Substitute

di candycotton
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Risveglio ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Vite Precedenti ***
Capitolo 5: *** Vecchie Conoscenze ***
Capitolo 6: *** Hana and Galen ***
Capitolo 7: *** Addii e Partenze ***
Capitolo 8: *** In fuga ***
Capitolo 9: *** Seconda Occasione ***
Capitolo 10: *** Il Viaggiatore Solitario - Parte 1 ***
Capitolo 11: *** Il Viaggiatore Solitario - Parte 2 ***
Capitolo 12: *** Rivelazioni - Parte 1 ***
Capitolo 13: *** Rivelazioni - Parte 2 ***
Capitolo 14: *** La storia del viaggiatore - 1° parte ***
Capitolo 15: *** La storia del Viaggiatore - Parte 2° ***
Capitolo 16: *** Incongruenze ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

La mano tremò. Il vento sferzò gli occhi. Lacrime uscirono, senza motivo, o forse sì. Ingoiò la saliva e chiuse gli occhi, si concentrò soltanto sul soffio della notte, sull’afa che gli colpiva il volto. Freya, la lince rossa, sua unica compagnia da tempo, l'unico essere vivente che gli fosse stato vicino dopo tutto quello che era successo, lo guardava, lo fissava. Nello sguardo dell’animale vedeva sofferenza, come se stesse piangendo.

“Ehi, piccola... non fare così ti prego... mi rendi tutto più difficile...”

Freya gemette, un verso di dolore che risuonò nelle orecchie di Rigel. Ma lui ingoiò ancora la saliva e con essa anche lacrime amare. La mano che impugnava l'arma si alzò, se la puntò alla testa. Era pronto. Sì, questa era la volta decisiva. Prese un profondo respiro. Era pronto. Era pronto. Il dito raggiunse il grilletto.

Era pronto.

Un rumore. Voci in lontananza.

Rigel riaprì gli occhi, assaporò il suono del suo stesso respiro. Si guardò attorno, il volto imbrattato di lacrime. Un’ombra scalò la collinetta e s’intrufolò in casa sua.

“Ehi!” gridò Rigel, abbassando l'arma e correndo su sull'erba alta. “EHI!”.

La figura si bloccò. Nell'oscurità Rigel non riuscì a scorgere niente, era come parlare con il vuoto. Tuttavia, intravide il segno che gli fece, portandosi un dito verticale contro le labbra.

Il ragazzo tacque, senza togliere gli occhi di dosso dall’ombra. Sentì ancora le voci di persone che si facevano più vicino. Rigel si mosse verso la figura, e gli puntò la pistola contro. Le si avvicinò e la bloccò con le sue braccia. Era sottile, leggera. Fu sorpreso di vedere il volto di una ragazza, alla luce di un raggio di luna.

Ugualmente, le tappò la bocca con una mano e per un momento si sorprese della sua arrendevolezza, quindi si ricordò della sua richiesta di stare in silenzio. La ragazza doveva aver interpretato quel suo gesto come un aiuto alla causa.

In qualche modo le voci umane si affievolirono: se la stavano cercando, evidentemente avevano sbagliato direzione.

Quando tutto tornò tranquillo e silenzioso, Rigel le levò la mano dalla bocca, sempre puntandole la pistola al collo.

“Che cosa volevi fare? Questa è casa mia”.

La ragazza lo fissò, tranquilla, rilassata tra le sue braccia. Non si divincolò. I suoi occhi verde acqua marina, liquidi, restarono fissi in quelli blu del ragazzo.

“E tu? Cosa volevi fare?” ribatté seria.

Rigel sospirò e ingoiò la saliva, amara. “Sei sfacciata, questi non sono affari tuoi”.

La ragazza serrò la mascella e fece per alzarsi.

Allora, con uno scatto, Rigel la lasciò e si drizzò a sua volta, ma senza smettere di puntarle la pistola alla testa.

“Tu mi hai salvato la vita ed io l’ho salvata a te, non pensi che un grazie reciproco sia di dovere?” disse lei, sollevando le braccia.

Rigel sgranchì le dita attorno all’arma.

“Grazie. E prego” continuò la ragazza, con grande rilassatezza. “Non m’inviti in casa tua? Mi è venuta una certa fame”.

Rigel le lanciò un’ultima occhiata prima di abbassare l’arma.

Anche i muscoli di lei, impercettibilmente, si distesero. Ma Rigel, cogliendo quell’istante di vulnerabilità, rialzò la pistola e la immobilizzò.

“Dimmi prima una cosa”.

Lei sembrò nascondere una certa paura, che non voleva dare a vedere.

“Sei una di loro?”

La sconosciuta ebbe uno spasmo, corrugò le sopracciglia, come se stesse pensando di colpo a qualcosa di veramente spiacevole. Incrociò le braccia sul petto a trovare conforto. Solo poche parole uscirono dalle sue labbra semi dischiuse:

“No, sono umana”.

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Capitolo 2
*** Risveglio ***


1

Risveglio

 

 

 

 

 

La ragazza avanzò guardandosi attorno, estasiata. “Hai proprio una bella casa” disse, con un tono piuttosto rilassato.

Rigel la squadrò. Nella sua testa si stava ancora chiedendo perché l’avesse fatta entrare. Forse per quelle poche e semplici parole uscite sofferte dalle sue labbra?

Sono umana.

Forse sperava che, oltre ad essere umana, fosse anche affidabile. Buttò un’occhiata a Freya, accanto ai suoi piedi. Neppure lei sembrava tranquilla fino in fondo. Per trovare sicurezza, Rigel sfiorò con le dita la pistola.

La ragazza seguì con gli occhi il suo braccio, fino ad arrivare all’arma. Sorrise. “Rilassati, non ho intenzione di farti del male. In più sono completamente disarmata, quindi sarebbe un duello impari”. Alzò le sopracciglia, lo fissò.

Rigel ingoiò la saliva amara.

“Non mi hai detto come ti chiami”.

“Rigel”.

“Rigel”, ripeté lei, un sorrisetto compiaciuto sulle labbra, “io sono Bion”.

Restarono distanti, guardandosi fisso negli occhi. Finché l’attenzione di Bion non fu attratta da un cesto di frutta colorata sul bancone della cucina. I suoi occhi famelici si spostarono su Rigel.

“Posso?”

Lui incrociò le braccia sul petto. Tenne lo sguardo a terra, un’espressione tra lo scocciato e l’incerto.

Senza attendere oltre, Bion afferrò una mela. Iniziò a morsicarla, vorace.

Rigel alzò un sopracciglio, si lasciò cadere sul divano, la pistola che pendeva lungo un fianco. Freya gli si accucciò accanto e lui iniziò ad accarezzarle il pelo rosso; la lince fece le fusa.

“È davvero bella. È una razza rara”, disse Bion, guardando Freya.

“È unica”, lo sguardo d’affetto di Rigel verso l’animale era senza prezzo. Bion percepì il sentimento a distanza.

“Mi piacerebbe sapere perché quelle persone ti cercavano, là fuori” esordì lui, cogliendo l’occasione per entrare nell’argomento.

Bion era a pochi morsi dal finire la mela. Si sedette su una poltrona e osservò la superficie verde della mela, rigirandosela tra le dita. “Non sono del tutto sicura di potermi fidare di te”, lanciò un’occhiata alla pistola.

Rigel socchiuse le labbra. “Non ne saremmo mai sicuri, entrambi”.

La ragazza fu alquanto stupita quando Rigel lasciò la presa sulla pistola e la fece scivolare sui cuscini, spingendola dall’altra parte del divano.

“Così va meglio?” le chiese, incrociando le braccia sul petto.

Lei sorrise. Cercò i suoi occhi, prima di parlare. “Sono scappata da una base militare. Volevano farmi degli esperimenti credo, forse trasformarmi in un Sostituto”.

Rigel aggrottò le sopracciglia e si fece più attento.

I Sostituti erano esseri umani cui era stata tolta la vita e per così dire “rigenerati”, riportati a vivere grazie a fili metallici che scorrevano sotto la loro pelle. Avevano un aspetto all'apparenza umano, ma erano molto più vicini ai robot. Avevano pensieri e provavano emozioni, ma non erano comparabili a quelle umane, ne erano solo una copia venuta piuttosto male.

Rigel era consapevole che i Sostituti erano ormai la maggioranza su Hestla, e la sua solitudine di tutti quegli anni lo aveva convinto che lui fosse l’unico essere umano rimasto. Ma si sbagliava.

Ingoiò la saliva e fissò intensamente le labbra di Bion che si muovevano, mentre gli raccontava tutto quello che le era successo alla base militare. Era come se per un momento la sua testa si scollegasse dal resto e tornasse indietro a sette anni prima, a quel terribile giorno in cui era tornato a casa e dei suoi genitori non ce n’era più traccia. Rapiti, probabilmente uccisi e da quello che ne sapeva trasformati in Sostituti. Da quel momento, da quando aveva quindici anni, era stato costretto a dire addio alla sua fanciullezza e preoccuparsi di ogni cosa, dalla più inutile alla più importante. Si era dedicato a fare ricerche per trovare chi li avesse presi, ma non era mai riuscito a trovare risposte alle sue domande. Si era sentito terribilmente solo per tanti anni, ma poi aveva trovato Freya, per caso, nella foresta, e il primo sguardo che si erano scambiati aveva dato inizio a una così forte amicizia che non aveva mai provato e nemmeno immaginato di stringere con un essere umano.

“Mi stai ascoltando?”

Rigel si riscosse dai suoi pensieri e guardò Bion.

“Scusa, mi sono distratto...”

Bion rimase impassibile. Chinò la testa di lato e si alzò dalla poltrona.

“Così sei una fuggitiva” continuò Rigel, massaggiandosi la fronte con le dita.

“In realtà c’è molto di più”, Bion iniziò a camminare per la stanza; le pistole che ciondolavano sui suoi fianchi. “Mia sorella è stata rapita da un pazzo di nome Sycor. Non l’ho mai incontrato né visto, ma in giro si dice sia lui l’inventore dei Sostituti, il folle che sta dietro quest’ atrocità di uccidere esseri umani per trasformarli in agglomerati di metallo. Molti dicono anche che sia immortale, che abbia vissuto una vita tre volte più lunga di qualsiasi altro. Ma non m’importa. Mia sorella è stata rapita, e chissà cosa starà passando in questo momento. Ogni giorno, ogni ora che passo lontano da lei mi uccide sempre di più. Devo trovarla, è l’unica ragione di vita che mi rimane”.

Rigel alzò lo sguardo su di lei. Le sue parole sincere avevano attirato la sua attenzione.

Bion ricambiò l’occhiata. “Tu invece, sembra che non abbia più qualcosa per cui vivere”, buttò lì.

Lui socchiuse le labbra, ma non gli uscì niente. Sostenere il suo sguardo, per qualche ragione così sapiente, gli fu difficile. Fissò il pavimento di legno, con il tappeto finemente disegnato. Deglutì a fatica.

“Mi dispiace per quello che stavi per fare, davvero. Non è una cosa nuova vedere persone che compiono gesti del genere di questi tempi. E io ne ho visti fin troppi. Amici, anche solo conoscenti. Sì, tutti erano soltanto Sostituti, ma questo non vuol dire che non mi fossero cari”.

“Mi dispiace”, disse Rigel.

Freya, accucciata sul divano al suo fianco, dormiva tranquilla.

Bion si rimise seduta sulla poltrona, si sporse in avanti e lo fissò. “Ma sembra che tu non abbia mai conosciuto persone a cui hai voluto bene”, lo esaminò.

“Che ne vuoi sapere tu, nemmeno mi conosci”.

Bion alzò un sopracciglio e sospirò. Si alzò in piedi di nuovo e fece il giro del divano. “Ad ogni modo, domani intendo partire per cercare mia sorella e avrò bisogno di armi. Molte armi. Magari puoi darmene un po’ delle tue…”

A quelle parole Rigel si riscosse e alzò il capo. Assunse un’espressione scettica. “Cosa ti fa pensare che io abbia delle armi?” aguzzò lo sguardo.

“Immagino che quella porta non dia su uno sgabuzzino impolverato e pieno di scope, giusto?”, ribatté Bion, indicando una porta di legno a muro, sulla parete sinistra della stanza. Era chiusa con un catenaccio e in ottime condizioni.

Rigel sorrise. “Tu non prenderai le mie armi”, mosse la mano verso Freya, facendo finta di accarezzarla; era così ad un passo dalla pistola posata sul cuscino.

Bion non si lasciò sfuggire al movimento. “Allora vieni con me, così non sarò io a prenderle”.

Rigel sorrise di nuovo, sarcastico. “Perché mai dovrei venire con te?”

“Sono sicura che se sapessi certe cose cambieresti idea”.

Tutto quel mistero a Rigel non piaceva neanche un po’. Si stava forse inventando tutto solo per convincerlo a seguirla, e magari indurlo in una trappola? Perché voleva che andasse con lei? Cos’è che sapeva e che non voleva dirgli? Quella faccenda incominciava a dargli la nausea, stava diventando solo una perdita di tempo.

“Non ti sei mai chiesto dove possono aver portato i tuoi genitori? Potrebbero essere ancora vivi, e sperare ogni giorno di poterti rivedere. Ma tu te ne stai qui, stravaccato su un divano, pensando al suicidio come unica soluzione per la tua vita insulsa. È ora che ti riscatti, che trovi qualcosa per cui valga la pena combattere”.

Rigel sbarrò gli occhi e un moto di rabbia gli attraversò lo sguardo. “Tu cosa ne sai dei miei genitori?”, sbraitò.

“Non è una cosa tanto misteriosa. Molti ne parlano giù al villaggio. Capitavo spesso da quelle parti prima di essere rapita, soprattutto nei giorni di mercato. La gente è curiosa e informata su tutto. È facile passare accanto a qualcuno e origliare ciò che stanno dicendo”.

Rigel la scrutò intensamente, mentre la sua collera si affievoliva. In qualche modo era riuscita a dissuaderlo, anche se c’era qualcosa in lei che non lo avrebbe mai convinto del tutto. Non gli aveva detto tutto, e probabilmente la verità era nascosta sotto fiumi di bugie.

Ma una cosa era certa e Rigel la sapeva: la sua vita era inutile, ed era perfino arrivato al punto di voler farla finita. Forse in quello Bion aveva ragione, forse era davvero il momento di riscattarsi, di provare qualcosa che lo facesse sentire vivo. Eppure tutti gli anni che aveva passato cercando i suoi genitori invano avevano radicato l’idea in lui che non c’era più speranza, che ormai li aveva persi per sempre.

“Li ho cercati tanto, ma non ho avuto successo, cosa credi che me lo farà avere questa volta?” Rigel la guardò insistente, pretendendo una risposta soddisfacente.

“Forse non hai cercato nel posto giusto”, tagliò corto Bion.

Si slacciò la cerniera della tuta nera che indossava, sotto lo sguardo confuso del ragazzo. Estrasse dal fianco un foglio di carta, piegato in più parti, che portava appiccicato alla pelle, sul ventre. Rigel la guardò esterrefatto.

“È il posto più sicuro che ho trovato”, commentò lei con un mezzo sorriso. Si sedette sul divano, accanto a Rigel e iniziò ad aprire il foglietto, fino a tenere tra le mani qualcosa che somigliava a una mappa, disegnata a matita. Era enorme e recava scritte e indicazioni accanto a corridoi, strettoie, vie e passaggi segreti.

“Che cos’è?” chiese Rigel, meravigliato.

“La base di Sycor”, il tono di voce di Bion tradiva un certo orgoglio.

Rigel capì dal suo sguardo che quella mappa l’aveva disegnata lei, ed era evidente che ne andava fiera.

Da quello che sapeva, Sycor viveva in una zona strettamente riservata e salvaguardata. Si diceva che nessuno non autorizzato fosse mai riuscito a entrarvi e uscirvi vivo. Rigel sapeva che la gente era abituata a esagerare, ma di certo il più famigerato scienziato del mondo non se ne stava tranquillo in una casetta aperta al pubblico. In un certo senso si sentì complice dell’orgoglio di Bion, e fu fiero del suo lavoro. Fissò i suoi occhi brillanti finché non fu lei a distogliere lo sguardo.

Avrebbe voluto chiederle come aveva fatto, ma si rese conto che non era importante saperlo, e indagare troppo nelle faccende altrui non era mai stato il suo forte.

Ad ogni modo, Bion interruppe il flusso dei suoi pensieri prima che potesse formulare qualsiasi parola, e iniziò a indicargli e spiegargli i luoghi contrassegnati sulla mappa.

“Ci sei mai stata?” Rigel la guardò fisso negli occhi.

Bion socchiuse le labbra. “Una volta, ma poi mi hanno catturato e rinchiusa nella base militare da cui sono scappata stanotte”.

Rigel era sorpreso. “Vuoi dire che ci sei stata da poco?”

La ragazza si aprì in una risata. “Sette mesi fa”, lo guardò, studiando la sua reazione.

Lui ricambiò lo sguardo. Era incredibile che fosse stata tutto quel tempo prigioniera in mano al nemico. Chissà quali pensieri le avevano attraversato la testa durante la prigionia. E come si era sentita, privata della sua libertà.

“Se c’è una cosa che ho capito, Rigel, è mai sottovalutare il tuo nemico, soprattutto se si parla di Sycor”.

Rigel notò un lampo di terrore attraversarle lo sguardo. Era evidente che fosse rimasta impaurita e provata da quell’esperienza.

“Sette mesi e non sono riusciti a trasformarti in un Sostituto?”

Bion abbassò la testa, e divenne pensierosa. “Ci sono andati vicini a uccidermi. Non so se conosci il procedimento, ma non è breve come potrebbe sembrare. Ci vogliono giorni ed è molto dispendioso di uomini e denaro. È per questo che Sycor ha concentrato le attrezzature e i macchinari necessari solo in alcune delle sue basi militari, sono le più importanti e sono note come i Poli. Su tutta la superficie di Hestla, finora sono stati creati soltanto quattro Poli”, Bion girò la mappa che aveva tra le mani, rivelando una lieve ma visibile marcatura dei confini di Hestla, le città principali, la morfologia e i punti fondamentali del suo territorio. Con un carboncino rosso erano state marcate quattro croci, che contrassegnavano quattro punti, quasi a formare un rombo.

“Queste che vedi corrispondono alla posizione dei quattro Poli”, Bion indicò i segni rossi. “Quando mi hanno catturato, sono stata trasportata da una base all’altra. Mi hanno fatto controlli in laboratorio, e poi mi hanno sbattuto in una cella. Non so che cosa avessi che non andava, ma mi hanno trattato come un esemplare difettoso. Ad ogni modo, qualunque imperfezione abbiano trovato in me, gli devo la vita”.

Rigel annuì. “Sei certa che indichino i luoghi esatti?” domandò facendo un cenno verso la mappa con i segni rossi.

“Ho visitato tante di quelle basi militari che ormai non tengo più il conto. Fidati, se non sono esatti, ci vanno vicino”, sorrise, per spezzare la tensione. Tuttavia c’era un tono amaro nella sua voce.

