Moving to Mars

di Nackros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Moving to Mars ***
Capitolo 2: *** All that we have is a promise ***
Capitolo 3: *** One day, maybe, we'll meet again ***
Capitolo 4: *** I'm so hollow, baby ***
Capitolo 5: *** I just wanted to hold you in my arms ***



Capitolo 1
*** Moving to Mars ***


 

Una ragazza era in piedi davanti alla grossa vetrata che componeva la parte posteriore dell'astronave, osservando la scena così surreale, ma allo stesso tempo magnifica, che si prostrava davanti a lei.
Aveva sempre amato tutto ciò che riguardava l'universo; i pianeti, i satelliti, le stelle...
Queste ultime, in particolare, erano sempre state una delle sue più grandi passioni.
Capitava spesso che la sera si mettesse ad osservare il cielo con quel vecchio cannocchiale, regalatogli tanti anni prima, perdendosi con lo sguardo nella volta celeste.
Quando poi era convinta che in casa tutti dormissero, a volte, si arrampicava sul tetto della piccola villetta, sedendosi tra le tegole ed appoggiando la schiena al comignolo.
In quel momento provava a riportare tutte le sfumature di quel cielo incantato sulla tela, dipingendo.
Spesso ci passava intere serate, senza dormire. Eppure non si sentiva stanca, avrebbe passato giornate intere lì sopra, se non fosse che con l'arrivo delle prime luci dell'alba la gente, uscendo di casa, si sarebbe chiesta perché una ragazza si trovasse seduta sul tetto di una casa.
Ogni tanto, quando passava le notti con lo sguardo fisso nel cielo, gli succedeva anche di vedere qualche pianeta come Giove o Venere, che grazie a qualche strano allineamento nel sistema solare, rimanevano visibili ai suoi occhi per qualche ora.
Mai, però, si sarebbe immaginata di poter vedere la Terra.
Perché da quella grossa vetrata che dava sull'universo l'unica cosa che in quel momento riusciva a osservare era proprio la Terra.
Non era come nelle foto risalenti ad anni prima, con gli oceani azzurri e le rigogliose foreste verdi contornate da una coltre di nuvole bianche.
Adesso era malata.
Non si vedeva più niente di quello descritto prima, tutto era ricoperto da uno spesso strato di fumo grigio.
Ed anche volendo togliere quel grigio, spazzando via tutto quel fumo, era convinta che sotto non avrebbe mai più ritrovato l'azzurro ed il verde.
Sapeva che lì sotto si celava qualcosa di ben diverso; probabilmente deserti aridi, ma non di sicuro quei due colori che tanto amava.
L'avevano distrutta, la sua casa, la Terra.
Erano stati gli uomini che con le loro stesse mani avevano rovinato in poco tempo quella meraviglia che si era formata dopo miliardi di anni.
Avevano distrutto tutto, ogni cosa.
Ed a niente erano serviti gli sforzi di quei pochi uomini che avevano provato a cambiare le cose.
Erano stati zittiti, messi a tacere dai loro stessi governi.
Da gente resa cieca dalla fama, dal successo... dal denaro.
Era per colpa loro che adesso l'intera popolazione, o meglio, quel che ne rimaneva, era stata costretta ad andarsene.
Sarà solo come fare un grande trasloco” avevano annunciato sorridenti i capi delle maggiori potenze mondiali.
Come li odiava! Avrebbe voluto vederli morire uno ad uno, soffocati respirando l'aria o avvelenati bevendo l'acqua che loro stessi avevano inquinato.
Ed invece non aveva potuto fare niente, doveva ubbidire agli ordini.
Marte, quella era la meta, la sua nuova casa.
Era quel pianeta che osservava quando ancora la sera si poteva sedere tra le tegole ed il comignolo e che pensava fosse così irraggiungibile.
Era stato reso vivibile “apposta per tutti noi esseri umani”, avevano detto.
Avevano costruito sul suolo rosso di quel corpo celeste, lavorato per rendere l'atmosfera vivibile, ma non erano riusciti a salvare la Terra.
Per questo si trovava lì, sul retro di una navicella spaziale, a guardare la Terra allontanarsi sempre di più da lei, troppo immersa nei suoi pensieri per accorgersi della presenza alle sue spalle di un ragazzo che la scrutava meravigliato.
Questo ragazzo, dai capelli corvini un po' scompigliati, stentava a credere alla visione della figura posta davanti a lui.
Gli sembrava già fin troppo irreale trovarsi su un'astronave diretta per Marte; aveva sempre pensato che fosse una cosa da astronauti, non da comuni civili.
Invece non solo stava navigando nello spazio, ma si trovava anche davanti alla persona che per lungo tempo era stata il suo chiodo fisso e che, nonostante il tempo, non aveva mai dimenticato.
Riuscì solamente ad emettere con voce flebile il suo nome.
«Gwen...»
Lei si voltò lentamente, domandandosi chi mai avrebbe potuto chiamarla in quel posto pieno di gente a lei sconosciuta.
Quando si girò i suoi occhi incontrarono quelli verdi del ragazzo che l'aveva appena chiamata.
Continuarono quel contatto visivo ancora per un poco, fino a quando la ragazza si rivolse a lui con voce meravigliata.
«Trent? Non ci posso credere... Anche tu qui?»
I due ragazzi nel mentre non si accorsero di essersi avvicinati uno all'altro, mantenendo la stessa espressione sorpresa.
«Non ci posso credere neanche io, sono anni che non ci vediamo... Non avrei mai pensato di rincontrarti qui...» disse Trent, ancora stupito.
«E' assurdo!» esclamò lei, visibilmente in imbarazzo.
«Già... Forse mai quanto il trovarsi su un'astronave diretta per un altro pianeta» aggiunse lui, abbozzando un sorriso e passandosi le mani tra i capelli.
«Hanno chiamato anche te...» rispose incupendosi ed abbassando lo sguardo.
«Sai, all'inizio, quando avevano iniziato a parlare di questa faccenda», continuò «non ci credevo.
Ne avevo sentito parlare per radio, in televisione, sui giornali... Ma mi sembrava una cosa così strana che non immaginavo fosse vera. Poi mi è arrivata la lettera...» concluse, lasciando la frase in sospeso e continuando a tenere lo sguardo basso.
«Oh, non sei l'unica Gwen... Anch'io all'inizio pensavo fosse tutta una cosa inventata» provò a consolarla.
Lei alzò lo sguardo, lo guardò negli occhi e provò ad abbozzare un sorriso, lasciandosi scappare un sospiro, per poi continuare ad osservare il cielo dalle vetrate.
«Sai già dove ti manderanno quando saremo arrivati?» domandò tenendo sempre lo sguardo fisso davanti a lei.
«No, non ne ho idea...» rispose.
«Peccato», sospirò lei «Mi sarebbe piaciuto poter stare con qualcuno che conosco... Non ci vediamo da tantissimo tempo, è vero, però sarebbe stato meglio di stare da sola».
Gwen sentiva la voce tremargli leggermente mentre pronunciava quelle parole.
Neanche lei sapeva dove sarebbe andata una volta atterrata.
Suo fratello e sua madre sarebbero arrivati con le altre navicelle in partenza dalla Terra nei prossimi giorni, e continuava a chiedersi se li avrebbe rivisti.
Non sapeva niente di ciò che l'avrebbe aspettata sul pianeta rosso.
Era sola in mezzo ad un universo sconosciuto ed a gente che non aveva mai visto.
Non aveva neanche più una casa, l'aveva lasciata lì, sulla Terra, per sempre.
Si accorse improvvisamente di come Trent fosse diventato il suo punto di riferimento, l'unico che in mezzo a tutti quei punti di domanda conosceva veramente.
Rimasero per un po' senza parlare, continuando a guardare la Terra diventare sempre più piccola, finché Trent non ruppe il silenzio.
«Dipingi ancora?» gli chiese
«Si» rispose con un sorriso.
Trent sapeva quanto lei amasse disegnare nello stesso modo in cui sapeva che chiedergli di questo l'avrebbe aiutata a risollevargli un po' il morale.
Era sempre stata una ragazza introversa, non amava parlare molto.
Ma non con Trent, non se era con lui.
Senza neanche accorgersene iniziarono a parlare di loro, di che cosa avevano fatto in tutti quegli anni passati senza vedersi.
Gwen gli raccontò di come fosse riuscita, con tanti sacrifici ma con molta soddisfazione, a frequentare l'accademia d'arte, riuscendosi a diplomare.
Gli parlò anche di quelle sere passate sul tetto, delle quali prima non aveva mai detto a nessuno.
Non era solita parlare di lei, non gli era mai piaciuto.
Eppure provava una tale fiducia nei confronti di quel ragazzo che gli disse tutto.
Parlare con lui, avere qualcuno con cui sfogarsi, non l'aveva mai fatta stare così bene.
Di Trent invece si scoprì come non avesse mai abbandonato la sua passione per la musica, senza smettere mai di suonare.
Aveva appena finito il suo primo album e poco prima di partire era riuscito a firmare un contratto con una casa discografica.
Poi, però, tutto era svanito per colpa di quella che tutti consideravano la più grande migrazione mai avvenuta in milioni di anni.
«Mancava solo la copertina!» esclamò amareggiato.
«Mi dispiace...» riuscì semplicemente a sussurrare Gwen.
Non era mai stata brava a consolare le persone come riusciva a farlo Trent.
Lui fece spallucce.
«Non fa niente» mormorò, «un giorno riuscirò a far uscire questo maledetto album» rispose scherzando.
Entrambi scoppiarono in una risata divertita, portandosi le mani alla bocca.
«Ancora mi chiedo come hai fatto a riconoscermi dopo tanti anni...» disse Gwen, ancora sorridendo.
«Beh, i tuoi capelli non passano inosservati!» rispose ironico lui.
Lei si limitò a ridere, tirandogli un leggero spintone con la spalla.
Di solito non rideva spesso, sopratutto in quell'ultimo periodo.
Eppure con Trent quelle risate gli uscivano così naturali...
«Lo sai che mi sono sempre piaciuti tantissimo» aggiunse lui ancora sorridente, «e comunque non sei cambiata molto...”
Gwen mostrò un espressione perplessa, corrucciando un sopracciglio.
«Non intendevo in senso negativo!» si affretto a correggersi, «Nel senso che hai sempre lo stesso stile, gli stessi lineamenti... Però sei più grande, più cresciuta... Sei più bella.»
Avrebbe voluto rispondergli, dirgli che anche lui era sempre bellissimo, ma la timidezza la fermò, consentendole soltanto di mostrare un sorriso imbarazzato, con le gote colorate di rosso.
Ormai era da molto che parlavano, probabilmente era passata qualche ora, eppure avrebbero detto che il tempo si era fermato, se non fosse stata per l'immagine della Terra che stava diventando un puntino minuscolo all'orizzonte, di dimensioni pari alle altre stelle.
«Guarda», disse Gwen «questi probabilmente saranno gli ultimi secondi in cui vedremo la Terra.»
Si poteva avvertire chiaramente la profonda malinconia celata tra quelle parole.
Quando si voltarono in direzione della vetrata una strana sensazione riempì i loro cuori.

