Castel Sant'Angelo

di raganellabyebye
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adorata sorella ***
Capitolo 2: *** Giuro di servirti fedelmente, lealmente e onorevolmente, con coraggio e fedeltà ***
Capitolo 3: *** Tornerò, questa è una promessa ***
Capitolo 4: *** Nel portagioie ***
Capitolo 5: *** Sparire ***
Capitolo 6: *** Preso: parte prima ***
Capitolo 7: *** Preso: parte seconda ***
Capitolo 8: *** Aiutami: parte prima ***
Capitolo 9: *** Aiutami: parte seconda ***
Capitolo 10: *** A bad day in Milan ***
Capitolo 11: *** Rialzarsi ***
Capitolo 12: *** Una città esplosiva ***
Capitolo 13: *** Epilogo: 2700 a.U.c. ***



Capitolo 1
*** Adorata sorella ***


Altra fic ambientata nel mondo di Hetalia!
La voce narrante è Maria Vargas (Stato del Vaticano, già Stato della Chiesa: sui quindici anni, capelli in una coda bassa, dello stesso colore di Lovino, mentre gli occhi e la pelle sono quelli di Feli) mentre Lavinia – per chi non avesse letto l’altra fic – è la versione femminile di Romano, nonché la personificazione della città di Roma.
La locazione è Castel Sant’Angelo, in un sotterraneo segreto, collegato al castello da un passaggio nascosto stile Hogwarts, e al Vaticano da un secondo corridoio (di cui, ovviamente, nessuno è a conoscenza se non un ristretto gruppo di persone e le alte cariche delle Guardie Svizzere); il periodo è a cavallo fra ’43 e ’44 (fra l’armistizio e la liberazione di Roma); ho pensato fosse il periodo perfetto per poter vedere da vicino i rapporti di Roma e Vaticano con le altre nazioni!
Spero vi piaccia (soprattutto a te, J!)
 
Giusto per allungare un po’ la premessa...
1. Hetalia non è mio (lo si capisce anche dal fatto che Felix non fa pattinaggio artistico vestito di rosa con Lady Gaga in sottofondo).
2. Ci sono anche i punti 3, 4 e 5, ma non mi va di scriverli.
 
 
Capitolo 1:
Adorata sorella
 
La fiamma della candela che ho in mano è l’unica fonte di luce costante a illuminare i lunghi spazi bui del corridoio. D’altronde, siamo metri e metri sottoterra: nessuna finestra che possa rischiarare le pareti di pietra, né liberare l’aria dal lieve fumo delle torce appese al muro, rade ma a distanze regolari come le ore su un orologio. Passo davanti a pesanti porte di legno spesso, rinforzate con sbarre di ferro battuto, salde e resistenti, che i secoli non hanno saputo scalfire. Arrivata al bivio, giro a sinistra. A destra la cucina, la dispensa e due stanze per le guardie, che una volta le riempivano con le loro armature e alabarde. Dritto davanti a me, un muro solido che nasconde la via d’accesso al castello, segreta e mimetizzata qui come dall’altra parte. Io arrivo dal secondo corridoio, ignoto a tutti, conosciuto solo dai pochi che sanno dell’esistenza di queste mie stanze, in una fortezza che non mi appartiene più da tempo.
Giunta alla fine del corridoio, salutando con il segno della croce la piccola Madonna in una nicchia del muro, apro dolcemente la porta alla mia destra, facendo del mio meglio perché i cardini non ne disturbino l’occupante, colei che una volta qui era mia ospite, e di cui adesso sono io.
La stanza è buia, illuminata appena da una lanterna appoggiata sul comodino, ma la vista non mi è necessaria per sapere cosa mi circonda: alla parete sinistra un grande scrittoio pieno di carte sparpagliate, moncherini di candele terminate giorni fa, la cui cera pende raffreddata dai loro appoggi; a destra un tavolo di mogano con un paio di sedie abbinate, foderate di velluto rosso, fissato allo schienale tondeggiante con delle borchie dorate. Infine, di fronte a me, un letto.
Ha quasi trecento anni, ma li porta con estrema dignità; è corto ma largo, con la sponda sinistra contro il muro e vari cuscini contro lo schienale di legno intagliato in stile barocco; le colonne del baldacchino hanno forma a spirale, come il baldacchino nella Chiesa di San Pietro, ma le cortine di velluto rosso, aperte, le coprono, lasciano solo intravedere il morbido colore scuro del legno. Le lenzuola bianche debordano, pendendo dalle sponde assieme alla coperta purpurea.
E’ un letto che si potrebbe definire opulento, ma con classe, nient’affatto pacchiano: d’altronde non avrebbe mai fatto entrare nulla che non rispecchiasse il suo gusto del bello, semplice ma raffinato, anche quando la moda imponeva altrimenti.
Lei  è appallottolata sotto strati di coperte per proteggersi dal freddo di questo sotterraneo riparato dall’inverno solo da strati di terra e pietra: quaggiù non possiamo permetterci camini o fuochi troppo consistenti; quando le condizioni mi avevano costretto in questo luogo, lei mi seguiva sempre, facendomi addormentare fra le sue braccia, mentre ci accoccolavamo entrambe nel mio piccolo letto.
Un brivido delle spalle ne scopre il viso: vedo la fronte leggermente lucida per il sudore provocatole dalla febbre crescente, i capelli scomposti, gli occhi gonfi e chiusi, cerchiati dalle occhiaie, che si notano ancora di più sul suo volto ora impallidito. La sua bella pelle liscia e color del bronzo è tirata, le guance che iniziano a scavarsi mettono in risalto gli zigomi normalmente meno decisi e la mascella risoluta. E’ evidentemente dimagrita, e la larga camicia da notte bianca di foggia settecentesca la fa sembrare ancora più piccola.
Un tremito scuote tutto il suo corpo fino al viso: le sopracciglia si corrugano, gli occhi si stringono, le labbra screpolate si serrano, quasi a volersi schiacciare l’una con l’altra. Sta soffrendo, e io non posso fare altro che avvicinarmi e cercare la sua mano sotto le coperte per stringerla e farle coraggio.
Roma trema ancora una volta, aggrappandosi alla mia mano come fosse il suo unico appiglio; cosa le rimane, d’altronde?
Non sono i bombardamenti a farla soffrire davvero, né la fame o le ombre che si aggirano fra le strade: il dolore fisico, gli alti e i bassi, quell’orrendo sentirsi violata e sporca... Quante volte lo ha provato, in questi duemila anni. Ciò che la sta spezzando, che la corrode dentro, è l’abbandono: la nostra famiglia, i nostri amici, il nostro stesso popolo sembra disprezzarla. E’ il simbolo del potere, del governo, di tutto ciò che ci ha portato fino a questo punto.
Una volta incarnava la volontà, la forza, l’onore; ora è l’emblema della decadenza: in lei si rispecchia l’inizio di qualcosa che non sarebbe dovuto succedere, la distruzione delle bombe che ci devastano, la sottomissione di cui sono oggetto. La guardano, e vedono la fine.
Un altro tremito, un altro gemito.
La Città Eterna si sta sgretolando davanti ai miei occhi.
Mi chino su di lei, appoggiandole una mano sulla fronte, per scostarle una ciocca di capelli, come tante volte avevo fatto. Guardo la mia pelle candida, che ancora una volta contrasta con la sua.
Il sacro e il profano.
Le lacrime mi pungono gli occhi, di fronte a tanto dolore e disfatta.
L’immagine della donna di fronte a me si sovrappone ai miei ricordi...
La ricordo ragazza, fasciata in una tunica purpurea e varie stoffe appuntate alle spille sulle sue spalle, che la circondano in pieghe scintillanti di ricami di seta.
Il sole acceca i miei occhi di bambina. Un’ombra cala su di me, proteggendomi dai raggi troppo forti di quell’estate calda e implacabile. Non riesco a distinguere nulla, se non strane schegge dorate dove dovrebbero trovarsi i suoi occhi. La ragazzina mi prende in braccio, coprendomi con uno dei veli drappeggiati attorno alla sua figura, e mi porta in un posto buio e fresco con una camminata rapida e regolare. Solo allora mi scopre, ma non mi lascia andare. Continuiamo a camminare attraverso stanze decorate e luccicanti, fino ad un portone dorato che due uomini aprono davanti a noi con espressione reverenziale. La sento parlare, con quella sua voce sicura, già allora un po’ roca, rivolta ad un uomo su uno scranno:
“Ohi, vecchio, ho trovato questa qui. Voglio le stanze accanto alle mie per lei”
La ricordo giovane donna in un corpo adulto, vestita in una veste rossa decorata da passamanerie d’oro, mentre una camicia bianca spunta dai polsini e dai gomiti; gioielli d’oro, sorriso brillante, occhi che emanano luce.
“Maria, che ci fai qui?!”
Sono entrata nella sala di rappresentanza, dove un ambasciatore francese sta parlando con il Papa.
“Ero curiosa! Non mi fate mai vedere niente”
Apre la bocca per rimproverarmi, ma vedendomi abbattuta sospira, stirando inconsciamente la bocca in un mezzo sorriso.
“Vieni”
Mi fa sedere su uno scranno accanto al suo, vuoto. Sono nervosa: è da tanto che volevo assistere a un’ambasciata, ma mi tenevano sempre fuori perché dicevano che ero troppo piccola. La verità è che Lavinia ha paura che qualche nazione possa farmi del male, vedendomi così indifesa. Le avevo detto che Dio è sempre con me, ma lei non faceva altro che abbracciarmi e dirmi di rimanerne fuori. Dice che Dio salva le anime, non le persone.
“Forse una volta lo faceva; ma è evidente che ormai anche lui ne ha abbastanza di questo. Non che gli si possa dar torto...”
Me lo aveva detto tristemente, per poi uscire ancora una volta da uno dei quei bellissimi portoni cesellati.
Quel giorno, quando davanti all’ambasciatore non può dirmi niente per rassicurarmi, per tranquillizzarmi, si limita a mettere la sua mano calda come un raggio di sole sulla mia, passandomi il suo calore e la sua forza.
La ricordo donna, cresciuta nello spirito e nel corpo, mentre le gonne porpora sfrusciano sul pavimento, numerose come i suoi peccati. Lo ripeteva spesso, quasi orgogliosa della corruzione che diceva di rappresentare.
“Non parlare così, Lavinia! “
“Ma è vero. Tu sei la Chiesa, lo spirito in cui tutti credono. Io sono Roma, sono la carne di cui tutti sono fatti, di cui tutti siamo fatti, anche il nostro caro sovrano!”
Il tono è ironico e rabbioso, leggermente alto per l’ebbrezza del vino. Si allontana dal tavolo cui si era appoggiata, camminando per la stanza con il bicchiere vuoto in mano.
“Io sono la Città Eterna!”
Piroetta agitando il calice, come a brindare.
“Brindiamo alla decadenza dei loro corpi e delle nostre anime tutte, mia Maria! Tranne la tua, tranne la tua, mia colomba di pace fra le aquile di Roma!”
“L’aquila è un animale forte e nobile!”
“D’indubbia forza certamente, laureata attorno alla sua testa candida senza alcun dubbio! Ma nobile?”
Si riappoggia al tavolino, dopo aver girovagato ancora per la stanza.
“Si ciba di carogne, mia cara.”
Alza il tono, quasi delirante.
“Si libra nel cielo, fiera e imbottita di orgoglio e ambizione, ma quando atterra e nessuno la vede, ecco cosa fa! Mangia carogne, care putrida, come noi stessi ci mostriamo eleganti al popolo e al mondo, ma appena il bosco di queste mura ci nasconde...”
Alza ancora una volta la testa, guardandomi negli occhi.
“...ci mangiamo l’un l’altro, nutrendoci del marciume delle nostre anime.”
Ancora una volta gira per la stanza, fermandosi ogni tanto, alzando le braccia la cielo, a volte, in un accenno di piroetta o brindisi.
“ Accidia, Ira, Gola, Invidia, Lussuria, Avarizia, Superbia! Ecco cosa consumiamo quando gli occhi altrui non possono scorgerci! Siamo le due facce di questa nuova Roma: tu sei la luce che illumina il mondo, sei ciò di cui sono fatte le anime. Io sono l’ombra che solo carne può proiettare, una volta che la tua luce l’ha investita! Quale prova non hai superato, tu, mio piccolo raggio di sole? E in quale peccato non indugiato io stessa? Nessuno, cara, nessuno! Questa città è come il mondo, Maria: luce per pochi, peccati per molti! Apparenza, vanità, bugie! Bugie come se piovesse! Corruzione! Questo sono io, mia cara!”
Si calma, per poi voltarsi verso di me. Accennando un passo di danza, si avvicina.
“Sono come la colpa, Maria: una bella donna che nessuno vuole”
Con passo incerto ma rapido, esce.
La ricordo quando sparii, diventando ciò che sono ora.
“Maria! Mariaaa!”
Sono distesa a terra, esausta. Mi sento leggera, come senza peso.
“Maria!”
La voce si avvicina. Qualcosa crolla accanto a me, cadendo in parte sul mio petto.
“Maria... Maria, rispondimi! Ti prego...”
Lavinia mi accarezza la faccia, in modo un po’ rozzo ma ancora dolce. Riesco a sentirla respirare affannosamente per la corsa. Chissà quanto mi ha cercato... Ha la voce strozzata e credo stia piangendo, perché singhiozza. Sono troppo stanca per aprire gli occhi più di così, quindi non posso esserne certa.
Come la prima volta che ci siamo incontrate, si china su di me, proteggendomi dalla luce del sole che mi acceca, e come allora, mi prende in braccio.
“Lovino! Lovino!”
Sta correndo, credo. Si ferma all’improvviso, e il contraccolpo mi scuote appena.
“L’hai trovata?!”
Una voce di ragazzo, lontana. E’ un urlo, più che altro. Ricomincia la corsa, ma c’è qualcuno di fianco a noi. Sono in due. Senza mai fermarsi, Lavinia mi passa in braccio a un ragazzo; riesco a vedere qualcosa di dorato che scintilla. L’altro corre più veloce, precedendoci, qualunque sia la nostra meta.
“Vado a toglierci i carabinieri dai piedi! Lavinia, tu vai da Feli e digli che sta bene, ma di tenere la bocca cucita! Se gli esce qualcosa, digli che gli butto giù i denti a calci! Vash, tieni una distanza di una ventina di metri; quando siamo là, nasconditi nell’androne a destra, va bene?!”
La voce è calda, energica, con un lieve accento del sud.
“Si!”
Sento Lovino allontanarsi.
“Vash”
Lavinia ansima. La sento tossire. Sento la paura attanagliarmi: cosa ne sarà di lei?
“Non lasciare che la prendano.”
Il tono è duro, sicuro, anche se sta correndo ed è a corto di fiato.
“Cosa credi che abbia fatto negli ultimi 364 anni?”
Nel sospiro di Lavinia sento un sorriso. I suoi passi svaniscono nel nulla, lontano da me.
Credevo che non l’avrei rivista mai più.
Invece eccola qui, più morta che viva, ma ancora con me. Sopravvivrà anche questa volta, o cadrà definitivamente?
Si gira nel letto, mettendosi di schiena. Sento qualcosa, come una vibrazione, o un suono, non saprei dirlo, e lei inarca la schiena in preda al dolore. Inizia a urlare, così forte da farmi male alle orecchie, ma non me ne vado. Seduta accanto a lei, le tengo la mano, e prego Dio di riuscire a proteggerla.
 
 
Alåura... cosa ne dite? Uh, trattandosi del mio “angolo”, dovrei anche dire perché l’ho scritto... Bene, il fatto è che con le mie fic (e chi ha letto le altre dovrebbe averlo già notato) sto ricostruendo la storia della famiglia Vargas, e soprattutto dei loro rapporti. In questa fic mi dedico molto a Lavinia (Roma) e Maria (Vaticano), in particolare il loro rapporto, visto dagli occhi della più piccola. Non so se sia chiaro, ma per lei Lavinia, più che una sorellona, è quasi una mamma. Si consideri che l’ha praticamente allevata lei e, essendo Roma, ha svolto molte volte il lavoro al posto suo, un po’ perché all’inizio era troppo piccola, poi perché si è praticamente calata nel ruolo di mamma, e non voleva che la “figlia” finisse invischiata  nelle trame politiche e negli affari diplomatici (se pensate agli alleati della chiesa, c’era davvero da preoccuparsi).
Dovrebbero arrivare presto gli altri tre/quattro capitoli, ma non dovrete aspettare troppo! Giuro che ne metterò su un altro dopo l’esame di storia contemporanea!
Byebye!

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Capitolo 2
*** Giuro di servirti fedelmente, lealmente e onorevolmente, con coraggio e fedeltà ***


Uff... capitolo 2 concluso!
Hetalia non è mio e sono troppo stanca per fare un elenco con tutte le cose che dovrei dire, abbiate pazienza!
 
 
Capitolo 2:
Giuro di servirti fedelmente, lealmente e onorevolmente, con coraggio e fedeltà
 
La porta alle mie spalle scricchiola: saranno passati vent'anni dall'ultima volta che ho oliato i cardini. Lily entra con passo felpato, avvolta in un leggero scialle di lana verde bosco, per proteggersi dal freddo. D’altronde, non posso distruggere mezzo castello solo per montare una stufa. O dei cavi elettrici.
In una mano ha una lanterna, mentre con l’altra regge un paio di ciotole.
“Ho pensato di portarti la cena”
Ha una voce tenue e dolce. Vash l’ha portata con sé quando è venuto qui, anche se gli avevo detto di non venire. Testone.
“Grazie, cara. Appoggiale sul tavolino”
“Vuoi che ti dia il cambio?”
E’ sinceramente preoccupata, glie lo leggo negli occhi. Mi volto e guardo Lavinia, che dorme un po’ più rilassata.
“No, grazie, voglio rimanere accanto a lei”
Sento Lily spostare una sedia accanto a me. Dopo essersi seduta e aver appoggiato la lanterna sul tavolino, mi porge una delle ciotole e un cucchiaio.
“Ti capisco, sai.”
Si, lo so. Ha un animo puro e dolce: so che se Vash fosse al posto di Lavinia, si comporterebbe esattamente come sto facendo io ora.
“Mangiamo insieme?”
Non vuole lasciarmi sola, in questo travaglio. Spero solo che né lei né suo fratello si mettano nei pasticci a causa mia.
“Grazie”
Lentamente, sfilo la mia mano dalla stretta di Lavinia, sentendomi un po’ in colpa, ma non le tolgo gi occhi di dosso, temendo di perdermi anche il più piccolo segno di ripresa. Ora che ho la ciotola in mano, iniziamo insieme la nostra cena silenziosa.
Abbiamo finito da una mezz’ora, a giudicare dalla candela segnatempo che avevo appoggiato sul comodino, quando qualcuno bussa ala porta.
“Avanti”
Non c’è bisogno di chiedere chi sia.
Vash indossa l’uniforme da lavoro; anche alla sola luce della torcia accanto alla porta riesco a vedere che il blu scuro della divisa è coperto da strati di polvere; i polsini hanno solo qualche macchia del bianco originale, mentre i guanti ne hanno perso ogni traccia.
“Scusate l’interruzione; avevo in programma di restare fuori di guardia, ma ho un messaggio da riportare”
Il suo tono professionale mi mette sull’attenti.
“Ho parlato con Altishofen; secondo il comandante, sarebbe più saggio rientrare a Città del Vaticano”
“No. Per ora preferisco rimanere qui”
Vash stringe le labbra. Avrebbe preferito che acconsentissi. Gli occhi si posano un attimo su Lily, per poi tornare su di me.
“Castel Sant’Angelo è in Italia, Maria. Se dovessero trovarti qui, non potrei fermarli.”
Lo so. Ma non posso portare Lavinia in Vaticano.
“Se portassi Lavinia in Vaticano, sarebbe ancora peggio. Per quanto credi che rimarrebbe segreto?”
Vash abbassa lo sguardo per un attimo, per poi fissarlo nuovamente su di me. So che non approva questo mio attaccamento: preferirebbe che lasciassi Lavinia alle cure di Romano e mi rifugiassi dove lui può proteggermi.
Abbasso lo sguardo, mentre il senso di colpa mi stringe i polmoni, soffocandomi. Dopo tutto quello che ha fatto per me, dopo tutto quello che hanno fatto per me, è orribilmente ingiusto ed egoista farlo, ma non c’è altra scelta. Respiro profondamente, come a prendere la rincorsa, poi alzo la testa e li guardo negli occhi con tutta la sicurezza che sono riuscita a raccogliere.
“Vorrei che mi ascoltaste”
Lily spalanca gli occhi, attenta, mentre io punto il mio sguardo su Vash.
“Vash, ti sono grata per tutto ciò che hai fatto. Negli ultimi 436 anni mi hai sempre sostenuto; ogni volta che ero in pericolo, ogni volta che avevo bisogno di aiuto, tu sei corso qui per difendermi. “
Parlo con tono fermo, tranquillo, lento, cercando di sembrare più forte di quanto in realtà non sia.
“Ma ora le cose sono cambiate. Un intervento tuo o –
Mi rivolgo a Lily
“tuo, rischierebbero di coinvolgervi in molto più che una scaramuccia fra due Comuni o con il Regno di Napoli. E’ passato il tempo delle alabarde, ormai. Per questo, io –“
Prendo il respiro.
“Ti sciolgo dal giuramento, Vash Zwingli.”
Lui non reagisce: rimane lì, contro la porta chiusa, in posizione marziale. Poi i suoi occhi si concentrano su di me.
 “Allora lo ripresterò”
“Vash,no-“
Alzo una mano, come a fare il gesto di attendere.
“Maria!”
Pronuncia il mio nome come quello di una recluta che non sa fare bene il suo lavoro.
“Io ho fatto un giuramento davanti a Dio, ed era quello di proteggerti. Non mi tirerò indietro solo perché questa volta la posta in gioco è un po’ più alta. Non mi sono tirato indietro quando i Borbone hanno attaccato, né lo farò ora!”
Una mano si appoggia sulla mia spalla; quando mi volto, vedo il viso sorridente e fiducioso di Lily: appena più bassa di me, con quell’aria fragile, cerca di confortarmi, come se fossi una bambina smarrita.
“Capisco che tu non voglia lasciare Lavinia e perché non vuoi portarla in Vaticano: se la scoprissero lì – e considerando come ci tengono d’occhio, succederà – potrebbe causare un vero incidente diplomatico e dar loro la scusa per invadere il Vaticano. Per ora questo tuo piano può anche funzionare, ma se gli alleati o altri tedeschi dovessero irrompere a Roma, tu devi promettermi – ripeto, promettermi – che andrai in Vaticano. Troveremo il modo di portare Lavinia con noi senza che nessuno venga a saperlo, ma tu devi promettermi che non t’impunterai come tuo solito.”
Sento gli occhi bruciarmi un po’. Sto per rispondere, quando un lieve mugugnio dietro di me mi fa sobbalzare sulla sedia. Mi giro così velocemente che rischio di ribaltarmi di lato.
“Ehi...”
Le sussurro dolcemente, per farle sapere che sono qui, che l’ho vista, che so che è sveglia. Chiudo la lanterna perché la luce non le arrivi in faccia.
Ancora una volta, l’unica cosa che vedo di lei sono le schegge d’oro che brillano nelle sue iridi. Non importa quanto stia male, quanto sia stanca o come si senta: quelle schegge brillano sempre, come lucciole nella notte.
Ci raccogliamo intorno al letto
“Come ti senti?”
La sincera preoccupazione nella voce di Lily m’intenerisce.
 “A te che sembra?”
La voce è quasi nulla, roca e secca, ma il sarcasmo è ovvio. La mia smorfia di disapprovazione sembra incitarla a continuare.
“Sto una merda, ecco come”
Riesco a sentire Vash che digrigna i denti e Lily sospirare leggermente, convinta di aver fatto una gaffe.
Io, invece, non posso fare a meno di sorridere: deve essere il sorriso più penoso del mondo, considerando che sento le lacrime scendermi per le guancie, so di avere le occhiaie e l'aspetto di una malata terminale, con la pelle tirata e gli occhi gonfi per il poco sonno, ma non ha importanza.
Non quando la vedo rispondermi con quel sorriso spaccacuore, così dolce da farmi scoppiare a piangere fra le sue braccia, mentre mi accarezza i capelli con le mani infragilite. Sento il suo mento appoggiarsi sulla mia testa, e la sua voce sussurrarmi che andrà tutto bene. Mi addormento protetta nella sua stretta, come da bambina, lasciando fuori ogni preoccupazione, sentendo che andrà tutto bene, finché sarò con lei.
 
