Flowers&Gunfire ~ Reprint Collection di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #02. Coniglio ~ Try again, Roy ***
Capitolo 2: *** #06. Coccinella ~ Say goodbye to your driver license ***
Capitolo 3: *** #03. Pinguino ~ A buon intenditor... ***
Capitolo 4: *** #09. Cane ~ Peaceful Sunday ***
Capitolo 5: *** #01. Gatto ~ Quando si dice la curiosità ***
Capitolo 6: *** #10. Pulcino ~ Quel che non si impara dai libri ***
Capitolo 7: *** #07. Farfalla ~ Disguidi insensati del giorno dopo ***
Capitolo 8: *** #08. Pecora ~ Battute ambigue e cavalli imbarazzati ***
Capitolo 9: *** #04. Panda ~ Fever (or maybe bot) ***
Capitolo 10: *** #05. Tartaruga ~ It's the story of my life (Special) ***
Capitolo 1 *** #02. Coniglio ~ Try again, Roy ***
Try again, Roy
Titolo: Try again,
Roy
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
3150 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Cedric Berk, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali
› 02. Coniglio
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai ; What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
Un
piacevole dormiveglia si era impossessato di me, quella
mattina.
Ero adagiato fra i cuscini, con una
voglia
d’alzarmi pari
allo zero. La sera addietro ero praticamente crollato addormentato fra
le braccia del mio compagno, dopo un’estenuante lotta su chi
avrebbe dovuto
comandare quel gioco a cui avevamo dato poi vita. Alla fine ci eravamo
ritrovati chi sopra chi sotto,
cambiando anche i ruoli senza nemmeno accorgercene pienamente. E adesso
ne pagavo le conseguenze. Ero stanco e assonnato, con in dosso
nient’altro che me
stesso e il lenzuolo a coprirmi mentre un leggero e piacevole
venticello
entrava dalla finestra socchiusa.
Quasi inconsciamente andai a strofinarmi
l’occhio
cieco,
lasciando poi ricadere la mano sul materasso con un piccolo sbuffo. Mi
girai su un fianco, infischiandomene delle coperte che
erano scivolate un po’ via, allungando un braccio per far
vagare
a tentoni la mano,
alla ricerca della mia benda. Non trovandola lasciai perdere, aprendo
di poco l’occhio
destro. Vedevo tutto sfocato, come sempre. Sbadigliai sonoramente
aspettando che la mia vista si
abituasse, voltandomi frattanto nella direzione del mio compagno, con
l’intenzione d’abbracciarlo. Peccato,
però, che
trovai solo il materasso. Sbuffai ancora, tornando a chiudere
l’occhio con fare sconsolato. Avevo quasi sperato in una
bella
mattinata movimentata quanto la sera prima, e
invece probabilmente si trovava già in cucina o in un altro
punto di casa a
fare chissà cosa. Anche di giovedì mattina, con
tanto che
avevamo tre o
quattro giorni di ferie pagate, trovava sempre un pretesto per
svignarsela. E il che era strano, visto che il primo pigrone era lui.
Forse il tutto si poteva benissimo spiegare dalla presenza
di due piccole pesti in casa.
Lasciai perdere e abbandonai i miei
pensieri,
affondando il viso nel cuscino mentre mi stendevo a pancia in
giù sul
materasso, nascosto solo da un lembo del lenzuolo. Potevo permettermi
altri cinque minuti, in fondo. Quasi fui colto da un’altra
ondata
di sonno che in un primo
momento decisi di ignorare. Ma poi mi riaddormentai, e anche
saporitamente. Mi accorsi di averlo fatto solo quando sentii un
movimento
ben poco silenzioso nella stanza che mi fece risvegliare ancora una
volta. Alzai ancora assonnato e infastidito il viso, sentendo i
capelli incollati alla fronte sul lato che avevo schiacciato contro il
cuscino. In un primo momento pensai che fosse Edward e che stesse
prendendo un qualche vestito dall’armadio, data
l’altezza
della figura. Ma quando la misi meglio a fuoco, notando poi
l’avvicinarsi
d’un’altra, mi trattenni dallo spalancare la bocca
dallo
stupore ed inveire
contro di loro. Ormai era diventata un’abitudine per quel
ragazzo
stabilirsi
a casa nostra. Come minimo, una settimana sì e una no. Non
vedevo l’ora che si iscrivessero entrambi a quella
benedetta Accademia Militare. In fondo mancava soltanto... un anno? Era una vita.
«Che diavolo cercate nel mio
armadio, voi
due?»
sbottai con voce ancora impastata dal sonno, vedendoli sussultare
appena. Un sorriso spavaldo si disegnò, però,
sulle
labbra di uno dei
due quando si voltarono in simultanea, ognuno con una camicia
sottobraccio. Ora che li guardavo meglio, sembravano tutti in
ghingheri. Forse un po’ troppo in ghingheri, per un semplice
giovedì. E poi... da quando Jason era così alto?
Lo
ricordavo più basso. Sbattei la palpebra perplesso, vedendo
l’altro idiota
sorridere a sua volta.
«Ben svegliato, Signor
Mustang», mi
salutò
Cedric, ma sentii risuonare una
nota quasi ironica e furba nel tono della sua voce. Quei due non me la
raccontavano giusta. Ne stavano sicuramente architettando una delle
loro di prima
mattina.
«‘Giorno,
‘Ka-san»,
fece a sua volta Jason, ridacchiando
un po’.
Aye, ne stavano pensando una delle loro.
Cercai di pensare
positivo - per quanto risultasse impossibile - mentre mi strofinavo
ancora una
volta l’occhio, tirandomi su il lenzuolo per coprirmi alla
bell’e meglio mentre
nascondevo anche la cicatrice con la frangetta, spostandomela un
po’ su quel
lato. Ancora non mi andava che si vedesse. Eravamo a fine agosto ormai
ed era passato un bel po’ da
quando era successo, però dovevo ancora farci meglio i
conti.
Già era tanto se toglievo la benda di notte. Decidendo di
non
pensarci oltre, li guardai, osservando il
loro vestiario. Indossavano entrambi un pantalone per le grandi
occasioni di colore nero, con
tanto d’un paio di scarpe classiche del medesimo colore.
Jason si
era persino ravvivato i capelli all’indietro,
fermandoli con del gel. Combinato a quel modo, ricordava vagamente me
un paio d’anni
prima. Beh... forse un po’ di più, d’un
paio
d’anni prima. «Allora, volete spiegarmi che
cercate?»
domandai nuovamente,
attendendo una risposta.
Si guardarono fra loro, come a chiedere
conferma negli occhi
dell’altro. Poi scrollarono le spalle in
simultanea, e fu
Jason a
parlare. «Ci servivano due camicie», rispose
semplicemente, come se
quello spiegasse tutto. Invece non spiegava un bel niente. In primis,
erano in camera nostra
a scavare nel mio armadio.
Come seconda cosa, invece, il resto della stanza non era poi
così presentabile. E nemmeno io, bisognava aggiungere.
«Di camicie ne hai,
Jaz», gli tenni
presente in tono
ironico, cercando
con la coda dell’occhio i miei boxer e la mia benda,
rimpiangendo
però di non
poter tenere quei due sotto controllo per far questo in
tranquillità. Mi toccò difatti distogliere di
poco lo
sguardo, non
trovando purtroppo ciò che cercavo. L’intimo
probabilmente
era stato raccattato da Ed e messo a
lavare. Ma la benda non la trovavo da nessuna parte. Sentii quei due
tossicchiare, e li vidi, quando mi voltai,
richiudere l’armadio senza aver però posato le mie
camicie. Le mie preferite, tra l’altro. Quelle che indossavo
per
le grandi occasioni. «Con quelle non andate da nessuna
parte», feci, indicandole.
Le osservarono a loro volta, con
espressioni sorprese.
Strano,
perché avrei dovuto esserlo io. «La prego, Signor
Mustang,
ci servono solo per questa volta»,
attaccò Cedric, assumendo quel cipiglio supplicante che era
solito usare quel
degenerato di mio figlio.
Subito si aggiunse una seconda vocina,
angelica come non
mai. «Dai, ‘Ka-san, vogliamo fare bella
figura», rincarò la dose Jason, sbattendo le
ciglia graziosamente. Quei due mi preoccupavano sempre di
più. Bella figura con chi?
Incrociai le braccia al petto,
squadrandoli, non prima di
essermi ancora una volta sistemato le lenzuola sulle parti basse. Non
mi andava di ritrovarmi di nuovo nudo davanti a quei due
idioti. «Spiegatemi a che vi servono e forse ve le faccio
indossare»,
misi a condizione.
Si guardarono ancora una volta, come se stessero valutando
la mia proposta. Poi, sistemandosi meglio la camicia sottobraccio,
Jason si
grattò la testa, quasi pensoso. «Ieri sera abbiamo
adocchiato due ragazze», cominciò. E solo da
quelle parole
già prevedevo guai. Tanti guai, avrei osato dire.
«Solo che sono due tipe fru
fru, non so se ha
presente»,
riprese per lui il discorso Cedric, facendo un eloquente gesto con la
mano
sinistra, roteando quindi il polso. Oh, eccome se avevo presente donne
simili. Tutte snob e chic, buone per una scopata ma non per starci
insieme a vita. Se eri ricco, riuscivi a mantenerle. Se avevi uno
stipendio un po’ agiato, alla fine restavi a
culo in aria. Ti spennavano e adieu.
Scossi la testa e tornai sdraiato,
liquidandoli con un gesto
della mano. «Lasciatele stare due tipe
così», li istruii,
sbadigliando. «Meglio perderle che trovarle».
«...disse l’uomo che
ne frequenta un
altro»,
ironizzò Jason,
guadagnandoci da me un’occhiataccia quando alzai di poco il
viso.
Sebbene non vedesse nulla di strano nella relazione che
avevamo io e Edward, non condivideva a pieno le nostre scelte e i
nostri gusti, per metterla su quel piano. E forse non gli avrei dato
torto, se fossi stato l’uomo
di... beh, di quasi vent’anni prima.
«Andate fuori, se non volete
che vi
abbrustolisca», li minacciai, riuscendo solo
a farli ridere un po’. Non serviva più a niente
usare quella tattica. Tanto sapevano che aprivo
il fuoco solo in presenza di Maes.
«Ah, Signor
Mustang», mi
richiamò la voce di
Cedric, e a
malapena li vidi che avevano rimesso a posto le mie camice e si erano
diretti
alla porta per andare ciondolando altrove. Probabilmente li avevo
convinti a lasciar perdere. Però, stavolta, gli vidi reggere
qualcosa di familiare. Quella non era la
mia... «L’abbiamo trovata accanto alla
porta»,
riprese, sventolando
come se nulla fosse la benda prima di lanciarmela verso il letto.
«Insieme a
quelli». Indicò Jason, che indicava a sua volta
qualcos’altro. E stavolta mi ritrovai ad arrossire
violentemente. Non tanto per i boxer raggomitolati sul
pavimento.
Ma più per quello che era in bella mostra sopra di essi,
abbandonato lì senza pudore. Io ancora mi domandavo come
avessero fatto a finire laggiù,
figurarsi.
«E la prossima volta vi
consiglio un luogo
più appartato o
di comprare per noi degli appositi tappi per le orecchie»,
continuò a sua volta
Jason, stringendosi nelle spalle tranquillamente. «Sentivamo
tutto identico e
preciso».
Se ero arrossito, adesso ero sicuro che
il colore del mio
viso tendesse al violaceo. Quei
due grandissimi...! «Fuori
di qui!» tuonai, ormai livido per la vergogna. Eseguirono
sì il mio ordine,
ma ridendo come due matti. Persino dal corridoio riuscivo ancora a
sentirli. Non era poi una cosa così allettante, quella che
ero
appena venuto a sapere. Tra me e Edward, la sera addietro, gridolini e
ansiti si
erano sprecati. E ci eravamo dimenticati che la camera di Jason non
distava
poi tanto dalla nostra. Che razza di situazione...
Sconsolato, mi infilai nuovamente la
benda, scansando via la
frangetta prima di liberarmi anche delle lenzuola e poggiare i piedi
oltre il
materasso. Scavai nel cassetto alla ricerca di un paio di boxer puliti,
infilandomeli svelto. Una volta alla soglia, poi, rimasi lì
impalato, indeciso se
incamminarmi in corridoio solo con quelli indosso o meno. Gettai appena
uno sguardo al groviglio che stava lì
accumulato, storcendo un po’ il viso in una smorfia
tutt’altro che contenta. Avrei dovuto pensarci la sera prima,
o
forse avrei dovuto pensarci adesso. Ma poi me ne infischiai,
dirigendomi in cucina. E per mia fortuna, vi trovai solo Edward a
trafficare con i
fornelli. Aleggiava un buon profumo di caffè.
Probabilmente avvertendo la mia presenza
si girò,
regalandomi
uno di quei sorrisi strafottenti che tanto amavo. «Alla
buon’ora», sghignazzò, prendendo due
tazzine.
«Pensavo
dormissi tutto il giorno».
Borbottai tra me e me senza dar peso
alla sua nota ironica,
avvicinandomi per togliergli la tazza ormai riempita dalle mani.
«Quei due?» chiesi in risposta, sorseggiando piano
il mio
caffé dopo aver soffiato. Si poggiò contro il
lavandino
soffiando a sua volta, alzando
il viso verso di me.
«Appena usciti», mi
informò,
bevendo anche lui un sorso. «Sembravano parecchio
divertiti».
«E ci credo», feci
sarcastico,
allontanando la tazza dalle
labbra.
«C’è il
tuo zampino, per
caso?» mi domandò velatamente divertito,
sollevando
appena un angolo della bocca in un sorriso derisorio.
«Il tuo, direi»,
quasi sbottai.
«Hai dimenticato di gettare
un palloncino».
Inarcò finemente un
sopracciglio, assumendo
un’aria
pensosa. Distolse poi lo sguardo altrove come se si stesse
concentrando, accarezzandosi le labbra con la punta delle dita della
mano
libera mentre quella d’acciaio reggeva la tazza di
caffè.
Scoppiò a ridere d’un tratto, quasi rischiando di
rovesciarselo
addosso.
«Guarda che io non ci trovo
nulla da
ridere...» borbottai ancora, come a
volerglielo tenere presente. Ma ci guadagnai soltanto
un’altra sonora risata e una bella
pacca su una spalla. Così forte che quasi cadde anche a me
il caffè, con il
rischio d’un bagno fuori programma.
«Ehi, io li gonfio e
tu li butti no?» sghignazzò di rimando,
cercando di
finire di bere senza
ridere. E fu un’impresa abbastanza ardua, visto che ogni
volta
che
mi lanciava un’occhiata si ritrovava a dar vita ad un nuovo
sbuffo d’ilarità. Decisi di non badargli oltre
prendendo
il pacco di biscotti
dalla credenza, andando ad accomodarmi. Trovai solo quelli mezzi rotti
che come suo solito Jason non
mangiava. Era un vizio che gli era rimasto, quello. Voleva solo i
biscotti sani,
lui. Consumai la mia colazione in silenzio, seguendo solo di
tanto in tanto con la coda dell’occhio i movimenti di Edward,
affaccendato per
la cucina mentre sghignazzava ancora un po’. E rideva anche
quando cercava d’intavolare un discorso. Era davvero un caso
perso. Sparì solo per poco andando in corridoio, comparendo
con
l’oggetto della sua ilarità subito dopo. Lo tenne
ben in
alto per farmelo osservare, facendomi poi
una linguaccia prima di sbarazzarsene. Lo odiavo, quando faceva
così.
«Eliminata la prova del
delitto, oh
mio Generale», mi prese in giro, avvicinandosi al tavolo
della
cucina per
farmi scansare un po’, in modo da potersi sedere a cavalcioni
sulle mie gambe. E con il misero indumento che indossavo, non potevo
nascondere nulla se fosse stato richiesto. Mugolai un po’
quando
mi sfiorò i capezzoli con i pollici,
pressando apposta quello d’acciaio per farmi penetrare a
fondo il
freddo nella
pelle. Quel piccolo...
Si chinò poi un po’
verso di me,
alitandomi
nell’orecchio. «Ti dirò la
verità, quei cosi
sono scomodi», sussurrò,
ridacchiando un po’, spostandosi con lentezza estenuante
verso il
viso. «Preferisco
non avere restrizioni». Mi sfiorò la cicatrice al
fianco e
baciò la benda, forse
aspettando una mia reazione. E quest’ultima non
tardò ad
arrivare, lasciandomi sfuggire
un piccolo mugolio. «Allora, Generale?» mi chiese,
e non
resistetti.
Mi ritrovai ad alzarmi in piedi sentendo
appena una piccola
esclamazione sorpresa, chino poi su di lui disteso sul tavolo della
cucina. Il pacco di biscotti era caduto a terra, e solo per miracolo
non era successa la stessa cosa anche alla tazzina di caffè,
in
bilico. «Se li trovi scomodi vorrà dire
che ci
daremo al sesso
selvaggio», feci in risposta, ricevendo una piccola
occhiataccia
indispettita da quelle iridi dorate.
Mi gettò però le
braccia al collo,
assumendo un’aria di
superiorità. «Non esagerare, adesso», mi
ammonì, in tono severo. «Non mi
sono scordato dell’ultima volta».
Vacillai un po’, a quelle parole, quasi abbandonando la
voglia, ma annuii piano. Quella era una cosa che era meglio non
ripetere. «Aye scusami, parlavo a
sproposito»,
mormorai,
sentendo l’attimo di complicità sfumare. Ma lui
riaccese
la passione attirandomi a sé, consumando
quel bacio insieme all’ossigeno. Mi poggiò un dito
sulle
labbra, scuotendo di poco la testa.
«Non aggiungere altro e datti
da fare»,
liquidò la questione, tornando a
cingermi il collo con le braccia per attirarmi ancora una volta verso
di lui. Mentre le labbra lottavano mi sistemai meglio fra le sue
gambe, che aveva ora aperto poggiando i piedi sul bordo del tavolo per
sorreggere il proprio peso. Una mia mano vagò a sciogliergli
l’alta coda, lasciando che
i capelli si spargessero come tanti raggi dorati sulla superficie
legnosa. Mugugnò il suo disappunto mentre mi spingevo di
più verso di
lui, in modo di avvicinare maggiormente le nostre intimità,
una
più vogliosa
dell’altra. Un rivoletto di saliva gli colò
all’angolo della bocca
quando ci separammo, e quasi mi parve inarcare la schiena quando
intensificai
il contatto, sentendolo gemere. Le sue mani artigliarono la
mia
schiena nuda, e la sinistra
affondò le unghie.
«Muoviti invece di farmi
impazzire, brutto
stronzo!»
esclamò
fuori di sé. Oh aye, ora sì che era pronto. Stavo
quasi
per ribattere che ecco due schiamazzi familiari
sul pianerottolo, prima che si sentisse lo scatto della serratura e il
loro
vociare nel corridoio. Entrarono in cucina trovandoci così,
eroticamente distesi su
quel tavolo. Dapprima perplessi, alla fine spalancarono la bocca. Non
tanto per come ci avevano trovati. Ma forse per altro.
«Ma che schifo, non anche in
cucina!»
esclamò difatti Jason,
storcendo il viso in una smorfia. «Ma siete peggio dei
conigli, voi
due!»
Proprio un bell'animale, aveva scelto.
Quasi glielo avrei
fatto notare, se non fossi stato
impegnato -Come Edward, d’altronde- a
darmi un’aria composta e sistemata una volta tornato nella
giusta posizione.
«Ne ho viste di coppie con una
passione
inesauribile, ma voi
le battete tutte», trovò il lusso di dire Cedric,
anche lui forse un tantino
sulle sue. «I miei complimenti».
Non sapevo se fosse detto con sarcasmo o
meno. O addirittura
una
presa in giro. Ma non volli indagare. «Filate a mettervi
qualcosa
per la casa», ribatté il mio compagno,
visibilmente
innervosito. «Non vi voglio a tavola con i vestiti che usate
per
uscire». Indicò la soglia con il dito
d’acciaio,
imponendogli di
muoversi. Stranamente non se lo fecero ripetere, sparendo di gran
carriera in corridoio. Si notava parecchio che era incazzato, allora.
Le sue iridi dorate si appuntarono su di me, prima che
traesse un sospiro. «Beh, meglio adesso che
dopo»,
ironizzò, dirigendosi nuovamente ai
fornelli. «Pensa
invece se fossero arrivati mentre eri già andato in
buca».
In realtà non ci volevo
assolutamente
pensare. Non era poi il massimo farsi beccare da quei due con la
tipica espressione del piacere in volto. «Prima o poi
cambierò le serrature», feci in risposta,
promettendolo più a me stesso che a lui.
Gli scappò una risatina
mentre riempiva la
pentola
d’acqua. «E’ cresciuto
scassinatore grazie a te,
credo servirà a poco», volle
screditarmi, mettendola poi sul fuoco. «Ma come si dice,
meglio
prevenire che
curare».
«Lui è un male
incurabile»,
feci sarcastico,
facendolo
ridere ancora un po’. Lo aiutai a cucinare infischiandomene
se
fossi solo in
mutande, sentendo vagamente le chiacchiere di Jason e Cedric provenire
dal
salotto dove probabilmente si erano rifugiati per confabulare tra loro
come
al solito. Quando fu pronto li chiamammo, e ci misero un po’
per
accomodarsi. Restii dal farlo, probabilmente, dopo la scena che avevano
visto. Però mangiammo in tranquillità, anche se
poi
dovemmo subirci
ancora una volta le loro battute sui conigli e sulla loro riproduzione.
Ci toccava, secondo loro. E lasciai correre anche per tutto il resto
della giornata,
avendo pace solo la sera. Quelle due pesti ci avevano dato un taglio,
finalmente.
Mi stavo adesso apprestando a prendere
dei vestiti per farmi
una doccia rinfrescante, ma quando entrai in bagno lo trovai
già
occupato. A quanto sembrava Edward mi aveva preceduto, però
sorrisi
con soddisfazione. Potevo rifarmi, magari. «Ed?» lo
chiamai non curante, non ottenendo risposta. Già
stava
cominciando a stuzzicarmi, bene. La cosa si prospettava parecchio
interessante.
Mi avviai quindi tranquillo al lavandino
cominciando a
togliermi la benda, guardando appena dallo specchio la tenda della
doccia. Sorrisi ancora un po’, concentrandomi poi sul mio
occhio.
«Che ne diresti di riprendere quel nostro discorsetto
interrotto?» continuai,
tamponandomi un po’ le cicatrici al viso con
dell’acqua
calda per ammorbidirle. Anche quest’operazione era meglio
eseguirla prima d’ogni
cosa. «Però stasera comando io», imposi
subito,
liberandomi
della canotta che avevo indossato durante il pomeriggio. Edward ormai
era diventato bravissimo, nulla da dire. Ma seguire i suoi ritmi,
spesso, era davvero estenuante. «E invece del
solito
missionario
potremmo provare altro.» continuai distrattamente,
pronto a
liberarmi
anche dei boxer per seguirlo sotto la doccia e cominciare lì
i
preliminari. Ma mi bloccai quando lo vidi sulla soglia del bagno, a
sbattere perplesso le palpebre.
«Con chi parlavi?»
mi chiese, stranito.
E io lo ero
più di lui. Guardai la tenda della doccia, dietro la quale
l’acqua era
ancora aperta. Se Edward era davanti a me... chi c’era
lì
sotto?
Nemmeno il tempo di dirlo che la
capoccia in questione
sbucò
dal tendaggio della doccia, con le guance un po’ arrossate ma
tranquillo. E quando vidi il volto di Cedric spalancai la bocca per lo
stupore. Ancor più quando, ironico, disse, «Sono
lusingato, Signor Mustang, ma io ho altre tendenze».
_Note inconcludenti dell'autrice
Erano secoli che non
postavo qualcosa in questa sezione che comprendesse la coppia Roy/Ed
Questa storia in verità è un bel po' vecchiotta,
solo che
l'ho trovata ripulendo il pc - cosa non si trova su questo ridicolo
pezzo di plastica e circuiti! - e, spinta da un'insana nostalgia
provocatami anche a causa delle role con la nipotola, ho deciso di
cogliere la palla al balzo e di postare questa vecchissima storia.
Si può benissimo notare, infatti, la presenza di una o due
personcine che i vecchi lettori - sappiate che vi mando un saluto
grande come il mondo - hanno imparato a conoscere bene negli scorsi
anni. Sto parlando di Jason e Ced, i quali mi mancavano un casino, lo
ammetto. Anzi, mi mancava tremendamente il fandom, e non mi ero resa
conto di quanto potesse mancarmi fino a questo momento.
Ecco, sto anche cominciando a straparlare, si vede che sono piuttosto
emozionata... comunque sia, questa raccolta sarà composta da
dieci piccoli capitoli, e spero tantissimo che l'amore per il Roy/Ed vi
spinga a seguirla.
Commenti e
critiche sono ben accetti.
Alla
prossima.
♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 2 *** #06. Coccinella ~ Say goodbye to your driver license ***
Say goodbye to your driver license
Titolo: Say
goodbye to your driver license
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
3409 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali
› 06. Coccinella
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai ; What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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Più
del solito, quel giorno, non avevo voglia di lavorare.
Avevo provato ad impietosire Riza
dicendole che avevo
affaticato un po’ troppo l’occhio destro per
tentare di
scansarmi qualche
scartoffia, ma ormai le rifilavo quella scusa da quasi quattro mesi. E,
com’era naturale, non ci cascava più. Prima di
congedarsi,
infatti, mi aveva rivolto un falso
sorriso rassicurante, posando nuove documentazioni sulla mia scrivania
andandosene poi tranquilla, mormorando distrattamente - e quasi con una
punta d’ironia, avrei osato aggiungere -
un “Le
faranno compagnia.” Odiavo quando faceva del sarcasmo a mie
spese.
Mi trovavo ancora in ufficio, adesso, a
firmare controvoglia
quei fogli. Sbadigliavo in continuazione, faticando a tenere
l’occhio
aperto. Stavo morendo di sonno. Avevo dormito su per giù
quattro o cinque ore, e ora ne
pagavo le conseguenze. Dopo un altro sbadiglio, mi grattai di sfuggita
il mento,
poggiandolo subito dopo sul bordo della scrivania con la stilografica
abbandonata in una mano. Ero troppo stanco. Avrei lavorato in seguito.
Quello che mi occorreva, in quel momento, era una bella
dormita.
Adocchiai il divano e non ci pensai due
volte: mi sarei
scaricato lì sopra. Nel
momento stesso in cui mi alzai, però, la porta del mio
ufficio fu gioiosamente
spalancata,
rivelando la figura dell’ultimo uomo che avrei voluto vedere
quel
giorno. Già ne bastava una, di rottura di coglioni.
«Ehilà, Guercino!» mi salutò,
accomodandosi
sulla
poltrona dinnanzi alla mia scrivania come se fosse stato invitato a
farlo.
Ci rimediò una mia
occhiataccia, prima che raccattassi i
fogli e riponessi al suo posto la penna. «Ti ho
detto mille
volte di piantarla di chiamarmi così», lo
ammonii, giusto per far scena. Ormai non gli davo più peso,
in
realtà. La prima volta che mi aveva affibbiato scherzando
quel
soprannome, ero stato quasi sul punto di strozzarlo per davvero, certo.
E tutto perché ero ancora sconvolto dalla notizia. Ma poi
avevo
lasciato perdere, imparando ad accettare quello
che era ormai diventato un mio difetto. Perderci tempo su sarebbe stato
inutile.
Vidi di sfuggita Maes giocherellare con
una delle mie
stilografiche con falsa attenzione, mentre sbadigliava sonoramente.
«Andiamo, ti sta benissimo», borbottò,
tranquillissimo e non curante. «Tra
tutti quelli che avevo scelto questo qui è quello
più
normale, credimi».
