Can you hear the World screaming? -L’Incubo-

di Ortensia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Lettere ***
Capitolo 2: *** II - Stanze ***
Capitolo 3: *** III - Messaggi ***
Capitolo 4: *** IV - Inganno ***
Capitolo 5: *** V - Fratelli ***
Capitolo 6: *** VI - Rabbia ***
Capitolo 7: *** VII - Rimorsi ***
Capitolo 8: *** VIII - Sospetti ***
Capitolo 9: *** IX - Bugia ***
Capitolo 10: *** X - Veleno ***
Capitolo 11: *** XI - Buio ***
Capitolo 12: *** XII - Fiducia ***
Capitolo 13: *** XIII - Chiavi ***
Capitolo 14: *** XIV - Cecità ***
Capitolo 15: *** XV - Alleanze ***
Capitolo 16: *** XVI - Pistole ***
Capitolo 17: *** XVII - Mezzanotte ***
Capitolo 18: *** XVIII - Amicizia ***



Capitolo 1
*** I - Lettere ***


Can you hear the World screaming?

-L’Incubo-



I – Lettere



Conosceva benissimo il significato di quel rumore sordo ed improvviso, attutito a fatica dalle pareti della cucina.
Con il giornale spiegazzato stretto in una mano, e la tazza di caffè alla bocca, stretta nell’altra, sollevò appena il viso, soffermandosi sulle lancette del grande orologio che già segnava da poco le dieci: suo fratello si era appena svegliato.
Un lieve sospiro di resa, seguito dall’ultima sorsata di caffè, amaro e caldo, contro il palato, mentre il giornale scivolava silenzioso sulla superficie liscia del tavolo in mogano.
La sua piacevole ora di lettura era finita: con quel baccano allucinante non sarebbe mai riuscito a concentrarsi e capire tutti quegli schemi riguardanti l’economia del paese, le azioni bancarie e quant’altro.
Un altro sospiro, questa volta ancor più esasperato, mentre attraversava a passi pesanti il corridoio, avvicinandosi notevolmente al baccano dell’altro.
«Pazienza Ludwig. Pazienza.» borbottò fra sé e sé, prima di bussare alla porta del fratello.
Ovviamente nessuna risposta, considerando quel rumore infernale oltre la porta, così alto che quasi gli impediva di udire i suoi stessi pensieri.
Ignorato completamente comprese che, per una volta, aprire la porta senza alcun avvertimento ed omettendo quindi la sua educazione non gli sarebbe costato nulla.
«Gilbert …» quasi una voce spiritata, quella del tedesco, che ora sporgeva appena il viso dalla fessura che si era creato aprendo la porta dell’altro.
«West! Guten Morgen, Bruder!» ma Prussia, ovviamente, lo accolse con un saluto energico ed un sorriso vivace, senza curarsi minimamente del fatto che fossero appena le dieci del mattino, che il fratello si stesse preparando per una lunga giornata di lavoro e che il volume della tv fosse leggermente alto. Ai limiti della massima frequenza udibile dall’orecchio umano, diciamo.
«Mhn.» un brontolio rassegnato, quello di Ludwig, ormai arreso ed addossato alla porta.
Ecco che però, quel baccano, fu soppresso all’improvviso, come la lama di un coltello che netta taglia in fette fini gli ingredienti della cena.
Il tedesco non poté nascondere il suo sollievo, quando calò nuovamente un sereno silenzio.
«Gut, vengo a fare colazione!» veloce, il prussiano, sgattaiolò attraverso la stanza e, lasciatogli lo spazio dal minore, uscì ed imboccò le scale.
Ludwig rimase alla porta del fratello, guardandolo a labbra serrate mentre scendeva le scale: perfetto, gli toccava anche preparare la colazione per Gilbert!
«Oh-»
Gli occhi di ghiaccio rotearono appena e le labbra si arresero all’ennesimo sospiro della giornata: non gli dispiaceva che Gilbert vivesse con lui, per lo meno non era solo quando si svegliava la mattina o quando tornava da lavoro la sera, ma essere trattato come una cameriera, il più delle volte, era davvero poco gratificante.

«Che ingrato però! Avere la mia Magnifica persona in casa e non preparargli neppure la colazione!» bofonchiò a voce bassa il prussiano.
«West! La colazione!» strepitò dal piano di sotto, dirigendosi verso l’ingresso: la colazione avrebbe potuto benissimo prepararsela da solo, ma pigro com’era -soprattutto la mattina- preferì limitarsi a controllare la posta.
Arrivato davanti alla cassetta della posta, poco lontana dallo zerbino di casa, si fermò appena in tempo dall’aprire lo sportello, soffermandosi su un foglietto stracciato incastrato proprio fra esso e la cassetta postale in sé.
Se avesse aperto lo sportello senza farci caso sarebbe sicuramente volato lontano, portato via dal forte vento che arieggiava a Berlino quella mattina.
«Chissà cos’è …» afferrato il biglietto poté aprire lo sportello, trovando però vuoto lo spazio destinato alla posta.
Ripercorrendo quel breve spazio che lo avrebbe riportato in casa ne approfittò per posare gli occhi sul biglietto: una scrittura abbastanza comune, che gli diede l’impressione di aver già visto almeno una volta, per di più recentemente.
«C’era posta?» e gli occhi del prussiano si scostarono improvvisamente da quella scrittura, alla voce grave del fratello.
«Solo questo.» l’albino glielo mostrò, continuando a stringere la carta leggera fra l’indice ed il pollice esili.

«To: Germany and Prussia
From: America»



«America? Pft, che avrà combinato questa volta?» commentò apatico il tedesco.

«Ahahah! Volevo informarvi che ho organizzato un altro evento!
Questa volta si tratta di un gioco che ho organizzato
all’interno di una casa “stregata”.
Raggiungete l’eroe fra una settimana!

London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50

☆☆☆»



Ludwig aggrottò appena la fronte e troppo tardi si rese conto di quello strano silenzio: davvero insolito per Gilbert.
«Gilbert, non pensarci neanch-»
«Andiamoci!» la voce roca del prussiano lo interruppe, risuonando piuttosto entusiasta, quasi estasiata da quella lettera.
«Sono Magnifico ed è ovvio che vincerò il gioco! E poi il ballo che America ha organizzato l’ultima volta non è stato niente male, ja?» eh sì. Quando mai Gilbert Beilschmidt considererebbe da poco un evento in cui gli è data la possibilità di pavoneggiarsi davanti a tutti?
«Ja, ja …» assolutamente convinto che si trattasse di uno scherzo, a giudicare da quel pezzetto di carta tanto misero quanto misterioso, Ludwig si avviò nuovamente alla cucina, dando le spalle all’albino che lo seguì gracchiando come non mai.
«West! Guarda che ci divertiamo!»
«Gilbert, ho del lavoro da sbrigare. E poi, avanti, mi sapresti spiegare da dove arriva quel biglietto? Non credo che America sia venuto qui di persona a consegnarcelo.» il tedesco si mise ai fornelli senza più rivolgere anche una semplice occhiata al maggiore, indicando con una manata quasi impercettibile di ribrezzo il pezzo di carta che ancora l’altro stringeva fra le dita.
«Chiunque verrebbe a piedi dall’America per consegnare la posta alla mia Gloriosa persona!» controbatté convinto il prussiano.
«…» meglio non fare caso a queste frasi insensate, sì.
«E poi se cita una casa “stregata”, significa che è un gioco di terrore. Mi sembra strano che America organizzi giochi del genere …» il biondo decise di pronunciarsi ancora una volta, dopo la sua pausa silenziosa alle parole superbe del fratello.
«Ja! Lo so anche io che America in verità è un caga sotto!
Ma … non è di paura per davvero, no? Lo farà sicuramente per fare la sua bella figura da eroe, peccato che non abbia calcolato la mia Magnifica presenza! Kesese!» il prussiano scoppiò in una risata divertita, mentre il tedesco, in uno sbuffo stanco, gli adagiava davanti la sua colazione.
«West, quanto vuoi che duri? È meglio se ti prendi qualche giorno di riposo, e poi sei con il Magnifico Me!» un ghigno vivace stampato in volto, gli occhi scarlatti fissi sul viso crucciato del minore, ora totalmente in silenzio, con il viso smorto e stanco ad osservare quei rubini quasi ipnotici.
«Mhn … ci penserò Prussia. Ci penserò.» bell’affare. Decisamente.


Fino a qualche tempo fa, avrebbe udito una voce flebile tremare al suo cospetto, così come la mano oscillante ed insicura che gli avrebbe consegnato il messaggio, ma ora che era solo, Ivan, ci mise un po’ a realizzare che il suono del campanello alle prime ore del mattino poteva annunciare quasi esclusivamente l’arrivo del postino, probabilmente con qualcosa di importante da consegnargli.
Rimase giusto ancora qualche attimo immobile, con la schiena adagiata contro il divano in pelle e gli occhi fissi sulla tv: per l’ennesima volta in pochi mesi, il capo, si ritrovava a discutere della vacillante economia dell’Europa, cercando di esaminare quale grande paura avrebbe potuto scatenarsi in Russia nel caso l’Unione Europea fosse arrivata a toccare il fondo.
«Umh-» lo slavo scosse appena la testa, poi, spegnendo la tv e flettendo il viso verso la finestra, nel silenzio: ci voleva un bel coraggio a presentarsi alla sua porta con tutta quella neve che ora cadeva copiosa oltre il vetro, senza lasciare visibile anche solo un anfratto cupo di cielo, privando le strade -probabilmente ricoperte perfino di ghiaccio- di qualsiasi respiro.
«Un momento~» ma aperta la porta, il sorriso forzato e quasi malizioso assunto dal russo scomparve.
Davanti a sé solo il breve viale ricoperto da un soffice manto di neve candida, e quei fiocchi freddi che a gruppi cadevano dal cielo, riversandosi silenziosi su Mosca.
La fronte ampia del russo si aggrottò, e gli occhi si assottigliarono. Confuso, diede un’occhiata alla destra del vialetto, poi alla sinistra, e quando non vide nessuno decise di arretrare e tornarsene dentro casa: pensò che si trattasse dello scherzo di qualche ragazzino, finché una lettera sullo zerbino rosso e logoro non attirò la sua attenzione e lo trattenne ancora sulla soglia.
Inginocchiatosi con curiosità, afferrò la lettera e lesse il nome del mittente.

«Zu: Russland
Von: Wunderbar Preußen»



«Prussija?» sussurrò appena, arrancando su un’estremità della lettera in modo da strappare quella carta a suo parere inutile e giungere al messaggio contenuto in essa.

«Prima di tutto considerati fortunato ad aver ricevuto una lettera
dal Magnifico Me!
Se mai verrò a casa tua -ma non credo proprio verrò-
esigo vederla appesa al muro, altrimenti sarò costretto a vendicarmi, kesese!
Senti bastardo, devo discutere con te di una questione.
Lo farei volentieri a casa mia, ma c’è West
e da te non ci penso neanche a venire!
È un luogo indegno!
Ci vediamo fra una settimana, questo è l’indirizzo:

London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50

Firmato: IL MAGNIFICO PRUSSIA»



Gli occhi del russo si assottigliarono appena, le labbra si incrinarono in una smorfia: perché fino a Londra per parlare di una “questione”?
Che Prussia fosse venuto fin davanti a casa sua per fargli uno scherzo, lo trovò troppo strano, e così i suoi sospetti si rivolsero in particolare a Francia e Spagna: quali migliori compagni si sarebbe potuto trovare Gilbert, dopotutto?
Con la lettera stretta in una mano, chiuse finalmente la porta e si diresse a passi rapidi verso il salotto.
«Meglio chiamare.» ma quando si ricordò delle parole che nella lettera, per un attimo, lo avevano fatto sorridere, la sua mano si pietrificò sulla cornetta del telefono: “Senti bastardo, devo discutere con te di una questione. Lo farei volentieri a casa mia, ma c’è West.” se avesse chiamato a casa Beilschmidt, la possibilità che fosse Prussia a rispondere, era probabilmente sotto zero. Inoltre, se avesse risposto Germania, avrebbe sicuramente iniziato a sospettare qualcosa.
No. Forse non si trattava di uno scherzo.
Forse quella lettera era davvero di Gilbert, e magari era stato lui stesso a suonare alla sua porta, ma così orgoglioso e spavaldo aveva deciso di svanire prima che potesse aprirgli, lasciando della sua visita solo quella lettera misteriosa.
Gli occhi color ametista del russo si soffermarono sulle frasi cupe e sinuose che sovrastavano la carta bianca, inconsapevole di come sul suo viso si fosse dipinto un sorriso timido e allegro.
«Questa è la scrittura del mio coniglietto~» con la mente libera da ogni dubbio, il sorriso del russo, si ampliò, e ciò che avrebbe fatto si configurò nella mente, chiaro e perfetto.



Natalia aveva appreso recentemente la notizia dell’ennesima visita che il fratellone aveva fatto ad Ucraina, e se c’era una cosa che aveva la capacità di metterle in corpo più ira di quanta già non conservasse con cura, era proprio il fatto che Ivan andasse molto spesso dalla sorella, e mai da lei.
La evitava, e Natalia non ne comprendeva il motivo, o per lo meno faceva finta di non capire.
Cosa c’era di male nel volere così tanto bene al proprio fratello da volerlo perfino sposare? Niente: secondo lei.
Eppure Natalia sapeva che le visite che Ucraina riceveva da Ivan avevano come unico oggetto il pagamento delle bollette del gas, nessuna esclusa. Non si trattava mai di visite di piacere, l’unica cosa che forse poteva invidiare a sua sorella era il fatto che, ogni tanto, riuscisse a vederlo e sentirlo, niente di più.
Ed un sospiro nervoso, quello che le labbra rosee e morbide della bielorussa si lasciano scappare adesso, a quei pensieri che non vogliono togliersi dalla testa, che quasi iniziano a farle male, da quanto sono insistenti ed agitati.
In uno scatto luminoso, gli occhi color lavanda di Natalia si soffermarono sul fiato argenteo condensato davanti al suo viso, in seguito a quel sospiro di esasperato astio.
«брат …» ed in un sospiro spiritato, pronunciò con isteria ciò che in quel momento si trovava al centro dei suoi pensieri, mentre gli occhi si scostarono di nuovo fugaci al pugnale che stringeva in una mano.
Mani esili ed eleganti, dita affusolate e delicate, come il fisico minuto, bianco come il latte: una donna graziosa che non aveva paura di maneggiare un vecchio pugnale arrugginito, trafiggere con esso ancora una vita, dopo averlo riposto chissà quanto tempo fa, tingerlo di nuovo del liquido rosso della morte.
Tornata nel suo silenzio lasciò che l’altra mano applicasse sulla lama, ricoperta più di polvere che di ruggine, un semplice panno umido con il quale riuscì a ripulire il metallo di quasi tutte le macchie impure impregnate in esso. Ignorava seriamente i motivi per i quali fosse corsa fuori in giardino con quel freddo insostenibile e si fosse diretta alla piccola cascina di legno: lei e i suoi pugnali, i suoi coltelli.
Lei e quelle lame metalliche che si erano tinte dei sangui più disparati, disintegrando le regole del tempo. Forse era solo un modo per sfogare la propria frustrazione: starsene chiusa nel suo silenzio, a prendersi cura di ciò che più la soddisfaceva.
Un’ultima passata di quel panno e finalmente, la sua pelle, avrebbe potuto tornare a godere di quel metallo freddo e sinuoso, appuntito e tagliente.
Il polpastrelli della bielorussa sfiorarono appena la lama, seguendo con attenzione la superficie fredda e levigata, paralizzandosi quando un rumore secco ed improvviso la fece sussultare in un singulto.
Improvviso come poteva essere uno sparo, ma troppo sordo e grave per trattarsi davvero di un proiettile in piena collisione con un altro oggetto nelle vicinanze.
La mano della bielorussa chiuse in fretta la porta di legno della cascina, in un cigolio sinistro, e gli occhi color ametista guizzarono alla sua destra, quando le dita affusolate si strinsero immediatamente contro il manico del pugnale.
Avrebbe strepitato con rabbia, chiedendo chi fosse stato a disturbare il suo silenzio con quel rumore stridulo e fastidioso, se l’esperienza non le avesse insegnato già da molto tempo la cosiddetta “cautela”.
Il palmo liscio della mano scorrette sinuoso lungo la parete legnosa della cascina, scostandosi poco dopo, mentre Natalia si muoveva a passi lenti verso casa.
«Mhn?» quanto fu abbastanza vicina, arrestò i suoi passi ed aggrottò la fronte perplessa.
La cassetta della posta stava ondeggiando faticosamente, probabilmente appena scossa da un urto.
La mano di Natalia si tese appena, e le dita strapparono con indifferenza il biglietto attaccato allo sportello della cassetta postale.

«Кому: Беларусь
От: Россия»



«…» indifferenza che, alla vista del destinatario, di cancellò immediatamente, come il colore sulle ali di una farfalla.

«Cara sorellina, sarà l’ora che io confessi i miei piani~
Il motivo delle mie fughe, ogni volta
che mi chiedi di sposarti,
è semplice, ma da oggi ho deciso di non scappare più.
In verità stavo solo cercando un luogo adatto per … celebrare le nozze:
se lo facessimo così, su due piedi, non sarebbe molto carino, da?
Fra una settimana sarà tutto organizzato,
mi troverai a questo indirizzo~

London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50»



Fu una delle poche volte in cui ogni difesa della fredda Bielorussia venne a mancare, in cui quella maschera gelida si frantumò a terra senza fare rumore: non credeva ai suoi occhi, non si fidava di ciò che aveva appena letto, eppure rimaneva ad osservare quelle frasi con gli occhi sgranati e le labbra tese in una smorfia di confusa speranza.
Quella era la scrittura di Ivan: l’avrebbe riconosciuta fra mille.
«Da …» un sibilo, quando le labbra si incrinarono in un sorriso fin troppo esplicito.



«Ah, c’est très beau ça! N’est-ce pas?» si domandò il francese, sussurrando sull’affusolato bicchiere di vino, prendendo un’ampia sorsata del dolce alcolico che, per un attimo, gli invase la bocca e la gola.
Non c’era niente di meglio che ammirare il nero firmamento invaso dalla luce argentea della luna piena, degustando nel silenzio un ottimo vino d’annata.
Nonostante la solitudine pressante, ben percepibile fra le piante ed i fiori rigogliosi di quel giardino buio e vuoto, il francese rimase allegro e rilassato, affogando i propri pensieri nel sapore acidulo del vino, soffocandoli nel cupo panorama notturno di una piccola via di Parigi, ennesimo capillare della grande metropoli.
La bottiglia di vino fu adagiata al gradino su cui era seduto e le magre gocce rimaste al suo interno risuonarono appena, mentre gli occhi azzurro cielo si soffermarono sul loro riflesso lucente, specchiato nei rimasugli scarlatti dell’acolico raccolto nel bicchiere.
«Mhn …» le labbra fini del francese si lasciarono sfuggire un sospiro, mentre il corpo magro si sollevava sulle proprie gambe e una delle mani sospingeva la porta.
Date le spalle al giardino non ebbe neppure il tempo di fare un passo per varcare la soglia dell’appartamento: uno strano e stridulo rumore lo paralizzò.
In silenzio, il francese, inclinò lentamente il viso, osservando ad occhi sgranati ciò che si era lasciato oltre le spalle.
Il vento ululò, le foglie secche stridettero contro l’asfalto freddo della strada e le fronde scarne degli alberi ondeggiarono agitate.
«Qu’est-ce qu-?» le parole sussurrate del francese gli morirono in gola, silenziose, prosciugate dall’ansia; gli occhi, poi, guizzarono rapidi e seguirono il movimento fluido e lento di un foglietto di carta ben visibile nella francese notte di pece.
Voltatosi rapidamente e sceso lo scalino, afferrò il pezzo di carta che ancora si lasciava cullare dal vento leggero, sospeso nell’aria fredda senza ancora arrendersi alla gravità.
Un brivido pesante percorse la spina dorsale del biondo, facendo vibrare ogni vertebra, come denti pulsanti che si scontrano nei fremiti di un inverno gelido.

«To: France
From: United Kingdom»



Letto il nome del mittente si ritrovò ad esclamare il nome dell’altra nazione, incredulo anche solo di stringere quella carta spessa fra le mani: ma … da dove veniva?
Il francese ricordò i movimenti docili e rilassati del foglietto di carta che quasi gli era sembrato provenire dal cielo, scostando gli occhi alle righe inferiori e deglutendo la propria angoscia.

«Ascolta idiota di una rana:
non ti sto pregando di farlo e non sei certo la persona
a cui avrei voluto chiederlo,
ma siete tutti degli idioti,
anche America che non ha risposto né alle e-mail, né alle telefonate
prima che mi togliessero la corrente.
Qualcuno deve venire qui a …
vabbé, sei il più vicino.
Fatti trovare qui fra una settimana, idiota:

London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50»



Nonostante non volesse apparire così, per merito della testa orgogliosa che aveva ideato quelle parole, era evidente che il francese si era ritrovato fra le mani una palese richiesta di aiuto.
Francis si soffermò sul fatto delle mail e delle telefonate: perché gli avevano tolto la corrente? Che cosa aveva fatto Arthur per andare incontro a qualcosa di simile?
La crisi, forse. Situazione per la quale la Francia non sarebbe mai dovuta correre ad aiutare l’Inghilterra, quel governo che con tanta determinazione si opponeva alle decisioni e alle tentate soluzioni dell’Unione Europea, mettendo i bastoni fra le ruote ad un minimo ed eventuale miglioramento delle economie statali.
Già, ma rimaneva comunque un condizionale: non sarebbe dovuto andare da lui, ma lo avrebbe fatto comunque.



A Madrid splendeva il sole, caldo e luminoso, centro di un cielo sereno e senza nuvole, nonostante fossero appena le otto.
Colpite dai raggi caldi del sole, le palpebre bronzee dello spagnolo si schiusero stanche ed assonnate, seguite poi da uno sbadiglio rumoroso.
La testa dell’ispanico si inclinò verso destra e le labbra si incrinarono in un sorriso allegro non appena intravide i capelli arruffati dell’italiano, addormentato al suo fianco.
«Buenos días, Lovinito~» e il sorriso si ampliò quando si mise a sedere con fatica e adagiò la mano ampia contro la gota tiepida del meridionale, accarezzandola con delicatezza.
Scostate le coperte, lo spagnolo, si mise i pantaloni e si diresse all’uscita della camera, pronto ad avviarsi verso la cucina.
La polvere di cacao sparsa sul fondo del tegame in acciaio fu sommersa dal latte freddo ed iniziò a sciogliersi non appena le fiamme del fornello iniziarono a scottare il metallo, tramutandosi dopo poco tempo in cioccolata calda. Versata in due tazze adagiate su un vassoio ampio, e messo al centro di esso un piatto di churros che aveva messo a scaldare poco prima, si considerò pronto per portare la colazione in camera: scarna, di primo acchito, eppure effettivamente insolita e pesante da digerire.
«Mi amor, sveglia!» con attenzione adagiò il vassoio sul comodino, sedendosi sul letto e chinandosi con un sorriso gioioso sul suo italiano: lo sapeva bene, dopotutto, che Romano non si sarebbe mai svegliato con il suono di una voce -soprattutto alle otto del mattino- così decise che non gli rimaneva altro se non usare le labbra contro quelle dell'altro, sui capelli, sulla pelle. E non fu certo una decisione che prese con noia o malincuore.
Prese, invece, con noia e malincuore il suono del campanello che interruppe il primo bacio della giornata.
Ok, pazienza: aveva tutta una giornata da passare in compagnia del suo italiano, non aveva motivo di preoccuparsi.
Arrivato all'ingresso aprì la porta e sfoggiò un sorriso allegro e lucente.
«Buenos días, señor.» salutò cordialmente, soffermandosi sulla scatola che l'uomo stringeva fra le braccia.
«Firmi lì ...» con sforzo, ed impossibilitato a consegnargli di persona la ricevuta, il postino indicò con un misero cenno della testa il documento adagiato sul coperchio della scatola.
«D'accordo!» tranquillo, lo spagnolo, afferrò la penna e, usando come appoggio la scatola -e quindi anche il postino- iniziò a fermare: ecco lo svantaggio dei lunghi nomi spagnoli, visto che l'altro dovette sorreggere il peso dell'ispanico per fin troppo, soffocante, tempo.
«La ... la ringrazio-» balbettò con voce pesante il postino, mentre lo spagnolo prese fra le mani la scatola, notando fin da subito, quando la ricevuta fu tolta da sopra il coperchio, un foglietto attaccato ad esso.
«Di nulla!» risposte lo spagnolo con un sorriso, dando poi le spalle al postino e tornando in casa a passo rapido.
«Vediamo ...» adagiata la scatola sul tavolo, l'ispanico lesse il biglietto sul coperchio.
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«À: Espagne
Par: France ♥

Bonjour mon ami!
Spero che vada tutto bene!
Io e Gilbert abbiamo pensato che una bella
rimpatriata fra amici
sarebbe molto carina, n'est-ce pas?

Ci vediamo fra una settimana a:
London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50

Porta anche Lovino~»



Lo spagnolo sorrise allegro, ma sollevò con sospetto il coperchio della scatola: eppure, nonostante il sospetto, scoppiò in una risata.
«Francis!» esclamò in un'altra risata, stringendo l'intimo femminile di pizzo fra le mani.
Rise, e improvvisamente, la risata entusiasta, si spense: e Romano chi lo convinceva adesso?



«A-America?» balbettò il canadese per richiamare l'attenzione del fratello.
L'americano sollevò il vis ed accennò un sorriso, mentre l'altro gli adagiava un piatto di frittelle colanti di sciroppo d'acero davanti al viso.
«Che noia! Non c'è mai niente da fare!» e la forchetta infilzò i primi due strati della frittella, mentre il viso niveo si abbatteva sul palmo della mano, completamente sconsolato.
«Insomma, perché non andiamo a giocare a baseball?» propose l'americano sollevando appena lo sguardo. «Ma no ... baseball no ...» sorrise nervoso il canadese, ed Alfred fu subito pronto a scommettere che l'angolo delle labbra del canadese fremette timoroso.
«Basket?» e il sorriso dell'americano si fece quasi provocante, divertito dalla situazione.
«No!» esclamò nel panico il canadese: non che non gli piacesse lo sport, o trascorrere del tempo con suo fratello, anzi, ma Alfred risultava essere sempre troppo violento, in qualsiasi attività relazionata ad una sfera di cuoio.
«Non potremmo andare solo sul Michigan? O ... o alla Hudson Bay? Sono ... sono posti tranquilli ...» balbettò paonazzo il canadese.
«Troppo tranquilli!» lo incalzò l'altro: Alfred era sempre stato troppo iperattivo per rimanere fermo tutta una giornata.
«Detroit? O-Ottawa?»
«Rugby. Potremmo fare del rugby, ahahah!»
«N-no, ti prego, no-» mugugnò il canadese, ormai totalmente ignorato: avrebbe preferito congelare a Point Hope, nella fredda Alaska, piuttosto che morire schiacciato da America su un campo di rugby.
«Potremmo rimanere semplicemente qui a ... a guardare dei film, n'est-ce pas?»
«Ahah! Non parlare francese!»
«...»
«Ho sentito dire che ad Amsterdam ci si diverte, se proprio vuoi andare da qualche parte.»
«I-io voglio solo rimanere qui! Tranquillo! Senza ... senza sport pericolosi e città ... città pullulanti di ... di ...»
«Calmo Matt, hai il fiatone!» lo interruppe l'americano, con una risata divertita.
Quando il canadese si riprese dalla "rabbia" intervenne ancora.
«Ho sentito dire che oggi danno un horror in TV, potrem-»
«Horror?!» saltò su l'americano, incontrando lo sguardo basito del fratello.
«Oh ... oh beh sì, nessun horror può spaventare l'eroe! Ahahah!» riprese, con una risata nervosa e soffocata, realizzando poco dopo la fortuna che gli si era appena presentato: il suono del campanello lo aveva appena salvato da un discorso che ormai iniziava a prendere davvero una brutta piega.
Il canadese si diresse in silenzio verso la porta, guardandosi intorno con timore quando, aperta, non vide nessuno.
«Chi è?»
Sentì la voce curiosa del fratello risuonare in cucina e, adagiatosi alla ringhiera per dare un'occhiata alla tromba delle scale, le trovò vuote e rispose.
«Nessuno ...!» risuonò strana quella parola, che riecheggiò davanti alla porta del loro appartamento insieme ai passi dell'americano.
«Come nessuno?» uscito dalla porta diede un'occhiata all'ascensore: spento, fermo.
«Non si può mica essere volatilizzato ...
Mhn?» continuò l'americano, e a fronte aggrottata strappò il foglietto attaccato alla porta.
Il canadese rimase ad osservare oltre la spalla dell'altro, in silenzio.
«Qu'est-!» e non appena l'americano gli scoccò un'occhiataccia deglutì pentito.
«W-what is it?» sì, ora andava meglio. Doveva smettere di parlare francese.

«A: America e Canada
Da: Italia~

Ciao!
Qui in Europa abbiamo deciso di
organizzare un meeting:
Germania mi ha detto che ci sono
molte cose su cui discutere,
non solo per la crisi,
e dunque abbiamo pensato di invitare anche te,
America,
e te ... Canada?

Ci vediamo tutti fra una settimana a:

London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50

Veh~»



«Non ... non si ricordava di me, per caso?» chiese ingenuamente il canadese, e intanto, sul viso dell'americano, era nato un sorriso fin troppo speranzoso.
«Mi dispiace solo che sia in Inghilterra.
Andiamo, dai!» e con una risata, afferrò il braccio del canadese e lo trascinò dentro casa.
«D-dove?»
«A fare le valige!»
«Oh ...» per lo meno era un'alternativa meno pericolosa dello sport. O così poteva sembrare.



Con le corde dell'altalena strette fra le mani, l'italiano si dondolava appena, rimanendo con le punte dei piedi adagiate sul pavimento di pietra grezza del giardino.
Una mano si scostò velocemente dalla corda dell'altalena, correndo alla tasca dei pantaloni per poi portarsi il cellulare davanti al viso.
«Uff-» sospirò l'italiano, soffermandosi sul display vuoto del cellulare: sembrava che Romano non avesse intenzioni di rispondere neppure ad uno dei numerosi messaggi. Che c'era di male a chiedere al proprio fratello un incontro?
Feliciano rimuginò sull'ultima volta che si erano visti, realizzando che ora, nella sua mente, erano presenti i ricordi di quasi tre mesi prima.
Tre mesi. Quasi tre mesi che non vedeva il proprio fratello, e così non poté che risistemare il cellulare in tasca e ritrovare un respiro regolare, nel tentativo di ignorare quello strano dolore al petto.
L’italiano non avrebbe mai creduto che presto avrebbe smesso di pensare e soffrire per la mancanza del fratello: una coincidenza piuttosto buffa, soprattutto per il contesto in cui si sarebbero ritrovati.
Il miagolio che poco dopo risuonò vivace e rumoroso ai suoi piedi lo fece sussultare, distogliendolo in un attimo dai propri pensieri.
«Pasta!» esclamò sorridente, prendendo il gatto fra le braccia e portandoselo sulle ginocchia.
Gli occhi del ragazzo rimasero fissi al cielo terso, di un azzurro quasi pittoresco, brillante, finché la mano esile che scorrette fra il morbido pelo tigrato del gatto non si fermò alla spessa bandana di cotone.
«Mhn?» l’italiano scostò gli occhi d’ambra ed osservò con qualche attimo di smarrimento quella risma di carta arrotolata, fra il collo del gatto e la bandana tricolore.
«Ma che cos’è?» sperare che pasta avesse imparato a disegnare, con addirittura la cortesia di portare la sua opera al proprio padrone, era davvero troppo, ma d’altra parte, l’italiano, aveva reputato fin da subito impossibile che, nei pochi minuti in cui l’aveva perso di vista, qualcuno fosse riuscito ad introdursi nel giardino per mettere un messaggio al suo collo. Eppure, quello, non era un disegno, e quando Feliciano lo srotolò intravedendo numerose righe d’inchiostro, rabbrividì.

«Zu: Italien
Von: Deutschland»



«Germania!» entusiasta, lasciò che il gatto scivolasse via dalle sue gambe e riprese a leggere.

«Buongiorno Italia,
come stai?
Mi auguro che questo messaggio ti sia pervenuto,
si tratta di una cosa importante.
Abbiamo un progetto per il quale
Necessitiamo anche della tua collaborazione,
ma ti chiedo gentilmente di non chiamarmi in questi giorni,
non mi troverai, il capo mi tiene impegnato
fino a tardi.
Fra una settimana recati assolutamente a questo indiritto:

London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50

Deutschland_»



Feliciano si dispiacque subito del fatto di non poterlo chiamare per sapere qualcosa in più.
«Che strano … beh, grazie Pasta!» sorrise, ricevendo in risposta un miagolio ed osservando poi il gatto che si allontanava di corsa, sparendo tra le fronde cupe del cortile.



I raggi argentei della luna illuminavano la superficie nera del pianoforte, in cui il viso dell’austriaco si specchiava sereno.
Niente di meglio che sentire i tasti del pianoforte sotto i polpastrelli, inspirando ogni nota ed ogni melodia presente nella fredda aria circostante.
Niente di meglio che suonare uno dei più celebri pezzi di Mozart nelle prime ore della sera, nel cuore dell’elegante ed austera Vienna.
Solo, senza prussiani rumorosi, francesi fastidiosi e quant’altro, con una buona tazza di thé fumante non poco lontana, in cima ad una pila di libri colmi di spartiti. Nero su bianco.
All’acme dell’esecuzione, una folata di vento gelido gli provocò un brivido che lo percosse rapidamente. Le labbra fini e rosee dell’austriaco si lasciarono scappare un sospiro esasperato: odiava interrompere la sua musica, o sentirne qualsiasi altra fermarsi per qualsivoglia motivo. Abbandonata la sua postazione si diresse alla finestra e la chiuse rapidamente, sistemando le tende in modo da oscurare la docile luce della luna.
«Was ist das?» date le spalle alla finestra si chinò ed afferrò una lettera che giaceva sul pavimento: possibile che oggi, controllando la posta, quella lettera gli fosse scivolata dalle mani e fosse rimasta lì per tutto quel tempo?

«Para: Austria
De: España»



Quella sul viso di Roderich era un’espressione serena: non comprendeva il motivo di quella lettera, ma gli fece piacere che il mittente fosse Spagna.
Aperta la busta, lesse il contenuto della risma, sorprendentemente delicata ed elegante.