 
Bene, e con questo siamo a due! La storia dovrebbe avere altri tre o quattro capitoli (la più lunga, fino ad ora!), che spero di caricare non fra troppo tempo; purtroppo, cari naviganti, ho tre libri da portare per il prossimo esame (dieci giorni; fino ad adesso, mi dovevo preparare per un altro), poi altri due per quello di fine aprile e due per quello di inizio aprile; a maggio dovrei averne solo uno, ma spero non dovrete aspettare fino ad allora per il quattro (il terzo voglio assolutamente caricarlo entro due settimane!)!
Per ora, tutto qui; al prossimo capitolo!
byebye

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Capitolo 3
*** Tornerò, questa è una promessa ***


Capitolo 3:
Tornerò: questa è una promessa
 
Socchiudo leggermente gli occhi, per ripararli dal riverbero del sole di marzo su piazza San Pietro, che posso guardare in tutto il suo splendore da una delle stanze papali. Il nostro colloquio è appena terminato, e non so se sorridere o scoppiare a piangere.
Il fronte alleato sta avanzando, ed è una cosa positiva. Ciò che stringe il cuore, invece, è il saperli fermi non tanto lontano da qui, a Montecassino: siamo così vicine al fronte che i bombardamenti non potranno fare altro che aumentare, come aumenterà la stretta delle camicie nere. Penso a Lavinia, accasciata sul letto, rintanata sotto le coperte, come a volersi nascondere dal mondo. So già cosa accadrà: io sarò lì, a vegliare su di lei, giorno dopo giorno, guardandola contorcersi, sentendola urlare fino a privarsi della voce, senza poter fare altro che stringerle la mano. Una realtà che sta vivendo anche Serena; spero che Feli si stia prendendo cura di lei...
Vorrei tornare a Castel Sant’Angelo in questo esatto momento, per poterle sorridere, e dirle che andrà tutto bene, e che presto Lovino verrà a prenderla. E’ una fortuna che Lily sia rimasta lì e Vash con lei, perché non potrò muovermi ancora per un po’. Non mi faccio vedere da tempo qui, in Vaticano, e sento sulla pelle sguardi estranei a queste mura che mi osservano, che mi scrutano, attenti a ogni mio movimento o parola. Sto diventando paranoica? O forse ci sono davvero delle spie, in Vaticano? Troppe facce nuove per dirlo...
Gilbert mi ha mandato un messaggio, pochi mesi fa, attraverso la stessa rete di contatti che usai per fargli sapere del tredici ottobre, anni e anni fa. Non devono trovarla, mi ha scritto, lei è troppo fragile, troppo piccola, nulla più che una città: facile da spezzare come lo è da distruggere, continua, ma è pur sempre la capitale: nascondila, prima che la trovino, tu sai dove; da me non uscirà una parola. Che Dio e i suoi Santi ci assistano.
Mi mordo il labbro inferiore, sentendomi in colpa per essere stizzita nei confronti di Gilbert: ha rischiato più di quanto mi sarei mai permessa di chiedergli, macchiandosi di tradimento, solo per avvertirmi. Sospiro, lasciando che la pressione dentro il mio petto si allenti; questi cavalieri... La loro fedeltà non conosce lo scorrere del tempo.
Eppure non posso impedirmi di desiderare di urlargli in faccia. Urlargli che non è vero, che Roma non è fragile, né piccola, né una semplice città. Anche adesso che non è più il centro del mondo, che non è più qualcosa di a sé stante come quando eravamo solo noi due, anche adesso che è ferita e stanca e febbricitante, nulla la può spezzare né distruggere.
L’ho vista cadere vittima di invasioni, attacchi, saccheggi; l’ho vista mentre veniva consumata dalla povertà, come l’ho vista consumata da tormenti e peccati; l’ho vista cadere tante volte quante si è rialzata.
Una fitta mi prende allo stomaco, quando un’ombra oscura il sole per un attimo. Alzando lo sguardo, noto che sollievo che si tratta solo di una nuvola.
Forse mi sbaglio, e Gilbert ha ragione. Questo è oggi, non allora: non ho mai avuto paura di ciò che arrivava dal cielo, prima. Che sia davvero questa, la fine? La guerra nella quale la Città Eterna morirà una volta per tutte?
Il rumore di qualcuno che bussa alla porta mi fa sobbalzare, strappandomi violentemente dai miei pensieri.
“Avanti”
Ad aprirla è una Guardia in uniforme. Non entra, ma rimane sulla porta, ferma, nella stessa posa marziale di Vash.
“Abbiamo ricevuto l’ordine di scortarvi nell’ufficio del Supremo Comandante Altishofen, Vostra Grazia. Se volete seguirci...”
Dicendo ciò, si fa di lato, permettendomi di uscire. Non faccio domande: anche se lo sapessero, so che non mi risponderebbero. Con passo veloce, percorro scale e corridoi, affiancata da due Guardie da ogni lato. Infine, raggiungiamo l’ufficio.
La mia scorta saluta le Guardie alla porta; una di loro mi segue fino all’entrata, dove bussa al mio posto.
“Avanti”
Entro, mentre la mia nuova scorta tiene aperto l’uscio. Non faccio in tempo a salutare il Comandante che questi congeda la Guardia. Una volta che la porta viene chiusa alle mie spalle, l’uomo mi saluta con un piccolo inchino.
“Salve, Vostra Grazia”
“Salve”
Rispondo io. Perché mi ha chiamato?
“Scusi per questa... convocazione”
Pronuncia la parola con cautela, come fosse incerto. D’altronde, è un vero e proprio sconvolgimento del protocollo.
“Non volevo mancarle di rispetto, ma è appena arrivata una chiamata sulla nostra linea sicura, e pare che non abbia molto tempo a disposizione”
Ancora un tono controllato, ma evidentemente atto a nascondere l’agitazione. Chi stava chiamando? E soprattutto la linea sicura! Chi mai poteva fare una cosa del genere?
“Prendete, Vostra Grazia”
Mi porge il telefono.
“Vi lascio sola”
Con quest’ultima frase gira attorno alla scrivania, uscendo con passo affrettato, ma ancora una volta sotto controllo.
Prendo la cornetta con una sorta di timore: il Comandante mi ha trasmesso la sua agitazione. La avvicino all’orecchio con circospezione.
“Pronto?”
Chiedo timidamente; non so perché ho paura, ma ho come la sensazione che quell’oggetto debba esplodermi in mano da un momento all’altro.
“Maria! Maria, mi senti? Maria, sono io! Rispondimi!”
Signore... Questa voce...
La voce mi si strozza in gola. Non ho il coraggio di parlare, perché ho paura di sbagliarmi, e in questo momento sono così felice che se scoprissi di starmi sbagliando, credo potrei scoppiare a piangere senza ritegno.
“Maria! Maria, cazzo, rispondimi! Allora ci sei? Porca puttana Eva...”
“Lovi?”
Il mio è un sussurro: la commozione che mi chiude la gola non mi permette di più.
“Maria! Maria, Cristo Santo, allora ci sei! Mi senti?”
Il tono arrabbiato sfuma momentaneamente in sollievo qualcosa di simile alla gioia.
“Si! Si, ti sento! Lovi, stai bene? Ti prego, dimmi che stai bene!”
Adesso sto urlando. Non ci credo... E’ Lovino! Lovino è la fuori, da qualche parte, e sto parlando con lui e...  e...
“Si, sto bene! Senti, non c’ho tempo da perdere: ho preso il telefono in prestito, diciamo, e non so per quanto riuscirò a parlare con te! E’ stato un dannatissimo inferno riuscire a ottenere dal quel cazzo di centralino di parlare con le Guardie...”
“Oddio, Lovi...”
Ancora non ci credo.
“Cazzo, t’ho detto che sono io e che ho poco tempo! Ma ti sei rincretinita!?! Ahhh...”
L’ultimo verso di esasperazione mi fa ridacchiare e mi riporta sulla terra.
“Ah, io... scusa... no, sto bene, sto bene! Io sono qui in Vaticano, al sicuro, non devi preoccuparti, tu piuttosto!”
L’ultima parte è quasi un urlo.
“Ho, ho sentito un po’ di quello che sta succedendo! Lovi, ti prego, dimmi che stai bene e stai riposando e –“
“Ah, basta! Si, sto bene, ma no, non posso riposare! Con Feli incastrato lassù sono l’unico a riuscire a mettermi d’accordo coi partigiani! ‘Sti alleati hanno un concetto di diplomazia pari a numero di neuroni di Anto’... E poi che bene e bene! Stanno sganciando tante di quelle bombe su Roma che è un miracolo che non t’abbiano ancora preso, visto la mira che si ritrovano!!”
“No no! Davvero, non mi hanno preso!”
Lovi sta urlando, in preda all’eccitazione. A dire la verità, stiamo urlando entrambi. Sono così felice di sentirlo che devo trattenermi dal piangere di gioia!
“Ah... Va bene. Adesso voglio che tu mi dica la verità, va bene?”
Il tono è serio e controllato. So cosa sta per chiedermi, ma non so se ho il coraggio di rispondergli.
“Niente balle, intesi? Ah... Come sta Lavinia?”
Dio, ti prego, non lasciare che faccia pazzie!
“E’ al sicuro...”
Ci giro attorno... Fa che gli basti, Signore!
“Che cazzo di risposta è?!?”
Adesso sta urlando come un ossesso.
“Voglio sapere come sta, dannazione!”
Come faccio a dirgli che la persona che ama di più al mondo è su un letto a contorcersi o a tremare per la febbre? Sospiro. Adesso.
“Male.”
Silenzio.
“Quanto male?”
Gli trema la voce.
“Ha la febbre, e i bombardamenti la stanno torturando.”
Rispondo asciutta.
“Cristo”
E’ un sussurro furibondo. Riesco quasi a vederlo mentre si passa le dita fra i capelli, e il cuore minaccia di scoppiarmi. Vorrei trasformarmi in suono, correre dall’altra parte del filo e abbracciarlo, dirgli “va tutto bene, fratellone, non preoccuparti” oppure “stiamo bene, non devi sforzarti così; riposa, ci rivedremo presto, vedrai”, ma anche se potessi farlo, saprei di mentirgli spudoratamente. La verità è che se non si sbrigano ad arrivare o se continuano a lanciare bombe, Lavinia scomparirà prima di riuscire ad abbracciarla un ‘ultima volta!
Ma quale città indistruttibile! Idiota! Idiota idiota idiota! Perché sono così stupida!?!
Mi passa davanti agli occhi l’immagine di Lavinia, quando una sera di trent’anni fa mi portò a teatro.
Sono in fondo alle scale: aspetto che scenda. Quando fa la sua comparsa sulla balconata, si voltano tutti.
E’ magnifica.
Emana autorità, sicurezza; la sua figura sembra imporre rispetto, il suo sguardo fermo la fa sembrare, non so, maestosa. Quella donna bassa, alta si e no un metro e sessanta, pare come imporsi sui presenti, uomini e donne, militari e civili, nobili e borghesi; anche il re, di cui è ospite, sembra sfumare, al suo fianco, come se fosse lei a indossare la corona, e lui non fosse altro che uno dei ministri che lo accompagnano. I suoi occhi brillanti paiono emanare luce, e non sono in pochi a distogliere lo sguardo, quando lei punta il proprio su di loro, come seccata di tanta attenzione. Se avessi avuto modo di conoscere nonno Romulus, sono sicura che sarebbe stato come lei, che sarebbe stato circondato dalla stessa... aura di furore trattenuto, di forza nascosta, ma pronta a esplodere, come fuoco sotto la cenere.
“Per quanto pensi possa resistere?”
Quella domanda sibilata, fatta dopo minuti di silenzio, mi coglie alla sprovvista. Deglutisco.
“Non lo so. Il fatto è che abbiamo problemi anche dentro. Alle camicie nere e ai nazisti non piace la situazione. Ci stanno rendendo la vita impossibile.”
Credo di riuscire a sentirlo mentre trattiene un urlo sospirando.
“Dimmi delle bombe. Di questo passo, per quanto resisterà?”
Non so cosa rispondergli. Improvvisamente, senza alcun preavviso, scoppio a piangere.
“Non lo so! Non lo so, non lo so! Non è mai successa una cosa così, Lovi! Io, io... non so cosa fare! Lei urla e sta male ed è pallida e, e... è lei che mi stava accanto, che mi abbracciava, che mi diceva che andava tutto bene e quando non c’era lei c’eri tu o c’era zio Francis o zio Antonio o Feli e... e una cosa così non è mai successa! Io ci provo, ma, ma... ho paura, Lovi!”
Sto piangendo forte, tanto che la testa mi esplode e gli occhi cercano di scappare dalla mia testa.
“Ho paura che smetta di tremare e di contorcersi e rimanga lì, immobile e poi sparisca! Ho paura che muoia, Lovi!”
“STA ZITTA E ASCOLTAMI, PORCA PUTTANA!”
Con un singhiozzo respiro così a fondo che i polmoni arrivano quasi a scoppiarmi.
“Ascoltami”
La sua voce si è calmata.
“Ascoltami. Ora calmati. Non devi aver paura, capito? Io arriverò e ti prometto, ti prometto che andrà tutto bene: questa stupida cosa che il nano malefico ha messo in piedi finirà, ricostruiremo tutto, staremo bene. Tutti.”
“Ma Feli-“
“Feli lascerà il crucco e tornerà con noi. A costo di buttargli giù i denti a calci e spaccargli la testa contro il muro, firmerà per la resa, te lo prometto.”
Singhiozzo, e lui mi sente.
“Maria, ascoltami. Io ti giuro- merda!”
Rumori di sottofondo. Un’altra voce... l’hanno trovato, probabilmente.
“Maria, io-“
La voce si allontana dalla cornetta ancora una volta.
“Tornerò! Ti giuro che tornerò a casa e andrà tutto bene! Te lo prometto!”
La linea si interrompe del tutto.
Come in trance, rimetto il telefono al suo posto, esco dalla porta, mi faccio riaccompagnare dalle guardie fino all’inizio di un corridoio, e appena si sono allontanate, scivolo dentro il passaggio che conduce al tunnel. Nello stesso stato catatonico, raggiungo Castel Sant’Angelo, passo davanti a Vash, semiaddormentato su una sedia con le braccia conserte, che mi guarda passare sollevando appena una delle palpebre, apro la porta della stanza di Lavinia e incontro il suo sguardo stanco.
Solo allora lascio che le lacrime ricomincino a scorrere lungo le guance, e sbattendomi la porta alle spalle mi butto fra le sue braccia, piangendo di gioia.
“Ehi... cos’è successo?”
Mi abbraccia, accarezzandomi i capelli. La voce è così roca che non solo è difficile sentirla, ma anche capire ciò che sta dicendo.
“Lovi viene a prenderci”
Il suo abbraccio si stringe, aiutandomi a salire sul letto, per sedermi accanto a lei.
Mentre mi accoccolo tra le sue braccia, con una mano indebolita e scarna mi accarezza dolcemente i capelli, come quando ero piccola, e sento lacrime non mie rigarmi il viso. Con la coda dell’occhio, poco prima di addormentarmi, ancora una volta sfinita dal pianto, illuminato dalla luce fioca della lanterna sul tavolo, vedo il sorriso più bello del mondo.

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Capitolo 4
*** Nel portagioie ***


COOMEEEEE?!? Ma quand’è che sono passati ‘sti dieci giorni? Giuro, mi sembrava ieri che avevo messo su il cap tre, con questo già finito (mi tengo sempre avanti di un capitolo), dicendomi “aspetta una settimanina, poi carichi pure il quattro”, e invece...
Deciso: mi compro un calendario!
 
Nel caso nessuno l’avesse notato (certo, come no...), nell’ultimo capitolo mancavano le note. Perché vi sarete chiesti (ahah... sicuramente...)?  Risposta semplice: essendo io una pirla, ho dimenticato di scriverle, caricando il testo prima di accorgermene. Brava.
 
Dedicato a bazylyk: è rileggendo una tua recensione che “ops, ma guarda quand’è che ho caricato l’ultimo capitolo...”
 
Avvertenze (proprio la mia parte preferita...)
1)Hetalia non è mio (non so nemmeno il giapponese!)
2)Questa ff è no profit
3)Chi rompe verrà sacrificato a Xipe Totec (guardatevi chi è, prima di lamentarvi)
 
