No Human Can Drown

di Dernier Orage
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rue de Sèvres ***
Capitolo 2: *** Traffico ***
Capitolo 3: *** Wunderkammer ***
Capitolo 4: *** Low Estate ***
Capitolo 5: *** Ritroso ***
Capitolo 6: *** Träumerei ***
Capitolo 7: *** I put my trust in you ***
Capitolo 8: *** Tra le Vertebre ***
Capitolo 9: *** Que ton indifférence, elle ne me touche pas ***
Capitolo 10: *** Mille baci non mi basteranno. ***
Capitolo 11: *** Virgilio Brocchi, Le Aquile, Milano, Fratelli Treves Editori, 1906. ***
Capitolo 12: *** La persona che rendeva ogni cosa possibile. ***



Capitolo 1
*** Rue de Sèvres ***








No Human Can Drown






Let me be alone
Let me dream in silence
And enjoy this cold wonderful night
Let me believe
Make me glad
Let's dance on the water
Let me believe
No human can drown
If you don't expect too much
Clan of Xymox - No Human Can Drown


Parigi, marzo 1997 

Dopo anni e anni lo scrittore, sceneggiatore e giornalista Stéphane Alunir era ritornato a Parigi. Era la primavera del 1997, aveva trentadue anni, tre libri pubblicati, tre lingue parlate correttamente e correntemente, cinque cambi di casa, un divorzio e due figlie. Il suo colore preferito era il blu elettrico, odiava tantissime cose e gradiva piccole attenzioni tipo la barista che gli porgeva la brocca del latte o chi attendeva che la folla uscisse dal metrò prima di entrare.
Aveva appena vinto un’estenuante battaglia legale per avere l’affidamento esclusivo delle figlie: la loro madre, nonostante i parecchi problemi con la droga, era stata una modella molto famosa, il divorzio era stato seguito da tabloid scandalistici e la pressione in certi momenti era parsa insostenibile.
Era da quando aveva vent'anni che abitava ad Amburgo, aveva iniziato lavorando per un giornale locale e aveva finito per firmare articoli sui concerti e sulla vita musicale della città e pubblicando sotto uno pseudonimo libri che erano diventati best-sellers. Tramite la frequentazione di una truccatrice conobbe Mojca Heinle, fotomodella dalla bellezza androgina e violenta. La sposò senza neanche sapere il perché, dopo pochissimi mesi di fidanzamento (Lei era stata coinvolta in uno scandalo con un politico qualche tempo prima). 
Lo affascinava, ma niente più. Un matrimonio burrascoso, sempre sotto le luci dei riflettori. Lei, la modella di successo, bellissima, famosissima. Lui, il giornalista francese quasi sconosciuto.
Stéphane non dava la colpa ai fotografi per averli portati al divorzio, semplicemente non gli importava più del matrimonio e del suo fallimento, desiderava solamente tornare in Francia con le figlie e ricominciare, non considerava un atto egoistico allontanarsi da una donna che non amava più per proteggerle.

Stéphane era da solo due settimane nella capitale francese, con le bambine alloggiava in un hotel piuttosto deprimente con la carta da parati a fiorellini rosa antico e la moquette beige. Contava di trovare entro pochi giorni un appartamento in affitto per qualche mese, oppure sarebbe ritornato a Brest, per far conoscere alle bambine la nonna, i luoghi della sua infanzia, gli splendidi paesaggi alla fine del mondo. 
Alla ricerca della sistemazione faceva partecipare anche le piccole: di mattina le portava a passeggiare, oppure nei musei o al cinema (riservavano una sala ai migliori cartoni animati della storia), per pranzo andavano a comprare dei panini da mangiare seduti su una panchina e il pomeriggio serviva per conoscere possibili ospiti, cercare gli appartamenti più convenienti, sia economicamente che geograficamente. La sera le portava in ristoranti carini, un po’ retrò, ma con un menù veramente invidiabile. 
Stéphane era ritornato per trovare l’ispirazione per un nuovo libro, per dimenticare le siringhe vicino alle bambole e le bustine di eroina dentro i peluche. Si considerava benvenuto nella sua nuova vita, come se la sentenza per l’affidamento si fosse portata via tutti i fantasmi e tutte le inquietudini. Finalmente poteva ricominciare.
 
Era una solare giornata primaverile, la luce aveva colori caldi e l’aria era frizzante. Era mezzogiorno e stavano percorrevano rue de Sèvres all’altezza del XV arrondissement alla ricerca di un locale dove fermarsi per il pranzo, quando Louise-Maelice rimase affascinata dall’insegna in ottone di una libreria e dalla vetrina dipinta. La piccola Michelle, di quattro anni, occhi color cioccolato e capelli castani, ricci, lunghi quanto bastava per trattenerli in una coda, aveva le labbra impiastricciate di gelato alle more, Stephane le pulì il visino con un fazzoletto di stoffa, che poi ripose nella tasca del caban. Louise-Maelice spinse a fatica la porta di legno pesante, schiacciando la fronte contro il vetro impolverato per sbirciare dentro. Appena entrati respirarono l’aria calda, polverosa, intrisa dell’aroma di libro, un profumo difficilmente narrabile, pungente e dolce. 
La libreria era accogliente, un po’ buia, piena di volumi malconci, prime e seconde edizioni di libri ottocenteschi, carte antiche e manuali bizzarri, guazzi di manifesti pubblicitari. Vecchi libri mai andati in ristampa, collane da edicola. I volumi erano riposti in scaffali alti fino al soffitto di legno scuro. Stéphane notate le ridotte dimensioni della libreria permise a Louise-Maelice di curiosare da sola, prese in braccio Michelle e cercò uno scaffale contenente libri recenti, era una curiosità, sperava che non vendessero anche i suoi romanzi. Era un imbarazzo in parte giustificabile dal pudore del ‘mettersi a nudo’ che pubblicando si violava, lo stesso motivo per cui aveva scelto uno pseudonimo.
Louise-Maelice aveva percorso solo qualche metro, ammirando la quantità e la qualità di libri presenti; le piacevano quelle copertine pesanti, magari in raso o ricche stoffe; percorreva con le dita i titoli dorati e la costa in cuoio. Venne attratta da un rumore ovattato, dietro il bancone della cassa notò una tenda semiaperta. Si scorgeva appena la silhouette di un uomo chino su qualcosa di indefinibile. Maelice, curiosa, si avvicinò, forse fece rumore, perché l’uomo misterioso alzò il viso e la vide. Adesso il suo volto era in luce, aveva nebbiosi occhi grigi, capelli castani, ricci disordinati che formavano una specie di aureola incorniciando il viso ovale, la carnagione lattea su cui risaltavano le vene bluastre delle palpebre sottili e del collo, bianche mani dalle lunghe dita con le nocche arrossate che accarezzavano un labrador color miele. 
L’uomo si alzò in piedi e mosse due passi verso la tenda. Louise-Maelice indietreggiò. 
- Ciao. Come ti chiami? - chiese l’uomo sedendosi su uno sgabello, le fece segno di avvicinarsi. 
- Louise - rispose la bimba osservando curiosa il cane. 
- Io sono Ismaël, la libreria è mia - le sorrise, spostando dei libri per farle spazio su uno sgabello; - ebbene, Louise, ti piace leggere? - 
- Sì, ma di più ascoltare le storie. Come si chiama? - borbottò velocemente la bambina con quello strano accento, indicando il labrador. Aveva sei anni, le mancavano due denti da latte, quel giorno la punta delle scarpe da tennis sembrava macchiata della polvere sollevata quando aveva calciato la ghiaia; - Io non riesco a leggere libri in questa lingua - 
- Maelice! - chiamò Stéphane da dietro uno scaffale. 
- È il mio papà - mormorò Louise abbassando lo sguardo. 
Quella voce risvegliava qualcosa. Apparteneva ad un periodo lontano. Apparteneva ad una persona lontana. Le sopracciglia aggrottate fecero assumere al libraio un’espressione pensosa, severa.
- Mi chiamo Louise, mi chiamo Maelice e mi chiamo June. Ho tanti nomi, è che mio papà è un po' matto - la bimba sorrise impercettibilmente, scusandosi inconsciamente; - però il mio nome preferito è Louise, per questo ti ho detto Louise. Tu puoi chiamarmi così? Papà non lo fa mai - 
Stéphane comparve da dietro uno scaffale, sorreggeva Michelle con un braccio, lei gli cingeva il collo, e teneva una pila di libri, l’uno in bilico sull'altro. 
- Mellie, mi aiut…- Stéphane non riuscì a terminare la frase.
Impietrito fissò Ismaël. Adesso sì che gli mancava l'aria.
Non era la polvere alla gola, non era quell’apprensione costante per l’asma della figlia minore. Non era il mal di testa. Non era l’insonnia. Non era un tuono che per qualche istante congela il respiro.
Mancava l’aria.
Un’ondata di parole e pensieri e emozioni lo sommerse.
Barcollò.
Frasi spezzate, lettere ingiallite dalle parole sbiadite, mai una telefonata, neanche un indirizzo. Poteva anche essere morto! Ed ora Ismaël era di fronte a lui, parlava con sua figlia in un negozio pieno di polvere che avrebbe potuto scatenare l'asma di Michelle. Dove era stato tutti quegli anni. Cosa aveva fatto. Cosa aveva provato. Chi aveva amato. Non aveva risposte e neanche domande. 
Voleva cancellare tutta quella distanza, riuscire a ristabilire un contatto, riavere la chiave di lettura dei suoi occhi. Era dal 1983 che non lo incontrava. Dal 1984 che non riceveva una sua lettera. Quattordici anni lontano dalle sue labbra. Dalla sua persona! Tredici anni senza la certezza che fosse vivo. 
Come al rallentatore. Appoggiò i libri sul bancone della cassa, fece toccare il pavimento alle ballerine nere lucide di Michelle, lei osservava incuriosita la scena da sotto la frangia. A quel punto si gettò contro Ismaël e sperò di abbracciarlo, ma in realtà lo strinse quasi con la paura che scomparisse nel fumo. 
- Ismaël, Maël, Maël, Maël... - ripeteva Stéphane. Nel suo abbraccio Ismaël era caldo, non a proprio agio, ciò lo fece sorridere e poi ridere come un ossesso: non era cambiato; – quanto tempo è passato, come stai? - 
Stéphane si sentì strattonare la stoffa dei pantaloni, la piccola Michelle richiedeva attenzione, voleva essere presa nuovamente in braccio. 
- Come ti chiami? - le chiese Ismaël scompigliandole i capelli. 
- M’elle, quattro anni - rispose la piccola scandendo bene le lettere e mostrando quattro ditina. 
- Michelle e Maelice - ripeté Stéphane; - sono le mie bimbe -
- Tue figlie. Cioè, è strano. Sono identiche a te. La loro mamma? - il tono della voce di Ismaël si era abbassato ulteriormente. Stéphane immaginò le lunghe corde vocali che vibravano piano. 
- Mojca, la loro madre, abita ad Amburgo. Ho vissuto per un po’ di anni in quella città - 
- Vado a preparare del the. Voi lo volete? - Maelice e Michelle annuirono. Stéphane corrugò la fronte, Ismaël fuggiva nuovamente, anche se solo per qualche metro. Entrambi sapevano che era solo una scusa per porre un divisorio; - cosa hai fatto in tutti questi anni? - 
- Niente di che, lavoro, matrimonio fallito. Sono nate loro, l’unica cosa ben riuscita. Tutto normale, non proprio come progettavamo ma è andata così. Adesso siamo qui, almeno per qualche mese, pensa che viviamo in un albergo. Tu? - da dietro la tendina Ismaël non rispose immediatamente. Si trovava nel piccolo retro del negozio, adattato quasi a salottino, con un piccolo fornello, una sgabello. Stéphane continuò; - è tua questa libreria? Vivi qui? La tua famiglia? –
- Quante domande! Sì, è il mio negozio. Non parlo con mia madre da tanti anni, gli unici contatti che mi sono rimasti a Brest sono mio padre e Eveline. Neven gira per il mondo, è un fotografo, quel cane, Zara, è suo. Perché mi chiedi se sono sposato? Sarebbe improbabile... - versò il the bollente in quattro tazze, le mise in un vassoio assieme alla piccola brocca del latte e quella dello zucchero. Trasportò il tutto fino al bancone; - tra poco chiudo, il lunedì pomeriggio restiamo chiusi. Se non avete impegni potreste venire a pranzo da me. Ho l’impressione che tu abbia bisogno di altre risposte - 
- Davvero? Ma papà, quella cosa riguardo alle persone che non si conoscono bene? Vale anche per te?- chiese sospettosa Louise-Maelice accostando le labbra al bordo della tazza di ceramica. 
- Stéphane Alunir, dieci novembre millenovecentosessantaquattro, Quimper. Per leggere porta gli occhiali, ha un tatuaggio con scritto ‘resistance’ all’altezza del cuore, una voglia violetta dietro il collo - Ismaël le sorrise; - tifa l’Arsenal. Ci conosciamo da tantissimi anni - 
- Esattamente - disse Stéphane soffiando sul the di Michelle per raffreddarlo. Uno sguardo fugace al libraio, si ritrovò estasiato nell’osservare la sua espressione. Non pensava potesse fargli quell’effetto, dopo tanti anni. Pensava che qualcosa dentro si fosse infranto senza nessuna possibilità di ripararlo, eppure quella sensazione, era il desiderio di vivere con qualcuno, crescere e invecchiare con quella persona, darsi completamente, mente e anima e corpo, passato e presente e futuro, era tornata, forse più potente di prima, avendo Stéphane conosciuto l’abbandono e la mancanza. 
 
Il bancone aveva bisogno di essere riordinato, il cestino svuotato. L’unica cosa che Ismaël fece fu chiudere la cassa. Si infilò il covert grigio e invitò gli altri con un gesto ad imitarlo. Le movenze sicure e precise rivelavano le abitudini, slegò una bicicletta nera dal lampione e la portò in negozio, lasciandola davanti al bancone in bilico sul cavalletto. 
- Zara… vieni qui - chiamò aprendo la porta e mettendo il guinzaglio al labrador, seguito da Stéphane, Maelice e Michelle. Ismaël chiuse l’uscio e abbassò la saracinesca, con un assordante sferragliare; – dovremo prendere la metro - 
Stéphane lo fissava affascinato e si perdeva nei pensieri, quella situazione lo stava sopraffacendo. Il suo amore di gioventù sotto certi aspetti era cambiato, appariva più aperto, lieto, amichevole. Ciò lo rattristò, probabilmente qualcuno aveva portato a termine la sua antica missione, quella di rendere felice Ismaël, e quel qualcuno gli era sicuramente molto legato. Stéphane sentì la voglia folle di ricominciare il rapporto dall'esatto punto in cui si era interrotto, pervadergli il corpo, inondargli le vene e scaldarlo. Non voleva assecondare la follia.

Giunsero presto a casa di Ismaël, abitava in una palazzina alta e stretta, con l’intonaco azzurro sulle travi a vista. L’appartamento all’ultimo piano si estendeva sull’intero solaio e sconfinava nel palazzo attiguo. Ismaël li accompagnò in un breve giro dell’abitazione, raccontando che negli anni cinquanta era stato un piano di chambres de bonne. C’era una piccola cucina con lo stretto indispensabile: un frigo, due fornelli e un lavandino. I piatti e le posate erano riposte in una credenza, attaccato al muro c'era un piccolo tavolino, soltanto due sedie pieghevoli. Un angusto bagno, con le piastrelle azzurre e bianche, la vasca sotto l’abbaino. Nella camera un materasso a una piazza e mezza poggiato direttamente sul pavimento, le lenzuola bianche, sottili e stropicciate, tendaggi chiari pendevano armoniosamente dal soffitto obliquo per fornire una sorta di isolamento termico ed acustico, una base rettangolare di wengé costituiva il comodino, sopra c’erano cianfrusaglie varie e una abat-jour. La stanza degli ospiti era spartana con un unico tocco accogliente dato da dei quadri appesi alla parete e il letto matrimoniale italiano. Il salotto era su un livello diverso, bisognava scendere tre gradini, ed era una grande sala col parquet e un pianoforte, il piccolo vano annerito del caminetto, un divano, due poltrone spaiate, uno scrittoio, una scrivania e degli scaffali pieni di libri e dischi. 
- Volete qualcosa in particolare per pranzo? - chiese Ismaël assentandosi per andare a prendere altre due sedie pieghevoli dal ripostiglio, poi stese una tovaglia sul tavolo di cucina e aprì un cassetto per le posate. 
- Va bene tutto. L’unica che mi fa qualche problema a tavola è Maelice - accennò Stéphane, porgendo le forchette a Louise-Maelice. Lei adorava apparecchiare e, in generale, occuparsi di tutte quelle piccole faccende domestiche che la facevano sentire grande ed indispensabile; - cosa cuciniamo? - 
Mangiarono tabbouleh alla menta, Ismaël aveva aperto una bottiglia di sidro come accompagnamento e del succo di frutta per le bambine. 

Stéphane richiuse la porta del bagno e vi scivolò contro con la schiena. Gli girava la testa e sentiva le troppe emozioni e informazioni picchiare contro scatola cranica, come se si fossero accorte solo ora di essere state imprigionate in quel corpo per l’eternità o almeno fino all'ubriacatura successiva. Si rialzò per lavarsi il viso e bere un po’ d’acqua. Lo specchio gli rimandava l’immagine di un uomo stanco, con folti capelli neri corti e spettinati, appena ingrigiti alle basette, il volto dalla pelle chiara e grigiastra, forse qualche chilo di troppo ma dissimulati dall'altezza. Con impeto spalancò l’anta-specchio dello scaffale a muro per vedere i medicinali, cercare di capire, c’erano i flaconi di vetro di Ismaël con le pastiglie per l’epilessia, antibiotici, uno spazzolino in più oltre a quello nel bicchiere. Qualcuno era nella vita di Ismaël e ancora non gliene aveva parlato. Cacciò il viso sotto l’acqua, rabbrividendo e scrollandosi di dosso la malinconia; - sono geloso, non ci posso credere... -
Quando ritornò in cucina le bambine erano calme, composte ed educate come non mai, disegnavano su dei fogli bianchi.
Ismaël, poggiandogli una mano sull’avambraccio, lo guidò in corridoio, fino alla cassapanca, lo invitò a sedersi e, nervoso, si appoggiò alla parete. 
- Stef, mi dispiace – mormorò.
- Ho sbagliato anche io, non sono venuto a cercarti, non ho mai tentato di convincerti - Stéphane capì subito a cosa si riferiva; - saresti venuto con me ad Amburgo?- 
- Forse sì, ma non sarei stato capace a restare, a che pro? - rispose a capo chino. 
- Ora sei capace? - Stéphane sentì il cuore fermare i battiti, in attesa; - insomma, chi c’è nella tua vita?- 
- Mi divido tra qualche presenza, qualche assenza. Tu vorresti…? - accennò Ismaël. 
- Ricominciare? - Stéphane cancellò la prima parte della risposta, non era così importante al momento. Davanti a sé aveva la persona che amava, l’unica persona che sarebbe stato capace di amare e una piccola speranza nello sguardo. 






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Capitolo 2
*** Traffico ***














Stéphane si era svegliato tardi e aveva trovato Maelice e Michelle sedute sulla moquette a guardare i cartoni animati dal piccolo televisore appeso alla parete. 
Aveva subito voltato gli occhi verso la sveglia e aveva sbuffato quando aveva trovato la conferma ai suoi presentimenti: era troppo tardi per la colazione fornita dall’albergo. Non che fosse particolarmente importante, però si sentiva affamato, anche perché aveva passato la notte a vomitare la cena. 
Provò a fare mente locale della giornata precedente: soliti giri per agenzie immobiliari, una libreria, Ismaël, casa di Ismaël, pranzo, pomeriggio insieme, cena in albergo. 
Al pensare ad Ismaël sentì il cuore perdere un battito. Immaginò di abbracciarlo nuovamente, sentire il suo corpo contro il petto. Avvolto tra le braccia. La schiena dove si percepiscono appena sotto la stoffa le ossa del costato e le vertebre. Gli occhi, grigio scuro, quel colore da bambini, quel colore che generalmente cambia, immutato. La pelle, bianca e sottile, con le vene blu visibilissime. I capelli uguali, castani, arricciati, dai riflessi freddi.
- Buongiorno, papà! – esclamò Louise-Maelice saltando sul letto. 
- ‘giorno tesoro. Vieni un po’ qua… - disse trascinandola sotto le coperte e facendole il solletico. Dopo pochi secondi vennero raggiunti da Michelle; - hai fatto dei bei sogni? -
- Non credo, non ricordo - rispose tirandosi i cuscini a coprire la testa. 
- Io ho sognato che abitavamo una casa bellissima - non era vero, Stéphane aveva passato tutta la notte a vomitare e rigirarsi nel letto e cercare di mantenere le palpebre abbassate per almeno un minuto. 
- Come quella di Ismaël? Sembrava una casa magica…- mormorò Maelice mentre Stéphane raggiungeva il minuscolo bagno dove erano ammassati il water, il lavandino, la doccia e un piccolo specchio senza cornice appeso al muro. Una casa magica, pensò lo scrittore. Chissà da dove se l’era tirata fuori, chissà perché.
- Iniziate a scegliere come vestirvi, tra un po’ usciamo… ora però mi faccio una doccia - disse voltandosi, sorridendo e chiudendo la porta scorrevole. Se avesse mai avuto dubbi su Ismaël sarebbero stati fugati dalla simpatia con cui lo avevano preso Michelle e Maelice subito dopo la diffidenza, e i bambini hanno il sesto senso per le persone. Chissà poi perché.
 