10, 9, 8...

 Un piccolo puntino lontano,

...7, 6, 5...

 Sempre più distante,

...4,3,2...

 Il respiro si è quasi fermato,

...1..

 L'ultimo secondo,

...0.

 E' scomparsa.

 

Entrambi sospirano, portando le mani al vetro.
«Non la rivedremo mai più...» Commentò lei con la voce rotta dall'emozione.
La gente che come loro si era fermata ad osservare per gli ultimi istanti la Terra stava iniziando ad andare via.
Il retro della navicella iniziò a svuotarsi finché gli unici a rimanere lì furono i due ragazzi.
L'ultimo suono di passo in lontananza smise di essere udibile lasciando spazio al silenzio più totale, disturbato solamente dal vibrare continuo e monotono dei motori.
Non c'era suono, non potevano esistere nel bel mezzo dell'universo.
A rompere quel silenzio assoluto fu un respiro interrotto di Gwen.
Trent si voltò e la notò asciugarsi una lacrima con un gesto veloce.
Sapeva che gli dava fastidio essere vista così, non amava mostrarsi fragile agli occhi degli altri.
Quando lei però alzò lo sguardo fissandolo dritto negli occhi capì che non gli interessava niente di ciò che avrebbe pensato; aveva solamente bisogno di essere confortata, di qualcuno che la facesse sentire meglio.
La avvicinò a lui, abbracciandola, e lasciando che le lacrime iniziassero a scorrergli silenziose sulla maglietta.
La strinse forte a sé, tenendola stretta al petto.
Non l'avrebbe lasciata scappare via, non un'altra volta.
«Sai», gli disse «guardare per gli ultimi secondi la terra con te è stata la cosa più bella che mi fosse mai capitata».
Lei sollevò la testa dall'incavo della sua spalla, asciugandosi una lacrima.
«Anche per me» gli rispose, appoggiandosi a lui.
Chiuse gli occhi, fermandosi ad ascoltare il battito lento e regolare del suo cuore.
«Grazie» aggiunse, «grazie di tutto».
Lui gli rispose con leggero bacio tra i capelli.
Tutte le preoccupazioni in quegli attimi sembrarono svanire, lasciando spazio ad una quiete interiore mai provata prima.
Rimasero abbracciati ancora a lungo, ognuno cullato dal respiro dell'altro.
Le lacrime oramai avevano smesso di rigare le guance di Gwen ed un sorriso beato aveva preso il loro posto.
Trent gli spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, avvicinandosi a lei con il viso.
«Ti faccio vedere una cosa, seguimi», gli sussurrò dolcemente.
Lui iniziò ad incamminarsi e la ragazza lo seguì senza esitazioni, tenendo stretta la sua mano tra la sua.
Arrivarono davanti ad una porta metallica, una delle tante che si potevano vedere per i corridoi.
Estrasse una tessera dalla tasca e la fece scorrere in una piccola fessura apposita.
La porta si aprì ed i due ragazzi entrarono.
Mentre il ragazzo era intento a tirare fuori qualcosa da un armadio Gwen diede una veloce occhiata alla camera.
Era esattamente come la sua, con un grande oblò che dava sull'infinità dell'universo.
«Ecco!» esclamò soddisfatto Trent.
Gwen osservò lo strumento che stava tenendo tra le mani.
«La tua chitarra, è sempre la stessa!» rispose sorridente, iniziando a sfiorare le corde con la punta delle dita.
La gente comune l'avrebbe considerata un comune oggetto, ma per loro rappresentava qualcosa di molto più importante che un semplice pezzo di legno.
Quella chitarra era stata una delle cose che aveva fatto innamorare anni prima i due giovani.
I ricordi delle serate passate insieme a quello strumento erano impressi ed ancora vividi nella loro mente.
Trent si sedette sul letto, seguito da Gwen che si mise al suo fianco incrociando le gambe.
Quando iniziò a suonare il tempo sembrò tornare indietro.
Ogni nota faceva riaffiorare le immagini degli attimi vissuti insieme; e proprio come quando accadeva sulla Terra, Gwen si appoggiò alla spalla di Trent chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare dalla musica.
«Sei sempre bravissimo» gli sussurrò lei.
Dopo qualche canzone la ragazza socchiuse gli occhi e si rivolse a Trent.
«Puoi venire un attimo con me? Vorrei farti vedere una cosa anch'io».
Il ragazzo annuì, posò la chitarra e seguì Gwen fino alla sua camera.
Quando entrarono aprì un cassetto e, preso un blocco da disegno, lo porse a Trent.
«Vorrei che lo tenessi te» disse seria.
«Oh, ma Gwen... Non posso, so quanto ci tieni...»
«Tu mi hai dato la tua musica, ed io ti do i miei disegni. E' uno scambio equo, no?» rispose sorridendo.
Il ragazzo rispose al sorriso, ringraziandola.
Iniziò a sfogliare l'album, ammirando quel tratto così preciso e pulito.
C'erano disegni di ogni genere; da persone a paesaggi, da animali a oggetti della vita quotidiana.
Arrivato all'ultimo foglio si fermò, affascinato dalla bellezza di quell'ultimo soggetto.
Si poteva vedere raffigurata una città devastata, con i grossi palazzi abbandonati e dalle finestre rotte che contornavano una strada deserta, dove le uniche macchine presenti sembravano essere abbandonate da tempo. Sullo sfondo un tramonto con un enorme sole che con la sua luce colorava il cielo con le più infinite tonalità di rossi e gialli.
I colori dei quei raggi si riflettevano sui muri dei palazzi scrostati, tra le crepe dell'asfalto e sulla vernice rovinata delle auto rendendo il paesaggio infuocato.
Pareva che l'intera città fosse sotto la furia delle fiamme.
«E' stupendo...» mormorò Trent.
Gwen sorrise soddisfatta.
«Grazie» rispose, «quello è l'ultimo disegno che ho fatto sulla Terra... Il giorno prima di partire mi è bastato andare nel centro della città e tracciare sulla carta quello che vedevo. E' come una foto del mio ultimo tramonto...»
Quando finì di pronunciare quelle parole si lasciò sfuggire un sospiro.
Sapeva bene che non avrebbe mai più visto un tramonto, era stata fortunata perché aveva avuto la possibilità di poterlo vedere.
Era strano pensare che da quel momento in poi ogni essere umano nato dopo il "grande trasloco” si sarebbe perso uno spettacolo del genere.
Una scena che quando la gente viveva ancora sulla Terra dava fin troppo per scontata, forse perché abituata a vederla ripetere ogni giorno.
Invece adesso quel magnifico avvenimento non si sarebbe più ripetuto, e Gwen questo lo sapeva.
Aveva deciso di tenersi dentro quel ricordo quasi come fosse un tesoro, come qualcosa di stupendo da raccontare alle generazioni a venire, a quelli che il sole tramontare non l'avrebbero mai visto.
«Sai una cosa, Gwen?» disse Trent distogliendola dai suoi pensieri, «Se riuscirò a far uscire il mio album penso che questa sarebbe un'ottima copertina.»
A quelle parole la ragazza scoppiò in un sorriso così naturale e pieno di gioia che fece sorridere anche lui.
Il fatto che Trent apprezzasse così tanto il suo disegno le infondeva una felicità enorme.
Non si era mai sentita così gratificata.
Forse non solo per il fatto che quella sarebbe diventata la copertina di un album che molte persone avrebbero visto, ma perché a dirgli quelle cose era stato Trent, il ragazzo che tanto aveva amato e che si stava rendendo conto di non aver mai dimenticato.
Gwen si lasciò trascinare dai suoi sentimenti e senza neanche pensarci si ritrovò ad abbracciare il ragazzo che subito ticambiò il gesto cingendola tra le sue braccia.
Lui, scherzando, la prese in braccio.
«Ehi, tirami giù!» esclamò divertita.
«Come vuole lei» gli rispose lasciandola cadere sul letto.
Scoppiarono entrambi a ridere.
Era da tanto che Gwen non rideva così; probabilmente non aveva mai riso tanto.
Ancora con il sorriso sulle labbra Trent si lasciò cadere a sua volta sul materasso a fianco a lei.
 Si voltarono, guardandosi negli occhi, sdraiati vicini.
La distanza tra i loro volti era talmente poca che ognuno poteva distinguere chiaramente il respiro dell'altro sulla pelle.
«Tu non sei normale» disse Gwen con fare scherzoso.
«Oh, ma tu mi dicevi sempre che ti piacevano le persone strane»
«In realtà non hanno mai smesso di piacermi» rispose avvertendo le guance avvamparsi in modo improvviso.
Trent gliele sfiorò, lasciando un solco fresco ed invisibile sulla sua pelle.
La sua mano arrivò poi a toccare una ciocca bluastra di capelli che gli spostò delicatamente dietro l'orecchio.
Quando le loro bocche furono abbastanza vicine le sfiorò leggermente le labbra, assaporandone il sapore di cui aveva tanto sentito la mancanza.
Fu così che si lasciarono andare ad un bacio più passionale, seguito subito dopo da molti altri.
Si tenevano stretti, stringendosi avidamente in un abbraccio.
Continuarono a baciarsi sempre con più foga, interrompendo quel contatto solo per riprendere fiato.
Mentre si baciavano Trent poteva avvertire gli angoli della bocca di Gwen inarcarsi in piccoli sorrisi.
Iniziarono a sfilarsi i vestiti, lasciandosi trascinare dalla passione.
Quel momento era così perfetto che non l'avrebbero cambiato per nulla al mondo.
I loro corpi combaciavano alla perfezione, come due pezzi di puzzle che finalmente erano stati riuniti.
Dopo tanti anni si erano rincontrati; non gli importava se ciò fosse avvenuto per colpa del caso o del destino.
Erano insieme, questo importava.
Si completavano a vicenda.
E se una volta toccato il suolo di quel bizzarro pianeta avessero provato a separarli non ci sarebbero riusciti.
Si sarebbero ritrovati, di nuovo, ogni volta come la prima.









