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Non sapevo dove mi trovavo.Non sapevo come c’ero arrivata. Sapevo solo una cosa: era notte.
Era notte
fonda. Dalla mezzanotte in poi. Il buio era così spesso e silenzioso che
sembrava irreale. Notai subito alcune cose:
1-non ero a casa mia; ero in quella che non esclusi essere una foresta. Malgrado il buio riuscivo a distinguere i contorni degli
alberi. I rugosi tronchi sembravano dei guardiani in attesa di un qualsiasi
movimento; ti facevano sentire osservata. Gli alti rami erano sottili e possenti
braccia, pronte a ghermirti nel caso cercassi di scappare. Le chiome si intrecciavano sopra la mia testa, creando ragnatele dai
neri fili, contro il colore d’inchiostro dell’etere.
2-I
miei piedi toccavano qualcosa di molle e bagnato. Non avevo scarpe. Mai, mi
sarei sognata di uscire di casa a piedi nudi. La terra
era fredda e i fili d’erba mi solleticavano i piedi.
3-In
dosso non avevo più il mio comodissimo pigiama. Ma un
vestito bianco sporco, dalle spalline sottili, che mi arrivava appena sotto il
ginocchio. Era talmente leggero che pareva di non averlo. Di sicuro non sarei mai uscita dimia spontanea volontà in piena notte
vestita a quel modo.
La
temperatura era mite. Non un briciolo d’aria.
Un
ululato mi fece sobbalzare dalla sorpresa. Girai la testa a destra e a
sinistra, ma non vidi niente. Subito, il verso di un gufo. Feci un passo
indietro. L’animale mi guardava da sopra un ramo, con i suoi tondi occhi gialli
che facevano venire i brividi. Decisi di muovermi. La foresta stava iniziando a
bisbigliare. Procedevo a passi veloci e ben distesi, non badando ai sassi o
alle pigne che mi graffiavano la pianta dei piedi. Malgrado fossero attutiti
dal morbido terriccio mi pareva di fare un rumore
infernale. Il mio respiro affannoso come il battito furioso del mio cuore me li
sentivo nelle orecchie. Più andavo avanti e più
l’ansia e il terrore crescevano. Dietro di me i bisbigli mi seguivano: migliaia
di occhi puntati contro, passi felpati in lontananza, veloci battiti d’ali,
brevi versi e suoni. La foresta cospirava contro di me. Le ombre si allungavano
al mio passaggio; staccandosi, seguendomi. Non ce la facevo più, le gambe
dolenti, le dita delle mani congelate, il volto accaldato, gli occhi brucianti
per la stanchezza e lucidi, la pelle velata da un sottile strato di sudore.
D’improvviso mi bloccai. Ero uscita dalla foresta, gli alberi erano finiti.
Anche i rumori e le ombre avevano cessato di seguirmi. Come se fossero
confinati tra gli alberi. Mi trovavo in uno spiazzo vuoto, circondato da
alberi. Al centro: una casa di legno. Sulla destra,
circondato da canne, un laghetto dall’acqua nera, e vischiosa. Provai
una repulsione a pelle per quel posto. Uno schiocco di ramo spezzato mi fece
voltare indietro, e cambiai idea. Lanciai uno sguardo alla casa, prima di avvicinarmi.
Cosa ci sarà dentro la
casa? Prossimo capitolo in arrivo a breve….
La porta
si apre cigolando. Leggera come una foglia. Le assi sono vecchie e marce. Un
miracolo che sia ancora in piedi. Una puzza tremenda mi colpisce in piena
faccia, insieme ad una vampata di calore. Anche dentro
è tutto buio. C’è uno stretto corridoio che da su un
piccolo salotto. Sulla destra in parte all’entrata c’è una porta chiusa, ed ho
come la sensazione che porti di ‘sotto’. Ho un brutto
presentimento e la lascio chiusa, superandola. Odore di polvere e di chiuso.
-E’
permesso? C’è nessuno?- chiedo alzando un poco la voce,
titubante.
