She

di Acquiesce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo I ***
Capitolo 2: *** capitolo II ***



Capitolo 1
*** capitolo I ***


http://www.youtube.com/watch?v=hyCom4PuAHI

She may be the face I can't forget,
A trace of pleasure or regret,
May be my treasure or
The price I have to pay.

She may be the song that summer sings,
May be the chill that autumn brings,
May be a hundred different things
Within the measure of a day.

She may be the beauty or the beast,
May be the famine or the feast,
May turn each day into a
Heaven or a hell.

She may be the mirror of my dream,
A smile reflected in a stream,
She may not be what she may seem
Inside her shell.

 


Finalmente sono di ritorno a casa dopo questo lungo tour con gli High Flying Birds. L’autista guida verso casa mia e a scortarmi c’è anche Skully, il mio amico e guardia del corpo, seduto accanto al guidatore. Dopo un po’ mi annoio a guardare fuori dal finestrino così prendo il portafogli e tiro fuori le foto della mia adorata famiglia. È la foto di Sara, la mia amorevole moglie, a saltare fuori per prima: mi perdo ad osservarla, a fissare quel sorriso che mi conquistò la prima volta che la vidi. Lei fu davvero colei che mi salvò, come scrissi in una canzone alcuni anni prima di conoscerla. Ero caduto nel periodo più buio di tutta la mia vita: le droghe mi stavano logorando fino al midollo, stavo male, ma non riuscivo a farne a meno. Credo che sia per questo che la chiamino dipendenza.  Sniffavo di tutto, cocaina in particolare. In pochi anni ho speso un patrimonio per quella merda. Mi stava distruggendo: avevo perso l’ispirazione, trovavo più piacevole la coca che la musica, la mia amata musica. Produssi anche il peggior album di tutta la mia carriera, ma non me ne importava. La droga mi teneva in uno stato di eccitazione tale da consentirmi di dormire solo imbottendomi di tranquillanti, ma non me ne importava. Sniffavo dalla mattina alla sera e passavo più tempo strafatto che lucido e magari mi risvegliavo in posti che non conoscevo o in compagnia di perfetti sconosciuti, ma non me ne importava. Mi stavo autodistruggendo, ma non riusciva ad importarmene.
Una sera del 1998 stavo addirittura rischiando di morire, o almeno credevo davvero che era arrivata la fine per me: mi trovavo alla Supernova Heights, la mia vecchia casa a Steeles Road, con la mia ex moglie Meg, fiumi di alcol e parecchi grammi di cocaina. Tirava anche lei, ma presto dovette accontentarsi del frigobar dato che non avevo intenzione di lasciarle molta roba. Ancora una volta, in un gesto ormai abitudinario, avevo arrotolato una banconota da 50 sterline di Sua Maestà e la usavo per sniffare piste su piste di coca. Quella fottuta polverina bianca che all’epoca per me valeva più di tutto l’oro del mondo attraversava la carta, le mie narici, fino ad arrivare ai polmoni, e io mi alzavo dal tavolino piegandomi all’indietro con una strana sensazione di benessere e stordimento che pian piano mi inebriava. Mi sentivo appagato, quando tiravo. Stavo male invece quando non lo facevo. Diventavo nervoso, irascibile, lunatico.