Eccomi qua con una nuova fiction a carattere decisamente fantascientifico!
  Finalmente sono rientrata in possesso del mio computer e prima
  di continuare la long fic che ho in corso non ho resistito
  nello scrivere questa storia ;)
  L'idea è nata ascoltando "Moving to Mars" dei Coldplay, canzone di cui mi
  sono completamente innamorata.
  E' piuttosto strana, lo so... Ma ho una mente abbastanza perversa ;P
  Inoltre è rimasta anche un po' lunga, spero quindi di non avervi annoiato.

  Naturalmente un grande grazie va tutti quelli che
  sono arrivati a leggere fin qui
  :)

  Alla prossima!

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Capitolo 2
*** All that we have is a promise ***


Lo so, sono pazza.
 Probabilmente ho qualche strano disturbo mentale che mi ha permesso di scrivere questo nuovo capitolo.

Ebbene sì, ho deciso di continuare questa fanfiction, inizialmente nata come one-shot.
L'idea di dargli un seguito era veramente troppo forte ed ho ceduto alla tentazione.
Spero di non aver rovinato tutto...
Un enorme grazie va a tutti quelli che hanno recensito il primo capitolo, spingendomi a scrivere ancora.
Che sia stato un'errore? A voi l'ardua sentenza u.u
Per il momento vi lascio con la storia ;)

 





Quando Gwen si svegliò il mattino successivo non aprì subito gli occhi.
Lasciò prima che il profumo di Trent gli inondasse i polmoni, lasciandosi invadere da una sensazione di pace interiore che da molto tempo non provava.
Non le serviva sollevare le palpebre per sapere che lui fosse ancora lì, a fianco a lei.
Poteva avvertire la sua presenza dall'odore che inebriava la stanza e dal suo respiro lento e regolare.
Spostò leggermente il capo, in modo da appoggiarlo al petto nudo, lasciandosi così cullare dal battito del suo cuore che pompava ritmicamente, scandendo lo scorrere del tempo.
Quando decise di socchiudere gli occhi non ci fu nessuna luce abbagliante a stuzzicargli la vista.
Nessun raggio di sole pronto ad infiltrarsi nella stanza.
“Niente più albe o tramonti” si ripeté mentalmente, con malinconia, osservando la luce bluastra provenire dalla piccola vetrata.
Quel pensiero la riportò immediatamente alla realtà.
Doveva ancora abituarsi all'idea di trasferirsi lontano dalla Terra.
Rimase ancora a fissare le stelle fisse e brillanti del cielo, prima di spostare lo sguardo alla stanza.
Quando vide i vestiti sparsi per terra ebbe come la conferma che ciò che era accaduto la sera precedente non fosse stato un sogno.
Un sorriso si disegnò naturale sul suo viso.
Si accoccolò ancora di più tra le coperte mentre il suo sguardo ritornò a posarsi sul disordine della stanza.
Le sembrò quasi impossibile che ciò che aveva fatto fosse accaduto realmente.
Quanto tempo era che non vedeva Trent? Anni, probabilmente.
L'ultima volta l'aveva visto ad una riunione degli ex membri del reality, organizzata da Chris per fare una stupida intervista.
C'era stato solo una scambio veloce di parole tra i due, niente di più, se non qualche sorriso timido che aveva causato la gelosia di Duncan.
Già, Duncan.
Un amico, niente di più.
La loro storia era durata un po' prima che passione si spegnesse così, nello stesso modo in cui era nata. Niente bisticci, litigi o piatti rotti lanciati dalle finestre.
Soltanto la consapevolezza, nonostante le apparenze, di non essere stati fatti l'uno per l'altra.
Era stato strano vedere una storia finire così.
Certe volte avrebbe preferito che tutto fosse terminato con una litigata violenta piuttosto che provare l'indifferenza che aveva sentito nel momento in cui avevano preso la decisione di lasciarsi.
Il problema era che il fatto di separarsi da lui non gli aveva cambiato assolutamente niente.
Nessun pianto disperato, neanche una lacrima. Nulla.
La cosa terribile era stata la consapevolezza di aver sbagliato fin dall'inizio, nel momento in cui aveva attraversato il sottile confine che si era formato tra l'amore e l'amicizia.
Passando oltre aveva distrutto ogni possibilità di farsi perdonare da Trent.
Era quella la cosa che maggiormente l'aveva fatta stare male.
Gli ci era voluto del tempo per riuscire a capire che il vero motivo del suo malessere fosse stato quello.
Era stato difficile dover riconoscere quel suo errore a così tanta distanza di tempo da quando era stato commesso.
Ed ancor più complicato era stato il dover accettare che non ci sarebbe più stata occasione di tornare indietro per riparare tutto.
Si era dovuta arrendere alla realtà dei fatti, ed era stato terribile.
La sensazione di essere di nuovo sola la terrorizzava.
Dopo un primo periodo aveva provato a riempire quel vuoto ma mai ci era riuscita come in quel momento, tra le braccia di Trent.
Adesso poteva finalmente dire di sentirsi completa, senza più abissi da colmare.
Si sentiva anche in pace con il proprio passato, quasi fosse riuscita a rimediare ai propri errori.
Per un istante, nel mezzo di quelle riflessioni, il pensiero di aver commesso un nuovo sbaglio le sfiorò veloce la mente.
Infondo si erano appena rincontrati...
Ma fu un attimo; il tocco delicato di Trent che le sfiorava i capelli le fece cancellare immediatamente ogni preoccupazione, facendola sentire una stupida per il solo fatto aver dubitato di lui.
Gwen si girò su un fianco, sussurrandogli un “Buongiorno” a fior di labbra che subito venne ricambiato con un bacio dolce e delicato.
Era incredibile il modo in cui il tempo e la lontananza non avesse influito minimamente sul loro rapporto.
Entrambi avevano la certezza di non aver mai smesso di provare qualcosa per l'altro, come se i legami che li avessero uniti non si fossero mai sciolti completamente.
Erano bastate alcune ore passate insieme per riportare a galla quei sentimenti che in passato erano stati repressi per paura che divenissero fonte di dolore.
Si erano stancati di dover reprimere qualcosa di così profondo per la paura di dover soffrire.
Avevano deciso di amarsi, senza alcun limite, incuranti del dolore che ciò avrebbe potuto causargli.
Volevano soltanto essere di nuovo finalmente felici, insieme.
Il contatto tra le loro labbra si sciolse delicatamente, finché quelle di Trent andarono a sfiorare il collo della ragazza.
«Dormito bene?» chiese in un sussurro.
«Benissimo» mormorò lei, mentre un sorriso le si dipingeva sul volto, «mi sei mancato...».
«Anche te», disse stringendola più forte «terribilmente».
La sua bocca iniziò a sfiorarle il collo, scendendo fino alla schiena bianca e nuda, per poi tornare a posarsi sulla spalla.
«Questo non ce l'avevi prima» bisbigliò riferendosi al disegno sulle quali si poggiavano le sue labbra.
Proprio in quel punto, tracciato sulla pelle di Gwen, si trovava piccolo tatuaggio.
L'inchiostro nero era messo in risalto dalla pelle incredibilmente candida.
Tre semplici forme scure dalle sembianze di rondini erano incise sulla sua schiena e sembravano volessero prendere il volo.
«Che cosa significano?» chiese visibilmente incuriosito.
Gwen arrossì appena.
«Beh, ognuno sta a significare una cosa diversa... Questo» disse indicando la rondine posta più a sinistra, «rappresenta il nostro “trasloco”... Il volare via dalla Terra.»
Trent annuì e lei continuò a parlare.
«Quest'altro», continuò lei «l'ho fatto per David Huston... Era un mio professore quando studiavo all'Accademia. Gli devo molto, mi ha aiutato molto in un periodo non particolarmente felice.
Non penso che sarei riuscita a diplomarmi senza i suoi incoraggiamenti.
Era molto legato, come me, alla faccenda che riguardava l'inquinamento, alla soluzione del trasferirci tutti su Marte. Era totalmente contrario a questa decisione. L'hanno ucciso durante la Protesta del 22 aprile a Toronto. Non penso che sarei qui se non ci fosse stato lui...»
«Hai partecipato alla protesta del 22 aprile?» domandò incredulo Trent.
Gwen annuì seria.
«E' stato terribile» si limitò a spiegare.
Qualunque persona poteva ricordarsi chiaramente ciò che era avvenuto in quella giornata per le strade di Toronto.
Era stata una delle molte manifestazione che si erano tenute in tutto il mondo, durante gli ultimi mesi di permanenza sulla Terra.
Era stata organizzata, inizialmente, come una protesta pacifica finché i governi non avevano deciso di mettere a tacere le persone con il fuoco.
Già ai primi spari era scoppiato il panico generale tra la folla che aveva iniziato a scappare, schiacciandosi e calpestandosi, nel disperato tentativo di fuggire.
Era lì che David l'aveva aiutata a salvarsi. Poi lui era scomparso, volato via, proprio come la rondine che ora Gwen portava incisa nella carne.
In quel giorno la rabbia della gente era arrivata ad un apice mai raggiunto prima.
Pensare che fino a 11 anni prima nessuno avrebbe mai immaginato cosa sarebbe potuto succedere a partire dal momento in cui un gruppo di scienziati aveva
presentato orgoglioso una nuova scoperta.
Gwen ricordava di essere tornata da poco a casa dopo la fine della terza stagione del reality quando suo fratello gli aveva annunciato la scoperta di una strana particella.
Suo fratello aveva sempre avuto la fissazione per quelle complicatissime cose e lei, ancora di pessimo umore per le esperienze vissute, l'aveva completamente ignorato, senza fermarsi ad ascoltare qualcosa di più su quella strana faccenda.
Eppure, anche ai telegiornali e per strada, la gente non parlava d'altro.
Particelle d'ombra, in grado di generare enormi quantità di energia se messe in collisioni con altre.
Come se improvvisamente si fosse trovato il pezzo mancante di un grande puzzle, la scienza aveva iniziato a svilupparsi in una maniera straordinariamente impressionante.
L'energia che si era in grado di estrapolare da quelle particelle non era minimamente paragonabile a quella di qualsiasi altro combustibile.
Così tutto iniziò a evolversi come mai era accaduto prima.
Niente scenari futuristici come macchine del tempo o teletrasporti, ma progressi comunque di importante portata in qualsiasi più svariato campo; medicina, trasporti, fisica, chimica, matematica, astronomia...
Ma c'era gente che diffidava della scoperta di questa nuova fonte di energia.
Era veramente sicura e affidabile come tutti assicuravano?
Così dicevano, finché qualcosa non andò storto e tutto iniziò a declinare.
Era difficile riuscire a gestire una forza tanto grande ed era bastato un niente a rovinare tutto.
Avevano irrimediabilmente distrutto la Terra nel giro di un decennio; sbalzamenti del clima, modificazione dei paesaggi, estinzione di migliaia di specie...
Anche le conseguenze sociali erano state devastanti.
L'unica cosa che era rimasta era una tecnologia sviluppatissima, un pianete inabitabile e uno prossimo alla colonizzazione: Marte.
Così era iniziato tutto.
Così il signor David Huston era morto, lasciando un ricordo nella mente di molti e un insegnamento di vita ben più grande della storia dell'arte che si trovava sui libri di scuola.
Ed era così che Gwen e Trent si erano rincontrati, mentre ora lei gli raccontava la storia celata dietro quel simbolo inciso sulla sua pelle.
Trent rimase in silenzio, ascoltando gli sfoghi della ragazza sulle ingiustizie accadute negli ultimi anni.
Quando lei finì, lui si limito a baciarle con un gesto leggero la spalla, avvolgendo la sua mano tra quella di Gwen.
Annuì comprensivo e riprese ad ascoltare la storia di quei segni.
«E quest'ultima?» gli domandò soffiandole sul collo indicando la rondine rimasta, collocata in una posizione più centrale rispetto alle altre due.
«Mio padre» rispose in un sussurro, «Ma questa storia mi pare di avertela già raccontata tempo fa... Lui non centra niente con quello che è successo ultimamente. E' semplicemente volato via un po' prima del dovuto» bisbigliò con voce rassegnata, celando un velo di malinconia.
Seguì un momento in cui il silenzio cadde nella stanza, poi Trent avvolse la ragazza tra le sue braccia, avvicinandola al petto.
Chinò leggermente la testa, appoggiando le labbra nell'incavo della sua spalla.
«Ti prometto, Gwen» disse serio «che qualsiasi cosa succederà io non me ne andrò via. Qualsiasi cosa, Gwen, è una promessa».
Si strinsero ancora più forte.
Erano in volo, insieme, verso un luogo sconosciuto e nessuno dei due, una volta atterrato, avrebbe ripreso il volo senza l'altro.
Era una promessa, ed una promessa era tutto ciò che avevano mentre viaggiavano verso l'ignoto.