Alzai l’occhio al soffitto,
ritrovandomi a scuotere la
testa. Era un caso veramente perso. «Ma tu non dovresti
lavorare?» gli domandai ancora
sollevando il sopracciglio, e stavolta mi gettò una rapida
occhiata che avrebbe
potuto significare tutto.
«E cosa sto facendo, secondo
te?» scherzò, stiracchiandosi.
«Stai cazzeggiando nel mio
ufficio», risposi subito a tono.
Agitò distratto una mano
lasciando cadere la stilografica
sul tavolo, rialzandosi in piedi per darmi poi una bella pacca su una
spalla. «Dai che ti ho portato una bella
notizia»,
fece, quasi
distrattamente. «Alla fine sei riuscito a fare
pietà a
Riza. Ti ha concesso il
resto della giornata libero».
Mi venne quasi voglia
d’esultare, con il rischio che mi
sentissero anche ai piani inferiori. Per mia fortuna, però,
mi
trattenni e non lo feci. Mi limitai a sfoggiare un sorrisino
compiaciuto, già pronto
a godermi la mia tanto agognata libertà. Ero ad un passo dal
filarmela che mi bloccai, ricordandomi
un piccolo particolare. Edward avrebbe lavorato fino a tardi, quel
giorno. Quindi le alternative erano due. O attendevo la fine del suo
turno - cosa che non mi andava assolutamente di fare - oppure
cominciavo ad
andare giù alla Hall fino alle scale e me la facevo a piedi
fino
a casa, visto
che ancora non potevo - anzi, mi era stato
categoricamente vietato di farlo - guidare tranquillamente. A meno
che...
Colto da un’illuminazione, mi
voltai in direzione di
Hughes,
allargando quasi il sorriso da un orecchio all’altro.
«Ti
ho mai detto quanto ti voglio bene, Maes?» me lo
ruffianai ben bene, nel tentativo di comprarlo per il mio secondo fine.
Se non potevo guidare, potevo farmi dare un passaggio. Lo vidi
inarcare ironico un sopracciglio, assumendo un
cipiglio scettico.
«Quando il Diavolo accarezza
vuole l’anima», fu la sua risposta, e lasciai
vacillare il sorriso per dar vita ad un broncio bambinesco.
«Che malfidente»,
bofonchiai, incrociando le braccia al
petto.
«Per ovvie ragioni»,
ribattè ancora lui, avvicinandosi a me
solo per avviarsi alla porta.
Lo afferrai però per un
braccio, bloccandolo a
metà strada. Con l’espressione più
innocente che
riuscii a trovare, poi,
lo osservai con attenzione. «Me lo dai un
passaggio?» gli
chiesi, atteggiando il viso alla ormai classica espressione
alla Jaz. La stessa identica espressione che era solito
utilizzare lui
quando voleva qualcosa. Peccato però che con Maes non
funzionasse. Difatti scosse la testa, facendomi mollare la presa.
«Abbiamo un bel po’
di lavoro, giù al Tribunale», fu la sua
scusa, scrollando le spalle. «Sono passato solo per avvisarti
che potevi
andare».
«Eddai, non si abbandona un
amico in
difficoltà.» provai a fargli pena,
ricevendo la medesima risposta. Continuai così per
una
buona manciata di minuti, forse dieci
o poco più. Ma, alla fine, mi ero ritrovato a bocca
asciutta. Mi
aveva salutato frettoloso, defilandosi senza nemmeno
prestarmi attenzione. E adesso bofonchiavo imprecazioni verso di lui
nella Hall,
diretto vero il parcheggio del Quartier Generale, con in mano le chiavi
d’una
delle macchine in dotazione all’esercito. Non mi interessava
assolutamente se secondo medici o altri
non avrei ancora dovuto guidare. Non me ne sarei andato a piedi, se
potevo evitarlo. In fondo che ci sarebbe stato poi di così
diverso? Era una strada che facevo da una vita. Avrei anche potuto
farlo chiudendo l’occhio.
Sorpassai la mia macchina - le cui
chiavi erano state diligentemente sequestrate da Edward - e
mi diressi verso una di quelle prese in
prestito,
aprendo la portiera. Seduto al posto di guida infilai le chiavi nel
quadro
d’accensione, sentendo il rombo del motore. La retromarcia
non fu
un passo difficile, anzi. Filai fuori perfettamente, senza incidenti.
Potevo guidare benissimo, l’avevo appena dimostrato. Il tutto
divenne però un po’ più complicato
nelle strade
trafficate. Fui costretto a fermarmi due o tre volte sul ciglio della
strada, nel tentativo di non affaticare troppo la vista, dato che
sentivo
l’occhio bruciarmi un po’. Avevo dimenticato il problema
profondità.
Certe volte ancora sbagliavo a premere al primo colpo
l’interruttore della luce, figurarsi quindi come stava il
resto.
Anche nel fare l’amore con Edward ero diventato un pochino
lento. Lui naturalmente dava la colpa di questo alla mia
età,
non
alla mia vista, ma io speravo di più che fosse per la
seconda
ipotesi.
Prima di ripartire mi massaggiai
l’occhio, rimettendo in
moto. Nuovamente in strada, cercai di fare attenzione a tutto,
quasi rischiando però di tamponare due o tre auto davanti a
me.
Le evitai per un soffio. O almeno quelle. Proprio a metà
strada,
infatti, tamponai proprio la piccola
auto della polizia stradale. Ero davvero un uomo fortunato, eh? Nemmeno
avessi spiaccicato una fottuta coccinella e mi stessero punendo per
averlo fatto. Sarcasmo a parte, quand’erano scesi e si erano
avvicinati, mostrar
loro il mio orologio d’argento o i gradi di Generale era
valso a
ben poco. Uno di loro - una donna
un po’ grassoccia sui cinquanta che quasi mi
ricordò la
professoressa di Jaz - prese
a farmi una ramanzina che temetti non finisse più,
chiedendomi poi senza un
minimo di tatto da quanto ero in cecità parziale. Mi ero di
poco trattenuto dal non darle fuoco, anche se
avrei voluto. Così almeno avrebbero avuto un buon motivo per
tenermi in
stato di fermo.
Alla fine di tutto quel gira e rigira,
comunque, quello che
ci era andato male
alla fine ero stato
io. E adesso ero ad una cabina pubblica per chiamare a casa,
dove sperai si trovasse Jason. Non potevo lasciare la macchina
lì e nemmeno riportarla
indietro, visto che quei due idioti mi avevano ritirato senza tanti
convenevoli
la patente. Attesi lì con la cornetta
all’orecchio, contando gli
squilli. Due, tre. Sperai solo di non aver sbagliato numero, visto che
avevamo
cambiato casa. All’ottavo squillo, quando già
stavo per perdere la
pazienza, finalmente qualcuno rispose. «Pronto?»
fece la voce familiare, anche se un po’ assonnata.
«Jaz... sono io».
Ci fu un piccolo
tentennamento. «‘Ka-san?»
chiese, forse
scettico. «Perché hai
chiamato?»
Anche se non poteva vedermi, mi grattai
non curante dietro
al collo. «Beh, vedi... avrei un problema»,
cominciai.
«Problema?»
Cercai altri spiccioli, sentendo
chissà come che quella
conversazione sarebbe stata lunga. «Aye... sono sulla
25ª, potresti venire qui?»
«Perché?»
domandò ancora, perplesso.
Domande e domande come avevo pensato. Peggio di quand’era
bambino.
«Smettila di chiedere, non ho
tutti ‘sti soldi appresso»,
quasi sbottai.
«Ma scusa, se mi tocca
scarpinare fin lì spiegami almeno il
perché!»
Borbottai tra me e me qualche
imprecazione. Mi toccava
dirglielo. «Mi hanno ritirato la patente»,
feci
schietto.
«Ti hanno...»
ripeté, prima di scoppiare in una sonora
risata che quasi rimbombò nella cornetta, tanto che fui
quasi costretto ad
allontanarla dall’orecchio.
«Piantala di ridere,
idiota», mi risentii, nervoso e non
poco.
Con qualche residuo
d’ilarità lui cercò di tornare serio e
di rispondermi.
«No no, scusa
‘Ka-san... ma era troppo divertente», fece, tra
sbuffi di risa. «Non
avevi detto però che non potevi guidare? Che hai fatto, te
ne sei fregato?»
Colpito e affondato. Dannazione, odiavo
la perspicacia di quel
ragazzo. Anche se poi, beh... non era poi così difficile
indovinarlo. Che ero una testa calda ormai lo sapevano anche i muri
della nuova casa. «Sta’
zitto e vedi di muoverti», aggirai svelto il discorso,
interrompendo la comunicazione prima che potesse aggiungere
qualcosa. Agganciai bene la cornetta uscendo fuori dalla
cabina,
pronto
a riattraversare la strada per restare vicino all’auto. Ci
mancava solo che la rubassero o altro.
Mi poggiai contro la carrozzeria a
braccia conserte, guardando
di tanto in tanto il mio orologio per controllare lo scorrere del
tempo. La mia attenzione era concentrata svogliatamente sulle altre
auto che sfrecciavano sulla strada o su alcuni passanti sul
marciapiedi, ma
ancora non vedevo la capoccetta mora che mi interessava. Non sapevo
nemmeno se sarebbe venuto a piedi o con l’auto di
Edward. E quello era un altro piccolo inconveniente. Passarono dieci
minuti o poco più, credo. Non ne ero poi così
sicuro.
Fatto sta che, alla fine, riuscii finalmente a vederlo. O meglio... a
vedere l’auto che guidava. Scoprendo così anche
perché aveva fatto tardi. Indovinate un po’ chi
c’era con lui? Oh, aye, la seconda catastrofe della mia vita.
Il
suo miglior amico, Cedric Berk. Avrei dovuto immaginarlo...
Si fermarono al ciglio della strada,
rivolgendomi entrambi
un sorriso divertito dal finestrino. «A piedi, Signor
Mustang?» mi prese in giro Cedric, e dovette
ritenersi
fortunato che non indossassi i miei guanti. Altrimenti, nervoso
com’ero, gli avrei dato fuoco sul serio.
Borbottando tra me e me, mi staccai
dall’auto, vedendo
proprio Ced scendere da quella che Jaz aveva adesso parcheggiato dietro
quella
che avevo preso in prestito. «Sali ‘Ka-san, ci
pensa Ced a portare quella al Quartier
Generale», mi informò, additandola.
Mi accigliai, mentre vedevo il suo amico
dirigersi alla
portiera per sedersi al posto di guida, dove avevo abbandonato le
chiavi nel
quadro d’accensione. «Cosa volete per
questa improvvisa
gentilezza?» mi insospettii, ed entrambi
atteggiarono il viso ad
un’espressione assolutamente innocente.
Ormai seduto, Cedric mi
guardò con quegli occhioni
castani. «Mi sono offerto io perché tanto dovevo
già andare lì»,
spiegò, tranquillissimo. «Mio padre mi ha chiesto
di
raggiungerlo per dare una
mano anch’io giù al Tribunale. Ha detto che
così
almeno imparo già il mestiere».
Cavoli, allora era vero che avevano da
fare. Credevo fosse solo
una balla di Maes. Sperai solo che non si trattasse ancora di
catalogare
documenti attinenti a quella faccenda.
«Nessun secondo fine, quindi?» chiesi ancora, non
del tutto convinto.
Quasi in simultanea - manco
fossero stati gemelli - si portarono una mano al petto, come se
volessero
promettere qualcosa. «Siamo
innocenti stavolta, ‘Ka-san», fece Jason
dall’auto,
sporgendosi appena un po’.
«Mai stati più
innocenti di adesso, vero», ribadì ancora il
concetto Cedric.
Decisi di non volerli più
ascoltare. Quella battaglia su
due fronti non l’avrei mai vinta. Salutai frettoloso Cedric
dirigendomi all’auto di Edward,
salendo dalla parte del passeggero con la solita aria indispettita che
adottavo
quando mi toccava farlo. Vidi l’auto in cui era Ced partire,
e
dopo poco lo facemmo
anche noi, diretti a casa. Il lato positivo, almeno, era che Jason
aveva preso la
patente e poteva scarrozzarmi lui da qualche parte se Edward era troppo
impegnato per farlo. Odiavo però dipendere da loro. Non
aspettavo altro di poter guidare nuovamente.
Il silenzio che vigeva tra noi fu rotto
dalla voce di Jaz,
ed ero così immerso nei miei pensieri che ci misi un
po’ ad accorgermi che lui
aveva parlato. «Come va l’occhio,
‘Ka-san?» mi chiese, guardandomi appena di
sottecchi senza abbandonare la strada che stava percorrendo.
Sorrisi un po’ a quella sua
preoccupazione rinata. Faceva tanto il duro,
ma infondo era sempre stato un cocco di
mamma. E a me non dispiaceva affatto, dovevo
ammetterlo. Colpa del mio vizio di
viziarlo.
Mi stiracchiai sul sediolino, scompigliandogli poi
affettuoso i capelli, rimediandoci così una piccola
lamentela
come al solito. «Si stanca un po’ come sempre, ma
mi sto
abituando», risposi, tornando composto. «Tempo un
altro
mese e starò alla grande».
Mi lanciò appena
un’altra occhiata, vagamente
scettica. «Lo dici per consolarmi come tuo solito o fai sul
serio?» mi
pose un’altra domanda, con un tono di voce vagamente
somigliante
a quello
imperativo che era solito usare Edward quando mi negava senza sentir
ragioni il
sesso.
Sbuffai, agitando però
disinvolto una mano. «La
sera fatico a distinguere i profili, se le luci sono soffuse. Ti va
bene
così?» ironizzai, vedendolo
però corrucciarsi
mentre si concentrava sulla
strada senza prestarmi attenzione. Su quel viso da prendere a schiaffi
s’era dipinta quella
maledetta espressione colpevole. Porcaccia, dovevo imparare a tacere.
«Stavo scherzando», provai a mentirgli, per
cancellargliela dal viso. In realtà a volte era vero,
faticavo a
vedere le sagome in
penombra. Tutto perché dovevo sforzare
l’occhio.
«Non è
vero», bofonchiò, girando velocemente le mani sul
volante per prendere
una curva. «Adesso lo stai dicendo per non farmi sentire
colpevole, ti conosco
troppo bene».
Mi lasciai sfuggire un lamento
esasperato. Ed eccolo che
riattaccava con quella storia... peggio delle sue infinite domande
quand’era piccolo. «Maledizione, Jaz, non
ricominciare», sbottai, già irritato di mio.
«Vai
avanti
da quattro mesi a ripeterlo, dammi tregua».
Sbuffò, muovendo le mani sul
volante per prendere una
curva. Eravamo nel nostro quartiere adesso, quasi sotto casa.
«Se
lo ripeto ci sarà un motivo, no?»
replicò,
fermandosi al
ciglio della strada quando arrivammo.
Mi massaggiai l’occhio,
scuotendo la testa. Era un caso
davvero disperato... «Il motivo è che sei un
idiota
patentato, ecco quale», ribattei, strappandogli
con mia sorpresa una piccola risata, forse un po’ amara.
«Beh, almeno io una patente
ce l’ho a differenza tua», cambiò
discorso divenendo sarcastico, rigirando le
mie parole per provare a fare una battuta.
Lo guardai storto, sollevando ironico un
sopracciglio.
«Non faceva ridere per niente», gli tenni presente,
ricavandoci un piccolo
sbuffo.
«Non volevo far ridere,
infatti», disse a mo’
di
spiegazione, spegnendo il motore per poi togliere le chiavi dal quadro
d’accensione. Tolta la cintura di sicurezza, scese,
chiudendosi
dietro la
portiera. Potei vedere benissimo la sua espressione imbronciata e
quasi annoiata. Borbottando fra me e me lo imitai, alzandomi forse
troppo in
fretta e con foga. Venni colto da un capogiro che mi fece vedere
puntini di
luce e dovetti reggermi sul tettuccio della macchina, richiamando la
sua
attenzione. Sembrava guardarmi apprensivo, adesso. «Tutto
okay,
‘Ka-san?» mi chiese, con il tono delicato
d’un
bambino.
Mi ritrovai a sorridere stupidamente
mentre chiudevo la
palpebra, così da calmare il giramento di testa e
riprendermi. Ahhh, che cocco di
mamma...
era normale che fossi felice che lo fosse? Forse sì, dato
che la
mamma in questione ero io. «Solo un piccolo calo di
pressione», feci tranquillo,
riaprendo l’occhio per guardarmi intorno. La testa non mi
girava
se osservavo i dintorni, bene. E anche la vista era normale.
«Dovresti deciderti ad andare
in pensione», lo sentii dire, e alzai lo sguardo
verso l’altro lato della macchina per fissarlo attentamente.
Forse con un po’ di nervosismo.
«Stai forse insinuando che sto
invecchiando?» domandai,
vedendolo stirare le labbra in un sorriso.
Aggirò l’auto
accostandosi a me, offrendomi il suo braccio
destro come se fossi una donna bisognosa
d’aiuto.
«Non stai invecchiando, sei sempre stato vecchio»,
ribatté semplicemente,
scansandosi subito dalla mia traiettoria quando mi vide pronto
a
colpirlo. Ridacchiando, filò in giardino, sorpassando le
siepi
fino a
raggiungere il pianerottolo e defilarsi in casa una volta cacciate le
chiavi
per aprire la porta.
Mi ritrovai a scuotere piano la testa,
non potendo però
evitarmi di sorridere. Quel ragazzo era capace di farmi incazzare per
un nonnulla,
ma poi riusciva a cavarsela sempre. E i rapidi cambiamenti
d’umore che aveva, poi, erano dovuti
al fatto che cercava di non pensare a ciò che era successo
un
po’ di tempo addietro. A quei pensieri mi accarezzai la
benda,
scuotendo per
l’ennesima volta la testa prima di entrare in casa, trovando
Jason già
comodamente spaparanzato sul divano. Buste varie di patatine e bibite
gassate erano un po’
dappertutto, abbandonate soprattutto sul tavolino davanti a lui. Fra
quel mucchio si riusciva a scorgere persino la copertina
di qualche libro. «Cos’è tutto questo
macello?» domandai immediatamente, con
una vaga nota stizzita.
Lui, che si era appropriato di una
lattina, mi guardò
sbattendo le palpebre. «Stavo facendo uno spuntino
prima che tu chiamassi», spiegò, come se fosse
la cosa più semplice e banale del mondo prima che bevesse un
sorso.
Alla faccia
dello
spuntino, evitai di commentare, guardandolo solo di traverso.
Ben sapeva che non amavo tutto quel disordine. Specie per uno spuntino,
come l’aveva chiamato lui. «Muoviti a rimettere
tutto a posto», quasi sbottai,
liberandomi della giacca della divisa prima di lasciarla
sull’altro divano,
ancora indenne da quel caos.
Sbuffando e borbottando finì
la sua bibita, poggiando la
lattina ormai vuota sul tavolino. Afferrò poi una busta di
patatine, sgranocchiandone un po’. «Quando fai
così
mi sembri una casalinga isterica», disse,
mangiando un’altra patatina. «Un po’ di
disordine ci
vuole, fa capire che ci
vivono tre uomini in casa».
Che razza di ragionamenti
faceva... «Non
ci voglio nemmeno discutere con te, guarda», ribattei,
ritrovandomi io stesso a togliere qualcosa dal tavolino o dal divano.
Arraffai anche lattine e altre buste di patatine,
rimediandoci un lamento quando gli strappai di mano anche quella con
cui si stava nutrendo.
Mi guardò male, mettendo su il broncio. Proprio un eterno
bambino, non c’era niente da fare. E se lo dicevo io che ero
peggio di lui... beh, era tutto dire.
«Quella la stavo
mangiando», parve tenermi presente,
corrugando le sopracciglia. Non me ne fregai più di tanto,
continuando con le mie pulizie. Ne
presi altre, mettendo tutto sottobraccio.
«Metti in ordine il
resto», ordinai. «E vedi di darti una
mossa».
Lo lasciai lì fra le buste e
le lattine vuote, portando
invece con me quelle ancora chiuse mentre sentivo i suoi strepiti e le
sue
lamentele seguirmi fino in cucina. Non gli diedi peso, naturalmente. Mi
limitai solo a posare tutto e a richiudere la credenza,
lasciandomi sfuggire uno sbadiglio. Mi sarei fatto un bel bagno caldo e
poi dritto a nanna. Aye, l’idea era abbastanza allettante...
però non potei pensarci oltre che un rumore sordo e
improvviso mi fece trasalire, spaventandomi. Poi sentii dei passi
veloci e il vago tintinnio delle
chiavi.
«‘Ka-san, io
esco!» sentii
esclamare Jason,
prima che la
porta dell’ingresso venisse sbattuta quasi con violenza e
foga.
Restai senza parole, sbattendo le palpebre. Mossi qualche passo,
sentendo il rombo del motore dell’auto
fuori nel vialetto. Sembrava che Jason vi si fosse messo alla guida per
andare
chissà dove. Scossi solo la testa, avviandomi in soggiorno.
Se
voleva uscire bene, ma aveva messo in ordine. O almeno così
sperai. Rimasi però interdetto quando entrai, non riuscendo
a
credere ai miei occhi. Non sapevo come diavolo aveva fatto, ma il
tavolino e
lampada a lato di uno dei divani erano rovesciati a terra fra le buste
vuote e
qualche briciola. Probabilmente era inciampato nel filo, facendo cadere
tutto.
La cosa che l’aveva fatto
scappare, però, era
proprio la
lampada. Era abbastanza vecchia, una di quegli oggettini
d’antiquariato che si pagavano un occhio della testa.
L’avevo comprata perché ero sempre stato attratto
da
quelle
cose, anche se Edward certe volte non condivideva quella mia passione dicendo
che ero all’antica. A me piacevano, però, che
potevo
farci. Il mio sguardo che ne osservava i cocci quindi, in quel
momento, avrebbe potuto incenerire chiunque se solo avesse osato
parlare o
muoversi. Interdetto, mi chinai a prenderne un frammento, non riuscendo
a capacitarmene. Razza di...!
«Jason, quando torni ti
ammazzo!» gridai al nulla
per
sfogarmi, pronto a mordermi le mani. E giurai a me stesso che, se
avesse rotto qualcos’altro - anche solo per sbaglio - costato
un
patrimonio, non l’avrebbe passata liscia. Parola di Roy
Mustang!
_Note inconcludenti dell'autrice
Anche
questa storia, come la precedente, è stata scritta parecchio
tempo fa.
I contenuti sono rimasti gli stessi, ho giusto sistemato la
punteggiatura che, lo ammetto, era tutta sballata... cose del genere
capitano, purtroppo, specialmente quando passa tutto questo tempo e ci
si rende davvero conto di quanto il proprio stile degli anni scorsi
fosse ad un livello ancora prematuro.
Tutto ciò per dire che mi sono resa realmente conto di
quanto il
mio modo di scrivere, a lungo andare, sia cambiato, e questa
è
certamente una cosa positiva per chiunque scriva, che sia esso una
fanwriter o uno scrittore.
Il fandom è abbandonato a sé stesso come quando
l'ho
lasciato, certo, ma ho deciso di portare a termine questa raccolta di
dieci one-shot e lo farò, non importa come e non importa
quanto
tempo impiegherò, dovesse volerci anche un mese intero o una
misera settimana.
Commenti e
critiche, comunque, sono ben accetti.
Alla
prossima.
♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 3 *** #03. Pinguino ~ A buon intenditor... ***
A buon intenditor
Titolo: A buon
intenditor...
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
2022 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang, Famiglia Hughes
Tabella/Prompt: Animali
› 03. Pinguino
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai,
What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
Eravamo a
casa di Maes e aspettavamo pazientemente che
Glacier ci chiamasse per la cena, chiacchierando del più e
del meno mentre
Elicia, nella sua camera, aiutava quello sbarbatello di Jason con
quella
benedettissima matematica. Che fosse negato con quella
materia, ormai lo sapevano anche i muri di casa Hughes.
Anche se Maes aveva guardato
il “nostro caro figlioletto” con un’aria
alquanto sospettosa, come per dire
“Tocca mia figlia e ti ritrovi senza attributi”,
alla fin fine se n’era stato
in silenzio e li aveva lasciati andare a studiare, facendo accomodare
me e
Edward in salotto, dove ci trovavamo adesso. Can che abbaia non morde
in fondo, no? Evitavo quindi di dire che,
tanto per cambiare, aveva messo in mezzo me dicendo che con i miei
consigli
l’avrei portato sulla cattiva strada. Era davvero
malfidente...
A ridestarmi dai miei
pensieri, furono le loro improvvise risate, e capii solo in seguito che
mi ero
perso gran parte del discorso in cui si erano gettati. Difatti li
guardai stranito,
senza capire. O almeno finché Edward non
mi diede una bella pacca sulla spalla con la mano d’acciaio.
«Ehi, svegliati, mammina!» esclamò
divertito,
soffocando
un’altra risatina.
Così immerso nei miei
pensieri, non mi ero nemmeno accorto che si era gettato sul divano
accanto a me
e mi stava squadrando, con quel cipiglio bambinesco nonostante i
trent’anni e
passa. Sbattei un po’ le palpebre,
stringendomi poi nelle spalle. «Stavo pensando,
scusate»,
borbottai.
Vidi Maes portare mano ad
alcuni stuzzichini, inghiottendone uno. «Ammettilo che
è colpa dei
cinquanta!» fece a sua volta in tono spassoso, battendosi una
mano su una coscia. «Mi
sa che ti toccherà davvero passare in farmacia, se continui
così!»
«Stavolta vado in sua
difesa!»
replicò prontamente Ed, tappandomi la bocca con la mano
d’acciaio prima che
potessi rispondere a tono. «In quel campo
è ancora arzillo!»
Scansai la mano dal mio viso
con più garbo che riuscii a trovare, nonostante la vaga
stizza che la
conversazione mi stava procurando. «Preoccupati delle tue
prestazioni, Maes, non delle mie»,
sbottai nervoso, sentendo Edward trattenere una risata, come se tutta
quella
situazione lo divertisse.
«Non ho mica problemi, sono
ancora un giovincello», sghignazzò, adagiando la
schiena al divano su cui era
accomodato. «Io almeno resto sveglio, non crollo
addormentato!»
«Mai addormentato!»
mi sentii
in dovere di informarlo, incrociando le braccia al petto prima di
indicare con
un cenno del capo Edward. «Lui, semmai, si è
addormentato!»
Il diretto interessato smise
di ridacchiare di botto, guardandomi torvo. Mi tirò una
guancia
con tutta
la sua forza, gli occhi ambrati ridotti a due fessure. «Ma
non
avevamo nemmeno cominciato», specificò, in tono
grave e
incazzato. «Qui il vecchietto sei tu, non io»,
soggiunse,
quasi con una punta
di perfidia. Non appena mi mollò la
guancia me la massaggiai, atteggiando il viso ad
un’espressione
offesa mentre,
poco distante, Maes se la rideva bella grossa. Succedeva sempre questo.
E da un bel paio d’anni,
ormai. Ero diventato il bersaglio
preferito a cui lanciare frecciatine, sia per il mio bel biondino e mio
figlio,
sia per il mio migliore amico. Che senso aveva, però,
continuare
a dire di smetterla? Lo facevo da un mucchio di
tempo e non aveva mai funzionato.
Continuammo a parlottare poi
del più e del meno, senza avere un vero e proprio filo
logico, o lasciandoci
andare in discorsi che superavano non poco la linea della
castità. Venimmo interrotti da Glacier
non più di una ventina di minuti dopo. Entrò in
salotto con il suo bel grembiule con i pinguini,
richiamandoci con un colpetto di tosse proprio nel bel mezzo di una di
quelle
che lei, o qualsiasi altra donna, avrebbe reputato “battuta
squallida e sconcia”.
