho voluto provarci lo stesso.” Disse lei dopo un po’.
“Perché?”
“Perché volevo provare a salvarla.” Sussurrò “E poi sapevo che non mi avresti ucciso.”
Si fissarono in silenzio per un po’.
“Hai detto che l’omicidio non sarà domani.” Constatò lei infine.
“Te ne accorgerai da sola quando succederà, hai la mia parola.”
Rumer non ne aveva alcun dubbio. Ryuzaki non le aveva mai fatto così tanta paura.
 

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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


Aprì gli occhi di scatto, dopo l’ennesimo incubo che aveva tormentato il suo subconscio; era dai tempi dell’orfanotrofio che non le capitava di averne così tanti. Faceva un caldo terribile, i capelli erano attaccati alla fronte e la gola secca reclamava acqua, eppure Rumer non fece nulla per afferrare la bottiglia tiepida accanto al suo ginocchio.
Era sdraiata sul pavimento sporco immobile, intenta a fissare il soffitto bianco ripensando al suo sogno: ogni volta finiva con un paio di occhi rossi che la scrutavano nel buio.
Una settimana era passata, e ancora non era accaduto nulla di significativo che potesse farle intendere che Ryuzaki avesse ucciso la terza vittima. Aveva fatto male i suoi calcoli, eppure non poteva dirsi davvero pentita per la scelta che aveva preso.
Per tutta la vita, fin da quando ne aveva memoria, non aveva fatto altro che seguire passivamente il corso degli eventi, senza mai prendere una decisione o combattere per qualcosa. L’unica volta che era successo era stato a quattordici anni, quando era scappata da quel posto orribile che non era mai riuscita a chiamare casa.
Anche quella volta, quando era partita per gli Stati Uniti, non aveva in mente un piano preciso: si sarebbe trovata un lavoro qualsiasi e dopo un po’ si sarebbe spostata in un altro posto e avrebbe ricominciato tutto da capo.
Costruirsi una vita comportava non solo energie, ma anche parecchie responsabilità. E poi per cosa? Aveva già perso tutto una volta e non voleva ricascarci ancora. Faceva troppo male. Se non possiedi nulla non puoi perdere nulla.
Eppure adesso le era venuta una terribile voglia di fare qualcosa di importante, senza più scappare. Che senso aveva avuto rinunciare a tutto se era finita dov’era ora? Se mai fosse uscita viva da quella situazione, non avrebbe più avuto paura di niente. Forse per questo avrebbe dovuto ringraziare Ryuzaki, pensò sarcastica.
Un rumore la distolse dai suoi pensieri, l’assassino doveva essere rientrato. Dopo l’episodio del bacio si erano comportati come se nulla fosse successo, vedendosi solo per lo stretto necessario e parlando ancora meno.
Rumer si era imposta di non pensarci: le veniva la nausea anche solo all’idea del sapore delle fragole.
Era quasi del tutto certa che quel pazzo stesse pensando a suo fratello mente la baciava.
Allora perché le era sembrato che ci fosse quasi rimasto male quando lei lo aveva allontanato? Non poteva dirlo con certezza, dal momento che Ryuzaki era espressivo quanto un muro bianco, eppure aveva scorto come una scintilla di delusione nei suoi occhi. Forse era dovuta al fatto che avesse perso in qualche modo il suo autocontrollo. Più ci rifletteva, più si rendeva conto che quel gesto era stata una semplice violenza nei suoi confronti; Ryuzaki voleva tracciare nuovamente i confini e ricordarle quel’era il suo posto. Lei gli apparteneva, aveva osato sfidarlo confidando che non l’avrebbe uccisa e lui l’aveva umiliata, dimostrandole quanto fosse debole in realtà. Per lui Rumer era un semplice surrogato di L, e questo lei non riusciva a sopportarlo.
Il soggetto dei suoi pensieri fece il suo ingresso in quel momento. L’odore ferroso e nauseante del sangue le colpì subito le narici, facendole girare la testa.
Stava per chiedergli se fosse per caso ferito, anche se all’apparenza sembrava stare benissimo, quando un particolare agghiacciante le bloccò il fiato in gola.
Tra le mani Ryuzaki reggeva quello che a tutti gli effetti era un braccio umano.
Il killer seguì lo sguardo sconvolto della ragazza e le rivolse un mezzo sorriso “Ti presento Backyard Bottomslash. Vuoi forse stringerle la mano?”
Stava davvero scherzando su una cosa del genere? “Tu sei completamente pazzo.” Sussurrò Rumer, reprimendo a forza un conato di vomito.
“Pensavo che questa fosse una cosa appurata da tempo ormai.” Rispose lui non curante.
“Che diavolo vuoi farci con quel braccio?” chiese con voce strozzata, mentre lui ficcava l’arto in una busta di plastica nera.
“Ho intenzione di disfarmene al più presto, tranquilla. Non potevo lasciarlo sulla scena del crimine e così ho pensato di portarmelo dietro; ma di certo non posso metterlo in frigorifero. Quello è un comportamento più alla Hannibal Lecter, non ti pare?”
“Ah certo, tu invece oggi ti sei ispirato a Jack lo Squartatore!” strillò.
“No, non direi. Lui faceva fuori prostitute, invece la signorina Bottomslash era una rispettabilissima impiegata.”
Rumer non riusciva a staccare gli occhi da quella busta nera dall’altro lato della stanza. Aveva fatto in tempo a notare che al polso era legato un bell’orologio in metallo, eppure Ryuzaki non lo aveva preso, lasciandolo invece al suo posto.
Più andava avanti con gli omicidi, più questi venivano commessi con una violenza inaudita.
Quella povera ragazza le face quasi più pena di Quarter Queen; chissà che altro aveva combinato al suo cadavere quel pazzo maniaco!
Ryuzaki sembrava di ottimo umore.
“Che bisogno c’era?” lo apostrofò la ragazza con rabbia.
“Oramai dovresti conoscere il mio modus operandi, Rumer. Questo non è nient’altro che un indizio. Se i miei calcoli sono esatti, da domani l’uomo mandato da L dovrebbe farsi vivo: a questo punto non dovrebbero esserci più dubbi sui collegamenti degli omicidi. Questo implica che tra poco ci dovremo salutare.”
Un brivido corse lungo la schiena della ragazza.  E se fosse stata lei la prossima vittima?
Ryuzaki aveva detto che le serviva viva, ma non aveva specificato per quanto le sarebbe servita.
Scacciò in fretta quel pensiero e guardò in silenzio l’uomo uscire di casa con quella busta nera, senza che le venissero fornite ulteriori spiegazioni.
 
Quando Ryuzaki rientrò, la notte era già calata da un pezzo. Le portò della pizza su un cartone e si accucciò di fronte a lei, come non faceva da parecchio tempo.
“Non ho molta fame, lo spettacolo di prima mi ha leggermente chiuso lo stomaco.” Sibilò la ragazza.
“Come preferisci.” Rispose tranquillamente lui, afferrando un pezzo e addentandolo con gusto.
“Che c’è?” chiese, di fronte allo sguardo curioso della prigioniera.
“Credevo che mangiassi solo marmellata di fragole.”
Lui ridacchiò leggermente “A quest’ora sarei morto, non credi?”
Effettivamente era stato un pensiero stupido.
“Non mi chiedi i particolari dell’ultimo omicidio? Magari potresti provare a salvare la prossima vittima.” La canzonò.
“E se la prossima vittima fossi io?” decise di dare voce ai suoi dubbi.
Ryuzaki smise improvvisamente di masticare “Che cosa te lo fa pensare?”
“Hai detto che tra un po’ dovremo separarci, mi è sembrato piuttosto logico.” Rispose rivolgendo lo sguardo verso la grande finestra. “Cosa mi farai, mi sparerai? O magari mi farai morire di stenti? Non penso sarai così magnanimo da avvelenarmi coi sonniferi.”
“Non sono discorsi da fare mentre si mangia.” Disse Ryuzaki storcendo la bocca.
“Come diavolo fai?” Rumer si accorse di avere la voce incrinata dalla rabbia “Dimmi come riesci a far finta di nulla! A cosa pensavi mentre la facevi a pezzi eh?” non avrebbe pianto, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di vederla così vulnerabile per la paura.
“A niente. E’ stato un semplice esperimento.” Disse lui serio.
“Stiamo parlando di una vita umana!”
L’uomo la guardò in silenzio, come per dire ‘tanto tu non capiresti’.
“Non spararmi la solita storia del fatto che tanto sarebbe morta comunque.” Sibilò.
“Non posso e non voglio convincerti del contrario.”
“Non sarebbe certo morta così…”
“Che importanza ha il modo in cui si muore, se tanto bisogna morire lo stesso?” chiese Ryuzaki.
“Bè, se io potessi scegliere preferire non essere tagliata in pezzi!”
“Lo terrò a mente. E dimmi, se potessi sapere il giorno preciso in cui morire, lo vorresti sapere lo stesso?” la stava mettendo alla prova, ne era certa. Aprì la bocca, ma la richiuse subito dopo guardando fissa nel vuoto.
“No, non credo che vorrei saperlo. Perché, tu me lo diresti in ogni caso?” sussurrò.
“No. E’ una cosa che non ho mai detto a nessuno, ma ero curioso di sapere la tua risposta.”
“Per quale motivo? Tanto hai detto che se una persona è destinata a morire quel giorno non si può fare nulla per cambiare le cose.”
“Nessun uomo è in grado di vivere una vita normale sapendo il giorno in cui morirà. Non solo potrebbe essere attanagliato dalla paura, ma vivrebbe ogni momento pieno di intensità, come se fosse l’ultimo. E’ una cosa che può farti andare fuori di testa.” Spiegò.
“Questo lo vedo.”
Ryuzaki fece un sorriso amaro “Avere a che fare con la morte da quando si è nati non è una bella cosa, credimi. Sapere in quale istante preciso sarai costretto a perdere le persone che ami condiziona terribilmente il tuo rapporto con la gente. Io l’ho imparato a mie spese.”
Non le faceva mai confessioni di questo genere, per questo Rumer rimase colpita dalle sue parole. Nonostante il suo viso fosse come al solito una maschera di cera, il suo sguardo tradiva una tristezza infinita, in grado di risucchiarti nel suo baratro.
“Dimmi perché, voglio provare a capire.” Insistette.
Ryuzaki la guardò a lungo con quei suoi occhi rossi sangue, come a voler prendere realmente in considerazione la sua proposta. Sospirò.
“Quando sono nato ero un bambino piuttosto normale sai? Avevo una bella casa e una famiglia che mi voleva bene. Anche se a scuola avevo pochi amici, le maestre mi adoravano per la mia intelligenza spiccata.
In tutto questo quadro di perfezione, l’unica nota stonata erano i miei occhi.
All’inizio credevo che fosse normale vedere nomi e numeri fluttuare sopra la testa delle persone, ma quando mi resi conto che gli altri non potevano vederli iniziai a spaventarmi. Non ne capii immediatamente il senso, fino a che una mattina mi accorsi che i numeri sulla testa di mia madre erano pericolosamente vicini allo zero.
Come un conto alla rovescia, hai presente? Ebbi un terribile presentimento quel giorno, ma mi resi perfettamente conto di non poterle spiegare razionalmente le mie paure, così la lasciai andare al lavoro. Non tornò mai a casa.*
Il treno su cui viaggiava deragliò e lei perse la vita in quell’incidente. Come puoi immaginare la notizia mi sconvolse parecchio, perciò quando qualche anno dopo mi accorsi con terrore che i numeri sulla testa di mio padre stavano calando vertiginosamente mi imposi di salvarlo, e feci di tutto per non farlo partire per un viaggio di lavoro piuttosto importante che aveva programmato da mesi.
Ma i numeri non si fermarono, continuarono a scendere lo stesso. Morì per mano di un rapinatore, al negozio all’angolo della strada dove vivevamo. Lo stesso identico giorno in cui avrebbe dovuto trovarsi dall’altra parte del Paese.
Adesso capisci che cosa intendo quando ti dico che se una persona è destinata a morire tu non puoi fare nulla per cambiare la sua sorte? Credo che tu possa accorciare una vita umana, ma non allungarla.
Non guardai più in faccia nessuno per molto tempo. La gente credeva che fossi impazzito e mi rinchiusero in un istituto psichiatrico per un periodo, fino a che non venne a prendermi Wammy per portarmi in quella sua scuola di fenomeni da baraccone. Il mio posto insomma. Se non altro avevo un nuovo obiettivo per vivere: incarnare la giustizia e vendicare la morte di mio padre. Ironico, se pensi a come sono finite le cose.” La sua risata gelida riempì l’aria.
Rumer non seppe cosa dire, ogni volta che credeva di essersi fatta un’idea su di lui, questa veniva puntualmente sgretolata, come sabbia bagnata. Sapeva che Ryuzaki non le aveva raccontato quelle cose in cerca di pietà, ma solo perché lei capisse la questione.
Certo, il suo passato non giustificava l’uomo che era diventato adesso; ma lei come avrebbe reagito al suo posto? Avrebbe retto tutto quello che il ragazzo aveva dovuto affrontare senza cedere? Probabilmente no.
Restarono in silenzio qualche minuto, ognuno perso nei propri pensieri, finché Rumer decise di cambiare argomento.
“Come fai ad essere tanto sicuro che proprio domani interverrà L?” chiese.
“Te l’ho detto, in tutti questi anni ho imparato il suo modo di ragionare. Anche se tu non te ne sei accorta, c’è stata una sequenza precisa nei giorni in cui sono avvenuti gli omicidi, e vari indizi che ho lasciato stanno ad indicare quanti ancora ne mancano.
L è rimasto per troppo tempo ad aspettare nell’ombra, e il delitto di oggi gli ha dato tutte le conferme di cui aveva bisogno. Sono piuttosto ottimista al riguardo, l’attesa stava diventando sinceramente estenuante. Ad ogni modo, domani vedremo chi ha ragione.”
 
