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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Risveglio ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Vite Precedenti ***
Capitolo 5: *** Vecchie Conoscenze ***
Capitolo 6: *** Hana and Galen ***
Capitolo 7: *** Addii e Partenze ***
Capitolo 8: *** In fuga ***
Capitolo 9: *** Seconda Occasione ***
Capitolo 10: *** Il Viaggiatore Solitario - Parte 1 ***
Capitolo 11: *** Il Viaggiatore Solitario - Parte 2 ***
Capitolo 12: *** Rivelazioni - Parte 1 ***
Capitolo 13: *** Rivelazioni - Parte 2 ***
Capitolo 14: *** La storia del viaggiatore - 1° parte ***
Capitolo 15: *** La storia del Viaggiatore - Parte 2° ***
Capitolo 16: *** Incongruenze ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
La
mano tremò. Il vento sferzò gli occhi. Lacrime uscirono, senza motivo, o forse
sì. Ingoiò la saliva e chiuse gli occhi, si concentrò soltanto sul soffio della
notte, sull’afa che gli colpiva il volto. Freya, la lince rossa, sua unica
compagnia da tempo, l'unico essere vivente che gli fosse stato vicino dopo
tutto quello che era successo, lo guardava, lo fissava. Nello sguardo
dell’animale vedeva sofferenza, come se stesse piangendo.
“Ehi,
piccola... non fare così ti prego... mi rendi tutto più difficile...”
Freya
gemette, un verso di dolore che risuonò nelle orecchie di Rigel. Ma lui ingoiò
ancora la saliva e con essa anche lacrime amare. La mano che impugnava l'arma
si alzò, se la puntò alla testa. Era pronto. Sì, questa era la volta decisiva.
Prese un profondo respiro. Era pronto. Era pronto. Il dito raggiunse il
grilletto.
Era
pronto.
Un
rumore. Voci in lontananza.
Rigel
riaprì gli occhi, assaporò il suono del suo stesso respiro. Si guardò attorno,
il volto imbrattato di lacrime. Un’ombra scalò la collinetta e s’intrufolò in
casa sua.
“Ehi!”
gridò Rigel, abbassando l'arma e correndo su sull'erba alta. “EHI!”.
La
figura si bloccò. Nell'oscurità Rigel non riuscì a scorgere niente, era come
parlare con il vuoto. Tuttavia, intravide il segno che gli fece, portandosi un
dito verticale contro le labbra.
Il
ragazzo tacque, senza togliere gli occhi di dosso dall’ombra. Sentì ancora le
voci di persone che si facevano più vicino. Rigel si mosse verso la figura, e
gli puntò la pistola contro. Le si avvicinò e la bloccò con le sue braccia. Era
sottile, leggera. Fu sorpreso di vedere il volto di una ragazza, alla luce di
un raggio di luna.
Ugualmente,
le tappò la bocca con una mano e per un momento si sorprese della sua arrendevolezza,
quindi si ricordò della sua richiesta di stare in silenzio. La ragazza doveva
aver interpretato quel suo gesto come un aiuto alla causa.
In
qualche modo le voci umane si affievolirono: se la stavano cercando,
evidentemente avevano sbagliato direzione.
Quando
tutto tornò tranquillo e silenzioso, Rigel le levò la mano dalla bocca, sempre
puntandole la pistola al collo.
“Che
cosa volevi fare? Questa è casa mia”.
La
ragazza lo fissò, tranquilla, rilassata tra le sue braccia. Non si divincolò. I
suoi occhi verde acqua marina, liquidi, restarono fissi in quelli blu del
ragazzo.
“E
tu? Cosa volevi fare?” ribatté seria.
Rigel
sospirò e ingoiò la saliva, amara. “Sei sfacciata, questi non sono affari
tuoi”.
La
ragazza serrò la mascella e fece per alzarsi.
Allora,
con uno scatto, Rigel la lasciò e si drizzò a sua volta, ma senza smettere di
puntarle la pistola alla testa.
“Tu
mi hai salvato la vita ed io l’ho salvata a te, non pensi che un grazie
reciproco sia di dovere?” disse lei, sollevando le braccia.
Rigel
sgranchì le dita attorno all’arma.
“Grazie.
E prego” continuò la ragazza, con grande rilassatezza. “Non m’inviti in casa
tua? Mi è venuta una certa fame”.
Rigel
le lanciò un’ultima occhiata prima di abbassare l’arma.
Anche
i muscoli di lei, impercettibilmente, si distesero. Ma Rigel, cogliendo
quell’istante di vulnerabilità, rialzò la pistola e la immobilizzò.
“Dimmi
prima una cosa”.
Lei
sembrò nascondere una certa paura, che non voleva dare a vedere.
“Sei
una di loro?”
La
sconosciuta ebbe uno spasmo, corrugò le sopracciglia, come se stesse pensando
di colpo a qualcosa di veramente spiacevole. Incrociò le braccia sul petto a
trovare conforto. Solo poche parole uscirono dalle sue labbra semi dischiuse:
“No,
sono umana”.
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Capitolo 2 *** Risveglio ***
1
Risveglio
La
ragazza avanzò guardandosi attorno, estasiata. “Hai proprio una bella casa”
disse, con un tono piuttosto rilassato.
Rigel
la squadrò. Nella sua testa si stava ancora chiedendo perché l’avesse fatta
entrare. Forse per quelle poche e semplici parole uscite sofferte dalle sue
labbra?
Sono
umana.
Forse
sperava che, oltre ad essere umana, fosse anche affidabile. Buttò un’occhiata a
Freya, accanto ai suoi piedi. Neppure lei sembrava tranquilla fino in fondo. Per
trovare sicurezza, Rigel sfiorò con le dita la pistola.
La
ragazza seguì con gli occhi il suo braccio, fino ad arrivare all’arma. Sorrise.
“Rilassati, non ho intenzione di farti del male. In più sono completamente
disarmata, quindi sarebbe un duello impari”. Alzò le sopracciglia, lo fissò.
Rigel
ingoiò la saliva amara.
“Non
mi hai detto come ti chiami”.
“Rigel”.
“Rigel”,
ripeté lei, un sorrisetto compiaciuto sulle labbra, “io sono Bion”.
Restarono
distanti, guardandosi fisso negli occhi. Finché l’attenzione di Bion non fu
attratta da un cesto di frutta colorata sul bancone della cucina. I suoi occhi
famelici si spostarono su Rigel.
“Posso?”
Lui
incrociò le braccia sul petto. Tenne lo sguardo a terra, un’espressione tra lo
scocciato e l’incerto.
Senza
attendere oltre, Bion afferrò una mela. Iniziò a morsicarla, vorace.
Rigel
alzò un sopracciglio, si lasciò cadere sul divano, la pistola che pendeva lungo
un fianco. Freya gli si accucciò accanto e lui iniziò ad accarezzarle il pelo
rosso; la lince fece le fusa.
“È
davvero bella. È una razza rara”, disse Bion, guardando Freya.
“È
unica”, lo sguardo d’affetto di Rigel verso l’animale era senza prezzo. Bion
percepì il sentimento a distanza.
“Mi
piacerebbe sapere perché quelle persone ti cercavano, là fuori” esordì lui,
cogliendo l’occasione per entrare nell’argomento.
Bion
era a pochi morsi dal finire la mela. Si sedette su una poltrona e osservò la
superficie verde della mela, rigirandosela tra le dita. “Non sono del tutto
sicura di potermi fidare di te”, lanciò un’occhiata alla pistola.
Rigel
socchiuse le labbra. “Non ne saremmo mai sicuri, entrambi”.
La
ragazza fu alquanto stupita quando Rigel lasciò la presa sulla pistola e la fece
scivolare sui cuscini, spingendola dall’altra parte del divano.
“Così
va meglio?” le chiese, incrociando le braccia sul petto.
Lei
sorrise. Cercò i suoi occhi, prima di parlare. “Sono scappata da una base
militare. Volevano farmi degli esperimenti credo, forse trasformarmi in un
Sostituto”.
Rigel
aggrottò le sopracciglia e si fece più attento.
I
Sostituti erano esseri umani cui era stata tolta la vita e per così dire
“rigenerati”, riportati a vivere grazie a fili metallici che scorrevano sotto
la loro pelle. Avevano un aspetto all'apparenza umano, ma erano molto più
vicini ai robot. Avevano pensieri e provavano emozioni, ma non erano
comparabili a quelle umane, ne erano solo una copia venuta piuttosto male.
Rigel
era consapevole che i Sostituti erano ormai la maggioranza su Hestla, e la sua
solitudine di tutti quegli anni lo aveva convinto che lui fosse l’unico essere
umano rimasto. Ma si sbagliava.
Ingoiò
la saliva e fissò intensamente le labbra di Bion che si muovevano, mentre gli
raccontava tutto quello che le era successo alla base militare. Era come se per
un momento la sua testa si scollegasse dal resto e tornasse indietro a sette
anni prima, a quel terribile giorno in cui era tornato a casa e dei suoi
genitori non ce n’era più traccia. Rapiti, probabilmente uccisi e da quello che
ne sapeva trasformati in Sostituti. Da quel momento, da quando aveva quindici
anni, era stato costretto a dire addio alla sua fanciullezza e preoccuparsi di
ogni cosa, dalla più inutile alla più importante. Si era dedicato a fare
ricerche per trovare chi li avesse presi, ma non era mai riuscito a trovare
risposte alle sue domande. Si era sentito terribilmente solo per tanti anni, ma
poi aveva trovato Freya, per caso, nella foresta, e il primo sguardo che si
erano scambiati aveva dato inizio a una così forte amicizia che non aveva mai
provato e nemmeno immaginato di stringere con un essere umano.
“Mi
stai ascoltando?”
Rigel
si riscosse dai suoi pensieri e guardò Bion.
“Scusa,
mi sono distratto...”
Bion
rimase impassibile. Chinò la testa di lato e si alzò dalla poltrona.
“Così
sei una fuggitiva” continuò Rigel, massaggiandosi la fronte con le dita.
“In
realtà c’è molto di più”, Bion iniziò a camminare per la stanza; le pistole che
ciondolavano sui suoi fianchi. “Mia sorella è stata rapita da un pazzo di nome
Sycor. Non l’ho mai incontrato né visto, ma in giro si dice sia lui l’inventore
dei Sostituti, il folle che sta dietro quest’ atrocità di uccidere esseri umani
per trasformarli in agglomerati di metallo. Molti dicono anche che sia
immortale, che abbia vissuto una vita tre volte più lunga di qualsiasi altro.
Ma non m’importa. Mia sorella è stata rapita, e chissà cosa starà passando in
questo momento. Ogni giorno, ogni ora che passo lontano da lei mi uccide sempre
di più. Devo trovarla, è l’unica ragione di vita che mi rimane”.
Rigel
alzò lo sguardo su di lei. Le sue parole sincere avevano attirato la sua
attenzione.
Bion
ricambiò l’occhiata. “Tu invece, sembra che non abbia più qualcosa per cui
vivere”, buttò lì.
Lui
socchiuse le labbra, ma non gli uscì niente. Sostenere il suo sguardo, per
qualche ragione così sapiente, gli fu difficile. Fissò il pavimento di legno,
con il tappeto finemente disegnato. Deglutì a fatica.
“Mi
dispiace per quello che stavi per fare, davvero. Non è una cosa nuova vedere
persone che compiono gesti del genere di questi tempi. E io ne ho visti fin
troppi. Amici, anche solo conoscenti. Sì, tutti erano soltanto Sostituti, ma
questo non vuol dire che non mi fossero cari”.
“Mi
dispiace”, disse Rigel.
Freya,
accucciata sul divano al suo fianco, dormiva tranquilla.
Bion
si rimise seduta sulla poltrona, si sporse in avanti e lo fissò. “Ma sembra che
tu non abbia mai conosciuto persone a cui hai voluto bene”, lo esaminò.
“Che
ne vuoi sapere tu, nemmeno mi conosci”.
Bion
alzò un sopracciglio e sospirò. Si alzò in piedi di nuovo e fece il giro del
divano. “Ad ogni modo, domani intendo partire per cercare mia sorella e avrò
bisogno di armi. Molte armi. Magari puoi darmene un po’ delle tue…”
A
quelle parole Rigel si riscosse e alzò il capo. Assunse un’espressione
scettica. “Cosa ti fa pensare che io abbia delle armi?” aguzzò lo sguardo.
“Immagino
che quella porta non dia su uno sgabuzzino impolverato e pieno di scope,
giusto?”, ribatté Bion, indicando una porta di legno a muro, sulla parete
sinistra della stanza. Era chiusa con un catenaccio e in ottime condizioni.
Rigel
sorrise. “Tu non prenderai le mie armi”, mosse la mano verso Freya, facendo
finta di accarezzarla; era così ad un passo dalla pistola posata sul cuscino.
Bion
non si lasciò sfuggire al movimento. “Allora vieni con me, così non sarò io a prenderle”.
Rigel
sorrise di nuovo, sarcastico. “Perché mai dovrei venire con te?”
“Sono
sicura che se sapessi certe cose cambieresti idea”.
Tutto
quel mistero a Rigel non piaceva neanche un po’. Si stava forse inventando
tutto solo per convincerlo a seguirla, e magari indurlo in una trappola? Perché
voleva che andasse con lei? Cos’è che sapeva e che non voleva dirgli? Quella
faccenda incominciava a dargli la nausea, stava diventando solo una perdita di
tempo.
“Non
ti sei mai chiesto dove possono aver portato i tuoi genitori? Potrebbero essere
ancora vivi, e sperare ogni giorno di poterti rivedere. Ma tu te ne stai qui,
stravaccato su un divano, pensando al suicidio come unica soluzione per la tua
vita insulsa. È ora che ti riscatti, che trovi qualcosa per cui valga la pena
combattere”.
Rigel
sbarrò gli occhi e un moto di rabbia gli attraversò lo sguardo. “Tu cosa ne sai
dei miei genitori?”, sbraitò.
“Non
è una cosa tanto misteriosa. Molti ne parlano giù al villaggio. Capitavo spesso
da quelle parti prima di essere rapita, soprattutto nei giorni di mercato. La
gente è curiosa e informata su tutto. È facile passare accanto a qualcuno e
origliare ciò che stanno dicendo”.
Rigel
la scrutò intensamente, mentre la sua collera si affievoliva. In qualche modo
era riuscita a dissuaderlo, anche se c’era qualcosa in lei che non lo avrebbe
mai convinto del tutto. Non gli aveva detto tutto, e probabilmente la verità
era nascosta sotto fiumi di bugie.
Ma
una cosa era certa e Rigel la sapeva: la sua vita era inutile, ed era perfino arrivato
al punto di voler farla finita. Forse in quello Bion aveva ragione, forse era
davvero il momento di riscattarsi, di provare qualcosa che lo facesse sentire
vivo. Eppure tutti gli anni che aveva passato cercando i suoi genitori invano
avevano radicato l’idea in lui che non c’era più speranza, che ormai li aveva
persi per sempre.
“Li
ho cercati tanto, ma non ho avuto successo, cosa credi che me lo farà avere
questa volta?” Rigel la guardò insistente, pretendendo una risposta
soddisfacente.
“Forse
non hai cercato nel posto giusto”, tagliò corto Bion.
Si
slacciò la cerniera della tuta nera che indossava, sotto lo sguardo confuso del
ragazzo. Estrasse dal fianco un foglio di carta, piegato in più parti, che
portava appiccicato alla pelle, sul ventre. Rigel la guardò esterrefatto.
“È
il posto più sicuro che ho trovato”, commentò lei con un mezzo sorriso. Si
sedette sul divano, accanto a Rigel e iniziò ad aprire il foglietto, fino a
tenere tra le mani qualcosa che somigliava a una mappa, disegnata a matita. Era
enorme e recava scritte e indicazioni accanto a corridoi, strettoie, vie e
passaggi segreti.
“Che
cos’è?” chiese Rigel, meravigliato.
“La
base di Sycor”, il tono di voce di Bion tradiva un certo orgoglio.
Rigel
capì dal suo sguardo che quella mappa l’aveva disegnata lei, ed era evidente
che ne andava fiera.
Da
quello che sapeva, Sycor viveva in una zona strettamente riservata e
salvaguardata. Si diceva che nessuno non autorizzato fosse mai riuscito a
entrarvi e uscirvi vivo. Rigel sapeva che la gente era abituata a esagerare, ma
di certo il più famigerato scienziato del mondo non se ne stava tranquillo in
una casetta aperta al pubblico. In un certo senso si sentì complice
dell’orgoglio di Bion, e fu fiero del suo lavoro. Fissò i suoi occhi brillanti finché
non fu lei a distogliere lo sguardo.
Avrebbe
voluto chiederle come aveva fatto, ma si rese conto che non era importante
saperlo, e indagare troppo nelle faccende altrui non era mai stato il suo
forte.
Ad
ogni modo, Bion interruppe il flusso dei suoi pensieri prima che potesse
formulare qualsiasi parola, e iniziò a indicargli e spiegargli i luoghi
contrassegnati sulla mappa.
“Ci
sei mai stata?” Rigel la guardò fisso negli occhi.
Bion
socchiuse le labbra. “Una volta, ma poi mi hanno catturato e rinchiusa nella
base militare da cui sono scappata stanotte”.
Rigel
era sorpreso. “Vuoi dire che ci sei stata da poco?”
La
ragazza si aprì in una risata. “Sette mesi fa”, lo guardò, studiando la sua
reazione.
Lui
ricambiò lo sguardo. Era incredibile che fosse stata tutto quel tempo
prigioniera in mano al nemico. Chissà quali pensieri le avevano attraversato la
testa durante la prigionia. E come si era sentita, privata della sua libertà.
“Se
c’è una cosa che ho capito, Rigel, è mai sottovalutare il tuo nemico,
soprattutto se si parla di Sycor”.
Rigel
notò un lampo di terrore attraversarle lo sguardo. Era evidente che fosse rimasta
impaurita e provata da quell’esperienza.
“Sette
mesi e non sono riusciti a trasformarti in un Sostituto?”
Bion
abbassò la testa, e divenne pensierosa. “Ci sono andati vicini a uccidermi. Non
so se conosci il procedimento, ma non è breve come potrebbe sembrare. Ci
vogliono giorni ed è molto dispendioso di uomini e denaro. È per questo che
Sycor ha concentrato le attrezzature e i macchinari necessari solo in alcune delle
sue basi militari, sono le più importanti e sono note come i Poli. Su tutta la
superficie di Hestla, finora sono stati creati soltanto quattro Poli”, Bion
girò la mappa che aveva tra le mani, rivelando una lieve ma visibile marcatura
dei confini di Hestla, le città principali, la morfologia e i punti
fondamentali del suo territorio. Con un carboncino rosso erano state marcate
quattro croci, che contrassegnavano quattro punti, quasi a formare un rombo.
“Queste
che vedi corrispondono alla posizione dei quattro Poli”, Bion indicò i segni
rossi. “Quando mi hanno catturato, sono stata trasportata da una base
all’altra. Mi hanno fatto controlli in laboratorio, e poi mi hanno sbattuto in
una cella. Non so che cosa avessi che non andava, ma mi hanno trattato come un
esemplare difettoso. Ad ogni modo, qualunque imperfezione abbiano trovato in
me, gli devo la vita”.
Rigel
annuì. “Sei certa che indichino i luoghi esatti?” domandò facendo un cenno
verso la mappa con i segni rossi.
“Ho
visitato tante di quelle basi militari che ormai non tengo più il conto.
Fidati, se non sono esatti, ci vanno vicino”, sorrise, per spezzare la tensione.
Tuttavia c’era un tono amaro nella sua voce.
“Uno
dei quattro Poli, il maggiore, è questo a Sud e corrisponde a Nallav, città
dove si trova la dimora di Sycor e della sua famiglia. È qui che tutto è
elevato al massimo. È qui che c’è la più alta concentrazione di Sostituti di
Hestla. La popolazione sta letteralmente traboccando. Quando sono stata lì,
sette mesi fa, mi è sembrato di vivere in un altro mondo. Ci sono guardie e
militari a ogni angolo. Ogni via della città è asmatica, compressa di persone,
traffico, puzzo e grida. Passare inosservati può essere facile in un posto del
genere, ma il problema è che hanno dei sistemi elevatissimi che rilevano la
presenza di umani soltanto camminando per la strada.
Io
non lo sapevo, e così mi hanno catturato. Ma sono riuscita a rubare delle
informazioni fondamentali che mi hanno aiutato a completare la mappa”, guardò
Rigel, che questa volta la ascoltava affascinato. Restò in attesa che lei
continuasse e Bion capì perfettamente cosa gli premeva sapere. “Il resto l’ho
ricavato da vecchi tomi, mappe e indicazioni che ho saccheggiato qua e là,
soprattutto durante le mie incursioni nelle basi militari del territorio”.
“Hai
visitato ogni angolo di Hestla, insomma” commentò Rigel.
“Sì,
da quando ho facoltà di camminare”.
Rigel
la fissò ammirato. Era davvero incredibile quanto avesse viaggiato. Hestla
aveva una superficie piuttosto estesa, e comprendeva diverse regioni, con
morfologie del territorio diverse. A nord c’era una lunghissima catena
montuosa, mentre a est e a ovest era bagnata dall’oceano. Era di forma
massiccia, un blocco compatto su cui si alternava ogni varietà possibile di
territorio. Rigel era sempre rimasto nei pressi di casa sua, nella foresta di
Ismene, a nord-est. Era lì che aveva vissuto tutta la sua vita e non aveva mai
viaggiato, almeno non al di fuori dei confini della foresta. All’improvviso si
sentì sciocco e incompetente accanto a Bion. Da lei trasparivano tutto il suo
sapere, la sua forza di volontà e la determinazione. Era di poco più giovane di
lui, ma molto più esperta sul mondo, molto più forte.
Quei
pensieri per un momento spaventarono Rigel e lo demoralizzarono. Fu come se la
sua inutile vita gli passasse veloce davanti agli occhi, e non ci fu niente che
attirò la sua attenzione. Era stata solo un susseguirsi di eventi scialbi,
monotoni. Ingoiò la saliva. Pensarci lo rendeva triste.
Bion
lo riscosse dai suoi pensieri. Gli picchiettò su una spalla e gli indicò Freya.
“È
normale che faccia così?” gli chiese spaventata.
Rigel
spostò lo sguardo sulla lince rossa. Era davanti a loro, la coda ritta, le
fauci spalancate e un’espressione aggressiva negli occhi dorati. Il verso della
lince è un suono riconoscibile e molto acuto. Freya era solita miagolare
sonoramente in situazioni normali. Rigel ricordò una volta quando si persero
nella foresta e Freya iniziò a produrre un suono così acuto che rimbombava
contro ogni fusto e ogni chioma. Era come se la foresta cantasse con lei,
animata dal suo miagolio. Non fu difficile ritrovarla quella volta.
Eppure,
ora, Freya non emetteva alcun suono. Poteva significare soltanto una cosa:
c’era qualcuno che non avrebbe dovuto udire il suo richiamo.
Rigel
formulò il pensiero nel giro di pochi secondi, afferrò la pistola posata sul
cuscino al suo fianco e prese Bion per un braccio. Fulmineo, spense la luce
accesa delle candele sul tavolino e si rifugiò dietro al divano, Bion accanto.
Ora
che Freya aveva fatto il suo dovere, si andò a rintanare tra la boscaglia,
compiendo un salto silenzioso fuori dalla finestra e fu inghiottita
dall’oscurità. Bion fu sul punto di avvertire Rigel che la lince era scappata,
ma lui le mise una mano sulle labbra e la zittì con un gesto della mano.
Lui
stesso aveva visto Freya scomparire eppure era rimasto tranquillo. Bion si
chiese come tutta quell’intesa tra uomo e animale fosse possibile. Come sapeva
una lince che qualcuno stava arrivando e come poteva capire di non fare rumore,
per non essere intercettata? E poi come poteva Rigel essere certo che sarebbe
tornata, dopo essersene andata via nella foresta?
Era
qualcosa che forse non avrebbe mai compreso.
L’intuizione
di Freya fu giusta. Il silenzio dell’oscurità fu interrotto dallo scalpiccio di
robusti stivali sul pavimento di legno.
“Fa
silenzio idiota, ti farai scoprire” disse una voce, in seguito ad uno scricchiolio.
Rigel
continuò a tenere la mano sulla bocca di Bion, mentre con l’altra impugnava la
pistola, pronto all’attacco. Dovevano essere almeno due, ma non era da escludere
che fossero molti di più. Rigel si rese conto ben presto che il rifugio dietro
al divano non era stata un’idea geniale, poiché non erano perfettamente
nascosti e ben presto sarebbero stati scoperti.
I
capelli scuri legati in una coda di Bion gli solleticarono il mento, quando lei
si distese contro il suo petto. Rigel le tolse la mano dalla bocca e aggrottò
le sopracciglia, confuso. Non capiva cosa stesse facendo, e per un momento gli
balenò il pensiero che fosse tutta una montatura e che fosse arrivato il
momento in cui anche lei, come tanti altri lo tradisse. Si trovò a disagio, non
sapeva cosa fare, la testa viaggiava troppo in mezzo a pensieri negativi, e lui
aveva perso ogni concentrazione.
I
due Sostituti si avvicinavano sempre di più e uno di loro fece scattare il
mitra. Bion era a un soffio dal pavimento, e in quella posizione era alquanto
difficile che potesse scattare in piedi e scappare. Così facendo aveva
costretto Rigel ha scostarsi da lei, e quindi ad allontanarsi dallo schienale
del divano e rendersi più visibile al nemico.
Il
ragazzo teneva gli occhi puntati su Bion, ed era pronto a ogni eventualità, la
pistola in mano.
Tutto
si svolse in una frazione di secondo. Bion si era allungata per afferrare una
mitragliatrice posta sotto il divano, la estrasse e con una velocità
impressionante ruotò il suo corpo passando da una posizione supina a una prona,
fece leva con una mano e con entrambe le gambe per alzarsi in piedi, mentre con
l’altra mano puntò la mitragliatrice dritta alla testa del Sostituto che ora li
aveva visti e stava per sparare.
Una
raffica di proiettili gli bucò la fronte e quello cadde all’indietro, senza il
minimo spargimento di sangue.
Rigel,
che aveva osservato la scena dalla sua posizione, scattò in piedi e senza
perdere tempo sparò al secondo Sostituto, ferendogli il petto. Rimase
interdetto quando quello incassò il colpo e lo guardò sogghignando con sguardo
vittorioso. Era ancora vivo, ancora in piedi e si mosse a grandi falcate nella
loro direzione.
Rigel
sparò di nuovo, ma la sua mira divenne disordinata, il Sostituto si muoveva in
modo scombussolato, il busto e le gambe serpeggiavano a destra e a sinistra.
Alzò l’arma e preparò il colpo, che avrebbe trovato spazio tra i polmoni di
Rigel, se Bion non fosse saltata in piedi tra i due e non avesse sparato
diretta in mezzo alla fronte del Sostituto.
Al
rumore assordante delle cartucce scartate seguì un silenzio immane, frammezzato
dal tonfo del corpo del semi-robot che cadde a terra, spaccando il vetro del
tavolino.
Bion
calò la mitragliatrice e si voltò. Rigel stava dietro di lei, la pistola ancora
puntata e il volto in un misto tra lo stupore, la rabbia e lo sconcerto.
Abbassò l’arma, ancora stretta tra le dita e accennò un sorriso a Bion.
“Mira
alla fronte per ucciderli. Ti sarà utile saperlo la prossima volta” fu tutto
ciò che lei disse, alzò il braccio e si appoggiò l’arma sulla spalla. Si
sentiva molto più a suo agio armata che disarmata.
Rigel
non aveva mai ucciso nessuno. Ancora una volta si sentì inferiore a lei, come
uno scolaretto impertinente che pensa di sapere tutto, ma poi si deve
confrontare con la maestra molto più saggia ed esperta. Odiava sentirsi così.
“Immagino
debba ringraziarti un’altra volta”, disse alle spalle di Bion.
Lei
si era avvicinata ai due corpi, e si era chinata per esaminarli. Appoggiò la
mitragliatrice a terra, e sfilò un coltellino dallo stivale. Alzò il braccio di
uno dei Sostituti e praticò una piccola incisione in senso verticale, seguendo
quella che negli umani era la linea naturale delle vene. Aprì con le dita i
lembi della carne dura, non una goccia di sangue uscì. Dentro, un agglomerato
di fili di metallo scoppiettavano, come quando c’era un corto circuito. Bion
chiamò Rigel, che la raggiunse e si chinò dall’altra parte del semi-robot.
“Vedi
questi fili interrotti e crepitanti? Significa che è morto, è fuori uso.
Soltanto un colpo sicuro al centro della fronte lo provoca. Nient’altro. È
quello il loro punto debole. È lì racchiuso il nucleo che li fa funzionare,
come per noi umani lo è qui” Bion allungò le dita fino a sfiorare Rigel
all’altezza del petto, lui sussultò, “dove c’è il cuore”.
Si
fissarono per un lungo istante, poi lei ritrasse la mano imbarazzata.
“Il
cuore in testa” commentò Rigel, ridacchiando.
Ma
Bion non rise. Lasciò cadere il braccio molle del Sostituto a terra e diede un
breve sguardo al suo volto, con una smorfia di tristezza. Era difficile pensare
a quegli esseri soltanto come a dei robot che dovevano essere uccisi. In
realtà, un tempo, anche loro erano stati umani, probabilmente con una famiglia,
dei figli. Nessuno le poteva dire se fosse stato una buona persona o meno. Ma
ormai dovevano solo essere eliminati, dovevano solo essere visti come robot
cattivi senza pietà. Eppure non erano completamente robot, infatti, erano
chiamati semi-robot, dal fatto che conservavano l’aspetto, i sentimenti e le
emozioni umane, sebbene in dosi molto minori.
“Come
facevi a sapere della mitragliatrice?” le domandò Rigel.
Si
voltò e fu come se i contorni del suo viso andassero delineandosi meglio mentre
lo guardava. Come se emergesse dai suoi pensieri e la facesse tornare
improvvisamente alla realtà. Sospirò e impugnò l’arma, lanciandogliela tra le
braccia. “È da quando sono arrivata che esamino la tua casa, non te ne sei
accorto?”
Rigel
sgranò gli occhi, ma cercò di assumere un’espressione calma.
“Ci
sono altre tre mitragliatrici appese al soffitto, dello stesso colore del legno
per essere camuffate meglio. Un fucile d’assalto nascosto nel porta ombrelli,
sette pistole automatiche sotto il bancone della cucina, una frusta camuffata
con il cordone per tirare le tende e… be’ penso che quel set fantastico di
coltelli non lo usi molto in cucina, o sbaglio?”
Rigel
era sicuro che la sua mandibola fosse scesa fino al pavimento. Era sempre più
impressionato dell’abilità di quella ragazza. Nel breve tempo che aveva
trascorso in casa sua aveva osservato ogni angolo così attentamente da scoprire
tutti i suoi nascondigli più astrusi. Era senza parole e per un attimo si
chiese cosa ne avesse fatto di lui, ora che sapeva tutti i suoi segreti.
“Dimenticavo
la porta a muro chiusa col catenaccio. Posso solo immaginare l’arsenale che
nascondi là dentro” Bion scrutò a lungo Rigel, mentre lui cercava di eludere il
suo sguardo. “Non è che mi faresti dare un’occhiata?”
Rigel
ingoiò la saliva. Era come al solito combattuto. Da una parte Bion gli aveva
salvato la vita due volte, sebbene lui non glielo aveva mai chiesto. Lo aveva
aiutato, gli aveva insegnato molte cose e aveva condiviso con lui la sua mappa,
parte della sua storia e molte sue conoscenze. Dall’altra parte, c’erano
indubbiamente cose che sapeva e che non gli aveva detto, cose su di lui. Si
chiedeva cosa l’avesse portata proprio a casa sua, e cosa la spingesse a
insistere per averlo come compagno di viaggio. Sembrava lo conoscesse da tempo
nonostante lui non l’avesse mai vista prima. Si rese conto che in ogni campo,
in ogni situazione lei si trovava sempre un passo avanti a lui.
“Lo
so che non ti fidi di me, ma se avessi voluto ucciderti, non pensi che l’avrei
già fatto? Ti ho salvato la vita due volte, non sono un’assassina. Non ci
ricavo niente ad ammazzare la gente” Bion lo fissò intensamente e Rigel lesse
un fondo di verità nei suoi occhi verdi.
Alla
fine cedette e la condusse fino alla porta di ferro battuto. Si voltò a
guardarla, lei pareva non stare in sé stessa, poi sciolse il catenaccio e
abbassò la maniglia. Dentro al muro era incavato uno stretto spazio
rettangolare. Rigel tirò una cordicella che pendeva di lato e una lampadina
luminosa si accese sulle loro teste. Lo spettacolo era vasto e vario.
L’arsenale era formato da una miriade di armi differenti, fucili, mitra,
mitragliette, pistole automatiche, numerosi taser, una fionda, diverse catene
di ferro e perfino un lanciafiamme. Bion allungò le dita per sfiorare il calcio
di alcune pistole. Era tutto in perfetto stato, senza un filo di polvere.
“È
davvero impressionante. Dove hai trovato tutta questa roba?”
Rigel
fece finta di spolverare alcuni fucili con le dita. In realtà erano come
splendenti alla luce della lampadina.
“C’è
un sistema di aereazione sul soffitto. Si attiva ogni due ore e rinfresca un
po’ lo spazio, anche se tenuto chiuso. È fantastico, l’ha ideato mio nonno”.
Bion
emise un’esclamazione di meraviglia.
“È
stato mio nonno che ha iniziato a racimolarle. Aveva una vera e propria
passione per le armi. Con il passare del tempo sono andate in eredità a mio
padre e ora a me. Le tengo perché non saprei dove altro metterle, nelle mani
sbagliate possono essere letali. Non escludo che mi possano sempre tornare
utili, per autodifesa, anche se tutte queste non le userò mai. Preferisco
averne una con me”.
“Penso
che con due ti sentirai meglio” Bion prese una pistola automatica dallo
scaffale e gliela spinse contro il petto. Ne prese altre due per sé, diede
un’ultima occhiata a tutto il resto e girò i tacchi.
“Non
appesantiamoci troppo, ci rallenterebbe soltanto”.
Rigel
sospirò e la seguì fuori dallo stanzino. Chiuse la porta e la assicurò
accuratamente con il catenaccio.
“Se
ce n’erano altri a seguirli, non tarderanno ad arrivare. Dobbiamo andarcene il
prima possibile”.