“Uno dei quattro Poli, il maggiore, è questo a Sud e corrisponde a Nallav, città dove si trova la dimora di Sycor e della sua famiglia. È qui che tutto è elevato al massimo. È qui che c’è la più alta concentrazione di Sostituti di Hestla. La popolazione sta letteralmente traboccando. Quando sono stata lì, sette mesi fa, mi è sembrato di vivere in un altro mondo. Ci sono guardie e militari a ogni angolo. Ogni via della città è asmatica, compressa di persone, traffico, puzzo e grida. Passare inosservati può essere facile in un posto del genere, ma il problema è che hanno dei sistemi elevatissimi che rilevano la presenza di umani soltanto camminando per la strada.

Io non lo sapevo, e così mi hanno catturato. Ma sono riuscita a rubare delle informazioni fondamentali che mi hanno aiutato a completare la mappa”, guardò Rigel, che questa volta la ascoltava affascinato. Restò in attesa che lei continuasse e Bion capì perfettamente cosa gli premeva sapere. “Il resto l’ho ricavato da vecchi tomi, mappe e indicazioni che ho saccheggiato qua e là, soprattutto durante le mie incursioni nelle basi militari del territorio”.

“Hai visitato ogni angolo di Hestla, insomma” commentò Rigel.

“Sì, da quando ho facoltà di camminare”.

Rigel la fissò ammirato. Era davvero incredibile quanto avesse viaggiato. Hestla aveva una superficie piuttosto estesa, e comprendeva diverse regioni, con morfologie del territorio diverse. A nord c’era una lunghissima catena montuosa, mentre a est e a ovest era bagnata dall’oceano. Era di forma massiccia, un blocco compatto su cui si alternava ogni varietà possibile di territorio. Rigel era sempre rimasto nei pressi di casa sua, nella foresta di Ismene, a nord-est. Era lì che aveva vissuto tutta la sua vita e non aveva mai viaggiato, almeno non al di fuori dei confini della foresta. All’improvviso si sentì sciocco e incompetente accanto a Bion. Da lei trasparivano tutto il suo sapere, la sua forza di volontà e la determinazione. Era di poco più giovane di lui, ma molto più esperta sul mondo, molto più forte.

Quei pensieri per un momento spaventarono Rigel e lo demoralizzarono. Fu come se la sua inutile vita gli passasse veloce davanti agli occhi, e non ci fu niente che attirò la sua attenzione. Era stata solo un susseguirsi di eventi scialbi, monotoni. Ingoiò la saliva. Pensarci lo rendeva triste.

Bion lo riscosse dai suoi pensieri. Gli picchiettò su una spalla e gli indicò Freya.

“È normale che faccia così?” gli chiese spaventata.

Rigel spostò lo sguardo sulla lince rossa. Era davanti a loro, la coda ritta, le fauci spalancate e un’espressione aggressiva negli occhi dorati. Il verso della lince è un suono riconoscibile e molto acuto. Freya era solita miagolare sonoramente in situazioni normali. Rigel ricordò una volta quando si persero nella foresta e Freya iniziò a produrre un suono così acuto che rimbombava contro ogni fusto e ogni chioma. Era come se la foresta cantasse con lei, animata dal suo miagolio. Non fu difficile ritrovarla quella volta.

Eppure, ora, Freya non emetteva alcun suono. Poteva significare soltanto una cosa: c’era qualcuno che non avrebbe dovuto udire il suo richiamo.

Rigel formulò il pensiero nel giro di pochi secondi, afferrò la pistola posata sul cuscino al suo fianco e prese Bion per un braccio. Fulmineo, spense la luce accesa delle candele sul tavolino e si rifugiò dietro al divano, Bion accanto.

Ora che Freya aveva fatto il suo dovere, si andò a rintanare tra la boscaglia, compiendo un salto silenzioso fuori dalla finestra e fu inghiottita dall’oscurità. Bion fu sul punto di avvertire Rigel che la lince era scappata, ma lui le mise una mano sulle labbra e la zittì con un gesto della mano.

Lui stesso aveva visto Freya scomparire eppure era rimasto tranquillo. Bion si chiese come tutta quell’intesa tra uomo e animale fosse possibile. Come sapeva una lince che qualcuno stava arrivando e come poteva capire di non fare rumore, per non essere intercettata? E poi come poteva Rigel essere certo che sarebbe tornata, dopo essersene andata via nella foresta?

Era qualcosa che forse non avrebbe mai compreso.

L’intuizione di Freya fu giusta. Il silenzio dell’oscurità fu interrotto dallo scalpiccio di robusti stivali sul pavimento di legno.

“Fa silenzio idiota, ti farai scoprire” disse una voce, in seguito ad uno scricchiolio.

Rigel continuò a tenere la mano sulla bocca di Bion, mentre con l’altra impugnava la pistola, pronto all’attacco. Dovevano essere almeno due, ma non era da escludere che fossero molti di più. Rigel si rese conto ben presto che il rifugio dietro al divano non era stata un’idea geniale, poiché non erano perfettamente nascosti e ben presto sarebbero stati scoperti.

I capelli scuri legati in una coda di Bion gli solleticarono il mento, quando lei si distese contro il suo petto. Rigel le tolse la mano dalla bocca e aggrottò le sopracciglia, confuso. Non capiva cosa stesse facendo, e per un momento gli balenò il pensiero che fosse tutta una montatura e che fosse arrivato il momento in cui anche lei, come tanti altri lo tradisse. Si trovò a disagio, non sapeva cosa fare, la testa viaggiava troppo in mezzo a pensieri negativi, e lui aveva perso ogni concentrazione.

I due Sostituti si avvicinavano sempre di più e uno di loro fece scattare il mitra. Bion era a un soffio dal pavimento, e in quella posizione era alquanto difficile che potesse scattare in piedi e scappare. Così facendo aveva costretto Rigel ha scostarsi da lei, e quindi ad allontanarsi dallo schienale del divano e rendersi più visibile al nemico.

Il ragazzo teneva gli occhi puntati su Bion, ed era pronto a ogni eventualità, la pistola in mano.

Tutto si svolse in una frazione di secondo. Bion si era allungata per afferrare una mitragliatrice posta sotto il divano, la estrasse e con una velocità impressionante ruotò il suo corpo passando da una posizione supina a una prona, fece leva con una mano e con entrambe le gambe per alzarsi in piedi, mentre con l’altra mano puntò la mitragliatrice dritta alla testa del Sostituto che ora li aveva visti e stava per sparare.

Una raffica di proiettili gli bucò la fronte e quello cadde all’indietro, senza il minimo spargimento di sangue.

Rigel, che aveva osservato la scena dalla sua posizione, scattò in piedi e senza perdere tempo sparò al secondo Sostituto, ferendogli il petto. Rimase interdetto quando quello incassò il colpo e lo guardò sogghignando con sguardo vittorioso. Era ancora vivo, ancora in piedi e si mosse a grandi falcate nella loro direzione.

Rigel sparò di nuovo, ma la sua mira divenne disordinata, il Sostituto si muoveva in modo scombussolato, il busto e le gambe serpeggiavano a destra e a sinistra. Alzò l’arma e preparò il colpo, che avrebbe trovato spazio tra i polmoni di Rigel, se Bion non fosse saltata in piedi tra i due e non avesse sparato diretta in mezzo alla fronte del Sostituto.

Al rumore assordante delle cartucce scartate seguì un silenzio immane, frammezzato dal tonfo del corpo del semi-robot che cadde a terra, spaccando il vetro del tavolino.

Bion calò la mitragliatrice e si voltò. Rigel stava dietro di lei, la pistola ancora puntata e il volto in un misto tra lo stupore, la rabbia e lo sconcerto. Abbassò l’arma, ancora stretta tra le dita e accennò un sorriso a Bion.

“Mira alla fronte per ucciderli. Ti sarà utile saperlo la prossima volta” fu tutto ciò che lei disse, alzò il braccio e si appoggiò l’arma sulla spalla. Si sentiva molto più a suo agio armata che disarmata.

Rigel non aveva mai ucciso nessuno. Ancora una volta si sentì inferiore a lei, come uno scolaretto impertinente che pensa di sapere tutto, ma poi si deve confrontare con la maestra molto più saggia ed esperta. Odiava sentirsi così.

“Immagino debba ringraziarti un’altra volta”, disse alle spalle di Bion.

Lei si era avvicinata ai due corpi, e si era chinata per esaminarli. Appoggiò la mitragliatrice a terra, e sfilò un coltellino dallo stivale. Alzò il braccio di uno dei Sostituti e praticò una piccola incisione in senso verticale, seguendo quella che negli umani era la linea naturale delle vene. Aprì con le dita i lembi della carne dura, non una goccia di sangue uscì. Dentro, un agglomerato di fili di metallo scoppiettavano, come quando c’era un corto circuito. Bion chiamò Rigel, che la raggiunse e si chinò dall’altra parte del semi-robot.

“Vedi questi fili interrotti e crepitanti? Significa che è morto, è fuori uso. Soltanto un colpo sicuro al centro della fronte lo provoca. Nient’altro. È quello il loro punto debole. È lì racchiuso il nucleo che li fa funzionare, come per noi umani lo è qui” Bion allungò le dita fino a sfiorare Rigel all’altezza del petto, lui sussultò, “dove c’è il cuore”.

Si fissarono per un lungo istante, poi lei ritrasse la mano imbarazzata.

“Il cuore in testa” commentò Rigel, ridacchiando.

Ma Bion non rise. Lasciò cadere il braccio molle del Sostituto a terra e diede un breve sguardo al suo volto, con una smorfia di tristezza. Era difficile pensare a quegli esseri soltanto come a dei robot che dovevano essere uccisi. In realtà, un tempo, anche loro erano stati umani, probabilmente con una famiglia, dei figli. Nessuno le poteva dire se fosse stato una buona persona o meno. Ma ormai dovevano solo essere eliminati, dovevano solo essere visti come robot cattivi senza pietà. Eppure non erano completamente robot, infatti, erano chiamati semi-robot, dal fatto che conservavano l’aspetto, i sentimenti e le emozioni umane, sebbene in dosi molto minori.

“Come facevi a sapere della mitragliatrice?” le domandò Rigel.

Si voltò e fu come se i contorni del suo viso andassero delineandosi meglio mentre lo guardava. Come se emergesse dai suoi pensieri e la facesse tornare improvvisamente alla realtà. Sospirò e impugnò l’arma, lanciandogliela tra le braccia. “È da quando sono arrivata che esamino la tua casa, non te ne sei accorto?”

Rigel sgranò gli occhi, ma cercò di assumere un’espressione calma.

“Ci sono altre tre mitragliatrici appese al soffitto, dello stesso colore del legno per essere camuffate meglio. Un fucile d’assalto nascosto nel porta ombrelli, sette pistole automatiche sotto il bancone della cucina, una frusta camuffata con il cordone per tirare le tende e… be’ penso che quel set fantastico di coltelli non lo usi molto in cucina, o sbaglio?”

Rigel era sicuro che la sua mandibola fosse scesa fino al pavimento. Era sempre più impressionato dell’abilità di quella ragazza. Nel breve tempo che aveva trascorso in casa sua aveva osservato ogni angolo così attentamente da scoprire tutti i suoi nascondigli più astrusi. Era senza parole e per un attimo si chiese cosa ne avesse fatto di lui, ora che sapeva tutti i suoi segreti.

“Dimenticavo la porta a muro chiusa col catenaccio. Posso solo immaginare l’arsenale che nascondi là dentro” Bion scrutò a lungo Rigel, mentre lui cercava di eludere il suo sguardo. “Non è che mi faresti dare un’occhiata?”

Rigel ingoiò la saliva. Era come al solito combattuto. Da una parte Bion gli aveva salvato la vita due volte, sebbene lui non glielo aveva mai chiesto. Lo aveva aiutato, gli aveva insegnato molte cose e aveva condiviso con lui la sua mappa, parte della sua storia e molte sue conoscenze. Dall’altra parte, c’erano indubbiamente cose che sapeva e che non gli aveva detto, cose su di lui. Si chiedeva cosa l’avesse portata proprio a casa sua, e cosa la spingesse a insistere per averlo come compagno di viaggio. Sembrava lo conoscesse da tempo nonostante lui non l’avesse mai vista prima. Si rese conto che in ogni campo, in ogni situazione lei si trovava sempre un passo avanti a lui.

“Lo so che non ti fidi di me, ma se avessi voluto ucciderti, non pensi che l’avrei già fatto? Ti ho salvato la vita due volte, non sono un’assassina. Non ci ricavo niente ad ammazzare la gente” Bion lo fissò intensamente e Rigel lesse un fondo di verità nei suoi occhi verdi.

Alla fine cedette e la condusse fino alla porta di ferro battuto. Si voltò a guardarla, lei pareva non stare in sé stessa, poi sciolse il catenaccio e abbassò la maniglia. Dentro al muro era incavato uno stretto spazio rettangolare. Rigel tirò una cordicella che pendeva di lato e una lampadina luminosa si accese sulle loro teste. Lo spettacolo era vasto e vario. L’arsenale era formato da una miriade di armi differenti, fucili, mitra, mitragliette, pistole automatiche, numerosi taser, una fionda, diverse catene di ferro e perfino un lanciafiamme. Bion allungò le dita per sfiorare il calcio di alcune pistole. Era tutto in perfetto stato, senza un filo di polvere.

“È davvero impressionante. Dove hai trovato tutta questa roba?”

Rigel fece finta di spolverare alcuni fucili con le dita. In realtà erano come splendenti alla luce della lampadina.

“C’è un sistema di aereazione sul soffitto. Si attiva ogni due ore e rinfresca un po’ lo spazio, anche se tenuto chiuso. È fantastico, l’ha ideato mio nonno”.

Bion emise un’esclamazione di meraviglia.

“È stato mio nonno che ha iniziato a racimolarle. Aveva una vera e propria passione per le armi. Con il passare del tempo sono andate in eredità a mio padre e ora a me. Le tengo perché non saprei dove altro metterle, nelle mani sbagliate possono essere letali. Non escludo che mi possano sempre tornare utili, per autodifesa, anche se tutte queste non le userò mai. Preferisco averne una con me”.

“Penso che con due ti sentirai meglio” Bion prese una pistola automatica dallo scaffale e gliela spinse contro il petto. Ne prese altre due per sé, diede un’ultima occhiata a tutto il resto e girò i tacchi.

“Non appesantiamoci troppo, ci rallenterebbe soltanto”.

Rigel sospirò e la seguì fuori dallo stanzino. Chiuse la porta e la assicurò accuratamente con il catenaccio.

“Se ce n’erano altri a seguirli, non tarderanno ad arrivare. Dobbiamo andarcene il prima possibile”.

Rigel la guardò a bocca aperta. Era confuso da quella decisione repentina. Non aveva intenzione di lasciare casa sua, o almeno non così velocemente e in piena notte, senza un posto dove andare. Era convinto che lì sarebbero stati molto più al sicuro che dispersi nel bosco. “Dovremmo restare invece, almeno finché non si fa giorno. Saremmo di gran lunga una preda più facile se ci mettiamo a gironzolare nella foresta, non credi? Sarebbe come gridare ‘siamo qui, venite a prenderci!’ Ci troverebbero immediatamente”.

Bion si lasciò sfuggire un sorriso. Chinò il capo e annuì. “Questa volta hai ragione tu”.

Rigel, finalmente, si sentì sollevato e rallegrato di aver fatto qualcosa di utile.

Con un balzo, Freya atterrò in mezzo a loro, senza produrre il minimo rumore. Rigel s’illuminò appena la vide e balzò a terra, stringendola a sé. Accarezzò il morbido pelo e le diede un affettuoso bacio sul muso. “Ti aspettavo” le sussurrò. Freya iniziò a fare le fusa, e quel suono riempì il silenzio, cullandoli come una dolce melodia rilassante.

Bion sentì i muscoli tesi della schiena sciogliersi, e finalmente poté prendere un profondo respiro. Si lasciò cadere sul divano, e chiuse gli occhi. Per lei era stata una lunghissima giornata, si poteva definire interminabile, come i lunghi mesi che aveva passato prigioniera, trasportata da una base militare a un’altra e finalmente il tanto meritato riposo era arrivato.

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Capitolo 3
*** Ricordi ***


2

Ricordi

 

 

Le fusa di Freya riscaldavano ancora l’aria, mentre Rigel l’accarezzava. Bion gli aveva chiesto se poteva usare il bagno, e così era scomparsa là dentro da oltre mezz’ora.

Le donne. Pensò Rigel, ricordando con nostalgia un tempo ormai troppo lontano in cui doveva aspettare la sua ragazza ogni volta prima di portarla fuori. Si chiamava Avy e per lui corrispondeva ad un periodo spensierato e felice della sua vita, quando era adolescente e ingenuo. Lei era un Sostituto, viveva giù al villaggio. Rigel lavorava per suo padre, faceva il fabbro e lei compariva qualche volta sulla soglia della bottega e lo fissava.

Ogni giorno che passava, Avy era sempre più presente, la sentiva spiarlo da dietro le porte, e ogni volta che lui si girava per scambiare un’occhiata con lei, Avy si nascondeva, spaventata. Una sera, Rigel si era trattenuto per finire un lavoro e lei gli si era avvicinata, timida.

Da allora si vedevano di nascosto quasi ogni giorno, e Rigel trovava sempre una scusa buona per restare di più alla bottega, soltanto per vederla e per passare del tempo con lei. Ma il padre di Avy era molto severo, alle cui decisioni la famiglia non si poteva sottrarre. Quando aveva scoperto i loro incontri notturni, aveva giurato di uccidere Rigel e di bastonarla se non lo avesse dimenticato. Il giorno dopo, Rigel aveva perso il posto. Avy, una notte, era corsa a casa sua e gli aveva detto addio per sempre.

Da allora Rigel era tornato alla sua predestinata solitudine. Quel ricordo gli ispirò amarezza. Era stata l’unica ragazza che avesse mai avuto, e non era nemmeno umana. Sorrise con tristezza e si alzò, andandosi a sedere sul divano. Freya lo seguì e gli si accovacciò affianco.

“Allora, non mi hai ancora detto se ti fidi di lei o no?” fece Rigel, guardando la lince.

Le paiuzze dorate negli occhi dell’animale brillavano.

Rigel sbuffò una risata. “Quando mai a te non piace qualcuno?” scherzò, stropicciandole il pelo sulle orecchie.

Bion tornò dal bagno, era vestita con la tuta nera di pelle, i piedi scalzi e i capelli scuri bagnati e sciolti da una parte. Se li spazzolava lentamente.

Rigel la guardò, mentre lei lo raggiungeva e gli sedeva accanto sul divano.

“Scusa se ci ho messo tanto, ma avevo proprio bisogno di una doccia. Questa l’ho presa dal bagno, spero non ti dispiaccia” alzò la spazzola verso Rigel. Lui fece cenno di no con la testa.

Bion sorrise e chinò il capo. Si toccò i capelli, lisciandoli con la mano.

Rigel si perse nel suo sguardo. Era completamente diversa da prima. Con i capelli sciolti e gli occhi dolci, spogli di ogni ansia o paura. Aveva una qualche purezza e semplicità che le armi e l’affanno della battaglia le toglievano.