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Capitolo 3
*** One day, maybe, we'll meet again ***


Il tempo scorre velocemente...
Un pensiero stupido, delle parole dette e sentite migliaia di volte, eppure allo stesso tempo una frase così vera.
Era questo il pensiero che continuava a risuonare nella testa di Gwen, come un'eco continuo, mentre riponeva quei suoi pochi affetti personali in un borsone consunto.
..Troppo velocemente.
Continuava a ripeterselo quasi come fosse una colpa.
Era passato circa un mese e mezzo da quando si era risvegliata tra le braccia di Trent e da quel momento le lancette avevano iniziato a scorrere con rapidità.
I giorni erano passati come attimi tra baci, carezze e frasi dolci sussurrate a bassa voce.
Ogni cosa intorno a lei aveva preso colore, acquisendo una vividezza mai avuta.
Le sensazioni che provava erano finalmente reali, concrete.
Le attraversavano la spina dorsale, fin sotto la pelle, infiltrandosi tra le vene e le ramificazioni dei capillari facendola sentire viva.
Il cuore aveva ripreso a pomparle caldo nel petto.
Prese un'ultima maglia rimasta sistemandola insieme alle altre all'interno del borsone, per poi afferrare la cerniera e chiuderla con lentezza, osservando i lembi del tessuto ricongiungersi tra di loro.
Sarebbe stata in grado anche lei di rimarginare le sue ferite in quel modo?
La sua mente cercava già ad abituarsi al dolore che da lì a poco avrebbe dovuto sentire.
Sentiva tutta la felicità accumulata in quell'ultimo mese scivolargli tra le dita, piano, lentamente, soffrendo ad ogni minimo granello caduto.
Si alzò in piedi con il pesante borsone a tracolla, avvicinandosi alla porta e buttandolo in un angolo lì vicino.
Poi si richinò, fino ad arrivare ad afferrare un foglio accartocciato a terra.
Lo prese per i lembi, iniziando a stirare le pieghe della carta tra le dita.
Non sapeva esattamente spiegare perché lo stesse facendo. Che senso aveva rileggere quelle parole, ormai tristemente conosciute a memoria, un'altra volta?
"Gentile signorina Bla, bla, bla... Siamo lieti di annunciarLe che il viaggio è quasi giunto al termine con successo grazie all'ottimo lavoro svolto dal nostro equipaggio, Bla, bla, bla... Al momento dell'atterraggio è quindi gentilmente pregata di presentarsi allo sbarco numero 16 in attesa del Suo successivo trasferimento Bla, bla, bla..."
Parole, soltanto stupide parole, stampate su un foglio con un inchiostro ormai sbavato dalle lacrime.
Ed ecco ora un'altra goccia caderle silenziosa dalle ciglia, incontrando l'ostacolo della carta ed andando in frantumi.
Gwen vide il numero sedici, prima scritto con un carattere dai contorni netti, trasformarsi soltanto in un'altra brutta sbavatura al contatto con la sua lacrima.
Chissà quante altre lettere come la sua erano state scritte e recapitate.
Tutte uguali; stessi finti saluti e pavoneggiamenti sull'ottimo lavoro svolto, contornati da una sfilza di “cordiale”, “gentilissima” e“cortesemente”.
Tutte identiche fino alla nausea, se non per una piccola differenza: il destinatario ed il numero dello sbarco.
Questo era ciò che rendeva diversa la sua lettera da quella di Trent.
Il numero, in particolare.
Il sedici per Gwen, il diciassette per Trent.
La banale distanza di una cifra che li avrebbe resi terribilmente distanti uno dall'altra.
Li avrebbero divisi.
Si accasciò sul pavimento freddo, scivolando con la schiena lungo la parete metallica.
La carta si accartocciò tra le sue mani, soffocata dalle dita strette in un pugno.
Con tutta la rabbia che aveva in corpo gettò la lettera in un angolo della stanza, osservandola con gli occhi pieni di astio, quasi potesse prendere fuoco e diventare all'istante cenere, cedendo q uello sguardo ricolmo di odio.
Se la stava prendendo con un pezzo di carta... Eppure, non riusciva a trovare un'altra cosa sulla quale esprime tutto il suo disprezzo.
Era tutto tremendamente ingiusto, non potevano separarli, non ora, non adesso che si erano appena ritrovati.
C'era un modo per poter cambiare la situazione? No, si rispose mentalmente, con gli occhi velati dalle lacrime.
Ci avevano provato, ma i loro sforzi erano stati totalmente inutili.
Trent aveva quasi assalito un addetto all'ordine per poter parlare con uno dei responsabili di quel trasferimento, nel tentativo di risolvere il problema.
Gwen non l'aveva mai visto comportarsi così, e sapeva che se l'aveva fatto l'unico vero motivo era che anche lui aveva capito che non c'era più niente da fare.
All'improvviso sentì bussare alla porta. Si alzò lentamente ed andò ad aprire.
«Oh...» sussurrò sorpresa, alla vista di Trent, «E' già ora?»
Lui le rispose con un movimento del capo.
Sentì un forte senso d'ansia salirgli dal petto, facendole venire la nausea.
«Aspettami qui...» riuscì a malapena a mormorare, «Vado un attimo in bagno».
Si diresse verso la piccola stanza in fondo alla camera, richiudendo la porta dietro di sé.
Iniziò a respirare lentamente, sciacquandosi la fronte imperlata di sudore con dell'acqua.
Sentiva le gambe molli, la punta delle dita tremargli leggermente e una forte sensazione di freddo invadergli il corpo.
Rimase per un po' immobile, le mani salde al lavandino, prima di dirigersi nuovamente verso Trent.
Anche lui sembrava provare le sue stesse sensazioni, con il viso più pallido del solito.
Quando la ragazza si chinò per prendere il bagaglio si sentì schiacciare sotto quel peso.
«Tranquilla, faccio io» la rassicurò Trent, sfilandole la presa dal borsone.
Con la mano libera strinse forte quella gelida di Gwen, uscendo per l'ultima volta dalle pareti di quella camera, testimoni del loro tempo passato ad amarsi.
Chiudendo quella porta avevano avuto l'impressione di lasciarsi dietro un pezzo della loro storia.
Fuori nei corridoi, tanta gente vagava alla ricerca della propria sala di sbarco.
Quando arrivarono al bivio che separava il numero sedici dal diciassette i loro passi rallentarono, fino a fermarsi.
Trent porse il bagaglio alla ragazza, poggiandolo ai suoi piedi.
Gwen gli sfiorò le mani, fissandolo intensamente.
«Trent, io non voglio...» mormorò con voce rotta.
Lui la strinse in un abbraccio, affondando la testa nei suoi capelli.
«Non è giusto, non dovevano farlo...» continuò, «mi avevi promesso che non te ne saresti andato».
A quelle parole il cuore del ragazzo sembrò spezzarsi.
«Ho fatto il possibile, veramente, te lo giuro...»
«Non è giusto» ripeteva Gwen, «se ne vanno sempre via tutti... Non è giusto...»
Trent sciolse cautamente l'abbraccio, poi, con delicatezza, prese il viso della ragazza tra le sua mani, osservandola negli occhi neri e umidi.
«Gwen» scandì bene il suo nome, mantenendo il tono di voce il più più fermo possibile, «ti avevo promesso che non ti avrei mai lasciata, è vero. Ma solo perché quelli adesso ci dividono non vuol dire che la mia promessa non sia più valida. Ti penserò sempre, e sono sicuro che ci rincontreremo. Risolveremo tutto, troverò un modo. Veramente, farò di tutto per fare sì che ciò accada... Credi che potrei mai arrendermi adesso?»
Seguì un attimo di silenzio in cui Gwen si perse nella sincerità che traspariva dagli occhi del compagno.
«Mi mancherai» si limitò a rispondergli, avvicinandosi al suo viso.
«Anche te» sussurrò ad un centimetro dalle sue labbra, per poi unirle in un bacio.
Incuranti degli sguardi dei passanti, continuarono quell'effusione a lungo, con le lacrime che lentamente andavano a morire nel punto in cui le loro bocche si incontravano.
Una voce che fuoriusciva dagli altoparlanti invitava la gente ad affrettarsi a raggiungere la propria sala di sbarco, riportandoli alla realtà.
«Dobbiamo andare adesso» sentenziò lui, come fosse una condanna.
La mano di Gwen era ancora poggiata sulla guancia del ragazzo.
«Tieni» aggiunse il Trent, porgendogli un foglio di carta tutto stropicciato.
Lei riconobbe la lettera che poco prima aveva gettato con rabbia in un angolo della sua stanza.
Probabilmente l'aveva raccolta mentre era andata in bagno.
«Non la voglio» rispose decisa, ancora segnata dall'odio che provava per le parole tracciate su quella carta.
«Prendila comunque, è tua. Non si poteva lasciare immondizia nella camera, e poi, magari, te la chiedono allo sbarco...»
Gwen decise di mettersela in tasca, un po' stranita da quella richiesta.
«Non fare niente che possa metterti nei guai» continuò, «E ricordati che non possono impedirci di rincontrarci... Perché lo faremo».
Le loro mani continuavano a sfiorarsi, le guance erano ancora segnate da solchi umidi.
Trent le asciugò una lacrima che si stava facendo strada sulle labbra della ragazza.
Le loro bocche si unirono ancora, in un altro bacio.
«Non sarà l'ultimo, vedrai...» le bisbigliò nell'orecchio.
Un sorriso si disegno sul volto di Gwen.
La sicurezza con cui quelle parole erano state pronunciate le fecero accendere la speranza che ciò fosse veramente vero.
«Ti credo» affermò con un'innata positività, «mi fido ti te».
Rimasero avidamente stretti uno tra le braccia all'altro.
I corridoi iniziavano a svuotarsi, una guardia sembrava scrutarli severamente.
«Adesso vai, Gwen»
Lei esitò, fissandolo negli occhi, poi prese il bagaglio e si avviò di corsa verso la sala di sbarco, mentre Trent si muoveva nella direzione opposta.
In quel momento si voltò, incontrando lo sguardo di Trent, anch'esso voltato nella sua direzione.
Alla vista di quello sguardo, le lacrime le appannarono nuovamente gli occhi.
Cercò di reprimerle, così come cercò di ignorare la sensazione atroce che non provava oramai da più di un mese; la solitudine.
Nel grande atrio dove si era dovuta recare si sentì, infatti, terribilmente sola.
Non sarebbe bastata la moltitudine di gente che affollava il posto a fargli svanire lo spiacevole senso di vuoto che provava nel petto.
Solo una persona era in grado di colmarlo, ed in quel momento si stava allontanando sempre di più da lei.
La claustrofobia che aveva imparato a controllare negli anni passati sembrò voler di nuovo tornare a opprimerla, premendole sulle costole.
Respirando lentamente si avvicinò ad un angolo della sala, sedendosi sul pavimento.
Il forte rumore dei motori della navicella, probabilmente già intenta in qualche manovra di atterraggio, si aggiunse al vociare della gente.
Gwen si sentì soffocare.
Appoggiò la testa al muro, portandosi le mani sulle gambe.
Con i polpastrelli sentì nella tasca la carta porosa della lettera che tanto odiava.
La prese in mano, iniziando ad aprirla, prestando attenzione nello stirare con cura le pieghe, nel tentativo di concentrarsi su qualcosa che non fosse l'opprimente sensazione che gli pesava sullo stomaco.
In quel momento le lacrime, che con molta fatica era prima riuscita a reprimere, sgorgarono sul suo viso.
In un angolo della lettera, segnate con una scrittura inconfondibile, erano state scritte due parole;
«Ti amo».