Rigel
la guardò a bocca aperta. Era confuso da quella decisione repentina. Non aveva
intenzione di lasciare casa sua, o almeno non così velocemente e in piena
notte, senza un posto dove andare. Era convinto che lì sarebbero stati molto
più al sicuro che dispersi nel bosco. “Dovremmo restare invece, almeno finché
non si fa giorno. Saremmo di gran lunga una preda più facile se ci mettiamo a
gironzolare nella foresta, non credi? Sarebbe come gridare ‘siamo qui, venite a
prenderci!’ Ci troverebbero immediatamente”.
Bion
si lasciò sfuggire un sorriso. Chinò il capo e annuì. “Questa volta hai ragione
tu”.
Rigel,
finalmente, si sentì sollevato e rallegrato di aver fatto qualcosa di utile.
Con
un balzo, Freya atterrò in mezzo a loro, senza produrre il minimo rumore. Rigel
s’illuminò appena la vide e balzò a terra, stringendola a sé. Accarezzò il
morbido pelo e le diede un affettuoso bacio sul muso. “Ti aspettavo” le
sussurrò. Freya iniziò a fare le fusa, e quel suono riempì il silenzio,
cullandoli come una dolce melodia rilassante.
Bion
sentì i muscoli tesi della schiena sciogliersi, e finalmente poté prendere un
profondo respiro. Si lasciò cadere sul divano, e chiuse gli occhi. Per lei era
stata una lunghissima giornata, si poteva definire interminabile, come i lunghi
mesi che aveva passato prigioniera, trasportata da una base militare a un’altra
e finalmente il tanto meritato riposo era arrivato.
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Capitolo 3 *** Ricordi ***
2
Ricordi
Le
fusa di Freya riscaldavano ancora l’aria, mentre Rigel l’accarezzava. Bion gli
aveva chiesto se poteva usare il bagno, e così era scomparsa là dentro da oltre
mezz’ora.
Le
donne. Pensò Rigel,
ricordando con nostalgia un tempo ormai troppo lontano in cui doveva aspettare
la sua ragazza ogni volta prima di portarla fuori. Si chiamava Avy e per lui
corrispondeva ad un periodo spensierato e felice della sua vita, quando era adolescente
e ingenuo. Lei era un Sostituto, viveva giù al villaggio. Rigel lavorava per
suo padre, faceva il fabbro e lei compariva qualche volta sulla soglia della
bottega e lo fissava.
Ogni
giorno che passava, Avy era sempre più presente, la sentiva spiarlo da dietro
le porte, e ogni volta che lui si girava per scambiare un’occhiata con lei, Avy
si nascondeva, spaventata. Una sera, Rigel si era trattenuto per finire un
lavoro e lei gli si era avvicinata, timida.
Da
allora si vedevano di nascosto quasi ogni giorno, e Rigel trovava sempre una
scusa buona per restare di più alla bottega, soltanto per vederla e per passare
del tempo con lei. Ma il padre di Avy era molto severo, alle cui decisioni la
famiglia non si poteva sottrarre. Quando aveva scoperto i loro incontri
notturni, aveva giurato di uccidere Rigel e di bastonarla se non lo avesse
dimenticato. Il giorno dopo, Rigel aveva perso il posto. Avy, una notte, era
corsa a casa sua e gli aveva detto addio per sempre.
Da
allora Rigel era tornato alla sua predestinata solitudine. Quel ricordo gli
ispirò amarezza. Era stata l’unica ragazza che avesse mai avuto, e non era
nemmeno umana. Sorrise con tristezza e si alzò, andandosi a sedere sul divano.
Freya lo seguì e gli si accovacciò affianco.
“Allora,
non mi hai ancora detto se ti fidi di lei o no?” fece Rigel, guardando la
lince.
Le
paiuzze dorate negli occhi dell’animale brillavano.
Rigel
sbuffò una risata. “Quando mai a te non piace qualcuno?” scherzò,
stropicciandole il pelo sulle orecchie.
Bion
tornò dal bagno, era vestita con la tuta nera di pelle, i piedi scalzi e i
capelli scuri bagnati e sciolti da una parte. Se li spazzolava lentamente.
Rigel
la guardò, mentre lei lo raggiungeva e gli sedeva accanto sul divano.
“Scusa
se ci ho messo tanto, ma avevo proprio bisogno di una doccia. Questa l’ho presa
dal bagno, spero non ti dispiaccia” alzò la spazzola verso Rigel. Lui fece
cenno di no con la testa.
Bion
sorrise e chinò il capo. Si toccò i capelli, lisciandoli con la mano.
Rigel
si perse nel suo sguardo. Era completamente diversa da prima. Con i capelli
sciolti e gli occhi dolci, spogli di ogni ansia o paura. Aveva una qualche
purezza e semplicità che le armi e l’affanno della battaglia le toglievano.
“Quando
ero piccola, era mia madre che mi spazzolava sempre, ogni sera prima di
addormentarmi. Diceva che così non si formavano nodi” sorrise amaramente, “ho
sempre avuto i capelli lunghi, ma ora mi rendono troppo riconoscibile” porse a
Rigel un paio di forbici spesse “tagliameli”.
Rigel
la guardò sorpreso. “Dici sul serio?”
“Certo.
Corti, sopra le spalle”.
Freya
alzò le orecchie e si fece più attenta. Sembrava provasse una curiosità
tipicamente femminile su come il risultato sarebbe venuto.
Bion
si voltò dando le spalle a Rigel e spostò i capelli sulla schiena. Attese con
pazienza che lui lo facesse, che glieli tagliasse. Si aspettava un taglio
netto, invece Rigel andò piano, si prese il suo tempo e quando ebbe finito lei
si sentì istintivamente più leggera, tolta da un grosso peso che
metaforicamente si riferiva ai suoi 19 anni, a tutte le cose brutte e belle che
aveva visto e vissuto nella sua vita.
Rigel
continuò il lavoro, sfilettando alcuni ciuffi e cercando di rendere il taglio
migliore. Alla fine lei si voltò e si scambiarono un sorriso.
“Ti
dona” disse lui.
Bion
arrossì e chinò il capo. Si passò una mano sui capelli che ora le avvolgevano
il collo e terminavano in ciuffi più lunghi davanti e dietro la nuca. Si alzò e
andò a guardarsi allo specchio. Per un attimo non si riconobbe, e restò a
fissarsi attonita. Pensò che Rigel era stato davvero bravo, era completamente
un’altra persona e in fondo quel taglio le piaceva.
Tornò
al divano con un sorriso a trentadue denti. “Grazie”.
Lui
fece un cenno con il capo.
“Ora
dobbiamo occuparci dei corpi, hai qualche idea di dove potremmo nasconderli?”
tornò al suo solito tono fermo e sicuro.
Rigel
buttò un’occhiata ai due Sostituti morti che avevano lasciato sul pavimento
della sala. Avrebbero potuto seppellirli nella foresta, dietro casa.
“È
meglio che bruciamo tutto qui, prima di andarcene, comprese le armi. Se
qualcuno trovasse questo posto, non esiterebbe a saccheggiarlo”.
Rigel
le lanciò un’occhiata di sbieco. “Non avrò più un posto dove andare…”
Bion
non rispose. Dalla sua espressione trapelava dispiacere. Dopotutto era stata
lei ad entrare nella vita di Rigel e a scombussolarla. In fondo si sentiva un
po’ in colpa, sebbene fosse certa della sua decisione. Era necessario che
l’affiancasse fino alla base di Sycor. Non sapeva per quale motivo, quale
ragione avessero di volere un ragazzo sull’orlo del baratro, che aveva perso la
voglia di vivere, eppure era proprio il suo nome che aveva sentito pronunciare
dai militare alla base di Sycor, tanti mesi prima.
“Come
stanno andando le ricerche?” chiese un sovrintendente a un subordinato. Lei affilò
l’orecchio, dall’interno della sua cella.
“Nessuna
novità. Sembra che sia sparito dalla faccia di Hestla”.
“Questo
dannato Rigel ci farà ammazzare tutti. Il signor Sycor lo sta cercando da anni,
è mai possibile che non si sia mai fatto vivo?”
Il
soldato rimase in silenzio.
“Siete
certi di aver ispezionato con cura ogni angolo della foresta di Ismene?”
continuò il sovrintendente, spuntando le parole a denti stretti.
“Sì
signore, da quello che ci è stato riferito dalle basi locali, hanno avviato
un’ispezione ogni mese, per due anni, ma senza alcun risultato”…
Bion
ricordò le voci secche e dure dei soldati come fosse ieri. Si ricordava anche
quando era stata informata, un mese prima, che l’avrebbero spostata in una base
militare a nord, e lei aveva iniziato a pianificare la sua fuga, per andare
alla ricerca di Rigel, nella foresta di Ismene.
Ancora
non le era chiaro come avesse fatto lui a raggirare i militari per due anni,
come era possibile che nonostante le ricerche, non fosse mai stato trovato.
“Mi
è venuta un’idea, spostiamoli nel ripostiglio delle armi”.
Bion
sussultò e si voltò verso Rigel. Lo aiutò a trasportare i corpi, tenendoli per
i piedi, mentre lui li reggeva per le mani. Aprirono il ripostiglio e ci
ficcarono dentro i due corpi afflosciati dei Sostituti, uno sopra l’altro, come
vecchie bambole di pezza.
Rigel
fece un passo indietro, chiuse la porta e la serrò con il chiavistello. “È
meglio riposarci ora. Non mancano molte ore all’alba, e se dobbiamo metterci in
cammino è meglio essere svegli”.
Bion
era confusa. Avrebbero lasciato quei corpi là dentro? Non era una buona idea,
ogni traccia doveva essere cancellata, le armi e i corpi dovevano sparire.
Avrebbe voluto ribattere e avanzare le sue ragioni, ma la stanchezza ebbe la
meglio e si abbattè su di lei come un macigno. Ad un tratto, sentì gli occhi
chiudersi, le gambe cedergli.
“Puoi
usare la camera dei miei genitori… non ci sono più entrato da quando… in ogni
modo dovrebbe andare bene…”
La
voce di Rigel era come lontana, ovattata. Bion lo seguì fino ad una porta di
legno scuro.
Rigel
girò la chiave, che cigolò nella serratura e furono nella stanza. Le finestre
erano serrate, una lampada al neon faceva luce sotto una densa coltre di
polvere. Il puzzo di chiuso invase all’istante le loro narici, insieme al
pizzicore della polvere alzata dai loro stivali.
Rigel
diede qualche colpetto con la mano sulla coperta, sollevando nuvolette di
polvere che si espansero per l’aria.
“Andrà
più che bene” disse Bion, guardandosi in giro incantata.
Rigel
socchiuse gli occhi e la studiò un’istante, prima di annuire e uscire dalla
stanza. Appena ebbe messo piede nel corridoio, si domandò se avesse fatto la
cosa giusta.
La
porta si chiuse alle sue spalle e lei rimase sola. Era da tanto tempo che non
vedeva una camera arredata, un luogo appartenuto a persone normali, comuni.
Tutto, attorno a lei, gli ricordò sua madre e sua sorella, in un tempo troppo
lontano in cui erano tutte e tre insieme.
Sospirò
e si mosse verso un vecchio mobile a muro. Sopra era posto uno specchio di
vecchia fattura, il vetro perfettamente intatto ma ricorperto da una fitta
coltre di polvere. Il suo riflesso era più che altro un’ombra su quella
superficie.
Aprì
il primo cassettone e guardò dentro. C’erano numerosi ritratti, incorniciati e
ammucchiati. Ne estrasse uno che l’attirò subito: un uomo, una donna e un
bambino biondo, sorridente e spensierato. I suoi occhi blu la fissarono
attraverso la pellicola trasparente. Anche da grande Rigel aveva conservato
quello sguardo indagatore e profondo. Bion non fece a meno di sorridere, vedendo
quel ritratto famigliare. Era qualcosa che avevano in comune, loro umani
sopravvissuti: una famiglia perduta e tanti ricordi. Per un attimo si sentì
male per quello che stava facendo. Provò un dolore allo stomaco, un
insopportabile fastidio. In fondo Rigel era proprio come lei, un sopravvissuto,
eppure lo stava dando in pasto al nemico.
Bion
si sedette sul letto, alzando un velo di polvere tutto attorno. Chinò il capo e
si guardò le mani. Che cosa stava facendo? In cosa si stava trasformando? Una
traditrice della sua specie, un’ impostora che avrebbe consegnato un innocente
soltanto per ricevere un profitto personale, per avere indietro sua sorella.
Perché
era quello il suo piano, sin dall’inizio. Non era un caso che si fosse
imbattuta in Rigel, quella notte. Non era un caso che lo avesse spinto alla
ricerca dei suoi genitori, alla vendetta su Sycor. Dopo tutto quello che aveva
sentito dire su Rigel, era certa che quel nome che aveva sentito pronunciare
tra i militare alla base di Sycor corrispondesse proprio a lui. E se avesse
portato loro la persona che tanto bramavano, loro non avrebbero esitato ad
accettare la sua proposta di scambio e così avrebbe avuto indietro sua sorella
Hana, finalmente.
Fu
quel pensiero che la risollevò. Poter riabbracciare Hana, stringerla e
confortarla. Era tutto ciò che le era rimasto.
Diede
un’ultima occhiata alla foto della famiglia di Rigel, sulle sue ginocchia, si
alzò e ripose la cornice nel cassettone. Lo chiuse e si sdraiò sul letto; il
sonno la colse all’istante.
Rigel
camminò lentamente verso la sua camera. Aveva spento tutte le luci e la sua
casa ora, era come un immensità oscura. Si ricordava di quanto avesse paura del
buio da bambino. Ogni volta correva tra le braccia di sua madre, buttandosi nel
suo grembo, quando le luci si spegnevano.
“Non
devi confortarlo, non imparerà mai a divincolarsi da questa paura e rimarrà un
fifone!” sbraitava ogni volta suo padre. Non lo diceva in tono cattivo,
tutt’altro. Desiderava solo che Rigel diventasse forte e coraggioso. Desiderava
che fosse in grado di cavarsela da solo nel caso a loro fosse successo
qualcosa.
Solo
dopo la loro scomparsa Rigel aveva ringraziato mentalmente suo padre per gli
insegnamenti ricevuti, e sua madre per tutto l’amore. Da quando aveva quindici
anni, niente gli faceva più paura.
Aveva
dovuto crescere in fretta, pensare a se stesso, uccidere insetti con le proprie
mani, che un tempo non avrebbe nemmeno sfiorato con un dito. Cacciare le
proprie prede nella foresta, quando i soldi per il mercato scarseggiavano.
Aveva trovato un lavoro presso un fabbro e aveva lavorato duro fino a vent’
anni per guadagnarsi la pagnotta.
E
in ogni stralcio di tempo che gli restava, indagava su dove fossero stati
portati i suoi genitori e, più importante, se fossero ancora vivi o meno.
Arrivò
alla porta della sua stanza e ci si appoggiò sopra, aprendola ed entrandoci.
Una
lampada al neon illuminava l’interno, semplice e spoglio. Sembrava quasi una
cabina di un militare: un letto, un armadio, una scrivania… non erano le cose
materiali ad interessargli.
Prima
che la porta si richiudesse, Freya zampettò dentro.
Rigel
si sedette sul letto e si lasciò cadere all’indietro. Si nascose il volto tra
le mani. Cose stava facendo? Perché si era fatto convincere da quella ragazza
sconosciuta a seguirla fino alla tana del lupo? Pensava davvero che avrebbe
ritrovato i suoi genitori? Che sarebbero stati là ad aspettarlo e che lo
avrebbero riabbracciato, sani e salvi?
Aveva
troppi brutti pensieri per la testa. Doveva pensarla in un altro modo. Quella
notte era iniziata troppo male. Si voleva togliere la vita, eppure dopotutto
era ancora lì, su quel letto. E più importante, con qualcosa da fare. Qualcosa
che lo stimolasse. Una ragione per vivere.
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Capitolo 4 *** Vite Precedenti ***
3
Vite precedenti
Un
tiepido sole mattutino lo accolse al suo risveglio. Si stropicciò gli occhi e
si portò una mano sulla fronte. Sentiva i muscoli rilassati e sciolti, come se
avesse appena fatto la dormita migliore della sua vita. Rigel si alzò dal letto
quasi controvoglia, sebbene non fosse abituato a svegliarsi tardi. Sfiorò con i
piedi la coda di Freya, acciambellata a terra, e uscì dalla stanza. Entrò nella
sala e fu accolto da un piacevole tepore e da un cinguettio allegro di
uccellini. Poi incontrò lo sguardo di Bion, dietro al bancone della cucina, sui
fornelli.
“Buongiorno”,
lo salutò lei, con un sorriso.
Rigel
avanzò nella sua direzione e si fermò dall’altra parte del bancone. Fu
piacevolmente accolto dal profumo di uova appena cotte.
“Mi
sono data da sola il permesso di preparare qualcosa, spero non te ne abbia a
male” fece un cenno con il capo verso il tavolo da pranzo.
Era
apparecchiato e imbandito di cose deliziose e profumate. C’erano frutta fresca,
bacon, salsicce, pancakes con sciroppo d’acero e gustosi frutti rossi. Bion gli
si affiancò e versò nei due piatti le uova appena cotte.
“Sei
arrivato giusto in tempo” commentò, appoggiando la padella sul bancone e
mettendosi a sedere. Rigel era rimasto impalato davanti al tavolo, fissandola.
“Tutto
bene?” domandò lei.
“È
solo che… non ero più abituato a mangiare così… voglio dire, sembra tutto
fantastico…”
“Aspetta
di assaggiare prima” Bion rise e arrossì.
Rigel
non se lo fece ripetere due volte. Si sedette dall’altro lato del tavolo e
spazzolò tutto in breve tempo. Non si poteva certo dire che lei fosse da meno.
Erano talmente affamati che i piatti furono sgombri e lucidi come appena
lavati.
“Grazie
davvero, Bion. Era tutto ottimo” gli occhi blu di Rigel la intercettarono.
Bion
si alzò per evitare di arrossire di nuovo davanti a lui. E il suo sguardo la
metteva piuttosto a disagio.
“Dai,
aiutami a sparecchiare”.
Quando
ebbero finito di lavare e riporre ogni arnese utilizzato, si sentivano entrambi
come rinati. La giornata era fantastica, e dalle finestre aperte giungevano una
leggera brezza e il tepore del sole estivo.
Rigel
si sentiva rinvigorito come non mai. I brutti pensieri e il tentato suicidio
della sera prima erano ricordi lontani. Per un attimo pensò che Bion avesse
messo qualcosa dentro quel cibo, qualcosa che lo facesse sentire
incredibilmente sereno e in pace con sé stesso. E anche lei pareva dello stesso
umore.
Rigel
non seppe come, ma si ritrovò sul divano, la testa appoggiata all’indietro e le
gambe distese fino al pavimento. Una strana sonnolenza lo assalì. Gli occhi non
ne volevano sapere di rimanere aperti e ogni rumore gli giungeva lontano,
ovattato. Perfino la sua stessa voce, quando si sentì pronunciare il nome di
Bion, quando gli si sedette accanto.
“Non
so perché mi sento strana…”
Rigel
voltò il capo verso di lei e il gesto gli provocò uno sforzo disumano. Incontrò
i suoi occhi verdi, spenti e arrossati a un soffio da lui.
“Rigel…
i tuoi occhi…”
Ma
la sua voce era distante, non suonava nemmeno più umana. Rigel si sentì
risucchiare sempre di più verso il fondo, verso l’oscurità di un sonno che lo
richiamava. Chiuse gli occhi e finalmente poté assaporare una pace e una
tranquillità estreme.
“Rigel!”
Si
sentì scuotere violentemente. No, lasciatemi stare.
“Rigel,
reagisci!” la voce continuava a chiamare il suo nome, sempre più
insistentemente. La sua testa scrollava avanti e indietro forsennata.
Ritornò
alla realtà di scatto; con un sussulto aprì gli occhi e la prima cosa che vide
fu il volto di Bion. Lo teneva per le spalle e lo scrollava animatamente.
“Rigel...
non era prezzemolo quello che ho messo nelle uova, ma erba Placidus…”
Rigel
non era ancora pienamente in sé, riusciva a cogliere soltanto pezzi di
discorso.
“Bevi…”
Bion gli allungò un bicchiere con un liquido trasparente e dondolante
all’interno. “È solo acqua…”
Bion
gli alzò il capo e lo aiutò a mandare giù. Subito si sentì meglio, più in
forze, più sveglio e a ogni sorso era come se ritornasse in sé un po’ di più.
Quando
ebbe ripreso completamente conoscenza, si portò una mano alla testa e guardò
Bion con sguardo indagatore. “Che cosa mi hai fatto?” irruppe.
Bion
alzò le mani davanti a sé. Teneva qualcosa sul palmo, ciuffetti di erba. “Ho
messo questa nelle uova. Pensavo fosse prezzemolo, ma non lo è. Si chiama erba
Placidus e provoca una forte sonnolenza e pacatezza. Ti fa rilassare in modo
assurdo, ma un uso eccessivo potrebbe non farti svegliare mai più…”
Rigel
la guardava atterrito. “E cosa ci faceva nella mia cucina?”
“Rigel,
ti giuro che non lo sapevo”.
“Ma
guarda caso sai tutto sull’argomento. Mi sei sempre sembrata troppo strana…”
Rigel si allontanò da lei, spostandosi sul divano.
Bion
era quasi in lacrime. “Io… ho avuto a che fare con questo tipo di erbe in
passato… e per fortuna sapevo anche come invertire i suoi effetti. Ti ho dato
dell’acqua… ti ho salvato la vita…”
“Basta
con questa storia! Ne ho abbastanza!” Rigel scattò in piedi. Era furibondo e
nauseato. Ora capiva l’immenso sbaglio che aveva fatto con lei. Avrebbe dovuto
cacciarla già dal primo momento. Non doveva fidarsi. Non doveva.
Tuttavia
l’espressione di Bion sembrava autentica. Era dispiaciuta, gli occhi lucidi.
Era come se sapesse di non poter più trovare scuse. Anche se aveva ragione,
anche se questa volta era innocente, Rigel non l’avrebbe più ascoltata. Si alzò
in piedi, ma qualcosa ruppe il silenzio tra di loro, e non furono le sue
parole. Il suo volto cambiò espressione, rivolse lo sguardo alla finestra
aperta. Delle voci, dei rumori in lontananza. Rigel rimase in ascolto a sua
volta. Si scambiarono un’occhiata.
“Stanno
arrivando” fu tutto quello che Bion riuscì a dire.
Non
c’era più tempo per i litigi. A breve onde di Sostituti si sarebbero riversate nella
casa, e avrebbero fatto in modo di ucciderli, o peggio di imprigionarli.
“Dobbiamo
muoverci”.
Rigel
aveva gli occhi fuori dalle orbite. Si guardava attorno, ancora scosso
dall’esperienza con l’erba Placidus. Vedeva soltanto Bion muoversi a destra e a
sinistra, rifocillandosi di armi. Si era equipaggiata con due pistole, un mitra
di traverso sulla schiena, due coltelli nascosti negli stivali e qualche
freccetta a stella aggrappata alla cintola della tuta aderente.
Rigel
si dette una mossa, pigliò due pistole, un mitra e fece la scorta di coltelli.
“Dobbiamo sbarazzarci dell’arsenale!” sbraitò, mentre Bion era già sul punto di
uscire.
“Non
c’è tempo!”
Ma
Rigel non l’ascoltò. Aprì in fretta la porta, la gamba di uno dei Sostituti
morti fece capolino fuori dal ripostiglio. Rigel si allungò sui due corpi e
pigliò il bazooka appoggiato alla parete. Si allontanò quel tanto che bastava
per prendere la mira e sparò.
In
una frazione di secondo, il ripostiglio saltò in aria in una nuvola di fuoco, schegge
e fumo. Rigel si allontanò correndo e raggiunse Bion, che si era voltata,
infuriata.
“Che
diavolo ti è saltato in mente? Così gli hai facilitato il lavoro!”
Rigel
le gettò un’occhiata e continuò a correre fuori dalla casa che a poco a poco veniva
avvolta dalle fiamme.
“Avrebbero
trovato le armi! Dovevamo liberarci delle tracce!”
Bion
fu sul punto di ribattere, ma ormai era inutile. Il danno era stato fatto, il
fuoco si sarebbe alzato in aria molto rapidamente e avrebbe attirato
l’attenzione su di loro in un baleno. Mentre correva e pensava a qualcosa da
fare, notò un’ombra zampettare al loro fianco. Era Freya che li aveva raggiunti
in un lampo.
Le
voci dei Sostituti si andavano facendo sempre più chiare, alle loro spalle.
Bion non smetteva di correre, veloce come un fulmine.
Rigel
le teneva testa, ma erano partiti così velocemente che dopo alcuni minuti i
muscoli già dolevano e bruciavano. Sentì il sudore colargli freddo sulla
schiena e inondargli la fronte. A un tratto, si sentì prendere per la maglia e
tirare in un’incavatura del terreno, dove una roccia abbastanza grande collegava
due livelli di terreno sconnessi.
Bion
atterrò con un balzo nella terra sottostante e si sedette, la schiena contro la
roccia. Dopo che Rigel si fu buttato al suo fianco, gli intimò di fare
silenzio, portandosi un dito contro le labbra. Erano così ansimanti che fu quasi
un supplizio trattenere il respiro.
Le
voci li raggiunsero nel giro di qualche minuto. Gli passarono proprio sopra, e
fu allora che entrambi cercarono di appiattirsi il più possibile contro la
roccia e serrare le labbra. Fortunatamente, avevano scelto un nascondiglio
appropriato, che i Sostituti non scoprirono. Le loro voci si diramarono in
altre direzioni della foresta, verso est.
Fu
allora che Rigel prese un profondo respiro.
“Ci
hai fatto quasi ammazzare, spero tu sia contento” fece Bion, arrabbiata.
In
quel momento, Rigel non ci vide più. “Sbaglio o sei stata tu ha insistere nel
cancellare le tracce a casa mia, ieri sera? Ho solo fatto quello che andava
fatto, per il nostro bene. Così non avranno impronte da analizzare o segni da
seguire”.
Bion
lo fissò con un misto d’irritazione, sorpresa e comprensione. “Ad ogni modo,
ora ci serve un mezzo per viaggiare e delle provviste” aprì la borsa che teneva
a tracolla e frugò dentro. C’erano qualche frutto e qualche pezzo di formaggio.
Rigel
fece lo stesso con la sua sacca. Non l’aveva caricata molto abbondantemente la
sera prima. Un paio di mele e qualche pezzo di carne raggrinzita che Freya
avrebbe di certo apprezzato.
Bion
gli lanciò un’occhiata accusatoria. Gli stava dando la colpa se non avevano
fatto adeguatamente provviste. Si slacciò la cerniera della tuta ed estrasse
dal ventre la mappa di Hestla, che portava sempre con sé, come una seconda
pelle. L’aprì e la stese. Rigel si piegò verso di lei, per vedere meglio.
“È
meglio se passiamo per il villaggio a fare rifornimenti. Dopodiché,
proseguiremo verso la città di Keel, a sud, dove troveremo un mezzo per
spostarci”.
Rigel
le lanciò un’occhiata scettica. “E come lo troveremo?”
Bion
vagò nel suo sguardo. Sorrise. “Di questo non ti preoccupare. Ho delle
conoscenze da quelle parti”.
Rigel
alzò le sopracciglia. Mentre la guardava, gli sembrò che tutto fosse tornato
come prima dell’erba Placidus. C’era quel qualcosa in lei che gli ispirava
curiosità e in qualche modo fiducia. Eppure, ancora non riusciva a crederle del
tutto riguardo all’erba. Chi altri poteva avergliela messa in cucina? Rigel non
faceva entrare nessuno in casa sua da anni. Probabilmente l’ultima persona ad
averci messo piede era stata Avy, quella notte che era andata a dirgli addio.
Bion
si alzò che lui era ancora tra i pensieri.
“Forza,
non c’è tempo da perdere”.
Arrivarono
al villaggio verso mezzogiorno. Come sempre, nella via principale era allestito
il mercato. Numerose bancarelle di ogni tipo si snodavano per miglia, i
venditori si sbracciavano e gridavano le loro offerte, cercando di attirare il
maggior numero di persone nella loro bancarella e guadagnare quanto più
possibile.
Il
villaggio si trovava a sud della foresta, quasi al limitare, in una radura
piuttosto ampia, in cui alberi e fusti erano stati abbattuti per dare spazio
alla civiltà. Non ricordava minimamente la grandezza delle città di Hestla, ma
era comunque popolato, ed erano tutti Sostituti.
Era
lì che Rigel aveva lavorato come fabbro, fino a due anni prima. Era lì che
andava per rifornirsi di cibo.
Al
mercato nessuno si curava di nessuno. Ognuno pensava solo per sé, a trovarsi le
offerte migliori, ad accertarsi di concludere un buon affare, a stare attenti a
non venire derubati… era il posto perfetto per loro, in quel momento.
Rigel
aveva un bazooka e un UZI appesi alla schiena e due pistole ciondolanti dalla
cinghia dei pantaloni eppure nessuno sembrò farci caso. Era solo un ago in un
paiaio.
“Muoviamoci”
sussurrò Bion. La sua espressione non nascondeva che quel posto non le piacesse
particolarmente. Forse tutta quella tranquillità non era un buon segno, in
fondo. Tra la gente indifferente poteva sempre nascondersi qualcuno che fingeva.
Si
avvicinarono a una bancarella che vendeva frutta. C’erano così tanti colori
diversi e profumi deliziosi che Rigel non seppe dove guardare. La colazione di
quella mattina gli sembrò lontanissima, e la fame incominciava a farsi sentire.
Con le poche monete che avevano racimolato prima di scappare da casa,
comprarono quanta più roba potevano infilare nelle loro sacche da viaggio.
Si
erano fermati davanti ad una bancarella che vendeva formaggi freschi, quando
una voce alle loro spalle li attirò.
“Rigel?”
Rigel
fu molto sorpreso di sentire pronunciare il suo nome. Si voltò lentamente, e
spalancò gli occhi alla vista di una vecchia conoscenza.
Avy,
quella che era stata la sua ragazza Sostituto, gli venne incontro e gli saltò
al collo. Lo abbracciò così stretto che lui non ebbe nemmeno il tempo di
vederla in volto.
“Non
posso crederci, sei davvero tu?” fece Avy, staccandosi quel tanto che bastava
per guardarlo negli occhi. Gli accarezzò una guancia dolcemente.
Rigel
non aveva ancora trovato le parole. Lanciò una breve occhiata a Bion, dietro di
loro: aveva uno sguardo indefinito.
“Cosa
ci fai qui?” continuò Avy.
Rigel
si staccò da lei, indietreggiò e appoggiò una mano sulle spalle di Bion.
“Facciamo un giro…” buttò lì, in tono vago.
Avy
parve accorgersi soltanto allora dell’altra ragazza. La squadrò malamente per
poi ripuntare gli occhi su Rigel. “Sarete affamati… venite a casa mia, vi offro
qualcosa…”
Rigel
guardò Bion, che non ricambiò lo sguardo. Prima che potesse dire qualsiasi
cosa, Avy lo strattonò e lo costrinse a seguirla.
Entrarono
in una piccola bottega dall’altra parte della strada. L’interno era tetro e
poco illuminato. Bion fece scivolare le dita sul calcio della pistola.
“Mio
padre è molto malato… e mia madre fa avanti e indietro dalla fabbrica, per
guadagnare qualcosa…” disse Avy, sottovoce.
“Mi
dispiace” la voce di Rigel era un sussurro nel buio.
Avy
annuì. “L’abbiamo fatto vedere dal dottore del villaggio, ma nemmeno lui ha
capito cos’abbia. Sono preoccupata, Rigel” lo fissò negli occhi, lui chinò il
capo senza sapere cosa dire.
Attraversarono
una porta di legno, piccola e scricchiolante. Avy premette un interruttore
sulla parete e una luce al neon si accese ad illuminare un tavolo di ebano,
quattro sedie e qualche mobile povero da cucina.
“Sedetevi”
Avy indicò le sedie con il braccio, mentre si affaccendava sui fornelli accesi.
“Avy,
non c’è bisogno, davvero… noi…”
“Per
favore Rigel, il cibo non ci manca”.
Rigel
abbassò gli occhi e si sedette, seguito da Bion. Sospirò e si guardò attorno.
Aveva il presentimento che il cibo gli mancasse eccome. Mentre vagava sui
mobili di vecchia fattura e sui muri screpolati, incontrò gli occhi verdi di
Bion, fissi su di lui. Si scambiarono una lunga occhiata. Gli voleva far capire
che non potevano restare troppo tempo, dovevano essere a Keel prima di sera.
Rigel ribatté con un’alzata di spalle. Avrebbe fatto in modo di andarsene il
prima possibile.
Avy
portò sulla tavola tre piatti fumanti di zuppa di legumi. Subito il profumo li
inebriò. Era così gustosa che la finirono in poche cucchiaiate. Bion si alzò,
con il piatto in mano.
“Faccio
io” la fermò Avy.
Bion
le sorrise appena. “Non c’è problema” e si diresse al lavello per sciacquare il
piatto. Lanciò un’occhiata al tavolo, dove Avy e Rigel parlavano animatamente
tra di loro. Si sentì di troppo, e quella sensazione non le piaceva per niente.
“Faccio
un giro” esordì a voce alta, per sovrastare le loro voci. Entrambi la
guardarono e Rigel sembrò lanciarle un’occhiata amareggiata. Avy la seguì con
la coda dell’occhio, finché Bion non fu fuori dalla cucina.
Bion
camminava per la stanza avanti e indietro già da un po’. Si avvicinava a un
mobile a muro e ci passava sopra un dito, tirando su un denso strato di
polvere. Andava alla finestra e ci si appoggiava, scrutando la via del mercato
sottostante. Il sole stava tramontando, e aveva creato giochi di luce rosa,
rossa e gialla in tutto il cielo.
“Che
cosa avrei potuto dirle? Ci ha offerto un posto dove dormire” Rigel alzò le
braccia e per l’ennesima volta le lanciò un’occhiata scrutatrice.
Bion
era rimasta in silenzio fino ad allora. Si andò a sedere sul bordo del letto a
due piazze e prese fuori i due coltelli che teneva negli stivali, iniziando ad
affilarli tra di loro.
“E
comunque mi fido di Avy. Nella sua famiglia sono tutti Sostituti ma sono brave
persone”.
“Detto
da te che eri il suo ragazzo, è molto rassicurante” Bion alzò gli occhi su di
lui per una frazione di secondo.
“Potevi
dirle tu qualcosa…”
“Io?
Dirle cosa? Ma se mi ha a malapena notato…”
Rigel
si buttò sul letto, al suo fianco. Si chinò in avanti e la guardò. “Scusami,
okay? Io ti ho perdonato per l’erba Placidus, è il tuo turno adesso”. Non era
certo di averla davvero perdonata in realtà, ma in quella situazione era la
cosa migliore che gli fosse venuta in mente. “E poi sarebbe stato inutile
continuare la marcia questo pomeriggio, avremmo dovuto passare la notte
all’aperto”.