Non
ricevo alcuna risposta mentre avanzo. La stanza ha il soffitto basso, tanto che
il lampadario dondola a metà altezza. Ci sono due divani in velluto verde,
mezzi rattoppati e strappati. Al centro un tappeto e contro la parete un
mobiletto con sopra la tv. Lo schermo era grigio, non prendendo alcun segnale.:
unico elemento di luce nei paraggi. Sulla sinistra c’era un’altra stanza.
Appena la aprii mi coprii la bocca e il naso con le mani. Era una cucina. Sporca,
inutilizzata da anni, come se qualcuno se ne fosse andato in tutta fretta
mentre stava preparando da mangiare. ma la cosa più
assurda era la puzza: marcio, sporco e…. sangue. Sul
muro chiazze vermiglie, che mi fecero indietreggiare. Decisi che era meglio
andarmene, da quel posto. Mi diressi verso la porta, ma prima che potessi raggiungerla tremò. Uno schianto come se qualcuno ci si
fosse scagliato contro. Uno strano verso, come un basso ringhio. Un rumore, di
qualcuno che grattava contro il legno marcio. No, non avevo alcuna voglia di
sapere cosa ci fosse lì fuori. Mi guardai in giro. In fondo a destra della sala
c’era un’apertura. Delle scale salivano curvando leggermente siaa destra che a
sinistra. Un lungo corridoio si aprì di fronte a me; almeno qui il soffitto non
era claustrofobico. Le pareti verde acido, sporche
come tutto lì dentro. Otto porte si aprivano ai lati del corridoio. Una da un
lato una dall’altro si alternavano. Incominciai con la
prima a destra. Posai la mano sul pomo d’ottone, presi un bel respiro, e aprii.
Era una stanza piombata nel buio, dalla luce che filtrava dal corridoio sembrava una stanza giochi: larga, spaziosa, una
palla ed un sonaglio per terra. La richiusi. Aprii
quella a sinistra. Era uno sgabuzzino, stretto, piccolo e buio. Non c’era
niente da vedere, perché non si vedeva niente. Aprii
la seconda, era una camera da letto matrimoniale, uno
spiffero d’aria fresca inodore mi investì; su un sollievo. Se solo la parte del
copriletto illuminato dalla ‘luce’ del corridoio non fosse stata schizzata di
macchie rosse. La richiusi, bisognosa di distogliere
la vista. Quella successiva era un bagno; stranamente inondato di luce. La
stanza era lercia, ma almeno non semrbava esserci sangue. Sbagliavo. Appena entrai ebbi una visione completa di dove mi trovavo,
inorridii. Il pavimento era semplicemente sporco di nero, come se qualcuno c’avesse camminato con le scarpe sporche mentre il pavimento
era ancora bagnato. I lavandini erano di marmo bianco, liscio e splendente;
tanto quanto lo era il colore cremisi che lo ricopriva all’interno.
Indietreggiai fino ad arrivare a toccare il vetro scorrevole della doccia. Mi
girai; balzai urlando. La parte inferiore dei vetri e il piano interno, erano anch’essi sporchi di sangue. Cercai di
calmarmi, presi respiri lunghi e profondi; tentando di non vomitare.
Trattenendomi dall’urlare. Chi aveva
perso tutto quel sangue? Girai il capo quel tanto per guardare il mio
riflesso nello specchio sopra i lavandini. Il bianco sporco del mio vestito si
addiceva perfettamente a quell’ambiente; l’unica viva ero io.
Anche la
porta da cui ero entrata si specchiava, insieme a me.
Qualcosa di veloce e nero ci passò davanti. Mi voltai di scatto. Comandando al
mio cuore di battere più piano. ‘Era un’allucinazione. È stata solo
un’allucinazione. Non c’è niente lì fuori dalla porta’ pensai nella mia testa.
Dicendomi che era tutta autosuggestione. E
poi era tutto un sogno, giusto? Sollevando i piedi come se fossero due
incudini. Mi avvicinai. Alla porta. Sporsi fuori la testa, il silenzio nelle
orecchie. Guardai sia a destra che a sinistra.