Com’era prevedibile Rumer non riuscì a chiudere occhio tutta la notte. Nelle narici aveva ancora impregnato il forte odore di sangue, e ogni volta che provava a dormire, l’immagine del braccio mozzato la coglieva a tradimento. Maledetto Ryuzaki!
Il ragazzo era uscito prima dell’alba, come al solito, senza degnarla di uno sguardo.
Rumer pensò al detective che avrebbe scelto L per risolvere il caso. Sarebbe stato abbastanza sveglio da cogliere tutti gli indizi seminati dall’assassino? Probabilmente si.
Suo fratello non era uno stupido, e come tale si circondava solo di persone estremamente intelligenti.
Si era chiesta per quale motivo non avesse voluto intervenire di persona in un caso così delicato: in fondo l’assassino era pur sempre un ex allievo della Wammy’s House, e se a lungo andare la stampa (sicuramente interessata alla serie di omicidi che tingevano di rosso la torrida estate californiana) avrebbe scoperto qualche cosa in più del dovuto, ci sarebbe andato sicuramente di mezzo anche il detective.
La ragazza era dell’idea che i panni sporchi vanno sempre lavati in casa, e in fretta anche.
Ma poi aveva ripensato a quello che Ryuzaki le aveva detto una delle prime volte che le aveva parlato di L: se gli fosse successo qualcosa, la criminalità nel mondo sarebbe salita almeno del 10%, ed era un rischio che lui di certo non avrebbe potuto correre. Evidentemente riteneva Ryuzaki un avversario abbastanza periocolo.
Doveva anteporre la sua incolumità a qualsiasi cosa, dal momento che in fondo L, per quanto geniale, era pur sempre un essere umano in grado di correre pericoli come tutti, se non di più. E poi essendo il detective numero uno al mondo, probabilmente stava seguendo in parallelo parecchi altri casi oltre a quello. Sospirò, era ancora difficile per lei far coincidere l’immagine di suo fratello con quella di L.
Dopo alcune ore si accorse di bruciare dalla curiosità per quello che stava accendo alle indagini. In fondo Ryuzaki era l’unica finestra che aveva sul mondo esterno, e parlare con lui era l’unica distrazione nelle sue monotone giornate.
Dovette aspettare fino a sera per vederlo rientrare.
Lo vide afferrare in fretta il classico barattolo di marmellata e raggiungerla. Al contrario di quello che si aspettava, non si accucciò davanti a lei, ma prese a misurare la stanza a grandi falcate.
“Sapevo che L non mi avrebbe deluso!” esordì eccitato “Naomi Misora, agente dell’FBI in congedo momentaneo. E’ perfetta per questo compito: ha carattere e cervello, mi piace.”
Una donna? Non seppe spiegarsi perché la notizia la infastidì di colpo, ma fu ben attenta a non mostrare segni di disappunto all’esterno.
“Che cosa ha scoperto?” chiese invece.
“Ha praticamente risolto il primo omicidio, anche se l’ho aiutata in alcuni passaggi. Ho persino sentito che parlava al telefono con L. Non sospetta di me però, anche se non devo averle fatto un’ottima impressione.” Ridacchiò “Tutto sta procedendo secondo i piani: nella peggiore delle ipotesi L si sarebbe potuto servire di più di una persona, invece in questo modo mi sarà molto più facile manipolarla.” Un  ghigno malvagio gli si dipinse sul viso “Dopodomani la incontrerò di nuovo nell’appartamento di Quarter Queen. Ho tutto il tempo necessario per studiare le mie prossime mosse.” Rumer distolse lo sguardo amareggiata.
Il ragazzo allora si inginocchiò davanti a lei e le accarezzò piano una guancia, lasciando una scia rossa e appiccicaticcia al suo passaggio “Non fare quella faccia, tu sei stata molto più brava di lei. Hai indovinato tutto senza neppure vedere la scena del crimine e i rapporti della polizia.”
Se era un modo per rincuorarla, stava fallendo miseramente. Ruotò di scatto la testa, ignorando il suo complimento. “Quante possibilità ci sono che risolva in fretta il caso?”
“Meno del 40%, anche se è aiutata da L.” Rispose lui dopo averci pensato un po’.
“Come, ma non è quello a cui stai mirando?” chiese sorpresa.
“Ti sbagli. Io sto puntando ad un caso irrisolvibile. Voglio che Misora capisca i collegamenti che ci sono tra i primi omicidi, ma non che sia in grado di mettere insieme tutti i pezzi alla fine.”
Rumer non riusciva a seguirlo:e tutta quella storia sulla vendetta allora che fine aveva fatto?
“Non guardarmi in quel modo, non ti fa sembrare intelligente.” La rimproverò Ryuzaki, portandosi altra marmellata in bocca.
“Hai detto di voler far sapere ad L che ci sei tu dietro a tutta questa storia!” sbottò, ignorando il suo commento poco carino.
“Esatto. Lui già lo sospetta, per inciso. Quello che al momento non sa, o che comunque non può dimostrare, è che il detective privato e l’assassino sono la stessa persona.” Spiegò.
“E quanto pensi che ci metterà a capirlo?” chiese sarcastica.
“Non molto ma non potrà dimostrare nulla. Ho avuto 5 anni per organizzare perfettamente questo piano. Pensi che sia stato così stupido da lasciare dettagli in giro? Mi sono fatto regolarmente assumere dalle famiglie delle vittime per indagare sulle loro morti.”
Rumer lo guardò orripilata. Le famiglie avevano riposto tutte le loro speranze nell’assassino dei loro cari?
“Sei davvero senza scrupoli.”
“Mi fa piacere sentirtelo dire.” Ghignò.
“Quindi tu vuoi collaborare con Misora e aiutarla nelle indagini senza farle capire che sei l’assassino. Ma allora perché parli di caso irrisolvibile? Se continuerai ad uccidere loro se ne accorgeranno prima o poi.”
Ryuzaki diede un ultima lappata al suo dito “Non manca molto in realtà. Sono sicuro che se ti sforzi ci arrivi anche da sola; in fondo hai tutti gli elementi per capirlo.”
 
Rumer provò a rifletterci nelle ore seguenti, ma non riusciva a concentrarsi davvero.
Il nome di Naomi Misora continuava a ritornare a galla nella sua mente.
Che diavolo le stava succedendo? Era forse gelosa?
Aveva sentito parlare di Sindrome di Stoccolma, ma non pensava di essere talmente cretina da cascarci in pieno.
In quei casi la vittima provava un forte attaccamento emotivo nei confronti del proprio carnefice, soprattutto se l’agonia era prolungata nel tempo, perché si veniva a creare un rapporto di dipendenza esclusivo, che garantiva la sopravvivenza del prigioniero.
Esattamente quello che era successo a lei: era incatenata in quella stanza da più di quindici giorni, e per quanto Ryuzaki l’avesse torturata, se era ancora viva era solo grazie a lui.
Razionalmente sapeva di non essere più che una mera pedina nelle sue mani, che lui la stava manipolando psicologicamente per prendersi gioco di L; però poi c’erano momenti d’intimità come il discorso del giorno prima sui suoi genitori o il bacio che lui le aveva dato, e il suo orgoglio si rifiutava di accettare una simile spiegazione.
Forse stava finalmente impazzendo, oppure questo processo era totalmente normale da dimostrare che lei in fondo era del tutto sana.
Sospirò.
Doveva tenere la mente occupata il più possibile per evitare di porsi domande scomode.
 
 
*il fatto che la madre di B sia morta per un incidente ferroviario e il padre venne ucciso da un rapinatore è scritto in Another Note.

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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


Cosa rende un caso irrisolvibile? La mancanza di prove per dimostrare la propria tesi.
Se L sapeva perfettamente chi si nascondeva dietro a questi omicidi, avrebbe dovuto arrestare il colpevole e consegnarlo alla giustizia.
Per fare una cosa del genere  avrebbe avuto bisogno di prove che incastrassero Ryuzaki, oppure avrebbe dovuto coglierlo sul fatto mentre compiva l’ultimo omicidio.
Rumer sapeva perfettamente che, nonostante il killer si stesse prendendo gioco del detective lasciando indizi in giro, non era tanto stupido da seminare impronte o altro riconducibile direttamente a lui.
Come avrebbe fatto L a convincere la polizia che dietro questo caso si nascondeva il suo vecchio successore della Wammy’s House?
Era un circolo vizioso: Ryuzaki uccideva le vittime, L metteva insieme gli indizi da lui lasciati grazie a Misora, che a sua volta si avvaleva inconsapevolmente dell’aiuto di un investigatore privato, il quale altri non era che l’assassino stesso.
Più ci rifletteva meno il filo dei suoi ragionamenti era chiaro.
Sbuffò in preda alla frustrazione, e decise di sedersi nella strana posa di suo fratello, magari avrebbe funzionato davvero.
Provò a ripartire dall’inizio; prima ancora degli omicidi. Qual’era stato il primo indizio che le aveva mostrato Ryuzaki? Le wara ningyo.
Il ragazzo aveva affermato che quelle bamboline avrebbero avuto un ruolo determinante nella storia, ma lei non sapeva quante ne aveva usate sulle scene del crimine.
Chiamò Ryuzaki a gran voce; era tutto il giorno che se ne stava chiuso nella sua stanza ad elaborare chissà quali piani contro L.
“Devi andare in bagno?” chiese con tono annoiato, affacciandosi all’uscio.
“Quante sono le wara ningyo?” lo apostrofò, attirando la sua attenzione.
“Bene bene, a quanto pare vuoi giocare ancora. Forse rivedere le fasi del piano con te può essermi d’aiuto.” Sussurrò, mordendosi l’unghia del pollice. “In tutto sono dieci.” Disse.
“Vuoi, dire che non le hai usate ancora tutte?”
Lui si limitò a sorriderle. Era sulla buona strada.
“Finora sono avvenuti tre omicidi, ma visto che hai detto che non manca molto alla fine del caso non puoi averne usata una a vittima. Sono un indizio determinante: come una firma, giusto?”
“Più o meno. Diciamo che essendo ad Hollywood, questa città ha bisogno di teatralità. Ma non devi mai fidarti di quello che vedi Rumer.”
“Un diversivo quindi. Le bambole fingono solo di essere una firma, in realtà servono a distogliere l’attenzione da qualcosa! Ma da cosa? Il cadavere? No….è troppo evidente. Non puoi dirmi come le hai usate?” chiese infine.
Il ragazzo le si accucciò di fronte “Immagina una stanza con le sue quattro pareti e al centro un cadavere. Qual è la prima cosa che vedi entrando?” chiese.
Il cadavere sarebbe stata la risposta più ovvia, essendo posto al centro eppure…
“Il muro di fronte alla porta.” L’uomo di per se è portato a guardare davanti a sé, non fisso sul pavimento.
“Ottima intuizione! Ancora mi chiedo perché Wammy ti abbia scartato alle selezioni.”
Rumer ignorò il commento e continuò “Dunque ne hai messa una sul muro di fronte alla porta; e le altre? Sugli altri muri? Ma così i conti non tornano lo stesso.”
Lo guardò in attesa di una spiegazione.
“Le wara ningyo sono un semplice diversivo, ma non per occultare il cadavere, cosa di per se impossibile oltre che superflua, bensì per nascondere un oggetto molto più importante: un chiodo.”
Rumer sbatté un paio di volte le palpebre confusa, in attesa che il ragazzo riprendesse il racconto.
Dal canto suo Ryuzaki si stava godendo la sua espressione esterrefatta.
“A che diavolo ti serve un chiodo?”
“Ad appenderle.”
Stava iniziando a perdere la pazienza “Ti ricordo che sono incatenata a questo muro e non sono stata sulla scena del crimine! Non ho idea di quello di cui stai parlando.”
“Eppure te la stai cavando benissimo! Il chiodo è un fattore determinante per la riuscita del piano. Hai mai sentito parlare di camere chiuse?” chiese Ryuzaki.
“Si, nei gialli quando avviene un omicidio le stanze chiuse dall’interno servono per simulare il suicidio della vittima. Ma non conosco di preciso il meccanismo con cui si creano.”
“Si usa il trucco dell’ago e filo: bisogna far passare il filo attraverso lo spiraglio della porta, viene fatto girare attorno alla testa del chiodo ( che in questo caso funge da carrucola ) su cui è fissata la bambola, nella parete di fronte all’entrata; poi viene teso fino alla parete laterale, e infine portato nuovamente alla porta e agganciato alla serratura.
In questo modo viene a crearsi un triangolo, che sfruttando i chiodi permette ai fili di inclinare diagonalmente i vettori della forza, così da evitare che essa venga dispersa verso la porta, ma concentrata solo sulla serratura. Tirando il filo che passa attraverso lo spiraglio, viene fatta ruotare la maniglia e la porta si chiude.
Diciamo che questa è una spiegazione piuttosto semplificata, ma posso assicurarti che senza i chiodi questo trucchetto non sarebbe stato realizzabile.”
Rumer provò a immaginarsi il meccanismo spiegato da Ryuzaki; la cosa fisicamente parlando aveva un senso, ma logicamente faceva acqua da tutte la parti.
“Ryuzaki capisco quello che vuoi dire ma…che senso ha sprecare tutte queste energie per simulare dei suicidi quando gli omicidi sono architettati in modo che non ci possano essere dubbi al riguardo? Insomma dubito che uno possa parlare di suicidio vedendo un cadavere senza arti o con gli occhi maciullati, non trovi?”
Il ragazzo sorrise malignamente “Il punto non è fingere un suicidio Rumer, ma simulare proprio che non lo sia. E’ una cosa che capirai presto, non preoccuparti; ma torniamo ai tuoi calcoli.”
La ragazza lo fissò con aria interrogativa, prima di riprendere il filo del ragionamento “Se sono dieci in tutto e ogni omicidio è legato all’altro questo vuol dire che anche il numero delle wara ningyo costituisce un indizio. Quante ne hai usate la prima volta?”
“Quattro.” Non si aspettava una risposta da parte sua, per questo rimase sorpresa, ma da qualche parte doveva pur iniziare.
“Una a parete quindi. Visto che bastano solo due chiodi per creare il triangolo, scommetto che c’è un motivo anche nella scelta del numero…” sussurrò.
“Bè dal momento che, come ti ho già detto, il filo conduttore è il Giappone ammetto che la scelta non è stata casuale.”
Che c’entrava adesso il Giappone?
Provò a pensare come si diceva quattro in giapponese; quando era piccola sa madre le cantava sempre una filastrocca per bambini in cui si imparavano i numeri da uno a dieci.
Quattro. Shi.
Rumer sgranò gli occhi: shi infatti oltre che al numero corrispondeva anche ad un altro ideogramma.
Morte.
Ryuzaki ghignò, vedendo la consapevolezza negli occhi della ragazza.
“Hai davvero uno strano senso dell’umorismo.” Sbottò lei.
“Che vuoi farci, sono inglese.”
Facendo un rapido calcolo delle bamboline e prendendo in riferimento le pareti della stanza “Ne rimane soltanto una.” Sussurrò.
“Allora ti conviene scoprire in fretta chi sarà l’ultima vittima. Ti do un indizio: 1+3 non sempre fa 4. Se riuscirai a risolvermi questo indovinello e a dirmi la data del prossimo omicidio, ti mostrerò una fotografia dell’ultima scena del crimine, dove potrai vedere tu stessa gli indizi da me lasciati. Hai 24 ore di tempo a disposizione.”
Detto questo la lasciò sola a riflettere.
 