She was my dark haired Lydia of my suburban German - dreams. And he was the boy-called boy-called James. And it will all end up like the New York scene. Too much drugs, too much pills and too much too much too much songs… Suicide commando, suicide is suicide, suicide commando…” cantava Johan Van Roy nello stereo.
Gli piaceva l’acqua bollente, lo calmava e rilassava e cancellava i malesseri della notte. Stéphane appoggiò la nuca contro le fredde piastrelle color ocra. L’acqua gli scorreva tra capelli, sulle palpebre abbassate, sulle labbra, nel collo, nel petto. Quasi automaticamente sfiorò la pelle, breve distanza dal cuore. E quella parola, quel marchio. 
Resistance. 
Resistere agli sguardi ottusi della massa. Resistere alla distanza. Resistere alla paura. Resistere in una gabbia dove sarebbe più facile morire. Prendere le redini e cambiare il destino. 
Aveva un grande significato quella parola una volta, il filo d’inchiostro si protraeva dalla e e collegava ad una R nella stessa città. 
Sorrideva inquieto. 
Ricominciare sarebbe stato meraviglioso. O forse, solo sentirsi di nuovo integro? 
Buttò giù la saliva. I primi mesi di assenza gli scriveva sempre che si sentiva dimezzato, perso, incompleto, evaporato, nullo. Azzerato. Reset. 
Matrimonio con il vuoto. Felicitazioni. O condoglianze? 
Si condolse con se stesso. 
Si torturava troppo, forse era l’ora di rifare le valigie e tornare a Brest. In fondo c’era cresciuto, sua madre sarebbe stata un’ottima nonna, avrebbe avuto il tempo di lavorare e mandare in stampa il suo manoscritto entro l’estate e magari di curare personalmente le traduzioni dal tedesco al francese. Era stato per quattordici anni lontano dal nido, però l’inverno era appena passato e voleva scaldarsi il più possibile. Non avrebbe più commesso gli errori del passato, non sarebbe più stato la vittima volontaria delle circostanze. 
Non aveva mai avuto certezze, tranne rimanere fedele a se stesso. Doveva scriverci sopra, avrebbe risolto tutto. Lasciò vagare la mente. Contorcendosi in pensieri vagabondi e scollegati. Riaffioravano particolari dei tempi dilatati dell’infanzia e della prima adolescenza, scenari caldi e sfocati o freddi e nebbiosi, la realtà si mischiava ai sogni; l’orgoglio per il lavoro a vent'anni, lavoro possibile da trovare solo in Germania, senza costrizioni all’Ordine, senza lauree, senza parentele obbligatorie, le copie di colleghi che doveva portare di ufficio in ufficio, i caffè rovesciati, i primi articoli di cronaca e le prime interviste, in riquadri sempre più grandi, sempre più consistenti, gli algidi cantanti new romantic tedeschi ed inglesi; la velocità degli eventi dal matrimonio fino al divorzio, ricordava prima lo smoking d’alta sartoria che era costretto ad indossare alle cene di gala, la misantropia che lo assaliva e il sollievo nel confondere Moët, whisky canadese e amaro alle erbe, un bicchiere dopo l’altro, e dopo le bimbe splendide che troppo poco aveva tenuto in braccio da neonate perché la maggior parte delle volte erano lasciate alle balie. 
Spalancò gli occhi quando bussarono alla porta. Chiuse l’acqua e cercò a tentoni l’asciugamano, quando lo trovò se lo avvolse attorno. Aprì la porta, era Maelice, già vestita, già pronta, con il telefono in mano, il cavo srotolato per la stanza, fino al limite. 
- Alurir! Ja? - esclamò Stéphane mantenendo l’usanza tedesca del rispondere col cognome e non con allô
- Sono Ismaël, ciao - aveva un ritmo serrato, come un discorso imparato a memoria. 
- Buongiorno! Va tutto bene? - Stéphane si lasciò sfuggire un sorriso e mise in carica il rasoio elettrico. 
- Veramente il punto è che… ascoltami, ti spiego. Credo che dovresti preparare le valigie e stare da me finché ti fa comodo. Restate quanto volete, ho molto spazio, lo hai visto. Che ne pensi? - cercò di interrompersi il meno possibile, nonostante non gli fosse venuto in mente un discorso lineare, poi aggiunse; - mi farebbe piacere.- 
- Saremo di disturbo, Maël…- Stéphane protestò solo per una questione d’etichetta, maledicendosi mentalmente, doveva posare immediatamente quella maschera formale, non gli apparteneva e rischiava di rovinare tutto. Ismaël aveva fatto il primo passo, forse in nome del fair play, evidenziando il contrasto con il passato. 
- No, questo è impossibile, fidati - lo rassicurò Ismaël, scorgendo la risposta affermativa precisò; - esco per fare la spesa, tra un’oretta sarò di ritorno, venite quando volete - 
Stéphane fece in tempo a sussurrargli un saluto prima che l’altro mettesse giù il telefono. 
- Ora temo il mio pensiero fisso - mormorò rivolto al suo riflesso, un sorriso nervoso di rimando e gli occhi lucidi. Guardando le figlie che discutevano del cartone animato si convinse; - andrà bene. Deve andare bene, ce lo meritiamo.- 

Avevano preparato i bagagli in mezzora, più cinque minuti a controllare sotto i letti eventuali dimenticanze e scostare le coperte, più due minuti tra l’attendere l’ascensore e lo sbagliare piano, più dieci minuti di coda dalla reception per saldare il conto dei quindici giorni più le colazioni e qualche cena più il parcheggio sotterraneo riservato. Più otto minuti a caricare il bagagliaio ed allacciare le cinture di sicurezza. Quaranta minuti nel traffico parigino. 
Sicuramente Ismaël era tornato dal supermercato. Stéphane si sentì un idiota a calcolare il tempo di ogni azione, avesse potuto cancellare quattordici anni avrebbe ammesso di essere innamorato, quella situazione invece non comprendeva termini per spiegare l’emozioni, le sensazioni e le speranze provate. 
Non aveva mai smesso di amarlo, come amava la madre e le figlie. 
E avrebbe voluto condividere il letto con lui fino all’ultima notte, forse oltre. 

Stéphane trovò parcheggio a mezzo isolato dal numero 9 di rue Deparcieux. Appoggiò i borsoni sopra i trolley, ritornarono le vertigini: gli scatoloni del trasloco e i pochi mobili che aveva voluto portare via erano stipati in un garage in affitto a Brest. Cosa significava? Tutti gli oggetti, i valori, che le persone accumulano durante la vita per lui consistevano in un paio di valigie con dei vestiti, i giocattoli di Maelice e Michelle e Lost Horizon di James Hilton, degli scatoloni con le copie dei libri non ancora distribuite, degli album con le foto e le tutine del primo anno d’età delle figlie, i mobili che componevano un salottino coloniale di bambù e vimini proveniente da un'asta doganale, una macchina da scrivere in sostituzione dell’ordinateur. 
La targhetta del citofono riportava in stampatello il cognome Chalm scritto a mano con inchiostro blu. Stéphane premette il pulsante, sentì il blocco del portone scattare. 

Ismaël corse giù per le scale, facendo i gradini due a due. Arrivato nell’ingresso non seppe cosa fare. Un abbraccio di slancio, una stretta di mano. Un cenno del capo. Scelse Stéphane che già conosceva le smagliature e i buchi sui gomiti, forse sapeva già anche del bordo sbocconcellato, senza averli mai visti. Ricordava che una volta la madre di Ismaël glielo bruciò, un maglione ridotto in modo simile, tanto temeva che ci andasse in giro. Scelse di stringerlo.
Salutò le bambine e lo aiutò a portare su le valigie, chiedendo dove avessero parcheggiato, sorridendo sempre come incapace di smettere, parlando a macchinetta descrisse sottovoce gli altri condomini: un’anziana signora italiana e una coppia di senegalesi che aveva un buon ristorante a tre isolati, altri due appartamenti erano vuoti a causa dell’affitto troppo alto che il proprietario si rifiutava di abbassare.
In casa disfecero i bagagli, Ismaël fece spazio in un armadio in corridoio spostando le pile di lenzuola ed asciugamani dentro la cassapanca. Stéphane vide che aveva cambiato le tende, le lenzuola e il copriletto nella camera degli ospiti, Louise-Maelice aveva cominciato a mettere in ordini le sue cosine: qualche album da colorare, dei libri di Angela Sommer Bodenburg, gli occhiali da sole rosa di Minni Maus sulla scrivania, la sua bambola neonata di celluloide chiamata Lea sul lettone. Michelle correva avanti e indietro per il corridoio trascinandosi dietro una sciarpa rossa. 

Pranzarono sul tardi, dopo aver finito di mettere in ordine i vestiti e un pochino anche le loro vite. C’era qualcosa di ordinario e contemporaneamente speciale nell'attaccapanni con il caban di Stéphane, il cappotto lungo e leggero, un covert di Ismaël, i cappottini colorati delle bambine, uno elegante azzurro con i bordini in velluto nero per Louise e uno rosso tipo impermeabile per Michelle. Ordinario e speciale. 
Le bambine erano corse in camera a giocare e Ismaël e Stéphane indugiavano a sparecchiare, chiacchierando e narrando gli ultimi anni, inizialmente a grandi linee e poi scendendo sempre di più nei particolari, aggiungendoli distrattamente, a caso. Stéphane aveva lo sguardo un po’ perso ma quasi luccicante, le iridi color cioccolato sembravano liquide. Ismaël lo notò, strinse la mano sinistra sulla sua maglietta sbiadita, lo accompagnò con un gesto deciso e lento per portarlo con il viso vicino al suo e si sporse fino a poggiargli un bacio leggero sulle labbra. Stéphane ricambiò chiudendo gli occhi e accarezzandogli la nuca. Poi Ismaël gli sfiorò la fronte. 
- Hai la febbre – affermò allontanandosi di qualche centimetro. Giustificando il bacio. 
- Ma no… - Stéphane era incredulo, certo la notte prima aveva vomitato praticamente tutto, ma pensava che fosse per qualcosa di andato a male oppure per il freddo che aveva preso nel ritornare all’albergo prima di cena. 
Ismaël andò in bagno a prendere il termometro al mercurio, lo scrollò per buttare giù, sotto i trentacinque gradi, la barretta rossa. 
Sei minuti dopo Stéphane era già coricato sul divano, perché quando si scopre di avere la febbre si inizia realmente a percepirle, le ossa, bruciare e ardere allo stesso modo della pelle, nonostante i brividi di freddo indotti dai trentotto gradi. Ismaël raggiunse il telefono in corridoio e lasciò un messaggio in segreteria a Charlez, il suo commesso, un ragazzo venticinquenne originario di Konk-Kerne, e recuperò un paio di coperte. 
- Riposa un pochino, Stef – mormorò prima di coprirlo e proseguire in una carezza con il dorso della mano sul suo volto, la pelle liscia e calda e la voglia di sedersi accanto a lui e fargli poggiare la testa sulle ginocchia.
Ismaël si ritrovò a riconsiderare gli avvenimenti, la retrospettiva era facile e dolorosa, ma adesso Stéphane era affianco a lui, il respiro sempre più regolare. Le sensazioni di smarrimento e timore svanivano davanti alla muta felicità pura ed intensa. 
Il vuoto che passo a passo aveva costruito, la terra bruciata attorno alla sua persona che pochissimi individui riuscivano a sopportare, la cortesia distaccata e fredda che adottava con i conoscenti, le colonne di marmo abbandonate dagli anacoreti nel deserto bianco e frastornate nel suo petto vennero riscaldate dalla speranza. 

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Capitolo 3
*** Wunderkammer ***












Era una decina di minuti che lo osservava, era l’ennesima volta che il suo contorno sul divano a righe ardesia - gainsboro, avvolto in una coperta di un’indefinibile gradazione di blu, lo distraeva dal tragitto che percorreva dal terrazzino - dove fumava stretto nella giacca da camera in velluto rosso scuro, con gli alamari slacciati e il pacchetto di Embassy nella tasca sinistra, e osservava il cielo cambiare colore e tono e consistenza, l’azzurro inondato di nuvole arancioni, i profili viola e rosa dei tetti, scurire contaminato da un inchiostro sempre più denso - alla camera degli ospiti, dove le bambine tranquille giocavano forse sedate dalla novità e dalla voglia di scoprire il più possibile sull’arredamento della camera, dall’anfratto tra l’armadio e il muro, allo spazio dietro la porta.
Aveva notato tutti i particolari immutati e le varianti, le maturazioni del suo corpo maschile e adulto. I nomi delle figlie tatuati sull’avambraccio destro, le ultime lettere nascoste dalla manica della t-shirt. La coperta scivolata di traverso, drappeggiata all’altezza dello stomaco fino al lembo ripiegato sul divano. I grandi contrasti: le occhiaie, le ciglia e i capelli scuri contro la maglietta bianca e la pelle. 
Ismaël crollò sulle ginocchia, davanti al divano, vicino al suo viso, a cercare un contatto, del calore, a risvegliarlo. Gli sfiorò il viso con tocco leggero, un sopracciglio, la radice del naso, l’ombra scura sotto l’occhio sinistro, lo zigomo, un lobo, l’angolo della mandibola, scivolò fino al mento, accarezzandolo col dorso delle dita. 

Ismaël si ritrovò a pensare, a decidere, promettere di essere sincero. 
Dovranno parlare prima o poi, di ogni cosa. Un contratto, un matrimonio, è la stessa identica cosa. Certi discorsi si dipanano in un ordine preciso, altri cercano il tempo che trovano. Vuole mostrargli tutte le carte prima di impegnarsi, vuole essere sicuro, non è mai stato così vero. Gli racconterà di Marc e del rapporto che li lega. Gli racconterà di tutti gli altri, non sa ancora se indulgerà in particolari eleganti, forse essendo uno scrittore potrebbero interessargli: le mani che si rivestono di un giovane soldato, di mattina un gesto affascinante, preciso e tagliente, quasi rumoroso. Privato dal gioco della seduzione, ammalia ancora di più. Non lo ha mai più rivisto. Anche Morgan aveva fatto il militare, traspariva solo nell’odio distruttivo che provava e nelle camicie rammendate di nascosto, con imbarazzo.
Lo vide fremere e svegliarsi, come dal ritorno di un viaggio attraverso l’essere, lo spirito dei popoli e gli anni che scorrono rincorrendosi. 

- Buongiorno - biascicò Stéphane con la voce impastata dal sonno. 
Ismaël alzò il capo quel tanto da guardarlo negli occhi e non venir distratto dalle labbra. Gli occhi gonfi e arrossati, le iridi color cioccolato alla leggera luce che proveniva dalla lampada sul tavolino, dolci, morbide come il velluto. Nei suoi occhi danzavano la confusione, la febbre, la tenerezza, l’amore. Stéphane gli prese la mano tra le sue, lasciandosi accarezzare una guancia e baciandone il palmo. Davvero non si rendeva conto dei suoi gesti immensi?
- Come stai? - gli chiese Ismaël. Entrambi furono catturati per qualche istante dalla perfezione di quel contatto: le mani grandi e morbide dello scrittore, quelle ossute dai nervi in risalto e ruvide di Ismaël, la pelle accaldata del viso di Stéphane. Dall’accelerare dei battiti. Riconoscersi. 
- Meglio - mormorò, in petto un sentimento inspiegabile, il sollievo di riprendere controllo dei propri pensieri e del respiro e la disperazione dell’aver spezzato l’atmosfera calda e lieve. 
- Mangi qualcosa? - Ismaël guardò l’orologio sul polso sinistro; - tra mezzora portano la pizza -
- Perfetto, ho fame - esclamò Stéphane scrollando la testa e le spalle per levarsi di dosso gli ultimi rimasugli di sonno e stanchezza. Mal di testa, vertigini, non riuscì ad alzarsi. 
Louise e Michelle entrarono nella sala, la piccola seguiva la maggiore, come una bambolina nella sua salopette rossa e nelle scarpe da tennis. Ismaël notò subito quanto Michelle fosse simile al padre, negli occhi scuri e grandi, nelle lunghe ciglia e il volto dai lineamenti aperti, nelle espressioni. Da come cercava sempre un contatto con Stéphane, essere presa in braccio, essere coccolata, essere vezzeggiata. 
La piccola si arrampicò sul divano per poi sedersi sulle ginocchia del padre. 
I contrasti in Louise-Maelice inscenavano una battaglia di lineamenti, di espressioni che si rincorrevano, riconoscibili solo a metà: gli occhi chiari, quasi di un blu sbiadito la allontanavano, i capelli dello stesso colore e dallo stesso estro la avvicinavano. I modi di fare, lo sguardo tenero e caparbio con la quale controllava la sorella erano quelli del padre, li aveva ereditati da Stéphane, ma quell'aria riflessiva, quella maniera di voltarsi a fissare qualcosa di indefinito per dissimulare il fatto che lei stesse assimilando l’atmosfera e le parole nell’aria, era totalmente estranei e inediti.
Ismaël pensò chiaramente che se Stéphane, come continuava ad augurarsi, fosse rimasto, l’azione più difficile e al contempo più giusta sarebbe stata eliminare il giudizio, non dare nulla per scontato, osservare e non impartire lezioni di vita. Lui da piccolo non c’era passato, era tutto così noioso e semplice, il papà cercava in tutti i modi di essergli amico e lui lo adorava e gli mancava quando per lavoro doveva viaggiare e stava via mesi e mesi, la madre era una sconosciuta, prima l’aveva ignorata e da grande disprezzata. Lui non era mai stato così attento al fratello minore. Non sapeva se attingere dal passato o studiare tutto daccapo. Sentì la mancanza dei nove mesi d’attesa e lo smarrimento del rivestire un ruolo nuovo e non del tutto giustificato. 

Rimasero sparsi sul divano e le poltrone, i cartoni delle pizze sul tavolinetto, Maelice aveva piegato una fetta in due e prima di morderla cianciava a caso riguardo ad un’astronave o ad un treno all’entrata in galleria. Ismaël alzò lo sguardo e vide il sorriso di Stéphane, disteso, calmo. Due pianeti della sua galassia interna cambiarono moto e cominciarono a brillare, provò a scuotersi da quel torpore ma non vi riuscì. Decise di abbandonarvisi. 
Il piccolo televisore diffondeva una luce azzurra ed elettrica nei volti e confondeva gli spigoli dei mobili e di alcuni manufatti della collezione di artificialia che negli anni Ismaël era riuscito a portare via dalla Wunderkammer del nonno materno, ora dimoravano in alcune vetrinette ed altri sul camino. La presentatrice del canale internazionale parlava un inglese svelto e strascicato che si declinò in un fruscio incomprensibile appena Ismaël abbassò il volume. Porse a Stéphane una bottiglia di birra, le bambine bevevano della Ricqlès. La prima cena di tante. 

Metà maggio 1997

La routine arrivò lenta ma inesorabile, quasi dolce e calda, con luci ambrate. Una casa da sistemare per una famiglia, il letto a castello, i piccoli elementi da mettere in sicurezza, gli svaghi, il diciannove aprile il trentatreesimo compleanno di Ismaël, un posto per il nuovo ordinateur e i documenti di Stéphane, l’iscrizione a scuola e all’asilo per l’anno successivo, dei ritmi al quale abituarsi, gente da conoscere…
Le bambine erano dalla nonna e ci sarebbero rimaste fino a fine agosto, a Brest, un modo per semplificare il trasferimento e concedere dei mesi di vacanza prima dell’inizio della scuola. Parlando con una maestra Stéphane era riuscito a convincerla a prendere Maelice nel ciclo elementare, un anno avanti, dato che già sapeva leggere e scrivere e qualcosa di matematica. Inizialmente voleva iscriverla ad una scuola bilingue, per farle mantenere l’abitudine al Tedesco, ma la comodità di una scuola pubblica a pochi isolati aveva preso il sopravvento. 
Nel metà maggio afoso e soffocante Stéphane passava le mattinate a scrivere, svegliandosi per tempo e facendo la prima colazione sul terrazzino, sotto il gazebo, con Ismaël, sparecchiavano, Ismaël andava alla libreria e Stéphane tirava fuori i suoi catalogatori e le sue cartelline, carta e penna, scriveva e correggeva, mandava fax a degli amici tedeschi e attendeva con ansia i loro pareri, alla sua editrice, veniva preso da una furia produttiva che lo portava, dieci ore più tardi, a cadere sfinito sul divano, con l’ansia di non aver ancora terminato, qualche idea di cenare con il cinese da asporto o scendere fino alla gastronomia senegalese dei vicini e la voglia di andare in piscina a nuotare per tirarsi fuori da quel lavoro frenetico. In più un canale televisivo per il quale, in passato, aveva scritto degli sceneggiati, gli aveva proposto il ruolo di corrispondente all’estero, con dei collegamenti settimanali di routine e gli speciali da Parigi. Proposta allettante in periodi più tranquilli. 