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Capitolo 4
*** I'm so hollow, baby ***


La gente le aveva parlato molto su come sarebbe stata la nuova vita di tutti una volta toccata la terra rossa di Marte. I racconti di storie di paesaggi fantascientifici ai limiti dell'immaginazione si alternavano a quelle di scene di una vita quasi totalmente identica a quella che avevano passato sulla Terra.
Ormai le voci erano talmente tante che era diventato difficile riconoscere cioè che era vero dai semplici pettegolezzi.
Quella mattina la gente allo sbarco numero sedici mormorava nervosa, stretta tra le cinture di sicurezza dei loro sedili.
Avevano etichettato i loro bagagli, riponendoli dove gli era stato indicato, ed ora aspettavano il momento dello sbarco con il cuore che martellava insistentemente nel petto.
Erano famiglie con bambini o semplici coppie di giovani ragazzi, le mani intrecciate in una leggera trama color carne dalla quale spiccavano minuscole fedi dorate.
Gente giovanissima, ma che aveva comunque deciso di legarsi tramite quel vincolo così sacro pur di non perdersi.
Una mano, ecco cosa sarebbe servito a Gwen.
Un po' di carne, qualche ossa... Niente di più. Una mano da poter stringere, che le dicesse che in quel momento sarebbe andato tutto bene, che non era realmente sola.
Tra tutta quella gente, quelle trame di pelle e di sangue, provava quasi paura ad abbassare lo sguardo, ad osservare quegli spazi tra le sue dita così vuoti senza niente in grado di colmarli.
Era rimasta così, ferma ed immobile, con quel foglio accartocciato a tenerle compagnia per tutta la durata delle manovre di atterraggio, ignorando il nodo alla gola e le lacrime calde solleticarle il collo.
Una donna, seduta a fianco a lei le si era avvicinata.
«Va tutto bene, signorina?», le aveva chiesto, sbattendo più volte le ciglia lunghe e nere, con l'aria visibilmente preoccupata.
Gwen era rimasta un attimo in silenzio prima di risponderle.
«Sono solo un po' nervosa», le aveva risposto con un finto sorriso.
La donna aveva annuito poco convinta, ed era ritornata subito dopo ad accarezzare i capelli corvini del figlio.
Gwen le era stata grata per non aver insistito. Non le era mai piaciuto parlare dei propri problemi alla gente, tanto meno avrebbe desiderato farlo in quel momento.
Ma per un attimo, per un infinito attimo, aveva come odiato quella donna.
Forse quello non era il termine corretto, forse sarebbe stato più preciso dire che era gelosa, ma non le era piaciuto il modo in cui le sue mani della donna si erano delicatamente mosse nel momento in cui si era portato un ciuffo di capelli scuri dietro orecchio.
Per un istante aveva visto anche su quell'anulare sinistro e sottile l'anello dorato emettere un flebile luccichio.
Quella donna era sposata, aveva un figlio. Non era sola ed aveva probabilmente pochi più anni di Gwen. Quanto tempo le ci sarebbe voluto, invece, a lei ottenere tutto quello? Ne sarebbe stata in grado dopo tutto ciò che era successo?
Era strano ma dopo quel tempo passato con Trent le sembrava quasi impossibile immaginare la sua vita con un altro. Forse lo era veramente, impossibile. Non sapeva se avrebbe avuto la forza di ricominciare; a malapena sapeva dire dove si sarebbe trovata tra qualche ora.
In quell'instante, nel mezzo dei suoi pensieri, un forte stridore distrasse Gwen dalla sua mente.
Quando quel suono fastidioso cessò, cadde il silenzio.
Una voce annunciò qualcosa, solo parole impercettibili e non in grado di sovrastare il mormorio della gente appena riniziato e più forte di prima.
Quando iniziarono a dividere le persone in piccoli gruppi per preparali a scendere al suolo il cuore di Gwen pompò forte nel petto. Battiti veloci, pieni d'ansia e di paure. Non era come quando ad accelerarne il ritmo era uno scambio di sguardi con Trent.
Avvertirono tutti dei possibili giramenti di testa dovuti a dei cambi di pressione, di non preoccuparsi per lo strano iniziale formicolio alle braccia che avrebbero potuto provare nei primi cinque minuti in cui avrebbero toccato la terra....
“Saranno tutte situazioni momentanee, vi abituerete presto”.
Già, ma quanto le ci vorrebbe voluto, non al corpo ma alla mente, ad abituarsi a quella situazione?
Mentre avanzava verso l'uscita si sentì confusa, distaccata da tutto il resto. Forse era un sogno, uno strano sogno, molto realistico, ma pur sempre un sogno...
Nel momento in cui si ritrovò davanti all'uscita una strana luce le illuminò gli occhi.
Emettendo un sospiro fece un passo in avanti.
Appena toccò la terra le sue scarpe si ricoprirono di una fine polvere rossiccia.
Per un attimo trattenne il fiato, chinando leggermente il capo e socchiudendo gli occhi.
Poi, quando l'ossigeno venne a mancare, ispirò fortemente.
Poteva respirare.
Era stato stupido, ma era stata seriamente spaventata dall'idea che ciò non fosse possibile.
Un sorriso stupito le si disegnò fugace sul volto, mentre alzava lo sguardo verso la volta celeste.
Il cielo sembrava leggermente opaco però era... Bello.
Il rosso dominava il paesaggio, dove spiccavano strani edifici e torrette biancastre e, alle sue spalle, la navicella che le aveva fatto da casa per tutta la durata del viaggio. Vista dall'esterno era veramente enorme, eppure era l'unica cosa ad apparirle familiare in quel luogo. Intorno a lei gruppi di persone osservavano con aria spaesata l'ambiente. Quasi inconsciamente Gwen si ritrovò a cercare il viso di Trent tra tutti quei volti, rendendosi conto solo dopo di quanto ciò fosse inutile.
Con un espressione delusa ispirò nuovamente quell'aria ferma ed inodore, passando a posare lo sguardo su un uomo dai capelli brizzolati, probabilmente sulla cinquantina, che camminava con passo svelto e sicuro nella loro direzione, distinguendosi dagli altri per la sua aria sicura.
Mentre si avvicinava Gwen poté notare un cartellino appeso al petto, sulla sinistra, senza tuttavia riuscire a metterlo a fuoco.
Lei non sembrò l'unica ad esserne attirata, altri insieme a lei si voltarono ad osservarlo.
«Siete dello sbarco numero 16?» domandò, senza bisogno di dover richiamare l'attenzione, oramai già tutta puntata su di lui.
La gente annuì con dei mormorii confusi.
«Bene», proseguì l'uomo, segnando distrattamente qualcosa su un palmare «Io sono Victor Hodges, lavoro come organizzatore sociale. Vi accompagnerò presso le vostre nuove abitazioni. Mi pare che vi abbiano già avvertito di questo prossimo secondo viaggio, giusto?»
Il gruppo annuì nuovamente, questa volta con meno sicurezza.
«Ottimo. Non dovrete preoccuparvi per la durata, questo sarà decisamente più breve, un'ora e mezza circa, per l'esattezza. Adesso immagino che alcuni di voi si stiano chiedendo come facciano a respirare senza alcuna attrezzatura o senza galleggiare nel vuoto. Probabilmente ne avrete già sentito parlare, ma ultimamente ho scoperto che circolano molte versioni piuttosto incerte su tutto ciò. Sopravvivere su questo pianeta è possibile poiché ci troviamo come all'interno di una grande “bolla” che ci divide dall'atmosfera esterna. Come sapete ognuno di voi è stato assegnato a diversi settori. Potete considerare ognuno di questi settori come delle città diverse, ognuna situata all'interno di una Bolla ben distinta e in delle zone dove il terreno è più depresso, in modo da garantire maggiore protezione dalle intemperie. Questa Bolla ci protegge dall'esterno; tempeste di sabbia, basse temperature, assenza di ossigeno e gravità... Fa apparire la vista del cielo un po' più sfuocata del normale a causa del suo spessore però, in compenso, ci permette di sopravvivere. E' tutto regolato da dei laboratori ai confini della Bolla... Un capolavoro della scienza. Più avanti avrete tempo di capirne meglio il funzionamento, ma per il momento è essenziale che ne conosciate un aspetto generale.»