Un tantino a disagio e
imbarazzati ci voltammo simultaneamente tutte e tre nella sua
direzione,
vedendola sulla soglia con una mano poggiata sul fianco. «Se
uno
di voi “uomini”», disse poi,
mimando le
virgolette con due dita. «potesse farmi il favore di aiutarmi
con
i piatti, ve ne
sarei molto grata».
«Ti aiuto io»,
liquidò subito
la questione Edward, alzandosi per raggiungerla. Era lui, in fondo, che
aveva
dato inizio a quel botta e risposta.
Alla fine, comunque, toccò
a me e a Maes alzarci per andare a richiamare i nostri figli.
Continuammo a ridere ancora
un po’ nel corridoio, come due stupidi. O almeno
finché lui non si
apprestò a bussare. Si fermò a pochi millimetri
dal legno della porta, ascoltando proprio come me.
Dall’interno si sentivano le
voci di Elicia e Jason, e non sembrava affatto che
stessero studiando...
«Tiralo un po’
fuori, è
troppo dentro!»
«Ma che pretendi, non
l’ho
mai fatto!»
«Stammi a sentire, allora,
tiralo fuori che altrimenti ti fai male!»
«Ma è sempre
così quando lo
si fa? Non si può direttamente cominciare?»
«No, come minimo devi prima
sapere come fare...»
Ci furono poi degli attimi di
silenzio, rotto solo pochi secondi dopo
dalla voce squillante di Jason.
«Facciamolo e basta, mi sono
rotto dei preliminari!»
Da fuori, restammo tutti e due
basiti ad ascoltare, prima che Maes sfondasse letteralmente la
porta della camera. Vi si fiondò dentro come una
furia, con la grinta furibonda d’un padre che vuole
proteggere l’illibatezza
della figlia. «Non azzardatevi a fare
nulla!» esclamò, incazzato e non poco.
Io mi sporsi giusto un po’
dallo stipite, cercando di capire quel che stava succedendo. Se stavano
facendo quel che credevo io, non volevo
assolutamente assistere. Ma sbattei accigliato le
palpebre, quando realizzai, così come Maes che aveva
abbassato le braccia lungo
i fianchi, la situazione. Jason - perfettamente vestito,
c’era da sottolineare - se ne stava seduto
sulla sedia accanto al materasso, dove invece si trovava Elicia. Fra le
mani reggevano dei
sacchetti e dello spago, e sul letto erano sparsi pezzi di stoffa e
persino
l’imbottitura che si usava per i peluche. Vari aghi da
cucito, poi,
erano appuntati ad un puntaspilli, vicino ai libri di studio
abbandonati. Guardandoci, con un ago per
uno in mano, loro sbatterono, accigliati quanto noi, le palpebre.
«Che c’è
papà?» chiese
Elicia, un tantino perplessa. Senza parole, Maes di limitò
a sbattere ancora una volta le palpebre, indietreggiando un
po’. Sembrava quasi esserci
rimasto male dal non aver trovato qualcosa di scandalistico.
Ridacchiando nervoso, il mio
figlioletto nascose dietro la schiena quel che aveva in mano,
rivolgendomi un
sorrisino tirato. «Ci siamo presi una piccola
pausa per distrarci», si scusò sulla difensiva.
«Avremmo ripreso a studiare
presto, ‘Ka-san, davvero».
Non era di quello, però, che
mi ero preoccupato al principio. Da fuori il discorso
sembrava tutt’altra cosa. E per fortuna Edward era
andato ad aiutare Glacier! Deciso finalmente a lasciare
quella mia specie di nascondiglio, entrai un po’ nella
stanza, poggiando una
mano sulla spalla di Maes come a tirarmelo via. Era ancora un tantino
scombussolato, data l’espressione che gli vedevo in viso. Lo
spinsi fuori, nel
corridoio, vedendolo ciondolare verso la cucina come se non se ne
capacitasse. Di cosa, però, mi era ancora
sconosciuto.
«La cena è
pronta», mi
limitai a dire poi, gettando un’occhiata ad Elicia, e,
intercettato il mio
sguardo, lei parlò.
«Ma che è successo,
Zio Roy?»
mi domandò, abbandonando sul materasso quel piccolo
sacchetto che reggeva fra
le mani. A guardarlo meglio, era
lavorato in modo che sembrasse quasi una bambola rudimentale. Una di
quelle che da un po’
di tempo andavano così di moda fra i giovani.
Mi grattai dietro al collo,
un tantino a disagio. Come potevo dir loro che io e
Maes, cretini com’eravamo, avevamo pensato stessero facendo
altro? Semplice, non gliel’avrei
affatto detto. Se la sarebbe vista Maes con
Elicia, io al massimo mi sarei limitato a fare un discorsetto a Jason.
«Meglio se lo chiedi a tuo
padre, Elicia, credimi», dissi semplicemente, dando vita ad
una di quelle
scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente.
Loro si lanciarono
un’occhiata veloce, palesemente perplessa. «Non
capisco che vi è preso»,
disse infine Jaz, scuotendo la testa prima di alzarsi finalmente in
piedi e
stiracchiarsi alla bell’e meglio. Anche Elicia lo
imitò,
radunando tutti gli oggetti che avevano usato per poggiarli sulla
scrivania. Raggiunta la soglia sulla
quale c’ero ancora io, mi sorpassarono, pronti a dirigersi in
cucina. Ma prima che si allontanasse
a sua volta, poggiai una mano sulla spalla di Jason per fermarlo.
Mi guardò, interrogativo.
«Avrei fame anch’io,
‘Ka-san», fece sarcastico, sollevando un
sopracciglio scuro. Gettai una rapida occhiata
intorno, passandogli un braccio dietro alle spalle. E il suo volto
divenne quasi
annoiato, se non svogliato. Sapeva bene che facevo così
quando cominciavo discorsi che duravano un mucchio di tempo ma che,
alla fine,
non gli entravano in testa. «Che ho fatto adesso»,
borbottò, con il tono della voce ormai arreso.
Gli massaggiai il deltoide
sinistro, come a farlo rilassare. «La prossima volta fammi il
favore di studiare in salotto, con Elicia», dissi
semplicemente, ricevendo così
un’occhiata incomprensibile.
«E ora che
c’entra?» chiese,
grattandosi innocentemente una guancia. Persino l’espressione
del suo
viso, in quel momento, lasciava trapelare solo innocenza. Ed era molto
difficile crederlo, conoscendolo.
«Ti dirò la
verità, Jaz»,
cominciai sarcastico. «Pensavamo che stesse succedendo ben
altro, lì dentro».
Forse si scandalizzò,
perché
sgranò gli occhi azzurri, dilatandoli. «Ma siete
due vecchi maniaci
pervertiti!» esclamò d’impeto, e dovetti
tappargli la bocca con una mano per
soffocargli il grido. Sarebbe stato difficile
spiegare le sue parole, se fosse giunto alle orecchie di chi stavo
pensando io in quel momento...
«Zitto, brutto
idiota»,
sbottai, ignorando deliberatamente gli appellativi che aveva usato.
Specialmente la parola
“vecchio”.
Bofonchiò qualcosa, con la
bocca ancora coperta dalla mia mano. Fu lui stesso ad
allontanarla, guardandomi in cagnesco. «Bella fiducia che hai
in tuo
“figlio”», fece, più che
innervosito. «Invece di saltare a conclusioni
affrettate potevate concederci il beneficio del dubbio».
Alzai gli occhi al soffitto,
esasperato. Sembrava non si rendesse
conto della situazione. Maes, quando si trattava di
certe cose, era iper-protettivo. Certo, ogni padre difendeva
sua figlia... ma lui superava davvero ogni
limite! «E voi potevate evitare
discorsi fraintendibili», replicai in risposta, lanciandogli
un’occhiata di sbieco.
Incrociò le braccia al petto,
imbronciandosi come suo solito. «Siete tu e lo Zio Maes ad
avere le menti malate», ribatté, come se volesse
avere ragione lui.
Mi limitai a trarre un lungo
sospiro, scuotendo piano la testa. «Non so tu, ma io un
“Tiralo
fuori” lo interpreto in un solo modo», dissi
ironico. E lui storse la bocca in una
smorfia, agitando le mani in aria come se volesse scacciare
un’immagine che non
gli piaceva affatto.
«‘To-san fa bene a
negarti il
sesso», mi tenne poi presente, senza peli sulla lingua. Ma
non me ne stupii più di
tanto. Era sempre stato spontaneo e
diretto, su certe cose. Chissà perché, eh?
«Non dirlo nemmeno per
scherzo», mi ritrovai a borbottare, lasciandolo finalmente
libero.
Inclinò un po’ la
testa di
lato per guardarmi in volto in quel modo, dando vita ad uno di quei
soliti
sorrisi che soleva usare quando voleva farsi perdonare qualcosa. O, per
meglio dire, quando
voleva qualcosa. «Se mi presti la macchina
faccio in modo di lasciarvi soli per divertirvi», disse in
tono dolce e
smielato, sbattendo quasi graziosamente le ciglia. Ecco, lui
sì che sapeva
rapidamente cambiare discorso. Ma stavolta aveva sbagliato
richiesta. Già una volta mi aveva
sfondato la macchina!
«Te lo puoi anche scordare»,
sbottai, per niente intenzionato a dover riparare - o ricomprare -
anche quella di cui usufruivo adesso.
Continuò a sbattere le
ciglia, imperterrito. «Tieni di più alla tua auto
che alle serate passate a letto con ‘To-san?» mi
chiese, accentuando il sorriso
per renderlo così malizioso e quasi maniacale. Diavolo, quel
ragazzo era
tremendo. E io ero un fottuto idiota. Sapeva troppo bene quali
erano i miei punti deboli, maledizione! E puntava soprattutto sul
fatto che io e Edward non potevamo concederci tutto il tempo che ci
spettava
per vari motivi.
Lo guardai negli occhi, e fu
un grave errore. Stavo ormai tentennando,
perdendomi in quell’azzurro. Cosa che feci ben presto,
ritrovandomi a sospirare quasi afflitto. «Cerca di
riportarmela
intera», mi arresi.
Esultando, mi abbracciò
dandomi diverse pacche sulla schiena e sulle spalle, alzando poi il
viso per
fondere gli occhi nei miei. «Grazie, ‘Ka-san, avrei
davvero fatto una figuraccia andando a piedi a prendere la ragazza con
cui
esco!» esclamò, allargando il sorriso. E fu a quel
punto che mi
maledii, dandomi del cretino. Aveva già programmato tutto,
questo piccolo figlio di buona donna... ed ero io l’idiota
che ci
cascava sempre!
_Note inconcludenti dell'autrice
Sto
praticamente tirando fuori tutte le vecchie storie che avevo in
sospeso, e ho l'assoluta intenzione di portare tutto a termine. Per il
momento mi concentrerò su questa raccola, a cui mancano
soltanto sette capitoli, e poi, pian piano, mi dedicherò a
tutte
le altre storie che non aggiorno da un'eternità di tempo,
concludendo anche quelle. Il fandom non è più lo
stesso e
me ne rendo conto, però non si può far nulla
contro la
nostalgia e quindi alla fine, anche non volendo, eccomi qui. Il motivo
per cui sono tornata nel fandom è proprio questo, e
credo che queste piccole storielle in cui è presente Jason
ne
siano la prova più assoluta.
Commenti e
critiche, ovviamente, sono ben accetti.
Alla
prossima.
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Capitolo 4 *** #09. Cane ~ Peaceful Sunday ***
Peaceful Sunday
Titolo: Peaceful
Sunday
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
2193 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali
› 09. Cane
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai,
What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
Risi mentre
sentivo le sue gambe nude
strusciare contro di me, il suo naso sfregare contro una spalla, le sue
braccia
gettate al collo e quel senso di tranquillità e benessere
che ci avvolgeva riempire
completamente la nostra camera da letto.
Era domenica mattina, e potevamo
finalmente goderci qualche
attimo d’intimità
dopo quella dura settimana di lavoro, standocene rintanati sotto alle
coperte
avvinghiati l’uno all’altro, con i nostri corpi
nudi che si
riscaldavano a
vicenda. Amavo l’inverno solo per quel motivo. Mentre fuori
nevicava e tutto si imbiancava, io potevo starmene al calduccio
con la persona che amavo, senza dovermi preoccupare di
null’altro. Il pranzo e la cena potevo benissimo ordinarle da
casa, quindi
l’unico pensiero che maggiormente mi premeva era coccolare un
po’ Edward, ora
che potevo permettermelo. Da quanto tempo non facevamo
l’amore?
Fin troppo, probabilmente.
Sentii le sue labbra premute sulla
pelle, la sua piccola lingua rosea
l’accarezzava di tanto in tanto, facendomi ridere ancora come
un
bambino. Presi, con lentezza e sensualità, a far scorrere le
mie mani sulle sue spalle,
sulle braccia, facendo attenzione a non intrappolarmene una nel suo auto-mail.
Da un po' di tempo quell’affare aveva bisogno di un
controllo, ma
ancora non si
era deciso a farsi dare un’occhiata da Winry. E tanto meglio,
secondo me. Mi giunsero alle orecchie i suoi mugolii appagati quando
cominciai a baciargli
con dolcezza il collo, succhiandone i lembi di pelle fino a renderla
arrossata,
dandogli poi un piccolo morso. Le sue mani scesero ad accarezzarmi il
fondoschiena, e gemetti quando il
desiderio si impadronì completamente di me,
facendomi
respirare affannoso
e lasciarmi sfuggire rantoli fin troppo marcati. Non mi
sfuggì
il sorrisino un po' doloroso che si era dipinto sulle labbra di
Edward, sebbene vedessi alla perfezione che si trovava nella mia stessa
condizione. Non potevamo rimandare oltre...
Lui ribaltò delicato le
posizioni, ma prima che la sua
mano sinistra potesse
scendere verso il mio basso ventre, tutta l’atmosfera
sfumò, cancellata dall’improvviso
suono del campanello. ‘Fanculo, chiunque fosse. Cercammo di
ignorarlo, ma non smise di suonare, e ad esso si aggiunse anche
l’insistente abbaiare del cane dell’inquilino al
piano di
sotto. Irritato, frustrato, e anche con un certo bisogno fisico di cui
liberarmi alla
svelta, una volta che Edward si fu spostato e rintanato nuovamente
sotto al
piumone mi alzai, lanciandogli una fuggevole occhiata.
Lui scrollò le spalle, come
se nulla fosse. «Vedi
chi è e torna qui alla svelta»,
brontolò, ma stava
sorridendo.
«Aspetto il mio fuoco per scaldarmi»,
ironizzò, lasciandosi scappare una grossa risata prima di
rotolare all'indietro sul letto, come se ciò che lui stesso
aveva appena affermato fosse particolarmente esilarante.
Sospirai, rassegnato. Arraffai poi la
prima cosa che trovai legandomela intorno alla vita, e con
tutto che faceva freddo, cercai di dirigermi più in fretta
che potei all’ingresso
malgrado il problema
e stando attento che non mi cadesse di dosso quel
vestiario improvvisato. Senza badarci troppo, però, gettai
un’occhiata allo spioncino, imprecando. L’avrebbero
pagata
cara, parola di Roy Mustang! Avrei volentieri dato fuoco ad entrambi.
Spalancai con rabbia la porta, senza nemmeno curarmi delle mie
condizioni. «Che cazzo, voi due!»
sbraitai, facendoli accigliare e sussultare. «Devo
pensare che lo facciate apposta!» Era la terza volta, in quel
mese, che mi ritrovavo fra i piedi Maes e Havoc, e
sempre quando io ed Edward tentavamo di starcene per conto nostro... se
non era mio figlio,
erano loro!
«Ehi, non ti scaldare,
Roy», fece Maes, senza
guardarmi. Potei notare dalla sua espressione che era un tantino sconvolto...
«Non pensavamo di trovarla impegnato
di prima mattina», disse
per dargli man forte Havoc, guardando con un certo interesse
la
pavimentazione.
Stavo per ribattere, ma una terza voce
si fece sentire,
facendomi sbiancare. «Colpa mia, ‘Ka-san».
Nay, vi prego... non era come pensavo.
Mi venne quasi voglia di
sbattere la porta in faccia a tutti e tre. Dalle spalle di Jean fece la
sua comparsa la testa mora del
mio caro figlioletto, una peste di
vent’anni
che avrebbe dovuto trovarsi all’Accademia. Un’altra
sospensione? O solo una licenza da lui voluta? Mi portai una mano a
coprirmi il volto, afflitto. Non ne potevo più.
«Statemi a
sentire», cominciai, sorridendo amaramente e
trattenendomi a stento. «Non devo di certo spiegarvi
cosa
avete
interrotto... vero?!»
Il mio abbigliamento e qualcos’altro,
parlavano da soli... era impossibile non capire.
«Non è mica colpa
nostra se decidi di divertirti con Edward alle dieci del
mattino!» esclamò a voce fin troppo alta Maes,
guardandomi per qualche secondo.
«Guarda che ti ho sentito,
Hughes!» fece di rimando, squillante, la voce di
Edward dalla stanza, e Maes prese a rigirarsi i pollici, vagamente
imbarazzato
mentre Jason e Jean avevano cominciato a ridersela bella grossa. Ci
guadagnai da uno dei due una pacca sulla spalla,
fondendomi in un sorriso.
«Dai, ‘Ka-san, pensa
positivo», sghignazzò quel degenerato di mio
figlio,
gli occhi azzurri vispi e divertiti come non mai. «Noi lo
facciamo anche per il
tuo bene».
Mi venne voglia di prenderlo a schiaffi.
Non lo feci solo
perché i suoi occhi erano tentatori. Maledettissimo azzurro
cielo! «Spiegami piuttosto perché sei qui e non
all’Accademia»,
domandai eloquente, ma invece di rispondermi lui si intromise Havoc.
Stranamente non aveva sigarette in bocca, ma non gli chiesi
il perché.
«Vede, si è
presentato al Quartier Generale», cominciò,
traendo un sospiro. «Avevamo da fare gli straordinari quando
l’ho trovato a
gironzolare nella Hall».
«Non mi sembra
d’aver chiesto questo»,
borbottai in risposta,
sistemandomi meglio il lenzuolo che copriva le mie nudità.
Ormai
la mia eccitazione era scoppiata come una bolla di sapone, per colpa
loro. Dannazione.
«Ci stavo
arrivando», fece ancora lui, quasi
annoiato. Ma fu Maes a continuare, interrompendo sia lui che Jaz, che
stava tentando di prendere la parola.
«Questo genio di tuo figlio ha
ben pensato di seguire le tue orme»,
disse, come se quella
semplice spiegazione desse una risposta a tutto. Inarcai un
sopracciglio, però, senza capire.
«Cazzeggiava, Roy,»
fece ancora, un po’
innervosito. Avrei dovuto esserlo io, non lui! Mi avevano interrotto
sul più bello!
«Non vedo quale sia il
problema», bofonchiai punto
nel
vivo. Anche lui cazzeggiava, all’Accademia. Non poteva dare
la
colpa a me se lo faceva anche Jason. I ragazzi erano ragazzi, no?
«Visto, Zio,
te
l’avevo detto che per ‘Ka-san non c’erano
problemi», si fece sentire la voce
del mio pargolo, tutto contento.
Sbuffai fra me e me, non volendo
indagare oltre. Qualsiasi cosa
avesse fatto, ben sapevo che non mi sarebbe
piaciuta. Così, dopo un altro paio di parole e scambi di
convenevoli,
feci entrare quel degenerato, salutando loro con un ampio gesto della
mano
prima di chiudere la porta. Jason mi seguì tranquillo per un
bel
tratto di strada,
fermandosi solo quando mi voltai per fulminarlo con lo sguardo.
«Trovati qualcosa da fare», berciai imbronciato.
«Ho
un affare da concludere»,
Scettico, fece vagare il suo sguardo
ceruleo su di me. Si
soffermò sul lenzuolo che tenevo legato in vita, tornando
poi a guardarmi in viso con quella sua solita espressione da so tutto io. «Oh, certo, vedo
bene che affare»,
replicò, sarcastico. Lo fulminai con lo sguardo. Uno di
quelli che volevano dire “Sono cazzi
miei.” E proprio di quelli si parlava.
«Lo vedi, tanto meglio», sbottai, sebbene non mi
andasse a
genio essere preso in giro.
Jason sbuffò un
po’, sollevando un angolo della bocca. «Non fa bene
non portare a termine il lavoro,
sai?» fece ancora, ironico. E a quel punto volli davvero
prenderlo a schiaffi. Sembravano invitanti, quelle guance... ma, per
mia sfortuna, mi trattenni nuovamente.
«Di chi è la colpa
di questa interruzione, secondo te?» gli
tenni solo presente con irritazione, vedendolo fare spallucce.
«Mia no di certo»,
rispose con innocenza. «Io l’avevo detto
a Zio Maes che probabilmente
eravate
impegnati a fare sesso».
Sempre schietto. Non c’era
nulla da fare. Ed era anche
sempre pronto a scaricare la colpa su altri. Ma gira e rigira era sua,
quando venivamo interrotti!
«Che succede?»
chiese dopo poco la voce di Edward,
richiamando l’attenzione di
entrambi. Era poggiato alla stipite della porta, senza nulla addosso.
Alla vista di Jason arrossì un po’, nascondendosi
prima di
sollevare un
sopracciglio. «Tu non dovresti essere qui»,
costatò.
Bell’intuito davvero. E ci era arrivato da solo, eh.
Vidi il nostro figlioletto dar vita ad
una di quelle
scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente, sorridendo
rivolto
al suo indirizzo. «Anche io sono felice di vederti,
‘To-san», ironizzò, ricevendo
un’occhiataccia
dal mio compagno.
Edward borbottò qualcosa fra
sé e sé,
gettando poi un rapido
sguardo verso di me. Ahia. Non mi piaceva come mi guardava. Vuoi vedere
che ora ci andavo di mezzo io? E stavolta non avevo fatto nulla!
«Spiegazione?» domandò, con quella voce
un po’
nervosa. Ecco, io lo sapevo...
Mi grattai con non curanza dietro al
collo, scrollando anche
io le spalle. Ne sapevo quanto lui, molto non potevo dire.
«Stavolta non so nulla», feci sincero.
«Devi chiedere
a
Maes o a Jean», scoccai un’occhiata a Jason, che
sbadigliava tranquillo. «O al
qui presente Jaz, il diretto interessato».
Gli occhi color whisky del mio compagno si posarono su di
lui, anche se sembrava tutt’altro che intimidatorio nascosto
com’era dietro la
porta. «Allora, Jaz?» gli chiese, ottenendoci solo
un’altra non
curante scrollata.
«Mettiamola
così», iniziò, ponendo poi entrambe le
mani
avanti come a voler imporre già da quel momento una tregua.
«C’entrano le
donne».
A quella eloquentespiegazione,
non volemmo
chiedere più nulla. Sicuramente aveva fatto una qualche
cazzata
delle sue. Non sapevo quale, certo. Ma ero pronto a scommettere che era
bella grossa, se gli
aveva fatto lasciare per l’ennesima volta
l’Accademia. Vidi Edward alzare lo sguardo al
soffitto,
sconsolato. E non gli davo torto. Era una mina vagante, quel ragazzo.
«Vai in salotto, Jaz», disse di punto in bianco,
con un
tono
quasi arreso. «Leggiti un libro, una rivista, mettiti a
mangiare... ma vedi di
stare lontano dal corridoio». Corridoio forse era troppo
espansivo. Camera nostra esprimeva meglio il palese divieto.
Jason scosse la testa, borbottando fra
sé e sé.
«Quando volete spassarvela siete veramente
intrattabili»,
costatò, ricevendo un’occhiata ammonitrice da
entrambi.
Intrattabili noi, certo. E lui allora? Quando cominciava con le solite
sparate sulla sua altezza
era insostenibile. Peggio di Edward, certe volte. E avevo detto tutto.
«E io lo diventerò
ancora di più se non finiamo», riprese
Ed, assottigliando lo sguardo.
Il viso di Jason si contrasse un
po’ in una piccola smorfia,
scuotendo la testa. «Contenti voi»,
borbottò quasi sottovoce, quasi non
volesse farsi sentire. Ma lo sentimmo bene.
Edward si avvicinò anche
maggiormente a lui così da essere
alla sua stessa altezza - il che non era difficile - e lo
guardò
attentamente negli occhi, nervoso. Nemmeno gli importò se
era completamente nudo sotto il suo
sguardo. Tanto, ormai. «Jason Mustang», disse, e mi
sembrò quasi imperativo. «O te
ne vai in salotto senza disturbare o ti ci spedisco io a suon di calci.
Sono
stato chiaro?»
Emettendo un basso borbottio contornato
da uno sbuffo, lui agitò distratto una
mano. Come se non gliene importasse. Ma fu bofonchiando che si diresse
in salotto. Proprio come gli era stato ordinato.
Mi stupivo sempre quando Edward riusciva a farsi ubbidire. Sia da
Jason, sia da me. Che fosse lui il cane alfa, in
quella casa?
Vidi Edward osservarmi curioso e
malizioso, mentre mi faceva
cenno di seguirlo
in camera da letto. Si buttò sul materasso, spostando un
pò il piumone. Picchiettò poi la parte libera con
la mano
d'acciaio,
invitandomi. «Su, credo che adesso non ci
disturberà
più almeno per un bel po' di tempo», mi sorrise,
passandosi allusivo
la lingua sulle labbra. Un gesto lento ed erotico che mi
mandò
letteralmente in delirio. Strano, però, visto che di solito
mi
liquidava sempre con una
scusa. Jason in casa? Niente sesso. Ma non volli ricordarglielo.
Così, come un predatore, mi avvicinai al letto, balzando su
di
lui e
strappandogli un urletto divertito mentre mi avventavo voracemente sul
suo
collo, con le sue mani aggrappate alle spalle.
Stavo per prepararmi a spingermi oltre
quando sentii un
insistente scalpiccio e
qualche tonfo. La previsione di Edward, a quanto sembrava, era
sbagliata. Anche a distanza faceva casino. Imprecai fra i denti e mi
riconcentrai su di lui che mi aveva nuovamente
attirato a sé, lasciando perdere i rumori che provenivano
dal
soggiorno. Aveva davvero voglia, a quanto sembrava. Ma qualcosa di
pesante che cadeva frantumò completamente tutto. Per
l’ennesima volta. E prima ancora che ce ne rendessimo conto,
la
porta s’aprì
con non curanza, rivelando la figura di nostro figlio che reggeva fra
le mani
qualcosa. Aveva il volto dispiaciuto, nonostante non lo fosse poi
così
tanto. «Mi sa che l’ho rotto», disse
tranquillo,
incurante che
fossimo entrambi nudi sotto il suo sguardo azzurro. Ma quando il mio si
posò sull’oggetto in questione,
sbiancai. Era uno dei miei spadini da collezione, quello?
Spalancai la bocca, incredulo,
dimenticandomi persino di Edward.
E ce ne voleva, bisognava aggiungere. Ma quella volta l’aveva
fatta grossa, il nostro pargolo.
Come diavolo aveva fatto a romperlo?! Me ne
fregai di tutto, anche del fatto che ero nudo,
alzandomi di scatto. Ero a dir poco furioso, e quel degenerato se
n’era accorse. Tanto che, urlando un “Non
l’ho
fatto apposta!” cominciò a fuggire verso
il salotto, chiedendo invano pietà.
Inutile dire che una vena ballerina
cominciò a pulsare sulla mia fronte, mentre
lo rincorrevo per casa seguito dalle esclamazioni di disappunto di
Edward.
«Jaz! Questa volta non mi scappi!»