 
Capitolo 4:
Nel portagioie
 
Le coperte si muovono appena, così poco che non lo noterei se la lieve luce della lanterna non giocasse con le ombre delle pieghe della coperta di lana purpurea, accentuandone l’alzarsi e l’abbassarsi assieme al suo petto. Da la schiena al muro, e riesco a vederne il viso, anche se solo una piccola parte, non più in basso delle ciglia nere, che serrate danno l’impressione di piccole fettucce di velluto. Io e Lily l’abbiamo aiutata a farsi il bagno poche ore prima, e ha anche lasciato che le pettinassi i capelli, ma solo dopo averle ricordato che, se non se ne fosse presa cura, si sarebbe ritrovata con i pidocchi.
Lavinia non è una donna particolarmente schizzinosa, ma non sopporta i pidocchi. Che io ricordi, li ha avuti una volta sola, verso il milleduecento, se non sbaglio, e da allora ne ha il terrore (anche se non ammetterebbe nemmeno di poterlo provare). Nessuna poesia barocca è mai riuscita a farle cambiare idea (ce n’era una esilarante in proposito!).
La sua fronte è finalmente asciutta, dopo giorni che la febbre l’aveva resa lucida dal sudore; il fazzoletto che usavo per tamponargliela è in un’altra stanza, steso ad asciugare, anche se dubito che qua sotto possa asciugare qualcosa: non è mai successo, nemmeno in piena estate, figurarsi a marzo. Fortunatamente, abbiamo una buona scorta di camicie da notte, di tutte le fogge, che lei non ha mai voluto buttare e che, tenute con cura, sono riuscite a resistere anche due o tre secoli.
Approfitto di questo raro momento di calma per lasciare la stanza e recarmi non nella mia camera, ma in una terza, abbastanza spaziosa.
Apro la porta con cautela, non volendo fare il più minimo rumore: non voglio rischiare di svegliarla. Adesso che Vash e Lily sono tornati a casa (i loro capi hanno avuto il buonsenso di richiamarli: il fronte è davvero troppo vicino, e l’attenzione delle camicie nere troppo alta, per metterli a rischio facendoli rimanere qua), nei momenti di tranquillità, sempre più rari, purtroppo, mi ritiro qui.
Prima di richiudere la porta alle mie spalle, accendo le candele del grande candelabro che pende dal soffitto, spegnendo poi la mia piccola lampada ad olio: non voglio sprecare del combustibile per nulla.
La luce pendente dal soffitto illumina il soffitto e le pareti affrescate con scene della Genesi, dipinte da Angelo, come lo chiamava Lavinia.
“Ehi, Angelo, come sta andando il lavoro?”
Lavinia guarda l’uomo piegato all’indietro sull’impalcatura. Per farlo, deve inclinare la testa del tutto all’indietro, e io con lei.  Sento le labbra torcermisi a un lato, individuando una lieve nota di sarcasmo nella sua voce. Se veniva qui, era anche per stuzzicarlo.
L’uomo, senza calare le braccia protese verso l’alto per dipingere,gira lentamente il collo, come un gufo. Il suo sguardo seccato rivela quanto vorrebbe insultarla per queste continue visite (che lui non gradisce affatto, checché Lavinia dica sul suo carattere), ma l’educazione o la stanchezza lo spingono a limitarsi
“Secondo te?”
Anche se siamo un po’ in ombra, riesco a distinguere i contorni netti della coscia che sta terminando, con i fasci muscolari che sembrano balzare fuori dall’immagine.
“Carino”
Il tono di sufficienza di Nina gli fa corrugare le sopracciglia, e si gira nuovamente verso il soffitto.
“Ho lo stomaco in gola, quando la mia schiena si raddrizza fa il rumore di pane vecchio che si tenti di spezzare, e il colore continua a colarmi in faccia.”
Il volume della voce e l’irritazione sono cresciuti mano a mano che la sua confessione inaspettata continua. Si gira di nuovo, alla stessa maniera.
“Credo che tu abbia notato che la mia guancia destra è ancora blu”
“Già. Molto originale, devo dire”
Il commento di mia sorella è ancora una volta venato di sarcasmo. L’artista, che evidentemente sta perdendo l’ultimo briciolo di pazienza rimasto, si gira del tutto, con i colori in una mano e il pennello in un’altra, appoggiandosi alla balaustra. Considerandone la scarsa solidità, penso sia una pessima idea.
“Senti una po’, Nina. Non me ne frega un caz- volo se sei il capo qui, ma se tu e il tuo signore volete che finisca questo coso prima che crepi, allora devi piantarla di venire A SPACCARMI I MARONI!”
Per nulla impressionata dalla sfuriata di Angelo, al contrario dei suoi assistente, tutti impietriti, Nina si mette le mani sui fianchi, un gesto maschile che solo lei riesce a far sembrare così femminile.
“Beh, tu pensa alla mia offerta. Smetterei di venire qui, se acconsentissi ad affrescare quella stanza. Considerando i tempi di questa cappella, non ti ci vorrebbe molto. Adesso ti lascio al tuo lavoro, Angelo. Ci vediamo”
Detto questo si voltò, dandogli le spalle e l’occasione di gesticolare in modi che intuivo essere volgari ma non riuscivo  interpretare.
L’affresco copre solo i sessanta centimetri a partire dal soffitto: il resto della parete è stuccata, colorata con un caldo rosso mattone. Contro ogni muro sono appoggiati cassapanche e armadi, mentre al centro c’è un bellissimo tavolo intagliato, circondato da sedie di varie fatture, tutte sui toni del rosso: una poltroncina roccocò con lo schienale ripiegato in alto a formare un piccolo baldacchino, un’ottomana, un triclinio, due massicce sedie spartane in legno rifinito e intagliato finemente, basso medievali, se ricordo bene; degli stessi colori, a voler formare come un piccolo salotto attorno a un tavolino, due canapè e una turca.
Alzando lo sguardo verso la parete di fronte a me, un paio d’occhi bruni mi fissano.
Quel ritratto di Leonardo è uno dei preferiti di Lavinia. Il maestro glielo aveva regalato durante un suo breve soggiorno qui: è simile alla dama con l’ermellino, ma la posa e lo sfondo ricordano più la Monna Lisa. Accanto a Leonardo, c’è una splendida natura morta di Caravaggio, come ringraziamento per averlo tirato fuori dai guai quando i gendarmi lo avevano catturato. Lavinia, mostrando il suo anello con il sigillo papale, ne aveva ottenuto l’immediato rilascio. Fu piuttosto buffo vedere quei due armadi prima guardarla con stupore, poi sdegno, in seguito con uno strano sbrilluccichio negli occhi che mi aveva dato una brutta sensazione, infine con terrore, dopo aver visto ciò che portava al dito.
L’artista si beccò l’ennesima paternale da parte di Nina, promettendo nuovamente di smetterla di fare stupidaggini, e rompendo la promessa pochi giorni dopo. Nina non se la prendeva più di tanto.
“C’era da aspettarselo”
Dice con tono noncurante, rilassata su uno scranno.
“Nina, dobbiamo fare qualcosa! Di questo passo, potrebbe mettersi davvero nei guai!”
Sono angustiata da quest’ultima bravata del ragazzo. Temo che possa finire male, una di queste volte.
“E’ un’artista, Maria. Non vorrai davvero tarpargli le ali! Se proprio vuoi combattere il crimine, devi impedire che possa essere fermato”
Lo dice con sguardo trasognato, lontano, immaginando il suo genio comporre i quadri che sa saranno meravigliosi.
 Aveva catturato subito la sua attenzione, con quella passione che gli bruciava dentro e gli faceva brillare gli occhi: era un uomo intrigante, a suo parere, un genio sfumato di follia che poteva raggiungere picchi che nessun altro avrebbe potuto nemmeno pensare. Me lo aveva detto esattamente quel giorno.
Girando attorno al tavolo, mi rendo conto di quante cose abbia nascosto qui nel tempo. Potrà sembrare molto materialista, da parte sua, ma comprendo il suo desiderio. Non è il valore economico di questi oggetti ad averla spinta, e neanche la volontà di poterli esporre, un giorno, vantandosene di fronte ad altri; ognuno di essi si ricollega a un evento speciale, a una persona speciale. Un magazzino di ricordi, in un certo senso. Ogni tanto la vedo prenderli in mano, sfiorarli appena con le dita e chiudendo gli occhi, come se potessero trasmetterle il ricordo che gli era legato.
Su un mobile, a sinistra, c’è un piccolo portagioie. E’ di fattura orientale, un dono che Sadiq aveva fatto non senza un tono canzonatorio nella voce. Lavinia gli aveva risposto ringraziandolo con fredda cortesia per il regalo. E’ chiuso a chiave, ma so cosa c’è dentro: orecchini di ogni fattura, vecchi di secoli o di pochi anni; fra questi un paio, in particolare, decorati con i rubini più scuri mai intagliati, regalati appositamente e indossati solamente su quel vestito che avrebbe fatto invidia a madame de Pompadour, commissionato da Francis per lei - assieme agli orecchini - in occasione dell’incoronazione di Luigi XIV, cui voleva che partecipasse assieme a lui. All’epoca, erano ben poche le cose che l’uno negava all’altro, così Lavinia partì per Parigi con lo zio, già stretta nel corpetto che le aveva consigliato di mettersi.
“Ma perché?”
“Se non ti abitui almeno un po’, mia cara, non reggerai mai un intero giorno senza svenire ai miei piedi”
Lo schiaffo che lo zio si è cercato lo ha preso in pieno, e io rido sotto i baffi. Francis non smette mai di fare battute del genere, e lei non smette mai di esserne imbarazzata e lusingata al tempo stesso. Guardando lo zio che sogghigna con un lampo malandrino negli occhi e la sorellona che arrossisce come e più di Lovi, non posso fare a meno di pensare che siano perfetti, l’uno accanto all’altra, come se fossero fatti per stare insieme. Ricordo che quando seppi della loro relazione, rimasi estremamente sorpresa, convinta com’ero che lo zio fosse innamorato dello scismatico, ma evidentemente mi sbagliavo.
Sembravano così felici...
Mentre Lavinia va a cambiarsi, alzo il capo, per osservare l’espressione sul viso di Francis. E’ tranquilla e pacata, gli occhi semichiusi e le labbra leggermente incurvate trasmettono una sensazione di serena felicità, mentre continua a fissare la porta dalla quale è appena uscita.
Da quando l’anglicano lo aveva rifiutato per l’ultima volta, leggevo tristezza e abbattimento, fra le righe delle lettere che mi mandava di tanto in tanto. Il fatto che dopo la sua prima visita a Roma il suo umore fosse notevolmente cambiato avrebbe dovuto dirmi qualcosa, come mi avrebbero dovuto insospettire le visite frequenti, il tempo che passavano da soli, oltre ai piccoli e grandi pacchetti che la sorellona riceveva. E invece l’ho capito solo dopo un anno o due, quando andammo per la prima volta a fare una gita fuoriporta tutti e tre, mangiando letteralmente fuori, su un prato, e li vidi allontanarsi mano nella mano per andare a vedere il laghetto vicino cui ci eravamo fermati, mentre io mi stavo tranquillamente appisolando sulla coperta stesa per terra.
Una volta gli chiesi se amasse davvero mia sorella, perché volevo essere sicura che non stesse giocando con lei, ma non volevo essere troppo diretta. Le sue parole mi colpirono, perché rispecchiavano i miei stessi pensieri.
“Perché non dovrei amarla, mon chér?”
Ricordo ancora la dolcezza nei suoi occhi blu, splendenti come non li vedevo da tempo. Lessi tanto affetto, nel suo sguardo, che mi commossi.
Il rumore di tacchi sul pavimento mi riporta al presente.
Ciò che abbiamo davanti è quasi indescrivibile. 
Il vestito porpora, strettissimo intorno al busto e scollato, mette in mostra la parte superiore del suo petto, solo parzialmente nascosta dal pizzo bianco. Questo è estremamente abbondante al termie delle maniche a tre quarti, strette anch’esse, formando attorno al braccio abbronzato una voluminosa corolla ad almeno tre strati, decorata da un fiocchetto purpureo. La gonna ha vari drappeggi, e in fondo si intravedono gli orli merlati di pizzo di un paio di sottogonne. Ai polsi, fanno mostra di sé due spille di rubino gemelle, appuntate sui fiocchi che chiudono i nastri rossi che le cingono i polsi. Al collo, una ricca collana con un cammeo, stretta a girocollo da tre file di perle, che pendono dal retro del gioiello intagliato per terminare sulla pelle scoperta in piccoli ciondoli di rubino. Rifiutatasi di indossare la parrucca, ha acconciato i capelli in maniera elaborata, con tante piccole decorazioni dorate appuntate in una disorganizzazione apparente.
Priva di cipria, l’unica cosa in evidenza sul suo viso sono le labbra scarlatte, che si distorcono quando i suoi occhi incontrano la mia espressione incredula. L’unico suono nella stanza è il riso sornione e soddisfatto di Francis, compiaciuto, anche se non so se sia per il suo capolavoro o per il fatto che lei è la sua accompagnatrice. Dall’espressione piccata di Lavinia, capisco che anche lei ha lo stesso dubbio.
“Con te al mio fianco, farò davvero un figurone”
Lo schiaffo non manca il suo obiettivo nemmeno questa volta.
I miei occhi stanno scorrendo sui cassetti di una cassettiera stile liberty, quando un impercettibile movimento delle ombre mi fa alzare la testa, dove il candelabro ha appena finito di vibrare, tanto che non avrei nemmeno pensato che si fosse mosso, in condizioni normali.
Sono già fuori dalla porta, quando i lamenti di Lavinia squarciano il silenzio del sotterraneo.
 
 
Prego di notare il commento in stampatello che interrompe la parte in corsivo!
Coooomunque...
Pensate la stia tirando troppo per le lunghe? Volevo usare questa ff per ricostruire, con cenni o spiegazioni vere e proprie, la storia di Lavinia e Maria. Se continuerò a pubblicare roba, queste torneranno utili per approfondire la storia dei personaggi e capire alcuni dei loro comportamenti, anche perché Maria, Lavinia e Serena sono, fondamentalmente, dei nuovi personaggi (anche se piuttosto ispirati ai profili che ho trovato su internet, a cui ho cambiato i nomi: Lavinia è una ragazza forte, che esige rispetto, Serena è più combattiva di Feli, e mi pare anche un po’ imbranata; Maria è una delle versioni amatoriali di Vaticano, descritta come una ragazza sempre pura e pia, anche durante i papati più licenziosi).
Maria è troppo piagnona e sensibile? Il fatto è che ero piuttosto preoccupata che si sovrapponesse troppo a Lily, così l’ho trasformata in una ragazza molto sensibile al dolore e alla felicità altrui, sempre impegnata a comprendere il prossimo; non è moralista: la giustizia e i valori positivi sono qualcosa di insito in lei, che trova del tutto normali, e che inizialmente si stupiva si non trovare nel suo prossimo. Crescendo l’ha capito, ed essendo una persona comprensiva, è più che felice di seguire con pazienza chi cerca di migliorarsi, come è disposta a perdonare chi sbaglia. Non rinuncia a fare delle piccole ramanzine, quando si trova di fronte a condotte davvero degne di biasimo, ma anche lì creca di capire cosa spinge una data persona a perseguire quella via, in modo da aiutarla a risolvere il problema alla radice.
Grazie per aver letto fino in fondo, alla prossima!
byebye

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Capitolo 5
*** Sparire ***


Viva la puntualità... non ho nemmeno delle scuse da fare questa volta, se non che ho perso totalmente la cognizione del tempo: ho dei libri da restituire in biblioteca, e sono in ritardo di due settimane, semplicemente perché “davvero? A me sembrava di averli presi giusto qualche giorno fa”.
Liberissimi di ostracizzarmi dal sito (ricordate, però, che facendolo, non avrete altri capitoli).
 
Avvertenze:
g) Hetalia non è mio
h)Non mi assumo responsabilità circa ciò che questa ff potrebbe causare
i)Coerenza? Vicinanza alla realtà? Sono cose che si mangiano?
 
Capitolo 5
La Caduta
 
Stremata, la donna guarda il soffitto stuccato del bianco più candido, solo minimamente scurito dagli ultimi tre secoli, negli angoli. Chiude gli occhi, non potendo sopportare nemmeno il riverbero sul muro della tenue luce della lanterna sul tavolino. Portandosi il braccio sopra il viso, nasconde gli occhi nell’incavo del gomito.
Tutte le volte che il dolore diminuisce abbastanza da farla dormire, gli incubi le fanno desiderare di essere nuovamente sveglia. A volte sogna la sua bella città distrutta dalle esplosioni: vede crollare i palazzi, vede gli edifici tagliati a metà, con le stanze prive di un muro che danno così sulla strada, come case per le bambole; i loro abitanti sono a terra, a volte nascosti sotto cumuli di mattoncini, giocattoli rotti che verranno raccolti solo quando la sirena smetterà di suonare. Forse.
Oppure vecchie battaglie, guerre persesi nello scorrere tempo, che in quella notte artificiale riprendono tutti i colori che i giorni passati avevano sbiaditi, assumendo toni cupi e brillanti al tempo stesso.
La sonnolenza la prende nuovamente, e un nuovo ricordo la inghiotte...
 
Vedo Vash allontanarsi, mentre io rallento, il fiato corto per la fatica. Questi ultimi giorni sono stati un inferno per me e Maria; ha iniziato a sentirsi male appena hanno attaccato i confini, e le cose sono andate peggiorando mano a mano che si avvicinavano alla capitale. Ogni giorno pregavo Dio che la smettessero, che trovassero un accordo, dandoci almeno una tregua. Ogni giorno pregavo Dio che Lovi o Feli entrassero da quella porta, per venirci a prendere, per dirci che tutto era finito, che tutto sarebbe andato bene.
Ma loro non arrivavano mai.
Stupida io, a credere ancora una volta all’arrivo di un qualche eroe che ci tirasse fuori dai guai. Come se non sapessi che la buccia bisogna salvarsela da soli.
Io e Maria sedevamo lì, nella mia stanza, metri e metri sotto la fortezza, lei sempre più deperita, sempre più fragile fra le mie braccia, come un passerotto febbricitante, io sempre più amareggiata e piena di rabbia. Per ogni sua preghiera e parola di perdono, io lanciavo una bestemmia e una maledizione.
Ho cresciuto Maria come fosse mia figlia, e come tale la sento. Ho amato – e amo ancora, nonostante tutto – i miei fratelli, più di ogni altra cosa al mondo, da quando non erano altro che un piccola frazione del grande Impero Romano, due bambini chiassosi e invadenti, a quando, cresciuti, mi salutavano con l’eleganza e la compostezza di uomini adulti. Che fossero province di Roma o territorio nemico, non c’è mai stato nulla che non avrei fatto per loro, anche quando erano costretti a impugnare una spada contro di noi. Mi sarei lasciata colpire e uccidere, piuttosto che far loro del male.
E adesso questo.
Anche io voglio stare con loro. Anche io voglio che siano liberi di fare ciò che vogliono, di prendere le loro decisioni indipendentemente da quale che sia la volontà di Austria o Spagna. Ma non a questo prezzo.
Non a costo di perdere Maria.
Sono sfinita a tal punto da non riuscire a reggermi in piedi, così, girato l’angolo, mi appoggio al muro di una casa, lasciandomici scivolare contro, fino a sedermi per terra, le gambe distese davanti a me “in maniera nient’affatto signorile” penso distrattamente. Quando le circostanze lo richiedono, so mettere da parte le buone maniere senza troppi rimpianti. Mi rilasso contro la superficie irregolare ma fresca, contro la mia schiena sudata. Il vestito è bagnato fradicio e appiccicoso; dopo un altro lungo attacco di tosse, respiro profondamente, per recuperare il fiato perduto, ringraziando di non stare indossando un bustino.
Gli ultimi sviluppi e le notizie che Lovino mi ha appena dato mi spingono a riconsiderare le mie previsioni, e con un ultimo sospiro, calmando definitivamente il mio povero cuore, rifletto.
Venezia, Napoli, Bologna... E queste sono solo le più grandi, quelle seguite da tutti, sotto gli occhi di tutti, quelle che attirano più attenzione...
Stavamo aspettando che la strada si liberasse, tenendola d’occhio attraverso una finestra rotta e rattoppata di un tugurio nel quale avevamo fatto tappa durante il nostro tentativo di fuga, quando un ragazzo sudicio e trafelato, con una camicia che solo chi avesse avuto buon occhio avrebbe potuto riconoscere come rossa, aveva iniziato a sbraitare in napoletano stretto contro un paio di uomini armati – che gli risposero in un lombardo imbastardito – con tanti insulti come intercalari che persino io avevo perso il filo del discorso. Appena i due si girarono, come a voler chiedere aiuto, attirai la sua attenzione con un leggero fischio a fior di labbra, e lui s’infilò fra le assi schiodate di un’altra finestra della stanza, prima ancora che quei due potessero voltarsi nuovamente. Lì, nell’attesa di avere via libera, mio fratello mi aveva raccontato cosa stava succedendo.
Deperivano, uno dopo l’altro, lentamente. Le prime erano state le entità minori, più piccole, già semi-assorbite da qualcun altro. Pochi si erano accorti della loro assenza: già prima rimanevano di rado in uno stesso posto, sempre a fare la spola fra quello che poteva essere il governo centrale e la città vera e propria, o incarichi diplomatici... gli spostamenti potevano solo essere aumentati, con tutte le cose che s'erano da organizzare. Quando era toccato a Pisa, l'anno passato, solo allora si capì che qualcosa non andava. Iniziarono le ricerche: alcuni li ritrovarono privi di vita, altri solo addormentati, in uno strano stato di coma, nel quale rimanevano fino al sopraggiungere della morte; c'era chi si svegliavano un’ultima volta o due, per poi spirare. Molti - i primi - erano semplicemente spariti. Pisa aveva iniziato a sentirsi più stanca del solito, dormiva sempre di più e si svegliava sempre più di rado, finché anche lei non cedette definitivamente.
Bestemmio per la frustrazione.
Una fitta al cuore mi mozza il respiro, e un mezzo sorriso mi compare sulle labbra quando penso che fosse anche ora che qualcuno mi facesse smettere di imprecare.
Lovi mi ha anche detto che ci sono buone probabilità che Maria sopravviva. Non ha avuto tempo di spiegarmi il perché, né sono sicura che sia vero – è un ragazzo in gamba e intelligente, ma non troppo obiettivo, a volte – così cerco di ripercorrere il ragionamento da me.
Quello strano processo di annichilimento progressivo che affliggeva le città, era tanto più rapido quanto più forte era l’influenza altrui sull’entità stessa. Più una città era indipendente, più il suo territorio le apparteneva, più impiegava a deperire. Firenze, che ha un possedimento di un certo peso sotto tutti i punti di vista, sembra stare ancora bene. Mano a mano che vengono fagocitate, perdono il loro status di entità politiche, ma rimangono luoghi di appartenenza. Quindi, più una città è grande, più abitanti ci sono a tenerla viva, nonostante la perdita materiale. Non è la prima volta che nazioni assorbite spariscono, ma il processo era sempre stato molto lento in passato. Nonna Tarquinia impiegò secoli, per sparire. D’altronde, siamo nel pieno di una guerra per l’unità d’Italia: il senso di appartenenza è messo volontariamente da parte. Non so se tornerà abbastanza pesto perché una qualche città o ducato posa sopravvivere.
Pensandoci bene, non c’è mai stato un vero senso di appartenenza allo Stato della Chiesa, da parte dei cittadini, come dovrebbe essere affinché nasca una nazione. C’e un legame territoriale, tanto da creare personificazioni interne all’istituzione stessa, ma non con lo stato in sé e per sé.
...pensa, Lavinia, pensa...
Un colpo di tosse mi scuote il petto, distraendomi per un istante e ricordandomi un episodio allo stesso tempo.
1309: Cattività Avignonese. Quello fu l’unico periodo in cui mi allontanai da Maria, quando lei seguì la corte papale in Francia. Al contrario di quanto sarebbe dovuto accadere, non dimostrò segni di debolezza, né disorientamento dovuto al totale sradicamento territoriale. Iniziò addirittura a parlare francese, la nuova lingua dei documenti più comuni. Non abbiamo mai ricercato una spiegazione logica a quest’evento, dal momento che la piccola non aveva alcun problema... mi sono sempre chiesta se la sua esistenza non fosse più legata all’istituzione ecclesiastica, i fedeli sparsi per il mondo come fossero il suo popolo... Adesso che l’attacco è direttamente sul suo territorio, è ovvio che stia male, ma se in seguito il potere temporale venisse del tutto estinto, scomparirebbe davvero? In fondo, unità o meno, territorio o meno, ci sarà sempre un pontefice. Inoltre, a quanto ha detto Lovi, sembra che il Re abbia intenzione di lasciare al Papa un suo “spazio”, se lo si può chiamare così... più ci penso, più pare che il ragazzo abbia ragione...
“Cough!”
La tosse riprende, più forte di prima. Se inizialmente pensavo che la gola fosse sul punto di sanguinare, adesso sono quasi certa che inizierò a sputarne dei pezzi. Alla fine dell’attacco, guardo ciò che ho sputato sulla mano con cui mi sono coperta la bocca, mentre un dolore sordo mi opprime i polmoni, esausti per lo sforzo e un’evidente irritazione. Sto giusto pensando quanto sia strana una reazione fisica così violenta a una “presa” relativamente pacifica (considerando i precedenti), quando capisco cos’è che sta gocciolando dalla mia mano, riconoscendolo subito dall’odore.
La piccola ha sicuramente molte più chance di sopravvivere di quante non ne abbia io.
Dalla mia mano sgocciola una notevole quantità di sangue, più che altro misto a saliva. Ciò che veramente preoccupa, è quel grumo solido e spugnoso. Avevo detto che credevo mi si stessero staccando dei pezzi di gola, ma ciò che sto perdendo per strada sono tranci di polmone.
Stranamente, non mi sento affatto impaurita. Lo osservo con un distacco sentito, curiosa di capire quali siano le sue reali dimensioni, oltre a tutto quel liquido viscoso che lo avvolge, anche per sapere quale sia l’entità della perdita dal punto di vista quantitativo. Improvvisamente, mi do della stupida, stupita della mia stessa idiozia. Basterebbe un pezzetto la metà di questo per farmi capire che qualcosa non va, e se la tosse continua – cosa di cui non dubito – perderò altre fettine di quest’organo, di cui ho davvero bisogno. Il dolore nel petto, stranamente, sembra essere stabile, anche minore di quanto non fosse in precedenza – è quando non senti più male, che sai di essere vicino alla fine– ma diffuso: pare me li sia giocati entrambi. La mia calma innaturale non mi innervosisce, anzi, sono tranquilla come non mi sento da mesi. Come se sapessi che è arrivata l’ora di finirla, che non c’è più nulla da fare.
Non con poca fatica, mi convinco a rialzarmi, e con l’andatura di una vecchia stanca – quale sono – mi allontano in direzione di una piccola stanza verso le mura, acquistata molti anni fa come “appartamento privato”; un posticino dove poter peccare in tutta serenità, diciamo. Nella stanchezza che rallenta i miei passi riconosco i sintomi descritti da mio fratello. Anche l’apatia nei confronti della recente scoperta, la sensazione di essere alla fine, devono far parte dell’insieme. Strano però: da come me lo aveva raccontato, sembrava una cosa molto più indolore, non aveva parlato di disfacimenti fisici. D’altro canto, mi è sempre piaciuto fare le cose in grande.
Ma non questa volta. I ragazzi sono nel pieno dell’attività, e non c’è davvero bisogno che perdano tempo al mio capezzale per vedermi morire alternando sonno a spettacoli come questo. Sarebbe davvero degradante, oltre che triste e patetico. E Maria...
Per un attimo torno alla realtà, sentendo una fitta d’angoscia trapassarmi come una freccia. Ma come è arrivata, scompare.
Maria è più morta che viva, ma non dubito che possa riuscire a sopravvivere. Non c’è bisogno di angustiarla facendole sapere che sto deperendo, soprattutto in questo modo penoso. Non credo esisterebbe agonia più grande che il vedermi spegnermi lentamente, per lei. E per loro.
Per i miei fratelli, sono sempre stata l’immagine vivente della Città Eterna. Per quanto corrotta e marcia potessi essere, mai hanno dubitato della mia forza. Ero – già, ero – un pilastro, l’indistruttibile personificazione che sarebbe sopravvissuta a tutto.
Quando il nonno se n’é andato, lo ha fatto all’improvviso. E’ semplicemente scomparso nel nulla. Per quanto abbiamo sofferto, devo ammettere che la sua è stata una morte... non saprei... epica. Nonostante la sconfitta, la sua morte ha un che di mitico, come la scomparsa di Ulisse. A volte, avrei voluto poter vedere il suo cadavere, avere un punto materiale in cui piangerlo. Desideravo tornare indietro, trovarlo, passare con lui le sue ultime ore, ma ora capisco il perché della sua scelta. Sapere che è stato sconfitto è un conto. Vederlo morire, è tutta un’altra storia. L’avrebbe declassato, da un’immagine di semi-dio a quella di semplice uomo.
Non voglio essere ricordata come un essere divino – lungi da me – ma nemmeno come una città mortale, non-eterna, una delle tante che si era fregiata di un titolo troppo altisonante.
Voglio che mi ricordino come noi tutti ricordiamo il nonno. E poi, sono la sua più diretta discente: magari non glielo devo, ma sicuramente è un bel... parallelismo. Strana cosa da pensare della propria morte. Non fosse per le fitte al petto, sarei grata per questa lucidità perversa.
Mi sono già avvicinata al letto, dopo aver chiuso la porta, quando il sonno mi coglie di sorpresa, alle spalle, facendomi crollare.
Con un ultimo barlume di coscienza, mi chiedo se mi sveglierò ancora.
 