Oramai giorno e notte non facevano più alcuna differenza. Il suo corpo si era abituato ad un ritmo completamente sballato, restando sempre incatenato ad un muro.
Ryuzaki le portava da mangiare quando era in casa (cosa che accadeva molto di rado durante il giorno) a orari irregolari, e lei non faceva altro che scivolare da uno stato di dormiveglia ad uno di agitazione improvvisa. 
Preferiva dormire il più possibile, per non pensare. Oramai non aveva più paura del suo aggressore. Dopo l’incidente della telecamera non aveva più alzato un dito su di lei, e lei non aveva fatto nulla per farlo arrabbiare.
Passava le giornate in uno stato di apatia a fissare la parete bianca davanti a lei cambiare colore, mentre il suo cervello registrava distrattamente i rumori della strada sottostane, sperando di non impazzire.
Era da un paio di giorni che avvertiva un leggero malessere; inizialmente aveva pensato che fosse dovuto alla scarsa qualità del cibo e al caldo asfissiante in quel magazzino, ma non appena si era svegliata quella mattina, e aveva avvertito distintamente un forte dolore al basso ventre, la consapevolezza l’aveva colpita come un fulmine.
Essendo incatenata ad un muro non poteva controllare, ma la sensazione di umido tra le gambe era una prova più che tangibile. E adesso? Non poteva certo fare finta di niente.
Raschiò il fondo della poca dignità che le era rimasta e chiamò Ryuzaki a gran voce.
Il ragazzo apparve poco dopo sulla soglia guardandola in silenzio.
Rumer provò ad aprire bocca un paio di volte, ma le parole non volevano saperne di uscire.
“Ti senti bene?” chiese il ragazzo preoccupato.
“Ecco…io…” chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, per scacciare via la vergogna.
Forse era meglio farglielo intuire, prendendola alla larga; in fondo era un uomo e non sapeva come avrebbe reagito.
“Ryuzaki…io sono una donna.” Complimenti sul serio, pensò.
Gli occhi da panda del ragazzo sembrarono ingrandirsi ancora di più per la sorpresa.
“Questo lo vedo Rumer.”
“Di conseguenza, è arrivato quel determinato periodo del mese.” Non ce la faceva proprio a spiegarlo meglio di così.
“Quale?”
La stava forse prendendo in giro? Ma non doveva essere un dannato genio?!
“Maledizione Ryuzaki! Mi è appena arrivato il ciclo.” Sbottò allora, rossa in viso.
Lui rimase in silenzio per un minuto, con espressione imperscrutabile. “Voi donne create sempre un mare di problemi.” Disse infine.
“Oh bè, scusa tanto. Allora la prossima volta perché non rapisci un ragazzo?” Non era mica colpa sua; avrebbe dovuto mettere in conto che sarebbe successo prima o poi.
“Ti procurerò quello che ti serve.” Annunciò tranquillamente.
“Ti ringrazio. Avrei bisogno anche di antidolorifici, se non ti dispiace.”
“Quelli se vuoi posso darteli anche adesso.” Disse lui.
A volte Rumer dimenticava che quel pazzo aveva una farmacia in casa.
Annuì e lo vide sparire, per tornare dopo qualche secondo con delle pillole ed un bicchiere d’acqua.
“Fa molto male?” disse guardandola con interesse, senza un minimo segno di preoccupazione o dispiacere negli occhi.
“Diciamo che ultimamente ho subito di peggio.” Rispose eloquente; il naso ogni tanto le procurava ancora un dolore terribile.
Ryuzaki non fece commenti.
Improvvisamente la ragazza se lo immaginò entrare in un supermercato per comprare dei tampax e le venne da ridere, tanto che quasi si strozzò con il bicchiere d’acqua.
Lui inarcò un sopracciglio, interrogativo, ma lei preferì scuotere la testa e restare in silenzio. In fondo era già piuttosto imbarazzante senza aggiungere battutine sarcastiche.
Per la prima volta da quando aveva messo piede in quel magazzino, Ryuzaki le lasciò tutta l’intimità di cui aveva bisogno, facendola andare in bagno ogni volta che voleva e senza controllarla.
 
Dunque aveva un giorno di tempo a disposizione per risolvere l’indovinello di Ryuzaki; tanto valeva tenere la mente occupata e non pensare al suo malessere fisico.
Che cosa aveva voluto comunicarle con quella specie di enigma? Oramai era piuttosto chiaro che al suo carceriere piacesse giocare con lei, mettendola alla prova per vedere se persone dotate di un normale q.i. sarebbero state in grado di risolvere i suoi indizi.
1+ 3 non sempre fa 4.
Sembrava un gioco per bambini. In base a queste due cifre avrebbe dovuto scoprire la data del prossimo omicidio. Ripassò mentalmente le date dei delitti precedenti: il 31, il 4 e il 13. Tutte le date avevano in qualche modo a che fare con l’indizio lasciatole. Il 31 e 13 perché contenevano quelle stesse unità, e il 4 perché ne era la somma.
Tra il primo e il secondo omicidio erano passati 4 giorni, mentre tra il secondo e il terzo 9. E ne mancava soltanto uno.
Che avesse programmato di farlo il 17? In fondo era di nuovo a 4 giorni dall’ultimo.
Eppure il 17 non era un numero legato a 1, 3 e 4. No, non era sulla strada giusta, anche se non poteva dirlo con esattezza.
Strinse le ginocchia al petto, in quella posizione che oramai aveva adottato anche lei per riflettere, e si figurò la somma nella mente.
Se 1+3 non faceva 4 allora forse la risposta era 13. Poteva essere un’idea dal momento che i numeri tornavano; quindi sommando 13 alla data dell’ultimo omicidio veniva 26.  Ma che senso aveva interrompere la catena temporale dei delitti?
Insomma di solito un serial killer seguiva un suo metodo che lo contraddistingueva rispetto ad normale assassino; quindi Rumer decise di scartare anche questa data.
Non devi mai fidarti di quello che vedi.
Questo era più di un indizio: era la soluzione.
Come in precedenza i numeri romani corrispondevano alle lettere  di un nome; cambiando completamente punto di vista 1+3 non dava un numero, bensì una lettera.
1+3 dava B.
B come Believe Bridesmaid e Backy Bottomslash, i nomi delle sue vittime, morte a 13 giorni l’uno dall’altra.
Tutto questo era assurdo eppure non poteva essere un caso. Abbandonando l’idea della ripetizione del 4, dal momento che Misora non avrebbe sicuramente risolto tutti i delitti in così poco tempo, restava quella dei 9 giorni di distanza dall’ultimo omicidio.
13 + 9 dava 22.
Ancora la stessa ripetizione dei numeri, come le iniziali delle vittime. Inoltre 2+2 faceva 4 ed ecco che si ritornava all’indovinello iniziale.
Il prossimo omicidio sarebbe avvenuto esattamente tra una settimana, e sarebbe stato l’ultimo.
 
 

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Capitolo 9
*** capitolo 9 ***


Ryuzaki era fuori con Naomi Misora sulla scena del secondo omicidio.
Rumer si aggiustò meglio contro la parete e guardò fuori dalla finestra: era all’incirca metà pomeriggio; non sapeva quando sarebbe rientrato, ma cominciava ad avvertire una certa fame. Si guardò le gambe, magrissime e graffiate, piene di lividi. Non aveva il coraggio di pensare come appariva il resto del suo corpo: non era mai stata bella, sempre troppo magra, sempre poco curata. In quei giorni di prigionia però doveva aver toccato il fondo; poi si sorprendeva se neppure un folle come Ryuzaki la trovasse desiderabile.
Chissà com’era Naomi Misora? Sicuramente bellissima, il nome lo suggeriva.
Batté un paio di volte la testa contro il muro alle sue spalle e chiuse gli occhi.
C’era dei momenti in cui, a causa del caldo asfissiante, avrebbe dato qualunque cosa per una bella birra ghiacciata. Era quasi un mese ormai che non toccava un goccio d’alcool. I primi giorni era stata troppo spaventata per farci caso, ma poco alla volta il suo corpo aveva iniziato a reclamarlo.
Rumer non aveva osato chiederlo a Ryuzaki, anche perché era convinta che non ne avesse in casa; ma soprattutto per fargli vedere che poteva vivere senza, al contrario di quanto pensava lui.
Era curioso quanto riuscisse a farsi condizionare da quel ragazzo a volte.
Aveva sempre pensato che le cliniche di disintossicazione servissero solo a spillare via i soldi, invece stare un mese legati ad un muro senza poter bere sembrava un metodo piuttosto efficace.
Ridacchiò tra sé e sé: un’altra cosa di cui avrebbe dovuto ringraziarlo alla fine.
Quando aveva iniziato a bere? Non se lo ricordava bene nemmeno lei. Tutta la sua vita era un sogno sfumato, che ogni tanto si confondeva con una realtà troppo brutta per essere ricordata.
Se non sapeva il quando sapeva sicuramente il perché: dimenticare.
Era piuttosto banale a ben pensarci, ma si sposava così bene con la maschera da fallita che si era cucita addosso!
La perdita della famiglia, l’infanzia in orfanotrofio, le notti passate per la strada in cerca di un riparo decente e un lavoro per poter mangiare, e infine il rapimento. Sembrava uscita da un romanzo di Dickens: era tutto così assurdamente cliché, che perfino lei si vergognava a raccontarlo. Era forse per questo non aveva mai avuto amici? Per paura di essere giudicata da qualcuno?
Il suo pensiero, come spesso accadeva ultimamente, ritornò a Ryuzaki.
Anche lui non aveva avuto una vita facile e questo lo aveva trasformato in un mostro. Eppure perfino lui aveva un obbiettivo da raggiungere. A volte si chiedeva se lo stesso motivo per cui era rimasto in vita così a lungo, lo avrebbe ucciso.
Con queste domandi, senza accorgersene, scivolò lentamente in un sonno agitato.
 
La pioggia battente non smetteva di cadere dalla sera prima.
Avevo la pelle ghiacciata, coperta solo da una leggerissima giacca di pelle, e non sentivo più la punta delle dita.
 Era il giorno del mio compleanno e stavo vagando sola per le strade di New York. Mi veniva quasi da ridere a pensare quanto ci si può sentire soli in mezzo a 9 milioni di persone.
Ricordo perfettamente l’atmosfera grigia, tipica delle fredde mattine di Novembre, e le gocce d’acqua che si infiltravano nel colletto della giacca, lungo la schiena, facendomi rabbrividire.
Avevo finito le sigarette, e non avevo più neanche 5 dollari in tasca.
Ero stata licenziata dal bar sulla 54 ma non avevo voglia di trovarmi subito un lavoro, quella era la mia giornata e me la sarei presa tutta per me. Tutto intorno era ovattato: i contorni delle persone, il rumore del traffico metropolitano…ogni cosa era ricoperta da una patina grigia di pioggia. Lo stomaco era vuoto e la testa girava come sempre in quei giorni, da quando la vodka era diventata la mia migliore amica; estraniandomi ancora di più dalla realtà circostante e narcotizzando il dolore onnipresente nel petto.
Improvvisamente vidi una chiesa in cima ad una scalinata. Non ero mai stata una persona religiosa, e le chiese mi ricordavano terribilmente la cappella dell’orfanotrofio, con quel terribile odore di incenso che saturava l’aria, rendendola irrespirabile.
Eppure quella mi apparve diversa: era semplice, bianca.
Non seppi perché mi trascinai fino al suo ingresso. Forse la pioggia era diventata insopportabilmente fredda.
L’interno era buio, la poca luce filtrava dalle finestre con vetri colorati, rendendo l’atmosfera solenne e sospesa. C’era solo una persona dentro, seduta al primo banco, stranamente rannicchiata. Sicuramente stava pregando, al contrario di me che mi guardavo in giro curiosa.
Fui colta da un giramento di testa improvviso, così decisi di sdraiarmi su una delle panche in fondo alla navata.
Con la fronte poggiata sul legno fresco, avevo gli occhi fissi sulla grande croce d’oro al lato del pulpito, sull’altare, che emetteva strani bagliori nel buio. Al suo fianco c’era la statua del Cristo che mi fissava con occhi colmi di pietà. Volevo  piangere: già mi facevo abbastanza pena da sola, senza che qualcuno me lo sbattesse in faccia così.
Sentii delle gocce d’acqua rigarmi le guancie. Ero all’interno di una chiesa, quindi non poteva essere la pioggia. Stavo piangendo e non me ne ero resa conto. Gli occhi bruciavano e la testa mi faceva male. Probabilmente mi ero beccata la febbre: questo spiegava la mia suggestione per una semplice statua. Mi resi conto di essere terribilmente stanca. Tutto quello che volevo era restare li, su quella scomoda panca di legno, addormentarmi e magari non svegliarmi mai più. In fondo era il mio compleanno, non avevo diritto ad un desiderio da esprimere?
Un cappotto caldo mi venne posato sul corpo scosso dai brividi. Delle voci in lontananza sussurravano qualcosa, il mio nome forse.
Guardai la statua sorridendo: e così mi aveva mandato una specie di angelo? Che tempismo perfetto. Non riuscivo mai ad ottenere quello che volevo davvero.
Qualcuno mi prese tra le braccia e finalmente riuscii a vedere in faccia il mio salvatore. Occhi neri e profondi, come il buio. I suoi occhi. Doveva essere la febbre a farmi delirare. In quello sguardo non c’era pietà, ma solo tanto incondizionato affetto. Un sentimento che non vedevo da troppo tempo sul viso di qualcuno nei miei confronti. Provai a parlare, a dire il suo nome, ma il mio corpo non rispondeva più alle mie azioni, e presto scivolai in uno stato di incoscienza.
Quando mi svegliai mi ritrovai in ospedale. Era stato tutto solamente un sogno.
L’infermiera disse che ero stata portata lì da un prete quella mattina e che sarei dovuta restare almeno tre giorni per ricoverarmi da una forte influenza.
Quando mi dimisero venne a trovarmi lo stesso prete che mi aveva salvata. Mi consegnò una busta bianca, sigillata.
Non mi volle dire chi gliel’aveva consegnata, ma dentro trovai 1.000 dollari e un biglietto di sola andata per Los Angeles.
L’idea che quel giorno mi avesse salvata mio fratello non mi aveva neppure sfiorata, fino ad oggi.
 