 Il tempo di prendere fiato ed ero di nuovo giù: con una mano mi tappavo una narice e con l’altra reggevo e guidavo la banconota sullo specchietto, facendo sparire in un sibilo l’ennesima striscia. Ma quella volta fu un po’ diverso: quando mi alzai non mi sentii più rilassato, bensì cominciai a sentire un dolore al petto, forte, sempre più forte. Il dolore aumentava con una rapidità e di un’intensità spaventose. Ero spaventato, terrorizzato. Mi mancava il fiato, il cuore martellava contro i polmoni e lo sterno, sembrava volesse spaccarmi tutto. Il dolore cresceva, così anche la paura di restarci secco. Cercai di chiamare Meg con quel filo di voce che mi rimaneva, ma non riusciva a sentirmi, non era nemmeno là. –Dove cazzo sei finita?- pensavo in quell’istante, e un attimo dopo eccola spuntare tranquilla con un calice di fottuto champagne che poi lascia cadere a terra non appena mi vede piegato a terra con le mani a stringermi il petto. –Oh mio dio, Noel! Quanta ne hai tirata brutto stronzo?- urlò, credendo che fossi andato in overdose.  Per un secondo credetti che sarebbe scappata lasciandomi al mio destino, poi finalmente si decise a correre verso il telefono e chiamare un’ambulanza.
Il dolore era insopportabile, ma per fortuna rimasi lucido e potei vedere la mia cara consorte preoccuparsi di nascondere tutta la roba invece di controllare le mie condizioni. Quando i soccorsi arrivarono il dolore sembrava aver allentato leggermente la sua morsa, o forse ero io che mi stavo abituando.  Un paramedico mi controllò le pupille e il battito cardiaco mentre il suo collega parlava con Meg. Dovette sputare il rospo e ammettere che avevo sniffato fino a star male. Mi iniettarono qualcosa che fece rallentare il mio battito cardiaco in pochi secondi, con grossa diminuzione del dolore, anche se il petto mi faceva ancora male come se mi avessero preso a pugni dall’interno…
Mi aiutarono ad alzarmi e a sedermi sul divano al mio fianco. Ero ancora molto debole e provato. mi sentii osservato. Era uno dei due dottori. Lo guardai e notai che mi stava osservando in modo preoccupato e severo. Poi mi chiese: -Ti farebbe piacere se quel dolore ritornasse?-; non credevo alle mie orecchie, così risposi indignato:-Mi sta prendendo per il culo? Piuttosto si renda utile e mi dica cosa devo fare per evitare che mi ricapiti di nuovo!-. Sembrava che l’iniezione avesse cancellato ogni traccia di coca dal mio corpo: oltre a non percepirne più il benessere ero anche nervoso come quando restavo a secco. –Smettila con le droghe e starai bene.- rispose lapidario, ma non avevo intenzione di abbandonare quel magico trip mentale e fisico in cui cadevo dopo qualche pista. Ci fu una breve discussione ma alla fine riuscirono a convincermi a provare a smettere. O forse a convincermi fu il pensiero che qualora ci avessi lasciato la pelle quella stronza non solo avrebbe ballato sulla mia tomba, ma avrebbe ereditato tutte le mie proprietà e i miei soldi, si sarebbe goduta tutto il mio patrimonio. Col cazzo, bellezza!
Trascorsi i successivi giorno pulito, i primi due almeno. Al terzo giorno cominciai a star male, troppo male, così tirai mezza striscia, solo per placare l’astinenza. Ma non fu abbastanza: nelle settimane successive mi ritrovai a sniffare almeno quanto prima del malore. Avevo ricominciato con i party, a bere fino a non poterne più e a sniffare qualunque cosa fosse a portata di naso… però un giorno, dopo qualche tempo, qualcosa cambiò, non so esattamente cosa fu a far scattare quella molla, però d’un tratto mi resi conto che non ne valeva davvero la pena di farsi così del male. Era una mattina, mi svegliai sulla mia poltrona preferita con un gran mal di testa da postumi della sbornia e la casa piena di sconosciuti, di tizi incontrati per la prima volta la sera precedente in un pub a cui avevo giurato amicizia eterna  e con cui nella maggior parte del casi mi trovavo a chiacchierare su assurdità. Qualcuno dormiva ancora, altri barcollavano per la casa in cerca di un posto dove vomitare o di un goccio d’alcol. Mi alzai e andai in frigo a prendermi una birra, dopodiché me ne tornai  sulla mia poltrona. Stappo la lattina e comincio a bere. –Perché lo sto facendo? A questa gente non importa niente di me, la maggior parte giurerei di non averli nemmeno mai visti in vita mia. È ora di finirla con tutta quella merda, Noel!- mi dissi.