“Quando ero piccola, era mia madre che mi spazzolava sempre, ogni sera prima di addormentarmi. Diceva che così non si formavano nodi” sorrise amaramente, “ho sempre avuto i capelli lunghi, ma ora mi rendono troppo riconoscibile” porse a Rigel un paio di forbici spesse “tagliameli”.

Rigel la guardò sorpreso. “Dici sul serio?”

“Certo. Corti, sopra le spalle”.

Freya alzò le orecchie e si fece più attenta. Sembrava provasse una curiosità tipicamente femminile su come il risultato sarebbe venuto.

Bion si voltò dando le spalle a Rigel e spostò i capelli sulla schiena. Attese con pazienza che lui lo facesse, che glieli tagliasse. Si aspettava un taglio netto, invece Rigel andò piano, si prese il suo tempo e quando ebbe finito lei si sentì istintivamente più leggera, tolta da un grosso peso che metaforicamente si riferiva ai suoi 19 anni, a tutte le cose brutte e belle che aveva visto e vissuto nella sua vita.

Rigel continuò il lavoro, sfilettando alcuni ciuffi e cercando di rendere il taglio migliore. Alla fine lei si voltò e si scambiarono un sorriso.

“Ti dona” disse lui.

Bion arrossì e chinò il capo. Si passò una mano sui capelli che ora le avvolgevano il collo e terminavano in ciuffi più lunghi davanti e dietro la nuca. Si alzò e andò a guardarsi allo specchio. Per un attimo non si riconobbe, e restò a fissarsi attonita. Pensò che Rigel era stato davvero bravo, era completamente un’altra persona e in fondo quel taglio le piaceva.

Tornò al divano con un sorriso a trentadue denti. “Grazie”.

Lui fece un cenno con il capo.

“Ora dobbiamo occuparci dei corpi, hai qualche idea di dove potremmo nasconderli?” tornò al suo solito tono fermo e sicuro.

Rigel buttò un’occhiata ai due Sostituti morti che avevano lasciato sul pavimento della sala. Avrebbero potuto seppellirli nella foresta, dietro casa.

“È meglio che bruciamo tutto qui, prima di andarcene, comprese le armi. Se qualcuno trovasse questo posto, non esiterebbe a saccheggiarlo”.

Rigel le lanciò un’occhiata di sbieco. “Non avrò più un posto dove andare…”

Bion non rispose. Dalla sua espressione trapelava dispiacere. Dopotutto era stata lei ad entrare nella vita di Rigel e a scombussolarla. In fondo si sentiva un po’ in colpa, sebbene fosse certa della sua decisione. Era necessario che l’affiancasse fino alla base di Sycor. Non sapeva per quale motivo, quale ragione avessero di volere un ragazzo sull’orlo del baratro, che aveva perso la voglia di vivere, eppure era proprio il suo nome che aveva sentito pronunciare dai militare alla base di Sycor, tanti mesi prima.

 

 

“Come stanno andando le ricerche?” chiese un sovrintendente a un subordinato. Lei affilò l’orecchio, dall’interno della sua cella.

“Nessuna novità. Sembra che sia sparito dalla faccia di Hestla”.

“Questo dannato Rigel ci farà ammazzare tutti. Il signor Sycor lo sta cercando da anni, è mai possibile che non si sia mai fatto vivo?”

Il soldato rimase in silenzio.

“Siete certi di aver ispezionato con cura ogni angolo della foresta di Ismene?” continuò il sovrintendente, spuntando le parole a denti stretti.

“Sì signore, da quello che ci è stato riferito dalle basi locali, hanno avviato un’ispezione ogni mese, per due anni, ma senza alcun risultato”…

 

 

Bion ricordò le voci secche e dure dei soldati come fosse ieri. Si ricordava anche quando era stata informata, un mese prima, che l’avrebbero spostata in una base militare a nord, e lei aveva iniziato a pianificare la sua fuga, per andare alla ricerca di Rigel, nella foresta di Ismene.

Ancora non le era chiaro come avesse fatto lui a raggirare i militari per due anni, come era possibile che nonostante le ricerche, non fosse mai stato trovato. 

“Mi è venuta un’idea, spostiamoli nel ripostiglio delle armi”.

Bion sussultò e si voltò verso Rigel. Lo aiutò a trasportare i corpi, tenendoli per i piedi, mentre lui li reggeva per le mani. Aprirono il ripostiglio e ci ficcarono dentro i due corpi afflosciati dei Sostituti, uno sopra l’altro, come vecchie bambole di pezza.

Rigel fece un passo indietro, chiuse la porta e la serrò con il chiavistello. “È meglio riposarci ora. Non mancano molte ore all’alba, e se dobbiamo metterci in cammino è meglio essere svegli”.

Bion era confusa. Avrebbero lasciato quei corpi là dentro? Non era una buona idea, ogni traccia doveva essere cancellata, le armi e i corpi dovevano sparire. Avrebbe voluto ribattere e avanzare le sue ragioni, ma la stanchezza ebbe la meglio e si abbattè su di lei come un macigno. Ad un tratto, sentì gli occhi chiudersi, le gambe cedergli.

“Puoi usare la camera dei miei genitori… non ci sono più entrato da quando… in ogni modo dovrebbe andare bene…”

La voce di Rigel era come lontana, ovattata. Bion lo seguì fino ad una porta di legno scuro.

Rigel girò la chiave, che cigolò nella serratura e furono nella stanza. Le finestre erano serrate, una lampada al neon faceva luce sotto una densa coltre di polvere. Il puzzo di chiuso invase all’istante le loro narici, insieme al pizzicore della polvere alzata dai loro stivali.

Rigel diede qualche colpetto con la mano sulla coperta,  sollevando nuvolette di polvere che si espansero per l’aria.

 “Andrà più che bene” disse Bion, guardandosi in giro incantata.

Rigel socchiuse gli occhi e la studiò un’istante, prima di annuire e uscire dalla stanza. Appena ebbe messo piede nel corridoio, si domandò se avesse fatto la cosa giusta.

 

 

La porta si chiuse alle sue spalle e lei rimase sola. Era da tanto tempo che non vedeva una camera arredata, un luogo appartenuto a persone normali, comuni. Tutto, attorno a lei, gli ricordò sua madre e sua sorella, in un tempo troppo lontano in cui erano tutte e tre insieme.

Sospirò e si mosse verso un vecchio mobile a muro. Sopra era posto uno specchio di vecchia fattura, il vetro perfettamente intatto ma ricorperto da una fitta coltre di polvere. Il suo riflesso era più che altro un’ombra su quella superficie.

Aprì il primo cassettone e guardò dentro. C’erano numerosi ritratti, incorniciati e ammucchiati. Ne estrasse uno che l’attirò subito: un uomo, una donna e un bambino biondo, sorridente e spensierato. I suoi occhi blu la fissarono attraverso la pellicola trasparente. Anche da grande Rigel aveva conservato quello sguardo indagatore e profondo. Bion non fece a meno di sorridere, vedendo quel ritratto famigliare. Era qualcosa che avevano in comune, loro umani sopravvissuti: una famiglia perduta e tanti ricordi. Per un attimo si sentì male per quello che stava facendo. Provò un dolore allo stomaco, un insopportabile fastidio. In fondo Rigel era proprio come lei, un sopravvissuto, eppure lo stava dando in pasto al nemico.

Bion si sedette sul letto, alzando un velo di polvere tutto attorno. Chinò il capo e si guardò le mani. Che cosa stava facendo? In cosa si stava trasformando? Una traditrice della sua specie, un’ impostora che avrebbe consegnato un innocente soltanto per ricevere un profitto personale, per avere indietro sua sorella.

Perché era quello il suo piano, sin dall’inizio. Non era un caso che si fosse imbattuta in Rigel, quella notte. Non era un caso che lo avesse spinto alla ricerca dei suoi genitori, alla vendetta su Sycor. Dopo tutto quello che aveva sentito dire su Rigel, era certa che quel nome che aveva sentito pronunciare tra i militare alla base di Sycor corrispondesse proprio a lui. E se avesse portato loro la persona che tanto bramavano, loro non avrebbero esitato ad accettare la sua proposta di scambio e così avrebbe avuto indietro sua sorella Hana, finalmente.

Fu quel pensiero che la risollevò. Poter riabbracciare Hana, stringerla e confortarla. Era tutto ciò che le era rimasto.

Diede un’ultima occhiata alla foto della famiglia di Rigel, sulle sue ginocchia, si alzò e ripose la cornice nel cassettone. Lo chiuse e si sdraiò sul letto; il sonno la colse all’istante.

 

 

Rigel camminò lentamente verso la sua camera. Aveva spento tutte le luci e la sua casa ora, era come un immensità oscura. Si ricordava di quanto avesse paura del buio da bambino. Ogni volta correva tra le braccia di sua madre, buttandosi nel suo grembo, quando le luci si spegnevano.

“Non devi confortarlo, non imparerà mai a divincolarsi da questa paura e rimarrà un fifone!” sbraitava ogni volta suo padre. Non lo diceva in tono cattivo, tutt’altro. Desiderava solo che Rigel diventasse forte e coraggioso. Desiderava che fosse in grado di cavarsela da solo nel caso a loro fosse successo qualcosa.

Solo dopo la loro scomparsa Rigel aveva ringraziato mentalmente suo padre per gli insegnamenti ricevuti, e sua madre per tutto l’amore. Da quando aveva quindici anni, niente gli faceva più paura.

Aveva dovuto crescere in fretta, pensare a se stesso, uccidere insetti con le proprie mani, che un tempo non avrebbe nemmeno sfiorato con un dito. Cacciare le proprie prede nella foresta, quando i soldi per il mercato scarseggiavano. Aveva trovato un lavoro presso un fabbro e aveva lavorato duro fino a vent’ anni per guadagnarsi la pagnotta.

E in ogni stralcio di tempo che gli restava, indagava su dove fossero stati portati i suoi genitori e, più importante, se fossero ancora vivi o meno.

Arrivò alla porta della sua stanza e ci si appoggiò sopra, aprendola ed entrandoci.

Una lampada al neon illuminava l’interno, semplice e spoglio. Sembrava quasi una cabina di un militare: un letto, un armadio, una scrivania… non erano le cose materiali ad interessargli.

Prima che la porta si richiudesse, Freya zampettò dentro.

Rigel si sedette sul letto e si lasciò cadere all’indietro. Si nascose il volto tra le mani. Cose stava facendo? Perché si era fatto convincere da quella ragazza sconosciuta a seguirla fino alla tana del lupo? Pensava davvero che avrebbe ritrovato i suoi genitori? Che sarebbero stati là ad aspettarlo e che lo avrebbero riabbracciato, sani e salvi?

Aveva troppi brutti pensieri per la testa. Doveva pensarla in un altro modo. Quella notte era iniziata troppo male. Si voleva togliere la vita, eppure dopotutto era ancora lì, su quel letto. E più importante, con qualcosa da fare. Qualcosa che lo stimolasse. Una ragione per vivere.

 

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Capitolo 4
*** Vite Precedenti ***


3

Vite precedenti

 

 

 

 

 

Un tiepido sole mattutino lo accolse al suo risveglio. Si stropicciò gli occhi e si portò una mano sulla fronte. Sentiva i muscoli rilassati e sciolti, come se avesse appena fatto la dormita migliore della sua vita. Rigel si alzò dal letto quasi controvoglia, sebbene non fosse abituato a svegliarsi tardi. Sfiorò con i piedi la coda di Freya, acciambellata a terra, e uscì dalla stanza. Entrò nella sala e fu accolto da un piacevole tepore e da un cinguettio allegro di uccellini. Poi incontrò lo sguardo di Bion, dietro al bancone della cucina, sui fornelli.

“Buongiorno”, lo salutò lei, con un sorriso.

Rigel avanzò nella sua direzione e si fermò dall’altra parte del bancone. Fu piacevolmente accolto dal profumo di uova appena cotte.

“Mi sono data da sola il permesso di preparare qualcosa, spero non te ne abbia a male” fece un cenno con il capo verso il tavolo da pranzo.

Era apparecchiato e imbandito di cose deliziose e profumate. C’erano frutta fresca, bacon, salsicce, pancakes con sciroppo d’acero e gustosi frutti rossi. Bion gli si affiancò e versò nei due piatti le uova appena cotte.

“Sei arrivato giusto in tempo” commentò, appoggiando la padella sul bancone e mettendosi a sedere. Rigel era rimasto impalato davanti al tavolo, fissandola.

“Tutto bene?” domandò lei.

“È solo che… non ero più abituato a mangiare così… voglio dire, sembra tutto fantastico…”

“Aspetta di assaggiare prima” Bion rise e arrossì.

Rigel non se lo fece ripetere due volte. Si sedette dall’altro lato del tavolo e spazzolò tutto in breve tempo. Non si poteva certo dire che lei fosse da meno. Erano talmente affamati che i piatti furono sgombri e lucidi come appena lavati.

“Grazie davvero, Bion. Era tutto ottimo” gli occhi blu di Rigel la intercettarono.

Bion si alzò per evitare di arrossire di nuovo davanti a lui. E il suo sguardo la metteva piuttosto a disagio.

“Dai, aiutami a sparecchiare”.

Quando ebbero finito di lavare e riporre ogni arnese utilizzato, si sentivano entrambi come rinati. La giornata era fantastica, e dalle finestre aperte giungevano una leggera brezza e il tepore del sole estivo.

Rigel si sentiva rinvigorito come non mai. I brutti pensieri e il tentato suicidio della sera prima erano ricordi lontani. Per un attimo pensò che Bion avesse messo qualcosa dentro quel cibo, qualcosa che lo facesse sentire incredibilmente sereno e in pace con sé stesso. E anche lei pareva dello stesso umore.

Rigel non seppe come, ma si ritrovò sul divano, la testa appoggiata all’indietro e le gambe distese fino al pavimento. Una strana sonnolenza lo assalì. Gli occhi non ne volevano sapere di rimanere aperti e ogni rumore gli giungeva lontano, ovattato. Perfino la sua stessa voce, quando si sentì pronunciare il nome di Bion, quando gli si sedette accanto.

“Non so perché mi sento strana…”

Rigel voltò il capo verso di lei e il gesto gli provocò uno sforzo disumano. Incontrò i suoi occhi verdi, spenti e arrossati a un soffio da lui.

“Rigel… i tuoi occhi…”

Ma la sua voce era distante, non suonava nemmeno più umana. Rigel si sentì risucchiare sempre di più verso il fondo, verso l’oscurità di un sonno che lo richiamava. Chiuse gli occhi e finalmente poté assaporare una pace e una tranquillità estreme.

“Rigel!”

Si sentì scuotere violentemente. No, lasciatemi stare.

“Rigel, reagisci!” la voce continuava a chiamare il suo nome, sempre più insistentemente. La sua testa scrollava avanti e indietro forsennata.

Ritornò alla realtà di scatto; con un sussulto aprì gli occhi e la prima cosa che vide fu il volto di Bion. Lo teneva per le spalle e lo scrollava animatamente.

“Rigel... non era prezzemolo quello che ho messo nelle uova, ma erba Placidus…”

Rigel non era ancora pienamente in sé, riusciva a cogliere soltanto pezzi di discorso.

“Bevi…” Bion gli allungò un bicchiere con un liquido trasparente e dondolante all’interno. “È solo acqua…”

Bion gli alzò il capo e lo aiutò a mandare giù. Subito si sentì meglio, più in forze, più sveglio e a ogni sorso era come se ritornasse in sé un po’ di più.

Quando ebbe ripreso completamente conoscenza, si portò una mano alla testa e guardò Bion con sguardo indagatore. “Che cosa mi hai fatto?” irruppe.

Bion alzò le mani davanti a sé. Teneva qualcosa sul palmo, ciuffetti di erba. “Ho messo questa nelle uova. Pensavo fosse prezzemolo, ma non lo è. Si chiama erba Placidus e provoca una forte sonnolenza e pacatezza. Ti fa rilassare in modo assurdo, ma un uso eccessivo potrebbe non farti svegliare mai più…”

Rigel la guardava atterrito. “E cosa ci faceva nella mia cucina?”

“Rigel, ti giuro che non lo sapevo”.

“Ma guarda caso sai tutto sull’argomento. Mi sei sempre sembrata troppo strana…” Rigel si allontanò da lei, spostandosi sul divano.

Bion era quasi in lacrime. “Io… ho avuto a che fare con questo tipo di erbe in passato… e per fortuna sapevo anche come invertire i suoi effetti. Ti ho dato dell’acqua… ti ho salvato la vita…”

“Basta con questa storia! Ne ho abbastanza!” Rigel scattò in piedi. Era furibondo e nauseato. Ora capiva l’immenso sbaglio che aveva fatto con lei. Avrebbe dovuto cacciarla già dal primo momento. Non doveva fidarsi. Non doveva.

Tuttavia l’espressione di Bion sembrava autentica. Era dispiaciuta, gli occhi lucidi. Era come se sapesse di non poter più trovare scuse. Anche se aveva ragione, anche se questa volta era innocente, Rigel non l’avrebbe più ascoltata. Si alzò in piedi, ma qualcosa ruppe il silenzio tra di loro, e non furono le sue parole. Il suo volto cambiò espressione, rivolse lo sguardo alla finestra aperta. Delle voci, dei rumori in lontananza. Rigel rimase in ascolto a sua volta. Si scambiarono un’occhiata.

“Stanno arrivando” fu tutto quello che Bion riuscì a dire.

Non c’era più tempo per i litigi. A breve onde di Sostituti si sarebbero riversate nella casa, e avrebbero fatto in modo di ucciderli, o peggio di imprigionarli.

“Dobbiamo muoverci”.

Rigel aveva gli occhi fuori dalle orbite. Si guardava attorno, ancora scosso dall’esperienza con l’erba Placidus. Vedeva soltanto Bion muoversi a destra e a sinistra, rifocillandosi di armi. Si era equipaggiata con due pistole, un mitra di traverso sulla schiena, due coltelli nascosti negli stivali e qualche freccetta a stella aggrappata alla cintola della tuta aderente.

Rigel si dette una mossa, pigliò due pistole, un mitra e fece la scorta di coltelli. “Dobbiamo sbarazzarci dell’arsenale!” sbraitò, mentre Bion era già sul punto di uscire.

“Non c’è tempo!”

Ma Rigel non l’ascoltò. Aprì in fretta la porta, la gamba di uno dei Sostituti morti fece capolino fuori dal ripostiglio. Rigel si allungò sui due corpi e pigliò il bazooka appoggiato alla parete. Si allontanò quel tanto che bastava per prendere la mira e sparò.

In una frazione di secondo, il ripostiglio saltò in aria in una nuvola di fuoco, schegge e fumo. Rigel si allontanò correndo e raggiunse Bion, che si era voltata, infuriata.

“Che diavolo ti è saltato in mente? Così gli hai facilitato il lavoro!”

Rigel le gettò un’occhiata e continuò a correre fuori dalla casa che a poco a poco veniva avvolta dalle fiamme.

“Avrebbero trovato le armi! Dovevamo liberarci delle tracce!”