_Note inconcludenti dell'autrice
Stavolta
non ho molto da dire, se non che, come le precedenti, anche questa
è una vecchia storia
Sono vecchie storie come questa che i fanno sorridere e provare una
certa quanto bizzarra nostalgia, e non posso far altro che sospirare
afflitta quando vedo il fandom così abbandonato
Io continuerò comunque a postare, dunque se qualcuno legge,
commenta o passa anche solo per caso da queste parti, spero che un
piccolo sorriso gli venga strappato con queste piccole storie
In fondo Jaz è un amore, no? *Cuore di mamma mode on*
Commenti e
critiche sono ben accetti.
Alla
prossima.
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Capitolo 5 *** #01. Gatto ~ Quando si dice la curiosità ***
Quando si dice la curiosità
Titolo: Quando si
dice la curiosità
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
2335 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali
› 01. Gatto
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai,
What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
Appena
uscito dalla doccia, ero piacevolmente rilassato.
Ci avevo passato una buona
mezz’oretta, avvolto fra
nuvolette di vapore e acqua
scrosciante, più che mai intenzionato a rilassarmi dopo una
stressante giornata di lavoro. Avevo poi indossato il mio solito
pigiama, costituito solo da un paio di boxer e da
una canotta enorme, che in quel periodo primaverile era la soluzione
migliore
per il clima leggero e certe volte torrido che vigeva
nell’afosa
South City.
Sbadigliando, mi passai
l’asciugamano fra i capelli per liberarli
dall’acqua in
eccesso, attraversando il corridoio fino a giungere in salotto, con il
presupposto di accomodarmi sul divano e riprendere la lettura
d’un interessante
libro che avevo comprato
qualche giorno addietro.
Ne avevo comprato più di uno in realtà,
mescolandoli anche
con quelli d’alchimia che sarebbero sicuramente interessati a
Jaz.
E proprio lui vidi seduto sul mio
divano quando entrai.
Sembrava concentrato, ma non riuscivo a capire che stesse
facendo.
Piano, di soppiatto, mi avvicinai col
passo più silenzioso a cui riuscii a
dare vita, sporgendomi un pò per sbirciare oltre la
sua spalla.
Reggeva fra le mani un libro aperto, la copertina poggiata sulle
gambe accavallate. E, data l’espressione del suo volto,
sembrava completamente immerso nella
lettura. Un classico,
avevo pensato in un primo momento, conoscendolo troppo
bene.
Sin da bambino si era sempre appassionato alla lettura,
interessandosi in particolar modo all’alchimia quando una
lontana sera di dieci
anni addietro era stato proprio Edward a fargliela scoprire.
Non potei non sorridere a quei ricordi.
A quel tempo aveva solo tre anni ed ero io o il mio biondino
a leggergli qualcosa.
Adesso che ne aveva tredici, invece, già mi sentivo di
troppo.
Non avrei mai smesso di dare ragione a Maes.
Crescevano troppo in fretta.
Dato che non si era ancora accorto della
mia presenza mi
sporsi un po’ incuriosito, cercando di leggere un passaggio
per capire cosa lo
stava appassionando così tanto da estraniarsi a quel modo.
Ma quando lo feci sgranai gli occhi, non potendo evitarmi
d’arrossire. «Jason!» esclamai quasi al
suo orecchio, facendolo trasalire
e lanciare un urletto spaventato.
Sussultando, chiuse di scatto il libro,
nascondendolo svelto
sotto i cuscini del divano. Quando si voltò verso di me,
aveva
il viso completamente sbiancato. «C-Che
c’è,
‘Ka-san?!» farfugliò
nervoso, troppo in fretta e con impeto per risultare credibile in
qualsiasi
modo se avesse aggiunto altro in seguito.
Ancora senza parole mi limitai ad
aggirare il divano per
trovarmi così dinnanzi a lui, tirando fuori dal suo
nascondiglio il libro
nonostante cercasse di evitarmi di farlo.
Letto il titolo, divenni, se possibile, ancor più scarlatto.
Anzi, avrei quasi detto che il mio volto tendeva al
violaceo.
Porca pu... «Dove l’hai
preso?» gli chiesi infine, cercando di mantenere il
tono della
mia voce composto e serio, senza nessuna incrinazione.
Anche se dovevo ammettere che era un bel po’ difficile.
Lo vidi guardare altrove e grattarsi la
testa, stavolta
rosso in viso quanto me.
«Era accanto a quelli d’alchimia»,
rispose, come se quella
cosa spiegasse tutto.
E in effetti... probabilmente avevo dimenticato di rimetterli a posto
sui
ripiani più alti, proprio dove ero più
che sicuro che lui non li avrebbe
presi.
Non ci arrivava.
Ma mai dire certe cose in sua presenza!
Si sarebbe solo incazzato.
«Non avresti comunque dovuto
prenderlo», volli aver ragione,
nonostante sapessi da solo che la colpa, in fin dei conti, era solo
mia.
Ero io l’adulto.
Dovevo essere io a far attenzione. Gli avevo praticamente
permesso di leggere un libro vietato
ai minori, cavoli!
Non volevo nemmeno immaginare la ramanzina di Edward se
l’avesse saputo.
Io molti problemi non me ne facevo, in fondo.
Con la madre con cui ero cresciuto era tutto dire.
Non ero mai stato un vero e proprio bambino innocente,
già dai dieci, undici anni.
Ancora una volta Jason si
grattò la testa, puntando il suo
sguardo azzurro su uno dei cuscini foderati del divano sul quale
anch’io,
adesso, mi ero accomodato.
«Non sapevo fosse un libro di quel
genere», quasi
ci tenne a precisare, rosso in volto. «La trama mi piaceva,
volevo solo vedere
se anche il libro mi avrebbe fatto la stessa impressione
e...»
«...e ti sei ritrovato a
leggerlo comunque fino a quel
punto», conclusi per lui.
Annuì brevemente, come se si
vergognasse.
Beh, grazie tante.
Mi vergognavo anche io e non ero poi così casto e puro!
Avevo comprato quei libri proprio per quel motivo.
Per la voglia di fare sesso.
Ce n’era parecchia, non lo negavo affatto, ma cercavo di
frenare i miei bassi istinti di “uomo” come meglio
potevo.E
non negavo nemmeno che, certe volte, quando veniva a trovarci e
riuscivo ad
avere quella rara e fugace visione di Edward appena uscito da sotto la
doccia,
beh...
Il resto era facile da immaginare. Ero solo un uomo, in
fondo.E
quella, anche se patetica, era una via d’uscita.
Quando se ne tornava a Central, era la sua immagine che mi
restava impressa sulle retine ed era il profumo di noi che mi inebriava
le
narici in quei momenti di solitudine.
Fu lo sguardo ceruleo di Jason a
distogliermi appena in
tempo dai miei pensieri.
Dopo quell’imbarazzante scoperta,
ci mancava solo il sull’attenti da
parte mia. «‘Ka-san», mi
chiamò, forse
vagamente imbarazzato, «quello è proprio
così?»
Perplesso, sbattei più volte
le palpebre. «Quello
cosa?» chiesi in risposta, vedendolo farsi più
serio.
«Il
sesso».
E stavolta arrossii parecchio.
O forse ero io che mi sentivo accaldato?
Ecco comunque la domanda che tanto avrei voluto evitare anni
addietro.
Distolsi lo sguardo cominciando a tormentarmi un po’ le
mani, passandone poi una fra i capelli per perdere svogliatamente tempo
con
qualche ciocca.
Stavo tergiversando, lo ammettevo. «Devo proprio
risponderti?» feci infine, voltandomi appena per incatenare
nei miei occhi quel cielo azzurro che erano i suoi.
Lo vidi atteggiare il viso ad
un’espressione pensierosa,
quasi corrucciata.
«Non sono più un bambino», mi disse, con
tono vagamente
accusatorio.
Non era un bambino, infatti.
Era poco più d’un ragazzino che sfociava nei suoi
primi anni
di pubertà.
Ma perché proprio io mi trovavo a dovergli fare un discorso
simile?
Mi maledissi mentalmente per non essere rimasto più tempo
sotto la doccia, borbottando fra me e me qualche insulto alla mia
persona come
se quello bastasse a cancellare le domande di Jaz.
Aveva cominciato a scuotermi, proprio come quando era più
piccolo.
Voleva sapere, ed ero sicuro che avrebbe saputo.
Che fossi volente o nolente io.
«Su questo non posso
risponderti», dissi infine, non volendo cedere.
Però lo vidi corrugare
maggiormente la
fronte. «E perché no?» subito
mi chiese in
riposta.
«Non sono mai stato con una
donna», mentii immediatamente, vedendolo sollevare
con fare molto ironico un fino sopracciglio scuro.
«Bugiardo», fece,
con lo sguardo quasi assottigliato. «E
tutti i nomi di donna cerchiati in rosso che erano
sull’agendina che sta sulla
tua scrivania allora cosa sono?»
In un primo momento, non capii di cosa
parlasse. La mia agendina l’avevo ceduta tempo
addietro ad Havoc,
proprio nel periodo in cui io e Edward avevamo cominciato a
frequentarci.
Poi, permettendomi nonostante la situazione un sorriso,
compresi.
Anche se quello sarebbe stato un altro atto da legare al
dito. «Primo, smettila di frugare tra le mie cose»,
dissi con tono ammonitore, non
provocando per mia sfortuna l’effetto desiderato.
«Secondo, quelle sono
semplicemente le mie note d’Alchimia».
«Alcuni nomi sono note
d’Alchimia, ‘Ka-san», quasi parve voler
tenere il
punto. «Altri no».
Quel piccolo teppistello maledetto.
Era riuscito a decifrarli.
«Sono tutte note»,
ribattei. «E non avresti nemmeno dovuto
metterne su mano».
A quelle mie parole, Jason
borbottò contrariato fra sé e sé,
nonostante apostrofasse ancora per non volermela dare vinta in nessun
modo.
Secondo lui era assurdo che io stessi con il suo papà
ed appuntassi annotazioni d’alchimia sotto forma di nomi,
date e incontri con
donne.
Ma era un’abitudine che andava avanti da anni.
Non potevo di certo cambiarla solo per quel motivo!
Non mi sarei più raccapezzato di ciò che
scrivevo, poi.
Per un bel po’ Jason non disse
nulla, decidendo solo di
spostarsi in cucina quando mi ci avviai anche io.
Avevo bisogno d’un caffè forte corretto con del
buon vecchio
whisky, uno di quelli che Maes mi spediva ogni tanto - o che lui stesso
portava qui quando veniva a trovarci - erano davvero
l’ideale, un toccasana.
Con il mio moretto al seguito preparai il tutto, cercando
poi una tazzina prima di mettere la macchinetta sul fuoco.
Lanciai giusto un’occhiata
alle mie spalle, vedendo Jaz
accomodato al tavolo con un bacco di biscotti a tenergli compagnia.
Teneva lo sguardo basso, solo di tanto in tanto lo alzava
per ricambiare le mie occhiate.
Scrollai le spalle tornando a guardare il cucinotto,
fischiettando un motivetto inventato sul momento.
Mi stavo apprestando a versarmi il caffè appena fuoriuscito
dalla macchinetta nella tazzina, quando Jaz si fece sentire,
raggelandomi con
le sue parole.
«Ancora non mi hai spiegato se
è davvero così», disse, con
uno strano tono serio che non avevo mai sentito. Porcaccia.
E io che avevo sperato che, dopotutto quel gira e rigira, se
ne fosse dimenticato.
A quanto pareva mi ero sbagliato.
Volevo arginare il discorso, certo, ma sembrava inutile.
Mi voltai molto lentamente, adagiandomi
contro il cucinotto
che avevo ora di schiena per sorreggermi.
Ci misi qualche momento prima di decidermi a rispondere,
nonostante la mia mente avesse assimilato quelle parole da un bel
po’ di tempo. «Ma non ti sembra d’essere
un po’
troppo piccolo per voler conoscere certe
cose?» gli dissi, osservandolo con fin troppa
attenzione.
Persino con occhi critico, avrei aggiunto.
Ero convinto che stesse bruciando un po’ troppo in fretta
le tappe, e allora?
Quello era diventato un mio difetto, negli anni.
Consideravo Jason come un eterno bambino, ed ero sicuro che
non avrei cambiato idea nemmeno quando sarebbe arrivato alla mia
età.
Ero troppo protettivo e volevo farlo restare innocente
più a lungo che potevo, forse?
Beh, allora voleva dire che mi ero calato perfettamente nei
panni di mamma chioccia.
Non volevo che il pulcino lasciasse il nido.
A distrarmi dai miei pensieri fu il suo
sproloquio sul fatto
che tiravo in ballo la sua altezza su quell’appellativo, che
io usavo - per
inciso - solo in modo affettuoso.
«Ho tredici anni, ‘Ka-san! Tre-di-ci!»
sillabò, battendo le
dita sul bordo del tavolo per dare maggior enfasi alle sue parole.
«Appunto perché ne
hai tredici è prematuro», ribadii il concetto,
tornando
all’attacco come “tutore appiccicoso e
apprensivo”.
Io alla sua età non ero mica così...
d’accordo, lo ammettevo.
Il paragone non si poteva nemmeno porre, dato che mi
comportavo molto peggio sebbene i miei fossero altri tempi.
Dal ’98 ad oggi le cose erano cambiate, anche se di poco.
Ma dubitavo comunque che i ragazzini avessero certi pensieri
per la testa... va bene, ammettevo che anche quella che stavo pensando
era
un’immane cazzata. Era solo una mia convinzione
quella di credere dei
tredicenni ancora bambini.
Non era forse quella, in fondo, l’età dello
sviluppo?
«Ci credi davvero a quello che
dici, eh, ‘Ka-san?» ribatté
con tono sarcastico, quasi riuscendo a mettermi a tacere.
Diavolo, era peggio di Edward.
Uno più testardo dell’altro.
E per fortuna era cresciuto con me!
Dovetti arrendermi
all’evidenza, abbandonando l’idea di quel
bel caffè forte per andare a prendere posto dinnanzi al mio
moretto.
«Da quanto tempo?» domandai infine, traendo un
lungo
sospiro.
Mi sentivo davvero una madre apprensiva, diamine. Ma lui
ricambiò il mio sguardo sbattendo le palpebre, come
se non avesse compreso il mio quesito.
«Cosa?» chiese
difatti in risposta, facendomi sospirare nuovamente.
O era bravo a fare lo gnorri, o voleva solo esasperarmi.
«Da
quant’è che ti interessi alle ragazze
così tanto?» ripetei
paziente, servendogli parola per parola su un piatto
d’argento.
Da piccolino diceva a destra e a manca di avere delle fidanzatine,
certo, ma a quei tempi non ne capiva il vero significato.
Adesso che era in fase di pubertà era ben diverso.
Lo vidi scrollare le spalle con
semplicità, atteggiando il
viso ad un’espressione pensosa mentre incurvava le labbra
all’ingiù, quasi come
se la cosa per lui fosse indifferente.
Menefreghismo, perfetto.
«Direi da un po’», la gettò
sul facile, senza darmi momenti
precisi.
Decisi intenzionalmente di non indagare
oltre, anche perché
d’altarini o scheletri nell’armadio non volevo
scoprirne.
Meglio restare ai tempi in cui lui si chiedeva perché la sua
mamma fosse un papà e ancora non aveva ben capito quella
situazione delicata. «Continuo ad insistere che è
presto», mi intestardii, non volendo guardare in
faccia la realtà. Il pulcino avrebbe presto
spiegato le ali, maledizione.
«Ma, ‘Ka-san, a me
le ragazze piacciono!» ribatté, come se
stesse cercando di far valere la sua autorità, la sua parola
in merito o
chissà cos’altro. «Un po’ di
tempo fa ne ho anche baciata una!»
Chiusi gli occhi, lasciandomi sfuggire
un gemito.
Questo avrei preferito non saperlo. Mi toccò dunque
intraprendere quel lungo e intricato discorso che anni addietro avrei
volentieri scaricato a Edward - e, data la sua inesperienza, mi sarei
persino fatto quattro risate nel sentirlo spiegare il sesso a Jason,
che ne sapeva ancor meno di lui -, chiedendomi al tempo stesso chi me
lo avesse fatto fare di uscire da quella maledetta doccia. Avrei potuto
prolungarla ancora, aspettare che Jaz si addormentasse e magari nemmeno
accorgermi che aveva preso quel dannato libro erotico. Era un vero e
proprio idiota.
Il mio caro figlioletto mi
ascoltò rapito,
acciambellandosi prsino sul divano come avrebbe fatto un grosso gatto
che si era appena pappato un topolino succulento. E in quel caso il
topolino in questione ero proprio io. Sembrava quasi che gli stessi
raccontando una favola della buonanotte, dato il modo in cui aveva
cominciato ad osservarmi e i continui quesiti a cui aveva dato vita.
Quelli che passarono mi parvero attimi infiniti, e potei trarre un
sospiro di sollievo solo dopo aver concluso.
Dopo tutta quella chiacchierata
l’unica cosa che volevo
fare
era una bella dormita - sperando che la sua curiosità non me
lo
impedisse, dato che avevo un assoluto bisogno di schiacciare un
pisolino -,
quando un’altra sua domanda si fece sentire, facendomi
sfuggire
un altro
lungo gemito e preannunciando un ennesimo discorso fatto di contro
sensi e
quant’altro.
Quando si diceva, per
l’appunto, la curiosità!
_Note inconcludenti dell'autrice
Questa
volta non mi perdo molto in chiacchiere, per quanto mi piacerebbe
davvero tanto ricevere un piccolo parere da tutti coloro che leggono
Siete in molti e, dato che il fandom è stato abbandonato a
se
stesso, se perdeste almeno qualche minutino in più a
lasciare
una piccola recensione per far sapere cosa ne pensate della storia,
fareste felice una piccola fanwriter che ha riscoperto il proprio amore
per questa meravigliosa coppia dopo essersi arenata per mesi e mesi nel
fandom di One Piece. Sono ancora arenata lì, a dirla tutta,
e, se per caso a qualcuno
interessasse, sto portando avanti una raccolta ZoSan intitolata Waiting
for ~ 30 Shattered Pieces
Commenti e
critiche sono sempre ben accetti
Alla
prossima.
♥
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Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 6 *** #10. Pulcino ~ Quel che non si impara dai libri ***
Quel che non si impara dai libri
Titolo: Quel che
non si impara dai libri
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
2232 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali
› 10. Pulcino
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai,
What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
«Non
mi sembra così
difficile», borbottai con cipiglio
sarcastico, gettando quasi svogliato il quaderno degli appunti di Jaz
che,
seduto alla scrivania in biblioteca come me, picchiettava annoiato la
stilografica su un foglio, come se non sapesse cosa scrivere. Indietro
con le lezioni da un bel po’, gli era toccato,
quella domenica pomeriggio, studiare sodo
e recuperare tutti i compiti arretrati. E non erano mica pochi. Se si
escludeva matematica - in cui era assolutamente negato -, doveva
studiare venti pagine
di filosofia e altrettante di storia, senza contare poi che gli sarebbe
toccato
scrivere un saggio su ciò che avrebbe letto. Eravamo in
quella
stanza da ore, però, era quasi sera tarda e
ancora nessun risultato.
Dopo un lungo sospiro, incrociai le
braccia al petto,
osservandolo mentre continuava a non far niente, sbadigliando di tanto
in
tanto. Con la coda dell’occhio guardai Edward che, subito
tirato
fuori da quell’intoppo, se ne stava comodamente sdraiato sul
divano, immerso
nella lettura di uno dei suoi libri. Riportai la mia attenzione su
Jason, che mi lanciò a sua
volta un’occhiata, reggendosi il volto sul dorso della mano.
Annoiato al massimo,
abbandonò la penna per allungare
pigramente un braccio verso la busta di patatine che stava consumando,
prendendone una e sgranocchiandola. Inghiottendo, mi guardò
ancora, imbronciato. «Per te è diverso,
‘Ka-san,
queste cose
le hai studiate quand’eri giovane»,
fece ironico, prendendo un’altra patatina con non curanza.
Inarcai maggiormente un sopracciglio,
poggiando i gomiti sul
bordo della scrivania. «Solleva ancora una volta
l’argomento
“età” e ti lascio qui a studiare da
solo,
così ti becchi un bel non classificato anche in queste due
materie, uhm?»
replicai, sfoggiando uno dei miei miglior sorrisi.
Lasciò cadere la patatina che
aveva preso, spalancando la
bocca. «Ma questo è un ricatto!»
esclamò incredulo, richiamando l’attenzione di
Edward. Proprio lui ci guardò, abbassando di poco sul naso
gli
occhiali da lettura. Anche una delle sue sopracciglia bionde era
inarcata con
scetticismo.
«Jaz, mettiti a
studiare», disse, con il tono
più normale e tranquillo che
riuscì a trovare, prima di voltarsi verso di me.
«E tu, Roy, finiscila di
istigarlo e aiutalo». Dettato questo suo semplice ma
imperativo
comando, si drizzò
a sedere sul divano chiudendo di poco il libro, alzandosi poi per
dirigersi
verso di me e scoccarmi un bacio a timbro sulle labbra.
«Quando
avete finito ti aspetto di
là», mormorò, allusivo e sorridente,
dando
poi una pacca a Jaz, come se in quel modo volesse dargli manforte.
Distratto, poi, agitò il libro, uscendo dalla biblioteca per
lasciarci soli nei nostri studi.
Jason sbuffò ancora, chinando
afflitto il capo, con il mento
poggiato sui molteplici fogli che ingombravano la scrivania.
«Non finirò mai», si lagnò
con voce infantile, allungando nuovamente una mano
verso la busta di patatine. Ma prima che potesse prenderne una,
l’afferrai spostandola
lontano dalla sua portata. Ci guadagnai così
un’occhiataccia, prima che si
tirasse su a
sedere. Picchiettò il legno con un dito, gli occhi azzurri
ridotti a
due fessure. «Senza quelle non studio», disse con
voce neutra ma
decisa.
Per tutta risposta, posai la busta poco
lontano. «Non studiare e fatti bocciare, poi ne
riparliamo»,
replicai.
«Se mi bocciano,
‘To-san darà la colpa a
te», ribatté convinto, come per avere
l’ultima parola. «E ti negherà il
sesso».
Ecco, quella era una cosa che non volevo
accadesse. Assottigliai
lo sguardo, quasi grugnendo. «Finisci filosofia»,
rimbeccai
di rimando, senza voler sentir
ragioni. «Altrimenti non saranno
solo queste
patatine ad esserti
negate, ma anche altre».
Cogliendo la sfumatura fra le righe,
spalancò ancor
più
incredulo la bocca, sgranando gli occhi. «Ma
perché usi sempre lo stesso
ricatto!» urlò, battendo un pugno sul
bordo
del tavolo.
«Uso solo la tua stessa
moneta», la buttai
lì tranquillissimo.
«E’ una mossa
vile!»
«Anche la tua».
«Ahhhh! Non riesco nemmeno a
risponderti a tono dopo tutto
questo tempo perso
sui libri!» Frustrato, si passò freneticamente
entrambe le
mani fra i
capelli scuri, scompigliandoli vigorosamente e lasciando che alcune
ciocche gli
cadessero a nascondere il viso. Conciato in quel modo, ricordava
vagamente un pulcino spellacchiato. «‘Sto quinto
anno
è cominciato uno
schifo!»
Non riuscii a soffocare una risatina,
riprendendo distratto
il suo quaderno degli appunti. Aperto, ripresi a leggere in mente il
problema di matematica, guardando
poi lui. «Prendi la penna e muoviti a togliere di
mezzo almeno
matematica», dissi,
trattenendo un sonoro sbadiglio. Doveva fare una sola cosa, in quella
materia, e ancora non
l’aveva cominciata. Aveva solo scritto un paio di appunti di
filosofia, ma non
più di tanto. E dopo mi sarebbe toccato dettargli anche la
fine prima di
passare a quella dannatissima materia che era storia, anche se non mi
aveva
voluto dire l’argomento.
Lo vidi accantonare per poco la sua aria
da cane bastonato
per allungarsi nullafacente verso la penna, quasi prendendola a
moviola. Quando si fu finalmente sistemato e munito di stilografica,
mi lanciò uno sguardo che poteva significare tutto,
aspettando che gli esponessi
il problema. Trassi un profondo respiro, sperando che almeno quello che
lo saremmo tolto di mezzo in fretta. «Allora. Ascoltami
attentamente perché non
ripeto», cominciai, poggiando la
schiena alla sedia. «Se una casa editrice deve spendere
60.000 Cens di spese
fisse per produrre un libro, aggiungendoci anche 800 Cens per la carta,
e ogni
copia non deve superare i 1.000 Cens, quante copie del libro devono
stampare?»
Mi guardò stranito, come se
avessi parlato
un’altra lingua. Aveva persino la penna sospesa a
mezz’aria, sopra al foglio
completamente bianco. Non aveva scritto niente. «Che diavolo
è ‘sto coso?» mi
domandò allibito, sbattendo più volte le
palpebre. Inutile, era un caso disperato...
Trattenendomi dal lasciarmi sfuggire un
lamento, mi coprii gli
occhi con una mano, scuotendo avvilito la testa.
«L’argomento che state studiando»,
ribattei sarcastico, guardandolo poi
attraverso la fessura delle dita. «Le disequazioni, hai
presente?»
Scosse la testa con quella sua solita
espressione innocente
dipinta in volto, gli occhi azzurri esprimevano tutta la sua
sincerità. Non aveva minimamente idea di cosa stessi
parlando,
perfetto. Cominciai, pazientemente, a spiegargli tutto dal principio,
anche come dover svolgere cose molto più semplici del
banalissimo problema che
gli avevo esposto. Ma, dopo una mezz’oretta circa, quasi
stavo
per lanciare un
urlo frustrato. Glielo rispiegai ancora e ancora, finché
finalmente,
alzò un
indice e prese la penna, cominciando a scribacchiare qualcosa sul suo
foglio. Poi me lo porse con un sorriso compiaciuto, incrociando le
braccia al petto.
«Adesso non ho
sbagliato», disse gongolante, e
mentre io ero concentrato a
leggere quell’inguacchio che inchiostrava il foglio, lui
allungò una mano verso
la busta di patatine che avevo abbandonato poco lontano,
arraffandosela. Beh, almeno aveva capito sul serio...
Lo guardai mangiucchiare, prima di
porgerglielo nuovamente. «Leggimi che hai scritto»,
feci tranquillo.
Lui abbandonò per un attimo
la busta ma, sgranocchiando,
riprese il foglio mantenendolo dinnanzi agli occhi con due dita per
poter
leggere. «60.000+800x < 1.000x.»
bofonchiò
quasi con la bocca piena, continuando
svogliato. «60.000 < -800x+1.000x, che diventa poi
60.000 < -200x. Il
risultato è x > di 60.000 fratto -200,
cioè 300 copie. Adesso leviamo di
mezzo questa insulsa materia?» soggiunse spazientito,
prendendo ancora una
volta una patatina per mangiarsela al volo, prima che gli soffiassi
nuovamente
la busta.
«Almeno hai capito bene quello
che hai detto e il
procedimento da svolgere?»
domandai ancora, puntiglioso.
Se avesse nuovamente preso un non
classificato, ci avrei
rimesso ancora una volta io. «Ho capito, ‘Ka-san,
finiamo storia e filosofia
piuttosto, ho sonno!» si
lagnò come un poppante, abbandonando entrambe le braccia in
avanti.
Non volendolo sentire oltre lo
accontentai, prendendo il suo
libro di testo e voltando le pagine alla ricerca
dell’argomento che avrebbe
dovuto studiare. Cominciai a dettarglielo, assonnato quasi quanto lui
mentre
di tanto in tanto mi concentravo sulla stilografica che reggeva e che,
lentamente, scorreva sul foglio, lasciando che la scrittura fluida di
Jason lo
riempisse. Se ne andarono, credo, altri quarantacinque minuti. E non
perché l’argomento fosse lungo, non
c’era poi molto da
dire su Pitagora, ma perché, puntualmente, mi interrompeva
per filare in bagno,
per andare a prendersi un bicchiere d’acqua oppure
un’altra busta di
patatine. Dire quindi che mi ero quasi spazientito era un eufemismo.