Decisi che se volevo davvero disintossicarmi non potevo più stare a Londra: qui non ero riuscito a rimanere pulito per più di due giorni consecutivi… Quel pomeriggio stesso mi misi a cercare casa, una casa in un posto tranquillo, in campagna magari. Lontano da tutto e da tutti. Trovai presto la casa che cercavo, anche se per assicuramela dovetti pagare un piccolo extra ai vecchi proprietari che, a loro dire, stavano ancora valutando le offerte ricevute. Brutti avvoltoi…
Nel giro di una settimana mi trasferii nella nuova casa, da solo. Meg la lasciai alla Supernova Heights, non avevo voglia di sentire le sue lamentele. Era una grande casa su due piani, un grande giardino, alberi, era  un piccolo angolo di paradiso terrestre. Ero fiducioso che sarei riuscito a combattere la mia dipendenza dalle droghe, e a vincerla soprattutto.
Passarono alcuni giorni schifosi: il mio organismo reclamava la coca o anche qualche birra. Mi ero promesso di non lasciare la villa e così feci: la casa ovviamente era assolutamente pulita e io non avevo modo di procurarmi della droga se non fossi uscito. Stavo soffrendo, ma dovevo resistere; ogni tanto mi tremavano le mani, la notte mi svegliavo con i sudori freddi, ma non avevo intenzione di arrendermi né di rinchiudermi in una clinica con qualcuno che mi avesse ricordato quanto fossi debole e patetico, che mi dicesse che ero una brutta persona, anche perché non lo ero affatto. Ero solo un uomo con le sue debolezze pronto al tutto per tutto per vincerle.
In uno di quei giorni schifosi mentre ero davanti alla tv intento a distrarmi sento uno strano squillo. Presto mi resi conto che era il suono del citofono. Fino a quel momento non avevo ricevuto visite e praticamente nessuno sapeva dove mi trovavo. Meg. Capii che doveva essere stata lei a dire a quelle persone dove mi trovavo. Mi avevano trovato. I miei vecchi “amici” di Londra, quelli con cui mi facevo. Imprecai tra me e me e maledissi quella donna per aver dato loro il mio nuovo indirizzo.
Attraverso la voce metallica del citofono i ragazzi cercano di convincermi a riceverli, promettendomi di aver portato con loro una “sorpresina”. Sapevo esattamente di cosa parlassero, inizialmente cercai di rifiutare, ma stavo male, ero in astinenza, così li feci entrare e mi feci quella striscia di cui il mio corpo aveva tanto bisogno, poi diventarono due, poi tre... birra, coca, c’era tutto. E con quel tutto avevo vanificato tutti i miei sforzi fatti fino a quel momento per rimanere pulito.
Non ce la facevo più, ero esausto, dovevo finirla una volta per tutte, ma non potevo riuscirci se quelle persone mi giravano ancora intorno portandomi droga e organizzando party. Sarei rimasto solo, a Londra non conoscevo nessuno oltre a quella ventina di “amici”. E ovviamente alla band. Così presi la mia decisione: cacciai quelle persone per sempre e me ne andai in Spagna, ad Ibiza. Mollai tutto, lasciai Meg a Londra, con lei le cose andavano di merda e non ero sicuro che sarebbe durata a lungo, nonostante il fatto che di lì a poco mi avrebbe reso padre di Anais. Avevo più di trent’anni  e stavo per diventare padre per la prima volta, non potevo assolutamente più continuare con quella vita, sarei diventato ridicolo, oltre a rappresentare un cattivo esempio per mia figlia.
Comprai una casa ad Ibiza con l’intenzione di trasferirmici a tempo indeterminato, non sapevo che lì avrei incontrato la donna che mi avrebbe salvato, che mi avrebbe cambiato la vita.
 