Bion fu sul punto di ribattere, ma ormai era inutile. Il danno era stato fatto, il fuoco si sarebbe alzato in aria molto rapidamente e avrebbe attirato l’attenzione su di loro in un baleno. Mentre correva e pensava a qualcosa da fare, notò un’ombra zampettare al loro fianco. Era Freya che li aveva raggiunti in un lampo.

Le voci dei Sostituti si andavano facendo sempre più chiare, alle loro spalle. Bion non smetteva di correre, veloce come un fulmine.

Rigel le teneva testa, ma erano partiti così velocemente che dopo alcuni minuti i muscoli già dolevano e bruciavano. Sentì il sudore colargli freddo sulla schiena e inondargli la fronte. A un tratto, si sentì prendere per la maglia e tirare in un’incavatura del terreno, dove una roccia abbastanza grande collegava due livelli di terreno sconnessi.

Bion atterrò con un balzo nella terra sottostante e si sedette, la schiena contro la roccia. Dopo che Rigel si fu buttato al suo fianco, gli intimò di fare silenzio, portandosi un dito contro le labbra. Erano così ansimanti che fu quasi un supplizio trattenere il respiro.

Le voci li raggiunsero nel giro di qualche minuto. Gli passarono proprio sopra, e fu allora che entrambi cercarono di appiattirsi il più possibile contro la roccia e serrare le labbra. Fortunatamente, avevano scelto un nascondiglio appropriato, che i Sostituti non scoprirono. Le loro voci si diramarono in altre direzioni della foresta, verso est.

Fu allora che Rigel prese un profondo respiro.

“Ci hai fatto quasi ammazzare, spero tu sia contento” fece Bion, arrabbiata.

In quel momento, Rigel non ci vide più. “Sbaglio o sei stata tu ha insistere nel cancellare le tracce a casa mia, ieri sera? Ho solo fatto quello che andava fatto, per il nostro bene. Così non avranno impronte da analizzare o segni da seguire”.

Bion lo fissò con un misto d’irritazione, sorpresa e comprensione. “Ad ogni modo, ora ci serve un mezzo per viaggiare e delle provviste” aprì la borsa che teneva a tracolla e frugò dentro. C’erano qualche frutto e qualche pezzo di formaggio.

Rigel fece lo stesso con la sua sacca. Non l’aveva caricata molto abbondantemente la sera prima. Un paio di mele e qualche pezzo di carne raggrinzita che Freya avrebbe di certo apprezzato.

Bion gli lanciò un’occhiata accusatoria. Gli stava dando la colpa se non avevano fatto adeguatamente provviste. Si slacciò la cerniera della tuta ed estrasse dal ventre la mappa di Hestla, che portava sempre con sé, come una seconda pelle. L’aprì e la stese. Rigel si piegò verso di lei, per vedere meglio.

“È meglio se passiamo per il villaggio a fare rifornimenti. Dopodiché, proseguiremo verso la città di Keel, a sud, dove troveremo un mezzo per spostarci”.

Rigel le lanciò un’occhiata scettica. “E come lo troveremo?”

Bion vagò nel suo sguardo. Sorrise. “Di questo non ti preoccupare. Ho delle conoscenze da quelle parti”.

Rigel alzò le sopracciglia. Mentre la guardava, gli sembrò che tutto fosse tornato come prima dell’erba Placidus. C’era quel qualcosa in lei che gli ispirava curiosità e in qualche modo fiducia. Eppure, ancora non riusciva a crederle del tutto riguardo all’erba. Chi altri poteva avergliela messa in cucina? Rigel non faceva entrare nessuno in casa sua da anni. Probabilmente l’ultima persona ad averci messo piede era stata Avy, quella notte che era andata a dirgli addio.

Bion si alzò che lui era ancora tra i pensieri.

“Forza, non c’è tempo da perdere”.

 

 

Arrivarono al villaggio verso mezzogiorno. Come sempre, nella via principale era allestito il mercato. Numerose bancarelle di ogni tipo si snodavano per miglia, i venditori si sbracciavano e gridavano le loro offerte, cercando di attirare il maggior numero di persone nella loro bancarella e guadagnare quanto più possibile.

Il villaggio si trovava a sud della foresta, quasi al limitare, in una radura piuttosto ampia, in cui alberi e fusti erano stati abbattuti per dare spazio alla civiltà. Non ricordava minimamente la grandezza delle città di Hestla, ma era comunque popolato, ed erano tutti Sostituti.

Era lì che Rigel aveva lavorato come fabbro, fino a due anni prima. Era lì che andava per rifornirsi di cibo.

Al mercato nessuno si curava di nessuno. Ognuno pensava solo per sé, a trovarsi le offerte migliori, ad accertarsi di concludere un buon affare, a stare attenti a non venire derubati… era il posto perfetto per loro, in quel momento.

Rigel aveva un bazooka e un UZI appesi alla schiena e due pistole ciondolanti dalla cinghia dei pantaloni eppure nessuno sembrò farci caso. Era solo un ago in un paiaio.

“Muoviamoci” sussurrò Bion. La sua espressione non nascondeva che quel posto non le piacesse particolarmente. Forse tutta quella tranquillità non era un buon segno, in fondo. Tra la gente indifferente poteva sempre nascondersi qualcuno che fingeva.

Si avvicinarono a una bancarella che vendeva frutta. C’erano così tanti colori diversi e profumi deliziosi che Rigel non seppe dove guardare. La colazione di quella mattina gli sembrò lontanissima, e la fame incominciava a farsi sentire. Con le poche monete che avevano racimolato prima di scappare da casa, comprarono quanta più roba potevano infilare nelle loro sacche da viaggio.

Si erano fermati davanti ad una bancarella che vendeva formaggi freschi, quando una voce alle loro spalle li attirò.

“Rigel?”

Rigel fu molto sorpreso di sentire pronunciare il suo nome. Si voltò lentamente, e spalancò gli occhi alla vista di una vecchia conoscenza.

Avy, quella che era stata la sua ragazza Sostituto, gli venne incontro e gli saltò al collo. Lo abbracciò così stretto che lui non ebbe nemmeno il tempo di vederla in volto.

“Non posso crederci, sei davvero tu?” fece Avy, staccandosi quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi. Gli accarezzò una guancia dolcemente.

Rigel non aveva ancora trovato le parole. Lanciò una breve occhiata a Bion, dietro di loro: aveva uno sguardo indefinito.

“Cosa ci fai qui?” continuò Avy.

Rigel si staccò da lei, indietreggiò e appoggiò una mano sulle spalle di Bion. “Facciamo un giro…” buttò lì, in tono vago.

Avy parve accorgersi soltanto allora dell’altra ragazza. La squadrò malamente per poi ripuntare gli occhi su Rigel. “Sarete affamati… venite a casa mia, vi offro qualcosa…”

Rigel guardò Bion, che non ricambiò lo sguardo. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, Avy lo strattonò e lo costrinse a seguirla.

Entrarono in una piccola bottega dall’altra parte della strada. L’interno era tetro e poco illuminato. Bion fece scivolare le dita sul calcio della pistola.

“Mio padre è molto malato… e mia madre fa avanti e indietro dalla fabbrica, per guadagnare qualcosa…” disse Avy, sottovoce.

“Mi dispiace” la voce di Rigel era un sussurro nel buio.

Avy annuì. “L’abbiamo fatto vedere dal dottore del villaggio, ma nemmeno lui ha capito cos’abbia. Sono preoccupata, Rigel” lo fissò negli occhi, lui chinò il capo senza sapere cosa dire.

Attraversarono una porta di legno, piccola e scricchiolante. Avy premette un interruttore sulla parete e una luce al neon si accese ad illuminare un tavolo di ebano, quattro sedie e qualche mobile povero da cucina.

“Sedetevi” Avy indicò le sedie con il braccio, mentre si affaccendava sui fornelli accesi.

“Avy, non c’è bisogno, davvero… noi…”

“Per favore Rigel, il cibo non ci manca”.

Rigel abbassò gli occhi e si sedette, seguito da Bion. Sospirò e si guardò attorno. Aveva il presentimento che il cibo gli mancasse eccome. Mentre vagava sui mobili di vecchia fattura e sui muri screpolati, incontrò gli occhi verdi di Bion, fissi su di lui. Si scambiarono una lunga occhiata. Gli voleva far capire che non potevano restare troppo tempo, dovevano essere a Keel prima di sera. Rigel ribatté con un’alzata di spalle. Avrebbe fatto in modo di andarsene il prima possibile.

Avy portò sulla tavola tre piatti fumanti di zuppa di legumi. Subito il profumo li inebriò. Era così gustosa che la finirono in poche cucchiaiate. Bion si alzò, con il piatto in mano.

“Faccio io” la fermò Avy.

Bion le sorrise appena. “Non c’è problema” e si diresse al lavello per sciacquare il piatto. Lanciò un’occhiata al tavolo, dove Avy e Rigel parlavano animatamente tra di loro. Si sentì di troppo, e quella sensazione non le piaceva per niente.

“Faccio un giro” esordì a voce alta, per sovrastare le loro voci. Entrambi la guardarono e Rigel sembrò lanciarle un’occhiata amareggiata. Avy la seguì con la coda dell’occhio, finché Bion non fu fuori dalla cucina.

 

 

Bion camminava per la stanza avanti e indietro già da un po’. Si avvicinava a un mobile a muro e ci passava sopra un dito, tirando su un denso strato di polvere. Andava alla finestra e ci si appoggiava, scrutando la via del mercato sottostante. Il sole stava tramontando, e aveva creato giochi di luce rosa, rossa e gialla in tutto il cielo.

“Che cosa avrei potuto dirle? Ci ha offerto un posto dove dormire” Rigel alzò le braccia e per l’ennesima volta le lanciò un’occhiata scrutatrice.

Bion era rimasta in silenzio fino ad allora. Si andò a sedere sul bordo del letto a due piazze e prese fuori i due coltelli che teneva negli stivali, iniziando ad affilarli tra di loro.

“E comunque mi fido di Avy. Nella sua famiglia sono tutti Sostituti ma sono brave persone”.

“Detto da te che eri il suo ragazzo, è molto rassicurante” Bion alzò gli occhi su di lui per una frazione di secondo.

“Potevi dirle tu qualcosa…”

“Io? Dirle cosa? Ma se mi ha a malapena notato…”

Rigel si buttò sul letto, al suo fianco. Si chinò in avanti e la guardò. “Scusami, okay? Io ti ho perdonato per l’erba Placidus, è il tuo turno adesso”. Non era certo di averla davvero perdonata in realtà, ma in quella situazione era la cosa migliore che gli fosse venuta in mente. “E poi sarebbe stato inutile continuare la marcia questo pomeriggio, avremmo dovuto passare la notte all’aperto”.

Bion in questo doveva dargli ragione. Avy e Rigel avevano parlato tutto il pomeriggio, mentre lei aveva gironzolato per il villaggio e quando era tornata alla bottega, il sole era già basso oltre le chiome degli alberi. Avy li aveva pregati di restare, insistendo a dire che le faceva immensamente piacere.

Quando Bion era tornata dal suo giretto, si era fermata oltre la porta della cucina, prima d’entrare. Aveva sentito uno strano silenzio dall’interno, dei sospiri e degli schiocchi di labbra. Capì che il ritrovo era stato alquanto lieto per entrambi.

“Come mai vi siete lasciati?” esordì, alzando gli occhi dai suoi coltelli per posarli su Rigel.

Lui pareva non avesse molta voglia di parlarne. “Suo padre non approvava. Io lavoravo per lui, facevo il fabbro. E Avy mi guardava sempre da dietro le porte…” sorrise, “era alquanto strana… ma carina. Ma quando suo padre ci scoprì, mi licenziò e la minacciò, vietandole di vedermi di nuovo”.

Bion annuì con il capo. “È per questo che sei così contento che non ci sia più suo padre tra i piedi?”

Rigel la guardò male. “Io non sono contento… piuttosto è lei che mi sembra diversa…”

“Vuoi dire che una volta non era così nevrotica?”

Rigel le lanciò un’altra occhiata storta. “Cosa intendi?”

“Voglio dire che mi è sembrata molto impaziente di saltarti addosso…” fissò i suoi occhi verdi in quelli blu di Rigel.

Lui ingoiò la saliva, come faceva spesso quando era nervoso. “Guarda che non è successo niente…” abbassò il capo e lo scrollò.

“Non mi interessa… dico solo che non è affidabile. È come se fosse stata informata del nostro arrivo e facesse di tutto per avere qualcosa da noi, indirettamente”.

Rigel si alzò in piedi e si voltò verso di lei. “Non ti sembra di esagerare adesso?”

Bion sospirò e tornò a concentrarsi sui suoi coltelli. Era piuttosto convinta delle sue ragioni. Lo sentiva quando qualcosa non quadrava, e quella Avy di sicuro non quadrava.

“Comunque sia, ora vado a farmi una doccia…” Rigel si tolse la maglietta verde militare e la lasciò sul comò.

Bion gli lanciò un’occhiata, mentre lui usciva dalla stanza.

 

 

Rigel s’immerse nel buio del corridoio. Cercò di fare piano: le assi del pavimento scricchiolavano. Il bagno era in fondo alla stanza, il bagliore di una fioca luce al neon traspariva dalla fenditura della porta. Avanzò tranquillamente, ed entrò. Era vuoto. Si richiuse la porta alle spalle, si tolse i pantaloni e si buttò sotto la doccia. Un getto di acqua gelida lo fece rabbrividire, ma nel giro di qualche secondo si trasformò in bollente acqua calda.

Rigel ripensò alle parole di Bion. Era come se non riuscisse del tutto a darle torto. Lui stesso non provava la stessa cosa che aveva provato per Avy, tempo prima. Qualcosa era cambiato. Sì, lui era cambiato forse, ma soprattutto la ragazza Sostituto si comportava diversamente. Un tempo era dolce, ingenua e timida. Era proprio quel suo carattere ad averlo attirato. Era spensierata, allegra. Ora, invece, sembrava tutt’altra persona. Certo, il dolore per la malattia del padre e la lontananza dalla madre, che lavorava tutto il giorno e tornava la sera tardi, l’avevano cambiata.

Rigel non sentiva per lei nessun sentimento più profondo dell’affetto che si può avere per una sorella.

Quei pensieri lo accompagnarono anche quando chiuse la manopola dell’acqua e si coprì con un asciugamano, uscendo dalla doccia. Si asciugò velocemente e si rivestì.

Uscì dal bagno, spegnendo la luce e tornò a passi lievi verso la camera da letto che Avy gli aveva riservato. Socchiuse leggermente la porta e sbirciò all’interno. Quando notò Bion stesa sul letto, entrò e prese subito la maglietta che aveva abbandonato sul comò.

La indossò e guardò la ragazza, i capelli ancora bagnati appiccicati alla fronte. Bion era stesa, appoggiata su un fianco, una gamba sull’altra. Il palmo della mano le reggeva la testa, mentre studiava la mappa.

Un’innaturale silenzio cadde nella stanza. Rigel sospirò e prese una coperta, ripiegata su una sedia, la gettò a terra.

Bion alzò lo sguardo su di lui. “Che stai facendo?”

Lui le rispose senza voltarsi. “È meglio se dormo per terra”.

Bion scosse la testa e si mise a sedere sul letto. “C’è posto abbastanza per tutti e due” disse, indicando l’altro lato del letto. Rigel ci si chinò sopra e prelevò il cuscino per poi buttarlo a terra sopra la coperta. Il giaciglio era pronto.

“Fa come ti pare” Rigel la sentì borbottare. Lei si alzò e uscì dalla stanza. Sembrava arrabbiata. Rigel si sedette a terra e si distese. Non era molto comodo, alcune assi cigolavano sotto il suo peso, ma poteva sopportarlo.

Sebbene fosse estate inoltrata e di giorno l’afa era insopportabile, di notte la temperatura calava parecchio e si alzava una brezza fastidiosa. Ma dentro quella piccola camera di legno era come stare in un forno. Rigel rimpianse l’acqua gelida della doccia. Avrebbe tanto voluto gettarsela addosso per rinfrescarsi.

Era sul punto di addormentarsi, quando sentì la porta schiudersi. Aprì un occhio e, nel buio, scorse la figura agile di Bion raggiungere il letto. La zip della cerniera scattò, si sfilò la tuta nera aderente,  la cintura e si rifugiò sotto le coperte, che frusciarono sul suo corpo.

L’ultimo rumore che Rigel percepì prima che gli occhi gli si chiudessero, fu il clic delle pistole caricate che Bion aveva nascosto sotto il cuscino.

 

 

Bion si svegliò come ormai era abituata. Aprì gli occhi, al buio e si guardò attorno. Un lieve raggio di sole traspariva dalle imposte chiuse. Si alzò e si vestì, agile e silenziosa. Recuperò tutte le sue armi, equipaggiandosi a dovere. Passò dall’altra parte del letto e si accovacciò a terra accanto a Rigel.

Il suo viso era rilassato e in pace, mentre dormiva. Bion restò a guardarlo per un po’, pensando che, mentre dormiva, assomigliava molto di più alla foto del bambino trovata a casa sua. Bion si mordicchiò il labbro. Per l’ennesima volta si chiese se quello che stava facendo fosse giusto. Rigel era un umano, proprio come lei, forse uno dei pochi rimasti su Hestla. Avrebbe dovuto salvarlo, lasciarlo andare, o sarebbe stato come tradire la sua stessa razza. In fondo, Rigel non gli serviva veramente. Lei era scaltra, veloce. Avrebbe raggiunto da sola la base di Sycor, avrebbe trovato un modo per aggirare la sorveglianza e una volta dentro avrebbe salvato sua sorella Hana. Quante possibilità aveva che quel piano in solitario andasse a buon fine? Probabilmente non molte, considerata la numerosa presenza di guardie attorno a Sycor. Ma avrebbe salvato la vita a Rigel.

Mentre il pensiero di andarsene si consolidava nella sua mente, si dispiacque soltanto di avergli fatto abbandonare casa sua. Ma in fondo, si disse, sarebbe stato più che bene con Avy. Insieme facevano una gran bella coppia.

Bion allungò le dita, tremanti, verso il viso di Rigel, ma si ritrasse quando lui girò il capo nel sonno. Prese un profondo respiro e si alzò, facendo attenzione a non far scricchiolare le assi del pavimento. Aprì la porta, e fu sul punto di varcarla…

“Vai da qualche parte?”

La voce di Rigel la fece letteralmente sussultare. Bion puntò gli occhi a terra, su quelli di Rigel, che la guardavano al contrario.

Lui si alzò in piedi e le andò vicino, così vicino che Bion sentì il suo respiro smuoverle i capelli. Con una mano, Rigel richiuse la porta. “Allora?” incalzò.

Bion era esterrefatta,  non sapeva cosa dire. In quei tre giorni, non aveva mai visto uno sguardo così deciso nei suoi occhi.

“Volevi andartene e lasciarmi qui, non è vero? Per farmi rimpiangere di aver lasciato casa mia per seguirti, e poi mollarmi alla prima incongruenza…”

“Con Avy…” iniziò lei.