Bion
in questo doveva dargli ragione. Avy e Rigel avevano parlato tutto il
pomeriggio, mentre lei aveva gironzolato per il villaggio e quando era tornata
alla bottega, il sole era già basso oltre le chiome degli alberi. Avy li aveva
pregati di restare, insistendo a dire che le faceva immensamente piacere.
Quando
Bion era tornata dal suo giretto, si era fermata oltre la porta della cucina,
prima d’entrare. Aveva sentito uno strano silenzio dall’interno, dei sospiri e
degli schiocchi di labbra. Capì che il ritrovo era stato alquanto lieto per
entrambi.
“Come
mai vi siete lasciati?” esordì, alzando gli occhi dai suoi coltelli per posarli
su Rigel.
Lui
pareva non avesse molta voglia di parlarne. “Suo padre non approvava. Io
lavoravo per lui, facevo il fabbro. E Avy mi guardava sempre da dietro le
porte…” sorrise, “era alquanto strana… ma carina. Ma quando suo padre ci scoprì,
mi licenziò e la minacciò, vietandole di vedermi di nuovo”.
Bion
annuì con il capo. “È per questo che sei così contento che non ci sia più suo
padre tra i piedi?”
Rigel
la guardò male. “Io non sono contento… piuttosto è lei che mi sembra diversa…”
“Vuoi
dire che una volta non era così nevrotica?”
Rigel
le lanciò un’altra occhiata storta. “Cosa intendi?”
“Voglio
dire che mi è sembrata molto impaziente di saltarti addosso…” fissò i suoi
occhi verdi in quelli blu di Rigel.
Lui
ingoiò la saliva, come faceva spesso quando era nervoso. “Guarda che non è
successo niente…” abbassò il capo e lo scrollò.
“Non
mi interessa… dico solo che non è affidabile. È come se fosse stata informata
del nostro arrivo e facesse di tutto per avere qualcosa da noi,
indirettamente”.
Rigel
si alzò in piedi e si voltò verso di lei. “Non ti sembra di esagerare adesso?”
Bion
sospirò e tornò a concentrarsi sui suoi coltelli. Era piuttosto convinta delle
sue ragioni. Lo sentiva quando qualcosa non quadrava, e quella Avy di sicuro
non quadrava.
“Comunque
sia, ora vado a farmi una doccia…” Rigel si tolse la maglietta verde militare e
la lasciò sul comò.
Bion
gli lanciò un’occhiata, mentre lui usciva dalla stanza.
Rigel
s’immerse nel buio del corridoio. Cercò di fare piano: le assi del pavimento
scricchiolavano. Il bagno era in fondo alla stanza, il bagliore di una fioca
luce al neon traspariva dalla fenditura della porta. Avanzò tranquillamente, ed
entrò. Era vuoto. Si richiuse la porta alle spalle, si tolse i pantaloni e si buttò
sotto la doccia. Un getto di acqua gelida lo fece rabbrividire, ma nel giro di
qualche secondo si trasformò in bollente acqua calda.
Rigel
ripensò alle parole di Bion. Era come se non riuscisse del tutto a darle torto.
Lui stesso non provava la stessa cosa che aveva provato per Avy, tempo prima.
Qualcosa era cambiato. Sì, lui era cambiato forse, ma soprattutto la ragazza
Sostituto si comportava diversamente. Un tempo era dolce, ingenua e timida. Era
proprio quel suo carattere ad averlo attirato. Era spensierata, allegra. Ora,
invece, sembrava tutt’altra persona. Certo, il dolore per la malattia del padre
e la lontananza dalla madre, che lavorava tutto il giorno e tornava la sera
tardi, l’avevano cambiata.
Rigel
non sentiva per lei nessun sentimento più profondo dell’affetto che si può
avere per una sorella.
Quei
pensieri lo accompagnarono anche quando chiuse la manopola dell’acqua e si
coprì con un asciugamano, uscendo dalla doccia. Si asciugò velocemente e si
rivestì.
Uscì
dal bagno, spegnendo la luce e tornò a passi lievi verso la camera da letto che
Avy gli aveva riservato. Socchiuse leggermente la porta e sbirciò all’interno. Quando
notò Bion stesa sul letto, entrò e prese subito la maglietta che aveva
abbandonato sul comò.
La
indossò e guardò la ragazza, i capelli ancora bagnati appiccicati alla fronte.
Bion era stesa, appoggiata su un fianco, una gamba sull’altra. Il palmo della
mano le reggeva la testa, mentre studiava la mappa.
Un’innaturale
silenzio cadde nella stanza. Rigel sospirò e prese una coperta, ripiegata su
una sedia, la gettò a terra.
Bion
alzò lo sguardo su di lui. “Che stai facendo?”
Lui
le rispose senza voltarsi. “È meglio se dormo per terra”.
Bion
scosse la testa e si mise a sedere sul letto. “C’è posto abbastanza per tutti e
due” disse, indicando l’altro lato del letto. Rigel ci si chinò sopra e prelevò
il cuscino per poi buttarlo a terra sopra la coperta. Il giaciglio era pronto.
“Fa
come ti pare” Rigel la sentì borbottare. Lei si alzò e uscì dalla stanza.
Sembrava arrabbiata. Rigel si sedette a terra e si distese. Non era molto
comodo, alcune assi cigolavano sotto il suo peso, ma poteva sopportarlo.
Sebbene
fosse estate inoltrata e di giorno l’afa era insopportabile, di notte la
temperatura calava parecchio e si alzava una brezza fastidiosa. Ma dentro
quella piccola camera di legno era come stare in un forno. Rigel rimpianse
l’acqua gelida della doccia. Avrebbe tanto voluto gettarsela addosso per
rinfrescarsi.
Era
sul punto di addormentarsi, quando sentì la porta schiudersi. Aprì un occhio e,
nel buio, scorse la figura agile di Bion raggiungere il letto. La zip della
cerniera scattò, si sfilò la tuta nera aderente, la cintura e si rifugiò sotto
le coperte, che frusciarono sul suo corpo.
L’ultimo
rumore che Rigel percepì prima che gli occhi gli si chiudessero, fu il clic
delle pistole caricate che Bion aveva nascosto sotto il cuscino.
Bion
si svegliò come ormai era abituata. Aprì gli occhi, al buio e si guardò
attorno. Un lieve raggio di sole traspariva dalle imposte chiuse. Si alzò e si
vestì, agile e silenziosa. Recuperò tutte le sue armi, equipaggiandosi a
dovere. Passò dall’altra parte del letto e si accovacciò a terra accanto a
Rigel.
Il
suo viso era rilassato e in pace, mentre dormiva. Bion restò a guardarlo per un
po’, pensando che, mentre dormiva, assomigliava molto di più alla foto del
bambino trovata a casa sua. Bion si mordicchiò il labbro. Per l’ennesima volta
si chiese se quello che stava facendo fosse giusto. Rigel era un umano, proprio
come lei, forse uno dei pochi rimasti su Hestla. Avrebbe dovuto salvarlo,
lasciarlo andare, o sarebbe stato come tradire la sua stessa razza. In fondo,
Rigel non gli serviva veramente. Lei era scaltra, veloce. Avrebbe raggiunto da
sola la base di Sycor, avrebbe trovato un modo per aggirare la sorveglianza e
una volta dentro avrebbe salvato sua sorella Hana. Quante possibilità aveva che
quel piano in solitario andasse a buon fine? Probabilmente non molte,
considerata la numerosa presenza di guardie attorno a Sycor. Ma avrebbe salvato
la vita a Rigel.
Mentre
il pensiero di andarsene si consolidava nella sua mente, si dispiacque soltanto
di avergli fatto abbandonare casa sua. Ma in fondo, si disse, sarebbe stato più
che bene con Avy. Insieme facevano una gran bella coppia.
Bion
allungò le dita, tremanti, verso il viso di Rigel, ma si ritrasse quando lui girò
il capo nel sonno. Prese un profondo respiro e si alzò, facendo attenzione a
non far scricchiolare le assi del pavimento. Aprì la porta, e fu sul punto di
varcarla…
“Vai
da qualche parte?”
La
voce di Rigel la fece letteralmente sussultare. Bion puntò gli occhi a terra,
su quelli di Rigel, che la guardavano al contrario.
Lui
si alzò in piedi e le andò vicino, così vicino che Bion sentì il suo respiro
smuoverle i capelli. Con una mano, Rigel richiuse la porta. “Allora?” incalzò.
Bion
era esterrefatta, non sapeva cosa dire. In quei tre giorni, non aveva mai
visto uno sguardo così deciso nei suoi occhi.
“Volevi
andartene e lasciarmi qui, non è vero? Per farmi rimpiangere di aver lasciato
casa mia per seguirti, e poi mollarmi alla prima incongruenza…”
“Con
Avy…” iniziò lei.
“Con
Avy un accidente! Non ho intenzione di restare qui. Sono venuto per trovare i
miei genitori, per trovarmi faccia a faccia con quel bastardo che li ha rapiti,
il resto non importa. Cerco vendetta, non compassione”.
Bion
lo fissò negli occhi. “Perché non la ami più?” le uscì a mezza voce. Lei stessa
fu sorpresa di quelle parole. Abbassò il capo, quello sguardo si stava facendo
troppo intenso da sostenere.
“Forse
non l’ho mai amata…” sussurrò Rigel, puntando gli occhi a terra. Da quando era
rimasto solo, aveva sempre pensato di essere l’unico umano rimasto su Hestla.
Non che avesse manie di grandezza o cose del genere. Semplicemente in tanti
anni, non gli era mai capitato di incontrare umani. Quindi aveva in un certo
senso accettato il fatto di vivere tra i Sostituti, come unica soluzione ad una
vita in completa solitudine. In quanto umano, si era spesso sentito solo anche
quando era in mezzo a tanta gente. Perché sapeva che a nessuno dentro scorreva
sangue vivo, che nessuno poteva eguagliare la incontrastata e imperfetta bellezza
dell’essere umano. Ma si era rassegnato.
Avy
non corrispondeva a un grande amore, soltanto a un periodo spensierato in cui
lei gli aveva fatto compiere alcuni passi fuori dalla solitudine. Le voleva
bene, ma non l’amava.
“Allora
andiamocene” disse Bion.
Rigel
annuì, si girò a prendere tutte le sue armi e insieme uscirono dalla stanza. Si
curarono di fare piano, per evitare di svegliare Avy e di doverle spiegare come
mai se ne andavano furtivamente senza salutarla. Rigel si dispiacque solo di
non poterle dire grazie per quell’accoglienza.
Quando
scesero le scale e scomparvero oltre l’uscio della bottega, non potevano sapere
che Avy aveva sentito tutto e si era nascosta, a piangere, nel bagno.
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Capitolo 5 *** Vecchie Conoscenze ***
4
Vecchie conoscenze
L’estate era sempre
stata la stagione che preferiva. Le ore di luce erano tante durante il giorno,
e il caldo invogliava a stare all’aperto, a giocare con Freya, ad esplorare la
foresta… aveva i più bei ricordi legati a quella stagione. Quando aiutava sua
madre a preparare dolci di frutta e poi andava insieme a suo padre a caccia
nella foresta. E la brezza serale che rinfrescava i loro corpi sudati era così
piacevole che trascorrevano ore di fuori a leggere e a parlare.
Eppure, tutto era così
lontano. Come se appartenesse ad un’altra vita. Ora, mentre camminava, aveva
davanti soltanto una schiena: quella di una sconosciuta di cui si era fidato,
tanto abbastanza da seguirla nel suo folle viaggio verso la verità.
Bion si volse a
guardarlo. Era quasi come se avesse percepito i suoi pensieri. “Tutto bene?”
Rigel aveva la vista un
po’ appannata a causa del caldo soffocante e del sudore che gli colava dalla
fronte. Se l’asciugò con la mano. “Quanto manca all’arrivo?”
Bion si umettò le
labbra. “Dovremmo esserci quasi”.
E infatti non si era
sbagliata.
Keel era una delle città
più grandi di Hestla. Aveva uno stile unico e molto pittoresco. Una moltitudine
di colori si davano il cambio lungo le strade. Tutto era impreziosito da
dettagli di ogni genere e ricordava molto lo stile barocco e medio orientale
del vecchio mondo.
Rigel non era mai stato
a Keel e di certo non aveva mai visto niente del genere altrove. Una volta
varcata la soglia della città, era come entrare in tutt’altro mondo. Sebbene la
via principale ricordasse molto quella affollata del villaggio, era una decina
di volte più grande e maestosa, sulla quale erano affacciati innumerevoli
edifici dai colori più sgargianti e diversi, impreziositi da gemme sulle porte
e sulle finestre.
“Stammi vicino” gli
sussurrò Bion.
Quella città era piena
di gente e Rigel si chiese se fosse sempre così o soltanto perché c’era il
mercato. Ma in fondo, una delle maggiori città di Hestla non poteva certo
essere altrimenti.
Rigel rimase attaccato a
Bion, mentre si muovevano nel flusso di gente.
Il mercato cittadino era
dieci volte più rumoroso e agitato di quello del villaggio. La gente si
riversava sulle strade, gridava, cercando di accaparrarsi l’offerta migliore. Era
terribile trovarsi là in mezzo, era necessario avere mille occhi per evitare di
essere derubati, circondati da così tante persone. Dopo aver camminato a lungo
per la via, finalmente Bion svoltò l’angolo, imboccando una stradina stretta e,
in confronto al viale principale, piuttosto disabitata.
Rigel notò un’anziana
signora spiare da dietro la tenda di una finestra, qualche bambino correva
dietro ad un vecchio pallone sgonfio e un paio di uomini dall’aspetto rozzo e
povero erano affaccendati a sistemare una parte di muro di una casa in rovina.
Rigel continuò a seguire
Bion, finchè non si fermarono davanti ad una piccola porta di legno. Era grande
la metà delle porte delle altre case e a Rigel non ispirava per niente.
Bion diede due colpi di
nocche sulla porta. Dopo qualche secondo, si sentì una voce provenire
dall’interno: “Chi va là?”
Lei avvicinò il volto
alla porta. “Sono Bion”.
Silenzio dall’altra
parte. Poi ci fu un forte rumore di catenacci e la porta si socchiuse con un
pesante cigolio.
Un paio d’occhi dietro a
spesse lenti li scrutò. La porta si richiuse di nuovo e ci fu un altro rumore
di catenaccio sciolto. Finalmente l’uomo all’interno si rivelò completamente.
Non era un uomo, ma un ragazzo, probabilmente della stessa età di Bion. Aveva
ispidi e ritti capelli neri, untuosi, e vispi occhi verdi che luccicavano
dietro ad una spessa montatura. Il naso a scivolo non aiutava a sostenerla, e
così si ritrovava spesso a spingerla su con il dito. Il suo volto giovane si
illuminò di un sorriso quando vide Bion, le squadrò dall’alto al basso e
allargò le braccia stringendola e scuotendola a destra e a sinistra.
“È un piacere vederti!”
esclamò con voce acuta.
Bion si sciolse tra le
sue braccia. “Anche per me lo è, Gruis”.
Gruis si accorse
soltanto allora della presenza di Rigel. Si ritrasse dall’abbraccio e lo
scrutò.
“Lui è un amico”, si
affrettò a dire la ragazza.
Gruis non sorrise e non
mostrò nessuna gioia nel salutare Rigel. Alzò un sopracciglio e si fece da
parte. Li invitò ad entrare, intimandogli che era meglio non parlare fuori, con
tutti i ficcanaso che c’erano in giro. Cliccò un’interruttore alla parete, una
luce al neon si accese sulle loro teste.
Gruis tornò a fissarsi
su Bion. “Che cosa ti porta da queste parti?”
Lei indugiò un’istante
su quelle parole. “Ho bisogno del tuo aiuto”.
Gruis rimase a guardarla
a lungo prima di rispondere. Si umettò le labbra. “Lo sai che mi fa sempre
piacere, ma non penso che questo sia il momento migliore… vedi…” si avvicinò
ulteriormente a Bion e abbassò la voce, “non sono solo…”
Bion lo guardò di
sottecchi. Prima che potesse chiedere chi ci fosse con lui, quella persona apparve
da un’altra stanza, avanzando ciondolante nella loro direzione.
Era un ragazzo robusto e
molto alto, i capelli color miele corti e scompigliati sulla testa, e una pelle
scura che tuttavia si sposava bene con i suoi lineamenti mascolini e gli occhi
azzurro sfavillante.
“Arael” sussurrò Bion.
Il ragazzo, Arael, si
illuminò in un affascinante sorriso. Si arrestò ad un passo da Bion, e senza
levarle gli occhi di dosso le accarezzò una guancia. “Ogni volta sei sempre più
bella”.
E tu sei sempre più
presuntuoso
avrebbe voluto dirgli lei, ma cercò di trattenersi. Arael distolse lo sguardo
da Bion per posarlo su Rigel.
“Lui è un amico, siamo
in viaggio insieme” disse Bion, sbrigativa.
Rigel allungò una mano
verso Arael, che gliela strinse con una presa salda e forte.
“Piacere di conoscerti…”
“Rigel”, concluse lui.
“Rigel”, ripetè Arael in
un sussurro.
Gruis aveva seguito la
scena dal suo canto con un espressione terrorizzata. Era come se si aspettasse
che succedesse il peggio da un momento all’altro. Bion gli si affiancò e gli
appoggiò una mano sulla spalla, con un sorriso rassicurante.
“Non hai perso tempo
vedo, dopo che ci hai lasciati”, continuò Arael, tornando a guardarla.
Bion sospirò e gli lanciò
un’occhiataccia.
Rigel avrebbe tanto
voluto avere un libretto illustrativo della situazione. Quei discorsi a metà
non lo aiutavano a capirci granchè.
“Non vi ho lasciati, ho
soltanto deciso di fare qualcosa nella mia vita”.
“E sentiamo, cos’è che
stai facendo nella tua vita?” il volto di Arael si piegò in un sorrisetto
provocatorio.
“Senti, sono venuta per
parlare con Gruis, quindi se non ti dispiace…” disse Bion, seccata.
“… se non ti dispiace
possiamo continuare questa conversazione un’altra volta, che ne dici?” Arael le
si fece vicino, scrutandola dall’alto della sua statura.
“Sì, come ti pare”.
Arael scoppiò in
un’allegra risata. “Allora me ne vado, visto che non sono più gradito…” alzò le
braccia in un gesto molto teatrale, fece una sorta di giravolta su se stesso e,
sorridendo, si avvicinò alla porta.
Rigel gli lanciò
un’occhiata scettica di sottecchi, ma era attento a non rivolgergli più delle
attenzioni che si meritava. E, a vedere Bion e Gruis, non se ne meritava
affatto. Quando Arael fu uscito dalla porta con un “Ci vediamo!” e un gesto di
saluto con le dita, l’atmosfera della stanza si alleviò e fu come se tutto
tornasse tranquillo dopo una tempesta.
“Arael è fatto così,
lascialo perdere” disse Gruis, mentre li conduceva ad un tavolo nell’angolo
della stanza, carico di computer e macchinari di ultima tecnologia.
Rigel avrebbe voluto
chiedere di più su Arael e anche su Gruis a Bion, ma non era quello il momento.
Sarebbe risultato fuori posto con Gruis lì accanto in procinto di aiutarli.
“Stiamo andando da
Sycor”.
Rigel rimase interdetto
da quelle parole. E così Bion si fidava di quel Gruis a tal punto da rivelargli
la loro missione.
“E di certo non possiamo
arrivarci a piedi. Mi chiedevo se potevi prestarci uno dei tuoi mezzi…”
Gruis non staccò
minimamente gli occhi dal monitor, come se sapere che una sua amica stava
andando incontro alla morte fosse una cosa poco degna di attenzione.
“Aha, sapevo che dal
giorno che ti ho mostrato i miei Hydran te n’eri subito innamorata!”
Bion rise. Rigel non
l’aveva mai vista così allegra. L’amicizia con Gruis doveva ricordarle tempi
felici.
“Te l’ho sempre detto
che sei un genio. E l’Hydran è di gran lungo la tua opera migliore, se vuoi
sapere il mio parere”.
Gruis rise a sua volta.
“Siete fortunati, ragazzi, perché ne ho un paio proprio qui a casa”, continuava
a battere sulla tastiera a raffica. Rigel si chiese cosa stesse combinando con
quel computer.
“Eh già, bunker numero
4” si alzò di scatto dalla sedia girevole e prese a camminare verso un’altra
stanza. Bion e Rigel gli furono dietro. Entrarono in quella che sembrava una
camera da letto, sebbene il letto fosse sommerso da lenzuola e indumenti
appallottolati in confusione. Il pavimento era completamente sommerso da
oggetti di ogni tipo: tutti e tre dovettero stare attenti a non pestare niente,
come fossero su un campo minato. Gruis aprì l’anta di un armadio al cui interno
c’era una specie di calcolatrice appesa. Gruis digitò un codice, così in fretta
che pur volendolo era impossibile individuarne i numeri. E così la parete
dell’armadio si rivelò essere un’altra porta, sotto cui partiva una scala
grigia e stretta che portava ad una cantina sotterranea.
Il nuovo ambiente era
piuttosto vasto e areato, molto più della casa sopra. Le pareti erano grigie e
spoglie, sembrava di stare in una specie di cella frigorifera gigante. Gruis,
Bion e Rigel l’attraversarono diagonalmente fino a raggiungere un’ulteriore
porticina, questa volta di cemento armato. Gruis si parò davanti a un riquadro
elettronico verde e azzurro della grandezza di una tessera del domino. Un laser
verde attraversò il riquadro in senso orizzontale e Rigel capì che si trattava
di uno scanner per il riconoscimento della retina.
Quando la scansione fu
completa, la porta di cemento si socchiuse con un clang secco.
Quello che gli si parò
davanti era semplicemente fantastico. Rigel restò a bocca aperta. Era una
specie di garage, e al centro c’erano due esemplari di quello che avevano
chiamato Hydran.
Era il mezzo di
trasporto più strano che si potesse immaginare. Aveva la struttura di una
macchina, però più corta e arrotondata. Si appoggiava su quattro gambe di
metallo che terminavano in ventose aggrappate al suolo. Davanti c’era una
specie di cabina di pilotaggio, attorniata da quello che pareva un salvagente
di gomma, o almeno ne aveva la forma.
“Vedete quei buchi sul
sostegno davanti?” disse Gruis, indicando proprio il salvagente. “Da lì escono
sette mitragliatrici. Può essere molto utile!” concluso tutto eccitato.
Bion gli sorrise e lo
seguì, quando Gruis schiacciò un pulsante alla base dell’Hydran facendo
scendere una scaletta automatica.
“Sto ancora apportando
delle modifiche al progetto e penso che non lo finirò mai veramente. Voglio
dirvi che fin’ora è pensato per una persona, quindi mi dispiace se starete un
po’ stretti…”
Bion si strinse nelle
spalle, e allungò una mano ad accarezzare il sedile ricoperto di pelle alla
guida. Si volse verso l’amico e gli sorrise, grata. “Non c’è problema, davvero.
È già tanto per me che hai deciso di prestarcelo, e spero di riportartelo al
più presto”.
Gruis le toccò una
spalla dolcemente.
“Rigel, che ne pensi?”
gridò la ragazza, verso una porticina dalla parte opposta del sedile di guida.
Rigel venne fuori da lì,
chinandosi per passarci. Aveva visitato quella che sembrava una stanza da
letto, anche se in dimensioni molto ridotte. C’era soltanto un letto, ma mai
avrebbe pensato che quell’aggeggio potesse fare da hotel e trasporto tutto
assieme.
“Lo trovo geniale”
esordì guardandosi attorno.
Sebbene Gruis non lo
avesse mai degnato veramente di uno sguardo per tutto il tempo, si rallegrò di
quella affermazione, rivolgendogli un gran sorriso e saltellando sul posto.
“Allora, quanto vuoi?”
chiese Bion, la borsa già aperta sotto alle dita.
L’espressione di Gruis
si smorzò mentre tornava a guardarla. “Stai scherzando, vero? Non chiederei mai
del denaro ad un’amica. Non lo chiederei nemmeno ad un nemico, dato che a un
nemico non mi sognerei mai di prestare qualcosa di così tanto valore…” scrollò
il capo e tornò a concentrarsi su Bion, “comunque, non ci pensare proprio.
Tutto quello che ti chiedo è di trattarlo bene e provare a riportarmelo, così
vorrebbe dire che anche tu sei salva”.
Bion sorrise e lo
abbracciò stretto. Gli scoccò un bacio su ogni guancia.
“Okay, okay. Ho capito!”
esclamò Gruis, alzando le mani per allontanarla, il volto rosso. “Ora fatemi
spiegare come funziona. Ci sono una marea di pulsanti, e non vorrei che vi
confondeste…”
“Te l’avevo detto, no?
Che avremmo trovato un mezzo di trasporto efficace” esordì Bion qualche ora
dopo, mentre, con Rigel, era seduta al tavolo di una locanda in città. Bevve un
sorso di rinfrescante succo al lampone dal suo bicchiere e tornò a guardare
Rigel.
Lui aveva un’aria
assente, guardava di tanto in tanto fuori da un ampia vetrina del locale, la
gente che camminava per strada, che andava di fretta, che non si curava di
nessuno.
“Sì, è bello avere degli
amici” buttò lì.
Bion aggrottò le
sopracciglia. “C’è qualcosa che non va?”
Rigel le lanciò
un’occhiata fugace, scosse la testa. Era come al solito ricaduto nei suoi pensieri.
Dove l’avrebbe portato quel viaggio, se era davvero la cosa giusta da fare, e soprattutto
doveva ancora decidere se fidarsi o meno di Bion. Sì, perché in realtà non ne
era ancora sicuro, non sapeva cosa fare con lei.
Guardò ancora una volta
di fuori, la gente che andava diminuendo lungo la strada, il sole che si
attardava dietro gli edifici e aspettava il momento di darsi il cambio con
l’amica notturna. L’atmosfera era così tranquilla e serena che Rigel si sentì
quasi commuovere. I suoi occhi si inumidirono, e si disse stupido un migliaio
di volte, scuotendo il capo. Cosa gli succedeva, era così sensibile da piangere
soltanto a vedere un tramonto? Probabilmente era molto di più. Forse era tutto
quanto messo insieme, la sofferenza e la solitudine di tanti anni, e ora
l’inquietudine di quello che l’attendeva.
Prese un lungo respiro e
alzò gli occhi su Bion, che si era distratta e stava guardando la gente che
affollava il bancone della locanda, che beveva e chiacchierava.
“Arael è proprio un bel
tipo, eh?” disse Rigel, per attirare la sua attenzione e parlare di qualcosa
che non lo riguardasse.
La ragazza lo guardò
sorpresa. “Già” un sorriso gli balzò in volto.
“È un tuo amico
d’infanzia?”
Bion sospirò e inclinò
il capo, giocherellando con un lembo di tovagliolo. “Sì, e anche Gruis”.
“Sono umani?”
“Oh, no. Sostituti”
c’era una punta di amarezza nella sua voce.
Rigel prese un sorso di
birra dal suo bicchiere.
“Sono nata qui, a Keel.
Quand’ero piccola, noi tre giocavamo sempre a nascondino per tutta la città,
forse è da lì che è sorta la mia vena esploratrice. Andavamo sempre alla
ricerca di avventure, e mentre le altre bambine pettinavano le bambole, io mi
sporcavo la faccia di fango e costruivo armi finte con i rami. Ti dirò che non
ho mai voluto fare giochi da femmina, ero contenta così, mi divertivo come non
mai quand’eravamo insieme, noi tre. Ma poi siamo diventati grandi e le cose
sono cambiate. Arael ha preso una strada che a me e a Gruis non piaceva. Aveva
ammesso altre persone nel nostro gruppo, senza nemmeno chiederci che cosa ne
pensavamo. Un paio di ragazzi e ragazze di strada, ladruncoli senza un soldo e
senza famiglia. Ma lui diceva che erano suoi amici…” fece una pausa, ingerendo
un po’ di succo di lampone.
“Gruis e io non avevamo
niente contro di loro, in realtà, è solo che ci piaceva la nostra amicizia
com’era prima, e vedere che Arael aveva espanso i suoi orizzonti un po’ ci
rodeva. Succede così quando sei nel gruppo. Gruis era completamente l’opposto
di Arael, e lo è tutt’ora. Sono come il giorno e la notte. Non stava affatto
bene insieme agli altri, e ben presto decise di non venire più quando lo
invitavamo, lo andavamo a cercare a casa sua, ma sua madre ci diceva che non c’era…”
“E tu?” chiese Rigel,
che si era appoggiato sul tavolo, ascoltandola con interesse.
Bion sorrise, un sorriso
triste e malinconico. “Passavo molto tempo con Arael e i suoi amici.
Soprattutto era lui che mi veniva a cercare, voleva che entrassi a far parte
del suo nuovo gruppo, anche se io preferivo andare da Gruis, o starmene da
sola, o solo con Arael. Anche se non me n’ero resa conto da piccola, iniziavo a
capire che lui mi aveva sempre affascinata con il suo modo di fare. Era forte e
tutti lo ammiravano anche se non faceva niente di eroico, soltanto per come si
comportava. Forse volevo essere come lui, ad ogni modo iniziammo ad avvicinarci
e, bè…”
Rigel notò le sue guance
prendere un lieve colorito rossastro.
“Ma per fortuna mi resi
conto che non era quello che volevo, passare la mia vita con quel tipo di
persone… nel frattempo avevo riagganciato i rapporti con Gruis e gli raccontavo
tutto quello che succedeva con Arael… insomma avevo i piedi in due staffe. Alla
fine me ne sono andata alla ricerca delle mie avventure, lontano da questo
posto”.
“E quindi è dagli amici
di Arael che hai saputo dell’erba Placidus…” fare due più due, a quel punto, a
Rigel venne naturale.
Bion alzò gli occhi su
di lui, stupita. “Sì. Loro la usavano spesso e anche altri tipi di erbe… tutto
frutto dei loro furti a commercianti e botteghe”.
“E così c’è la tua
famiglia che vive qui...”
Bion si oscurò. “Non
più… sono tutti morti”.
“È terribile, mi
dispiace”.
Bion annuì. “É rimasta
solo mia sorella, e non avrò pace finchè non la troverò. Sycor la pagherà per
tutto quello che ha fatto”.
Rigel sospirò. Avrebbe
voluto avere le idee più chiare su ogni cosa. Era ancora tutto terribilmente
sfocato nella sua testa. Non aveva mai chiesto molto, per paura di risultare
invasivo o fuori posto, ma in fondo, quella serata gli sembrava giusta per le
rivelazioni. O almeno per un po’ di sana conversazione. E poi, lui aveva tante,
troppe domande. Provò a iniziare con la prima che gli saltò alla mente, quella
in testa alla lunga fila. “E così Arael e Gruis sono Sostituti, ma sono nati esseri
umani, giusto? Quando sono stati trasformati?”
Bion soffocò una risata.
Alzò gli occhi su di lui. Aggrottò le sopracciglia. “Davvero?”
Lui non capì.
Bion sembrò riprendere
la sua espressione di sempre, si inclinò sul tavolo. “Davvero non sai niente?”.
Rigel rimase
impassibile.
“Pensaci un attimo,
Rigel” e allungò lo sguardo fuori dalla vetrina, sagome di persone che
camminavano con il sole rosso alle spalle. “Pensaci, come sarebbe possibile che
ogni singola persona che vedi là fuori sia stata uccisa e poi trasformata? È
una cosa impensabile, non ti pare? Impossibile persino per Sycor e per le sue
innumerevoli risorse”, tornò a fissarsi su Rigel, “la prima generazione di
Sostituti, quelli che furono trasformati da cadaveri di esseri umani, si sono
poi sposati e hanno avuto figli…”
Rigel sgranò gli occhi.
“E quei figli ne hanno
avuti a loro volta…”
“Vuoi dire che i
Sostituti possono procreare?” Rigel aggrottò le sopracciglia e si sorprese
delle sue stesse parole.
Bion annuì. “Ma non ho
mai sentito di Sostituti arrivati all’anzianità. Insomma penso che abbiano una
vita in media molto più breve degli umani. Cosa pensi che stia facendo Sycor
rinchiuso nella sua base? Pensa ad ogni modo che gli permetta di migliorare
l’attuale condizione delle sue creature. Vuole rendere il prototipo di Sostituto
il più perfetto possibile, vuole arrivare a creare un Dio in terra. Vuole
un’essere immortale, immune da malattie, sentimenti, debolezze. È una cosa
spaventosa, Rigel. E nessuno si rivolta perché non c’è rimasto nessuno che lo
possa fare! Se c’è ancora qualche umano su Hestla, è come un ago in un paiaio. Siamo
tra i pochi esseri umani sopravvissuti, ti sembra un bene o una maledizione?”
Lo sguardo terrorizzato
di Bion gli fece venire la pelle d’oca. Rigel non ci aveva mai pensato in quel
modo. Sì, aveva sempre creduto di essere l’unico umano rimasto, ma che
differenza faceva? A lui bastava starsene nella sua casa, in mezzo alla
foresta, al sicuro. E se invece fosse uscito allo scoperto? E se lo avessero
riconosciuto, imprigionato e trasformato in Sostituto? E forse no, magari
l’avrebbero studiato, gli avrebbero tolto gli organi per studiarli, per
ricavarne un virus o un antidoto. E poi l’avrebbero lasciato vagare come uno
zombie tra la vita e la morte e lui li avrebbe pregati di trasformarlo,
soltanto per poter vivere come tutti gli altri. E si sarebbe uniformato a loro,
non avrebbe più pensato come un essere umano, non avrebbe più provato alcun
dolore, alcuna preoccupazione.
Non sarebbe più
esistito.
Sbattè le palpebre, come
se si fosse appena risvegliato da un terribile sogno. Ma erano soltanto i suoi
pensieri, da cui avrebbe volentieri voluto fuggire.
Sentiva gli occhi
bruciargli, lacrimargli. Bion non era più seduta davanti a lui, si volse di
scatto e incrociò il suo sguardo preoccupato, mentre lo raggiungeva con due boccali
colmi fino all’orlo.
“Sembravi addormentato,
ti senti bene?” gli domandò, sedendosi e allungandogli il boccale di birra.
Rigel annuì appena.
“Comunque domani
partiamo con l’Hydran, quindi è meglio che stasera ci riposiamo. Ho chiesto
all’oste la chiave della nostra stanza” allungò sul tavolo una chiave
arrugginita e piuttosto grande, infiocchettata in un nastro di spago grezzo e
ispido.