Un pomeriggio abbandonò sulla scrivania in sala tutto il lavoro e chiamò Ismaël alla libreria, annunciandogli che sarebbe andato a fare qualche vasca alla piscina di rue Saillard. Quarantacinque minuti nell’acqua tiepida di una tranquilla e piccola piscina comunale, cinque corsie, docce in comune, pochi altri natanti, assolutamente familiare.
Ismaël bloccò la bicicletta alla rastrelliera con un lucchetto ad arco. L’addetta alla reception nella hall della piscina lo squadrò mentre si aprivano le porte scorrevoli, non aveva borse, l’aria tranquilla, magari voleva iscriversi a qualche corso; - buonasera… -
- Buonasera, potrei salire in tribuna? – la donna acconsentì facendo un gesto con la mano e tornando china sulla rivista patinata. Ismaël era l’unico spettatore sugli spalti bianchi e arancioni, le sedie e i tavoli di plastica accatastati da un lato, le piastrelle scivolose per l’umidità, i tubi luccicanti sul soffitto; si appoggiò alla balaustra in vetro dopo aver tirato su le maniche della camicia e aver piegato la giacca sulla ringhiera, la cravatta color caffè piegata in una tasca. 
L’acqua trasparente si increspava seguendo il ritmo dei nuotatori e di un paio di tuffatrici, i faretti illuminavano il fondale azzurro a mosaico, le vetrate lasciavano entrare la luce artificiale dei lampioni arancio e il blu chiaro del crepuscolo, quell’ora dove il cielo è chiaro e le strade sono buie. 
Stéphane era nella terza corsia, i movimenti eleganti contrastavano con l’affanno nei lineamenti quando chinava lateralmente il capo per prendere aria. Dopo cinque vasche si fermò sotto la pedana, a riprendere fiato, appoggiando i gomiti sul bordo e scrutando la piscina con aria stanca e soddisfatta. Nel voltare il capo per una panoramica lo vide e parve stupito, gli fece un cenno di saluto con la mano e sentendosi terribilmente impacciato ricominciò a nuotare in crawl. 
Quando la sirena del fine corso suonò, Ismaël se la prese comoda nei bagni del pubblico, sciacquandosi il viso, sistemandosi i capelli, lisciando la camicia e annodando la cravatta con un mezzo Windsor. 
Attese pochi minuti Stéphane, precedendolo davanti all’ingresso e accendendosi una sigaretta. Sentì i lineamenti distendersi in un sorriso quando lo vide arrivare con i capelli bagnati, la t-shirt di un gruppo musicale, i Levi’s neri, le All Star e la cinghia del borsone della piscina su una spalla. 
- Cena fuori? Cinema? – provò a proporre Ismaël ma venne presto distratto da Stéphane, che gli gettò le braccia al collo e gli diede un leggero bacio sulle labbra incurante del pubblico; - …in un ciné-club qui vicino danno Gorky Park - 
- Vada per Gorky Park allora. Con questo caldo un po’ di inverno e neve sovietica non può che farci bene – spostò il peso da una gamba all’altra, in realtà si sentiva molto stanco ma aveva piacere a staccare per una serata dallo stress del libro; - passiamo in casa a posare la borsa e la bicicletta? Prendiamo la macchina? -

Il ristorante era vicino e particolare, vi si accedeva attraverso un vialetto dal pavé coperto di un tappeto verde, delle locandine di ardesia riportavano i menù del giorno in varie lingue, depuis 1898. Un cameriere li salutò dallo stipite della porta di legno e vetro decorato e li accompagnò fino al secondo piano, nel loggione. Dal tavolino rotondo vicino al parapetto potevano osservare tutta la sala, le tavolate al piano terra, i carrellini dei camerieri, i decori in ferro battuto del corrimano, dei grossi lampadari con le gocce di cristallo illuminavano ogni particolare ed accendevano di riflessi dorati e smaltati le vetrate liberty e gli occhi dei turisti. 
Stéphane non si aspettava che un luogo del genere potesse ancora esistere e cercò di riempirsi gli occhi di quel lusso elegante e antico. Ismaël gli aveva consigliato di mettersi in giacca e cravatta e inizialmente non aveva capito in che genere di ristorante avesse intenzione di portarlo. Ordinarono consultando i menù, l’insalata di pomodori per antipasto, una zuppa di funghi e canederli di pane per Ismaël, il modo semplice e disarmante di dire al cameriere di essere vegetariano. 
Ismaël aveva trovato una maniera ironica e affascinante di calmarlo e fargli dimenticare le ansie e lo stress, era la sua capacità primaria, la prima cosa che sarebbe venuta in mente a Stéphane se qualcuno gli avesse chiesto perché lo amava, invece che un banale interesse chimico e fisico. La sua mente fine, l’indole bizzosa, il tono dimesso ed elegante dei modi, quell’aria decadente ereditata dal ramo materno, per Stéphane erano le sfaccettature di un’armatura, dalla quale riusciva a spogliarlo solo durante il sesso. Infatti, solo a nudo, tra le lenzuola, Ismaël infiammava Stéphane e nel farlo lo calmava facendogli dimenticare e promettendo soluzioni ai problemi. Rimaneva la calma. 

- So il russo. Lo so perfettamente – aveva mormorato Ismaël all’uscita del cinema. 
- Cosa? - Stéphane pensava ancora agli scenari del film e all’interpretazione di William Hurt. 
- Dicevo: so capire, scrivere e parlare russo quasi con nessuna inflessione francese. Praticamente bilingue - gli aveva spiegato fissandolo in attesa di qualche risposta; - non sto esagerando, è un dato di fatto -
- Come lo hai imparato? - Stéphane non riusciva a comprendere come potesse Ismaël sapere tanto bene un’altra lingua addirittura in un altro alfabeto. Era stato a Leningrado solo una volta ad undici anni, per dei campionati di scherma, nel lontano 1975. In casa non aveva nessun riferimento a dei viaggi in Russia o a dei libri di testo. In corridoio c’era un planisfero marcato con penne di colori diversi, ogni luogo riportava una data e gli unici viaggi ricorrenti e recenti erano stati in Nicaragua. Qualche tratto quasi cancellato in Spagna, Italia, Turchia, Irlanda e Olanda, probabilmente tratte ferroviarie. 
- Mio padre, da piccolo. Non doveva saperlo nessuno - Stéphane capì la sacralità del mantenere un segreto per il bambino che Ismaël fu, e collegò tutto all’impiego svolto da Jean-Jacques Alunir al Ministero. Il mescolare le carte è la costante di certi impieghi. Jean-Jacques stava mantenendo una tradizione e contemporaneamente spianando la strada al figlio, fin dalla più tenera età, quando il mondo era ancora diviso tra due forze contrapposte. Se solo Ismaël l’avesse accettato.
Per Ismaël equivaleva ad una confessione, del presente gli aveva raccontato già tutto, svelato ogni cosa, con quel candore tipico francese che in Germania Stéphane non aveva mai riscontrato, e adesso stava condividendo con lui anche episodi reconditi e sepolti dagli anni. Era un onore per lui. Stéphane sentì la gratitudine fare le fusa nel petto e quasi istintivamente allungò una mano per stringere e sfiorare il suo palmo. 

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Capitolo 4
*** Low Estate ***













Giugno 1997 

La tratta Parigi - Brest era lineare e monotona, i canaloni nei quali era delineata l’autostrada non permettevano una visione panoramica e gli unici svaghi al di fuori dell’abitacolo erano le pause caffè e l’istantaneo cambio di discorso in prossimità di Le Mans, virato abilmente da Stéphane verso le gare automobilistiche di ogni genere e competizione. 
Stéphane era così, pieno di quelle passioni da ragazzino che non si sarebbe mai tolto: il calcio inglese e l’Arsenal dimostrato dagli adesivi sul vetro posteriore, le automobili tedesche, le occhiate che lanciava a quelle di grossa cilindrata elencando pregi e difetti dei vari modelli, la musica e le musicassette registrate, copie di copie di bootleg sparse sul cruscotto. Ascoltavano per ore infinite Eisbær dei Grauzone solo per compiacere Louise, le bambine cantavano, Ismaël giocherellava con la custodia di plastica e le due fotografie ritagliate da un giornale: un orso polare su sfondo ciano e un trio di persone, in risalto la maglietta con stampate le stelle della bandiera cinese di un ragazzo. 
Nei pressi di Rennes l’atmosfera cambiava, la nomade ricerca di un posto dove vivere di Stéphane rovinosamente mostrava le sue falle nei sorrisi e gli occhi spalancati a catturare più particolari possibili dei paesaggi e dell’aria della terra natia. 
Poteva la felicità essere rappresentata da un posto? Forse solo nel ritorno e non nella permanenza. 
Le felicità derivate da persone o situazioni si sarebbero ingelosite? 
Racchiuse nella stessa automobile sembravano convivere pacificamente. 

Jean-Jacques Chalm si avviò verso la porta di casa per rispondere all’insistente suonare del campanello. Prima di aprire si tolse gli occhiali da lettura e strinse la cintura della vestaglia in seta, non guardò dallo spioncino e rimase piacevolmente sbigottito alla vista del figlio maggiore. 
- E’ dicembre per caso? - esclamò tirandoselo contro per abbracciarlo. Ismaël lo superava di mezza testa ma riuscì a vedere chiaramente oltre la sua spalla due bambine; - oh, e queste damigelle? - 
- Io sono Louise, lei è Michelle, piacere - Louise si presentò porgendogli la mano. Ridendo il signor Chalm gliela prese e baciò. 
- Io sono Jean-Jacques, piacere - si voltò verso Ismaël e sussurrando aggiunse; - chi sono? - 
- Le mie figlie - Stéphane salì gli ultimi gradini con un’espressione indecifrabile in viso; - buongiorno - 
- Stéphane Alunir fatto uomo! Bentornato. Entrate, entrate! - li invitò in casa e con i suoi modi espansivi disse tutto e niente, mostrò loro la grande casa dall’arredamento moderno, così dissimile dal fastoso appartamento abitato in passato, riassunse quindici anni di vita, capì tutto e lasciò intendere che aveva visto di tutto nella vita ma due uomini che crescono insieme dei figli mai, non sapeva cosa aspettarsi anche se nutriva grandi speranze nei loro confronti, se avevano bisogno lui c’era, in un sussurro fece un commento malinconico sui bei lineamenti di Ismaël che purtroppo nessuno avrebbe ereditato. 
Stéphane lo trovò parecchio invecchiato, con quei stopposi capelli bianchi ancora segnati da fili ramati, le macchie sul viso e sulle mani. Aveva sempre adorato il suo pontificare su musica e cinema e politica, l’odio con il quale investiva il preside ogni volta che li andava a recuperare nel suo ufficio, scrollandosi le gocce di pioggia dalla giacca da aviatore e accompagnandoli a casa con la vecchia Porsche. 
Ismaël si dileguò per il corridoio in cerca di qualche ninnolo o svago per le bambine. 
- Aspettiamo mia moglie, così la potrai conoscere - accennò Jean-Jacques facendo accomodare Stéphane sul divano. 
- In realtà intendeva dire che non avendo più una cameriera dovremo aspettare Eveline per il caffè! - si intromise Ismaël parlando a gran voce da una stanza in fondo al corridoio. In pochi attimi scostò con un gesto secco la tenda di conchiglie e corde, in mano teneva una cassetta VHS; - ti piacerà, credimi. E’ una bravissima donna che ha avuto la sfortuna di sposare mio padre. Louise… ti piace Le Livre de la Jungle? - 
- Ma sentitelo! Non è neanche sbarbato e fa questi discorsi - sbuffò Jean-Jacques contrariato. 
- Non l’ho mai visto - rispose piano Louise osservando la copertina colorata della cassetta. 
Das Dschungelbuch. Erinnerst du dich? - le chiese Stéphane accarezzandole i capelli. Una lingua sconosciuta per Ismaël, un linguaggio familiare, il rapporto tra un padre e la figlia. L’unicità. Jean-Jacques comprese benissimo ma fece finta di niente, certe abitudini non si scordano, come i piccoli sistemi di allarme e sicurezza sparsi per la casa, di cui nemmeno la moglie sapeva niente. 
- Sì! Mi ricordo, mi piace tanto. Lo possiamo guardare adesso? Piacerebbe anche a Michelle - esclamò la bambina tirando in causa anche la sorellina, coricata sul tappeto con le dita affondate tra le frange. 

- Devi sapere che Ismaël non viene mai a trovarci. È sempre a Parigi, dietro quella libreria che non vuole rinnovare, io dico, ha anche dei volumi di valore, se non cambia gli scaffali si riempiranno di tarme, capisci? - all’arrivo di Eveline, Jean-Jacques era riuscito a convincerli a rimanere a cena, scontrandosi con il rifiuto iniziale di Ismaël e poi lo aveva spedito indignato in bagno a farsi la barba - Stéphane, era una scusa per parlarti liberamente senza farmi sentire da lui, l’avevi capito? - 
- L’ha capito anche Ismaël - mormorò Stéphane guardando dentro il bicchiere di cristallo la patina dello sciroppo di tamarindo diluito in acqua, ricordava distintamente l’abitudine di Jean-Jacques a riempire in continuazione i bicchieri degli ospiti e non aveva affatto intenzione di ubriacarsi scegliendo del gin. 
- Ah, ecco l’occhiata che vi siete rivolti, certo, come sposati. Da quanto? - Jean-Jacques sembrava intenzionato a fargli il terzo grado, mantenendo la nonchalance e l’estro svampito, nascondendo la reale lucidezza e la mente brillante. 
- Fine marzo - rispose laconico Stéphane, il cuore e la testa altrove, nel bagno, dove Ismaël si stava rasando la peluria scura, sottile e morbida. Il gioco dell’intimità, il desiderio di essere con lui, appoggiato al lavandino, aiutarlo in dei movimenti già precisi, già perfetti. 
- Neven lo sapeva e non mi ha detto niente - brontolò Jean-Jacques riferendosi al figlio minore, che appena tornato dall’Australia era rimasto qualche giorno con loro a Parigi prima di ritornare a Brest, principalmente per riprendersi Zara - Annik come sta?- 
- Molto bene, è impegnata con le bambine e sembra contentissima - Stéphane contava i minuti che scorrevano, alzando lo sguardo vedeva le scene finali del film d’animazione che guardavano le bambine. La mente era proiettata al tragitto che avrebbe dovuto ricordarsi a memoria per raggiungere Le Conquet, non voleva prendere l’autostrada ma fare almeno in parte il giro escursionistico sulla costa, a ridosso delle spiagge della zona di Locmaria. Ricordava degli scorci suggestivi e spettacolari che sperava ardentemente non fossero cambiati. 
- Almeno avete dei momenti liberi, certamente - il tono del signor Chalm era comprensivo e accomodante, dopo averlo guardato negli occhi, scandagliato ogni piega del suo pensiero, si accostò a lui e a voce bassa aggiunse; - mi dispiace per quello che è successo e sono contento che tu l’abbia perdonato. Mi scuso anche io, sono il responsabile dell’educazione che ha ricevuto e non ho fatto nulla per impedire che accadesse. Sapevo e sono stato zitto - 
Stéphane rimase colpito da quella affermazione e fu contento quando Eveline li chiamò per la cena. La moglie di Jean-Jacques era una buffa sessantenne dai capelli tinti biondo miele che contrastavano le sottili e sparute sopracciglia bianche e gli occhi scuri. I lineamenti gentili e proporzionati velati dalle sottili rughe e l’abitudine a muoversi come una trottola per la casa, il passo svelto e la propensione ad occuparsi di tutto pur di non annoiarsi. Aveva preparato un pasto pantagruelico che consisteva in piatti regionali, beffeggiando l’abitudine e l’amore di Ismaël per la cucina etnica. Aveva accolto Stéphane come aveva fatto anni addietro con Gwenna, la fidanzata storica di Neven, non sapeva quello che era stato in passato e non conosceva i trascorsi ma li recepiva chiaramente dalla calma e dalle domande di Jean-Jacques. Eveline trovava Stéphane proprio un bell’uomo, dai modi affabili e di indole allegra, terribilmente magnetico mentre ballava con Michelle in braccio o mentre con Jean-Jacques consultava lo stradario. 
- Ieri siete scesi in piazza a festeggiare? - chiese Eveline, le elezioni erano state vinte dalla Gauche Plurielle, una coalizione di sinistra di cui faceva parte anche il PCF. 
- Siamo rimasti poco, dovevamo preparare le valigie - Ismaël poggiava distratto un gomito sullo schienale della sedia e con l’altra mano stringeva un calice di rosso, la cravatta allentata. Jean-Jacques aveva discusso dei possibili ministri che Jospin avrebbe nominato, poi aveva fatto cadere la discussione visto che le bambine iniziavano a dare segni di insofferenza. 
- Tieniteli stretti - aveva consigliato Eveline mentre Ismaël la aiutava a sparecchiare e caricare la lavastoviglie; - sono più speciali degli altri.- 
- Di Marc? - le aveva domandato lui voltato verso il lavandino; - Morgan Fabre? - 
- Di tutti, si vede. Non mi va di parlare dei morti - Aveva puntualizzato alzando le spalle; - le bambine sono adorabili, potrebbero giocare con i miei nipotini finché rimangono a Brest - 

Rientrarono a casa di Annik per le undici, Michelle si era addormentata in macchina e Ismaël l’aveva portata in braccio fino al quarto piano, Louise aveva gli occhi mezzi chiusi e aveva dato la mano a Stéphane per riuscire a non perdere l’equilibrio sulle rampe di scale. 
Annik li aspettava alzata, persa a completare una griglia di parole crociate. Quando sentì bussare alla porta andò ad aprire vide il visino di Michelle con un’espressione placida e tranquillissima, si affrettò ad aprire la porta della camera da letto e non accese la luce, per poi aiutare Ismaël a sistemare la bimba in mezzo al copriletto e circondarla di cuscini per non farla cadere. Stéphane aveva spedito Louise a lavarsi i denti e mettersi il pigiama. 
- Come è andata? - chiese Annik a Ismaël richiudendo la porta della camera. 
- È andata - Ismaël scrollò le spalle mordendosi il labbro inferiore. 
- È andata benissimo – lo corresse Stéphane lasciandosi cadere sul divanetto a due posti; - adorano le bambine -
- Mi sarei stupita del contrario. Domani che fate? Io devo lavorare - Annik aveva appena superato la cinquantina e lavorava come barista in un locale vicino al porto, a pochi isolati da casa. 
- Andiamo a Le Conquet e poi forse il pomeriggio al mare – risposte Stéphane massaggiandosi le tempie. 
- Povero Ismaël - ridacchiò la madre guardando il compagno del figlio da sopra gli occhiali; - starà già pregando che piova –
- Sono ancora qui – protestò ciondolando il capo, si era appoggiato con la schiena allo stipite della porta. 
Louise comparve dalla porta del bagno e diede il bacio della buonanotte a tutti, per poi trascinarsi verso Stéphane, accoccolarsi sul divano contro il suo stomaco e aggrappandosi con le dita alla sua maglietta. Rimasero per qualche minuto abbracciati, poi Stéphane si decise a prenderla in braccio e portarla a dormire nel lettone della nonna, accanto a Michelle. 
- Beh, buonanotte, mamma - mormorò rientrando nel salottino con angolo cottura. Guardò Ismaël, appoggiato al muro e stanco, gli occhi ardesia scuri e liquidi nella penombra. Gli sorrise. 

La camera di Stéphane era rimasta la stessa in quattordici anni, le pareti bianco sporco, la vecchia moquette blu, le tende drappeggiate con dei cordoni da cui filtrava la luce dei lampioni di rue de l’Église, la brandina richiusa e assicurata con dello spago che Annik gli aveva fatto trovare all’arrivo appoggiata al letto, gli scaffali di metallo, alcuni con i ripiani montati storti e le viti da stringere, la scrivania ordinata dal legno graffiato, lo specchio a figura intera e l’armadio probabilmente pieno di corredi e vestiti della madre. 
- Non riesco a dormire – brontolò Stéphane, le lancette fosforescenti dell’orologio segnavano le tre e mezza; - È inutile, non ho nulla da sognare, sto bene qui, perché dovrei dormire? -
Col capo sul petto di Ismaël, Stéphane rifletteva e percepiva i suoni della notte: i motori in lontananza, le gru che scaricavano i container nel porto, il vento che soffiava forte portando la musica flebile di una festa, la cisterna d’acqua nel soppalco sopra il bagno che si riempiva, i moschettoni delle corde da stendere che stridevano, il respiro lento e regolare di Ismaël. 
La vita li, tra le sue dita, il cuore che batteva poco sotto le sue labbra e i baci che si ritrovava sulla nuca o, se si voltava per guardarlo, su una tempia e all’attaccatura dei capelli. Gli occhi ardesia socchiusi, lucidi e le ombre delle ciglia. Avvertiva le sue mani sulla schiena, chiuse ad arpionare le lenzuola. Stéphane si strinse ancora di più contro Ismaël. 

Stéphane durante la notte con baci e carezze aveva calmato i fremiti e gli spasmi del sonno di Ismaël. La mattina era arrivata, i toni freddi sbiaditi prima di divenire ambrati, la perpetua adolescenza richiamata dalla porta chiusa a chiave. 
Baci tra il pomo d’Adamo e l’incisura giugulare, gli spigoli della fossetta - il manubrio dello sterno - sotto le dita, pelle sottilissima e calda. Stéphane accarezzò il risveglio mattutino della virilità di Ismaël, lo vedeva ansimare e socchiudere gli occhi, una mano stretta ai capelli, l’altra scendeva sfiorando dalla spalla all’avambraccio, fino al polso, l’indice a cercare la rotondità dell’osso pisiforme. Il petto, sul quale Stéphane lasciava baci infuocati, si alzava e abbassava ad un ritmo sempre più veloce. 
- Stai decisamente diventando dipendente…- scherzò Stéphane rallentando il ritmo e temporeggiando. 
- Lo sono sempre stato! - il tono esasperato di Ismaël confermò la buona riuscita dell’azione di Stéphane; – e non mi pare una discussione da fare in questo momento –
- Vedi di farti bastare me, adesso - lo ammonì lo scrittore, sfiorandolo quasi impercettibilmente, torturandolo. 
- Mi basti tu, adesso - Ismaël osservò Stéphane scivolare sotto le lenzuola e trattenne il fiato per pochi secondi; - certo che ti sei ricordato in fretta come si faceva –
- Oh, stai zitto, adesso mi diverto, prima ero terrorizzato - brontolò Stéphane, la punta della lingua sul glande, una mano a masturbarlo e l’altra allacciata alle dita di Ismaël. 
Ismaël cercò di districare e sollevare le lenzuola arricciate per guardarlo in volto; - Terrorizzato? -
- Stai zitto? – soffiò Stéphane prima di prenderglielo completamente in bocca, sentì una mano posarsi nuovamente sui suoi capelli e stringerli inconsultamente. Sentì le gambe di Ismaël irrigidirsi, la schiena tendersi, il suo corpo elettrico, vide il volto contratto dal piacere. Decise di portarlo al culmine in pochi minuti. 
Dietro le palpebre Ismaël vide lampi abbacinanti e quando li riaprì Stéphane era di nuovo vicino a lui, il gusto del suo sperma al primo lentissimo bacio, le braccia strette attorno e la fronte fresca contro la sua. 
Di nuovo insieme, legati con nodi intricati, la musica, l’arte, il cinema, la geografia delle coste frastagliate della fine del mondo, le stelle nelle notti terse, mille combinazioni di colori e toni e sottotoni e sfumature e complementari e contrari, creavano il caos cosmico, liquido mercurio, dove galleggiare scaldati dal magma. 
La sensazione di trovarsi in apnea travolse Stéphane, l’aria non gli bastava più, Ismaël era diventato l’ossigeno, l’unica cosa possibile, l’unica persona possibile e irrinunciabile. Il suo fiume a ritroso, la sua casa, i suoi cerotti sulle ginocchia, la sua luce, il suo ritmo, il suo respiro. 
- Maël, ti amo da morire - e lo vide sorridere. 