“Con Avy un accidente! Non ho intenzione di restare qui. Sono venuto per trovare i miei genitori, per trovarmi faccia a faccia con quel bastardo che li ha rapiti, il resto non importa. Cerco vendetta, non compassione”.

Bion lo fissò negli occhi. “Perché non la ami più?” le uscì a mezza voce. Lei stessa fu sorpresa di quelle parole. Abbassò il capo, quello sguardo si stava facendo troppo intenso da sostenere.

“Forse non l’ho mai amata…” sussurrò Rigel, puntando gli occhi a terra. Da quando era rimasto solo, aveva sempre pensato di essere l’unico umano rimasto su Hestla. Non che avesse manie di grandezza o cose del genere. Semplicemente in tanti anni, non gli era mai capitato di incontrare umani. Quindi aveva in un certo senso accettato il fatto di vivere tra i Sostituti, come unica soluzione ad una vita in completa solitudine. In quanto umano, si era spesso sentito solo anche quando era in mezzo a tanta gente. Perché sapeva che a nessuno dentro scorreva sangue vivo, che nessuno poteva eguagliare la incontrastata e imperfetta bellezza dell’essere umano. Ma si era rassegnato.

Avy non corrispondeva a un grande amore, soltanto a un periodo spensierato in cui lei gli aveva fatto compiere alcuni passi fuori dalla solitudine. Le voleva bene, ma non l’amava.

“Allora andiamocene” disse Bion.

Rigel annuì, si girò a prendere tutte le sue armi e insieme uscirono dalla stanza. Si curarono di fare piano, per evitare di svegliare Avy e di doverle spiegare come mai se ne andavano furtivamente senza salutarla. Rigel si dispiacque solo di non poterle dire grazie per quell’accoglienza.

Quando scesero le scale e scomparvero oltre l’uscio della bottega, non potevano sapere che Avy aveva sentito tutto e si era nascosta, a piangere, nel bagno.

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Capitolo 5
*** Vecchie Conoscenze ***


4

Vecchie conoscenze

 

 

 

 

L’estate era sempre stata la stagione che preferiva. Le ore di luce erano tante durante il giorno, e il caldo invogliava a stare all’aperto, a giocare con Freya, ad esplorare la foresta… aveva i più bei ricordi legati a quella stagione. Quando aiutava sua madre a preparare dolci di frutta e poi andava insieme a suo padre a caccia nella foresta. E la brezza serale che rinfrescava i loro corpi sudati era così piacevole che trascorrevano ore di fuori a leggere e a parlare.

Eppure, tutto era così lontano. Come se appartenesse ad un’altra vita. Ora, mentre camminava, aveva davanti soltanto una schiena: quella di una sconosciuta di cui si era fidato, tanto abbastanza da seguirla nel suo folle viaggio verso la verità.

Bion si volse a guardarlo. Era quasi come se avesse percepito i suoi pensieri. “Tutto bene?”

Rigel aveva la vista un po’ appannata a causa del caldo soffocante e del sudore che gli colava dalla fronte. Se l’asciugò con la mano. “Quanto manca all’arrivo?”

Bion si umettò le labbra. “Dovremmo esserci quasi”.

E infatti non si era sbagliata.

Keel era una delle città più grandi di Hestla. Aveva uno stile unico e molto pittoresco. Una moltitudine di colori si davano il cambio lungo le strade. Tutto era impreziosito da dettagli di ogni genere e ricordava molto lo stile barocco e medio orientale del vecchio mondo.

Rigel non era mai stato a Keel e di certo non aveva mai visto niente del genere altrove. Una volta varcata la soglia della città, era come entrare in tutt’altro mondo. Sebbene la via principale ricordasse molto quella affollata del villaggio, era una decina di volte più grande e maestosa, sulla quale erano affacciati innumerevoli edifici dai colori più sgargianti e diversi, impreziositi da gemme sulle porte e sulle finestre.

“Stammi vicino” gli sussurrò Bion.

Quella città era piena di gente e Rigel si chiese se fosse sempre così o soltanto perché c’era il mercato. Ma in fondo, una delle maggiori città di Hestla non poteva certo essere altrimenti.

Rigel rimase attaccato a Bion, mentre si muovevano nel flusso di gente.

Il mercato cittadino era dieci volte più rumoroso e agitato di quello del villaggio. La gente si riversava sulle strade, gridava, cercando di accaparrarsi l’offerta migliore. Era terribile trovarsi là in mezzo, era necessario avere mille occhi per evitare di essere derubati, circondati da così tante persone. Dopo aver camminato a lungo per la via, finalmente Bion svoltò l’angolo, imboccando una stradina stretta e, in confronto al viale principale, piuttosto disabitata.

Rigel notò un’anziana signora spiare da dietro la tenda di una finestra, qualche bambino correva dietro ad un vecchio pallone sgonfio e un paio di uomini dall’aspetto rozzo e povero erano affaccendati a sistemare una parte di muro di una casa in rovina.

Rigel continuò a seguire Bion, finchè non si fermarono davanti ad una piccola porta di legno. Era grande la metà delle porte delle altre case e a Rigel non ispirava per niente.

Bion diede due colpi di nocche sulla porta. Dopo qualche secondo, si sentì una voce provenire dall’interno: “Chi va là?”

Lei avvicinò il volto alla porta. “Sono Bion”.

Silenzio dall’altra parte. Poi ci fu un forte rumore di catenacci e la porta si socchiuse con un pesante cigolio.

Un paio d’occhi dietro a spesse lenti li scrutò. La porta si richiuse di nuovo e ci fu un altro rumore di catenaccio sciolto. Finalmente l’uomo all’interno si rivelò completamente. Non era un uomo, ma un ragazzo, probabilmente della stessa età di Bion. Aveva ispidi e ritti capelli neri, untuosi, e vispi occhi verdi che luccicavano dietro ad una spessa montatura. Il naso a scivolo non aiutava a sostenerla, e così si ritrovava spesso a spingerla su con il dito. Il suo volto giovane si illuminò di un sorriso quando vide Bion, le squadrò dall’alto al basso e allargò le braccia stringendola e scuotendola a destra e a sinistra.

 “È un piacere vederti!” esclamò con voce acuta.

Bion si sciolse tra le sue braccia. “Anche per me lo è, Gruis”.

Gruis si accorse soltanto allora della presenza di Rigel. Si ritrasse dall’abbraccio e lo scrutò.

“Lui è un amico”, si affrettò a dire la ragazza.

Gruis non sorrise e non mostrò nessuna gioia nel salutare Rigel. Alzò un sopracciglio e si fece da parte. Li invitò ad entrare, intimandogli che era meglio non parlare fuori, con tutti i ficcanaso che c’erano in giro. Cliccò un’interruttore alla parete, una luce al neon si accese sulle loro teste.

Gruis tornò a fissarsi su Bion. “Che cosa ti porta da queste parti?”

Lei indugiò un’istante su quelle parole. “Ho bisogno del tuo aiuto”.

Gruis rimase a guardarla a lungo prima di rispondere. Si umettò le labbra. “Lo sai che mi fa sempre piacere, ma non penso che questo sia il momento migliore… vedi…” si avvicinò ulteriormente a Bion e abbassò la voce, “non sono solo…”

Bion lo guardò di sottecchi. Prima che potesse chiedere chi ci fosse con lui, quella persona apparve da un’altra stanza, avanzando ciondolante nella loro direzione.

Era un ragazzo robusto e molto alto, i capelli color miele corti e scompigliati sulla testa, e una pelle scura che tuttavia si sposava bene con i suoi lineamenti mascolini e gli occhi azzurro sfavillante.

“Arael” sussurrò Bion.

Il ragazzo, Arael, si illuminò in un affascinante sorriso. Si arrestò ad un passo da Bion, e senza levarle gli occhi di dosso le accarezzò una guancia. “Ogni volta sei sempre più bella”.

E tu sei sempre più presuntuoso avrebbe voluto dirgli lei, ma cercò di trattenersi. Arael distolse lo sguardo da Bion per posarlo su Rigel.

“Lui è un amico, siamo in viaggio insieme” disse Bion, sbrigativa.

Rigel allungò una mano verso Arael, che gliela strinse con una presa salda e forte.

“Piacere di conoscerti…”

“Rigel”, concluse lui.

“Rigel”, ripetè Arael in un sussurro.

Gruis aveva seguito la scena dal suo canto con un espressione terrorizzata. Era come se si aspettasse che succedesse il peggio da un momento all’altro. Bion gli si affiancò e gli appoggiò una mano sulla spalla, con un sorriso rassicurante.

“Non hai perso tempo vedo, dopo che ci hai lasciati”, continuò Arael, tornando a guardarla.

Bion sospirò e gli lanciò un’occhiataccia.

Rigel avrebbe tanto voluto avere un libretto illustrativo della situazione. Quei discorsi a metà non lo aiutavano a capirci granchè.

“Non vi ho lasciati, ho soltanto deciso di fare qualcosa nella mia vita”.

“E sentiamo, cos’è che stai facendo nella tua vita?” il volto di Arael si piegò in un sorrisetto provocatorio.

“Senti, sono venuta per parlare con Gruis, quindi se non ti dispiace…” disse Bion, seccata.

“… se non ti dispiace possiamo continuare questa conversazione un’altra volta, che ne dici?” Arael le si fece vicino, scrutandola dall’alto della sua statura.

“Sì, come ti pare”.

Arael scoppiò in un’allegra risata. “Allora me ne vado, visto che non sono più gradito…” alzò le braccia in un gesto molto teatrale, fece una sorta di giravolta su se stesso e, sorridendo, si avvicinò alla porta.

Rigel gli lanciò un’occhiata scettica di sottecchi, ma era attento a non rivolgergli più delle attenzioni che si meritava. E, a vedere Bion e Gruis, non se ne meritava affatto. Quando Arael fu uscito dalla porta con un “Ci vediamo!” e un gesto di saluto con le dita, l’atmosfera della stanza si alleviò e fu come se tutto tornasse tranquillo dopo una tempesta.

“Arael è fatto così, lascialo perdere” disse Gruis, mentre li conduceva ad un tavolo nell’angolo della stanza, carico di computer e macchinari di ultima tecnologia.

Rigel avrebbe voluto chiedere di più su Arael e anche su Gruis a Bion, ma non era quello il momento. Sarebbe risultato fuori posto con Gruis lì accanto in procinto di aiutarli.

“Stiamo andando da Sycor”.

Rigel rimase interdetto da quelle parole. E così Bion si fidava di quel Gruis a tal punto da rivelargli la loro missione.

“E di certo non possiamo arrivarci a piedi. Mi chiedevo se potevi prestarci uno dei tuoi mezzi…”

Gruis non staccò minimamente gli occhi dal monitor, come se sapere che una sua amica stava andando incontro alla morte fosse una cosa poco degna di attenzione.

“Aha, sapevo che dal giorno che ti ho mostrato i miei Hydran te n’eri subito innamorata!”

Bion rise. Rigel non l’aveva mai vista così allegra. L’amicizia con Gruis doveva ricordarle tempi felici.

“Te l’ho sempre detto che sei un genio. E l’Hydran è di gran lungo la tua opera migliore, se vuoi sapere il mio parere”.

Gruis rise a sua volta. “Siete fortunati, ragazzi, perché ne ho un paio proprio qui a casa”, continuava a battere sulla tastiera a raffica. Rigel si chiese cosa stesse combinando con quel computer.

“Eh già, bunker numero 4” si alzò di scatto dalla sedia girevole e prese a camminare verso un’altra stanza. Bion e Rigel gli furono dietro. Entrarono in quella che sembrava una camera da letto, sebbene il letto fosse sommerso da lenzuola e indumenti appallottolati in confusione. Il pavimento era completamente sommerso da oggetti di ogni tipo: tutti e tre dovettero stare attenti a non pestare niente, come fossero su un campo minato. Gruis aprì l’anta di un armadio al cui interno c’era una specie di calcolatrice appesa. Gruis digitò un codice, così in fretta che pur volendolo era impossibile individuarne i numeri. E così la parete dell’armadio si rivelò essere un’altra porta, sotto cui partiva una scala grigia e stretta che portava ad una cantina sotterranea.

Il nuovo ambiente era piuttosto vasto e areato, molto più della casa sopra. Le pareti erano grigie e spoglie, sembrava di stare in una specie di cella frigorifera gigante. Gruis, Bion e Rigel l’attraversarono diagonalmente fino a raggiungere un’ulteriore porticina, questa volta di cemento armato. Gruis si parò davanti a un riquadro elettronico verde e azzurro della grandezza di una tessera del domino. Un laser verde attraversò il riquadro in senso orizzontale e Rigel capì che si trattava di uno scanner per il riconoscimento della retina.

Quando la scansione fu completa, la porta di cemento si socchiuse con un clang secco.

Quello che gli si parò davanti era semplicemente fantastico. Rigel restò a bocca aperta. Era una specie di garage, e al centro c’erano due esemplari di quello che avevano chiamato Hydran.

Era il mezzo di trasporto più strano che si potesse immaginare. Aveva la struttura di una macchina, però più corta e arrotondata. Si appoggiava su quattro gambe di metallo che terminavano in ventose aggrappate al suolo. Davanti c’era una specie di cabina di pilotaggio, attorniata da quello che pareva un salvagente di gomma, o almeno ne aveva la forma.

“Vedete quei buchi sul sostegno davanti?” disse Gruis, indicando proprio il salvagente. “Da lì escono sette mitragliatrici. Può essere molto utile!” concluso tutto eccitato.

Bion gli sorrise e lo seguì, quando Gruis schiacciò un pulsante alla base dell’Hydran facendo scendere una scaletta automatica.

“Sto ancora apportando delle modifiche al progetto e penso che non lo finirò mai veramente. Voglio dirvi che fin’ora è pensato per una persona, quindi mi dispiace se starete un po’ stretti…”

Bion si strinse nelle spalle, e allungò una mano ad accarezzare il sedile ricoperto di pelle alla guida. Si volse verso l’amico e gli sorrise, grata. “Non c’è problema, davvero. È già tanto per me che hai deciso di prestarcelo, e spero di riportartelo al più presto”.

Gruis le toccò una spalla dolcemente.

“Rigel, che ne pensi?” gridò la ragazza, verso una porticina dalla parte opposta del sedile di guida.

Rigel venne fuori da lì, chinandosi per passarci. Aveva visitato quella che sembrava una stanza da letto, anche se in dimensioni molto ridotte. C’era soltanto un letto, ma mai avrebbe pensato che quell’aggeggio potesse fare da hotel e trasporto tutto assieme.

“Lo trovo geniale” esordì guardandosi attorno.

Sebbene Gruis non lo avesse mai degnato veramente di uno sguardo per tutto il tempo, si rallegrò di quella affermazione, rivolgendogli un gran sorriso e saltellando sul posto.

“Allora, quanto vuoi?” chiese Bion, la borsa già aperta sotto alle dita.

L’espressione di Gruis si smorzò mentre tornava a guardarla. “Stai scherzando, vero? Non chiederei mai del denaro ad un’amica. Non lo chiederei nemmeno ad un nemico, dato che a un nemico non mi sognerei mai di prestare qualcosa di così tanto valore…” scrollò il capo e tornò a concentrarsi su Bion, “comunque, non ci pensare proprio. Tutto quello che ti chiedo è di trattarlo bene e provare a riportarmelo, così vorrebbe dire che anche tu sei salva”.

Bion sorrise e lo abbracciò stretto. Gli scoccò un bacio su ogni guancia.

“Okay, okay. Ho capito!” esclamò Gruis, alzando le mani per allontanarla, il volto rosso. “Ora fatemi spiegare come funziona. Ci sono una marea di pulsanti, e non vorrei che vi confondeste…”

 

“Te l’avevo detto, no? Che avremmo trovato un mezzo di trasporto efficace” esordì Bion qualche ora dopo, mentre, con Rigel, era seduta al tavolo di una locanda in città. Bevve un sorso di rinfrescante succo al lampone dal suo bicchiere e tornò a guardare Rigel.

Lui aveva un’aria assente, guardava di tanto in tanto fuori da un ampia vetrina del locale, la gente che camminava per strada, che andava di fretta, che non si curava di nessuno.

“Sì, è bello avere degli amici” buttò lì.

Bion aggrottò le sopracciglia. “C’è qualcosa che non va?”

Rigel le lanciò un’occhiata fugace, scosse la testa. Era come al solito ricaduto nei suoi pensieri. Dove l’avrebbe portato quel viaggio, se era davvero la cosa giusta da fare, e soprattutto doveva ancora decidere se fidarsi o meno di Bion. Sì, perché in realtà non ne era ancora sicuro, non sapeva cosa fare con lei.

Guardò ancora una volta di fuori, la gente che andava diminuendo lungo la strada, il sole che si attardava dietro gli edifici e aspettava il momento di darsi il cambio con l’amica notturna. L’atmosfera era così tranquilla e serena che Rigel si sentì quasi commuovere. I suoi occhi si inumidirono, e si disse stupido un migliaio di volte, scuotendo il capo. Cosa gli succedeva, era così sensibile da piangere soltanto a vedere un tramonto? Probabilmente era molto di più. Forse era tutto quanto messo insieme, la sofferenza e la solitudine di tanti anni, e ora l’inquietudine di quello che l’attendeva.

Prese un lungo respiro e alzò gli occhi su Bion, che si era distratta e stava guardando la gente che affollava il bancone della locanda, che beveva e chiacchierava.

“Arael è proprio un bel tipo, eh?” disse Rigel, per attirare la sua attenzione e parlare di qualcosa che non lo riguardasse.

La ragazza lo guardò sorpresa. “Già” un sorriso gli balzò in volto.

“È un tuo amico d’infanzia?”

Bion sospirò e inclinò il capo, giocherellando con un lembo di tovagliolo. “Sì, e anche Gruis”.

“Sono umani?”

“Oh, no. Sostituti” c’era una punta di amarezza nella sua voce.

Rigel prese un sorso di birra dal suo bicchiere.

“Sono nata qui, a Keel. Quand’ero piccola, noi tre giocavamo sempre a nascondino per tutta la città, forse è da lì che è sorta la mia vena esploratrice. Andavamo sempre alla ricerca di avventure, e mentre le altre bambine pettinavano le bambole, io mi sporcavo la faccia di fango e costruivo armi finte con i rami. Ti dirò che non ho mai voluto fare giochi da femmina, ero contenta così, mi divertivo come non mai quand’eravamo insieme, noi tre. Ma poi siamo diventati grandi e le cose sono cambiate. Arael ha preso una strada che a me e a Gruis non piaceva. Aveva ammesso altre persone nel nostro gruppo, senza nemmeno chiederci che cosa ne pensavamo. Un paio di ragazzi e ragazze di strada, ladruncoli senza un soldo e senza famiglia. Ma lui diceva che erano suoi amici…” fece una pausa, ingerendo un po’ di succo di lampone.

“Gruis e io non avevamo niente contro di loro, in realtà, è solo che ci piaceva la nostra amicizia com’era prima, e vedere che Arael aveva espanso i suoi orizzonti un po’ ci rodeva. Succede così quando sei nel gruppo. Gruis era completamente l’opposto di Arael, e lo è tutt’ora. Sono come il giorno e la notte. Non stava affatto bene insieme agli altri, e ben presto decise di non venire più quando lo invitavamo, lo andavamo a cercare a casa sua, ma sua madre ci diceva che non c’era…”

“E tu?” chiese Rigel, che si era appoggiato sul tavolo, ascoltandola con interesse.