Qualche minuto dopo
arrivarono le loro ordinazioni: zuppa di legumi con pane secco e formaggio. Non
avevano tanti soldi e avevano fatto i conti per tenerne da parte un po’ per il
viaggio, nel caso ne avrebbero avuto bisogno. Inoltre, non volevano toccare le
riserve di cibo comperate al villaggio nella foresta, quelle sarebbero servite
nei giorni a venire.
La cosa bella di cenare
in quella locanda era che da bere si pagava solo una volta, poi su richiesta,
ci si poteva riempire il boccale a non finire. Rigel si disse che era
probabilmente quello il perché fosse così affollata. La raccomandazione di Bion
di andare a letto presto andò al vento, quella sera. Alle dieci erano ancora
seduti al tavolo, brilli e sazi. Il chiacchiericcio intenso attorno a loro era
come una dolce ninnananna che li faceva sentire al caldo, a loro agio e, in un
certo senso, al sicuro.
Poi, una band cittadina
si fece spazio su un palchetto allestito alla bell’e meglio al lato del locale.
Attaccarono con un canzone molto allegra, per dare il loro benvenuto agli
ospiti.
L’attenzione di Rigel fu
colta da un paio di cameriere che, prese dalla musica, iniziarono a
trotterellare e saltellare fino alla pista da ballo – ricavata allontanando
qualche tavolo da sotto il palco – seguite da fischi di ammirazione e grida
degli uomini brilli al bancone.
Rigel si voltò a
guardare Bion, che aveva un’espressione divertita. Gli lanciò un’occhiata
vispa. Rigel aggrottò le sopracciglia. Colse le sue intenzioni all’istante, ma
non gli pareva una buona idea.
“Avanti, andiamo!”
sbraitò Bion, allungando una mano sul tavolo a prendere quella del ragazzo.
Rigel non aveva mai
ballato, eppure, sarà stata l’ebbrezza o il tumulto generale, non si tirò
indietro, e si lasciò trasportare da Bion fino alla pista.
Alla fine, poté dire di
non essersi mai divertito tanto in vita sua. Avevano imparato su due piedi i
vari balli – ognuno composto da passi, giravolte, cambio partner – seguendo
quello che facevano gli altri. Era stato tutto così bello e spensierato che parve
durare pochissimo. Quando le persone in pista iniziarono ad esibire una certa
stanchezza, che si rifletteva anche nella sudata collettiva che riguardava la
band, ogni cosa prese a scemare, la musica si affievolì, i tavoli si
svuotarono, le cameriere finivano il loro turno.
Rigel e Bion erano
sfiniti quando decisero di andarsene a dormire. Erano le tre di notte.
Entrarono nella loro stanza senza dire una parola, soltanto si buttarono sul
letto e caddero in un profondo sonno ristoratore.
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Capitolo 6 *** Hana and Galen ***
5
Hana e Galen
Era lungo disteso su un
lettino, polsi e caviglie stretti in una morsa di ferro. Sentiva la testa
andargli a fuoco, un caldo insopportabile attraversare il suo corpo, immobilizzarlo
e confonderlo. All’improvviso, una luce fortissima, bianca e rovente si
abbassava su di lui, sempre di più, sempre di più. Socchiuse gli occhi in una
smorfia di dolore. Urlò, ma nulla gli uscì dalle labbra. Un paio di uomini in
camice e mascherina gli si avvicinavano e lo guardavano dall’alto, confabulando
a bassa voce tra di loro, armeggiando con strumenti che non riusciva a
identificare. Gridò di nuovo, questa volta per davvero.
Aprì gli occhi. Aveva il
respiro affannato, la maglietta zuppa di sudore. Si appoggiò una mano sul
torace, cercò di ritrovare il respiro regolare, di calmarsi.
Ancora quel sogno.
Quell’incubo orribile che lo accompagnava da tanto tempo, da quasi tutta la
vita. Eppure, ancora non si era abituato. Non si era abituato a essere
trasformato, seppure nella sua testa, in un Sostituto.
Galen tirò via le
lenzuola dal letto, appoggiò i piedi nudi sul pavimento freddo e fu come se si
fosse immerso in un blocco di ghiaccio.
Andò al lavabo, nel
bagno adiacente alla sua stanza. Si buttò acqua gelida sul volto, e fu come una
benedizione. Si bagnò i capelli neri, schiacciandoli all’indietro. Assaporò
quel momento di frescura nella notte afosa. Nonostante la camera fosse fornita
di un sistema di raffreddamento che faceva sì che il pavimento e i muri
restassero freddi, l’afa estiva si faceva largo dalle imposte semi aperte come
un serpente velenoso. E i suoi sogni agitati di certo non miglioravano la
situazione.
Scrollò il capo, e restò
con i palmi delle mani appoggiato al lavandino, i muscoli delle braccia ancora
scossi da fremiti improvvisi.
Poi, qualcuno bussò alla
porta.
Toc, toc, toc.
Un tocco leggero ma
insistente. Galen si avvicinò alla porta. “Chi è?” chiese a gran voce.
Ma sapeva già la
risposta.
“Sono Hana. L’ho sentita
gridare. Non voglio disturbarla, ma è mio compito assicurarmi che sia tutto a
posto, altrimenti sa che cosa mi succederà…”
Galen sorrise e aprì la
porta. La figura esile e allungata di Hana si stagliava sulla soglia, nella
penombra. Aveva i capelli color caramello, lunghi, sciolti e un po’ in
disordine. La vestaglia semplice e troppo grande, che teneva legata da una
semplice corda di spago in vita, le ricadeva fin sotto i piedi. Unì le mani in
grembo e abbassò lo sguardo.
“Quante volte devo
ripeterti di darmi del tu?” disse Galen, con un mezzo sorriso.
Hana alzò lo sguardo su
di lui, ma lo riabbassò immediatamente. Si comportava come una servile
cameriera, quasi come una serva, una sottomessa. “È tutto a posto? T-ti ho
sentito urlare…” ripeté lei, combattuta e spaventata nel parlargli con quella
confidenza.
Galen sorrise di nuovo,
questa volta con più convinzione. “Solo un brutto sogno. Torna a letto, mi
dispiace di averti svegliato”.
Hana lo osservò incerta,
nella penombra: aveva la maglia sudata, i muscoli frementi e il viso pallido.
Ci fu un lungo silenzio, interrotto soltanto dal respiro di Galen che stava
tornando regolare.
“Allora, me ne vado. Ma
se posso aiutarti, in qualche modo…”
Un raggio di luna
illuminò gli occhi azzurri di Hana, che brillavano come di pianto, alzati su di
lui.
Galen lo notò solo
allora. Le restituì lo sguardo, incerto. “Non sono stato io a svegliarti,
vero?”
Hana sembrò molto
imbarazzata. Abbassò il capo e lo puntò al pavimento. “Non riuscivo a dormire…”
Galen sapeva che Hana
aveva problemi ad addormentarsi. Non le aveva mai chiesto se faceva sogni
strani, ma immaginava fosse semplicemente il fatto di essere lontana dalla sua
famiglia, in trappola e cosciente del fatto che quella era la sua ultima corsa.
Quando avesse raggiunto il ventesimo anno d’età, Sycor l’avrebbe trasformata in
un Sostituto.
Galen sapeva in quante,
prima di lei, avevano subito quel triste destino. Quando Sycor trovava esseri
umani, e in particolare femmine, non ancora in età giusta per essere
trasformate, le teneva a casa, a fare da quelle che lui chiamava “Aiutanti”, ma
che Galen riconosceva più come serve. Il loro compito era occuparsi di sua
moglie, Chara e di lui, Galen, suo figlio. E poi, quando avrebbe avuto bisogno
di loro, semplicemente sarebbe venuto a prendersele.
Galen odiava i sogni che
lo accompagnavano ogni notte, ma non poteva nemmeno immaginare quello che Hana
e tutte le altre bambine dovevano passare. E Hana aveva soltanto dodici anni.
Aveva un occhio di riguardo per lui, che nessun’altra aveva mai mostrato. E lui
le era affezionato, un po’ come a una sorella.
“Mi dispiace, Hana. Io…”
avrebbe voluto dirle tante cose. Per esempio che era dalla sua parte, che
nonostante Sycor fosse suo padre, lui lo odiava, e desiderava solo andarsene da
lì. Voleva dirle che avrebbe fatto di tutto per salvarla, e con lei tutti gli
altri umani imprigionati.
Allungò una mano verso
la sua spalla, il volto di Hana ora rivolto verso il suo, gli occhi di Hana che
lo fissavano con disperazione e fin troppa intensità.
Galen non ci riuscì. Era
come dirle, prometterle, che sarebbe stata libera, quando nemmeno lui stesso
sapeva se lo sarebbe mai stato. E se fosse possibile.
Ma Hana era ancora lì,
gli occhi persi in quelli di Galen. Era come se si aspettasse qualcosa di più
di semplici parole. Un gesto, un segno.
Galen riabbassò la mano,
rimasta sospesa a mezz’aria. Le rivolse un sorriso stanco. “Prova ad
addormentarti. Ci vediamo domani”.
Non aveva più il
coraggio di guardarla. Era come negare a una sorella la libertà. Chiuse la
porta della stanza in faccia ad Hana, ma lo fece con profonda tristezza e
risentimento. La verità era che si sentiva terribilmente impotente. Era
soltanto una pedina, destinata a piccoli inutili passi all’interno di una
scacchiera molto più grande, molto più impenetrabile.
Ardeva dalla voglia di
fare qualcosa, nella sua testa c’era un desiderio di vendetta così forte…
eppure era ogni giorno costretto a sottostare a suo padre, a quel dannato
pazzo.
Si sentiva intrappolato
in una vita che non aveva chiesto, in una dannazione eterna, soltanto per
essere nato figlio della persona peggiore al mondo…
Che cosa avrebbe potuto
fare? Che speranze aveva di fuggire da quella vita? Forse era arrivato il
momento di escogitare un piano, di avere qualcosa in cui credere che gli desse
forza e speranza. Ma non aveva appigli, armi, niente che lo potesse avvantaggiare
in un’ipotetica fuga.
La sua mente viaggiava.
Senza rendersi conto di quello che faceva, così preso dai suoi pensieri, si
diresse al letto e ci si buttò sopra. Poco dopo, si riaddormentò.
Le imposte semi
dischiuse facevano filtrare un tiepido raggio di sole mattutino. Hana aprì gli
occhi cisposi per la dormita e per il pianto e se li stropicciò con la mano. Era
abituata a svegliarsi alle prime ore della mattinata, come la routine di
Aiutante comandava.
Nonostante fossero in
piena estate, a quell’ora i raggi solari non erano ancora bollenti e una
leggera brezza tirava. Quella frescura lo aiutava a rilassarsi e risvegliarsi.
Era il suo piccolo momento di paradiso. Si vestì in fretta, con la divisa da
Aiutante che le avevano consegnato al suo arrivo. Consisteva in una veste rosa
chiaro, sbiadito. Erano costrette a vestirsi con quel colore, apparentemente
allegro e adatto a giovani ragazze, in una sorta di maligna perversione. In
realtà erano state rapite, strappate alle loro famiglie, portate in un luogo
sudicio e spogliate di tutti i loro averi. Poi era stato dato loro un foglio
con tutte le regole e gli orari da rispettare categoricamente senza possibilità
di sgarro. Ogni ragazza era assegnata ad una famiglia, o certe volte più
ragazze ad una famiglia. Hana sapeva che un paio di sue amiche servivano
collaboratori di Sycor, ma non le aveva mai più riviste, né sapeva se fossero
ancora vive o meno.
I primi giorni aveva
vissuto nella paura più nera, non sapeva cosa aspettarsi e temeva che da un
momento all’altro, quegli uomini orribili l’avrebbero uccisa. Ma poi l’avevano
scortata nella dimora di Sycor e, sebbene non l’avesse mai visto, da come
parlavano di lui aveva intuito non essere una persona raccomandabile.
Poi c’erano stati Chara
e Galen, e il suo cuore si era alleviato un po’. Dopo la paura di tanti giorni,
imprigionata e allontanata da sua sorella Bion, Hana si era sentita per la
prima volta più alleggerita quando l’avevano informata che sarebbe stata l’Aiutante
ufficiale della famiglia di Sycor.
Ricordava ancora quelle
voci, che ne parlavano come se fosse la cosa migliore che potesse accadere.
“È un vero onore, per
una mocciosa come te” le aveva sussurrato un uomo all’orecchio.
Lei non pensava fosse un
onore, non la vedeva come una cosa bella. Voleva soltanto riabbracciare Bion…
Ma era stata
effettivamente fortunata. Ben presto si rese conto che quelle persone non erano
cattive. Soprattutto Galen, il figlio di Sycor. Le aveva sorriso fin dal primo
momento, come a darle un benvenuto piacevole. E poi, lui l’aiutava sempre, la
trattava bene, con tanta gentilezza e umanità…
Hana si strinse il
cordoncino attorno alla vita, ma non troppo. Era dimagrita molto da quando si
trovava lì. Non perché mancasse cibo, ma perché molte volte la nausea le
impediva di mangiare.
Si raccolse i lunghi
capelli biondi in una coda. In quella stanza modesta non c’erano specchi, ma
non le importava. Anche se qualche volta avrebbe voluto sistemarsi, prima che
Galen la vedesse…
Sorrise. Era strano come
dopo tutto quello che era successo, avesse ancora voglia di pensare a quelle
frivolezze. Ma era lui che la faceva sentire così.
Uscì in salotto e diede
un’occhiata veloce alle lancette dell’orologio a muro. Erano quasi le sette.
Raggiunse la cucina e si mise immediatamente al lavoro.
C’era da pulire e andare
a fare la spesa. Chara aveva lasciato una lista di qualche ingrediente che
sarebbe servito per preparare il pranzo quel giorno. Hana si affrettò verso
l’uscita, una sacca in mano e qualche moneta nell’altra.
La dimora di Sycor si
ergeva su una collinetta, ed era piuttosto isolata dal resto del paesaggio.
Hana non vedeva mai nessuno lì attorno. Un venticello piacevole l’accolse sulla
scalinata. Il mercato di Nallav non era molto distante, e lei già conosceva una
scorciatoia tra le viuzze che le avrebbe fatto risparmiare tempo e occhiate
indiscrete.
Perché la gente era
parecchio curiosa di sapere cosa facevano quelle fanciulle nelle case
signorili. Volevano estorcere informazioni sugli studi di Sycor, forse, o
semplicemente sapere che fine avrebbero fatto e se ne erano spaventate.
L’unica cosa che
contava, per Hana, era svignarsela al più presto e tornare al sicuro della sua
stanza anche quella sera.
Arrivata al mercato, si
mosse come un gatto in mezzo alle persone, veloce e silenziosa quanto la sua
piccola statura e la sua forma esile lo permettevano. Aveva preso tutto quel
che le serviva nel giro di un quarto d’ora. Non aveva tempo per cincischiarsi
nella miriade di cianfrusaglie interessanti che avrebbero attirato qualunque ragazzina
come lei. Le sarebbe piaciuto trascorrere ore a scorrere lo sguardo su
orecchini, perline, pettini, pupazzi e gioielli di ogni genere. Ma non era
quello il suo compito.
Varcò la porta di casa con
la sacca piena in spalla, piegata sotto il suo peso. Quando si fu richiusa la
porta alle spalle, una voce gelida l’accolse.
“Hai fatto tardi”.
Hana trasalì e la sacca
le scivolò a terra. Si volse e incontrò lo sguardo freddo di Chara, la moglie
di Sycor, al tavolo, che sorseggiava un tè. Era una donna invecchiata prima del
tempo, il viso segnato, gli occhi opachi. Portava i capelli biondo spento
acconciati in una crocchia sulla testa, che le dava un’aria ancor più altezzosa
e distaccata.
Hana, sudata e ansante
per il peso della sacca, cercò di ricomporsi e lanciò un’occhiata all’orologio
che indicava le sette e venti minuti.
Avrebbe voluto
ribattere, dire che era in perfetto orario, ma rimase in silenzio. Annuì.
“Mi dispiace”.
“Galen si è svegliato
poco fa e voleva farsi un bagno. Avresti dovuto preparargli la vasca”, Chara
continuò a sorseggiare il suo tè, senza degnare Hana di uno sguardo.
Hana avanzò verso la
cucina, con la sacca stretta in mano. “Non… sapevo… metto a posto queste cose e
vado immediatamente…”
“No. Vai immediatamente”
la interruppe Chara, accigliata.
Hana non se lo fece
ripetere due volte. Sapeva che Chara non era in fondo una donna cattiva. Era
solo che si faceva trasportare dai suoi pensieri sempre negativi e rifletteva
questo suo stato d’animo in tutto quello che diceva e faceva. Hana era convinta
che non ce l’avesse con lei, in fondo, lei non le aveva fatto niente di male.
Più che altro, la donna era amareggiata con sé stessa, ma scagliava il suo
malumore su chiunque altro.
Hana si precipitò verso
il bagno, aprì la maniglia senza bussare, convinta che Galen fosse ancora in
camera sua, in trepidante attesa di un bagno caldo. Si lasciò sfuggire un
gemito di sorpresa, quando lo trovò immerso nella vasca, i capelli bagnati, il
torso nudo e gocciolante.
Galen le lanciò
un’occhiata.
“Scusa, mi dispiace…” le
parole le uscivano a fiotti dalle labbra, non si era mai sentita tanto in
imbarazzo. Voleva solo sparire. Uscì dalla stanza in fretta.
“Aspetta, Hana”
Ma lei era già andata.
Avrebbe tanto voluto rifugiarsi nella sua stanza e rimanerci per tutto il
giorno, ma non poteva. Non era più a casa sua, non le era concesso fare i
capricci.
Si diresse alla sacca
con la spesa, ancora abbandonata sull’ingresso, e si diresse in cucina, decisa
a non incontrare lo sguardo di Chara.
Si chiuse la porta alle
spalle. Sentì Galen in salotto chiamare il suo nome. Poi si rivolse a sua
madre.
“Che cosa le hai detto?
Si può sapere perché ti comporti così con lei? Ti ho detto che andavo a farmi
un bagno, non sono un bambino, sono in grado anche da solo, non ti pare?”
E la voce di Chara gli
rispose, bassa e controllata. “Lei è qui per servirci, Galen. È il suo lavoro.
Deve assicurarci il meglio, sempre. Sia che si tratti di cucinare, come di
prepararci la vasca”.
“Certe volte sei proprio
uguale a tuo marito, lo sai?”
La tazza da tè sbatté
sul tavolo. “Non ti permetto di parlarmi così…”
Era troppo. Hana non
poteva tollerare che litigassero, di nuovo, per colpa sua. Aprì la porta della
cucina troppo violentemente. Entrambi sussultarono e lei desiderò non averlo
mai fatto.
Galen alzò gli occhi su
di lei, sorpreso.
Chara non si scompose
più del dovuto. Voltò il capo, dandole il profilo.
“Per favore, Galen... è
stata colpa mia. Sarei dovuta arrivare a casa dieci minuti prima, io… mi sono
fermata a guardare degli orecchini e…”
Galen la fissava
atterrito. Stava per ribattere ma Hana gli fece segno di lasciar stare. Glielo
chiese con uno sguardo disperato. Voleva solo che tutto finisse.
Galen chiuse le labbra e
continuò a guardarla. Spostò lo sguardo su sua madre, solo quando questa si
alzò e si frappose tra lui e Hana.
“Vatti ad asciugare, o
ti ammalerai” allungò una mano sulla nuca di Galen. Lui fece uno scatto
all’indietro, ma lei gli afferrò dolcemente i capelli e gli diede un bacio
lieve sulla fronte.
Stancamente, si voltò.
“Aiutalo a vestirsi, Hana. Dopo prepara la colazione”.
Hana annuì, cogliendo
l’immensa tristezza nello sguardo della donna. Chara se ne andò dalla stanza, e
fu accompagnata da un silenzio totale.
Quando non fu più
visibile, Galen scrollò appena il capo. “Vai pure, Hana. Posso arrangiarmi”.
“No, la prego. So che
preferirebbe non avermi tra i piedi, ma devo fare quello che sua madre
desidera. Non voglio darle problemi”.
Galen sospirò. “E va
bene, ma ti prego, dammi del tu, mi fai sentire tremendamente vecchio”.
Hana sorrise. Lo seguì
fino in bagno e una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle. Senza
guardarlo, prese un asciugamano pulito da una sedia, lo dispiegò e gli si
avvicinò.
Galen era seduto sul
bordo della vasca. Restò immobile, obbligandola a lanciargli un’occhiata.
“Mi sembra di sognare,
non lo vorrai fare per davvero?” la fissava sbalordito.
Ma Hana sostenne il suo
sguardo e non si mosse di un centimetro.
“È chiaro che lo vuoi
fare” Galen si rassegnò e alzò le braccia davanti a sé, permettendole di
asciugargli il torace. “Incredibile. Mi sembra di essere una marionetta.
Possibile che non si renda conto che sono in grado di arrangiarmi? Che voglio
arrangiarmi. Mi tratta da impedito”.
“Non credo sia questo,
signore”.
Lui la fulminò con lo
sguardo.
“Galen” si affrettò a
rimediare lei, con un sorriso. “Non penso che tua madre sia una cattiva
persona. Penso che tenga quel comportamento perché non vuole causare problemi,
non vuole che suo marito sia preoccupato…”
“Preoccupato? Mio padre preoccupato
per noi?” Galen sbuffò. “Si vede che non lo conosci”.
Un’increspatura si formò
tra le sopracciglia di Hana. Lei aveva sempre amato suo padre, e anche sua
madre. Dopo la loro morte aveva passato molti giorni senza mangiare niente, con
un vuoto enorme che la bloccava dentro. Per fortuna c’era sempre stata Bion con
lei, tuttavia era impossibile dimenticare, impossibile colmare quel vuoto anche
a distanza d’anni. Ogni volta che ci pensava, una piccola crepa si apriva
nuovamente dentro di lei, facendo riaffiorare tutto il dolore provato.
Eppure, Galen parlava di
suo padre con uno sguardo arrabbiato, deluso, amareggiato. Avrebbe tanto voluto
sapere per quale motivo tra di loro c’era quel sentimento. E avrebbe voluto
sapere anche come mai suo padre aveva una reputazione così poco stimabile.
Ma lei non aveva mai
chiesto niente. Non sapeva per quale motivo l’avessero rapita e messa a
lavorare in quella casa, non sapeva nulla. E ogni giorno si chiedeva quale
fosse stato il suo destino.
“No, io invece credo che
mia madre stia peggiorando ogni giorno di più. Questo posto l’ha intossicata, e
presto la ucciderà se non faccio qualcosa…”
La voce di Galen che
continuava a riflettere ad alta voce la riportò in quel bagno.
“… spesso litighiamo, ma
so che mi vuole bene e anch’io gliene voglio. Avrei voluto una vita più felice
per lei, tutto qui”.
Hana abbassò lo sguardo.
Era passata ad asciugargli la schiena, e poteva solo cogliere il profilo del
suo volto mentre scuoteva il capo. Appoggiò le dita tremanti sulla pelle
morbida, sfiorò il contorno della scapola, così finemente delineata. Scese più
giù lungo la linea delle costole, dove la pelle era tesa e fresca.
Sussultò, quando Galen
si volse e la guardò. “Hai finito, allora” disse allegramente. Si alzò e si
diresse a un comodino vicino al lavabo, dove erano appoggiati una pila di panni
puliti. Hana rimase immobile con l’asciugamano tra le dita, mentre lui si
rivestiva.
“Vedrai che starai bene,
Hana”.
Fu l’ultima cosa che le
disse, prima di uscire dalla stanza.
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Capitolo 7 *** Addii e Partenze ***
6
Addii e partenze
Bum. Bum. Bum.
Fu tutto quello che percepì al risveglio.
Rigel si destò, aprì gli occhi di malavoglia, maledicendo dentro di sé
qualunque cosa avesse avuto voglia di fare baccano. Si sentì strappato
violentemente dal mondo dei sogni. Si alzò a sedere e scorse Bion, sdraiatagli
accanto.
Per un attimo la fissò, ancora
addormentata, ma poi prese a scrollarla. Mentre i ricordi della notte
precedente riaffioravano nella sua mente, si rese conto che i raggi del sole che filtravano nella stanza
erano forti e scottanti. Doveva essere già mattino inoltrato.
Scrollò Bion più forte, poi si alzò dal
letto. Era ancora vestito, non si era mai spogliato. Era stata una lunga
tirata, dopo la cena, la bevuta e il ballo. Il sonno doveva averli accolti a
braccia più che aperte, la sera prima.
Mentre i mugolii di Bion lo
raggiungevano, si accorse che quel rumore secco che lo aveva svegliato
proveniva dalla porta, o meglio, da qualcuno che ci stava dietro e che
minacciava di buttarla giù a pugni da un momento all’altro.
Rigel ci si diresse e la aprì. Finalmente
Gruis smise di battere le nocche contro il legno duro. Lo fulminò con lo
sguardo.
Si fece spazio ed entrò nella stanza. “Si
può sapere dove eravate finiti? Vi aspettavo a casa mia più di tre ore fa!”
sbraitò.
A quel punto, Bion si mise a sedere sul
letto stropicciandosi gli occhi. “Perché che ore sono?”
“Il sole è alto in cielo già da un po’,
ti basti sapere questo tesoro!”
Bion imprecò e si scaraventò fuori dal
letto. “Ogni volta che non vogliamo perdere tempo, qualcosa va storto”.
“A quest’ora sarà difficile passare
inosservati con l’Hydran. Io vi avevo avvertiti, di partire alle prime luci del mattino…”
Rigel recuperò la bisaccia e se la gettò
a tracolla, insieme al bazooka.
“Evidentemente ci siamo lasciati un po’
andare ieri sera, Gruis” ribatté Bion, agitata.
Gruis inarcò le sopracciglia. Il suo
sguardo passò da Bion a Rigel e ancora a Bion. Doveva aver frainteso, ma
sembrava parecchio interessato a saperne di più.
Bion lo ignorò e, dopo aver raccattato la
sua sacca da viaggio, si catapultò fuori dalla stanza, con Rigel e Gruis a
seguito.
Bion quasi andò a sbattere contro una
cameriera, che li accolse con un gran sorriso. “La colazione è pronta” annunciò
in tono affabile, indicando un tavolo rotondo accanto alla vetrina.
Bion e Rigel si scambiarono un’occhiata,
mentre Gruis sbuffava.
Erano affamati come non mai, e
ringraziarono mentalmente la cameriera per averli fermati prima che uscissero.
Le uova scaldarono loro la gola, mentre la salsiccia li riempiva e saziava.
Accompagnarono quel banchetto con pane e succo di lampone. Nel giro di pochi
minuti avevano spazzolato via tutto quanto. Gruis aveva spiluccato un po’ di
mollica. Prima di alzarsi da tavola, Bion prese le fette di pane che aveva
lasciato lì e se le ficcò nella bisaccia.
Trovarono l’oste al bancone, allungarono
qualche moneta per pagare il soggiorno e salutarono cordialmente.
Fuori, la città era già sveglia. Il
mercato si allungava sulla via principale, la gente si era riversata a fiotti
sulla strada.
Senza dire una parola, tutti e tre si
affrettarono tra le bancarelle. Raggiunsero l’imbocco, dove il giorno prima
avevano svoltato per raggiungere la casa di Gruis. Fecero lo stesso. Questa volta la via era completamente deserta, ed era una
fortuna.
Gruis si avvicinò alla porta di casa, si
lanciò un’occhiata in giro, nonostante non ci fosse nessuno a ricambiargli lo
sguardo, ed entrò seguito da Bion e da Rigel.
Una volta dentro, un odore di uova misto
a pancetta riempì loro le narici. Era chiaro che Gruis aveva fatto colazione
prima di uscire, ecco perché alla locanda non era affamato.
“Come vi ho detto, la vostra fuga non
passerà in sordina a quest’ora. Tuttavia c’è un sentiero più tranquillo che
porta alla foresta proprio oltre il muro dove finisce la strada. Basterà che
sorvoliate il muro con l’Hydran e che seguiate il sentiero dall’alto. Certo, vi
porterà verso la foresta, ma una volta fuori da Keel potrete invertire la rotta
e dirigervi a sud. In questo modo eviterete di sorvolare la città”.
Mentre Gruis dava loro consigli, avevano
raggiunto il garage sotterraneo con i due Hydran all’interno.
“Ti ricordi tutti i pulsanti, vero?”
domandò lui, una volta dentro il macchinario.
Bion cercò di sorridere, ma le venne solo
una smorfia. “Lo spero”.
“Comunque ti lascio il libretto d’istruzioni
qui sotto, così nel caso…”
Bion gli buttò le braccia al collo e lo
strinse forte. “Grazie Gruis, davvero. Sei un tesoro”.
Gruis sorrise e le picchiettò la schiena
con le dita. “È questo ciò che fanno i veri amici”.
Rigel strinse le labbra in un sorriso
amaro.
La ragazza si scostò da Gruis e gli prese
il volto tra le mani. Si guardarono negli occhi per quella che sembrò
un’eternità, come se il tempo si fosse rallentato per un attimo. Bion sentì gli
occhi lucidi. “Stammi bene, okay?” disse infine.
Gruis la tenne stretta. Sospirò e annuì
di rimando. “Almeno fino alla prossima volta che mi verrai a trovare” sorrise.
Lei scoppiò a ridere. Ma dentro sentiva
qualcosa smuoversi. Anche se Gruis voleva sdrammatizzare, lei sapeva molto bene
che c’era la probabilità che non tornasse. Era una specie di missione suicida, dalla
quale però non le era concesso tirarsi indietro. Era sicura che anche Gruis lo
sapesse, che nonostante tutto anche lui provasse quella strana sensazione di
qualcosa che sta per cambiare, di una certezza che sta per svanire, di un amico
che potrebbe non tornare.
Gruis le accarezzò i capelli. “Ti stanno
bene così corti”.
Bion gli sorrise per l’ennesima volta.
Era dura dirgli addio, allontanarsi da lui, perché era come dire addio alla sua
vita a Keel, dove era nata e cresciuta. Era come se abbandonasse i suoi bei
vecchi ricordi lì con Gruis. Ma si rese conto che non doveva essere così per
forza. Ogni cosa, ogni bel momento se lo sarebbe portato dietro come un
importante cimelio da difendere. Sarebbe stato ciò che l’avrebbe aiutata nei
momenti difficili, ricordare la sua famiglia, la loro breve felicità, e il suo
grande amico.
Gruis si staccò dall’abbraccio e si
avvicinò al portello dell’Hydran.
“Quando uscirete, sarete nel giardino
interno di casa mia. Davanti, avrete il muro di cui vi parlavo. Basterà che lo
superiate e procediate in direzione nord fino a che non incontrerete i primi
cenni di foresta all’orizzonte. Una volta lontani da Keel potrete invertire la
rotta e scendere a sud” alzò due dita e fece un cenno di saluto allontanandole
dalla fronte. “A presto”.
Scese dall’Hydran e uscì da dove erano
entrati senza più guardarsi indietro. Una volta che la porta del garage scattò,
Bion e Rigel rimasero soli e un silenzio immane cadde tra di loro.
Rigel si mosse e chiuse il portello della
macchina. Nella cabina di pilotaggio l’atmosfera si fece più buia. Rigel si
sedette su una delle pensiline che sporgevano dalle pareti. Erano ricoperte di
pelle e quindi ideate per far sedere ulteriori passeggeri. Bion si voltò verso
il quadro di controllo e si perse nella vastità di pulsanti e lucine colorate.
Sopra di loro ci fu un suono profondo e
metallico. Gruis aveva aperto il portellone.
Bion sentì un moto d’agitazione. Ancora
non aveva messo in moto il macchinario. Chiuse gli occhi e ricordò la
spiegazione che Gruis le aveva dato il giorno prima sui pulsanti.
“Per avviarlo basta premere questo grande
verde, qui a destra…”
Riaprì gli occhi e cercò il pulsante
grosso verde, proprio alla sua destra. Senza indugiare lo premette e subito
sentirono il motore rombare sotto i loro piedi. Sorrise.
Rigel le si fece accanto, appoggiando i
palmi delle mani sul bordo della console.
“Sotto al pulsante verde ce n’è uno più
piccolo, non ti puoi sbagliare, serve per ritirare i piedistalli che lo tengono
ancorato a terra…”
Ancora la voce di Gruis le risuonò nella
testa. Bion eseguì, e qualcosa di metallico lavorò sotto di loro. Le gambe
dell’Hydran ora erano ripiegate al sicuro dentro il corpo centrale e quindi
potevano partire.
Bion impugnò il timone e lo spinse tutto
contro di sé, in modo che l’auto volante si alzasse in aria.
Il pannello sopra di loro era
completamente aperto, una luce intensa e rovente inondò il garage sotterraneo.
Mentre l’Hydran saliva, sentirono uno sbalzo, un cambio di pressione. E in
pochi attimi furono fuori.
Bion lanciò un’occhiata raggiante a
Rigel, che la ricambiò con un sorriso soddisfatto. Finalmente si stavano muovendo,
il loro viaggio era iniziato.
Come Gruis aveva suggerito, sorvolarono
la barriera di cemento che separava la città dalla campagna circostante e
furono sopra un sentiero spoglio di vita, incolto, con l’erba alta e alberi
imponenti.
Bion inserì il pilota automatico, ma
rimase concentrata sulla strada, incantata dalla velocità dell’Hydran e dalla
sua efficienza. Gruis non l’aveva per niente delusa.
Anche Rigel si lasciò trasportare dalla
novità del viaggiare con un vero mezzo di trasporto. Non l’aveva mai provato
prima e doveva riconoscere che in quel modo avrebbero risparmiato un sacco di
tempo prezioso.
All’improvviso, qualcosa attirò la sua
attenzione. Sebbene fossero saliti parecchio di quota e viaggiassero di qualche
metro sopra le chiome degli alberi, notò chiaramente un’ombra avanzare sul
sentiero. All’inizio pensò a un uomo, ma era troppo piccola, e molto più
veloce.
“Abbassati” sussurrò a Bion.
Lei lo guardò stranita.
Rigel ricambiò l’occhiata e si accigliò.
“Per favore. C’è qualcosa laggiù…”
Bion seguì la traiettoria del suo
sguardo, fino ad arrivare all’ombra che si aggirava parecchi metri sotto di
loro. Strinse gli occhi per vedere meglio. “Potrebbe essere una trappola”.
“Oh, non credo che lo sia. Fidati di me”.
Bion non poté fare a meno di intercettare
nuovamente lo sguardo di Rigel. Si fissarono, poi lei inclinò il timone e
l’Hydran iniziò a perdere quota. Man mano che si avvicinavano, fu come se la
macchia che inseguivano non aspettasse altro. Rallentò la corsa e, quando
l’Hydran toccò terra, si arrestò, in attesa.