-Hey, Noel! Siamo quasi arrivati a casa tua!- esordisce Skully riportandomi in quell’auto in corsa tra le strade di Londra verso casa mia, e io gli rispondo fingendo un tono sarcastico:-Era ora! Non sento più il culo per colpa di tutto il tempo che sto seduto qui!  E poi non vedo l’ora di sbarazzarmi di voi due: sempre tra le palle!- entrambi ridacchiano divertiti e Skully si affaccia tra i sedili anteriori e mi fa:-Anch’io ti voglio bene, Noel.- . –Fanculo.- gli rispondo io, e lui scoppia a ridere.

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Capitolo 2
*** capitolo II ***


She who always seems so happy in a crowd
Whose eyes can be so private and so proud
No-one's allowed to see them
When they cry
She maybe the love that cannot hope to last
May come to me from shadows of the past
That I remember till
The day I die

She maybe the reason I survive
The why and wherefore I'm alive
The one I'll care for through the
Rough and rainy years

Me I'll take her laughter and her tears
And make them all my souvenirs
For where she goes I've got to be
The meaning of my life is she she

 
 
Sbircio tra i sedili anteriori e scorro lo sguardo sulle case che sfilano ai lati della strada bramoso di vedere la mia. Ad aspettarmi ci saranno Sara, i bambini e forse anche Anais. Non vedo l’ora di arrivare a casa!
Ci fermiamo davanti a un edificio e scendiamo dall’auto. Casa dolce casa! Scully apre il bagagliaio per scaricare le mie cose: io prendo un borsone lasciando le due valige più pesanti ai ragazzi. Mentre salgo le scale velocemente e impaziente dico ai ragazzi di lasciare i miei bagagli fuori dall’appartamento, ci penserò io stesso più tardi a portarli dentro. Ora ho altro che mi preme.
Infilo la chiave nella serratura e nel frattempo sento gli sbuffi affannosi dei due e il leggero tonfo delle pesanti valigie poggiate a terra. –Ci vediamo Noel!- mi saluta Scully, e io rispondo con un cenno della mano mentre giro la chiave. Apro la porta e finalmente entro mettendo giù il borsone e chiudo la porta alle mie spalle con una leggera spinta del piede. Donovan e Sonny sono i primi a corrermi incontro felici e ad attaccarsi alle mie gambe. -I miei bambini sono diventati molto forti in questi ultimi mesi- penso, -a giudicare da come mi stringono.- . In quella posizione sono completamente bloccato: non posso abbassarmi per prenderli tra le braccia e tantomeno provare a camminare! Ma un attimo dopo ecco che spunta Anais dall’altra stanza che sembra distrarre per un attimo i fratelli, almeno per quell’istante necessario per far loro allentare la presa e consentirmi di prenderli in braccio e dirigermi verso di lei. Mi abbasso di nuovo mettendo giù i piccoli e tiro verso di me la mia bambina che si atteggia a dura, credendo di essere già grande; come se ciò comportasse non avere sentimenti o non abbracciare tuo padre che non vedi da mesi. Ma si scioglie subito e ricambia il caloroso abbraccio. È una brava bambina.
Alzo lo sguardo e mi ritrovo davanti lei. Sara se ne sta lì con il suo sorriso e aspetta che le vada incontro. Mi metto in piedi e cammino verso di lei, a un metro da me. La mia amorevole moglie su di me esercita lo stesso effetto che esercitavano le sirene verso i marinai. Non canta, non ne ha bisogno, mi basta guardarla per farmi dimenticare tutto ciò che mi circonda.