Bion sorrise, un sorriso triste e malinconico. “Passavo molto tempo con Arael e i suoi amici. Soprattutto era lui che mi veniva a cercare, voleva che entrassi a far parte del suo nuovo gruppo, anche se io preferivo andare da Gruis, o starmene da sola, o solo con Arael. Anche se non me n’ero resa conto da piccola, iniziavo a capire che lui mi aveva sempre affascinata con il suo modo di fare. Era forte e tutti lo ammiravano anche se non faceva niente di eroico, soltanto per come si comportava. Forse volevo essere come lui, ad ogni modo iniziammo ad avvicinarci e, bè…”

Rigel notò le sue guance prendere un lieve colorito rossastro.

“Ma per fortuna mi resi conto che non era quello che volevo, passare la mia vita con quel tipo di persone… nel frattempo avevo riagganciato i rapporti con Gruis e gli raccontavo tutto quello che succedeva con Arael… insomma avevo i piedi in due staffe. Alla fine me ne sono andata alla ricerca delle mie avventure, lontano da questo posto”.

 “E quindi è dagli amici di Arael che hai saputo dell’erba Placidus…” fare due più due, a quel punto, a Rigel venne naturale.

Bion alzò gli occhi su di lui, stupita. “Sì. Loro la usavano spesso e anche altri tipi di erbe… tutto frutto dei loro furti a commercianti e botteghe”.

“E così c’è la tua famiglia che vive qui...”

Bion si oscurò. “Non più… sono tutti morti”.

“È terribile, mi dispiace”.

Bion annuì. “É rimasta solo mia sorella, e non avrò pace finchè non la troverò. Sycor la pagherà per tutto quello che ha fatto”.

Rigel sospirò. Avrebbe voluto avere le idee più chiare su ogni cosa. Era ancora tutto terribilmente sfocato nella sua testa. Non aveva mai chiesto molto, per paura di risultare invasivo o fuori posto, ma in fondo, quella serata gli sembrava giusta per le rivelazioni. O almeno per un po’ di sana conversazione. E poi, lui aveva tante, troppe domande. Provò a iniziare con la prima che gli saltò alla mente, quella in testa alla lunga fila. “E così Arael e Gruis sono Sostituti, ma sono nati esseri umani, giusto? Quando sono stati trasformati?”

Bion soffocò una risata. Alzò gli occhi su di lui. Aggrottò le sopracciglia. “Davvero?”

Lui non capì.

Bion sembrò riprendere la sua espressione di sempre, si inclinò sul tavolo. “Davvero non sai niente?”.

Rigel rimase impassibile.

“Pensaci un attimo, Rigel” e allungò lo sguardo fuori dalla vetrina, sagome di persone che camminavano con il sole rosso alle spalle. “Pensaci, come sarebbe possibile che ogni singola persona che vedi là fuori sia stata uccisa e poi trasformata? È una cosa impensabile, non ti pare? Impossibile persino per Sycor e per le sue innumerevoli risorse”, tornò a fissarsi su Rigel, “la prima generazione di Sostituti, quelli che furono trasformati da cadaveri di esseri umani, si sono poi sposati e hanno avuto figli…”

Rigel sgranò gli occhi.

“E quei figli ne hanno avuti a loro volta…”

“Vuoi dire che i Sostituti possono procreare?” Rigel aggrottò le sopracciglia e si sorprese delle sue stesse parole.

Bion annuì. “Ma non ho mai sentito di Sostituti arrivati all’anzianità. Insomma penso che abbiano una vita in media molto più breve degli umani. Cosa pensi che stia facendo Sycor rinchiuso nella sua base? Pensa ad ogni modo che gli permetta di migliorare l’attuale condizione delle sue creature. Vuole rendere il prototipo di Sostituto il più perfetto possibile, vuole arrivare a creare un Dio in terra. Vuole un’essere immortale, immune da malattie, sentimenti, debolezze. È una cosa spaventosa, Rigel. E nessuno si rivolta perché non c’è rimasto nessuno che lo possa fare! Se c’è ancora qualche umano su Hestla, è come un ago in un paiaio. Siamo tra i pochi esseri umani sopravvissuti, ti sembra un bene o una maledizione?”

Lo sguardo terrorizzato di Bion gli fece venire la pelle d’oca. Rigel non ci aveva mai pensato in quel modo. Sì, aveva sempre creduto di essere l’unico umano rimasto, ma che differenza faceva? A lui bastava starsene nella sua casa, in mezzo alla foresta, al sicuro. E se invece fosse uscito allo scoperto? E se lo avessero riconosciuto, imprigionato e trasformato in Sostituto? E forse no, magari l’avrebbero studiato, gli avrebbero tolto gli organi per studiarli, per ricavarne un virus o un antidoto. E poi l’avrebbero lasciato vagare come uno zombie tra la vita e la morte e lui li avrebbe pregati di trasformarlo, soltanto per poter vivere come tutti gli altri. E si sarebbe uniformato a loro, non avrebbe più pensato come un essere umano, non avrebbe più provato alcun dolore, alcuna preoccupazione.

Non sarebbe più esistito.

Sbattè le palpebre, come se si fosse appena risvegliato da un terribile sogno. Ma erano soltanto i suoi pensieri, da cui avrebbe volentieri voluto fuggire.

Sentiva gli occhi bruciargli, lacrimargli. Bion non era più seduta davanti a lui, si volse di scatto e incrociò il suo sguardo preoccupato, mentre lo raggiungeva con due boccali colmi fino all’orlo.

“Sembravi addormentato, ti senti bene?” gli domandò, sedendosi e allungandogli il boccale di birra.

Rigel annuì appena.

“Comunque domani partiamo con l’Hydran, quindi è meglio che stasera ci riposiamo. Ho chiesto all’oste la chiave della nostra stanza” allungò sul tavolo una chiave arrugginita e piuttosto grande, infiocchettata in un nastro di spago grezzo e ispido.

Qualche minuto dopo arrivarono le loro ordinazioni: zuppa di legumi con pane secco e formaggio. Non avevano tanti soldi e avevano fatto i conti per tenerne da parte un po’ per il viaggio, nel caso ne avrebbero avuto bisogno. Inoltre, non volevano toccare le riserve di cibo comperate al villaggio nella foresta, quelle sarebbero servite nei giorni a venire.

La cosa bella di cenare in quella locanda era che da bere si pagava solo una volta, poi su richiesta, ci si poteva riempire il boccale a non finire. Rigel si disse che era probabilmente quello il perché fosse così affollata. La raccomandazione di Bion di andare a letto presto andò al vento, quella sera. Alle dieci erano ancora seduti al tavolo, brilli e sazi. Il chiacchiericcio intenso attorno a loro era come una dolce ninnananna che li faceva sentire al caldo, a loro agio e, in un certo senso, al sicuro.

Poi, una band cittadina si fece spazio su un palchetto allestito alla bell’e meglio al lato del locale. Attaccarono con un canzone molto allegra, per dare il loro benvenuto agli ospiti.

L’attenzione di Rigel fu colta da un paio di cameriere che, prese dalla musica, iniziarono a trotterellare e saltellare fino alla pista da ballo – ricavata allontanando qualche tavolo da sotto il palco – seguite da fischi di ammirazione e grida degli uomini brilli al bancone.

Rigel si voltò a guardare Bion, che aveva un’espressione divertita. Gli lanciò un’occhiata vispa. Rigel aggrottò le sopracciglia. Colse le sue intenzioni all’istante, ma non gli pareva una buona idea.

“Avanti, andiamo!” sbraitò Bion, allungando una mano sul tavolo a prendere quella del ragazzo.

Rigel non aveva mai ballato, eppure, sarà stata l’ebbrezza o il tumulto generale, non si tirò indietro, e si lasciò trasportare da Bion fino alla pista.

Alla fine, poté dire di non essersi mai divertito tanto in vita sua. Avevano imparato su due piedi i vari balli – ognuno composto da passi, giravolte, cambio partner – seguendo quello che facevano gli altri. Era stato tutto così bello e spensierato che parve durare pochissimo. Quando le persone in pista iniziarono ad esibire una certa stanchezza, che si rifletteva anche nella sudata collettiva che riguardava la band, ogni cosa prese a scemare, la musica si affievolì, i tavoli si svuotarono, le cameriere finivano il loro turno.

Rigel e Bion erano sfiniti quando decisero di andarsene a dormire. Erano le tre di notte. Entrarono nella loro stanza senza dire una parola, soltanto si buttarono sul letto e caddero in un profondo sonno ristoratore.

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Capitolo 6
*** Hana and Galen ***


5

Hana e Galen

 

 

 

 

Era lungo disteso su un lettino, polsi e caviglie stretti in una morsa di ferro. Sentiva la testa andargli a fuoco, un caldo insopportabile attraversare il suo corpo, immobilizzarlo e confonderlo. All’improvviso, una luce fortissima, bianca e rovente si abbassava su di lui, sempre di più, sempre di più. Socchiuse gli occhi in una smorfia di dolore. Urlò, ma nulla gli uscì dalle labbra. Un paio di uomini in camice e mascherina gli si avvicinavano e lo guardavano dall’alto, confabulando a bassa voce tra di loro, armeggiando con strumenti che non riusciva a identificare. Gridò di nuovo, questa volta per davvero.

Aprì gli occhi. Aveva il respiro affannato, la maglietta zuppa di sudore. Si appoggiò una mano sul torace, cercò di ritrovare il respiro regolare, di calmarsi.

Ancora quel sogno. Quell’incubo orribile che lo accompagnava da tanto tempo, da quasi tutta la vita. Eppure, ancora non si era abituato. Non si era abituato a essere trasformato, seppure nella sua testa, in un Sostituto.

Galen tirò via le lenzuola dal letto, appoggiò i piedi nudi sul pavimento freddo e fu come se si fosse immerso in un blocco di ghiaccio.

Andò al lavabo, nel bagno adiacente alla sua stanza. Si buttò acqua gelida sul volto, e fu come una benedizione. Si bagnò i capelli neri, schiacciandoli all’indietro. Assaporò quel momento di frescura nella notte afosa. Nonostante la camera fosse fornita di un sistema di raffreddamento che faceva sì che il pavimento e i muri restassero freddi, l’afa estiva si faceva largo dalle imposte semi aperte come un serpente velenoso. E i suoi sogni agitati di certo non miglioravano la situazione.

Scrollò il capo, e restò con i palmi delle mani appoggiato al lavandino, i muscoli delle braccia ancora scossi da fremiti improvvisi.

Poi, qualcuno bussò alla porta.

Toc, toc, toc.

Un tocco leggero ma insistente. Galen si avvicinò alla porta. “Chi è?” chiese a gran voce.

Ma sapeva già la risposta.

“Sono Hana. L’ho sentita gridare. Non voglio disturbarla, ma è mio compito assicurarmi che sia tutto a posto, altrimenti sa che cosa mi succederà…”

Galen sorrise e aprì la porta. La figura esile e allungata di Hana si stagliava sulla soglia, nella penombra. Aveva i capelli color caramello, lunghi, sciolti e un po’ in disordine. La vestaglia semplice e troppo grande, che teneva legata da una semplice corda di spago in vita, le ricadeva fin sotto i piedi. Unì le mani in grembo e abbassò lo sguardo.

“Quante volte devo ripeterti di darmi del tu?” disse Galen, con un mezzo sorriso.

Hana alzò lo sguardo su di lui, ma lo riabbassò immediatamente. Si comportava come una servile cameriera, quasi come una serva, una sottomessa. “È tutto a posto? T-ti ho sentito urlare…” ripeté lei, combattuta e spaventata nel parlargli con quella confidenza.

Galen sorrise di nuovo, questa volta con più convinzione. “Solo un brutto sogno. Torna a letto, mi dispiace di averti svegliato”.

Hana lo osservò incerta, nella penombra: aveva la maglia sudata, i muscoli frementi e il viso pallido. Ci fu un lungo silenzio, interrotto soltanto dal respiro di Galen che stava tornando regolare.

“Allora, me ne vado. Ma se posso aiutarti, in qualche modo…”

Un raggio di luna illuminò gli occhi azzurri di Hana, che brillavano come di pianto, alzati su di lui.

Galen lo notò solo allora. Le restituì lo sguardo, incerto. “Non sono stato io a svegliarti, vero?”

Hana sembrò molto imbarazzata. Abbassò il capo e lo puntò al pavimento. “Non riuscivo a dormire…”

Galen sapeva che Hana aveva problemi ad addormentarsi. Non le aveva mai chiesto se faceva sogni strani, ma immaginava fosse semplicemente il fatto di essere lontana dalla sua famiglia, in trappola e cosciente del fatto che quella era la sua ultima corsa. Quando avesse raggiunto il ventesimo anno d’età, Sycor l’avrebbe trasformata in un Sostituto.

Galen sapeva in quante, prima di lei, avevano subito quel triste destino. Quando Sycor trovava esseri umani, e in particolare femmine, non ancora in età giusta per essere trasformate, le teneva a casa, a fare da quelle che lui chiamava “Aiutanti”, ma che Galen riconosceva più come serve. Il loro compito era occuparsi di sua moglie, Chara e di lui, Galen, suo figlio. E poi, quando avrebbe avuto bisogno di loro, semplicemente sarebbe venuto a prendersele.

Galen odiava i sogni che lo accompagnavano ogni notte, ma non poteva nemmeno immaginare quello che Hana e tutte le altre bambine dovevano passare. E Hana aveva soltanto dodici anni. Aveva un occhio di riguardo per lui, che nessun’altra aveva mai mostrato. E lui le era affezionato, un po’ come a una sorella.

“Mi dispiace, Hana. Io…” avrebbe voluto dirle tante cose. Per esempio che era dalla sua parte, che nonostante Sycor fosse suo padre, lui lo odiava, e desiderava solo andarsene da lì. Voleva dirle che avrebbe fatto di tutto per salvarla, e con lei tutti gli altri umani imprigionati.

Allungò una mano verso la sua spalla, il volto di Hana ora rivolto verso il suo, gli occhi di Hana che lo fissavano con disperazione e fin troppa intensità.

Galen non ci riuscì. Era come dirle, prometterle, che sarebbe stata libera, quando nemmeno lui stesso sapeva se lo sarebbe mai stato. E se fosse possibile.

Ma Hana era ancora lì, gli occhi persi in quelli di Galen. Era come se si aspettasse qualcosa di più di semplici parole. Un gesto, un segno.

Galen riabbassò la mano, rimasta sospesa a mezz’aria. Le rivolse un sorriso stanco. “Prova ad addormentarti. Ci vediamo domani”.

Non aveva più il coraggio di guardarla. Era come negare a una sorella la libertà. Chiuse la porta della stanza in faccia ad Hana, ma lo fece con profonda tristezza e risentimento. La verità era che si sentiva terribilmente impotente. Era soltanto una pedina, destinata a piccoli inutili passi all’interno di una scacchiera molto più grande, molto più impenetrabile.

Ardeva dalla voglia di fare qualcosa, nella sua testa c’era un desiderio di vendetta così forte… eppure era ogni giorno costretto a sottostare a suo padre, a quel dannato pazzo.

Si sentiva intrappolato in una vita che non aveva chiesto, in una dannazione eterna, soltanto per essere nato figlio della persona peggiore al mondo…

Che cosa avrebbe potuto fare? Che speranze aveva di fuggire da quella vita? Forse era arrivato il momento di escogitare un piano, di avere qualcosa in cui credere che gli desse forza e speranza. Ma non aveva appigli, armi, niente che lo potesse avvantaggiare in un’ipotetica fuga.

La sua mente viaggiava. Senza rendersi conto di quello che faceva, così preso dai suoi pensieri, si diresse al letto e ci si buttò sopra. Poco dopo, si riaddormentò.

 

 

 

Le imposte semi dischiuse facevano filtrare un tiepido raggio di sole mattutino. Hana aprì gli occhi cisposi per la dormita e per il pianto e se li stropicciò con la mano. Era abituata a svegliarsi alle prime ore della mattinata, come la routine di Aiutante comandava.

Nonostante fossero in piena estate, a quell’ora i raggi solari non erano ancora bollenti e una leggera brezza tirava. Quella frescura lo aiutava a rilassarsi e risvegliarsi. Era il suo piccolo momento di paradiso. Si vestì in fretta, con la divisa da Aiutante che le avevano consegnato al suo arrivo. Consisteva in una veste rosa chiaro, sbiadito. Erano costrette a vestirsi con quel colore, apparentemente allegro e adatto a giovani ragazze, in una sorta di maligna perversione. In realtà erano state rapite, strappate alle loro famiglie, portate in un luogo sudicio e spogliate di tutti i loro averi. Poi era stato dato loro un foglio con tutte le regole e gli orari da rispettare categoricamente senza possibilità di sgarro. Ogni ragazza era assegnata ad una famiglia, o certe volte più ragazze ad una famiglia. Hana sapeva che un paio di sue amiche servivano collaboratori di Sycor, ma non le aveva mai più riviste, né sapeva se fossero ancora vive o meno.

I primi giorni aveva vissuto nella paura più nera, non sapeva cosa aspettarsi e temeva che da un momento all’altro, quegli uomini orribili l’avrebbero uccisa. Ma poi l’avevano scortata nella dimora di Sycor e, sebbene non l’avesse mai visto, da come parlavano di lui aveva intuito non essere una persona raccomandabile.

Poi c’erano stati Chara e Galen, e il suo cuore si era alleviato un po’. Dopo la paura di tanti giorni, imprigionata e allontanata da sua sorella Bion, Hana si era sentita per la prima volta più alleggerita quando l’avevano informata che sarebbe stata l’Aiutante ufficiale della famiglia di Sycor.

Ricordava ancora quelle voci, che ne parlavano come se fosse la cosa migliore che potesse accadere.

“È un vero onore, per una mocciosa come te” le aveva sussurrato un uomo all’orecchio.

 Lei non pensava fosse un onore, non la vedeva come una cosa bella. Voleva soltanto riabbracciare Bion…

Ma era stata effettivamente fortunata. Ben presto si rese conto che quelle persone non erano cattive. Soprattutto Galen, il figlio di Sycor. Le aveva sorriso fin dal primo momento, come a darle un benvenuto piacevole. E poi, lui l’aiutava sempre, la trattava bene, con tanta gentilezza e umanità…

Hana si strinse il cordoncino attorno alla vita, ma non troppo. Era dimagrita molto da quando si trovava lì. Non perché mancasse cibo, ma perché molte volte la nausea le impediva di mangiare.

Si raccolse i lunghi capelli biondi in una coda. In quella stanza modesta non c’erano specchi, ma non le importava. Anche se qualche volta avrebbe voluto sistemarsi, prima che Galen la vedesse…

Sorrise. Era strano come dopo tutto quello che era successo, avesse ancora voglia di pensare a quelle frivolezze. Ma era lui che la faceva sentire così.