Rigel a quel punto scoppiò a ridere. Aprì
il portello e non fece nemmeno in tempo a scendere la scaletta, che Freya gli
balzò in grembo. Rigel la strinse forte, la accarezzò sotto il muso e lei
chiuse gli occhi, beata, emettendo delle fusa molto rumorose.
Bion rimase al suo posto, ma un sorriso
amaro comparì sulle sue labbra.
“Hai fatto il bottino, vedo” commentò
Rigel, quando Freya gli lasciò cadere tra le gambe una lontra morta.
Rigel rientrò, chiuse il portello e
l’Hydran ripartì. Avere Freya di nuovo affianco lo faceva sentire meglio, gli
dava più slancio. In fondo era stata la sua unica compagna per lungo tempo, era
come portarsi dietro una parte di sé senza la quale non sarebbe stato più sé
stesso.
“Immagino che dovremmo fare delle
fermate, per lei…” buttò lì Bion.
Rigel la fulminò. “Sono sicuro che Freya
non sarà motivo d’intralcio. Ci seguirà anche da terra, stai tranquilla”.
Bion fece spallucce. Non intendeva certo
fermarsi ogni ora per permettere all’animale di fare i suoi bisogni. Insomma,
sarebbero arrivati a destinazione dopo cento anni.
Tra di loro cadde un’atmosfera gelida.
Rigel scomparve oltre la porta della stanza da letto e Freya lo seguì. Il
ragazzo trasse un profondo respiro e si lasciò cadere sul letto, la lince
sdraiata al suo fianco.
“Ho paura che non ci vedremo per un po’,
piccola” le sussurrò, mentre la lince faceva le fusa sotto il suo tocco. “Sappi
che per me non sei un intralcio. Ma lo sai perché lo sto facendo, no?”
Freya teneva gli occhi chiusi e il suo ronfare
suonava un po’ come una risposta affermativa. Ma in fondo, quello era solo ciò
che Rigel voleva sentirsi dire. Che quello che stava facendo aveva un senso.
Rigel sospirò, rendendosi conto che nemmeno lui sapeva a cosa andava incontro.
Credeva davvero che una volta arrivato
alla base di Sycor avrebbe trovato i suoi genitori ad attenderlo? Dopo tutti
quegli anni era una speranza troppo labile. E allora perché era partito? Qual
era la ragione? Si disse che probabilmente non c’era una vera ragione per cui
l’aveva fatto. Si disse che era soltanto un povero ragazzo sull’orlo del
baratro quando Bion l’aveva trovato. E da allora era scattato qualcosa dentro
di lui. Il vecchio spirito di avventura, da tempo spento, era tornato ad
ardere. E poi c’erano la vendetta e la voglia di riscatto. Tutto ciò che gli
restava.
L’Hydran filava liscio e silenzioso sopra
le chiome degli alberi scossi da una leggera brezza serale. Bion si stropicciò
gli occhi. Aveva pulito e messo a cuocere la lontra. Si meravigliò dell’arguzia
di Gruis quando schiacciò un pulsante nella parete a destra che diceva “Se stai
morendo di fame” e apparve una specie di mini barbecue, sotto al quale c’era
una piccola credenza con piatti, posate e bicchieri.
Estrasse due piattini e preparò le porzioni
di lontra sufficienti per quella sera. Il resto l’avrebbero conservato.
Fissò il suo piatto e buttò un’occhiata
al tramonto fantastico che si stagliava oltre i finestrini dell’Hydran.
Appoggiò il piatto sulla brace spenta e si diresse alla porta della stanza da
letto. Bussò, ma non le arrivò risposta. Così entrò.
Rigel era crollato sul letto,
addormentato, le gambe a terra, fuori dal materasso. Il ventre flessuoso di
Freya si alzava e si abbassava al suo fianco.
Bion gli si avvicinò piano. Gli toccò un
ginocchio e lo scrollò. Lo chiamò più volte finché lui si svegliò di
soprassalto.
“Sono io. Non volevo svegliarti, ma la
cena è pronta…”
Rigel si mise a sedere, ancora intontito.
Bion prese posto al suo fianco. Si morse un labbro.
“In realtà volevo scusarmi per prima… so
quanto ci tieni alla tua lince”.
“Non me la sono presa per quello che hai
detto”.
Bion alzò gli occhi su di lui. Sentì il
suo respiro rilassato e provò una forte tranquillità. Chiuse gli occhi e li
riaprì. Le parve che Rigel fosse più vicino che mai.
“Anzi, la devo ringraziare per la lontra
che ci ha portato” Bion sorrise.
Gli occhi azzurri di Rigel brillavano nei
suoi. Era impossibile guardare da un’altra parte. Lo sentiva così rilassato e
sicuro, mentre lei era agitata e confusa. Perché le faceva quell’effetto? In
fondo lei aveva un piano ben preciso. Lo aveva convinto a venire con lei
soltanto per avere un’esca, per barattarlo come un semplice oggetto di poco
valore. Per lei, non doveva essere niente più di quello. Se si fosse affezionata,
come avrebbe potuto consegnarlo a Sycor?
Era più forte di lei, non ce l’avrebbe
fatta ad andare avanti. Era il momento giusto, sì, lo sentiva. Alzò una mano e
gli accarezzò una guancia, le loro labbra si toccarono…
Aprì gli occhi.
Aveva il battito accelerato. Si guardò
attorno. La carne sfrigolava sulla brace, il sole bruciava scomparendo oltre le
chiome degli alberi. Bion si passò una mano sul viso. Era stato solo un sogno.
Ingoiò la saliva, aveva la bocca
impastata. Poi, la porta si aprì e lei sussultò.
“Cavolo, mi ero addormentato…”
La voce di Rigel la raggiunse come da un
luogo lontano.
Bion si alzò dalla sedia e, suo malgrado,
i loro sguardi s’incrociarono.
“Ti senti bene? Hai una faccia…”
Lei sbatté le palpebre, confusa. Si
avvicinò alla brace e controllò la cottura della lontra. Il braccio di Rigel
apparve nel suo campo visivo. Sentì la sua presenza accanto.
“Ad ogni modo, Freya non starà con noi.
Appena accenna ad avere bisogno di scendere, ho deciso che la farò proseguire
da terra. Così anche lei sarà più contenta. A quale animale piace stare in
gabbia e rinunciare alla propria libertà?”
Bion annuì e fece un mezzo sorriso. Con
una strana sensazione, si ricordò di quello che diceva nel suo sogno. Le parole
le uscirono dalle labbra in un sussurro incerto. “Però… la dobbiamo ringraziare
per la lontra che ci ha portato”.
Rigel sorrise. “Che ne dici se dopo cena
atterriamo e la lasciamo uscire?”
Bion sentì il suo braccio sfiorarle il
fianco, o forse se lo stava solo immaginando? Buttò un’occhiata. No, era
proprio vero. Rigel le stava vicinissimo. Ma perché lo notava così tanto?
Qualche giorno prima non ci avrebbe fatto neppure caso. Si scostò leggermente.
“Certo. Sarà buio e non credo troveremo qualcuno sul sentiero”.
“Freya sarà molto contenta. Non credo che
se la passi troppo bene, dopo un’intera giornata senza… hai capito” si lasciò
andare in una risata profonda. Era sinceramente divertito, e Bion faticò a
trattenersi.
“Per fortuna che il tuo amico ha pensato
bene di metterci un bagno qui dentro, altrimenti sarebbe stata dura anche per
noi”.
Rigel rise più forte, mentre Bion sbuffò
un sorriso sommesso.
Mangiarono la carne ben cotta, lasciando
più della metà per i giorni a venire. Ne lanciarono un pezzo anche a Freya:
dopotutto era stata lei la loro benefattrice.
Il sole era ormai andato da tempo quando
atterrarono e lasciarono andare Freya sul sentiero.
“Ci vediamo presto, piccola. Stai
attenta” le sussurrò Rigel, mentre l’accarezzava vigorosamente. Freya gli leccò
una guancia e continuò finché Rigel non si alzò in piedi e la guardò
allontanarsi prima di tornare dentro e chiudere il portello.
Ripartirono. Rigel sapeva che c’era la
possibilità di non rivedere Freya tanto presto, ma voleva sperare che accadesse
il contrario.
“Guarda” fece Bion, indicando oltre la
vetrata.
Il lontananza, scorsero un folto
agglomerato di verde con alberi molto più alti di quelli del sentiero.
“La foresta” sussurrò Bion. “Dobbiamo
virare. Gruis ha detto che potevamo proseguire a sud per un altro sentiero…
eccolo” si era spostata sulla parete destra dell’Hydran e guardava dagli
stretti finestrini una striscia di terreno poco riconoscibile, in mezzo ad
altrettante file di alberi e arbusti.
Bion si rimise alla guida, impugnò il
timone e virò tutto a destra.
Finalmente erano sul sentiero che li
avrebbe condotti nella giusta direzione. Quella via era, se fosse possibile,
ancora più desolata della precedente. Bion sentì un brivido lungo la schiena
mentre osservava il paesaggio scorrere sotto di loro. Sentì una mano sfiorarle
la spalla. Trasalì. Il volto di Rigel le sorrideva dall’alto, ma era un sorriso
amaro.
“Ci siamo” disse.
Bion scrutò i suoi occhi azzurri nella
penombra. Annuì.
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Capitolo 8 *** In fuga ***
7
In fuga
Ben presto si resero
conto che passare tutto il giorno all’interno dell’Hydran senza sosta non era
poi così bello come poteva sembrare all’inizio.
Da quattro giorni
viaggiavano in direzione della prossima città, Tiva, dove si sarebbero fermati
per fare provviste. L’assenza di qualunque forma vivente sul sentiero non aveva
certo tranquillizzato Bion, che preferiva non rischiare a fermarsi con la
possibilità di finire in qualche trappola o di essere attaccati.
“Il carburante è quasi
finito. Dovrebbe esserci una pompa nelle vicinanze di Tiva, cosa dici?” chiese
Bion il quarto giorno, mentre sorvolavano lo stesso identico paesaggio desolato
dei giorni precedenti.
Rigel sospirò e si
avvicinò al quadro comandi. La lancetta sottile del combustibile formava un
angolo acuto e quello non era certo un buon segno.
“Gruis ha detto che
funziona con la stessa miscela dei mezzi di trasporto usati dai soldati
Sostituti, quindi non dovrebbe essere impossibile ricaricarci”.
Rigel si voltò e prese
la mappa che Bion gli aveva mostrato tempo prima a casa sua; la dispiegò sul
quadro comandi occupando tutto lo spazio. Puntò con l’indice la città di Tiva,
collocata sotto a Keel di poco più a destra. Una croce rossa risaltava di poco al
di sotto del puntino nero che era Tiva.
Rigel e Bion si
scambiarono un’occhiata.
“Uno dei Poli è molto
vicino. Dobbiamo stare attenti quando passeremo da lì”.
Se la sicurezza imposta
sulle città era considerata alta, quella attorno ai Poli lo era mille volte di
più.
Come avevano sperato,
prima dell’arrivo a Tiva incontrarono una pompa di benzina. Era molto ben
tenuta, con due inservienti rigidi e seri, vestiti con quelli che avevano tutta
l’aria di essere due camici grigi da infermieri.
“Ci scopriranno”
sussurrò Rigel, gli occhi puntati davanti a sé.
“Se non facciamo benzina,
di sicuro” ribatté Bion.
L’Hydran arrancò a
fatica fino all’accampamento. Da un momento all’altro avrebbero dovuto
spingerlo. Una volta parcheggiato – piuttosto lontano dagli altri veicoli – Rigel
scese e si affrettò al self service. Avevano deciso che Bion avrebbe fatto
meglio a non farsi vedere, dato che era una specie di ricercata e, nonostante
il taglio di capelli, piuttosto riconoscibile. Rigel, al contrario, era una
faccia nuova a tutti, o almeno era quello che credeva.
Tutto andò liscio. Rigel
incontrò un paio di volte lo sguardo degli inservienti, che lo fulminarono da
lontano, come a controllare se fosse capace di cavarsela da solo. Rigel fu
contento di fargli vedere che era capacissimo e fece più in fretta possibile.
“Bisogno d’aiuto?”
Rigel trasalì. Si volse
e incontrò il volto impassibile, pallido e lo sguardo vuoto di uno degli
inservienti. Ingoiò la saliva e sorrise.
“Tutto a posto, grazie.
Ho appena finito” rovistò nelle tasche fugacemente e porse qualche moneta
all’inserviente che continuava a fissarlo. “Dovrebbero essere giuste”.
Rigel abbassò lo sguardo
e avvicinò ancora la mano verso di lui. A quel punto, l’inserviente guardò le
monete, le conteggiò mentalmente e le prese dal palmo di Rigel.
“Buona giornata,
allora”.
L’inserviente non disse
nulla, e pareva che le sue labbra fossero incapaci di imitare un sorriso. Rigel
si affrettò sulla scaletta e rientrò nell’Hydran con un balzo. “Andiamocene di
qui. Non ho mai conosciuto nessuno di più simpatico”.
Tiva era una città molto
diversa da Keel. Le case erano spoglie e asettiche, le pareti grigiastre degli
edifici senza smagliature, senza crepe. Era come se ogni giorno venissero
ricostruite e ridipinte di quel grigio smorto, triste. Tiva non era grande come
Keel, ma comunque vasta abbastanza per ospitare ogni genere di persona, o
meglio, di Sostituto.
“È una città molto
triste. La sua architettura ha risentito del Polo che si trova a poca distanza
da qui. Diciamo che assomiglia più a una base militare” spiegò Bion.
La gente per strada
pareva riflettere il grigiore anche nel loro stato d’animo e nel modo di
vestire. Rigel si sentì come dentro un laboratorio immenso, dove ognuno rispecchiava
la figura della cavia umana.
Avevano lasciato
l’Hydran parcheggiato sul sentiero, al limitare delle mura cittadine, nascosto
sotto due chiome di alberi e si incamminarono a piedi oltre il cancello che
segnava l’entrata principale. Entrambi allungarono il passo e chinarono il capo
a terra, decisi a non attirare l’attenzione più di quanto il loro aspetto già
da solo non facesse.
All’improvviso, un
bambino si lanciò davanti a loro, rincorrendo un pallone, e Rigel sobbalzò e si
ritrasse quando si accorse che gli aveva tagliato la strada così velocemente da
farlo sembrare un agguato. Sorvolò con lo sguardo attorno e, suo malgrado, scorse
parecchi occhi che lo ricambiarono. Si affrettò a fissare il cemento sotto i suoi
piedi e riprese a camminare.
“Questo posto mi piace
sempre meno. Ma che cosa hanno da guardare?” sussurrò a Bion.
Lei rispose da un angolo
delle labbra. “Non sono abituati agli stranieri. E comunque, prova a non
attirare l’attenzione, per favore”.
Rigel la guardò,
indignato. “Non è stata colpa mia. Quel bambino…”
“Probabilmente l’ha
fatto apposta, non pensi? Per vedere la nostra reazione… Hai notato che cè una
sentinella quasi ad ogni incrocio di strade?”
Ora che glielo faceva
notare, Rigel constatò che era proprio vero. Si camuffavano bene tra la gente,
perché indossavano indumenti dello stesso colore. L’unica differenza era il
mitra spaventoso che imbracciavano e cullavano come fosse un bambino appena
nato. Le loro facce scure e impassibili – così simili a quelle degli
inservienti della pompa di benzina – non tradivano alcuna emozione.
Rigel era così preso ad
osservarli che quasi non si accorse che Bion aveva deviato e stava entrando in
un piccolo negozietto al lato della strada. La porta d’entrata era a scomparsa;
gli diede l’idea di trovarsi come su un altro pianeta. Lui, che veniva dalla
foresta ed era abituato alla vita semplice di un tempo, non era affatto avvezzo
a tutto quel futurismo. E probabilmente – si disse – quello era solo un piccolo
assaggio di ciò che avrebbero trovato a Nallav, la più ricca e grande città di
tutta Hestla.
Era una piccola bottega
di alimentari, disposti ordinatamente su scaffali bianchi stile ospedaliero. Se
non fosse stato profondamente affamato, Rigel non avrebbe provato nessuna
voglia nel comprare in un posto del genere. Nell’ambiente c’era un forte odore
di alcol.
Rigel era come
affascinato da tutto, così immensamente diverso da ciò a cui lui era abituato.
Non pensava che nel Nord avrebbe trovato luoghi del genere, ma forse, come Bion
aveva detto, Tiva aveva quell’aspetto soltanto perché giaceva affiancata ad uno
dei Poli.
Comprarono quello che
non avrebbero potuto procacciarsi da soli: pane, formaggio e qualche bibita in
lattina. Pagarono e uscirono dal negozio.
“Forse non avresti
dovuto salutare, sei stata troppo cordiale” fece Rigel, sarcastico, una volta
fuori.
Bion rise. A Tiva non
c’era molto calore umano e la gente si comportava un po’ come robot.
Be’, in fondo è quello
che sono, ma almeno a Keel non lo rendevano così tremendamente palese. Pensò Rigel.
Erano lì da nemmeno
un’ora e già avevano innumerevoli occhi puntati addosso. Bion iniziò a
diventare sospettosa. Inaspettatamente, cercò la mano di Rigel e la strinse
nella sua, con delicatezza.
Lui la guardò, confuso.
Bion gli restituì lo sguardo e sorrise apertamente. Rallentò di molto e si alzò
in punta di piedi, quel tanto che bastava per avvicinarsi a Rigel e imprimergli
un bacio sulla guancia. “Stammi al gioco” gli sussurrò un secondo prima di
allontanarsi.
Avevano rallentato così
tanto che si ritrovarono fermi, al bordo del marciapiedi. Bion si voltò verso
Rigel e lo guardò negli occhi. Poi aprì la bocca dicendo qualcosa a vanvera per
chiacchierare.
“Non sai quanto avrei
voluto comprare il burro di arachidi!”
“È già che non lo so…”
rispose lui, come se cercasse di scorgere nel volto della ragazza le parole che
voleva sentirgli dire.
“Mia madre sa fare un
dolce delizioso che avrei tanto voluto farti assaggiare…”
“M’immagino…”
Bion scoppiò a ridere,
quasi sottovoce. Prese a giocherellare con il colletto della maglia di Rigel. “E
ti avrei invitato a casa mia. Ma possiamo trovare un altro motivo, no?”
“Già, possiamo” Rigel
lanciò di sottecchi un’occhiata oltre la testa di Bion. Scorse una coppia di
Sostituti sentinelle lanciare uno sguardo fugace verso di loro, per poi passare
oltre. Ritornò a guardare Bion, che lo stava spingendo sul marciapiedi, fino a
trovarsi con la schiena contro la parete grigia di un edificio.
“Abbracciami” gli
sussurrò.
Rigel lo fece, la
circondò con le braccia, senza sapere bene dove metterle. Le incrociò sulla sua
schiena e affondò il viso sul suo collo. Intanto, diede un’altra veloce
occhiata alle due sentinelle. Sembrava non avessero affatto intenzione di
andare oltre quel tratto di strada. Si dondolarono sui piedi, imbracciarono
meglio il fidato mitra e si decisero infine a tornare indietro, passando molto
vicino a loro due. Prima di rischiare d’incontrare il loro sguardo, Rigel
chiuse gli occhi, e finse un trasporto amoroso, stringendo Bion tra le sue
braccia più che poteva.
“Adesso” bisbigliò lei.
Rigel si sciolse
lentamente dall’abbraccio e le sorrise affabile.
Continuando con quel
fare sdolcinato, Bion lo prese per mano e lo guidò giù dal marciapiedi,
svoltarono l’angolo e si avviarono lungo una stradina laterale che pareva
deserta.
Rigel non era ancora
certo di poter parlare, quindi si limitò a lasciarsi trascinare, le dita legate
a quelle di Bion.
Lei scrutò l’alto muro
che gli si parava davanti. Erano le mura cittadine, da cui ogni città di Hestla
era caratterizzata. Era come una specie di barriera che proteggeva gli abitanti
dall’ambiente al di fuori. Ed era proprio al di là che loro avevano lasciato la
loro ancora di salvezza, l’Hydran.
“Da qui non si passa.
Dobbiamo trovare un’altra strada”.
Si spostarono lungo un
vicolo sulla sinistra, in mezzo a due case squadrate e pressoché identiche.
“Cavolo, questo posto è
un labirinto” commentò Rigel a bassa voce.
Bion non gli lasciò la
mano e lo trascinò fino alla fine del vicolo, che sbucava in un’altra strada
laterale come quella che avevano percorso poco prima. E tutto attorno non
differiva di una virgola.
“Mi sa che abbiamo
sbagliato. Ci stiamo inoltrando nella città e allontanando dai cancelli.
Torniamo indietro, Bion”.
Lei si buttò un’occhiata
attorno, prima di annuire. Rigel si avviò su per la strada a sinistra, ma lei
lo bloccò. “Non da quella parte. Saremo di nuovo nella via principale con
quelle guardie alle calcagna. Seguimi”.
E marciò decisa nella
direzione opposta, fino ad avere le mura della città ancora come ostacolo. Bion
si guardò intorno. Poi si appiattì con la schiena contro la muraglia e si
schiacciò più che poteva per passare nello spazio tra quella e il muro di una
casa. Era molto stretto. Sentì qualche animale squittire sotto i suoi piedi.
Rigel la seguiva con più difficoltà, dato che era più grosso. Quando sbucarono
di nuovo all’aria aperta, un rivolo di sudore gli correva sulla fronte.
“Eccoci” disse Bion,
indicando i cancelli davanti a loro. Quasi senza pensarci, si mise a correre e
Rigel la imitò. Erano certi che avrebbero avuto via libera, certi che le
guardie avessero trovato qualcos’altro di più interessante di loro.
Un’altra differenza che
Rigel notò tra Tiva e Keel, era che Tiva non era altrettanto affollata. Quando
aprirono i cancelli, affannati, sudati e desiderosi di andarsene, il cigolio
che il ferro provocò li sorprese non poco. Tutto in quel posto era perfetto e
futuristico, eppure quei dannati cancelli ancora stridevano.
Mentre varcava la
soglia, Bion si guardò indietro. Le sentinelle che li avevano studiati fino a
poco prima correvano verso di loro, alzavano le armi, prendevano la mira…
Bion urlò e prese a
correre via insieme a Rigel. Si lanciarono fuori mira, oltre i cancelli e
fuorono nascosti dalle spesse mura di cemento che partivano da lì e correvano
tutto attorno al perimetro cittadino. Ma non erano ancora salvi, i passi delle
sentinelle dietro di loro erano ben udibili, oltre le urla della misera folla
spaventata.
Correre era quasi come
annaspare sott’acqua, nella calura estiva. Rigel sentiva il suo respiro pesante.
Vide Bion sorpassarlo, andare come una furia, le punte dei piedi che quasi non
toccavano il suolo, e fu allora che si riscosse. Non poteva mollare, non in
quel momento. Bion si voltò, lo sguardo disperato e Rigel lo ricambiò con
un’espressione decisa e ferma.
Ce la facciamo.
L’Hydran si ergeva
davanti a loro, Rigel alzò il capo grondante di sudore e gli sfuggì un sorriso.
Poi, un fischio vibrò a pochi centimetri dal suo orecchio. Ritornò alla realtà
in modo brusco, si volse e vide le due sentinelle affiancate da altre
sentinelle, quattro, sei…
“Bion!” gridò,
disperato.
Lei era già sulla
scaletta, si girò di scatto e, prima di prendersi una pallottola in pieno
petto, si abbassò con foga.
Rigel lesse sulle sue
labbra un’imprecazione. Si arrampicò sulla scaletta quasi volando ed entrambi
furono dentro. Rigel sentì i proiettili colpire la superficie del portello,
mentre lo chiudeva con un tonfo.
Bion aveva azionato il
velivolo. E aveva anche spinto il pulsante viola, quello che, come Gruis le
aveva detto qualche giorno prima, serviva per azionare le sette mitragliatrici sul
davanti dell’Hydran.
“Forza, muoviti”
borbottava Bion.
Rigel non l’aveva mai
vista tanto agitata. Eppure la situazione era più o meno la stessa che avevano
affrontato a casa sua parecchi giorni prima. O forse no?
Il velivolo fu in aria
nel giro di qualche istante, le armi sbucarono dal salvagente di ferro e si
misero in posizione con un possente clangore metallico.
Bion avvicinò il dito al
pulsante “Azione”, tutto era pronto e in posizione, i proiettili sparati dalle
sentinelle a terra continuavano a rimbalzare sulla corazza dell’Hydran…
“Aspetta!” gridò Rigel.
Bion si girò di scatto,
sorpresa. “Dannazione, che c’è?”
“Non possiamo sparare,
ci sono troppi civili”.
Bion restò a bocca
aperta, sconvolta. Guardo oltre i finestrini dell’Hydran, le persone disperse
sullo spiazzale sottostante, alcune che gridavano, altre che guardavano la
scena terrorizzate, madri che cercavano di allontanare i loro bambini…
“Sono solo
Sostituti, Rigel!” urlò di rimando.
“Non possiamo sparare
così su di loro, in fondo sono innocenti…”
“Dovevi metterti a fare
il sentimentale proprio adesso?” Bion alzò gli occhi al cielo, sbraitando. “Ci
uccideranno, lo sai questo, vero? Anzi no, ci trasformeranno proprio come
loro!”
Rigel non rispose. Si
fiondò sul quadro comandi e impugnò il timone con le mani sudate. L’Hydran
sfrecciò via lontano da Tiva e dai proiettili delle sentinelle. Erano di nuovo
sul sentiero, sotto di loro si estendeva nient’altro che vegetazione e ben
presto le voci si affievolirono fino a scomparire. Calò un silenzio carico di
tensione.
“Sei un po’ troppo pacifista
per i miei gusti” affermò sdegnata Bion, alzandosi dalla sedia e allontanandosi
da Rigel.
Lui fissò la sua
schiena. “Non serve uccidere persone innocenti. Non è quello che sono venuto a
fare, e pensavo nemmeno tu”.
Lei si voltò di scatto,
furiosa. “Pensi che sia finita qui? Che basti scappare e lasciarsi la battaglia
alle spalle? Prima o poi verrà il giorno che dovrai affrontarli veramente,
Rigel. Non potrai fuggire quando saremo di fronte a Sycor”.
Rigel evitò di
guardarla. Alla fine era giunto, dunque, il momento della verità. Voleva che le
dicesse che non era ancora pronto? Che non voleva uccidere?
“Pensi che mi piaccia
ammazzare la gente? Non è bello, credimi, nemmeno se si tratta di nemici. In
fondo, noi siamo ancora umani. Ma è inevitabile che prima o poi succeda,
in questo mondo e con la nostra missione da compiere”.
Si avvicinò di un passo
verso di lui, che ancora evitava di guardarla.
“Conoscendo come operano,
ci saranno un sacco di squadre sulle nostre tracce. Se avessimo agito, forse
non avrebbero avuto il tempo di avvertire gli altri Poli…” puntò lo sguardo
fuori dal vetro dell’Hydran, sul paesaggio e continuò a parlare in modo
pratico, “ad ogni modo dobbiamo alzare la guardia cento volte tanto, e anche di
più, se potrà salvarci la pelle”.
Rigel alzò gli occhi su
di lei, la mascella serrata. Doveva forse chiedere scusa? Doveva vergognarsi di
non avere sparato sulla gente? No, che non doveva. Non era un assassino, e poi
cosa ne sapevano loro che tra quella folla di Sostituti non si nascondessero
degli umani? In fondo era impossibile stabilirlo soltanto dall’aspetto. Magari
là in mezzo c’erano umani che si spacciavano per Sostituti, con la speranza di
non essere mai trovati e di poter condurre una qualsiasi vita.
Anche se Bion non era
d’accordo, Rigel continuò a ripetersi che con il suo gesto aveva probabilmente
salvato qualche vita umana. Non aveva mandato tutto all’aria per niente.
Mentre quei pensieri gli
vorticavano in testa, e lui si costringeva a convincersi che una qualche
ragione ce l’aveva, si perse con lo sguardo oltre il vetro dell’Hydran e,
inaspettatamente, qualcosa là sotto attirò la sua attenzione.
Strinse gli occhi e
improvvisamente ogni pensiero volò via dalla sua mente. Una figura balzava
sulla terra sabbiosa, una figura agile, scattante, non umana e molto familiare.
“Freya” sussurrò tra sé
e sé.
Bion lo guardò. “Cosa?”
“Freya!” ripeté Rigel
più forte, con una nascente contentezza che gli si faceva spazio dentro. Era
così bello vederla, voleva abbracciarla e accarezzarla. Avevano trascorso solo
quattro giorni lontani, ma a lui erano sembrati millenni. E ora, la sua fedele
compagna era tornata.
Rigel sorrise, impugnò
il timone senza lasciare parlare Bion, senza farle elencare i possibili
attentati a cui sarebbero andati incontro atterrando in quel momento.
Erano a pochi metri da
terra, Bion si era rassegnata ed entrambi fissavano la lince correre al loro
inseguimento. Poi, in una frazione di secondo, qualcosa la colpì, Freya emise
un gemito soffocato, il suo corpo si ribaltò all’indietro e si accasciò sul
suolo polveroso.
Rigel allentò la presa
sul timone, lo sguardo fisso oltre il vetro, gli occhi all’improvviso pieni di
lacrime. Ma non poteva essere vero…
“Freya” sussurrò, la
voce spezzata. “FREYA!”
Ma la lince rossa non rispose
al suo richiamo.
“NO!”
Le urla di Rigel
rimbombavano nella cabina dell’Hydran. Bion lo trattenne quando lui si lanciò
contro il vetro, come per trapassarlo.
Ciò che venne dopo si
svolse veloce, inaspettato. Il velivolo era a pochi metri da terra, ma il
dolore di Rigel era troppo forte perché lui o Bion si resero conto di cosa
stava succedendo.
Un suono secco, un
fischio acuto e un colpo andato a segno. L’esplosione incendiò la parte
inferiore dell’Hydran che iniziò a precipitare con la velocità di un corpo
inanimato. Rovinò a terra in un insieme di fuoco, fiamme e metallo. Rigel e
Bion furono scaraventati all’indietro e cozzarono con la schiena contro le
pareti.
Poi, molte voci gli
arrivarono distorte, lontane, ma era difficile cogliere quello che stavano
dicendo, sopra lo scoppiettio delle fiamme e il dolore lancinante delle loro
ferite.
“Rigel…” mormorò Bion,
sentì sangue fresco, il suo sangue, colarle dalla testa e finirle in bocca,
mentre cercava di alzarsi e scostava faticosamente detriti dell’Hydran che
aveva addosso.
“Rigel, dobbiamo
andarcene…”
Dopo quelle che parvero
ore, ma che furono solo pochi secondi, sentì qualcosa muoversi accanto a lei.
Rigel riemerse da sotto una lastra di ferro. Aveva un fianco squartato, ed era
coperto di sangue dalla testa ai piedi. Bion si disse che nemmeno lei doveva
avere un bell’aspetto.
Si alzarono con uno
sforzo tremendo e strisciarono fuori dall’Hydran per la fenditura che la caduta
aveva provocato nella parete sinistra.
Bion vide in lontananza
un gruppo di Sostituti armati che si muovevano nella loro direzione. Erano
stati loro ad abbattere l’Hydran, probabilmente con un bazooka. Ma non avevano
contato che il velivolo sarebbe rotolato per diversi metri lontano dal punto
desiderato.
Bion prese Rigel per la
maglia e lo trascinò in fretta nella coltre di alberi che delimitavano il
sentiero. Correre era pesante e doloroso, ma era l’unico modo per mettere più
terreno possibile tra loro e i Sostituti.
Bion lanciò un’occhiata
veloce a Rigel, per accertarsi che non fosse sul punto di morire, e lo vide
scioccato, gli occhi sbarrati e spalancati persi nel vuoto, il volto segnato da
lacrime e sangue.
Dovevano aver fatto
parecchia strada, o almeno se lo augurava. Non aveva il coraggio di guardarsi
indietro, perché sapeva che la sorpresa di trovare i Sostituti a un soffio da
loro non le sarebbe piaciuta.
Ma, all’improvviso,
perse ogni sensibilità, vedeva le sue gambe muoversi ma non le sentiva. La
testa le girò vorticosamente e tutto il suo corpo precipitò rovinosamente
nell’erba alta.
Poi, tutto divenne nero.
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Capitolo 9 *** Seconda Occasione ***
8
Seconda occasione
Quella mattina, Galen si
svegliò tardi. Rimase disteso sul letto, le braccia spalancate, a fissare il
soffitto, rimuginando sui suoi pensieri, sui suoi sogni. Il sole trapelava
dalle imposte, e qualche ignaro uccellino cantava. Fuori doveva essere una
fantastica giornata estiva. Un tempo, Galen sarebbe corso all’aperto senza
tante scuse, avrebbe giocato e si sarebbe goduto la beatitudine di quella stagione.
Ma ormai era cresciuto, e sebbene molti dicessero che a diciassette anni si è
ancora piccoli, lui non si sentiva più un bambino. Era figlio di un mostro, un
essere deplorevole. Forse era l’odio per suo padre che lo aveva fatto crescere
troppo in fretta, o l’atteggiamento freddo di sua madre. Oppure il fatto che
sapeva i piani di suo padre, sapeva cosa stava creando e quante persone erano
morte per permettergli di raggiungere i suoi scopi.
Ecco perché, invece di
saltare giù dal letto e correre fuori, se ne stava lì, pensieroso. Doveva
assolutamente trovare un modo per mettere fine a tutto. Lui era suo figlio,
dannazione, perché non avrebbe dovuto riuscirci?
Sbattè le palpebre
quando un tonfo sordo lo raggiunse dal salotto. Galen si riscosse, si alzò e si
mise in ascolto.
Riconobbe la voce di sua
madre, ma ce n’era un’altra, maschile, piatta, senza vita. Galen aggrottò le
sopracciglia. Si vestì in fretta e uscì dalla camera.
Chara gli rivolse uno
sguardo, mentre l’uomo che la stava abbracciando gli fece un breve cenno di
saluto con il capo.
“Buongiorno, fratello”
scandì Zaniah.
Aveva ventiquattro anni,
ma sembrava molto più vecchio. Portava un paio di occhialetti squadrati e
trasparenti, adagiati su un naso dritto e sottile. Gli occhi erano gli stessi
di Galen, azzurri come il mare. I capelli castano scuro erano laccati e piegati
in modo impeccabile, la valigetta ventiquattr’ore e il cappotto nero lungo fino
alle ginocchia gli conferivano un’aria molto ricercata e altezzosa.
Marciò verso Galen con
ampie falcate, le lucide scarpe costose che ticchettavano sul pavimento. Gli
porse la mano, come se stesse dando il benvenuto ad un cliente ad una riunione
di lavoro.