Ero letteralmente sull’orlo di una crisi di nervi.
Quando finimmo anche quello, concentrai
la mia attenzione
sul libro di storia, allungando un braccio per afferrarlo e girare,
altrettanto
svogliato, le pagine. «Che argomento vi tocca studiare,
stavolta?» chiesi
distratto, leggendo e non i
titoli d’intestazione.
Non parlò limitandosi a
guardare come se fosse estremamente
interessato le venature della scrivania, evitando così il
mio sguardo. Inarcai un sopracciglio a quel suo modo di fare, prendendo
il suo quaderno degli appunti per colpirlo in testa con quello.
«Ahia!» esclamò, massaggiandosi offeso
il capo. «Che ho
fatto adesso!»
Lasciai cadere il quaderno sulla
scrivania, guardando
scettico il suo volto. «Come ti aiuto in storia se non mi
dici
l’argomento?» gli tenni presente in
tono esageratamente ironico, ma lui, a quelle mie parole, si
grattò distratto
la testa. Forse a disagio, si massaggiò la spalla, guardando
altrove. Poi, con la penna ben impugnata e senza degnarmi della
minima attenzione, prese il foglio scrivendo il titolo del tema con la
sua
grafia ordinata ma alquanto insicura. Lo girò in modo che
leggessi, ma non disse una parola. E quando lo feci, poggiai entrambe
le mani sul bordo del
tavolo con una tale violenza che lui sussultò, osservandomi
smarrito con i suoi
occhi azzurri, mentre mi alzavo per dirigermi verso la soglia.
«Con quell’argomento non ti aiuto, preferisco che
ti becchi un’insufficienza»,
sbottai innervosito, uscendo del tutto dalla biblioteca con al seguito
le sue
proteste. Ma non gli badai, andandomene in cucina. Piuttosto che
mettere nero su bianco quelle esperienze,
avrei davvero voluto che avesse un non classificato completo anche in
storia. Non gli avevo mai negato nessun racconto quando
all’occorrenza
me li chiedeva, ma con quello non ci sarei assolutamente riuscito.
A distrarmi, mentre prendevo un
bicchiere dalla credenza per
riempirlo di whisky, fu la sua presenza incerta sulla soglia, titubante
e
silenziosa. Mi versai il liquore che avevo appena recuperato,
voltandomi
verso di lui. Era mesto e imbronciato, vagamente intristito.
«Perché non vuoi mai parlare della guerra
d’Ishvar?» mi domandò flebile,
mordendosi immediatamente il labbro inferiore come se volesse
rimangiarsi
quello che aveva chiesto.
Io, d’altro canto, non
risposi. Ero passato dallo stato di tranquilla pigrizia domenicale a
quello d’incazzatura totale in poco tempo. Ma chiunque,
probabilmente, avrebbe avuto la mia stessa
reazione. «Perché quella non è stata
una guerra,
è stato un massacro», ribattei schietto,
con le mani abbandonate sul bordo del lavandino, lo sguardo puntato sul
bicchiere pieno a metà che avevo appena posato.
Calò un silenzio carico
d’attesa, subito dopo.
Anche la presenza di Jason era quasi diventata assente.
Finché
non decisi di voltarmi verso di lui a braccia
conserte, incamminandomi verso il tavolino al centro della cucina e
spostando
la sedia prima di accomodarmi. Con i pugni chiusi sulle cosce lo
guardai, cercando di
decifrare la sua espressione. «Scrivi solo questo sul tuo
tema», ripresi, forse
più nervoso di quanto avessi
voluto sembrare. «Puoi anche sorvolare le cause».
«Se non vuoi parlarmene tu lo
chiederò
ai tuoi commilitoni», replicò altrettanto duro,
sfidandomi con lo sguardo. «Anche
se preferirei che fosse mio padre a
spiegarmi cosa accadde».
Per parecchio non fiatammo, concentrato
ognuno sugli occhi
dell’altro. Lui si era persino avvicinato e seduto al tavolo,
abbandonando fogli e penne su di esso per squadrarmi attentamente, come
se
temesse che potessi sgusciare via. E l’avrei sicuramente
fatto, se quegli occhi agguerriti non
mi avessero incatenato al suo sguardo. Mi arresi all’evidenza
non più di una quindicina
di minuti
dopo. Aveva continuato a guardarmi per tutto il tempo, senza
battere ciglio.
Imbestialito o quasi, serrai la
mascella, lanciandogli
un’occhiata
in cagnesco. «Se te ne parlo devi farmi la cortesia di non
chiedermi
più
nulla», misi a condizione, sperando che capisse, almeno in
parte, quanto mi costasse
raccontarlo. E fortunatamente, in tacito silenzio, annuì,
mettendo mano
alla penna. Ripiombai in quei giorni, mentre gli raccontavo le cause
dello scoppio della guerra, il disfacimento che l’esercito
aveva portato nei
suoi primi anni fino all’utilizzo di noi Alchimisti di Stato,
spediti sul campo
di battaglia alla stregua di vere e proprie armi. Non mi
sfuggì il suo improvviso sussulto, a quella
rivelazione. E nemmeno l’espressione che aveva assunto il suo
volto
quando continuai. Fu quasi con un certo rammarico che, una volta che
tacqui,
cominciò a scrivere sotto forma di tema gli appunti che
aveva preso, in emerito
silenzio. Così in silenzio che, per molto, sentii solo il
graffiare
della penna che scorreva sul foglio.
Quando concluse, lo piegò di
lungo e ci scrisse nome e
cognome, evitando ancora di guardarmi. «Grazie,
‘Ka-san»,
mormorò, con quel tono dispiaciuto che usava quando,
ancora bambino, veniva a chiedere scusa per una marachella commessa.
Non volendo sollevare questioni agitai
una mano, alzandomi
per tornare al lavello, dove mi aspettava ancora il bicchiere di
liquore. Lo presi bevendone giusto un sorso, vedendo distrattamente,
con la coda dell’occhio, Jason alzarsi per andarsene, diretto
forse alla
biblioteca che era ormai la sua stanza. Quando mi voltai,
però,
rimasi stupito. Sul tavolino, fra i fogli bianchi, c’era il
suo
tema e,
accanto, un altro foglio sul quale era abbandonata la penna, con la
quale aveva
finito di scrivere quel piccolo messaggio che stavo leggendo in quel
momento.
“Se ti fa star male preferisco
un’insufficienza.” C’era scritto a
lettere cubitali.
Ma fu quando lessi la scritta più piccola che mi sentii
invaso da quella che forse era tristezza. O, più
semplicemente,
orgoglio
paterno. E quella che mi infastidì gli angoli degli occhi,
forse, fu
una lacrima. “Va tutto sepolto nel passato”.
_Note inconcludenti dell'autrice
Questa era
una di quelle storie un po' malinconiche che avevo dimenticato nel mio
piccolo archivio personale
Come si può immediatamente notare, la storia ad un certo
punto
ruota intorno alla guerra di Ishvar, poiché ho pensato che
essa
potesse essere un avvenimento importante nella storia di Amestris e
che, a distanza di anni, potesse essere inserita nelle sedi
scolastiche, un po' come la prima e la seconda guerra mondiale quando
si tratta di guerre significative per quel che riguarda il nostro mondo.
Diciamo più che altro che volevo che Roy e Jaz affrontassero
quest'argomento, difatti ho fatto in modo che Edward se ne andasse
altrove e attendesse il suo compagno. Ogni tanto un pizzico di
malinconia ci vuole, suppongo
Commenti e
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Capitolo 7 *** #07. Farfalla ~ Disguidi insensati del giorno dopo ***
Disguidi insensati del giorno dopo
Titolo: Disguidi
insensati del giorno dopo
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
1612 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Tabella/Prompt: Animali
› 07. Farfalla
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai,
What if?
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Il
vento
infuriava fuori fra le vie, uggiolando negli anfratti dei vicoli e
sferzando con la sua potenza le rade fronde degli alberi, le cui foglie
autunnali si sarebbero sicuramente staccate dai rami per mulinare
lontano, accompagnando la pioggia scrosciante che picchiava contro i
vetri della mia finestra.
Avvolto nel mite tepore delle lenzuola,
in un stato di
dormiveglia appagante, sfregavo in continuazione il viso contro il
cuscino,
nel tentativo di riscaldare il naso, mentre
ascoltavo il
rumore delle porte chiuse che sbattevano appena e il tamburellare delle
gocce sul tetto. Con gli
occhi ancora categoricamente chiusi e pesanti, mi accorsi poco
a poco di star abbracciando qualcosa di molto morbido, ma non vi
prestai attenzione più di tanto, pensando che, come
mio
solito, avessi capovolto l'altro cuscino di piume d'oca ritrovandolo al
mio fianco, usandolo un po' a mo' di pupazzo. Però, pian
piano, tutto stava acquistando maggior consistenza, e dovetti
ammettere che per essere un cuscino era ben modellato. Fin
troppo modellato, avrei osato aggiungere.
La mia mano vagò in rassegna
di quell'oggetto
lentamente, come se cercassi di capire con esattezza cosa fosse, e fu
proprio per tentare di far chiarezza nei miei dubbi che aprii piano gli
occhi velati di sonno solo per scorgere un baluginio
dorato offuscarmi leggermente la vista. E mi ritrovai a fare i conti
con la
dura realtà. Specialmente quando mi accorsi
dove si era fermata la mia mano e cosa stava
toccando. Non ebbi il tempo di ritrarla di scatto che un pugno
d'acciaio,
lanciato contro di me a tutta velocità come se si fosse
trattato di un treno in corsa, mi centrò
in
pieno una guancia, quasi facendomi ritrovare ai piedi del letto.
Le polle d'ambra di Acciaio, luccicanti
e fiammeggianti d'ira, mi osservavano
con tutto il disprezzo che fosse mai stato possibile.
«Dovevo
immaginarlo che non sarebbe stato di parola!» mi
accusò
iracondo, puntandomi con fare minaccioso l'indice contro. «Voleva
approfittare di me mentre dormivo, razza di pedofilo
depravato!?»
Spiazzato e boccheggiante, intontito per
il sonno e per il colpo
che mi era stato appioppato, non sapevo né cosa dire in mia
difesa
né tanto meno riuscire a fare qualcosa per calmare la sua
rabbia, che sembrava insormontabile. Dormivo, l'avevo toccato
accidentalmente. Come spesso mi capitava, difatti,
dimenticavo in che luogo mi
addormentavo e, cosa molto più importante, con chi. Ma era
da più o meno due anni che non mi ritrovavo in un
letto
con qualcuno, più che plausibile quindi che non ne fossi
più abituato. Deglutendo senza distogliere lo sguardo da
quelle iridi dorate ardenti
di collera, mi rimisi in piedi portandomi una mano alla guancia, che mi
pulsava in maniera spropositata per il colpo ricevuto. Ne aveva di
forza, quel soldo di cacio. «Senti,
lasciami spiegare, Acciaio», provai, alzando subito le
braccia per rendere veritiera
la mia resa e il mio addio
alle armi.
Lui, però, stizzito come non
mai, trasmutò il suo auto-mail e,
senza minimamente pensarci due volte, mi puntò con foga la
lama d'acciaio alla gola. «Non
c'è nulla da spiegare!» sbraitò, il
corpo scosso
dalla rabbia, dimentico che ci trovavamo in un motel dove avrebbe
potuto sentirci chiunque in qualsiasi momento. «Mi
ha palpato ben
bene! Dopo che aveva giurato che non mi avrebbe toccato!»
E sei anche ben fornito,
evitai di dirgli, per non alimentare la sua ira. Non sarebbe risultato
un complimento, in quel momento esatto. Così, accordai con
me
stesso un'altra inutile scusante.
«E'
un banalissimo equivoco», cercai ancora una volta di
spiegargli, ma il suo sguardo di fuoco mi bloccò,
così
come il rombo di un tuono che, come se avesse seguito la sua collera,
squarciò il cielo.
Il suo volto diventava man mano sempre
più rosso, mentre
indietreggiava sul materasso.
«Per
lei è
banale, forse!» ribadì a voce sempre
più alta,
scansando così velocemente la lama che mancò poco
che mi
colpisse tagliandomi la gola.
«Sono i
miei gioielli
quelli che ha toccato, porco!»
La questione stava prendendo una piega
un pp' troppo
imprevista. E anche la sua spropositata presa
di posizione per quella faccenda, stava degenerando
sempre più.
«Cerca di
darti una calmata», dissi in tono basso, ponendo entrambe
le mani in avanti.
«Ritrasmuta
il tuo auto-mail
e siediti, per favore».
Lo vedevo distintamente tremare, anche
se non capivo se fosse per
rabbia o per altro, mentre la lama d'acciaio tentennava. Aveva il
respiro velocizzato e si mordeva violentemente il labbro
inferiore, quasi facendolo sanguinare per come stringeva i denti. Piano
poi, molto piano,
abbassò la lama quando
battè le
mani, riportando il braccio al suo stato normale mentre si lasciava
cadere in ginocchio sul materasso, seduto sulle proprie gambe. Evitava
di guardarmi, per imbarazzo o per disagio, era difficile da
stabilire.
Sospirando rasserenato per il momento di
quiete che mi stava
concedendo, mi sedetti sul bordo del materasso, lanciandogli
un'occhiata di sottecchi. «Adesso
vuoi ascoltarmi?» gli domandai con voce piatta, vedendolo
distogliere maggiormente lo sguardo, quasi fosse offeso. Ma
annuì svogliato, senza arrischiarsi ad incrociare i miei
occhi.
«Giuro
sul mio onore, Acciaio, che non volevo», eloquii pacato,
spostandomi appena verso di lui per avvicinarmi un
po'.
«Mi
ero dimenticato di non essere solo, pensavo fossi nel mio
letto».
«Sa
quanto le credo», borbottò subito a bassa voce,
continuando cocciuto a tenermi il muso con lo sguardo puntato verso il
muro.
«Puoi
credermi come non farlo», dissi saccente, alzando lo sguardo
al
soffitto inumidito della stanza, incrociando poi le gambe sul
materasso. «Continuare
a insistere sulla mia
innocenza sarebbe esattamente come gettare benzina sul
fuoco».
Per un bel po' di tempo, né
io né lui
parlammo, a
riempire quel vuoto e il silenzio imbarazzato che si era creato fra noi
c'era soltanto l'insistente scrosciare della pioggia sulle tegole del
tetto del motel. Poi, sebbene non me lo aspettassi, lui mi
lanciò un'occhiata
che
colsi con la coda dell'occhio, e lo vidi massaggiarsi distrattamente il
braccio sinistro, come se gli facesse male. «Ho
esagerato, mi scusi», bofonchiò sulla difensiva, e
sul suo
volto
si
dipinse la tipica espressione di chi era costretto ad inghiottire
contro voglia un rospo. E letteralmente, c'era da aggiungere. Era raro,
difatti, che chiedesse scusa per qualcosa. Specialmente a me.
Riabbassai completamente lo sguardo per
osservarlo meglio, trovandolo
contrariato. «Mi
spieghi
che t'è preso?» gli chiesi, e lui
sussultò, quasi a disagio. Ancora una volta si
massaggiò
il braccio, cominciando
nervosamente a stuzzicarsi la carne del labbro inferiore con i denti.
Mi lanciò un'occhiata, le guance imporporate di rosso mentre
lasciava ricadere entrambe le braccia in grembo, grattandosi poi
distratto una coscia.
«Non lo
so», mormorò, lo sciabordio quasi
coprì il suo sussurro. «E'
che... è stato strano,
ecco». Poi, come se si fosse reso conto che ciò
che aveva detto era
stupido, si sbatté una mano sulla fronte, scuotendo la
testa. «Cioè,
so che in certi
contesti si hanno... come dire... delle reazioni ma... non
pensavo che...» si interruppe per scuotere ancora una volta
la testa, rosso in volto. «Lasci
perdere, Taisa»,
soggiunse
sottovoce, le bionde sopracciglia corrugate in un'espressione quasi
rammaricata.
Dal canto mio, cercavo di capirci
qualcosa. Mi aveva aggredito
a quel modo... perché aveva paura di cosa? Che potesse
eccitarsi? O la mia mente deviata
aveva interpretato male le sue parole? Il tarlo del dubbio mi fece
aggrottare la fronte, ma non osai
chiedergli altro per il timore della sua lama d'acciaio nuovamente alla
gola. Me lo sarei domandato a lungo il perché, supposi.
Vidi distrattamente Acciaio portarsi
dietro alle spalle i
capelli che
aveva lasciato sciolti la sera addietro, poi, sollevando un
sopracciglio, mi osservò con una strana espressione. Si
lasciò sfuggire una piccola risata. Né divertita
né triste. Solo non entusiasta.
«Spesso
mi comporto da stupido, vero?» disse di punto in bianco, con
un
tono di voce che sembrava cercasse conferma da me. Non sapendo cosa
dire, mi limitai a sbattere le palpebre perplesso. Lui si
grattò
non curante dietro al collo, gattonando a
ritroso
per poggiare i piedi sul pavimento, oltre il bordo del letto. Mi
guardò, con un sorrisetto privo di ogni sfumatura. «Credo
di aver capito perché ha tanta fama con le donne,
Taisa»,
il sorriso d'un tratto si accentuò, acquistando
tonalità
e sarcasmo. «Con
un semplice tocco manda in panne il cervello».
Dandomi le spalle, recuperò la sua giacca dal comodino e se
la
infilò, sistemandosi il colletto prima di guardarmi di nuovo.
«Mi sono sentito un po'», si
fermò, come a voler cercare le parole adatte, «colto
di sorpresa e mi è andato il sangue alla testa, visto che
non
sono abituato... oltretutto, ha delle mani molto calde»,
soggiunse quasi pensoso, distogliendo non curante lo sguardo.
Io, frattanto, cercavo di razionalizzare
ogni pensiero che mi
gironzolava per la testa senza che ci fosse un filo unico che li
connettesse tutti. Dapprima la sua rabbia, poi il suo imbarazzo. Adesso
era ironia, o complimenti? Non sarei mai riuscito a capire quel mistero
che era per me Edward
Elric, l'Alchimista d'Acciaio. Scuotendo la testa mi alzai a mia volta
per recuperare la mia camicia e
gli stivali, rivestendomi più in fretta che potei. E tutto
con
lui voltato da un'altra parte. Deciso più che mai a porre
fine
alla questione, mi avvicinai
a lui arrischiandomi a cingergli le spalle, riuscendo persino a sentire
il battito del suo cuore come se si fosse trattato di una farfalla
intrappolata nelle mie mani. Ci guadagnai un'occhiata, ma sollevai
appena le sopracciglia
prima di socchiudere gli occhi e sorridere mesto.
«Credo
sia ora di tornare a casa, aye?» la buttai poi lì
quasi distrattamente, mollandolo per
incamminarmi.
Dopo poco, però, lo sentii al
mio fianco, la sua aria allegra
e serena era tornata vivace sul suo volto. E mi sorrise con fare
sarcastico, forse persino con un velo d'imbarazzo. «La
prossima volta lo scelgo io il motel».
_Note inconcludenti dell'autrice
Questa
storia si colloca subito dopo il capitolo quattordici della raccolta
Hearts
Burst Into Fire, ovvero quando
Roy e Edward si ritrovano a dormire nel motel dopo essersi dichiarati
in un certo senso i loro sentimenti
Come le precedenti, questa storia è parecchio vecchiotta, e
ci
ho dovuto mettere un po' mano per sistemarla come si conveniva, date le
virgole fuggite in ogni dove
Era un peccato lasciare a marcire queste storie dentro l'archivio del
mio computer, però, così ho voluto postarle una
volta per
tutte prima di completare tutte le storie che mi restano da finire
Proverò, comunque, a scrivere qualcosa di nuovo prima della
conclusione di questa raccolta, dato che ne ho assoluto bisogno
Commenti e
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prossima.
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Capitolo 8 *** #08. Pecora ~ Battute ambigue e cavalli imbarazzati ***
Battute ambigue e cavalli imbarazzati
Titolo: Battute
ambigue e cavalli imbarazzati
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
1041 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Maes Hughes, Jean Havoc
Tabella/Prompt: Animali
› 08. Pecora
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai,
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
«Sa,
Colonnello, ancora non riesco a crederci!» esclamò
di
punto in bianco Havoc, alzando un tantino la voce per sovrastare il
baccano che quella sera si era creato nel locale.
Io, lui e Maes eravamo usciti per bere
qualcosa, una serata fra
amici - così l'avevano definita loro, almeno -
e, essendo solo a casa poiché Edward era nuovamente dovuto
tornare a Reesembool per la riparazione del suo auto-mail - con il
quale, a causa della
scarsa manutenzione che faceva, aveva quasi rischiato di castrarmi -
mi ero ritrovato a seguirli per passare un po' di tempo in
compagnia, dato che non c'era nemmeno Jaz. Ormai aveva una lista di
ragazze lunga un chilometro, e quasi ogni sera usciva con una diversa,
fregandomi soldi per pagare le sue serate grazie alla sua aria da
cucciolo bastonato. Ero un cretino che ci cascava sempre, insomma.
A quei miei stessi pensieri, scossi il
capo, bevendo un lungo sorso di whisky prima di
rispondere ad Havoc.
«Non riesci a credere a cosa, esattamente?» chiesi
di rimando con fare sarcastico, approfittando del fatto
che
il trambusto si era bene o male calmato, sebbene il vociare fosse
ancora parecchio alto.
Lui si sfregò una mano sulla
fronte, gettando uno sguardo a
me e a Maes. «Nulla,
Colonnello, pensavo a lei e a Edward», mi informò,
riempiendosi il bicchiere per osservare poi il liquore ondeggiare al
suo interno.
«Era da un bel po' che volevo chiedervelo... voi
due
eravate come cane e gatto, come diavolo avete fatto a trovarvi... fidanzati?»
A quella domanda innocente, non fui io a
ridere, bensì Maes, seduto al mio
fianco. Guardando con un cipiglio ironico Havoc, diede a me una pacca
sulla
schiena, cingendomi le spalle con un braccio. «Coraggio,
illuminaci,
Flame Alchemist!» esclamò divertito, allungando
l'altro
braccio per prendere il suo bicchiere di whisky e bere giusto un sorso.
«Come
se tu non lo sapessi», replicai, inarcando un sopracciglio e
scorgendo un sorriso sulle labbra sue e quelle di Havoc, seduto di
fronte a noi mentre si rigirava di tanto in tanto il suo bicchiere fra
le mani e guardava poi gli altri clienti con finto interesse.
«Ma lui non lo sa», mi tenne presente Maes in tono
ilare,
indicando distrattamente Jean con un cenno del capo. «Ed
è più che logico che sia curioso, non ti
pare?»
Sentendo lo sguardo di entrambi puntato
addosso, mi ritrovai a
sospirare, probabilmente persino affranto, sapendo bene che non c'era
modo di controbattere,
con loro. Li conoscevo da troppi anni per credere che me la lasciassero
passare liscia, e Maes, quando voleva sapere qualcosa, riusciva sempre
a cavare un ragno dal buco. Bene o male, infatti, era capace di farmi
parlare anche contro voglia. «Beh»,
borbottai grattandomi la testa, non sapevo bene da
dove cominciare. «All'inizio
era insopportabile, lo ammetto». Mi ritrovai a sorridere al
ricordo di quei tempi, in cui aveva solo dodici anni e aveva appena
superato l'esame per diventare alchimista.
«Tentava sempre di ribattere i miei ordini, e non ne voleva
quasi
mai sapere di ubbidire». Vidi Havoc che mi osservava, quasi
curioso di sapere cosa avessi detto adesso. Impacciato e quasi nervoso
dalla loro attenzione, allungai distratto
una mano ad accarezzare il bordo del mio bicchiere con la punta delle
dita, senza smettere di sorridere. Era strano quel mio modo di
comportarmi, certo. Ma ero innamorato, che potevo farci. «Pian
piano, ho imparato a conoscerlo», continuai quasi
inconsciamente,
inclinando la testa di lato, mentre continuavo a giocherellare con il
bicchiere.
«E, conoscendolo, alla fine ci sono cascato con tutte le
scarpe e me ne sono innamorato come un ragazzino».
Sentii Havoc battere piano le mani e
fischiare ilare, e,
riscuotendomi, alzai lo sguardo
per osservarlo, vedendo il suo volto profondamente colpito, come se da
me, parole del genere, non se le sarebbe aspettate. Al mio fianco
invece, Maes non la smetteva, per qualche oscuro motivo, di
sghignazzare. «Davvero
toccante, Colonnello, e non scherzo», disse
Jean, con voce estremamente seria. O probabilmente era capace di
camuffare troppo bene l'ilarità che riuscivo benissimo a
leggere
sul suo viso. «Ho
sempre pensato che fosse un libertino senza speranza, e
invece!»
Sollevai di poco un sopraccigliom fissandolo con attenzione.
«Lieto
di sapere, allora, che hai riesaminato il tuo punto di
vista»,
replicai sarcastico, senza però potermi evitare di
sorridere, quasi
compiaciuto da quell'apprezzamento.
«Che
bella cosa, l'amore!» esclamò Maes, e voltandomi
verso di
lui con un sopracciglio inarcato, lo vidi portarsi teatralmente una
mano al petto. «Così
caldo, passionale!» Mi lanciò una rapida occhiata
divertita, per
poi guardare Havoc e indicare invece me con il pollice della destra.
«Pensa che questo scemo non si era ancora deciso a sfondare con il suo
carroarmato le linee nemiche!»
A quelle sue parole, io arrossii tutto
d'un botto nel sentirli ridere
al contempo, forse per la mia espressione più che
imbarazzata. Ma erano cose da dire, così, su due piedi?! E
mentre parlavamo di cose per me serie,
tra l'altro?! Imbarazzato ai limiti dell'impossibile, gli assestai una
poderosa pacca
sulla schiena facendolo quasi accasciare in avanti sul tavolino tanto
era stata forte, mentre sghignazzava ancora.
«Scusa,
eh, ma potevi evitartela, quella sparata!» esclamai offeso,
vedendolo voltarsi verso di me con le lacrime agli occhi per il troppo
ridere.
«Andiamo,
Roy, da uno come te non era una cosa che ci si aspettava!»
rimbeccò tra uno scoppio di risa e l'altro. Si tolse
gli occhiali, passandosi con non curanza sulle guance il dorso
della mano, prima di risistemarseli sul naso con uno sbuffo divertito. «Pensavamo
che ti saresti mangiato la pecorella in un attimo, dato che sei sempre
stato un lupo famelico!» continuò, scoppiando
nuovamente a
ridere senza controllo. Di fronte
a me, Havoc se n'era approfittato per accendere una
sigaretta, nonostante fosse vietato fumare in quel locale. Ma va a dire
ad uno come lui Non
fumare...
«Suvvia, Colonnello, è
normale»,
replicò divertito, tirando una bella boccata. «Non
ha detto nulla di male, in fondo», continuò,
facendo cadere la cenere dentro al bicchiere. «Ormai
la bandiera l'ha
piantata, non c'è nulla di cui vergognarsi,
arrivati a questo punto!»
Sentii una vena pulsarmi sulla tempia
alle loro battutine ironiche e
alle risate e gli sbuffi divertiti che si lasciavano sfuggire quando mi
gettavano uno sguardo. Aye, avevo deciso. Con quei
due, non sarei più andato nemmeno a bere un
caffé!
_Note inconcludenti dell'autrice
Questa
storia è talmente vecchia e assurda che me ne ero quasi
dimenticata.
In verità in archivio ho ancora un casino di storielle che,
per
un motivo o per un altro, non ho postato per niente, ma non credo che
comincerò una nuova raccolta per postarle, anche se non si
può mai sapere.