Sembrava tutto tranquillo. ‘Le ultime parole
fatidiche’. Dal soffitto sopra le scale da cui ero salita
si staccò qualcosa di molto grosso e nero, che volò giù di sotto sbattendo
rumorosamente le ali, un corvo. Feci un respiro di sollievo. Mi stavo prendendo
un infarto per uno stramaledettissimo uccello. Continuai la mia esplorazione,
quando il pensiero di fare dietro-front e andarmene mi pizzicò la parte
posteriore della testa. Non so perché lo feci, ma lo ignorai. La porta mi
mostrò la stanza di un bambino, piccolo dedussi guardando la culla. Ma che fine aveva fatto questa famiglia? Sul pavimento
davanti ai miei piedi c’erano gocce di sangue. Non fu difficile trovare la
risposta, erano tutti morti. Il rumore di una sega
elettrica apparve nella casa; proveniva proprio dalla pota
che mi sarebbe toccato aprire. E quella; era l’unica semichiusa. Il mio buon
senso mi disse che adesso era ora di andarmene. Feci un passo indietro,
ma mi avvicinai troppo alla porta alle mie spalle. Qualcosa, un animale a
quanto sembrava, si scagliò contro la porta, emettendo un verso ferocissimo. Mi
spaventai. Dallo spiraglio vidi una sagoma umana fermarsi, e voltarsi proprio
nella mia direzione, avvisata dalla reazione dell’animale. Con il cuore in gola
dalla paura, le mie gambe agirono come una molla a scatto. Mai avrei pensato di
poter essere così veloce. Mi fiondai fino alle scale, andando quasi a
schiantarmi contro il muro; poco ci mancò che ruzzolassi di sotto per la foga.
Mentre saltavo gli scalini, facendoli due alla volta; certe volte
anche tre. Attraversai il salotto, arrivai alla pota
(dimentica ed incurante di quello che poco prima c’aveva sbattuto contro), mi
ci fiondai fuori. Pochi passi nell’erba e le mie gambe affondarono fino alle
ginocchia: il laghetto. Mi trascinai fuori da quella cosa melmosa e viscida,
capendo solo alla luce della notte cosa fosse; le mie gambe erano rosse. Rosso
sangue. Urlai, liberando il grido che mi era rimasto in gola fino a quel momento.
Urlai, con tutto il fiato che avevo in corpo. Mi rialzai, e ripresi a correre.
Verso gli alberi della foresta, che non avevano cessato di bisbigliare. Nessun
rumore di passi alle mie spalle, dando un’occhiata all’indietro
nessuno mi seguiva. Non mi fidavo. Il mio istinto mi diceva di continuare a
correre. Sorpassati i primi alberi mi sentii d’aver
guadagnato un briciolo di salvezza. Due secondi dopo pensai al contrario. Ero
scappata da degli assassini per finire in una foresta omicida. Poco prima non
stavo scappando proprio da quegli stessi alberi? L’ululato si fece più vicino,
più intenso, più ripetitivo. Il gufo tubava incessantemente. Me lo sentivo
sempre sopra la testa. Come sece ne fosse uno sopra ogni ramo.
Rumori mi accerchiavano. Qualcosa spazzò il terreno davanti a me; saltai per
non inciampare. Gli alberi, i rami, i cespugli: tutto aveva preso a muoversi ma
non c’era un soffio di vento. Non era possibile: quella foresta era viva. Corvi
volavano sopra di me emettendo il loro agghiacciante verso, come un allarme.
Non mi potevo fermare. Saltavo le radici e i cespugli, evitavo i rami che mi
s’impigliavano nei capelli e mi graffiavano il viso e le braccia. Un qualcosa
di grosso mi sfiorò la spalla; era stato un corvo. Come aizzati dal medesimo tutti gli uccelli iniziarono a darmi addosso. Con
le braccia tentavo di coprirmi la testa e il viso. Uno mi artigliò la spalla
destra; gridai dal dolore mentre qualcosa mi si attorcigliava ad una caviglia ed io finivo per terra. La vegetazione mi immobilizzò, ricoprendomi. Come se volesse farmi
diventare parte integrante della foresta. I bisbigli mi si
fecero talmente vicini da poterli sentire nelle orecchie “E’ lei. È finita in
trappola. L’hanno presa. Non scapperà. Scappa. Non ti devono prendere. È troppo
tardi.” Si susseguivano confusionari.
Poi fu il
buio.
Chi c’era dentro la casa?
E che cos’era la creatura chiusa nella stanza?