Quando si svegliò sentì che Ryuzaki era rientrato in casa.
Si alzò a sedere e si accorse di avere le guancie bagnate dalle lacrime. Le asciugò in fretta su una spalla, prima che lui potesse entrare e scorgerle. Non voleva mostrarsi debole davanti a lui.
Il ragazzo arrivò pochi istanti dopo con la cena; accucciandosi davanti a lei la scrutò per alcuni secondi, ma poi decise di non fare commenti.
L’espressione del suo viso era neutra come sempre, al contrario dei suoi occhi pieni di vita.
“Ora che ci penso non ti ho mai raccontato della prima volta che ti ho visto.” Disse improvvisamente, attirando la sua attenzione e distogliendola dai ricordi lasciati dal sogno.
“Mi ero messo sulle tue tracce da almeno quattro mesi. Sapevo che da New York ti eri trasferita a Los Angeles, così iniziai a girare per ospedali e alberghi di bassa categoria.
Con me avevo solo una foto rubata al tuo vecchio orfanotrofio, in cui avevi all’incirca tredici anni, ma di certo non mi basavo su quella per cercarti.
Erano più di venti giorni che giravo a vuoto tra Hollywood e Downtown; ovviamente non immaginavo di incontrarti per strada, ma dopo più di due settimane temevo che avessi cambiato di nuovo città.
Una notte, a causa della pioggia, entrai in un locale nei pressi di Santa Monica e finalmente ti trovai: stavi cantando su un piccolo palco. Non ebbi bisogno di controllare la fotografia per sapere che eri tu. Te lo leggevo letteralmente scritto in fronte. Ricordo perfettamente che quando la musica cessò ti avvicinasti ad uno dei tavoli sotto al palco e ti sedetti con dei ragazzi. Credo che fosse una festa perché non facevate altro che ridere e brindare. Alla chiusura del locale usciste tutti insieme. Naturalmente vi seguii e mi ritrovai sulla spiaggia. Aveva smesso di piovere e stava albeggiando.”
Rumer ricordava perfettamente quel giorno: era il compleanno di Thomas, il fratello di Ed, e tutti insieme avevano fatto il bagno nell’Oceano nonostante fossero i primi di Febbraio, incuranti del freddo pungente. Era talmente presa a giocare con loro sulla spiaggia che non si era accorta che qualcuno li stesse spiando.
“Sembravi incredibilmente felice quel giorno mentre scherzavi con gli altri; hai quel tipo di risata di chi non si lascia andare spesso, liberatoria e trascinante, ed io ho pensato che sarebbe stato bello ridere così almeno per una volta.”
Rumer lo fissò a bocca aperta. Se chiudeva gli occhi poteva risentire la sabbia bagnata sotto i piedi e la gola secca per il freddo e il troppo urlare. Era stata una delle poche volte in cui si era sentita completamente in pace con il mondo, ebbra di gioia. E quello era stato il giorno in cui aveva incontrato per la prima volta  il suo assassino.
“Tu eri lì?”
“Si. Mi sei sembrata diversa da come ti avevo immagina attraverso i fascicoli che avevo letto sul tuo conto. Per un secondo ho pensato che se L ti avesse visto in quel momento sarebbe stato geloso di tutta la tua libertà.”
Sorrise amaramente. Le sarebbe piaciuto riprovare la stessa sensazione di quella notte.
Tornò a guardare fuori dalla finestra “Non ti ho mai visto al Dragonfly. Non che guardassi la clientela del locale, in genere.”
“Penso che tu abbia davvero una bella voce.” Se ne uscì lui improvvisamente.
“Ti ringrazio.” Rispose Rumer sorpresa.
Iniziò a mangiare la sua cena con calma. Quella conversazione l’aveva momentaneamente distratta dal sogno, ma ora che il silenzio era risceso su di loro, non aveva nulla con cui distrarsi.
Improvvisamente si sentì pronta per quella domanda che tanto l’aveva tormentata all’inizio, così decise di lasciarsi andare.
“Ryuzaki, tu hai conosciuto mio fratello di persona vero?”
Il ragazzo ci pensò un po’ su, mangiucchiandosi la sua solita unghia.
“Ho incontrato L una volta soltanto in tutta la mia vita.” Disse infine.
“Non andavate nello stesso istituto?” chiese lei sorpresa.
“Quando entrai alla Wammy’s House lui se ne era già andato via da un anno. Nessuno inoltre sapeva chi fosse. Neppure io lo sospettai la volta in cui ci incontrammo. Solo dopo capii di aver parlato con il mio idolo.”
“Quando è successo?”
“Dopo il funerale di A.”
Rumer sapeva che quello non era un argomento di cui Ryuzaki parlava volentieri, eppure il suo viso era inespressivo come sempre.
“A fu il primo bambino a togliersi la vita dentro la House e la notizia ovviamente sconvolse tutti. Fu in quel momento che iniziarono a chiedersi se quello che stavano facendo fosse giusto o sbagliato. Dopo la sua sepoltura rimasi soltanto io accanto alla tomba. Avevo voglia di stare da solo a riflettere su quello che era successo. Stavo elaborando la mia vendetta quando sentii dei passi dietro di me.
Era un ragazzo, piuttosto giovane, che non avevo mai visto all’interno dell’istituto. Il funerale era stato a porte chiuse, quindi mi chiesi come fosse venuto a saperlo.
Lui si avvicinò senza dire nulla e rimase tutto il tempo accanto a me a fissare la lapide con le mani in tasca. Ne fui subito intrigato: era la persona più strana che avessi mai visto, e all’orfanotrofio ne giravano di tipi fuori dal normale, ma non per qualcosa in particolare, era l’insieme a risultarmi bizzarro. Se ne stava li curvo, a succhiarsi un lecca-lecca, mentre guardava la tomba di A con un espressione triste, come se lo conoscesse da una vita, come se si sentisse responsabile della sua morte.
Non gli chiesi chi fosse, dal momento che potevo leggere il suo nome, così ci limitammo a restare vicini per un tempo interminabile.
Quando calò la notte e scese il buio sul cimitero si voltò e si incamminò da dove era venuto. Ricordo che dopo pochi passi si fermò e, senza voltarsi, mi disse “Un uomo che medita la vendetta, mantiene le sue ferite sempre sanguinanti*. Bisogna essere in grado di trasformare la propria rabbia in forza, e metterla al servizio di un bene superiore; ricordalo sempre B.”
Restai sconvolto dalle sue parole. Non avevo mai visto quel ragazzo in vita mia, non gli avevo mai parlato neppure una volta, eppure lui sembrava aver capito perfettamente che cosa mi passasse per la testa. Non mi aveva detto parole di conforto per la perdita di un amico, perché sapeva che il corpo sepolto in quella tomba non significava nulla per me; bensì il suo gesto mi aveva aperto gli occhi sulle ingiustizie che ci venivano fatte.
Nei giorni seguenti ripensai spesso alle sue parole. Ero disposto davvero a vivere una vita nel rancore pur di appagare la mia sete di vendetta, rinunciando a tutti gli insegnamenti, la fatica e le ingiustizie subite fino a quel momento?
La risposta era si. E questo lo sapeva anche L. Me lo aveva letto negli occhi proprio come io avevo letto il suo nome sulla fronte. Se non altro quell’incontro mi servì a chiarirmi una volta per tutte le idee.”
Rumer si chiese per quale motivo suo fratello non lo avesse fermato allora, quando ancora era un bambino e non aveva commesso tutti quegli omicidi.
La risposta era che non si potevano prevenire certi tipi di crimini e incolpare una persona ancora legalmente innocente. Oramai Ryuzaki aveva preso le sue decisioni, ma se solo L avesse messo più impegno nel cercare di fargli cambiare idea, forse nessuno di loro adesso si sarebbe trovato in quella situazione.
Era un terreno di pensiero scomodo, oltre che perfettamente inutile, quindi Rumer decise di cambiare argomento.
“Ho risolto il tuo enigma.”
“Sapevo che ci saresti riuscita.” Constatò tranquillo.
La ragazza glielo illustrò passo passo, riportando anche gli errori che aveva fatto e le date che aveva preso in considerazione prima del 22.
“Ho indovinato?” chiese infine.
Lui per tutta risposta si tolse una polaroid dalla tasca dei jeans e gliela poggiò delicatamente di fronte.
Rumer stentò a credere che la stessa persona che ora stava seduta accanto a lei avesse potuto compiere un tale scempio.
Stavolta però era preparata, così non diede segni di sconvolgimento.
La foto ritraeva una giovane donna completamente vestita, sdraiata supina sul pavimento, senza il braccio sinistro e la gamba destra.
Tentò di deglutire a vuoto “Non sapevo che le avessi tagliato anche la gamba.” Gracchiò.
“Quella l’ho dovuta lasciare sul luogo del delitto, altrimenti la polizia ci avrebbe messo troppo tempo a capire la soluzione.”
“Vuoi dirmi che finora ha capito qualcosa?” fece lei sarcastica.
“No, ma Misora non è così male. Credo che con un piccolo sforzo lei potrebbe arrivarci.”
Rumer ignorò il commento e tornò a guardare la fotografia. Bastava solo pretendere che fosse finta: un fotogramma di un film splatter. Cominciò a ragionare.
“Se hai lasciato loro la gamba e hai portato via il braccio volevi che si focalizzassero su quest’ultimo. Allora perché tagliare via anche la gamba?”
“Perché non serviva attaccata al corpo.” Rispose lui.
“Come diavolo hai fatto? Insomma ti ci sarà voluto un sacco di tempo, e non oso immagine l’enorme quantità si sangue lasciata in giro. Com’è possibile che non se ne sia accorto nessuno?” chiese stupita.
“La vittima viveva momentaneamente sola, in quanto l’altro coinquilino si trova in vacanza dall’altra parte del globo; e prima di mutilarla l’ho narcotizzata. In pratica, anche se è morta per dissanguamento, dormiva.”
Questo spiegava l’assenza di urla e la facilità di muoversi in quella casa avendo tutto il tempo che voleva a disposizione, ma “Perché l’hai rivestita? Insomma potevi lasciarla così.”
“Perché questo avrebbe distolto l’attenzione sulla vera funzione del cadavere.”
Ryuzaki aveva sempre usato le sue vittime come indizio principale per l’omicidio successivo.
Se a Quarter Queen aveva tolto gli occhi a Becky Bottomslash avevo amputato degli arti.
La gamba non era importante, ma il braccio si.
“Il braccio…” sussurrò.
Ricordò quando Ryuzaki lo aveva portato al magazzino e ficcato in una busta di plastica. Quello che l’aveva colpita era il bell’orologio legato al polso.
Questo le accese una scintilla; ricordò di aver visto un fatto simile in un film horror molto tempo prima, e la cosa l’aveva colpita.
Guardò il corpo nella foto: era sistemato in una posizione innaturale per un cadavere, per quanto potesse sembrare naturale una donna senza un braccio e una gamba.
“Ho capito, l’ho già visto in un film! Questa donna rappresenta un orologio: la testa indica la lancetta delle ore, il braccio i minuti e la gamba i secondi. E’ sistemata in modo troppo studiato per un cadavere. Ma sei lei è l’orologio, che cosa rappresenta il quadrante?”
“Non puoi cadermi sul più facile.” disse Ryuzaki.
Nella fotografia era ritratto solo il cadavere, quindi non sapeva cosa stesse puntando di preciso la testa della vittima. “La stanza…” azzardò la ragazza.
“Esattamente.”
Ryuzaki saltò in piedi e prese a camminare avanti e indietro “Becky Bottomslash era una ragazza piuttosto infantile nonostante la sua età; infatti possedeva molti pupazzi. Li ho sistemati in modo che ciascuna parete indichi un orario preciso.” Con il solito pennarello scrisse dei numeri ai quattro lati della fotografia.
“Le ore 6, 15 minuti e 50 secondi.” Lesse Rumer. Eppure qualcosa non quadrava in quella situazione.
“Ryuzaki, in tutti gli omicidi hai sempre lasciato un indizio preciso che indicasse la vittima successiva: o il nome, o l’indirizzo con le iniziali. Questa volta, che ti sei accanito così tanto sul cadavere, perché sei stato così vago? Insomma, la vittima potrebbe indicare sia le sei di mattina che quelle di pomeriggio…e poi un orario è troppo poco per capire qualcosa sull’ultimo omicidio.”
“Le tue constatazioni sono più che lecite, ma se ci pensi bene la successione di numeri non indica semplicemente l’ora, ma anche il posto preciso dove avverrà l’omicidio.” Spiegò il ragazzo.
Il posto preciso? 06-15-50 o 18-15-50.
“Mi dispiace, ma non mi viene in mente nulla. Né un distretto, né un indirizzo preciso qui a Los Angeles.”
“Tu pensi troppo in grande, devi restringere il tuo campo d’azione. 061550 è il codice catastale di un condominio a Pasadena. A mente è impossibile da capire, ma facendo delle ricerche, soprattutto se si è in polizia e se si hanno database di ricerca appositi a disposizione, risulta piuttosto semplice trovarlo.”
“Quindi in questo condominio, alle 6 o alle 18 del 22 Agosto ci sarà l’ultimo omicidio.”
“Esattamente. Peccato, stavo proprio iniziando a divertirmi con le indagini.”
La ragazza gli lanciò uno sguardo di rimprovero “Non mi hai raccontato che cosa è successo oggi sul luogo del secondo delitto.” Disse, tornando all’argomento principale.
 “E’ stato…interessante.” Rispose Ryuzaki “Forse ti farà piacere sapere che avuto un piccolo scontro con la signorina Misora questa mattina.”
“Scontro? Di che genere?”
“Ho tentato di ucciderla.”
Il boccone le andò di traverso, tanto che dovette trangugiare mezza bottiglietta di succo di frutta.
“Per quale motivo? Non hai detto che lei ti serve?”
“Certamente. Sapevo che non sarebbe morta, ma avevo bisogno di testare le sue capacità. Adesso so che è una donna in grado di affrontarmi, e capace di difendersi benissimo da sola. Credo che abbia praticato per qualche tempo la capoeira.”
Fantastico, anche tecniche di combattimento esotiche! Ce le aveva proprio tutte questa Naomi Misora.
“Ti ha riconosciuto?” chiese.
“No, l’ho attaccata alle spalle, ed avevo il volto coperto da una maschera. Non mi ha fatto nulla, praticamente sono fuggito subito e lei non mi ha inseguito, proprio come avevo previsto.”
“Ha risolto gli enigmi del secondo omicidio quindi?”
“Si; tutto grazie ad un buon caffè.” Rispose lui enigmatico. “Ormai manca un ultimo incontro prima del gran finale. Ti senti pronta Rumer?”
La ragazza lo guardò di sottecchi “Ryuzaki, c’è ancora una cosa che non mi è chiara. Se le iniziali delle vittime coincidono in qualche modo ai giorni di distanza degli omicidi la B corrisponde al 9 e la Q al 4. Avendo appurato che l’ultimo delitto si svolgerà dopo 9 giorni da quello precedente la vittima dovrà per forza avere le iniziali B.B. , giusto?”
Ma le sue iniziali erano R.L.
Un ghigno malvagio si aprì sul volto pallido del ragazzo. “Ancora una volta mi sorprendi con le tue intuizioni Rumer. Ma lascia che ti dica una cosa: la vita quasi sempre è fatta di scelte.”
“Non capisco.” Disse accigliata.
“Io invece credo proprio di si. Hai tutti gli elementi per tirare le somme adesso. Chi pensi sarà l’ultima vittima del caso di Los Angeles?”
La ragazza lo guardò frastornata. L’ultima vittima era B.B. e questa cosa era stata decisa fin dall’inizio, dal momento che sarebbe stato a 9 giorni di distanza dall’ultimo caso.
Ma che motivo aveva Ryuzaki di fermarsi così all’improvviso?
Il doppio senso dell’ideogramma 4? Se era stato adottato per le bambole, magari era valido anche per le vittime. Forse Ryuzaki temeva di essere catturato, ora che L era finalmente sceso in campo. Eppure lui aveva affermato che fin dall’inizio il detective sapesse chi fosse l’assassino, e Ryuzaki non sembrava tipo da spaventarsi di fronte ad un ipotesi del genere.
Se c’era una cosa di cui Rumer era assolutamente certa era che il ragazzo avrebbe voluto battere suo fratello a qualsiasi costo.
Questo pensiero la colpì improvvisamente.
Ryuzaki avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di superarlo, anche morire.
I suo occhi saettarono in quelli cremisi di lui, troppo scioccata per assimilare l’ipotesi che lei stessa stava formulando.
Lo aveva sempre saputo: Ryuzaki era stato il secondo successore di L dopo A. Questo automaticamente faceva di lui B.
Ecco che la vittima veniva a coincidere con l’assassino. Dunque era in questo che consisteva il suo caso irrisolvibile!
No.
Non poteva crederci.
Per tutto questo tempo lui aveva mirato soltanto a quello.
Il ragazzo sorrise vedendo la consapevolezza farsi strada nei suoi occhi.
Ingannare L, facendogli credere di aver cessato gli omicidi, quando invece era morto.
E anche se suo fratello lo avesse capito, non avrebbe potuto dimostrarlo in alcun modo; non avrebbe consegnato il criminale alla giustizia, e questo lo avrebbe automaticamente fatto perdere, garantendo la vittoria a B.
Il primo caso irrisolto del grande detective L. Ma che razza di gloria poteva mai esserci in una follia del genere?
“Non è possibile. Tu?” esalò con voce strozzata.
“Proprio io: B.”
“Ma che senso ha fare una cosa del genere?”
“Voglio dimostrare che esiste qualcuno in grado di batterlo. Te l ho detto: gli obiettivi esistono per essere superati. Schiacciati. E’ quello che ho intenzione di fare con lui: il criminale vincerà sul detective.” Sbottò a ridere in modo meccanico, senza gioia alcuna; i suoi occhi rimasero fermi e freddi.
“Ma morire non è come perdere, in fondo? Hai vissuto tutta la vita solo per questo? Chi se ne importa chi vince alla fine, non potrai certo gioirne da morto!”
“Non c’è altro modo.” Rispose deciso.
Portò lentamente una mano fredda sulla sua guancia, poggiandola delicatamente “Perché stai tremando Rumer?” sussurrò, socchiudendo le palpebre.
Non se n’era accorta. Si impose la calma, fallendo miseramente “Hai parlato di scelta.”
“E’ vero, lui dovrà scegliere tra catturare l’assassino o salvare sua sorella. Chi vincerà: la giustizia o il cuore? Finora ero certo che L non sarebbe intervenuto, perché sapeva che non ti avrei ucciso. Ma presto dovrà decidere se catturarmi prima che io compia l’ultimo delitto o venire qui a salvarti. Ovviamente lui non sa come ho architettato le cose, anche se potrei giurare che si è fatto un’idea ben precisa. Ti posso assicurare che ci sarà un finale col botto!” stavolta la sua risata fu spontanea e terrificante; le si attaccò dentro ghiacciandole lo stomaco dalla paura.
 