Quel che è certo, però, è che
una volta
terminata questa raccolta mi dedicherò alle storie in
sospeso,
dunque spero che mi seguirete anche lì, in un modo o
nell'altro.
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Capitolo 9 *** #04. Panda ~ Fever (or maybe bot) ***
Fever (or maybe not)
Titolo: Fever (or
maybe not)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[
602 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Tabella/Prompt: Animali
› 04. Panda
Genere: Generale,
Sentimentale
; Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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Gli
occhi mi si riaprirono piano, ancora febbricitanti.
Sul lavoro mi ero beccato una brutta
influenza, e mi ero
subito
rintanato sotto le coperte una volta sfilata l'uniforme. In un primo
momento, Riza aveva creduto che quella fosse una mia nuova trovata per
evitare le scartoffie e filarmela a casa senza fare niente, ma, quando
era quasi crollato sulla scrivania, con le guance in fiamme e il
respiro ansimante, si era avvicinata preoccupata e mi aveva poggiato
una mano sulla fronte, costatando allarmata che non mentivo come aveva
creduto. Beh, di tanto in tanto anche io non dicevo bugie per scappare
dal lavoro, a quanto sembrava.
Per non rischiare di contagiare anche
Edward con la febbre,
comunque, non avevo
nemmeno potuto salutarlo come si conveniva, neanche da parte di Maes.
Ci aveva pensato Jaz a farlo al mio posto, filandosela poi il
più in fretta possibile per andare in giro con quell'altro
scavezzacollo del suo migliore amico, Cedric. Due pesti che mi avevano
reso la vita impossibile, se la si voleva mettere su quel piano.
Adesso, steso sul letto con le coperte fin sotto al naso, guardavo il
mio mame-chan
mentre si affaccendava svelto per la stanza, con più
silenzio e
attenzione possibile. Per non svegliarmi, forse. Sorrisi. Tanto ero
già sveglio.
«Ehi, Acciaio», tossichiai, drizzandomi a sedere
sul
materasso con una piccola smorfia. Avevo la testa che mi scoppiava e
non capivo granché di ciò che mi succedeva
intorno, però non potevo di certo restarmene a letto tutto
il giorno... da solo, per giunta. Preferivo andarmene in salotto,
sedermi sul divano e prendermi un bel bicchiere di whisky, per quanto
sapessi che Edward non me l'avrebbe mai permesso.
E proprio lui si voltò
finalmente verso di me,
sollevando un angolo della bocca. «Approfittane
e dormi, Roy», ridacchiò sarcastico, riponendo
nell'armadio a destra
alcune camicie. «Hai
un bel paio di giorni di degenza, meglio non farteli
scappare».
Sorrisi ancora di più, a quel
dire. «Oh...
ho un permesso, quindi?» chiesi, sistemandomi le coperte.
Edward posò un altro paio di
indumenti prima di
sedersi accanto a
me sul materasso. «Esatto,
mo
dubh», rispose, palpandomi la fronte per
controllare la mia temperatura, e mi lasciai cadere con il capo sul
morbido cuscino.
«Posso
sfruttarlo a mo...» starnutii, e lui allontanò la
mano,
osservandomi prima che riprendessi a parlare. «...a
modo mio?»
conclusi con tono malizioso, e lui parve comprendere dove volessi
andare a parare, perché scoppiò a ridere,
divertito.
«Non
approfitterò del tuo corpo malato»,
rimbeccò, facendo sì che
corrugassi appena le sopracciglia.
«A
me sembrava lo definissi salutare»,
feci, con profonda ironia.
Edward mi diede un buffetto sul naso,
costringendomi poi a
sdraiarmi
nuovamente mentre mi rimboccava le coperte.
«Aye, salutare, certo», mormorò
comprensivo. «Ma
non quando sei febbricitante e sembri ragionare con qualcos'altro.
Dovresti anche guardarti allo specchio, hai decisamente un aspetto
orribile», soggiunse in tono ironico.
«Hai
due occhiaie da fare invidia ad un panda».
Sbuffai di rimando e strofinai il naso contro l'orlo del piumone senza
curarmi della sua
nota sarcastica, beandomi del piacevole tepore che la coperta riusciva
a donarmi prima di guardare Edward con fare bambinesco. «Giochiamo
al dottore?» sghignazzai, ricevendo un'occhiata obliqua.
Sotto il mio sguardo a dir poco
accigliato, poi, Acciaio si
sdraiò su un fianco accanto a me, accarezzandomi piano i
capelli, con il volto poggiato sul palmo dell'altra mano. Fu poi scosso
da un accesso di tosse e si liberò delle
scarpe
per infilarsi a sua volta sotto il piumone, strofinando il viso contro
la mia spalla. «Avrei
dovuto dirtelo... anche il dottore è
malato!»
Rimasi a bocca aperta, nel sentirlo, e
per poco non mi
schiaffai una manata in faccia. Se non era ironia quella!
_Note inconcludenti dell'autrice
Alla
fine il giochetto che voleva fare Roy è stato drasticamente
tagliato dal fatto che anche Edward si è ammalato... povero
vecchio Colonnello, non gliene va mai bene una.
Comunque sia, sebbene mi dispiaccia che il fandom sia stato abbandonato
a se stesso e che non ci siano più tutti i lettori di una
volta,
ringrazio chi sta seguendo la raccolta e informo che la prossima
sarà l'ultima storia.
Non sono ancora certa, dunque non ho idea se sarà una storia
già scritta oppure ne scriverò una nuova sul
momento,
però arriverà molto presto, dato che in questo
periodo
sono iper attiva con la scrittura.
Commenti e
critiche sono ben accetti, ovviamente
Alla
prossima.
♥
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alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 10 *** #05. Tartaruga ~ It's the story of my life (Special) ***
It's the story of my life
Titolo: [ Special Chapter ]
It's the story of my life
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
10727 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali
› 05. Tartaruga
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff,
Malinconico
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai,
What if?, Spoiler!, Narrazione al presente, Prima parte raccontata da
un bambino di cinque anni
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
Sono
seduto sul tappeto, tra pupazzi e macchinine, e sulle
gambe ho il mio orsetto, ma mi annoio un po’.
Mi
giro verso il tavolo, dove ‘Ka-san è seduto da
tanto.
Ha
il volto concentrato, mentre la penna che ha in mano va veloce sui
fogli che ha
davanti.
Ormai
è sempre così. Io
gioco da solo e lui lavora.
Mi
mancano quelle volte in cui giocavamo insieme con ‘To-san.
Prima
era tutto diverso.
Quando
gli chiedo perché, ‘Ka-san dice sempre che sono
piccolo per capire bene.
Ma
ho quasi cinque anni, non sono piccolo!
Non
mi dice mai niente.
Anzi,
è raro che parli, certe volte.
Si
siede lì e lavora per ore, concentrato ma triste.
Forse
è perché ‘To-san non
c’è.
Sbuffo
un po’, prendo l’orsetto fra le braccia e corro
verso il tavolo.
«‘Ka-san?» lo chiamo,
tirandogli poi l’orlo della camicia.
Si
gira appena, sistemandosi quei così che chiama occhiali sul
naso prima di
guardarmi con quegli occhi scuri scuri.
Ogni
volta che li vedo, mi sembra di osservare il cielo durante la notte.
Sono
belli, però, mi piacciono.
Anche
se a volte mi fanno un po’ paura.
Mi
arrampico sulla sedia libera, poggiando le braccia sul bordo del tavolo
pieno
di carte.
Curioso,
‘Ka-san solleva un sopracciglio fino. Metto
la testa di lato, imbronciandomi.
«Vuoi
giocare con me ‘Ka-san?»
gli chiedo, abbandonando l’orsacchiotto su uno dei suoi
fogli.
Mi
sorride ancora un po’ triste, allungando una mano per
scompigliarmi i capelli,
rimediandoci da me un piccolo sbuffo contrariato.
Lo
sa che mi da fastidio, ma lo fa sempre.
«Ho
del lavoro arretrato, Jaz», mormora, con la voce dolce che
usava con ‘To-san. «Scusami davvero
piccolo». Dice
sempre così.
Ogni
sera.
Si
mette lì dopo mangiato e lavora.
Non
è giusto, però.
Mi
imbroncio ancora, cercando di farlo sentire in colpa.
«Ma
io mi annoio...»
borbotto, ricevendo un altro suo sguardo scuro.
Sospira.
Quel
sospiro che fa sempre quando non sa che fare.
Lo
vedo abbassare la penna per lasciarla poi sulle carte, su cui vedo
appena uno
di quei disegni che mi piacciono tanto.
Si
scompiglia poi i capelli neri, lasciando la fronte scoperta prima di
togliersi
gli occhiali.
Mormora
qualcosa a bassa voce, e io non lo sento.
E’
una di quelle rare volte in cui parlotta da solo, dicendosi
chissà cosa.
Lo
lascio fare, finché non mi guarda di nuovo.
«Ti
annoi davvero tanto?»
mi chiede, e il suo tono mi sembra quasi dispiaciuto.
Annuisco,
vedendo che si alza per venire più vicino a me.
Istintivamente
allungo le braccia verso di lui, sentendo poi le sue prendermi per
fianchi
prima di mettermi in piedi sulla sedia e prendermi in braccio.
Strofino
il viso contro la sua spalla, sentendola calda.
Anche
se è estate, come dice lui, è piacevole.
Anche
le volte in cui mi prende in braccio sono rare, e quando posso me le
godo.
«Scusami,
Jaz»,
mi dice ancora, baciandomi la testa. «In questo periodo sono
stato occupato e
non mi sono preoccupato molto di te. Sono una pessima mamma».
Lo
dice con un tono che sembra voler far ridere, ma lo guardo triste.
E’
vero che è sempre stato a lavoro.
Ma
non è una pessima mamma, anche se non
capisco bene cosa vuol dire.
E
anche il suo viso è triste.
Gli
butto le braccia al collo, scuotendo piano la testa contro di lui.
«Non
è vero, ‘Ka-san»,
dico piano, come per rassicurarlo. «Io ti voglio
bene».
Ride
un po’, leggero e silenzioso come fanno sempre lui e
‘To-san.
Mi
bacia di nuovo i capelli, prendendomi meglio in braccio prima di
incamminarsi
insieme a me verso il soggiorno della casa nuova.
«Ti
voglio bene anche io»,
dice sottovoce, chinandosi appena per prendere uno dei pupazzi che ho
lasciato
in giro.
Me
lo porge, e lo stringo a me poggiando la testa contro il suo petto.
Sento
il cuore che batte, quasi cullandomi.
Se
chiudo gli occhi mi addormento, sono sicuro.
Li
chiudo però lo stesso, sentendo la mano di ‘Ka-san
poggiarsi sulla mia testa
per accarezzarmi i capelli.
Lenta
e calda, come le ninna nanne che mi canta la sera.
Comincia
lui stesso a coccolarmi, forse per farmi addormentare.
Mi
piace quando fa così.
Mi
ricorda prima, quando stavo nel lettone con lui e ‘To-san.
Il
caldo delle lenzuola e le loro voci.
I
giochi che facevamo ogni tanto.
I
momenti che passavano con me.
Adesso
invece dormo da solo.
‘Ka-san
mi fa dormire con lui solo quando faccio brutti sogni.
Non
so perché. Prima
che andassimo alla casa nuova dormivamo insieme.
Mi
diceva paroline dolci all’orecchio e mi stringeva fra le sue
braccia, dicendo
che avremmo chiamato ‘To-san il giorno dopo.
E
manteneva la promessa, giocando poi con me.
Ora
lo chiama poco e lo vediamo poche volte.
Ho
provato a chiedere anche questo, ma la risposta non cambia mai.
Sono
piccolo, ma io non mi sento bambino a volte.
Però
‘Ka-san insiste.
E
la smetto di domandarlo solo quando vedo i suoi occhi scuri
intristirsi.
Allora
gli do un bacio sulla guancia e prendo il libro di ‘To-san.
Quello
è l’unica cosa che mi distrae un po’.
Sento
‘Ka-san che continua ad accarezzarmi la testa, mentre il
rumore dei suoi passi
riempie il silenzio.
Non
parla, come sempre.
Ma
sospira.
Alzo
la testa e le palpebre, vedendo appena il suo viso.
Le
labbra sottili sono all’ingiù, imbronciate.
«‘Ka-san?» lo chiamo di
nuovo, e lui abbassa lo sguardo, sorridendomi un pochino.
Ma
vedo ancora la tristezza.
Siamo
in corridoio, adesso, forse per andare nella mia cameretta.
«Dimmi, piccolo»,
dice ancora piano.
Gonfio
un po’ le guance per come mi ha chiamato, però non
gli dico niente e non mi
arrabbio come faccio di solito.
Mi
accoccolo solo contro il suo petto ancora una volta, aggrappandomi con
una mano
alla sua camicia mentre abbraccio il mio pupazzetto.
«Perché
sei triste?»
gli chiedo, sentendo un battito in più.
Mi
carezza i capelli, riprendendo a camminare.
«Non
sono triste»,
mi risponde, ma la voce mi sembra strana. «Sono solo un
pochino stanco».
«Allora
perché lavori, se sei stanco?» gli faccio
un’altra domanda, e lui ride un poco,
come prima.
«Perché
altrimenti non mangiamo».
«E
perché?»
I
suoi occhi neri mi osservano.
Un
po’ chiusi.
«Jaz...» dice, senza
aggiungere altro.
Ma
io ho capito, e strofino un po’ di più il viso.
«Va
bene, ‘Ka-san, la smetto...» borbotto. Quando
comincio a fare domande e poi lui dice solo il mio nome significa
sempre che
non gli va di rispondermi.
Voglio
insistere, ma ‘Ka-san è triste e non voglio
intristirlo di più.
Anche
se mi dice che è solo stanco io non ci credo.
«Ti
va un gelato?»
lo sento dire, e ritorno a guardarlo.
Mi
sta sorridendo, sembra quasi che mi voglia distrarre.
Scuoto
la testa, tornando ad accoccolarmi contro di lui, sentendolo sospirare
ancora
un po’.
Accende
la luce nella mia cameretta, avvicinandosi al lettino per poi lasciarsi
cadere
sopra.
Mi
trovo seduto sulle sue gambe, e mi scompiglia ancora una volta i
capelli,
portandomeli dietro alle orecchie.
«E’
ora di andare a nanna»,
mi dice, sorridendo ancora un po’. «Domani ti
prometto che giocheremo
insieme, okay?»
Mi
imbroncio di nuovo, chinando il capo.
Io
non ho sonno, voglio giocare.
Però
annuisco, e ‘Ka-san mi prende in braccio per mettermi poi in
piedi sul
materasso.
Lo
vedo aprire il cassetto e tirare fuori il pigiama, ma stavolta non mi
dice di
metterlo.
E’
lui che mi sveste e me lo infila, senza che parlo.
Ora
ne sono sicuro.
‘Ka-san
è triste.
Dopo
avermi sistemato il pigiamino mi da un bacio sulla fronte, togliendomi
un altro po’ i capelli dal viso.
Mi
infilo sotto le coperte da solo portando con me il mio pupazzetto, e
lui me le
rimbocca subito dopo.
Quella
brutta espressione, però, è rimasta.
Mi
intristisco anche io, prendendo le lenzuola fra le manine.
«Sei
triste perché non c’è
‘To-san, ‘Ka-san?» glielo domando, e
stavolta i suoi occhi
scuri si aprono un po’ di più.
Si
siede sul letto, girato un po’ verso di me.
Allunga
una mano per accarezzarmi i capelli, lentamente.
Il
sorriso che ha sul volto non mi piace.
Non
è un sorriso.
«Un
pochino»,
mi risponde, sottovoce. «E’
da tanto che non lo vediamo».
Annuisco,
imbronciandomi e nascondendomi un po’ di più.
E’
vero.
‘To-san
non viene più.
Con
una mano mi strofino una guancia.
Mi
viene da piangere.
«‘Ka-san... ma perché siamo qui senza
‘To-san?»
Glielo
chiedo per non piangere, anche se sento che sto per farlo.
Perché
sono triste anche io, adesso.
Quando
lo sono piango sempre. ‘Ka-san
invece non lo fa mai.
Nessun
grande lo fa mai.
Vedo
‘Ka-san sospirare, poi mi accarezza di nuovo i capelli.
«E’
un po’ difficile da spiegare, Jaz», risponde piano,
sempre più triste. «Te lo dirò fra
un paio d’anni». Ancora
con la storia che sono piccolo, lo sapevo.
Ma
quanti sono un paio d’anni?
«Adesso
dormi, dai»,
dice ancora, e stavolta vedo i suoi occhi chiudersi un po’.
Passa
due dita sopra uno di essi, le labbra sono di nuovo
all’ingiù.
Però
mi sembra che tremino.
Allora
mi alzo, avvicinandomi a lui.
Lo
guardo bene in viso.
E
poi la vedo.
Una
di quelle gocce salate.
«‘Ka-san...» lo chiamo,
tirandogli un po’ la camicia. «...stai
piangendo?»
Glielo
chiedo e lui mi stringe forte forte, forse per non farmi vedere il suo
viso.
Non
so che cos’ha, ma è molto triste e riprende ad
accarezzarmi piano i capelli,
coccolandomi e cullandomi fra le sue braccia.
Solo
di poco riesco a guardare la sua faccia.
E
ancora una goccia salata gli scende dagli occhi.
Vede
che lo sto osservando e subito si passa una mano sul viso, sorridendo.
Ma
lo sento che quel sorriso nasconde il vero.
Nasconde
quelle gocce che cadono ancora.
Quella
fu la prima volta che vidi ‘Ka-san piangere.
Da Central City ‘To-san mi ha
inviato un libro.
L’ha spedito dieci giorni addietro, in modo che arrivasse in
tempo per il mio undicesimo compleanno.
Adesso lo sto osservando girando qualche pagina con
lentezza, quasi per paura di rovinarlo.
Dall’ingresso sento la voce di ‘Ka-san, che sta
parlando
animatamente al telefono con ‘To-san.
Mi sembra un pochino arrabbiato.
Scendo dal divano per affacciarmi oltre la soglia del
soggiorno, dove immediatamente mi giunge il buon profumo della torta al
cioccolato che sta preparando ‘Ka-san.
«Avevi detto che ti saresti
liberato per il suo compleanno», sta dicendo con
tono quasi accusatorio, reggendo forte la
cornetta. «Sono quasi quattro
mesi che non ti vediamo».
Voglio avvicinarmi di più per sentire almeno quello che ha
da dire anche ‘To-san, però non voglio che la mia
presenza accanto al telefono
sia un pretesto per litigare.
A volte succede.
«Non tirare in ballo il fatto che potrei venire io
lì,
adesso», borbotta, tamburellando con le dita sul tavolino.
«Il mio lavoro di
Generale è ben diverso dal tuo, lo sai».
Sospiro in silenzio, sempre nascosto dietro lo stipite per
evitare che ‘Ka-san possa vedermi.
Anche quelle parole non fa altro che ripeterle sempre,
quando parla al telefono con ‘To-san.
«Senti, lasciamo stare...» dice adesso, rendendo la
voce
dolce. «Davvero non ce la fai a liberarti per venire qui?
Magari domani?»
Mi sporgo un po’ reggendo bene
il libro, a quelle parole.
Spero che ‘To-san dica di sì.
Non fa niente se non ci sarà al mio compleanno.
Ma se ci sarà domani, festeggeremo nuovamente con lui.
«Ah...» fa
però ‘Ka-san, in tono rammaricato.
«L’ispezione...»
E tutti i miei progetti vanno in fumo.
‘To-san non verrà qui.
Lo capisco dalla voce di ‘Ka-san.
«Pensavo fosse la settimana prossima», riprende,
sempre
più dispiaciuto. «Ecco spiegato
perché anche Maes ha disertato
l’invito».
Non so cosa voglia precisamente dire così, ma
‘Ka-san ha
ragione.
Lo zio Maes, che di solito è il primo a volermi vedere, ha
chiamato ieri dicendo che non veniva.
La cosa un po’ mi dispiace, anche se spesso lo zio
è un vero
rompiscatole.
Sento ‘Ka-san parlare un altro
po’ della festa, di me e poi
del lavoro.
Chiacchiera tanto su quell’argomento, spiegando cose un
po’
complicate.
Da dove mi trovo continuo a sentire, guardandolo poi mentre
si gira di spalle.
Questa volta ridacchia, tenero come non l’ho mai sentito.
«Aye, ci stavo pensando anche
io l’altra sera», mormora,
dolcissimo.
Parla così solo con ‘To-san.
O quelle rare volte con me quando cerca di farmi collaborare
in cose che non voglio fare.
Con ‘To-san però è sempre
più dolce, come se condividessero
un segreto.
«Non sai quanto mi piacerebbe averti qui e giocare, in questo
momento», dice
allegro, marcando parecchio la parola.
Anche il termine giocare lo usa spesso, a telefono.
Rimediandoci sempre una sgridata da parte di ‘To-san che
riesco a sentire persino io. «Oh aye, di questi tempi le mie
fantasie sono aumentate», ride un po’,
leggero.
Ecco un’altra cosa che fa sempre.
Ride senza un motivo con la cornetta del telefono
all’orecchio.
Scherza e ride anche con me, ma quella è una risata strana.
Complice.
«Hai mai provato il sesso telefonico?» dice ancora
sghignazzando, e stavolta lo sento bene.
La voce di ‘To-san che lo
ammonisce subito.
Inviperita e parecchio alta, tanto che ‘Ka-san allontana il
ricevitore.
«Sei un
depravato, Colonnello dei miei stivali!» esclama
dalla cornetta.
‘Ka-san ride ancora una volta, tornando a parlargli.
Altri scambi di convenevoli, altre risatine divertite da
parte di ‘Ka-san.
Poi riattacca con il sorriso sulle labbra, sorriso che vedo
di più quando si volta verso di me.
Mi vede e resta immobile lì, sbattendo le ciglia
scure.«Da
quanto sei lì?» mi chiede, con una strana nota
nella voce.
Sbuco ormai dal mio inutile
nascondiglio, con il libro sotto
braccio.
Di poco scrollo le spalle, disegnando con il calzino che ho
al piede un cerchio invisibile.
«Da un po’, ‘Ka-san», gli dico,
tanto sarebbe inutile
mentire.
Lo vedo spalancare un pochino la bocca e arrossire.
Ancora non capisco perché arrossisce sempre. Ormai
ho undici anni.
Ho persino perso il conto delle volte che l’ho sentito
parlare di quello con ‘To-san.
Si gratta dietro al collo, tossendo un
po’ prima di
avvicinarsi a me.
«Quindi... hai sentito tutto?» mi domanda ancora,
stavolta a
disagio.
Non ci penso su nemmeno due volte.
Annuisco e basta.
Si scompiglia i capelli scuri con fare frustrato, scuotendo
poi la testa.
Borbotta qualcosa fra sé e sé, masticando delle
paroline fra
i denti.
I suoi comportamenti sono sempre così strani.
Proprio non lo capisco. «Non dovresti origliare»,
se ne esce poi, come a voler ammonire me.
Era lui che parlava di certe cose.
Mica io.
«Non volevo farlo»,
gli tengo subito presente. «Volevo solo
parlare con ‘To-san. Non verrà, vero?»
Faccio risuonare questa domanda in tono triste, abbassando
lo sguardo.
Speravo di passare del tempo tutti insieme.
Ma invece nulla. Proprio come quando ero più piccolo.
Sento ‘Ka-san avvicinarsi a
me, per prendermi poi il mento
e
alzarmi il viso.
Guardo i suoi occhi color pece, tristi come la sera di tanti
anni addietro. «Non è colpa sua,
Jaz», cerca di
andare in sua difesa. Ma vedo bene che invece vorrebbe imprecare come
lo sento
fare spesso.
Una volta è stato ore a borbottare in cucina e a dire
volgarità mentre cucinava.
Tra tutte le parolacce che gli ho sentito dire, ci potrei
fare un vocabolario dividendolo fra quelle semplici da manuale e quelle
più
spinte che si possono sentire solo da uno scaricatore di porto.
«Ha cercato di venire qui, ma non ha fatto in
tempo», lo
giustifica ancora.
Io penso invece che già lo
sapeva.
Altrimenti non mi avrebbe mandato il regalo con due giorni
d’anticipo.
Odio quando ‘Ka-san tenta in tutti i modi di non far
ricadere la colpa su ‘To-san.
E’ colpa sua quanto lo è della stessa
‘Ka-san.
Ma non me la sento di giudicarli entrambi.
Sono adulti.
Sanno quello che fanno.
Io sono solo un bambino un po’ più
grande.
Il giorno del mio compleanno,
invece, capii che la vita non era affatto
facile.
La scuola non è poi
così male, se sai bene come giostrarti.
Io me ne sto semplicemente seduto a scaldare la sedia,
facendo finta d’ascoltare le noiose lezioni
dell’insegnante mentre è il mio
migliore amico a prendere appunti anche per me.
Sono due anni che ci conosciamo, ormai.
Cedric Berk. Dall’indole vivace e una gran mole.
Qui a Central, dove mi trovo adesso con ‘Ka-san e
‘To-san, è
l’unico amico fidato che ho. L’unico a conoscenza
della mia vera famiglia.
A volte mi dispiace doverlo schiavizzare così, ma non
più di
tanto.
Infatti spesso è lui ad offrirsi di aiutarmi.
Perché dovrei negargli questo privilegio?
Osservo svogliato la sua mano che scrive
veloce sul foglio,
seguendo le parole dettate.
Mi chiedo sempre come diavolo faccia.
E’ peggio dell’ormai Maggiore Falman, uno della
brigata di mamma.
Stiamo seguendo entrambi i corsi estivi.
La cosa non mi va giù, ma non me la sono sentita di farlo
notare a ‘To-san e a ‘Ka-san.
Quest’ultimo ha già il suo “personale
problema” da
affrontare.
E non è una cosa facile.
E’ successo da poco infondo, deve ancora farci i conti.
Così come me per quel che è accaduto.
Sembro tranquillo adesso, vero, ma a volte quelle immagini
ritornano.
La mano non ancora del tutto guarita poi, spesso brucia come
a volermi dolorosamente ricordare la colpa che ho commesso.
Ma, anche se avrei voluto non farlo, sono convinto che fosse
la cosa giusta.
‘To-san e ‘Ka-san dipendevano da me.
Sospiro un po’, guardando con
la coda
dell’occhio Cedric.
Non gli ho raccontato quello che è successo
all’incirca due
mesi fa, anche se più volte in questo periodo ha provato a
chiedermelo.
Potrei anche farlo, ma non ne ho il coraggio.
Si sono accavallate troppe cose, una peggiore dell’altra.
Però non mi è sfuggito il modo in cui ha fissato
‘Ka-san
quando è venuto a trovarci il mese scorso.
E’ stato in quel momento che ha cominciato a fare domande.
E posso capirlo.
L’avrei fatto anche io.
Mi riscuote un suo veloce sguardo, e lo
vedo lasciare sul
banco la penna.
Si stiracchia, coprendosi la bocca e sbadigliando.
Quando torna a guardarmi, ha gli occhi un po’ lucidi di
sonno.
Li posa poi sul mio quaderno aperto, bianco come al solito,
scuotendo la testa.
«Non scrivi mai nulla, eh?» ironizza in tono di
rimprovero.
Non ci faccio caso più di
tanto.
Si lamenta sempre ma poi lascia perdere.
Tanto sa che non prenderò appunti.
Faccio spallucce, come ad indicare
disinteresse. «Sono qui
solo per scaldare la sedia, non per altro», scherzo a mia
volta.
Alza gli occhi al soffitto, quasi
sbuffando. «Quando
spegnerai le candeline la settimana prossima, sarò io
ad esprimere un desiderio», dice sarcastico, sottovoce per
non
farsi sentire
dal professore. «Chiederò che questi
diciott’anni ti
facciano entrare un po’ di
sale in zucca».