«Hola Roderich~!
Immagino che troverai insolito
ciò che sto per scrivere,
ma penso che potresti anche approfittarne,
visto che è da un po’ che non ci vediamo.
Ho trovato diversi dischi in vinile che penso potrebbero
interessarti,
ma siccome non voglio disturbarti e farti venire fino a Madrid,
ed io non voglio allontanarmi troppo da Romano
-che ovviamente non vuole venire-
ho pensato a:

London, City of Westminster,
Berkeley Square n.50

Fra una settimana, mi raccomando amigo!»



Roderich rimase leggermente sorpreso, ma ben contento.
Londa, dopotutto, poteva essere un’ottima via di mezzo ed era una bella occasione per potersi ritrovare con il proprio migliore amico.
Poi, però, realizzò con orrore che questo suo migliore amico, a sua volta, aveva amici molto, molto strettii: Francia e Prussia.
Francia e Prussia: due degli esseri più detestabili al mondo, e forse anche molto convincenti. Il sospetto che quella fosse una trappola progettata dal trio lo sommerse come fredda acqua, fin sopra la testa.
«Mh …» brontolò soltanto, adagiando la risma di carta sul pianoforte e scostando le tende dalla finestra per guardare la strada buia.
Avrebbe chiamato Antonio e avrebbe presto valutato ciò che fare.






La suola di una scarpa si abbatté fra le foglie secche, addormentate sul ciglio della strada, e gli occhi smeraldini, profondi e scuri intorno alle pupille di pece, si soffermarono sull’abitazione numero 50 di Berkeley Square.
Il biondo non si voltò, ma continuò a dare le spalle alla strada, ponendo la sua attenzione ai passi echeggianti dietro di sé.
Ecco Francia, che fin subito gli adagiò una mano sulla spalla, provocando il suo fastidio, ecco Nord Italia, Prussia e Germania, Austria, che ovviamente aveva rispettato rigorosamente i tempi e si era lasciato sfuggire un sospiro nervoso alla vista di Gilbert e Francis, ecco Spagna, Sud Italia e le sue lamentele, Bielorussia, Russia e la sua silenziosa presenza inquietante, Canada e la fastidiosa risata di America: eccoli tutti e dodici.
«Arthur …» sussurrò il francese alle spalle del biondo: perché erano tutti lì? Non per aiutare Arthur, vero?
«Andiamo dentro.» si limitò a rispondere l’inglese, mentre il francese fece un cenno con la mano a tutti gli altri, con le labbra ridotte ad una smorfia stretta e silenziosa: perché erano tutti lì? E perché Inghilterra li stava già aspettando?

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Capitolo 2
*** II - Stanze ***


II – Stanze



Fu un tumulto di occhi, un analizzare continuo della situazione e dei personaggi, da quelle dodici menti: folli, orgogliose, spensierate, felici, tristi, sospettose.
Convinti tutti che il mittente della lettera ricevuta fosse la stessa per ognuno si limitarono al silenzio, muovendo i primi passi titubanti verso il n.50.
Gilbert inclinò appena il viso verso il fratello, quando lo sentì sbuffare innervosito.
«Beh, ci siamo tutti, no?» ghignò appena il prussiano, lanciando però una veloce occhiataccia al russo, poco lontano da loro.
"Perché sono tutti qui? E perché Gilbert mi guarda male, se è stato lui ad invitarmi?" pensò cupo il russo, con un sorrisino malizioso sul viso: sorriso che scomparse non appena sentì il suo braccio circondato da una mossa possessiva.
«Loro sono gli invitati?» sussurò l'esile bielorussa aggrappata al braccio del russo.
«E i testimoni, fratellone?» sorrise poi, adagiando la tempia contro la spalla ampia dello slavo.
«E-eh?» inutile dire che l'espressione assunta da Ivan non fu una delle migliori.
Feliciano non poté che accollarsi al tedesco,, tenendo però d'occhio il fratello, ascoltando a fronte aggrottata e con sguardo sorpreso ciò che aveva da dire allo spagnolo.
«Ohi bastardo, non era una rimpatriata fra voi tre deficienti? Non volevo neanche venire ...» sbuffò il meridionale, completamente ignorato dallo spagnolo che già si era concesso un abbraccio amichevole con il prussiano.
«Spostati Gilbert.» gli intimò nervoso l'austriaco.
«Mh? Che vuoi?» ringhiò l'albino, scostando le braccia da quelle bronzee dello spagnolo.
«Hola Roderich!» l'ispanico lo salutò con un sorriso, ricevendo solo un'espressione confusa da parte dell'austriaco: perché non accennava ai dischi? Perché solo quel saluto vuoto e scarno? E soprattutto: perché tutte queste nazioni e, in particolare, Prussia?
Francia rimase ad osservare quel triangolo rumoroso con la coda dell'occhio, senza scostarsi dall'inglese.
«Che è successo, Arthur?»
«Niente. Perché me lo chiedi?» la risposta tranquilla ed indifferente dell'inglese lo spiazzò: "niente"?
E la richiesta di aiuto? La corrente tolta?
Il francese fece per dire qualcosa, ma fu interrotto da una risata acuta ed allegra.
«Ahahah! Il prossimo meeting lo organizziamo a Washington!» esclamò l'americano, mandando una delle due mani ad occupare la spalla libera dell'inglese, assottigliando appena gli occhi ed incontrando quelli pacifici del francese.
«Sono arrivato prima io ...» gli fece notare Francis con un sorriso stampato in volto.
«C-calma, non litigate ...» sussurò una voce che ancora non si era pronunciata.
«Matthew!» e in un attimo, il francese, si scostò dall'inglese e corse quasi a soffocare il povero canadese, rosso in volto.
Nel frattempo, Arthur, si scostò da Alfred ed inserì le chiavi per aprire la porta della casa, spalancandola per lasciar entrare tutti gli altri.
«Mes amis!» esclamò il francese, rivolto a Gilbert ed Antonio senza scostare il braccio dalle spalle del canadese, in modo da attirare la loro attenzione e farli entrare.
I primi ad entrare furono sospinti dagli ultimi, addirittura oltre il grande ingresso, e si ritrovarono ad osservare le porte chiuse lungo il corridoio.
«Oh! Germania! Dobbiamo stare in camera insieme!» esclamò allegro l'italiano, indicando una delle porte, rimanendo sulla soglia dell'ingresso e del corridoio.
Un vocio confuso si alzò in pochissimo tempo, per poi arrestarsi e morire non appena la porta dell'ingresso sbatté all'improvviso.
Tutti i volti si rivolsero rapidi verso la porta serrata e l'inglese, al suo fianco, alzò appena il viso verso i presenti, ora nel silenzio più totale.
«Forza! Vi hanno mangiato la lingua?» e facendosi strada fra tutti gli altri gli altri si ritrovò solo nel corridoio.
«E' grossa, penso ci sarà un posto per tutti ...» concluse osservando il corridoio che terminava in due rampe di scale, una diretta al piano di sopra, l'altra di sotto.
«A-America?» balbettò il canadese.
«Ahahah! Io di sopra!»
«Stiamo in camera insie ... me ...?» non ebbe neppure il tempo di fare la sua domanda che lo vide attraversare di corsa il corridoio e correre spedito sulle scale.
«Oh ...»
«Emh.» ad interrompere lo sconforto del canadese fu Roderich, angosciato dalla possibilità di ritrovarsi in camera con uno di quegli elementi davvero troppo rumorosi.
«Se vuoi puoi stare con me.»
«S-sì ...»
Gilbert fece guizzare gli occhi verso Germania, scostandosi poi, con abbattimento, quando lo vide seguito dall'adorabile Italia.
«Francis ...?» lo chiamò, ma la sua voce andò morendo, quando vide il francese circondare le spalle di Arthur con il braccio cercando di convincerlo a stare in camera con lui, allora optò per Spagna, notandolo in seria difficoltà davanti ad una porta, impegnato con le valige e coordinato dagli strepiti e dagli insulti dell'altro italiano, già dentro la camera.
«Tsk, esseri indegni …» cercò poi qualcun altro, rimanendo paralizzato quando i suoi occhi incontrarono gli ultimi due presenti: la bielorussa sarà pure stata una gran bella donna, ma rischiare di risvegliarsi con il proprio Magnifico viso rovinato da indegni lame di coltelli non era certo uno dei suoi più grandi desideri, figurarsi poi avere intorno un bastardo come il russo, pft.
Il prussiano sbuffò nervoso, percorrendo velocemente il corridoio e scontrando poi la figura dello slavo con una spallata nemmeno troppo delicata, per poi salire le scale con passi pesanti.
«Gil …» si ritrovò a sussurrare il russo, osservandolo mentre spariva sulla rampa di scale.
«Che?»
«No, niente.» un sorriso nervoso si dipinse sul volto del russo, con il braccio ormai divenuto proprietà della sorellina.
Adesso, la porta di Ludwig e Feliciano, e quella del meridionale e dell’ispanico, erano socchiuse, ed esclusi i movimenti al piano di sopra, il silenzio era ormai calato.
Silenzio. Un silenzio ricolmo di un suono continuo, sempre più acuto, finché uno stridio improvviso non causò un forte dolore ai timpani del russo, che voltò di scatto la testa, istintivamente.
«Ivan?»
Gli occhi del russo si scostarono lenti e silenziosi verso la sorella e le labbra si incrinarono in un sorriso quasi imbarazzato: lei sembrava non averlo sentito.
«Tutto bene?»
«Da. Cerchiamo la stanza adesso …» ampliò il sorriso, dirigendosi verso le scale del piano di sopra insieme all’altra, ancora scosso da quel rumore che solo lui era riuscito ad udire.

Antonio bussò alla porta battendo delicatamente per due volte contro la lisca superficie di legno, sorridendo allegro al viso che gli aprì.
«Allora vicini, come state?»
«Mh, bene …» bofonchiò appena il tedesco, spalancando la porta e scostandosi per lasciare lo spazio necessario all’ispanico.
«Senti Italia, la cucina è qui di fianco, ti va se ce ne appropriamo noi?»
«Già, prima che lo faccia quel succhia tè incompetente.» sbuffò il meridionale, alle spalle dello spagnolo.
«Sì! Sono d’accordo!» l’italiano sorrise allegro, varcando la soglia della camera per raggiungere il fratello e lo spagnolo e dirigersi insieme a loro verso la cucina -senza neppure ricordarsi che il motivo per il quale si era spinto fino a lì era la convocazione da parte del tedesco per l’organizzazione di un progetto-. «Inizierà questo gioco prima o poi, America …» si ritrovò a brontolare Ludwig, rimasto solo nella stanza e roteando poi gli occhi nel vedere i vestiti di Feliciano sparsi sul letto la valigia aperta riversa sul pavimento: in soli cinque minuti, con il fedele ausilio del suo ozio, era già riuscito a portare il disordine in quella camera. «Perfekt …» almeno piegare le magliette dell’italiano lo avrebbe tenuto occupato.

«Mh …» il pollice e l’indice esili rimasero ad accarezzare il mento scarno dell’austriaco, che si guardava intorno crucciato e pensieroso, riservando un’occhiata quasi timorosa a quel vecchio pianoforte al centro della stanza.
«Mi mancherà il mio pianoforte, ja …» sussurrò l’austriaco, sedendosi tranquillo ai piedi del letto.
«A-Austria … si è seduto sopra di me …» balbettò il canadese.
«Ah! Entschuldigung!»

«Allora fratellone! Quando ci sposiamo?!» Ivan non poté che cacciare un urlo, quando la bielorussa saltò sul suo letto e con le braccia creò una gabbia introno a lui. Nonostante il suo corpo massiccio, a Ivan, quelle braccia sembravano sempre più forti della sua mole, quasi soffocanti.
«I-io non ti voglio sposare!»
«Come no?» sussurrò con voce spiritata la slava «sei stato tu a dirmelo …»
«I-io?»
«Ivan!» e le mani -grazie al cielo esili- della bielorussa, corsero veloci al collo del russo.
«Sposami!» urlò rabbiosa la bielorussa: un grido che probabilmente venne udito perfino al piano di sotto.
Non che gli stesse facendo male, ma era troppo paurosa.
«N-no!» e anche questo grido fu sicuramente udito, cristallino come l’acqua.

Inghilterra osservava con sguardo assente una delle pareti della stanza, nel silenzio, cercando di sentire il meno possibile quei discorsi che ruotavano veloci intorno a lui, ma percependo comunque sia la voce fastidiosa dell’americano, sia quella del francese.
Il suo unico pensiero, ora, era il fatto di quanto fosse stato sfortunato da essere capitato in camera proprio con quei due idioti.

«Sto benissimo anche da solo, ja.» un’affermazione calcata e distinta, nel freddo silenzio della camera: forse per autoconvinzione, forse perché Prussica cercava di farsi giusto un po’ di compagnia con la propria voce roca, mentre lasciava che la punta della penna aderisse alla pagina del diario per raccontare parte della giornata tramutando i ricordi in scritte d’inchiostro.
«Ed è meglio così, perché nessuno potrà godere di tutta la mia Magnificenza, kesese!» rise divertito, ma quel ghigno vivace scomparve quasi subito, tramutandosi in un lieve sorriso amareggiato: da solo, perché West se ne stava tranquillo con Italia, Antonio era troppo presto dal suo amore e Francia … beh, Francia cercava come al solito di portarsi a letto Inghilterra.
La penna, che danzava sinuosa sul foglio di carta, si arrestò improvvisamente, ed il viso del prussiano si inclinò appena, quando una delle tendine bianche si staccò dalla finestra, ondeggiando fino al pavimento.
«Mhn …» alzatosi, camminò lentamente fino alla finestra, raccogliendo la tendina che sembrava non avere alcun segno di rottura «… che strano …»
Il prussiano risistemò la tendina, ma un improvviso brivido di freddo lungo il braccio lo percosse e anche l’altra cadde a terra, nello stridulo silenzio della casa.

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Capitolo 3
*** III - Messaggi ***


III – Messaggi



«La cena è pronta!» lo spagnolo tese la mano callosa al fianco delle labbra fini e, con uno strepito allegro, annunciò la cena.
«Antonio, la prossima volta aspettami, oui? Almeno facciamo vedere agli inglesi quanto siamo bravi a cucinare, ahah!» il francese rise divertito, fulminato immediatamente dallo sguardo rabbioso di Inghilterra, alle sue spalle. Francis, quindi, volse appena il viso verso l’inglese, sorridendo nervoso.
«Venite qui, però!» lo spagnolo fece un cenno per attrarre gli altri alla porta opposta a quella della cucina, e lentamente, i presenti, iniziarono a defluire, entrando in un grande salotto: c’era chi si sedeva vicino all’altro e chi si fermava silenzioso ad attendere l’arrivo dei restanti.
Feliciano e Ludwig presero posto a capotavola, ai due estremi. Romano ed Antonio alla destra di Feliciano, poi fu la volta di Roderich e Matthew, educatamente puntali.
«Aspettiamo il nostro compagno di stanza, n’est-ce pas?» il francese circondò le spalle dell’inglese con il braccio, sorridendo appena: doveva assicurarsi un posto vicino ad Arthur e, allo stesso tempo, tener d’occhio Alfred.
«Ahahah! Eccomi!»
«Mhn.» alla risata dell’americano, il britannico, brontolò nervoso: non bastava la stanza, ora anche i posti a tavola rigorosamente vicini.
«Allons-y!» e i tre presero posto alla sinistra di Feliciano, mentre Antonio si occupava di sistemare il cibo nei piatti degli altri. Anche Gilbert entrò nella sala, per sistemarsi alla sinistra del fratello. «Ohi West! Potevi anche aspettarmi, ja?»
«Mh-» il tedesco brontolò in risposta: lo avrebbe anche aspettato, ma era stato Feliciano a trascinarlo lì senza neanche dargli tempo di guardarsi alle spalle.
Rimanevano ancora due posti vuoti e quando Ivan varcò la soglia con alle spalle la sorella, il suo visto quasi impaurito sembrò subito rilassarsi, in un lieve sorriso: le due sedie rimaste erano lontane l’una dall’altra.
Natalia si sistemò fra Antonio e Roderich con una smorfia rabbiosa, e lo slavo passò silenzioso alle spalle di Ludwig, prendendo posto alla sua destra.
«Ciao Gilbert~» era stato piuttosto fortunato, anche arrivando per ultimo.
Gilbert rimase con il braccio teso, le dita strette alla forchetta, con un boccone di cibo poco lontano dalle labbra socchiuse: perché fra tutti doveva ritrovarsi proprio di fronte ad Ivan Braginski? Sbuffò appena, senza rispondere, e si dedicò al cibo, che certamente -dovette riconoscere ad Antonio- era molto più degno della sua Magnificenza rispetto ad un bastardo slavo.
«Gilbert! I gomiti non si poggiano sul tavolo.»
Ecco però che Gilbert dovette interrompere la sua cena una seconda volta.
Voltato appena il viso trovò Roderich al suo fianco.
“È solo una cena. Una cena davvero poco Magnifica, ja.” pensò mentalmente, senza dire una parola e lasciando la forchetta di fianco al piatto, afferrando fra le dita una delle patate.
«Ma Gilbert …» una mano batté diretta sulla fronte del tedesco, a disagio per il gesto maleducato del fratello, ed il prussiano dovette trattenere a fatica una risata, notando con la coda dell’occhio la faccia disgustata dell’austriaco.
«Anch’io!» lo spagnolo rise, volendo seguire il gesto maleducato dell’amico, e se poi il cuoco era lui, non c’era da preoccuparsi, perché non si sarebbe offeso proprio nessuno. «Che cazzo fai?! Idiota!» tranne il meridionale, che strepitò innervosito contro l’ispanico.

E se qualcuno si stesse chiedendo come procedette quella cena … sì, continuò così.

Gli addetti alla cena del secondo giorno furono i due italiani.
«Feli, prendi i piatti …» Romano immerse il mestolo nella zuppa, mentre il minore prese il primo piatto della colonna e glielo porse, in attesa che fosse riempito dalla cena.
Il primo piatto fu riempito di zuppa e adagiato sulla tavola, e poi ne prese un secondo, porgendolo nuovamente al meridionale.
Romano ebbe appena il tempo di versare metà del mestolo nel piatto, perché il fratello cacciò un grido improvviso, rabbrividendo dalla testa ai piedi, evidentemente infastidito da qualcosa di freddo, come se una goccia gelida gli avesse attraversato la colonna vertebrale, lasciando di conseguenza scivolare a terra il piatto e quel poco di zuppa al suo interno.
«Ma che cazzo fai, Feliciano?!» il maggiore strepitò accigliato, lasciandosi alle spalle il piatto capovolto e le macchie di zuppa a sporcare il pavimento.
«Ah! Sì, scusa! Scusami Romano!» Feliciano iniziò a piagnucolare disperato -ovviamente irritando ancor di più l’altro- scuotendo le mani in aria agitato e spaventato dai rimproveri del fratello.
«Sei proprio un cretino!» sbuffò il meridionale, mentre il fratello correva a cercare uno straccio e si chinava a terra per ripulire il pavimento dalle macchie di zuppa.
Fu allora che Romano lo fermò.
«Feliciano, aspetta.»
«C-cosa …?» mugugnò, pensando che Romano volesse ancora infierire.
«… G-guarda …» l’altro indicò con l’indice tremante le macchie di zuppo sul pavimento.
«Uh!» il settentrionale si sbilanciò per la paura e finì seduto a terra, con la schiena aderente alle gambe del fratello: le gocce di zuppa avevano appena formato una scritta.
«“L-le tre” …?» domandarono flebilmente entrambi, leggendo la scritta creatasi silenziosamente sul pavimento.

Mancava appena un quarto d’ora alla mezzanotte, quando Gilbert si alzò dal letto su cui era riuscito ad addormentarsi a fatica, ancora vestito.
Accesa la luce flebile della stanza si era sospinto fino alla finestra, appannata per il freddo, sospirando appena a causa del clima pungente all’interno della stanza: come poteva essere tutto così gelido?
La mano del prussiano si adagiò sul freddo vetro, muovendosi appena in movimenti circolari, per rendere più nitida la vista, eliminando quel sottile velo argenteo.
«Ecco …» si adagiò al davanzale interno, schiarendosi appena la voce e cercando di osservare la strada al di là del vetro sottile.
Era troppo buio: non riusciva a vedere nulla.
Sbuffò appena, poi, flettendo il viso verso l’unico letto della camera, ovviamente vuoto.
Non aveva nessuno con cui parlare e a volte era davvero fastidioso.
Tornò poi a soffermarsi sul vetro, assottigliando lo sguardo.
«Was …?»
Sull’altra altra della finestra, che lui non aveva toccato neppure con un dito, numerose gocce d’acqua stavano tracciando una trama nitida e tremolante lungo il vetro appannato e solo dopo pochi attimi, l’albino, realizzò con orrore che si stava formando una scritta.
«“Coppie di” …» sussurrò appena, continuando dopo un attimo di esitazione «“fratelli” …?»

A un minuto dalla mezzanotte, nella casa, regnava il silenzio.
Il canadese adagiò una mano sui libri, accarezzando con le dita pallide le anziane rilegature in pelle.
«Oh …» il canadese afferrò un libro, tirandolo via dallo scaffale per voltarsi con un lieve sorriso.
«Guard-» gli occhi si sgranarono, il respiro mancò all’improvviso, e la voce spirò.
Solo un urlo soffocato.
Il libro cadde a terra, e gocce di un rosso acceso macchiarono in schizzi rapidi i libri addormentati nei primi scaffali.

Le labbra dell’inglese si arrestarono e tremarono appena sul bordo della tazza di tè caldo, e subito abbandonò la sua lettura, mentre il suono dell’orologio segnata lo scoccare della mezzanotte.
«Matthew …?» si chiese con un filo di voce: riconosceva quella voce.
Senza pensarci due volte si alzò dal tavolo e si diresse in tutta fretta verso la sala, incontrando nel corridoio l’americano, intento ad allacciarsi i pantaloni con aria frettolosa e piuttosto corrucciata.
«Non era mio fratello, vero?»
«Io penso di sì. Veloce!»
E alle parole dell’inglese, Alfred lo precedette, perché il britannico si fermò, ascoltando i passi provenienti dal piano di sopra: il francese ed il prussiano erano scesi in tutta fretta, mentre anche il tedesco e i due italiani avevano deciso di uscire dalle proprie stanze per controllare la situazione.
«Che succede?» il tedesco riuscì a rivolgere solo questa domanda, prima che un grido non spezzò il silenzio.

Quando il gruppo arrivò davanti alla porta della piccola biblioteca e la trovarono spalancata, si immobilizzarono increduli.
«C-come …?» Feliciano riuscì a balbettare appena, aggrappato al braccio del tedesco.
«Matthew …» e il francese si limitò soltanto a sussurrare quel nome, paralizzato al fianco del prussiano.
Il britannico rimase in silenzio, varcando la soglia per afferrare il libro spalancato al fianco dei due fratelli americani.
Annuì solo un momento, in risposto all’italiano, che trasalì inorridito, mentre con gli occhi smeraldini leggeva la scritta insanguinata sulle due pagine spalancate.
«“Saranno divise”.» sussurrò appena, mentre l’americano gli rivolse un’occhiata confusa, cercando di trattenere lacrime, con gli occhi brucianti e lucidi di pianto.
Inghilterra chiuse il libro con un colpo secco, rivolgendo il proprio sguardo ai Vargas ed ai Beilschmidt «“Le tre coppie di fratelli saranno divise”.» e poi all’americano, stretto al corpo inerme del fratello esanime.



Le tre coppie di fratelli saranno divise.

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Capitolo 4
*** IV - Inganno ***


IV Inganno



«Quando siamo venuti qui non pensavamo certo che fosse un gioco di questo tipo, America!»
La schiena dell’americano andò a colpire con un tonfo sordo una delle mensole di libri, facendola vacillare. Il tedesco strepitò rabbioso, stringendo il collo dello statunitense fra le mani.
«Calmati Ludwig!» le mani dell’inglese si adagiarono sulle spalle ampie del tedesco, cercando di indurre il biondo a lasciare il collo dell’americano.
«Quando ci hai inviato il messaggio-!»
«Q-quale messaggio …? Non ho inviato-» la voce flebile dell’americano incitò l’inglese ad insistere con la presa sulle spalle del tedesco, che allentò lentamente la propria morsa intorno al collo dell’altro.
«Come non …?»
«No.» l’americano si massaggiò il collo, questa volta negando decisa, recuperata un po’ della voce perduta.
«Non ho inviato nessun messaggio, e secondo te, poi, manderei a morire mio fratello?» l’americano fece fatica a riprendere fiato, ed il francese gli adagiò una mano sulla spalla, in suo soccorso, per condurlo ad una delle sedie, accompagnandolo insieme agli italiani.
Gilbert, invece, adagiò la mano sulla spalla del fratello, rivolgendo il proprio sguardo all’inglese.
«Arthur, che intendi con quella frase?»
«Intendo che dovremmo uscire subito da questa casa, perché pare che il fantasma qui dentro voglia uccidervi.»
«Che?! Fantasma?!» Gilbert gracchiò innervosito: ma che storia era quella?
«Non sarà mica il fantasma di M-Makowiec?» continuò aggrottando la fronte a denti stretti.
«Hai paura, Prussia?» l’inglese incrinò le labbra in un ghigno leggero, rivolgendosi con arroganza all’albino.
«Ti sbagli, idiota.»
E mentre Gilbert si preoccupava di inchiodare le braccia conserte al petto e fare l’indifferente, Ludwig decise di porre la domanda che da un po’ gli stava frullando in testa «ehi, hai detto “le tre coppie di fratelli” giusto? Cioè i Vargas, Canada ed America e-»
«Il Magnifico Me e West!»
«Emh, ja … Russia e Bielorussia, invece?»
«Loro sono fratello e sorella. Credo che quella frase valga solo per fratelli maschi, anche se non ne sono poi così sicuro …»
«Ah, peccato allora.» brontolò Gilbert, pensando al russo; poi continuò «ma divisi … da cosa?»
«Vista la situazione … credo sia evidente …» l’inglese si limitò ad indicare il cadavere del canadese.
«Vado a chiamare la polizia e l’ospedale.» ed abbandonò la sala.
«Alfred, davvero tu non ci hai spedito niente?» il tedesco, evidentemente più calmo che in precedenza, si rivolse all’americano, mostrandogli il bigliettino che lui e Gilbert avevano ricevuto appena una settimana prima.
Alfred osservò crucciato il biglietto, ed anche Francis intervenne «ehi, anche io ho ricevuto un biglietto simile da Arthur-»
«Francia, tu non hai inviato nulla, vero?» il meridionale sibilò appena.
«Non, pourquoi?»
«L’abbiamo ricevuto da te …»
D’un tratto, un lamento quasi disperato, arrivò l’attenzione dei presenti: Feliciano era immobile, con le lacrime agli occhi.
«Quindi tu, Germania, non volevi lavorare insieme a me ad un progetto?»
«E-eh?» il tedesco rivolse un’occhiata confusa all’italiano, le cui spalle vennero subito avvolte dal braccio del francese, che rise appena «mais non, Italie! Di sicuro Germania avrebbe voluto tanto lavorare con te!» e quasi tentava di far intendere al tedesco che sarebbe stato meglio per lui limitarsi ad annuire convinto, per evitare i piagnistei dell’italiano, ma poi continuò «ma … siamo stati ingannati, n’est-ce pas?» e il suo sorriso scomparve improvvisamente, mentre rivolgeva un’occhiata cupa agli altri.
«Sì, ma … da chi?» gli occhi del tedesco e del francese si incontrarono, lasciando calare il silenzio.

I passi dell’inglese risuonarono nel corridoio, fermandosi infondo alle scale, dove il telefono giaceva su un comodino.
Arthur rimase in silenzio, afferrando la cornetta, per poi rimanere a fissarla ad occhi sgranati, con quel filo logorato che la separava da tutto il resto delle comunicazioni.
«Shit …»
Riposta la cornetta tirò fuori dalla tasca il cellulare, senza fare caso alla carenza di rete e componendo il numero con il respiro quasi smorzato, osservando poi il display, con una smorfia incredula: impossibile chiamare, impossibile inviare anche un solo messaggio.

«Qualcuno può usare il suo cellulare per chiamare?» tornato in sala notò che anche tutti gli altri si erano raccolti intorno al corpo inerme del canadese, e le risposte che fluttuarono nella penombra della notte furono solo negative.
«Ci conviene uscire e presentarci di persona in questura …» fu la proposta del francese, che uscì di scena e si diresse alla porta.
Con la maniglia fra le mani, poi, constatò con orrore il fatto che fosse chiusa ed impossibile da aprire.
«R-ragazzi …» il francese cercò di attirare l’attenzione con la voce tremante, deglutendo appena.
«Che c’è?»
«Siamo … siamo chiusi dentro …»
Arthur strinse i denti, sibilando «come sospettavo …»
«Co-come chiusi dentro?!» Feliciano mugugnò appena, per poi precipitarsi in cucina per aprire una delle due finestre, seguito dal gruppo.
Fu un sollievo per Feliciano, quando l’aria umida di Londra gli accarezzò il viso e gli occhi catturarono una sagoma in strada.
«S-scusi? Signore!» in un inglese biascicato si rivolse a voce alta ad un uomo poco lontano dalla casa, probabilmente in procinto di rincasare.
L’uomo non rispose e continuò a camminare.
«Ehi!» provò una seconda volta, notando che quello continuava a camminare senza problemi, per poi sparire oltre le fronde scure degli alberi del giardino.
«Siamo chiusi dentro … e non ci sentono, né ci vedono.»
«Che cazzo significa?!» il meridionale rivolse un’occhiata rabbiosa all’inglese, brontolando rabbioso.
«Fantasmi.
Benvenuti al numero 50 di Berkeley Square.»

«Ragazzi-!» quando la voce de russo, dalla sala, raggiunse gli altri, il gruppo si spinse nuovamente fuori dalla cucina.
«Cosa succede?»
Ivan rimase in silenzio, limitandosi ad indicare il pavimento vuoto, sudicio di sangue.
«È … è …» Roderich balbettò confuso.
«Dov’è?» Alfred, invece, aggrottò la fronte e rivolse un’occhiata all’inglese, con il respiro smorzato.
«Ci sono …» il britannico cominciò flebilmente, massaggiandosi appena le tempie con le dita della mano «ci sono tanti spiriti qui dentro, non li conosco tutti, ma … sì, deduco che qualcuno di loro fosse affamato …»
Rivolsero tutti un’occhiata inorridita all’inglese, che rimase in silenzio massaggiandosi appena il mento.
«Io me ne torno in cucina …»
«Anche io. Non credo riuscirei a dormire, ora come ora …» l’americano seguì l’inglese senza dire altro, ma tutto il gruppo sembrò accogliere l’idea del britannico.
«Meglio preparare una tazza di tè …» la voce del francese risuonò atona nella cucina, e l’italiano più giovane si propose per aiutarlo.
«Oh, io no grazie, meglio qualcosa di forte.» il russo sorrise, aprendo una piccola boccetta e bevendone il contenuto sotto lo sguardo disgustato del prussiano.
«Su, che questa piace anche a te~»
«Pft.» l’albino sibilò appena, e calò il silenzio.
L’immagine del corpo insanguinato del canadese, riverso sul pavimento, era ancora impressa nelle menti di tutti, ora silenziosi, senza espressione sul volto che non fosse una smorfia incrinata pesantemente verso il basso: una nazione era appena morta, e loro ne ignoravano causa e motivo. Solo l’unica donna osò rompere il silenzio, strapparlo come carta con la propria voce pungente.
«La ferita che aveva sullo sterno …» la mano esile della bielorussa si spinse oltre il vestito, accarezzando appena la coscia esile e lattea ed afferrando uno dei tre pugnali custoditi oltre la cinghia di pizzo nero, mostrandolo ai presenti «sembrava causata da un pugnale simile a questo.»
«Mhn …» apostrofò appena lo spagnolo, osservando la lama lucente.
«Dubiti Spagna? Mia sorella erra difficilmente quando si parla di …» ed il sorriso del russo scomparve, sostituito da una smorfia quasi schifata «coltelli e pugnali-»
Certo, la difendeva, ma pensare a quelle armi -soprattutto fra le mani di una donna- lo portava sempre a rabbrividire paura.
«Non è meglio se andiamo tutti in sala per il tè?»
«Sì …» Roderich concordò con la proposta del francese, aiutandolo a portare, insieme all’italiano, al tedesco ed all’inglese le tazze di tè nella sala, mentre la bielorussa interrompeva le sue supposizioni e risistemava con cura l’arma oltre la cinghia in pizzo.
L’austriaco, che arrivò per primo sulla soglia della sala, si immobilizzò quasi intimidito, nel vedere ciò che era comparso sul lungo tavolo al centro della stanza: lunghe candele di cera rossa brillavano nel buio; solo una, ora, sembrava perdere lentamente il suo colore, divenendo bianca.
Era dove sedeva il canadese.
I presenti rimasero in silenzio, confusi e spaventati, alla vista di quei ceri immobili.
Raccolti nel loro silenzio, anche quando una folgore squarciò il cielo in un rombo assordante, illuminando la sala di un bagliore brevissimo, nel quale a qualcuno parve di intravedere una sagoma cupa ed evanescente al centro della stanza.

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Capitolo 5
*** V - Fratelli ***


V - Fratelli



Gli sfortunati ospiti della casa lasciarono trascorrere le ore in cucina, in attesa che il temporale cessasse.
Ancora spaventati dall’apparizione di quella sagoma, una parte di essi pareva osservare il vuoto con espressione atona, spaurita, e disorientata.
Era davvero un fantasma? Oppure un orrendo scherzo della mente?
Ad alcuni era sembrato così reale che pensare ad un tiro mancino della propria mente risultava impossibile.
Trascorse poi un giorno, e la sera, poco prima che Gilbert salisse le scale per andare in camera, il tedesco lo fermò.
«Gilbert, sei sicuro che non vuoi dormire da noi?»
Il prussiano fletté appena il viso, assottigliando lo sguardo.
«No West, sta tranquillo … gute Nacht.»
«Nacht.» il tedesco sospirò appena, lasciandosi alle spalle il fratello, che saliva le scale in silenzio.

Era già trascorsa qualche ora da quando avevano spento le luci, e Feliciano non era riuscito mai a chiudere occhio, con le iridi d’ambra fisse al soffitto bianco appena illuminato dalla luce argentea della luna.
«Germania?» chiamò appena, flebilmente.
Il viso del tedesco si inclinò appena, silenzioso, facendo intendere al settentrionale che fosse sveglio.
«Tu non sei preoccupato per tuo fratello?»
«Ja …» si limitò a pronunciare, chiudendo gli occhi per un attimo.
L’italiano sospirò appena, tornando con gli occhi fissi al soffitto, per poi stringere le coperte fra le dita: avrebbe voluto chiedere a Germania se poteva dormire con lui, ma sospettava che avrebbe rifiutato, e poi si prospettava una lunga notte insonne: la mattina dopo avrebbe parlato con Romano, aveva deciso.