L'uomo continuò a parlare, ma Gwen perse il significato di quel discorso. Tutte quelle parole le apparivano come delle frasi confuse e sconnesse, senza significato. Aveva smesso di ascoltarle.
Erano diventate un semplice sottofondo dei suoi pensieri.
Chiuse gli occhi lentamente. Poteva avvertire il leggero senso di stordimento, come un ronzio alle orecchie. Sollevò nuovamente le palpebre, portando lo sguardo al cielo.
La sua mente era altrove, lontana dalla Terra, da Marte, da tutto, da qualsiasi corpo celeste esistente.
Galleggiò per un tempo indefinito nel vuoto. Aveva così tanta confusione nella testa, così tanti pensieri da non riuscire a metterne a fuoco neanche uno. Era nel nulla.
Poi, la voce dell'uomo, la riportò alla realtà.
«Ora vi pregherei di seguirmi per dei controlli e per accertare alcuni documenti. Poi potremmo procedere per il secondo imbarco.»
Ancora confusa Gwen seguì il gruppo, fino ad arrivare ad una di quelle strutture metalliche bianche ben distinguibili dal rosso ruggine della terra.
Intorno a lei altri gruppi di persone si muovevano in direzioni diverse, ognuna con una mano stretta in quella del figlio, della madre... Della persona che amavano.
Ogni tanto incontrava con lo sguardo persone sole come lei, come Trent.
Chissà dov'era in quel momento.
Forse non era del tutto sola nella sua solitudine, c'era gente altrettanto sperduta come lei senza nessuno pronto a stringerle la mano in quel momento, pensò mentre veniva invitata ad entrare in un edificio bianco dalla forma moderna.
All'interno di quello strano posto si ritrovò a dettare i suoi dati ad una donna con il capo chino sullo schermo di un computer, dietro ad una delle decine di scrivanie che ingombravano quel luogo.
Forse avrebbe trovato qualcuno con cui consolarsi.
Forse quel qualcuno potrebbe essere Trent. Magari potrebbe essere lui.
«Bene, quindi... Gwendolyn Fahlenbock, giusto? Originaria di Toronto?» chiese la donna digitando le ultime parole sulla tastiera.
«Si, si...»
«Ottimo. Ultima cosa; ci sono stati per caso dei problemi con il trasferimento?»
«Beh, mio fratello e mia madre che non sono riusciti ad imbarcarsi insieme a me...»
«Si, questo è problema che è capitato a molti. Ciononostante mi pare di vedere dai dati che rimarrete collocati in abitazioni quasi adiacenti...»
«Capisco, però ci sarebbe anche un ragazzo... Noi saremmo dovuti rimanere insieme, invece allo sbarco ci hanno separati ed io...» la voce le tremò, impedendole di continuare.
«Mmh, strano. E' raro che succedano errori del genere... Dal computer, però, lei non mi risulta sposata»
«Ecco, effettivamente io non lo sarei... Ma non si potrebbe», si affrettò ad aggiungere prima di venire interrotta «trovare un modo per rimanere comunque insieme?»
«Mi spiace, ma se non siete sposati o legati da qualche vincolo di parentela non è possibile»
«La prego, non si può trovare un soluzione?» la implorò Gwen.
La donna sospirò.
«Non è possibile, veramente. Non ci è permesso.»
Anche Gwen sospirò, portandosi le mani alla fronte.
«Non potrei almeno sapere dove si trova, contattarlo in qualche modo? La prego, per favore...»
«Non posso, sono dati personali. Mi dispiace, sul serio, ma proprio non è possibile»
«Oh... » rispose delusa, «Non potrebbe proprio...?»
«No» disse duramente «non mi è permesso»
Gwen osservò quella piccola possibilità di ricongiungersi a Trent andare in frantumi riuscendo ad emettere in risposta un semplice «E' lo stesso, non fa niente»
Eppure non era niente. Il quel momento venire a conoscenza di una qualsiasi singola informazione su di Trent sarebbe stato fondamentale. In qualche modo un fastidioso granello di speranza non voleva cedere dentro di lei, aggrappato alla convinzione che forse rincontrarsi sarebbe veramente stato possibile.
«Signorina?» la richiamò la donna.
«Si?» rispose distrattamente.
«Questi sono i suoi nuovi documenti», disse porgendoglieli «è importante che lei li porti sempre con sé. Questa, invece è una tessera magnetizzata. Le servirà come chiave per la sua nuova abitazione ed è fondamentale che non la perda. Ottenerne una nuova copia in tempi brevi sarebbe piuttosto difficile oltre che costoso, naturalmente.»
Gwen se la rigirò per un po' nelle mani, poi ringraziò la donna e tornò a raggiungere il resto del suo gruppo.
«Bene, vedo che ci siamo tutti», annunciò Victor Hodges «adesso dovremmo terminare degli ultimi controlli prima di intraprendere il secondo viaggio che vi porterà alle vostre abitazioni. Giungeremo a destinazione tramite un maglev, un treno a levitazione magnetica, che passerà attraverso una rete di tunnel sotterranei».
Gwen rabbrividì. Cos'altro avrebbe dovuto sopportare dopo quello? Magari ritrovarsi a vivere sottoterra? L'idea di dover passare del tempo in un tunnel chiuso non faceva che terrorizzarla ancora di più.
«Stiamo lavorando per rendere i viaggi ancora più veloci, tuttavia questo non avrà una lunga durata. Nell'attesa riceverete alcune informazioni riguardati i nuovi stili di vita che dovrete adottare. Ora vi prego di seguirmi.»
Sempre più confusa Gwen camminò fino a raggiungere ad un punto molto simile all'entrata di una metropolitana, con scale mobili dirette verso il basso, ma molto più pulita e moderna, dai colori chiari e brillanti.
Continuò ad andare avanti tra i corridoi affollati, mantenendosi vicino al gruppo fino a quando arrivò ad una zona in cui tutta la folla sembrò districarsi in diverse code.
Davanti a lei treni dalla forma lunga e affusolata si riempivano di gente.
«Da questa parte», li avvisò la loro guida «dovete far scorrere la tessera magnetica che vi è stata data ai controlli in questa fessura e poi potrete salire e prendere posto»
La folla scorreva in file lente e quando finalmente anche Gwen poté sedersi si lasciò sprofondare sul sedile emettendo un lungo sospiro.
Si sentiva esausta e confusa. Aveva addirittura perso la cognizione del tempo, non aveva idea di che ora potesse essere. Il mormorare della gente ormai era diventato un sottofondo fastidioso e difficile da ignorare. Dopo un po' una voce annunciò la partenza.
Guardò fuori dal finestrino da cui si potevano semplicemente osservare le luci del tunnel scorrere ad intermittenza. Si fermò per un attimo ad osservare il suo riflesso stanco finché il suo fiato caldo non appannò il vetro. Fuori doveva fare freddo.
Si strinse nella sua felpa, appoggiandosi allo schienale morbido.
Tirò fuori dalle tasche i suoi documenti e la tessera magnetica. Quando la sue mani toccarono la carta ruvida del foglio datole da Trent si fermò un attimo ad accarezzarne le pieghe.
Quando la rilesse vide come le parole del ragazzo erano ancora segnate lì, con l'inchiostro un po' sbavato ma ancora ben marcate, con quella scrittura unica e scorrevole.
Alla fine era accaduto realmente, si erano divisi.
Eppure quelle due parole, quel “ti amo”, era sempre lì, scritto su quella carta, pronto a ricordarle che forse non era ancora tutto deciso.
Probabilmente sarebbe toccato a lei scegliere quando sarebbe stato il momento di segnare la scritta fine alle parole di quella lettera.
Non si sentiva ancora pronta ed in grado di farlo e chissà se mai ne sarebbe stata capace pensò, mentre le luci scorrevano veloci fuori dal finestrino conducendola nuovamente verso qualcosa di sconosciuto.
Questa volta, però, non c'erano le braccia di Trent pronte a stringerla e a rassicurarla, nessuna voce vicina a sussurrarle dolci consolazioni.
Questa volta era sola e l'idea della solitudine la terrorizzava ancor più del senso di claustrofobia che le premeva sul petto.
Erano riusciti a inventare milioni di cose, a distruggere un pianeta e a trovare le risorse per colonizzarne un altro.
Allora, perché era veramente così difficile trovare il modo per far sì che due persone potessero stare insieme?