“Mi auguro che sia
tutto a posto” disse in tono distaccato.
Galen gli prese la mano
e gliela scrollò controvoglia. Lo guardò negli occhi con una smorfia. Lui e suo
fratello non avrebbero potuto essere più diversi. Zaniah lavorava con Sycor, o
meglio per Sycor. Ciò significava appoggiare le sue idee, aiutarlo a
compiere i suoi piani maniacali. E Galen sapeva che a Zaniah non importava un
accidente di quello che tutto ciò comportava. A lui interessava solo vestirsi
bene, avere un mare di soldi e una certa fama. Voleva essere stimato e temuto,
voleva il potere.
“Che cosa ci fai qui?”
borbottò Galen, senza tanti preamboli.
Il viso di Zaniah, che
pareva piegato in una perenne smorfia di rigidità e cupezza, si sciolse per un
istante in un forzato sorriso. Ma un secondo dopo, era già sparito. “Mi manda
nostro padre e si rammarica per la sua assenza”.
“Digli pure di non
preoccuparsi, qui nessuno ne è rammaricato”.
Zaniah si accigliò. “È
un peccato che tu ancora non riesca ad apprezzare nostro padre”.
Galen fu sul punto di
ribattere, ma Chara gli comparì accanto. Gli prese una mano tra le sue, e lo
accarezzò gentilmente. Gli sorrise. Galen scorse nei suoi occhi una supplica
silenziosa di non replicare, di non litigare. Galen sapeva che Chara non
condivideva lo stile di vita del figlio Zaniah, ma capiva che non voleva
trovarsi a dover attutire l’ennesima lite in famiglia, e soprattutto non tra i
suoi figli.
Così Galen rimase zitto
e serrò la mascella.
Si sedettero a tavola
verso mezzogiorno, e anche se Galen non aveva affatto fame, fu costretto a
sottostare alle rigide regole che Zaniah, al contrario, era abituato a seguire.
Pranzare tutti insieme
appassionatamente era un concetto a cui quella famiglia non sottostava più da
lungo tempo. Galen notò che l’abituale umore cupo della madre era accentuato
dalla presenza di Zaniah, anche se era parecchio brava a non darlo a vedere.
Hana serviva loro le
portate cercando di apparire al suo meglio, andava adagio e faceva un lavoro
minuzioso, appoggiando le porzioni sui piatti laccati con un’estrema
professionalità. Galen la guardava rammaricato. Avrebbe voluto che non fosse
così perfetta. Voleva urlarle di sbagliare, di fregarsene, di tirare la pasta
dritta in faccia a Zaniah, perché lei non sapeva che suo fratello era lì anche
per controllarla, per vedere come si comportava. E, a vederla così brava,
avrebbe di certo pensato che lei considerava quella situazione come un bene,
una cosa bella che le era capitata nella sua altresì misera esistenza.
“Questa fanciulla è
adorabile e molto rispettosa” Zaniah sorrise ad Hana, che lo ricambiò,
imbarazzata.
Galen lanciò al fratello
uno sguardo infuocato.
“Ha un buon
comportamento, in genere?”
Chara annuì, quasi senza
alzare gli occhi dal piatto.
“Come sapete, sono qui
anche per registrare il suo andamento. Nostro padre è convinto che una buona
condotta è segno del fatto che le Aiutanti abbiano accettato la loro condizione
e di conseguenza saranno più disponibili a lasciarsi trattare in
futuro”.
Galen soffocò una rabbia
improvvisa. Avrebbe voluto alzarsi, battere il pugno sul tavolo e gridare
contro Zaniah. Lasciarsi trattare… era così che adesso si diceva? Essere
trasformate in Sostitute, dopo anni di servizio non retribuito presso famiglie
di uomini spregevoli e ignare di quale sarebbe stato il loro futuro.
Era proprio quello il
loro piano, tacere la verità e portare avanti le menzogne. Se quelle ragazzine
avessero mostrato un buon comportamento, al compimento del ventesimo anno d’età
non avrebbero certo opposto resistenza quando le avessero prelevate e portate
in laboratorio. Probabilmente, nemmeno allora gli avrebbero rivelato la verità.
“Non preoccuparti, è solo un controllo” o roba del genere, gli avrebbero detto.
E loro, ignare e ingenue, avrebbero soltanto eseguito.
Galen era nauseato a
quel pensiero e la vista del fratello di certo non migliorava le cose.
“La cena è ottima,
madre. È lei che si occupa di tutto?” continuò Zaniah, petulante.
Chara annuì nuovamente,
prima di portarsi alle labbra un altro boccone.
Zaniah annuì e abbassò
gli occhi concentrandosi sul suo piatto.
“E quindi pensate che
Hana, come tutte le altre, sarà molto contenta quando la rinchiuderete in
laboratorio, la ucciderete e poi la trasformerete in un Sostituto, vero?”
Hana trasalì e fissò
Galen, incredula e terrorizzata. Galen le ricambiò lo sguardo, serrò la
mascella, determinato. Voleva infonderle la forza della verità. Perché era
quello che le sarebbe spettato, ed era arrivato il momento che lo sapesse,
proprio lì di fronte a Zaniah, che tanto sosteneva quel pazzesco processo
ideato dal loro abominevole padre.
“Galen, non mi sembra il
momento…” borbottò Chara.
Galen scattò in piedi.
“Si invece! Finitela di mentire! Tanto moriremo tutti, non è così? Affinché
quel pazzo di nostro padre possa trasformarci in robot, ma a quanto pare
staremo tutti molto meglio allora, vero?”
Zaniah e Chara lo
fissavano. Leggeva nei loro occhi lo sconcerto, ma riuscivano a trattenersi, e
le loro mascelle serrate e dure lo fecero imbestialire ancora di più. Si voltò
verso Hana, che al contrario lo guardava terrorizzata, paralizzata. Era
sull’orlo delle lacrime.
“Siediti, Galen, per
favore…” iniziò Chara, la voce roca.
“NO!” gridò lui.
“Per favore, fratello.
Lo sai che questo non porterà a nulla. Tranquillizzati”, era stato Zaniah a
parlare questa volta e Galen lo fissò stupito. Non l’aveva mai sentito parlare
con quel tono per lui fin troppo affettuoso. Zaniah allungò una mano verso Hana
e le strinse il polso. Le sorrise. “Stai tranquilla, ragazza. Andrà tutto
bene”.
Galen continuò a
fissarlo. Era sbalordito. Incontrò lo sguardo di suo fratello, e gli parve
volesse trasmettergli un messaggio con gli occhi. Era come se volesse dirgli
qualcosa attraverso la forza del pensiero. Galen socchiuse gli occhi, e poi
comprese che era meglio stare in silenzio.
Zaniah scattò in piedi,
con un rinnovato sorriso sul volto. “Penso che Hana abbia fatto abbastanza”, la
guardò “puoi andare nella tua stanza, piccola”.
Lei sul momento non si
mosse, ma poi, ancora sconcertata e incapace di parlare si avviò
silenziosamente e scomparve oltre la porta della sua camera.
“Vado a prendere il
dolce” annunciò Zaniah. “Galen mi dai una mano a tagliare le porzioni?”
Galen lo fissò come se
non l’avesse mai sentito parlare prima.
‘Mi dai una mano?’
Questo non è mio fratello.
Tuttavia, dopo aver
scambiato un’occhiata con sua madre, seguì Zaniah in cucina. Ma il fratello non
si fermò lì: aprì la porta finestra che dava sul giardino e scomparve
nell’afosa luce estiva. Galen lo raggiunse.
Zaniah estrasse qualcosa
dalla tasca e quando gli occhi di Galen si furono abituati alla luce forte del
sole, riuscì a mettere a fuoco un pacchetto di sigarette e un accendino, che
Zaniah stava protendendo verso di lui.
“Ne vuoi?”
Galen lanciò un’occhiata
a suo fratello e ancora al pacchetto. Alla fine prese una sigaretta e l’accese
con uno scatto dell’accendino. Anche Zaniah fece lo stesso, e dava lunghe
tirate al cielo.
“Lo so che non è facile
essere figlio di uno come Sycor”.
Galen alzò gli occhi, a
quelle parole. Non aveva mai sentito suo fratello rivolgersi a loro padre
chiamandolo freddamente “Sycor”. E anche la sua voce aveva assunto un tono più
naturale, genuino. Non stava più recitando la parte del figliol prodigo.
“Lascia che ti dica una
cosa. E forse dopo mi ringrazierai. Tutta la casa è sorvegliata. Ci sono
telecamere in ogni stanza, persino in bagno. E ci sono persone alla base di
Sycor pagate per stare ore e ore dietro a dei monitor che mostrano ogni istante
della vostra vita. Se mangiate lo vedono, se pisciate lo vedono. Se ridete e
scherzate, lo sanno. E quando litigate, è il loro divertimento”.
I due fratelli si
scambiarono un’occhiata. E Zaniah teneva gli occhi socchiusi per il sole, ma
aveva un’espressione dura e severa.
Galen distolse lo
sguardo e lo puntò a terra, sul letto di erba ben tagliata con qualche
margherita che spuntava qua e là. “Io non lo sapevo”.
Zaniah sbuffò una
risata. “Me lo immaginavo. Altrimenti non ti saresti comportato così”.
“Tutte le volte che sei
venuto a trovarci… Perché non me l’hai mai detto?” Galen alzò gli occhi e li
puntò contro quelli azzurri del fratello.
“Perché non ce n’è mai
stato bisogno. Non si può certo dire che tu sia stato al settimo cielo, ma non
hai mai fatto scenate del genere. Ed è da queste che nostro padre capisce il
tuo stato d’animo. Mi spiego meglio: se tu sei tranquillo, magari con la faccia
cupa ma pur sempre calmo, vuol dire che non sei una minaccia. Ma nel momento in
cui decidi di ribellarti, di esternare la tua rabbia, be’ loro lo vedono e lo
interpretano come una rivolta verso il sistema, e di conseguenza verso nostro
padre”.
Galen lo ascoltava con
attenzione. Non l’aveva mai sentito parlare di loro padre, di quello che
facevano alla base e delle sue opinioni in riguardo. A dire il vero, Galen
aveva sempre pensato che suo fratello fosse favorevole. E invece, eccolo là a
discutere sul bene e sul male. Era quella la vera faccia di suo fratello? Tutto
il resto era dunque un ruolo che si era preposto di interpretare affinché
rientrasse nelle grazie del loro padre?
Galen un po’ l’ammirava.
Lo vedeva per la prima volta sotto una nuova luce, una luce migliore. Se quello
era il vero Zaniah, be’, era orgoglioso di poterlo chiamare fratello.
“Da quand’è che hai
iniziato a pensarci?”
La domanda che Zaniah
gli fece lo riportò alla realtà. Lo fissò e corrugò le sopracciglia più di
quello che il forte sole lo costringeva a fare.
Zaniah tirò dalla
sigaretta, prima di replicare alla sua espressione. “Voglio dire, quando hai
cominciato a pensare di ribellarti? Che questa situazione non ti andava più
bene?”
Galen puntò gli occhi a
terra. Si accorse che la sua sigaretta era ancora intoccata. Così diede una
tirata, lasciò uscire il fumo dalle labbra e guardò il fratello. “È un po’ che
ci penso, ma non ho mai concretizzato nulla. Vuol dire che sono un debole?”.
“Non sei un debole”.
“Ma mi ci sento”.
Zaniah lo guardò per un
lungo istante. Non c’era alcuna espressione particolare sul suo volto. Se non
un cenno di comprensione e, a modo suo, affetto.
“Solo il fatto di averci
pensato, di avere l’intenzione di cambiare le cose, questo ti impedisce di
essere debole. Ti sorprenderà sapere che anche io un tempo ero come te. Avevo
voglia di combattere contro il mondo, contro nostro padre. Volevo vendicarmi e
fuggire da tutto questo. Ma alla fine ho ceduto. Sono passato dalla parte del
male, ho aiutato Sycor e ho indossato una maschera per la vita. Come credi che
mi senta?”
“Non immaginavo…”
“Che fossi dalla tua
stessa parte?”
Galen annuì. La
sigaretta continuava a rilasciare fumo, ma lui se l’era dimenticata. Ora c’era
solo Zaniah, la sua figura, i suoi abiti costosi, i suoi occhi azzurri per la
prima volta tanto sinceri e simili ai suoi.
“Se vuoi sopravvivere,
passare dalla parte del male è l’unico modo. Ma se vuoi rischiare, sappi che io
cercherò di aiutarti per quanto mi sia possibile. Tu sei un po’ come la mia
seconda occasione” allungò la mano, l’appoggiò sulla spalla di Galen e la
scosse con fare incoraggiante.
Galen accennò un
sorriso. La sua seconda occasione. Be’ quel pensiero un po’ lo
spaventava. Gli aveva dato un compito importante. Ora, oltre a sé stesso, sua
madre e Hana, c’era anche suo fratello che non poteva deludere. Si chiese se un
giorno quelle persone avrebbero potuto essere fiere di lui.
“Le persone non hanno
mai solo un lato. E l’apparenza inganna. Pensaci bene, Galen”.
Inaspettatamente, Galen
sentì la mano del fratello scivolare sulla schiena, il braccio serrarlo
stretto. Si lasciò andare nell’abbraccio con suo fratello. E per un istante si
sentì al sicuro, protetto. Non si era mai sentito così. Sua madre era sempre
stata debole e cagionevole e il più delle volte era lui, Galen, a doverla
proteggere. Suo padre non c’era mai stato. E suo fratello fino a quel momento
aveva recitato la parte del distaccato.
Ma ora, era come se anni
d’odio e rancore provati verso quell’uomo pressoché sconosciuto si fossero
sciolti come neve al sole. Gli sembrava che tutto potesse andare meglio, che
ogni cosa potesse trovare il suo posto nel mondo, ora che aveva suo fratello
dalla sua.
Quando Zaniah si staccò,
Galen sentì gli occhi lucidi.
“Dai, andiamo a tagliare
quel dolce, altrimenti nostra madre si preoccuperà”.
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Capitolo 10 *** Il Viaggiatore Solitario - Parte 1 ***
9
Il viaggiatore solitario
prima parte
Bion
aprì gli occhi alla luce fioca di una candela, posata su un comodino al fianco
di un letto. Scombussolata e confusa, si puntellò sui gomiti e alzò la testa
per guardarsi attorno. Istintivamente, si portò una mano al capo, che le lanciò
una fitta lancinante. Fece una smorfia con la bocca e soffocò un gemito. Le sue
dita non toccarono i capelli, bensì qualcosa di ruvido e spesso: una benda. Si
accigliò. Qualcuno l’aveva soccorsa e medicata. Qualcuno l’aveva salvata. O
forse era in una base militare e aspettava di essere trasformata in un
Sostituto.
Si
allarmò, quando si rese conto che, per quello che ne sapeva, potevano già
averla trasformata. Un ansia immane le salì alla gola a quel pensiero. Poi i
suoi occhi misero a fuoco un’altra benda, attorno al polso. Si portò il braccio
vicino al viso e studiò la ferita. Corrispondeva esattamente al punto dove
aveva imparato a praticare una ferita per assicurarsi se una persona fosse un
Sostituto o meno. Se ne fosse uscito sangue, allora aveva davanti un essere
umano, ma se avesse trovato fili metallici, allora si trattava di un Sostituto.
Per
qualche ragione si sentì sollevata quando notò una macchiolina di sangue
raggrumato intrappolato dentro alla benda. Ma non era certa se quello volesse
dire che era ancora umana…
“Ciao”.
Bion
sobbalzò così violentemente che fece un salto sul posto. Era stata così presa dai
suoi pensieri che non si era accorta di una persona sulla soglia della porta.
Bion
lo mise a fuoco: era un ragazzo, alto, massiccio e dall’aria gentile. Aveva i
capelli piuttosto lunghi, di un bel castano, stretti in una coda sulla nuca. Era
vestito con abiti semplici, da lavoratore, e teneva stretto tra le mani un
bicchiere. I suoi occhi azzurri, limpidi e sereni, la fissavano intensamente.
Mosse
qualche passo verso di lei con un’innata pacatezza che emanava da tutto il suo
essere. “Non volevo spaventarti, scusa”.
Bion
non riusciva ad articolare parole di senso compiuto. Tutto le sembrava irreale.
Chi era quel ragazzo? Perché le parlava come se fossero legati da una relazione
d’affetto e cosa ci faceva su quel letto?
“Mi
dispiace per il taglio” il ragazzo indicò con gli occhi la benda al polso di
Bion, “ho dovuto farlo, per accertarmi che fossi umana”.
Di
nuovo, puntò lo sguardo su Bion, che ne rimane trafissa. Aveva gli occhi
penetranti e molto più eloquenti di qualsiasi parola.
“Io
sono Kalb. Quasi dimenticavo di presentarmi… non voglio sembrare sgarbato, è
solo da molto tempo che non ricevo visite, di quelle gradite intendo”.
“Il
mio amico è salvo?” Bion quasi non si rese conto di aver parlato, ma era
contenta di averlo fatto.
Kalb
parve sorpreso e come elettrizzato dalla sua voce. “Certo che sì. Ma quando vi
ho trovati, era messo molto peggio di te. È nell’altra stanza, dovrebbe
rimettersi presto”.
“Quando
ci hai trovati?”
Di
nuovo, Kalb parve non aspettare altro che Bion gli facesse delle domande.
Sorrise e parve piuttosto divertito. Appoggiò il bicchiere sul comodino e si
sedette sul bordo del letto. “Eravate a faccia in giù nell’erba, poco distanti
da qui. Avete avuto fortuna che passassi di lì per cacciare qualche cervo…
insomma non è un area che frequento spesso, si trova molto vicino ad un Polo…”
Bion
non distolse gli occhi da lui un secondo, seguendo attentamente il movimento
delle sue labbra.
“Immagino
tu sappia cosa sono i Poli...” Kalb abbassò il mento, affondandolo nel collo e
la trapassò con uno sguardo fermo.
Bion
fu incerta su che cosa rispondere, così decise di fare un’altra domanda.
“Quando ci hai trovati, eravamo soli, o c’era qualcun altro in giro?”
Kalb
rise e lei ne fu sorpresa. “Intendi se c’era qualche Sostituto a inseguirvi? No,
penso che abbiano perso le tracce…”
“Ma
come fai a…”
“…
sapere che vi davano la caccia e che hanno abbattuto il vostro mezzo di
trasporto?” Kalb le lanciò un’altra occhiata divertita.
“Ho
sentito il boato dell’esplosione, mi sono messo all’erta e mi sono nascosto tra
i cespugli. Poco dopo ho sentito dei rumori nell’erba, e siete apparsi voi.
Siete come inciampati e siete caduti a terra. Avevate l’aria di essere
inseguiti, ho atteso qualche istante, ma nessuno era dietro di voi o, se c’era,
ha perso le vostre tracce. Quando mi sono avvicinato, ho capito che non eravate
inciampati. Pensavo foste morti, ma poi ho sentito il tuo respiro molto
flebile. Così ho deciso di portarvi qui. Un po’ di compagnia mi mancava” si
alzò dal letto e si avvicinò ad una finestra che Bion notò avere la forma di un
oblò. “Ma ahimè non sono riuscito a prendere nessun cervo”.
“Quanto
tempo sono stata addormentata?”
Kalb
sospirò, fissando un punto oltre la finestra. “Due giorni, ora più, ora meno”.
Bion
sgranò gli occhi. “Due giorni?” ripeté, scandendo lettera per lettera.
“L’ho
detto che eravate messi male, no?” disse Kalb, come se fosse la cosa più
normale del mondo.
Bion
era fuori di sé. Si alzò a sedere sul letto, inarcando la schiena in avanti. Non
riusciva a realizzare di come poteva essere successo. Due giorni in un letto
non suo, assistita da uno sconosciuto. Non era per niente il genere di cose che
le piacevano.
“Dove
siamo?” chiese ancora, lanciando uno sguardo stanco a Kalb.
Lui
lo ricambiò ed esitò prima di parlare. “Tu e il tuo amico siete umani, il che è
raro di questi tempi. Ma devo sapere da che parte state e quali sono le vostre
intenzioni”.
Bion
serrò la mascella. Immaginava che quel momento sarebbe arrivato. Era da
imprudenti e da ingenui fidarsi ciecamente di sconosciuti, umani o non. E di
certo quel ragazzo non aveva per niente l’aria di essere uno stolto.
“Ci
hai salvato. Perché, se non ti fidavi di noi?” domandò infine.
Kalb
le rispose per l’ennesima volta con un sorrisetto. “Sono solo un buon samaritano,
non si nota?” si puntellò il petto con la punta delle dita e non riuscì a
trattenere una risata sommessa.
Bion
si domandò come faceva a trovare tutto così divertente. Aggrottò le
sopracciglia e abbassò lo sguardo sulla ferita al polso. “Tu sai che noi siamo
umani, ma io non so cosa sei tu”.
Kalb
pareva attendersi quella risposta. Piegò il capo all’indietro, senza smettere
di sorridere. “Puoi fidarti quando ti dico che non c’è nessuno più umano di
me”.
Bion
rimase impassibile.
“Ma,
nel caso non ci credessi…” estrasse con un gesto veloce un pugnale piccolo,
molto simile ad un coltello e si passò la lama all’altezza del polso. Soffocò
un gemito e fece una piccola smorfia. Sangue caldo e rossastro prese a sgorgare
dalla ferita. Sul suo volto ritornò un’espressione allegra, mentre alzava il
polso e lo mostrava chiaramente a Bion. “Soddisfatta?”
Il
rivolo di sangue scese fino a metà braccio. Kalb aprì un cassetto del comodino
e ne estrasse un fazzoletto bianco un po’ spiegazzato. Se lo tamponò sulla
ferita, e tornò a guardare Bion.
“Che
c’è? Non pensavi che l’avrei fatto?”
La
ragazza era esterrefatta. Chiunque egli fosse, le sembrava sempre più degno
della sua fiducia.
“Adesso,
cosa stavate facendo tu e il tuo amico?”
Bion
distolse lo sguardo da Kalb e iniziò a studiare le linee che attraversavano il
palmo della sua mano. “Io sono contro Sycor, e anche il mio amico lo è. Gli
umani dovrebbero coalizzarsi, non pensi?”
Kalb
parve piuttosto sollevato e contento di ricevere finalmente una risposta degna
di essere tale. Ritornò accanto al letto e si sedette sul bordo, scostando un
po’ le lenzuola. “È curioso che tu l’abbia detto, perché è proprio quello che
sogno di fare. Radunare ogni umano rimasto su Hestla –sempre che ce ne siano,
ma dopo il nostro incontro mi sento più speranzoso – e andarcene da qui.
Trovare un posto migliore, senza Sostituti, senza esperimenti, laboratori,
guerra e paura”.
Bion
inarcò le sopracciglia. Quelle parole messe tutte insieme le davano troppo la
sensazione di utopia.
“So
che può sembrare troppo per una persona sola. Ma qualcuno ci deve provare, no?
Insomma, non sarebbe bello iniziare una nuova vita senza più la tensione di
essere scoperti e trasformati?”
“E
come intendi fare per trovare gli umani sopravvissuti?”
Kalb
sorrise. “Ci sto lavorando. La soluzione è vicina”.
“Ti
piace parlare ad indovinelli, non è così?”
Il
sorriso del ragazzo si allargò. Le sue pupille si mossero su e giù in quelle di
Bion per un lungo momento. Era come se volesse leggerle nella mente. “Be’, in
fondo chi sei tu per sapere ogni mio segreto?”
Bion
rimase spiazzata. Abbassò gli occhi, imbarazzata, per poi rialzarli un secondo
dopo. Ma Kalb la guardava ancora come si guarda una persona che ha bisogno di
affetto e compassione. La fece sentire terribilmente inferiore, come se stesse
per morire di fame e lui fosse l’unico uomo sul pianeta in grado di sfamarla. E
quella sensazione non le piacque neanche un po’.
Kalb
si alzò. Unì le mani con uno schiocco. “Ora che sei sveglia magari hai un po’
di fame…”
Non
attese la risposta di Bion, le voltò le spalle e si avviò alla porta. Un attimo
prima di andarsene, appoggiò una mano allo stipite e si volse di tre quarti.
Indugiò, come se avesse dimenticato una cosa importante, ma non sapesse se era
il caso di tornare a prenderla.
“A
proposito, non mi hai detto come ti chiami”.
Bion
scorse il suo sguardo, non era più divertito e sorridente come poco prima. Non
la guardava, semplicemente restò immobile, in attesa, senza nessuna precisa
espressione sul volto.
“Io…
Bion… mi chiamo Bion”.
“La
cucina è in fondo al corridoio, Bion”. E uscì dalla stanza.
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Capitolo 11 *** Il Viaggiatore Solitario - Parte 2 ***
9
Il viaggiatore solitario
seconda parte
Mentre
mangiava, Bion si convinceva sempre di più che quella colazione, quel ben di
Dio, era la cosa migliore che le fosse capitata da tanto tempo. O forse era il
fatto di non aver ingerito niente per due giorni e di avere il corpo così
svuotato che qualunque cosa ingurgitasse le sembrava una benedizione.
Kalb
la osservava con interesse. “Vedo che apprezzi la mia cucina, è un vero piacere
starti a guardare”.
I
loro sguardi si incontrarono, e Bion si accigliò. Il sorriso sul bel volto di
Kalb si affievolì appena, prima che lui abbassasse il capo.
“Grazie,
davvero” fece Bion.
Ma
lui sembrava offeso per qualcosa. Si disse che forse gli era balenato alla
mente qualcosa riguardante qualcosa di personale che lo aveva rattristato.
“Pensi
che possa vedere Rigel? Ehm, il mio amico…”
Kalb
non la guardò. Si lasciò cadere fiaccamente su un divano e borbottò un “certo”.
Bion
uscì dalla stanza e ripercorse il corridoio, l’unica parte di quella casa che
avesse visto fino ad allora. C’erano altre due porte, oltre a quella della
stanza dove si era risvegliata. Ne aprì una, ma si rivelò essere un bagno
piccolo e ordinato, da cui saliva un fresco profumo di pulito. Andò avanti e
aprì l’altra.
La
stanza era in penombra, perché il sole non batteva così forte oltre le
finestre, da quella parte. Inoltre, c’erano due tendine grigie ricamate, che
facevano da filtro ai raggi del sole.
Il
letto era a due piazze, ampio e d’intaglio antico. Un’occhiata veloce
all’arredamento circostante le fece pensare che quella camera doveva essere
appartenuta ad una vecchia signora.
Rigel
era steso, il volto quasi interamente ricoperto di bende appoggiato sul
cuscino. Gli occhi – una delle poche parti che la fasciatura lascia intravedere
– erano chiusi. Il petto si alzava e s’abbassava placido.
Bion
si avvicinò al suo capezzale. Appoggiò una mano sul letto, molto vicina ad una
delle sue, dischiusa sulle candide lenzuola. Voleva prendergliela, toccarla
come avevano fatto a Tiva, anche se era stato solo per scherzo. Ma non lo fece.
Rimase ferma, distante e continuò a guardarlo.
Di
colpo, si ricordò il suo volto traumatizzato, coperto di lacrime e sangue, che
aveva visto un attimo prima di svenire nel bosco. E si ricordò anche di Freya,
della splendida lince rossa che non sarebbe più zampettata al loro fianco come
un angelo custode.
Bion
sentì gli occhi bruciarle e il respiro mozzo. Proprio lei che non piangeva mai,
ora si ritrovava a farlo per un animale di cui non le era mai importato tanto.
Ma
per Rigel era diverso. Freya era stata la sua anima gemella per così tanto
tempo…
Forse
era per quello che piangeva. Per come Rigel l’avrebbe presa una volta sveglio.
Per quello che avrebbe provato sapendo per davvero che la lince l’aveva
lasciato.
“È
il tuo ragazzo?”
Bion
lanciò un grido sommesso. Si asciugò gli occhi con le dita e si voltò. Kalb era
appoggiato allo stipite della porta, le mani comodamente infilate nelle tasche
del giubbotto e le gambe incrociate.
“No…
no”.
“Ah”.
Bion
fu certa di aver intravisto il lampo di un sorriso sulle sue labbra, prima che
abbassasse di nuovo il mento.
“È
solo un amico”.
“Strano.
Non l’avrei detto”.
Bion
camminò verso di lui lentamente. “Cosa vuoi dire?”
Kalb
arretrò fino a trovarsi con la schiena contro il muro del corridoio. Guardò
Bion dall’alto, mentre un rinnovato sorriso gli compariva sulle labbra.
Lei
lasciò la porta della stanza di Rigel socchiusa, prima di uscire.
“Soltanto
che non sembrate conoscervi bene abbastanza da essere amici”.
Bion
lo fulminò con un’occhiataccia. “E tu? Tutte queste camere, cucini, sei un buon
samaritano, e non hai neanche un po’ di compagnia?”
Kalb
continuò a fissarla ostinatamente. Proprio come se non avesse mai visto
nient’altro che valesse la pena di essere osservato. Come se non riuscisse a
staccarle gli occhi di dosso, nemmeno se avesse voluto.
“Le
Sostitute non mi attirano”.
Bion
sbuffò una risata. Lo guardò, sentendosi improvvisamente contagiata dalla sua
spensieratezza. “Posso chiederti quanti anni hai?”
“Perché?”
“Curiosità”.
“Ventiquattro”.
“E
come mai non ti hanno ancora trasformato?”
Kalb
si morse il labbro. “Non mi hanno cercato nei posti giusti. Oppure, molto più
probabile, non sono abbastanza interessante perché lo facciano”.
All’improvviso,
Bion si rabbuiò. Il sorriso si spense dalle sue labbra, e capì perfettamente
dove Kalb voleva andare a parare. Nessuno l’aveva mai cercato, voleva dire che
a nessuno importava se lui fosse ancora umano o meno. Invece loro, lei e Rigel,
erano stati seguiti, attaccati e quasi uccisi. Loro sì, che erano interessanti.
E Kalb voleva sapere come mai.
“Cosa
intendi?” Bion gli si avvicinò ancora di un passo, fino a trovarsi molto vicino
a lui. Lo scrutò attentamente.
“Mi
chiedo cosa portiate con voi. Sembra che siate piuttosto ricercati. Voglio
dire, non avevo mai visto tanti Sostituti armati tutti in una volta…”
Bion
era pensierosa. Da quello che ne sapeva, sia lei che Rigel erano preziosi per
Sycor. Ricordò con un tuffo al cuore quello che aveva sentito dire ai militari
mesi prima, riguardo all’assidua ricerca di Rigel che però non aveva fruttato
nessun risultato. E poi c’era lei, che gli era scappata da sotto gli occhi…
Ma
ogni pensiero le scivolò via e non dovette ribattere a Kalb, perché una voce
flebile li raggiunse alle loro spalle. Bion si riscosse e socchiuse la porta
della stanza di Rigel. Entrò; Kalb la seguì.
“Ehi…”
Rigel
era sdraiato, l’espressione fissa al soffitto. Teneva gli occhi socchiusi e
sembrava ancora debole e non del tutto presente a sé stesso, come nel
dormiveglia.
“Come
ti senti?” chiese Bion in un sussurro.
Lui
voltò il capo, l’espressione stanca e assente.
“Stavo
riflettendo se dirvelo o meno, ma comunque lo avreste scoperto ugualmente.
Benvenuti a bordo di Chérie” Kalb allargò le braccia in un teatrale
gesto, “la mia astronave”.
Entrambi,
perfino Rigel sotto il fitto intreccio di bende, gli lanciarono uno sguardo
esterrefatto che fu accompagnato dalla risata bassa e armoniosa di Kalb.
“Non
la trovate magnifica? E non avete ancora visto niente”.
“Questa
è un’astronave?” borbottò Bion, confusa. Sapeva parecchie leggende sulle astronavi,
le era stato detto fin da piccola che erano macchine volanti immense e molto
rare, di solito tramandate come un tesoro preziosissimo da padre a figlio per
generazioni. Il possessore di un’astronave era legato ad essa da un vincolo
invisibile, e spesso spezzarlo era impossibile, se non con la morte.
Questo
gli impediva di vivere una vita normale, essendo costretto a prendersi cura
dell’astronave prima di tutto.
Bion
lanciò un’occhiata amareggiata a Kalb: ora comprendeva quale doveva essere il
suo stato d’animo. Avrebbe voluto rimangiarsi le parole dette in corridoio.
“Penso
che il tuo amico abbia bisogno di riposo, ora. La notizia l’ha sconvolto e
forse farà più fatica ad addormentarsi. Andiamo di là”.
Bion
guardò Rigel: per come lo conosceva, non era uno che si lasciava prendere
troppo dalle emozioni. E infatti il suo sguardo era tornato impassibile,
sebbene un po’ scombussolato. E non aveva detto niente riguardo a Freya…
Probabilmente
era ancora sotto sedativi, o qualunque cosa Kalb gli avesse dato per attutire
il dolore. Si notava che non era ancora pienamente in sé, sveglio e vigile. Così
decise che era meglio fare come aveva detto Kalb, e lasciarlo riposare. Mentre
si allontanava, Rigel richiuse gli occhi.
“Siamo
di nuovo tu e io”.
Quando
si volse, incontrò gli occhi celesti di Kalb che la scrutavano, qualche spanna
sopra di lei e le venne spontaneo domandarsi se non avesse fatto apposta ad
intromettersi nella conversazione per darle un taglio.
“Perché
non andiamo a sederci in salotto?”
Bion
rimase a bocca aperta alla vista di quello che lui aveva definito “salotto”.
Gli pareva una parola molto riduttiva. Era una stanza enorme, almeno grande tre
volte la sala della casa di Rigel. Era arredata in modo sfarzoso, lussuoso.
C’erano quadri alle pareti, tavolini con sopra eleganti soprammobili, un
tappeto rosso e oro e perfino un arazzo appeso ad una parete. Sulla destra
della stanza c’erano un paio di divani bianchi all’apparenza molto soffici e
comodi, accompagnati da una poltrona in tinta unita e un tavolo basso su cui
troneggiava un ampio vaso di girasoli.
La
cosa che stonava nella stanza e che Bion notò subito, era una piccola porta in
fondo, grigia, di metallo, molto moderna che non ci azzeccava affatto con il
resto della mobilia così antica e ricercata.
“La
sala comandi”.
Kalb
le apparve di fianco, le braccia incrociate sulla schiena e il volto che non
tradiva emozione. “Ti stavi chiedendo cosa c’è oltre quella porta, no? La sala
comandi” spiegò, in tono pratico e alquanto divertito.
Bion
gli sorrise. Averlo accanto le faceva una strana impressione. Non lo conosceva,
ma quando la guardava in quel modo così gentile e un po’ malinconico, le sembrava
che la conoscesse da sempre.