«West!» quando la voce gracchiante del prussiano, accompagnata dal colpo netto alla porta, arrivò alle orecchie del tedesco, questo si affrettò a sistemare gli anfibi ai piedi ed aprì la porta al maggiore.
«Ciao Gil …» dovette nascondere il suo sollievo, quando vide l’albino sorridente davanti alla sua porta.
«Al piano di sopra ci sono due stanze inutilizzate piene di cianfrusaglie; potremmo dare un’occhiata, ja?»
Il tedesco si schiarì la voce, indeciso se accettare la proposta -a suo parere un po’ idiota- del fratello.
«E la colazione?» forse fu un primo tentativo di tergiversazione, con un’occhiata rapida al letto dell’italiano, tornando poi ad osservare il prussiano.
«Già di sopra!» il prussiano sorrise allegro ed il tedesco decise di seguirlo annuendo rassegnato.
Già a metà delle scale che portavano al secondo piano, al tedesco, parve di sentire profumo di … wurstel.
Rimase in silenzio, seguendo il fratello fino ad entrare nella penombra di una grande camera abbandonata, piena di scatoloni addossati l’no sull’altro.
«Ah. La colazione.» Ludwig rimase ad osservare accigliato i quattro wurstel sistemati nel piatto e i due grandi boccali di birra schiumosa.
«Non voglio sapere cosa hai intenzione di mangiare a pranzo …»
«Pft, come se mangiare e bere quella Magnifica roba ti dispiacesse, kesese! Se vuoi me ne sbarazzo io, ja?»
«… N-NO!»

«Ragazzi, il pranzo è pronto!» il francese si adagiò contro lo stipite della porta, rivolgendosi ai fratelli tedeschi.
«Arriviamo!»
«Ma che fate?»
«Kesese! Abbiamo trovato qualcosa di interessante!» il prussiano ripose dei soprammobili in una scatola, raggiungendo l’amico sulla porta.
Quando i tre arrivarono al tavolo per il pranzo, notarono che già tutti gli altri erano in attesa, immersi in un flebile e timido vocio.
Ludwig non poté evitare di chiedersi -e allarmarsi- dove fosse Feliciano, che doveva sedere proprio al suo estremo.
Il vocio si arrestò all’improvviso, quando tutti voltarono il proprio sguardo e rimasero ad osservare il posto vuoto a capotavola.
«Feliciano …» lo spagnolo aggrottò appena la fronte, sussurrando a mezza voce il nome dell’italiano.
«Eccomi-!» e fu subito un sollievo, quando la voce dell’italiano risuonò sulla soglia della porta.
«Mhpf, che scemo …» il meridionale bofonchiò appena, mentre il minore si sistemava a capotavola, vicino a lui. Poi abbassò la testa, nascondendo il viso ancora segnato dallo spavento di quell’attimo in cui non aveva visto il proprio fratello.
Feliciano, invece, osservò più volte l’altro, senza però riuscire a trovare i suoi occhi, e per tutta la durata del pranzo, fra i due, fu silenzio.
Ludwig si soffermò più volte sui due italiani, e poi sul fratello al suo fianco: oggi doveva passare la sua giornata con Gilbert, e Feliciano con Lovino, perché uno dei quattro, probabilmente, sarebbe morto da lì a poco.
«Torniamo su, Gil?»
«Mhn? Ja!» probabilmente, Gilbert, non si aspettava una proposta del genere, vista l’esclamazione allegra che, inconsciamente, versò un po’ di gioia anche nell’anima turbata del tedesco.
«Oh, posso unirmi a voi?» il francese intervenne, e quando il prussiano annuì in risposto anche Antonio volle proporsi come aiutante.
«Io me ne torno in camera. Non fate baccano.» Roderich si alzò, sistemando lo jabot in pizzo oltre il bavero viola del cappotto.
«Io vado in …»
«Camera.» la bielorussa interruppe il fratello, che si paralizzò e riprese titubante, con una nuova idea «emh: Inghilterra, America, che fate voi?»
« … Aiutatemi.» l’inglese adagiò una mano sulla sulla spalla del russo e su quella dell’americano, che domandarono in coro «con cosa?»
«… A fare gli scones!»
Ed il dispiacere dei due aleggiò in tutta casa, sovrastato dalla voce insolitamente entusiasta del britannico.

Rimasto nella sala, solo con il fratello, Feliciano gli adagiò la mano sul dorso della sua, inclinando appena il viso per osservarlo. «Potremmo … potremmo stare insieme, oggi?»
«Bah, Feliciano, il fatto di quella frase idiota è solo una cazzata, quindi è inutile che ora ti appiccichi a me.»
Lovino non osò rivolgere il proprio sguardo al fratello, le cui labbra si incrinarono lentamente verso il basso.
«Ma … ma Lovino …»
La mano del meridionale si scostò da quella dell’altro ed il maggiore si alzò da tavola.
«Potresti almeno guardarmi?»
«È solo una stupidaggine.» pronunciò seccato, in risposta alla domanda flebile dell’altro.
«Non preoccuparti, dai …» e il flebile tremolio della sua voce, con quelle parole appena pronunciate, forse nella speranza che non potessero essere udite, spinse il settentrionale a cercare la mano del fratello, che la distolse velocemente: in verità anche lui era preoccupato, spaventato, forse più di Feliciano.
«Vado a farmi una doccia.»
«M-ma … Romano, posso entrare nel bagno con te, almeno?» il settentrionale lo seguì quasi pregando, ed arrivati alla porta del bagno, il meridionale entrò e, socchiudendo la porta, rese visibile al fratello solo il viso.
«Feliciano, è solo uno stupido bagno.»
Il minore rimase in silenzio, senza mai scostare gli occhi da quelli dell’altro, per poi inclinare il viso in avanti e stampare un bacio sulle labbra del fratello.
Romano rimase in silenzio per qualche attimo, poi non poté che aggrottare la fronte innervosito «che ti cambierebbe anche se mi succedesse qualcosa? Tanto tu stai con quel mangia-patate di merda, tsk!»
Ed ecco che, con un tonfo sordo, il maggiore gli chiuse la porta in faccia, lasciandolo incredulo, immobile nel corridoio.
Feliciano afferrò la maniglia e trovando la porta serrata chiamò flebilmente l’altro italiano, poi, già in ascolto dello scrosciare dell’acqua, lasciò aderire la schiena alla liscia superficie in legno scuro, scivolando lentamente fino al pavimento, con il viso raccolto fra le mani.
«Romano …» singhiozzò appena, piangendo come spaventato «Romano … non … non voglio …»

“Mhpf, Feliciano mi fa salire l’ansia. È solo uno stupido bagno. È solo una cazzo di doccia.” pensò nervosamente Romano, mentre la mano si immergeva fra i capelli impregnati d’acqua, con le gocce tiepide a scivolare ed imperlarsi lungo il corpo e sulla pelle liscia.
«Che scemo …» e tese appena l’orecchio, quando gli parve di sentire dei singhiozzi oltre la porta. Romano sorrise quasi divertito dal comportamento infantile del fratello: forse aveva esagerato. Finita la doccia avrebbe rimediato: dopotutto gli dispiaceva sentire suo fratello piangere, anche se rimaneva pur sempre un idiota.
D’un tratto sembrò che una goccia d’acqua gli avesse tagliato una ciocca di capelli come poteva fare solo una lama molto affilata.
Lo sguardo del meridionale si soffermò sulla ciocca di capelli che veniva risucchiata dallo scarico dell’acqua, poi su quel sangue sinuoso, come un velo rosso immerso nell’acqua trasparente: la spalla bruciava.
Ancor prima che l’italiano riuscisse a spegnere l’acqua, il dolore il dolore si intensificò fortemente, dietro la nuca e lungo la spina dorsale, facendogli scivolare dalle mani il telefono della doccia.
«C-cazzo!»
E solo quando il getto d’acqua arrivò a colpirgli le gambe e fargliele bruciare, si accorse dei piedi immersi nel sangue rosso, dove qualche ciocca di capelli scuri galleggiava a malapena.
L’acqua iniziò a bucherellare la pelle delle gambe, scavando fino in fondo, e con un urlo di dolore, l’italiano, non poté che spegnere l’acqua a fatica, cadendo di peso contro l’anta della doccia ed aprendola poco dopo, cadendo a terra in un tonfo sordo ed incontrollato.
«A-ah …»
Con il sangue imperlato come gocce di rubino, lungo tutta la schiena marmorea, ed una grande chiazza rossa che andava espandendosi sotto il suo corpo fragile, romano si ritrovava ad arrancare con le mani deboli, sul pavimento freddo.
Non aveva il coraggio di guardare le proprie gambe, non le sentiva più: solo un forte dolore a metà delle cosce, che in poco tempo lo spinse a piangere a stento.
«R-Romano!» Feliciano continuava ad alzare ed abbassare la maniglia della porta, spingendola invano con le lacrime agli occhi.
«Romano!» lo aveva sentito gridare: un grido roco e tremante, così improvviso.
D’un trattò sembrò quasi che il meccanismo della porta scattasse da solo ed interrompesse la sua chiusura, permettendogli di entrare.
«N-no … Romano!» l’italiano scoppiò in lacrime, subito inginocchiato vicino al corpo ferito del fratello.
Le mani dell’italiano tremarono sul corpo spoglio dell’altro, e le lacrime scesero senza più un briciolo di controllo, quando vide il bagliore dell’osso fra la carne sfracellata delle gambe.
Già a metà delle gambe insanguinate, il volume della carne, pareva diminuire, ed il bagliore dell’osso si faceva ancor più evidente, fino ad essere il solo presente e visibile, verso i piedi, con solo qualche brandello di carne attaccato a malapena alla struttura marmorea: a Feliciano parve perfino che alcune parti dell’osso si fossero sciolte, distrutte, ad esempio le dita dei piedi, e trattenne a malapena un conato, circondando il collo del fratello con le braccia.
«Speravo … speravo fosse solo un caso, sai?» il meridionale sorrise a fatica, poco prima che la voce dello spagnolo risuonasse fuori dal bagno.
«Romano! Romano!»
Lo spagnolo si precipitò sui due italiani, e come per Feliciano, le lacrime furono spontanee e dolorose.
«Cazzo! Romano!»
Aperta un’anta dell’armadio, avvolse il corpo nudo e morente dell’italiano in un grosso asciugamano bianco.
«N-no … Romano …»
Lo spagnolo strinse al proprio corpo il fratello maggiore degli italiani, mentre il minore rimase con il viso vicino a quello del fratello, permettendogli di carezzargli, con la mano ferita e bucherellata, la guancia rigata dalle lacrime.
Lo spagnolo singhiozzò in silenzio, affondando il viso fra i capelli bagnati del meridionale.
«I-io volevo venire con te …»
«È colpa mia, non … non tua …» con la voce flebile, il meridionale rivolse le sue ultime parole al fratello, lasciando sparire il sorriso ed accarezzandogli ancora una volta la guancia.
«Esci.
E-esci di qui, Feliciano. Promettimelo …»
«M-ma …» la voce del settentrionale fu sovrastata dai singhiozzi disperati, mentre le mani correvano a quelle del fratello.
«Fatela pagare … a quel figlio di puttana …»
E i singhiozzi dello spagnolo divennero molto più profondi, quando il corpo dell’italiano si fece troppo pesante fra le sue braccia, troppo immobile, e freddo.

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Capitolo 6
*** VI - Rabbia ***


VI - Rabbia



Quando l’urlo soffocato del meridionale risuonò nella casa, scoccarono le quindici.
Alfred, seduto al tavolo della cucina con le mano davanti a naso e bocca, a causa del fastidioso odore di bruciato proveniente dal forno pieno degli scones dell’inglese, voltò velocemente il viso verso la soglia della porta, dove il russo era immobile, immerso in chissà quale pensiero.
Arthur si immobilizzò, riponendo rapidamente i guanti da forno «un altro …»
«Andiamo.» Alfred si alzò e, fiancheggiato da Arthur, seguì il russo. I tre arrivarono in poco tempo al bagno, incrociando i loro passi con quelli dell’austriaco.
«Merda!» l’inglese si chinò al fianco di Feliciano, mentre gli altri rimasero ad osservare sconfortati quello spagnolo mai visto prima: in singhiozzi soffocati e gemiti addolorati, con il corpo raccolto penosamente su quello del meridionale.
Gli occhi smeraldini dell’inglese cercarono quelli del più piccolo dei Vargas, che si limitò a negare a stento con il viso.
«Antonio …»
«Sta zitto. Voglio uscire di qui.» in un singhiozzo rabbioso, l’iberico zittì il britannico, ed il silenzio calò sui presenti.
«Guardate qui …» Roderich afferrò una boccetta vuota, riposta sulla mensola poco più sopra il lavandino, mostrandola agli altri.
L’inglese l’afferrò, rigirandosela fra le mani ed osservandola con attenzione.
Osservò prima lo spagnolo, poi capì che sarebbe stato meglio agire per conto proprio e scostò l’asciugamano insanguinato, scorgendo gli scarni rimasugli delle gambe del meridionale.
«Acido … A quanto pare, fra noi, abbiamo un idraulico.» gli occhi smeraldini dell’inglese si sollevarono e si soffermarono sul telefono della doccia, ormai gocciolante d’acqua, essendosi l’acido già diluito.
«Portiamolo di là …»
«Sì …»
Antonio si sollevò a fatica sulle gambe, stringendo fra le braccia il corpo esanime dell’italiano ed avviandosi a testa bassa in corridoio, seguito dall’inglese e dal settentrionale.
Ivan osservò in silenzio lo statunitense e l’austriaco, per poi sorridere appena «sarà meglio pulire, da~?»

«Non sarà meglio andare a controllare?»
«Kesese! West, rilassati! Avranno visto uno di quei fantasmi!» il prussiano rise appena, trattenendo il fratello sulla soglia della stanza abbandonata.
«Mais non, lascialo Gil! Ti aspettiamo qui, Allemagne~»
Fra i tre, quello che dopo l’urlo aveva prestato maggior attenzione ai rumori della casa fu proprio il tedesco: si era ad esempio soffermato sui passi frettolosi di Roderich, che non era ancora tornato indietro, e alle parole del francese non poté che dirigersi rapidamente al piano di sotto: il bagno era vuoto, trovò solo Ivan, Alfred e Roderich seduti in sala, e notò una seconda candela senza più colore.
Entrato in cucina non poté che soffermarsi sulla scena.

«Dobbiamo sbarazzarcene, non possiamo tenere il corpo qui.»
«… Puoi ripetere?» lo spagnolo sibilò appena, con le mani ad avvolgere quelle dell’italiano.
«Dobbiamo toglierlo di mezzo, Antonio …»
Le mani dello spagnolo corsero al collo dell’inglese, spingendolo contro le mensole della cucina.
«Ripeti!» sbraitò rabbioso.
Eppure, gli occhi di Ludwig, si erano soffermati sulla figura triste e distrutta di Feliciano, immobile vicino al corpo del fratello: era quasi sicuro che anche lui fosse dell’idea di Antonio, ma essendo chiusi in quella casa non avrebbero potuto fare altrimenti; eppure, con sua grande sorpresa, Feliciano fletté appena il viso verso l’ispanico ed il britannico, sussurrando debolmente.
«No, Antonio …»
«Ripeti, Inghilterra, coraggio! Cosa dobbiamo fare col corpo del mio Romano?!» lo spagnolo sbraitò ancora, mentre l’inglese rimaneva ad osservarlo in silenzio, con una smorfia in volto.
«No! Antonio!» quando Feliciano alzò la voce, lo spagnolo smise di scuotere l’inglese, rivolgendo il proprio sguardo al settentrionale.
«Antonio, dove pensi di poterlo tenere?
Lo … lo so che è difficile … ma …»
Il tedesco adagiò una mano sulla spalla esile dell’italiano, annuendo mentre questo scoppiava in lacrime.
«Antonio, Feliciano ha ragione.
Lo sai che … comunque tornerà, ma per ora non possiamo certo accatastare corpi per casa, non credi?»
«… S-sì …» lo spagnolo lasciò andare lentamente il collo dell’inglese, dirigendosi a testa bassa vicino al corpo dell’italiano.
«Allora Arthur, che pensi di fare?»
Ancora stordito dalla morsa dello spagnolo, l’inglese rimase a massaggiarsi il collo con una mano, ed indicare con l’altra uno strano marchingegno vicino alla lavastoviglie.
«Il … il tritacarne?»
«Prima bisogna …»
Feliciano rimase in silenzio ed uscì rapidamente dalla stanza.
Ludwig non poté che pensare alle macabre scene che presto si sarebbero tenute in quel luogo, per poi volerle subito dimenticare, uscendo dalla cucina immerso nel proprio silenzio.
Arthur rimase ad osservare lo spagnolo, con un coltello dalla lama piuttosto spessa ed ampia stretta in una mano.
«E dopo?»
«Dopo … possiamo metterla nel congelatore …»
«Danne uno anche a me.» quando Antonio indicò il coltello con un cenno rapido del viso, il britannico lo osservò incredulo.
«M-ma Antonio, no …»
«Arthur, por favor-» la voce dello spagnolo tremò appena, quando l’ennesima lacrima gli rigò il viso, e poi calò il silenzio, quando quell’oggetto di tortura passò dalle mani lattee dell’inglese a quelle del suo “compagno di macello”.

Con le mani aggrappate a stento al bordo del water, Feliciano non poté che rimettere tutto ciò che poteva, in singhiozzi soffocati e continui.
Quando pensò che, per di più, si trattava del luogo in cui era appena morto il fratello, un altro conato gli invase la gola, forzandolo a spalancare la bocca in un altro orribile attacco di vomito.
Tagliare a pezzi suo fratello, macellarlo, e poi cos’altro? Eppure altre soluzioni sembravano non esserci, ed un pianto soffocato stuzzicò i suoi sensi, annebbiandogli la vista e spingendolo ad adagiare la testa stanca, riempita solo di quella macabra immagine, sul bordo del water.
Insieme a quello del vomito, il gusto del bacio rubato a suo fratello era ancora presente sulle labbra erose dalle lacrime, ed era qualcosa di orribile, perché l’acido dello stomaco rovinava quel dolce sapore, senza scrupolo alcuno.
«Romano … perché-?»
«Feliciano …» il tedesco si sedette vicino all’italiano, e senza pretesa di risposta gli adagiò una mano sulla spalla, e poi fra i capelli, accarezzandogli la testa nella speranza di far scemare almeno un poco quei singhiozzi che, purtroppo, però, continuarono per ore.

«Kesese! Amico! Perché non sei venuto con noi in soffitta?» il prussiano ebbe modo di toccare solo per qualche attimo la spalla dello spagnolo, e la risata roca e vivace si spense in un batter d’occhio, quando le mani di questo gli afferrarono le spalle per sbatterlo contro al muro con un colpo improvviso e rabbioso.
Gilbert si rese prima conto degli occhi dell’amico, poi del dolore dietro la testa, ma inizialmente decise di prestare più attenzione al primo aspetto di ciò che stava accadendo.
«È morto Romano.» le parole dello spagnolo gli fecero morire le sue in gola, e Francis, poco lontano da loro, si operò per spingere dolcemente via Antonio dall’altro, ancora costretto al muro del corridoio.
«È morto, mentre … facevate gli idioti come volevi tu.» singhiozzò poco prima di voltarsi e far capire a Gilbert, con un gesto rapido del braccio, che la sua intenzione era giusto quella di mandarlo a quel paese.
Francis soffermò il proprio sguardo sull’albino, adagiandogli una mano sulla spalla «ti ha fatto male?»
«Nein.» Gilbert si scostò rapidamente dal muro, dove una piccola chiazza di sangue aveva macchiato la vecchia tappezzeria dai semplici motivi, e si era appena impregnata fra i capelli candidi, ora cupi per quel rossore inaspettato.
«Non mi ha fatto male …» si scostò dal francese, portandosi una mano lì, dove il cranio pulsava, e poi osservando a testa alta quella lieve traccia di sangue che gli aveva macchiato appena il palmo della mano.
«Non in testa, per lo meno …»
E decise poi di salire le scale, diretto alla sua camera: la ferita appena infertagli dall’amico aveva colpito molto più in profondità, per fortuna in un punto ora sanguinante, ma invisibile per tutti.

«Feliciano?»
Il viso stanco dell’italiano fece a stento capolino fra le coperte, e gli occhi cupi incontrarono solo per pochi attimi quelli del tedesco.
«Non vieni a mangiare, vero?»
«No …»
Era comprensibile che, avendo passato almeno tre quarti della notte in bagno a vomitare -anche aria- l’italiano rifiutasse il cibo e volesse solamente riposare, dormire e non pensare più a nulla.
«Allora farò veloce.» il tedesco si limitò ad annuire ed uscì dalla stanza. L’italiano, invece, non si mosse e si preoccupò solo di nascondere il viso sciupato sotto coperte.

Quando arrivò a tavola, Ludwig, non poté non notare che anche il viso dello spagnolo pareva simile a quello di Feliciano: non era l’Antonio di sempre, e probabilmente anche lui aveva passato una notte totalmente insonne. Non c’era la minima traccia di sorriso sul suo volto, ed il pranzo non l’aveva certo cucinato lui, bensì Francis, che si era offerto gentilmente di sostituirlo come cuoco, soprattutto per prevenire la terribile “ascesa” di Arthur.
«Gilbert, che hai fatto alla testa?»
Ludwig osservò prima il fratello, silenzioso, con la forchetta fra i denti ed una benda arrangiata intorno alla testa, poi il sorriso allegro del russo.
«Sono affari miei.» sibilò appena il prussiano.
«Ma ti fa male?»
«… Anche questi sono affari miei, idiota.»
«Dovresti stare attento, sai?» Ivan sorrise allegro, tendendo il braccio verso il prussiano, probabilmente per accarezzargli una guancia con il dorso della mano, ma l’albino fece appena in tempo per arretrare con la sedia e scansarsi dalle dita insistenti dello slavo.
«Giuro che se osi toccare la mia Magnifica persona ti pianto la forchetta nella mano, bastardo!»
E quando la voce roca di Gilbert risuonò fra i presenti, il volto marmoreo della bielorussa, non poté che voltarsi lentamente, in un gesto quasi meccanico.
«Gilbert …»
«…» quella voce spiritata lo fece rabbrividire appena, ma solo Roderich -il suo vicino- parve accorgersene e quasi lasciarsi scappare una risata divertita.
«Was?»
«Cosa hai detto?
Sai dove potrebbe finire, questo?»
La bielorussa strinse un pugnale argenteo fra le dita, mostrandolo al prussiano con un sorriso.
«Ja, se vuoi puoi anche prestarmelo, così ne approfitto per ficcarlo nella mano di tuo fratello, kesese!»
«Idiota!» e la bielorussa non poté che alzarsi da tavolo con aria rabbiosa, stringendo il pugnale fra le dita esili.
«Нет, сестра!» e con voce quasi autoritaria, seppur abbastanza acuta, Ivan si pronunciò e fermò la collera della piccola bielorussa.
Quasi come una dama indignata, lei, tornò al suo posto alzando il viso rivolgendosi nei confronti del prussiano, che quasi fece lo stesso, accavallando arrogantemente le gambe, coscienzioso della protezione non voluta, ma pur sempre conveniente, del russo.

«Il clima inizia a diventare davvero pesante. Anche Antonio che è tuo amico … guarda che ti ha fatto …» il tedesco rimase con la schiena aderente allo stipite della porta della stanza, nella penombra della notte.
«Mhn, piuttosto, come sta Feliciano?»
«Non molto bene-» il tedesco sbuffò appena, come stanco e rassegnato, poi tornò a rivolgere il proprio sguardo al prussiano.
«Gilbert?»
«Ja?»
«Sta attento ad Ivan. Buona notte.» ed il prussiano rimase immobile davanti alla porta che lentamente si chiuse, sussurrando appena la buona notte in risposta al fratello minore.
A nessuno dei due fratelli Beilschmidt piaceva Russia, in particolar modo a Gilbert, eppure Germania sembrava sapere quanto alto fosse il rischio di vederli avvicinarsi paurosamente: due anime tormentate non possono che trovarsi e completarsi fra loro, dandosi conforto a vicenda, dopotutto.

«Ho paura che possa trattarsi di Arthur.»
Quando il francese sentì queste parole squillanti provenire poco lontano dal suo letto, non poté che flettere il viso ed osservare l’americano, steso sulla schiena e con una smorfia amara sul volto, gli occhi fissi al soffitto.
«Che vuoi dire?»
«Si preoccupa sempre così tanto di arrivare per primo sul posto, quando … quando succedono queste cose …»
«Ma- ma non è detto, America! Per ora sono morti solo due di noi! Non è detto che sia per forza Arthur, n’est-ce pas?»
«Chi si trovava davanti alla casa già prima del nostro arrivo? Chi dopo la morte di … di mio fratello è corso a telefonare alla polizia e ha detto di aver trovato il telefono staccato? Chi ieri ha subito voluto fra le mani la boccettina dove era contenuto l’acido? E chi ha proposto di macellare il corpo di Romano? Francis non … non è normale, e l’ha capito un eroe come me!»
«…»
«Francis?»
«Io … io non lo so. Spero solo che non sia come dici tu-»
«Sì, lo spero anche io, dopotutto.» l’americano sospirò appena, girandosi a fatica su un fianco.
«Good night, France-»
«Bonne nuit, Amérique …»

Il colore degli occhi, come ghiaccio viola, si rifletteva appena sulla boccetta in vetro dorato, con la quale le esili mani della donna giocavano irrequiete, e per lei, un piccolo sorriso divertito sul volto, era qualcosa di inevitabile.

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Capitolo 7
*** VII - Rimorsi ***


VII - Rimorsi



In un’epoca imprecisata, ma presumibilmente antecedente al 1700, la figlia di uno dei proprietari della casa venne torturata e barbaramente uccisa nella nursery, da un servitore della famiglia particolarmente sadico.
Spesso si sentono i pianti, i sospiri e le richieste di aiuto della piccola, la quale si palesa nelle stanze dell’ultimo piano in lacrime, disperata, torcendosi le mani.



Gli occhi del russo si aprirono a fatica, in una lieve fessura dove già la luce era penetrata e feriva le iridi d’ametista lucida.
Le palpebre, quasi paralizzate dal sonno, fremettero appena, quando le pupille di pece intravidero quel velo argenteo che fluttuava silenzioso davanti ai suoi occhi, in un sinuoso movimento quasi rilassante.
Era quasi come se riuscisse ad accarezzargli il viso paffuto con carezze vellutate ed attente, invogliandolo ad aprire gli occhi ancora un poco.
Le iridi e le pupille parvero ampliarsi improvvisamente sulla sclera bianca e gli occhi si sgranarono terrorizzati: un abito da sposa fluttuava fluidamente nello spazio davanti a lui, con i veli e gli strascichi del vestito ad accarezzargli il viso, come sospinti da una fredda aria inesistente.
Non bastava terrorizzarlo con richieste dalla voce spiritata o con i coltelli affilati puntati alla gola: ora lo torturava anche con pomposi vestiti da sposa sospesi in aria.
L’urlo del russo risuonò soffocato nella stanza, e in qualche frammento di secondo già la gola aveva iniziato a bruciare terribilmente.
D’un tratto, i vestito bianco, smise di fluttuare, e gli occhi spauriti del russo si soffermarono sul pugnale argenteo che, trafitto l’elegante corpetto in pizzo bianco, lo teneva ora immobilizzato alla parete della stanza.
Il viso del russo si fletté in un movimento lento e meccanico, con gli occhi terrorizzati ad osservare l’inquietante maschera indifferente della donna, immobile fra le coperte.

«Ah! Finito!» l’inglese diede un lieve colpetto alla macchinetta del caffè, facendo scontrare il dorso della mano alla struttura pesante, appena sporca di polvere, ripulita poco prima con un panno bianco che ora giaceva sulle ultime scale.
La vecchia macchinetta del caffè, con misere scelte -macchiato, espresso e cappuccino-, era poco lontano da quella porta che pareva dormire, chiusa infondo alle scale, rivolte ad un piano sotterraneo, cioè al di sotto del bagno, del salotto e di tutto ciò che si trovava al primo piano.
«Vediamo se funziona …»

L’americano annuì con un sorriso, mentre l’inglese teneva premuto il polpastrello dell’indice sul pulsante del caffè macchiato, in attesa che la macchinetta decidesse di dare anche il minimo segno di vita.
«Ahahah! Arthur, io lo toglierei il dito!»
«Pft. Non va e basta.» sibilò l’inglese, togliendo il dito con sdegno.
L’americano si chinò appena in avanti e premette il pulsante velocemente, senza tenerlo premuto, ed ecco che un lieve rumore all’interno della macchinetta la fece appena tremare davanti a loro.
«…»
«Sono l’eroe~☆!»
«Tsk …» il britannico afferrò quasi svogliato il bicchiere all’interno dell’imboccatura stretta della macchinetta e sentendolo pieno e caldo lo portò alla bocca senza far caso al contenuto.
Tutto fu abbastanza esplicito non appena quel liquido piacevolmente tiepido, ma orrendamente disgustoso, gli invase la bocca.
L’inglese spalancò gli occhi e senza farsi pregare sputò schifato ciò che stava per bere.
Quando osservò riluttante la macchia che il suo sputo aveva appena creato sulla parete frontale della macchinetta, si ritrasse velocemente, mentre l’americano attonito, alle sue spalle, riuscì appena a pronunciare qualche balbettio.
«S-sangue …» senza perdere tempo, Arthur, fregò il dorso della mano appena sotto le labbra, ripulendo quella leggera traccia di sangue rosso e tiepido che si era impregnata nella pelle pallida.
Era andato troppo vicino dal berlo.
Davvero troppo vicino.

«Feliciano, è ora di pranzo.»
Quando la voce grave del tedesco arrivò a stuzzicargli le orecchie, l’italiano, brontolò debolmente, rigirandosi su un fianco e tirandosi le coperte fin sopra la testa.
«Devi mangiare qualcosa …»
“Non ho fame …” Feliciano non fu sicuro di aver pronunciato queste parole, quanto coscienzioso era della sua debole voce. Forse erano rimaste lì, nascoste fra i pensieri, e non erano arrivate all’orecchio del tedesco che però sembrò comunque capire ed uscì dalla stanza in austero silenzio, arrendendosi a quello dell’italiano.

«Feliciano non mangia neppure oggi …?» alla domanda flebile proveniente appena più lontano dal suo posto, il tedesco alzò lo sguardo ed incontrò la testa china ed abbattuto dello spagnolo, gli occhi vitrei nascosti dai capelli castani.
«Neppure oggi …» si limitò a ripetere con un sospiro rassegnato.
Feliciano era il primo ad essersi convinto del fatto che il corpo di Romano dovesse essere fatto sparire, ma ora sembrava quello più propenso alla resa, ad abbandonarsi senza cibo, senza aiuto: subito dopo pranzo, Antonio, sarebbe andato a parlargli.