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Capitolo 5
*** Ritroso ***












Metà giugno 

Per raggiungere la spiaggia di Trégana a Locmaria ci voleva circa mezzora, il traffico non era mai troppo – ormai si era abituato a quello parigino -, e non era mai troppo affollata. Stéphane di solito metteva la sveglia alle otto, in modo da prepararsi con calma ed arrivare per le nove, nove e mezza. 
Erano scesi in strada, diretti all’Opel Corsa con ancora la targa tedesca HH, Hansestadt Hamburg, Michelle sulle spalle di Stéphane e Louise con il bambolotto Lea sotto braccio, lui aveva cercato di spiegarle che se l’avesse portata sulla spiaggia, Lea si sarebbe riempita di sabbia, ma lei l’aveva stretta ancora più forte e aveva mormorato che l’avrebbe lasciata in auto. 
- Stéphane? – una voce femminile l’aveva chiamato incerta, dalla porta del bar. Stéphane si era voltato e l’aveva riconosciuta, si chiamava Yvonne, il cognome non lo ricordava, era la ragazza del secondo banco a sinistra del Littéraire. Non andava bene a scuola ma era tranquilla e silenziosa. Ricordò di averci litigato spesso ma non ricordava il motivo. La giovane donna ripeté; - Stéphane Alunir? -
- Ciao, Yvonne. Da quanto tempo… - accennò Stéphane aprendo la portiera della macchina e facendo salire Michelle e Louise. Temeva quel momento e si sentiva mal disposto.
- Così tanto… Sono le tue figlie? Tua moglie? - Yvonne attraversò la strada per raggiungerlo, indossava un vestito giallo girasole e i tacchi bassi. 
- Sono divorziato - Stéphane allacciando le cinture delle piccole si chiese se ogni volta gli avrebbero fatto la stessa domanda, non percependola come formalità ma come pura curiosità da parte dell’interlocutore. E dunque irritante.
- Davvero? - Yvonne spostò il peso dalla caviglia destra a quella sinistra, giocherellando con lo spallaccio della borsetta. 
- Sì, perché non dovrebbe esserlo? - Stéphane si voltò a guardarla, lei distolse imbarazzata lo sguardo, fissandolo su un punto indefinito nel muraglione del porto. 
- Certamente – lei guardò le bambine forse cercando una qualche somiglianza; - quindi al momento sei… single? -
Stéphane sentì la ridicolezza di quel termine con un gusto amaro in bocca. Solo, significava solo, inutile indorare. E anche se fosse? Una persona nasce sola, le viene imposto un nome ed un cognome, non un legame futuro, non l’obbligo ad amare o disprezzare ma restare insieme. E prima di rispondere pensò che a Brest nessuno l’avesse mai saputo, forse immaginato ma solo come insulto, nessun coetaneo, nessuna persona del passato che spesso aveva escluso, eliminato, ignorato, lottato e probabilmente erano rimasti tutti in contatto, escluso lui. Negare con naturalezza se si fosse vergognato, confermare fieramente. E così fece. 
- No, ti ricordi Ismaël? Viviamo assieme – raddrizzò la schiena per dirlo, sovrastandola d’altezza. 
- Come? Cosa? - balbettò Yvonne guardandolo come cercando qualche accenno di malattia nella pelle abbronzata e nello sguardo, eppure era normale, totalmente normale, non aveva niente di diverso da nessuno. Niente di diverso da quando era giovane, lo scapestrato della classe che aveva la pagella che era una montagna russa dai voti altissimi e picchi bassissimi, la quasi assenza di una minima cognizione matematica e la miglior preparazione di letteratura e di lingue di tutta la classe. Il ragazzo intrattabile, spesso coinvolto in delle risse, la maggior parte delle volte ci si buttava in mezzo per difendere qualcuno, senza spirito altruistico ma voglia di picchiare e sfogarsi. Perché diceva così? Soprattutto davanti a due bambine, la stava prendendo in giro, forse? - ma loro? –
- Sono divorziato, come ti ho detto. Loro vivono con me, lei è Michelle-Leila e ha quattro anni, lei invece è Maelice-Louise e ne ha appena compiuti sei.- Il discorso stava prendendo una piega strana, quasi farsesca, Stéphane lo giudicò come un banco di prova, una dichiarazione che mai aveva fatto a qualcuno di contrario. 
- Ma proprio in quel senso? - chiese conferma lei, senza ipocrisie non si dava il cruccio di sembrare tranquilla e comprensiva. Di questo gliene dava atto.
- Proprio sì. Perché? – lui le sorrise, aspettandosi da un momento all’altro la frattura.
- Io… io devo andare - mormorò Yvonne. Stéphane le rivolse un’occhiata distratta, il tempo di salire in macchina e dallo specchietto retrovisore la vide scappare e correre sulla scalinata di petite rue de l'Église.
- Perfetto, adesso capisco il sentimento che devo avere nei suoi confronti - si disse lo scrittore. 
- Quale papi? – chiese Louise, dando la classica intonazione tedesca alla parola papà
- Profonda pena – mise le chiavi nel cruscotto e si voltò verso i sedili posteriori. 
- Perché? - Louise aveva allacciato le cinture di sicurezza sopra Lea e guardava fuori dal finestrino. 
- Ti da fastidio se amo Ismaël? – le domandò Stéphane. 
La bambina scosse la testa. A destra e a sinistra. Vigorosamente. - Perché? -
 Perché a lei da fastidio e fa paura, per questo è scappata - Stéphane mise in moto e in un paio di manovre uscì dal parcheggio, mantenendo la prima imboccò la salita di rue de l'Église.
- Le fa paura Ismaël? - gli domandò seria Louise abbassando in finestrino per mettere una mano fuori. 
- Non proprio, le fa paura che io lo ami – non era facile parlarne, c’erano troppe cose sbagliate nel comportamento degli adulti dei quali costantemente veniva svelata la miserabilità da parte dei bambini. Non era riuscito ancora a spiegarle che non a tutti sarebbe andata bene la sua famiglia, le aveva chiesto soltanto se le sarebbe piaciuto vivere insieme ad Ismaël e lei aveva risposto di sì. 
- Ma io non capisco! - brontolò Louise calciando il sedile anteriore. 
- Neppure io, tesoro - mormorò Stéphane inserendo una musicassetta nell’autoradio. 
- A me manca papà - si intromise Michelle. Stéphane non inchiodò ma ci mancò poco, una sensazione vaga di gratitudine e felicità nel petto. La piccola Michelle aveva chiamato Ismaël papà. Stéphane cercò di non mostrarsi stupito e impressionato, per far mantenere quella naturalezza consona ad una bimba che, forse inconsciamente, riconosce il ruolo nel compagno del padre, però decise di segnare la data, sedici giugno 1997, nel calendario con un adesivo colorato. 

L’acqua fredda era decorata dai flutti bianchi come un merletto, una famiglia inglese prendeva il sole sul bagnasciuga e il figlio maggiore, un ragazzo robusto dal viso tondo e i capelli rossicci, aiutava la sorellina più piccola a costruire un castello di sabbia dietro un muraglione difensivo. 
Nella prima ora Michelle era rimasta seduta su un asciugamano a guardare il mare, troppa paura per avvicinarsi e per non mirarlo e rimanerne fascinata. Stéphane aveva messo i braccioli a Louise, giocava con lei sulla riva, correndo sull’acqua bassa e schizzandosi a vicenda. Con l’avvicinarsi del mezzogiorno l’aria e l’acqua si erano scaldate tanto che anche qualche anziano francese, meno spericolato della famiglia d’oltremanica in acqua già dalle otto di mattino, decise di fare qualche bracciata fino alla boa. 
Louise aveva provato a chiedere, in una strana lingua che il padre le aveva sussurrato poco prima, alla bambina e il ragazzo inglese se poteva costruire la fortezza con loro e contornarla con una pista per le biglie. 
Michelle giocherellava con dei frammenti di conchiglia e lo schiocco che producevano se colpiti con dei sassolini. Stéphane le mise il salvagente e la prese in braccio. 
- Michelle, vieni con me a fare una nuotata? Sì? …no? – la bimba brontolò cercando di scendere. Stéphane la strinse più forte; - …lo prendo per un sì.- 
Appena l’acqua arrivò al costato di Stéphane la piccola si calmò, smettendo di aggrapparsi all’orologio subacqueo del padre e lasciandosi dondolare dalle onde. Stéphane le teneva fermo il salvagente. 
- Freddo - Michelle si lamentò lanciando sguardi preoccupati alla riva. 
- Muovi le gambe, così il freddo passa - le consigliò; - non succede niente, Michelle, ci sono io, fidati. E no, non ci sono gli squali, fa troppo freddo per loro -
- Però ho fame - aggiunse Michelle dopo qualche minuto. 
- Ah… in questo caso torniamo a riva, ci sono dei panini con la cioccolata - Stéphane la strinse e la riportò a riva. Gli toccò raccattare il salvagente abbandonato in balia delle onde e chiamare Louise. Al sole si asciugarono e mangiarono panini con la cioccolata, Stéphane tirò fuori dalla borsa termica una vaschetta di plastica con dentro l’anguria a pezzi. 

Fine giugno

Un’estate in autostrada: cinquecento chilometri Brest – Parigi, cinquecento chilometri Parigi – Brest, ogni due settimane. Figlie, compagno, figlie, compagno. Il futuro abbracciava e richiedeva racconti della buonanotte, il passato baciava ed era estasi. Si erano sentiti poco al telefono, giusto per sapere se andava tutto bene, i programmi per il giorno successivo, un dentino da latte perso di Louise. Semplicemente non era da loro. 
Lo scorrere dei giorni portava nell’afa l’estate parigina: i negozi chiusi, i cittadini in vacanza, i turisti nel centro. La promessa di Ismaël, l’intero mese di agosto insieme a Brest e poi la ruota si sarebbe interrotta per l’inizio della scuola e fino all’estate successiva. Stéphane sentì come mille spilli nello stomaco mentre inserì la chiave nella toppa, era l’innamoramento, conosceva già le fasi, le aveva già provate e tentato di contrastarle prima di arrendersi. 
In passato il cercare di stupirlo, di legarlo a sé, rendersi indispensabile, camminare sul filo del rasoio perché lo conosceva e vedeva nei suoi occhi la fascinazione per l’ignoto, il folle, il diverso, l’istrionismo e l’avanguardia dosati ad arte con i ceri nelle chiese che si sciolgono in gocce bianche, il tranquillo, profondamente sentito di un’elegia al pianoforte, un libro di poesie di Rilke, l’inquadratura lenta della polvere che si alza dal deserto del Gobi. Le papirose offerte da qualche marinaio russo e i piccoli incubi splendidi di treni e betulle e neve e persone dai vestiti sgargianti e i fazzoletti annodati sotto il mento. Il circo in città, nel freddo ottobre dei tredici anni: la carovana di camper e camion, il tendone, gli acrobati, la gabbia del leone. 
- E’ musica punk, amici! – l’esclamazione del ragazzo inglese dal sorriso sincero, il più giovane dei pagliacci, cacciato dal college perché portava le calze rosse e aveva difeso un compagno di classe da un’aggressione nelle docce, dicevano che con i suoi modi di fare avesse provocato la violenza e furono entrambi espulsi. 
E ora l’attesa, l’aspettativa, il rimanere abbracciati sul divano, il libro di poesie che Ismaël gli aveva lasciato nella valigia, il post-it giallo con il numero della pagina, la S. affianco alla traduzione francese, l’originale cirillica riscritta da Ismaël nelle interlinee, l’ultima frase: ed io ho voglia di venire da te, sul petto – a dormire
Quando Ismaël sollevò lo sguardo dal libro e lo vide scendere i tre gradini della sala - la frattura di due palazzi, due piani diversi, una nera linea verticale a dividere la fronte, il naso, le labbra, il passato e il futuro, due persone, l’equilibrismo di un acrobata – fu la prima volta che Stéphane vide l’amore guardarlo. Sincero, profondamente inciso nei lineamenti dritti e simmetrici. Non ebbe la forza di corrergli incontro o allargare le braccia, perse il controllo delle espressioni del viso, gioia, stupore, rapimento, ebbrezza. 
Lo amava anche nei momenti in cui dava il peggio di sé? 
Lo avrebbe amato anche ubriaco di vodka, Glen Grant e Moët, nel suo smoking? Nel suo battere il calice contro il vetro della finestra, nel suo scappare quando la musica alta diveniva superflua e non trasmetteva emozioni? Quando la pantomima degli invitati iniziava a stringersi in cerchio attorno a lui e soffocarlo? Quando la moglie gli aveva regalato una vestaglia giapponese di seta di tre taglie più grande, pensiero dedicato a qualche amante poi ripiegato sul marito? Lo avrebbe riconosciuto nelle pagine che ancora non aveva trovato il coraggio di fargli leggere?
Lo avrebbe calmato lo stesso o lo avrebbe lasciato a disperarsi, dimenarsi, lottare, urlare nel fango come il resto dell’umanità? 
La risposta era su quelle labbra. 

- Non hai proprio orari? - Ismaël era nella vasca, coperto dall’acqua tiepida azzurrina. Stéphane inginocchiato sulle piastrelle, con i gomiti appoggiati al bordo. Aveva acceso una candela e l’aveva posata sul davanzale dell’abbaino, era stato un gesto spontaneo e imprevisto, non voleva creare nessuna atmosfera, solo vedere la fiammella danzare riflessa nelle sue iridi e nelle pupille dilatate. 
- Domani mattina dormiremo - la voce di Ismaël era profonda e tranquilla, come gli occhi grigio ardesia caldi e liquidi. Stéphane gli accarezzò i capelli scuri, tirandogli indietro dei ricci che, appesantiti per l’acqua, gli coprivano la fronte; - Stef, andresti a prendere il cofanetto di legno sul camino? -
Era un bauletto di legno intarsiato del Punjab, sollevato il coperchio Stéphane vi trovò dentro una sibsi, un tipo di pipa marocchina sottile e lunga, la latta del tabacco e un pacchettino di carta oleata. Con gesti meccanici ripeté il gesto mai dimenticato, montò il fornello d’argilla sullo stelo di legno, lo caricò con la resina nera sbriciolata e una puntina di tabacco, l’accese e la passò ad Ismaël, sorridendo al cenno di invito ad entrare nella vasca. Si tolse i boxer e si accucciò nell’acqua davanti a lui, con la schiena contro il suo petto, la testa poggiata su una sua spalla. 
- Che cos'è? - aveva mormorato Stéphane esalato il fumo. Con passare degli anni aveva smesso di fumare, di bere per ubriacarsi, aveva abbandonato ogni sostanza che potesse dare problemi con l’avvocato della moglie. Nell'aria un delizioso profumo inebriava e pizzicava le narici. Una calma dolcissima lo pervase. 
- Black Bombay. Non trovi che sia meglio del tuo Valium? - sentiva il sorriso di Ismaël contro la tempia, una sua mano sullo stomaco. 
- Il Valium era per il divorzio – si giustificò Stéphane.
- Lo so - Stéphane si voltò per catturare uno scorcio della sua espressione rilassata, il suo profilo affilato, la fronte ampia, la curva delle labbra e il mento. Il pomo d’Adamo che fremeva e il suono vibrante della voce. 
- Abbracciami – non sapeva se il tono dato era quello di una supplica o un ordine, ma Ismaël lo strinse più forte e Stéphane sentì il suo cuore battere contro la colonna vertebrale, propagato dall'acqua, dalle ossa e dalla pelle come un tamburo. 

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Capitolo 6
*** Träumerei ***












Luglio 

Ismaël si tratteneva spesso, rinchiudeva dentro di sé ogni parola, ogni collegamento, ogni discorso, assimilandolo e interpretandolo. Solo poche persone avevano l’onore e il permesso di scrutare dentro la sua anima, di intravedere le sue sconfinate conoscenze, le più disparate, disordinate solo apparentemente. Stéphane spesso si era trovato a chiedersi se lo facesse per non mettere in soggezione l’interlocutore o perché non le reputava abbastanza importanti da dichiarare. Rare volte venivano sfoggiate in modo sarcastico a discapito di yuppies e gollisti di destra, in un’evidente lotta ideologica. Un uomo in Armani gli aveva chiesto un libro, Ismaël aveva controllato il quaderno ad anelli compilato in ordine alfabetico, con riferimenti all’anno di pubblicazione, alle prime edizioni conservate sotto delle teche, all’argomento, al titolo, all’autore. Il libro si trovava nel terzo scaffale della seconda fila, nel secondo ripiano. Lo aveva preso e lo aveva portato alla cassa. Mentre il cliente controllava l’edizione, le pagine, se la copertina fosse intatta, Ismaël in tre collegamenti spostò la sua attenzione dal libro ad un poeta greco. E l’arrossire dell’uomo non aveva lasciato dubbi. 
- Perché? - gli chiese Stéphane, guardandolo palesemente divertito. 
- Perché è un ipocrita - Ismaël rilassò il volto dal sorriso tirato e falso che aveva accompagnato l’uomo fino alla porta. Sbuffò. 
- Ipocrita? - Stéphane sollevò le sopracciglia e scosse la testa, chiese chiarimenti soprattutto per spiegare la rabbia negli occhi di Ismaël. 
- Aveva la tessera del Front National sotto i documenti, nel portafoglio - mormorò disgustato Ismaël e lanciò un’occhiata preoccupata a Stéphane. 
- E tu gli parli di Kavafis - ripeté lo scrittore, poi scoppiò a ridere; - è geniale - 
- Tornerà quando ci sarà Charlez o non tornerà proprio? - domandò Ismaël sorridendo. 
- Parli del diavolo… - il commesso di Ismaël comparve alla porta. Li salutò e attaccò a raccontare dell’ennesima ragazza che aveva incontrato al pub, ammirato dal fatto che lei si fosse fermata anche a preparargli la colazione. Quando entrò una ragazza molto giovane dalla bella pelle abbronzata, si appoggiò al bancone con un gomito e si tolse gli occhiali da sole, seguendola con lo sguardo. 
Ismaël schiarì la voce per richiamare la sua attenzione. 
- Stef, quand’è che insegni a Maël ad usare il computer? - chiese per ripicca Charlez. 
- Oh, sta zitto! Ieri sono riuscito a togliere quel coso… - brontolò Ismaël mimando una forma vagamente quadrata con le mani, la fronte corrucciata per ricordarsi il nome. 
- …un floppy disk - spiegò Stéphane a Charlez, circondando con un braccio le spalle di Ismaël e tirandoselo contro. Proseguì ironico; - mi sono addormentato sulla scrivania e lui è riuscito a salvare il lavoro sul dischetto e spegnere l’ordinateur. Sta migliorando, non trovi? - 
- Bravo, capo. Beh, vado a lavorare, sai com’è…- Charlez si allontanò dal bancone, con lo sguardo verso la postazione del computer e i cataloghi che doveva inserirvi, con collegamenti ad ogni argomento, data, autore, analogie di titoli nel caso qualche cliente si fosse dimenticato il nome. Per di più c’erano anche delle edizioni straniere, russe, italiane, inglesi e olandesi, doveva trovare la bibliografia dell’autore ed inserire sia i titoli originali che tradotti. 
- Charlie, non azzardarti ad importunare quella ragazza - lo ammonì Ismaël, ricevendo un sorriso ben poco rassicurante in cambio. 
Per il resto della mattinata non ci furono problemi: qualche anziana alla ricerca di collane dai temi che sfioravano lo scabroso, un ragazzo che si era diretto tra le nuove uscite per comprare due best-sellers, un uomo era entrato per chiedere delle indicazioni stradali. Sembrava che gli unici interessati a dei libri fossero le persone in procinto di partire per le vacanze, magari utilizzando il ponte del Quattordici luglio per prendere un po’ sole in qualche spiaggia dell’ovest, o scendere a sud. Ismaël sorrise quando vide un sottile volumetto patinato nelle mani di una ragazza: era il frutto di una mostra di fotografia del fratello sul Triangolo d’Oro, lungo il Mekong, in Birmania, Laos e il nord della Thailandia, nei ringraziamenti c’era anche il suo nome, tra quello della fidanzata Gwenna e quello del padre. 
Il Quattordici luglio lo avrebbero passato a Brest, a guardare i fuochi d’artificio dalla terrazza dell’appartamento di Jean-Jacques, insieme, tre famiglie legate da sottili fili indistruttibili: Jean-Jacques ed Eveline, i padroni di casa; Ismaël e Stéphane, Michelle, Louise e la nonna Annik; Neven e Gwenna, sua sorella Anais e Sebastien, il figlioletto della stessa età di Michelle. 