Sorrido, divertito.
Ecco perché è il mio miglior amico.
Sempre a preoccuparsi per me anche se non lo da a
vedere. «Sarebbe un desiderio sprecato»,
gli faccio
notare, ricevendo un’occhiataccia.
Chiacchieriamo un altro po’ del più e del meno
sempre
tenendo il tono basso.
Ci manca solo che quel rompiscatole del professore ci faccia
un richiamo.
Chi li sente, poi, ‘Ka-san e ‘To-san!
Finalmente passano quel paio d’ore di carcere forzato, e
siamo fuori a respirare l’aria fresca e pulita dalla
fragranza di
fiori estivi.
In una bella giornata come quella siamo stati costretti a
scuola.
E’ violenza bella e buona, e anche gratuita, quella!
Fortuna che almeno per questa settimana, è finita. Domani e
anche domenica possiamo rilassarci.
«Che fai, vieni da me o torni
a casa?» domando a Cedric,
voltandomi un po’ verso di lui.
Sbadiglia sonoramente sistemandosi lo
zaino in spalla, prima
di scompigliarsi i capelli e stiracchiarsi come non mai.
«Se non sono di disturbo...» butta lì,
anche se so che alla
fine verrà lo stesso.
Ha solo preso l’abitudine di dirlo da quando ha visto
‘Ka-san.
«Muoviti, idiota»,
sbotto, incamminandomi quando sento il suono d’un clacson.
E’ Jean, costretto come al solito a venirmi a prendere.
Quando saliamo in macchina borbotta come sempre un saluto,
masticando fra i denti il filtro della sua solita sigaretta.
Da un po’ fuma come una ciminiera.
O forse l’ha sempre fatto e non lo sapevo.
Non ci scambiamo nemmeno una parola, ma lo sentiamo bene che
impreca fra i denti qualcosa, forse rivolto alla mia cara mamma che lo
schiavizza.
Mi evito di ridere, mentre vedo con la coda dell’occhio
Cedric
tentare di fare lo stesso.
Certe scene le vediamo due giorni si e uno no.
E’ troppo divertente.
Arriviamo a casa e con un altro saluto
Jean ci lascia e se
ne va, partendo alla volta di casa sua.
Poveraccio, quell’uomo, certe volte.
Salite le scale e aperta la porta dell’appartamento, sento
un bel via vai.
Di sfuggita poi, vedo ‘To-san con una scatola.
Stiamo finalmente ristrutturando un po’ casa, e in special
modo la mia camera.
Posso vantarmi di avere finalmente quel tanto agognato letto
a due piazze, adesso.
E anche delle pareti decenti.
«‘Giorno, Signor
Elric», dice Cedric al mio fianco,
richiamando la sua attenzione prima che sparisca nel corridoio
adiacente.
Si volta verso di noi quasi stupito, per
poi issarsi meglio
sul braccio d’acciaio la scatola.
«Havoc ha fatto presto
stavolta?» sghignazza invece
divertito. «Comunque ciao ad entrambi, ora scusate che devo
finire un po’ di
sistemare in giro».
Alzo un pochino lo sguardo al soffitto,
scuotendo la testa.
Fanno sempre di testa loro. «Vi avevo detto di
aspettarmi», dico, come a volerlo ammonire. «Tu e
‘Ka-san non dovreste affaticarvi troppo».
I medici avevano infatti detto che sarebbero dovuti restare
ancora in ospedale.
Riabilitazione sotto osservazione.
E non avrei dato loro torto, se non avessero voluto
costringere anche me a stare lì.
Fortuna che sia ‘To-san che ‘Ka-san avevano dato
sfoggio del
loro potere militare minacciando l’ospedale di
chissà cosa se non ci avessero
fatti tornare a casa entro una settimana.
I volti sconvolti dei dottori ancora me li ricordo
perfettamente.
Si sa però che i miei tutori non sono tipi da starsene con
le mani in mano.
Quando vogliono divertirsi,
forse.
Ma non se devono star relegati in un letto ospedaliero.
Ferite o altro a quel punto passano in secondo piano.
Forse perché ci sono abituati, chissà.
Anche se credo che almeno ‘Ka-san avrebbe dovuto seguire il
consiglio.
Appena un po’,
‘To-san agita distratto una mano, facendo
attenzione che non gli cada nulla.
«Sono passati due mesi, stiamo benissimo»,
borbotta,
facendo valere la sua autorità di padre.
Proprio benissimo, però, non direi.
Di recente si sono visti allo specchio?
Vedo di sfuggita Cedric aprire la bocca, forse per chiedere
qualcosa, e come colto da un’illuminazione mi fiondo a
tappargliela.
So cosa vorrebbe chiedere.
E ancora non posso permetterglielo.
Mugola tentando di liberarsi, sfruttando la sua mole.
Fortuna, però, che ho un po’ di forza nelle
braccia per
contrastarlo.
«‘Ka-san?» domando, cambiando
tempestivamente discorso.
Sebbene mi stia ora osservando con un sopracciglio inarcato,
‘To-san accenna con il capo al soggiorno.
«Gli ho detto di andare a
sedersi un po’», risponde,
guardando poi Cedric che continua a sbraitare contro la mia mano senza
che si
capisca quello che dica.
Premo ancora il palmo sulla sua bocca, indietreggiando verso
quella direzione.
«Cominciava a
sbandare?» chiedo di nuovo.
‘To-san scrolla un
po’ le spalle.
«Diciamo che dopo un paio d’ore a fare avanti e
indietro ha
cominciato a far fatica a tener conto della
profondità», lo dice con tono
leggero, ma sento che ci sta male.
Decido di non aggiungere nulla o di
chiedere altro, annuendo
soltanto.
Mi trascino dietro quell’idiota patentato del mio amico,
lasciandolo andare solo quando siamo a distanza di sicurezza dalle
orecchie di
‘To-san.
Guardandomi con aria di stizza, incrocia le braccia al
petto.
«Io non capisco»,
borbotta. «Sembra quasi un argomento
tabù».
E lo è, infatti.
Ma meglio non dirglielo.
Mi limito solo a fare
spallucce. «Ced, te lo
dirò io quando me la sentirò di farlo»,
gli dico,
cercando di
rendere il tono affranto così da fargli pena. «Non
chiedere nulla ai miei».
«Sei mio amico, Jaz, lo sai
che mi preoccupo», fa
ancora, imbronciandosi. «Non ho avuto tue notizie per un
po’, e quando poi sono
venuto qui il mese scorso stavate uno peggio dell’altro. Non
posso sapere
quello che è successo?»
Lascio che mi sfugga un lamento.
Mannaggia ai migliori amici, certe volte.
Tentano sempre di aiutarti anche se non vuoi che si
complichino la vita.
Questa, però, è una cosa difficile da spiegare.
E non so come reagirebbe.
Forse è per quello che non ho il coraggio di
dirglielo. «Lo saprai a tempo debito»,
provo di nuovo.
Mi sfida con lo sguardo, forse per
tentare di farmi cedere.
Dopo poco, però, lascia perdere sospirando pesantemente.
Ha capito che non ce la faccio, almeno.
«Va bene, va bene», borbotta, un po’
ferito. «Aspetterò
ancora un po’, ma poi dovrai dirmelo».
Sorrido, accordandoglielo.
Glielo devo, in fondo.
E’ l’unico vero amico che ho.
Perderlo mi dispiacerebbe.
Chiusa quella conversazione ci incamminiamo nuovamente, e
passando accanto al salotto mi affaccio un po’ per sbirciare
all’interno.
Vedo ‘Ka-san seduto sul divano, con un libro aperto.
Non cambierà mai.
Anche se sa che non deve sforzare l’occhio legge comunque.
«Ciao, ‘Ka-san», lo saluto, e lui alza la
testa dalle pagine
per voltarsi.
Mi regala un sorriso, che rende
più a mandorla quel suo
unico occhio color pece.
La benda che indossa è leggermente coperta dalla frangetta
scura, anche se mi sembra che se la sia tolta o che l’abbia
spostata.
Non si è ancora abituato.
E’ stato un vero shock, per lui.
Quando i medici gli hanno detto che l’occhio non sarebbe
guarito e che non sarebbe più riuscito a vedere credevo
cadesse in uno stato di
depressione cronica. Ricordo che in ospedale si toccava in
continuazione la
fasciatura, come se non se ne capacitasse.
La copriva con una mano cominciando poi a guardarsi intorno,
osservando qualsiasi cosa.
Come se cercasse di abituarsi.
E in quei momenti l’espressione addolorata di
‘To-san non mi sfuggiva mai.
Il mese scorso l’ho addirittura visto davanti allo specchio
del
bagno di casa senza benda.
Aveva il volto contratto in una smorfia.
Come se il suo stesso lato del viso gli facesse ribrezzo.
Una lunga cicatrice sfregiata glielo solcava dal
sopracciglio, arrivando poi sullo zigomo quasi fino alla guancia.
Forse era per questo che era disgustato ogni volta che lo
vedeva.
Accettava cicatrici ovunque, ma non sul volto.
Il suo stesso corpo era pieno di cicatrici di guerra.
L’ho persino visto dare un
pugno allo specchio, quel giorno.
Poi si è seduto sul pavimento osservandone i frammenti,
quasi con un velo di tristezza e pianto in quell’occhio che
gli è rimasto. È strano come certe cose cambino
le persone.
Prima che questo avvenisse, non
avevo mai visto ‘Ka-san comportarsi
così.
Domani compirò
diciott’anni.
E’ il terzo compleanno che festeggio con ‘To-san.
Ma non credo poi che ci sia molto da festeggiare.
Ho persino detto ai miei tutori che una festa non era
necessaria.
Non hanno però voluto sentir ragioni.
Secondo loro, avrei bisogno di “svago”.
Di momenti tranquilli da passare come un qualsiasi ragazzo
della mia età.
Però non sono un “ragazzo qualsiasi” da
tanto, ormai.
O forse in realtà non lo sono mai stato, chissà.
Non ne sono poi così sicuro.
Mi rigiro nel letto, guardando svogliato
il soffitto.
Non riesco a dormire.
Tutto a causa di questi pensieri.
E’ da bambini dormire con ‘To-san e
‘Ka-san?
Può darsi, ma mi alzo lo stesso.
Attraverso il corridoio con passo felpato, fino a raggiungere
la loro camera.
Mi affaccio con fare esitante, scrutando nella lieve
penombra.
Vedo le loro figure indistinte, i loro profili tremano alla
luce argentea della luna.
Li distinguo appena, ma mi sembra che sia il mio papà quello
tirato su a mezzo busto.
«Oto-san?» lo
chiamo, per accertarmene.
Si volta appena verso di me e, subito dopo, una piccola
luce soffusa proveniente dal comodino inonda la stanza.
Aye, è lui ad essere ancora sveglio.
«Che ci fai in
piedi?» mi domanda, sussurrando per non
svegliare ‘Ka-san. «E’ notte
fonda».
Mi limito a mordicchiarmi un
po’ il labbro inferiore, come
quando sono nervoso.
Lo faccio sempre.
Di sfuggita, noto che ‘To-san ha la punta delle dita della
sinistra adagiate leggermente sul volto sopito di ‘Ka-san, ad
accarezzare
appena la lunga cicatrice.
Non indossa quell’esagerata benda.
La notte forse la toglie.
Anche durante il giorno una volta se la tolse.
Proprio il primo periodo di convalescenza forzata.
Cominciò a borbottare di quanto fosse inutile quel pezzo di
stoffa, perché secondo lui serviva solo a nascondere la
conseguenza d’un gesto
che lui avrebbe ripetuto se fosse stato nuovamente necessario. Diceva
d’esser fiero delle cicatrici che portava.
Questo prima che la vedesse.
Era stato tutto il giorno senza benda, forse per far finta
che quell’occhio ci vedesse ancora.
E l’illusione aveva funzionato finchè non si era
ritrovato
così, distrattamente, a fissare la sua immagine riflessa nel
vetro della
finestra della cucina.
A quel punto, la maschera fittizia che si era creato era
andata in frantumi.
Si era portato una mano tremante a sfiorare le cicatrici
ancora fresche, rosee e in via di cauterizzazione. Non le
aveva mai toccate.
Era ‘To-san, prima, che si occupava della fasciatura e
tutto.
Adesso ‘Ka-san non glielo permette.
Da quel giorno non ha più avuto il coraggio di togliersi la
benda in presenza di qualcuno.
Lo fa soltanto quand’è sicuro d’essere
solo.
O a letto con ‘To-san, a quanto pare.
Non tutte le cicatrici si possono mostrare, infondo.
«Senti,
‘To-san...» comincio finalmente, sentendomi un
bambino. «Solo per questa volta, posso... posso dormire
insieme a voi?»
Che mi chiamino pure moccioso.
Non me ne frega un accidente di niente.
Però un sorriso si disegna sulle labbra di
‘To-san, che si
sporge un po’ oltre ‘Ka-san per picchiettare il
lato vuoto
del letto. Non dice nulla, ma quello è un chiaro invito.
Stringe un po’ più a sé
‘Ka-san,
permettendomi così di
prendere posto.
«Non riesci a dormire?» mi chiede poi, una volta
che mi
sono
infilato sotto il lenzuolo.
Lo guardo stringendomi nelle spalle.
Più o meno ha ragione. «Diciamo di
sì»,
mormoro, spostando la mia attenzione su
‘Ka-san.
Il volto è disteso e rilassato nel sonno.
Le dita di ‘To-san ancora accarezzano piano le
cicatrici. «Gli fa ancora male?» stavolta
sono io a
fare domande, ed è
invece ‘To-san quello che si stringe nelle spalle.
Sospira pesantemente, massaggiandosi poi
con la mano
d’acciaio una delle sue nuove cicatrici, ben in mostra visto
che è a petto nudo
per il caldo.
Anche per lui è stato un duro colpo.
Oltre alle cicatrici al ginocchio e al braccio che risalgono
a quand’era bambino, a quelle disseminate poi per tutto il
corpo a causa dei
colpi d’arma da fuoco, vi si sono aggiunte delle altre.
Quel giorno è stato tremendo per tutti e tre.
Ne siamo usciti distrutti e lacerati.
«Fisicamente no», mi
risponde, amaro. «Ma non smetterà mai di fargli
male».
Abbasso il capo, sconfortato.
Certe volte mi domando se sono io, la causa di tutti i guai.
Forse porto sfortuna.
Mi sono ritrovato solo quand’ero piccolo e ho
rischiato
di farlo di nuovo troppe volte.
Esprimere questa mia teoria a voce però sarebbe peggio.
Ci rimedierei solo una sgridata con i fiocchi da entrambi.
Già mi sembra di sentirli.
Però quest’idea la coltivo da quando sono accadute
tutte
quelle cose.
Mi sento stupido, adesso.
Gli angoli degli occhi mi bruciano.
Alzo la mano fasciata, azzardandomi a
sfiorare appena il
volto di ‘Ka-san.
Forse è vero, è colpa mia.
«‘To-san», lo chiamo ancora, guardandolo
di sfuggita.
Lo vedo voltarsi verso di me con un cipiglio incuriosito.
Quel solito cipiglio che la dice lunga. «Credi che... credi
che vi sarebbe successo lo stesso tutto
questo, se non mi avreste adottato?»
Ho il coraggio di chiederglielo, ma già mi sembra che si sia
irrigidito. Quello che temo?
Una risposta negativa, forse.
Una cosa del tipo “Nay, avremmo avuto una vita
tranquilla.”
Ma non lo biasimerei se mi rispondesse con una frase del
genere.
Però, quello che mi sorprende, è che mi colpisce
alla testa
con l’auto-mail.
Non molto forte, ma abbastanza da farmi sfuggire un
prolungato lamento e portare entrambe le mani al punto leso.
«Non te ne uscire
più con certe stronzate, Jason», mi ammonisce in
tono severo,
diventando persino quasi sboccato nonostante lo odi. Questo
è un chiaro segno che si sta arrabbiando.
Sento ‘Ka-san mugolare infastidito, e ‘To-san gli
accarezza
i capelli per conciliargli il sonno prima di riprendere a
parlare.
«Nessuno può prevedere gli avvenimenti, nessuno»,
dice
ancora, con tono di stizza. «Forse sarebbe successo lo
stesso,
forse no. Così
come forse non sarebbe accaduto nulla anche se sei nostro figlio. Il
mondo è bello perché vario, non si può
sapere
cosa può succedere da un giorno
all’altro».
Mortificato, abbasso lo sguardo.
A diciott’anni a sentirmi la paternale... non sono cresciuto
affatto.
«Però...» provo lo stesso, venendo
subito ammonito.
«Stammi bene a sentire,
Jaz», comincia, scostandosi qualche ciuffo di capelli
dalla fronte. «Quando siamo venuti
all’orfanotrofio, e ti sei aggrappato con le
manine al mio pantalone, sia io che Oka-san non ce la siamo sentita di
lasciarti lì...» si concede una pausa, prima di
continuare. «E il tuo visino
sorridente mentre uscivi mano nella mano con Roy mi ha riempito il
cuore di
gioia, quel giorno».
Trae un lungo sospiro, alzando il viso verso di me.
Solleva appena un angolo della bocca. «Non dire
più cose del genere», dice di nuovo.
Poi tace, lo sguardo perso nei ricordi di quegli anni.
È triste e sorridente al
tempo stesso.
Un’espressione simile non l’ho mai vista.
A nessuno dei due.
Quella notte, invece, fu
‘To-san a versare qualche lacrima.
Primo giorno all’Accademia
Militare.
Così come avevo deciso, alla fine mi sono iscritto.
Divido la stanza con Cedric, tanto per cambiare, l’ultima
camera
del dormitorio maschile sul
lato destro dell’edificio.
Si può dire che trovare l’esatta collocazione
è
stata una
tragedia, visto che il capo camerata era sparito chissà dove
e
ci abbiamo messo
mezza giornata per cercarlo.
Per svuotare le sacche con i vestiti poi, anche peggio.
Ore di litigate per chi doveva prendersi un lato o l’altro
della stanza.
Fiero di dire, però, che tanto poi ho vinto io e ho
letteralmente rivoltato il mio migliore amico come una tartaruga,
lasciandolo a pancia all'aria.
Ho preso il letto vicino alla finestra, alla scrivania e al
comodino, così non devo fare troppa fatica per prendere la
divisa da indossare
il giorno dopo.
Stanco dopo quella prima giornata, adesso, sono avvolto
nelle lenzuola.
Sono in uno stato di dormiveglia, sento
appena quello che mi
succede attorno.
Un lieve russare dall’altro letto, il ticchettio della
pioggia contro la finestra.
Non so se definirlo uno stato piacevole o meno.
Mi piacerebbe che ci fosse più silenzio, ma devo
accontentarmi di quello che ho.
Affondo di più la testa nel cuscino, strofinando il viso
contro la federa.
E’ un po’ ruvida e odora di chiuso.
Forse avrei dovuto provare a rubare di nuovo il cuscino di
‘To-san o quello di ‘Ka-san e portarlo con me.
Quelli sì che sono morbidi.
Ci si dorme che è un piacere.
Peccato, però, che non ci sono riuscito.
Mi hanno beccato subito, non appena ho aperto l’armadio.
Sembra quasi che ‘Ka-san abbia affinato in qualche
misterioso modo l’udito.
Che si affidi a quello quando l’occhio si stanca?
Molto probabile.
Mugolo qualcosa che non capisco nemmeno
io mentre mi muovo
un po’.
Forse finalmente mi sto addormentando.
Le palpebre sono pesanti, i suoni si affievoliscono.
Anche la pioggia è ora uno sciabordio sommesso in
lontananza.
Aye, sto per cadere fra le braccia di Morfeo.
Perdo la cognizione del tempo, conscio e non dei dintorni.
Sogno, forse.
Non so di preciso cosa.
Ma sogno.
Un sogno strano, un susseguirsi d’immagini.
Parole e voci si mescolano, forse sono urla e spari quelli
che si fondono subito dopo.
Qualcuno mi chiama piano, in un mormorio.
Però scuoto la testa e comincio ad agitarmi.
La voce insiste, diventando più imperiosa.
Un tocco sulla spalla, pesante.
A quel punto apro di scatto le palpebre drizzandomi a
sedere, urlando qualcosa e colpendo qualcos’altro con il
dorso della mano.
Sento il battito a mille del mio cuore e sento persino di
avere gli occhi dilatati, mentre mi specchio in quelli di Cedric.
Ha acceso la luce sulla scrivania e mi osserva.
Credo spaventato.
Non ne sono sicuro.
Deglutendo, si allontana un
po’, sedendosi poi sulla sponda
del suo letto.
«Mi sembrava che...» comincia, agitato
quasi quanto lo
sono io. «...che stessi male, ti agitavi e...»
Si interrompe continuando a guardarmi.
Negli occhi gli vedo un velo di panico, o forse timore.
Però adesso non ci faccio caso.
Sono più occupato a stabilizzare i battiti del cuore.
Respiro a grandi boccate, portandomi una mano al petto.
Batte all’impazzata.
Colpa del mio subconscio.
Ancora non ho superato quel trauma.
Basta un tocco durante il sonno per farmi ridurre in quel
modo.
‘To-san e ‘Ka-san infatti non lo fanno quasi mai,
adesso.
Quando devono svegliarmi mi sfiorano appena.
E se invece possono evitarlo, nemmeno mi toccano.
Respiro di nuovo, scostandomi dalla fronte i capelli madidi
di sudore.
Guardo Cedric di sottecchi, vedendolo poi umettarsi un po’
le labbra.
Le sente secche, probabilmente.
Proprio come me.
«Jaz...» mi
chiama, anche se incerto.
«Sicuro di
sentirti bene?» Che dovrei dirgli, adesso?
“Nay, sto uno schifo?”
Così poi devo trovarmi pure una scusa per quella risposta.
«E’ per quella storia accaduta un po’ di
tempo fa,
vero?» dice ancora.
Beccato in pieno.
Maledizione, ancora mi stupisco di quanto sia percettivo
‘sto ragazzo.
Capisce subito i miei sentimenti o come mi sento.
Eh... il fratello che non ho mai potuto avere.
Proprio vero.
Sospiro pesantemente, ritrovandomi a
ravvivare i capelli
all’indietro.
Scappa qualche ciuffo che finisce sulla fronte, ma gli altri
stanno al loro posto.
Lo guardo di sottecchi, tenendomi una mano a sorreggere il
viso.
I traumi vanno affrontati.
E’ quello che mi ripetono sempre i miei tutori.
Un conto, però, è affrontarli da solo.
Un altro, invece, raccontarlo ad altri.
E in questo particolare caso, al mio miglior amico.
«Per... Per me è difficile parlarne...»
comincio sottovoce,
quasi sentendo lo stomaco attorcigliarsi.
Vorrei che le cose restassero così come sono, tra noi.
Con un segreto troppo grande da essere espresso a parole.
Ma so anche che lui è l’unico ad essermi stato
vicino in
questo periodo oltre i miei e gli zii.
«A me puoi dire tutto, lo
sai», lo sento dire, in tono
leggero. Un po’ nervoso forse, ma non insistente.
Mi concedo tutto il tempo necessario.
Devo provare a raccontarglielo, e a non bloccarmi ad un
certo punto.
E’ tutto troppo... triste, crudele. Mi guardo quasi
inconsciamente il palmo della mano, facendo
scorrere lo sguardo su ogni anfratto di pelle cicatrizzata.
Ecco quello che è rimasto della bruciatura.
Una bruciatura che si è allargata dopo quel determinato
avvenimento.
E sono stato fortunato a cavarmela solo con quelle ustioni.
Di secondo grado, certo.
Ma se avessi continuato sarebbero state peggiori.
Scuoto forte la testa per scacciare quei pensieri, tornando
a guardare Cedric.
Sembra stia solo aspettando una mia parola.
E non tardo ancora a parlare.
«Se dopo quanto ti avrò detto mi disgusterai, non
ti
biasimerò... okay?» gli dico, anche se mi sento
già terribilmente arrabbiato e
solo. La voce mi trema un po’.
La sento insicura.
Vedo Cedric sollevare un po’
un sopracciglio, prima che
sbatta le palpebre. «Ma che stai dicendo?» mi
domanda, stupito. «Perché mai dovrei
farlo?»
Dice così, adesso.
Non sono sicuro però che sarà ancora
così, dopo.
«Perché...
Perché io...» comincio a parlare con un basso
tremolio, lasciando
che le parole mi scorrano via dalle labbra come un fiume in piena.
Gli racconto praticamente tutto.
Dal primo momento fino all’ultimo.
Anche di quello che ho fatto.
E ad ogni mia parola, noto i suoi sussulti sempre più
crescenti.
Il primo spaventato per quello che poteva accadermi quelle
notti terribili, sia nel parco che in quel lurido magazzino.
Poi un altro, quando parlo delle mie origini.
Gli ultimi sono quelli che mi colpiscono di più e che sento
più terrorizzati.
Gli occhi di Cedric, adesso che ho finito di parlare, mi
osservano quasi sconvolti.
Come sembro ai suoi occhi, ora?
Un mostro sotto le
sembianze d’un ragazzo?
Non ho più il coraggio di dire nulla.
Abbasso lo sguardo.
Non riesco a sostenere il suo.
Serro i pungi sulle ginocchia, le mani mi tremano.
Perché non parla, maledizione?
Perché non dice nulla?
Un peso sul mio letto però non mi permette di formulare un
altro pensiero.
«Razza di stupido!»
mi esclama subito
all’orecchio la voce
di Cedric, quasi rabbiosa, e quando mi volto un po’ per
guardarlo
vedo i suoi
occhi un po’ lucidi di lacrime.
Credevo scappasse, che so.
Che uscisse urlando dalla camera.
Che mi desse dell’assassino.
Tutto mi aspettavo tranne quello.
Mi afferra per il colletto del pigiama, scuotendomi. «Ti sei
tenuto dentro un peso del genere tutto questo tempo?!»
sbraita
ancora,
infischiandosene dell’ora. «Diavolo, Mustang, sono
o non
sono il tuo miglior
amico?!»
Resto basito a fissarlo, sentendomi come
una bambola di
pezza mentre continua a scuotermi.
Senza preavviso, poi, mi molla un pugno.
Ed è a quel punto, che sono davvero sconcertato.
«Avresti
dovuto dirmelo prima, avresti dovuto confidarti con me!»
riprende
abbassando il capo, cominciando a colpirmi il petto con pugni leggeri,
come un
bambino. «Davvero pensavi che sarei stato tanto meschino da
trattarti
diversamente!? Razza di... idiota che non sei altro...»
Affievolisce il tono della voce, nonostante si senta ancora
una nota arrabbiata.
I colpi diventano più deboli, finché non si
arrestano del
tutto.
Anch’io guardo altrove sentendomi fuori posto, con un groppo
sempre più crescente in gola.
Mi mordo il labbro inferiore per
reprimere quello che forse
è un singhiozzo.
Non lo so, non ne sono così
sicuro.«Scusami...» riesco solo a mormorare, con
voce spenta.
In risposta, però, ottengo solo un grugnito.
Un borbottio che sembra volermi ammonire di qualcosa.
Non aggiungo quindi altro, restando in quello strano quanto
imbarazzante silenzio.
O almeno finché non sento le grandi braccia di Cedric
stringermi forte, come a volermi dare, in quel suo modo bizzarro, un
po’ di
protezione.
«Non metterti più i
guai simili, demente», mi dice, quasi
costringendomi a poggiare il mento sulla sua spalla. «Ma se
proprio non riesci
a farne a meno, non lasciarmi indietro».
Forse lo aggiunge per alleggerire la situazione, non lo so.
Ma sono felice di averlo come amico.
Chiudo gli occhi umidi, annuendo
soltanto.
E la sua presa diventa più salda, più
protettiva.