«Io non mi spiego tutti questi fenomeni, davvero.»
«Pft, ma è ovvio: c’è un assassino, i fantasmi non esistono!»
«Su ciò potrei darti ragione …» l’austriaco quasi si stupì delle sue parole, quando concordò con il prussiano quella piccola teoria «ma … un assassino? Fra noi? Mi sembra così esagerato …»
«A me invece non sembra esagerato per niente.» il prussiano sembrò sicuro delle proprie parole, e a passo deciso fiancheggiò la porta dell’austriaco, dirigendosi verso la propria.
«Sarà, ma-»
Gilbert non si accorse neppure che Roderich, adesso, era immobilizzato davanti alla porta della propria camera, e vi guardava attraverso, con il respiro morto in gola.
«G-Gilbert-?» al richiamo flebile e tremante dell’austriaco, la mano del prussiano, si paralizzò sulla maniglia della propria porta, ed il viso si fletté, permettendo agli occhi di scorgere lo spazio oltre la spalla destra.
Gilbert non osò nemmeno un sussurro e senza scostare il viso da quello fin troppo scosso dell’austriaco, decise di raggiungerlo con passi felpati, fermandosi alle sue spalle.
Un panno bianco stava fluttuando al centro della stanza, con movimenti circolari ed improvvisi, quasi fossero scatti nervosi.
Rimasero entrambi raccolti nel silenzio, increduli, davanti a quella trasparenza, a quell’irrealtà sinistra ed inspiegabile.
Gli occhi ametista dell’austriaco, e quelli di sangue del prussiano, seguirono il movimento del panno, che cadde improvvisamente a terra, come se la “vita” che lo aveva posseduto fin poco prima si fosse esaurita di colpo.
Nello stesso tempo, un suono profondo, si diffuse nella stanza.
I pulsanti ingialliti del pianoforti si erano abbassati e rialzati da soli, sotto chissà quale peso invisibile, protagonisti di chissà quale stregoneria.
Roderci sgranò gli occhi incredulo, arretrando velocemente e finendo quindi con la schiena aderente al petto del prussiano, che gli adagiò le mani sui fianchi.
Ancora una volta, i tasti, si abbassarono e, con dolci movimenti, sembrarono seguire una melodia, mentre gli sguardi attoniti di Roderich e Gilbert divenivano di secondo in secondo più scossi ed increduli.
«Che … che melodia è …?» Gilbert si permise questa domanda, con voce tremante, in cuor suo rinascendo che l’austriaco sarebbe sicuramente riuscito ad identificarla molto più rapidamente di lui, sin dalle prime note.
«Il … il Requiem …» Roderich sussurrò appena, al cospetto di quella melodia paradossalmente povera, perché sguarnita di una vera e propria orchestra e di voci, ma dipendente da un unico pianoforte.
«È il Requiem di Mozart-» pronunciò con un pizzico di sicurezza in più, e sentendo la melodia divenire più alta, percependo i tasti premuti con impeto e violenza, fece per entrare nella stanza.
«Così lo rovinerà!» quando il piede di Roderich varcò la sua soglia, il suo polso, fu stretto da una morsa forte e quasi possessiva, salda e sicura.
«No, Roderich! Sei impazzito forse? C’è un fantasma lì dentro!»
L’austriaco osservò incredulo il prussiano alle sue spalle, che a denti stretti si preoccupava di stringergli il polso con forza e bloccarlo sulla porta.
In un primo momento, Roderich, sembrò quasi convincersi del divieto del prussiano, ma quando la melodia si fece ancor più forte, negò e fece forza contro l’altro.
«Non posso!»
«Tsk! È solo uno stupido pianoforte!»
«Gilbert, l’hai detto tu poco fa che i fantasmi non esistono, ja?» l’austriaco arrestò la forza esercitata contro l’altro, guardandolo negli occhi e stringendo i denti quasi in una faticosa resistenza, ascoltando la melodia divenire quasi assordante: a fatica poteva udire la voce dell’albino di fronte a lui.
Sì, l’aveva detto: e allora? Magari aveva appena cambiato idea.
«Si tratta di un entità innocua!» l’austriaco fece nuovamente forza, ma il prussiano continuò ad opporsi.
«E tanto, poi, anche se dovesse succedermi qualcosa, non ne dovresti gioire, tu?» alla flebile domanda di Roderich, Gilbert deglutì appena: era preoccupato, ma opporsi ancora, soprattutto dopo quelle parole, avrebbe sminuito seriamente la sua Magnificenza. Sì, chi se ne importava di Roderich.
«Mhpf! Ti aspetto qui.» l’albino sbuffò appena, lasciando improvvisamente la mano dell’austriaco.
Roderci gli rivolse un’occhiata silenziosa, e poi, con un cenno sicuro della testa, varcò la soglia della stanza.
Quando la porta si chiuse, impedendo all’albino di tenere sotto controllo l’austriaco, Gilbert rimase immobile per qualche ottimo, poi, quando scoccarono le quattordici e la melodia si spense, lo chiamò.
«Roderich?»
Nessuna risposta.
Gilbert afferrò la maniglia con entrambe le mani, e tirandola trovò la porta serrata.
«… Roderich-?» lo chiamò ancora una volta, poi un’altra, più forte, tirando la maniglia con le punte dei piedi in una disperata presa sulla porta.
«Scheiße-» il prussiano sibilò appena, con i denti stretti in sospiri angosciati, il viso basso e gli occhi serrati, almeno finché, non muovendo appena i piedi, sentì qualcosa di insolito sotto la suola delle scarpe, e tutto intorno.
Aprì gli occhi.
«… C-cazzo!»
E se ne pentì subito, quando vide la grossa chiazza di sangue intorno alle sue scarpe e poi avanzare verso di lui quando arretrò velocemente fino a finire con la schiena aderente al corrimano impolverato delle scale.
«Gilbert!» Ludwig fu il primo a percorrere le scale per ritrovarsi davanti quella grossa pozza di sangue che, sinuosa, era scivolata sotto la fessura della porta, quasi raggiungendo nuovamente i piedi del fratello.
«Chi c’è lì dentro?» il tedesco adagiò una mano sulla spalla esile del prussiano, che negò con gli occhi fissi sul sangue, ed un fremito nel viso.
«Gilbert?» lo chiamò ancora, ma il maggiore non rispose.
«Lascialo, è troppo scosso.» Arthur immerse le proprie scarpe nel sangue, mentre Natalia ed Alfred, che insieme a lui avevano percorso le scale, si erano fermati vicino ai Beilschmidt senza però togliergli gli occhi di dosso.
Arthur afferrò la maniglia fra le dita, abbassandola lentamente: in un click appena udibile, la porta si aprì e cigolò rumorosamente.
«Mhn …» Arthur mugugnò appena, facendo segno agli altri di entrare, ma solo la bielorussa e l’americano lo seguirono, notando Ludwig troppo occupato con il fratello, ancora immobilizzato contro il corrimano e con gli occhi fissi sul sangue rosso acceso.
Roderich era seduto sullo sgabello, e parte del corpo giaceva riversa sul pianoforte insanguinato, dove il vecchio nero si era imperlato di un caldo rosso che adesso gocciolava sul parquet in un docile suono inudibile, anche per le orecchie più fini.
«Come diavolo ha fatto a …?»
Arthur colse subito ciò che Alfred stava per chiedere: come aveva fatto a morire in quella posizione, con un coltello da cucina piantato nel petto e la punta d’acciaio a trafiggere la colonna vertebrale e trapassarla, fino a trovare la propria uscita fra le scapole?
Un marchingegno, sicuramente.
Il britannico rimase in silenzio ed osservò con attenzione all’interno della cassa del pianoforte, dalla quale estrasse pezzi di filo trasparente.
«Probabilmente un collegamento fra i tasti e l’interno della cassa con questi fili …»
Si limitò a trarre questa scarna conclusione, rivolgendo un’occhiata all’americano «aiutami a portarlo giù …»
«Ok.»
Uscita dalla stanza, Natalia, si arrestò di fronte ai due tedeschi, senza scostare lo sguardo da Gilbert e lasciando poi che l’albino incontrasse i suoi occhi.
«Rimorsi? Magari gli volevi troppo bene …?»
Sorrise, poi, andandosene sotto lo sguardo confuso di Ludwig: cosa significavano quelle parole?
Rimorsi?

«La mia conclusione potrà sembrare stupida, ma l’unica cosa che dovremmo fare sarebbe trovare al più presto un modo per uscire dalla casa.» Alfred si pronunciò davanti al piatto della propria cena, punzecchiato subito dall’inglese, che approfittò di un certo aggettivo molto adatto, secondo il suo parere «le tue conclusioni sono sempre stupide, America.»
«Ok, ma come lo troviamo il modo per uscire? Non abbiamo neppure un telefono funzionante, qui dentro non ci sono né fax né computer, le finestre e le porte sono chiuse e, per di più, tutta la gente che passa qui davanti sembra non vederci e non sentirci.» Francis e le sue osservazioni spensero in un attimo l’animo acceso e determinato dell’americano che, stretta la forchetta fra i denti, non parlò più.

Gli occhi di sangue del prussiano, ora, erano fermi sul piatto vuoto, le labbra screpolate, serrate in una smorfia amara, la testa bassa, con lo sguardo nascosto dai capelli argentei: niente cena, niente parlantina roca ed arrogante come ogni sera.
Quando le volute tiepide e profumate di una porzione di cena -con la cena stessa- gli arrivarono sotto al naso non poté che mugugnare appena infastidito, scostando il viso preoccupandosi, però, di non mostrarlo ai presenti.
«Gilbert, dovresti mangiare qualcosa …»
Quando, oltre i propri ciuffi chiari, Gilbert vide il sorriso allegro sulle labbra del russo, e quella mano fastidiosa che gli porgeva il piatto, non poté che rivolgere gli occhi al cielo, sbuffando nervoso.
«Tienitela.»
«Ma non mangi niente? Proprio niente~?»
Gilbert fece per dire qualcosa, ma fu interrotto dalla voce grave del fratello, che quasi lo sorprese.
«Mio fratello può benissimo decidere da sé, Russia.»
Quando Gilbert udì il suono tagliente del silenzio, non poté che alzare appena il viso, notando quanto rabbioso ed assassino poteva essere in quel momento lo sguardo che Ivan rivolse a suo fratello.

Con il respiro affannato, ora, il prussiano sedeva sull’ultimo gradino delle scale, osservando insistentemente la porta socchiusa della camera del fratello: non poteva starsene con quel peso nel cuore per tutta la notte. Era … fastidioso.
«Davvero poco Magnifico.» e anche questo, sì.
Gilbert sbuffò appena, alzandosi trovando appoggio solo sulle proprie gambe, dirigendosi velocemente alla porta del fratello e bussando con un’insolita carenza di grinta.
«Ja?»
«Sono io, West.»
«Entra …»
L’albino sospinse appena la porta, ritrovando Ludwig seduto infondo al letto dell’italiano, che aveva tutta l’aria di aver iniziato una gran ripresa, con quel sorriso divertito sulla faccia. E anche il tedesco, nonostante tutto, aveva l’aria allegra.
Gilbert li osservò, senza spiccicare parola: beato il fratello, che poteva stare così vicino all’adorabile Italia, e beato Feliciano, che poteva scherzare così serenamente con West.
«West, dovrei parlarti.» gli occhi di Gilbert si assottigliarono appena, e poi arretrò, quando vide il fratello annuire silenzioso ed alzarsi dal letto senza dire altro.
Gilbert si allontanò dalla stanza del fratello, ed il tedesco lo seguì senza dire una parola, finché arrivare fin quasi all’interno della cucina gli parve un poco eccessivo.
«Cosa c’è?»
«West …»
Il Tedesco aggrottò la fronte, sorpreso della voce insolitamente flebile ed insicura del fratello.
«Sono stato io …»
Non aveva mai visto Gilbert così, e mai si sarebbe aspettato le parole che le labbra del fratello avrebbero pronunciato di lì a poco.



«Ho ucciso io Roderich.»



Parole che come cristalli taglienti ruppero il silenzio.

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Capitolo 8
*** VIII - Sospetti ***


VIII - Sospetti



Nel ‘700 fu una giovane di nome Adeline a trovarvi una morte terribile: in fuga dallo zio violento, cercò di mettersi in salvo saltando dalla finestra. Purtroppo la giovano morì nella caduta e in molti testimoniano di aver visto il suo fantasma urlante precipitare da quello stesso punto ogni volta.


«Mi sento come se lo avessi ucciso io, permettendogli di entrare in quella stanza …»
Alle parole del fratello, Ludwig, desiderò quasi di tirargli una manata in testa: per un attimo aveva pensato che fosse proprio Gilbert l’assassino che in sei giorni aveva già fatto tre vittime, e quando lo sentì continuare non poté che lasciarsi sfuggire un sospiro di sollievo.
«No Gilbert, non è colpa tua.»
«Mhn …» il prussiano fece per dire qualcosa, ma la voce dell’altro lo interruppe.
«Senti …» il tedesco esitò giusto appena «sei sicuro di non voler venire a dormire da noi?»
«Pft! Ja! West, cosa pensi? Che il Magnifico Me abbia paura? Kesese!» il prussiano scoppiò in una risata roca, sorridendo divertito e sbattendo appena il palmo della mano contro la spalla del tedesco.
«Gut, andrò a dormire West.»
«Mhn. Buona notte, Gilbert.» Germania sapeva bene quanto sforzato fosse il sorriso del fratello: era preoccupato, turbato, forse anche più di lui.
«Ah, un ultima cosa.»
«Was?» Gilbert inclinò appena il viso, osservando il tedesco da oltre la spalla.
«Stai molto attento a Russia, per favore.»
Il ghigno che si disegnò sulla bocca di Gilbert quasi sorprese il minore, che se ne rimase immerso nei propri pensieri «tranquillo, ormai ci so fare con quello lì. Buona notte!»
E l’albino si avviò a passi lenti verso le scale, salendole tranquillo e sperando nel buio nel giro di pochi attimi, mentre il minore rimaneva fermo nel corridoio, sospirando appena: ci sapeva fare? In che senso?
«Mh …»

Gilbert rimase con le mani aderenti ai fianchi, le dita quasi immerse nelle tasche, camminando a passi lenti e calcolati, a causa del buio pesto, verso la propria stanza quasi senza respirare: di cosa si preoccupava West? Pft, va bene che aveva avuto la sfortuna di capitare al secondo piano insieme a quel russo bastardo, ma se la sapeva cavare Magnificamente!
D’un tratto, però, due morse salde e quasi dolorose sulle spalle, lo bloccarono e lo spinsero, finché la schiena non aderì allo spazio di muro vicino alla porta della camera. Non ebbe tempo di dire nulla, che la bocca fu bloccata da un bacio appassionato, pieno di bramosia.
Inutile dire che subito le mani di Gilbert fecero presa sul petto dell’aguzzino e cercarono di spingerlo lontano con tutta la forza possibile, ma quelle labbra nemica sembravano non voler abbandonare la sua bocca, ed erano così insistenti che ormai lo avevano fatto arrossire di vergogna e sospirare quasi di piacere.
Lo sapeva che quelle labbra appartenevano a lui: le aveva già sentite, un centinaio di volte, probabilmente.
Quando poi le sue mani sembrarono diminuire la forza di spinta, fu il corpo dell’altro a scostarsi e sparire nel buio, a passi irregolari e frettolosi.
Nel buio, ora, si poteva ascoltare solo il respiro affannato del prussiano, in balia di pensieri rabbiosi e ancora costretto contro al muro, con il cuore quasi fuori dal petto.

Quando Ivan rientrò sorridente in camera ci mancò poco che non cacciò un altro urlo acuto e inorridito.
Appostata al centro della stanza, la bielorussa, lo fissò senza dire una parola e lo seguì con gli occhi, fino a quando non si sedette sul letto e si schiarì appena la voce, quasi come ad esortarla a parlare, se avesse avuto mai qualcosa da dire.
«Dove sei stato?»
Ed ecco che la bielorussa si pronunciò quasi nervosamente, senza scostare gli occhi dallo slavo.
Ivan rimase in silenzio, con le gambe piegate, le ginocchia quasi al mento, sulle quali poi lo adagiò delicatamente.
«… Ivan?»
Con tono più nervoso, la donna pronunciò il suo nome, quasi come se avesse voluto attirare a tutti i costi la sua attenzione, ma non ricevendo una risposta per la seconda volta non poté che sbuffare rabbiosa ed andare a sistemarsi frettolosamente sotto le coperte.
«Buona notte.»
«Noch’»

«Direi che per questa notte possiamo anche andare a dormire.» Arthur avrebbe voluto tanto aggiungere “sereni” come ultima parola della sua osservazione, ma non era cosa fattibile, dopo aver macellato un altro corpo ed averlo sistemato nella ghiacciaia.
L’americano alle sue spalle si limitò ad annuire in uno sbadiglio, mentre nel buio, gli ultimi gradini, parvero quasi cigolare sinistramente sotto i loro piedi.
«Che son- oh?» Alfred si bloccò sulla porta, al fianco dell’inglese, ed entrambi osservarono confusi il gesto frettoloso di Francis: seduto sul letto, sembrava essersi affrettato a nascondere qualcosa sotto il letto, ed ora li osservava con un sorriso sorpreso in volto.
«Eccovi!»
«Eh, sì …» Arthur aggrottò appena la fronte, chiudendo la porta senza più pronunciarsi.
“Cosa stava nascondendo lì sotto? Ok! Io, l’eroe, penserò a tenerlo d’occhio, visto che è sempre qui da solo e potrebbe combinare qualsiasi cosa!” e pensandosi già come l’eroe della casa, Alfred, si stava già preoccupando di tirare le coperte fin sopra la testa, subito socchiudendo gli occhi, stanco a causa del lavoraccio affrontato poco prima in compagnia dell’inglese.
Arthur, invece, prima di sistemarsi a letto, si soffermò più volte su entrambi i compagni di stanca, con mille pensieri presenti nel buio.

Subito dopo aver sistemato un vecchio libro sullo scaffale della biblioteca, la sensazione di Arthur di essere osservato si fece molto più presente. Immobilizzatosi deglutì appena, flettendo lentamente il viso.
Dovette ammettere che la vista di quella pelle nivea e vellutata, quei capelli d’argento e quegli occhi affilati, di uno strano e penetrante viola, lo fece sobbalzare: colto di sorpresa si ritrovava oggetto dell’osservazione attenta della bielorussa.
«Natalia … ti serve qualcosa?»
«Da.»
«Cosa?»
«Sapere perché questa casa ha mangiato la lingua a mio fratello.»
«… W-what?!»
«In senso figurato, idiota!»
«Ah … oh … beh, che io sappia i fantasmi e le case infestate non hanno il potere di zittire le persone …»
L’inglese tornò ad osservare i diversi libri disposti sugli ultimi scaffali, mentre la bielorussa annuiva appena dietro di lui.
«Non vuole parlarmi, però …» insistette.
«Mhpf, senti, che c’entro io? Avrà i suoi pensieri per la test-»
«Smettila di blaterare!» ed ecco che un pugnale sfrecciò quasi aderente alla gota pallida dell’inglese, infilzando in un colpo netto la rilegatura di cuoio di un libro antico.
«Are you crazy?!»
«Zitto!»
«Tu sei matta! Avanti, sei innamorata di tuo fratello: non è normale!»
«E che lui sia innamorato di un altro uomo …? Questo è normale, invece?»
Quando Arthur notò che la voce della donna si era fatta più flebile afferrò il pugnale fra le dita e lo estrasse dal libro, dirigendosi lentamente verso di lei per consegnarglielo.
«Questo clima non fa certo bene.
Vedrai: presto usciremo di qui.»
La bielorussa lo osservò per qualche attimo, poi afferrò il manico del pugnale «lo spero bene.» e lo tirò improvvisamente verso di sé, lasciando che la lama affilata tagliasse il palmo della mano del biondo.
Arthur aprì la mano insanguinata in un singulto, e rialzato il viso verso l’altra la vide già scomparire oltre la porta, dove si era lasciata alle spalle solo il fruscio delicato dei suoi abiti cupi.

«Arthur, ma che hai combinato?»
«Niente Alfred. Pensi di andare a dormire o devo leggerti una favola?» sibilò l’inglese, stringendo l’estremità della benda fra i denti e guidando l’altra intorno alla mano ferita.
«Però sembra che tu abbia perso parecchio sangue …» ed anche il francese intervenne.
Sottomesso a tutte quelle attenzioni da parte dei compagni di stanza, Arthur, decise di affrettare la fase di bendaggio e spegnere subito la luce, per dare una buona notte secca e nervosa all’americano ed al francese.

«Feliciano … tutto ciò è difficile per entrambi, credimi …» lo spagnolo sussurrò appena, sospingendo con la mano la tazza di caffè caldo, fino a sistemarla di fronte all’italiano.
«Perché dobbiamo parlarne proprio ora? Sono passati solo tre giorni da quando Roman-»
«Ascolta!» quasi come se non volesse sentir pronunciare quel nome, Antonio, lo interruppe senza troppi complimenti, poi continuò «lo sai anche tu che, appena usciti da qui, lo troveremo a casa, in qualche modo. Lo sai, vero?»
Feliciano annuì appena: Antonio aveva ragione, ma la tristezza e la paura parevano essere più forti di lui.
«E allora inizia piuttosto a preoccuparti di te stesso! Questa casa è pericolosa e ci sei tu qui dentro, Feliciano!
Lui ci sta sicuramente aspettando fuori, da qualche parte, perciò riprendi a mangiare e non arrenderti.» e con un cenno della testa parve quasi indicargli la tazza di caffè ancora piena.
L’italiano rimase in silenzio, stringendo fra le mani la tazza e percependone con piacere il calore impregnato nel coccio bianco, per poi sorridere appena.
«Grazie Antonio!»
«Di nulla, amigo~!»
E Feliciano lasciò il tavolo, portando alle labbra la tazzina e sorseggiandone appena il contenuto, intraprendendo la piccola parte di corridoio che lo avrebbe portato in camera.

«M-ma dove sarà-?» Ivan balbettò appena, inginocchiato a terra e con il viso quasi aderente a terra, cercando con sguardo atterrito il pavimento vuoto, sotto al letto.
Quando rialzò il viso rimase ad osservare, evidentemente a disagio, la sveglia, dove erano quasi segnate le dieci del mattino.
«Non … non è possibile.
Dov’è-?!» quasi disperato si alzò dal pavimento e si osservò intorno, portandosi rapidamente una mano allo stomaco, in seguito ad un brontolio rabbioso che, con tanta ira, reclamava la colazione; il russo era alla ricerca del suo prezioso tesoro da più di un’ora e quindi non era neppure sceso in sala da pranzo come tutti gli altri.
«Non la tolgo mai, non è possibile!» si sentiva strano, senza quella protezione in più, e senza più dire una parola uscì dalla camera, passò davanti alla stanza abbandonata ed attraversò il corridoio, per poi sussultare e bloccarsi in cima alle scale.
Era un’ombra, quella che aveva visto proiettarsi nel frammento di luce presente nella stanza abbandonata.
Rimase in silenzio, arretrando cautamente fino a giungere davanti alla soglia della camera, per poi immobilizzarsi ad occhi sgranati, incredulo.

Le lancette segnarono le dieci.

«Ohi idiota, guarda che la colazione è al piano di sotto!»
Neppure la risata roca di Gilbert, seguita da quella più delicata del francese, riuscirono a distogliere Ivan da ciò che aveva davanti.
«Ivan, tutto bene?» Francis aggrottò appena la fronte, notando l’immobilità quasi irreale del russo.
Quando Gilbert e Francis lo raggiunsero, anche loro non poterono fare a meno di immobilizzarsi sulla porta: i piedi dell’ombra si incontravano con quelli veri, appena sospesi da terra: nel buio penzolava ancora il corpo impiccato della bielorussa.
«M-merd! Vado a chiamare gli altri!»
Gilbert rimase in silenzio, soffermando il proprio sguardo su un particolare agghiacciante: intorno al collo della donna non c’era alcuna corda, bensì la sciarpa del russo, legata ben stretta e salda ad un piolo arrugginito arrangiato in una trave di legno ormai marcio.
Forse sperando di aver visto male, voltò il viso verso lo slavo, e quando notò che al suo collo non c’era alcuna sciarpa non poté che arretrare.

«È ovvio che l’assassino, ormai, voglia ucciderci tutti …» Arthur si pronunciò senza entrare nella stanza.
«Mhpf, sì, e ha appena ucciso sua sorella.» il prussiano sibilò quasi schifato, ed il russo sgranò gli occhi incredulo, subito negando con pesanti scossoni del capo.
«N-no, Gilbert-»
«Sì, invece.»
«Beh, la tua sciarpa … è al suo collo …» Alfred li interruppe e fece da voce all’evidenza, ma il russo continuò a negare energicamente «no! Io stavo cercando la mia sciarpa! Non c’era quando mi sono svegliato, ma non … non ho
Giuro che non ho ucciso mia sorella!»

«Adesso calmati Ivan.» Arthur lo esortò a dare un taglio a quella lagna, poi sospirò appena.
«Che qualcuno si occupi di quel corpo …» l’inglese continuò e, date le spalle a tutti i presenti, scese le scale diretto al piano di sotto.

«Arthur!»
L’inglese non ebbe neppure il tempo di chiudere la porta del bagno che la voce roca del prussiano risuonò alle sue spalle e lo immobilizzò.
«È lui l’assassino! È evidente!»
«Qualcosa mi dice che ci speri, che il cattivo sia lui …»
«Ma è lui!»
«Non abbiamo prove sufficienti …»
«La sua sciarpa che fa da sostituta ad una corda da impiccagione non è una prova già abbastanza indicativa?!»
«No, affatto. Ragiona.»
«Sono la Magnifica Prussia, io! Non devi dirmi tu quando fare qualcosa, tsk!»
«Mhpf, anche se fosse, che facciamo? Hai per caso una pistola per ucciderlo? Io no.»
Gilbert incontrò solo per un attimo gli occhi smeraldini dell’inglese, iniettati d’ansia, poi strinse i denti, soffermando la propria attenzione alle spalle del biondo.
Gilbert rimase in silenzio per qualche attimo, poi aggrottò la fronte confuso «ehi, ma quello cos’è …?»
L’inglese distolse subito lo sguardo dall’albino e rivolse la sua attenzione al lavandino, subito passando un dito sul bordo ed analizzando la polverina scura sul polpastrello.
«Sembra … fard?»
«Fard?»
«Sì, ma non credo che sia stata Natalia ad usarlo.» con un gesto veloce, sfregò l’indice ed il pollice, pulendo i polpastrelli da quella cipria sottile, e tornò a rivolgere il proprio sguardo all’altro, nel silenzio complice di una prova indispensabile.

Quando Gilbert sentì bussare alla porta della sua camera ripose subito il diario e si alzò dalla sedia, sistemandosi quasi con cautela al centro della stanza.
«Chi è?» ma alla sua domanda corrispose il cigolio della porta che gli si aprì proprio di fronte.
Quando vide il russo di fronte a sé aggrottò subito la fronte, quasi arricciando il naso con una smorfia rabbiosa in volto «che diavolo vuoi? Va via.»
«Gilbert …»
«Fosse per il Magnifico Me saresti già legato ad una sedia, adesso. Se non peggio, mhpf.» l’albino gli sputò quasi addosso le parole, avvicinandosi appena quasi in un vano tentativo di allontanarlo, farlo arretrare lentamente verso l’uscita.
«Gilbert, io non ho ucciso Natalia …»
«Ja, ja.»
«G-Gilbert-! Ascoltami!» quasi con le mani congiunte e le ginocchia a terra, il russo alzò la voce come disperato, indeciso sul da farsi.
«Non sono stato io! Credimi!»
«Basta Ivan!»
Ma non appena anche il prussiano ebbe alzato la voce, il resto delle parole gli morirono in gola: un rumore sommesso, eppure acuto e sinistro alle sue spalle, lo aveva immobilizzato, e così aveva fatto con il russo, che alzò appena il viso, cercando con gli occhi il punto dal quale fosse venuto quel suono singolare.
Quando un altro, simile ad un lamento, un urlo flebile, risuonò nella stanza, il prussiano si mosse e passò di fianco al russo, chiudendo la porta della camera alle sue spalle.
Lo slavo si voltò verso l’altro, aggrottando la fronte confuso, per poi sorridere allegro «mi credi, allora?»
«Mhpf. Taci, bastardo.»
Credergli o no, Gilbert non aveva ancora deciso, ma era sicuro che trattenerlo lì, nella sua stanza, sarebbe stata un’ottima idea, per quanto fosse poco Magnifica.

«Non è certo la stessa cosa di sventrare il pesce in cucina …» il francese interruppe il silenzio con un pensiero espresso ad alta voce, osservando con occhi stanchi il soffitto della camera.
«M-ma dai-
Francia-» Arthur giurò di vedere il labbro di Alfred tremare appena, quasi schifato: non che fare a pezzi gli altri Stati fosse un passatempo piacevole e divertente, in effetti.
«Alfred, quello cos’è?» Arthur aggrottò appena la fronte, senza scostare il proprio sguardo da quello dall’americano.
«Eh? Questo?» e lo statunitense si portò la mano alla guancia destra, sfiorando il cerotto con un dito «ahahah! Già! Guardate qui!»
Alfred si alzò dal letto e spostò appena il comodino ed aprendo uno dei due piccoli cassetti per mostrarlo all’inglese ed al francese, che intanto si era messo pigramente a sedere, aspettando che l’americano spiegasse il tutto.
«È tutto disordinato …»
«Lo so. Questo perché oggi, mentre voi eravate al piano di sotto, il comodino mi è arrivato addosso …»
«C-come ti è arrivato addosso?»
«Sì, addosso.
Ma comunque non è niente di grave, è solo un graffietto!»
Il sorriso di Alfred scomparve non appena vide le facce atterrite degli altri due, poi riprese energicamente «non preoccupatevi: l’eroe ha vinto, ahahahah!»

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Capitolo 9
*** IX - Bugia ***


IX - Bugia



Si narra anche di un certo signor Myers il quale aveva acquistato la casa per andarci a vivere con la futura sposa; egli l’aveva preparata con amore, arredandola e ristrutturandola appositamente per accogliere l’amata, la quale però lo lasciò alla vigilia delle nozze. L’uomo, distrutto, si rinchiuse nell’abitazione tanto amorevolmente preparata, senza mai uscirne, fino a quando morì. Suoi sono – a quanto pare – i passi pesanti e decisi che si sentono notte tempo salire le scale.
Da allora, la casa restò disabitata per più di un secolo e durante quegli anni i vicini sentirono spesso urla, rumori di mobili spostati, di campanelle che suonavano e di finestre chiuse con violenza. Spesso, nonostante la casa fosse vuota, vennero trovati i libri ed i mobili presenti nelle sue stanze in strada, come se qualcuno li avesse buttati di sotto.


Quelle braccia strette al suo corpo riuscivano ad essere estremamente fastidiose, nonostante fossero foderate da un maglione morbido e piuttosto pesante, ed i loro corpi, con la schiena aderente al petto dell’altro ed aderenti fra loro, fossero vestiti e non stretti sotto le coperte.
Gilbert sbuffò appena, portando le mani su quelle del russo ormai addormentato, quasi congiunte al suo petto, per scostarle e allentare quella morsa tiepida intorno al suo corpo.
Quando però un lamento flebile risuonò nel buio, Gilbert, si paralizzò e scostò le proprie mani da quelle del russo, lasciando che continuasse a stringerlo fra le braccia.
L’albino inclinò appena il viso, osservando oltre la sua spalla il viso addormentato dello slavo.
Era davvero umiliante: abbracciato a colui che poteva davvero essere l’assassino a causa di quei suoni sinistri all’interno della stanza buia.
Gli occhi del russo si schiusero lentamente, stanchi, e la testa si inclinò appena, permettendo alle labbra di baciare la testa del prussiano, mentre già le braccia ne approfittavano per stringersi intorno a quel corpo esile «che c’è Gilbert?»
«Mhpf, niente. Mi stai soffocando, id-»
Un altro lamento, più acuto, ed il prussiano non poté che deglutire preoccupato e voltasi lentamente, sulla schiena.
«Li senti?»
«Da …»
«Lo fanno spesso. Quasi ogni notte.»
Ivan si chiese perché Gilbert non lo avesse mai detto o avesse preso l’iniziativa di cambiare stanza, ma la risposta era semplice e la trovò senza troppa fatica: Gilbert si considerava troppo Magnifico per scappare da una stanza a causa di strani rumori notturni. Doveva essere certamente così.
Il russo rimase in silenzio ed allentò appena la presa, lasciando che il prussiano si risistemasse sul fianco, ma questa volta coricato proprio con il viso di fronte al suo.
«Non preoccuparti coniglietto …»
Poteva anche essere davvero lui il colpevole, ma il modo in cui lo stava stringendo, il suo viso che era riuscito a sistemarsi così vicino al suo collo e le sue labbra salde, docili, sulla fronte, erano tutte cose che avevano reso meno sinistri tutti quei rumori intorno a loro.
«Prova a dormire, rimango sveglio finché non ti addormenti, da?»
«Mhpf, così mi accoltelli nel sonno?»
Ivan lo guardò e sorrise dolcemente, stampandogli un bacio a lato delle labbra «noch’»
«Ivan?»
«Cosa c’è?»
«…» le mani del prussiano passarono lentamente vicino ai fianchi dell’altro, arrancando cautamente sulla sua schiena «niente … buona notte.» E il sorriso del russo si ampliò, sentendo le mani esili del prussiano stringersi così tanto intorno alla sua schiena.

Quando Gilbert riaprì gli occhi era ormai giorno e notò nella stanza una luce flebile, quasi cupa, a causa delle immense nuvole scure al di fuori della finestra. Scostò appena il viso, ancora assonnato, e si soffermò sul viso paffuto del russo addormentato accanto, con le guance leggermente arrossate ed il respiro leggero, sereno.
Ivan era decisamente meglio mentre dormiva -non che però cambiasse in positivo-: aveva passato la notte con lui, al suo fianco, lo aveva vegliato, protetto, tenuto stretto a sé, lontano da quei suoni sinistri, ed ora, ovviamente stanco, si era addormentando profondamente vicino a lui.
Forse doveva credergli?
Se fosse stato lui l’assassino, rimaneva l’ipotesi che non avrebbe agito quel giorno, ma quello dopo, perché ogni omicidio era solitamente alternato ad un giorno di paurosa e vuota calma. In più quello poteva essere stato solo un modo per avvicinarlo e poi toglierlo definitivamente di mezzo.
Un lieve lamento distolse l’albino dai suoi pensieri: Ivan aveva aperto gli occhi ed ora, ancora assonnato, si ritrovava appena a strusciare il viso contro il fianco del prussiano.
«Ciao Gil …» e lo strinse con le braccia, chiudendo nuovamente gli occhi.
Gilbert rimase in silenzio, rivolgendo ancora un’occhiata al russo, per poi spingere la testa indietro fino ad adagiarla contro la sponda del letto e negare appena: no, forse Ivan non era davvero il colpevole.
Non gli rimaneva che guardarlo mentre dormiva, ascoltando lo scrosciare pacifico della pioggia oltre le pareti della stanza.

In pomeriggio, il suono della pioggia, si fece più iroso e divenne temporale.
Le luci della casa non riuscivano ad illuminare al meglio la casa nonostante fossero tutte accese, a causa delle nuvole così scure e cupe che, cariche di altra pioggia, ricoprivano il cielo ed avvolgevano la casa con un manto di colore quasi nero.
Nella penombra della casa saettava, ad intervalli di pochi minuti, la luce dorata dei fulmini, mentre gli urli gravi e profondi dei tuoni parevano quasi far tremare le fragili pareti della casa.
Francis e Feliciano erano in cucina, quando tutte le luci parvero scemare e far scendere il buio per qualche secondo.
«Ah sì, Gilbert voleva un bicchiere …» l’italiano si alzò subito dalla sedia, non appena la luce tornò, e prese fra le mani un bicchiere vuoto, portandolo via dal lavandino.
«Ma dov’è?»
«Credo che lui e Germania siano di nuovo nella stanza abbandonata …»
«Vraiment? Ci sono andati senza di me?» il francese sbuffò appena, quasi indignato per il comportamento dei fratelli tedeschi.
«Torno subito.» Feliciano sorrise appena, vedendo l’espressione imbronciata sul volto del francese, poi attraversò velocemente il corridoio, salendo le scale e chiamando pacatamente il nome del prussiano.

D’un tratto, però, le luci morirono ed il buio lo avvolse.

Feliciano si paralizzò e deglutì appena, stringendosi in se stesso non appena il rombo rabbioso di un tuono percosse la casa.
«M-mhn … Gilbert?»
La voce gli tremò. Era come se al secondo piano non ci fosse nessuno: il silenzio era sovrano; Feliciano riusciva a sentire a malapena il suo respiro.
D’un tratto, nel buio davanti a sé, gli sembrò di vedere un docile scintillio, come una leggera polvere argentea fluttuante nell’aria cupa e rarefatta del secondo piano.
«G-Gilbert, sei tu?» trovò giusto un poco di voce per chiedere, ma subito, un suono stridulo ed improvviso proveniente dal fondo del corridoio lo spinse a tapparsi velocemente le orecchie ed abbassare appena il viso, con gli occhi socchiusi.
Come un urlo infinito, addolorato. Si librava nel buio, verso di lui, così come quella luce argentea che pareva quasi aver preso forma e, con la sua evanescenza, correva verso di lui senza fermarsi.
Gli sarebbe arrivata addosso di lì a poco, ma la paura gli aveva paralizzato le gambe, e quel suono era talmente assordante che per qualche attimo credé gli stessero sanguinando le orecchie.

Un colpo improvviso di pistola ruppe quel grido pungente e la luce tornò titubante ad illuminare la scena.