Prima di tutto scusatemi tantissimo per il ritardo.
Ammetto che lavoravo da un pò al capitolo ma sono riuscita a finirlo solo ora.
Sono un pò di fretta, quindi non l'ho riletto molto bene. Quando avrò tempo lo ricontrollerò più attentamente, corregendo eventuali errori.
Ho deciso di pubblicarlo adesso perchè non so se sopravviverò al Capodanno :P
Quindi colgo l'occasione per augurarvi un felice anno nuovo! 
Ora scappo a preparami!
E, come al solito, ringrazio tutti voi che continuate a seguirmi ;)


 

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Capitolo 5
*** I just wanted to hold you in my arms ***


Gwen sporse il naso sullo scaffale più alto, alzandosi in punta di piedi.
Doveva pur esserci una confezione di mais che non fosse geneticamente modificata, non potevano non venderla. Scrutò ancora il ripiano colmo di barattoli di qualsiasi forma e colore, con le caviglie che iniziavano a tremare per lo sforzo prolungato.
Ad un certo punto il suo viso si illuminò alla vista della scritta "senza OGM" che risaltava debolmente tra tutta la merce esposta.
Rigirò il barattolo tra le dita, scorrendone la superficie con la punta delle dita.
Prima di aggiungerlo al carrello diede un veloce sguardo allo scaffale, come per memorizzarne la posizione e subito il suo sguardo soddisfatto sfumò in un'espressione delusa alla vista del prezzo.
Una cifra esorbitante per qualche chicco di mais, decisamente esagerata, troppa per le sue possibilità. Non poté far altro che riporre la confezione al suo posto, insieme a tutte le altre, per poi scambiarla con una delle tante dal patrimonio genetico ben diverso da quello che in origine doveva avere una qualsiasi pianta di granoturco.
Continuò ancora a camminare lentamente tra gli scaffali, osservando con fare disinteressato le decine di diversi prodotti esposti.
Quando si trovò a passare tra il reparto delle carni il suo sguardo si posò quasi involontariamente su uno dei tanti espositori. Ogni volta, passandoci accanto, non poteva non rimanerne indifferente.
La vista di quegli strani affettati ed hamburger le causavano ogni volta una strana sensazione di disgusto, quasi nauseante. Si soffermò a leggere l'etichetta applicata sopra l'involucro trasparente di una “comune” bistecca. 
“La carne prodotta nei laboratori McKennitt garantisce un gusto saporito, un certificato processo di lavorazione chimica e la totale assenza di qualsiasi prodotto di origine animale”.

Con la punta di un dito premette quasi con diffidenza la sottile pellicola trasparente, constatando la consistenza gommosa del prodotto. Era sempre stata piuttosto dubbiosa a proposito della carne prodotta in laboratorio. A dir la verità faticava a considerare vera e propria carne qualcosa che prima non era mai stato vivo. Provò ad immaginarsela col suo vero colore, un bianco lattiginoso, quello che realmente avrebbe avuto se non ci fossero stati i coloranti a donarle quella scura tonalità vermiglia. Non l'aveva mai assaggiata, la schifava il solo pensiero. Automaticamente la sua mente collegava l'idea di un pasto a base di quella carne con la sensazione di mangiare un sacchetto di plastica. Eppure, ogni volta, non poteva non rimanerne incuriosita, nonostante continuasse a rimanere ferma sull'idea che mai l'avrebbe assaggiata.
Continuò ancora a scorrere tra gli scaffali, prendendo qualcosa di tanto in tanto, per poi iniziare ad avvicinarsi alle casse. Pagò ad una cassa automatica, maledicendola più volte, dirigendosi infine verso le grandi porte di vetro che componevano l'uscita.
Ogni volta che usciva si sentiva persa, disorientata.
Subito lo sguardo si alzava automaticamente in direzione del cielo, troppo blu e profondo, ricordandole quanto tutto fosse diverso. Con la busta stretta in una mano si avvicinò al ciglio della strada, in attesa del metrobus che l'avrebbe ricondotta a casa.
Le macchine ormai erano un mezzo di trasporto completamente dimenticato, alla base di troppi problemi, primi tra tutti l'inquinamento ed il traffico.
Ora le strade, spaziose e molto più pulite, erano sgombre da qualsiasi mezzo di trasporto privato, ad eccezione di alcune importanti personalità che potevano ancora disporre di alcuni mezzi ad uso esclusivamente personale.
I metrobus alla fine, nonostante lo sconcerto iniziale, si erano dimostrati molto comodi ed efficienti. Completamente automatizzati, viaggiavano su rotaie a qualsiasi ora del giorno.
Gwen si avvicinò alla fermata, evitando la vista del cielo e seguendo con lo sguardo la superficie chiara del marciapiede. Il cartello elettronico segnava che il suo metrobus sarebbe arrivato tra meno di tre minuti. Durante l'attesa si fermò ad osservare la gente scorrerle davanti agli occhi.
Un uomo vestito elegantemente, probabilmente di ritorno da qualche conferenza di lavoro, due donne impegnate in un'animata conversazione, una signora impegnata nella pulizia di un'insegna... La vita, nonostante le difficoltà, era andata avanti per tutti. Ci si era dovuti adattare.
Lentamente tutto stava tornando come prima, o almeno per quanto ciò fosse possibile.
Ma come in ogni cambiamento c'era sempre qualcuno che rimaneva indietro; Gwen si sentiva esattamente così, in ritardo, come fosse troppo tardi per poter recuperare.
Lì in piedi, in attesa di rientrare a casa, si rese conto di essere l'unico punto fermo in un mondo che continuava a scorrere, a mutare. Era una sensazione strana, un po' come quando ci si siede sulla panchina di una stazione e si vedono tutti partire, mentre tu rimani fermo ad osservare il mondo che va avanti senza aspettarti. Come se la sua presenza non avesse importanza in mezzo a tutto quel via e vai di vite.
Nessuno si sarebbe fermata ad attenderla. Tanto valeva rimanere ferma ad aspettare. Ad aspettare cosa, poi? Si era già fatta questa domanda centinaia di volte, eppure la risposta era così semplice.
Aspettava lui, Trent. E se non ci avesse impiegato troppo l'avrebbe probabilmente atteso per tutta la vita. Non se l'era scordata quella promessa. Non aveva dimenticato i baci, la sensazione di quelle mani calde accarezzarle la schiena, e mai lo avrebbe fatto.
Avrebbe potuto convincersi di tante cose, addirittura che lui l'avesse ingannata, ma non poteva cancellare quei ricordi, ormai troppo ingombranti per essere rinchiusi in qualche anticamera del cervello.
Semplicemente aspettava, schiava dell'idea che quel debole barlume di speranza trovasse la forza di divenire concreto. La distanza era stata la sua condanna.
Era inutile tentare di non pensarci, in qualche modo riusciva a ritrovarlo ovunque, nei piccoli gesti quotidiani. La sua assenza le generava dei vuoti che solo i pensieri riuscivano a colmare.
Persa in quelle riflessioni, quasi non si rese conto dell'arrivo del metrobus.
Salì veloce sul mezzo e questo ripartì subito la sua corsa. Le figure dei grossi palazzi del centro della città lentamente sfumarono. Le insegne luminose si fecero sempre più piccole, finché le figure delle case dei quartieri residenziali presero il loro posto. Lasciò che le immagini le scorressero veloci davanti agli occhi, mescolandosi ai pensieri di sogni impossibili.
Arrivò presto a destinazione. Ricoprì a piedi quel breve tratto di strada che la separava dalla sua casa, frugando nelle tasche con le mani alla ricerca della tessera magnetica necessaria per aprire la porta.
Ricordava ancora la prima volta che l'aveva fatta scorrere tra quella fessura.
Le tremavano le dita. Quando aveva spalancato la porta per la prima volta le era venuta un'immensa voglia di piangere.
La casa era completamente bianca, sviluppata su un unico piano e collocata in un anonimo quartiere pieno di altre costruzioni completamente identiche tra di loro.
Dov'erano le pareti colorate ed i giardini con i loro prati sempre un po' malmessi? Ed i tetti un po' spioventi con le loro tipiche tegole rosse? Dove sarebbe salita, la notte, a guardare le stelle e a dipingere, lontana dagli occhi ignari della gente tranquillamente addormentata?
Le pareti chiare, il pavimento lucido e quel semplice ed essenziale mobilio non le appartenevano.
Una volta entrata abbandonò il sacchetto con la spesa su una sedia, attirata dalla spia luminosa emessa dal tablet computer lasciato sul tavolo. Con la punta di un dito sfiorò lo schermo che subito si illuminò, mostrando l'arrivo di nuovi diversi messaggi. Il cuore di Gwen accelerò i battiti.
Non aveva ancora trovato lavoro dal suo arrivo e per il momento aveva solo inviato molti curriculum a diverse aziende. Che qualcuno l'avesse finalmente assunta?
La paura di un'ennesima delusione si mescolò alla speranza di aver finalmente trovato un impiego.
Accarezzò nuovamente il display.
Due nuove risposte. Inizialmente esitò con il polpastrello a mezz'aria, fermata dal timore di un nuovo rifiuto.
Con diversi tocchi veloci aprì i messaggi, scorrendoli uno ad uno.
«Niente... Niente... Niente», scandivano le sue labbra man mano che arrivava a leggere il termine di ogni risposta.
Con un gesto sconsolato lasciò scivolare sulla superficie liscia del tavolo il tablet, dirigendosi verso il bagno. Aprì il rubinetto per lavarsi le mani, lasciandosi scaldare la pelle dal flusso d'acqua calda.
Quando alzò gli occhi in direzione dello specchio posto di fronte a lei, rimase a fissare il suo riflesso a lungo. Dovette lottare con tutta se stessa per cercare di resistere all'impulso di romperlo in tanti minuscoli frammenti d'argento.
Uscita dalla stanza si diresse nuovamente verso il sacchetto malamente abbandonato sulla sedia, raccogliendo una confezione caduta. Si mise a riporre gli acquisti nelle diverse ante della piccola cucina, ignorando il tremolio alle mani. Mentre sbatteva con forza i barattoli sui diversi ripiani un suono la distrasse. Qualcuno aveva suonato alla porta.
Si avvicinò all'ingresso, riconoscendo l'immagine di sua madre nello schermo a parete del citofono elettronico. Delusa aprì la porta, sfoderando un finto sorriso di sorpresa.
Era stupido pensare che prima o poi a bussare a quella porta sarebbe stato Trent?
Sua madre entrò salutandola, ricambiando il sorriso.
Era sempre stata una bella donna, con quei tratti che ricordavano molto quelli della figlia.
«Tutto bene?» chiese.

