Aprire gli occhi di mercoledì e sapere che sono di nuovo vivo

di Fusterya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Aprire gli occhi di mercoledì e sapere che sono di nuovo vivo ***
Capitolo 2: *** Cose che devono andare al loro posto (4 mesi dopo) ***



Capitolo 1
*** Aprire gli occhi di mercoledì e sapere che sono di nuovo vivo ***


Adesso sono sveglio e non so come sia successo. Ma lo è.
Resto immobile, quasi non respiro.
Gli eventi si sono accavallati, ieri sera non ho bevuto niente di alcolico, lo giuro, ma non ricordo bene. Ho delle immagini scomposte negli occhi… pezzi di figure che si sovrappongono, le sue iridi, un angolo nero di camicia, una porzione di pelle.
Non ricordo di essere stato io. Forse sì.

Sento allo stesso modo un collage di odori improvvisi ritornarmi prepotente nelle narici…sensazioni di pochi secondi… il tabacco, un lievissimo accenno di sudore, la fragranza del thè che si sparge nell’aria.
Ho la bocca arida, mi passo la lingua sulle labbra e risento quel sapore.
Sale misto a un vago ritorno di menta, lontana.
Mi aspettavo questo sapore innocente. Non saprei come altro dirlo.
La bocca del mio stomaco ha una contrazione, avvampo. Il battito accelera. Sento caldo. Sento nei palmi delle mani sudate il ricordo di quell’altro calore, la tensione dei nervi, la curvatura del corpo. Chiudo gli occhi, deglutisco. Come può essere possibile? Non avrei mai saputo nemmeno da dove cominciare.
 Invece, ecco.
Il cuore martella forte nel petto, mi sento a disagio, ho sempre più caldo. Ma resto sul fianco sinistro, immobile.
Il caleidoscopio dei ricordi di ieri si fa più veloce, le immagini cominciano a correre e a convergere. Il ritorno a casa, tardissimo, in una notte così fredda da spezzare la spina dorsale, dopo un caso difficile. Che non è ancora chiuso: è una faccenda pericolosa che mi sta tenendo in ansia per chi, come sempre, non ha il minimo senso della misura.
L’odore di casa al rientro, il suo galoppo nervoso su per le scale, il rumore del bollitore… ecco, quello lo ricordo.
Il rumore del bollitore, il mio sospiro stanco quando mi sono tolto la giacca e ho scrollato il freddo dalle ossa, ho sfregato le mani, ho borbottato perché si muoveva per la stanza come un derviscio impazzito, è volato il cappotto, le suole sul pavimento di legno rimbombavano sulla testa della povera Mrs hudson alle 3 del mattino, la voce baritonale che continuava a elencare scientificamente tutte le falle del primo esame della scena da parte dell’ispettore dell’altro turno, Dimmock, un poveretto a cui non era stata risparmiata qualsiasi umiliazione... le solite cose.
 E poi… cosa è successo?
Ecco, sì, avevo mal di testa.
Mi sono seduto sulla poltrona e mi sono chinato in avanti per massaggiarmi le tempie. Lui di là continuava a sproloquiare, pieno di energie come un bimbetto appena sveglio….
Ti prego, taci, ho pensato.
Sentivo il tintinnio delle tazze, era così su di giri che stava perfino versando lui il thè. Un thè che non volevo. Volevo solo andare a dormire, non so perché fossi così stanco, irritato.
Mi sono alzato, lui arrivava col vassoio saldo tra le mani, anni di esperienza con le provette non gli avrebbero fatto versare una goccia nemmeno se avesse ballato. Ma era così innaturale in quel ruolo che mi è venuto da ridere.
- Lo hai servito così a Moriarty? - ho chiesto.
- Si è servito da solo -  ha risposto piccato.
Da quando è tornato non riesco a non fare riferimento a quel giorno, anche se involontariamente. Succede spesso, e a lui non piace. Ma io non ne sono ancora fuori.
Quell'angoscia resiste salda dentro di me, si è solo acciambellata e messa in un angolo, in attesa.
Mi sono stiracchiato un po’. Non voglio del thè, vado a dormire, e ti pregherei di stare finalmente zitto. Ha posato il vassoio, è sprofondato nella sua poltrona, ha accavallato le gambe, ha addrizzato un po’ la schiena, ha incuneato le mani, polpastrelli contro polpastrelli, come fa quando vuole insegnarmi qualcosa.
Ma io stasera non voglio ascoltare.
Non so cos’è quest’ansia, questa irritazione.
Non farlo. Stai zitto.
Non passerò la nottata a sentire i tuoi deliri solo perché non hai sonno. Gli sto puntando un dito contro. Non sono arrabbiato con lui, non più, ma non riesco a starlo a sentire ancora e ancora come una volta. Batte lentamente i polpastrelli gli uni contro gli altri, facendo finta di riflettere su qualcosa che probabilmente avrà già analizzato in un'altra vita.
- John, devi andare oltre, ce l'hai con me da quasi un anno, ormai -
Credo di averlo guardato attonito, poi mi è scappato un sorriso amaro. Anche se avessi voluto dire qualcosa, non avrei saputo cosa.