 
*citazione di Francis Bacon
 

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Capitolo 10
*** capitolo 10 ***


Quel giorno pioveva. La cappa che ricopriva Los Angeles si stava sciogliendo in un nubifragio violento che aveva notevolmente raffreddato l’aria.
Rumer guardava il lento scivolare delle gocce sul vetro, cullata dal loro rumore monotono.
Aveva impiegato dei giorni per assimilare l’ultima conversazione avuta con il suo rapitore.
Stava per morire, eppure non aveva paura.
Era piuttosto ovvio che suo fratello non avrebbe mai fatto in tempo a salvarla, troppo impegnato a catturare il più famoso serial killer in circolazione, dall’altra parte della città.
Anche chiedere l’aiuto della polizia a fine caso sarebbe stata una sconfitta per lui.
Se Naomi Misora avesse in qualche modo intuito qualcosa, forse avrebbe potuto fermarlo da sola, lasciando suo fratello libero di andare da lei.
Ma Rumer dubitava che un miracolo del genere potesse succedere, nonostante l’intelligenza già provata dall’agente in passato.
Non era mai stata una persona fortunata nella vita.
Certo, finire ammazzata in un magazzino dimenticato nella periferia di Los Angeles andava ben al di là della semplice sfortuna. Ma poteva davvero arrendersi al destino così facilmente?
No. Doveva lottare fino alla fine, era una questione d’orgoglio.
Ryuzaki era uscito presto come al solito quella mattina; sarebbe stata la sua ultima occasione per provare a scappare una volta per tutte.
Si mise a sedere e, dopo parecchi tentativi riuscì a far scivolare le braccia sotto al sedere, portando i polsi legati davanti a lei. La catena che la teneva imprigionata al palo non era molto lunga, ma abbastanza per permetterle di muoversi un po’ dal muro.
Si guardò le braccia segnate dai lividi per le manette: era dimagrita molto in quel mese di prigionia, tanto che gli anelli di metallo le stavano leggermente larghi attorno ai polsi scheletrici. Eppure per quanto tentasse di chiudere a riccio la mano non riusciva liberarsi.
Provò a tirare con forza, per scardinare il palo di ferro dal muro; provò ad allentare gli anelli della catena, il tutto senza successo. La mano era sempre troppo grande per passare attraverso le manette. Decise di non perdere la speranza.
Volse lo sguardo verso la finestra: l’unico modo per scappare era rompere il vetro e scendere dalla scala antincendio.
La pesante porta di ferro era chiusa da un catenaccio e non lo avrebbe mai aperto senza chiave. Guardò la pioggia scivolare sui vetri e, come in trance tornò a fissarsi i polsi. Aveva bisogno di qualcosa che facesse scivolare la pelle attraverso il ferro, smorzando l’attrito; come quando ti si incastra un anello e devi bagnare il dito per tirarlo fuori.
Chiuse gli occhi, presa da una vertigine improvvisa, ma capì che non c’era altro modo per provare a scappare.
Non aveva molto tempo e quella era la sua ultima occasione.
Con il cuore in gola avvicino la bocca al polso destro. Chiuse gli occhi e con tutta la forza che aveva affondò i denti nella carne, lacerandola.
Subito un mugolio le salì su per gola. Il dolore fu talmente lancinante da mozzarle il respiro e piegarla in due.
Il sapore del sangue le riempì presto la bocca, ma lei non si fermò, continuando a recidere a morsi la pelle.
Più in fretta che poté passò anche all’altra mano, prima che la perdita di troppo sangue le facesse perdere i sensi.
Aveva gli occhi annebbiati dalle lacrime, non riuscendo a reprimere i singhiozzi in alcun modo.
Ma non si fermò.
Cercò di impregnare più possibile i polsi con quel liquido scuro, strofinandoli tra loro per renderli sufficientemente scivolosi e, dopo uno sforzo interminabile, con un ultimo strappo riuscì finalmente a liberarsi dalle manette.
Si fermò un momento a riprendere fiato, ma non si aggirò per l’appartamento a cercare delle bende. Doveva scappare il più in fretta possibile.
In quel momento sentì il rumore della catena alla porta che veniva tolta.
No! Non poteva già essere tornato.
Corse nella camera adiacente e afferrò una sedia accanto alla scrivania, dopo di che la tirò con tutta la forza che le era rimasta in corpo contro la finestra, infrangendola.
Il rumore di vetri rotti attirò l’attenzione di Ryuzaki che si precipitò nella stanza, giusto in tempo per vedere la prigioniera fuggire dalla finestra.
Rumer si arrampicò, graffiandosi braccia e gambe coi vetri rotti;  cadendo a carponi sul ripiano della scala arrugginita fuori dal palazzo.
Era finalmente fuori. Libera.
La pioggia la bagnò improvvisamente, mischiandosi alle sue lacrime e al sangue che le aveva macchiato i vestiti, purificandola.
Si alzò barcollando, attenta a non scivolare sul ferro, ma prima di poter scendere anche solo un gradino sentì qualcuno afferrarla da dietro e tapparle la bocca con una mano, per evitare che gridasse e attirasse l’attenzione di qualche passante.
“Che diavolo…” il ringhio di Ryuzaki si bloccò non appena lui vide i suoi polsi. “Cazzo.”
Senza dire una parola la trascinò di corsa all’interno, poggiandola sul letto. “Che diavolo pensavi di fare?” ripeté strattonandola per le spalle. Da un cassettone vicino al letto recuperò bende e disinfettante, e prese a fasciarle immediatamente i polsi.
Rumer provò a dimenarsi, ma la presa di lui era ferrea, mentre lei sentiva la sua forza scemare velocemente.
“No!” urlò disperata “Lasciami… non voglio morire qui.” Singhiozzava senza riuscire a fermarsi.
“Se non blocchiamo l’emorragia morirai comunque, quindi sta ferma!” ringhiò.
“Lasciami andare, ti prego.” Per la seconda volta era quasi riuscita a scappare e si era invece ritrovata al punto di partenza.
Ryuzaki le poggiò due dita sulla carotide per controllare il battito cardiaco, che era notevolmente diminuito, poi tirò le coperte del letto, coprendola per bene. “Non posso permettermi che ti venga uno shock ipovolemico, non ho materiali sufficienti per curarti qui. Hai perso molto sangue ma se riusciamo a fermare il flusso entro pochi minuti dovresti essere fuori pericolo.” Disse con tono professionale.
La sua voce arrivò ovattata alle orecchie della ragazza, come un suono lontano e sconosciuto. Rumer percepì le gocce dei suoi capelli bagnati caderle sulle guancie, come lacrime artificiali.
“Non devi perdere conoscenza fino a che non sono sicuro di aver fermato il sangue.” Disse lui, armeggiando coi suoi polsi.
“La stanza…gira tutta.” Il suo corpo fu scosso da brividi, per la massiccia perdita di sangue; era innaturalmente pallida, la pelle ricoperta di sudore freddo. Aveva completamente perso la sensibilità alle mani.
Percepì distrattamente un forte calore invaderle il petto. Forse Ryuzaki le aveva iniettato un antidolorifico.
“Tu lo sai.” Sussurrò Rumer ad un tratto, guardandolo negli occhi amaranto.
“Che cosa?”
“Sai che non sto per morire.”
Gli occhi del ragazzo si posarono per un istante sulla sua fronte.
“Sei ancora viva solo perché sono dovuto tornare a prendere i documenti sull’indagine da mostrare a Misora nel pomeriggio. Era una cosa già stabilita quindi non è stata alterata la tua durate vitale. Capisci cosa intendo? Saresti morta senza dubbio per strada se non ti avessi trovato in tempo.
Hai pensato al fatto che il tuo corpo è indebolito per la scarsità di cibo e movimento nell’ultimo mese, prima di prenderti a morsi i polsi? Certo che no! E’ questo il tuo problema Rumer: tu attivi il cervello a prendere iniziative solo quando non è necessario. Saresti collassata a meno di due isolati da qui. Con questo tempo poi non c’è nessuno in giro, questa è una zona poco frequentata. Se non fossi dovuto rientrare adesso non so dove saresti.” Sbottò.
“Sarei libera! Che ti importa di salvarmi se tanto devo comunque morire tra due giorni; hai paura che salti il tuo piano?” gemette. Non poteva sopportare che la sua vita dipendesse da colui che voleva togliergliela.
“Tu non sai che cosa farà tuo fratello.” Rispose.
“Tu invece si? E’ per questo che sei tanto sicuro della tua vittoria, perché non morirò?”
Troppe domande e nessuna risposta da parte di Ryuzaki.
Stava lottando con tutta se stessa per rimanere sveglia, ma sentiva la forza fluire via dal suo corpo senza che lei riuscisse a contrastarla. I brividi erano cessati e una calma innaturale si stava impossessando di lei.
“Dimmi perché lo hai fatto.” Disse Ryuzaki, spostandole dolcemente i capelli bagnati dalla fronte.
“Perché io sono come A. Mi è rimasta soltanto questa scelta.”
Non vide gli occhi del ragazzo spalancarsi per la prima volta dalla sorpresa, poiché cadde in un coma profondo.
 
La sensazione del cotone sotto la guancia le fece credere per un momento di trovarsi a casa sua.
Era adagiata in un letto vero, non certo morbido dal momento che sembrava più una branda, eppure dopo così tanti giorni abituata a dormire per terra sembrava il paradiso. Un profumo dolce impregnava le lenzuola: sapeva di muschio con un retrogusto di fragole. Il suo odore.
Rumer si accorse di avere caldo; era adagiata sotto una vecchia coperta polverosa.
Che accidenti ci faceva in un letto?
Aprì gli occhi e puntò lo sguardo al soffitto: era notte fonda e le luci della strada formavano globi ambrati sul soffitto. Aveva smesso di piovere, ma l’odore della terra bagnata entrava dalla finestra rotta rinfrescando l’aria.
Guardò distrattamente le braccia abbandonate sopra le lenzuola, fasciate dalle strette bende che le aveva messo Ryuzaki.
Che diavolo le era venuto in mente?
La smania di scappare le aveva fatto sembrare quell’idea davvero buona, ma a mente fredda capiva di aver sfiorato la morte per un soffio. Grazie a lui.
Provò ad alzarsi, ma si accorse di non averne la forza. Scivolò giù dal letto, cadendo a carponi, e avvertendo come una scossa elettrica nelle braccia. Non aveva ancora riacquistato del tutto la sensibilità; ci sarebbe voluto del tempo per quello.
Ryuzaki apparve subito sull’uscio, la luce lo illuminava da dietro e non riuscì a vederlo in viso.
“Sei recidiva allora.” Disse sarcastico.
“Devo andare in bagno.” Gracchiò.
Provò a trascinarsi sul pavimento, ma lui entrò nella stanza e senza dire una parola la prese in braccio senza sforzo, come una novella sposa, e la accompagnò in bagno.
Rumer rimase stupita dal suo gesto, però non lo diede a vedere, circondando il suo collo con le braccia per non cadere.
Mentre la lasciava in pace, Ryuzaki andò a prendere una maglietta bianca pulita.
Rientrò senza dire una parola, alzandola in piedi con delicatezza e sfilandole il vestito sporco di sangue dalla testa.
La ragazza guardò con interesse quel pezzo di stoffa rossa spiccare tra le mattonelle bianche del pavimento “Quel vestito era destinato a finire nel sangue.” Sussurrò, ripensando a Quarter Queen.
Era completamente nuda, di fronte a Ryuzaki, eppure non provava il minimo imbarazzo.
Si sentiva come un guscio vuoto.
C’è una soglia oltre la quale il pudore perde ogni significato. Lei l’aveva superata da un pezzo nei suoi confronti.
Il ragazzo le alzò piano le braccia e le infilò la maglietta pulita, stando attento a non toccare le bende. Era piuttosto larga, le arrivava a metà coscia, ma era immacolata e questo sembrò rincuorarla. Si guardarono per un lungo istante, in cui Rumer si chiese se l’avrebbe rincatenata al muro della stanza con la telecamera.
“Questa notte dormirai nel mio letto. Non posso rischiare di metterti le manette e riaprire le ferite.” Disse lui, leggendole la mente.
La prese nuovamente in braccio e la riportò in camera.
Rumer trasalì quando lo sentì sdraiarsi accanto a lei. Il materasso non era molto grande, obbligando i due corpi a stare a stretto contatto.
“Hai paura che tenti di nuovo la fuga?” chiese ironica.
“No. Sono semplicemente stanco.” Le sue profonde occhiaie lo confermavano.
Il silenzio calò nuovamente tra loro; erano sdraiati al buio ognuno perso nei propri pensieri, a fissare il soffitto.
Un tempo gli avrebbe chiesto come erano andate le indagini con Misora quel pomeriggio, ma sentiva che quella curiosità apparteneva ad una vita precedente.
“Se solo potessi vedere la morte del mondo…” mormorò Ryuzaki all’improvviso, così piano che Rumer pensò di averlo immaginato.
“Vedere la morte di ognuno non è un po’ la stessa cosa?” chiese.
“Il mondo riesce vivere senza l’uomo, ma non può accadere il contrario.” Rispose lui in modo ovvio.
“Capisco. Ryuzaki…in tutti questi anni c’è mai stato un momento in cui hai pensato che non ne valesse la pena? Rinunciare a tutto per L intendo.”
“No.” Secco, deciso.
La ragazza lo aveva sospettato. In quel momento Ryuzaki le ricordò uno di quei terroristi di cui l’America aveva tanto paura; pronto a morire pur di compiere il proprio atto di fede. Persone così non erano degne di questo nome per lei: erano automi. Proprio come il ragazzo che giaceva nel buio accanto a lei; non esprimevano mai un’emozione, un pensiero superficiale, uno sguardo o una parola fuori posto. Erano maschere di ferro che vivevano alimentate solo dalla propria rabbia cieca.
E lei voleva suscitare in Ryuzaki una qualsiasi emozione che non fosse la rabbia.
Voleva fargli capire che c’era tanto altro nel mondo che valeva la pena di essere vissuto.
Ma sapeva perfettamente che a lui non interessava vivere.
Non gli interessava nulla al di fuori della sua vendetta.
Anche quel giorno, quando le aveva salvato la vita, non lo aveva fatto per lei, ma solo perché se fosse morta avrebbe sconvolto il suo piano.
Parlava tanto di caos quando invece era lui il primo a seguire il programma. Non era diverso da L in questo; anzi erano così uguali che nemmeno Ryuzaki se ne rendeva più conto. Si illudeva di imitarlo soltanto, quando invece l’essenza del detective era impressa a fuoco nella sua anima, come parte integrante di lui.
Rumer fu colta dal freddo a causa della finestra rotta che faceva entrare il vento notturno, rinfrescato dal recente nubifragio.
Si girò su un fianco e strinse il lenzuolo tra le mani, reprimendo un brivido.
Sentì Ryuzaki muoversi nel buio e cingerla con le braccia da dietro, facendo aderire il petto contro la sua schiena, e coprendo entrambi con l’unica coperta.
Rumer si irrigidì di botto, ma si accorse subito dopo che il corpo del ragazzo era incredibilmente caldo, così si accoccolò tra le sue braccia, chiudendo gli occhi.
“In questo momento il tuo cuore sta pompando molto lentamente il sangue, è normale che tu abbia freddo.” Disse lui. Percepì il suo fiato solleticarle la nuca.
“Così però tu morirai di caldo.” In fondo era pur sempre Agosto.
“Sto bene.” Disse atono.
Ryuzaki aveva sempre il potere di confonderla. Se più di una volta le era capitato di pensare che sarebbe morta per mano del ragazzo, in altri momenti restava sconcertata dalla sua delicatezza.
Ad ogni modo aveva rinunciato a comprenderlo; era pur sempre un folle squilibrato.
Provò a rilassarsi al ritmo del suo respiro. Da quanto tempo non dormiva con un uomo?
E lui quante donne aveva avuto nella sua vita?
Con queste assurde domande scivolò in un sonno profondo e senza sogni.
 