Gli occhi della donna si aprono all’improvviso, come scuri sbattuti dal vento. Ansima, in preda al panico. Si calma solo quando sente una piccola mano fresca posarsi sulla sua fronte, mentre una voce dolce le sussurra lieve, come in un sogno
“Non preoccuparti, mamma, sono qui, va tutto bene”
 
 
 
Ommammma...
Bene, fine del capitolo 5. Il capitolo 6 mi sta dando qualche rogna, perché a) è venuto lungo come 2 capitoli e b) non sono ancora molto sicura di un paio di punti. In genere, non studio la sera, ma mettermi a fare i cavoli miei al computer mentre ho un tenero libricino di 137 pagine ancora intonso su cui devo prepararmi, mi fa sentire un po’ in colpa. Temo che l’uscita del 6 sarà tarda (come questa), ma spero di sbagliarmi e metterlo su prima!
byebye

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Capitolo 6
*** Preso: parte prima ***


Salve...
Si, lo so, sono in un ritardo infame, e non vi chiedo di scusarmi, dal momento che ho fatto ciò che mi ero ripromessa di non fare, e mi odio per questo. Posso dire che è anche colpa della storia: come avevo già detto, questo capitolo mi stava dando un sacco di rogne. Ogni volta che scrivevo, mi piantavo poco prima del finale, sicché non riuscivo a dividerlo i due capitoli (il 6 dal 7); avrei potuto evitare la divisione, ma veniva fuori una cosa troppo lunga, e non lo potevo assolutamente spezzare così alla boia. Insomma, lo lasciavo decantare dai due ai cinque giorni, poi lo riaprivo e scrivevo il finale, per poi scoprire che quello che avevo scritto in precedenza era tutto da rifare. Alla fine, mi è saltato fuori un mattone da tre capitoli! Sono riuscita, quantomeno, a individuare il 6: adesso, si tratta di rifare lo stesso lavoro con il 7 e l’8. Spero di impiegarci meno tempo.
 
Vi prego, non fatemi scrivere le avvertenze, non è proprio giornata!
 
Capitolo 6:
Preso: parte prima
 
Dopo una lotta estenuante, Francis e Arthur sono riusciti a strappare il telefono all’italiano, temendo che stesse passando informazioni al fratello. Alla fine lo hanno bloccato, facendo leva sulle braccia piegate dietro la schiena. Ora è legato a una sedia, mani e piedi: la sua bravura nella fuga è un talento universalmente riconosciuto. Il broncio è ancora più pronunciato del solito, come la sua ostilità nei loro confronti – nonostante abbiano appena firmato una tregua che l’ha tirato fuori da un mare di guai – e l’ereditaria testardaggine, concentrata pienamente nel compito di farli impazzire: qualunque cosa stesse dicendo a Maria, si era incaponito a non volerla svelare. Poco ma sicuro che non l’aveva chiamata per chiederle come stava. La conclusione più logica è che stesse passando a Maria informazioni da inviare a Feliciano, ma non possono certo precipitarsi in Vaticano e accusare la ragazzina; di cosa, poi? Tradimento? Insomma, l’unica è far parlare l’italiano, tuttavia Francis insiste a rimandare gli incentivi proposti dagli alleati per persuadere Lovino a confermare i loro sospetti, convinto che la risposta sia tutt’altra. L’inglese, nient’affatto persuaso, anche per questioni di principio (mai avrebbe dato ragione a Francis fuori da casa loro), sfoga la sua frustrazione con insulti degni del suo prigioniero, così silenzioso da destare la preoccupazione del cinese e la curiosità del russo, rimasti lì perché sorbirsi Alfred senza i suoi tutori a fargli la guardia è più di quanto possano sopportare. Siccome questi due si sono astenuti da qualsiasi tentativo di votazione e la coppia bionda si ritrovava in parità, Arthur propone di telefonare ad Alfred, occupato altrove. Il francese, insospettito, tentenna, intuendo che l’amante ha in mente qualcosa, ma in mancanza di altre soluzioni, si affida alla fissazione del figlio, per salvare lo scontroso insalamato.
“Alfred, senti, qui c’è un problema”
A parlare è Arthur, con tono calmo, ma con un sorriso davvero troppo somigliante a quello di Ian, per i gusti dell’affascinante uomo dagli occhi blu.
Sorry, but, you know, qui sono un po’ occ-  oh, fuck!”
“Al!” Ma il coretto dei genitori preoccupati/scandalizzati può limitarsi a quel piccolo grido che ha quasi sfondato il microfono della cornetta.
Ya, I’m here! Quick, please, ci stanno sparando addosso e avrei bisogno di tutte e due le mani...”
Arthur si ricompone immediatamente, mentre Francis ha bisogno di un paio di tentativi, primi di riuscire a richiudere la bocca: a certe cose non si è ancora abituato.
“Lovi ha fatto una telefonata alquanto sospetta a Maria, ed è fermamente intenzionato a non dirci di che parlavano; pensi sia lecito convincerlo con metodi più diretti?”
Francis spalanca gli occhi, inorridito: il ghigno da pirata è tornato.
Do as you wish, Iggy! Adesso vado, ho da fare, bye bye!”
L’inglese si gira, con un sorriso soddisfatto sul volto, incontrando un paio di scettici occhi blu.
“Starai scherzando, spero?”
Mentre riaggancia il telefono, risponde incurvando ulteriormente le labbra, un guizzo di luce nelle sue iridi verdi a sottolineare l’eccitazione. E’ forse proprio questo ultimo lampo ad allertare Francis
“Arthur, qualunque cosa tu abbia in mente, NO! E poi, che razza di votazione era questa?”
Lo sconcerto montante nella voce del compagno ha solo l’effetto di divertirlo ancora di più.
“L’hai sentito, no? Ha detto di-“
“Ah! Mi stai prendendo in giro!?! Se credi che qualcuno qui dentro prenda per buona questa votazione, ti sb-“
“E perché, di grazia?”
Il tono è leggero e canzonatorio.
“Perché la domanda era... interpretabile in più modi, ecco! Alfred non ha capito quello che volevi dire!”
Francis si lascia andare, non furibondo, ma decisamente irritato: non sopporta di essere trattato in questa maniera. Mentre l’altro adora prenderlo in giro a quel modo, soprattutto quando ha la possibilità di tirare avanti la pantomima e vedere il compagno affondare. Spalanca quindi gli occhi in un’espressione di sorpresa scandalizzata, quasi shoccato,
“Davveeero? E dimmi, tu come fai a sapere che le ha interpretate nel modo sbagliato?”
Appena finito di parlare, le labbra si distendono nuovamente in un sorriso sornione, alla vista della bocca dell’altro aperta, senza parole, il dito accusatorio puntato verso di lui che si ritira lentamente, sconfitto. Incrocia le braccia, fissandolo con sguardo truce, scurito, come un cielo che promette fulmini e saette.
Arthur si avvicina al San Sebastiano seduto sotto lo sguardo atterrito del francese, battendo sulla mano destra un frustino sbucato dal nulla. La somiglianza con il fratello scozzese riesce a inquietare anche Russia: Ian non è il suo rivale per il titolo “nazione più sadica dell’anno” per niente (certo, Natalya arriva regolarmente prima, ma loro due si litigano sempre il secondo posto).
“Ti do un paio d’ore per riflettere circa la tua condizione attuale. Quando tornerò qua, se non avrai cambiato idea, mi troverò costretto a convincerti con metodi che temo non saranno piacevoli... per te”.
E con un ghigno piratesco, gira sui tacchi, dirigendosi verso la porta. Con un lieve gesto della mano, fa segno agli altri di seguirlo, e l’evidente instabilità emotiva dell’inglese li spinge a obbedire, meno Russia, che vuole semplicemente una bottiglia di vodka.
Lovino sospira di sollievo, e lascia che i brividi fino ad allora trattenuti lo scuotano: si sta cagando addosso. Quello squilibrato sembra aver recuperato tutta la ferocia persa negli ultimi due secoli, e non ha bei ricordi dei suoi trattamenti. Basti dire che Antonio lo usava al posto dell’uomo nero: il bastardo d’oltremanica faceva molta più paura.
Eppure, nonostante questo, non parlerà.
 
Il pomeriggio estivo napoletano è il frutto di una qualche punizione divina, di questo è convinto. E la notte che segue quel pomeriggio non è da meno.
Il piccolo Lovino, coperto dalla sua piccola tunichetta, si rigira nel letto, inseguendo la brezza. Ogni tanto la sente, ogni tanto no. Magari dovrebbe alzarsi a spostare le tende, ma è troppo stanco per farlo, così continua a spostarsi da un lato all’altro del letto. Condannato all’insonnia, i suoi pensieri tornano al giorno appena trascorso, un altro triste capitolo della sua vita: il nonno voleva portarli a pescare. Una frase estremamente innocente, non fosse per il fatto che quel plurale si era rivelato una semplice cortesia, tanto per cambiare. Messagli la canna in mano, una volta attaccata l’esca, si era subito dedicato a Feli. Come un bambino dotato di capacità manuali innaturali per la sua età potesse essere così negato per le cose più pratiche e semplici, gli rimaneva del tutto oscuro. Come non capiva perché, a parti invertite, il nonno passava il tempo a elogiare i lavori di Feli, piuttosto che aiutare lui a disegnare decentemente. E invece no: gli dava un consiglio, un sorriso, poi via a cercare il piccolino.
Dannazione.
Dopo essersi rotolato tanto, come un fachiro incapace sui carboni ardenti, Lovino si ferma, sdraiato di schiena, le braccia e le gambe aperte a stella. La corrente si è stabilizzata, e ora si gode la frescura della notte, i capelli che si spostano lievemente, come la tende che le sue palpebre chiuse gli nascondono. Si sentirebbe forse meglio senza il magone che gli blocca la gola, o senza il pizzicore agli occhi, quello che gli viene quando sta per piangere. Tira su col naso, una, due, tre volte, tanto che inizia a non sentire più l’odore dei gelsomini. Immobile, lascia che una lacrima gli coli lungo la guancia, silenziosa.
In quell’immobilità caratteristica della notte fonda, sente un movimento. Un fruscio di vesti, seta e lino, un leggerissimo passo scalzo, poi la porta della sua camera che si schiude. Irrazionalmente, pensa che il nonno sia venuto a controllare se dorme, ma la leggerezza del passo è troppa anche per quell’uomo che, malgrado la stazza, sa muoversi come un topino che corre sulle uova.
Vorrebbe scacciare l’intruso, ma è troppo stanco per drizzarsi: aspetterà che si avvicini per urlargli contro e spaventarlo, metodo di cui conosce approfonditamente l’efficacia.
La distanza è quella giusta, quando il suono lieve di un braccialetto lo ferma: è solo un bracciale, eppure, quel suono... ha un che di particolare, di famigliare...
Prima che possa ricordare, un’ombra si frappone fra lui e la flebile luce dei bracieri fuori dalla finestra, mentre la brezza gli porta alle narici semioccluse un odore come di... non avrebbe saputo dire... come di casa: c’era l’odore di fiume, di erba fresca, di bosco, e di qualcosa di marino, ma non proprio mare... più la vegetazione della costa...
Apre gli occhi verdi, umidi e irritati, incontrando due iridi scure tempestate di luce. La mano soffice di Lavinia gli carezza una guancia, asciugandogli la lacrima con il pollice; Lovi riesce a sentire un piccolo callo, sul bordo, dato dallo stilo. Vede gli occhi di sua sorella socchiudersi, le labbra curvarsi in uno di quei suoi sempre più rari e bellissimi sorrisi. Sono così dolci da far sembrare quelli di Feli un calice di fiele.
Lei non dice nulla: si china in avanti, baciandogli la fronte e gli occhi, per poi sfregare il naso contro il suo. Si gira, prende il lenzuolo e lo copre; il bambino è ancora nell’età di chi non capisce che non si può stare in corrente quando si è sudati, ma l’affetto insito nel gesto lo spinge a non rifiutare la coperta. Con un’ultima carezza, la ragazzina si alza e se ne va, senza mai dire una parola, come a voler rispettare il silenzio della casa.
E’ sulla soglia quando il fratellino, ora sdraiato su un fianco per poterla vedere mentre si allontana, sussurra
“Roma...”
Lei si volta, il viso addolcito da una lieve curva delle labbra; qualcosa, nel suo volto, lo incita a continuare
“Grazie.”
Lei risponde socchiudendo gli occhi, poi esce. La porta non si è ancora richiusa del tutto quando il bambino borbotta quello che il suo orgoglio non gli permette di dire ad alta voce, alla luce del sole, quando sembra che nulla si possa nascondere
“Ti voglio bene.”
I suoi occhi sono bassi, ma quando li rialza, attraverso il quasi inesistente spiraglio della porta, coglie uno sbrilluccichio dorato, accompagnato da una risposta così lieve da potersi scambiare per un suono creato dal vento
“Anche io ti voglio bene, Lovi.”
L’ultima cosa che riesce a pensare prima di addormentarsi, è che gli è sembrato di sentire un sorriso, nella sua voce.
 
L’Urbe è prossima a cadere. E non importa quanto scalci, quanto si dimeni, quanto gridi. Lei cadrà, e lui non può fare nulla.
Bisogno di aiuto? Io? Ma fammi il favore... non ho bisogno di eroi, Lovi; solo di un buon bicchiere di vino.
Gli aveva detto, il lungo bocchino fra le dita, il fumo che usciva leggero dalle labbra semiaperte tinte di rosso, brillanti come una ciliegia bagnata. Lei, che si era sempre salvata da sola, sbucando dalle macerie, sporca e lacera, stanca; per poi riprendere in mano i cocci e ricostruire tutto d’accapo.
Sente gli occhi che gli bruciano, una lacrima colargli lungo la guancia, ma Lavinia non è lì per asciugargliela. Ha promesso loro che sarebbe andato a prenderle, che avrebbe convinto Feli ad arrendersi, ed eccolo qua immobilizzato alla sedia.
Dannazione.
 
 
Perché non dice semplicemente che si tratta di Roma? Cosa lo trattiene? Ah, se vi chiedete perché non ha mentito è semplicemente perché non gli è venuto in mente niente sul momento, e adesso può solo fare lo stoico e sperare che finiscano. Capirete meglio nelle seconda parte!
byebye
 

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Capitolo 7
*** Preso: parte seconda ***


Bene, qui c’è la parte seconda, che spero non sia troppo noiosa. Sto lavorando ai capitoli 8 e 9, e mi rendo conto che forse sto tirando la prigionia di Lovi un po’ troppo per le lunghe, infilandoci magari dei flashback che potrei risparmiarmi (?). Giuro, ho provato a toglierli, ma senza mi venivano a mancare quelle scene che dimostravano la profondità di certi sentimenti, come pure quei retroscena che aiutano a capire il perché di certi legami, sottolineando gli affetti o gli scontri che i personaggi hanno avuto. Insomma, accennare a un vecchio rancore, come parlare di una relazione fallita, non è lo stesso che vederne una parte. Inoltre, stiamo parlando di un periodo di attesa: Nina aspetta che finiscano i bombardamenti, Lovi che aspetta di essere liberato, gli alleati che aspettano che parli, ecc... ecc... Quando puoi pensare ai momenti felici o comunque importanti della tua vita, se non in una situazione critica come questa, quando sei lì, solo con te stesso, a un passo dal finire nelle mani di Iggy (nel caso di Lovi)? Vi chiedo solo un po’ di elasticità... per favore ç_ç
 
Avvertenze: Hetalia, i suoi personaggi e questo sito non sono miei.
 
Capitolo 7
Preso: parte seconda
 
E’ il 14 agosto.
Il sole illumina Roma con i suoi ultimi raggi, prima di scomparire dietro l’orizzonte. E’ stata una giornata calda, leggermente afosa, e i quattro fratelli sono sudati fradici, affaticati dallo scarpinare avanti e indietro per città. E’ il loro giorno di riposo, liberi dall’impegno di dover schizzare da un lato all’altro del giovane paese, eppure non si rilassano, non si lasciano andare nemmeno per un attimo. Perché?
Perché, come da tre anni a questa parte, passano ogni attimo che Sua Grazia concede loro a cercarla, animati dall’irrazionale convinzione che la Città Eterna sia ancora viva. Malconcia, indebolita, stremata, ma viva.
Tutte le città sono scomparse, una dopo l’altra. Meno Milano. E se Serena è sopravvissuta, perché non ci sarebbe dovuta riuscire anche Lavinia?
La prima cosa che avevano controllato, erano stati i morti. Triste punto da cui partire, ma non potevano non farlo. Rassicurati dall’insuccesso, avevano setacciato le strade, poi ospedali, alberghi, taverne, bordelli...
Ma nulla.
Una personalità molto altolocata (meglio non fare nomi), aveva suggerito, come sua possibile ubicazione, il letto del Tevere. Lovino gli aveva rotto il naso, per questo. Purtroppo, non era l’unico a pensarla a quel modo: nemmeno Antonio sperava più di rivederla, come si era rassegnato Francis.
Erano soli.
Oggi, un giorno come tanti, hanno però un indizio. Forse insignificante, un giro a vuoto, ma cosa hanno da perdere?
E’ un vecchio contratto d’affitto, per una piccola stanza in una palazzina dimenticata da Dio, di cui Lovi immagina l’utilizzo. Benché sia sua sorella, non si scandalizza più di tanto: d’altronde, se lo fanno nazioni come Prussia o Inghilterra, perché non dovrebbe essere concesso a lei?
Sul contratto non c’è il numero dell’appartamento, quindi non sanno in che stanza possa trovarsi. Aprirle una ad una non è un problema, però: il posto è abbandonato da anni. Si sparpagliano per l’edificio, ognuno si occupa di un piano. Serena e Maria sono insieme, dal momento che Milano – benché siano passati molti anni – ancora non si è abituata al suo ridimensionamento, e non si fidano a lasciarla da sola, nonostante le sue proteste.
Lovi sta per scassinare la terza porta, quando si accorge che è aperta. Gira la maniglia, lentamente, quasi timoroso. Gli scuri sono semichiusi, le tende ingiallite e assottigliate si muovono appena. Solo un raggio di luce riesce a entrare dalla finestra, ma basta e avanza per far capire al ragazzo cosa giace sul letto.
Si avvicina cautamente, terrorizzato da ciò che sta per trovare, tanto che non si accorge di stare trattenendo il respiro. Le gambe gli tremano sempre più a ogni passo, tanto che una volta raggiunto il letto, vi crolla di fianco, riuscendo a mettersi in ginocchio. Lentamente, si raddrizza, senza però fidarsi a tal punto dei suoi arti da rimettersi in piedi. Appoggia le mani al bordo del materasso, come farebbe un bambino per sbirciare l’operato della madre sul tavolo. Lentamente, allunga un braccio verso la figura sdraiata sul letto.
Si blocca quando riconosce l’odore di putrefazione nell’aria.
I suoi fratelli lo trovano così, immobile come una statua di marmo, il braccio a mezz’aria. Fermi sulla soglia, solo Serena si riprende abbastanza in fretta da andare alla finestra, aprendo tende e scuri.
La luce rossa del tramonto colora l’ambiente, investendo la donna sdraiata.
Coricata sulla schiena, le mani incrociate all’altezza dello stomaco, sembra uscita da una storia dei fratelli Grimm, o da qualche altro racconto...
...perché sei tu ancora così bella?
Debbo io credere che la morte immateriale senta l'amore,
e che lo smunto aborrito mostro ti tenga qui nelle tenebre,
perché tu sia la sua amante?
Ma...
Sulla coperta ci sono varie macchie di sangue, strani detriti decomposti su cui riposano delle mosche, indisturbate dagli intrusi. Il vestito, sul davanti, ha cambiato completamente colore, e un rivolo rosso e secco le segna il mento. Serena, che si trova dall’altra parte del letto, vede di sfuggita resti vomitati macchiati di scuro.
Il petto della donna è immobile.
Feliciano trema così tanto da doversi appoggiare allo stipite della porta per non collassare per terra; Serena si porta le mani alla bocca, gli occhi spalancati come quelli di un cerbiatto, le lacrime le colano ai lati. Lovi, invece, non fa nulla: rimane lì, paralizzato, guardando il corpo della sorella, perfettamente integro, irrimediabilmente freddo.
Maria, invece, avanza in direzione della donna: prima un passo esitante, poi un secondo, infine una breve corsa in cui sembra sempre sul punto di inciampare sui propri piedi. Arrivata al bordo del letto, allunga una mano, e la posa su quella di Lavinia. Sotto il suo palmo sudato, sente la pelle fredda e assottigliata della sorella. Non l’aveva mai vista così fragile, o così pallida. Non ha tempo di riflettere oltre, perché Lovino ha già preso lo slancio, sollevando di peso Nina, per portarla fuori dalla stanza, accasciata fra le sue braccia, una tragica parodia dell’entrata di una sposa nella sua nuova casa.
 