Durante il pranzo Stéphane aveva ricevuto una telefonata dalla editrice, nonostante la felicità di apprendere che il quarto libro lo avrebbero pubblicato a fine settembre, erano rimasti molti dubbi riguardo ad un eventuale ma auspicato giro di presentazioni in Germania in occasione dell’uscita e in più aveva dovuto spiegare a Gerta Schroeder che stava faticando parecchio nella traduzione francese. Gerta aveva proposto di affiancargli un traduttore professionista e Stéphane aveva fatto il nome di Immanuel Kuhn, un suo ex collega e carissimo amico; era diventato vice caporedattore del giornale locale di Amburgo e Gerda lo conosceva di vista e di fama, promise a Stéphane novità prima di metà luglio. 
Charlez si era fermato da loro nella pausa pranzo e aveva raccontato degli aneddoti riguardanti la poca diplomazia di Ismaël, ridendo del suo gesto di troncare il discorso e dell’espressione di Stéphane mentre il compagno, con una sigaretta tra le labbra, borbottava delle vaghe spiegazioni riguardo a clienti molesti o partner da una notte che avevano scoperto dove lavorava e lo importunavano. Quando Stéphane gli chiese quanti fossero stati effettivamente questi “partner da una notte”, Ismaël rispose candido: due a settimana, per sette anni, all’incirca. 
- Maël ora devi farti perdonare tutto quello che sono venuto a sapere oggi…- accennò Stéphane poggiando le mani sui braccioli della poltrona di Ismaël e imprigionandolo. Charlez era appena uscito per aprire il negozio alle quattro. 
- E’ sempre un piacere - mormorò Ismaël aggrappandosi alla sua maglia e posandogli dei baci sul ventre, prima. Dopo, scivolando lentamente sul pavimento e portandosi dietro Stéphane, intenzionato a lasciargli dei segni blu sul collo e lungo la S italica delle clavicole - …in faccia alla sindrome dell’arlesiana -
Stéphane adorava vedere come il suo corpo non si curasse dei dogmi ma reagisse alle carezze di Ismaël, ai massaggi caldi che distendevano e rilassavano i muscoli più nascosti, una dolcissima preparazione all’urgenza dell’atto successivo. Il finale, le contrazioni del suo orgasmo acceleravano l’acme del piacere di Ismaël, Stéphane si coricava sul suo petto, baciandolo e stringendolo a sé. Fare l’amore con lui era così bello e perfetto da lasciargli l’amaro in bocca al pensiero di quanti anni avesse sprecato della sua vita. C’era una forma, una sorta di stile ideale in risposta alle sue esigenze. 
Ismaël e Stéphane, un pensiero li rendeva indissolubili, mille altri, chissà.  
La Sehnsucht non era stata infinita: terminata nel momento in cui aveva sfiorato il suo corpo e la sua mente. 
Nel momento in cui aveva accarezzato le sue labbra con la punta delle dita. 
Non ci sarebbe stato mai più nessun altro, perché non aveva mai amato altro che Ismaël ed aveva avuto la fortuna di incontrarlo a sette anni, il primo giorno di scuola in una città nuova, per poi perderlo a diciannove e ritrovarlo a trentadue. 
- Promettimi che rimarrai sempre con me - gli sussurrò sulle labbra, scorrendo le dita tra i suoi capelli e perdendosi nei suoi occhi.- …sempre - 
Ismaël lo baciò e poi si allontanò, poggiando la nuca sul pavimento per guardarlo in viso. Ismaël aveva gli occhi lucidi e il cielo perlato li rendeva chiari, la minor profondità li rendeva rassicuranti. La fronte distesa mostrava la sua calma e la tenerezza con la quale guardava Stéphane. Era presto, presto, troppo presto.
- Promesso! - bisbigliò Ismaël. 
Ci vollero dei minuti perché Stéphane trovasse la forza necessaria ad alzarsi, andare a lavarsi il viso e sedersi alla scrivania a lavorare. Non riusciva a concentrarsi, vedeva Ismaël dalla pelle chiara che contrastava con i boxer larghi blu scuro, ringraziò il caldo luglio per farlo girare così per casa, prendere un disco in dubbio se metterlo oppure no, orientarsi verso le musicassette copiate, afferrarne due e poggiarle sulla mensola del camino, sedersi alla panchetta del piano e aprire gli spartiti iniziando a suonare il Träumerei di Schumann. 

A Brest arrivarono la sera del venerdì, le bambine già dormivano e Annik si era assopita davanti alla TV. La mattina, quando Louise si svegliò e sentì le voci in cucina, saltando sul letto disturbò il sonno di Michelle e corse ad abbracciare Stéphane e Ismaël. Poi si sedette al tavolino tondo davanti alla tazza di caffellatte. Stéphane cercò di convincerla a buttar giù anche un paio di biscotti brontolando riguardo allo stomaco da uccellino della figlia. Quando Michelle entrò nella cucina e spalancando gli occhi li salutò rimase piacevolmente stupito nel vedere la piccola andare a sedersi sulle ginocchia di Ismaël. 
- Ci sarebbe una novità… - iniziò Stéphane guardando principalmente la figlia maggiore. 
- Novità? - ripeté interrogativa Louise guardando negli occhi sia il padre che Ismaël. 
- Martedì Ismaël andrà a Parigi, lo sai, però quando tornerà ad agosto… - nel mormorare con un cipiglio cospiratore a Louise quale sarebbe stata la sorpresa, Stéphane si accorse dello sguardo di Ismaël e della piccola gelosia che cercava di dissimulare versando del succo di frutta a Michelle; - verrà anche lo zio Immanuel - 
- Davvero? - esclamò Louise contenta. Aveva sempre avuto un debole per l’amico del papà, le portava dei giocattoli belli e aveva una voce stupenda con la quale raccontava favole dolcissime di fate del ghiaccio, folletti, radio incantate, foreste fatate e arpe magiche - così lo conoscerà anche papà -
Solo dopo qualche secondo Ismaël si accorse che Louise si riferiva a lui e la guardò stupefatto. Il sorriso che gli comparve sulle labbra ci mise più tempo del solito a sciogliersi, notò Stéphane, aggiungendo un atto a quello che aveva soprannominato “un piccolo e comune miracolo”. 

La sera del tredici luglio si erano ritrovati tutti nell'appartamento di Jean-Jacques, la terrazza decorata con lanternine di carta, una lunga tavolata imbandita con le stoviglie di plastica colorate. Avevano deciso di saltare le varie festicciole nelle piazze principali, di evitare i balli dei vigili del fuoco e conservare un giorno di festa per stare insieme aspettando i fuochi d’artificio dietro il castello di Brest. Jean-Jacques aveva sepolto il piccolo rammarico di comportarsi da reietto nei confronti degli ex colleghi nella convinzione che la confusione per le strade non avrebbe fatto bene ai nipotini ancora piccoli, Michelle e Sebastien avevano appena quattro anni e Louise sei. 
Per primo era arrivato Stéphane con la madre, Ismaël, Louise e Michelle, aveva parcheggiato davanti alla Porsche con la sua Opel di seconda mano. Annik e Eveline si erano studiate diversi minuti e probabilmente avevano deciso di andarsi a genio, visto che senza rivalità si erano ritirate in cucina a confabulare riguardo la cena. Neven era arrivato assieme a Gwenna, la quasi cognata Anais e il figlioletto Sebastian, un bellissimo bambino biondo dagli occhi blu. 
- Vieni a giocare con me? - aveva chiesto Michelle prendendo per mano Sebastien e facendogli vedere delle macchinine da corsa. Lui aveva annuito in sua balìa, scatenando l’ilarità degli invitati. 
Jean-Jacques aiutato da Stéphane si era occupato del barbecue e aveva lanciato un’occhiata torva ad Ismaël quando Louise aveva rifiutato la carne alla brace per mangiare una pannocchia di mais abbrustolita. Il figlio, tranquillo, si versava nel piatto il riso con le zucchine e cercava di nascondere l’orgoglio per Louise. Prima del dolce Eveline aveva portato in tavola la ciotola di sangria preparata il pomeriggio, fresca di frigo e con i cubetti di ghiaccio dentro. 
Dopo cena Neven aveva acceso la cinepresa e aveva registrato il padre, Eveline e Annik che facevano una partita a carte sulla tovaglia macchiata di vino; Gwenna che danzava come una gitana, scuotendo i serici capelli rossi e la gonna viola alla musica della radio; la nipotina Louise che acconciava i ricci biondi di Anais con degli ombrellini di carta; Michelle e Sebastien che coricati su dei materassini, caricavano le molle delle macchinine per poi farle sfrecciare contro il muro. Ismaël e Stéphane li aveva trovati sul dondolo, il fratello coricato con la testa sulle ginocchia di Stéphane, una sigaretta tra le labbra e il bicchiere di plastica della sangria appoggiato sullo sterno e stretto nella mano sinistra. Davanti alla cinepresa lo scrittore si chinò per dare un bacio sulla fronte di Ismaël e si rialzò divertito. 
- Ore dieci e venti - disse davanti all’obiettivo, abbassando lo sguardo per scrutare l’orologio al polso - tra quaranta minuti incominceranno i magici giochi pirotecnici del comune di Brest: sentiremo i cani ululare e i bambini piangere. E poi? - 
Stéphane si abbassò nuovamente per baciare sulle labbra Ismaël. 
- Fa proprio schifo questa sangria, non trovate? - mormorò Neven spegnendo momentaneamente la cinepresa, togliendo la cassetta e infilandola nella custodia nel marsupio. 
- È addirittura peggio del solito - confermò Ismaël bevendo in un sorso tutto il vino e tralasciando i pezzi di frutta. Prima di allontanarsi Neven gli fregò il pacchetto di Embassy, entrò qualche secondo nell’appartamento per posare il borsone delle macchine fotografiche e della cinepresa e andò a ballare con Gwenna. 
- Ah, mi stavo per dimenticare: Immanuel può dormire qui, ci sono due camere degli ospiti - accennò Ismaël spegnendo il mozzicone della sigaretta dentro il bicchiere di plastica e appoggiandolo sul pavimento. 
- Lontano da noi? - lo stuzzicò Stéphane giocando con i suoi ricci, le ciocche più lunghe che lambivano le orecchie e coprivano porzioni di fronte; - Maël, tu sei geloso - 
- Mai stato in vita mia - protestò vagamente Ismaël, chiudendo gli occhi e increspando le labbra. 
I primi fuochi vennero sparati, seguiti dalla musica flebile in lontananza e i bagliori delle cascate argentate di titanio e magnesio dai torrioni, dei cuori rossi di carbonato di litio, delle stelle di ossalato di sodio, la bandiera di solfato di rame, magnesio e una composizione di scialacca, clorato e carbonato. 

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Capitolo 7
*** I put my trust in you ***












L’euforia con la quale Stéphane aspettava Immanuel irritava profondamente Ismaël. Lo aveva odiato fin dal principio, a partire dal nome e lo aveva odiato quando, per una questione di educazione, gli aveva ceduto il posto del passeggero per scivolare nei sedili anteriori. Lo aveva odiato quando l’aveva visto uscire attraverso le porte scorrevoli lucidate a specchio dell'aeroporto, con un trolley nero. Giacca grigia e pantaloni neri di due completi differenti, un fermaglio in platino sulla cravatta scura, occhiali da sole. I lineamenti affilati, le guance svuotate e aderenti al teschio, gli zigomi alti e gli occhi chiari incastonati nelle orbite incavate, la sfumatura alta enfatizzata dai capelli neri pettinati all’indietro. Aveva odiato come aveva baciato sulle guance Stéphane e come, appena partiti, si era voltato verso di lui ad osservarlo attentamente, forse aspettandosi qualche frase di circostanza che non sarebbe arrivata. 
Ismaël si era sporto dal lato sinistro, aveva poggiato una mano sulla spalla di Stéphane e gli aveva chiesto di alzare il volume della musica. Li aveva odiati quando avevano iniziato a chiacchierare, l’accento perfetto di Immanuel poteva essere il suo o quello di suo padre, nessuna cadenza regionale o straniera, non come Stéphane o le bambine, oppure come Marc e il suo accento parigino. 
Immanuel gli aveva passato il suo portafoglio, aperto in modo da mostrare la foto di un ragazzo dai capelli rasta intrecciati a piume e bulloni, non guardava verso l’obiettivo ma si distinguevano gli occhi castano chiaro dalle influenze verdi e dorate, le spalle possenti tradivano la muscolatura allungata e nervosa. 
Gli aveva detto il nome, Egon, Ismaël glielo aveva restituito senza dire una parola e si era acceso una sigaretta, perché gli dava così fastidio? Per come muoveva le spalle quando camminava o per come Stéphane ne aveva parlato? Stéphane aveva bisogno di lui per lavorare e lo aveva voluto affianco, un frammento di vetro a pungere il petto. 
Immanuel era rimasto appoggiato alla portiera con la schiena, si teneva con un braccio al sedile e lo fissava con un sorriso sornione, aveva accennato a quanto Stéphane gli avesse parlato di lui ed Ismaël gli aveva risposto alludendo alla convinzione non giustificata dello scrittore di conoscerlo, prendendosi una rivincita anche su Stéphane e la semplicità con la quale lo feriva, sembrava non rendersene conto o sottovalutarlo, forse scaldato da quella palese gelosia come da un complimento o un’ammissione di debolezza. 
Stéphane accomodante lo aveva richiamato guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore, sostenendo lo sguardo fino a quando non venne distratto dal traffico all’entrata dell’autostrada. 
Nelle prime ore di viaggio lo aveva osservato spesso, a cadenza regolare, con un sorriso si era accorto che si era addormentato con la testa contro il finestrino, aveva abbassato l’aria condizionata e si era concentrato sulla strada. Immanuel gli aveva raccontato di come andava la vita ad Amburgo, qualche commento su un nuovo scandalo che aveva coinvolto l’ex moglie e un membro del Bürgerschaft, un accenno alla redazione e al salto di qualità che avevano fatto. 
- Sei mai stato a Brest? - aveva domandato Stéphane mantenendo il volume basso per non svegliare Ismaël; in quel punto della strada il mese prima aveva forato ed era stato un incubo dover mettere la ruota d’emergenza, uscire al primo paese e cercare un meccanico aperto la domenica pomeriggio. 
- In Bielorussia, non in Francia - rispose Immanuel inarcandosi per togliere la giacca e rimanere in maniche di camicia. Poi aggiunse; - gli stai rendendo tutto quello che hai dovuto subire? - 
- Subire? No, affatto, ma non nego che sia piacevolissimo vederlo così geloso - mormorò Stéphane, lasciando scivolare lo sguardo dalla strada, al retrovisore, ad Immanuel e agli specchietti laterali. Immanuel gli aveva sempre evitato di andare dallo psicologo e parlare con lui veniva istintivo; - tutto quello che ho sempre desiderato si è avverato. Anche più di quanto desideravo, non mi azzardavo neppure sperarle certe cose. Tutta la mia vita si è sistemata in una persona e nel suo mondo. Io invece gli ho portato la confusione... - 
- Non mi pare se ne lamenti - aveva constatato Immanuel togliendosi gli occhiali mentre il sole spariva dietro le nuvole. 
- Addirittura suo padre mi ha ringraziato per aver convinto Maël a passare a casa le vacanze e non a Parigi. Prima lo vedeva solo nei giorni di Hanukkah - Stéphane sogghignò e aggiunse: - a proposito, cerca di non accettare mai da bere da Jean-Jacques, ti ritroveresti ubriaco in meno di dieci minuti - 
- Se me lo dici tu mi posso fidare - aveva borbottato Immanuel riferendosi ai trascorsi con l’alcol dello scrittore nei primi anni di matrimonio. Più volte lo aveva recuperato al pub ubriaco di prima mattina, più volte lo aveva aiutato nelle stesure, nelle correzioni, nei bisogni di continuità e lucidità. Stéphane non accettava le banalità che il grande pubblico bramava, certo, erano soldi facili, ma lui ci stava rimettendo la salute, nella speranza di riuscire a scrivere per se stesso. Lo scrittore creava una musicalità, ricercava l’eufonia ed era un lavoro semplificato dall'idealizzazione della lingua straniera. Immanuel aveva la stessa familiarità col francese, per questo Stéphane aveva bisogno di lui nella traduzione: doveva ricreare il ritmo buffo comprensibile solo allo straniero.
- Hai fame? - Stéphane guidava rilassato, una mano sul volante, l’avambraccio sulla portiera, appoggiato allo schienale. Preciso, lineare. Con la coda dell’occhio vide il cenno di diniego dell’amico; - meglio, non voglio svegliarlo adesso che dorme così bene. Tra due ore ceniamo però - 

Il sole scivolava dietro le nuvole all’orizzonte diffondendo una luce calda e ambrata. Il cielo diventava livido e denso mentre calavano le tenebre; non accesero la luce. Ismaël sul ciglio del letto, circondato dai quaderni di appunti, dalle fotocopie e dai ciclostilati sgualciti di qualche fanzine punk trovata nei meandri di un cassetto dei ricordi di Stéphane. I segni sbiaditi del nastro adesivo sul muro, sul pavimento la scatola dei ventagli ingialliti della collezione materna. Stéphane inginocchiato teneva le mani di Ismaël con i palmi rivolti in alto, perdendosi a percorrere le falangi sottili e lunghe, ad osservare le piccole cicatrici madreperla, il neo sotto il mignolo destro. Mani che disegnavano sulla pelle, su cui depositare baci distratti. 
La musica nella stanza, dischi ritrovati dopo anni di distacco forzato per non rimanere sommersi dai ricordi. A means to an end, una canzone e le lacrime che Stéphane non nascondeva, l’unico significato lampante. I put my trust in you, I put my trust in you, I put my trust in you, I put my trust in you. 
Jeopardy, l’album preferito di sempre, il riascolto provocava lo scioglimento del ghiacciaio della loro eterna adolescenza, un passepartout per l’età adulta, una questione risolta in un momento intenso e grave, solenne nell’intimità. Il tremare della mano di Ismaël sul Desire. 

- Michelle, guarda cosa ha trovato nonna Eveline - esclamò Ismaël un primo pomeriggio di un giorno assolato mostrando alla bambina il seggiolino da montare sulla bicicletta - ti va di fare un giro con me?- 
- Io devo fare i compiti, tu vai - la convinse Louise, spingendola verso Ismaël. 
- Lo montiamo sulla bici del nonno e poi andiamo a prendere un dolce nel cafè di nonna Annik, okay? - Ismaël aveva scelto apposta quel momento per trovare le strade relativamente deserte, in modo che Michelle non si trovasse paura - se poi ti piace lo portiamo anche a casa, così possiamo rinunciare all’automobile - 
- Davvero? - mormorò Michelle stranita. 
Ismaël le sorrise. In poco tempo, grazie soprattutto alle indicazioni di Eveline che aveva usato il seggiolino per portare in giro i nipotini, lo montò sul portapacchi della bicicletta del padre, prese in braccio Michelle e le spiegò che doveva stare ferma, tranquilla e non slacciarsi le cinture di sicurezza. Mise lo zainetto della piccola dentro il cestino anteriore e partirono. Percorsero rue Denver, attraversarono i giardini di place de Gaulle, e dopo boulevard Français Libres, Michelle volle fermarsi a guardare gli scafi dal Pont de Recouvrance, in altri cinque minuti arrivarono al cafè.
Annik appena vide la nipotina lanciò sul bancone lo straccio e corse ad abbracciarla. 
- Cosa ci fate qui? - domandò la donna stupita, erano dieci giorni che li vedeva solo a colazione e poi sparivano per l’intera giornata a casa di Jean-Jacques, dove Stéphane lavorava con Immanuel. In realtà la questione che la preoccupava maggiormente era l’insofferenza di Ismaël nei confronti di Immanuel. 
- Volevamo venire a trovarti - Ismaël si appoggiò al bancone e tolse gli occhiali da sole per riporli nella tasca della camicia; - ho promesso un dolce a Michelle, cosa consigli?- 
- Dritto dal nord, da Saint-Malo: ker y pom? - Annik fece accomodare Michelle davanti ad un tavolino illuminato dalla luce soffusa della vetrata colorata. Dietro una teca sul bancone prese tre cupolette di sablée bretone ricoperte di gocce di cioccolato e con metà mela a fettine all’interno. Annik diede un’ultima occhiata agli avventori per individuare quanto tempo di pausa avrebbe potuto prendersi, poi si sedette voltata verso la porta, per controllare; - li fanno in una pasticceria qui vicino - 
- Okay - confermò annuendo Ismaël e sedendosi vicino alla bambina. Michelle aveva appoggiato sul tavolino lo zainetto e aveva tirato fuori due bamboline di pezza fatte da zio Egon. Annik le trovava spaventose ed Ismael inquietanti; - come le hai chiamate? - 
- Non lo so, a te che nomi piacciono? - chiese Michelle affondando un cucchiaino nella pasta morbida del dolcetto. 
- Ferenc o Arkadij, Zoe o Cybèle - a sentire i nomi preferiti da Ismaël, Annik fece cadere con un tonfo il cucchiaio sul piatto di ceramica dai bordi ondulati. 
- Ismaël, caro, non immagini quanto io sia contenta che Michelle non si chiami Cybèle - gli bisbigliò a denti stretti. Poi sorrise alla nipotina e aggiunse; - ci sono tanti nomi carini: Marina, Brigitte, Alain, Eric...- 
- A me piacciono quelli di papà- Mormorò Michelle indicando le due bamboline e sporcandosi le labbra di cioccolata. Annik rimase a guardare affascinata la nipotina e lasciò il filo dei pensieri ingarbugliarsi e cambiare direzione mille volte. Pensò con fierezza al coraggio del figlio di ricominciare daccapo e che forse l’aria allegra e lo sguardo felice di Michelle erano dovuti proprio agli ultimi mesi. Dopo qualche minuto la bambina chiese; - cosa vuol dire imbuto? - 
- Imbuto? - ripeté Annik attonita; - come ti è venuto in mente? - 
- È una cosa di plastica o vetro per travasare i liquidi… forse è meglio fartelo vedere però - cercò di spiegare Ismaël guardandosi intorno; - Annik, hai un imbuto? - 
Annik si mise a ridere della curiosità improvvisa della nipotina e andò a recuperare l’imbuto che usava per travasare il sidro dal fusto alle bottiglie di vetro. Mostrò a Michelle come funzionava e diede una bottiglia ad Ismaël da portare per la cena. 