 
 
Il calore dei raggi del sole sul viso la risvegliarono lentamente.
Il rumore proveniente dalla strada entrava con forza dalla finestra rotta.
Rumer aprì gli occhi di malavoglia, rendendosi conto di trovarsi sola nel letto. Si concesse un po’ di tempo per stiracchiarsi e riemerse dalla matassa della coperta polverosa, chiedendosi dove fosse finito il suo ‘coinquilino’.
La testa scura e spettinata di Ryuzaki gli apparve ai piedi del letto. Era seduto a terra, con la schiena poggiata al materasso, intento a fissare una mappa sulla parete di fronte.
Senza alzarsi Rumer si rigirò tra le coperte raggiungendolo. Il ragazzo doveva essersi accorto che si era svegliata, ma non disse una parola, intento a leccarsi le dita dalla solita marmellata di fragole.
Rumer si sporse sulla sua spalla e gliene rubò una grossa manciata dal barattolo, ficcandosela in bocca e assaporandola lentamente. Quello era il sapore di Ryuzaki, e lei ormai ne era assuefatta.
“Dovresti mangiare qualcosa di più sostanzioso. Ti ho messo degli integratori di ferro sul comodino.” Disse il ragazzo senza guardarla.
Rumer lo ignorò e si mise a fissare la parete a sua volta.
Los Angeles.
22 Luglio croce rossa sul LAPD.
27 Luglio croce rossa su East L.A.  con accanto le iniziali R.L.
31 Luglio croce rossa su Hollywood B. B.
4 Agosto croce rossa su Downtown. Q. Q.
13 Agosto croce rossa su West L.A. B. B.
22 Agosto croce rossa su Pasadena. B. B.
I volti delle vittime la guardavano sorridenti da qual muro; ma nei loro occhi poté scorgere una velata accusa.
Sospirò: non avrebbe potuto salvarli comunque; e poi anche lei stava rischiando la vita.
“Dimmi Rumer qual è la cosa più difficile da fare quando bisogna uccidere una persona?”
La domanda di Ryuzaki la lasciò interdetta. E lei che ne sapeva? Non aveva mai ucciso nessuno prima, neanche ci aveva mai provato!
“Immagino non lasciare tracce sulla scena del delitto.” Disse dopo un po’.
“Quella è una conseguenza. La cosa più difficile è proprio uccidere. Gli esseri umani sono fatti in modo da non morire facilmente. Infatti sono creature molti più forti di quanto si pensi: a maggior ragione la loro resistenza si fa estrema nel caso sia un altro essere umano a volerli uccidere. Nessuno vuole morire. Chiunque per difendersi probabilmente è disposto ad uccidere.”
Discorso affascinante se non fosse risultato proprio lui il suo futuro assassino.
“Non mi sembra che tu abbia avuto difficoltà con loro. Al massimo con la prima vittima, che era un uomo adulto. Ma una bambina e una ragazza non mi sembrano vittime particolarmente difficili.”
“Non sto parlando di loro, in fondo erano destinati a morire quel giorno. Ucciderli è stato un processo quasi…naturale.” Disse col suo solito tono indifferente “Sto parlando di me.”
Rumer si alzò a sedere di scatto, allontanadosi da lui.
“Cosa?”
“C’è una cosa che non ti ho detto. Io posso vedere la morte di qualsiasi essere umano, ma non posso vedere la mia.”
La ragazza non seppe cosa dire.
“E’ così fin dalla nascita, non so perché.” Fece lui alzando le spalle. “L’istinto di sopravvivenza è qualcosa di assolutamente naturale, che non può essere controllato; perfino nei suicidi si manifesta, anche se in minima parte. Devo trovare un metodo veloce ed efficace. Non avrò molto tempo a disposizione.” Ragionò.
“Sparati un colpo in testa.” Suggerì lei scettica.
“Dimentichi la parte fondamentale del piano: l’ultima vittima non deve essere riconoscibile, altrimenti L risolverà il caso.”
Rumer guardò le foto sulla parete: l’assassino aveva sperimentato sempre morti diverse con le sue vittime.
Strangolamento, lesione e accoltellamento.
In che modo non si poteva rendere riconoscibile un cadavere? Serviva qualcosa che non destasse sospetti alla polizia, oltre che lo rendesse irriconoscibile agli occhi di L.
Le vennero in mente quei film d’azione dove gli assassini dovevano disfarsi in fretta di un corpo.
“Combustione.” Sussurrò.
“Precisamente. Liquidi infiammabili si trovano in tutte le case. Inoltre in questo modo la polizia non potrà stabilire se c’è stato accanimento sul cadavere come negli omicidi predenti. Le impronte digitali verranno cancellate, e si sa che un corpo carbonizzato non è facile da riconoscere. Stavolta non lascerò alcun indizio sulla scena del crimine e il caso verrà dichiarato irrisolto.” Sembrava soddisfatto del suo folle piano.
“Vuoi davvero darti fuoco?” chiese lei con voce strozzata.
“Non è molto diverso da prendersi a morsi i polsi e rischiare di morire dissanguata.” Constatò il ragazzo.
“Io l’ho fatto per sopravvivere, non per morire!” urlò.
“Io lo sto facendo per vincere.” Si voltò di scatto e la inchiodò coi suoi occhi rossi.
Non aveva senso, era terribile anche solo pensarci.
Rumer guardò la sua pelle bianca e liscia, perfetta come una maschera di porcellana. Lo immaginò avvolto dalle fiamme, con le sue iridi cremisi, mentre gridava simile ad un demone risputato dall’inferno.
Avrebbe voluto dirgli di non farlo, ma a che scopo?
Infine abbassò gli occhi sui suoi polsi fasciati, sconfitta.
Avvertì la mano di Ryuzaki sfiorarle delicatamente i capelli “E’ il nostro ultimo giorno insieme, non dovremmo parlare di cose così tristi.” Si alzò in piedi, lasciandola seduta sul letto. “Mi raccomando prendi gli integratori.” Disse amorevolmente prima di uscire dalla stanza.
 
Rumer passò un tempo interminabile avvolta in quella vecchia coperta a fissare la finestra rotta.
Non sarebbe andata da nessuna parte, oramai. Non ne aveva la forza e questo lo sapeva anche Ryuzaki, per questo l’aveva lasciata sola.
Su di lei aveva indiscutibilmente vinto.
La ragazza si sporse e afferrò le pasticche rosse sul comodino, buttandole giù con un sorso d’acqua tiepida.
Si alzò tremolante, accostandosi al cassettone di ferro accanto al letto; aveva intravisto i suoi vestiti sporgere dal primo cassetto.
Ryuzaki doveva averglieli lavati, ma poi non glieli aveva più restituiti.
Prese a fissare i suoi pantaloni neri tra le mani come se fossero appartenuti ad un estraneo.
Era passato un mese.
Strano quanto il tempo risulti relativo in base a come lo si vive. Si sentiva prigioniera da un anno.
Con lentezza studiata iniziò vestirsi; si tolse la maglietta bianca di Ryuzaki e la ripose nel cassetto piegata, sostituendola con la sua più corta e stretta, infilò i pantaloni che nel frattempo le erano diventati leggermente larghi.
Si guardò in giro alla ricerca di uno specchio, ma non ne trovò nessuno appeso alla parete.
Meglio così.
Si avvicinò alla finestra, stando attenta a non calpestare i vetri sul pavimento, e si lasciò scaldare la pelle dal sole di Agosto.
La strada sottostante era un’anonima via tra due casermoni di cemento grigio. Ogni tanto passava una macchia con la musica a tutto volume che usciva dai finestrini abbassati.
Quello, con molta probabilità, era il suo ultimo giorno di vita. Che cosa avrebbe dovuto fare?
Si dice sempre che se un uomo sapesse esattamente quale sarebbe il suo ultimo giorno lo vivrebbe al massimo, facendo tutte le cose che non ha mai potuto fare prima. E lei?
Avrebbe voluto rivedere i suoi amici: Rachel, Ed, Mark e gli altri ragazzi che avevano più o meno lasciato un segno del loro passaggio nella sua vita.
Avrebbe voluto vedere suo fratello e dirgli che in fondo non ce l’aveva davvero con lui.
Sarebbe tanto voluta andare in vacanza in un bel posto di mare come le Maldive, o uno di quei paradisi tropicali che ti fanno vedere nelle pubblicità d’inverno.
Forse le sarebbe semplicemente piaciuto restare sola, seduta a Central Park a mangiare i suoi amati muffin ai mirtilli.
Ma più ci pensava, più si rendeva conto che tutte queste cose non avevano importanza.
Per tutta la vita non aveva fatto altro che scappare di città in città, spezzando legami e non lasciando tracce di sé alle spalle.
Aveva sempre vissuto come le pareva e per questo si era sempre sentita libera.
In realtà si era accorta di essere semplicemente sola.
“A cosa stai pensando?” sentì la voce tranquilla di Ryuzaki dietro le spalle.
“A come si presuppone che una persona debba vivere il suo ultimo giorno di vita.”
“Capisco. Ultimi desideri da esprimere?”
La ragazza rise “Perché tu li esaudiresti?”
“Dipende dal tipo di desiderio.” Rispose pacato.
“Dimmi dei tuoi, in fondo questo è anche il tuo ultimo giorno.”
“Io non ho rimpianti, e sto per compiere il mio ultimo desiderio.”
Si voltò a guardarlo, era poggiato allo stipite della porta, con la sua solita postura curva e le mani in tasca.
Era strano sapere che qualcosa li legava indissolubilmente: stavano per affrontare lo stesso destino, e questo in qualche modo li portava entrambi dalla stessa parte.
Non fecero nulla per tutto il giorno.
Rumer lo passò sdraiata sul letto a guardare fuori dalla finestra, mentre Ryuzaki si chiuse nella stanza adiacente.
Appena dopo il tramonto la raggiunse con il solito barattolo di marmellata di fragole e un cartone di latte.
“Stavo riflettendo su una cosa.” Lo apostrofò la ragazza “Come farai a suicidarti se anche Misora sarà con te sul luogo dell’ultimo delitto? Non avete risolto insieme l’enigma dell’orologio?”
“Infatti. Staremo insieme, ma non controlleremo lo stesso posto. Nel condominio di Pasadena ci sono due appartamenti probabili come scena del crimine: il 1313 e il 404. Entrambi i proprietari hanno le iniziali B. B, e tramite una scusa li abbiamo convinti a passare la giornata in una lussuosa suite.
Uno appartiene a Blues-harp Babysplit, e sarà quello che occuperò io; mentre l’altro è abitato da una certa Blackberry Brown, dove si sistemerà Misora.”
Davvero un colpo di fortuna, pensò Rumer.
“Sei davvero sicuro che il tuo piano funzioni?” insistette dopo un po’ “Insomma ho capito che vuoi inscenare il tuo suicidio come se fosse un omicidio, ma in base al metodo che mi hai spiegato hai necessariamente bisogno di due chiodi per creare una camera chiusa. E ti è rimasta una sola wara ningyo.”
Ryuzaki la fissò a lungo senza dire una parola. Il suo sguardo rosso la stava mettendo davvero a disagio.
“Che c’è?” sbottò esasperata.
“Anche Misora ha insistito parecchio sulle camere chiuse, ma alla fine sono riuscito a convincerla che l’assassino avesse semplicemente usato una copia della chiave. Questo è l’ultimo delitto, dopo di che nulla avrà più importanza, e lei non potrà dimostrare assolutamente niente. Non si può interrogare un cadavere.” Disse lentamente.“Ad ogni modo sono impressionato ancora una volta dalla tua capacità di osservazione. Sei riuscita a capire da sola l’unica falla del mio piano, e senza aver mai visto la scena del crimine. Attraverso i tuoi ragionamenti non solo hai risolto ogni singolo enigma, ma avresti potuto benissimo farmi arrestare. Se sei davvero così dotata, per quale motivo Wammy non ti ha portato con sé all’orfanotrofio?” chiese, più a sé stesso che a lei.
“Ti sbagli Ryuzaki. Io non sono affatto ‘dotata’ come dici. Mi hai fornito tu tutti i dettagli necessari per risolvere il caso! Da sola non avrei capito neppure la metà degli indizi. Mio fratello meritava di andare in quella scuola per piccoli geni, non certo io.”
“L meritava di andare alla Wammy’s  House e tu no…” sussurrò lui in trance.
“Smettila di fare ragionamenti assurdi.” Lo apostrofò la ragazza “Essere intelligenti è molto diverso da essere geniali, lo hai detto anche tu.”
“Forse hai ragione.” Concesse Ryuzaki. “Eppure non riesco a fare a meno di pensare che dietro a questa storia ci sia un motivo diverso. Senza ombra di dubbio non sei allo stesso livello di L, ma il problema non sei tu, bensì lui.”
“Che cosa intendi dire?”
“Che se Wammy ha deciso di separarvi è perché temeva che tu rappresentassi una distrazione per tuo fratello. Sarebbe stato molto più facile controllare e sfruttare un solo bambino, rispetto a due. Nessun legame con la vita passata: questa è la prima regola alla Wammy’s House.”
Rumer rimase in silenzio ad assimilare quella terribile ipotesi.
“Non ha più importanza, ormai.” Sospirò alla fine. “Ci hanno diviso; siamo entrambi cresciuti adesso e nessuno potrà ridarci il tempo che abbiamo passato lontani.”
Non sapeva se sarebbe sopravvissuta il giorno dopo: preoccuparsi sul passato le sembrava un’inutile perdita di tempo.
Mangiarono la marmellata in silenzio, mentre il buio invadeva la stanza, creando un muro tra loro.
Dopo un po’ Ryuzaki  si alzò e si avvicinò alla finestra. La luce dei lampioni illuminava il suo profilo pallido e privo di espressione.
“Se ti ho fatto tutto questo è solo ed esclusivamente perché sei sua sorella. Non ho mai avuto niente di personale nei tuoi confronti, le nostre strade non si sarebbero mai dovute neppure incrociare.
Ti ho osservato così tanto che mi sembra di conoscerti meglio di chiunque altro, eppure non provo niente per te. Non sento alcun rimorso, ma non ti odio neppure. Non cerco il tu perdono, voglio solo che tu capisca che eri l’unico mezzo per fargliela pagare. Soltanto questo.”
Lei non disse nulla, si limitò a stringere le ginocchia al petto e a fissare le fotografie spillate sulla mappa.
“Hanno pagato troppe persone per questa lotta tra di voi. Una vita per una vita: solo A è morto in fondo; perché non ti sei limitato ad uccidere me e basta?”
“Perché sarebbe stato troppo semplice. Io voglio una vittoria schiacciante nei confronti di L, e un solo omicidio sarebbe passato inosservato agli occhi del mondo. Voglio umiliarlo.”
Rumer si alzò di scatto e si diresse in bagno; le mancava improvvisamente l’aria.
Tuffò la testa sotto l’acqua fredda del lavandino, stringendo con forza i bordi di marmo bianco.
Un mezzo.
Non valeva assolutamente nulla.
Anzi sarebbe stata perfino troppo semplice da eliminare.
Sentiva la rabbia premerle nel petto come una bolla d’aria, ma restava incastrata e non riusciva a esplodere. Avrebbe voluto urlare, piangere, reagire in qualche modo; invece ancora una volta si sentiva inutile ed impotente di fronte ad una situazione più grande di lei.
Tornò in camera e si sdraiò rivolta verso il muro, senza aggiungere una parola, proprio come una bambina offesa.
Ryuzaki non disse nulla; si limitò a lasciarla sola e chiudersi nella stanza affianco.
 