Lo guardo un po' sconsolato e scrollo le spalle, mi avvio, lui salta in piedi e già questo mi allarma inconsciamente, una volta non l'avrebbe mai fatto. Stringo impercettibilmente i pugni, lui mi si para davanti. Gli occhi lampeggiano, non so come altro spiegarlo... sono nubi scure screziate di luce azzurro-verde.
-John, dobbiamo riparlarne? -
-No - scuoto io la testa. Non dobbiamo, non adesso, non c'è altro da aggiungere a quella sera, quando sei ricomparso all'improvviso in questa stessa stanza, spaventandomi a morte ... e nello stesso tempo riportandomi in vita. Questo lo penso ma non glielo dico, con lui mi fermo alla parola "adesso".
-John, devi riprendere a fidarti di me -
E allora scatto io. Scattano tutti i nervi che ho tenuto insieme per miracolo fino a quel momento.
“E piantala di dire John John John! No, sei tu che non ti sei fidato di me! Avresti potuto dirmi del cecchino, mi sarei riparato, difeso, sono un soldato, ricordi? So usare la pistola, ti ho parato il culo non so quante volte, avrei cercato di aiutarti, insieme avremmo trovato una soluzione, come sempre, ma tu hai deciso anche per me. Come sempre!”
Io non lo guardo e lui stranamente non parla, allora alzo gli occhi e mi accorgo – costernato -  che tra poco piangerò.
Ma non voglio.
Non devo.
Non lo farò.
Devo trovare un diversivo, fare una mossa qualunque, perché sento gli occhi che cominciano a pungermi. Lui sa ESATTAMENTE cosa sto pensando e provando, lo so, lo sento. Mi fissa, deglutisce imbarazzato, sento gli occhi riempirsi e li serro per impedirlo, e allora mi slancio in avanti, lo abbraccio... sento le mie braccia avvolgersi intorno ai suoi fianchi e stringere, stringere, avverto il suo corpo sbilanciarsi in avanti e il suo petto scontrarsi col mio, sembra un movimento violento ma invece tutto avviene molto piano, a rallentatore.
Ho ancora gli occhi chiusi, non so che faccia stia facendo, non mi importa, non so cosa farà dopo, non so cosa sto facendo io, non importa più, lo bacio e basta, devo baciarlo, voglio dire così tutto quello che ho fa dire, e poi che mi prenda anche a pugni... Ma non lo fa.
Non lo fa.
Sale e lontano sapore di menta, mare invernale, foresta sotto la pioggia... e un dolore antico e pesante come la Terra si stacca da me e mi libera con un rombo sordo: ecco quello che sento, ecco cosa vedo quando lui mi prende la faccia tra le mani, febbrile, e capisco che tutto doveva confluire li, tutto doveva andare esattamente così, e che non mi sarei mai aspettato che toccasse a me.
E invece.
Adesso sono qui e ancora non riesco a muovermi. Il cuore martella le costole ma ora percepisco di essere solo, dietro le mie spalle non c'è nessuno, la stanza è immobile come me, non respira, non vive. Sposto lentamente una gamba all'indietro e sento lo spazio spalancarsi dietro la mia schiena nuda come una voragine.
Come quella voragine in cui l'ho visto cadere.
Stringo gli occhi, i miei battiti perdono il ritmo, cadono uno sull'altro senza senso per la paura. E adesso? Dov'è? Dov'è andato? Cosa gli dirò? Come riusciremo a guardarci in faccia? Come riusciremo a tornare quelli di prima?
Mi scuoto e finalmente mi muovo, balzo sul letto e mi giro a guardare ciò che già sapevo: è la sua stanza, il letto è tutto disfatto, sconvolto, vuoto.
La penombra mi opprime, il silenzio della casa mi scivola addosso pesante e viscido come un lenzuolo bagnato.
Tendo le orecchie... niente. Né un suono, un rumore qualsiasi, un colpo di pistola sparato per noia.
Se ne è andato.
Pentito, amareggiato, disgustato.
Se ne è andato di nuovo.
Frugo di fretta tra le lenzuola attorcigliate per terra, tra camicie e calzini, e trovo i miei pantaloni, salto su una gamba sola e me li infilo già correndo verso la porta, rischiando di cadere almeno due volte.
Spalanco la porta, maledetta porta chiusa che stamattina mi hai impedito di ascoltare ogni rumore, ogni suo movimento, e mi precipito nel soggiorno come una furia, disperato come solo quel giorno lo fui.
Lui è nella sua poltrona, seduto esattamente come ieri notte ma stavolta in vestaglia, le gambe nude accavallate, le mani a cuspide, polpastrello contro polpastrello, gli occhi fissi su di me, due tempeste azzurro-verdi, e il vassoio del thè ancora fumante sul tavolino davanti a se'.
Io sono in mezzo alla stanza e mi sento un idiota, un vivo, felice, rinato idiota.
“Ho preparato la colazione” dice.
E poi ride.
 Allora io sospiro, anzi, finalmente respiro, e non riesco a ridere con lui, non subito.
Lo guardo come se non avessi mai visto altro in vita mia.
E riesco solo a dire il suo nome.
Sherlock.