Arrivano a casa sotto l’occhio vigile della luna, accompagnati dal suono dei loro passi e dal lieve scricchiolio del legno sotto i loro piedi. Raggiungono l’ultima camera vuota rimasta di quell’ampio appartamento, e adagiano sul letto la poverina. Ancora non sanno se seppellirla o meno; la vita l’ha abbandonata, su questo non c’è dubbio, eppure il suo aspetto incorrotto impedisce loro ogni decisione in proposito.
Il giorno seguente, dopo una notte insonne, Maria e Serena lavano e cambiano la sorella, sentendosi impresari di pompe funebri, piuttosto che infermiere. Ora è sdraiata nuovamente sul letto, addosso una camicia da notte lunga e bianca, che fa storcere le labbra a Lovi: gli ricorda troppo la Bella Addormentata, una principessa che aspetti l’arrivo di un principe perché sconfigga il drago e la svegli con un bacio. Più volte aveva desiderato di esserle accanto, di proteggerla, di arrivare in tempo, ma ogni volta lei era già lì, in piedi, a testa alta. Proprio adesso che ne ha l’occasione, sente la sua inadeguatezza più che mai, lui che non è né un principe né un eroe.
Consumano il pasto in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Serena è a tal punto assorta, da non essersi resa conto di aver lasciato la finestra aperta nella camera della sorella, inizialmente schiusa per cambiare aria. Il vento si rinforza sempre più, tanto che dalla stanza di Nina arriva nel salotto, sbattendo le porte, fino a raggiungere la porta-finestra a sinistra di Lovino. Tutti si alzano, chi per andare a chiudere la finestra galeotta, chi per raccogliere le carte sparse per terra, lungo tutto il corridoio. D’un tratto, il rumore nella camera di Lavinia scompare, e il leggero “click” della maniglia della finestra che si chiude rimbomba nella grande casa come un colpo di moschetto.
Con passo incerto percorrono il corridoio, fino alla stanza della donna. Lì, davanti alla finestra, dietro il letto vuoto, una figura, in piedi, ha appena tirato le sottili tende di lino, ma non accenna a muoversi. La porta si sposta, incautamente urtata da Maria, segnalando il proprio movimento con il suono acuto dei cardini mal oleati. La figura si gira, e i suoi occhi brillanti e stanchi si fissano su di loro.
Lovino la prende al volo, appena prima che lo svenimento improvviso la faccia scivolare per terra.
 
Sono passate un paio di settimane da quel giorno, e nessuno sa ancora nulla, meno una ristretta cerchia di umani all’interno del Governo italiano.
Nina si muove a passi incerti, accasciandosi infine sul canapè, accanto a Serena. Ora sono tutti riuniti attorno a un tavolino, coperto da documenti del giorno prima e dalla posta appena arrivata. Non sono lì per discutere di come o perché Lavinia sia ritornata – un argomento affrontato più volte, infruttuosamente, contando che nemmeno lei lo sa – ma per decidere se sia ora di diffondere la notizia:
La Città Eterna vive.
Ma non vuole che lo si sappia.
 “Cosa hai deciso, Nina?”
A porre la domanda è Lovi, improvvisatosi capofamiglia dalla scomparsa della sorella fino alla sua completa ripresa.
“Non dite nulla.”
Per qualche ragione, nessuno si sorprende della risposta. Ciò non vuol dire che siano d’accordo, però.
“Ma perché, Nina!?! Lo sai che c’è tanta gente ch’è preoccupata e a cui manchi e che vorrebbe vederti e c-“
“NO! NON LASCIERO’ CHE MI VEDANO IN QUESTO STATO!”
... spodestata...
“Ni-“
... decadente...
Un’occhiata della donna fa desistere Feli. Ancora debilitata, si alza traballante senza dire un’altra parola,
... prigioniera di sé stessa...
scomparendo in camera sua e lasciando la porta chiudersi lentamente alle sue spalle.
... solo una come tante.
 
Non è per quella stupida promessa che si rifiuta di parlare. Sa essere di parola, ma è anche abbastanza pratico da mettere da parte certe inezie, se necessario. Ciò che davvero lo preoccupa, è quello che potrebbero farle.
Osservazione stupida, alla prima occhiata: sapere che la capitale ha una personificazione non dovrebbe spingerli a darsi più da fare? A mettersi in moto per preservarla, stando più attenti, organizzando magari qualcosa per tirarla fuori dai guai?
Ma Lovino è abbastanza smaliziato – ma soprattutto diffidente – da sapere che ogni medaglia ha un’altra faccia.
Nina sarebbe stata molto più che un ostaggio prezioso. Oh, lei non aveva mai partecipato direttamente alla vita politica: aveva sempre preferito passare il suo tempo fra festini e circoli, con brevi soste a qualche cerimonia ufficiale. Negli ultimi cinquant’anni, i salotti esteti della Roma decadente prima e le feste dell’alta borghesia intellettuale (fascista o meno) poi, erano stati la sua seconda casa. E ora come allora, nulla sfuggiva alle sue orecchie, dai pettegolezzi sulle piccole trasgressioni di personaggi di spicco, agli intrighi di palazzo (se così li si può ancora chiamare). Non dubita che molte delle notizie da lei raccolte possano essere più che utili. Non è stata forse lei a dire cercare di convincere Ornella a fermarsi? Già sapeva che suo marito era Flossenbürg...
Un motivo in più per volerla viva, certo; come un motivo in più per spremerla fino all’esaurimento.
Lovino rabbrividisce al pensiero di cosa potrebbero farle, perché lui lo sa, sa che lei non parlerà. Che aspetterà che sia Feli, ad arrendersi, a costo di farsi ridurre in pezzi, piuttosto che venderlo. Perché non importa quanto male loro le abbiano fatto e quanto ancora gliene faranno, o quanto le bruci la ferita inferta al suo orgoglio, a quasi ottant’anni di distanza: Serena, Feliciano, Maria, lui stesso; li difenderà sempre, ad ogni costo. Così fragile e debole, e ora anche più dell’ultima volta che l’ha vista...
Non gliela consegnerà mai.
 
 
Avrei dovuto tagliarla all’altezza della fine del ricordo, ma una parte di presente mi serviva. Spero sia chiaro il perché Lavinia non vuole farsi vedere in giro: insomma, prima era centro del mondo, poi La capitale dello Stato della Chiesa (immagino che la si possa definire la capitale del cattolicesimo, anche se ha pochissimo senso, ma l’idea è quella che era davvero unica fra tutte, e dire Città Eterna in un contesto cristiano, capirete che ha un certo peso), quindi davvero importante, abituata com’era che imperatori e re si facevano incoronare dal pontefice. Si è infine ritrovata ad essere solo la capitale di uno stato come potevano essere tanti altri, meno che era poverissimo, disorganizzato, diverso, incasinato, e l’unico motivo per cui ad altre nazioni interessava fosse unito era perché era un dato che pestava i piedi agli avversari. Ricapitolando: spodestata, perché non occupa quel “posto speciale” all’interno del contesto internazionale; decadente, perché era lì che il papato investiva tutti i soldi, prima, e per quanto potesse passarsela bene rispetto ad altre città, diciamo che non era esattamente lo stesso che essere il punto d’incontro fa personalità del calibro di Michelangelo o Caravaggio; prigioniera perché è il suo stesso titolo di capitale d’Italia a incatenarla, a imporle limiti che prima non aveva; una come tante perché, ovviamente, ogni stato ha la sua capitale, quindi si ritrovava al livello di Londra o Parigi, con l’unica differenza di essere messa oggettivamente peggio. Insomma, per quanto felice di essere con i suoi fratelli, il suo orgoglio era affondato. Lovi a paura di parlare perché non vuole passarla dalla padella alla brace, cioè dalle bombe al fantino.
Se ve lo state chiedendo, si, quella è una citazione di Willy, da Romeo e Giulietta, e si, lo so, parlare di “racconto” non è esattamente il massimo, in questo caso, ma cosa dovevo scrivere “da una storia dei fratelli Grimm, o da qualche pièce teatrale...”? Insomma, suonava un po’ ridicolo.
Per dubbi, lasciate un messaggio!
byebye

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Capitolo 8
*** Aiutami: parte prima ***


Continua la prigionia di Lovi, ma siamo ormai a un punto di svolta (beh, nella seconda parte, almeno), quindi tenete duro (oppure saltate e aspettate il prossimo). Ah, e non preoccupatevi per Nina: come direbbe il nostro povero Romano “quella donna c’ha cazzi e contro cazzi, altroché!” (eheh... scusate il mio francese)
 
Avvertenze: le solite. Se mi metto a fare avanti indietro con gli altri capitoli per riscriverle, poi non metto più su questo dannato capitolo.
 
Capitolo 8
Aiutami: parte prima
 
“Allora, Lovi, cambiato idea?”
L’urlo lo riporta bruscamente alla realtà, e l’irritazione, combinata alla rabbia per l’uso di quel nomignolo da parte dell’inglese gli fa fare una cosa decisamente stupida: sputa in un occhio al fantino con gli occhi verdi. La reazione fulminea arriva sotto forma di pugno, e Lovi sente il fiato uscire di colpo dai suoi polmoni, lasciandolo senza respiro. La sedia dondola appena all’indietro, ma subito torna dritta, e gli viene risparmiato il dolore di una craniata contro il pavimento. Si aspetta un altro colpo, che però non arriva: Francis ha preso Arthur per le spalle.
“Arthur, calmati!”
“Tu! Mollami! Abbiamo già deciso!”
“Arthur... lasciami provare, solo una volta! Dammi un attimo...”
“Assolutamente no!”
Fa per liberarsi e tornare alla carica, quando l’alleato gli afferra una spalla, sbattendolo violentemente contro il muro, con grande stupore dei presenti: erano almeno trecento anni che Francis e Arthur non litigavano a quel modo.
“ARTHUR KIRKLAND! PIANTALA!”
L’inglese, basito, borbotta qualcosa, furioso, per poi uscire sbattendo la porta, lasciandoli con un “Cinque minuti!”. Ivan e Yao spariscono insieme a lui, intuendo che il francese ha bisogno di rimanere solo con il prigioniero. Ora sono soli.
Con il fiatone, Francis si avvicina al ragazzo. Appoggia un ginocchio per terra, per mettersi più o meno alla sua altezza.
“Lovi, ti prego, dimmi cosa stavate parlando. E non dirmi che volevi solo sentire come stava, perché non ci casco”
La sua voce è preoccupata, il tono sfinito. L’italiano immagina che abbia passato la pausa per cercare di convincere l’inglese a piantarla di comportarsi come uno psicopatico. Con scarso successo. Cosa dovrebbe dirgli? La verità, (grossomodo) cioè che voleva solo sapere come stava Maria (quando gli ha appena detto che non ci sarebbe cascato?)? O mentirgli spudoratamente, e dire che gli aveva svelato un qualche piano segreto (peccato solo che non ce ne fossero, di piani segreti, a parte continuare a spararsi e lanciare bombe)?
“Perché?”
Gli occhi semichiusi, lo sguardo sospettoso: alleati o meno, non vede il motivo per cui debba prendersi tanto disturbo.
Il blu delle sue iridi è attraversato da un lampo doloroso, quasi colpevole, e lui mangia la foglia.
“Lavinia, vero? Ti senti, cosa, indebitato? In colpa?”
Nell’ultima parte della domanda c’è una sfumatura ironica, divertita: il tempismo del bastardo d’oltralpe è sempre stato pessimo, quasi quanto il suo, almeno per quanto riguarda sua sorella. Aveva saputo che era scomparsa due mesi dopo il fatto, per lettera: lui e il compagno erano andati oltreoceano, preoccupati per Alfred. Probabilmente l’aveva letta una sera, in un ritaglio di tempo, quando aveva deciso che il mucchio di posta accumulata nelle ultime settimane andava ormai oltre il limite di tolleranza del suo senso estetico e che bisognava fare qualcosa. Quasi se lo immagina, seduto sul letto, la camicia mezza sbottonata, l’altro che si fa il bagno nella stanza di fianco dopo una nottata movimentata; per ogni lettera che apre ne butta via tre chiuse, si accorge che una di queste arriva dall’Italia giusto mentre sta cadendo nel camino assieme ad altre due. Se ne sta lì, calmo, appena incuriosito, ascoltando Arthur che canticchia, poi la apre, legge e...
Buffo come Lovi non lo abbia perdonato per averla lasciata, mentre lui e Lavinia avevano addirittura ricominciato a scriversi, fino a prima della sua scomparsa; non a vedersi, è vero, ma a scriversi.
Il labbro dell’altro trema per un attimo, punto nel vivo.
“Io... si”
Non lascia trasparire la sua sorpresa – non si aspettava una risposta così sincera – per la confessione, benché gli occhi bassi dell’altro gli diano la possibilità di non trattenersi.
“E vuoi fare ammenda aiutandomi?”
Il tono ha un che di incredulo, nonostante la linea di condotta dell’altro sia più che comprensibile. Semplicemente... non se lo aspettava, ecco. Sarà che diffida di lui per principio: i loro trascorsi parlano per lo più di lui e i suoi fratelli presi a calci dal francese ogni volta che aveva soldi e voglia per espandersi in Europa, piuttosto che contendersi un pezzo di terra dimenticato da Dio con l’inglese.
“Già”
Non si può dire che la voce rotta dell’altro lo incuriosisca, né che lo tocchi, ma la domanda gli sorge spontanea, uscendo dalle sue labbra prima che possa fermarla.
“Ci tenevi a lei?”
Vede l’ombra del suo viso riflessa in quelle iridi color zaffiro, brillanti come bracciali d’argento e diamanti.
“Si”
E’ un singhiozzo, più che una risposta, o un sospiro, non sa bene come chiamarlo. Lovino si morde le labbra, indeciso. Non perché vuole alleviare il dolore dell’altro, no: per quanto lo riguarda, può anche schiattare sul posto, il bastardo. Ma se davvero ci teneva, a lei, e se potesse tenerci ancora... tenerci abbastanza da nasconderlo agli altri, perfino al suo amante... magari non lasciarlo andare, ma solo aiutarlo a fuggire... oppure...
...chiedere a Francis, di andare?
No, il biondino non ce l’avrebbe mai fatta. Ma lui avrebbe avuto alle calcagna gli alleati e di fronte Nazisti e Camice Nere, aveva bisogno di vantaggio... per ora deve accontentarsi di guadagnare tempo; per il salvataggio deve aspettare che gli alleati la piantino di considerarlo alla stregua di un traditore: si sente tale già di suo, senza che quei cretini si mettano a sparare accuse alla cazzo...
“Francis”
La sua voce è calma, seria, e l’altro sembra riprendersi, reso attento da quel tono solenne.
“Dimmi”
“Devi convincerli a smettere di bombardare Roma”
L’altro sgrana gli occhi per un attimo, sorpreso. Per carità, è ovvio che a una Nazione non faccia piacere che la propria capitale venga bombardata, ma in quel momento non è esattamente la sua priorità. Ha capito o no che Arthur ha tutta l’intenzione di farlo pentire di essere nato? Deve esserci qualcos’altro... E’ per Maria? Non ha senso... nonostante tutto ciò che è successo, lui e Arthur vogliono ancora bene alla piccolina, stanno attentissimi a non colpirla. Perplesso, stringe appena gli occhi, riflettendo. E Milano? Non è che se la passi troppo bene nemmeno lei... Possibile che il suo rancore nei confronti di Feli arrivi ad estendersi fino a sua sorella? Serena è stata sospettosa fin dall’inizio di “quell’omino pelato che sbraita in continuazione”: non può certo ritenerla responsabile per averlo sostenuto.
O forse – pensa amaramente – lui non è l’unico a convivere con il senso di colpa per essere arrivato tardi. Dio, quanto si è odiato, quel giorno, mentre leggeva quella dannata lettera. Riusciva ancora a ricordarsi il calore del fuoco del camino sulla pelle, il tepore delle fiamme che lo abbandonava a poco a poco, ogni frase una stilettata al cuore, fino a lasciarlo freddo come un cadavere. Occupato com’era a pensare ad Alfred, assorbito dalla sua relazione con Arthur, non aveva nemmeno notato l’assenza di risposte da parte di lei. Solo un po’ di irritazione per il ritardo, e anche quello raramente, quando era solo e annoiato. Si riprometteva di scriverle, e immancabilmente rimandava, posticipava, come si farebbe con un appuntamento con una vecchia zia rompiscatole. Sono ormai ottant’anni che Roma è diventata sinonimo di tomba, per lui. Non osa nemmeno immaginarsi come possa sentirsi il ragazzo che lo sta fissando... Benché codardo, è ovvio che si senta obbligato a proteggere quel poco che rimane della sua Nina...
 
“Aspetta qui, vado a prenderti qualcosa di più leggero... ah, questi schiavi proprio non sanno fare il loro lavoro”
L’ultima frase è più un borbottio irritato. La schiava persiana che ha portato la tunica guarda Romulus con sguardo smarrito: quella le è stata consegnata, e quella gli ha portato. Lui storce la bocca e la congeda con uno sguardo bonario. Che sia arrabbiato o meno, mai lo ha visto anche solo alzare la voce contro una donna, e così ha insegnato anche a lui. Si appoggia a una colonna, scalzo e con un vestito di lana pesante che gli pizzica la pelle, umida di sudore. Avrebbe dovuto ricordarsi quanto Roma fosse calda già in primavera, ma il governatore è partito in tutta fretta, e non ha potuto fare altro che seguirlo. Annoiato, si guarda intorno, osservando i piccoli cambiamenti apportati negli ultimi anni: il marmo bianco che ricopre ogni muro e colonna è sempre lucido, gli intagli in pietra colorata ancora perfetti, una panca egizia ha sostituito un mobile di fattura greca. L’unica ristrutturazione significativa è la sostituzione del mosaico sul pavimento: la scena di una corsa di carri è stata rimpiazzata da intricati motivi geometrici e floreali, in pietre dal taglio piccolo, minuziosamente accostate l’una all’altra, creando un’infinita scala di sfumature. Un tintinnio alla sua sinistra lo spinge a voltarsi: al centro del giardino nell’impluvium, accanto alla fontana, il piccolo Romano si sta sporgendo sull’acqua, cercando di raccogliere un fiore che vi galleggia sopra. Poco ma sicuro che ci cadrà dentro da un momento all’altro. Romulus tende a lasciare un po’ troppa libertà a quel marmocchio, convinto com’è che il fatto di essere il maggiore dei due fratelli ne faccia automaticamente un ragazzino maturo e indipendente. Non fa in tempo a fare un passo per avvicinarsi e impedire l’imminente incidente, che una figura fasciata di lino rosso compare si fianco al piccolo, prendendolo da sotto le ascelle e tirandolo giù dal bordo. Si aspetta una delle solite scenate, con tanto di calci e piccoli pugni (innocui), invece fa solo una piccola smorfia seccata, le braccia conserte e il viso leggermente arrossato dall’imbarazzo di essere stato colto in flagrante. Avvicinandosi, si appoggia nuovamente a una colonna, all’esterno del porticato, ancora ignorato nonostante si trovi giusto accanto a una torcia. Valuta la ragazza di fronte a lui, che deve avere all’incirca la sua età, appena un po’ più giovane, magari. Mette una mano sulla spalla del bambino, poi si allunga e prende il fiore per lui, porgendoglielo. Dopo avergli scompigliato i capelli, si allontana, ma il piccolo la richiama
“Roma...”
La voce è flebile, ma il franco è sicuro di aver capito bene. Questa gli è nuova... la personificazione dell’Urbe? Perché non poteva essere altrimenti. In effetti, già da prima aveva avuto la sensazione che si trattasse di una di loro, ma era solo una sensazione, appunto. E pensare che deve essere nata ancor prima di Romano. Certo che avrebbero potuto avvertirlo! Con un mezzo sorriso, aspetta lo scontro da poco rimandato: forse un giorno imparerà, ma per ora Lovi non fa molto caso al sesso o all’età della persona contro cui sta sbraitando. E invece, una volta che gli si è avvicinata, lui allunga il braccio, porgendole il fiore. I suoi occhioni blu si aprono ancor di più quando lei si abbassa per dargli un bacio sulla fronte, e il bambino la lascia fare, gli angoli della bocca che s’incurvano impercettibilmente all’insù appena lei scompare fra le ombre del porticato.
 
 
 
Se vi state domandando: “ma perché cavolo ha messo questo flash-back?”, lo spiego subito. Il fatto è che (scusi prof, lo so che non dovrei iniziare una frase così, soprattutto se scrivo, ma sa, siamo su un sito di ff, quindi, dai... polleggio....) volevo mostrare questo rapporto fratello-sorella anche da un occhio esterno, senza contare che questo è il primo ricordo che Francis ha di Nina. Credo sia piuttosto significativo che la prima volta che ha visto questa donna d’acciaio non sia stato durante un’ambasceria – quando si sarebbe trovato di fronte a una wonder - woman ante-litteram – ma l’abbia scorta in un momento d’intimità, che mostra la tenerezza e l’affetto di cui è capace, soprattutto nei confronti di un personaggio scontroso come Lovi. Immagino sia un episodio che l’abbia colpito molto.
byebye

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Capitolo 9
*** Aiutami: parte seconda ***


Capitolo 9
Aiutami: parte seconda
 
Sospira, chiudendo gli occhi. Quando li riapre, la commozione di poco prima è scomparsa, lasciando posto a una freddezza decisa.
“Farò tutto il possibile p-“
“IL POSSIBILE NON È ABBASTANZA, PORCA PUTTANA!”
L’urlo lo coglie così alla sprovvista da sbilanciarlo, come se lo spostamento d’aria gli avesse fatto perdere l’equilibrio. Incontra lo sguardo furente dell’altro, il petto che si alza e abbassa velocemente, come quello di un cavallo da corsa, gli occhi brillanti spalancati, illuminati da una luce terribile. Non può essere più somigliante a sua sorella di così.
“Lovi, capisco che t-“
“TU NON CAPISCI UN CAZZO DI NIENTE! E ADESSO SLEGAMI, RAZZA DI TESTA DI CAZZO!”
“CHUT! DACCI UN TAGLIO!... Merde... MA CHE TI PRENDE!?!”
Lovino pare essersi calmato, ma ha ancora il fiato corto. Nei suoi occhi, Francis riesce a vedere dei lampi di panico e il lucido delle lacrime. Il francese è frastornato, non sa né cosa dire, né cosa fare. Il ragazzo è stravolto come non lo aveva visto mai, molto più di quanto non sia lecito per una ragione come quella che lui stesso aveva supposto essere. Inizia a chiedersi se sia vero che “non capisce niente”, e se non ci sia qualcosa sotto, qualcosa che non sa, che gli sfugge. Una strana idea gli frulla intanto per la testa; più che un pensiero, è un’ombra che si ripresenta fuggevole a ogni ipotesi che fa, a ogni scenario che immagina, ma non riesce mai a metterla a fuoco, un po’ come un pescatore che veda lo sbrilluccichio delle squame di un pesce, sotto la superficie dell’acqua, di tanto in tanto, senza però mai capire che pesce sia, a volte dubitando addirittura che ci sia effettivamente qualcosa.
I minuti scorrono, e il francese si rende conto che lo sguardo prima appannato del ragazzo si è spostato alla porta. Il respiro è affannato, ansioso, l’espressione pura disperazione e agonia, e quelle emozioni iniziano, per qualche strano motivo, a farsi strada anche in lui, come per osmosi. Inizia a bruciargli perfino la gola, neanche fosse sul punto di piangere. Quella strana cosa che sente nella sua mente si fa sempre più concreta, insieme alla consapevolezza che Arthur entrerà da un momento all’altro. Inaspettatamente, gli occhi di Lovino si riposano su di lui, aperti e spaventati. Il giovane si morde le labbra screpolata, e una piccola stilla di sangue si fa strada fra la pelle martoriata. Lascia un attimo la presa, e fra un tremito e l’altro pare dire qualcosa, ma Francis non è nemmeno sicuro che abbia usato la voce. Torna a mordersi le labbra, poi si guarda intorno nervoso, quasi a voler controllare che non ci sia nessuno in quella specie di cella, o forse nella smania di assicurarsi che nessuno stia origliando, benché possa esserci chiunque dall’altra parte del muro. Il biondo lo imita, inconsciamente. Si scambiano uno sguardo, e mentre Lovi sospira, o forse ripete quello che ha detto prima, lui si alza, accostando l’orecchio alla bocca dell’altro. E lo sente.
“La Città Eterna... vive”
Non gli servono altre parole o chiarimenti, e anche il prigioniero se ne rende conto, quando il viso dell’altro si allontana quel tanto che basta per poterlo vedere. Non ha mai visto un blu così blu, così lucido, luminoso, addirittura accecante. Le emozioni si susseguono incessantemente: incredulità, gioia, orrore, felicità, ansia, affetto, disperazione, malinconia, terrore... E tante altre ancora, ma è troppo stanco per poterle interpretare tutte. Ancora non sa se ha fatto la cosa giusta, ma non c’era più tempo prima per scappare, né ce n’è ora per pentirsi.
Lentamente, Francis riesce a rimettere a fuoco la figura abbronzata legata alla sedia. Con altrettanta lentezza si raddrizza, deglutendo, ingoiando le domande che vorrebbe fargli insieme a lacrime e singhiozzi. Ecco cosa lo tormentava. Un desiderio irrealizzabile, una speranza irrazionale, qualcosa che si è vietato di sperare anni prima.
Nina è viva. E nessuno deve saperlo.
Non ha bisogno di chiedergli perché, già lo ha capito; come già sa perché negli ultimi settant’anni si è nascosta dal resto del mondo.
 