Uscì in salotto e diede un’occhiata veloce alle lancette dell’orologio a muro. Erano quasi le sette. Raggiunse la cucina e si mise immediatamente al lavoro.

C’era da pulire e andare a fare la spesa. Chara aveva lasciato una lista di qualche ingrediente che sarebbe servito per preparare il pranzo quel giorno. Hana si affrettò verso l’uscita, una sacca in mano e qualche moneta nell’altra.

La dimora di Sycor si ergeva su una collinetta, ed era piuttosto isolata dal resto del paesaggio. Hana non vedeva mai nessuno lì attorno. Un venticello piacevole l’accolse sulla scalinata. Il mercato di Nallav non era molto distante, e lei già conosceva una scorciatoia tra le viuzze che le avrebbe fatto risparmiare tempo e occhiate indiscrete.

Perché la gente era parecchio curiosa di sapere cosa facevano quelle fanciulle nelle case signorili. Volevano estorcere informazioni sugli studi di Sycor, forse, o semplicemente sapere che fine avrebbero fatto e se ne erano spaventate.

L’unica cosa che contava, per Hana, era svignarsela al più presto e tornare al sicuro della sua stanza anche quella sera.

Arrivata al mercato, si mosse come un gatto in mezzo alle persone, veloce e silenziosa quanto la sua piccola statura e la sua forma esile lo permettevano. Aveva preso tutto quel che le serviva nel giro di un quarto d’ora. Non aveva tempo per cincischiarsi nella miriade di cianfrusaglie interessanti che avrebbero attirato qualunque ragazzina come lei. Le sarebbe piaciuto trascorrere ore a scorrere lo sguardo su orecchini, perline, pettini, pupazzi e gioielli di ogni genere. Ma non era quello il suo compito.

Varcò la porta di casa con la sacca piena in spalla, piegata sotto il suo peso. Quando si fu richiusa la porta alle spalle, una voce gelida l’accolse.

“Hai fatto tardi”.

Hana trasalì e la sacca le scivolò a terra. Si volse e incontrò lo sguardo freddo di Chara, la moglie di Sycor, al tavolo, che sorseggiava un tè. Era una donna invecchiata prima del tempo, il viso segnato, gli occhi opachi. Portava i capelli biondo spento acconciati in una crocchia sulla testa, che le dava un’aria ancor più altezzosa e distaccata.

Hana, sudata e ansante per il peso della sacca, cercò di ricomporsi e lanciò un’occhiata all’orologio che indicava le sette e venti minuti.

Avrebbe voluto ribattere, dire che era in perfetto orario, ma rimase in silenzio. Annuì.

“Mi dispiace”.

“Galen si è svegliato poco fa e voleva farsi un bagno. Avresti dovuto preparargli la vasca”, Chara continuò a sorseggiare il suo tè, senza degnare Hana di uno sguardo.

Hana avanzò verso la cucina, con la sacca stretta in mano. “Non… sapevo… metto a posto queste cose e vado immediatamente…”

“No. Vai immediatamente” la interruppe Chara, accigliata.

Hana non se lo fece ripetere due volte. Sapeva che Chara non era in fondo una donna cattiva. Era solo che si faceva trasportare dai suoi pensieri sempre negativi e rifletteva questo suo stato d’animo in tutto quello che diceva e faceva. Hana era convinta che non ce l’avesse con lei, in fondo, lei non le aveva fatto niente di male. Più che altro, la donna era amareggiata con sé stessa, ma scagliava il suo malumore su chiunque altro.

Hana si precipitò verso il bagno, aprì la maniglia senza bussare, convinta che Galen fosse ancora in camera sua, in trepidante attesa di un bagno caldo. Si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa, quando lo trovò immerso nella vasca, i capelli bagnati, il torso nudo e gocciolante.

Galen le lanciò un’occhiata.

“Scusa, mi dispiace…” le parole le uscivano a fiotti dalle labbra, non si era mai sentita tanto in imbarazzo. Voleva solo sparire. Uscì dalla stanza in fretta.

“Aspetta, Hana”

Ma lei era già andata. Avrebbe tanto voluto rifugiarsi nella sua stanza e rimanerci per tutto il giorno, ma non poteva. Non era più a casa sua, non le era concesso fare i capricci.

Si diresse alla sacca con la spesa, ancora abbandonata sull’ingresso, e si diresse in cucina, decisa a non incontrare lo sguardo di Chara.

Si chiuse la porta alle spalle. Sentì Galen in salotto chiamare il suo nome. Poi si rivolse a sua madre.

“Che cosa le hai detto? Si può sapere perché ti comporti così con lei? Ti ho detto che andavo a farmi un bagno, non sono un bambino, sono in grado anche da solo, non ti pare?”

E la voce di Chara gli rispose, bassa e controllata. “Lei è qui per servirci, Galen. È il suo lavoro. Deve assicurarci il meglio, sempre. Sia che si tratti di cucinare, come di prepararci la vasca”.

“Certe volte sei proprio uguale a tuo marito, lo sai?”

La tazza da tè sbatté sul tavolo. “Non ti permetto di parlarmi così…”

Era troppo. Hana non poteva tollerare che litigassero, di nuovo, per colpa sua. Aprì la porta della cucina troppo violentemente. Entrambi sussultarono e lei desiderò non averlo mai fatto.

Galen alzò gli occhi su di lei, sorpreso.

Chara non si scompose più del dovuto. Voltò il capo, dandole il profilo.

“Per favore, Galen... è stata colpa mia. Sarei dovuta arrivare a casa dieci minuti prima, io… mi sono fermata a guardare degli orecchini e…”

Galen la fissava atterrito. Stava per ribattere ma Hana gli fece segno di lasciar stare. Glielo chiese con uno sguardo disperato. Voleva solo che tutto finisse.

Galen chiuse le labbra e continuò a guardarla. Spostò lo sguardo su sua madre, solo quando questa si alzò e si frappose tra lui e Hana.

“Vatti ad asciugare, o ti ammalerai” allungò una mano sulla nuca di Galen. Lui fece uno scatto all’indietro, ma lei gli afferrò dolcemente i capelli e gli diede un bacio lieve sulla fronte.

Stancamente, si voltò. “Aiutalo a vestirsi, Hana. Dopo prepara la colazione”.

Hana annuì, cogliendo l’immensa tristezza nello sguardo della donna. Chara se ne andò dalla stanza, e fu accompagnata da un silenzio totale.

Quando non fu più visibile, Galen scrollò appena il capo. “Vai pure, Hana. Posso arrangiarmi”.

“No, la prego. So che preferirebbe non avermi tra i piedi, ma devo fare quello che sua madre desidera. Non voglio darle problemi”.

Galen sospirò. “E va bene, ma ti prego, dammi del tu, mi fai sentire tremendamente vecchio”.

Hana sorrise. Lo seguì fino in bagno e una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle. Senza guardarlo, prese un asciugamano pulito da una sedia, lo dispiegò e gli si avvicinò.

Galen era seduto sul bordo della vasca. Restò immobile, obbligandola a lanciargli un’occhiata.

“Mi sembra di sognare, non lo vorrai fare per davvero?” la fissava sbalordito.

Ma Hana sostenne il suo sguardo e non si mosse di un centimetro.

“È chiaro che lo vuoi fare” Galen si rassegnò e alzò le braccia davanti a sé, permettendole di asciugargli il torace. “Incredibile. Mi sembra di essere una marionetta. Possibile che non si renda conto che sono in grado di arrangiarmi? Che voglio arrangiarmi. Mi tratta da impedito”.

“Non credo sia questo, signore”.

Lui la fulminò con lo sguardo.

“Galen” si affrettò a rimediare lei, con un sorriso. “Non penso che tua madre sia una cattiva persona. Penso che tenga quel comportamento perché non vuole causare problemi, non vuole che suo marito sia preoccupato…”

“Preoccupato? Mio padre preoccupato per noi?” Galen sbuffò. “Si vede che non lo conosci”.

Un’increspatura si formò tra le sopracciglia di Hana. Lei aveva sempre amato suo padre, e anche sua madre. Dopo la loro morte aveva passato molti giorni senza mangiare niente, con un vuoto enorme che la bloccava dentro. Per fortuna c’era sempre stata Bion con lei, tuttavia era impossibile dimenticare, impossibile colmare quel vuoto anche a distanza d’anni. Ogni volta che ci pensava, una piccola crepa si apriva nuovamente dentro di lei, facendo riaffiorare tutto il dolore provato.

Eppure, Galen parlava di suo padre con uno sguardo arrabbiato, deluso, amareggiato. Avrebbe tanto voluto sapere per quale motivo tra di loro c’era quel sentimento. E avrebbe voluto sapere anche come mai suo padre aveva una reputazione così poco stimabile.

Ma lei non aveva mai chiesto niente. Non sapeva per quale motivo l’avessero rapita e messa a lavorare in quella casa, non sapeva nulla. E ogni giorno si chiedeva quale fosse stato il suo destino.

“No, io invece credo che mia madre stia peggiorando ogni giorno di più. Questo posto l’ha intossicata, e presto la ucciderà se non faccio qualcosa…”

La voce di Galen che continuava a riflettere ad alta voce la riportò in quel bagno.

“… spesso litighiamo, ma so che mi vuole bene e anch’io gliene voglio. Avrei voluto una vita più felice per lei, tutto qui”.

Hana abbassò lo sguardo. Era passata ad asciugargli la schiena, e poteva solo cogliere il profilo del suo volto mentre scuoteva il capo. Appoggiò le dita tremanti sulla pelle morbida, sfiorò il contorno della scapola, così finemente delineata. Scese più giù lungo la linea delle costole, dove la pelle era tesa e fresca.

Sussultò, quando Galen si volse e la guardò. “Hai finito, allora” disse allegramente. Si alzò e si diresse a un comodino vicino al lavabo, dove erano appoggiati una pila di panni puliti. Hana rimase immobile con l’asciugamano tra le dita, mentre lui si rivestiva.

“Vedrai che starai bene, Hana”.

Fu l’ultima cosa che le disse, prima di uscire dalla stanza.

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Capitolo 7
*** Addii e Partenze ***


6

Addii e partenze

 

 

Bum. Bum. Bum.

Fu tutto quello che percepì al risveglio. Rigel si destò, aprì gli occhi di malavoglia, maledicendo dentro di sé qualunque cosa avesse avuto voglia di fare baccano. Si sentì strappato violentemente dal mondo dei sogni. Si alzò a sedere e scorse Bion, sdraiatagli accanto.

Per un attimo la fissò, ancora addormentata, ma poi prese a scrollarla. Mentre i ricordi della notte precedente riaffioravano nella sua mente, si rese conto che i raggi del sole che filtravano nella stanza erano forti e scottanti. Doveva essere già mattino inoltrato.

Scrollò Bion più forte, poi si alzò dal letto. Era ancora vestito, non si era mai spogliato. Era stata una lunga tirata, dopo la cena, la bevuta e il ballo. Il sonno doveva averli accolti a braccia più che aperte, la sera prima.

Mentre i mugolii di Bion lo raggiungevano, si accorse che quel rumore secco che lo aveva svegliato proveniva dalla porta, o meglio, da qualcuno che ci stava dietro e che minacciava di buttarla giù a pugni da un momento all’altro.

Rigel ci si diresse e la aprì. Finalmente Gruis smise di battere le nocche contro il legno duro. Lo fulminò con lo sguardo.

Si fece spazio ed entrò nella stanza. “Si può sapere dove eravate finiti? Vi aspettavo a casa mia più di tre ore fa!” sbraitò.

A quel punto, Bion si mise a sedere sul letto stropicciandosi gli occhi. “Perché che ore sono?”

“Il sole è alto in cielo già da un po’, ti basti sapere questo tesoro!”

Bion imprecò e si scaraventò fuori dal letto. “Ogni volta che non vogliamo perdere tempo, qualcosa va storto”.

“A quest’ora sarà difficile passare inosservati con l’Hydran. Io vi avevo avvertiti, di partire alle prime luci del mattino…”

Rigel recuperò la bisaccia e se la gettò a tracolla, insieme al bazooka.

“Evidentemente ci siamo lasciati un po’ andare ieri sera, Gruis” ribatté Bion, agitata.

Gruis inarcò le sopracciglia. Il suo sguardo passò da Bion a Rigel e ancora a Bion. Doveva aver frainteso, ma sembrava parecchio interessato a saperne di più.

Bion lo ignorò e, dopo aver raccattato la sua sacca da viaggio, si catapultò fuori dalla stanza, con Rigel e Gruis a seguito.

Bion quasi andò a sbattere contro una cameriera, che li accolse con un gran sorriso. “La colazione è pronta” annunciò in tono affabile, indicando un tavolo rotondo accanto alla vetrina.

Bion e Rigel si scambiarono un’occhiata, mentre Gruis sbuffava.

Erano affamati come non mai, e ringraziarono mentalmente la cameriera per averli fermati prima che uscissero. Le uova scaldarono loro la gola, mentre la salsiccia li riempiva e saziava. Accompagnarono quel banchetto con pane e succo di lampone. Nel giro di pochi minuti avevano spazzolato via tutto quanto. Gruis aveva spiluccato un po’ di mollica. Prima di alzarsi da tavola, Bion prese le fette di pane che aveva lasciato lì e se le ficcò nella bisaccia.

Trovarono l’oste al bancone, allungarono qualche moneta per pagare il soggiorno e salutarono cordialmente.

Fuori, la città era già sveglia. Il mercato si allungava sulla via principale, la gente si era riversata a fiotti sulla strada.

Senza dire una parola, tutti e tre si affrettarono tra le bancarelle. Raggiunsero l’imbocco, dove il giorno prima avevano svoltato per raggiungere la casa di Gruis. Fecero lo stesso. Questa volta la via era completamente deserta, ed era una fortuna.

Gruis si avvicinò alla porta di casa, si lanciò un’occhiata in giro, nonostante non ci fosse nessuno a ricambiargli lo sguardo, ed entrò seguito da Bion e da Rigel.

Una volta dentro, un odore di uova misto a pancetta riempì loro le narici. Era chiaro che Gruis aveva fatto colazione prima di uscire, ecco perché alla locanda non era affamato.

“Come vi ho detto, la vostra fuga non passerà in sordina a quest’ora. Tuttavia c’è un sentiero più tranquillo che porta alla foresta proprio oltre il muro dove finisce la strada. Basterà che sorvoliate il muro con l’Hydran e che seguiate il sentiero dall’alto. Certo, vi porterà verso la foresta, ma una volta fuori da Keel potrete invertire la rotta e dirigervi a sud. In questo modo eviterete di sorvolare la città”.

Mentre Gruis dava loro consigli, avevano raggiunto il garage sotterraneo con i due Hydran all’interno.

“Ti ricordi tutti i pulsanti, vero?” domandò lui, una volta dentro il macchinario.

Bion cercò di sorridere, ma le venne solo una smorfia. “Lo spero”.

“Comunque ti lascio il libretto d’istruzioni qui sotto, così nel caso…”

Bion gli buttò le braccia al collo e lo strinse forte. “Grazie Gruis, davvero. Sei un tesoro”.

Gruis sorrise e le picchiettò la schiena con le dita. “È questo ciò che fanno i veri amici”.

Rigel strinse le labbra in un sorriso amaro.

La ragazza si scostò da Gruis e gli prese il volto tra le mani. Si guardarono negli occhi per quella che sembrò un’eternità, come se il tempo si fosse rallentato per un attimo. Bion sentì gli occhi lucidi. “Stammi bene, okay?” disse infine.

Gruis la tenne stretta. Sospirò e annuì di rimando. “Almeno fino alla prossima volta che mi verrai a trovare” sorrise.

Lei scoppiò a ridere. Ma dentro sentiva qualcosa smuoversi. Anche se Gruis voleva sdrammatizzare, lei sapeva molto bene che c’era la probabilità che non tornasse. Era una specie di missione suicida, dalla quale però non le era concesso tirarsi indietro. Era sicura che anche Gruis lo sapesse, che nonostante tutto anche lui provasse quella strana sensazione di qualcosa che sta per cambiare, di una certezza che sta per svanire, di un amico che potrebbe non tornare.

Gruis le accarezzò i capelli. “Ti stanno bene così corti”.

Bion gli sorrise per l’ennesima volta. Era dura dirgli addio, allontanarsi da lui, perché era come dire addio alla sua vita a Keel, dove era nata e cresciuta. Era come se abbandonasse i suoi bei vecchi ricordi lì con Gruis. Ma si rese conto che non doveva essere così per forza. Ogni cosa, ogni bel momento se lo sarebbe portato dietro come un importante cimelio da difendere. Sarebbe stato ciò che l’avrebbe aiutata nei momenti difficili, ricordare la sua famiglia, la loro breve felicità, e il suo grande amico.

Gruis si staccò dall’abbraccio e si avvicinò al portello dell’Hydran.

“Quando uscirete, sarete nel giardino interno di casa mia. Davanti, avrete il muro di cui vi parlavo. Basterà che lo superiate e procediate in direzione nord fino a che non incontrerete i primi cenni di foresta all’orizzonte. Una volta lontani da Keel potrete invertire la rotta e scendere a sud” alzò due dita e fece un cenno di saluto allontanandole dalla fronte. “A presto”.

Scese dall’Hydran e uscì da dove erano entrati senza più guardarsi indietro. Una volta che la porta del garage scattò, Bion e Rigel rimasero soli e un silenzio immane cadde tra di loro.

Rigel si mosse e chiuse il portello della macchina. Nella cabina di pilotaggio l’atmosfera si fece più buia. Rigel si sedette su una delle pensiline che sporgevano dalle pareti. Erano ricoperte di pelle e quindi ideate per far sedere ulteriori passeggeri. Bion si voltò verso il quadro di controllo e si perse nella vastità di pulsanti e lucine colorate.

Sopra di loro ci fu un suono profondo e metallico. Gruis aveva aperto il portellone.

Bion sentì un moto d’agitazione. Ancora non aveva messo in moto il macchinario. Chiuse gli occhi e ricordò la spiegazione che Gruis le aveva dato il giorno prima sui pulsanti.

“Per avviarlo basta premere questo grande verde, qui a destra…”

Riaprì gli occhi e cercò il pulsante grosso verde, proprio alla sua destra. Senza indugiare lo premette e subito sentirono il motore rombare sotto i loro piedi. Sorrise.

Rigel le si fece accanto, appoggiando i palmi delle mani sul bordo della console.

“Sotto al pulsante verde ce n’è uno più piccolo, non ti puoi sbagliare, serve per ritirare i piedistalli che lo tengono ancorato a terra…”

Ancora la voce di Gruis le risuonò nella testa. Bion eseguì, e qualcosa di metallico lavorò sotto di loro. Le gambe dell’Hydran ora erano ripiegate al sicuro dentro il corpo centrale e quindi potevano partire.

Bion impugnò il timone e lo spinse tutto contro di sé, in modo che l’auto volante si alzasse in aria.

 Il pannello sopra di loro era completamente aperto, una luce intensa e rovente inondò il garage sotterraneo. Mentre l’Hydran saliva, sentirono uno sbalzo, un cambio di pressione. E in pochi attimi furono fuori.