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Capitolo 2
*** Cose che devono andare al loro posto (4 mesi dopo) ***


*Sono passati 4 mesi da quel mercoledì*

Sono in bagno e mi sto lavando i denti quando sento lo spostamento d'aria della porta che energicamente si apre. Porta che per UNA volta ho dimenticato di chiudere a chiave.
Mi giro con lo spazzolino in bocca e tutta la schiuma sul mento.
"Dormi da me?" mi chiede a bruciapelo mentre si sporge dalla soglia: ha la mano destra sul pomello della porta, l'aria un po' scarmigliata e sta masticando.... cos'è? Un Mars?
"Oh..." tergiverso.
Le sue sopracciglia si inarcano nel tipico sguardo "non oserai..."
"...Ok".
Ecco che arriva il sorriso da videocitofono, quello con cui si fa aprire tutte le porte quando andiamo in giro per palazzi di sconosciuti, assassini o vittime che siano.
"Bene" replica soddisfatto, e sparisce così come è arrivato, lasciando la porta aperta.
Sollevo gli occhi al cielo e vado a chiuderla. A chiave. 
Quando finisco tutte le mie faccende ed esco in pigiama, mi rendo conto che è tardissimo e io sono stanchissimo.
Stamattina non mi sono fatto mancare un inseguimento pedonale a perdifiato, a cui è seguita la specialità olimpica nota come il salto del pranzo, di cui ormai siamo campioni europei, e, quando il tizio che rincorrevamo è finito sotto un autobus, ho avuto tutto il tempo di andare a coprire anche il turno del pomeriggio all'ambulatorio.
Sono... come dire... un po' provato.
Passo dal soggiorno, da cui proviene un bagliore celestino, e lui è in piedi ma chinato sul laptop e ci sta digitando sopra velocemente.  
"Sherlock"
Solleva un dito e mi fa cenno di aspettare. Mi avvio verso la camera da letto scuotendo la testa.
A che serve replicare?
Quando mi infilo nel suo letto e mi sistemo sotto le coperte, sento le forze che mi abbandonano.
Oh, santo cielo, che bello.
Voglio dormire, dormire, dormire.
Mentre mi sto lasciando vincere da questo rapimento di sensi, letterale, entra nella stanza galoppando con la delicatezza di un cavallo.
Apro gli occhi e vedo che si toglie la vestaglia e si infila la giacca scura, si liscia i capelli ribelli con le mani.
"Dove vai?"
"Spiacente, John, Molly ha appena terminato quell'autopsia e c'è una cosa che devo osservare nelle prossime due ore, o sarà persa." sorrisetto da videocitofono "Vuoi venire?"
"Santo Iddio, no!"  
Mi sistemo a pancia in giù sul materasso, abbraccio il cuscino, sbadiglio con enorme soddisfazione.
"Non fare troppo rumore quando torni, e spegni la luce, per favore..."
"Potresti venire anche tu, sarebbe divertente: e invece dormi..." lo sento borbottare mentre si infila il cappotto.
"Lascio a te tutto il divertimento. Divertiti anche per me. E adesso spegni la luce, ciao"
Sento i suoi passi allontanarsi, l’interruttore fa click e la stanza cade nel buio.
Finalmente!
Riesco solo vagamente a seguire il filo di qualche pensiero/ricordo confusionario mentre scivolo nel sonno... Sherlock che legge sdraiato sul divano, Sarah che mi ha invitato a pranzo domani per farmi conoscere questa specie di nuovo fidanzato, la signora anziana per cui sono preoccupato e che domani tornerà in ambulatorio e mi porterà quelle analisi da guardare... la bellezza rasserenante della quotidianità, delle cose lente e da persone normali, quelle che ogni tanto riescono a penetrare anche nella mia assurda vita... sì... sto andando... è meraviglioso....
e poi ecco di nuovo nella stanza quello scalpiccìo prepotente, fastidioso.... il materasso che molleggia sotto un peso improvviso, lo stesso che cala a tradimento sulla mia schiena.
Non riesco nemmeno a sollevare la testa perché mi sta baciando la nuca, mi tiene giù come se dovesse soffocarmi.
“Diciamo che ho due ore di tempo per quella osservazione” mi dice sotto l’orecchio destro, mentre allunga le braccia e mi afferra le mani.