«Sì, sì... Grazie» mentì spudoratamente.
Lei sembrò accorgersene.
«Sicura?»
«Sì, non ti puoi preoccupare sempre per ogni cosa» sbuffò nel tentativo di apparire più credibile, «perché sei qua?» le domandò, dirigendosi nuovamente in cucina
«Oh, niente... Così, era da un po' che non passavo a trovarti. Non ti fai mai sentire»
«Scusami, non ho avuto tempo ultimamente. Volevo passare da te più tardi ma mi hai preceduta... Sono appena tornata a casa adesso, ero a fare la spesa» disse, nel tentativo di cambiare discorso. Inutile dire che, in realtà, di tempo libero ne aveva avuto ben molto.
Suo madre fece una smorfia distratta, accompagnandola poi ad un debole sorriso.
«Non preoccuparti... Vuoi una mano?» domandò indicando le confezioni sparse sul tavolo e seguendo Gwen nella piccola cucina.
«Oh, si grazie! Potresti passarmi quello?»
«Certo! Questo dove vuoi che lo metta?»
«Posalo pure lì, poi lo sistemo io»
«Sai, stavo notando» disse passando un barattolo a Gwen, «non compri neanche un po' di carne...»
Gwen per un attimo fissò la madre, corrucciando un sopracciglio.
«Stai scherzando, vero?»
«Cosa ho detto di male? Sei così pallida, mi sembri dimagrita e...»
«Mamma, sono sempre stata pallida!» sbuffò, «E poi mi rifiuto di chiamare quella cosa prodotta in un laboratorio di chimica “carne”»
«Non l'hai mai assaggiata, guarda che non è poi così male. Non uccidono neanche un animale per produrla»
«Ecco, è proprio quello il punto. Come si fa a chiamarla carne? Non penso che morirò se non la mangio, non credo proprio di essere l'unica vegetariana sulla faccia della Terr... Di questo pianeta»
«Ah, Gwen...», sospirò «Sei un caso perso»
La ragazza roteò gli occhi, gesto che però passo inosservato.
«Piuttosto...» proseguì sua madre, «Il lavoro? Ne hai trovato uno?»
Perfetto. Ecco uno di quegli argomenti che assolutamente non doveva essere nominato.
Con la coda dell'occhio osservò quasi involontariamente il tablet lasciato sul tavolo.
Fece finta di ignorare la domanda, nascosta dietro l'anta di una mensola e continuando a sistemare le confezioni.
«Allora?»
Sempre rivolta di spalle Gwen si morse il labbro, socchiudendo delicatamente le palpebre.
Trattenne il respiro, prendendo coraggio. Non voleva deluderla, ma mentirle sarebbe stato inutile.
«Niente...» sussurrò voltandosi.
Sua madre la guardò negli occhi, sospirando un “oh” deluso ed abbassando lo sguardo.
«Ti giuro, ci sto provando...» mormorò, tentando di controllare il tremolio della voce «Non faccio altro che inviare curriculum, ma non mi prende nessuno. Chiedono tutti personale con qualifiche in chimica, fisica, matematica... Io non ci capisco niente in quelle materie, non mi piacciono. Eppure io ho studiato, con tutti i sacrifici che abbiamo fatto per iscrivermi all'Accademia!»
«Si sistemerà tutto, tranquilla. Troverai qualcuno che ti assumerà» la consolò, sfiorandole una mano.
Gwen sospirò profondamente.
«Sono già sei mesi che siamo qua. Io non riesco ad adattarmi. Tra poco smetteranno di versarmi quei pochi soldi che mi danno ogni mese... Ho bisogno di un lavoro»
«Ce la farai, non tutti hanno bisogno di chimici o matematici.»
Rimasero in silenzio per qualche secondo, lo sguardo fermo sulle loro mani intrecciate.
«Voglio tornare sulla Terra» mormorò Gwen, rivolgendo lo sguardo verso la finestra dalla quale si poteva intravedere uno scorcio del blu profondo di quel cielo,
«Anch'io lo vorrei tanto, Ma dobbiamo adattarci, andare avanti. Qualcosa di buono prima o poi accadrà, giusto?» domandò con un sorriso sincero.
Era incredibile come riuscisse sempre ad essere così ottimista, contrapponendosi totalmente al carattere della figlia.
«Si, scusami... Hai ragione. Mi sono lasciata andare e...»
«No, non ti devi scusare» la rassicurò, «piuttosto, vediamo un po' di fare qualcosa. Troviamo questo maledetto lavoro»
«Ma mamma, ci ho già provato, non si trova niente...»
«Aspetta a dire così. Non sono venuta qua per niente, era proprio questo il discorso che volevo farti» rivelò, sorridendo allo sguardo falsamente esasperato e allo stesso tempo divertito della figlia. «Ho sentito dire dalla mia vicina di casa che suo figlio ha trovato lavoro in una fabbrica al confine della Bolla. L'hanno aperta da poco, probabilmente staranno cercando ancora del personale... Perché non provi?»
«Dirmelo prima?» scherzò Gwen.
«Dovevo farti un po' reagire, no?» le rispose divertita.
«Me lo sarei dovuto aspettare da te. Piuttosto...» riprese interessata dal discorso precedente, «Che fabbrica è?»
«Oh, un'azienda ortofrutticola, mi pare...»
Gwen storse il labbro, rivolgendole un'occhiata di sbieco.
«Io che lavoro con delle piante? Ti ricordo che l'ultimo cespuglio di rose che avevamo era morto dopo il mio pessimo tentativo di potatura....»
Sua mamma rise, portandosi una mano alla bocca,
«Oh, quanto mi ero arrabbiata! Povere le mie rose...» disse scuotendo la testa con ancora il sorriso stampato sulle labbra. «Comunque penso sia tutto automatizzato, non so bene come funziona. Imparerai... Non credo troverai rose da potare, no?»
Gwen sospirò, appoggiandosi al piano della cucina.
«Io, non so...» mormorò abbassando lo sguardo e passandosi una mano tra i capelli «Passare dall'Art Gallery of Ontario a... Delle piante?»
Ricordava bene quanto fosse stata veramente felice nel vedersi assunta all'interno di uno dei musei più importanti del Canada. Molto probabilmente era stata la realizzazione di un sogno, uno dei periodi più belli della sua vita prima del grande trasloco su Marte che aveva visto l'abbandono di tutto quel patrimonio artistico nelle mani di nessuno.
Amava i corridoi illuminati e le grandi vetrate dalle quali la luce filtrava indisturbata, per non parlare di tutti quei quadri, capolavori moderni ed antichi. Degas, Matisse, Picasso, Dalì, Monet, Goya... Quante volte si era persa tra i colori di quei dipinti, gli occhi avari di ogni più piccolo particolare. Le mancava sentire l'eco debole dei suoi passi risuonare tra le pareti, il mormorio indiscreto della gente impegnata a discutere e quell'odore così unico e familiare che aleggiava in ogni stanza.
Senza rendersene conto lasciò che quelle immagini si impossessassero di lei.
Il muro bianco che inconsciamente stava fissando da qualche secondo stava diventando una tela sulla quale i pensieri iniziarono a prendere vita. Chissà ora in quali condizioni si trovavano quelle opere tanto amate, abbandonate laggiù, sulla Terra.
Le piaceva così tanto la zona dedicata all'arte rinascimentale, con tutti quei soggetti così ben curati, i colori variopinti, le pennellate dorate dai toni così caldi...
«...E quindi io penso che alla fine ti potrebbero assumere. Magari sarà un impiego temporaneo, ma nel mentre potrai lavorare... Allora, mi stai ascoltando?»
Gwen spalancò gli occhi, osservando la madre.
«Oh, sì sì... Certo! Hai proprio ragione...» rispose istintivamente Gwen, ritornando immediatamente alla realtà. «Insomma, si.. Una cosa giusto per il momento, poi magari trovo dell'altro. Beh, certo, ovvio...» biascicò nel tentativo di risultare convincente.
«Va bene...» sbuffò sua madre in risposta con finta esasperazione, «farò finta che tu mi abbia ascoltata e che non stavi pensando ad altro. Puoi passarmi un attimo il tablet? Così vediamo di inviare questo curriculum» chiese indicando l'oggetto sottilissimo lasciato all'angolo opposto del tavolo.
«Ehm, questo? Si, si...» risposte incerta alla richiesta, porgendoglielo lentamente.
Ricordava bene la schermata lasciata prima aperta; quella con tutte le risposte dagli esiti che, purtroppo, non erano stati positivi.
Quando la signora Fahlenbock illuminò il display con un tocco di polpastrello si ritrovò davanti a tutte quelle decine di rifiuti.
Gwen esitò, indecisa se provare a giustificarsi. Deludere sua madre era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare.
«Mi spiace...» sussurrò, «non volevo che le vedessi...»
«Oh, non m'importa, te l'ho già detto. Non dipende da te, ci hai provato è questo che conta, no?» sorrise affettuosamente, incoraggiandola con un abbraccio.
«Questa volta sarà quella buona, me lo sento» le sussurrò dolcemente in un orecchio
Il calore di quel contatto le si diffuse inaspettatamente in tutto il corpo, scaldandole il petto con un brivido improvviso.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si era lasciata stringere così?
Finalmente, aggrappata a quello scoglio di salvezza, riassaporò per un attimo la sensazione di essere a casa, riscoprendo in quel corpo un piccolo pezzo di Terra che tanto le era mancato.
In quel momento, senza nessuna paura, lasciò scorrere libero sulle sue guance l'oceano che in tutti quei giorni le si era segretamente accumulato nel cuore.
«Grazie» bisbigliò, assaporando con la lingua i solchi salati delle lacrime, persa tra le braccia della persona che da sempre l'aveva amata e con gli occhi pieni di una nuova speranza in cui credere.





Segnatevi questa data sul calendario perchè finalmente ho aggiornato!
Questo capitolo mi ha fatto letteralmente impazzire. Ero stata così brava da riuscire a scriverlo nel tempo record (?) di una settimana, ma poi una volta finito ho deciso che non mi piaceva. Così l'ho riscritto in un modo completamente diverso rispetto all'originale, mettendoci qualche secolo per terminarlo... Scusatemi!
E' stato piuttosto difficile da scrivere perché dovevo riuscire a descrivere un ambiente e delle situazione completamente nuove senza risultare noiosa. Nel caso ci fosse qualcosa che non si capisce bene vi prego di dirmelo . Con l'andare della storia scenderò sempre meglio nei particolari. Per il momento mi limito a parlare degli aspetti più essenziali per evitare di basare l'intero capitolo esclusivamente sulle descrizioni.
Non avete idea della cultura che mi stia facendo da quando ho iniziato questa fanfiction. Mi sono letta praticamente ogni genere di enciclopedia e articolo che parlasse di Marte! E per quanto riguarda la carne prodotta in laboratorio esiste davvero.
Se tutto va bene per il prossimo capitolo ho in mente una sorpresa... Non vedo l'ora di iniziarlo!
Alla prossima :3



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