Feliciano era inginocchiato a terra, con il respiro smorzato, gli occhi sgranati oltre le mani che, tremanti, gli nascondevano il viso; il russo alle sue spalle, stringeva saldamente una pistola fra le mani, osservando quasi con rabbia il corridoio vuoto davanti a sé.
«Russia …»
Quando Ivan sentì la voce di Gilbert voltò appena il viso, osservando in silenzio i visi attoniti dei due tedeschi.
Quando poi fece per dire qualcosa vide schierarsi alle spalle di Ludwig e Gilbert anche tutti gli altri, nessuno escluso.
«Tu avevi una pistola. E non hai detto niente a nessuno.»
«Gilbert, lasciami spiegare.»
Il prussiano parve non prestargli nemmeno più un briciolo di attenzione, scostando il proprio sguardo da lui e portandolo all’inglese, che guardandolo annuì lievemente e si fece avanti.
«Hai salvato Feliciano e per questa volta può anche andare, ma quella non va bene.» Arthur indicò la pistola, poi tese la mano verso il russo.
«Russia, aspetta.» il tedesco interruppe improvvisamente il gesto del russo, che stava quasi per adagiare la propria pistola sulla mano dell’inglese.
«Arthur, scaricala qui.»
L’inglese osservò a lungo il tedesco, poi annuì, facendosi dare la pistola dallo slavo.
«Tappatevi le orecchie.»
Germania contò meticolosamente nella propria mente i colpi che venivano scaricati sul pavimento, assicurandosi che nella pistola non rimanesse più neppure un proiettile, e restò in silenzio anche quando Inghilterra, assicurandosi che Russia non avesse altri proiettili nascosti da qualche parte, gliela restituì.
«Quei colpi potevano anche servirci per uccidere l’assassino ed uscire da questa maledetta casa, ci hai pensato Arthur?»
«Ci avrà certamente pensato, Alfred.» Antonio interruppe l’americano, poi continuò «ma … a chi avremmo potuto consegnarla questa pistola? Come facciamo a sapere chi è innocente e chi è colpevole, qui?
Io dico che ormai ognuno dovrebbe pensare per sé.» quando lo spagnolo voltò le spalle al gruppo e scese velocemente le scale, sparendo dalla loro vista, il francese rimase senza parole, ma pensò fosse stata la paura a spingerlo ad eliminare la sua collaborazione, necessaria per riuscire ad uscire da quell’incubo.
Anche Arthur, Alfred e Gilbert, poco dopo, decisero di scendere le scale e rimanere per un po’ dal primo piano, mentre Ludwig e Francis decisero di prendersi cura di Feliciano ed Ivan si ritirò silenziosamente nella propria camera.

Quella sera, ogni progresso fatto il giorno prima con Feliciano, era stato annullato.
Quando lo aveva visto andare in camera di corsa, Germania, era rimasto tristemente ad osservare quel piatto vuoto a capotavola, senza dire una parola. Dedicava solo ogni tanto il proprio sguardo al fratello maggiore, che a sua volta pareva osservare preoccupato il posto di Russia, anch’esso vuoto.

«Feliciano?»
Triste e silenzioso, come pensava di trovarlo.
Germania rimase ad osservare quei ciuffi di capelli che facevano capolino fra le coperte pesanti in cui il fragile italiano si era avvolto quasi come se avesse voluto nascondersi da tutto.
«Feliciano, se non mang-»
«Germania …»
«… Mh?»
«Pensa a te.»
Germania si sorprese di quella risposta ed aggrottò appena la fronte, rimanendo in silenzio.
«Pensa a te, perché credo che diventerò pazzo …»
E quelle furono le ultime parole della serata.
Germania optò per sedersi in fondo al letto dell’italiano e rimanere a vegliare su di lui senza muovere più un muscolo.
In quella circostanza non gli piaceva per niente propendere per un’ipotesi pessimista, ma sospettare che quello fosse stato solo un preavviso, in quanto il giorno di morte doveva ancora venire, era davvero inevitabile.

«Gut, meglio se vado in camera adesso.»
«Ah, oui, si è fatto tardi. Allora buona notte Gilbert~♥»
Con un cenno leggero della mano, Gilbert, salutò il francese e rientrò subito in camera, osservando la porta con la coda dell’occhio: sarebbe stato più tranquillo se fosse stato chiuso a chiave, sapendo che il primo dei sospettati era a pochi metri da lui.
Gilbert sbuffò appena, dirigendosi alla scrivania. Sfogliato il diario e trovata la pagina prese la penna e le tolse il tappo, ma non appena la punta sporcò appena la carta di inchiostro qualcuno bussò alla sua porta.
«Chi è?» l’albino domandò quasi con voce svogliata, senza muoversi dalla sedia.
Il silenzio che seguì lo spinse ad aggrottare la fronte confuso e chiedere ancora una volta.
In risposta ricevette ancora una volta il silenzio della casa.
«Mhpf, Scheiße-» sibilò appena alzandosi dalla propria sedia e raggiungendo la porta innervosito da quel silenzio, da quell’affronto: quale fantasma muto osava non rispondere alle domande della sua Magnifica persona?
Gilbert aprì la porta estromettendo del tutto la propria delicatezza, per poi strepitare non appena mise a fuoco la figura davanti a sé.
«Idiota, perché non hai risposto alla mia domanda?!»
«Se lo avessi fatto non mi avresti lasciato entrare. Dico bene?» il russo inclinò appena il viso, sorridendo lievemente, ma lo sguardo contrariato dell’albino fece subito morire quella piccola speranza di convincerlo ancora della sua innocenza, quella che aveva coltivato dentro sé da quando, dopo l’accaduto, si era chiuso in camera senza più uscirne.
«Lasciami stare Russia.» Gilbert fece per chiudere la porta, ma la mano destra del russo, tempestivamente, si spalancò e bloccò la porta, fermando il gesto rabbioso del prussiano.
«Gilbert, per favore, ascoltami-»
«Quante volte ancora mi dirai questa cosa? Devo sempre starti a sentire e credere a qualsiasi cosa tu dica, ja? Tsk! Sei odioso.»
«Ma è ovvio che devi crederci! Se dico la verit-»
«Tu? La verità?» Gilbert sbuffò appena, per poi negare lievemente con la testa ed allentare la spinta sulla porta.
Rimasero entrambi in silenzio, finché le mani non smisero di spingere la porta.
Ad un certo punto, Ivan, annuì appena e sorrise rivolgendo il proprio sguardo all'albino.
«Allora buona notte.» e chinandosi appena in avanti riuscì a rubare un bacio alle labbra del prussiano, senza lasciargli tempo di dire nulla e subito voltandogli le spalle diretto alla sua camera.
Cercò di non ascoltare le lamentele di Gilbert, o la porta che veniva nervosamente sbattuta alle sue spalle.
Ecco, adesso sì che aveva mentito a Prussia. Gli aveva mentito con quel sorriso.

Seduto nel buio della sua camera, Russia, lasciò che una lacrima gli accarezzasse dolcemente il viso e gli bruciasse il cuore.

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Capitolo 10
*** X - Veleno ***


X - Veleno



Verso la fine dell’Ottocento, ancora un fatto inquietante segnò l’edificio: un certo signor Dupre andò ad abitarvi e rinchiuse in una stanza dell’ultimo piano il fratello, un ragazzo malato di mente e considerato talmente pericoloso che gli si dava da mangiare attraverso una feritoia nella porta, senza mai lasciarlo uscire. Questa stanza divenne, dopo la morte del ragazzo, quella che ancora oggi viene chiamata “la stanza infestata”.
Ed è proprio qui, che avvennero i fatti più atroci, dove quei poveretti i quali – per sfida o per caso – vi si sono trovati a trascorrere la notte non sono sopravvissuti allo shock.


Le labbra fini si schiusero lentamente, lasciando scivolare via dalla bocca diverse volute di fumo ora sospese in piccole macchie argentee davanti ai lineamenti aguzzi dell’inglese.
Con la sigaretta stretta fra le dita della mano e le braccia appoggiate alle ginocchia, Arthur, era seduto sul pavimento con la schiena adagiata ai mobili della cucina ed il sangue impregnato sul viso, nel candore della camicia. Lo sentiva perfino fra le dita delle mani, ed era estremamente fastidioso.
Francis compresse la sigaretta contro un piattino di vetro e spense la cenere bruciante al suo interno.
«Arthur?» il francese si schiarì appena la voce, osservando l’inglese seduto a terra «non è il caso che tu ti faccia una doccia?»
Arthur rimase in silenzio, aspirando una grossa boccata di fumo per poi risputarla fuori «mhpf, sì-»
«Mi occupo io della colazione, cher~♥» Francis sorrise allegro ed Arthur, nonostante avesse voluto occuparsi della cucina con tutto se stesso, optò che fosse davvero necessario ripulirsi da tutto quel sangue che, riducendo a pezzi la bielorussa, era ormai impregnato in ogni piccolo anfratto delle vesti.
Francis rimase ad osservare l’inglese allontanarsi dalla stanza, ovviamente soffermandosi su un certo particolare finché la voce squillante ed improvvisa dell’americano non lo fece sussultare: sembrava quasi che Alfred fosse rimasto ad osservare la scena per tutto quel tempo e ora si fosse staccato dal muro con aria stanca.
«Francis?» l’americano aggrottò appena la fronte, osservando lo spazio oltre la porta che l’inglese aveva lasciato vuoto, e poi di nuovo il francese.
«Riguardo ciò che ci siamo detti l’altra sera …» Francis lo vide esitare e stringere appena i denti «su Arthur …»
«Sì?» Francis intese al volo che si stava parlando dei sospetti rivolti ad Arthur.
«Ha accettato senza problemi di andare a fare la doccia. Dopo ciò che è successo a Romano.»
Francis sentiva amarezza nella voce dell’americano, e non poté che aggrottare la fronte crucciato, dandogli la schiena per aprire una delle credenze e porre l’attenzione al suo interno.
«Tu pensi davvero che Arthur …?»
«Io non lo so, ma non vorrei …»
Francis rimase in silenzio, osservando preoccupato quel misero strato di caffè ben visibile all’interno di un sacchettino trasparente, di fianco all’ultimo pacco di biscotti integrali: le provviste iniziavano a scarseggiare rovinosamente.
Con una smorfia insoddisfatta scosse appena la testa e parve ritornare alla realtà.
«Non vorrei neppure io, Alfred.»
No, nessuno dei due voleva che quel ragazzo da loro tanto amato si macchiasse di crimini così gravi ed estremamente macabri. Entrambi avrebbero fermamente rifiutato la realtà, se davvero fosse stata quella.

Il suono acuto ed improvviso della sveglia percosse il tedesco dal suo stato di dormiveglia, facendolo sussultare appena.
Le mani del tedesco si scostarono dal viso e i gomiti dalle gambe, e subito gli occhi color del ghiaccio si rassicurarono nel trovare la figura dell’italiano ancora addormentato ed evidentemente intenzionato a rimanere chissà ancora per quanto tempo sotto le coperte: no, questa mattina sarebbe riuscito a farlo alzare e a fargli fare colazione. Non gli avrebbe permesso altre alternative.

Con gli occhi ancora stropicciati dal sonno ed uno sbadiglio rumoroso, Gilbert lasciò la propria camera, pronto ad avviarsi al piano di sotto per la colazione, ma dovette subito arrestare i propri passi, trovandosi di fronte la figura del russo, anch’esso uscito dalla propria camera in quel momento.
Anche Ivan arrestò i propri passi ed entrambi rimasero a guardarsi nel silenzio della casa.
Anche se il colpevole fosse stato Ivan, Gilbert, era incontenibilmente curioso di sapere se anche altre cose con lui, oltre agli abbracci, fossero piacevoli, ed Ivan, perfettamente coscienzioso della totale assenza di fiducia da parte di Gilbert, continuava ad amarlo e volerlo con tutto se stesso.
Entrambi volevano sfinirsi dell’altro, insaziabili di un rapporto impossibile.
Ivan sospirò affannosamente, adagiando una mano sulla porta ed una sul petto del prussiano, baciandolo con voracità sulle labbra e continuando, nel sentire le braccia dell’albino circondargli il collo, per poi entrare nella stanza con lui.

Ludwig era in parte soddisfatto nell’essersi assicurato che Feliciano mangiasse quella misera colazione, ed in parte nervoso, per l’assenza prolungata del fratello e del russo, oltre che dell’inglese.
Quando anche Arthur li raggiunse, poi, fu chiaro anche a tutti gli altri quanto accentuata fosse la sua ansiosa preoccupazione: Gilbert si stava cacciando in grossi guai -come al solito- e non poteva desiderare una conferma più chiaro di così.
«Hallo Bruder!» la voce gracchiante del fratello lo riportò improvvisamente alla realtà.
In silenzio rivolse una rapida occhiata a Gilbert, poi squadrò il russo, bofonchiando un saluto di risposta al fatello.
Tuttavia anche per Gilbert, incontrati i sorrisi maliziosi di Francis e Antonio, quella situazione divenne piuttosto snervante ed estremamente disonorevole.

«Gilbert, posso parlarti?»
Alla domanda del tedesco, il prussiano si arrestò sulle scale e voltò la testa in risposta, osservandolo in silenzio.
«Emh …» no, non era certo da Ludwig ficcare il naso negli affari altrui, ma quello era pur sempre suo fratello, vero?
«Scusa. Dov’eri prima?»
«Perché?» Gilbert aggrottò appena la fronte, senza muoversi dalla sua postazione.
«Tu ed Ivan avete ritardato …»
«Ah West! Non è successo nulla!» Gilbert scosse svogliatamente una mano e tornò a salire le scale, allontanandosi dal fratello.
Ludwig giurò di sentire del nervosismo in quella voce e forse Gilbert se n’era andato così velocemente e silenziosamente proprio perché non voleva finire a litigare.
Gilbert non era certo arrabbiato con Ludwig, ma era meglio sfuggire per un po’ a quelle domande pungenti.
Fra arrabbiato con Russia, ma ancora di più con se stesso, con quel prussiano così Magnifico ma davvero cocciuto per accettare gli errori che sarebbero nati da tutto ciò che riguardava lui ed Ivan.

Amicizie ed amori si venano.
Si sospettano tradimenti e nascono gelosie.
Come fiamme dalla cenere ardente o foglie di smeraldo dalle terre fertili, fioriscono gli odi. Fiori del male che solo la pazzia può coltivare.
Non esistono più sorelle e fratelli.


Francis adagiò la bottiglia di vino vuota sul lavandino, raggiungendo il tavolo dove era adagiato un bicchiere riempito quasi a metà con del vino rosso.
«Di questo passo moriremo di fame. Preparando la colazione mi sono reso conto che ormai le provviste scarseggiano paurosamente …» arrestò le sue parole, sorseggiando un poco di vino dal bicchiere delicato che stringeva nella mano.
Arthur annuì appena, finendo di bere il tè ed adagiando placidamente la tazzina sul piatto bianco.
«Potremmo anche farne a meno della colazione …» sembrò quasi pensare a voce alta.
«Parli tu che ciucci tè ogni ora.» Francis parve sorridere divertito e per poco Arthur non lo ricambiò.
«Il pranzo e la cena, piuttosto?»
«Penso che per qualche giorno riusciremo a metterle insieme tutte e due, ma poi …»
«I understand-» Arthur annuì appena, mentre Francis adagiava il bicchiere vuoto davanti a sé, evidentemente immenso nei propri pensieri “Arthur è sempre sulla scena, mette sempre le mani dove potrebbero esserci infinite prove, non mostra il minimo di paura, ed è così freddo … anche quando macella i corpi esanimi di tutti gli altri.” Francis aggrottò appena la fronte, con gli occhi fissi ed insistenti davanti a sé, senza neppure accorgersi che ora, Arthur, lo squadrava crucciato e confuso.
«Francis?»
“E poi è vero … è l’unico che ha avuto il coraggio di entrare in quella maledetta doccia, o quello che ha trovato il marchingegno nel pianoforte.
È lui che ci aspettava qui, a Berkeley Square, ancor prima che arrivassimo …”

«Ehi idiota!» al richiamo rabbioso del britannico, Francis scosse appena il viso e gli rivolse un’occhiata confusa.
«Dis-moi!»
«A proposito del pranzo, sarà meglio che andiamo al piano di sopra a prendere qualche verdura …»
«Oh, Angleterre, cucino io-»
«Io.»
«Non~♥» ma nonostante i sospetti, era così bello stare insieme a lui.
«Vuoi avvelenarli tutti, Francia?»
«Mhpf, piuttosto cuciniamo insieme, teppistello!» tanto avrebbe fatto tutto lui, ma intanto avrebbe potuto parlare con Arthur.
L’inglese sbuffò appena, poi, alzatosi, lo incitò con un gesto della mano «let’s go!»

Arrivato al secondo piano, Arthur, si arrestò a metà del corridoio, non sentendo più i passi di Francis dietro di sé.
«Mh?» quando voltò la testa e lo vide con la schiena aderente alla porta della prima camera aggrottò la fronte confuso «che fai lì, idiota?»
Il francese non rispose, e vedendolo con il viso basso, Arthur non poté che affiancarsi a lui ed adagiargli una mano sulla spalla, vedendolo con gli occhi socchiusi ed il respiro affannato.
«… Francis?» gli scosse appena la spalla con la mano «ehi?» e con la voce quasi parve assumere un tono più dolce, impaurito.
«A-Arthur …» il francese deglutì a fatica ed Arthur lo sentì tremare sotto le sue mani.
«Che ti succede? E-ehi idiota, non fare scherzi …»
«N-no … sto male, Arthur …» lo vide portarsi al petto una mano tremante, ed assumere sul viso una smorfia di dolore, scossi da brividi che quasi percossero anche la sua persona, usando come tramite le mani, ora entrambe adagiate sulle spalle del francese.
In un attimo, le guance del francese, parvero gonfiarsi appena, e con un colpo di tosse, un rivolo di sangue abbastanza cospicuo gli uscì dalla bocca, colando velocemente sulla pelle e raccogliendosi in una grande goccia rossa sulla punta del mento.
L’inglese sgranò gli occhi, sentendolo scivolare «Francis?!»
La voce dell’inglese si fece più alta e timorosa, mentre si chinava sull’altro, ormai seduto a terra con il respiro smorzato.
«Cazzo! Francis!» lo scosse appena, e non si accorse neppure che gli angoli degli occhi si erano formate due lacrime brucianti «France! Don’t be stupid!»
No, ma Francis non stava facendo lo stupido.
«Arthur …» il francese tossì ancora, sputando sangue e tremando, fino ad inclinare il viso e vomitare sangue con un colpo di tosse soffocato.
L’inglese rimase in silenzio, stringendo con le mani le spalle dell’altro e lasciando che una lacrima si allontanasse dalle ciglia bionde nelle quali si era imperlata per solcargli la guancia.
«Shit …» sibilò fra i denti, aggrottando la fronte tremante, osservando le chiazze di sangue sul pavimento ed intravedendo, insieme alle tracce di vomito, piccole macchie più scure, quasi nere.
«È … veleno, vero?» il francese tossì ancora, debolmente.
«Please …» quasi incredulo, Arthur, si ritrovò a sussurrare debolmente, finché una voce alle sue spalle non uccise le lacrime sul suo volto.
«Cosa succede?!»
Quando Arthur voltò il proprio viso vide America, Russia e Germania in piedi alle sue spalle.
Non si scostò neppure per un attimo dal francese: si limitò a guardare gli altri con sguardo rassegnato, finché il corpo tremante sotto le sue mani non parlò flebilmente.
«É-écoutez-moi …»
Anche Arthur si voltò, e dando le spalle agli altri già sembrò che le lacrime tornassero ad invadere gli occhi e pizzicarli divertite.
«Non ci sono quasi più provviste .. fra poco rimarrete senza pranzo, o cena …» tossì ancora, socchiudendo gli occhi senza più guardare i visi attoniti degli altri quattro Stati di fronte a lui.
«Mangiatemi …» lo disse così velocemente che Arthur non fu sicuro di aver udito bene ogni singola parola.
«Co-cosa stai dicendo, idiota?!» Alfred aggrottò appena la fronte, quando sentì la voce di Arthur così tremante e spaventata «non dire stupidaggini-!»
«Arthur … non ce la fareste …
Mangiatemi e basta.» riuscì a dire con una voce ormai inesistente e gli occhi lucidi. Poi tornò a guardare l’inglese, ormai in lacrime, anche se solo lui poteva vederlo, e gli sorrise flebilmente, arrancando sul petto con la mano, spaventato nel sentire il respiro sempre più scarso, vedere gli ultimi attimi di vita farsi sempre più cupi.
«Ti prego Arthur …» trovò solo la forza per un ultima manciata di parole «dimmi che non sei tu … il colpevole-»
E spirò, con quella che sembrava più una supplica, piuttosto che una speranza, inclinando il viso verso il basso, finché il corpo non si riversò completamente sul pavimento: così erano scoccate le undici.
«No …» Arthur negò fermamente con il viso ciò che gli era appena capitato davanti agli occhi, sotto le mani, e si alzò velocemente, dirigendosi verso il piano di sotto «non ce la faccio-» e poi sparì dalla vista degli altri tre.

Tornato in cucina, Arthur, si occupò del bicchiere da vino e della bottiglia di rosso che, poco prima, Francis aveva lasciato vuoti.
Con la schiena inarcata e la testa bassa, gli occhi chiusi, mentre le lacrime si spezzavano nel lavandino, pensò fosse una situazione davvero umiliante.
«Arthur?» la voce dello spagnolo interruppe le lacrime dell’inglese, che in un primo momento rifiutò di voltarsi.
«Cosa è successo?» anche Gilbert era lì alle sue spalle, con a sua voce roca e fastidiosa.
«Francis è …» a quelle parole già gli occhi dello spagnolo e del prussiano si sgranarono increduli, e le iridi lucenti divennero poco a poco tristemente cupe e vitree.
«Como …?»
«Veleno.
Stupido veleno.» l’inglese lasciò cadere il bicchiere nel lavandino ed il vetro si infranse in un rumore squillante.
«E a quanto pare sarà la cena di stasera.» sibilò acidamente, trattenendo a fatica un rantolio di rabbia.
Antonio aggrottò la fronte confuso, incredulo, mentre Gilbert arretrò spontaneamente, imboccando il corridoio e salendo velocemente le scale, diretto al piano di sopra.
Arrivato poté vedere Ludwig, Ivan ed Alfred discutere su cosa farne del corpo dell’amico, riverso esanime sul pavimento.
«Gilbert?» Ivan lo chiamò flebilmente, ma l’albino lo ignorò del tutto ed entrò nella propria stanza, subito adagiando la schiena contro la parete, lasciandosi scivolare fino a terra con una mano davanti alla bocca, in preda ad un conato.
Dovette chiudere gli occhi, che a causa del leggero stato di lacrime ora li riempiva bruciavano fastidiosamente, mentre deglutiva a fatica, cercando di contrastare quella nausea fastidiosa che ora gli attanagliava la gola e lo stomaco.
«S-Scheiße-!» si ritrovò a borbottare poco prima di essere percosso da un altro conato.
Ad interrompere quello che aveva tutta l’aria di essere un preavviso del cibo nello stomaco del prussiano, fu il cigolio della porta della camera, che venne aperta e richiusa rapidamente.
Quando Gilbert alzò appena il viso vide Antonio con la schiena aderente alla porta e lo sguardo fisso su di lui: uno sguardo triste, incredulo, confuso.
C’erano tutti i sentimenti negativi del mondo, in quello sguardo.
Gilbert rimase in silenzio, vedendo l’iberico avvicinarsi e poi sedersi al suo fianco, in silenzio, adagiandogli una mano sulla spalla «rimango qua con te …»
Il prussiano annuì appena: gli avrebbe sorriso, con quel ghigno sempre vivace e divertito, se avesse ignorato la morte di uno dei suoi migliori amici.
«Danke.»
«De nada-
E poi, io …» continuò «non vorrei mai diventare … cannibale …» aumentò appena la presa sulla spalla dell’albino, lasciando scivolare la testa all’indietro, fino ad adagiarla alla parete.
«Spero che anche West la pensi così …»
Lo spagnolo annuì appena, poi sospirando appena «che facciamo?»
«Parliamo?» rispose semplicemente l’albino.
«Buona idea, amico.» ed Antonio trovò la forza per un sorriso appena accennato, rivolgendo un’occhiata impensierita all’albino e poi subito abbandonando quell’espressione apparentemente speranzosa.

Il russo fermò improvvisamente la propria mano chiusa a pugno a pochi millimetri dalla porta, ritirandola lentamente: erano passate ore da quando Gilbert si era chiuso in camera, e non lo aveva più visto uscire.
Che cosa avevano fatto di male, dopotutto? Avevano soltanto scelto la strada della sopravvivenza, seppur in modo macabro e nauseante. Seppur si fossero ridotti a miseri cannibali.
Ivan scosse appena la testa e si convinse dell’idea precedente: bussò alla porta del prussiano ed attese una risposta.
Ormai esausti di tutte quelle parole e dal pensiero che un membro del trio fosse stato designato come la vittima del giorno, Gilbert ed Antonio si erano addormentati come sassi con le schiene adagiate ad una parete della stanza e le teste che sembravano sorreggersi l’un l’altra.
Esausto, Gilbert, schiuse a fatica gli occhi, svegliando l’amico, quando scostò la testa e si alzò faticosamente in piedi, raggiungendo la porta.
Aperta cautamente la porta e ritrovatosi davanti Ivan, il prussiano non poté che sbuffare innervosito, mentre Antonio gli passò di fianco e, con una pacca sulla spalla, decise di congedarsi da entrambi «ci vediamo domani ragazzi, buenas noches!»
Gilbert non ebbe il tempo di contestare la decisione dell’iberico, che già si stava avviando al piano inferiore, e allora lasciò che i suoi occhi si soffermassero sulla sagoma del russo: lo ammetteva, aveva sperato che anche ad Ivan balenasse in mente di saltare la cena, seguire l’idea di Antonio, ma sapeva benissimo di cosa era capace quello che aveva davanti, e conoscendolo così bene era lecito pensare che anche lui avesse appena finito di divorare il suo amico, proprio come tutti gli altri.
«Scusa, stasera preferisco dormire da solo. Gute Nacht.» questa volta, però, Ivan decise di non insistere e non lo contestò: lasciò semplicemente che gli chiudesse la porta in faccia.

«Finalmente ho mangiato! Veh~!»
Quando Germania sentì quelle parole non poté fare a meno che scostare velocemente il proprio sguardo dal libro che stava leggendo a Feliciano.
Al contrario di lui, Feliciano, non si era fatto tanti problemi a mangiare la carne di un altro Stato, ma Germania non pensò fosse tanto per provare, o per fame disperata, piuttosto … per pazzia.
Forse il suo amico aveva ragione, forse quella casa avrebbe reso Feliciano davvero pazzo di lì a poco.

«Erano solo … delle stupide riviste …» risistemate le riviste sotto al letto vuoto di Francis, Arthur, si scostò dal pavimento e si sedette silenziosamente sul suo, ripensando a quando lui ed Alfred lo avevano sorpreso a nascondere furtivamente qualcosa proprio in quel punto.
Solo sciocche riviste.
E ora lui si ritrovava ad osservare con occhi vitrei e tristi quel letto vuoto di fronte al suo.
Sospirò appena, abbassando la testa e lasciando che le braccia dell’americano gli circondassero silenziosamente il corpo e le labbra si adagiassero appena sulla sua spalla sinistra.
«Arthur, appena usciremo di qui lo rivedrai …»
«Mhn-»
«Cerca di dormire, ora.» Alfred lo strinse un poco di più, abbassando lentamente la testa e lasciando che la fronte aderisse alla sua spalla, finché il viso dell’inglese non si inclinò appena verso sinistra, incontrando i capelli biondi dell’altro.
«Ci sono qua io …»
Ed un fulmine squarciò crudelmente la notte.

Dopo un rumore più acuto ed insistente degli altri, quasi assordante, Gilbert smise di rivoltarsi fra le coperte e si mise a sedere deglutendo appena.
Insieme allo scrosciare della pioggia proveniente da fuori, riusciva ad udire perfettamente qualsiasi suono spiritato all’interno della stanza, quasi percepiva un’aura fredda ruotare placidamente intorno a lui, soffocandolo a poco a poco.
Quando una folgore illuminò la stanza per un solo attimo, e in quella frazione si secondo gli parve di scorgere una sagoma scura ed informe ai piedi del suo letto, decise che era davvero troppo.

La porta cigolò appena e si richiuse in un piccolo sbuffo delicato; a passi felpati, Gilbert, si diresse cautamente verso il letto dell’altro, e si soffermò ancora una volta su quel viso addormentato.
Tutto ciò era davvero poco Magnifico, ma la stanza che lo ospitava non era certo degna di lui più di quella in cui si trovava ora: lentamente si coricò al fianco dell’altro, avvicinando appena il corpo, sentendo improvvisamente le braccia del russo intorno al suo corpo e le labbra schioccargli un dolce bacio sulla fronte.
«Buona notte, coniglietto ♥»


Una risata soffocata, nel buio della casa.
Un sorriso sghembo e perverso, su un volto illuminato dalla luce del fulmine.

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Capitolo 11
*** XI - Buio ***


XI - Buio



Diversi anni dopo, un nobile scettico, per una sorta di scommessa con degli amici che facevano parte di una società di investigazione del paranormale, decise di passare la notte nella stanza infestata per dimostrare loro che non vi era nulla da temere. Ad ogni modo, per sicurezza, il gruppo installò una campanella che sarebbe servita all’impavido giovane per chiamare gli amici (i quali avrebbero passato la notte al pian terreno della stessa abitazione) in caso di bisogno; egli portò con se anche una pistola. Poco dopo la mezzanotte, la campanella cominciò a suonare con violenza e subito dopo sentirono uno sparo. I giovani corsero al piano di sopra, sfondarono la porta e trovarono l’amico morto, in piedi contro il muro con ancora la pistola fumante in mano, lo sguardo terrorizzato, anche lui con gli occhi che quasi gli schizzavano fuori dalle orbite. Nel muro di fronte c’era conficcato il proiettile sparato, ma nella stanza non c’era niente o nessun altro.

Una storia simile venne raccontata da Lord Lyttleton, il quale però sopravvisse: anche lui per una scommessa, anche lui armato, trascorse una notte nella stanza infestata. Ad un tratto, nella penombra, gli sembrò che qualcosa gli saltasse addosso, aggredendolo. Sparò un colpo di pistola, ma quando accese la luce, non vide nulla.


Con le dita strette alla maniglia della porta, Arthur, sembrava essersi accanito su di essa, abbassandola più volte con la fronte aggrottata ed un brontolio nervoso sulle labbra: niente. Chissà quando gli spiriti sopiti all’interno di quella casa gli avrebbero permesso di uscire …
Immerso nei propri pensieri scostò lentamente la propria mano e rimase ad osservare le bende bianche che ancora la fasciavano stretta, nascondendo il segno lasciatogli da Natalia qualche giorno prima.
«What’s up?» Alfred gli porse una tazza di tè caldo, che Arthur afferrò silenziosamente fra le mani, squadrando per qualche attimo l’americano.
«Che domanda idiota, America.» sbuffò appena, adagiando le labbra sul coccio tiepido della tazzina: scontroso, ma ovviamente disposto ad accettare di buon grado il tè caldo che Alfred gli aveva appena portato.
Alfred sapeva perfettamente quanto suonasse sciocca quella domanda, ma almeno aveva sentito la sua voce.

Poco dopo mezzogiorno erano ormai tutti in tavola ed ora, Gilbert, che aveva appena finito di guardare lo spagnolo ed il suo piatto, pieno di verdure, si era soffermato sulle misere patate e le foglie di lattuga nel suo.
Sia lui che Antonio, ancora sospettosi del tipo di carne che avrebbero potuto ritrovarsi nel piatto, avevano deciso di rinunciare alle proteine, accontentandosi di qualche misera verdura.
Da una parte, lo spagnolo, aveva perfino detto che era una cosa giusta, perché avrebbero risparmiato due importanti e sostanziose porzioni di carne che sarebbero sicuramente servite in futuro.
«Gilbert?»
Il prussiano alzò appena lo sguardo, incontrando quello del russo.
«Sicuro che quello basti?» continuò con voce cantilenante lo slavo, indicando il suo pranzo sotto lo sguardo giudice del tedesco.
«Ja.»
«Mhn-» Ivan brontolò appena, e quando il minore dei Beilschmidt fece per dire qualcosa, un rumore improvviso e ben udibile, nonostante fosse evidentemente lontano ed ovattato, interruppe il pranzo.
«Cos’è?» l’americano si alzò velocemente, e così anche il tedesco, senza dire una parola, in un gesto quasi automatico.
In seguito ad un altro rumore, più profondo ma proveniente dallo stesso punto, come se qualcosa di pesante si fosse riversato a terra, anche gli altri si alzarono, seguendo il tedesco e l’americano.
«Sembra che venga da questa porta …» borbottò l’americano.
«Ja, peccato che …» Ludwig sbuffò, con una spallata alla porta «è sempre chiusa-!»
Il tedesco diede un’altra spallata, più forte, ma la porta nemmeno tremò.
«Io credo che da qualche parte dovrebbero esserci delle chiavi.
A meno che lui non le abbia già trovate.»
Arthur sottolineò il soggetto con nervosismo, e tutti si voltarono confusi verso di lui: davanti a tutti erano state le prime e le ultime parole della giornata.

Dopo sera, nel salotto, Gilbert era immobile alla finestra, osservando la strada percossa dalla pioggia e tutte quelle persone che camminavano placidamente sotto gli ombrelli scuri, ignare di tutto.
Inarcò appena la schiena, quando sentì le braccia del russo circondargli il corpo, adagiandogli il mento sulla spalla «stanotte dormiamo insieme?»
«Sì, ma …» Gilbert sospirò appena, quasi intimidito nell’accettare quella proposta, poi continuò «ma di nuovo da te.»
«Da! ♥»
Nella camera del prussiano i rumori erano diventati troppo insistenti e quasi assordanti: Gilbert non avrebbe resistito una sola notte di più, chiuso lì dentro.

Un tuono percosse la casa, e l’americano, ancora sveglio a causa del temporale, si girò sul fianco sbuffando, con il viso stropicciato da un sonno impossibile da soddisfare. Si soffermò sulla figura dell’inglese, che ora gli stava dando la schiena.
Dopo qualche attimo lo vide stringersi in sé, come infastidito, intuendo che anche Arthur avesse qualche problema ad addormentarsi a causa dei tuoni, dei fulmini e della pioggia.
Si decise: si alzò e lo raggiunse, coricandosi lentamente al suo fianco e stringendolo appena, con il torace aderente alla sua schiena.
Non appena Arthur sentì le braccia dell’americano intorno al torace brontolò, ma socchiuse gli occhi, portando una delle mani a quelle dell’americano, congiunte sul suo petto: non c’era niente di male a dormire insieme per proteggersi a vicenda, dopotutto.