Quando, più tardi, crollo su di lui con la bocca sulla sua, esausto, mentre il calore più intenso fluisce via dal mio basso ventre, penso che non sopravvivrò a lungo in queste condizioni.
“Quello che non è riuscito a fare il proiettile di Moriarty lo farai tu...” ansimo mentre mi bacia, baci ancora affamati, umidi, esigenti.
“Ti porterò dei fiori sulla lapide, come tu hai fatto con me” cerca di scherzare, ma ha l’affanno, non sembra averne mai abbastanza. Mi tiene forte per il busto e con un colpo di anche mi fa rotolare di sotto.
Rotolo giù ridendo, ride anche lui.
E morde, cazzo. Gliel’ho detto tante volte che non deve mordere, che mi lascia i segni, ma sembra un bambino felice di ripetere senza sosta un bellissimo gioco scoperto da poco.
Io mi lascio sopraffare senza repliche.
Come per il cibo, cosa dovrei mai replicare?
Questa è per me l’estasi assoluta nonostante il sonno, i muscoli che dolgono, la schiena che è un  campo di battaglia... dormirò di più domani mattina, lo prometto a me stesso, ma adesso devo dedicarmi all’unica persona che mi fa sentire un essere umano, che amplifica tutta la mia visione del mondo.  
L’unica cosa che mi fa sentire perfetto, e che non mi fa desiderare di essere da nessun’altra parte, mai.

Tutto questo è successo la prima volta mesi fa.
Ormai c’è una routine ben collaudata che io non cambierei per niente al mondo.
Una sola cosa mi disturba, ed è la luce del giorno: sotto quella, ci comportiamo come quando eravamo coinquilini e basta.
Non ne abbiamo mai veramente parlato, tranne una volta in cui fece il ridicolo tentativo di intavolare con me una conversazione diciamo... “di coppia” mentre facevamo colazione.
Se ci ripenso mi viene da ridere ancora adesso.
Ma per il resto, poi, basta.
Facciamo tutto insieme, ma durante la normale giornata non ci sfioriamo mai con un gesto di spontaneo affetto, non ci diciamo mai nulla che sia ricollegabile a questo, a noi.
Oh, certo, c’è tutta l’intesa... sottintesa. Ormai anche i più idioti sanno di noi: non ne hanno la palese conferma, ma ormai lo suppongono ben più di quanto facessero prima.
Sarà per come ci guardiamo. Per come uno finisce le frasi dell’altro.
Ma questa cosa era lì anche prima. Forse sono io che la vedo così evidente, adesso.
E non so perché il non usare le parole mi dia così fastidio.
Fatto sta che stamattina ci sto pensando.
Lui ovviamente ieri sera è corso via, dopo. Non l’ho sentito rientrare, credo di essere andato in coma più che dormire.
E stamattina è già sparito, come l’alieno che è. Come vuoi definire uno che a malapena dorme e mangia qualche schifezza qua e là durante la giornata?
Sono un medico, dovrei costringerlo a fare di meglio, ma ogni volta lascio perdere ancora prima di cominciare.