Le due settimane di lavoro febbrile e stancante avevano portato come risultato la traduzione completa e soddisfacente, una busta di carta gialla con il libro rilegato col nastro adesivo telato nella valigia di Immanuel ed una cartellina con diversi floppy disk contenenti il confronto tra l’originale tedesco e la traduzione francese. Prima che Stéphane lo accompagnasse all’aeroporto di Brest a Guipavas, Ismaël gli aveva teso la mano e lo aveva invitato a tornare per le vacanze di Natale assieme ad Egon. 
Ismaël rimase sul divanetto dello studio intento a leggere delle lettere ricevute dalla Russia dal padre, come quando, da giovane, ogni suo apprendimento della lingua straniera veniva confinato in quella stanza e veniva incoraggiato a tenere tutto a mente senza appunti che poi avrebbe dovuto bruciare. 
Ogni tanto Jean-Jacques commentava ad alta voce le vignette di Siné e sorseggiava il the al gelsomino preferito dalla moglie. Con un’espressione divertita aveva accolto il rientro di Stéphane e osservato il modo con cui si erano abbracciati - le dita di Stéphane immerse nei capelli Ismaël e le sue mani strette sui fianchi dello scrittore - invidiandoli un poco per la giovane età. 
Scoprire che il figlio era omosessuale non era stato un trauma o un motivo per disprezzarlo o ripudiarlo, l’unica amarezza riguardava il non poter avere dei nipoti. D’altronde era stato in guerra in Indocina e parecchi uomini in quell'inferno asiatico avevano abbandonato i dogmi occidentali della famiglia e dei figli per mostrare il loro vero lato, come dei colleghi del SDECE di stanza a Berlino, nei tre anni in cui aveva lavorato in Bebelplatz; ne aveva conosciuti molti e tanti non erano tornati in Francia vivi, alcuni li aveva rispettati e ammirati. Proprio non poteva disprezzare suo figlio, non dopo il modo in cui non glielo aveva detto ma presentato come la cosa più comune al mondo, coadiuvato dall’appartamento a Parigi che sicuramente rappresentava per lui l’indipendenza. Jean-Jacques si era divertito al proprio matrimonio a dividere l’interesse e la curiosità dei parenti con il figlio e Morgan. E ora c’era Stéphane e c’erano le due bambine, nessun problema. 
Solo uno: voleva abbracciare Eveline più spesso. 
Jean-Jacques trasalì a sentire le risate di Stéphane, erano ancora stretti nel loro mondo. 
- Dunque non lo odi così tanto? - stava chiedendo lo scrittore. 
- Ho avuto modo di parlargli - accennò Ismaël baciandolo e sollevando gli angoli della bocca in un sorriso; - mentre eri sotto la doccia e cantavi.- 
- Canto discretamente, lo devi ammettere - mormorò Stéphane sedendosi sul divano e stiracchiandosi i muscoli del collo. 
- Io non ammetto niente - borbottò Ismaël uscendo dallo studio. 
- Grazie di averci ospitati - da sopra il settimanale Jean-Jacques vide chiaramente Stéphane distendere le braccia sopra la spalliera e piegare il capo per guardarlo sottosopra; - grazie mille - 
- Tranquillo, aspetto una copia - gli rispose immergendosi nuovamente nelle vignette. 
- Per Natale, credo - sussurrò Stéphane, reprimendo uno sbadiglio. 
- Ritornate prima di andare a Parigi - pregò Jean-Jacques lasciando cadere la conversazione. 
- Certamente - confermò lo scrittore, poi si alzò e prima di richiudere la porta mormorò nuovamente un ringraziamento. 

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Capitolo 8
*** Tra le Vertebre ***













Fine agosto 

Resistendo poco nell’oscurità e nell’atmosfera soffocante del parcheggio seminterrato, Stéphane con uno sferragliare aprì la saracinesca del garage, fece segno ad Ismaël di seguirlo nel labirinto di scatole e mobili. Avventurandosi sopra una scala a pioli raggiunse il soppalco e con uno scatto aprì le ventole dell’aria e una finestrella dai vetri opachi per la polvere; avvitò la lampadina e una luce fioca e gialla illuminò vagamente gli spigoli degli oggetti. Dopo qualche secondo passato ad orientarsi nel marasma di ricordi e cianfrusaglie e carabattole, recuperò la custodia color aragosta della chitarra alla quale da adolescente aveva creduto di voler consacrare la vita, cercando altri ragazzi per formare un gruppo post-punk e sconvolgere il mondo dall’alto dei palchi – o lenirlo attraverso le puntine dei giradischi. Tirò fuori lo strumento musicale facendo cigolare le giunture e la cerniera arrugginita, con un ampio e teatrale gesto del braccio la mostrò ad Ismaël, soddisfatto del ritrovamento. I cinque o sei accordi imparati da autodidatta, lo strimpellare continuo e quei ritmi famosi che suonava sempre alle feste a casa degli amici o negli stacchi in radio, prima di introdurre qualche canzone o dedicare la buonanotte a qualche cuore in ascolto. In Germania si era portato dietro soltanto l’armonica, suonandola raramente ma trovandone familiare e rassicurante il peso nella tasca del cappotto. 
Provò a vibrare le corde e a correggere il suono col diapason trovato nella custodia, alzò lo sguardo per incontrare quello di Ismaël. Gli aveva fatto male il giorno prima essere tenuto lontano da Jean-Jacques mentre Ismaël aveva avuto un attacco epilettico. Certo, Ismaël se l’era sentito fin dalla mattina, la chiamava aura, ed era stata una sua richiesta il non farsi vedere, come se Stéphane non sentisse il bisogno di sapere cosa fare o come se non lo avesse già visto altre volte, riverso sul pavimento tra i banchi di una classe polverosa. Con le mani nelle tasche dei pantaloni beige, la camicia spiegazzata stretta dalla cintura intrecciata, si guardava intorno, sfuggiva, nominava oggetti che avevano perso l’appellativo. Nella sua danza richiamava la luce e risaltava su tutto, gli occhi grigi erano l’unica cosa a metà di quell’opera di chiaroscuri, di contrasti, di nero e di bianco. Di un volumetto sgualcito e un’idea balenata in testa, aria eloquente. 
- Una lettura di Majakovskij? - chiese incerto Stéphane, una gamba sul settimo piolo e l’altra sul nono, la chitarra ancora stretta a pizzicare note con i polpastrelli. 
- Come lo leggi a me - aggiunse Ismaël con una vena dolce. 
- Pubblica? - Stéphane tentennò, soppesando l’idea e volgendo lo sguardo dal libro di poesie ad Ismaël; - non sarei in grado - 
- Mica in un teatro, al centro sociale - mormorò Ismaël; - oltre il fatto che pubblicizzeresti le attività del Pelloutier, per te, pensa alla soddisfazione - 
- Mh, vieni qua - Stéphane sapeva già che lo avrebbe fatto. Era un costante esaudire i desideri dell’altro, da parte di entrambi. Magari gli sarebbe piaciuto davvero parlare di poesia a dei ragazzi, senza pretese, Ismaël lo capiva con uno sguardo, nel suo cuore aperto percepiva e prevedeva ogni speranza o piacere anche sconosciuto. Lo scrittore gli allungò una mano per invitarlo a salire le scale.
- Io parlavo seriamente - brontolò Ismaël accarezzandogli le ginocchia. 

Primi di settembre

- Resta qui - ordinò Louise aggrappandosi con una mano ai pantaloni di Stéphane e osservando i bambini all’entrata della scuola, alcuni si nascondevano dietro le madri, altri giocavano a prendersi e altri ancora si erano raggruppati per raccontarsi la pausa estiva. 
- Non vuoi che ti accompagni? - le domandò il padre chinandosi per guardarla in viso. 
- Sì, ma poi resta qui fino alla fine - disse lei spostandosi a disagio per far passare una signora con il passeggino. Era uno scricciolo nella camicetta con colletto ricamato e nel vestito blu con la pettorina. La cartella rettangolare bianca con disegnate delle fragoline, troppo larga per le spalle. 
- Certamente - Stéphane le si inginocchiò di fronte e le prese le manine tra le sue; - solo per oggi però. Hanno il numero di casa, qualsiasi cosa accada verrò a prenderti. Devi stare tranquilla - 
- Non mi piace - borbottò Louise. Vide che la scalinata e il portone si stavano liberando dal flusso di studenti diretti nelle classi, con tono deciso aggiunse; - va bene, entriamo ora - 
I pavimenti di marmo conservavano l’ultima cera dell’estate e restituivano lo scalpitio di suole in gomma e in cuoio, giacchette di jeans di vari colori abbellivano i muri sopra gli attaccapanni. La maestra appena vide la nuova alunna invitò Stéphane ad entrare nell’aula e lo salutò stringendogli la mano. 
- Ciao, Maelice. Ci siamo conosciute in primavera, ti ricordi? - salutò la bambina sorridendole. 
Louise annuì e cercò di nascondersi dietro il padre. 
- Tende a preferire essere chiamata Louise, sa come sono fatti - fece Stéphane scherzosamente alla maestra. Era giovane e indossava un lungo vestito batik e i capelli tirati indietro con un cerchietto. C’era un bambino seduto sulla cattedra che giocava con i pennarelli nel portapenne. 
- Oh, certamente. Scusami Louise, d’ora in poi ti chiamerò così. Vai pure a sederti, durante l’appello ti presenterò alla classe - Louise abbracciò il padre e poi si sedette nel piccolo banco vicino alla finestra, proprio davanti alla cattedra e iniziò a tirare fuori l’astuccio e un quaderno dalla cartella. La maestra si voltò dando le spalle alla classe e rassicurò Stéphane – È importante che non si accorga dell’ansia dei genitori. Andrà tutto bene, è una bambina sveglia - 
- La settimana prossima la piccola comincerà l’asilo - mormorò il papà, poi scuotendo la testa come per scrollare qualche sensazione di dosso, aggiunse; - qui c’è il libro delle vacanze, lo ha fatto tutto da sola - 
Stéphane aveva mantenuto la promessa ed era rimasto l’intera mattinata in un pub vicino alla scuola, prendendo un caffè turco, leggendo il Libé e sfogliando dei quotidiani stranieri. Aveva osservando i gesti del barista, dal bancone - i bicchieri lavati e asciugati, le tazzine calde coperte da un panno sopra la macchina del caffè, lo specchio dietro gli scaffali delle bottiglie colorate degli alcolici - allo stagliarsi imponente dalla cassa. Gli avventori: l’uomo con la giacca di pelle eccessiva per la stagione, la bionda dal rossetto arancione al terzo whiskey, due spagnoli con gli zaini in spalla e le scarpe da montagna. 
L’arredamento era moderno e laminato, dai colori chiari e caldi, arancione e bianco, i tavolini dalle gambe sottili attaccati alle pareti, degli sgabelli dal bancone, delle reclame alle pareti: il tucano disegnato del Lovely Day for a Guinness.
- Aspetti qualcuno? - gli domandò il barista sovrastando lo sbuffo di vapore della macchina del caffè. 
- Mia figlia, è il suo primo giorno di scuola - Stéphane guardò l’orologio, era lì dentro già da due ore. L’attesa era qualcosa che gli faceva venire voglia di ricominciare a fumare, bruciare i minuti e calpestarli sotto le All Star. Richiuse il taccuino e i disegnini infantili di aerei, frecce e profili sparirono sotto la copertina blu. 
- Sarà emozionante - commentò l’uomo allungandogli la ciotola delle arachidi. 
- Emozionante. Sì, è il termine giusto - Stéphane gli sorrise cancellando l’espressione insofferente, si avvicinò alla teca sul bancone - prendo un croissant integrale. Mi faresti un altro caffè? - 

Louise era uscita dalla scuola rimanendo qualche passo dietro i suoi nuovi compagni di classe, osservandoli attentamente, l’idea che ci fosse qualcosa di non chiaro, forse frainteso, un dissidio, aveva continuato a scrutarli quando le si era affiancato il padre e le aveva preso la cartella per portarla lui. 
- Tutto bene? - le chiese dandole la mano e aspettandola. 
- Sì. Solo che… quella bambina non mi ha detto come si chiama - mormorò la piccola prendendo la direzione opposta e voltandosi di tanto in tanto a guardare la schiena di quel gruppetto di bambini - sei rimasto qui? - 
- Te lo dirà domani, tranquilla. Sono stato la dentro, va bene lo stesso? - le rispose Stéphane indicando il locale. La bambina annuì. 
La scuola distava da casa un quarto d’ora a passo sostenuto, costeggiando nell’ultimo tratto, rue Froidevaux, il muraglione del cimitero nell’ombra del viale alberato. 
Louise saltellò salendo le scale, per poi fermarsi trovandosi sotto gli occhi le lucide scarpe rosse della vicina di casa. 
- Ma dove corri? - le domandò dandole un buffetto sulla guancia. 
- A casa, oggi è stato il mio primo-primo giorno di scuola! - esclamò Louise sgusciando via di corsa. 

- Stéphane - nel chiamarlo Ismaël aveva sollevato la testa dal bracciolo del divano, lo aveva attirato a se con la voce arrochita dal sonno e una mano tesa ad accarezzare la stoffa dei pantaloni sopra le sue ginocchia. Ismaël aveva inarcato la schiena e si era girato da un lato per fargli posto. Un brivido aveva scorso le sue vertebre al rimbombare della voce di Ismaël che pronunciava il suo nome, una rifrazione.
- Maël - bisbigliò lo scrittore, allungò un braccio fino a sfiorargli una caviglia e l’altro sul polso, spingendosi contro Ismaël raggomitolato dietro la sua schiena - hai sonno? - 
- Sì - Ismaël rimase in silenzio qualche attimo, a rimuginare su dei discorsi abbozzati, opprimenti ma appena accennati, una gabbia a matita leggera - non ti da fastidio la normalità? Io temevo che mi soffocasse e sono partito per il Nicaragua, non volevo rimanere schiacciato da una vita comune - 
- Questa non è una vita comune, con il sorriso di chi si sente dal lato giusto stiamo portando avanti qualcosa di rivoluzionario - la stretta decisa a sottolineare le parole, pelle che scorre su pelle. 
- È involontario - brontolò Ismaël con le palpebre abbassate. 
- E il tuo aiutare come volontario in un’organizzazione di pace la popolazione di un paese uscito da una guerra civile era volontario? Hai appena detto che era per fuggire da una vita normale - domandò lo scrittore. 
- Non ho una mente brillante per farlo in altro modo. Non provavo pena o struggimento, un modo come un altro. Un’opportunità per viaggiare. È stato divertente, non giusto - asserì convinto Ismaël. 
- L’importante è che io sappia che non è così - Stéphane sorrise. 
- Comunque adesso non potrei rinunciarvi…- bofonchiò Ismaël lasciandosi baciare; - a questa vita, si intende - 
Sentì il sorriso di Stéphane sugli angoli della bocca e poi un miagolio come un pianto, freddo. 

- Ha fatto un incubo - affermò Stéphane stringendo Michelle e cullandola; - terza notte di seguito - 
- Piccola - mormorò Ismaël facendo spazio sul divano ad entrambi, era talmente stanco che non riusciva ad alzarsi per andare a letto. Era la terza notte di seguito che Michelle si svegliava piangendo per degli incubi che non riusciva e non voleva raccontate, l’unica spiegazione consisteva nell’inizio dell’asilo la settimana successiva. Racimolare le forze per andarle a prendere un cristallo di zucchero in cucina fu difficoltoso ma ci riuscì e poi, indeciso tra l’andare a letto o aspettare che Michelle si riaddormentasse tra le braccia del padre, stazionò appoggiandosi alla parete, contro lo spigolo dello stipite. 
- Maël, dicevo - chiamò Stéphane proteggendo dai mostri la figlia, stringendola contro il petto e accogliendo nell’incavo della spalla le ultime lacrime della piccola; - mi piacerebbe fare una lettura al Pelloutier, ma pensavo di utilizzarti come seconda voce. Che ne dici? -
- Io non ci salgo su un palco, per quanto basso sia - mugugnò ostinato Ismaël. 
- Registrata, si intende. In russo, un gioco acustico - lo prese in giro lo scrittore, facendo scemare le parole nel contatto visivo. 

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Capitolo 9
*** Que ton indifférence, elle ne me touche pas ***













Parigi 

Louise si era risvegliata scossa dai brividi e con il pigiama madido di sudore, sentiva le ossa bruciare, un dolore intensissimo alle tempie e vicino alle sopracciglia, nelle zone che Ismaël aveva chiamato bozze frontali. Aveva passato una notte tremenda a vomitare e tremare di freddo e Ismaël l’aveva spostata nel letto matrimoniale per non far ammalare anche Michelle e per tenerla sotto controllo. Louise non capì perché si era risvegliata nel proprio lettino. Doveva andare in bagno, aveva sete e aveva paura di non riuscire a reggersi sulle gambe. 
- Stai meglio? - le aveva chiesto Ismaël affacciandosi dal corridoio.
- No, peggio di prima - aveva mormorato sconsolata tirando le tende di cotone rosso dal letto a castello e zampettando fino al bagno, traballando e appoggiandosi alle pareti del corridoio. Al ritorno aveva trovato un bicchiere di spremuta e delle candeline galleggiati fatte con le bucce delle arance in un catino ai piedi del letto. Avvolgevano con la loro luce il centro della stanza buia e illuminavano vagamente di bagliori dorati la polvere danzante. Negli stati febbrili Louise percepiva degli strani paragoni e accostamenti affollarle la testa come immagini di film - che belle! Mi racconti una storia? -
- Non conosco storie - Ismaël sembrava dispiaciuto e sbigottito della propria incapacità di raccontare delle storie adatte alla sua età, potenzialmente interessanti, che non fossero biografie di generali, conquistatori, artisti o rivoluzionari o degli aneddoti sul bisnonno, sul nonno, su suo padre. Aveva cercato dei fogli sottili e una biro e un’idea per rimpiazzare il vuoto - raccontami tu, io disegnerò tutto - 
Aveva iniziato abbozzando una pianura sotto il cielo in tempesta, una stradina tra i campi di luppolo e di lavanda. Le violette che Louise avrebbe messo in un bicchiere tondo, una carovana di gitani con i cavalli bardati a festa e le carrozze dipinte di verde pistacchio e rosa antico, le croci dei cristiani su un pavimento di cera dove erano incastonati diamanti e rubini e lapislazzuli. Un fiume d’acqua fresca e cristallina che nel suo corso accarezza di ciottoli arrotondati, dell’erba rigogliosa nella sponda opposta, un muraglione ricoperto d’edera e un castello. Una torta delle feste, dove il fortunato di turno avrebbe rischiato di scheggiarsi un dente con la statuina in ceramica del personaggio di un film recente. Un incubo simile ai suoi, un letto in una stanza con le pareti, il pavimento e il soffitto, ricoperti di serpenti striscianti l’uno sull’altro, come funi e corde srotolate e bagnate, vischiose di pece e alghe. Un pendaglio di smeraldi, i riflessi intorno, sul foglio. 
- Nessuno aveva mai disegnato per me - aveva detto la piccola con un filo di voce, riconoscendo le sue descrizioni e gli angoli dei sogni di Ismaël mischiarsi sulla carta. 
Il pomeriggio si era coricata sul divano a guardare i cartoni animati, aveva fatto merenda con pane, olio e sale e the ai frutti di bosco, quando le palpebre avevano ricominciato a fare male aveva chiesto a papà di suonare qualcosa al piano e sorridendo leggera aveva pensato a quante cose fatte per lei, quante premure, quante consolazioni da non spartire con la sorella. 