I
suoi modi le piacevano. Non aveva mai conosciuto nessuno che le riservasse
tutte quelle attenzioni e allo stesso tempo sapesse il fatto suo abbastanza da
non apparire appiccicoso. E forse, dopotutto, anche lei le aveva fatto una
buona impressione…
Si
scrollò quei pensieri dalla testa e seguì Kalb fino ai divani. Si sedette e
prese un bicchiere colmo di un familiare liquido violaceo che lui le offrì un
istante dopo. Era succo di lampone.
Kalb
prese posto sull’altro divano, di fronte a Bion, sporgendosi sul tavolino.
“Allora,
vuoi chiedermi qualcosa?”
Bion
alzò gli occhi su di lui, che la fissava con un lieve sorriso sulle labbra.
Appoggiò il bicchiere di succo sul tavolino tra di loro e posò le mani sulle
ginocchia. “Ho sentito parlare delle astronavi più come leggende e ora, be’,
sono solo molto affascinata…”
“Da
me?”
Bion
non poté evitare di sorridere. Si trattenne. “Da ogni cosa”.
Kalb
annuì sapientemente senza toglierle gli occhi di dosso. “Cosa vuoi sapere?”
“Perché
pensi che voglia sapere qualcosa?”
“Perché
è quello che traspare dalla tua faccia ogni minuto da quando ti sei svegliata”.
Era
tornato per un istante serio e la scrutava con attenzione.
“Devi
avermi osservata bene” sussurrò lei strappandogli un mezzo sorriso. “Tu sei
umano. Cosa ci fai qui? Hai un’astronave, potresti andartene, fare qualcosa…”
“Tipo
cosa?”
Bion
ci pensò un attimo. Non sapeva cosa, ma pensava che con un potere del genere,
possedere un’astronave dovesse almeno permettergli di fare qualcosa di
grandioso. Ma forse non era necessariamente vero. Forse avere un’ astronave non
significava avere il potere di cambiare il mondo.
“Ti risponderò”, disse
Kalb, “anche alle domande che non mi hai fatto”.
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Capitolo 12 *** Rivelazioni - Parte 1 ***
10
Rivelazioni
prima parte
Era
passata ormai una settimana dalla visita di Zaniah quando, una mattina, Galen
si svegliò stranamente di buon umore.
Schizzò
fuori dal letto e raggiunse un calendario appeso alla parete. Lo scorse con il
dito, fino ad arrivare alla data corrispondete a quel giorno.
Esultò
in silenzio, dopo aver letto una scritta sbiadita appuntata a mano.
Si
lavò e si vestì velocemente per poi catapultarsi in salotto. Sua madre era
comodamente seduta al tavolo da pranzo, sorseggiando un tè con la cannella e
leggendo distrattamente un quotidiano.
“Ben
alzato”.
Galen
le corse incontro, le stampò un bacio sulla crocchia di capelli biondi e prese
due fette di pane da un cesto sul tavolo.
“Non
che mi faccia piacere, ma come mai tutta questa allegria?” domandò Chara
aggrottando appena la fronte.
“C’è
la visita, oggi” rispose Galen, inspirando una potente ondata di cannella.
“Già,
quando mai si è visto qualcuno triste per una visita medica?” lo canzonò sua
madre.
Galen
scoppiò a ridere. “Hana verrà con me, giusto?”
Chara
annuì e sorseggiò altro tè.
Il
ragazzo abbassò lo sguardo sul pane. Sarebbe stata l’occasione perfetta per
parlare ad Hana, finalmente senza il rischio di essere visti o sentiti. Per una
settimana non avevano comunicato granché. Ma era impossibile non notare lo
stato d’animo della ragazza. Era spesso distratta, tra le nuvole. Aveva gli
occhi spenti e molte volte rossi di pianto. Chissà come aveva interpretato le
sue parole. Doveva averla spaventata a morte, per avergli detto la verità. E
quel giorno, finalmente, avrebbero potuto chiarirsi. E poi, c’era un’altra cosa
importante che non vedeva l’ora di dirle.
Proprio
in quel momento, la porta della stanza di Hana si aprì e lei uscì in salotto
accompagnata da un certo silenzio. Galen e Chara la fissarono.
Indossava
la solita tunica rosa sbiadito delle Aiutanti, ma doveva essere una di quelle
di ricambio, che teneva stipate nell’armadio da usare in occasioni particolari.
Una cordicella le stringeva blandamente la vita. Indossava un paio di saldali
alla schiava, che le fasciavano il piede e la gamba fin sotto al ginocchio con
delle strette fasce di cuoio.
I
capelli biondi erano raccolti in una coda morbida, adagiata sulla spalla.
In
realtà non aveva nulla di diverso della sua solita divisa da Aiutante, a parte
forse la pettinatura. Tuttavia, era più bella del solito.
“Ci
vediamo dopo” biascicò Chara, tornata a concentrarsi sul giornale.
“Sì,
a dopo” ribatté Galen. Si affiancò ad Hana e insieme uscirono di casa alla luce
del sole già alto nel cielo.
Si
allontanarono un po’ dalla casa senza parlare. Galen si lanciava occhiate
furtive attorno, ad accertarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi.
“Tutto
bene?” Hana alzò gli occhi su di lui, e li socchiuse per il sole.
“Devo
parlarti, da giorni. Mi sto solo accertando che nessuno ci ascolti”.
Hana
abbassò lo sguardo e annuì con il capo. “Cosa volevi dirmi?”
Galen
smise di girarsi in continuazione e si arrestò su di lei. La fissò dall’alto e
la vide così ingenua e pura. Gli fece male dover iniziare quel discorso, ma se
voleva salvarla veramente, era necessario.
Sei
un po’ come la mia seconda occasione. Gli sembrò di risentire le parole di suo
fratello. La sua seconda occasione. Già, era proprio quello che doveva
essere per Hana.
“Mi
dispiace non aver potuto parlarti per tutto questo tempo. Ma devi sapere che la
casa è sorvegliata da mio padre. Ci sono telecamere ovunque, persino in bagno,
ma non in giardino. Mi dirai che avrei potuto parlarti lì, ma mi sono detto che
dopo la visita di mio fratello, un gesto del genere avrebbe cacciato nei guai
tutti quanti”.
Fece
una pausa, e incontrò lo sguardo di Hana.
“Penso
che abbia già rischiato parecchio dicendomi la verità. Dopo la mia sfuriata a
pranzo, ha trovato una scusa per chiamarmi in giardino. Ma se io avessi trovato
una scusa per chiamare te, in giardino, mio padre avrebbe pensato che Zaniah mi
avesse detto tutto e che io stessi cercando un modo per dirlo a te. Non so se
mi segui”.
Hana
annuì.
“Fantastico,
perché certe volte penso di avere un cervello piuttosto contorto” rise e Hana
lo imitò.
“E
allora tuo fratello è buono?”
“Oh,
sì. Sorprendente, vero?”
Hana
inarcò le sopracciglia e sbuffò una risata.
“Senti.
Le cose che ti ho detto a pranzo… erano vere. Mio padre sta realizzando un
progetto che va avanti da anni. Vuole trasformare tutti gli esseri umani in una
razza superiore. Li chiamano Sostituti, perché in pratica è esattamente ciò che
sono. Sostituti degli umani, stesso aspetto, soltanto molto migliorati in
resistenza fisica e psicologica. Ma si può dire siano ancora un prototipo,
sebbene siano passati decenni dal primo Sostituto creato. Voglio dire che
nemmeno loro sono perfetti. Si ammalano e muoiono. Mio padre sta proprio
studiando una cura, per protratte la loro vita più a lungo possibile”.
“Si
ammalano? Muoiono? Ma allora non c’è differenza con gli umani!”
“Sì,
invece. Per esempio, hanno solo un punto debole. Della serie che gli puoi
sparare ovunque, ma se non li becchi in mezzo alla fronte, loro continuano a
camminare”.
Hana
fece una smorfia disgustata.
“E
diciamo che sono macchine da guerra perfette. Non hanno sentimenti molto
profondi, non quanto quelli umani”.
“Quindi
non sono nemmeno capaci di odiare profondamente” constatò Hana.
“No.
Ma non serve provare odio profondo per uccidere qualcuno. Almeno non per loro.
Le sentinelle di mio padre rispondono a comando, sono stati addestrati per
questo. Ma i Sostituti normali, quelli che non hanno subito un addestramento
militare – donne, bambini, lavoratori – sono più normali”.
Hana
restò pensierosa.
“Non
voglio mettere Zaniah nei guai. Lui lavora per mio padre, e se mai scoprisse
che lo ha tradito, come minimo lo trasformerebbe in un Sostituto”.
“È
terribile” commentò lei abbassando la voce di parecchi toni. Affondò lo sguardo
nel terreno asfaltato sotto i suoi piedi, “quindi anche io diventerò un
Sostituto?”
Galen
la fissò a bocca aperta, per un attimo incerto su come usare al meglio le
parole. “Tu sei un’Aiutante, e come te molte altre. Già lo sai, è così che vi
chiamano. La trasformazione può avvenire solo al compimento del ventesimo anno
di età. Per motivi genetici. Il Sostituto non può sopravvivere se lo sviluppo
dell’essere umano non è completo. Ma quando mio padre trova umani, non gli
importa che età abbiano, in qualche modo si deve accertare che, raggiunti i
vent’anni, vengano trasformati. Quindi le ragazzine della tua età vengono
inviate a fare le cameriere nelle case di persone importanti, mentre i maschi
sono spediti a lavorare in fabbrica e nei campi”.
Galen
fece un’altra pausa e valutò lo stato d’animo di Hana. Aveva gli occhi
spalancati, era sconcertata. Si fermò e la prese per le spalle. Si chinò in
avanti per guardarla negli occhi. “Hana, non lascerò che ciò accada. Mai”.
Lei
sbatté le palpebre e finalmente i loro sguardi si incontrarono.
“Ho
un piano. E se andrà bene saremo tutti salvi. Tutti quanti. Ma ho bisogno anche
del tuo aiuto. Zaniah ha già fatto molto, raccontandomi tutto. Mi ha anche
detto che io sono la sua seconda possibilità. Mia madre, Zaniah, tu… ci sono
così tante persone che hanno bisogno di una seconda chance. Io voglio
darvela. Voglio combattere e voglio vincere. Sei con me?”
Gli
occhi di Hana indugiarono a lungo nei suoi. Il labbro inferiore le tremava.
Annuì.
Galen
le strinse a sé lievemente, come se avesse paura di romperla. “Grazie” le
sussurrò.
Si
staccò da lei e buttò un’occhiata all’orologio a polso. “È quasi ora della mia
visita” le prese le braccia e la strinse forte. “Ascoltami, Hana. È
fondamentale che coinvolgiamo il maggior numero di persone possibile. Devi
parlare con le altri Aiutanti. Devi convincerle a collaborare”.
“Cosa?
Ma io…”
“Ti
prego. So che puoi farcela. Quando vai al mercato, o da qualunque altra parta,
devi cercare di conoscerle e fartele amiche. Dovete riunirvi, essere determinate”.
“Qualcuna
già la conosco. Quel giorno, con me, hanno rapito anche due mie amiche di Keel”
ricordò Hana, stringendosi nelle spalle.
“Fantastico!”
esultò Galen e lei lo guardò di traverso. “Certo, non perché le hanno rapite. Ma
se già le conosci, potrai chieder loro di spargere la voce, e così tutte
saranno al corrente della verità, di quello a cui andate incontro!”
“D’accordo.
Ci proverò”.
Galen
si raddrizzò con l’espressione sollevata. “Un’ultima cosa” infilò una mano
nella bisaccia che portava a tracolla e ne estrasse un aggeggio minuscolo,
quadrato e un po’ bombato sui lati. Aveva un display di fronte e due antenne
poste sul retro. Galen glielo mise in mano. “È una ricetrasmittente” disse in
tono pratico.
Hana
lo guardò interrogativa.
“Serve
per comunicare a distanza. Mia madre me ne aveva regalata una quand’ero
piccolo, e così mi ha dato l’idea. Ne ho fatte fare altre. Ogni volta che
porterai dalla nostra parte qualcuno, gliene darai una. Ma solo quando sarai
davvero convinta della fedeltà di quella persona. Così potremo comunicare in
ogni momento, se ce ne fosse bisogno. Ma nessuno deve saperlo, nessuno. Neanche
mia madre, o Zaniah, intesi? Percui cerca di tenerla ben nascosta”.
Hana
si rigirò la ricetrasmittente tra le dita. Era davvero minuscola, grande quanto
una zolletta di zucchero. Chiuse il palmo e lo riaprì. Rimaneva nascosta alla
perfezione. La infilò nella sua bisaccia.
“Grazie,
Galen”.
Lui
annuì e le appoggiò una mano sulla spalla. “Andiamo, adesso o faremo tardi” si
incamminò, ma Hana rimase ferma.
“Ehi,
potresti essere davvero la nostra seconda occasione” mormorò.
E
lui sorrise.
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Capitolo 13 *** Rivelazioni - Parte 2 ***
10
Rivelazioni
seconda parte
Hana giocherellava con
la corda della sua bisaccia. Era seduta su una panchina, nella via principale
di Nallav. C’era il mercato, percui nessuno faceva troppo caso a lei. Aveva
seguito il consiglio di Galen di restare un po’ di più dopo aver fatto la spesa:
c’era la possibilità che vedesse qualcuna delle altre Aiutanti.
Le aveva anche assicurato
che si sarebbe occupato lui di sua madre, così non avrebbe dovuto subire una
sgridata che non si meritava.
Ma Hana era preoccupata.
Stava seduta là da più di mezz’ora ormai, senza l’ombra di nessun viso
conosciuto.
Sospirò. Galen era molto
convinto del suo piano, al contrario di lei. Forse, se avrebbe avuto un po’ di
fortuna dalla sua, poteva anche cambiare idea.
Voltò il capo a destra e
a sinistra. Suo malgrado, incrociò gli occhi di uomini che la fissavano,
incuriositi. Capì che non era più una buona idea starsene seduta lì.
Si alzò e s’incamminò,
trascinandosi il sacco della spesa di fianco.
Qualcuno la urtò e le
fece alzare il capo. Non era un uomo, e nemmeno una donna.
Era una ragazzina.
Proprio come lei. E già si stava proferendo in scuse a non finire. Conosceva
molto bene quella voce. Per poco non le mancò il fiato, a risentirla.
“Nadie?” chiese, pur
sapendo la risposta.
“Hana, sei proprio tu?”
ribatté la ragazza, squadrandola con gli occhi spalancati.
Hana fece un gran
sorriso. Era bello rivederla.
Ricordò l’immagine della
sua amica, quando andavano a scuola a Keel. I capelli neri come la notte, corti
sulle spalle, mossi. Gli occhi di quel verde sfavillante. La bocca rosata e la
carnagione pallida. Ricordava quanto i ragazzini a scuola cercassero in tutti i
modi di attirare la sua attenzione. La chiamavano spesso Biancaneve, per
il suo aspetto che ricordava la protagonista di una fiaba del vecchio mondo.
Ora, avrebbe giurato che
non ci assomigliasse più tanto. Era terribilmente magra, la pelle più scura e
sciupata. Gli occhi vitrei e i capelli unticci legati in una coda dismessa.
Hana chiese cosa avesse passato
in quei lunghi mesi.
L’abbracciò.
“Pensavo che non ti
avrei mai più rivisto” disse Nadie.
Hana le accarezzò la
schiena fragile. Si scostò per guardarla in volto. “Cosa ti hanno fatto?”
Nadie scattò in una
risatina triste. Aveva gli occhi colmi di lacrime. “Esperimenti” borbottò,
cercando di nascondersi il volto dietro le braccia.
Hana sentì il cuore
mancare un colpo.
“Ma sto bene. Ormai ci
sono abituata”.
“Come puoi stare bene?
Guarda come ti hanno ridotta” Hana prese il viso dell’amica tra le mani.
Guardarla le faceva male. I bei momenti spensierati a Keel sembravano
appartenere ad un’altra vita.
All’improvviso, il piano
di Galen si tramutò in priorità. Al diavolo i dubbi. Doveva almeno provarci, e
se non avesse funzionato, be’ tanto erano già tutti morti.
“Hai tempo per parlare?”
Nadie la guardò
inquieta. “Wanda dovrebbe essere qui tra poco”.
Hana la fissò. “Wanda?
Sul serio?”
L’amica annuì. “Da
quando ci siamo incontrate, per caso, mesi fa, abbiamo deciso di continuare a
vederci, per darci forza, per restare vive insieme. Ma questo sembra l’unico
posto possibile per farlo, in ogni altra parte siamo controllate”.
Hana si vergognò. Le
sue due più grandi amiche si erano incontrate quasi tutti i giorni, rischiando
la vita pur di guardarsi negli occhi, ricordare i bei momenti passati e
incoraggiarsi a vicenda. Lei, invece, non ci aveva mai pensato. Andava al
mercato in tutta fretta, timorosa di tornare a casa in ritardo ed essere
rimproverata. Era stata egoista? O aveva semplicemente dato per scontato che le
sue amiche non fossero raggiungibili, che non le avrebbe mai più riviste?
“Sarà magnifico
rivederla” disse con un sorriso amaro.
Restarono ad aspettare
Wanda per pochi minuti. Lei sventolò una mano da lontano, un sorriso enorme
stampato in viso. Quando Nadie le lanciò un’occhiata eloquente, Wanda abbassò
la mano e strinse i denti, incapace di frenare l’entusiasmo in mezzo alla folla.
Hana non poté fare a
meno di ridere. Wanda era fatta così: allegra, spumeggiante, solare. Era lei
che le tirava su di morale, quando qualcosa andava storto. Ricordò i piccoli
problemi quotidiani che avevano a Keel. I ragazzi che beffeggiavano Nadie per
attirare la sua attenzione, un brutto voto a scuola, non abbastanza soldi per
comprarsi quel braccialetto di zaffiri …
Tutto era insulso,
insignificante, paragonato ai problemi che avevano adesso. La loro vita era
cambiata troppo presto.
Wanda lanciò un
gridolino soffocato e buttò le braccia al collo di Hana. “Non posso crederci!
Sei davvero tu!”
Hana la strinse. “Anche
tu sei sempre la stessa. È bello rivederti”.
Wanda allungò una mano,
ad accarezzare affettuosamente i capelli di Nadie. “Come ci trovi?” chiese,
tornando a guardare Hana.
“Bellissime come
sempre”.
Wanda scoppiò in una
risata sommessa. Nadie abbassò lo sguardo.
“Sarà merito di questa
tunica” commentò Wanda, dandosi dei buffetti sulla scollatura della divisa rosa
da Aiutante.
Hana la guardò. Era
evidente che avesse perso parecchio peso. I suoi fianchi e il suo seno, un
tempo rotondi e abbondanti, ora erano flaccidi e pressoché scomparsi. I capelli
biondi, che a Keel portava corti e ondulati, ora le ricadevano sulle spalle,
con onde appena accennate. Gli occhi azzurri nascondevano qualcosa.
A Keel, la madre di
Wanda non le permetteva di truccarsi. E lei spesso si truccava in giro,
incapace di resistere. Adesso non c’era nemmeno la traccia di cosmetici sulla
sua pelle, ma lei sembrava aver passato quella fase di ribellione dalla madre.
Forse, adesso che le era lontana, quello era un modo indiretto di scusarsi con
lei, di voler sottostare a quella semplice regola purché le fosse permesso
riabbracciarla.
Perché Wanda appariva
così spensierata? Era un po’ il suo carattere, il suo modo di essere:
nascondere i problemi e le preoccupazioni persino agli amici. Preferiva ridere,
anche se c’era da piangere. Cosa aveva dovuto passare, dopo essere diventata
Aiutante? In cosa doveva aiutare quei depravati?
“Vorrei parlarvi di una
cosa importante, ragazze. Ma non qui. Cerchiamoci un posto più tranquillo”.
Hana guidò le due amiche
lungo la via del mercato, contro senso rispetto alla maggior parte del flusso
di persone. Voltarono in una strada, attraversarono un isolato di case e
giunsero in un ritaglio di verde nel centro della città. Un parco, con bambini
che si dondolavano sulle altalene, ragazzi che facevano jogging e altri che
passeggiavano godendosi l’aria estiva.
Le tre ragazze presero
posto sul prato, sedendosi in cerchio.
Hana non sapeva come
iniziare. Così aprì le labbra e lasciò uscire le parole da sole. Raccontò loro
tutto quello che Galen le aveva detto. Che erano spacciate, che sarebbero state
trasformate in Sostituti. Spiegò loro chi erano le persone per cui lavorava:
Galen, Chara e Sycor. Disse che Galen odiava suo padre e che, con l’aiuto di
suo fratello, aveva ideato un piano per combatterlo. E che aveva bisogno del
maggior numero di alleati possibile.
Quando ebbe finito,
ripassò mentalmente le sue parole, accertandosi di non aver taciuto nulla.
Wanda e Nadie si
lanciarono un’occhiata. Non sembravano né contente, né particolarmente
convinte.
“Vuoi dire che dovremo
combattere? Con le armi?” domandò Wanda.
“Se sarà necessario”.
Wanda arricciò le labbra
e prese a strappare fili d’erba nervosamente.
“Speravo in una reazione
diversa” continuò Hana, spostando lo sguardo da un’amica all’altra. “Avete
paura? Anche io. Ma guardate in che situazione siamo. Potrebbe essere la nostra
occasione per tornare a Keel, per fuggire da tutto questo!”
Nadie la guardò con un
misto di speranza e preoccupazione.
“Vuoi tornare a Keel? E
pensi che la nostra vita possa ricominciare normalmente?”
Hana era impegnata a
fissare Nadie, ma fu Wanda a parlare. Si voltò verso di lei, stupita. Aveva lo
sguardo cupo, senza più traccia della vivacità che la contraddistingueva.
“Tu forse potrai avere
qualche possibilità. Tutto sommato sei stata fortunata. Ma hai visto Nadie? Hai
visto come l’hanno trasformata? Pensi che ci siano ancora ragazzi disposti a
farle la corte?”
Wanda aveva alzato la
voce, attirando l’attenzione di uno scoiattolo impegnato a rincorrere una
ghianda. Hana la fissò, e un misto di rabbia e disperazione s’impossessarono di
lei. Ma contro le parole di Wanda non poteva farci niente. Aveva ragione, e lei
lo sapeva. Anche se Nadie si fosse ristabilita, dubitava sarebbe tornata la
bellissima ragazza di un tempo. Sarebbe rimasta irrimediabilmente rotta,
spezzata.
“Che cosa ti hanno
fatto, Wanda?” le chiese in un sussurro. Voleva, doveva sapere. Per
colpa loro, la sua brillante amica non sarebbe più tornata.
Wanda indugiò a lungo,
combatté con le lacrime perché non uscissero. Alla fine irruppe in un pianto
colmo di singhiozzi. Si nascose il volto tra le mani.
Hana le si avvicinò, e
anche Nadie. L’abbracciarono, l’accarezzarono con dolcezza.
“Stai tranquilla. Va
tutto bene” ripeteva Hana, cercando di calmarla, di farle capire che non doveva
combattere da sola.
“Mi occupo di una fattoria,
insieme ad alcuni ragazzi della nostra età, rapiti anche loro. Gli animali mi
piacciono. Ma di sera, quando gli altri ragazzi se ne vanno a dormire stipati
nelle stalle, io vengo chiamata. Sono loro che mi chiamano, gli uomini che
lavorano in quei laboratori. E io devo andare, perché non posso dormire nella
stalla. Non so perché, ma fanno esperimenti solo sulle femmine. Mi stendo su un
lettino, mi cingono polsi e caviglie. Una luce intensa di accende su di me. Poi
arrivano le scosse. Una, due, tre. È terribile. Quando perdo i sensi, non so
cosa mi fanno, ma la mattina mi risveglio sempre con nuove cicatrici. Mi danno
molto da mangiare, certe volte anche troppo, ma non posso lasciare niente nel
piatto. Dopo vomito. E torno a lavorare in fattoria. Riesco ad assorbire un po’
della vitalità che hanno i ragazzi. Penso che mi vogliano bene. O forse cercano
di essere gentili perché sanno cosa mi succede ogni notte”.
Hana si sentì mancare.
Fissò gli occhi di Wanda, colmi di lacrime, immobili. Tutto ciò che provava era
orrore. Poi sconforto. E collera.
Non c’era nulla da dire.
Niente avrebbe mai potuto alleviare quell’immenso dolore alle sue amiche. Sentì
di piangere solo quando lacrime amare le bagnarono le labbra.
Nadie restò in silenzio.
I suoi occhi vuoti riflettevano ogni parola di Wanda.
Hana prese un profondo
respiro. “Wanda, ascoltami. Non voglio forzarti, ma ti prego di pensarci bene.
Questo è un incubo, ma noi ne possiamo uscire. Dobbiamo solo provarci, non
abbiamo nulla da perdere. E se ci va bene, potremo tentare di lasciarci tutto
alle spalle, tornare a casa, iniziare da capo” aprì la sua bisaccia ed estrasse
due cercapersone che Galen le aveva consegnato. Si rivolse ad entrambe.
“Prendete, ma teneteli nascosti. Se mai cambiaste idea, non dovete far altro
che chiamarmi”.
Nadie e Wanda fissarono
il cercapersone, senza vederlo veramente. Erano ancora troppo scosse. Ma
annuirono.
Forse si poteva ancora
sperare.
----------
Vorrei ringraziare
di cuore tutti coloro che sono passati sulla mia storia, che hanno speso un po’
del loro tempo a leggerla e soprattutto quelli che mi hanno recensito! Le vostre
parole e il vostro apprezzamento mi aiutano e mi ispirano, quindi grazie!
Spero che la
storia possa continuare a piacervi, ad entusiasmarvi e interessarvi. Se così
fosse, non esitate a lasciare i vostri commenti, sia buoni che cattivi! Ogni
critica è costruttiva ed è un vero piacere per me leggere le vostre opinioni!! J
Grazie!! Al
prossimo capitolo!
PS: colgo l’occasione
per accennarvi la nascita della pagina Facebook di “Substitute”!! https://www.facebook.com/substituteSF
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Capitolo 14 *** La storia del viaggiatore - 1° parte ***
11
La storia
del viaggiatore
prima parte
Bion fissò Kalb e si fece più attenta.
“Quest’astronave era di mio nonno, che l’ha
tramandata a mio padre e poi a me. Quando Sycor diede l’ordine di trovare ogni
essere umano su Hestla per trasformarlo in Sostituto, mio nonno decise di
scappare con un piccolo gruppo di conoscenti, proprio a bordo di Chèrie.
Si misero in salvo, sorvolando un tratto di oceano e approdando su un’isola che
aveva tutta l’aria della Terra Promessa. Loro avevano lasciato tutto, e quel
luogo tanto fantastico quanto misterioso gli donò una seconda opportunità.
“Lontano da Sycor, dai suoi soldati e
scienziati, iniziarono pian piano a vivere di nuovo. Costruirono case e
allargarono le famiglie. Mio nonno morì e passò Chèrie in eredità a mio
padre. Ma era considerata come una specie di maledizione, e mio padre non
riuscì mai a sposarsi o ad avere una compagna fissa. Non era più tanto giovane
quando nacqui io. Mia madre, al contrario, era una ragazzina. La mia nascita fu
del tutto imprevista. Entrambi erano a disagio, mia madre perché era troppo
giovane e mio padre perché dava irrimediabilmente ascolto a quelle leggende
sulle astronavi. Credeva di non poter fare il padre, che la sua maledizione
glielo impedisse.
“Così mia madre una sera, spaventata, prese me e
Chèrie e lasciò per sempre l’isola dei Sopravvissuti. Tornò su Hestla e
mise più distanza possibile tra noi e l’isola. Raggiunse la costa ovest e fu lì
che vivemmo, sulla spiaggia, lontano da tutti e cercando di evitare i guai”.
Kalb fece una pausa e bevve un sorso di succo di
lampone. Bion non smise di guardarlo.
Lui riprese: “Mia madre era giovane e agile, si
procacciava il cibo nei boschi vicini e diventò amica di un’anziana Sostituto
che viveva sola su una casetta che dava sulla scogliera. Tra una cosa e l’altra
io crescevo sano e amato. Certo mi domandavo dove fosse mio padre, ma mia madre
mi diceva che se n’era andato, che non dovevo preoccuparmi perché lei mi amava
incondizionatamente e avrebbe sempre fatto qualunque cosa per me.
“E poi c’era Chèrie. Non chiesi mai
niente sull’astronave, ma mi affezionai immediatamente a lei. Insomma, era come
una casa, ma aveva quel qualcosa in più. Era come un’amica silenziosa che però
mi dava un forte incoraggiamento. Mi sentivo legato a lei, lo sentivo nelle mie
vene”.
Kalb abbassò lo sguardo. Scrollò il capo
impercettibilmente e Bion si chiese se avesse intenzione di proseguire o meno.
Forse stava indugiando, pensando se era il caso di continuare la storia. Forse
gli faceva troppo male ricordare. Già era molto ciò che le aveva confidato.
Poi riprese a parlare, tenendo il capo
abbassato.
“Un anno fa mia madre è morta. Così sono rimasto
solo. La vecchia Sostituto si era ammalata e non usciva più di casa. Era come
se fossi morto con mia madre. Ero perso, tutto il mio mondo se n’era andato ed
io non sapevo cosa fare. Avevo sempre vissuto con lei e quella vecchia, con lei
e Chèrie. E non mi ero mai spostato da quella spiaggia. Era tutto il mio
mondo. Ma mi resi conto che lì non potevo più restare. Negli ultimi anni le
sentinelle erano aumentate, e naturalmente ero venuto a conoscenza dei piani di
un pazzo chiamato Sycor. Non avevo certo intenzione di essere trasformato. Così
decisi che sarei partito, sarei tornato dov’ero nato. Sull’isola dei
Sopravvissuti”.
Kalb guardò Bion. Aveva perso ogni sorriso e
accenno di buon umore. Ora il suo sguardo era serio, cupo e ansioso.
“Come facevi a sapere di quell’isola?” chiese Bion.
“Mia madre me l’aveva detto. Quando diventai
grande, lei buttava lì qualche frammento di verità nei nostri discorsi, ogni
tanto. E così io le facevo qualche domanda, lei rispondeva e iniziavamo a
parlare del nostro passato. Era arrivata anche a raccontarmi di mio padre,
dell’astronave, di com’era scappata. Penso che fosse stanca di mentire,
soprattutto a suo figlio. Aveva bisogno di sfogare la verità con qualcuno. Ma
poi mi chiedeva di non provare a tornare. Ed io non protestavo. Avevo passato
tutta la vita con lei, non avevo intenzione di lasciarla da sola”.
“Capisco”.
La trafisse con lo sguardo e annuì.
Bion ricambiò. “Non sei l’unico a cui Sycor ha
rovinato la vita. Ha rapito mia sorella, sto andando a liberarla”.
Kalb alzò le sopracciglia, sorpreso ma
comprensivo. “Mi dispiace”.
“Sì… stavo pensando… quest’isola, esiste
davvero, no? Quindi vuol dire che ci sono degli umani sopravvissuti”.
“Già. Il tutto sta nel trovarla. Ovviamente non
sarà semplice. Avranno di certo alzato parecchie difese per evitare di esser
scoperti. Ma ci voglio provare, in fondo non ho nulla da perdere”.
Si scambiarono una lunga occhiata. Poi Bion
abbassò gli occhi e li fissò sulle dita delle sue mani, intrecciate le une
nelle altre.
“E tu invece, hai qualcosa da perdere?” le
chiese in un soffio.
Lei alzò lo sguardo. Lo studiò, ma Kalb era come
una tela bianca. Aveva gli occhi socchiusi, e le sembrò di vederli lucidi. Un
po’ come quando si fissa intensamente il sole e nonostante gli occhi soffrano
per la luce troppo forte, non si riesce a distogliere lo sguardo fino
all’ultimo, perché lo spettacolo è indimenticabile.
Si chiese a quale spettacolo Kalb stesse
pensando.
“Il tuo amico, forse?” incalzò lui.
Bion sorrise appena. “Non credo…”
“Già, perché sarebbe troppo complicato, vero?”
abbassò un po’ il capo e continuò a scrutarla. Un mezzo sorriso gli comparve
sulle labbra.
“Cosa vuoi dire?”
“Te l’ho già detto prima. Non sembrate proprio
due amici a vedervi. Non c’è amicizia tra di voi. Quindi perché viaggiate
insieme?”
Bion restò in silenzio. Poi abbassò gli occhi e
studiò le parole giuste da dire. Ma non riusciva a concentrarsi più di tanto,
con Kalb che la fissava, in attesa. E poi, lui era stato sincero, le aveva
raccontato la sua storia. Perché lei non poteva fare lo stesso?
“Viaggiamo insieme, ma ognuno con i propri
interessi”.
“Sei maledettamente sintetica”.
Bion sbuffò, per allentare la tensione. C’era
qualcosa che la frenava dal dire tutto. Sempre il solito problema del fidarsi o
meno. Guardò gli occhi limpidi e cristallini di Kalb e pensò che non c’era
niente di più rassicurante al mondo. Era come scrivere un diario, parlare a un
animale, nessuna delle due cose l’avrebbe mai tradita andando a spifferare i suoi
segreti a qualcun altro.
E così iniziò a parlare a briglia sciolta. Gli
raccontò di dove era nata, dei suoi amici, della sua famiglia e di come, dopo
che i suoi genitori erano morti, si era sempre presa cura di sua sorella Hana.
E poi il giorno che l’avevano rapita, e lei era come morta dentro. Dei lunghi
viaggi che aveva fatto e del periodo in cui l’avevano imprigionata. Poi arrivò
a parlare di quel giorno fatidico, quando aveva sentito i militari fuori dalla
sua cella parlare di Rigel. E qualcosa era scattato nella sua testa. Era
riuscita a sfuggire, era andata a cercarlo e l’aveva trovato. E infine di come
l’aveva convinto a seguirla, buttando in mezzo anche il rapimento dei genitori
di lui e la possibilità di ritrovarli.
Fece una pausa e guardò Kalb, che era rimasto
impassibile, come se stessero ancora discutendo del più e del meno.
“E così lo stai solo usando” constatò lui.
Bion lo guardò confusa. “No, io…”
Ma lei sapeva che il racconto non era finito.
Sapeva che c’era dell’altro, qualcosa che provava nel suo cuore. Il fatto che
quel suo piano che all’inizio l’era parso impeccabile, in realtà non lo era.
Perché del tempo passato con Rigel, del loro viaggio insieme, aveva solo bei
ricordi che non voleva cancellare dalla mente. Quando al contrario avrebbe
dovuto pensare a lui solo come carne da macello, merce di scambio. Ma era
chiaro che non aveva fatto i conti con i suoi sentimenti.