“È un cretino!”
Irritata, appoggia con malagrazia – e una certa violenza – il calice pieno di vino sul tavolino di fianco alla poltrona su cui è seduta.
“Suvvia, Nina. Non essere così dura con lui...”
Il tono di Francis è accondiscendente, con una vena di divertimento che non sfugge alla donna.
“Macché suvvia e suvvia! Nemmeno tu te ne sei fatto mancare, ma io!?! Nominami un Papa, uno e uno solo, negli ultimi cento anni, che se non ha fatto da galoppino per qualcun altro, s’è comportato in modo non dico decente – è chiedere troppo – ma quantomeno che non ha fatto troppi danni!”
Lui si siede su un bracciolo della poltrona, allungando un braccio dietro la schiena di lei, fino a raggiungere l’altra spalla. Con un sorriso sornione, si avvicina al viso arrossato dall’indignazione.
“Eddai, cosa vuoi che sia... quantomeno, di scandali non ce ne sono stati, le casse sono messe abbastanza bene, e il popolo non è sull’orlo di una rivolta. Direi che ti poteva andare peggio”.
Con la punta del naso le solletica una guancia, guadagnandosi un’occhiata assassina. Oh, quanto si diverte quando fa così!
“STA PER SCATENARSI UNA FOTTUTISSIMA GUERRA, ALTRO CHE ANDARE PEGGIO! La SPAGNA è una polveriera, TU sei a un passo da una crisi con l’AUSTRIA, e in tutto questo CASINO ti sei alleato con ANTONIO, così BELLA e compagnia si stanno già ARMANDO per prendervi a CALCI! Per non parlare del CULO A CAPANNA  che vi farà l’IMPERO una volta deciso da che parte schierarsi – e di sicuro NON sarà la vostra, puoi SCOMMETTERCI ! E stendiamo un velo pietoso su quello che succederà QUI! Fra un po’ quel MINORATO MENTALE ci farà la GRAZIA di tirare le cuoia, ma siccome – nel caso te lo fossi scordato – metà del Conclave è FILOIMPERIALE e l’altra metà FILOFRANCESE, ci metteremo una vita a trovare un DANNATISSIMO successore, e questo in PIENO CONFLITTO! E assolutamente senza la GARANZIA che questo sia in grado di combinare qualcosa di buono, ANZI, con la CERTEZZA che, con la fortuna che mi ritrovo, sarà della FAZIONE SBAGLIATA, e ci ritroveremo nella MERDA fino al COLLO! E non ti AZZARDARE a dire  che il MASSIMO che mi può CAPITARE è un RIMBROTTO da uno di VOI, perché nel caso non te lo ricordassi, non IMPORTA da che parte mi schiererò, TU o il NANEROTTOLO CON LA SOTTANA arriverete da Nord, come VOSTRO SOLITO, e fare i vostri PORCI COMODI, e a meno che non finiate i fondi, ARRIVERETE FINO AL CONFINE!”
Nient’affatto toccato dalla riflessione sull’imminente Giorno del Giudizio, le da un piccolo bacio sulla guancia.
“Su, su, rilassati... ne sono successe di peggio. Con un po’ di fortuna, i Turchi ne approfitteranno, gli imperi centrali saranno costretti a mollare, e tutto finirà prima che ce ne si renda conto”
“FORTUNA!?!  I DANNATISSIMI TURCHI ATTACCANO E TU LA CHIAMI FORTUNA!?! MA CHE TI SEI BEVUTO PRIMA DI VENIRE QUI!?! ”
Risponde con un altro bacio leggero, questa volta sulla punta del naso.
“Da un po’ di tempo a questa parte, ti vedo piuttosto tesa. Qualcosa non va?”
La sua voce calma le impedisce di continuare la sfuriata. Sospira, chiudendo appena gli occhi. Brutto segno, quando sospira a quella maniera, lui lo sa. Deve essere uno di quei giorni no.
“È solo che... uff”
Con un accenno di massaggio sulle spalle tese, la incita a continuare. I muscoli si rilassano, e lei segue il suggerimento.
“Hai mai l’impressione di essere... superfluo?”
Lui rimane immobile, gli occhi blu fissi sulle sue iridi marroni, spente. È decisamente peggio di quanto pensasse. Lei si volta, fissando un punto indefinito fuori dalla finestra.
“Io... Non so come dire... mi sento un po’ come quelle zie che fai parlare come per cortesia, ma cha alla fine non ascolti mai. E se ti tirano in ballo, è solo per i soldi nelle tue tasche. O perché hanno bisogno di qualcosa.”
“Ma ti rispettano ancora”
“No, loro non mi rispettano. Semplicemente, non possono fare a meno di ascoltarmi, se non vogliono ritrovarsi il popolo che gli sputa in faccia. E anche questo non è ormai più nemmeno vero.”
Non sa come controbattere. Cosa la regge, ormai, se non uno strano rispetto di circostanza? Da centro del mondo, a fantoccio che si deve schierare da una parte o dall’altra per non essere schiacciata, e più il tempo passa, più anche la sua immagine sbiadisce.
“A volte, mi chiedo se non sia meglio semplicemente scomparire, prima che la cosa si faccia troppo penosa”
 
Non aveva saputo risponderle, né quella volta, né tutte le altre che la domanda si ripresentava. Non le era stato accanto, quando ne aveva bisogno. Non era stato lì per lei, perché non l’aveva sentita chiedere aiuto.
Povero sciocco.
Come se lei potesse davvero chiedere aiuto a qualcuno. Poco più di centocinquant’anni, e già aveva disimparato a capire quello che le sue parole volevano davvero dire. Quanta disperazione avrebbe trovato in quelle lettere, se si fosse degnato di leggerle con l’attenzione che meritavano?
La chiave nella toppa gira, ed entrambi si voltano verso la porta che si apre.
“Allora, è saltato fuori qualcosa?”
Francis può quasi sentire la tensione di Lovino. Ancora non gli ha promesso nulla.
“Niente da fare.”
Il tono del francese è pieno di rammarico, ma per una ragione diversa.
“Ti prego di scusarmi, devo... telefonare a Mathieu. È da un po’ che non lo sento: voglio accertarmi che stia bene.”
Con queste parole, gira sui tacchi ed esce velocemente. L’italiano tira un sospiro di sollievo, che Arthur, fortunatamente, non sente. Forse perché è ancora sorpreso dall’uscita del suo amante. Scrolla la testa, ricordandosi che alla fine è di Francis che si parla: le sue azioni non hanno mai avuto un qualche tipo di filo logico. Indossa nuovamente quel sorriso perverso, che si allarga vedendo il ragazzo sbiancare come un lenzuolo, e si mette a giocare con il frustino, sbattendone l’estremità sull’altra mano.
“Allora... vogliamo incominciare?”
 
Intanto, in fondo al corridoio, con orecchio e labbra incollate alla cornetta del telefono, Francis sente il mormorio sorpreso di suo figlio.
“Mathieu, sono io. Senti, ho un favore da chiederti, ma non devi parlarne con nessuno, intesi?”
 
 
 
Ta-dan. Prossimo capitolo, si torna a “nord”, da Nina. Non preoccupatevi: non rimarrà a letto ancora per molto...
p.s.: grazie x le recensioni, J!
byebye

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Capitolo 10
*** A bad day in Milan ***


La sto tirando davvveeeero per le lunghe (pure il capitolo: più di 3000 parole!), lo so! Questa volta, però, è tutto un po’ meno drammatico e più leggero, con un piccolo siparietto equivoco alla fine (forse ho addirittura scritto con troppa leggerezza!) So anche che non crederete a quello che state leggendo (non la premessa, il capitolo, intendo!), ma considerando che ne ho viste di più strane e che Feli e Lud continuano a stare insieme – quindi le fans della coppietta più amata di Hetalia possono leggere tranquillamente questo capitolo – potrei non ricevere tante mail minatorie come mi aspetto. Forse – dico forse, ma proprio forse forse forse – scriverò di Feli, prima o poi, ma credo sarà solo uno spaccato in un capitolo (scusate, fans di Feli: potete sempre che la mia prolissità abbia la meglio).
 
>Mi raccomando: leggete le note alla fine! Sono lunghe, ma ci tengo!
>Chiunque provi a rompermi con le avvertenze, verrà scaraventato giù dalle Drei Zinnen, a vedere se con una botta del genere gli entrerà nella zucca che Hetalia non è mio!
 
Ringraziando ancora una volta J e abbandonando ulteriori sproloqui, signore e signorine (e signori, se ci sono), ecco a voi il capitolo X! Buna lettura!
 
 
Capitolo 10
A bad day in Milan
 
Nascosto nell’androne di un palazzo semi distrutto dal bombardamento del giorno precedente, l’uomo ansima, riempiendosi i polmoni di quell’aria polverosa, ma vuoi per la fatica della corsa, vuoi perché accanito fumatore, pare non essere troppo disturbato dalla cosa. Sottovoce, maledice gli alleati in una lingua straniera, che nessuna persona prudente avrebbe usato, con tutti quei fascisti in giro, tantomeno una spia. D’altronde, con la testaccia rossa che si ritrova e quel modo di fare che urla “forestiero!”, poco c’è da nascondere. Infatti, proprio fino a pochi attimi prima, al contrario di quanto avrebbe voluto fare, si è ritrovato a fuggire fra le ombre della città decrepita.
Lo scozzese – fiero di esserlo e del tutto contrario ad essere assimilato a quei cretini degli inglesi – continua a borbottare, inveendo contro il fratello, che non solo gli ha affidato una missine per la quale non era tagliato – Ian Kirkland una spia? Ma fammi il favore – ma addirittura in un posto che da un anno a questa parte si è trasformato nel tabellone di un tiro al bersagli per le bombe alleate – che, fra l’altro, sbagliavano obbiettivo metà delle volte.
“Ma quando ti metto le mani addosso...”
Questo tipo di minaccia è piuttosto ricorrente, ma al contrario di Lovi, la sua avrà conseguenze tanto più nefaste quanto più volte verrà ripetuta. Chi avesse tenuto il conto, avrebbe già richiesto la preparazione di una sala di terapia intensiva e prenotato un’ambulanza per il povero Arthur.
Oggi ha attraversato mezza città, tutto per raggiungere una parallela di Ripa Porta Ticinese e lì (un “lì” molto vago, cosa che lo faceva irritare ancora di più) incontrare un non ben identificato gappista del Giacomo Matteotti, che avrebbe fatto da tramite con il capo del distaccamento. Insomma, sta per diventare un corriere fra alleati e partigiani, dando le informazioni raccolte dai secondi ai primi, aiutando – nel frattempo – proprio questi primi ad agire. Che bisogno ci sia poi di tutto questo intrigo, non l’ha ancora capito, ma gli ordini vanno eseguiti, per cui...
Con un’ultima smadonnata e un colpo di reni si stacca dal muro, riprendendo a spostarsi, fra cento metri di corsa e dieci passin passino, come i bambini quando camminano su una linea per terra facendo finta di rischiare di cadere se non ci passano sopra. Questa pessima giornata, tuttavia, non ha alcuna intenzione di migliorare: piove. Si pensa che uno scozzese trovi nel tempo di una città come Milano la confortante atmosfera di casa, ma così non è: umidità o meno, la Pianura Padana è e rimane uno schifo, anche per chi viene dalla Scozia.
Adesso, benché da lontano, riesce a vedere l’incrocio, la finestrella con le tendine arancioni – seriamente, arancioni? Andiamo, anche se cretini, pure i fascisti ci avrebbero visto un che di strano! – e lì accanto la porta sfondata, chiusa malamente con una cerata verde scuro, che sventola come un bandiera. Allunga il passo, poi
Tlack, tlack, tlack
Porca puttana. Le camicie nere.
“E CHE CAZZO, MA QUESTA È SFIGA!”
Pensa, appiattendosi contro il muro. Digrigna i denti, sentendo la mancanza della sigaretta fra i canini affilati. Uno dei tanti motivi per cui la sua approfondita conoscenza dei Santi si sta mostrando con cotanta chiarezza. Il suono dei tacchi si avvicina, e inizia a farsi nervoso: sta venendo giù il mondo, ma ciechi non sono, quelli là: ci vorrebbe un acquazzone coi fiocchi per avere a disposizione una cortina di pioggia abbastanza fitta da nasconderlo del tutto. Oppure un bombardament-
La sirena inizia a suonare
“-to, ma mi sembra esagerato, e che cazzo! Fammi almeno finire di esprimere il desiderio, fottutissima stella!”
Ma gli astri sono capricciosi, e gli aerei non si fermano. Inizia già a sentirlo arrivare, ma è uno, e lui non avrebbe nemmeno bisogno di sapere questo per poter dire che si tratta di un volo di “ricognizione”. La verità e che, tempo mezz’ora – altro motivo per cui centrare quello che vogliono gli riesce una volta sì e tre no – e si ritroverà a doversi nascondere in una cantina (magari lontano dai fascisti, se non addirittura in un rifugio dei partigiani). Fortunatamente, la Pianura Padana è il luogo in cui nebbia, umidità e tempo uggioso sono stati inventati, per cui, per quante bombe incendiarie getti suo fratello, quel posto non prenderà mai fuoco.
“Ma a me verranno i reumatismi di certo!”
Approfitta del momentaneo sconcerto della squadraccia per allontanarsi, percorrendo gli ultimi metri a perdifiato. Per entrare, non si ferma nemmeno: si tuffa, atterrando sul ginocchio destro e spingendosi in piedi con il sinistro. È scozzese, accidenti! A dieci anni, scorrazzava per le Highlands con il viso dipinto di blu e un’ascia in mano, pronto a sfondare la capoccia al primo romano abbastanza idiota da oltrepassare il vallo e sventurato q.b. per finire sulla sua strada! Per lui, certe cose sono un giochetto da ragazzi!
La prima cosa che vede, è la canna di un moschetto.
“Ma porca-“
Non finisce l’imprecazione che già una mano si appoggia sul fucile, abbassandolo. Chiunque lo impugni, segue il comando silenzioso, benché riluttante.
“Puntuale nonostante tutto, Rosso”
O almeno, questo è ciò che Ian capisce: la pronuncia è così distorta da quello che ha ormai inteso essere il dialetto del luogo da renderne difficile la comprensione. Lo scozzese annuisce, seccato dal non aver estratto la sua pistola abbastanza velocemente, mentre una vocina nella sua testa – che assomiglia pericolosamente a quella di Rhys – ringrazia il Signore che non l’abbia fatto, altrimenti ci sarebbe scappato il morto. Nemmeno gli chiede come ha fatto a riconoscerlo, ovvio com’è.
“Allora, vogliamo iniziare?”
Appena l’uomo fa un passo indietro, lasciandosi parzialmente illuminare dalla piccola lampada che pende dal soffitto, i vetri della finestra sulla destra si rompono e si accascia sul pavimento, colpito alla testa. Da lì in poi, è il caos.
Ian e l’uomo armato di moschetto si accucciano per terra, e l’italiano lo squadra: con la pistola in mano, lo sguardo vigile e il busto tutto storto per vedere oltre la cassettiera che li nasconde senza però farsi notare a sua volta, non ha l’aspetto di un traditore. E poi, con tutti quelli che probabilmente ci sono in strada – arrivati non visti – si tratta solo di vender cara la pelle. A meno che gli altri della banda non siano già tornati, con l’allarme suonato, ma è decisamente improbabile.
Le ultime parole famose.
Qualcosa esplode in strada, nella direzione da cui ha sparato il cecchino. Iniziano le urla, lo scalpiccio di gente che corre, e con un cenno del capo, si trovano d’accordo a uscire.
Fuori è il finimondo.
Nell’incrocio le camicie nere, nascoste dietro gli angoli o mezzi parcheggiati, e giusto a destra della soglia, una trincea improvvisata di botti fatte rotolare fuori dalla porta del palazzo di fronte. Se da un lato ammira la previdenza del gesto, dall’altro si trattiene dall’urlare per la sua stupidità: la piccola muraglia lascia scoperta l’uscita, tanto da farli rischiare di essere abbattuti dal fuoco amico.
Non ha senso rimandare: Ian e grilletto facile si infilano nel pertugio fra la barricata e il muro che un ragazzino ha aperto per loro con un piede. Stanno giusto riprendendo fiato, immersi in una pozzanghera e inzuppati dalla pioggia battente, che una granata viene lanciata a si e no un metro da loro. Non potendo scappare, il Rosso scatta in avanti e le tira un calcio. Complice lo scarso tempismo del lanciatore, quella esplode nel bel mezzo del tiro a campana dello scozzese, sicché l’unico danno è l’onda d’urto, che ribalta qualche botte e fa cadere lui sul sedere con un bello splash. Dannata pioggia.
Gli ultimi arrivati prendono parte alla sparatoria, aspettandosi di essere presi alle spalle da un’altra squadra da un momento all’altro. Mentre ricarica la pistola, chiede all’omone che si ritrova di fianco
“Ma come diavolo v’hanno trovati?”
Quello risponde con un mezzo grugnito: l’hanno preso al costato, poco danno ma un gran male, però resiste.
“Forse una soffiata. Quel che dà da pensare è che non arriva nessuno...”
Pure Ian si sta arrovellando con quell’interrogativo. Se è rimasto un qualche Santo, lassù, magari ha chiesto a un altro gruppo di bloccarli.
Se, magari...
Proprio quando un proiettile lo prende di striscio alla spalla e pensa che non possa andare peggio, ebbene, il peggio arriva. Sotto forma di una squadriglia di aerei alleati armati e pronti al lancio.
Ambo le parti mettono da parte i fucili e mettono in moto le gambe. Destino vuole infatti che una delle due strade sia larga come una piazza d’armi (a essere sinceri, non è così larga, ma in momenti del genere i metri sanno trasformarsi in chilometri), fatta apposta per essere colpita. Intanto, la pioggia “a cortina” che tanto gli avrebbe fatto comodo prima, è arrivata, e nessuno vede a un palmo dal naso.
Corre a perdifiato, cercando nemmeno lui sa cosa. Un boato alle sue spalle lo avverte che la rumba è ricominciata, ma non si era mai trovato allo scoperto, durante gli attacchi, prima d’ora. E questo non è esattamente il genere di battaglia cui è abituato. Spari alla sua sinistra, poi davanti a lui, e due sagome scure che corrono. Una gli passa accanto, e con il fazzoletto rosso al collo, non c’è molto da discutere sul chi sia e da chi stia fuggendo.
Alla fine, è davvero venuto qualcuno a pararci il culo...
Al posto che correre in quella direzione, si butta in un vicoletto laterale – più uno spazio accidentalmente rimasto vuoto fra due palazzi – appena in tempo per evitare una seconda raffica di proiettili e...
...la pioggia di detriti di un edificio che cade: un’altra bomba ha colpito la palazzina dall’altra parte della strada.
Rimane lì, fermo, sotto la pioggia che continua a cadere, con l’ansia che gli attanaglia il petto. Per la prima volta in vita sua, non sa come comportarsi. Duemila anni di battaglie, e niente di ciò che ha fatto può aiutarlo. Nemmeno da piccolo, quando scese in battaglia per la prima volta, si era sentito così. Quel giorno aveva visto i suoi avversari, li aveva guardati negli occhi, poteva rialzarsi e combattere o cadere e arrendersi. Ora, invece, tutto quello che può fare è aspettare.
Ma l’adrenalina e il tempo scorrono: lui ha bisogno di agire, muoversi, scaricarsi, anche solo correre, prima di impazzire, e il raid è vicino alla fine (forse). Si calma quel tanto che basta da guardare l’orologio: sono ormai dieci minuti che non cade nulla. Potrebbero tornare, come potrebbe essere finita, ma se c’è una chance di raccattare i partigiani feriti è proprio quella, mentre le camicie nere sono ancora lì che aspettano.
Appena mette il naso fuori da pertugio nel quale si è messo al riparo, un proiettile gli passa davanti agli occhi, e il rumore di tacchi in movimento rimbomba per la strada. A quanto pare, ci sono almeno due regolari piuttosto impazienti che hanno avuto la sua stessa idea. Anche fosse stato il caso a portare la traiettoria del tiro nella sua direzione, la pioggia ha appena deciso che è il momento giusto per diradarsi, e i suoi capelli rossi sono appena diventati più vistosi che mai.
Non sa esattamente dove si trova – a dirla tutta, non ne ha la minima idea – ma deve muoversi, e non solo perché non riesce a rimanere fermo un istante di più. Riprende la maratona, con la velocità di un centometrista, voltando prima a destra, poi a sinistra e via così, sentendo i proiettili fischiargli nelle orecchie, grida e altri colpi levarsi occasionalmente dalle strade a fianco: vorrebbe fermarsi e rispondere ai maledetti che gli stanno alle calcagna, ma con due colpi a disposizione e un paio di moschetti armati puntati contro, il suo istinto di conservazione gli dice che deve quantomeno trovarsi una postazione, se non vuole crepare.
Infine, i passi alle sue spalle scompaiono, rimpiazzati da uno scalpiccio davanti a lui. Mette mano alla pistola, ma appena il suo cuore smette di assordarlo, sente che il rumore è del tutto diverso. Rilassato ma attento, esce in strada, ritrovandosi sul naviglio. I tre uomini che lo stanno raggiungendo abbassano le spalle, in segno di sollievo: uno è il ragazzino di prima, l’altro l’armadio che borbottava, azzoppato da un colpo alla coscia. Non riconosce quello che lo regge. Senza parlare, camminano in fila indiana, accostati al muro, seguendo il più giovane: stanno andando a casa di suo fratello – nella cantina del palazzo, cioè – che lavora in fabbrica. Pare non sia la prima volta che dà ricovero a qualche ferito.
 