Amburgo 

- Un’ultima domanda Herr Marchand; i critici non sono concordi nel classificare i suoi thriller: passando da elogi al suo stile raffinato o giocando sul modo in cui rende Amburgo un crocevia di popoli, dando al diverso, all’attuale criminale, lo status di vittima e al ricercando i colpevoli nelle alte cariche e negli indifferenti; nella sua vita, chi sono i cattivi, gli antagonisti? - domandò il giornalista sistemando la cartellina di plastica sulle gambe incrociate e dondolando la caviglia che risaltava per le calze a righe di vari colori. 
- Oh, il fatto che non concordino è a mio favore, mi permette un campo d’azione più ampio e meno staticità, devo ancora maturare e trovare non lo stile perfetto, ma il mio stile perfetto. Grazie di aver posto la domanda in questi termini: l’antagonista per un lungo periodo della mia vita sono stato io stesso, adesso credo siano le persone che cercano di imporre un pensiero standard, una felicità uniforme, che hanno delle aspettative che non puoi permetterti di deludere. E’ il produci, consuma, crepa dei CCCP, il gruppo italiano – avevo trovato una fanzine con tutti i testi tradotti. Presente, no? Lavoro, matrimonio, figli, in attesa della pensione: obbligatorio - lo scrittore affondò un canino nel labbro, tirò verso l’interno, pochi secondi di pausa, l’attenzione catalizzata, una suspense involontaria, poteva quasi sentire nella platea lo sforzo muscolare per trattenere il respiro. Concluse: - non c’è nulla di più sbagliato, non è obbligatorio, non lo è affatto - 

Parigi 

Cricri aveva passato il pomeriggio con la piccola Michelle in dei negozi di vestiti per bambini per cercare due abitini da damigella. Li aveva trovati dopo tanto penare, di velluto blu, con la pettorina, la gonna a corolla e un enorme fiocco in chintz sulla schiena. Con una camicetta bianca o azzurrina sotto, le calzamaglia, delle scarpette nere e il cappotto sarebbero state al caldo anche a dicembre. Era discretamente contenta di esser riuscita ad andare a prendere Michelle all’asilo e depennare una delle cose da fare della lista per il matrimonio, prima di riportarla a casa le prese un gelato, mango e mirtilli, e sulla metropolitana la prese sulle ginocchia e via via che le fermate scorrevano dai vetri la abbracciava per non farla cadere dallo strapuntino. 
Il matrimonio avrebbe dovuto essere perfetto, semplice, lineare, familiare, una cerimonia in comune e poi il pranzo in un ristorante elegante sul lungosenna; ragionandoci per la prima volta, ridacchiò al pensiero di avere pure due damigelle senza averlo mai desiderato prima. Aveva ventinove anni, lavorava in una farmacia nonostante contrastasse con la sua filosofia di vita, fatta di feng Shui, ristoranti macrobiotici aperti negli anni settanta che più nessuno frequentava, tessuti naturali e fluidità, sviluppata a partire dai dieci anni, quando il padre aveva insistito per farle praticare le arti marziali cinesi e lei aveva conosciuto un maestro di wujiquan; si stava per sposare con l’uomo con il quale conviveva da tre anni ed aveva sempre trovato la forza di andare avanti nonostante la stanchezza, le aspettative e il senso di oppressione portato dalla modernità. Sulla poltrona del salotto di Ismaël, lasciava trascorrere i minuti e perdeva autobus, la poca voglia di rimanere da sola a casa mentre Lionel faceva il turno a lavoro. 
- Rimani a cena? - le domandò Ismaël rimboccando le coperte a Louise, almeno lui aveva trovato qualcosa non desiderando nulla, chissà dopo quante crisi aveva capito che la vita non significa niente ed è solo una ricerca di generi di conforto, libri, abbracci, numeri, colori, sigarette. 
Nessun fine superiore, nessuna freccia scoccata al futuro. La direttiva di non invadere mai lo spazio vitale di altre persone, non imporsi, lasciar perdere e accorrere in caso di necessità. 
L’individualismo non indifferente come ideologia. Non indifferente.
- Con piacere - rispose Cricri affondando nella poltrona e ancorandosi con le mani ai braccioli. Seguiva la canzone dei Mano Negra alla radio, “que ton indifférence, elle ne me touche pas, je peux très bien me passer de toi; comme envie de sang sur les murs, comme envie d'accident d'voiture, comme envie d'expliquer comme ça” e aggiunse distratta; - que ton indifférence, elle ne me touche pas

Berlino 

- Mi manchi - disse Stéphane abbassando il tono di voce e avvicinando la cornetta del telefono alla bocca; - terribilmente - 
Si trovava a Berlino, nella camera matrimoniale di un albergo vicino alla Nollendorfplatz. Le luci basse e aranciate delle abat-jour proiettavano ombre sfocate e grigie sui muri. Oltre le tende ignifughe si scorgeva la stazione della U-Bahn. Dieci giorni ad Amburgo tra casa di suo cugino e quella di Immanuel ed Egon, un mercoledì sera in un piccolo teatro all’italiana con un giornalista e la sala gremita, pomeriggi in librerie a chiacchierare, presentare, salutare, dedicare e firmare le copie. Gli ultimi quattro giorni a Berlino per un aperitivo letterario, un’altra serata in un teatro e quattro librerie da dividere in due turni, alle undici di mattina e alle sei di sera. Bramava il diretto per Parigi come un’oasi nel deserto. 
- A Louise è passata la febbre, oggi pomeriggio siamo andati fino al parco e lunedì potrà tornare a scuola - Ismaël con la voce resa roca dalla stanchezza. Mancava come il respiro. 
- Te la sei cavata bene. Non ne dubitavo, grazie - mormorò Stéphane sedendosi sulla moquette e appoggiando la schiena ai piedi del letto matrimoniale. Non aveva nemmeno disfatto le valigie, nel desiderio di ritornare a casa il prima possibile; - la prossima volta cercherò di spostare tutto a giugno, così staremo insieme -
- Mi ha aiutato Cricri portando all’asilo Michelle, è stata indispensabile - gli attimi di silenzio si allungavano, sporcandosi di respiri e malinconie; - a che ora atterrerà l’aereo? - 
- Undici e dieci di sera, più mezzoretta per il controllo dei documenti e i bagagli, per l’una sarò sicuramente a casa - rispose automaticamente Stéphane. 
- In questo preciso istante vorrei avere la patente - accennò a mezza voce Ismaël, Stéphane chiuse gli occhi e lo immaginò abbandonato su un fianco alla parete del corridoio, il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio, tra le mani carta e penna. Fosse stato con lui lo avrebbe abbracciato, avrebbe posato la fronte sul suo collo, dei baci sulle vertebre e se qualcuno gli avesse chiesto perché volesse farlo gli avrebbe risposto “perché mi piace il sapore della sua pelle, perché adoro attorcigliare i suoi capelli tra le dita, perché trovo la sua voce erotica e non abbiamo segreti e ci piacciamo lo stesso, per le interpretazioni concettualmente diverse agli stessi valori, perché mi fa stare bene” e tanto sarebbe bastato. 
- Fortuna di no, ci litigheremmo il volante. Chiamo un taxi - esclamò con tono divertito Stéphane distendendo le gambe sulla moquette; - buonanotte Maël. A presto - 

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Capitolo 10
*** Mille baci non mi basteranno. ***

















Difficilmente faticava a dormire o si svegliava nel mezzo della notte, eppure Ismaël dopo aver passato più di due ore a rigirarsi tra le coperte, aggiungere cuscini sotto la testa, rabbrividire e mettersi una maglietta, aver caldo e toglierla, si arrese ad accettare che il sonno non lo avvolgesse e rimase a guardare i bagliori pallidi, aloni chiari che definivano una grisaille sul soffitto. Si alzò quando la sveglia segnò le sei e mezza di mattina. Aprì la finestra e si sporse dall’abbaino. La strada era deserta e aleggiava una leggera nebbiolina, luminescente per le insegne al neon di un café aperto ventiquattrore su ventiquattro, del ristorante georgiano e dello strip-club. Tempo di preparare la colazione, di svegliare le bimbe, di accompagnarle a scuola e di tornare a casa. Di lasciar dormire Stéphane fino al ritorno, in fondo era il suo compleanno. Aveva anche tempo per infilarsi la giacca da camera ed uscire sulla piccola terrazza a fumare una sigaretta prima di colazione, una che sarebbero diventate due e forse tre, dipendeva soprattutto dai brividi di freddo. Ricoprì Stéphane con le lenzuola e chiuse la porta per non svegliarlo. 
- Oggi è il compleanno di tuo papà - accennò a Louise posando sul tavolino un vassoio con i biscotti. Michelle prendeva il latte esclusivamente con il biberon, così poteva permettersi di rimanere a letto dei minuti in più. 
- Sì, perché è il dieci novembre. È facile da ricordare - esclamò Louise facendo sciogliere i biscotti al cioccolato nel latte, schiacciandoli sul fondo fino a far stare dritto il cucchiaino; - diciannove e sessantaquattro, uno più nove fa dieci, sei più quattro fa dieci. Lui è nato il dieci. L’unica cosa difficile è il mese perché si chiama novembre ma è l’undicesimo - 
- Sei brava in matematica - le disse Ismaël stringendo più del solito la cintura, si era infilato distrattamente dei jeans al buio e aveva beccato un paio di Stéphane, troppo larghi, azzurro sbiadito, candeggiato e con il risvolto che gli lasciava scoperte le caviglie. 
- Non è vero, odio le tabelline. Sei, dodici, diciotto, ventiquattro, trenta, trentasei, e poi? - mormorò la bambina fissando la fotografia attaccata alle piastrelle, ormai riconosceva ogni particolare della raffigurazione del ponte dell'Alma, l'acqua che oltrepassava le ginocchia dello Zuavo, la piena era stata di oltre sei metri. 
- Quarantadue, quarantotto, cinquantaquattro, sessanta, sessantasei, settantadue, settantotto, ottantaquattro, novanta… l’abbiamo superata. Quella del sette? - le chiese Ismaël prevedendo una risposta negativa. 
- La facciamo la settimana prossima - borbottò Louise finendo di fare colazione.
- Inizia così: sette, quattordici, ventuno, ventotto. Il resto la settimana prossima - Ismaël andò nella cameretta a recuperare una Michelle mezza addormentata per vestirla e prepararla per l’asilo. Le allontanò le coperte, scuotendola dolcemente; - tesoro, svegliati, bisogna alzarsi –
 
Ismaël rientrò in casa alle otto e mezza, non accese la luce del corridoio e lasciò le persiane abbassate e le tende tirate. Si spogliò lasciando i jeans e il maglione sul parquet della camera. Si coricò intrecciando le gambe tra quelle distese dello scrittore, un gomito affondato nel materasso, una mano appoggiata sullo stomaco di Stéphane. Un bacio, due, tre. Quattro baci. Quanto amava vederlo semicosciente nel dormiveglia, rispondere confuso al tocco delle labbra. Come amava sentire la pelle liscia e calda sotto le mani, i capelli che piano piano ingrigivano cambiando consistenza; – buon compleanno. Ti devo trentatré baci – gli sussurrò all’orecchio. 
- Devo ancora svegliarmi del tutto. Comincia a baciarmi – borbottò sonnacchioso lo scrittore, raddrizzandosi idealmente tra i cuscini, aprendosi a lui, il corpo come un paesaggio, aggiunse, in un sussurro; - mille baci non basteranno –
- Vediamo dove arrivo? - Ismaël sentì Stéphane irrigidirsi e quasi trattenere il respiro, scendendo in un percorso immaginario dalle labbra al mento, dal pomo d’Adamo all’incisura dello sterno, perdendo tempo in certi punti, ripassandoci, dedicandoci alcuni dei trentatré baci e qualche piccolo morso. Lo stomaco, il ventre dove ricominciavano a delinearsi i muscoli dopo quasi sei mesi di piscina, ci sfregò sopra il viso, facendogli il solletico. Arrivò a venti sull’ombelico, con Stéphane che gli stringeva i capelli ed era incerto tra piegare la testa all’indietro e chiudere gli occhi o guardarlo per non perdersi nessun particolare. Ismaël gli sfilò i boxer ed accennò a continuare. 
- No, no, vieni qua - Stéphane aveva il respiro leggermente accelerato mentre lo aiutava a rialzarsi, per baciarlo sulle labbra tenendolo fermo per il mento. Fuoco, fuoco ovunque. Un calore ustionante che chiedeva di più, ancora, oltre. Le eccitazioni che sfregavano sulle lenzuola, sulla pelle. Un rapporto che perdeva la connotazione di genere, davanti a Stéphane c’era solo Ismaël e il suo corpo gli pareva bellissimo, come i suoi capelli sparsi sul ventre, la sua lingua bollente mentre lui scivolava di nuovo in fondo al letto. La sua mano che giocava con la pelle sottilissima del prepuzio, facendola scorrere e masturbandolo vigorosamente, lasciando scivolare il liquido preorgasmico per rendere il movimento fluido, incandescente e trasformarlo in piacere liquido. 
A Stéphane parve di riemergere dall’acqua e cercare di inspirare più aria possibile, gli sembrava quasi di aggrapparsi all’ossigeno nella stanza, lo spiffero dalla finestra socchiusa che filtrava nella trama delle tende. Tra gli ansiti gli mormorò un baise-moi, lo implorò, lo implorò fino a sentire che tra mille baci sul collo e sul mento si sistemava dentro di lui, schiudendolo con un dito. Ondeggiavano come tra flutti d’acqua, Stéphane gli si strinse contro, lasciandosi sorreggere nel breve tragitto fino al muro, dove si appoggiò con la testa reclinata. Venir penetrato contro il muro, esser riempito dal suo membro turgido, lentamente, profondamente, lasciandosi andare con totale abbandono. Un equilibrio precario, di ginocchia contro il materasso, gomiti contro il muro, cosce strette contro fianchi, mani ad aggrapparsi alla schiena, ad accarezzare volti. Squilibrio, sbilanciamento, discrasia. 
Cadere. Cadere nell’acqua. Cadere nel sonno. 
Riemergere, risvegliarsi. 

L’avvilimento con il quale Ismaël fissava il televisore scosse nel profondo Stéphane. Ismaël era cambiato negli anni, eccome se era cambiato, aveva accettato il naturale corso della vita opponendosi solo agli effetti nefasti dell’ignoranza, Stéphane non riusciva ad immaginare se o con quale tipo di traumi, a che prezzo. Anche se a volte soffiava come un gatto e probabilmente graffiava gli interlocutori, aveva perso la vena egocentrica e la disperazione sensuale del “si dovrebbe morire a vent’anni”, aveva lasciato tutte le aspirazioni riguardo l’essere il migliore in qualcosa, non bravo, il migliore, abbandonandosi ad una vita lineare. La vita, appena si trovava la persona, era tremendo rischiare di perderla, era straziante, diventava la cosa più importante. 
Le immagini di polvere e le frasi concitate della giornalista si sovrapponevano nelle iridi di Ismaël, diluendo gli anelli limbali nel grigio illuminato da luce elettrica. Sessantadue vittime che non sarebbero state ricordate per niente, non morte in guerra, non morte da eroi, morte in vacanza, en passant. Forse con i sorrisi carichi di archeologia, splendori passati e sfarzi impolverati; senza un’idea, qualcosa che rendesse la loro memoria dolorosa, qualcosa che li avrebbe fatti ricordare. È quasi sbagliato morire in vacanza, sicuramente non ha senso. 
“Le esequie di Georges Marchais, segretario del Parti Communiste dal settantadue al novantaquattro, morto ieri all’età di settantasette anni…” la voce del giornalista interruppe le riprese da Luxor, anticipando uno speciale. 
Stéphane si chiese come riuscisse Ismaël a sentire il telegiornale ad un volume così basso, eppure sapeva che era l’indecisione tra il mantenere delle convinzioni di cotone, un mondo fatato per le bambine od essere sinceri, mostrando la realtà. Così teneva il volume al minimo, le lasciava rimanere nella stanza, giocando ad altro, in modo che non si concentrassero sulle immagini, quando il conduttore avvisava della presenza di contenuti crudi cambiava canale. Poteva non pensarci, poteva lasciare perdere, poteva continuare a vivere al solito modo eppure non lo faceva. Non gli imponeva nessuna direttiva per l’educazione ma non lo lasciava neanche completamente spaesato. Era diventato, oltre che per lui, un valore aggiunto anche nella vita delle bambine. Un altro adulto con cui confrontarsi, apprendere, imparare, emulare, ispirarsi. Era un giocare con i principi della coparentalité, riconoscendo però i difetti dell’evoluzione da famiglia multipla a quella nucleare, in fondo l’uomo dovrebbe crescere in un branco, in un’aia ideale dove i cuccioli vengono allevati dagli anziani e i genitori biologici o i partner dei genitori forniscono un sostentamento di natura prettamente materiale. 
L’anelito ad una famiglia poliginandrica, l’evoluzione nei kibbutzim – neanche cent’anni di storia e un lungo viale del tramonto, il creare un’enclave bohémienne. Soluzioni reali quando guardandosi allo specchio si vedeva un riflesso distorto, l’ultimo respiro di una meditazione, del ricercare la profondità. L’idea come i raggi di una bicicletta si evolveva in mindmaps associative, in petali di fiori, in ragnatele illuminate dalla rugiada. 
Cosa sarebbe rimasto? Tutto e niente. 

Marc agli occhi di Stéphane aveva un fascino particolare, un fascino militante, socievole, cordiale, aperto, impegnato. Aveva tra i trentacinque e i quarant’anni, occhi grigioblu magnetici, modi espansivi mantenendo un’aura corrotta, impura ed un’aria accigliata, come un’increspatura nel cotone di una camicia, un dettaglio capace di disorientare ed intrigare. Stéphane aveva aperto la porta al primo scampanellio e lo aveva osservato, la schiena appoggiata alla parete, obliquo sul pianerottolo, le mani cacciate nelle tasche dei pantaloni grigi, la camicia azzurra e la giacca blu come il colore dei sogni di Mirò. Le ciocche bionde arricciate dietro le orecchie, onde ordinate sulla nuca, una bottiglia di Chablis. 
La voce inconsciamente seducente. Stéphane definiva le persone come Marc “potenzialmente pericolose”, in un gioco con la gelosia. Gli fece un cenno per invitarlo ad entrare e perse tempo a sistemargli la giacca sull'attaccapanni. Rimase appoggiato alla parete del corridoio per vederlo salutare le bambine, baciare Ismaël ed accingersi ad aiutarlo ai fornelli. Baciare Ismaël sulle labbra con un tocco morbido ed asciutto. Stéphane non sapeva neanche se gli fosse concesso essere geloso, perché insieme erano speciali ed il carattere di Marc, così cordiale, ammorbidiva le asperità di Ismaël. Era interessante vederli insieme perché racchiudevano in pochi gesti bruschi, scherzosi ed affiatati, interi anni di amicizia. Ed amore, ça va de soi.
La cena in salotto, le conversazioni su politica ed etica, ridette, ridiscusse, senza aver cambiato di un solo punto, ribadite. Il disfacimento del PCF sotto il peso e la nonguida di Robert Hue, l’attualità, le crisi, le bombe e le soluzioni di pace. Il soffocare del Nicaragua sotto i partiti supportati dai contras, gli stessi contras che stupravano ragazze poco più che bambine e che Marc era costretto a calmare, curare, parlando in francese pur di non turbarle con uno spagnolo maschile. E lì c’era rabbia, molta rabbia. 
Tra un bicchiere d’acqua e un pezzo di frittata di zucchine la prepotente fase dei perché di Michelle, rincarata da Louise, tentare di arrivare alla prima questione, alla prima scintilla. Le infinite spiegazioni che Stéphane dava loro con il sorriso sulle labbra, alcune accurate altre strampalate, rigirandosi tra le mani uno dei panini a forma di tartaruga. Li avevano fatti le bambine, palline di pasta di pane dove attaccare dei triangolini per fare le zampe, la testa e la coda, una griglia sul carapace dorato di malto d’orzo. La superficie era croccante, la mollica umida e grumosa. 
Marc si chiese se Louise e Michelle lo stessero a sentire o se si lasciassero cullare dalla sua voce. 

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Capitolo 11
*** Virgilio Brocchi, Le Aquile, Milano, Fratelli Treves Editori, 1906. ***

















Nei primi mesi insieme, dove ogni azione veniva contemplata alla ricerca di una nota passata o di una variazione di tono, dove ogni avvenimento veniva riassunto e descritto in funzione dei risultati sulla persona, Ismaël aveva raccontato a Stéphane di Morgan, riferendo pochi dati confusi senza espressioni od intonazioni particolari. 
Un nome ed una data di morte: Morgan Fabre, due agosto millenovecentottantanove.
Gli aveva fatto vedere un paio di sue foto, le conservava in fondo ad un cassetto dell’armadio del corridoio. Una in bianco e nero era particolarmente suggestiva e semplice, c’erano Ismaël ed un ragazzo nel letto, coperti solo dalle lenzuola. Inizialmente la sua attenzione era stata catturata dall’Ismaël poco più che adolescente, dalle membra sottili, chiare e spigolose, i capelli scompigliati in ricci stropicciati; poi aveva percorso con lo sguardo Morgan, cercando di inciderlo nella mente, qualcosa oltre l’hachimaki legato alla fronte, i capelli castani e gli occhi indefinibili, le nocche spaccate. Qualcosa sotto l’espressione corrucciata di entrambi che lo aiutasse a descriverli. Ismaël disse di averle conservate soprattutto perché le aveva scattate il fratello, Stéphane non si curò di quel dettaglio per svariati mesi, per poi cominciare a rimuginarci nei primi freddi glaciali di fine novembre e nelle prime nevicate dicembrine. 
Il lavoro andava piuttosto bene, avevano pubblicato una sua intervista in un settimanale ad alta tiratura ed una decina di recensioni tra riviste specializzate e quotidiani per anticipare l’uscita del libro e creare la giusta attesa rimarcando il successo ottenuto in Germania, azione che Stéphane reputava deprecabile. Passava le mattinate a vagare per casa, percorrendo più volte il corridoio, aprendo le porte scorrevoli del terrazzino per lasciar entrare l’aria gelata, in attesa dell’impulso a scrivere, della frase giusta con cui iniziare, qualcosa che non scombinasse, sconvolgesse o rovinasse il ritmo della narrazione. Nuovamente la voglia di fumare, di bruciare i minuti. A volte passeggiava o anticipava l’ora di piscina. Arrivavano frasi e si infrangevano contro scene mai scritte, contro luci e colori, per diminuire l’entropia si fermava ad annotarle sul giornale. 
Il telefono suonò nel bel mezzo della prima stesura di una scena ostica, Stéphane se ne rese conto solo al terzo squillo talmente era immerso nei personaggi. Raggiunse il telefono nel corridoio e si stupì a sentire Marc dall’altro capo. 
- Disturbo? - domandò Marc serio, erano le dieci di mattina ed era la prima volta che chiamava non azzeccando gli orari ed i turni di Ismaël. 
- Ismaël non c’è - gli comunicò impaziente di tornare al lavoro, si rimproverò mentalmente per aver sollevato la cornetta. Fermarsi era come fermare un fiume in piena, come puntellare il testo e rinunciare alla scorrevolezza. 
- Lo so, tu volevi parlare di qualcosa? - accennò Marc, dimostrando di sapere tutto e di averne già discusso con Ismaël. 
- Cosa puoi dirmi di Morgan? - borbottò Stéphane appoggiandosi con la schiena al muro e lasciandosi scivolare fino al pavimento. 
- È morto, si è impiccato - disse ruvido Marc, sovrastando lo sferragliare di un treno nei binari vicino all’ambulatorio. 
- Questo lo sapevo già, ma com’era? - provò ad insistere Stéphane, dubbioso sulla reale possibilità di capire qualcosa che non fossero delle date e dei luoghi, per concentrarsi sui sentimenti, sui segni dei piaceri sibariti lasciati sulla pelle, incisi in una fotografia. 
- Se non si fosse ucciso adesso Ismaël non sarebbe vivo. Puoi credermi sulla parola - Stéphane si accorse di aver trattenuto il respiro, in attesa della stoccata. 
Tutto era esistito, tutto era stato distrutto. E dopo ricostruito. 