Una grande stanza bianca, e su quattro pareti il liquido rosso dell’orrore, l’odore metallico di sangue che attanaglia le narici e la gola.
Dieci schiene martoriate, dieci corpi insanguinati aderenti alle pareti.
Dieci teste inclinate verso il basso e dieci respiri ormai assenti.
Lui era davanti a loro, e li guardava: suoi amici, suoi conoscenti, tutti morti, davanti ai suoi occhi. Eppure, in quel catasto di corpi, non riusciva a trovare il suo amore.
Lui doveva essersi certamente salvato, sì. Doveva essere per forza così, perché non avrebbe permesso altre ipotesi.
Sentì un sorriso nascere sulle sue labbra: lui era al sicuro, ed era ciò che davvero importava.
Poi volle pronunciare scioccamente il suo nome, cercandolo con gli occhi senza darsi per vinto.
Non fece in tempo a chiamarlo una seconda volta: due mani fredde, strette intorno al suo collo, gli smorzarono il respiro, facendosi sempre più strette, di secondo in secondo. Vedeva il sangue anche sul viso di Romano: usciva dalle labbra, copioso, ed arrivava a tingere il collo e tutto il colletto della camicia, in un puzzo fin troppo pungente per le sue narici, ma non riusciva a tossire, a parlare, o semplicemente a fermarlo. Sembrava quasi posseduto, non era il suo Romano, e di lì a poco, quelle mani intorno al suo collo, avrebbero estinto per sempre il suo respiro …


Quando Antonio si mise velocemente a sedere, in un singulto soffocato, si portò entrambe le mani al collo, massaggiandolo freneticamente, cercando di estinguere quella sensazione di gelo sulla propria pelle e con il respiro affannoso e quasi impossibile da gestire.
«R-Romano …» si ritrovò a sussurrare con la voce tremante, scostando cautamente le mani dal proprio collo e portandole a conca sul viso per nascondere la propria tristezza a quel vuoto tanto struggente che l’italiano si era lasciato dietro di sé.

Arthur schiuse pacatamente i propri occhi e, con il viso stropicciato dal sonno, si voltò lentamente verso l’americano che, guardandolo, sorrise e strinse le braccia intorno al suo corpo.
«Ha finito di piovere. Come stai?»
«… Sto bene …» abbassò la testa, facendo aderire la fronte al petto dell’altro con un borbottio quasi nervoso: sapeva che Alfred era stato uno di quelli che aveva cenato con la carne di un “fratello”, e tutto ciò gli dava molto fastidio. Era un fatto ormai inciso nei giorni della storia, e non poteva permettersi di ignorarlo così egoisticamente.
«Non mi sembra …»
«Shut up-!»
A quel sibilo nervoso, Alfred, non poté che sospirare tristemente, allentando la presa sul corpo dell’inglese.

Nonostante lo stomaco fosse ancora totalmente chiuso per colpa dell’amarezza e dello sconforto, all’ora di pranzo, Antonio aveva trovato la forza di strisciare fuori dalle coperte e trascinarsi fino in sala, ma ora dava libera immagine alla sua inappetenza, osservando apaticamente il pranzo sistemato nel suo piatto.
Eppure, quando decise di sollevare la testa per assicurarsi che Gilbert stesse mangiando almeno qualcosina, notò di non essere l’unico che, a quel tavolo, era seduto con un’aria veramente affranta sul volto: Arthur, con la testa bassa ed il palmo di una mano aderente ad una guancia, quasi giocava con il cibo che aveva nel piatto, al posto di mangiarlo.
Quasi tutti avevano perso una persona importante dentro quella casa. L’unico che ancora non aveva perso nessuno di troppo importante come un fratello o un storico “nemico-amico” era …
Quando Antonio mise a fuoco nella propria mente l’immagine di chi ancora si poteva ritenere fortunato sgranò appena gli occhi, deglutendo: Gilbert?
Possibile che? No, si era sentito in colpa per Roderich, e appena due giorni fa, quando Francis era stato ucciso, avevano passato tutto il giorno insieme, a parlare per consolarsi a vicenda. Non poteva trattarsi di Gilbert, non doveva.
Non il suo amico.

Il pranzo s’interruppe all’improvviso, quando una nota delicata risuonò al piano di sopra.
I presenti rimasero a bocca aperta, guardandosi negli occhi spauriti, increduli per quella melodia semplice che così velocemente si stava diffondendo in tutta la casa.
Germania decise di concentrarsi più attentamente sul suono, ora più grave, del pianoforte, ma in qualche attimo fu eseguita l’ultima nota e poté udire chiaramente alcuni passi pesanti che parevano essere sulle scale.
«Vieni, andiamo in cucina!»
«Ja.»
Germania non fece inizialmente caso a quelle due voci e rimase nel più totale silenzio, poi scosse appena la testa, intravedendo Gilbert che si allontanava alle spalle di Ivan: ma come aveva fatto quello a convincerlo così velocemente? Si era distratto solo un attimo, e subito, quel russo, aveva abbrancato Gilbert come solo un’aquila poteva fare con una lepre, allontanandolo da lui senza alcuna esitazione.

Le lancette proseguirono timidamente la loro marcia, fino a segnare le quattordici, poi le quindici, e così via.
Ancora una volta, Arthur, stava tentando di ignorare la sua mano ferita per aggiustare la macchinetta del caffè, armeggiando con attenzione un grosso cacciavite arrugginito, ma con scarsi risultati, mentre l’americano osservava annoiato l’orologio, sbuffando appena «perché non lasci fare all’eroe?! ☆»
«Pft, sei un idiota, non un eroe.»
Antonio, intanto, dopo aver passato due ore isolato nella propria stanza, aveva deciso di fare una capatina dai vicini, nella speranza che il tempo in compagnia di Feliciano e Ludwig passasse più velocemente.

Solo per due di loro il pomeriggio stava proseguendo velocemente.
La risata roca di Gilbert fermò improvvisamente la mano di Ivan, con il cucchiaio immerso nel sugo, stretto fra le dita: era così carino quando sorrideva.
«Bah, perché ti sei imbambolato, idiota? Dammi qua!»
Gilbert afferrò il cucchiaio di legno dalle mani del russo, lasciando che si scostasse dai fornelli e, mettendosi proprio di fronte alla pentola, bagnò appena le proprie labbra con il sugo all’interno del cucchiaio.
«Com’è?» Ivan gli circondò il torace con un braccio, baciandogli appena le labbra.
«Mh-»
Lo slavo scostò appena le labbra da quelle dell’albino «sì, è buono~» e sorrise appena, quasi divertito.
Gilbert aggrottò la fronte infastidito, per poi sbuffare appena e tornare a rivolgere la propria attenzione sulla pentola e poi anche sull’altra, decidendo di aggiungervi un po’ di sale, mentre l’altro ancora blaterava alle sue spalle.
«È una preparazione lunga, dovremmo semplicemente aspettare … e guarda che se continui ad aggiungere sale poi sarà immangiabile-»
E la mano del russo andò con cautela a fermare quella dell’altro, che ripose il sale quasi svogliatamente.
«Se sarà immangiabile sarà solo colpa tua che ostacoli la mia Magnifica persona in cucina!»
Quando Gilbert gli rivolse quell’espressione rabbiosa, Ivan, non poté che lasciarsi sfuggire una risata, per poi annuire appena e afferrargli il viso fra le mani, portando le labbra molto vicine.
«Aspettiamo …»
Anche quello, alla fine, poteva essere un buono modo per passare il tempo in attesa che la cena fosse pronta.
Le labbra del biondo sfiorarono quelle sottili dell’albino, che subito ricambiò appena, scostandosi poco dopo, quasi come se fosse indeciso se lasciarsi assaggiare o meno dalla bocca dell’altro.
Ivan sapeva benissimo che averlo già convinto a cucinare con lui non era certo stata cosa da poco, quindi non poteva assolutamente lasciarsi scappare dalle mani quell’occasione succulenta.
Le labbra dello slavo si fecero subito più insistenti, le mani salde ai fianchi del prussiano, mentre subiva quelle attenzioni ovviamente rivolte tanto freneticamente alla sua bocca.
Quando Ivan arrivò finalmente ad avere l’albino stretto a sé e con la schiena aderente al muro della cucina, la lingua dentro la sua bocca, per assaporare finalmente in pace ciò che tanto adorava, una voce quasi li percosse, e lo costrinse ad allontanarsi dal suo Gilbert.
«Russland.»
Germania rivolse il proprio sguardo anche a Gilbert, poi tornò ad osservare il russo.
«Preparate la cena al posto di fare cose che si fanno in camera da letto.»
Quando Ludwig passò di fianco ad entrambi ed uscì dalla cucina, a Gilbert parve di sentire le dita del russo arrancare pesantemente sulle sue spalle, quasi facendogli male, e non poté ignorare quello sguardo iniettato d’odio che aveva rivolto dall’inizio alla fine a suo fratello.

Lo sguardo di qualcuno che avrebbe voluto uccidere.

Un suono sonoro fu quello delle lancette, che quasi lo misero in guardia, spingendolo ad osservare con più attenzione l’ora che si era fatta da quando era rimasto fermo in salotto, seduto al suo posto senza più muoversi: le ventidue e trenta.
Dovevano già essere tutti a dormire: Arthur ed Alfred, ad esempio, erano andati al piano di sopra per primi, poi Russia e suo fratello, anche se avrebbe giurato di averli sentiti discutere -come al solito-. Effettivamente si era permesso di calpestare la coda a Russia: probabilmente ciò lo aveva molto infastidito, sì.
Antonio e Feliciano erano rimasti lì a discutere con lui e gli avevano dato la buona notte probabilmente una mezz’ora prima, quindi ora solo lui era sveglio. A lui sarebbe stato permesso udire ogni urlo e stridio di quella maledetta casa infestata.
Ludwig si alzò placidamente dalla propria sedia, senza battere ciglio.
Prese appena un respiro più profondo, e si mosse lentamente nel buio che lo circondava, allontanandosi dalla luce delle sette candele rimaste.
Quale ripugnante spirito albergava in quella casa? Prima i tonfi al piano di sotto, poi il pianoforte al piano di sopra e i passi sulle scale: voleva scoprire di più.
Avrebbe fatto solo qualche controllo e magari, poi, sarebbe passato da Gilbert.
Se Ivan non era con lui, come sospettava, Gilbert era sicuramente alla sua scrivania con una fioca luce accesa per scrivere qualche sciocco pensiero sul suo diario: in qualche modo, sicuramente, doveva compensare la carenza di Internet.
Quasi sorrise appena, con quel pensiero bizzarro rivolto al fratello.
Quando però sentì le scale cigolare sotto i suoi piedi tornò sull’attenti ed abbassò appena lo sguardo: non poteva vedere ad un palmo dal suo naso.
Era tutto troppo buio. Le sue gambe, ora, era come se non ci fossero state, come se fossero appartenute alla notte e da lei non avessero mai più potuto allontanarsi.
Sopportò pazientemente il cigolio delle scale sotto i suoi piedi, e quasi lasciò andare un sospiro di sollievo, giunto davanti alla porta del fratello.
«Germania~»
Quando sentì quella voce sgranò gli occhi incredulo, rendendosi conto che era ormai già troppo tardi: sentì solo per un attimo la canna fredda e pesante di una pistola sulla tempia.

Solo il suono delle lancette che segnavano le ventitre, quando un proiettile gli trapassò la testa.

Nella sala, la luce, divenne più fioca.

La mattina dopo, quando Gilbert aprì la porta della propria camera, non poté che paralizzarsi ad occhi sgranati, osservando il corpo del fratello riverso a terra.
«… W-We-»
Senza neppure averle percepite, già le lacrime erano arrivate al suo mento e si stavano riversando sul pavimento in piccole gocce trasparenti: quello era senza dubbio un colpo di pistola, ma come? Davanti alla sua porta? E lui non se n’era accorto?
Il prussiano si ritrovò velocemente inginocchiato al fianco del fratello, piangendo sommessamente con la schiena ed il capo chino.
Eppure, Ludwig, ebbe poco tempo per essere pianto in rispettoso silenzio.
«G-Germania!»
Gilbert udì la voce tremante di Feliciano poco distante, e ci volle poco perché l’italiano si buttasse sul corpo del tedesco piangendo disperatamente.
«Ludwig …» America ed Inghilterra erano a pochi metri da loro, increduli, e poco dopo non poté che raggiungerli Antonio.
Lo spagnolo, vista la scena, ebbe subito da pentirsi dei pensieri avuti il giorno prima nei confronti dell’amico, e sentendolo piangere non poté che chinarsi al suo fianco ed adagiargli affettuosamente una mano sulla spalla.
«Gilbert …»
Anche Feliciano non accennava a darsi una calmata, ma quando arrivò chi fino a quel momento era mancato all’appello, i singhiozzi di Gilbert cessarono.
«Sei … sei tu …»
Aveva i denti così stretti che sentì nella bocca il gusto del sangue.
«Tu sei quello con la pistola, qui dentro. Bastardo.» Gilbert si alzò in piedi a fatica, trovandosi di fronte la figura del russo, quasi confusa a causa delle sue parole.
«È lui che ci sta facendo fuori uno ad uno.»
«Gilbert, ti ho già detto che non è vero.» questa volta non c’era implorazione nella voce del russo: solo rabbia, apatia, frustrazione.
«Gilbert, non può essere Ivan. Gli abbiamo scaricato la pistola.» Athur non poté che intervenire, ma Gilbert lo ignorò.
Velocemente si spinse vicino al russo e con le mani immerse nel suo cappotto cercò nervosamente, trovando quasi subito ciò che cercava.
«Gilbert! È scarica!»
«Solo perché ieri ci ha interrotti e io questa notte non ho voluto dormire con te! Ecco perché!» Gilbert puntò la pistola al pavimento, e premette il grilletto.
Quando il pavimento si bucò davanti a loro, senza percuoterli con alcun rumore, Gilbert sgranò gli occhi e sollevò il proprio viso verso il russo: lo aveva accusato, ma sperava davvero non fosse come sospettava.
«Quella … quella non è mia …
Ha il silenziatore! Non è mia!» Ivan guardò Gilbert negando appena, quasi scosso, e il prussiano, che lo era per davvero, sentì Arthur strappargli la pistola dalle mani.
«Alfred, scarica i colpi.»
Alfred si limitò ad annuire, mentre Arthur andava ad afferrare un braccio del russo «Antonio, aiutami.» Antonio raggiunse l’inglese ed il russo, e tutti e tre si diressero verso la stanza di Ivan.

Mentre Arthur lo chiudeva a chiave dentro la propria stanza, Ivan, ebbe solo il tempo di vedere il viso del suo amato prussiano bagnato di quelle lacrime che forse mai avrebbe potuto asciugare.

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Capitolo 12
*** XII - Fiducia ***


XII - Fiducia



Sorte ancora più tragica toccò a due marinai i quali, arrivati a Londra nella vigilia del natale del 1887, in cerca di un riparo per la notte, capitarono nella casa allora abbandonata senza conoscerne l’orribile storia. Il caso volle che si installassero proprio nella stanza infestata. Non passò molto tempo , che i due sentirono dei passi su per le scale, accompagnati da un fetore insopportabile. La porta venne sfondata da un qualcosa di deforme che si riversò nella stanza. Uno dei due riuscì a fuggire, l’altro invece rimase intrappolato li dentro. Il superstite, spaventato, corse in strada dove trovò un poliziotto. Quando tornarono alla casa, trovarono l’altro morto, impalato sulla cancellata all’esterno dell’abitazione.

«Come possiamo uscire, secondo voi?» Alfred bofonchiò appena, sistemandosi gli occhiali sul naso.
«Ragioniamo. Con calma.
Se lui ora è chiuso lì dentro non abbiamo motivo di avere troppa fretta …» Antonio intervenne, e subito Arthur negò energeticamente con la testa «se fosse lui, però, credo che l’uscita da questa casa ci sarebbe già stata concessa.»
Antonio brontolò appena, rivolgendo la propria attenzione a Gilbert e Feliciano: entrambi avevano il capo chino, a stento si sorreggevano il viso con una mano chiusa a pugno contro la guancia, lo sguardo cupo e quasi assente, triste.
Intorno a quel tavolo, ora, stavano trattando la questione solamente Antonio, Arthur ed Afred: Feliciano e Gilbert non sarebbero riusciti a parlarne.
«E di Ivan che ne facciamo? Aveva una pistola carica, e con il silenziatore. E a quanto ho capito, ieri, ci sono stati alcuni problemi fra lui e Germania, vero Gilbert?» Alfred rivolse la propria attenzione al prussiano, che annuì appena.
«Se fosse lui usciremo di qui e ne parleremo con i nostri capi: saranno i nostri Governi che dovranno mettersi d’accordo e decidere delle sorti di Ivan.»
Arthur trovò giusto la forza di bagnarsi le labbra con il suo tè, ormai raffreddatosi all’interno delle inospitali, strette pareti della tazzina.
Gilbert non ne poteva più: stavano discutendo su cosa fare di Ivan, così come ogni volta. Ad esempio come avevano fatto con lui nel 45, ma dopotutto, nonostante stessero parlando proprio della persona con cui aveva passato alcune notti e con cui era riuscito a spingersi perfino più in là dei baci, non riusciva più a focalizzare altro se non l’immagine di suo fratello senza vita e dell’amico avvelenato.
«Scusate-» Gilbert si alzò a fatica, dando la schiena ai presenti ed abbandonando la cucina per raggiungere il salotto dove, a capotavola, un’altra candela era divenuta bianca, e poi la biblioteca.
Non aveva voglia di leggere, logicamente: voleva solo stare da solo, in pace.
Dopo poco anche Feliciano abbandonò la cucina.
Senza dire una parola si diresse velocemente alla propria stanza, con il viso appesantito dal sonno che, anche prima di quella scoperta terribile, era stato disturbato ed insoddisfacente.
Quando si sedette sul suo letto e rimase in ascolto del silenzio non poté che scoppiare in un improvviso pianto soffocato: sia suo fratello che Germania, ora, se n’erano andati, e lui era solo in quella stanza, marionetta logora di spiriti ed assassini.

«Io aspetterei ancora un po’ prima di condannare Ivan, non è detto che sia stato proprio lui …» Arthur bofonchiò quasi svogliatamente, ma Alfred negò deciso.
«Arthur, ma se gli abbiamo fatto scaricare la pistola e oggi era di nuovo carica? E poi il silenziatore …
Magari in camera sua ci sono anche altri proiettili, per quanto ne sappiamo.»
«È vero …» intervenne lo spagnolo, mentre l’inglese si ritrovava a negare appena. Eppure, se voleva accertarsene, la cosa migliore da fare era proprio quella: recarsi nella camera di Ivan e cercare prove che testimoniassero la sua innocenza o la sua colpa.

La questione di Ivan risultava indubbiamente molto spinosa per tutti, e dalle loro decisioni, ora, dipendeva il futuro di una Nazione innocente o colpevole.

All’ora di pranzo, il tavolo, rimase vuoto: solo le candele bianche alternate a quelle rosse, tutte spente.
«Sono stanco, America-» seduto al tavolo della cucina con il viso segnato dalla stanchezza, Arthur cercò di ignorare il tonfo sordo dell’accetta sul corpo del tedesco.
«Voglio uscire, tornarmene a casa … e smetterla con queste accette.»
L’americano si fermò ad osservarlo tristemente, riponendo l’arma con un sospiro pesante.
«Lo voglio anche io.
Cerca di stare tranquillo …» procedette flebilmente lo statunitense, sciacquandosi il sangue dalle mani «se Ivan è già rinchiuso in quella camera non c’è niente di cui preoccuparsi, giusto?» quasi timidamente, la mano dell’americano, si andò a posare sulla nuca dell’inglese, ora con il viso stanco adagiato alla superficie del tavolo.
«Non è Ivan …»
Aveva già i sensi di colpa per ciò che aveva fatto, Arthur.
“Ma come fa a non trattarsi di Ivan, se aveva una pistola carica ed il silenziatore in tasca?!”
Alfred non riusciva a spiegarselo, ma pensò anche che Inghilterra doveva essere davvero molto stanco, così rimase in silenzio, accarezzandogli appena la nuca «riposa almeno un po’, mentre io finisco qui …»
Sperò fortemente che l’inglese accogliesse la sua proposta, ed ottenne quello che voleva: l’inglese annuì, chiudendo gli occhi e nascondendo il viso fra le braccia conserte, mentre l’accetta andava ad abbattersi per l’ennesima volta sul corpo di una delle vittime mietute da Berkeley Square.

«Gilbert?»
Antonio aveva trovato aperta la porta della camera del prussiano, e così aveva deciso di farsi avanti, trovandolo coricato sul letto a pancia in su, a fissare il soffitto.
«Was?» si sorprese del fatto che l’amico non si fosse scomposto più di tanto, anzi, rimase praticamente immobile a fissare il soffitto.
«La porta era aperta e sono entrato …»
«Mh-» Gilbert era piuttosto pensieroso, ma avrebbe provato comunque ad esporgli la sua idea.
«Gil, vuoi dormire in camera con me stanotte?»
Il prussiano rimase in silenzio per qualche attimo, poi accennò un sorriso, annuendo appena.
«Ah sì! Io fra poco vado a preparare la cena, se vuoi puoi aiutarmi-!» lo spagnolo sorrise allegro, avviandosi verso l’uscita della camera.
«In Ordnung!»
Gilbert lasciò subito il suo posto, seguendo l’amico senza alcuna esitazione: ameno lo avrebbe aiutato a distrarsi dal pensiero che aveva di West e di Ivan, anche se la fame era ormai totalmente assente e, probabilmente, quella sera avrebbe rinunciato anche alla cena.
Gli altri, al contrario del prussiano, non potevano più ignorare la fame, escluso Feliciano che sembrava non voler lasciare più la sua stanza neppure per bisogni necessari e basilari come “andare in bagno”.

Quando, verso le venti, Gilbert vide Arthur ed Alfred seduti a tavola ad aspettare che lui ed Antonio riempissero i piatti con la cena, si rese conto che c’era qualcosa di estremamente sbagliato in tutto: perché stavano tenendo prigioniero un altro Stato?
Una pistola carica ed un silenziatore nelle tasche di uno psicopatico non erano prova sufficiente? Certo che lo erano, ma Ivan … Ivan stava soffrendo, lì dentro.
Buttato lì a forza, aveva udito come ultime parole il suo odio e visto come ultima immagine la sua tristezza. Se ne era innamorato come diceva, ora, di certo, non doveva essere una persona serena, o un pazzo divertito dalla situazione.
«Io vado a mangiare in camera-»
L’appuntamento con Antonio era alle ventuno: aveva più di un’ora di tempo. Avrebbe potuto prendere il piatto e usare come scusa Feliciano, dire che lo stava portando a lui per farlo mangiare -intanto sapeva che in ogni caso, l’italiano, non avrebbe toccato cibo- e poi non sarebbe passato da lui, ma una riposta dell’italiano ad una domanda del sospettoso inglese gli sarebbe potuta costare cara.
Ecco perché optò per la scusa più semplice e banale.
Con un piatto caldo fra le mani salì al secondo piano sotto lo sguardo complice dello spagnolo, che immaginava perfettamente ciò che Gilbert avrebbe fatto di lì a poco.
Il prussiano adagiò il piatto caldo davanti alla porta chiusa di Ivan, dirigendosi prima verso la camera dell’inglese e dell’americano.
Arrivato al comodino dell’inglese aprì il cassetto e frugò tra le cianfrusaglie al suo interno.
«Hier-» sussurrò soddisfatto a mezza voce, quando il tintinnio delle chiavi sotto le sue mani gli stuzzicò le orecchie.
Si diresse velocemente alla sua porta, chiudendola a chiave per sicurezza, e poi tornò a quella del russo, esitando sulla serratura a causa della fretta quasi inumana che ormai attanagliava le sue mani.

Il viso del russo si sollevò di scatto, quando, oltre le spalle, sentì il tintinnio di chiavi colpire la serratura e la porta vibrare, aderente alla sua schiena.
Cos’era? Lo venivano a condannare e lo portavano al patibolo?
«Scheiße!»
Quando sentì la voce roca del prussiano non poté che sollevarsi velocemente sulle gambe, facendo aderire le mani alla porta.
«Gi-Gilbert?!»
«Zitto, idiota!»
Quando l’albino sentì la serratura scattare inspirò un ingente quantitativo d’aria, aprendo la porta e portando dentro la stanza il piatto caldo.
«Ti ho solo portato la cena.» quasi gli lanciò il piatto fra le mani, strappando rapidamente le chiavi dalla porta e chiudendola cautamente.
«Spasibo …»
«Mhn …» mugugnò appena, confuso dal suo stesso gesto: era di nuovo lì, solo, con la persona che odiava e che molto probabilmente aveva ucciso suo fratello alcune ore prima.
Perché?
”Che anche io me ne sia innamorato …?
No. Che idiozia!”
pensò scuotendo appena la testa e scostando lo sguardo verso l’interno della stanza, lontano dagli occhi del russo e da quel sorriso pieno di gratitudine che gli stava rivolgendo.
«Tu, Gil?»
«Io cosa?»
«Hai mangiato?»
«Secondo te ho voglia di mangiare?»
Insomma, aveva appena portato una cena calda e sostanziosa a quello che credeva l’assassino di suo fratello, ma non si sentiva di mettere fra i denti neppure il più piccolo fra i piselli verde smeraldo che ora brillavano nel piatto?
Che sciocchino, il suo coniglietto!
Ivan si lasciò scivolare lentamente contro la porta, tornando a sedersi con il piatto sulle gambe e bloccando la sola via d’uscita che Gilbert aveva a disposizione.
«Mi tieni un po’ di compagnia?»
«Non ho altra scelta.»
Con sorpresa di Ivan, il prussiano, non oppose resistenza e si sedette al suo fianco.
Il russo inforcò subito un piccolo pezzo di carne calda, ma la portò alle labbra del prussiano, incitandolo dolcemente.
«Fallo per me …»
«Per un assassino?» il prussiano scostò appena il viso dal boccone di carne, adagiando la testa al muro.
«Gilbert …»
«Ja?»
«Non credo che verrò risparmiato. Qui, solo, il vero assassino se ne approfitterà …» i loro occhi si incontrarono solo per un attimo «quindi fallo per me, non lasciarti andare come stanno facendo tutti gli altri.
Il mio coniglietto è adorabile, e forte~» Ivan sorrise, spingendo il boccone di carne più vicino alle labbra del prussiano.
Il russo era sempre stato vicino a lui, dal primo passo in quella casa fino a quel momento … non poteva essere lui.
Gilbert rimase in silenzio, ormai sicuro di quel pensiero. Poi, inaspettatamente, afferrò la forchetta e la scostò dalle sue labbra, strappandola dalla mano del russo e buttandosi a capofitto sulla bocca di Ivan.
Lo slavo non poté che scostare velocemente il piatto dalle sue gambe, abbracciando stretto a sé il prussiano e ricambiando il suo bacio quasi percependo un insolito bruciore nei propri occhi.
Gilbert … forse Gilbert aveva capito?
Sarebbe stata l’unica cosa che desiderava, prima di morire. Prima di vedere in faccia l’assassino e lasciare Gilbert solo in quella casa, senza difese.
Oh, ma no. Lui una difesa gliel’avrebbe data.
Stava programmando tutto, pur di salvare il suo adorato coniglietto.

Rimasero a lungo così, abbracciati, senza pensare alla cena che andava raffreddandosi, ma solo assaporando il calore delle labbra, l’una legata all’altra. Come se fosse stato l’ultimo bacio che ad entrambi veniva concesso.

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Capitolo 13
*** XIII - Chiavi ***


XIII - Chiavi



Ancora oggi, Berkeley Square, è protagonista di una serie infinita di fatti inspiegabili, di morti misteriosi ed urla agghiaccianti.

Gilbert aveva promesso ad Ivan che lo avrebbe tirato fuori di lì in tempo, ma era andato a dormire con la pesante consapevolezza che un giorno di calma era appena passato, e allora, quello dopo, avrebbe visto un altro di loro morire.
Doveva trovare un modo, prima che scadesse il tempo a loro disposizione.
Antonio sembrava volersi fidare più delle sue parole che di quelle di Arthur ed Alfred.
Erano rimasti seduti l’uno di fronte all’altro, appena illuminati dalla luce argentea della luna, a parlare fino a mezzanotte, forse anche fino a l’una. Non ne era sicuro.
Ciò su cui poteva contare, però, era l’aiuto di Antonio, e di questo ne era certo.
Gilbert era riuscito a distogliere la sua attenzione da proiettile e silenziatore, e portarla sulla presenza di Ivan.
Si era perfino confidato con l’amico.
Gli aveva detto che si era innamorato di uno dei suoi peggiori nemici, ma Antonio aveva risposto solamente con un sorriso allegro. Tipico di lui, dopotutto.
Poteva contare sullo spagnolo, ma Feliciano? Feliciano pensò di non calcolarlo neppure, mal ridotto com’era.
Per ciò che riguardava Alfred ed Arthur, davvero, non riusciva ad immaginare ciò che poteva frullare nelle loro teste in questo momento. Stessa ardua sfida per l’ispanico, che dopo appena dieci minuti si arrese.

«Se fossi a casa, adesso, starei facendo colazione con dei churros ed un buon caffè, o magari una cioccolata calda-!»
Antonio si pronunciò, e russo il silenzio del sonno così.
Erano appena le nove e lui e l’ispanico stavano già fissando il soffitto da più di qualche minuto.
«Parlerò con Arthur.
Dobbiamo rimanere tutti uniti, perché oggi lui ucciderà di nuovo.»
«Sì.» lo spagnolo si fece improvvisamente molto più serio, ed annuì deciso.
Il prussiano rimase in silenzio per qualche attimo, ancora guardando il soffitto, poi si alzò di scatto, infilandosi velocemente i pantaloni «non voglio perdere altro tempo.»
Lo spagnolo gli rivolse un’occhiata sorpresa, ma non disse nulla e lo lasciò andare.
«Vai Gilbert. Salva chi ami, finché sei in tempo.»
Si ritrovò a mormorare solo questo, prima di chiudersi in un rispettoso silenzio.

Feliciano aveva passato la seconda notte totalmente insonne e l’ennesima torturata da disturbi e tormenti, nella testa e nel corpo.
Ormai il viso era cupo, i capelli arruffati, gli occhi stanchi e spenti, le labbra screpolate ripiegate su se stesse, il naso arrossato e spellato, a causa del pianto che lo aveva attanagliato dalla mezzanotte in poi e non era cessato fino alle prime flebili luci dell’alba.
Si sentiva terribilmente, solo, nonostante, proprio di fianco alla sua stanza, ci fosse Spagna -che stava vivendo i suoi stessi tormenti- e dopo qualche scalino Prussia -anch’esso di certo non troppo sereno-
Una volta in bagno, era dovuto andare. Anzi: scappare, a causa del forte dolore allo stomaco e dai conati causati dal pianto.
Non aveva vomitato nulla però: solo aria, visto che non mangiava da un po’.
Quando gli venne in mente che l’ultima cosa che la sua bocca aveva masticato era stata la carne del fratellone aveva indotto i conati a divenire più violenti e frequenti, giocandosi qualsiasi piccola possibilità di addormentarsi, tramortito dalle lacrime e dai singhiozzi, e così si ritrovò a piagnucolare tutta la notte, tremando nel buio, miseramente appallottolato sotto le coperte.

Magari stavano ancora dormendo, ma lui era la Magnifica Prussia e le Nazioni gli avrebbero dovuto dare udienza ad ogni ora della notte e del giorno, nessuna esclusa, se fosse mai stato necessario.
«Inghilterra! Devo parlarti!»
Arthur si alzò parecchio irritato dalla voce roca del prussiano, proveniente da dietro la portà. Sbuffò, quando dovette alzarsi e sentì il freddo penetrargli in tutto il corpo attraverso le piante dei piedi, ora aderenti al parquet piuttosto gelido e forse perfino umidiccio.
«Cosa c’è?»
«Devo parlarti.»
«Eh, dimmi.»
Gilbert notò con la cosa dell’occhio un leggero movimento nell’altro letto: Alfred doveva essere sveglio, o per lo meno in uno stato di dormiveglia, e per ora preferiva non farsi sentire da nessun’altro ad esclusione di Arthur.
Senza dire più nulla afferrò il polso dell’inglese e lo strattonò fuori, fino alle sclae.
«Andiamo in biblioteca.»
Arthur non poté dire di no, quando vide quegli occhi di fuoco inaspettatamente seri puntati su di sé.

«Davvero tu credi che sia Ivan?»
Piuttosto che parlare ancora di Ivan, Arthur, avrebbe preferito soffermarsi sugli smielati libri francesi che spiccavano su uno scaffale alla sua sinistra, ma non aveva scelta.
«Potrebbe essere l’assassino come potrei esserlo io, come potresti esserlo tu, o chiunque altro in questa casa.»
Le parole di Arthur sembrarono conficcargli il petto, così improvvise, e vere.
Gilbert capì: Arthur aveva cambiato idea, ma allora cosa gli impediva di farlo uscire da quella stanza?
«Se in più riesci a fidarti tu, dopo che hai perso tuo fratello ed uno dei tuoi migliori amici, mi sento al sicuro, come se avessi una sorta di garanzia.»
«Allora apriamo quella stanza.»
Arthur gli rivolse un’occhiata fugace, poi annuì appena, aprendo la porta della biblioteca per fargli capire che la conversazione poteva considerarsi conclusa.
«Andiamo a prendere le chiavi.» l’inglese si limitò a borbottare il suo comando, tanto agognato da Gilbert, che lo seguì senza esitazione oltre le scale.
Il prussiano rimase sulla porta, osservando l’inglese che, chinato sul proprio cassetto, ora aveva improvvisamente smesso di frugare al suo interno.
«Cosa c’è?»
Arthur non gli rispose e raggiunse il cassetto dell’americano, frugando anche in quello «non ci sono …»
Escluse subito un caso di “fantasma dispettoso”, come di certo qualcun altro avrebbe potuto ipotizzare, e uscì velocemente dalla camera, assicurandosi che la porta del russo fosse chiusa.
«Ivan?»
«Da?» un mugolio flebile oltre la porta gli fece capire subito che avevano compiuto un errore grave e fin troppo grossolano.
«Nothing-» non volle illuderlo.
Si allontanò velocemente dalle due stanze, rivolgendosi all’albino «ha rubato le chiavi …»
Quando il prussiano rimase raccolto nel proprio silenzio, l’inglese rivolse un rapido richiamo all’americano, che diedi segno di essere sveglio -e tramortito dal sonno- solo dopo qualche attimo.
«Che … che succede?»
Perché erano davanti alla porta? Con quella cupa impronte sul viso?
Lo stavano osservando entrambi, e la cosa gli mise i brividi.
Si mise lentamente a sedere, senza scostare i propri occhi dal’inglese e mandando la mano, con goffi tastoni, in cerca degli occhiali riposti sul comodino prima di andare a dormire.
«Le chiavi sono sparite. Hanno visto tutti dove le ho messe.»
Alfred rimase in silenzio solo per un momento, sistemandosi gli occhiali «e quindi l’assassino potrebbe essere ancora …?» un brivido gli percorse la schiena: non era Ivan? Possibile che si fossero davvero sbagliati come sosteneva Arthur?
«Sì.» l’inglese tagliò corto, esortando l’americano a lasciare il proprio letto.
«Gilbert, aspettaci in cucina.»
Il prussiano esitò, all’ordine dell’inglese, poi si limitò ad annuire con malavoglia: doeva trovare quelle chiavi e tirare Ivan fuori da quella camera.
Ora come non mai era esposto alla morte.