Camminano da un po’, quando vede qualcosa con la coda dell’occhio. Nell’acqua torbida del Naviglio, un lampo di colore, come un pesce, attrae la sua attenzione. Ma quello era davvero più grande di un pesce, e di un colore decisamente insolito. Sì, lui era una dannatissimo bastardo figlio di buona donna, ma a tutto ci sono dei limiti. Fra i quali lasciare un moribondo – probabilmente dei loro – a crepare e marcire lì. Che fosse una persona – piuttosto viva, inoltre – lo ha capito dal fatto che quella strana forma fra il nocciola e il ramato si è trascinata a riva.
In due lunghe falcate – ognuna accompagnata da un movimento del capo a destra e a sinistra, per accertarsi che la strada sia vuota – raggiunge la piccola figura nel canale, mentre gli altri se en rimangono lì fermi: probabilmente non hanno notato il ferito.
Ian afferra quella che si dimostra essere una donna da sotto le ascelle, da dietro, buttandola letteralmente sulla superficie “asciutta”, nella fretta di portare entrambi vicino al muro, lontano da attenzioni sgradite. Il ragazzino – l’unico in grado di muoversi – lo aiuta, ma non ce n’è bisogno: quel cosino pesa sì e no cinquanta chili, zuppa fino al midollo. Manca poco alla casa del fratello, e siccome lei respira ancora – anche se un po’ affannosamente – e non sembra ferita, decidono di muoversi più in fretta e prestarle soccorso direttamente là.
 
Non si può dire che la cantina sia asciutta, né che non vi piova dentro, ma almeno l’acqua deve versarsela in un bicchiere, per berla. Gli hanno appena cambiato la fasciatura alla spalla – ci manca solo che quel graffio gli s’infetti – e non avendo niente di meglio da fare se non aspettare – di nuovo! – si siede di fianco alla bella addormentata: tre ore o poco più, e ancora non si sveglia. Non ha bevuto troppa acqua, ma ha preso una bella botta in testa – la portinaia sospetta un trauma cranico. L’ambiente – benché grande come la cella di un monaco – non è bene illuminato, ma Ian ha abbastanza esperienza per riconoscere una bella ragazza quando la vede, e lei è a dir poco splendida. Se glielo avessero raccontato, non avrebbe mai e poi mai creduto che un’umana potesse superare una regina delle fate – lui ne aveva incontrata una – eppure eccola lì, pelle di pesca, chiara, una figura decisamente femminile, appena intaccata dalle privazioni degli ultimi tempi, le labbra piene e i capelli lunghi, arricciati, di un bellissimo castano ramato. Qualcuno potrebbe trovare strana quest’attenzione per i capelli in un uomo del genere, non sapendo che adora tirarli, quando fa l’amore (per dirlo in modo educato; lui usa un termine molto più diretto e forse adatto, considerando le sue abitudini).
Sta giusto scostandogli una ciocca dal viso (c’è qualcosa di famigliare in quei lineamenti, ma non sa dire cosa), quando le palpebre di lei tremano appena, e le lunghe ciglia dello stesso colore della sua chioma si schiudono, e per le terza (o quarta?) volta in vita sua, lo scozzese si sofferma sul colore degli occhi di una donna: vanno dal nocciola, allo scotch, fino al whiskey, passando appena per il caramello.
Oh, sì. Con lei devo proprio “fare un giro”
Il suo proposito non fa che rafforzarsi quando lei sbatte più volte le palpebre per abituarsi alla fievole luce della lampada ad olio (niente corrente elettrica, lì sotto) che pende dal soffitto, respirando profondamente e stiracchiando il corpo indolenzito. Messasi a sedere, con la coperta di lana spessa che la copre solo dalla vita in giù, lo guarda fisso negli occhi, e se anche non lo sa, sono le sue parole a evitare che lui le salti addosso.
“Mmh... Ian Kirkland, suppongo”
Ha una voce melodiosa, cristallina, eppure calda, liscia e dolce come una cucchiaiata di miele. Lui non muove un muscolo, quindi sì, questa frase lo sorprende davvero tanto.
“Tu saresti...?”
Gli occhi versi si socchiudono, guardinghi. Questo non è il genere di sorpresa che gli piace, tantomeno quando va a interrompere certe situazioni. Lei sorride: sorride con gli occhi, con le guance, con le fossette, con le labbra... accidenti, sembra anche che il suo corpo sorrida! Una vera fortuna che la ragazza abbia un arsenale di sorprese...
Offrendogli la mano (leggi: afferrando la sua e iniziando a stringerla senza troppo soffermarsi sulle intenzioni dell’altro) risponde
“Sono Milano, Serena Vargas – qui mi conoscono tutti come Lucia, ma tu puoi chiamarmi Serena, anche se devo chiederti di farlo solo in privato! Sono quella che avresti dovuto incontrare questo pomeriggio! Beh, alla fine è successo lo stesso, no?”
Il suo sguardo si scurisce per un attimo, mentre pensa a cosa ha fatto saltare l’appuntamento, poi scuote appena la testa, come ad allontanare il ricordo, e i capelli seguono il movimento, dando l’impressione che sia circonfusa da una sorta di aura luminosa.
Fortuna che ha dell’altro da dire.
“ Comunque, da quello che mi ha detto tuo fratello – beh, quello che mi ha scritto, voglio dire – sei diventato un membro attivo della resistenza, come-“
L’ultima parte fa nascere in lui un istinto omicida tale nei confronti di Arthur, da soffocare gli effetti collaterali dell’aver notato che lei non indossa i pantaloni: membro attivo della resistenza? Cos’è, adesso prende ordini dai partigiani? È una spia alleata, accidenti a quel dannatissimo inglese! Ah, ma quando lo vede...
“-agente di collegamento, ma non sei ancora entrato ufficialmente in nessun gruppo, così, Arthur mi ha chiesto di prenderti con me! Mi ha detto peste e corna del suo fratellone scozzese, ma da quanto ho visto fino ad ora, sono invece sicurissima che sarà un vero piacere stare con te! Spero piuttosto non ti venga a noia il dovermi rimanere appiccicato: fra “Lucia” sulla lista nera dei ricercati, la craniata che ho dato, gli ultimi bombardamenti che non mi hanno di certo fatto bene e un certo Rosso che non passa proprio inosservato, temo dovremmo rimanercene rintanati qui da soli per un bel po’!”
 
 
 
 
 
 
Eh, Serena, Serena... Meglio che trovi qualcos’altro da dire... Magari cercando di evitare di usare frasi che possano essere male interpretate: Ian non ha bisogno di essere stuzzicato! Uff... Sarai anche più forte di Feli e ne sai a tronchi di economia, ma certe volte hai proprio la testa per aria...
 
Verrebbe da chiedersi: Milano è stata bombardata e rivoltata come Berlino, ha passato l’inverno peggiore degli ultimi cinquant’anni e si è arrivati alla carestia, eppure eccola lì, pimpante come un coniglietto duracell quando gli cambi la batteria! Come può essere? Ebbene, ecco a voi la risposta.
Milano non era rossa come Bologna, su questo conveniamo tutti, ma era il polo industriale d’Italia, con un numero di operai altissimo. Fu lì che Mussolini fece il suo primo discorso, fondando il partito fascista, ma quasi nessuno diede retta al nanetto spelacchiato (cosa che ferì oltremodo il suo ego). Quindi, già dall’inizio, non è che i milanesi stravedessero per il puffo rosa. Inizia la guerra, e ritmi di produzione arrivano alle ventiquattr’ore su ventiquattro, divisi in tre turni, e da lì è solo un crescendo. Ciò che mette davvero in moto Serena, è la risposta attiva della popolazione agli eventi: trovare una sorta di equilibrio non è nemmeno immaginabile, per uscirne bisogna scrollarsi le camicie nere di dosso! Detta così, sembra un po’ drastica, lo so. Ho però pensato che, fra i fattori che influenzano la salute e l’umore di una personificazione, la reazione delle persone a un dato evento possa essere ancora più importante dell’evento stesso. Se Roma ritarda così tanto a riprendersi, è anche perché più parti avrebbero voluto che venisse liberata, piuttosto che ribellarsi e riuscirci da sola, visto e considerato che, benché la Resistenza fosse composta da molte parti, il rosso ritornava con una certa insistenza, e se fosse successo in una città come Roma... beh, provate a immaginarvi la Città Eterna, capitale del cattolicesimo e d’Italia (la nostra posizione geografica non finirà mai di portarci rogne, dobbiamo arrenderci a questo fatto), liberata dai rossi (e anche da altri, ma come già detto, il rosso è un colore piuttosto ostinato).
Se i milanesi sono reattivi, i romani hanno poca pazienza, e Nina non fa eccezione: il count-down per il suo contrattacco ha inizio! Preparati, mondo: La Città Eterna vive, e ha tutta l’intenzione di farsi sentire!
 
byebye

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Capitolo 11
*** Rialzarsi ***


Salve, gentili lettrici e lettori! Ringrazio i 22 coraggiosi che sono arrivati fino al X capitolo, questo è per voi!
 
 
Avvertenze: jrysòos mpm + ,op. Adesso decriptate.
 
 
Capitolo 11
Rialzarsi
 
Non senza un certo disgusto, osserva il riflesso nello specchio.
La luce tremolante della candela la illumina impietosa, mettendo in evidenza ogni incavo del viso smagrito, ogni spigolo, ogni escoriazione, gonfiore e scurimento. Non le serve ricorrere a un’illuminazione migliore, per sapere che la sua pelle bronzea vira a un giallognolo malaticcio. Si morde le labbra piene, rosse per l’irritazione, spostandosi verso il letto con una mano premuta sulla ferita sul fianco destro, infetta nonostante le premurose cure di Maria. Gli strascichi del 24 Marzo avrebbero richiesto ben più di qualche benda.
Appoggiandosi a una colonna tortile del baldacchino, rimane lì immobile, smettendo semplicemente di pensare. Dopo un profondo sospiro, inizia a dare leggere testate al legno, poi sempre più forti, veloci, fino a sentire la testa ronzarle.
Basta... basta basta BASTA!
Rimane con la fronte appoggiata alla colonna, il respiro affannoso che cerca di soffocare le lacrime. Sente il bisogno fisico di fare, di agire, di intervenire e ribellarsi, eppure non può. Non ha mai capito fino in fondo cosa significasse essere un uccellino in gabbia fino a questo momento: si dimena, si dispera, cerca un’introvabile via d’uscita, sbattendo contro le sbarre, dibattendosi, ma niente. Può solo rimanere lì e aspettare che arrivi Lovi a liberarla. Da chi, poi? E’ una “città aperta”...
Aperta, ‘sti cazzi aperta...
quindi... quindi cosa? Deve obbedire a Mussolini? Ai nazisti? Al governo italiano? Allora cos’è, prigioniera del suo stesso stato, o che? E per riavere la libertà dovrebbe... lasciarsi conquistare dagli Alleati? Ma lei, da che parte sta? Perché i nazifascisti menano, ma gli alleati bombardano. Cazzo, hanno preso il Vaticano di striscio! E la resistenza? Cos’è, guerra civile?
Ma chi ci capisce niente...
Si siede sul letto e si lascia cadere all’indietro, le gambe penzoloni. Le braccia sono piegate, gli avambracci ai lati della sua testa come se qualcuno le avesse intimato di mettere le mani in alto. Lascia vagare i suoi occhi fra i ricami del tessuto interno del baldacchino, un’intricata serie di arabeschi dorati che andavano a formare la ruota dello zodiaco, con tanto di costellazioni e gruppi di stelle, brillanti in quell’oceano soffice e purpureo. Distrattamente, pensa che se fosse fuori, quella camicia da notte che indossa le sembrerebbe oltremodo pesante, e poi che – so proprio proprio volesse chiedere direttive a qualcuno – l’unico rimasto a Roma era il Papa e-
Tutto diventa nero.
E’ come svenire, ma al posto dell’incoscienza, la sua mente si ritrova catapultata in un sogno. O forse un ricordo? Perché l’inizio è quello giusto...
Andate a chiamare Nina...
... ci serve dalla nostra parte...
... se Roma è con noi, possiamo riuscirci...
Voci famigliare... sentite da qualche parte... forse... Si spengono, e i colori dell’Urbe notturna si muovono veloci davanti ai suoi occhi. Ovunque fossero state pronunciate quelle parole, lei si stava allontanando.
Tutto è sfocato, solo macchie di colore confuso, ma le sembra di riconoscere Castel Sant’Angelo. Non dall’interno, ma dall’esterno, lontano, oltre il cordone di sicurezza. Quattro figure almeno, vestite di scuro. Suoni attutiti, grugniti, niente urla: una lotta silenziosa per una notte silenziosa...
Dobbiamo prendere Roma...
Accidenti!
Queste voci sono giovani, molto giovani, e assolutamente sconosciute. Poi tutto scompare.
Venire a prendere... me?
 
Ha dormito. Di questo ne è sicura, perché sa che è mattina inoltrata. Maria dovrebbe essere ancora in Vaticano: non tornerà prima di sera, oggi. Si alza di scatto, ignorando il lieve giramento di testa. Nel buio della stanza, trova – a tentoni – i fiammiferi, e accende una candela che ha urtato durante la breve ricerca. Le ci vogliono tre tentativi per accendere il dannato fiammifero, ma infine ci riesce, e lo stoppino prende subito fuoco. Prende il portacandela, e con una stretta tremolante quanto il suo passo, si avvia verso quella stessa stanza in cui Maria aveva indugiato pochi giorni prima. Apre la porta cigolante, lasciandola aperta alle sue spalle: non c’è comunque nessuno che possa disturbarla. Non ha bisogno della piccola fiamma per muoversi fra l’ingombrante mobilia, e appena arriva al mobile che le interessa, l’appoggia sul ripiano, accanto a un delicato vaso di Murano, sul quale appare un doppio del piccolo cilindro di cera. Tenendo fermo il mobile con un ginocchio, mette tutte le forze restatele (poche) nel tirare il primo cassetto di legno in noce, impresa già poco semplice di per sé, essendo questo lungo un paio di metri buoni e profondo uno. Dopo tre o quattro strattoni, lo spiraglio è di nemmeno venti centimetri, ma lei se li fa bastare. Incrociando le braccia, con le mani sui fianchi, afferra il pigiama e se lo toglie in unico movimento, lanciandolo con malagrazia su un tavolo lì vicino. Infilando una mano nel cassetto, ne estrae un paio di vecchi pantaloni, che avevano sicuramente visto giorni migliori. Al buio, toppe e rammendi erano invisibili, ma Nina se li ricordava uno per uno: Lovi aveva chiesto a lei di rimetterli in sesto. Non li indossa, ma li appoggia dall’altro lato del vaso, con molta più cura di quanto ci si aspetterebbe nei confronti di un capo del genere. Tira poi fuori una camicia rossa, un filo troppo larga, per lei, di un tessuto non ben identificato. Se la infila, attenta a ogni mossa, con una smorfia di dolore quando alza il braccio destro, per un’improvvisa fitta al fegato. Fa male.
Allaccia ogni bottone con cura, e solo una volta raggiunto anche l’ultimo indossa i pantaloni, in cui infila la camicia stando ben attenta a non spiegazzarla. I pantaloni non sembrano avere passanti; lei li stringe attorno ai fianchi con una sorta di fusciacca, color bianco vecchio e mal lavato.
 
 
Respira profondamente, godendosi l’odore dell’aria aperta: più puzza che profumo, ma le va bene lo stesso. Maria sta dormendo, metri e metri sotto i suoi piedi. Come ha fatto a uscire senza che la piccola non se ne accorgesse? Ma – soprattutto – come ha fatto ad abbandonare Castel Sant’Angelo senza che nessuna guardia la fermasse?
Segreto.
Si muove fra le ombre dei palazzi, silenziosa e invisibile come un gatto nero, fermandosi ogni tanto, altre volte correndo, altre ancora arrampicandosi su un cornicione e spostandosi su quello dell’edificio accanto. Nessuno la vede, nessuno la sente, ma d’altronde, come sorprendersi? E’ Roma, dopotutto...
La sua destinazione è un portone. Né vecchio né nuovo, né sporco né pulito, solo una porta di legno un po’ scheggiato.
Tok.
Bussa, sicura. E’ stanca e ferita, ma l’adrenalina la mantiene vigile e attenta,
schiena dritta e mento alto
pronta a scattare. Dopo un leggero scalpiccio di piedi, la porta viene socchiusa; non le pare strano che un condomino abbia sentito – nel mezzo della notte, quando tutti dormono – quel singolo “tok”, e si sia alzato, scendendo le scale, per venire a controllare? Se fossero state le camicie nere, si sarebbero fatte sentire, e sennò... beh, chiunque se ne andasse in giro quando non avrebbe dovuto, sarebbe stato meglio tenerlo alla larga, no?
La donna non si scompone nemmeno quando, al posto di un viso, si ritrova un moschetto.
“Chi-“
“Roma. Celestino è in casa?”
Chiede, con sguardo sornione e tono ironico.
La canna scompare, rimpiazzata da una mano che si allunga, le afferra un polso e la trascina dentro, nell’oscurità di quell’androne nel Quadraro.
 
 
Dalla finestra entrano dei timidi raggi di sole.
“Bene, fatto!”
Esclama la ragazza sottovoce, guardando soddisfatta le bende appena cambiate. All’inizio era stato difficile, ma adesso Nina non si può lamentare. Si richiude la camicia, infilandola nei pantaloni. Quando la ragazza esce, la donna è in piedi che si allaccia quella sua strana fusciacca. Bussano alla porta.
“Entra, Celestino”
L’uomo entra, sorridente.
“Buongiorno, Nina. Ti vedo in forma...”
Il tono è esitante, incerto. Con la mano destra, “Tino” gioca distrattamente con una cintura di pelle, resa morbida dall’uso. Da un lato, pende una specie di borsello. Lei lo fissa, gli occhi scuri e brillanti di sicurezza. Le labbra sono curvate all’insù, ma il tono è solenne.
“Sono pronta”
L’affermazione laconica di lei lo fa respirare profondamente. Con un mezzo sorriso, le porge la cintura. Lei la prende e la indossa, il borsellino che le pende da un fianco, appesantito dai proiettili.
“Roma, benvenuta nell’Armata Rossa”*
 
 
 
Note
*Corpo di combattenti della Resistenza romana, sorto spontaneamente dalla collaborazione tra elementi di Bandiera Rossa e comunisti del PCI che avevano perduto i contatti con il partito. Diretta da due elementi del PCI (Celestino Avico e Amidani), da due del M.C.d’I. (Poce e Sbardella) e dal socialista Odello Terzani. I primi due si occupavano dell’organizzazione (per questo ho scelto Celestino come primo contatto di Nina, quindi non andate a cercare significati reconditi o collegamenti con un particolare orientamento politico), Poce e Sbardella di stampa e propaganda con la collaborazione di Terzani.
 
I vestiti che ha addosso Nina sono quelli che Lovi indossava quando ha risalito lo stivale con i Mille: ho pensato sia il suo modo sia di sentire il fratello più vicino sia una maniera simbolica di dire “io sono la maggiore: tocca a me rimettere a posto le cose e riportarci tutti assieme!”
 
Oh... Lavinia ha deciso che rimanersene rintanata là non faceva per lei, e così si è unita a Bandiera Rossa! Ho scelto questo gruppo perché era piuttosto attivo e organizzato, oltre che decisamente numeroso e sparso anche nella provincia e che comunicava con le truppe alleate. Cari lettori, altri due capitoli, e “Castel Sant’Angelo” lo troverete fra le “storie concluse”! Spero vi siate divertiti e non me ne vorrete troppo per questo mio tirarla per le lunghe... mi rendo conto che una ff così statica e “impegnata” (?) possa annoiare, piuttosto che incuriosire: dovrebbero essere uno svago, non una para-lezione, perdincibacco!
Cooomunque, sto iniziando un’altra storia che ha per protagonisti una certa coppia di fratelli miracolosamente riuniti... ma il miracolo più grande deve ancora avvenire!
byebye
 
...Gwill...
 

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Capitolo 12
*** Una città esplosiva ***


Ulalà! Capitolo 12... chi immaginava che sarei arrivata fino qui? E io che non prevedevo più di 5 o 6 capitoli...
Questo l’ho scritto a brani: sono in ordine cronologico, ma i punti di vista – ovviamente – cambiano, nella speranza di rendere la cosa un po’ più dinamica!
 
 
Avvertenze: se le stai cercando, c’è un motivo, e siccome quel motivo non mi piace, ti dico solo una cosa: vattele a cercare negli altri capitoli! E poi fatti un giretto a quel paese (titolo, fra l’altro, di una spassosissima ff che ho letto qualche settimana fa... andatela a cercare, è carinissima!)
 
 
 
Capitolo 12
Una città esplosiva
 
“Verdammt!”
Sbraita Kappler. Con gli occhi arrossati per la mancanza di sonno e l’ultimo rapporto accartocciato in mano, fissa il ragazzo che glielo ha consegnato, un giovanotto che non va oltre i vent’anni.
“COME DIAVOLO HANNO FATTO A ENTRARE NELL’AEROPORTO, PRENDERE LE PROVVISTE E ANDARSENE?!?!”
L’altro storce la bocca, cercando di emettere un qualche suono, ma non ne ha bisogno: il suo capo ha ricominciato a urlare.
“E GUARDA POI QUÀ!”
Agita altri fogli altrettanto stropicciati
“ABBIAMO SETACCIATO IL QUADRARO CASA PER CASA, DANNAZIONE, CASA PER CASA! 740 ARRESTI PER LA ******************, MA NIENTE! IL GIORNO DOPO SONO GIÀ LÌ A FAR DANNO DI NUOVO! DANNATI ROMANI!”
Stressato, si passa una mano sulla fronte.
“Ah... accidenti... questo posto è peggio di una polveriera!”[1]
 
 
Leccandosi le labbra sente il sapore del sangue: non ha smesso di mordersele un attimo da che sono arrivati a Montecassino. Ovviamente, lui non è là: dopo “La Telefonata” non si azzardano a farlo muovere dal comando generale.
Dannazione...
Ha paura. Sa che Francis è riuscito a escogitare qualcosa, ma il francese è tornato sul suo fronte, a nord. Non si fidava – quando mai? – ma sperava – un cretino recidivo, lo ammette – che quel bastardo potesse fare qualcosa di più. D’altronde, quando la patria chiama, una Nazione può solo rispondere.
Lavinia...
La rivedrà? C’è una voce insistente, dentro di lui, che gli sussurra parole orribili ogni volta che sta per addormentarsi e la pensa, ogni volta che si guarda allo specchio, ogni volt-
Anche ora.
Morirà. Puoi negarlo quanto vuoi, ma sai che le chance che sopravviva sono praticamente nulle.
Si sdraia, sudato fradicio. Non è molto caldo, ma il sole rende incandescente anche l’angolo più buio di quell’edificio con il numero giusto di finestre perché entri molta luce ma pochissima aria. Un refolo quasi inesistente passa attraverso quel pertugio che non merita altro nome se non questo. Si rigira nel letto, inseguendolo, fino a trovare un compromesso ragionevole fra areazione e comodità.
Si addormenta quasi subito, accompagnato dal suono di bracciali tintinnanti e dal profumo di gelsomini in fiore.
 