Sono vestito e pronto per il turno, ma posso uscire con calma, ho ancora mezz’ora abbondante.
Quel famoso fastidio mi gratta nel profondo. Mi fa sentire a disagio.
Io credo fermamente da un po’ che dovremmo passare a un livello superiore, ma mi imbarazzo anche solo a pensarci. E perché, poi?
Perché in fondo ci conosciamo così bene che potremmo evitare?
No, questo potrebbe essere un pensiero suo, non mio. E’ lui il quasi autistico, tra noi due. E’ lui quello che deve essere guidato in queste cose.
Sono seduto in poltrona e mi rigiro il cellulare tra le mani.
Ho un’idea ma ho un po’ di timore nel metterla in pratica. E se lo spaventassi?
Se gli sembrassi un... idiota?
Inspiro per farmi coraggio e comincio a digitare: il pensiero di sembrargli idiota non mi deve spaventare, dato che già succede quelle 5-6 volte al giorno di media.
Ma ho bisogno di farlo. Sono uno metodico, preciso, o per lo meno cerco di esserlo.
Le cose devono stare al loro posto.
Scrivo velocemente, quasi maledicendo l’evoluto programmino di scrittura dello smartphone che mi fa azzeccare le parole al primo colpo, impedendomi di riflettere. 
Ma se rifletto non lo farò.
Rileggo velocemente, imponendomi di non tornare indietro, e poi invio.
Resto col telefono dolcemente stretto tra i palmi e un’ansia crescente nello sterno, un’ansia sottile e affilata, che però mi fa sentire vivo, ricettivo, che mi acutizza i sensi e mi fa entrare aria fresca nei polmoni.
Cosa ci può essere di più prezioso per un uomo?
Il doppio suono della ricezione di un messaggio mi fa sobbalzare, il telefono vibra per un attimo fra le mie mani e quasi lo faccio cadere malamente.
Così veloce? Non deve aver avuto molto da dire.
Guardo il display, leggo il suo nome e mi sento un po’ perduto. Poi tocco l’icona che apre i messaggi.
"Avrei voluto trovarti qui stamattina, mi manchi. Ti amo. J. "- gli ho scritto.
"Finalmente, idiota. Ti amo. SH" - è la risposta.
Sprofondo di schiena nella poltrona.
Il modo per dirmi che sono un idiota lo trova sempre.
Mi metto a ridere da solo, guardando fisso il display e quel “Finalmente”.
Era tutto qui, allora.
Un finalmente.
 Avrei dovuto immaginarlo che non avrebbe saputo nemmeno da dove cominciare, anche io ho dovuto educarmi in tal senso.
Sono felice.
Più che felice.
Vorrei correre giù da Mrs Hudson e farle leggere il messaggio, e poi ballare con lei.
Ho 39 anni, spesi per lo più in solitudine e guerra, e me ne sento 4 a causa di Sherlock Holmes, il coinquilino che mi ha fatto diventare un investigatore privato, che mi ha messo in pericolo di vita due o tre volte, che è morto e risorto come gesù, e che adesso è la persona che amo più di ogni cosa al mondo.
Io non l’avevo mai ancora detto a nessuno. Nessun ti amo, mai.
Non so perché adesso, con lui, dopo tutto quello che ci è successo, sento che le parole sono importanti, che non le dobbiamo lasciar scivolare via, dimenticare, anche quando è evidente che potremmo farne a meno.
Chi ha mai dubitato di noi fin dalla prima sera che io ho messo piede qui dentro?
Nessuno l’ha mai fatto, noi eravamo gli unici a non vedere chiaramente, a non dire mai quello che davvero stavamo pensando, e questo ci ha quasi uccisi.
Il non detto ci ha quasi uccisi.
Se glielo avessi gridato quel giorno, se avesse saputo allora cosa era per me, forse non si sarebbe lanciato giù, forse avrebbe trovato un altro modo.
O forse no.  
Ma cosa importa più adesso?
Se siamo quello che siamo, abbiamo il dovere di viverlo.
Finché ci sarà.
Sento gli scalini scricchiolare solo adesso. Mi giro e mi sporgo dalla poltrona, per niente sorpreso: ancora un minuto e avrei dovuto farlo a voce, e questo mi fa sentire sollevato.
Pensavo di dovermi sentire impacciato, e invece no.
Sono sicuro di me come non lo sono mai stato.
Quando compare sulla soglia, nero e alto come un moderno vampiro, si ferma e mi guarda dritto, da lontano.
Mi viene da sorridere.
“Allora, sono un idiota?”
Si muove e viene verso di me sfilandosi i guanti, senza mai distogliere gli occhi dai miei.
“Il migliore di tutti, John.”
Quando mi arriva vicino sta sorridendo a labbra chiuse anche lui.
Mi porge semplicemente la mano, e io, semplicemente, allungo la mia e gliela stringo, mettendo insieme tutti i pezzi mancanti, quadrando un cerchio che ci ha tenuti per troppo tempo prigionieri della confusione, delle mezze verità, degli eventi fuori controllo.
Adesso siamo io e te, davvero. Sul serio.
Finalmente.

 








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