Stretto e
piangente ad un uomo che non fosse ‘To-san
o ‘Ka-san,
capii che i miglior amici erano quelli che ti erano vicini al cuore
anche senza saperlo.
Questa che è sorta oggi
è una giornata come tante.
Sono passate appena un paio di settimane da quando abbiamo
iniziato l’Accademia e da quando ho raccontato tutto a
Cedric.
Da quel momento mi tiene ancor più sottocontrollo. Non
mancano, però, i momenti in cui combiniamo casini.
Forse sarà per questo che il nostro comandante in seconda ha
scomodato ‘Ka-san.
Ci troviamo con lui fuori, adesso, quasi vicino al poligono.
L’occhio truce di ‘Ka-san che ci squadra non mi
piace
affatto.
Mi ricorda quello d’un rapace che tiene sotto mira la sua
preda.
E sono io, la preda.
Non capisco però che abbiamo fatto di così
sbagliato.
E’ stato il nostro comandante, infondo, a dirci di dover
usare i fucili d’addestramento.
Assestamento tattico sul campo di battaglia.
Ha detto proprio così.
Non capisco di cosa si lamenti.
«Due settimane, solo due
misere settimane», sento borbottare
‘Ka-san, mentre cammina a grandi falcate in direzione
dell’ala ovest
dell’edificio. «Due settimane e
già mi vengono a dire che attentate alla vita dei vostri
comandanti, perfetto». Che esagerazione.
Io mica l’ho fatto apposta.
E’ stato lui a dire di sparargli contro in stile bersaglio.
O forse stava scherzando?
Forse stava usando solo un eufemismo?
Dirlo a ‘Ka-san però complicherebbe solo le cose.
E poi non sono stato l’unico.
Tre o quattro ragazzi l’hanno preso alla lettera come me e
Ced.
«Due teste vuote, ecco che
siete», riprende a parlottare fra
sé. «Se mai riuscirete a diplomarvi e vi
presenterete alla sede Centrale e sarò
io il Comandante Supremo vi sbatto
fuori a calci». Aye, dice sempre così.
Comandante di qua, Comandante di là.
Ma intanto resta sempre Generale.
Di corpo d’armata, adesso.
Ma sempre Generale è.
«Signor Mustang, andiamo...
non ne faccia una tragedia», si
azzarda a ribattere Cedric.
Mossa sbagliata e stupida.
L’occhio di ‘Ka-san lo fulmina
all’istante.
Avvicina il pollice e l’indice al suo viso, con
un’espressione indemoniata.
E Ced si allontana un po’, timoroso. «Non ne devo
fare una
tragedia, eh?» fa ‘Ka-san, e il suo tono mi mette
un
po’ i
brividi. «Chi credete che dovrà starsene ore in
più
in ufficio per rimediare
alla vostra bravata?»
Ecco spiegato il motivo della sua aria arrabbiata.
Gli toccheranno degli straordinari.
Vado in aiuto del mio amico,
allontanando la mano di
‘Ka-san.
Non vorrei che in un momento di stizza decidesse davvero di
schioccarle, quelle dita.
A volte con lo Zio lo fa. «Dai, ‘Ka-san,
puoi sempre utilizzare la scusa della stanchezza», provo a
farlo ragionare, sentendo quella perla nera puntata su di me, stavolta.
In quest’ultimi tempi, quando
si annoia di lavorare, va
sempre a lamentarsi da chi di dovere dicendo che sforza troppo la
vista.
“Sono ancora in convalescenza” ,
“L’occhio deve
ancora
abituarsi” , “Ho mal di testa per essermi sforzato
troppo” o cose del genere.
Quando però vede che le scuse non bastano con la sua
diligente Riza, allora fa di peggio.
Assume un’aria sconsolata e mesta, accarezzandosi la benda.
Proprio come un cane bastonato.
Borbotta qualcosa fra sé e sé e poi fa per
togliersela.
E, anche se tutti sanno che non se la toglierà davvero, alla
fine si impietosiscono.
Nessuno dei suoi sottoposti se la sente ancora di non
accontentarlo in ogni piccolo capriccio.
Se chiedesse la luna sono sicuro che troverebbero il modo
per portargliela.
Chi non ci casca affatto, è lo Zio Maes. Non lo calcola
minimamente, quando fa così.
Anzi, gli ha persino affibbiato un soprannome.
O meglio, un nomignolo.
Guercino, lo chiama scherzosamente.
E anche se a ‘Ka-san a volte da fastidio, poi ci ride su.
Quel
che mi fa piacere, almeno, è che si sia ripreso un
po’.
Prima non voleva nemmeno che si facesse presente che aveva
un occhio cieco. Adesso invece la prende alla leggera.
Anche se certe volte si lascia andare a quel vago retrogusto
di tristezza.
Il dolore resterà proprio come ha detto ‘To-san,
ma sembra
affievolito.
E quella è una chiara testimonianza di quanto sia forte di
spirito.
«Non oso immaginare cosa
combinerete in questi due anni»,
mi riporta alla realtà la sua voce, e lo vedo mentre si
scompiglia i capelli,
ravvivandoseli poi all’indietro in modo di tener scoperta sia
la fronte che la
benda. «Vi spediranno a pulire le latrine ogni
giorno, me lo sento».
Lo seguo ancora verso il dormitorio e lo
lascio borbottare,
facendo finta di nulla.
Di tanto in tanto lancio qualche occhiata a Cedric, che sospira
pesantemente.
Non gliel’ha fatta il padre la paternale, gliela fa la mia
mamma.
Che ironia della sorte.
«E come se non bastasse devo riattraversare la
città per
tornare al Quartier Generale e finire il mio turno, con tutto che
ancora non
dovrei guidare», continua a lagnarsi, bofonchiando.
«Sappiate che se mi
fermano vi prendete la colpa anche di questo».
Come al solito, ci rifila sempre le
solite cose.
Dice che per colpa nostra è costretto a fare avanti e
indietro in macchina.
E, visto che non può scomodare Oto-san per farsi
accompagnare dove vuole, è lui a mettersi al posto di guida
nonostante non
possa.
Come minimo dovrebbe far passare un bel po’ di tempo, per
farlo.
Sospiro pesantemente seguendolo fin sopra le scale, visto
che ci sta praticamente accompagnando
dentro al dormitorio.
Incasso la testa nelle spalle quando vedo gli altri pochi
ragazzi presenti nel corridoio, che ci osservano come a capire il
perché della
presenza della mia mamma.
Ci mancava solo questa.
Non basta il mio cognome.
Adesso anche la bella presenza di
“papà”.
Dopo questo sono sicuro che verrò preso di mira da quelli
dell’ultimo anno.
Preferirei solo sotterrarmi, in questo momento.
Il sistema accademico, dai tempi di ‘Ka-san, è
cambiato un
po’.
Ora ci si entra superando concorsi e test d’ingresso.
Scritti e psicologici.
Non tutti vengono accettati.
E la maggior parte dei ragazzi lì presenti si è
fatto un
culo così per riuscirci.
Io invece sono passato subito.
Semplicemente perché queste cose per me sono facili, come
l’alchimia.
Loro, però, quando hanno saputo il mio cognome, hanno tirato
le somme.
Certe volte odio il lato “eroico” di
‘Ka-san.
Come adesso.
Mi volto appena verso Cedric, vedendolo
pensoso.
Ha la fronte leggermente corrugata.
Forse si starà preparando a ricevere una strigliata anche da
suo padre.
Come ‘Ka-san infatti, è a sua volta un militare.
Non a caso Ced ha deciso di iscriversi anche lui
all’Accademia.
Me lo disse un giorno a scuola, quando avevamo entrambi
quindici anni.
Di preciso non ricordo quando, ma proprio i primi tempi
credo.
Di sfuggita vedo
‘Ka-san aprire la porta della nostra camera, facendoci poi
cenno d’entrare.
“Veloci e senza protestare”, sembra che dica
quell’occhio
che ci scruta.
Fulmina con lo sguardo anche i ragazzi restanti, che fanno
finta di nulla prima di riprendere a camminare non curanti o entrare a
loro
volta nelle proprie stanze.
Quando è incazzato, ‘Ka-san fa paura.
E di brutto anche.
Nessuno vuole ritrovarsi col culo bruciato quando ha la luna
storta.
«Papi, potevi
anche evitare di accompagnarci», gli faccio notare,
enfatizzando
sull’appellativo in tono mieloso.
Come se quello basti.
Peccato che stavolta non funzioni.
Difatti indica ancora la stanza, maggiormente stizzito.
«Smettila di tergiversare e
muoviti», sbotta, spostando la sua attenzione verso
Cedric. «Anche tu forza, non ho tempo da perdere con tutti e
due. Ho del lavoro
in arretrato e ora mi tocca anche quello che mi è stato
affibbiato per colpa
vostra. Senza contare il fatto che dovrò avvertire tuo
padre», tiene presente, indicando
il mio amico. «Il ché significa che mi
toccherà scendere di due piani fino agli
uffici interni del Tribunale Militare per cercarlo e raccontargli
l’accaduto».
Aggiunge questo quasi tutto d’un fiato, mentre gli vedo una
leggera vena sulla fronte.
Stavolta mi sa che l’abbiamo combinata davvero grossa.
Cedric, però, fa per
ribattere, con cipiglio preoccupato.
«Non è mica così necessario
avvisarlo»,
prova, con tono leggermente nervoso.
Un’altra occhiataccia lo
fulmina. «Volete che vi porti con me al Quartier
Generale per far
firmare a voi le scartoffie?» ribatte ‘Ka-san
esageratamente tranquillo,
nonostante la vena pulsi di più.
Meglio lui che ‘To-san, almeno, in questo momento.
Mi ritrovo a pensare quello, mentre li sento battibeccare
come bambini.
Se ci fosse stato ‘To-san non ce la saremmo cavata con
così
poco.
Difatti ‘Ka-san se ne va solo dopo averci fatto una bella
tirata d’orecchi.
E bella davvero, visto che mi fanno male.
Ma se invece di lui avessero convocato ‘To-san, sarebbe
stato anche peggio.
Quindi siamo stati fin troppo fortunati.
Mi lascio cadere sul letto mentre mi
massaggio ancora
l’orecchio, imbronciato.
Vedo Cedric fare lo stesso, prima di stendersi a braccia
spalancate sul materasso.«E per fortuna che per mezza volta
abbiamo eseguito gli
ordini», borbotta, voltandosi appena verso di me per
guardarmi.
«Figurati
se non l’avessimo fatto».
Sospiro e mi stendo anche io, osservando
il
soffitto. «Credo proprio che ‘Ka-san abbia
ragione», ironizzo, per sdrammatizzare. «Finiremo
davvero a pulire le latrine ogni giorno».
«Non mi sono mica iscritto qui
per pulire i cessi», ribatte lui.
Lo guardo con un sopracciglio
inarcato. «Perché secondo te farlo
è sempre
stato il mio sogno, eh?» replico,
ancor più sarcastico di prima.
Quella giornata almeno, è
stata una delle poche in cui mi
sono davvero sentito, dopo tutte le brutte cose che mi sono accadute,
un
ragazzo normale.
Un ragazzo di diciott’anni e mezzo che passa la giornata
insieme al suo miglior amico.
Fu quello, forse,
l’inizio d’una vita con un fardello più
sostenibile.
Ho avuto la mia prima, vera, licenza.
Non come la prima volta, che sono quasi scappato.
A casa, però, non ho avvertito nessuno.
Non l’ho ritenuto necessario.
E sarebbe anche stupido farlo, arrivati a questo punto.
Sono già davanti al portone, indeciso se salire subito o
meno.
Vorrei andare a farmi un giro, ma sono anche stanco per il
viaggio.
Il viaggio sì, visto che da un paio di mesi siamo stati
trasferiti in un’Accademia fuori città.
Il perché non lo so, forse per ristrutturazione o simili.
Sto per indietreggiare quando mi tradisce uno sbadiglio.
Sono troppo stanco per uscire.
Controllo distratto l’orologio
da taschino che mi ha
regalato ‘To-san, notando che sono appena le quattro del
pomeriggio.
A quest’ora sono a lavoro.
Fortuna che ho sempre con me le chiavi di casa.
Sbadiglio ancora mentre apro il portone, salendo le scale a
due a due.
Non vedo l’ora di sdraiarmi su un letto comodo.
Il mio, quello dei miei o persino il divano mi vanno bene.
Se non fosse duro dormirei anche sul pavimento.
Apro piano la porta quando raggiungo
finalmente
l’appartamento, venendo subito avvolto da un silenzio
così netto che quasi mi
rimbomba nelle orecchie.
So che è il mio battito quello che sento, ma la quiete di
quel tipo mi fa sempre uno strano effetto.
Altrettanto silenziosamente mi richiudo la porta alle
spalle, lasciando la sacca che mi sono portato dietro accanto al
mobiletto
presente nell’ingresso.
Mi libero anche del berretto, lanciandolo quasi su un
braccio dell’attaccapanni.
E sorrido come un idiota quando lo colpisco.
Le piastrine che indosso le lascio in bella mostra sulla
canotta, togliendomi solo la giacca.
Fa un po’ caldo in casa, ma è un caldo piacevole.
Un caldo familiare.
Quel caldo che si sente quando si sta tutti insieme.
Camminando piano, stando attento che i
miei scarponi non
facciano rumore, attraverso il corridoio, inspirando a fondo il profumo
di
casa.
Si sente ancora il caffè che hanno preparato quella mattina.
Vado in cucina per vedere se ne è rimasto un po’,
trovando
la macchinetta mezza vuota.
C’è solo un goccio, ma non mi va di prepararlo.
Borbotto un po’ tra me e me, uscendo nuovamente in corridoio
mentre mi stiracchio sempre più e sbadiglio sonoramente.
Quel che mi ci vuole, prima d’una bella dormita, è
un bel
bagno rilassante.
Entro quindi in camera mia, prendendo vestiti puliti e
leggeri.
Mentre mi dirigo alla biblioteca però, mi ricordo una cosa
importante.
Il bagno secondario non ha la vasca.
Solo quello in camera dei miei ce l’ha.
Che tirchi.
Potevano farlo anche lì.
Sbuffando, ritorno sui miei passi,
andando verso la loro
stanza.
Non credo che gli dispiacerà se lo uso per un po’.
E nemmeno se consumo mezzo contenitore di bagnoschiuma, no?
Mi scappa un altro sbadiglio mentre apro la porta senza dar
più peso al silenzio visto che sono solo in casa, e
socchiudo di poco gli occhi
lacrimanti.
Sto per fare un passo all’interno quando, una volta
focalizzata l’immagine, mi blocco lì, sulla soglia
della camera con i vestiti
sotto braccio.
Due occhi dorati mi fissano sconcertati, mentre l’altro,
nero come la pece, è dilatato come non mai.
Dire a chi appartengono sarebbe superfluo e anche
scontato...
«E... E tu cosa diavolo ci fai
qui!» esclama ‘Ka-san rosso in volto, in una
posizione un po’... beh... più che contro
facente al suo ego e al suo
orgoglio maschile.
Vorrei distogliere lo sguardo, ma non ci
riesco.
E forse vorrei anche ridere, ma non riesco a fare nemmeno
quello.
Così guardo ‘To-san, la cui schiena è
leggermente nascosta
dal lenzuolo che per miracolo non è scivolato via, mentre si
trova sopra
‘Ka-san. Aye, sopra.
Non voglio andare oltre con i dettagli.
Sembra boccheggiare un po’, anche lui rosso in viso.
Non so se sia per la mia presenza o per quello che ho
interrotto.
Però non voglio indagare oltre.
Meglio restare nel dubbio.
«Tu dovresti...»
comincia anche ‘To-san, e lo vedo
distintamente deglutire.
Ma ormai io non ci faccio più nemmeno caso.
Li ho beccati tante di quelle volte a farlo che nemmeno
dovrebbero arrossire.
Forse è per il cambio di ruoli?
Credo proprio di sì, visto che ho notato che
‘Ka-san ha
chiuso l’occhio come per far finta che sia tutto un
bruttissimo sogno.
Peccato per lui che non sia così.
Adesso ho visto anche il suo essere completamente donna.
«Scusate il
disturbo», mi limito a dire scrollando le
spalle, ritornando tranquillo sui miei passi.
Non appena mi richiudo la porta alle
spalle sento il letto
che cigola appena, segno che si stanno muovendo per rialzarsi e
rendersi
presentabili.
O forse per ricominciare come se nulla fosse, chissà.
Dubito però di questa mia seconda ipotesi, rifugiandomi in
cucina.
Quel caffè quasi quasi mi tenta, stavolta...
Mi riempio una tazza, accomodandomi al
tavolo per
sorseggiarlo mentre aspetto.
Non ci mettono più di cinque minuti a raggiungermi, anche se
‘To-san ha ancora la camicia aperta e si sta affrettando a
sistemarsela insieme
ai capelli come meglio può.
Quello che mi fa ridere in questo momento sono le loro
espressioni.
Specialmente quella di ‘Ka-san.
E come dargli torto.
Almeno a letto, ero sempre stato sicuro che avesse il controllo della
situazione, visto che
quando li beccavo era sempre lui quello che comandava.
Adesso, invece, quella mia certezza è sfumata.
‘Ka-san è sottomesso
in tutti i sensi.
Mentre continuo a bere li vedo lanciarsi occhiate, quasi
nervosi.
Poi noto di sfuggita ‘Ka-san sistemarsi meglio la benda, e
sono pronto a scommettere che il colorito arrossato del suo volto
supera di
gran lunga quello di ‘To-san.
Fa poi per aprire la bocca, ma gli viene subito tappata.
«Che hai combinato,
stavolta?» si rivolge a me Oto-san in sua
vece, con tono calmo ma oserei dire un po’ isterico.
Si vede lontano un miglio che gli dispiace che gli ho
interrotto il gioco.
E non darei torto nemmeno a lui.
Agito appena una mano finendo il caffè, voltandomi poi per
sorridere ad entrambi.
«Stavolta ho una vera licenza,
ecco cos’è successo», dico, un
po’ anche per sbeffeggiarli. «E ho pensato di
sfruttarla passando un po’ di tempo con voi. Non siete
contenti?»
Dall’espressione di
uno dei due non si direbbe.
Proprio quest’ultimo riesce a liberare la bocca, inveendo
contro di me.
«Ti ci strozzo con quelle piastrine che hai al
collo!»
sbraita, tenuto subito dopo a freno da ‘To-san.
Di nuovo domato.
Altro che cavallo
selvaggio.
L’orgoglio del mustang
si è perso da tanto, mi sa.
«Quello che Oka-san voleva
intendere è che non ti aspettavamo», ribatte
‘To-san quasi afflitto, mentre vedo ‘Ka-san
continuare a sbraitare contro la
mano d’acciaio che gli tappa la bocca.
Sorrido spavaldo, alzandomi.
«Non dovresti agitarti così tanto,
‘Ka-san», gli dico,
schernendolo. «Ti fa male alla salute, soprattutto dopo quel
sano movimento».
Detto questo scappo svelto verso la
soglia della cucina,
venendo subito seguito dagli strepiti di ‘Ka-san, ormai
libero dalla presa di
‘To-san.
Che si sia liberato da solo o che sia stato Oto-san a
decidere di gettare la spugna è difficile da dire.
Ma non è mamma
quello che mi raggiunge in biblioteca.
E’ lo stesso ‘To-san, con in volto dipinto un
ghignetto
divertito.
«Lascialo perdere»,
mi dice subito, avvicinandosi al divano sul quale mi sono
accomodato per darmi una leggera pacca sulla spalla. «Anche
se fa così, è
felice che sei tornato». A
quell’affermazione, sorrido anche io.
Sbraita e si lamenta in continuazione, ma poi mi accontenta
in ogni minima cosa.«E’ solo imbarazzato per quanto
hai visto», continua, lasciandosi sfuggire un
piccolo sbuffo d’ilarità, vagamente orgoglioso.
Ridacchio anche io.
Ci credo che è imbarazzato, ‘Ka-san.
E ci credo che ‘To-san invece se la ride.
Becco sempre lui sotto!
«Cos’era, oggi, la rivincita dei
passivi?» lo prendo un po’
in giro, perché so bene com’è la
situazione.
‘To-san, da quando ne ho memoria, ha sempre e solo avuto
‘Ka-san.
Anche un po’ prima che mi adottassero, da quanto mi ha
detto.
Le sue uniche conoscenze in quel campo, quindi, sono con
‘Ka-san.
Non ha mai avuto nessuna donna a differenza sua.
Lo vedo arrossire un po’,
segno che ho fatto centro.
Si gratta distratto una guancia, guardando altrove.
«Se vogliamo metterla così...» borbotta,
anche se gli scappa
un sorrisino.
Qualche soddisfazione doveva pur averla anche a letto,
infondo.
Meglio abbondare quando si può. E poi, quello
sarà un buon modo per prendere in giro
‘Ka-san.
Mi viene quasi da ridere, non so perché.
Non che non vedessi ‘To-san così...
intraprendente.
Solo, non mi sarei mai aspettato che ‘Ka-san facesse il
passivo.
Non voglio nemmeno sapere perché hanno deciso di cambiare.
Questi sono strettamente affari loro.
E io non mi immischio.
«Hai già
mangiato?» mi chiede ‘To-san,
riscuotendomi.
E’ uno dei suoi modi per mettere da parte i discorsi.
Chiedere se hai pranzato e se hai fame.
Un classico.
Gli sorrido ancora, annuendo.
«Aye, ma ad una cena
in famiglia non si dice mai di no», sghignazzo serenamente,
vedendolo
sorridere a sua volta.
E’ da tanto che non passiamo del tempo tutti e tre insieme.
Se possiamo, tanto vale sfruttare l’occasione.
Chissà quando ce ne capiterà un’altra.
Lo seguo in cucina, dove
‘Ka-san sta ancora borbottando fra
sé e sé.
Ormai anche quello è diventato d’abituale routine.
Vedo però che è un piccolo sorriso, quello che
gli increspa
le labbra.
In fondo, è pur sempre la mia mamma.
Il susseguirsi di eventi
tranquilli, dopo, fu molto più presente di
quanto io stesso potessi sperare.
«Guercino!»
E’ incredibile quanto risuoni
alta la voce dello Zio nella
piazza dinnanzi al Quartier Generale.
Eppure, con tutti i ragazzi di fine Accademia che sono lì
radunati, dovrebbe confondersi nel trambusto e nel vociare dei
presenti.
Ci troviamo lì anche noi, tutti in ghingheri.
‘Ka-san nella sua uniforme graduata, con tanto di meriti e
medaglie in bella mostra.
A sua volta anche ‘To-san, anche se è andato
-Sotto mia “umile” richiesta- alla
ricerca di Cedric e di suo padre per scattare una foto tutti insieme.
Io, invece, indosso per la prima volta la divisa.
Sono diventato un militare, proprio come i miei genitori.
Mi sento entusiasta come non mai.
Anche perché sto già pensando all’esame
per Alchimista di
Stato.
Non dovrei correre così tanto, ma oggi non riesco a stare
dietro ai miei pensieri.
E’ come se scappassero via da soli.
«Guercinooooo!
Ehi!»
Lo Zio, intanto, continua a chiamare ‘Ka-san.
Ma come sempre, lui fa finta di nulla.
Si volta sì nella sua direzione, però non lo
calcola
minimamente.
Guarda un punto oltre a lui, concentrando l’attenzione del
suo unico occhio un po’ più avanti.
Oggi, in via eccezionale, ha deciso di fare a meno della
benda.
E’ un po’ a disagio e si vede, ma cerca anche di
non
pensarci.
Quando gli ho chiesto perché ha semplicemente detto che gli
andava.
Ha però nascosto un po’ la cicatrice con la
frangetta, che
porta un po’ più lunga sul lato sinistro.
Forse proprio per coprirla in casi come quello, chissà.
Non ho voluto domandargli anche questo.
Se basta a farglielo affrontare del tutto, tanto meglio
così.
«Guercino!»
Ancora un richiamo.
Più alto dei precedenti.
E a questo punto, spazientito, ‘Ka-san lo guarda dopo tanto.
«Che cazzo vuoi,
coglione!» esclama a sua volta, richiamando
l’attenzione di
parecchie persone.
Roy Mustang.
La mia mamma.
La finezza fatta persona...
Un tantino perplesso, lo Zio si ferma a
poco distanza da noi,
sbattendo le palpebre.
Ma poi sorride più che mai, gettandosi letteralmente addosso
a ‘Ka-san.
«Andiamo, come sei scorbutico!» si lagna,
cominciando, con
le
nocche della mano destra, a scompigliargli i capelli, quasi fosse un
ragazzino. Vedo ‘Ka-san tentare di scrollarselo di dosso,
stizzito più che mai.
Poi dicevano di me e Ced.
Loro, a cinquant’anni e passa, sono peggio di noi.
«Tuo
figlio si diploma e tu sei così
nervoso?» continua
lo Zio prendendolo in giro, guardando poi me con quel solito sorriso.
Però non mi piace poi tanto, quel sorriso...
Difatti, eccolo lasciare
‘Ka-san per avventarsi su di me,
cingendomi il collo con un braccio.
«Congratulazioni!» esclama divertito, scompigliando
anche a
me i capelli. «E’ proprio vero, allora! Tale padre
tale figlio!»
Tento di dire qualcosa, ma
‘Ka-san mi precede.
«In realtà sarei la madre,
ti ricordo...» ribatte, vagamente risentito.
Lo Zio lo guarda, allentando un po’ la presa e permettendomi
così di respirare.
«Mica parlavo di te,
infatti!» sghignazza, ricevendo
un’occhiata letteralmente infuocata.
E per fortuna che stamattina ‘To-san gli ha impedito di
indossare i guanti proprio per evitare che desse fuoco a Zio
Maes!
Ormai libero mi permetto di ridere anche io, guadagnandoci
la medesima occhiata.
Ma non ci faccio poi tanto caso.
Sono di routine quelle occhiatacce, tanto.
Mentre loro due cominciano a litigare
come al solito, tra
borbottii sconnessi e false minacce di morte, ne approfitto per
allontanarmi il più possibile prima della cerimonia
d'apertura,
guardando distrattamente verso il cielo azzurro sopra di me una volta
solo. Ne ho passate tante, in questi ultimi anni, e quasi credevo che
non sarei riuscito a cavarmela in sveriate occasioni. Eppure eccomi
lì, ancora
vivo, insieme ai miei genitori.
Questa è la storia
della mia vita.
Un po’ triste, certo.
Ma è la mia bellissima vita.
_Note inconcludenti dell'autrice
E
dopo questa one-shot praticamente chilometrica, con la quale avevo una
voglia matta di concludere la raccolta, eccoci finalmente giunti alla
fine. Avevo scritto questa storia tantissimo tempo fa, e in essa volevo
racchiudere alcuni dei momenti più significativi di Jason,
personaggio nato quasi per caso al quale io e la mia nipotola abbiamo
voluto più bene di quanto noi stesse ci
aspettassimo.
L'abbiamo praticamente visto crescere, da bambino di tre anni a
ragazzo, ed è fin troppo normale che ci affezionassimo in
questo
modo a questo nostro Original Character e a tutto il background dietro
ad esso. Non sono mancati i sorrisi, le lacrime, le nuove amicizie e
gli amori, e a lui alla fine abbiamo affiancato Cedric,
suo migliore amico e altrettanto combinaguai; si è aggiunto
in seguito anche Dick,
suo commilitone nell'esercito, facendo sì che nascesse il
Monster Trio, se proprio vogliamo chiamarlo in questo modo.
C'è stata tutta una vita da vivere, in pratica, e posso
candidamente affermare di essere orgogliosa come non mai della storia
che io e la mia nipotola Red Robin abbiamo messo su.
Chiedo scusa per queste inutili precisazioni, ma ci tenevo davvero a
scriverle.
Spero
alla
prossima.
♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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