Lui aveva le chiavi fra le mani.

«Alfred, io vado un momento in biblioteca.»
«Ok, intanto io vado in bagno-!»
I due si lasciarono all’inizio del corridoio, mentre nelle due stanze del piano di sotto, Antonio, ancora sonnecchiava, e Feliciano agonizzava, soffocato dai suoi stessi pensieri.
Gilbert assaporava l’attesa, seduto al piccolo tavolo della cucina.

Da quel momento in poi, nessuno di loro, riuscì a ritrovare l’altro.
Tutte le porte chiuse, le stanze inaccessibili.

Quando Gilbert se ne accorse non poté che insistere violentemente sulla maniglia della porta, stringendo i denti fino a sentire le gengive sanguinare.
«N-no! Ivan!»
L’assassino stava agendo. Di nuovo.
L’assassino stava sfruttando quelle maledette chiavi, e quelle maledette stanze.
Gilbert non smise neppure per un secondo di accanirsi sulla maniglia della porta, arrivando ad una conclusione fin troppo banale: lui era stato lì, sempre sotto i suoi occhi.

Arthur.

Quello che cercava di distoglierlo da un’ipotesi piuttosto che da un’altra, quando indagavano. Quello che aveva fatto rinchiudere Ivan nella stanza ed ora aveva le chiavi tutte per sé, per uccidere senza ostacoli.
«Scheiße!» l’urlo roco del prussiano non riuscì a raggiungere gli altri, e Gilbert provò a sfruttare anche le finestre, ma con scarsi risultati.
«Ivan …» stanco, dopo forse due ore, si ritrovò a sussurrare, quasi senza voce «resisti …»

Quella mattina Arthur lo aveva chiamato, e poi nient’altro.
Non aveva più sentito alcuna voce, alcun rumore. Come se se ne fossero andati tutti.
Era sicuro che assieme all’inglese vi fosse anche il suo Gilbert, che però non gli aveva portato il pranzo come promesso.
Che cosa stava succedendo, oltre la porta?
Quando sentì la serratura scattare rimase immobile alla finestra, voltando appena il viso in un movimento meccanico, ascoltando il pesante scoccare delle lancette che ora segnavano le diciotto.
Eccola lì: la faccia dell’assassino.
Ivan sorrise appena, quando si vide una pistola puntata al petto.
Doveva essere stato un gioco da ragazzi, per quel bastardo.

Lo sparo improvviso scosse Gilbert dai propri pensieri.
Il prussiano si alzò velocemente dal pavimento e, con sua sorpresa, trovò la porta aperta.
«Ivan!» da quanto era aperta? Perché diavolo non aveva controllato prima? Ora … ora rischiava di arrivare tardi.
Attraversò velocemente il corridoio, e poi le scale, una parte del secondo piano, fino a trovare aperta la porta della stanza del russo. Sporca di sangue.
La voce dello spagnolo lo percosse.
L’italiano si alzò a fatica sulle gambe, rispondendo con un filo di voce «s-sì, sono qui …»
Quando Antonio afferrò saldamente la maniglia trovò la porta aperta così come era successo a lui poco prima, nonostante fosse rimasto segregato nella propria camera più o meno a partire dalle dieci del mattino.
«C’è qualcuno lì? Hey guys?!»
La voce squillante dell’americano proveniva dal bagno, e subito Antonio abbassò la maniglia della porta, ma con sua sorpresa la trovò chiusa.
«Feliciano, cerca Arthur e Gilbert! Io ed America vediamo di abbattere questa fastidiosissima porta-»

«I-Ivan …!»
Le sue mani tremarono, già sporche di tutto il sangue impregnato nel cappotto spesso del russo e nella camicia chiara che indossava, sotto di esso.
Un punto troppo vicino al cuore era chiaramente maciullato, un foro pieno di sangue scuro e denso.
«Ivan!»
Il respiro del russo, prima molto accelerato, stava ora diventando a poco a poco più flebile, ma le lacrime calde del prussiano, che ora erano arrivate a bagnare quel viso candido, gli fecero schiudere appena gli occhi. Deboli, già spaventosamente vitrei, spenti. Lucidi di lacrime, forse.
«Gil … per favore … non piangere-»
«Io … Ivan-»
«Coniglietto …» lentamente, una delle mani tremanti dello slavo, si adagiò sulla guancia del prussiano, asciugando via le lacrime.
«I-io credo di essermi innamorato di te-!»
«Io ne sono … ne sono sicuro, invece …» sorrise.
«È colpa mia. Dovevo farti uscire.
Dovevo crederti!» questo no. Questo non se lo sarebbe perdonato tanto facilmente.
«Gilbert …» quello del russo fu un richiamo non solo per attirare la sua attenzione, ma anche per zittirlo.
«Lui ha una pistola … tu procuratene una.
Questo è l’ultimo c-che ci rimane …»
Le dita tozze del russo si schiusero appena, ed un pesante proiettile argentato rotolò lungo il pavimento, sotto gli occhi turgidi di lacrime del prussiano.
«Ci vedremo.
Esci. Fa solo questo, coniglietto …»
«S-scusa.
Scusa! Non eri tu!»
Era la prima volta che chiedeva scusa ad Ivan.
Doveva esserne innamorato per davvero.
Il russo si limitò a sorridergli debolmente, senza scostare quella mano dal suo viso e lasciandosi scivolare una lacrima lungo la guancia pallida.

Gilbert non poté che scoppiare a piangere, quando il tempo gli concesse un ultimo bacio su quelle labbra insanguinate e fredde.
Fredde, come il proiettile che ora stava stringendo disperato fra le mani macchiate di rosso.

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Capitolo 14
*** XIV - Cecità ***


XIV - Cecità



«Antonio! Alfred!» l’ispanico e lo statunitense si affrettarono a sollevare la porta rotta e lasciare il bagno, raggiungendo Feliciano che ora piagnucolava nel bel mezzo del corridoio.
«Anche la porta di Arthur è chiusa!»
Senza dire una parola, Alfred, gli passò accanto e si diresse alla biblioteca, seguito subito dopo dagli altri due.
«Arthur?!»
«Alfred! Apri questa fottuta porta!»
Sì, stava bene, ed Alfred non poté che tirare un sospiro di sollievo, quando ne ebbe la conferma.
Dopo diverse spallate, anche la porta della biblioteca cedette e si abbatté a terra.
L’inglese vi passò sopra senza troppi complimenti, uscendo dalla stanza.
«Ho sentito uno sparo, cosa è stato?»
«In biblioteca eh?!
Maledetto bastardo!»
Arthur si ritrovò in un attimo con la schiena aderente al legno scheggiato della porta, lo zigomo pulsante e l’occhio completamente chiuso, a causa del pugno che gli si era appena schiantato sul viso, le mani del prussiano strette al collo, il viso rabbioso dell'albino a sovrastare il proprio.
«Nascondevi le tue chiavi, vero?!
Mai mettersi contro la Magnifica Prussia!»
Era davvero arrabbiato.
Arthur sentì il legno squarciare la camicia, e poi penetrare nella pelle, il respiro mancare.
Cercò di tossire, aprire anche l’occhio ferito, portando le mani a quelle del prussiano, ma in un attimo, lo spagnolo e l’americano, glielo strapparono di dosso e si misero fra loro.
«Du Bastard!»
«F-fuck …» Arthur sibilò come un serpente affamato avrebbe fatto contro la propria preda, senza poter contrastare la voce roca del prussiano, come quella di un corvo rabbioso a cui hanno rubato la carcassa.
«Gilbert! Calmati adesso-!» Antonio si chinò sull’amico, adagiandogli pesantemente le mani sulle spalle.
«È lui-! È lui che ha rinchiuso Ivan lì dentro e ha preso le chiavi! Le ha nascoste nella biblioteca!»
«Tsk-! Ti prego Prussia, tappati quella bocca.»
Alfred afferrò l’inglese per un braccio, aiutandolo a sorreggersi in piedi, rivolgendo poi una rapida occhiata al prussiano e allo spagnolo.
«Io credo piuttosto che sia il tuo amico, il colpevole.»
«Antonio?» Feliciano rivolse un’occhiata sorpresa all’ispanico, che osservò confuso l’americano, poi l’inglese, scostando le mani dalle spalle dell’albino e tornando retto con la schiena.
«Cosa? Perché dovrei essere io?»
«Sei tu quello che girava in corridoio mentre io, Feliciano ed Arthur eravamo ancora rinchiusi nelle stanze.»
«Allora potrebbe anche essere Gilbert, visto che nessuno l’ha liberato ed era già fuori dalla stanza prima di noi …» l’italiano bofonchiò appena.
«Certo Alfred! E sono io che ho ammazzato Lovino!
Ma sei idiota?! Piuttosto potresti essere tu! Visto che Arthur non è ancora morto-»
«E io avrei ucciso mio fratello? E poi Arthur cosa c’entra?»
«Lo sappiamo tutti che te lo vorresti portare a letto.»
«È stato Feliciano, avanti! Lo sappiamo tutti!» l’inglese interruppe il dibattito dell’americano e dello spagnolo con la voce rotta dal dolore all’occhio, che già ora iniziava a gonfiarsi, arrossato dal colpo duro col pugno di Gilbert.
«I-io?»
«Sì, visto che io non ho ancora accusato nessuno e tu sei l’unico a cui non è stato puntato il dito contro, ora forse è l’ora che qualcuno inizi a sospettare anche di te, no Italia?» poi rivolse un’occhiata rabbiosa ad Alfred e Antonio «dateci un taglio, cazzo. Chiunque potrebbe essere l’assassino, idioti.»
Arthur si separò dal gruppo e fece per dirigersi verso l’uscita della sala, ma subito, una mano pesante lo bloccò, premendogli forte la spalla, quasi fino a sopprimere la sensibilità dei nervi.
«Ah-»
«Dove vai? Mi occupo io di Ivan, England.»
Alfred si occupò di separare di nuovo Gilbert ed Arthur, lasciando uscire il primo dalla sala e portando dopo poco Arthur in cucina.

«Come può essere Alfred? Lui non è l’eroe?» l’italiano rivolse un’occhiata triste allo spagnolo, che era rimasto solo con lui nella sala, ancora scosso dall’accaduto; poi rimase in silenzio.
«E come può essere Gilbert? Che adora suo fratello ed ama Ivan?
Feliciano … è impossibile capirlo. Tutti qui abbiamo perso una persona cara, e tutto ciò è fin troppo sviante. C’è qualcuno che mente, che riesce a farlo perfettamente, e che non si cura delle persone che gli stanno a cuore, ma potrebbe essere chiunque. Chiunque.»

Gilbert si fermò di colpo.
Le iridi di sangue scivolarono lungo le sclere candide, le pupille di pece rimasero fisse per qualche attimo su qualcosa di sottile e brillante sul pavimento.
Quando si chinò sulle gambe per afferrarlo ed esaminarlo, concluse si trattasse di un filo trasparente.
«E questo …?»
Poi, la sua attenzione, si soffermò su un piccolo pezzo di fil di ferro vicino alla porta di Feliciano, e velocemente si rialzò sulle gambe, tornando indietro per esaminare il pavimento vicino alla cucina.
Tastò solo per qualche attimo il pavimento, poi sentì di nuovo quel filo sottile ma resistente ed appena elastico fra le dita.
Ecco il trucco: complimenti davvero, genio delle serrature.

Avrebbe dormito da solo in camera sua, quella notte.
Dormire: che parolone!
Dopo essersi obbligato ad occuparsi personalmente del corpo di Ivan non aveva fatto altro che lasciarsi cadere sul letto e rimanere in silenzio, concentrandosi solo sul proprio respiro, sul diaframma che tanto lentamente e profondamente si alzava e si abbassava, osservando con gli occhi ancora arrossati dalle lacrime il proiettile argentato che stringeva fra le dita di una mano.
La sentiva ancora impregnata di sangue, quella mano, così come l’altra, e non gli importava se in quella stanza, ogni fantasma della casa, urlava i propri dolori ed i propri tormenti.
Non avrebbe dormito nella camera in cui era morto Ivan. Preferiva lì, dove avevano passato una notte abbracciati, dove era riuscito ad innamorarsi di lui.

«Feliciano?» Antonio bussò flebilmente alla porta dell’italiano, e dopo poco, la porta gli fu aperta.
«Antonio, cosa c’è?»
«Prima di tutto: mangia.» Antonio gli porse un pacchetto di biscotti che, a giudicare dal volume, ne doveva contenere si e no cinque o sei, ma dopo ore e ore di digiuno, anche qualche biscotto integrale sbriciolato era invitante.
«Ormai siamo rimasti in cinque.» poi, lo spagnolo, gli tese una mano.
«Non credo che Gilbert voglia fidarsi di qualcuno, in questo momento, ed io so di per certo che tu non puoi aver ucciso tuo fratello e Germania, perciò … voglio che ci alleiamo.»
Feliciano aggrottò appena la fronte, confuso dalla proposta dello spagnolo. Poi rimase ad osservare quella mano tesa davanti a lui.
«Oh, se non vuoi non-»
Quando lo spagnolo fece per ritirare la mano, quella fredda dell’italiano, andrò a stringergliela, interrompendo le sue parole.
«Tu non faresti mai del male a Romano.
Mi fido di te.» Feliciano accennò un piccolo sorriso, per poi tornare cupo e silenzioso, tornando a sedersi sul suo letto con un sospiro rassegnato.
«Per questa notte ti tengo compagnia io, vuoi?»
«Va bene-»
Antonio gli sorrise appena, annuendo in risposta, per poi sedersi sull’altro letto e coricarsi pigramente, adagiando la testa sul cuscino con un’evidente espressione di sollievo stampata in viso.
«Allora buona notte, Feliciano.»
«Buona notte, Antonio …»
Si fidavano davvero l’uno dell’altro? O era solo una ricerca disperata di un piccolo appoggio?
Davvero non lo sapevano.

«Dove ho sbagliato?» Arthur sussurrò appena, interrompendo il tagliente silenzio creatosi fra lui e l’americano.
«Cosa intendi?» Alfred fece aderire cautamente l’impacco di ghiaccio sullo zigomo gonfio dell’inglese.
Aveva perfino ritrovato le chiavi nel suo cassetto, quando era tornato in camera: lui non le aveva prese, né nascoste in biblioteca. Lui non le aveva riposte nel cassetto subito dopo, quasi come fosse una presa in giro.
«Guarda come mi sono ridotto …
Non mi sento più la spalla, chissà poi quante schegge di legno ho conficcate nella schiena, mi fa male il collo, la guancia … e ho quest’occhio gonfio, non ci vedo quasi più niente.
Ho perfino ancora il segno di Natalia-» bofonchiò, spalancando la propria mano davanti al viso, osservando il lungo taglio ormai secco che, però, chiudendo le dita in un pugno, faceva ancora terribilmente male.
«E non ho neppure reagito.
Una persona dalla coscienza pulita che viene accusata di averla sporca dovrebbe soltanto reagire, non starsene in silenzio come ho fatto io.
Ah-!» mugugnò appena, quando l’americano fece aderire l’impacco freddo al punto del gonfiore che, dal rosso scuro, sembrava avviarsi verso una strana tonalità violacea.
«Non hai sbagliato da nessuna parte …» l’americano continuò, più delicatamente, poi Arthur rivolse un’occhiata al letto vuoto in cui qualche notte prima aveva dormito il francese.

Quando Alfred vide nell’occhio verde, dolorante e socchiuso, che stava tentando di curare, una lacrima, non poté che fermarsi e circondare il corpo dell’inglese con le braccia.
«Sei una nazione forte.»
«Non mentirmi, America.» si ritrovò a fissare il vuoto, indebolito dal dolore. Fisico, mentale.
«Non ti mento Arthur. Mai.» e il viso dell’americano sprofondò lentamente contro la sua spalla.
Per un attimo, ad Arthur, sembrò perfino che Alfred stesse piangendo.

«Ngh-!» l’inglese brontolò a denti stretti, ma fu sollevato quando l’americano gli disse che quella era l’ultima scheggia di legno rimasta conficcata nella pelle pallida della sua schiena.
«Mi dispiace che tutto ciò ti abbia impedito di andare a dormire prima …» Alfred guardò la sveglia: ormai l’una di notte era passata.
«A proposito, credo … credo sia meglio che io vada a dormire in un’altra stanza, ora.»
«Eh? E perché?»
«Vorrei … vorrei restare un po’ solo …»
«Mh- d’accordo. Se hai bisogno sono qui.» l’americano sorrise appena, per poi posargli un bacio quasi impercettibile sullo zigomo arrossato ma un po’ meno gonfio.
«Good night!»
«Good night-» ma Arthur si ritirò dalla stanza come solo un cane bastonato avrebbe potuto fare.

Provò inizialmente a coricarsi sulla schiena, ma il bruciore alla pelle lo spinse a rannicchiarsi su un fianco.
Era cosciente del fatto che non avrebbe chiuso occhio: lo zigomo pulsava, la testa faceva male, ed anche il suo stesso respiro sembrava rimbombare violentemente in essa.
Chiuse gli occhi, quando gli tornarono in mente i gesti e la rabbia di Gilbert; poi pensò alle parole dello spagnolo: “Piuttosto potresti essere tu! Visto che Arthur non è ancora morto-”
“Ti prego Alfred, non mi mentire. Non mi piacciono le bugie.”
Una lacrima calda attraversò la sua guancia, bruciando la pelle tumefatta e livida come fosse stata di veleno, morendo poi nel tessuto ingiallito del cuscino.

“Perché Arthur? Apri il cassetto e le chiavi spariscono. Lo riapri dopo qualche ora e sono di nuovo lì.
Perché dovevi andare in biblioteca, oggi? E perché volevi tanto stare solo, stanotte?
Cosa … cos’hai?
Non mi mentire.”

Le dita dell’americano si strinsero intorno a quel cilindro di legno ancora ricoperto a fatica di vernice colorata, soprattutto blu e rossa, osservandolo con gli occhi stanchi, socchiusi, tristi.
Era uno dei suoi soldatini.
Uno di quelli che Inghilterra gli aveva regalato quando era piccolo.
Giochi da bambini, oggetti futili e sciocchi; eppure ne portava sempre uno con sé, quando Arthur non era al suo fianco.

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Capitolo 15
*** XV - Alleanze ***


XV - Alleanze



Quando aprì gli occhi, anzi, l’occhio, e sollevò il viso, l’inglese rantolò debolmente, mettendosi lentamente a sedere e portando cautamente le dita allo zigomo e all’occhio, rabbrividendo nel sentirli incredibilmente gonfi.
«Ah-» scostò subito le dita, non appena sentì la pelle bruciare e pulsare sotto il proprio tocco.
Sospirò appena, alzandosi dal letto. L’improvviso giramento di testa causato dal dolore sbilanciò il suo equilibrio, spingendolo a sorreggersi penosamente al muro.
«Shit-» sibilò flebilmente, trascinandosi fino alla porta; quando avrebbe visto Antonio gli avrebbe detto di aver dormito nella sua stanza, ma ora … ora voleva solo bere un tè caldo.
Arrivò fino alla cucina, trovandola vuota, e massaggiandosi la fronte con le dita aprì le vecchie ante della piccola credenza della cucina.
Quando trovò lo scaffale vuoto, ebbe davanti ai propri occhi la sola conferma delle scorte di tè ormai giunte alla loro fine.
«…» richiuse le ante ed arretrò, per poi sedersi al tavolo con un sospiro, chinando il viso e portando le mani fra i capelli biondi, quasi tirando appena le ciocche fra le dita.
Rimase chiuso nel suo silenzio, con anche l’occhio destro socchiuso a causa della fatica che le ferite al sinistro gli provocavano.
Senza tè. Bene, il suo senno sarebbe presto crollato.
Per un attimo sentì il bisogno di aver Alfred lì con lui, ma si ricordò della sua decisione, della promessa fatta a sé stesso quella stessa notte: si sarebbe scostato da lui, e da tutti gli altri. Sarebbe rimasto lontano da tutti, fino alla morte dell’assassino. E se in quella casa era destinato a rimanere solo lui, col loro carnefice, l’avrebbe ucciso.
«Sono proprio un bastardo, lo so.»
Si rigirò fra le mani una pistola piuttosto piccola, di un grigio scuro: quella che nascondeva fin dall’inizio, quella che non aveva mai usato, ma sulla quale non avrebbe esitato, se si fosse trovato di fronte l’assassino.
Rimanere solo, senza potersi confidare con nessuno, senza un amico che potesse cancellare le sue lacrime e con la consapevolezza di essere un ipocrita bugiardo: ecco quali erano le sue scelte.

Gilbert non mosse un muscolo neppure quando sentì bussare alla porta.
Anche schiudere le labbra per parlare sembrava ormai una cosa estranea, e aveva paura di aver dimenticato come fare, di sentire la propria voce percossa dalla tristezza e spezzata dal dolore.
Non aveva chiuso occhi tutta la notte, ed ora se ne rimase immobile sul letto, lasciando che bussassero una seconda volta.
«Gilbert, ci sei?»
Quando l’albino sentì la voce dell’americano oltre la porta aggrottò la fronte confuso: veniva a difendere la sua bella? Tsk!
«Sì?»
Come sospettava: la sua voce risuonò terribilmente spenta, vuota e tremante, più roca e sforzata del normale.
«Devo parlarti.»
«Entra pure …»
Si trascinò faticosamente sul letto e si sedette pigramente, ascoltando il leggero rumore della porta che veniva aperta e richiusa subito dopo.
«Non sarei mai voluto arrivare a questo punto, ma credo che tu … che tu abbia ragione …»
Gilbert rimase in silenzio per qualche attimo, poi si schiarì la voce «che intendi?»
«Ieri sera, quando sono tornato in camera con Arthur, le chiavi erano di nuovo dentro al cassetto …» l’americano sospirò «posso sedermi-?»
Le chiavi erano di nuovo nel cassetto? A quelle parole, Gilbert, sentì una nuova rabbia ribollirgli dentro.
Il prussiano annuì e così, il biondo, si sedette al suo fianco, senza scostare gli occhi dal pavimento.
«Non ha perso nessuno di caro.
Forse Francis aveva ragione a sospettare di lui …
Era già qui quando siamo arrivati, per ciò che riguarda questa casa sa sempre molte più cose di tutti noi altri messi insieme-»
«Un momento. Francis è caro ad Arthur, ne sono sicuro.»
«Lo detesta.» Alfred tagliò corto, tornando in piedi e rivolgendo poi un’occhiata asettica al prussiano «senti Gilbert …»
«Was-?» Francia era suo amico. Per Dio, quante cose aveva sentito dire sul conto di Inghilterra e su scappatelle e cose varie: come poteva, l’inglese, non tenere a Francis? Sotto sotto, grattando via quella solida maschera d’acciaio, Arthur considerava Francia più che un amico e questo non era neppure da mettere in dubbio.
Decise solo di far capire ad Alfred di muoversi con le proprie tesi e le proprie ipotesi; neppure riusciva a spiegarsi il motivo per il quale le stesse confidando proprio a lui.
«Cosa peggiore è che ieri notte ha voluto a tutti i costi andare a dormire da solo.»
«America, sputa il rospo.»
«Ho provato a difenderlo. Ho provato a lasciar perdere per un po’ le tesi di Francia e a cercare di seppellire la faccenda di mio fratello fingendo di stare bene, ma più i giorni passano, più credo che Arthur mi stia mentendo, che stia nascondendo qualcosa.
Gilbert, so per certo che non puoi aver ucciso tuo fratello, né tanto meno Ivan.»
«Cosa? Guarda che io quello lo od-»
La mano dell’americano si tese velocemente verso il prussiano, fendendo l’aria e falciandola in un gesto inaspettato.
«Non possiamo rimanere divisi.»
«Cos’è? Una proposta di matrimonio, America?»
«Ahahah! L’eroe sposa solo belle fanciulle~☆!» Gilbert dovette socchiudere gli occhi ed aggrottare la fronte, per quanto risuonò brusca e squillante quella risata, ma per sua fortuna, l’americano, tornò subito serio, e anche lui decise di abbandonare la sua aria spavalda ed arrogante.
«Prussia, la questione è delicata.»
«Lo so.» gli occhi infuocati del prussiano si soffermarono su quelli dell’americano, di un azzurro come quello del mare che, verso l’orizzonte, si dipinge di un blu acceso e profondo.
«Tu non vivi con tuo fratello come io faccio con West, ma so che vi vedete spesso. Canada non è mai troppo contento del tempo che passate insieme, dice che sei un po’ troppo materiale per i suoi gusti, ma … ma ti vuole anche molto bene, come io lo voglio a West.
Io mi fido di mio fratello, e Canada si fidava di te, quindi …»
«Quindi?»
«Mhpf-» il prussiano sbuffò appena, ancora indeciso sul da farsi, ma comunque fiducioso dei rapporti tra fratelli e della fiducia che può crearsi fra due persone dello stesso sangue che sono cresciuti l’uno contando sulle forze dell’altro.

«Affare fatto.» con una rapida stretta di mano, Gilbert ed Alfred, segnarono la loro alleanza al cospetto degli spiriti.

«Arthur! Come stai?»
La voce di Antonio lo scosse, e subito, l’inglese, buttò un colpo d’occhio oltre le proprie spalle, scorgendolo in compagnia di Feliciano: ieri sera non era in camera sua, ed ora spuntava quasi a braccetto dell’italiano.
Che cosa stavano combinando?
Si allontanava un secondo da ogni cosa, ed ecco che iniziavano a formarsi bizzarre alleanze alle sue spalle.
Oh, ma dopotutto, la sua decisione, era stata quella di rimanere solo.
«Mhpf-» sbuffò appena, scostando il proprio sguardo dai due e tornare a fissare la superficie vuota del tavolo, senza rispondere.
«Antonio, stanotte ho dormito in camera tua. Spero non ti dispiaccia.»
«Umh? No, no! Figurati!» lo spagnolo sorrise sereno, per poi tornare improvvisamente serio, assottigliando il proprio sguardo e lasciando che le labbra si incrinassero in una smorfia nervosa.
Feliciano gli rivolse un’occhiata confusa, portandogli subito una mano al braccio: per qualche strana ragione, aveva la sensazione che Antonio fosse … arrabbiato.
«Dove hai dormito?»
«In camera tua. Sei sordo, forse?»
«Arthur.»
«What-?!»
Che problema c’era, adesso?
L’inglese si alzò stancamente dalla sedia, voltandosi verso di due.
«Dove-hai-dormito?»
Per qualche strano motivo, quella frase scandita e quegli occhi di smeraldo puntati rabbiosamente su di lui gli stavano suonando come una minaccia perfino temibile.
«Nel letto di Romano.»
Antonio rimase in silenzio, per poi assottigliare maggiormente il proprio sguardo, sibilando rabbioso alla fine «credo proprio che ti ucciderò.»
In un attimo, lo spagnolo, si avventò all’inglese, piegandogli un braccio all’indietro.
«Ahn-!»
«Antonio!» per quanto debole fosse, Feliciano, cercò subito di scostare lo spagnolo dal corpo dell’inglese, ma non dovette sforzarsi troppo.
«Antonio! Arthur!»
Quando la voce dell’americano risuonò alle sue spalle, lo spagnolo, lasciò velocemente il braccio dell’inglese che, sentendolo seriamente dolorante ed intorpidito, si preoccupò di muoverlo con lenta cautela per qualche attimo.
«Ha dormito nel letto di Lovino!»
Gilbert rimase in silenzio ed afferrò l’amico per un braccio, conducendolo lentamente all’uscita della cucina e, di conseguenza, all’entrata della sala.
Arthur rivolse un’occhiata ad Alfred, massaggiandosi ancora il braccio: evidentemente, non avendo altra scelta, aveva scelto come proprio alleato Gilbert.
Pensare che il giorno prima erano stati proprio lui ed Antonio a togliergli di dosso il prussiano rabbioso.
«C’è dell’altro ghiaccio in frigo …» Alfred sapeva benissimo che Arthur, ormai, aveva deciso di ritirarsi nel suo silenzio e nella sua solitudine, aveva chiuso tutti i ponti, ma quel braccio, ora, poteva anche essere lussato e sul suo viso c’erano ancora i segni lasciatigli dal pugno di Gilbert: doveva mettersi subito dell’altro ghiaccio in quei punti, se non voleva stare davvero male.
«Grazie.»
Nemmeno quando lui si era preso la sua indipendenza avevano instaurato una conversazione così fredda fra loro: Alfred non poté che sospirare flebilmente, voltandosi lentamente e dirigendosi in silenzio verso la sala dove Gilbert ed Antonio si erano già accomodati.
«Scusami Inghilterra, non sono riuscito a bloccarlo …»
Arthur guardò in cagnesco l’italiano rimasto solo con lui in cucina, per poi sibilare appena.
«Non sai quanto ti invidio, Italia.»
«Eh? Perché?»
«Perché nessuno sospetta di te, nessuno ti malmena, nessuno progetta alleanze alle tue spalle, nessuno ti costringe ad allontanarti dai tuoi amici e, soprattutto … tutti ti vogliono bene.» Feliciano si sorprese delle parole dell’inglese, e rimase ad osservarlo per qualche attimo, incapace di continuare quella conversazione.
«Mi dispiace …» si limitò a dire, per poi arretrare lentamente.
Arthur non gli prestò più attenzione: aveva già detto abbastanza.
Si sedette sospirando, e tornò a chiudersi nel suo silenzio.
Feliciano uscì dalla cucina, congedandosi con un lieve cenno della testa, e si diresse verso le scale, ignorando il vocio proveniente dalla sala dove Gilbert ed Alfred stavano evidentemente ancora cercando di calmare lo spagnolo.

Ora, Feliciano, percepiva chiaramente le vecchie scale di legno cigolare sotto i propri piedi, quel suono sinistro vibrare nel silenzio. Gli parve perfino di sentire i vetri delle finestre tremare, quando si ritrovò al secondo piano davanti alla porta spalancata di Gilbert.
Domani, un altro di loro, sarebbe morto, e dunque era quello il momento migliore per stare un po’ solo con se stesso, per quanto potesse suonare agghiacciante.
Sì, il momento migliore. Forse.
Non c’era problema né per il pranzo, né per la cena, perché ormai lì dentro nessuno vi dava più importanza. Nessuno aveva più fame.
Solo paura, odio, tristezza e risentimento.
Curioso del fatto che quella notte Arthur avesse deciso di dormire nella ormai abbandonata camera di Antonio e Lovino, decise di avvicinarsi a quella che doveva essere stata la sua stanza fino alla sera prima, per capire se anche l’americano non si fosse spostato altrove, ma i suoi passi dovettero arrestarsi molto prima, e la sua attenzione venne catturata da qualcosa di apparentemente estraneo alla casa, al centro della stanza dove, come ricordava ora, con un brivido profondo lungo la schiena, era morta la bielorussa.
«Cos’è …?» si soffermò sulla soglia della stanza, osservando quell’oggetto troppo bello, pulito e candido per essere parte di una casa fatta di legno marcio, dove i suoi fratelli stavano morendo tutti uno ad uno, come un effetto domino che si abbatte inesorabile sul mondo.
Compì solo un passo: con quella casetta di legno alta più o meno cinquanta centimetri, pitturata di un bianco luminoso, e con rifiniture, finestre e porticine di legno, ci avrebbe potuto giocare una bambina. Magari una bambina ricca e le sue bambole dai boccoli biondi e dalle vesti in pizzo.
Si schiarì appena la voce, avvicinandosi ancora un poco.
«C’è qualcuno?»
Che domanda idiota, Feliciano. In una casa pullulante di fantasmi e spiriti, poi.
Voltò la testa a destra, poi a sinistra, trovando i due estremi della casa vuoti e bui, polverosi e sinistri. Solo quella luce al centro, quella luce che inspiegabilmente lo stava attirando a sé, passo dopo passo.
Sembrava emanare perfino tepore, quella casetta di legno.
Quando vi fu davanti, l’italiano, sentì il bisogno di chinarsi appena per spiare le stanze all’interno di quella piccola casa.
Provò ad aprire la porta con un dito, ma la trovò chiusa. Così come le finestre, al suo secondo tentativo.
Poteva vedere solo attraverso i sottilissimi vetri di queste ultime.
Era così bella all’esterno, ma all’interno c’erano vecchie scale di legno molto probabilmente cigolanti, stanze piene di scatoloni impolverati, letti dalle coperte ingiallite e mobili che a fatica riuscivano ancora a reggersi in piedi, senza che le ante delle mensole si staccassero e si riversassero sul pavimento cupo.
Feliciano deglutì appena, pensando sembrasse davvero l’interno di Berkeley Square.
Quando poi si soffermò sulla cucina, ne ebbe la conferma.
Sentì il cuore scoppiare nel petto, e ora la gola pulsare: al vecchio tavolo della cucina era seduto un piccolo fantoccio triste. Aveva i capelli biondi ed indossava una semplice divisa verde torbido.
Velocemente, scostò il viso dalle finestre della cucina e lo portò a quelle alla sua sinistra: nella sala, dodici candele, di cui solo cinque avevano ancora colore il colore del sangue in dosso, erano sistemate su una lunga tavolata sormontata da un sottile strato di vetro.
Lì a capotavola, dove stava la sua sedia, c’era un fantoccio in piedi: anche lui era biondo, ma indossava una giacca di un marrone piuttosto scuro. Sulla sedia vicino a lui era seduto un fantoccio dalla divisa beige ed i capelli castani scuro, poi un altro in piedi, con la mano sulla spalla dell’altro, i capelli come neve ed in dosso una divisa blu scuro.
Feliciano deglutì ancora, ma la saliva fece fatica a scivolare via, bloccandosi nella gola secca e dolorante.
Gli occhi dell’italiano seguirono le scale, arrivando al piano di sopra: c’erano delle stanze ed una in particolare aveva appena attirato l’attenzione.
Assottigliò appena il proprio sguardo, osservando attentamente il fantoccio dai capelli castani, vestito di blu chiaro, intento ad osservare una piccola casetta bianca al centro della stanza, illuminata dalla luce proveniente dalla finestra.

C’era qualcuno, alle spalle dell’ignaro fantoccio, e si stava muovendo verso di lui.