 
 

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Capitolo 11
*** capitolo 11 ***


Era ancora notte fonda.
Rumer era sicura di non aver chiuso occhio per più di mezz’ora, quando sentì Ryuzaki prenderla in braccio. Il ragazzo la portò nella vecchia stanza con la telecamera e la ammanettò al centro con le braccia sopra la testa.
Le manette erano ancora sporche del suo sangue secco, e risaltavano ancora di più sui suoi polsi fasciati.
“Apri la bocca.” Ordinò.
Rumer lo guardò confusa senza reagire, così lui le afferrò la mascella facendogliela aprire a forza.
La ragazza si lasciò sfuggire un mugolio di dolore, il quale venne prontamente soffocato da uno straccio che le fu ficcato in bocca senza tante cerimonie, fermato con del nastro adesivo.
Armeggiando al buio Ryuzaki le legò qualcosa di pesante addosso.
Con orrore Rumer si accorse che era un gilet imbottito di candelotti di esplosivo, legati tra loro da vari fili colorati, collegati ad un timer. Era un bomba rudimentale, fatta con materiali facilmente reperibili in casa, ma non per questo meno pericolosa.
“Ti piace? Ci ho messo un giorno intero per farla. Ma non preoccuparti, io sono un mago con gli esplosivi e questo giocattolino è assolutamente sicuro. Non esploderà prima delle 18:50 di questo pomeriggio.” Affermò soddisfatto.
La ragazza cercò di urlare, strattonando le manette, assolutamente in preda al panico; ma tutto quello che le uscì furono dei mugolii appena udibili.
“Fossi in te cercherei di muovermi il meno possibile, non sia mai che lo spostamento repentino d’aria possa creare una scintilla a contatto con l’esplosivo.” Le suggerì il ragazzo.
Rumer si arrestò di colpo.
“Non guardarmi in quel modo, ti ho spiegato che non c’è nulla di personale in questo.” Sussurrò piano, accarezzandole dolcemente i capelli. “Sei stata davvero una buona compagnia, a parte qualche piccola incomprensione. Probabilmente, in un’altra vita saremmo anche andati d’accordo. Non penso che ci rivedremo ancora; se mai dovesse accadere sarà per l’ultima volta.” Disse, mentre i suoi occhi cremisi si posarono sulla sua testa.
La ragazza tremava incontrollabilmente, mentre fissava il suo aguzzino con occhi spalancati dal terrore, in una muta preghiera.
Ryuzaki la fissò per un lungo istante: sembrava morisse dalla voglia di dirle qualcosa; invece si limitò ad avvinare le sue labbra sottili e screpolate alla sua fronte, poggiandole in un casto bacio paterno.
Senza aggiungere altro si voltò e uscì da quella stanza per l’ultima volta, lasciando la ragazza sola in compagnia della telecamera accesa.
 
Il battito furioso del suo cuore era più inquietante del ticchettio dell’orologio a cui era collegato l’esplosivo.
Aveva perso completamente la cognizione del tempo. L’impressione di trovarsi in un incubo non era mai stata forte come in quel momento; si sentiva come in uno di quei film d’azione che tanto detestava: imprigionata in un magazzino deserto, con una bomba legata al petto.
Non voleva morire, non in quel modo. Avrebbe preferito qualsiasi altro metodo, ma la sola idea di saltare per aria le faceva stringere lo stomaco in una morsa di terrore.
Perché le altre vittime erano state addormentate mentre lei era stata lasciata cosciente e sola per tutto quel tempo? Avrebbe dato qualunque cosa pur di perdere i sensi.
Pregò intensamente per tutto il giorno, come non aveva mai fatto in vita sua. Non avrebbe mai più toccato un solo goccio d’alcool se fosse sopravvissuta.
Pensò a suo fratello: dove si trovava in quel momento? L’avrebbe trovata in tempo? Sarebbe bastato tagliare un dannato filo rosso per salvarle la vita?
Si era perfino stancata di piangere e urlare. Tutto quello che poteva fare era vedere l’arco del sole diminuire fuori dalla finestra.
Più il tempo avanzava, meno riusciva a rimanere lucida. Ryuzaki le aveva assicurato che la bomba non sarebbe esplosa prima delle 18:50, ma come faceva a fidarsi davvero delle sue parole? In fondo lui voleva che lei morisse per farla pagare ad L.
Abbassò lo sguardo sull’orologio legato al petto: le 16:54.
Mancavano meno di due ore.
Fu presa da un attacco di panico: il fiato si bloccò nei polmoni, mentre la testa iniziò a girare vorticosamente.
All’improvviso sentì un rumore.
Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, per attirare l’attenzione di chiunque fosse entrato nell’appartamento; ma appena vide quella persona affacciarsi alla porta perse il minimo di lucidità che le era rimasta.
Capelli neri spettinati, postura ingobbita, carnagione pallida.
-Se mai dovessimo rivederci, sarà per l’ultima volta.- aveva detto.
Chiuse gli occhi, tremando incontrollabilmente. Era lui, ed era venuto ad ucciderla; stavolta per davvero.
Magari farle credere che si sarebbe suicidato faceva parte del suo piano per torturarla.
Sentì una mano strapparle il nastro adesivo, liberandole la bocca per permetterle di respirare meglio.
“Rumer…” non fece in tempo a farlo parlare che prese ad urlare come una pazza.
“No! Vattene via, non mi toccare!” strillò completamente fuori di sé. Scuoteva la testa ad occhi chiusi, rifiutandosi di aprirli.
“Rumer, ti prego calmati!” Il suo cervello finalmente registrò che qualcosa stava andando storto.
Perché Ryuzaki sembrava sinceramente in ansia per lei?
Perché sentiva le sue mani armeggiare con il giubbotto esplosivo?
“Ho bisogno che tu stia ferma.” Ordinò.
Lei non riusciva a smettere di tremare. “Perché…perché sei tornato? Mi vuoi uccidere? Allora fallo una volta per tutte! Ti prego uccidimi…non ce la faccio più. Hai vinto tu, ma basta.” Singhiozzò al limite.
Il ragazzo non disse nulla; ma presto Rumer sentì uno strappo inquietante, e subito dopo un peso levarsi dal suo petto.
Il giubbotto con l’esplosivo.
E lei era ancora viva.
Non capiva cosa stesse succedendo. Forse era impazzita definitivamente.
“Rumer, guardami.” La voce incolore del ragazzo stavolta aveva una nota di preoccupazione che la rendeva in qualche modo stonata, diversa dal solito.
Si sentì scuotere piano per le spalle, così decise di aprire gli occhi.
“Non voglio farti alcun male. Ti prego guardami, sono io.”
Sul viso del ragazzo, sotto la folta chioma spettinata di capelli scuri, spuntavano due occhi contornati dalle solite occhiaie. Ma stavolta erano neri, profondi come la notte. Non erano rossi e malvagi; quelli erano i suoi occhi.
“Law…Lawliet?” sussurrò senza fiato.
La sua mente non riusciva ad assimilare il fatto che l’immagine di suo fratello e quella del suo aguzzino combaciassero alla perfezione; eppure quegli occhi li avrebbe riconosciuti tra mille.
“Sei proprio tu?”
Il ragazzo le accarezzò dolcemente una guancia “E’ tutto finito adesso. Il Serial Killer chiamato Beyond Birthday è stato arrestato due ore fa nei pressi di Pasadena con l’accusa di omicidio plurimo e sequestro di persona. In questo momento si trova nel reparto medico del California State Prison LAC con ustioni di terzo grado. Sinceramente non sappiamo se ce la farà.” Spiegò L in fretta per tranquillizzarla.
Ryuzaki era stato arrestato e stava per morire. Allora era davvero tutto finito?
Guardò il ragazzo di fronte a lei: il grande detective L. Suo fratello.
“Mi dispiace Rumer. Se non mi perdonerai mai per quello che è successo io lo capirò, ma da questo momento in poi ti giurò che mi occuperò personalmente di te, come non ho mai fatto fino ad ora.”
Non poteva crederci, troppe emozioni tutte insieme. Sentì che le manette venivano aperte, lasciandole cadere le braccia a peso morto.
Prontamente venne afferrata da suo fratello.
Si gettò tra le sue braccia, sciogliendosi in un pianto disperato e liberatorio. Lo strinse con tutta la forza che le era rimasta, come se temesse che potesse sfuggirle da un momento all’altro.
Ora che finalmente erano di nuovo insieme nessuno li avrebbe separati, ma più.
Riusciva a percepire il suo tormento, mentre la sosteneva con braccia tremanti, e le sue mani si aggrappavano alla sua schiena ingobbita. Avrebbe voluto dirgli che non ce l’aveva con lui, che non lo odiava per quello che le era stato fatto, ma non riusciva a parlare.
Per le parole ci sarebbe stato tanto tempo in futuro.
“Andiamo via.” Sussurrò il detective dolcemente non appena si fu calmata un poco.
Rumer si staccò da lui e annuì, asciugandosi gli occhi.
Non pensava che sarebbe mai uscita da quel magazzino dalla porta principale camminando sulle proprie gambe. Viva soprattutto.
Fece un respiro profondo e oltrepassò la pesante porta di ferro.
Per la prima volta dopo tanti giorni si ritrovò a camminare per strada.
Il sole era ancora alto su Los Angeles e la vita continuava a scorrere tra quei casermoni grigi, senza curarsi delle due persone che stavano uscendo da quel magazzino abbandonato.
Rumer, che si era aspettata di trovare un’ambulanza, o quanto meno una volante della polizia, restò sorpresa di fronte all’elegante limousine nera parcheggiata davanti all’ingresso del palazzo.
Un uomo distino, con dei bei baffi bianchi, le stava tenendo aperta la portiera.
“Sono felice di vederla, signorina.” Disse con accento impeccabile, sorridendo gentilmente.
Fu come rivivere un dejà vù: stessa macchina e stesso signore di quel giorno, solo che adesso anche a lei era permesso di andare via con loro.
Rumer gli fece un cenno di saluto con la testa e salì in macchina, senza voltarsi a guardare indietro neppure una volta, lasciandosi alle spalle quella prigione di orrori per sempre.
 