Ismaël si dondolava sui talloni, avanti e indietro, di pochi millimetri; pochi millimetri che bastavano a scuotere la massa disordinata dei ricci, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, tra gli spacchi della giacca di velluto verde. Stéphane gli si era avvicinato proprio per poter poggiare le labbra sulle sue, in quel dondolio. 
- Ti amo - aveva leggermente mormorato Ismaël, con lo stesso tono di quando lo diceva chiudendo l’anta della credenza o uscendo dalla vasca da bagno. Come una constatazione che non lasciava tempo allo stupore e si insinuava come certezza, nel profondo del cuore. Stéphane seguì con lo sguardo l’ultima cliente della mattinata, prima di bloccare la porta e ritornare a giocare sulle labbra di Ismaël e con la benda attorno al suo polso. La distrazione con la quale aveva lasciato scivolare la saracinesca e il colpo con il bordo tagliente aveva una nota buffa ed infantile; una leggera ansia per le medicazioni e i bendaggi e il taglio che dopo una settimana continuava a riaprirsi al minimo movimento, sulla via dell’infezione – ahia - 
Stéphane lasciò la presa e mugugnò delle scuse. Si sedette sullo sgabello dal bancone per giocherellare con il registratore di cassa. Si sentiva nervoso ed angosciato per qualcosa di indefinito, non pensava ci fosse un motivo specifico ma percepiva come inizio di quel disagio le parole di Marc al telefono. Poco importava della Positive Vibration di Bob Marley alla radio, di Ismaël che si era accomodato sul divanetto per aprire i cartoni con le lampadine di ricambio per i due faretti bruciati, della fame che gli attorcigliava lo stomaco. 
Aiutò Ismaël tenendogli ferma la scala, sfiorandogli le gambe attraverso la stoffa ruvida. Aveva percepito l’amore con il quale Ismaël aveva fissato la copertina in pelle di un libro nella sezione Letteratura Italiana, scendendo di due pioli, in una delle zone d’ombra causate dai faretti bruciati. 
Virgilio Brocchi, Le Aquile, Milano, Fratelli Treves Editori, 1906.
- Maël… - lo aveva chiamato, cercato. Stéphane aveva temuto per lo sguardo sperso. Giorno di malessere e di ripensamenti, quasi da depennare dal calendario. 
- Virgilio Brocchi si trova in questo scaffale dal 1983, nessuno lo ha mai voluto. E’ in lingua originale, sgualcito, anche se ho tentato di recuperarlo. Altri libri arrivano, non fai in tempo a leggerli che già li portano via. A volte devi scegliere tra più libri, portarne a casa solo uno e sperare che nessuno lo cerchi mentre lo stai leggendo, se capita potrebbe non uscire mai più da questa libreria - mormorò Ismaël sporgendosi e poggiando i palmi delle mani sopra le coste in tela, in pelle, in cartoncino ruvido; - tra i tanti ‘solo uno’ a volte capita di trovare quello giusto, quello che rimarrà nascosto in una zona d’ombra davanti al mondo e sarà solo tuo. Non sarà sempre necessario, ma finirà in tutte le valigie, in tutti gli scatoloni, in tutti i pomeriggi al parco. Lo dovrai rileggere, nel corso della vita, più volte. Per alcuni può essere il Tanàkh o il Vangelo, il Corano o i testi della Śruti ed amare meno intensamente altri libri. Io ho trovato il mio libro e con meno necessità ne posso amare anche altri - 
- Scendi, basta scale - esclamò Stéphane aggrappandosi ad un suo avambraccio. Malessere tiepido come il cotone imbevuto nell’acqua calda. Come le culle di caldo cotone nelle scatole da scarpe per i prematuri dell’Anteguerra; - torniamo a casa -
- Se i libri non fossero oggetti ma persone? - aggiunse Ismaël scendendo gli ultimi pioli, sistemandosi la giacca e levandosi un velo di polvere dalla punta del naso con il dorso della mano. Riaccese l’interruttore della luce, i nuovi faretti creavano dei coni di luce di qualche tonalità più fredda degli altri, un contrasto inelegante. 

La luce gelida del cielo grigio perla illuminava trasversalmente la sala del ristorante, tra le tovaglie e i tendaggi bianchi le uniche note di colore erano i vestiti e i cappellini estrosi delle invitate, le zie della sposa e le cugine dello sposo. Stéphane aveva apprezzato particolarmente quel ritorno ad una cerimonia semplice, lontano da modelle e registi. Quasi un rito di comunità invece che di rappresentanza. Cricri era stupenda nel vestito fluido e sottile che le fasciava le gambe, con i capelli ramati raccolti in delle trecce di fili di perle; Lionel dallo sguardo innamorato e fedele, il passo rigido e le spalle forti. Le bambine correvano tra i tavoli e distribuivano i fiori da appuntare alle giacche o ai capelli. 
Stéphane aveva raggiunto Ismaël nella terrazza, sfidando la leggera pioggia e lasciandosi accendere una sigaretta – riprendendo il dolce apprendistato alla morte, metri sotto l’acqua si infrangeva contro gli argini, scura e turbinosa. 
- Dalla noia non arriveremo a domani - sussurrò Ismaël spegnendo un mozzicone in un vaso dai rami secchi, si strinse nel cappotto e nella sciarpa di lana; - giornata nera - 
Stéphane guardò verso le vetrate: gli invitati impegnati con le seconde portate, le bambine vezzeggiate dalle zie della sposa e tenute d’occhio da Marc. Domandò; - l’ultimo matrimonio al quale hai partecipato? - 
- Quello di mio padre, mi sono volontariamente ubriacato - mormorò tra i denti Ismaël, gli occhi socchiusi per sfuggire al cielo di un chiarore abbacinante, le mani nelle tasche a giocare con l’accendino e gli scontrini. 
- Nel caso ti seguirei a ruota, dunque evitiamo - disse Stéphane trattenendo un sorriso. Ismaël rise e si lasciò stringere, intrappolare, tra la balaustra e le braccia dello scrittore, tra strati di varie stoffe. Nella passeggiata un violinista accennava la Danse Macabre di Saint-Saëns - forza, dammi un bacio - 
Ismaël gli soffiò sulle labbra prima di baciarlo lentamente, poggiandogli le mani sui fianchi e stringendo i passanti della giacca. Poco importava degli invitati al di là della vetrata, delle gocce di pioggia gelata che bagnavano i capelli, del violinista stridente che mescolava le sue vibrazioni alla musica delle casse dentro il ristorante. 
- Papà! C’è la torta! - esclamò Louise attirando la loro attenzione, con un piattino in mano con una fetta di pasta choux ripiena di chantilly e coperta da una glassa al caramello. 
- Rientra che prendi freddo. Arriviamo - le rimbrottò Stéphane facendole gesto di tornare all’interno per non bagnarsi o congelarsi senza giacca - e il caffè e l’ammazzacaffè. Andiamo? - 

- Monsieur Marchand, nel suo roman noir ricorre una figura femminile, Delia, che nonostante le vicende siano permeate di erotismo, droghe e periferie di grandi metropoli - Amburgo, appare completamente desessualizzata. Come mai questa scelta in contrapposizione alle tendenze cinematografiche? - chiese la giornalista scostandosi una ciocca di capelli da davanti agli occhi, ripassando e ricalcando più volte le curve di Hambourg nel blocco degli appunti. Il tramestio della vita cittadina oltre i vetri dai caratteri dipinti e graffiati, le panche di legno di una brasserie in rue de Sèvres. 
Lo scrittore dalla barba sfatta, i modi cortesi e la camicia stropicciata si scaldava le mani attorno ad una tazza di caffè. Lo sguardo lucente dietro le spesse lenti degli occhiali fissava l’angolo spiegazzato di una locandina attaccata alla parete. 
- Le mie figlie, principalmente per loro. Ricreare la solita eroina iperfemminile oppure il gingillo per uomini, quella che sfida le convinzioni sociali e mantiene una bellezza androgina, eccetera, mi sembrò farsesco e soprattutto ad uso e consumo degli stereotipi del lettore. Stereotipi maschilisti. Avendo due figlie è impossibile non sentirsi toccati quando i telegiornali riportano le statistiche sui delitti passionali, sugli uxoricidi, sugli stupri. Sono dati agghiaccianti - lo scrittore Stéphane Marchand, sui documenti Stéphane Alunir, rimescolò lo zucchero nel caffè prima di prenderne un sorso. Parlava con tono dimesso, tranquillo, a tratti sconsolato o arrabbiato. Collegava tra di loro gli argomenti, cercando di risalire alla matrice del problema; - l’educazione, la cultura, sono fondamentali per un futuro. Le istituzioni per un presente. Sai qual è la cosa che reputo peggiore? Le sperimentazioni farmaceutiche esclusivamente su campioni maschili. Questo non è maschilismo generalizzato? Bene, due numeri di segno opposto si annullano, okay, allora il maschilismo si combatte con il femminismo. La parità dei sessi sarà la fase successiva, ora bisogna sanare tutti gli abusi - 

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Capitolo 12
*** La persona che rendeva ogni cosa possibile. ***


















Per le vacanze natalizie arrivarono Egon ed Immanuel, portando doni e collanine per le bambine, tintura di mirra come disinfettante naturale e bisogno di interpreti sia per Egon che parlava tedesco e un po’ di olandese, che per Ismaël che parlava francese, russo, un po’ di inglese e ebraico, qualcosa di spagnolo. I giorni precedenti li avevano trascorsi a Brest, con entrambe le famiglie, tra pranzi pantagruelici, nonni che viziavano i nipotini, code in autostrada e la certezza di prendere il treno la volta successiva; Michelle aveva giocato tutto il tempo con il cugino Sebastien, con le spade di legno dall’elsa dipinta e dei cuscini come scudi.
Immanuel ed Egon dormivano nel divano letto e la televisione accesa alle quattro di notte trasmetteva repliche di live della fine degli anni Ottanta de La nouvelle Affiche su France3. Stéphane si aspettava da parte di Ismaël cortesia e gentilezza formale, non rispetto per quel che Egon era, un folle, un visionario, una persona che comprendeva mille anime che contemporaneamente riaffioravano tra i toni della sua cromatica musiva, variando la luminosità, la morbidezza, la lucentezza o l’opacità delle iridi; eppure capendosi a gesti sembravano rimandare nella casa riflessi di intimità sincronizzata, di comprensione assoluta.
A Stéphane faceva piacere vedere Immanuel ed Egon ed era felice di presentarli ad Ismaël, di farglieli conoscere, di mostrargli quel legame che durava da quasi vent’anni. E voleva mostrare loro la visione lomografica che aveva preso la sua vita, i contorni chiari, le contaminazioni di colori accesi.
- Michelle sta dormendo – Louise informò il padre e si avvolse nella sciarpa viola come in uno scialle.
- Vado a svegliarla – disse Stéphane rientrando in casa e scorgendo il profilo della bambina sotto le coperte del divano; - Michelle? Shell, piccola, ci sono i fuochi d’artificio, non vuoi vederli? –
Michelle mugugnò qualcosa di indefinito e si aggrappò a Stéphane quando lui la prese in braccio, per poi chinare il volto contro la spalla del padre, per coprire gli occhi dalla luce seppur soffusa della sala. La terrazza era fredda ed animata dalle luci calde e brillanti dei fuochi d’artificio contro il cielo nero, il tavolino circolare e le sedie in ferro battuto tirate fuori dal disimpegno per l’occasione, panini al latte ripieni di piccole frittate con menta e spinaci, lenticchie, champagne e birra tedesca. 
Forse mancavano le fughe da giovani o le cene ufficiali con i colleghi dei padri, le televisioni accese sui capodanni esteri e tropicali, l’inusuale ed il consueto, i primi doni, gemelli di corda verde bottiglia e blue navy, le telefonate a numeri limougeauds per fare gli auguri e ridere dell’accento. Una leggerezza che arrancava e con sofferenza cercava di essere spensierata, non ragionata, istintiva; nell’età adulta, dove i particolari rimbombavano e le situazioni generali apparivano sfocate, aveva perso la disperazione ed il cipiglio fiero. Stéphane strinse la figlioletta avvolta tra le coperte, troppo piccola e assonnata per stare in piedi da sola.
- Rosso – mormorò Michelle indicando i petali infuocati che si infrangevano contro il cielo.
- Blu e, guarda quello, sembra d’oro - Stéphane indicò dei fuochi sopra la tour Montparnasse.
Nella progressione di sinfonie di botti, fontane d’argento, petardi e girandole arcobaleno, le luci e i conti alla rovescia, il mondo faceva qualche passo ebbro verso il nastro del millenovecentonovantotto, rallentava e tratteneva il respiro, dilatava prima i minuti e poi i secondi; esplodeva sommessamente nello stappare una bottiglia di champagne, il gesto di Ismaël si propagava nell’aria, nell’atmosfera, come i cerchi nell’acqua dipinti ad acquerello e acrilico, ripassati con la spatola e i colori ad olio, incisi o modellati, graffiati o tamponati. Vividi o sbiaditi.

Stéphane sonnecchiava chinato contro il legno della scrivania, con la testa appoggiata alle braccia incrociate sopra i fogli spiegazzati. Giorni prima avevano portato il tavolo in corridoio, tra la porta della sala e un armadio, incastrato nel tentativo di fare più spazio, una sistemazione provvisoria. 
Un’idea fresca e metallica l’aveva svegliato e obbligato a trascinarsi fino al computer per annotarla e tentare di modellarla, limarla in attesa di altri arricchimenti, dialoghi e colori; per una mezzora era riuscito a tenere gli occhi aperti e la mente a briglia sciolta, per poi crollare vinto dal sonno e la spossatezza da antibiotici per curare la sinusite.
Immanuel si era destato e alla ricerca di un bicchiere d’acqua si era alzato dal divano letto, l’orologio in cucina segnava le sei e quarantatré e la luce del frigo emetteva un sibilìo persistente. In corridoio aveva scavalcato lo sgabello di Stéphane e poi si era inginocchiato appoggiandosi al bordo della scrivania per occhieggiare gli ultimi appunti scarabocchiati su un quaderno a righe e quelli lasciati sul desktop dell’ordinateur.
- Stéphane, Stef? - cercò di svegliarlo scuotendolo. Vide lo scrittore boccheggiare e sbuffare contrariato e si giustificò; - ottimo modo per farsi venire male alla schiena, dormire sulla scrivania -
- Vado a letto per un paio di orette, hai letto? - domandò Stéphane con la voce impastata e gli occhi gonfi.
- Sì; ma pensavo, a volte, il reagire porta ad ammazzarsi - mormorò bruscamente Immanuel e colpì con le nocche i fogli, producendo uno schiocco sul legno; - è un discorso che abbiamo fatto tutti e c’è sempre stato chi ammutoliva, chi faceva finta di niente, chi ti diceva che comunque vivere era bello e gli piaceva, anche se non significa niente –
- L’ho scritto alle cinque della mattina del primo dell’anno, non ha ancora un senso - si giustificò distratto Stéphane spegnendo il computer.
- È suggestivo il riferimento al moto delle alghe, immagino quelle trascinate dalle carene delle navi - aggiunse Immanuel rialzandosi e ricontrollando i fogli. Stéphane sottolineò un paio di frasi e fece un cenno di ringraziamento.
- Dormire, un paio di ore - borbottò Stéphane alzandosi ed appoggiandosi alla parete; - buonanotte -
Nella camera i lembi delle tende della finestra e quelle dell’abbaino si sovrapponevano variando la tonalità di grigio perla; le lenzuola nere avvolsero Stéphane e la pelle chiara di Ismaël emanava un tepore che scaldava le fibre dell’anima, un profumo che riconosceva come proprio, familiare.
- Lavorato? - sussurrò Ismaël, il tono prima affievolito e filtrato dalle coperte, poi per le labbra premute contro il collo di Stéphane.
- Fino a sfinirmi - rispose Stéphane con ironia. Ritrovò e percorse con lo sguardo i punti piacevoli nel corpo di Ismaël, la curva maschile, netta ma sensibile dei fianchi, la nuca, l’interno dei gomiti, il petto, e lasciò bruciare la punta delle dita. Mesmerico, seducente ed ammaliante in ogni secondo dei duecentottantatré giorni insieme, in ogni respiro ed in ogni onda dei capelli impigliati tra le dita; - ti amo, ti amo immensamente -
Certe parole andavano dette con gli occhi socchiusi, per non farsi aggredire dalla luce della persona amata. 
La persona che rendeva ogni cosa possibile.

- Ma devono proprio andare via? - Louise nuotava nella vasca da bagno, avanti ed indietro, facendo oltrepassare il bordo all’acqua, allagando il pavimento e rendendolo scivoloso per il sapone; - non voglio che gli zii vadano via, mi mancheranno –
- Torneranno presto - Stéphane lasciò lo spazzolino dentro il bicchiere in bilico sul lavandino, il dentifricio verde e bianco sul bordo e sul manico. 
- Presto quanto? - sospirò la bambina immergendosi fino alle labbra.
- Per il tuo compleanno - Stéphane si voltò per guardarla, i capelli troppo lunghi le coprivano gli occhi ed arrivavano alle spalle, la scomodità di doverli asciugare accuratamente dopo i pomeriggi in piscina. Louise riemerse e ricominciò a scivolare da una parte all’altra della vasca; - stai ferma che stai combinando un disastro -
- È troppo tempo - brontolò Louise guardandosi i polpastrelli arricciati e le bolle azzurrine; - voglio che restino, lo pretendo –
Stéphane la tirò fuori dall’acqua e l’avvolse in un asciugamano bianco; - ti manca Amburgo? –
- No! Mi mancano gli zii e devono venire a vivere con noi - Louise non permise al padre di asciugarla e pettinarla, si pose davanti allo specchio e con una spazzola cercò di strappare i nodi.
- Louise, prova a capirmi, gli zii vivono lontano e lavorano, hanno dei genitori, delle sorelle. Verranno spesso e quando sarai più grande andrai tu da loro - Stéphane lasciò perdere e si appoggiò alla porta.
L’umidità appannava i rubinetti e lo specchio, rivelando nomi scritti con la punta delle dita, disegni di stelle e mappe del tesoro.
- Da sola? – domandò Louise dopo qualche secondo. Stéphane desiderò ardentemente che qualcuno gli spiegasse in modo completo Lorenz perché non era pensabile che la figlia avesse assimilato da Ismaël dei difetti di vent’anni prima.
- Se vorrai - rispose vago il padre avvicinandosi per asciugarle i capelli con il fohn.
- Non voglio - borbottò la bambina, contrariata alzò gli occhi al cielo e si alzò sulle punte dei piedi per dargli un bacio sulla guancia; - pizzichi –
 
Parigi, marzo 1998

Dopo un anno lo scrittore, sceneggiatore e giornalista Stéphane Alunir aveva ancora bisogno di consultare uno stradario per muoversi con l’automobile a Parigi. Era la primavera del 1998, aveva trentatré anni, tre libri pubblicati, tre lingue parlate correttamente e correntemente, sei cambi di casa, un divorzio ed una famiglia. Il suo colore preferito era ancora il blu elettrico, da agosto a maggio canticchiava sotto la doccia gli inni dell’Arsenal, odiava ancora tantissime cose ma invece che imprecare provava a cambiarle. Non riusciva a decidersi tra il trovare appropriato o scorretto l’aggettivo iconoclasta riferito al suo nome di piuma, Stéphane Marchand. 
Abitava al civico 9 di rue Deparcieux, nel quartiere di Montparnasse, XIV arrondissement, in un appartamento che chiamava attico nelle mezze stagioni e soffitta nelle estati afose e negli inverni gelidi.
Aveva due figlie, di quasi-sette e quasi-cinque anni, di tre nomi a testa: Maelice-Louise-June e Michelle-Leila-May; chiamate principalmente Louise e Michelle, Loo e Shell. Aveva una persona speciale che trovava varie definizioni, come convivente, partner, compagno, amore, e sulla carta d’identità rispondeva al nome di Ismaël Chalm. 
Si alternava tra giornate no e giornate sì, cambi d’umore, allineamenti dei pianeti e lune di traverso ma la sera, prima di addormentarsi, lasciava correre lo sguardo sulla persona amata ed il pensiero fino a più di vent'anni prima, quando, da bambino, tra le coperte e l’insonnia, sperava in qualcosa se non uguale, molto simile.









Fine. 







*













-Allô?-
- Parlo con Ferenc Lefèvre? Sono Eloy Castro-Duval della casa editrice Picard. Ha un momento?-

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