Quando Feliciano capì che quella dentro la piccola casa era semplicemente l’attuale situazione all’interno delle mura della vera Berkeley Square, sussultò e si voltò di scatto, riuscendo finalmente a distogliere la sua attenzione da quelle false miniature.
Non appena si voltò, qualcosa, si dissolve rapidamente nell’aria, in un sospiro profondo ed agghiacciante.
Spaventato, arretrò velocemente, e solo dopo qualche passò realizzò che sarebbe finito contro la miniatura della casa e l’avrebbe ribaltata, scontrandola.
Mugugnò appena, quando, voltatosi, non vide più ciò che c’era poco prima.
Nessuna bella casetta bianca con rifiniture in legno. Solo il buio, che ora era tornato a riempire l’intersa stanza, gettando in ombra la sua stessa persona.
Arretrò rapidamente, e non appena ritrovò la luce, all’uscita della stanza, corse al piano di sotto con il fiato sospeso: non avrebbe più esaminato da solo le marce fondamenta di quell’antica casa abbandonata.

«Feliciano, tutto bene? Se è per oggi mi scuso, è stato più forte di me …» ormai era calata la sera, ed Antonio si era di nuovo sistemato lì con lui, ma Feliciano, adesso, non lo stava ascoltando.
Stava piuttosto ascoltando il rumore della pioggia oltre la finestra, immaginando come potesse essere piacevolmente fredda e dissetante quell’acqua.
Chissà se l’avrebbe sentita ancora una volta sulla pelle, la pioggia.

«Hai solo quello?» Alfred fu sorpreso che il trasferimento del prussiano da una camera all’altra fosse durato il tempo di trasportare un unico, sottile diario giusto di qualche metro.
«Veramente a casa ne ho tantissimi, kesese! Insomma, qui dentro sono scritte le gesta della Magnifica Prussia-!» Gilbert scosse appena il diario dalla copertina nera, ghignando soddisfatto, anche se era cosciente del fatto che su quelle pagine, più che esserci le gesta della Prussia, erano scritti soltanto depressioni e sciocchi tormenti d’amore.
«Ok! Se ti serve qualcosa chiedimi pure, ahah!»
«Ja, danke.
Gute Nacht, Amerika.»
«Good Night!»

Non avrebbe dormito dove aveva osato farlo la notte prima.
Ormai si era arreso, come la sua voglia di litigare, indagare, o combattere.
Antonio voleva essere rispettato? Voleva che la persona di Lovino fosse rispettata? D’accordo. Tanto ormai non aveva più nulla da perdere, e mettere l’orgoglio davanti a tutto il resto sarebbe stata solo un’imperdonabile sciocchezza.
Se gli fosse venuto sonno, avrebbe dormito lì in salotto. In qualche modo si sarebbe sistemato.
«Spero solo che qualcuno interrompa il tuo gioco e ti metta in castigo.»
Arthur schiuse le labbra, lasciando scivolare nel buio il fumo argenteo e tiepido della sigaretta, contemplando la notte illuminata dai fulmini oltre le fredde finestre.

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Capitolo 16
*** XVI - Pistole ***


XVI - Pistole



Gli occhi dell’italiano si spalancarono improvvisamente, ma il corpo rimase immobile, solo il diaframma che si alzava e si abbassava lentamente, quasi impercettibilmente: oggi, un altro di loro, sarebbe morto.
La decisione di Feliciano era quella di non lasciare la camera. Non fino allo scoccare della mezzanotte, per lo meno.
Deglutì, pensando ancora una volta che l’assassino avrebbe agito.
Voltò appena il viso, osservando lo spagnolo addormentato nell’altro letto: non lo avrebbe svegliato.
Non voleva che aprisse gli occhi, perché Antonio non ci avrebbe pensato, non si sarebbe ricordato del giorno, anzi, sarebbe uscito dalla camera e lo avrebbe lasciato solo.
Se adesso ci fossero stati Lovino e Germania sarebbe stato certamente più tranquillo, invece non gli rimaneva che starsene rintanato sotto le coperte senza più mettere il naso fuori dalla porta, in attesa della prossima morte.

Quando gli occhi stanchi dell’inglese si schiusero, vide davanti a sé la sigaretta spenta, lasciata a metà, dalla sera prima.
Lentamente, scostò la guancia dal vetro del lungo tavolo della sala, sollevando il proprio viso e portando la mano ad afferrare la sigaretta spenta, facendogli scoprire un dolore pungente e profondo al braccio.
Brontolò, portando la schiena ad aderire alla sedia. Sentì le vertebre scricchiolare dolorosamente come il legno sul quale stava sedendo, le ossa indolenzite, a causa della scomoda posizione in cui si era addormentato.
L’occhio e lo zigomo erano ancora gonfi: li sentiva anche senza l’aiuto delle mani. Percepiva la pesantezza del gonfiore ed il dolore, quando sbatteva le palpebre.
Arthur si massaggiò il braccio, ricordando le parole dell’americano: c’era ancora del ghiaccio nel frigorifero.
Sospirò appena, dirigendosi verso il frigorifero, ma quando lo aprì e vi ritrovò quegli impacchi di carta stagnola contenti le carni congelate dei morti, lo richiuse subito, rinunciando al ghiaccio e lasciandosi scivolare con la schiena aderente al frigo, fino al pavimento.

Sentiva la morte respirare sopra il proprio collo.
Sentiva la pazzia scorrore nel sangue.

Quando Gilbert lasciò scivolare pigramente la mano sotto al cuscino, schiuse gli occhi aggrottando la fronte.
«Alfred?» chiamò subito l’americano, estraendo da sotto il cuscino una chiave piuttosto arugginita, osservandola stranito.
Alfred si alzò velocemente, per osservare meglio quella chiave sconosciuta «ma da dove spunta …?»
«Era sotto al cuscino.»
Alfred la tenne sul palmo della propria mano per qualche attimo, guardandola crucciato, per poi restituirla al prussiano.
«Sentivi per caso fastidio, mentre dormivi?»
«Un po’. Tu dici che è stato Arthur a nasconderla qui?»
«Potrebbe anche essere possibile …» la voce dell’americano si fece poco più cupa, ed il capo lievemente chino, poi lo sentì sospirare.
«Comunque sia dobbiamo organizzarci contro l’assassino. Propongo di provare a capire quale porta apre quella chiave-!»
«Il Magnifico Me propone semplicemente di nascondersi e tenerli d’occhio. Soprattutto Arthur.»
«Gilbert, fidati dell’eroe! Prendiamo la chiave e cerchiamo! Magari … ehi, un momento …!» Alfred si scambiò una rapida occhiata con il prussiano, che parve capire al volo, interrompendo ed esclamando quasi vittorioso «la stanza del piano sotterraneo!»
La stanza parevano provenire sempre strani rumori.
La stanza della quale nessuno poteva conoscerne il contenuto.

Le lancette si muovo. Nessuno muore.

Per quel giorno, Feliciano, era riuscito nel suo intento: trattenere Antonio in camera per tutto il giorno. Lo aveva giusto lasciato andare in bagno due volte, ma ovviamente si era appostato davanti alla porta, attento a qualsiasi movimento.
Per i pasti non c’era davvero più problema, essendosi esaurite tutte le scorte.
«Sono quasi le ventitre …»
«Ci sono ancora due ore per morire, allora …»
La smorfia di Antonio sembrò voler fermare Feliciano ed il suo pessimismo, ma anche lo spangolo, in cuor suo, sapeva perfettamente quanta ragione avesse l’italiano: o alle ventitre, quindi fra pochi minuti, o a mezzanotte, qualcun altro sarebbe caduto nella trappola dell’assassino.

«Le ventitre.»
Arthur spense la sigaretta nel piattino di vetro di fronte a lui, e ne accese un’altra.
Nessun movimento: né al piano di sopra, né poco più lontano dalla cucina dove ora era lui.
«Allora sarà a mezzanotte …»
D’un tratto, ad Arthur, sovvenne un’agghiacciante analogia negli orari, ma non volle darvi peso, e buttò fuori dalla bocca quel fumo pesante che ormai gli faceva soltanto bruciare la gola.

«Credo che di sotto stiano tutti bene.»
«Ja.»
L’americano ed il prussiano erano ormai appostati in cima alle scale da circa mezz’ora, ed ora che che le ventitre iniziavano già timidamente a passare, era ormai evidente per entrambi che l’assassino avrebbe agito a mezzanotte.
«Andiamo, America?»
Quando il prussiano scese uno scalino e si voltò verso l’americano, lo vide quasi immobilizzato sulla cima delle scale «e … e se poi peggiora la cosa?»
Ah sì, dimenticava. Faceva tanto l’eroe, ma sotto sotto, per queste cose, era davvero un cagasotto.
Gilbert sbuffò appena, ignorandolo e scendendo ancora «la chiave ce l’hai tu, il Magnifico Me non ha voglia di aspettare.»
«Ahn- d’accordo, arrivo …»
Quando l’americano lo video ormai infondo alle scale si decise ad abbandonare il secondo piano.
Silenziosamente, Gilbert, attraversò l’ultima piccola rampa di scale, arrivando proprio di fianco alla vecchia macchinetta del caffè, fermandosi ad osservare la porta chiusa davanti a sé.
Di lì a poco, l’americano, gli si affiancò, adagiandogli una mano sulla spalla.
«Se oltre questa prota troveremo soltanto altri spiriti o qualcosa di inutile, rimaniamo qui finché non passerà la mezzanotte, e poi faremo finta di niente. Che ne dici?»
«Intendi che potremmo usare questa stanza come se fosse un bunker?»
«Sì, quando lui vorrà uccidere.»
«Ci sto.»
Alfred annuì deciso, avvicinandosi alla porta, seguito dal prussiano.
Inserì con facilità la chiave dentro la serratura, e dopo un leggero sforzo, lo scatto di questa li scosse appena.
«È aperta …»
«Ja. Andiamo.»

La porta venne aperta, ed America e Prussia varcarono la soglia.

Nel buio profondo, ospite di quella fredda stanza, più lampi di luce scossero i loro occhi, finché questa non riuscì ad accendersi del tutto, mostrando ciò che fra quelle quattro pareti era stato custodito da così tanto tempo.
«Sono … casse …» il prussiano aggrottò appena la fronte, osservando confuso quelle grandi casse addossate ai muri della stanza.
«Prussia! Guarda! Ahahah~!» l’americano rise rumorosamente, e quasi gli fece accapponare la pelle per il nervoso, ma quando si voltò, Gilbert, pensò che ormai fossero a buon punto.
«Siamo stati fortunati, con queste avremmo modo di fermare l’assassino!» «Sì, sempre che funzionino.» Gilbert afferrò una vecchia pistola dalla cassa, osservandola attentamente.
«Sembra in buono stato, anche se è scarica.»
«Già, probabilmente saranno tutte scariche, ma …» Alfre voltò appena il viso, verso il fondo della stanza, dove erano esposte casse molto più piccole «se siamo fortunati penso che ci sarà anche qualche munizione, non credi?»
«Ne prendiamo una per uno, ja?»
«Sure!
Mentre cerchi le munizioni io vedo se nel mucchio riesco a trovarne delle migliori, dopotutto sono l’eroe~!»

Le lancette si muovono. Le lancette troppo vicine alla mezzanotte. Qualcuno deve morire.

«L’unico problema è capire quale sarà la prossima vittima.»
Prussia si avviò verso le casse sul fondo della stanza, senza più voltarsi verso l’americano.
«Io lo so.»
L’americano assottigliò rapidamente gli occhi, e quando Gilbert si voltò, non poté che stringere i pugni e i denti, messo alle strette.

«Il tuo gioco è finito, Prussia.»

Una pistola era ora puntata contro il suo petto.

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Capitolo 17
*** XVII - Mezzanotte ***


XVII - Mezzanotte



«Feliciano, andiamo da Arthur.»
L’italiano rivolse velocemente il proprio sguardo allo spagnolo, negando fermamente.
«Perché dovremmo? Mancano pochi minuti alla mezzanotte-!»
«Appunto …»
«Non … non potremmo andare da Prussia ed America, piuttosto?» chiese timidamente, ma Antonio aveva già aperto la porta e sembrava convinto della sua decisione.
«Hai paura di Arthur?» quasi lo schernì, con un lieve sbuffo.
Feliciano rimase in silenzio, e lo spagnolo continuò «di un povero inglese con lo zigomo così gonfio che ormai non riesce neppure più a chiudere gli occhi per dormire? Che ha la schiena ed un braccio quasi rotti?
Feliciano, fidati di me.
Por favor …»
Gli fece cenno di uscire con lui dalla stanza, ma l’italiano rimase immobile, deglutendo appena.
«N-non voglio uscire, morirà qualcun altro-!
Ne ucciderà un altro!»
Antonio rimase in silenzio, anche se lo avrebbe voluto incitare alla calma.
Lo afferrò per un braccio, trascinandolo fuori dalla stanza e guidandolo quasi a forza fino alla cucina.
Quando Arthur sentì il mugolio dell’italiano alle sue spalle, si voltò verso i due, rimanendo ad osservarli in silenzio.

«Lo sapevo-» il prussiano sibilò rabbioso, assottigliando il proprio sguardo senza scostarlo da quello dell’americano.
«Ah sì? Te l’ha detto il fantasma di Ivan?» l’americano ghignò divertito, osservando la smorfia del prussiano che a poco a poco si faceva sempre più rabbiosa e allo stesso tempo sconsolata, triste.
«Tu-!»
«Io.»
Premette il grilletto ridendo divertito, e il proiettile andò a conficcarsi velocemente nel petto del prussiano, facendogli perdere l’equilibrio.
In preda ad un singulto di dolore, Gilbert, cadde a terra, con la schiena contro al muro freddo, e subito, fece correre una mano al petto insanguinato, respirando a fatica.
«Bastardo! L-lo sapevo che eri tu-!»
«E allora perché diavolo ti sei alleato con me, idiota?
In verità non avevi capito proprio nulla, eh?
Dai, sentiamo: cosa ti ha fatto pensare fossi io il colpevole? Sono curioso di scoprirlo! Ahahah!» la sua risata squillante gli mise di nuovo i brividi, ed il dolore al petto si fece più forte.
«Prima di tutto …» il prussiano iniziò debolmente, tossendo all’improvviso e percependo il sangue caldo scivolargli via dalla bocca, impregnarsi sulle labbra.
«Mi vorrei focalizzare sulle lettere, ma non so bene come tu abbia fatto. P-presuppongo con l’aiuto di Tony, anche se può sembrare una cosa stupida …
O-ora voglio passare a ciò di cui sono sicuro.
Prima di tutto bisogna soffermarsi sulla prima vittima …
Hai tolto di mezzo tuo fratello, quello che, standoti sempre vicino, ti avrebbe ostacolato maggiormente. In più, quella notte, sei stato il primo ad arrivare s-sul posto, no?
Le prime persone che sono morte erano tutte sistemate al secondo piano, ad esclusione di Lovino e West, per quella storia idiota dei fratelli, che ti facesse da scusa per Canada.
Il secondo piano è stato anche quello che ha ospitato te.
Hai tolto di mezzo Roderich, poi Natalia, Francis ed Ivan e … e mi devo soffermare soprattutto sugli ultimi due, perché … perché sei proprio un idiota, America.
Il giorno in cui abbiamo trovato Natalia impiccata, ricordo che in bagno abbiamo trovato delle tracce di fard, come se qualcuno tentasse di nascondere qualcosa sul … sul proprio viso.
Chissà perché il giorno dopo, sulla guancia, avevi un cerotto. No-non era certo perché qualche fantasma ti aveva lanciato il comodino addosso, ma era stata Natalia che aveva tentato inutilmente di difendersi-
In quel caso avevi rubato ad Ivan la sciarpa. Sapevi che lui, effettivamente, aveva una pistola, e così hai cercato di orientare i nostri sospetti verso di lui … dopo l’omicidio di West, però, la pistola ed il silenziatore nelle sue tasche ce li hai messi tu, così come la chiave che stamattina ho trovato sotto al cuscino.
Invece, per Ivan … ho trovato dei fili trasparenti e del fil di ferro vicino alle stanze dove erano stati chiusi Antonio e Feliciano … avendo molto vicino Arthur, sei riuscito a rubargli le chiavi e fargli attribuire i sospetti maggiori, e proprio con un sistema di fili collegati al bango, stanza opposta alle altre due e dove eri stato “rinchiuso” tu, eri riuscito a chiudere le porte contemporaneamente.
Dopodiche avevi rinchiuso anche me ed Arthur.
Non so come tu abbia fatto ad aprirmi senza farti vedere, fatto sta che poi, di proposito, sei ricorso di nuovo al sistema del filo per aprire soltanto la porta di Antonio … e facendolo così girare per casa subito dopo l’assassinio di Ivan, hai fatto attribuire alcune colpe anche a lui.
E poi conoscevi già questo posto, visto che hai aperto così facilmente la vecchia serratura arugginita e hai trovato subito la luce, anche nel buio pesto …
In più ho sempre fatto caso che, per tutte le vittime morte per colpa di armi da taglio come tuo fratello, o Roderich … hai voluto partecipare alla loro macellazione.
Q-quasi come per evitare che Arthur trovasse qualcosa di interessante, j-ja?
Oh, Arthur.
A-Arthur è la parte più interessante.
Hai confermato tutti i miei sospetti, quando ieri mi hai chiesto di allearmi con te e, di conseguenza, contro Arthur. D-da quando dai ragione a Francia e dai sfiducia al tuo adorato inglese, eh? N-non sono un idiota, America.
Lui è la prova numero uno, perché non sei mai riuscito ad ucciderlo, pur condividendo la stanza con lui.
Molto probabilmente avresti fatto ancora fuori me, Feliciano ed Antonio, ma Arthur … i-il tuo Arthur no, tsk-!» ormai agonizzande, il prussiano, era riuscito con fatica a trarre le sue conclusioni.
«Bravo Prussia. In investigazione ti meriti un dieci.
E perché “probabilmente avresti”?
Tu morirai proprio adesso.»
Quel fastidioso sorriso vittorioso sulle labbra di America sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto?
Oh, davvero poco Magnifico!
L’americano premette ancora una volta il grilletto, ampliando il proprio ghigno.
Quando il colpo non partì, gli occhi di Alfred, si sgranarono increduli.
«C-cosa-?!»
Le labbra del prussiano si incrinarono in un lieve ghigno.
«Allora America, non dovevi uccidermi adesso?»
L’americano premette ancora una volta il grilletto, stringendo i denti rabbioso.
Era così concentrato su quell’arma che neppure si era reso conto che l’albino aveva appena estratto dalla tasca un proiettile e vi stava caricando la vecchia pistola presa in precedenza.

L’unico proiettile. Quello che Ivan aveva affidato proprio alle sue mani.

«Ohi?»
«Sta zitto Prussia! Devi morire! Manca solo qualche secondo alla mezzanott-»
Uno sparo improvviso arrestò le parole dell’americano, ed un proiettile gli forò la fronte, trapassandogli la testa.
Il sangue rosso schizzò sul viso del prussiano, che tossì ancora, fortemente indebolito dalla grave ferita sul petto, mentre il corpo dello statunitense cadeva a terra esanime.

«È adesso, mezzanotte.»




La porta fu spalancata all’improvviso, e la voce dello spagnolo lo scosse appena, nonostante il suo corpo debole gli permettesse di sentirla deformata, difficilmente distinguibile, dopotutto.
«Gilbert!»
Si sentì sollevare dall’amico.
Feliciano, ovviamente, stava piagnucolando, ed Inghilterra diede delle semplici direttive ai due «portatelo in cucina e legategli stretto il petto. Cercate di ridurre al minimo la perdita del sangue!»
Probabilmente ne stava perdendo davvero tanto, visto che ora, il respiro, era smorzato, e tutto sembrava divenire sempre più cupo, silenzioso e freddo, intorno a lui.




Adesso, nella stanza sotterranea, regnava il silenzio.
Arthur chinò appena il viso, lasciando che la voce tremante scappasse dalle labbra in un triste sospiro.
«E così … così mi hai sempre mentito, America.»

Lasciò solo un piccolo spazio per la lacrima calda che, velocemente, gli rigò la guancia ferita.

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Capitolo 18
*** XVIII - Amicizia ***


XVIII - Amicizia



Gilbert sentì la camicia inzuppata di sangue scivolare lungo le braccia, ed un panno bagnato premere sulla ferita, facendolo sussultare in preda ad una scossa di dolore.
Qualcuno lo stava reggendo sulle spalle, in modo da tenerlo seduto sul tavolo, e quanlcun’altro stava cercando di avvolgergli il petto con diverse bende molto morbide, sulla pelle.
«Antonio, non così!»
Ormai, i suoi occhi, erano totalmente chiusi, il respiro quasi assente.
Fu il dolore improvviso, quando l’inglese strinse quasi violentemente le bende intorno al suo petto, che gli bloccò del tutto il respiro e gli fece spalancare gli occhi.
«Nh-!» cercò di ritrovare il proprio respiro, ma lo sentì smorzato, poi mancare di nuovo del tutto.
Sollevò con sforzo il diaframma, ritrovandosi a tossire rovinosamente.
«Scusa Gilbert, è necessario, ma non appena ti abituerai riuscirai a respirare di nuovo bene. Sta tranquillo.»
Lo aveva chiamato per nome? Da quando Arthur usava tutta quella confidenza?
Il sollievo di sapere di essere ormai al sicuro doveva essere davvero rassicurante per tutti, e molto forte per lui, che ora sembrava così cordiale dopotutto ciò che vi era stato fra loro.
Antonio ed Arthur lo fecero scendere lentamente dal tavolo, facendolo sistemare su una sedia.
«Bueno, vado a prendere un cuscino-!»

«Gilbert, ce la fai?»
Ormai, le sette del mattino, erano passate, e fu la voce dello spagnolo a svegliarlo da quel debole sonno.
«A-Antonio …?»
«Avanti, proviamo ad uscire, amico~»
Gilbert circondò le spalle dello spagnolo con il proprio braccio, sorreggendosi a fatica sulle proprie gambe, in un debole colpo di tosse.
«Forza, dai …»
L’albino, pur essendo rassicurato dagli incitamenti dell’amico, si portò una mano al petto, respirando a fatica, percependo ancora un forte dolore ormai esteso a tutto il torace.
Dopo poco, aggiunsero Arthur e Feliciano, fermi sulla porta.
I quattro si scambiarono uno sguardo complice, ed Arthur chiamò un nome che, in quelle circa due settimane di tempo, non gli avevano mai sentito pronunciare.
«Isabelle?»
La sua voce risuonò nel corridoio di fronte a loro, che rimase silenzioso e vuoto, in risposta.
«Isabelle? Avanti, puoi stare tranquilla adesso! Lui … l’uomo cattivo, se n’è andato-»
Quando Arthur voltò il proprio viso e vide le espressioni incredule di Gilbert, Antonio e Feliciano, capì che una spiegazione era ben più che gradita.
«Il fatto che io abbia sempre saputo qualcosa in più su questa casa è semplicemente perché fa parte della mia nazione e mi sono documentato più volte sul suo conto.
Isabelle è una degli spiriti che la abita. Probabilmente è stata lei a chiuderci qui dentro.»
«Ma perché?»
«Era semplicemente spaventata, e più i giorni passavano, più paura aveva, più questa casa diveniva indifferente agli occhi della gente che vi passava accanto.
È stata uccisa da un uomo innamorato di lei per aver rifiutato i suoi apprezzamenti e, diciamo, non aver assecondato i suoi desideri.
Si è solo spaventata.»
Quando una trave delle scale scricchiolò, i quattro, tornarono ad osservare il corridoio come se avessero sperato di poterla scorgere anche per un solo attimo, ma l’unica cosa che poterono sentire, furono dei leggeri passi in avvicinamento.
Quando un brivido di freddo scosse il braccio di Gilbert, propagandosi lungo la colonna vertebrale, questo ebbe la sensazione di essere stato sfiorato dallo spirito, perché di lì a poco, la serratura della porta scattò, regalando un grande sollievo ai quattro sopravvissuti di Berkeley Square.
«Thank you.» Arthur afferrò la maniglia fra le dita, e rivolse un lieve sorriso agli altri tre, che fra le mani tanta speranza stavano stringendo.

La luce ferì gli occhi, ma i raggi tiepidi del sole regalarono subito una sensazione piacevole sulla loro pelle.
Quel giorno, a Londra, splendeva un raro sole.
«Vi accompagnerò all’aeroporto.»
«Gracias!»
D’un tratto, però, Arthur sentì i suoi passi bloccarsi, e vide procedere soltanto lo spagnolo e l’italiano, di corsa, a braccia sollevate verso il cielo … proprio come due bambini che escono da scuola.
Si sentì tirare da parte per una spalla, com’era già successo, ma decisamente più delicatamente.
«Grazie.
E scusa … per il tuo occhio, intendo.»
Arthur rivolse una rapida occhiata al prussiano, quasi sorpreso di quelle parole insolite, per quell’albino arrogante e superbo.
Anche a Gilbert faceva strano dire quelle cose, ma dopo essere sopravvissuti ad una cosa del genere, gli sembrava il minimo.
«Anzi, magari prima portiamo te all’ospedale.»
«Eh-?!»
Quando vide l’espressione contrariata e quasi terrorizzata sul volto del prussiano, Arthur, non poté non risparmiarsi un ghigno soddisfatto: lo scusava, lo avrebbe aiutato e lo sarebbe andato a trovare all’ospedale, ma così imparava a ridurgli l’occhio così, ecco.
«Oh, per fortuna il carrattrezzi non mi ha portato via la macchina!» esclamò sarcastico, quando distolse la sua attenzione dal prussiano -che ora stava facendo i capricci come un bambino di quattro anni- e la rivolse allo spagnolo ed all’italiano, vicino alla sua macchina che sembrava un semplice blocco di lamiera abbandonato, ricoperto di foglie e disseminato di piccole pozze d’acqua.
E così rimanevano soltanto loro. Lui, che aveva creduto fortemente nelle bugie di Alfred.

Davvero tristi, le sorprese che il destino riserva agli abitanti del mondo.

«Veh~ ho fame~»
«Ma come? Siamo appena partiti!» Arthur esclamò accigliato, ma quando si rese conto che era da giorni che nessuno di loro mangiava, pensò fosse meglio fermarsi e prendere qualcosa in un supermercato.
«Vi dispiace se ci fermiamo un momento?» Arthur rallentò, voltando velocemente il viso verso i sedili posteriori, dove Antonio e Gilbert si erano sistemati.
«Ja, tanto il Magnifico Me ha solo una pallottola piantata nel petto!»
Gilbert soffocò una risata, facendo cenno ai due di andare pure «se vuoi vai pure tu, Antonio.»
«Ma no! Tranquillo Gilbert!»
Lo spagnolo lasciò che l’italiano e l’inglese si allontanassero, e quando li vide entrare nel supermercato, propose all’amico di prendere un po’ d’aria fresca.
Gilbert accettò di buon grado, immaginando che il suo soggiorno all’ospedale non sarebbe stato certamente breve.
Zoppicando con fatica, Gilbert riuscì a sedersi sul ciglio della strada con l’aiuto dell’amico, ed entrambi rimasero a guardare il cielo, poco lontani dalla macchina.

Rimasero in silenzio per un po’, poi Antonio lo sentì sospirare e lo vide abbassare il capo, giurando perfino a sé stesso di aver notato un velo di lacrime negli occhi dell’amico.
«Li rivedremo vero? Quando torneremo a casa si sarà tutto sistemato, ja?»
Ad Antonio sembrò quasi di sentire la voce dell’amico tremare, e gli adagiò una mano sulla spalla, accennando un sorriso.
«Ma certo Gilbert, anzi, sono convinto che ci stiano già tutti aspettando.
Sta tranquillo, amico~» ampliò il proprio sorriso, continuando a stringere la spalla dell’albino con la propria mano.
«Andrà bene, e se per caso Ivan non dovesse esserci ancora, quando tornerai a casa, ti starò vicino.
Te lo prometto.»
«E perché lo faresti, Antonio?»
«Ma è ovvio! Perché siamo amici!»
Quando Gilbert vide il sorriso sincero ed allegro sul volto dell’amico, non poté che lasciarsi contaggiare e sorridere appena, sollevato da quella presenza a lui cara.
Aveva ragione.
Erano amici, e il valore dell’amicizia, di certo, non si sarebbe mai lasciato corrodere dagli eventi.

Si sorrisero ancora, guardando il cielo senza nuvole.
Mano nella mano.






✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠


-Lo Spazio dell’Autrice-

Alè alè! Finalmente ho finito una fanfiction! Caspita, la cosa mi fa davvero felice!
Una piccola premessa: scusate per gli errori ortografici in generale e per quelli che saranno sicuramente presenti in questo capitolo, ma la correzione automatica di Word non ha voluto collaborare proprio per niente, oggi.
Boh, allora, in questi 18 capitoli -uh, 18 capitoli, di cui alcuni anche abbastanza lunghi. Mi sento realizzata <3- non mi sono mai pronunciata, quindi è l’ora di farlo con varie osservazioni, i ringraziamenti, e una bella sorpresa verso le ultime righe x3

Partiamo:

Osservazioni sui vari personaggi:
Canada: su di lui non ho molto da dire. Si può dire semplicemente sia stato molto sfortunato ad avere di fianco a sé un fratello psicopatico che alla prima occasione l’ha fatto fuori. Ricordo però che la sua morte è stata anche una delle meno elaborate ed indolore.
Sud Italia: molto patito per me, il capitolo cinque.
Ricordo che a scuola non ero solo sul punto di lasciarmi sfugire delle simpatiche lacrimucce, ma anche dei fantastici conati di vomito.
Penso sia stata sicuramente la morte peggiore. Scusami Lovi.
Austria: la sua morte non ha scatenato molta tristezza fra le mie compagne di classe, ma io, personalmente, apprezzando molto e senza vergogna il suo personaggio mi sono dispiaciuta davvero tanto.
Il nostro caro Roderich si è reso utile quando ha trovato il boccettino di acido in bagno, e probabilmente si sarebbe fatto notare in molte altre occasioni; peccato che il nostro “caro” assassino abbia deciso di farlo fuori quasi subito.
Bielorussia: come avrete notato, ad un certo punto della storia, ho cercato di portare almeno una parte dei sospetti su di lei, con quella boccettina che aveva fra le mani sorridendo.
Oh beh, ma insomma, era solo profumo. Una donna non può profumarsi? Una che ama suo fratello, poi.
Per lei ci tengo a sottolineare che ancora una volta se n’è andata delusa da suo fratello, e piena di rancore nei confronti di Gilbert.
Francia: anche a lui è toccata una delle sorti peggiori.
Pur provandoci, pur essendo buono e gentile, non è riuscito ad avvicinarsi ad Arthur. Solo verso la fine ce l’ha fatta, ma l’assassino ha scelto lui.
Ha deciso di sacrificarsi per tutti e offrire il suo corpo come cena. Cosa che hanno favorito solo Feliciano, Ivan ed Alfred, “per fortuna”.
Germania: anche a lui è spettata una delle morti più rapide, insieme a quella di Canada.
Gli è andata bene, lol -non apprezza molto Germania- e più che far la parte del rompi palle, quando Gil e Ivan tentavano di stare insieme, e vegliare su Feliciano, credo di avergli lasciato il giusto spazio.
Russia: povero Russia. Insomma, la sua è stata proprio una fine da sfortunato, rinchiuso in quella stanza perché tutti sembravano credere fermamente nella sua colpevolezza.
Mi è stato decisamente molto utile dalla morte di Natalia fino a quella di Germania, e mi sento una cacca solo a pensare che l’ho usato come esca, ma era necessario.
Italia del Nord: uno dei sopravvissuti.
Feliciano non si può considerare poi così fortunato, con tutte le vomitate che si è fatto, avendo perso suo fratello e poi Germania.
Diciamo che con la psicopatia non scherza neppure lui, ecco.
Spagna: lui è decisamente quello che sta meglio di tutti, lol.
Tralasciando la morte di Lovino, per lui, non ci sono state mai ne botte, né apparizioni strane come per Feliciano, e nel capitolo finale si dimostra ottimista e fermamente convinto del valore dell’amicizia. Cosa che trovo alquanto bella.
Inghilterra: in questa fic non so se attribuire a lui il titolo di sfigato o a Lovino, ma siccome il meridionale sarà molto più sfigato in seguito, è lui che ho deciso di incoronare come amante della sfortuna (?)
Insomma, fra tutte le accuse che gli sono state lanciate contro, le botte che si è preso e le bugie di America, anche lui ha decisamente rischiato di diventare pazzo.
Nelle ultime righe sembra già molto sereno e risollevato, ma in verità è molto triste, anche se sembra si stia avviando un’amicizia fra lui e Gilbert.
Prussia: il mio asso nella manica -STRANO-
Epico il gesto di Antonio contro di lui, visto che gli ha causato un bel bernoccolo in testa, lol.
Diciamo che per il resto è stato molto fortunato a sopravvivere alla fine, e a trovare America privo di munizioni, ma molto sfortunato nella scelta della stanza che, fra tutto, forse, era quella più colma di spiriti.
America: il nostro caro, amato, assassino.
Sì, certo, come no.
Che dire? Su di lui non ho voglia di dire nulla, non se lo merita, oh! Sappiamo tutti cosa ha fatto, ecco -in verità le pesa un po’ il culo-

Per ciò che riguarda i personaggi, ho solo da rimproverarmi il fatto di non saper muovere al meglio alcuni, proprio come America e Spagna. Effettivamente dovrei fare pratica anche con Italia del Nord, Austria e Canada: ne sono più che sicura!

Punteggi:

America: 07
Prussia: 01
Austria: 00
Bielorussia: 00
Canada: 00
Francia: 00
Germania: 00
Inghilterra: 00
Italia del Nord: 00
Italia del Sud: 00
Russia: 00
Spagna: 00


Ringraziamenti:

Ovviamente a The Naiads, che ha commentato praticamente tutti i capitoli -sei impeccabile, ecco òAò- facendomi un grande piacere quando la sera, dopo lo studio, entravo stancamente su EFP e trovato interesse per la mia fic <3
A tutte le mie compagne di classe o amiche che hanno letto e indagato <3
E a Juliett_94, che non so se non ha più recensito per problemi esterni o perché non ne aveva più voglia. Ma grazie comunque <3

A livello personale mi ritengo davvero soddisfatta di questa fanfiction. Pensavo non sarei riuscita a portarla avanti, dovendo gestire 12 personaggi diversi, ma nonostante all’inizio fosse un po’ caotico, poi, mi sono trovata davvero bene.
Ecco perché ho deciso che ci sarà una seconda serie.

Seconda serie, sì. Avete letto bene.
Nuovi personaggi -in aggiunta di questi-, un ambiente totalmente diverso, un gioco, e molti, molti, più morti.


Mi auguro sia un successo come questo.
Vedrò di mettere il primo capitolo al più presto. Per il resto, buon proseguimento a tutti!

Alla prossima.

_Neu Preussen_

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