Per qualche ragione, però, sentiva di non voler
dire quelle cose a Kalb. La frenava. E allora era sempre più confusa. Era
normale che non volesse confidarsi? Era solo per il fatto che fosse pressoché uno
sconosciuto? O c’era qualcosa di più?
Ancora non lo sapeva. Scrollò il capo.
“Perché non vieni con me?”
Fissò Kalb atterrita. “Cosa?”
“Perché non lasci tutto, e vieni a cercare gli
umani con me?”
Bion rise, un po’ per allentare la tensione.
“Devo trovare mia sorella”.
“Giusto” fece Kalb, abbassò lo sguardo e parve
piuttosto deluso.
“Mi dispiace, Kalb. Comunque mi sembri davvero
una brava persona. Ti sono infinitamente grata per averci salvato la vita, e
per avermi raccontato la tua storia. È stato bello”.
Gli sembrava di aver detto solo parole al vento,
che per lui non sarebbero valse niente. In fondo erano solo parole, e lei non
era nulla nei suoi confronti. Ma mentre alzava gli occhi per cercare quelli di
Kalb, lo vide alzarsi, avvicinarsi e chinarsi verso di lei. Si sedette sul
tavolino, e ormai tra di loro non c’era più alcuna distanza emotiva. I suoi
occhi azzurri limpidi e sinceri la guardavano. Prese le sue mani e le strinse
delicatamente. Tutto ciò che restava era lasciarsi andare…
Ma si ritrasse.
Kalb la scrutò, si lasciò sfuggire un sorriso
amaro mentre si allontanava da lei, piegandosi all’indietro sul tavolino.
“Ricordo che quando ero piccolo la vecchia
Sostituto si lamentava sempre con mia madre. Diceva che gli uomini sono stati
creati stupidi e così rimarranno in ogni generazione. Aveva ragione, Bion, gli
uomini sono stupidi. Alcuni vivono un amore impossibile e altri si trovano
accanto per caso la donna perfetta e nemmeno se ne accorgono”.
Bion non seppe cosa volesse dire con quelle
parole, ma da come la guardava gli fece capire che in qualche modo stava
parlando di lei. E sebbene gli occhi di Kalb avevano il potere di capirla così
bene, un po’ si meravigliò quando si scoprì a pensare a qualcos’altro, a qualcun
altro. Rigel.
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Capitolo 15 *** La storia del Viaggiatore - Parte 2° ***
11
La
storia del viaggiatore
seconda
parte
Rigel
era ormai sveglio da un po’, ma non era ancora riuscito a
trovare la forza di alzarsi. Ricordava il volto di Bion, e una figura
in ombra dietro di lei che non conosceva. Era stato probabilmente
quando erano venuti a trovarlo. Ma tutto era così sfocato e
distante…
Al
risveglio si era tastato il viso, lo sentiva compresso e
impossibilitato a muoversi. Doveva essere fasciato, ma non provava
più tanto dolore.
Poi,
improvvisa e inaspettata gli cadde addosso tutta la consapevolezza di
ciò che era successo. L’Hydran che crollava, il fuoco,
le sentinelle armate che correvano verso di loro e Freya, la
bellissima lince rossa, la sua compagna di vita. Freya, che mai
sarebbe tornata. Il bruciore agli occhi lo assalì e senza
rendersene conto piangeva. Aprì le labbra dalla piccola
fessura tra le bende e lasciò uscire rantoli e gemiti che non
riconosceva come propri.
Era
ancora intontito dagli anestetici ed era come assistere al pianto di
qualcun altro, come se i sentimenti così dirompenti che
provava, pari a fuoco ardente dentro di sé, non trovassero la
possibilità di manifestarsi con altrettanto dolore attraverso
il suo corpo. Si sentiva estraniato e confuso. Ma nella sua mente
aleggiava sempre quell’immagine, a ripetizione continua. Freya
che correva, Freya che veniva colpita, Freya accasciata al suolo…
Cercò
di strapparsi le bende che lo soffocavano, e le lasciò cadere
a terra. Nascose il viso tra le mani, e sentì il rilievo delle
ferite cicatrizzate sotto le dita.
I
singhiozzi lo divorarono, le lacrime gli purificarono il volto. Non
avrebbe più sentito quel dolce suono delle fuse di Freya che
tanto l’aveva rassicurato nelle notti solitarie nella foresta.
Sembrava
essere passata una vita.
Si
alzò dal letto, la testa gli girò ma riuscì a
raggiungere la porta della stanza semibuia e uscì nella luce
del corridoio che gli diede un forte fastidio agli occhi. Brancolò,
appoggiandosi alla parete, e arrivò ad un altro corridoio. Lo
imboccò; il silenzio e la tranquillità regnavano
sovrani in quel posto. Poi udì delle voci, e riconobbe quella
di una ragazza. Individuò la porta e fece per aprirla, ma poi
decise di socchiuderla solo lievemente, senza fare rumore. Si
avvicinò allo stipite e restò in ascolto.
E
così Bion stava parlando di sé con quel ragazzo che lui
ricordava sfocatamente. Si fece più attento, perché
sentì pronunciare il suo nome. Stava parlando di lui. Proprio
così, non si era sbagliato, aveva sentito pronunciarle
‘Rigel’.
Ma
quello che seguì lo lasciò senza fiato. Rimase
immobile, fissando lo stipite della porta e perdendosi nelle
sfumature del legno. Non poteva essere vero, eppure aveva sentito
perfettamente. Almeno che non fosse ancora sotto sedativi, ma non gli
sembrava. L’effetto era svanito, e comunque il suo udito
funzionava benissimo.
E
dunque eccola la verità, dopo tante volte che si era chiesto
se fidarsi o meno di Bion. Niente era stato un caso nella loro
storia. Non era apparsa dal nulla quella notte salvandolo da sé
stesso. Era stata un’apparizione programmata e voluta. Lei
l’aveva voluto. Lui le serviva. Per salvare sua sorella.
Rigel
ci pensò. Se i ruoli fossero stati invertiti, non avrebbe
forse fatto la stessa cosa? Tutto pur di salvare una persona amata,
un familiare. Eppure ancora faticava a realizzare la verità.
Che tutto era stato solo un enorme balla architettata.
E
si chiese per quale motivo tutto ciò lo sconvolgesse tanto. In
fondo, sapeva dentro di sé che non poteva essere altrimenti.
Immaginava già che Bion avesse altri scopi, che facesse il
doppio gioco. Ma aveva forse sperato, negli ultimi giorni, che non
fosse vero? Che fossero dalla stessa parte, che potessero arrivare
alla fine insieme, da alleati e non da rivali?
Sì,
probabilmente se l’era figurata così la storia. Con un
lieto fine. Ma doveva sapere che il lieto fine succede solo nelle
favole.
Si
allontanò dalla porta, lasciandola socchiusa e continuò
a camminare lungo il corridoio. C’era una cosa che voleva fare,
si era alzato per quello. Non sapeva quanto tempo era passato e
dov’era ora, ma doveva trovare il cadavere di Freya e darle una
degna sepoltura.
Proseguì
lungo il corridoio con la voce soffusa di Bion che ripeteva nella sua
testa le cose appena sentite. E in qualche modo ancora non voleva
crederci. Non voleva che fossero vere. Raggiunse una porta diversa
dalle altre, per certi versi simile al portellone dell’Hydran.
Tirò con forza la maniglia e la fece scivolare di lato,
rivelando un prato dall’erba piuttosto alta e una luce
assordante.
Rigel
si portò un palmo alla fronte, per proteggersi gli occhi dai
raggi accecanti del sole. Scese una scaletta di acciaio e si chiese
dove diavolo fosse finito. Poi qualcosa nella sua mente riaffiorò
come un ricordo lontano.
“Benvenuti
a bordo di Chérie, la mia astronave”.
Era
la voce di quel ragazzo che associava ad una figura scura sullo
sfondo della sua memoria. Quindi quella era un’astronave. Ecco
perché assomigliava in qualcosa all’Hydran.
Rigel
marciò sotto il forte sole estivo che gli bruciò la
pelle. Non gli importava più di nulla, davvero.
Era
come se una forza invisibile lo guidasse verso il bosco, verso l’erba
sempre più incolta. E lui non resistette a quella chiamata.
Attraversò la foresta, gli alti alberi che regalavano un
sospiro di sollievo dalla calura estiva.
Non
seppe calcolare per quanto camminò, dovevano essere più
di due ore, ma gli parvero solo pochi minuti, con lo scopo stampato a
fuoco nella sua mente.
Quando
finalmente giunse al limitare della foresta, una radura arida con
qualche ciuffo d’erba sparso qua e là si stagliò
davanti a lui. E improvvisamente ogni ricordo si fece più
vivido, più vero. Ora li vedeva come se stesse guardando un
film, facendogli ricordare tutto così bene, che quasi riuscì
a percepire il dolore di quegli istanti ancora ardere sulla sua
pelle. Notò pezzi dell’Hydran abbrustoliti e
accartocciati non molto distanti da lui.
Mosse
qualche passo in quella direzione, si accovacciò. E mentre
rialzava lo sguardo con un misto di tristezza e malinconia, lo vide.
Ebbe un tuffo al cuore.
Il
cadavere di Freya era proprio là, il rosso fulvo della sua
pelliccia in netto contrasto con l’ocra quasi bianco della
sabbia fine.
Camminò
in quella direzione, e presto si scoprì correre. A pochi passi
rallentò, si accasciò al suolo e non potè
fermare le lacrime alla vista del muso del felino. Gli occhi chiusi,
la pancia immobile, non più smossa dalle tenere fusa. Le
orecchie lunghe e vellutate paralizzate in quella posizione di eterna
insensibilità.
Rigel
singhiozzò e gli parve di avere ancora quindici anni e di
trovarsi solo in mezzo al bosco, raffreddato e spaventato. E tutte le
altre volte succedute a quella. Ma poi un giorno era arrivata Freya,
e nonostante la paura iniziale, non si era rivelata aggressiva.
Avevano immediatamente stretto una forte amicizia. Non avrebbe potuto
chiedere un modo migliore di essere salvato dalla sua solitudine.
E
ora, tutto si era spezzato, aveva perso Freya, e con lei ogni cosa.
Fintanto
lei fosse stata in vita, cosa avrebbe potuto spaventarlo? Nulla,
perché erano in due. Ma adesso gli sembrava di avere di nuovo
quindici anni, di essere stato abbandonato in mezzo alla foresta, ma
questa volta non aveva più voglia di reagire. Non aveva voglia
di ricominciare tutto daccapo.
Guardò
un’altra volta il musetto rilassato della lince. Si asciugò
gli occhi con le dita, ma il volto rimase rigato dalle lacrime, che
non accennavano a diminuire. Raccolse il corpicino di Freya, e lo
spostò da lì. Lo portò al limitare della foresta
e lo appoggiò da una parte.
Poi
iniziò a scavare una buca nella sabbia, raschiandola con le
mani. Fece fatica, perché ogni volta che spingeva un mucchio
indietro, quello tornava giù. E così dovette ripetere
il gesto molte volte, finché non ebbe creato una fossa
abbastanza grande.
Era
sudato fradicio e sporco di sabbia ed erba. Si pulì le mani
sui pantaloni e prese in braccio il corpo di Freya, posandolo
delicatamente nella fossa.
Si
portò due dita alle labbra e le trasferì il bacio sul
muso. “Grazie per avermi salvato così tante volte. Sei
stata coraggiosa a scegliere uno come me. Non ti dimenticherò
mai. Spero che ora tu sia felice. Addio, piccola”.
Si
costrinse a richiudere la buca, ma non fu facile. Ad ogni mucchio di
sabbia, il corpo di Freya scompariva sempre più alla sua
vista.
Alla
fine, la terra era tornata compatta sotto il suo tocco. E lui si
sentiva incredibilmente solo. Il silenzio era infinito tutt’attorno
e sembrava che ogni rumore più insignificante balzasse fuori
dall’anonimità con tutta la forza della natura.
Rigel
alzò gli occhi al cielo, e li chiuse, lasciando che la brezza
leggera, alzata dalle fronde degli alberi, gli rinfrescasse il volto
e gli asciugasse il sudore.
“Rigel!”
Quel
momento fu distrutto. Ogni cosa bella andò in frantumi quando
udì quella voce gridare il suo nome. Abbassò il capo.
Due
gambe lunghe fasciate da scuri scarponcini entrarono nel suo campo
visivo. Bion si accovacciò e i loro sguardi si incrociarono.
“L’hai fatto?”
Rigel
non perse neanche tempo a chiedersi come l’avesse capito. Forse
aveva visto le lacrime sul suo volto e le mani ancora aggrappate agli
ultimi rimasugli di sabbia. O forse aveva seguito l’intera
sepoltura e aveva preferito aspettare piuttosto che interromperlo.
Annuì.
“Oh,
mi dispiace tanto”.
Rigel
la odiò intensamente in quel momento. Dopo tutto quello che
aveva fatto, sapeva ancora essere maledettamente sincera. Piantò
lo sguardo in quello verde di lei e la fissò a lungo.
“È
un po’ di tempo che non parliamo, ti va?” Bion allungò
una mano verso di lui e l’aiutò ad alzarsi.
Ma
Rigel ce la faceva anche da solo, restò distante.
“Kalb
è rimasto indietro, ma ci aspetta a qualche chilometro. Così
troveremo più facilmente la strada”.
“Kalb…
è così che si chiama?”
“Esattamente”.
Rigel
la fissò. “È stato lui a salvarci la vita?”
Bion
annuì. “Io non ci credo che siamo ancora qui. Ci ha
fatto un gran favore, e dovresti ringraziarlo come minimo”.
“Lo
farò”.
Silenzio.
“Quanto
tempo è passato?”
“Due
giorni, ma le ferite sono guarite in fretta. Kalb mi stava proprio
raccontando della miriade di piante medicinali che…”
“Avete
avuto molto tempo per raccontarvi”.
Bion
corrugò le sopracciglia. Rigel serrò la mascella, sentì
lo sguardo stancarsi di fissarla e farsi d’istinto severo e
malinconico. Ingoiò una saliva amara.
“Questo
cosa vorrebbe dire?”
“Se
non lo capisci da sola, non sarò certo io a spiegartelo”.
“Molto
divertente. Adesso ti ci metti anche tu a parlare per indovinelli?”
“Lascia
perdere”.
Rigel
prese a camminare verso la selva. Sentì Bion corrergli dietro
e prendere il ritmo del suo passo. Per qualche ragione non riusciva
ad essere veramente arrabbiato con lei. Almeno, credeva di non
esserlo. Perché mentre gli camminava accanto, la sua presenza
lo sollevava invece che farlo infuriare. Lo compiaceva, invece di
irritarlo. E quasi si sentì per un istante spensierato, solo
con Bion sotto la frescura degli alberi, chiacchierando sommessamente
come se nulla fosse successo.
Come
se Freya non fosse morta, come se lui non avesse scoperto tutta la
verità sui piani di lei. E così tornò a
pensarci, la guardò e piombò su di lui la
consapevolezza che non le importava un accidenti di lui. Che era
sbagliato sentirsi bene in sua compagnia. Che lei era il nemico, che
doveva allontanarla.
Il
suo sguardo non fece in tempo ad intristirsi, che Bion gli sorrise e
sfiorò il suo palmo.
Seppur
consapevole di quanto i suoi sentimenti fossero contraddittori, la
mano di Bion, calda nella sua, era come un ancora di salvezza nel
lago gelido dei suoi pensieri.
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Capitolo 16 *** Incongruenze ***
12
Incongruenze
La mano di Bion lo lasciò
quando la figura di Kalb apparve nel loro campo visivo.
“Eccovi” li
accolse con l’aria preoccupata e le braccia strette sul petto.
Scrutò Rigel di sottecchi.
“Scusa se ci abbiamo
messo un po’…” disse Bion.
Uno strano silenzio cadde
tra di loro e rese l’atmosfera molto più pesante di
quanto già non fosse. Fu Rigel a romperlo, allungando la mano
verso Kalb e imitando un sorriso forzato. “Grazie per averci
soccorso, ti siamo debitori”.
Kalb gli strinse la mano con
forza, e si staccò subito dopo.
“C’è
qualcosa che possiamo fare per ricambiare il favore?” continuò
Rigel.
“Oh, non c’è
proprio nulla che tu possa fare”.
Il tono duro e secco di Kalb
lo irritò. In fondo, aveva solo voluto essere gentile, anche
se sapeva che ricambiare il favore non sarebbe stato possibile.
“In realtà non
c’è molto da fare per nessuno” continuò
Kalb, ammorbidendo il tono e cercando di assumere un’aria più
rilassata.
“Posso sapere dove
siamo?” chiese Rigel.
“Siamo vicino al Lago
di Bevil. Voi siete venuti da Nord, proprio dove c’è uno
dei Poli. A ovest” e indicò la sua sinistra con un gesto
del braccio, “oltre il lago, ci sono Dezba e Damini, meglio
conosciute come le Città Gemelle”.
Rigel e Bion si scambiarono
un’occhiata.
“E a est, seguendo
l’acqua, si sbuca nel Fiume di Bevil, che si getta nell’Oceano.
Ed è proprio lì che sto andando” concluse Kalb.
“E a sud? C’è
il deserto di Orith, non è così?”
Kalb gettò
un’occhiata a Rigel, ed entrambi serrarono la mascella. Bion
abbassò gli occhi a terra, e rimase in attesa che qualcuno
spezzasse il silenzio, di nuovo.
“Proprio così.
E se lo conosci, probabilmente saprai anche quanto sia pericoloso. Ma
qualcosa mi dice che è là che volete andare, giusto?”
“Giusto”.
Kalb sbuffò un
sorriso. “Abbiamo in comune questa voglia disperata di morire
noi, eh?”
Rigel strinse lo sguardo, lo
studiò attentamente. Bion, al contrario fece un mezzo sorriso
e spostò il peso da un piede all’altro.
“Dato che non vedo
cervi all’orizzonte, è meglio tornare all’astronave,
saremo più al sicuro”.
Camminarono in senso inverso
lungo un sentiero diverso da quello che aveva percorso Rigel da solo.
Infatti arrivarono a Chèrie con un largo vantaggio di
tempo e molto meno affaticati. Rigel si chiese per quanto tempo Kalb
era fermo da quelle parti, per conoscere la zona così bene.
Si sedettero in una stanza
enorme, che Kalb aveva chiamato comunemente “salotto”.
Rigel si lambiccò per osservare ogni dettaglio del soffitto e
delle pareti. Nei suoi occhi si rifletteva quel meraviglioso tripudio
di ricchezza, oro, argento, colori mozzafiato e ogni genere di
arredamento ricercato.
“Ho avuto anche io la
tua stessa reazione” gli sussurrò Bion e lo fece ridere.
Abbassò gli occhi su
di lei, al suo fianco e il sorriso gli scemò via quando tornò
a pensare al fatto che era proprio in quella stanza che lei aveva
rivelato a Kalb i suoi piani.
“Così non
avete più un mezzo di trasporto” esordì Kalb
lasciandosi cadere sul divano e interrompendo, suo malgrado, il filo
di pensieri di Rigel.
Bion si sedette sull’altro
divano e Rigel la raggiunse. “Sì. Gruis mi ucciderà”
borbottò lei tra sé e sé.
“Mi dispiace. Sembra
che dobbiate attraversare il deserto a piedi, dunque”.
Rigel lo trafisse con lo
sguardo. Non capiva come facesse Bion a fidarsi tanto di quel tipo.
Lui, al contrario, non ci vedeva nulla di buono. E quel suo tono poi…
quasi come se ci godesse che loro fossero spacciati.
Eppure li aveva salvati.
Perché mai allora?
Continuò ad
osservarlo, ma gli occhi di Kalb erano spostati, e si muovevano
velocemente come se non volesse concentrarsi per troppo tempo su
qualcosa. Rigel seguì la traiettoria. Era Bion che guardava,
ignara e impegnata a fissarsi le mani.
Ma certo. Ora tutto gli era
più chiaro. Era lei che aveva salvato, lei che gli era
importato d’aiutare. Ma non avrebbe potuto lasciare morire lui,
Rigel, perché altrimenti lei sarebbe impazzita.
Anche senza sapere ancora la
verità, Kalb già le aveva fatto il regalo più
grande: salvare la vita all’idiota che era con lei, che
rappresentava la cima di salvataggio, la sua unica chance di salvare
sua sorella Hana.
Rigel si meravigliò
di quanto le cose, seppur inconsapevolmente, erano andate a finire al
loro posto per tutti, tranne che per lui.
Kalb aveva fatto
indirettamente un piacere a Bion, oltre a salvarle la vita, e chissà
cos’era successo tra di loro in quella stanza, poche ore prima.
Bion poteva ancora contare
sulla sua preziosa merce di scambio umana.
E lui? Freya era morta, la
sua fiducia verso Bion tradita, e quel miraggio di salvare i suoi
genitori andava sempre più sbiadendo, come un’oasi nel
deserto a mezzogiorno.
Cosa poteva fare? Forse
doveva parlare con Bion? Chiederle spiegazioni? E poi? Cosa sarebbe
successo dopo? Non c’era possibilità che lei cambiasse
idea, su questo ne era certo. Ma poi perché doveva essere lei
a cambiare idea? In fondo era stato lui ad essere tradito, quindi non
avrebbe nemmeno dovuto pensare di riappacificarsi con lei. Una volta
sputata la verità, il tempo non si riavvolge. E allora, meglio
fingere per restare vivi.
“Rigel?”
Solo allora si accorse del
viso di Bion volto nella sua direzione. I suoi occhi verdi che lo
scrutavano, irremovibili. Si era imbambolato a fissarla per tutto
quel tempo, mentre la sua mente era partita per un altro pianeta.
“Si?” fece. Si
schiarì la gola.
“Cosa ne pensi?”
“Di cosa?”
“Caspita, non credevo
che quelle piante anestetizzanti fossero così durature”
commentò Kalb.
Bion accennò un
sorriso. “Ti senti bene?”
Rigel annuì e fulminò
Kalb con lo sguardo.
“Kalb ci stava
indicando la via più breve per attraversare il deserto. E
allora mi chiedevo cosa ne pensi. Dovremmo seguirla o attraversare il
lago e fermarci in una città a fare provviste?”
“Quello che
preferisci” borbottò Rigel. Non gli importava che strada
facessero, non sapeva ancora se la voleva fare o meno. Quel viaggio
era diventato come una corsa verso il patibolo. E cosa avrebbe
trovato alla fine? Se l’avessero semplicemente ammazzato, forse
non poteva lamentarsi. Ma aveva la brutta sensazione che Sycor non si
sarebbe limitato a quel destino, per lui. E nelle mani di Sycor,
qualunque cosa era peggio della morte.
“Bion, ti ho detto che
potete rifornirvi qui”.
“No, Kalb. Il tuo
viaggio sarà altrettanto faticoso, non voglio che dai via le
tue provviste per noi”.
Il tono dolce con cui si
rivolgevano l’uno all’altra lo fece sentire immensamente
tagliato fuori. Li guardava discutere sul cibo, sul viaggio, sul
terreno, e non poté sentirsi altro che un intruso. Non
c’entrava niente. Loro si conoscevano, lui non conosceva
nessuno. Nemmeno sé stesso. Non più.
Scattò in piedi.
Borbottò qualcosa d'incomprensibile anche alle sue orecchie e
lasciò la stanza, senza degnare né Bion né Kalb
di uno sguardo.
“Ma che gli prende?”
chiese il ragazzo con un’occhiata accigliata.
Bion sospirò e
strinse le labbra. Si alzò e uscì dalla stanza.
“Rigel?” mormorò
poco dopo, aprendo piano la porta della stanza dove l’aveva
visto entrare.
Lui era seduto sul letto, le
braccia molle lungo i fianchi, le dita incrociate sulla piegatura
delle gambe, il viso spento, gli occhi vuoti.
Gli si avvicinò a
passi lievi, gli si accovacciò accanto e allungò la
mano, per sfiorargli la spalla. Lui volse il capo e si allontanò
con uno scatto. Bion si ritrasse.
“Che c’è?”
“Vattene, Bion”.
Rigel si alzò dal
letto, non riusciva più a starle accanto. Era diventata una
specie di tortura, la sua presenza. Perché lo aveva tradito da
sempre, e perché lei non immaginava che lui sapesse, e
continuava a comportarsi in quel modo che gli piaceva così
tanto.
“Smettila va bene?”
sbraitò all’aria.
“Di fare cosa?”
“Lo sai. Ne ho
abbastanza”.
Bion sbuffò. “Di
cosa diavolo stai parlando?”
Eccola di nuovo che fa
l’innocente. E come le veniva bene. Non riusciva ad
odiarla, e costretto ad averla accanto, si sentiva come in trappola.
Sì, perché avrebbe anche potuto fuggire, ma dove? Non
aveva più Freya e dubitava che fosse rimasto qualcosa della
sua casa nella foresta. E poi, nonostante tutto non voleva andarsene.
Voleva restare, voleva coglierla di sorpresa proprio sul più
bello, girarle le spalle e fargliela pagare, prima di rassegnarsi a
finire nelle grinfie di Sycor. Ecco cos’avrebbe fatto, se le
cose fossero andate male.
Se invece fossero andate
bene e avesse trovato vivi i suoi genitori, allora sarebbe scappato
con loro e avrebbero iniziato insieme una nuova vita lontano da
tutto.
“Senti, Rigel. Capisco
come ti senti. Dopo la morte di Freya deve essere dura per te andare
avanti. I miei genitori sono morti e mia sorella è stata
rapita, come credi che mi senta io ogni giorno? Ma stiamo solo
perdendo tempo così. Ogni lamento, ogni pausa è tempo
vitale che togliamo ai nostri cari, ai tuoi genitori e ad Hana”.
Rigel le diede tutta la sua
attenzione.
“Quindi dobbiamo
ripartire. E lo stesso farà Kalb. Sai, ha detto che sta
andando a cercare l’Isola dei Sopravvissuti. È dove ci
sono tutti gli umani rimasti. E se avrà successo, potremo
raggiungerlo anche noi, una volta che questa storia sarà
finita”.
Quella era decisamente una
soluzione inaspettata. Un’isola dove gli umani si erano
nascosti per decenni, dove avevano iniziato una nuova civiltà
lontano da Sycor e dai Sostituti. Un piccolo, nuovo pezzo di mondo.
Rigel ancora non riusciva a crederci. Quante volte aveva pensato di
essere l’unico rimasto? E quante volte si era sentito
abbandonato e solo per quello?
Ma c’era ancora
speranza, da qualche parte. Era semplicemente meraviglioso. Ecco dove
sarebbe andato con i suoi genitori: sull’Isola dei
Sopravvissuti.
“Rigel” Bion
pronunciò il suo nome con un nuovo tono di voce. Dolce e
pacato. Gli andò vicino, gli appoggiò le mani sulle
spalle e lo guidò a sedersi sul letto. “Devo dirti una
cosa” prese posto accanto a lui, così vicino che le loro
mani si sfiorarono. Lo guardò negli occhi intensamente e Rigel
pensò che dunque il momento era arrivato. Gli avrebbe detto
tutta la verità sul suo piano architettato.
“Dobbiamo essere più
attenti. Non possiamo farci sfuggire nulla, capisci?”
Rigel pendeva dalle sue
labbra, ora. Annuì.
“È chiaro come
il sole che qualcuno ci ha sabotato. A Tiva, le sentinelle. E poi sul
sentiero, quando ormai eravamo distanti”.
Rigel lasciò uscire
l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento. Non stava
parlando di ciò che lui sperava. Però ascoltò
con attenzione ugualmente. “Avevi detto che ci avrebbero
seguito comunque” le ricordò, aggrottando le
sopracciglia.
“Sì, ma è
stato tutto troppo ben architettato. Voglio dire, avevano un bazooka,
e sapevano esattamente quale sarebbe stata la nostra posizione”.
A Rigel venne in mente solo
una parola. “Freya”.
“Cosa?”
“Freya. Stava correndo
sotto di noi, ricordi? E loro le hanno sparato… quando hanno
capito che l’avevamo vista!”
“Pensi che Freya
c’entrasse qualcosa?”
“Freya era solo
un’esca. Non so cosa le hanno fatto. Non oso neanche immaginare
perché lei gli obbedisse. Ma l’hanno fatta spuntare
sotto di noi, affinché io la vedessi e poi le hanno sparato, e
allora non ho capito più niente, l’Hydran era senza
pilota, indifeso almeno quanto noi su un campo minato. È
allora che ci hanno affondato. Ma gli siamo sfuggiti”.
“Okay, Rigel.
Probabilmente è andata proprio così, ma non è
questo che mi interessa”.
Rigel la fissò.
“Penso che qualcuno ci
abbia traditi”.
Lui quasi volle riderle in
faccia. Ma davvero? Voleva dire. Chi l’avrebbe mai
detto, eh? Al contrario, restò in silenzio e si mordicchiò
l’interno del labbro inferiore.
“Qualcuno che abbiamo
incontrato prima di partire. Avy, per esempio”.
Rigel inarcò un
sopracciglio. “Avy” ripeté, esterrefatto a quel
pensiero tanto strambo.
“Perché fai
quella faccia?”
“Okay, a te non
piaceva, ma questo non fa di lei una traditrice. E allora non hai
pensato ad Arael, Gruis, la gente della locanda…”
“Sono sicura che Arael
e Gruis non farebbero mai…”
“Oh, se lo dici tu”
la canzonò.
Bion aprì la bocca
per ribattere e scattò in piedi. “Tu non vuoi capire!
Sei solo impegnato ad ingelosirti senza alcun motivo!”
L’espressione di Rigel
s’indurì all’istante. La fissò furioso e
lei gli restituì la stessa occhiata.
“Che motivo avevano
Arael e Gruis di sabotarci? Nessuno! E Avy? Suo padre, magari?”
lo guardò scrollando il capo ad enfatizzare il tono di voce
provocatorio.
“Non ti seguo”.
Bion sbuffò
sonoramente e prese a camminare avanti e indietro per la stanza. “Il
padre di Avy è malato e, a quanto mi hai detto, lei è
un Sostituto. Suppongo che anche suo padre lo sia, altrimenti tu non
ti saresti sentito come l’unico umano sopravvissuto per tutti
quegli anni. Di conseguenza, non pensi che Avy abbia riferito la
nostra posizione a Sycor, facendoci così catturare, in cambio
di cure per suo padre?”
“È solo
un’ipotesi che hai messo su al momento” tagliò
corto Rigel.
“Perché lo
fai?”
La voce spezzata di Bion lo
colse di sorpresa. Alzò il capo su di lei, che si era
arrestata nel centro della stanza, in piedi a pochi passi da lui. Era
sull’orlo delle lacrime, ma combatteva per trattenersi.
“Un giorno stiamo
bene, l’altro sei distante. E sei così sprezzante. È
per Kalb? Spiegami per favore, perché non capisco”.
“Perché sono io
a dovermi spiegare? Perché non tu? Anche io voglio che tu mi
dica la verità”.
Bion socchiuse le labbra, le
pupille si mossero veloci negli occhi di Rigel. Per un istante un
lampo di terrore le attraversò lo sguardo. “Non ho
niente da dire”.
Rigel si alzò.
“Nemmeno io”.
La sorpassò e giunse
alla porta. Si volse lievemente verso di lei, ma senza cercare il suo
sguardo. “E comunque non credo che Avy ci abbia sabotato.
Volevi una ragione per incolparla di qualcosa. Sei solo impegnata ad
ingelosirti senza alcun motivo”.
L’urlo arrabbiato di
Bion rimbalzò sulle sue spalle, quando uscì dalla
stanza e chiuse la porta. Era quello che si meritava.
Restò fermo nel
corridoio, ad ascoltarla piangere. Non gli piaceva. Nonostante un po’
se lo meritasse, ciò che le aveva detto non gli piaceva.
Nonostante la sua mente
fosse continuamente affollata da pensieri, in quel preciso istante
era vuota. Non pensò, soltanto fece quello che il suo istinto
gli comandava. Spalancò la porta e si trovò faccia a
faccia con Bion. Ebbe appena il tempo di incrociare il suo sguardo,
prima che lei gli si gettasse addosso e lo spingesse con tutta la sua
forza contro il muro dall’altra parte del corridoio.
“Sei un idiota!”
gli gridò.
Rigel sbatté la
schiena e le ginocchia gli si piegarono, facendolo scivolare a terra
lungo la parete. “Mi stavo proprio chiedendo dove fosse finita
la tipa tosta che conoscevo”. Nonostante tutto, sentiva ancora
la voglia di fare del sarcasmo.
Bion restò a bocca
aperta. Si fissarono, si studiarono. Rigel fece un mezzo sorriso. E
lei tirò su con il naso, cercando di ricomporsi e di calmarsi.
“È ancora qui, pronta ad ogni evenienza”.
“Sì, l’ho
notato” ribatté Rigel, allungando una mano verso di lei.
La ragazza la guardò
per un momento, prima di afferrarla e aiutarlo a tirarsi su.
Rigel balzò in piedi
e strinse la presa nella sua stretta. Le fece un sorriso e
l’abbraccio. “Scusa” borbottò tra i suoi
capelli. La accarezzò alla base della schiena, sospirò
contro la sua pelle.
Bion restò immobile,
ancora scossa e parecchio stupita. Le braccia alzate ferme in aria,
il corpo rigido e fremente. Quando Rigel si sciolse dall’abbraccio,
catturò la sua occhiata sorpresa, incrociando per un istante i
suoi occhi verdi.
Lui non aggiunse niente.
Accennò un breve saluto con la mano e si allontanò
lungo il corridoio.
E mentre camminava, ogni
tassello andò al suo posto e all’improvviso capì
tutto quanto. Ecco perché li avevano seguiti, ecco perché
avevano sparato all’Hydran e Freya era morta. Non era solo Bion
ad essere ricercata. Sycor li voleva entrambi.
Perché lui fosse così
importante, ancora non lo sapeva.
Ma allora se il piano di
Bion era quello di scambiare lui per sua sorella, perché lui
non poteva fare lo stesso? Avrebbe dato Bion per i suoi genitori.
A quell’idea fece un
mezzo sorriso, che gli sparì immediatamente dalle labbra. Non
era poi tanto bello. Sentiva che non era la cosa giusta da fare. Ma
era la più semplice. Nonostante tutto, sentiva di provare
qualcosa verso Bion. Un certo affetto forse, o qualcos’altro.
Le si era affezionato. Come avrebbe fatto a tradirla?
Si chiese come si sentisse
lei, sapendo dentro di sé di non aver altra scelta che quella.
Scambiare lui per Hana. Decidere tra due persone a cui si vuole bene.
Sempre che lei gliene volesse, di bene. Gli tornò alla mente
il suo urlo di poco prima, e il suo pianto sommesso.
Era forse così che ci
si sentiva?
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