Aveva passato le ultime tre ore in un’elegante suite dell’Hilton Hotel, contesa da quattro importanti medici specialisti. Quando avevano appurato che si, il suo fisico era terribilmente provato per via della lunga prigionia, ma che no, non era in pericolo di vita, finalmente l’avevano lasciata sola. Ci sarebbe voluto del tempo per permettere al suo corpo di recuperare le forze, ma quello che sembrava davvero preoccuparli era l’imminente crollo psicologico che avrebbe subito. A detta di un luminare al momento il suo cervello era ancora sotto shock e avrebbe impiegato più o meno una settimana di tempo ad assimilare la situazione, prima di crollare definitivamente.
Parlavano di lei come una menomata mentale, in sua presenza per giunta! Aveva provato a dire che si sentiva bene, nonostante avesse pienamente capito la situazione; ma nessuno sembrava averla presa davvero sul serio.
In quel momento si trovava nell’immenso bagno di marmo rosa della suite che condivideva con Lawliet e il vecchietto di prima ( il quale aveva scoperto essere niente meno che Watari).
Aveva fatto un lungo bagno rilassante, e adesso si trovava di fronte allo specchio posto sul lavandino, completamente appannato per via del vapore acqueo che si era venuto a creare nella stanza.
Era in piedi da almeno cinque minuti, troppo spaventata per decidersi a pulirlo.
Non si era mai riconosciuta davvero nel suo riflesso; che cosa avrebbe pensato guardandosi adesso? Che cosa aveva creato Ryuzaki col suo corpo?
Non era sicura di volerlo sapere, ma non poteva scappare per sempre. Prima o poi avrebbe dovuto affrontare la realtà. E adesso non era neppure più sola.
Passò una mano decisa sulla superficie fredda dello specchio, rivelando dietro al velo opaco un volto che stentò quasi a riconoscere.
La carnagione bianca era interamente coperta da piccoli e grandi tagli, oltre che alcuni ematomi violacei e altri in via di guarigione.
I segni più evidenti erano il setto nasale leggermente deviato e il labbro inferiore con una grossa crosta al centro. Dove lui l’aveva baciata. Per un secondo le parve di risentire il sapore delle fragole in bocca, ma scacciò via quella sensazione e tornò a concentrarsi sulla persona nello specchio.
La pelle del viso era tirata per via della magrezza, rivelando spigoli sporgenti e una fronte alta. Le occhiaie ancor più accentuate la facevano assomigliare ad un teschio.
Quella persona non aveva nulla di umano, eccetto gli occhi. C’era una luce nuova, che non aveva mai visto prima in fondo al suo sguardo. Che cos’era, speranza? Determinazione?
Quel solo piccolo segno le diede più forza di tutto l’orrore circostante. Se in quel momento non si sentiva una persona lo sarebbe tornata presto.
Era arrivata ad un soffio dal perdere tutto per davvero; adesso sapeva che voleva combattere.
Adesso aveva un motivo: era di nuovo con lui.
Si vestì e raggiunse suo fratello in salotto.
Lo vide appollaiato sulla poltrona accanto alla grande finestra, intento a guardare fuori le luci notturne di Los Angeles. Riusciva a scorgere la sua espressione vuota attraverso il riflesso del vetro.
Represse un brivido di paura; sapeva che ci sarebbe voluto del tempo per permettere alla figura di Lawliet di sovrapporsi a quella di Ryuzaki.
Si accomodò nella poltrona davanti alla sua.
“Non ho intenzione di chiederti di raccontarmi come sono andate le cose, dal momento che ho quasi consumato tutti i nastri che B mi ha mandato.” Un moto di gratitudine le esplose nel petto. “Probabilmente ti starai chiedendo perché non sono intervenuto prima per salvarti.” Continuò con calma.
“No.” Rispose lei decisa.
Lawliet si voltò a guardarla, sinceramente sorpreso.
“So perché lo hai fatto. Ho avuto molto tempo per pensare in questi giorni ed ho capito che in realtà Ryuzaki non ha mai puntato ad uccidermi veramente. Sperava che la mia presenza in qualche modo ti avrebbe distratto dal caso e ti avrebbe indotto a commettere qualche passo falso per via del nostro legame; ma la mia durata vitale non è mai stata alterata realmente e tu sapevi che non ero in pericolo di vita attraverso i suoi video. Inoltre se avessi provato a salvarmi lui sarebbe riuscito a fuggire e con molta probabilità avrebbe ucciso più persone di quelle che aveva inizialmente progettato, con il solo scopo di vendicarsi, e questa era una cosa che non potevi permetterti. So che la tua non è una posizione facile, che quando devi prendere una decisione non lo fai mai pensando a te stesso ma ad un numero di persone sempre maggiore, per un bene più grande. Ho capito di essere stata usata come semplice pedina, anche se non è stato facile accettarlo. Ho provato ad imputarti la colpa di tutto questo credimi, ma non ci sono riuscita per davvero, perché so che anche se in tutti questi anni siamo stati lontani, in realtà tu hai mantenuto la tua promessa. Tutto quello che conta adesso è che siamo insieme, il passato è passato e non potrà più farci del male.” spiegò, con una maturità che non credeva di avere.
“Quindi…non mi odi?” sussurrò suo fratello incerto.
Lei per tutta risposta scosse la testa. “C’è una cosa però che voglio sapere, e credo che questo tu me lo debba.”
“Chiedimi pure tutto quello che vuoi.” Se sembrava agitato non lo diede a vedere.
“Voglio sapere che cosa è successo da quando ci hanno separati; come è nato L e che fine ha fatto Lawliet. Voglio che mi racconti ogni aspetto della tua vita, senza tralasciare nulla, dal momento che tu sai tutto della mia. Voglio provare a capire.”
Improvvisamente suo fratello le apparve molto stanco. La guardò per un lungo istante, prima di lasciarsi andare in un sospiro profondo e alzare la cornetta del telefono. “Questo è un discorso davvero molto lungo. Avremo bisogno di parecchi dolci.”
 
 
Due anni dopo
 
 
 
Il corridoio bianco, illuminato da accecanti luci al neon per la totale assenza di finestre, sembrava interminabile.
Rumer camminava in silenzio, con lo sguardo fisso sulla schiena scura della guardia carceriera davanti a lei.
Ogni tanto l’occhio le cadeva sul manganello di ferro che penzolava al suo fianco destro.
Non si erano scambiati neppure una parola da quando era arrivata al carcere di massima sicurezza LAC poco prima; tutto quello che aveva dovuto fare era stato mostrare il pass con il numero di identificazione per una visita nella sezione speciale.
Lo aveva rubato a Watari quella mattina, ed era quasi del tutto certa che il vecchietto se ne fosse accorto nel giro di qualche minuto; eppure sperava che le reggesse il gioco non dicendolo a suo fratello.
Strinse le mani a pugno per scaricare la tensione, rilasciando piano il respiro.
Da quando era atterrata a Los Angeles, una settimana prima, non era riuscita a pensare ad altro.
Lawliet aveva fatto finta di niente, e lei aveva cercato di apparire il più calma possibile; ma dentro di sé aveva architettato un piano per ritagliarsi un’ora di tempo e andare al California State Prison.
Non sapeva perché sentiva il bisogno di farlo, eppure sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima occasione per rivederlo; così tramite il contatto di Watari aveva fissato un’incontro con il prigioniero 1304 per quella mattina.
La guardia si fermò improvvisamente davanti ad un’anonima porta di metallo, tanto che Rumer quasi gli andò a sbattere contro. Digitò velocemente un codice di sicurezza e si voltò verso la ragazza.
“La cella è protetta da un vetro infrangibile e il prigioniero è stato legato e sedato. Ho il dovere di dirle che sarete comunque monitorati da telecamere e io vi aspetterò qui fuori. Avete 15 minuti.” Concluse.
Lei annuì ed entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
Il cambiamento illuminazione la disorientò per qualche secondo: l’interno della stanza era molto più buio rispetto al corridoio; l’unica fonte di luce proveniva da una lampada posta sul soffitto della cella, al di là del vetro.
Lui era accovacciato sulla branda nella sua solita posizione, con le gambe piegate verso il petto e la schiena poggiata al muro. Indossava una camicia di forza sulla divisa da carcerato, completamente bianca.
Rumer stentò quasi a riconoscerlo. Restò ad osservarlo nel buio per qualche secondo.
I capelli, un tempo neri e folti, ricadevano in rade ciocche stoppacciose sul suo viso, nascondendolo in parte. La poca pelle visibile era completamente ricoperta da bruciature rossastre, che alteravano la sua fisionomia come piaghe di cera colorata.
Aveva gli occhi chiusi e il mento poggiato sul petto. Sicuramente si era accorto che era entro qualcuno, ma lei aveva espressamente chiesto che non gli venisse rivelata l’identità del visitatore.
Avanzò con passo incerto nel cono di luce, poggiando le mani sul vetro freddo che li separava.
“Beyond Birthday.”
Era la prima volta che pronunciava il suo nome ad alta voce. Il suono le bruciò sulla lingua come veleno.
Il ragazzo aprì gli occhi rossi di scatto e alzò la testa.
Non una virgola mutò la sua espressione neutra. Era cambiata dall’ultima volta che si erano visti: aveva ripreso qualche chilo, e adesso portava i capelli più corti; ma i segni sui suoi polsi c’erano ancora, ed era certa che lui l’avesse riconosciuta.
“Non credevo che ci saremmo più rivisti, Rumer. Trovo quasi ironico che le parti si siano invertite; adesso sono io quello in manette.” Perfino la sua voce risultava diversa, più roca.
Si era preparata un lungo discorso, ma improvvisamente le giuste parole non le venivano in mente.
“Lui non sa che sono qui.” Che cosa stupida di dire, la faceva sembrare una bambina che aveva disubbidito agli ordini della mamma.
Infatti Beyond rise. “Questa cella è munita di una telecamera che registra ogni mio singolo movimento 24 ore al giorno, diciamo che mi sta rendendo il favore. Se anche non lo avesse capito, cosa che dubito, lo ha saputo nel momento in cui sei entrata qui dentro.”
Rumer si sedette a terra di fronte al vetro incrociando le gambe.
“Perché sei qui? Vuoi sbattermi in faccia il mio fallimento nei confronti di L? Oppure farmi vedere che adesso stai bene e sei di nuovo felice?” chiese senza interesse.
“Sono venuta a salutarti.” Disse lei semplicemente. “Tra un paio di giorni partirò per il Giappone, per seguire L in un indagine. Forse non ti importerà molto saperlo, ma adesso gli do una mano. Non sono sveglia come lui, ma avevi ragione tu quando dicevi che ho buone capacità di osservazione. Sempre meglio che fare la cameriera in qualche locale ambiguo. Mi fa sentire utile se non altro.
Sai che ha adottato il nome Ryuzaki come uno dei suoi tanti pseudonimi? Fossi in te mi sentirei onorato. Di solito prende solo i nomi degli avversari sconfitti che ritiene vicini al suo livello.” Lo informò.
“Sono lusingato, davvero. E così adesso giochi anche tu alla piccola investigatrice? Ho sempre pensato che avessi del talento Rumer, mi fa piacere. Ti trovo bene, nonostante tutto.”
Stavano lì a chiacchierare come fossero vecchi amici. La recita stava durando fin troppo.
“Non è affatto facile doverlo guardare ogni singolo giorno e chiamarlo come te. E’ come se mi sbattesse in faccia il passato in ogni momento.” Disse lei ad un tratto seria.
“Ad L non importa nulla degli altri, te lo avevo detto.”
“Non si tratta di questo. E’ che non può fare altrimenti. Sono le regole del gioco: nessuna vita normale, nessuna identità, nessun legame. Alla fine non è poi così diverso da come vivevo prima, anche se speravo di cambiare e costruirmi una vita vera. Mi ha fatto rimanere con sé perché temeva un crollo psicologico dopo la liberazione, ma sono passati due anni e non è ancora successo nulla di significativo.” Confessò.
“Sei più forte di quello che sembri. Sapevo che non ti sarebbe successo nulla alla fine.”
“Perché tu sai sempre tutto vero? Credi che conoscere la data di morte di qualcuno ti dia il diritto di affermare di sapere tutto anche sulla sua vita? Sei solo un ingenuo.” Affermò con sicurezza. Sentiva la rabbia montarle nel petto; non sapeva perché vederlo in quella condizione, legato e sconfitto, totalmente sfigurato dalla sua stessa follia, le facesse quell’effetto. Era quasi delusa.
“Il tuo problema è la presunzione B. Credevi di essere tanto geniale da poter superare L, e invece ti sei fatto fregare dalla tua stessa rabbia, che ti ha trasformato in una brutta copia del tuo idolo.
Credevi di aver attuato un caso irrisolvibile, e invece hai commesso l’errore di sottovalutare l’unica persona dalla quale avresti dovuto guardarti: Naomi Misora. Perfino io mi ero accorta che il tuo piano aveva un punto debole. E adesso dimmi, che cosa ci hai guadagnato? Eri tanto convinto di battere L che non hai preso neppure in considerazione l’idea del fallimento.” Beyond la fissava in silenzio, come se quel vetro infrangibile non avesse fatto passare le sue parole. Oramai non era più il terribile assassino dagli occhi rossi che tormentava i suoi incubi, il ragazzo incredibilmente dotato che la sua mente ricordava; sembrava solo un fantoccio rotto a cui non era rimasto un singolo motivo per vivere. Genio e follia avevano convissuto a fianco per anni, fino a che l’una non aveva preso il sopravvento sull’altro.
B non era altro che il frutto di un esperimento sbagliato.
Restarono a guardarsi in silenzio per un lungo istante, poi la ragazza si alzò finalmente in piedi.
“Una volta mi hai detto che la tua data di morte è l’unica che non riesci a vedere, assieme a quella del mondo. Bè, io non possiedo il tuo dono, ma ti dirò una cosa: c’è qualcuno che sta uccidendo tutti i criminali che ci sono in giro. Nessuno sa come faccia, c’è addirittura chi pensa che sia una sorta di castigo divino. L ha accettato il caso e domani partiremo per indagare. Non ti posso dire una data precisa, ma sono sicura che la tua morte non è poi così lontana. In fondo su una cosa hai avuto ragione: questa è l’ultima volta che ci vediamo.”
Molto tempo dopo, quando la ragazza se ne fu andata senza degnare il prigioniero di un ultimo sguardo, un sorriso divertito brillò nel buio.
 
Il 21 Gennaio 2004 Beyond Birthday morì per un misterioso attacco di cuore, mentre scontava l’ergastolo nel carcere LAC della California.
 
 
 
 
 
A/N: Come avrete notato la frase finale della storia coincide con quella del romanzo. Il sorriso di B lo lascio interpretare a voi. Questa è la prima volta in assoluto che scrivo una nota di chiusura per una mia storia. Sono felice, soddisfatta ed emozionata. Magari per qualcuno sembrerà una stupidaggine, ma davvero mi ha reso molto contenta condividere tutto questo con voi. Ho iniziato APV un po’ per gioco, senza avere la minima idea di come farla finire. Ho comprato il romanzo, l’ho letto in due giorni e mi sono messa a scrivere di getto. Era quasi un anno che non scrivevo nulla, ma in meno di un mese, scrivendo tutti i giorni, è uscito fuori questo.
Sono partita dalla semplice idea di mostrare i casi dal punto di vista dell’assassino e non da quello del detective. Volevo scavare nella psicologia di un personaggio che mi ha molto colpito e inserire anche un po’ più d’azione rispetto al romanzo. Non è stato facile: l’intera storia si svolge in una singola stanza con solo due persone come unici personaggi del racconto. Avevo paura che potesse risultare noiosa, ma la voglia di riempire quei buchi lasciati dal libro era troppo forte.
Ho inserito il personaggio di Rumer (ora che la storia è conclusa posso dirvi che mi sono ispirata all’attrice Zooey Deschanel, che adoro, per la sua fisionomia, ma non volevo influenzarvi in alcun modo) perché mi ha reso più facile raccontare lo svolgersi degli eventi; mi ci sono affezionata parecchio e sono felice che anche voi l’abbiate apprezzata e che sia risultata credibile. B è stato difficile da centrare, ma alla fine sono soddisfatta di quello che uscito fuori. Per me non sarà mai una copia smorta di L, ma un folle che è stato distrutto dalla sua stessa genialità, costretto a convivere con la sua rabbia.
Come promesso non è uscita fuori una storia romantica (anche se ad un certo punto mi sarebbe piaciuto) per il semplice fatto che non sarebbe stata credibile, e anche perché non volevo alterare un singolo evento del romanzo. Spero di non aver toppato con L, che è stato il personaggio più difficile da scrivere, per ovvi motivi. Ho cercato di rendere verosimile il suo rapporto con la sorella, e soprattutto di far capire che lui ci tiene molto a lei, ma oramai è abituato a non pensare a se stesso, ma a mettere sempre la giustizia al primo posto.
In conclusione voglio ringraziare veramente di cuore tutti coloro che hanno semplicemente letto, chi l’ha messa in preferite e seguite, ma soprattutto chi ha trovato il tempo di commentare, lasciandomi ogni volta il proprio parere e scambiando opinioni con me, che è stata la cosa che ho amato di più!
Grazie: Luce Lawliet, Harmony394, Lord_Trancy, Sony22, MikuSama e Mihael11.
Non so quando tornerò a scrivere qualcosa di mio nel fandom (traduzioni a parte), anche se ho un paio di shot in lavorazione. Di certo continuerete a vedermi nei commenti delle vostra storie perché amo troppo Death Note!
Grazie ancora di tutto, alla prossima!
Angel

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