Quando mi allontano credo di aver lasciato in leggero disappunto i piccoli, pazienza, mi rifarò più tardi con loro, ora ho voglia di passare un po’ di tempo con la loro mamma. La stringo tra le braccia e la sollevo da terra, felice di rivederla. Lei può essere la ragione per cui sopravvivo, il perché io sono vivo, lei fu una manna dal cielo, un angelo venuto a salvarmi. La vidi per la prima volta una decina di anni fa, quando arrivai ad Ibiza: lei era al bancone di uno di quei bar all’aperto, sorseggiava uno di quegli stupidi drink con l’ombrellino e fronzoli vari. Quella sera avevo intenzione di stare alla larga da qualunque locale in cui servissero alcolici, ma a quella vista decisi di fare un’eccezione, così mi sedetti a un tavolo ad osservarla, in attesa che mi venisse in mente la frase meno stupida da dirle per rompere il ghiaccio. Non mi ero mai sentito così in soggezione davanti ad una donna. Finalmente mi feci coraggio: vidi che tentava di accendersi una sigaretta ma la brezza umida della sera le rendeva difficile il compito, così mi alzai, tirai fuori il mio accendino e mi avvicinai. Misi una mano a mo’ di cucchiaio di fronte alla sua e azionai l’accendino. Mi guardò negli occhi sorpresa mentre tirava una boccata in modo tale che la sigaretta si accendesse. Misi via l’accendino mentre quella donna soffiava via il fumo, poi mi ringraziò gentilmente. Mi sedetti sullo sgabello di fronte a lei e la osservai, lasciando che fosse lei a parlare per prima. Fece un altro tiro, guardandomi con l’aria di chi la sa lunga; sembrava stesse per dire un frase del tipo “io ti conosco.. tu sei…” ma non lo fece, disse solo:-Chi devo ringraziare?-. Lo fece con un’aria gentile ma non troppo affabile. Sorrisi e mi accesi una Benson & Edges, poi risposi.
Mi apparse subito intelligente, leggeva di sicuro i giornali, sapeva benissimo chi fossi e sapeva anche che ero un gran testa di cazzo con un aspirapolvere al posto del naso, soprattutto secondo i giornali scandalistici, e questo la metteva in guardia, lo sentivo. Era intrigata da ciò che ero, la rockstar del momento, ma i miei problemi con le droghe e i superalcolici la intimorivano, la mettevano in guardia: avrei potuto trascinarla a fondo con me, temeva. Proprio per questi motivi dovetti faticare un po’ per conquistarla, cambiai addirittura marca di sigarette per lei! Addio alle mie amate Benson & Edges… ma il gioco valeva la candela ed ero contento lo stesso, anche se stavo soffrendo come un cane a causa di quel brutto periodo. Non riuscii a nasconderglielo a lungo, ben presto dovetti parlarle del mio problema e dei miei sforzi per superarlo e lei si offrì di aiutarmi. Venne addirittura a passare un po’ di tempo nella mia casa ad Ibiza per controllarmi e assicurarsi che non toccassi niente. E così fu, ma il mio corpo non era d’accordo, voleva anche solo mezzo grammo di qualsiasi cosa e me lo faceva capire facendomi stare sempre più male. Prima di conoscerla cercavo di tenere il problema sotto controllo fumando erba o ingoiando tranquillanti, per placare gli attacchi causati dall’astinenza dalla cocaina, quando diventavano davvero forti. Ma Sara comprensibilmente non era d’accordo con i miei metodi: se dovevo disintossicarmi dovevo restare completamente pulito, sempre. Ciò comportava che stessi molto ma molto male: ai sudori freddi notturni si aggiunsero anche le sempre più frequenti crisi di panico. Spesso mi svegliavo nel cuore della notte, improvvisamente, con la terribile sensazione di soffocamento, il cuore che martellava nel petto e un senso di disorientamento. Per fortuna in quelle occasioni c’era Sara lì con me a calmarmi o semplicemente a starmi vicino finché non fosse sparito l’attacco. Erano uno più terribile dell’altro, più andavo avanti più il mio corpo si ribellava, lottava contro di me reclamando una qualsiasi sostanza stupefacente che lo placasse. Credevo di non farcela, qualche volta pensavo che sarei morto andando avanti così. Qualche volta ero quasi tentato di mandarla via, di arrendermi, ma Sara faceva del suo meglio per tenermi tranquillo. Si occupava di me, delle mie medicine per gli attacchi di panico, si assicurava che rimanessi pulito. Dal momento che non volevo finire in