 
Scattano tutti in piedi: raramente è un buon segno, quando qualcuno arriva lì di corsa. Scendono le scale a passo veloce ma silenzioso, infilandosi nel piccolo salotto sulla destra. Una volta vista la schiena dell’ultimo sparire dietro la porta della stanza, la vecchia padrona di casa apre l’uscio.
“Martino!”
Esclama la nonna sottovoce, lasciando entrare il bambino senza fiato. Subito va in salotto anche lui, sapendo di trovarli lì. Le loro espressioni tese si rilassano, per poi trasformarsi in trattenute grida di gioia una volta sentita la notizia.
“Nina... uff... mi ha detto di dirvi che... uff... Cassino.... uff... gli alleati hanno preso Montecassino!”
 
 
Con la chioma rosso fuoco scompigliata e gli occhi verdi lampeggianti di frustrazione, l’uomo che gira nella piccola stanza sembra un leone in gabbia.
Lo fa apposta... non c’è altra spiegazione...
Ultimamente, è una frase che si ripete spesso.
DEVE per FORZA starlo facendo APPOSTA, quella STREGA!
Si ferma, sbuffando come un cavallo sul punto di disarcionare il fantino.
AAAHHH! Dannatissima femmina! Mi farà diventare matto!
Nel riavviarsi i capelli – un gesto che ha come risultato l’arruffarli ancora di più – alza imprudentemente il braccio destro, tirando la pelle che copre la cassa toracica, punti di sutura compresi.
AHI! AAHH! Donna testarda! Intrigante, ottusa, bisbetica e pure testarda!
Eh, già, povero scozzese. La sua missione si è infine rivelata l’essere la scorta della giovane Vargas che, nonostante spossata dai bombardamenti e dalla carestia – non la si può chiamare altrimenti – insiste nel partecipare alle azioni della resistenza, animata com’è dallo spirito combattivo dei milanesi. Ian non manca di esperienza, ma la guerriglia cittadina non è esattamente il suo genere, soprattutto quando la metà delle volte finisce col doversi trascinare dietro un – spesso recalcitrante – sacco di patate che tutti cercano sempre di riempire di piombo. La convivenza forzata con la signorina in una stanza di due metri per tre non è inoltre d’aiuto: per ingenuità o per diletto, sta portando il poveretto alla follia.
Un passo affrettato scende le scale, accompagnato da un respiro fastidiosamente affannato. Sulla soglia compare Serena, con i capelli sciolti ancora umidi su spalle e schiena – era andata in casa della portinaia a farsi il bagno, la maledetta! E glielo aveva pure detto! – e indosso solo la lunga camicia da notte della vecchia zitella del terzo piano. Il suo sorriso sfavillante illumina lei e la stanza, rischiando di abbagliarlo. Evidentemente non paga delle conseguenze di questi suoi gesti, gli si lancia addosso, abbracciandolo stretto e iniziando poi a saltellare, cercando invano di tirarselo dietro, ridacchiando e singhiozzando allo stesso tempo. In quell’attimo interminabile, l’Highlander usa tutta la forza di volontà che ha a disposizione per concentrarsi solo sul dolore al costato.
Finalmente si stacca...
Sia lodato il Signore
...e si asciuga una lacrima con il dorso della mano – quasi completamente coperto dal polsino di lana infeltrita della camicia – socchiudendo un occhio e mordicchiandosi le labbra.
MALEDETTA!
“MA INSOMMA, CHE HAI DA AGITARTI TANTO!?!?!”
Urla lui, sperando di spaventarla abbastanza da farle spostare quella manina invadente dal suo petto (non si fida a farlo da sé...). Lei gli prende le mani con le sue, e le stringe come una bambina durante un girotondo, ridendo di sollievo.
“SI STANNO AVVICINANDO A ROMA!”
 
 
Appoggiata al muro, di fianco alla finestra, Lavinia ascolta distrattamente gli uomini seduti al tavolo.
“...tu cosa ne pensi, Nina?”
Sentendosi chiamare si riscuote.
“Non stavo ascoltando, scusate”
Quelli si guardano l’un l’altro, preoccupati. È da qualche giorno che fa così, sempre distante, come se pensasse continuamente a qualcos’altro. Uno dei suoi compagni sospira
“Cosa c’è che non va? Ormai siamo vicini-“
“Credete davvero che cadrà?”
Chiede lei, interrompendolo. A risponderle sono solo occhiate interrogative.
“Pensate che lasceranno che la neve cada sui monti?”[2]
Continua lei. I loro occhi si sgranano, quelli di alcuni sollevati, quelli di altri dubbiosi quanto i suoi.
“Perché non dovrebbero?”
Commenta un ragazzo in tono leggero. Le occhiate incerte si scuriscono, mentre quella di Nina torna assente.
“Non te la senti di partecipare?”
Azzarda un terzo, preoccupato. In effetti, lei non è esattamente il ritratto della salute, ma non è nulla che le possa impedire di agire. Se ne va, ignorando le voci alle sue spalle.
“Nina, non farlo, ti prego!”
Maria urla così forte che le sembra di averla al suo fianco, e non dall’altro capo della cornetta. La sua voce disperata è a dir poco straziante.
“Sarà un disastro! Per favore, Nina! Aspetta che arrivino gli altri! Ti prego! Non voglio che ti facciano ancora del male!”[3]
Si sdraia sulla brandina, guardando il soffitto, assorta. Solo dopo un po’ si accorge di stare giocando con l’anello d’oro che porta al medio destro: l’ultima volta che lo ha indossato, doveva portarlo appeso a una catenina, tanto erano piccole le sue dita.
Si morde le labbra per trattenere le lacrime
... papà...
Con il respiro tremante, si corica su un fianco, faccia contro il muro; raggomitolandosi su se stessa, cerca di addormentarsi.
Manca meno di una settimana.
 
 
Appoggiato con i gomiti sul davanzale, il ragazzo guarda mesto la città davanti a lui. Una mano si posa sulla sua spalla, e lui si gira, mentre il suo viso s’illumina una volta riconosciuto l’uomo alla sua sinistra.
“Ludwig!”
L’altro gli regala un sorriso stanco, provato. Feli appoggia una mano sulla sua, come a consolarlo.
“Tutto a posto?”
Chiede semplicemente il tedesco. Lo sguardo del giovane si addolcisce, non senza una vena di tristezza. Il biondo corruga le sopracciglia, notando quella strana sfumatura negli occhi marroni del compagno: non è bravo a leggere i sentimenti degli altri, ma capisce che la risposta è no. L’italiano appoggia la mano libera sulla guancia del tedesco, accarezzandola.
“Ne usciremo, in un modo o nell’altro. L’importante, è che gli altri stiano bene.”
Dice con quella sua voce dolce. Per qualche motivo, il comandante Beilschmidt non può fare a meno di sentirsi sollevato, anche se solo per un momento.
 
 
Lei e i suoi compagni ansimano per la corsa, tesi. Li squadra ancora una volta. È stato Celestino a mandarla lì, per portare l’avanguardia alleata in città.
“Nina, non c’è bisogno che ti dica quanto sia importante che l’avanguardia alleata arrivi qui, vero? Tutta intera, possibilmente”
La guarda come un professore di matematica indeciso se sia ora di iniziare a usare i disegnini, per spiegare le cose alla sua alunna. Alunna che non ne è affatto convinta.
“Ma perché?! Hai bisogno di me, per l’insurrezione, e lo sai!”
Batte le mani sul tavolo, per sottolineare la sua affermazione. Lui è evidentemente spazientito.
“Per quella ci sono già i ragazzi! Quello per cui non ho nessuno è una guida che aiuti gli alleati a entrare a Roma da là! Per cui, o mi riporti in vita Belisario, o ci vai tu!”
Uomo ostinato...
“Non ho bisogno di essere protetta!”
Sbotta Lavinia. Lui si morde le labbra.
“Senti, se qui dovesse andare storto qualcosa, ci saresti comunque più utile fuori che dentro-“
“Come ti pare”
Lo interrompe lei, uscendo furiosa dalla stanza.
Sono insieme da tre giorni, ma non sono malaccio: è più che convinta di potersene fidare. Si stringe nella giacca a vento: è giugno, ma sono le cinque di mattina, e la temperatura non è certo mite.
“Eccoli!”
Si affacciano tutti da dietro il muro, sperando che il diciannovenne si stia riferendo agli alleati, e non a un ultimo manipolo di nazisti o fascisti che sta battendo tardivamente in ritirata.
“Ici!”
Sussurra una voce. Le figure iniziano a delinearsi, e l’ombra che guida il piccolo gruppo si fa avanti.
“Lavinià!”
È la stessa voce di prima, a chiamarla. Con il suo nome – il suo vero nome, non quello di battaglia che usa con tutti – e, cosa che per qualche motivo la turba, lo pronuncia in francese. Risponde meccanicamente nella stessa lingua, senza pensarci.
“C’est moi! Ici!”
Dice piano, e quelli si avvicinano, cauti, fino a raggiungere il muro a secco usato come temporaneo nascondiglio. I due comandanti sono uno di fronte all’altro, il resto dei loro gruppi alle spalle, come ad aspettare l’approvazione per avvicinarsi, benché non ce ne sia bisogno: Nina e il ragazzo che parla francese (un francese un po’ strano, ora che ci pensa meglio) sono a mezzo metro l’una dall’altro. Lui la precede
“Il comando ha mandato noi canadesi[4], come avanguardia. Io sono Matthew-“
Nina lo interrompe

...accidenti, Lovi... chiedere aiuto a quel bastardo mangialumache... devi volermi davvero bene... pfffftt

stringendogli la mano
“Williams, lo so... Piacere di avervi con noi. Se siete pronti, direi di muoverci subito”
Finisce la frase rivolgendosi anche ai suoi uomini, mentre Mathieu lo ripete ai suoi in inglese.
Alzandosi e disponendosi secondo gli ordini, si rimettono silenziosamente in movimento verso la Città Eterna.
 
 
 
 
 
 
Note
1 Al processo, Kappler disse che a Roma, la situazione era “esplosiva”
2 ”La neve è caduta sui monti” era la frase in codice che Radio Londra avrebbe dovuto trasmettere per segnalare alla Resistenza Romana il momento in cui insorgere e prendere la città; il segnale non è mai stato trasmesso.
3 Le due principali ragioni per cui il Vaticano non voleva che i Partigiani insorgessero era che 1) sia Chiesa che Alleati temevano che i Comunisti potessero prendere il controllo della città e 2) siccome i tedeschi se ne stavano già andando (non senza dare gli ultimi ritocchi all’opera, sia chiaro) per conto loro e gli Alleati erano alle porte, un’insurrezione avrebbe rischiato di trasformare Roma in un campo di battaglia
4 Le truppe alleate entrarono a Roma la sera di domenica 4 giugno, ma la mattina di quello stesso giorno, un’avanguardia alleata formata da un distaccamento di canadesi si era già introdotto in città (o comunque si erano avvicinati per assicurarsi che l’entrata fosse libera, ci sono pochissime notizie al riguardo!) con dei partigiani (che immagino gli abbiano fatto anche da guida!)
Belisario era un generale bizantino: dopo aver liberato Napoli dagli ostrogoti, si diresse a Roma e – mi pare di ricordare – dopo di lui, nessun altro prese mai più Roma entrando da sud/sud-est (se mi sbaglio, correggetemi! È la reminescenza di qualcosa che ho letto tempo addietro, e potrei perfettamente sbagliarmi!)
 
 
...e il resto è storia. L’epilogo arriverà a breve...
 
byebye

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Capitolo 13
*** Epilogo: 2700 a.U.c. ***


Uff... eccoci qua con l’epilogo! Se mi avessero detto che avrei scritto una ff di ben (ehi, io sono abituata agli one-shot!) tredici capitoli, avrei risposto con un’occhiata scettica, poi un sorrisino rassicurante mentre chiamo la neuro...
Spero la conclusione c’azzecchi e sia quantomeno decente! Buona lettura!
Ah, le avvertenze le avete lette in tutte le salse nei precedenti dodici capitoli, quindi non le metto! Ah, che liberazione...
 
 
 
Capitolo 13
Epilogo: 2700 a.U.c.
 
“Bene, direi che è tutto, per oggi”
Conclude l’inglese, mettendo in ordine il plico di fogli che tiene in mano. Questa non è né la prima né l’ultima di una lunga serie di riunioni sulla politica da adottare, ora che la guerra è finita. Ian, due posti alla sua destra, dopo Rhys, si limita a infilare i suoi nella valigetta che ha con sé, disordinatamente. Nessuno sa ancora spiegarsi il motivo di tanta irritabilità, e la cosa inizia a scocciare più di una Nazione.
“Ma insomma, si può sapere che hai, aru?”
Sbotta il cinese. Lo scozzese ha continuato – imperterrito – a muovere su e giù il ginocchio, facendo traballare il tavolo, composto in realtà da una serie di banchi più piccoli accostati. E si dà il caso che l’orientale sia il suo “compagno di banco” da tre riunioni a questa parte; come al solito, ignora le proteste di Yao, preferendo litigare con la chiusura della ventiquattr’ore. La leggera risata di Francis lascia intuire che lui sappia cosa passa per la testa dello scozzese, e non veda l’ora di raccontarlo. Eppure, non proferisce verbo.
“Allora?”
Anche l’uomo con il kilt si volta, smettendo finalmente di muoversi. Non stava seguendo la conversazione, ma ora nota che tutti gli occhi sono fissati su Francis: cos’avrà combinato? Guarda suo fratello per un istante – è lui che ha parlato – poi si fissa nuovamente sul francese.
“Ohnonononon... Tutta colpa di Milano, non è vero, amico mio?”
Gli occhi verdi dell’altro lampeggiano d’ira, più rivolta a quella piccola strega che al fatto di essere preso in mezzo da quel branco di deficienti. Quasi rompendo la sigaretta che stringe fra le labbra coi denti, sbatte il pugno sul tavolo, furibondo.
“QUELLA DANNATA! Mi ha fatto passare l’anno più lungo della mia vita, la MALEDETTA! Sembrava lo facesse APPOSTA, a cercare di farsi AMMAZZARE, giusto per vedere quante ne potevo PRENDERE AL POSTO SUO! Ma se mi ricapita per le mani...! E VOI DUE, POI!”
Si rivolge ad Alfred – che lo guarda interrogativo – e ad Arthur, che lo fissa terrorizzato, stringendosi il braccio ingessato e muovendosi a disagio sulla sedia a rotelle su cui è stato costretto proprio dal rosso.
“Sapevate che ero lì, sapevate che una DANNATISSIMA personificazione ERA LÌ, eppure SGANCIAVATE BOMBE COME MOLLATE SCORREGGE DOPO CHE AVETE MANGIATO UN PIATTO DI FAGIOLI! E SAPEVATE COSÌ BENE DOV’ERO, CHE TROVAVATE SEMPRE IL MODO DI BUTTAR GIÙ L’EDIFICIO IN CUI MI TROVAVO! AAARRG!”
Batte entrambi i pugni sul tavolo, frustrato, mentre l’amico biondo ride, perfettamente conscio che il motivo di tanta insoddisfazione è il mancato appagamento di tutt’altro desiderio (benché il soggetto rimanga lo stesso... ohnonononon <3!)
“Piuttosto...”
Arthur cambia discorso, sperando che il desiderio di vendetta del fratello continui a focalizzarsi sulla povera italiana: lui ha già avuto la sua parte!
“... quindi... Lavinia è tornata?”
Francis gli sorride, anche – forse soprattutto – per farlo ingelosire (cosa che gli riesce perfettamente <3!). I presenti si voltano, anche loro curiosi: la voce gira da un po’, ma nessuno ha ancora confermato.
“Woha... Aspetta un attimo: era lei che dovevi andare a prendere, Mattie?”
“Quindi non è solo una diceria, aru?”
“Daaa... Ma è vero, Francis?”
L’interrogato si schiarisce la voce, guardando il suo pubblico con quegli sfavillanti occhi blu e un sorriso appena accennato. Si alza in piedi, con fare solenne.
“Ebbene sì, signori miei: la Città Eterna è tornata!”
 
 
“... e cos’hanno detto, dopo?”
Chiede lei, tornando in salotto. In mano ha la bottiglia di vino rosso che le ha portato Francis (regalo accolto con una smorfia di disgusto accennata: con tutta quella roba che i francesi ci mettono dentro, il liquido nella bottiglia è tutto meno che vino!): è andata in cucina per aprirla. Seduto su una di quelle bellissime poltrone foderate che Lavinia ha disposto intorno al tavolino, si allunga per prendere il bicchiere che lei gli porge, godendosi la sensazione del velluto sotto le dita della mano rimasta sul bracciolo: deve averle fatte rifoderare di recente, perché la struttura in legno è la stessa dell’ultima volta che si sono visti lì, trecento anni prima.
“Qualche verso di sorpresa, bisbigli vari, e le rimostranze che puoi immaginare: ma perché non ce l’hai detto, come lo sapevi, perché i Vargas... eccetera eccetera”
Lui sorseggia il vino, mentre lei ridacchia sorniona e gli si siede davanti, sistemandosi appena il leggero vestito da casa che indossa, di seta bordò, probabilmente una vecchia sottoveste ricucita a dovere; non può negare di essere un po’ invidioso della facilità con cui lei e la sorella – anche quando indossano vecchi capi riciclati – riescano sempre a sembrare donne di classe.
“Piuttosto, cara, dimmi un po’: quand’è che hai intenzione di raggiungerci?”
Domanda il biondo, non senza un velo di malizia. Lei storce la bocca, appoggiando il bicchiere sul piccolo tavolo alla sua sinistra.
“Mi sono ritirata a vita privata, ormai. Se vogliono vedermi, che alzino il culo e vengano”
“Oh, come sei scurrile... Non hai nemmeno un po’ di tempo per venire a una riunione? Nemmeno pochino pochino pochino? Eddai, voglio vantarmi di-“
“E piantala di STRACCIARMI i MARONI! Ho detto di NO, quante volte lo devo RIPETERE?!”
Lui prova a mettere su il broncio, con scarso successo.
“Proprio sicura?”
Lavinia sbuffa, prendendo una sigaretta dal pacchetto sul divano.
“No, grazie...”
Lei si allunga in avanti, mentre il francese le accende la cicca: per prendere l’accendino dalla tasca, appoggia il bicchiere sul tavolo
“... non sono dell’umore di vedere i soliti quattro stronzetti che non sanno farsi i cazzi propri. E non venirmi a dire che sono volgare: almeno io non tengo i preservativi nella stessa tasca delle banconote”
Anche Francis si accende una sigaretta, ridacchiando. Ha appena dato il primo tiro, quando Lavinia parla.
“E Arthur? Come sta?”
Gli occhi le brillano, divertita al pensiero dell’espressione che deve aver fatto l’inglese quando ha saputo che era ancora viva e vegeta: benché fra lei e Francis sia finito tutto da un pezzo, non riesce a smettere di sogghignare di soddisfazione ogni volta che il bastardo d’oltremanica sente la bile salirgli in bocca a causa sua. E nemmeno l’amico può trattenere un risolino, pensando al suo povero amante, torturato dalla gelosia
“Ohnononon... Il mio povero coniglietto mi ha tenuto il broncio per giorni! Che tenero! Anc-“
“AH! Zitto! Risparmiami i dettagli, per favore!”
Lo interrompe l’italiana, mettendo una mano avanti a intimare l’alt. Lui chiude immediatamente la bocca, poi le lancia un sorriso furbetto.
“Devo starmene zitto anche riguardo a Serena?”
Il tono equivoco della sua voce allerta Nina.
“Cosa le è successo?”
Lo dice lentamente, stringendo gli occhi, sospettosa. Lui ridacchia, e scrollando il capo dice.
“Diciamo che non la facevo così sadica...”
La bruna sgrana gli occhi, segnalando che sa di cosa sta parlando. Sorride.
“Mmhh... fortunatamente per il tuo amico, era così occupata da non essersene resa conto se non pochi giorni prima della sua partenza; chissà cos’avrebbe escogitato, altrimenti...”
“Dal tuo tono, intuisco che la signorina è interessata”
Sussurra in tono cospiratorio. L’altra si appoggia indolente contro lo schienale.
“Non più di tanto. Con tutto quello che c’è da fare, dubito che gli correrà dietro, se lui non si rifà vivo”
Francis sospira, deluso: e lui che pensava di aver finalmente sistemato Ian! Ma figurarsi se quel testone si muove! Non ha nemmeno capito cosa vuolefare, l’idiota! Si è addirittura convinto di odiarla, piuttosto che ammettere di volerla! Ah, gli scozzesi! Che testoni!
“E gli altri due?”
Chiede distratto il francese, spegnando il mozzicone nel posacenere.
“Un po’ ammaccati, ma poco o nulla è cambiato... Anto’ è il solito demente e Lovi uno stupido autolesionista, a corrergli dietro... Potessi tirargli il collo, al tuo amico... Giusto Feli, che sembra aver preso su un po’ di buonsenso – non credere, cretino era e cretino rimane – ma nonostante questo, insiste a stare con quel bastardo crucco frigidone emotivamente e sessualmente represso. Morisse ammazzato...”
Lui ride, mentre lei sbuffa, un suono che gli ricorda molto un gatto che soffia contro qualcuno di particolarmente antipatico. La guarda negli occhi – serio, stavolta – e lentamente, scegliendo bene le parole, le chiede
“E tu, come ti senti?”
Lei gli sorride, con uno di quei suoi sorrisi che ti spezzano il cuore in due, tanto sono belli e malinconici.
“Bene”                                                                  
Lo dice calma, tranquilla, con un tono come... sollevato.
“Era tanto tempo che non mi sentivo così... viva”
 
 
 
E così, Castel Sant’Angelo termina qui. Ma non disperate! Inizierà presto (un paio di settimane, credo: scusate, ma i corsi stanno per iniziare, e voglio mettermi subito all’opera!) un’altra fic (forse addirittura due in contemporanea), sempre a tematica famigliare, però. Eh, già: per ora, niente storie d’amore, se non marginali.
Piccola nota: 2700 anni dalla fondazione di Roma (siamo nel 1947!), ma Lavinia – devo averlo già scritto, da qualche parte – è nata, effettivamente, nel secondo/terzo secolo dopo Cristo.
 p.s.: ma perché nessuno mi ha ancora chiesto niente di questo “Gwilly” che metto alla fine delle note, da un po’ di tempo a ‘sta parte? Bah... Comunque, se indovinate a cosa può riferirsi prima che io metta sul sito la ff in questione... ci sarà un piccolo premio a sorpresa... basta darmi la risposta anche solo come messaggio, non è necessaria la recensione, se non sapete cosa scrivere!
 
byebye

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