una fottuta clinica di disintossicazione feci del mio meglio per uscire da quella spirale. E poi glielo dovevo. Rimasi pulito per qualche giorno, poi i giorni diventarono settimane, mesi. Non appena mi sentii abbastanza pronto tornai a Londra per continuare con la mia terapia, ma non ritornai alla Supernova Heights, o meglio, non restavo lì molto a lungo: temevo che i problemi con Meg avessero potuto farmi ricadere nei miei vecchi vizi contro cui stavo lottando. Passarono alcuni mesi: la pancia di Meg cresceva ma i miei sentimenti per lei andavano svanendo; stava diventando un’estranea nonostante stesse per rendermi padre. D’altra parte il mio amore per Sara andava a intensificarsi, sentivo che avrei passato il resto dei miei giorni con lei.
Arrivò il grande giorno: una telefonata dall’ospedale mi avvisò che Anais stava per nascere. Presi il primo taxi che riuscii a fermare e mi diressi sul posto. Durate il tragitto mi accorsi che stavo tamburellando i polpastrelli sul ginocchio: ero nervoso, anche spaventato in un certo senso. Non era la tipica ansia da neo papà, piuttosto la paura di fallire, di ricadere in quella spirale qualora si fossero presentate delle difficoltà. Che padre sarei se ricominciassi a sniffare? Come potrei proteggerla se non riesco nemmeno a badare a me stesso? Queste domande mi tormentavano, avrei giurato di stare per avere un attacco di panico mentre mi dirigevo nella stanza d’ospedale di Meg, ma non appena vidi la mia bambina dimenticai tute quelle domande, i timori svanirono. Lei era lì, tra le braccia della sua mamma. Su insistenza di Meg la presi tra le braccia. Era un esserino minuscolo e delicato, un piccolo angioletto biondo. –Da chi avrà preso i capelli biondi? Da suo zio?- dissi sorpreso. Sorpreso e felice. Ero l’uomo più felice del mondo e in quei minuti tutti i timori che mi attanagliavano sparirono lasciando spazio all’esultanza.
Ero molto felice ma anche abbastanza preoccupato: non ero ancora sicuro di essermi disintossicato completamente. Sì, ero pulito da diversi mesi però avevo ancora paura di ricaderci, se non altro perché l’avevo già fatto. Sara mi diceva di non preoccuparmi, che ero forte e che non ci sarei ricaduto come un coglione. Non usò esattamente queste parole, ma il senso era quello. Aveva ragione: finalmente non ero più schiavo della droga e soprattutto ero tornato ad essere il padrone del mio corpo. Per la prima volta in dieci anni mi sentivo davvero in forma, riuscivo a dormire senza farmaci e ricominciai a fare sogni; avevo perfino dimenticato cosa fossero. Mi sentivo bene, rinato.
 Da quando ero diventato padre io e Sara decidemmo di prenderci una pausa. Ero sempre più felice di passare del tempo con Anais, mentre con sua madre le cose andavano sempre peggio. Nonostante passassimo poco tempo insieme non facevamo altro che litigare: sembravamo due cani da combattimento. La mia relazione con Meg non poteva più andare avanti, così divorziammo. Nessun rimpianto, solo un po’ di dispiacere per Anais che a nemmeno un anno di vita si ritrovava a vivere con dei genitori divisi. Con Sara cominciai una storia molto più stabile e duratura. Andammo a vivere insieme a Londra. Abbiamo vissuto giorni uno più felice dell’altro, mi ha regalato attimi indimenticabili e due figli meravigliosi. Il significato della mia vita è lei, ne sono sicuro. Ora e per sempre.
Lei è ancora tra le mie braccia quando con un battito di ciglia ritorno a guardarla con gli occhi del quarantaquattrenne vissuto quale sono. Mi scruta incuriosita e felice. –A cosa stavi pensando?- mi chiede sorridente; io sorrido e la bacio, a lungo, poi stacco le mie labbra dalle sue, la guardo amorevolmente negli occhi e le sussurro:-Che ti amo.-.

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