Bion lanciò un’occhiata raggiante a Rigel, che la ricambiò con un sorriso soddisfatto. Finalmente si stavano muovendo, il loro viaggio era iniziato.

Come Gruis aveva suggerito, sorvolarono la barriera di cemento che separava la città dalla campagna circostante e furono sopra un sentiero spoglio di vita, incolto, con l’erba alta e alberi imponenti.

Bion inserì il pilota automatico, ma rimase concentrata sulla strada, incantata dalla velocità dell’Hydran e dalla sua efficienza. Gruis non l’aveva per niente delusa.

Anche Rigel si lasciò trasportare dalla novità del viaggiare con un vero mezzo di trasporto. Non l’aveva mai provato prima e doveva riconoscere che in quel modo avrebbero risparmiato un sacco di tempo prezioso.

All’improvviso, qualcosa attirò la sua attenzione. Sebbene fossero saliti parecchio di quota e viaggiassero di qualche metro sopra le chiome degli alberi, notò chiaramente un’ombra avanzare sul sentiero. All’inizio pensò a un uomo, ma era troppo piccola, e molto più veloce.

“Abbassati” sussurrò a Bion.

Lei lo guardò stranita.

Rigel ricambiò l’occhiata e si accigliò. “Per favore. C’è qualcosa laggiù…”

Bion seguì la traiettoria del suo sguardo, fino ad arrivare all’ombra che si aggirava parecchi metri sotto di loro. Strinse gli occhi per vedere meglio. “Potrebbe essere una trappola”.

“Oh, non credo che lo sia. Fidati di me”.

Bion non poté fare a meno di intercettare nuovamente lo sguardo di Rigel. Si fissarono, poi lei inclinò il timone e l’Hydran iniziò a perdere quota. Man mano che si avvicinavano, fu come se la macchia che inseguivano non aspettasse altro. Rallentò la corsa e, quando l’Hydran toccò terra, si arrestò, in attesa.

Rigel a quel punto scoppiò a ridere. Aprì il portello e non fece nemmeno in tempo a scendere la scaletta, che Freya gli balzò in grembo. Rigel la strinse forte, la accarezzò sotto il muso e lei chiuse gli occhi, beata, emettendo delle fusa molto rumorose.

Bion rimase al suo posto, ma un sorriso amaro comparì sulle sue labbra.

“Hai fatto il bottino, vedo” commentò Rigel, quando Freya gli lasciò cadere tra le gambe una lontra morta.

Rigel rientrò, chiuse il portello e l’Hydran ripartì. Avere Freya di nuovo affianco lo faceva sentire meglio, gli dava più slancio. In fondo era stata la sua unica compagna per lungo tempo, era come portarsi dietro una parte di sé senza la quale non sarebbe stato più sé stesso.

“Immagino che dovremmo fare delle fermate, per lei…” buttò lì Bion.

Rigel la fulminò. “Sono sicuro che Freya non sarà motivo d’intralcio. Ci seguirà anche da terra, stai tranquilla”.

Bion fece spallucce. Non intendeva certo fermarsi ogni ora per permettere all’animale di fare i suoi bisogni. Insomma, sarebbero arrivati a destinazione dopo cento anni.

Tra di loro cadde un’atmosfera gelida. Rigel scomparve oltre la porta della stanza da letto e Freya lo seguì. Il ragazzo trasse un profondo respiro e si lasciò cadere sul letto, la lince sdraiata al suo fianco.

“Ho paura che non ci vedremo per un po’, piccola” le sussurrò, mentre la lince faceva le fusa sotto il suo tocco. “Sappi che per me non sei un intralcio. Ma lo sai perché lo sto facendo, no?”

Freya teneva gli occhi chiusi e il suo ronfare suonava un po’ come una risposta affermativa. Ma in fondo, quello era solo ciò che Rigel voleva sentirsi dire. Che quello che stava facendo aveva un senso. Rigel sospirò, rendendosi conto che nemmeno lui sapeva a cosa andava incontro.

Credeva davvero che una volta arrivato alla base di Sycor avrebbe trovato i suoi genitori ad attenderlo? Dopo tutti quegli anni era una speranza troppo labile. E allora perché era partito? Qual era la ragione? Si disse che probabilmente non c’era una vera ragione per cui l’aveva fatto. Si disse che era soltanto un povero ragazzo sull’orlo del baratro quando Bion l’aveva trovato. E da allora era scattato qualcosa dentro di lui. Il vecchio spirito di avventura, da tempo spento, era tornato ad ardere. E poi c’erano la vendetta e la voglia di riscatto. Tutto ciò che gli restava.

 

 

 

L’Hydran filava liscio e silenzioso sopra le chiome degli alberi scossi da una leggera brezza serale. Bion si stropicciò gli occhi. Aveva pulito e messo a cuocere la lontra. Si meravigliò dell’arguzia di Gruis quando schiacciò un pulsante nella parete a destra che diceva “Se stai morendo di fame” e apparve una specie di mini barbecue, sotto al quale c’era una piccola credenza con piatti, posate e bicchieri.

Estrasse due piattini e preparò le porzioni di lontra sufficienti per quella sera. Il resto l’avrebbero conservato.

Fissò il suo piatto e buttò un’occhiata al tramonto fantastico che si stagliava oltre i finestrini dell’Hydran. Appoggiò il piatto sulla brace spenta e si diresse alla porta della stanza da letto. Bussò, ma non le arrivò risposta. Così entrò.

Rigel era crollato sul letto, addormentato, le gambe a terra, fuori dal materasso. Il ventre flessuoso di Freya si alzava e si abbassava al suo fianco.

Bion gli si avvicinò piano. Gli toccò un ginocchio e lo scrollò. Lo chiamò più volte finché lui si svegliò di soprassalto.

“Sono io. Non volevo svegliarti, ma la cena è pronta…”

Rigel si mise a sedere, ancora intontito. Bion prese posto al suo fianco. Si morse un labbro.

“In realtà volevo scusarmi per prima… so quanto ci tieni alla tua lince”.

“Non me la sono presa per quello che hai detto”.

Bion alzò gli occhi su di lui. Sentì il suo respiro rilassato e provò una forte tranquillità. Chiuse gli occhi e li riaprì. Le parve che Rigel fosse più vicino che mai.

“Anzi, la devo ringraziare per la lontra che ci ha portato” Bion sorrise.

Gli occhi azzurri di Rigel brillavano nei suoi. Era impossibile guardare da un’altra parte. Lo sentiva così rilassato e sicuro, mentre lei era agitata e confusa. Perché le faceva quell’effetto? In fondo lei aveva un piano ben preciso. Lo aveva convinto a venire con lei soltanto per avere un’esca, per barattarlo come un semplice oggetto di poco valore. Per lei, non doveva essere niente più di quello. Se si fosse affezionata, come avrebbe potuto consegnarlo a Sycor?

Era più forte di lei, non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti. Era il momento giusto, sì, lo sentiva. Alzò una mano e gli accarezzò una guancia, le loro labbra si toccarono…

Aprì gli occhi.

Aveva il battito accelerato. Si guardò attorno. La carne sfrigolava sulla brace, il sole bruciava scomparendo oltre le chiome degli alberi. Bion si passò una mano sul viso. Era stato solo un sogno.

Ingoiò la saliva, aveva la bocca impastata. Poi, la porta si aprì e lei sussultò.

“Cavolo, mi ero addormentato…”

La voce di Rigel la raggiunse come da un luogo lontano.

Bion si alzò dalla sedia e, suo malgrado, i loro sguardi s’incrociarono.

“Ti senti bene? Hai una faccia…”

Lei sbatté le palpebre, confusa. Si avvicinò alla brace e controllò la cottura della lontra. Il braccio di Rigel apparve nel suo campo visivo. Sentì la sua presenza accanto.

“Ad ogni modo, Freya non starà con noi. Appena accenna ad avere bisogno di scendere, ho deciso che la farò proseguire da terra. Così anche lei sarà più contenta. A quale animale piace stare in gabbia e rinunciare alla propria libertà?”

Bion annuì e fece un mezzo sorriso. Con una strana sensazione, si ricordò di quello che diceva nel suo sogno. Le parole le uscirono dalle labbra in un sussurro incerto. “Però… la dobbiamo ringraziare per la lontra che ci ha portato”.

Rigel sorrise. “Che ne dici se dopo cena atterriamo e la lasciamo uscire?”

Bion sentì il suo braccio sfiorarle il fianco, o forse se lo stava solo immaginando? Buttò un’occhiata. No, era proprio vero. Rigel le stava vicinissimo. Ma perché lo notava così tanto? Qualche giorno prima non ci avrebbe fatto neppure caso. Si scostò leggermente. “Certo. Sarà buio e non credo troveremo qualcuno sul sentiero”.

“Freya sarà molto contenta. Non credo che se la passi troppo bene, dopo un’intera giornata senza… hai capito” si lasciò andare in una risata profonda. Era sinceramente divertito, e Bion faticò a trattenersi.

“Per fortuna che il tuo amico ha pensato bene di metterci un bagno qui dentro, altrimenti sarebbe stata dura anche per noi”.

Rigel rise più forte, mentre Bion sbuffò un sorriso sommesso.

Mangiarono la carne ben cotta, lasciando più della metà per i giorni a venire. Ne lanciarono un pezzo anche a Freya: dopotutto era stata lei la loro benefattrice.

Il sole era ormai andato da tempo quando atterrarono e lasciarono andare Freya sul sentiero.

“Ci vediamo presto, piccola. Stai attenta” le sussurrò Rigel, mentre l’accarezzava vigorosamente. Freya gli leccò una guancia e continuò finché Rigel non si alzò in piedi e la guardò allontanarsi prima di tornare dentro e chiudere il portello.

Ripartirono. Rigel sapeva che c’era la possibilità di non rivedere Freya tanto presto, ma voleva sperare che accadesse il contrario.

“Guarda” fece Bion, indicando oltre la vetrata.

Il lontananza, scorsero un folto agglomerato di verde con alberi molto più alti di quelli del sentiero.

“La foresta” sussurrò Bion. “Dobbiamo virare. Gruis ha detto che potevamo proseguire a sud per un altro sentiero… eccolo” si era spostata sulla parete destra dell’Hydran e guardava dagli stretti finestrini una striscia di terreno poco riconoscibile, in mezzo ad altrettante file di alberi e arbusti.

Bion si rimise alla guida, impugnò il timone e virò tutto a destra.

Finalmente erano sul sentiero che li avrebbe condotti nella giusta direzione. Quella via era, se fosse possibile, ancora più desolata della precedente. Bion sentì un brivido lungo la schiena mentre osservava il paesaggio scorrere sotto di loro. Sentì una mano sfiorarle la spalla. Trasalì. Il volto di Rigel le sorrideva dall’alto, ma era un sorriso amaro.

“Ci siamo” disse.

Bion scrutò i suoi occhi azzurri nella penombra. Annuì.

 

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Capitolo 8
*** In fuga ***


7

In fuga

 

 

Ben presto si resero conto che passare tutto il giorno all’interno dell’Hydran senza sosta non era poi così bello come poteva sembrare all’inizio.

Da quattro giorni viaggiavano in direzione della prossima città, Tiva, dove si sarebbero fermati per fare provviste. L’assenza di qualunque forma vivente sul sentiero non aveva certo tranquillizzato Bion, che preferiva non rischiare a fermarsi con la possibilità di finire in qualche trappola o di essere attaccati.

“Il carburante è quasi finito. Dovrebbe esserci una pompa nelle vicinanze di Tiva, cosa dici?” chiese Bion il quarto giorno, mentre sorvolavano lo stesso identico paesaggio desolato dei giorni precedenti.

Rigel sospirò e si avvicinò al quadro comandi. La lancetta sottile del combustibile formava un angolo acuto e quello non era certo un buon segno.

“Gruis ha detto che funziona con la stessa miscela dei mezzi di trasporto usati dai soldati Sostituti, quindi non dovrebbe essere impossibile ricaricarci”.

Rigel si voltò e prese la mappa che Bion gli aveva mostrato tempo prima a casa sua; la dispiegò sul quadro comandi occupando tutto lo spazio. Puntò con l’indice la città di Tiva, collocata sotto a Keel di poco più a destra. Una croce rossa risaltava di poco al di sotto del puntino nero che era Tiva.

Rigel e Bion si scambiarono un’occhiata.

“Uno dei Poli è molto vicino. Dobbiamo stare attenti quando passeremo da lì”.

Se la sicurezza imposta sulle città era considerata alta, quella attorno ai Poli lo era mille volte di più.

Come avevano sperato, prima dell’arrivo a Tiva incontrarono una pompa di benzina. Era molto ben tenuta, con due inservienti rigidi e seri, vestiti con quelli che avevano tutta l’aria di essere due camici grigi da infermieri.

“Ci scopriranno” sussurrò Rigel, gli occhi puntati davanti a sé.

“Se non facciamo benzina, di sicuro” ribatté Bion.

L’Hydran arrancò a fatica fino all’accampamento. Da un momento all’altro avrebbero dovuto spingerlo. Una volta parcheggiato – piuttosto lontano dagli altri veicoli – Rigel scese e si affrettò al self service. Avevano deciso che Bion avrebbe fatto meglio a non farsi vedere, dato che era una specie di ricercata e, nonostante il taglio di capelli, piuttosto riconoscibile. Rigel, al contrario, era una faccia nuova a tutti, o almeno era quello che credeva.

Tutto andò liscio. Rigel incontrò un paio di volte lo sguardo degli inservienti, che lo fulminarono da lontano, come a controllare se fosse capace di cavarsela da solo. Rigel fu contento di fargli vedere che era capacissimo e fece più in fretta possibile.

“Bisogno d’aiuto?”

Rigel trasalì. Si volse e incontrò il volto impassibile, pallido e lo sguardo vuoto di uno degli inservienti. Ingoiò la saliva e sorrise.

“Tutto a posto, grazie. Ho appena finito” rovistò nelle tasche fugacemente e porse qualche moneta all’inserviente che continuava a fissarlo. “Dovrebbero essere giuste”.

Rigel abbassò lo sguardo e avvicinò ancora la mano verso di lui. A quel punto, l’inserviente guardò le monete, le conteggiò mentalmente e le prese dal palmo di Rigel.

“Buona giornata, allora”.

L’inserviente non disse nulla, e pareva che le sue labbra fossero incapaci di imitare un sorriso. Rigel si affrettò sulla scaletta e rientrò nell’Hydran con un balzo. “Andiamocene di qui. Non ho mai conosciuto nessuno di più simpatico”.

Tiva era una città molto diversa da Keel. Le case erano spoglie e asettiche, le pareti grigiastre degli edifici senza smagliature, senza crepe. Era come se ogni giorno venissero ricostruite e ridipinte di quel grigio smorto, triste. Tiva non era grande come Keel, ma comunque vasta abbastanza per ospitare ogni genere di persona, o meglio, di Sostituto.

“È una città molto triste. La sua architettura ha risentito del Polo che si trova a poca distanza da qui. Diciamo che assomiglia più a una base militare” spiegò Bion.

La gente per strada pareva riflettere il grigiore anche nel loro stato d’animo e nel modo di vestire. Rigel si sentì come dentro un laboratorio immenso, dove ognuno rispecchiava la figura della  cavia umana.  

Avevano lasciato l’Hydran parcheggiato sul sentiero, al limitare delle mura cittadine, nascosto sotto due chiome di alberi e si incamminarono a piedi oltre il cancello che segnava l’entrata principale. Entrambi allungarono il passo e chinarono il capo a terra, decisi a non attirare l’attenzione più di quanto il loro aspetto già da solo non facesse.

All’improvviso, un bambino si lanciò davanti a loro, rincorrendo un pallone, e Rigel sobbalzò e si ritrasse quando si accorse che gli aveva tagliato la strada così velocemente da farlo sembrare un agguato. Sorvolò con lo sguardo attorno e, suo malgrado, scorse parecchi occhi che lo ricambiarono. Si affrettò a fissare il cemento sotto i suoi piedi e riprese a camminare.

“Questo posto mi piace sempre meno. Ma che cosa hanno da guardare?” sussurrò a Bion.

Lei rispose da un angolo delle labbra. “Non sono abituati agli stranieri. E comunque, prova a non attirare l’attenzione, per favore”.

Rigel la guardò, indignato. “Non è stata colpa mia. Quel bambino…”

“Probabilmente l’ha fatto apposta, non pensi? Per vedere la nostra reazione… Hai notato che c’è una sentinella quasi ad ogni incrocio di strade?”

Ora che glielo faceva notare, Rigel constatò che era proprio vero. Si camuffavano bene tra la gente, perché indossavano indumenti dello stesso colore. L’unica differenza era il mitra spaventoso che imbracciavano e cullavano come fosse un bambino appena nato. Le loro facce scure e impassibili – così simili a quelle degli inservienti della pompa di benzina – non tradivano alcuna emozione.

Rigel era così preso ad osservarli che quasi non si accorse che Bion aveva deviato e stava entrando in un piccolo negozietto al lato della strada. La porta d’entrata era a scomparsa; gli diede l’idea di trovarsi come su un altro pianeta. Lui, che veniva dalla foresta ed era abituato alla vita semplice di un tempo, non era affatto avvezzo a tutto quel futurismo. E probabilmente – si disse – quello era solo un piccolo assaggio di ciò che avrebbero trovato a Nallav, la più ricca e grande città di tutta Hestla.

Era una piccola bottega di alimentari, disposti ordinatamente su scaffali bianchi stile ospedaliero. Se non fosse stato profondamente affamato, Rigel non avrebbe provato nessuna voglia nel comprare in un posto del genere. Nell’ambiente c’era un forte odore di alcol.

Rigel era come affascinato da tutto, così immensamente diverso da ciò a cui lui era abituato. Non pensava che nel Nord avrebbe trovato luoghi del genere, ma forse, come Bion aveva detto, Tiva aveva quell’aspetto soltanto perché giaceva affiancata ad uno dei Poli.

Comprarono quello che non avrebbero potuto procacciarsi da soli: pane, formaggio e qualche bibita in lattina. Pagarono e uscirono dal negozio.

“Forse non avresti dovuto salutare, sei stata troppo cordiale” fece Rigel, sarcastico, una volta fuori.

Bion rise. A Tiva non c’era molto calore umano e la gente si comportava un po’ come robot.

Be’, in fondo è quello che sono, ma almeno a Keel non lo rendevano così tremendamente palese. Pensò Rigel.

Erano lì da nemmeno un’ora e già avevano innumerevoli occhi puntati addosso. Bion iniziò a diventare sospettosa. Inaspettatamente, cercò la mano di Rigel e la strinse nella sua, con delicatezza.

Lui la guardò, confuso. Bion gli restituì lo sguardo e sorrise apertamente. Rallentò di molto e si alzò in punta di piedi, quel tanto che bastava per avvicinarsi a Rigel e imprimergli un bacio sulla guancia. “Stammi al gioco” gli sussurrò un secondo prima di allontanarsi.

Avevano rallentato così tanto che si ritrovarono fermi, al bordo del marciapiedi. Bion si voltò verso Rigel e lo guardò negli occhi. Poi aprì la bocca dicendo qualcosa a vanvera per chiacchierare.

“Non sai quanto avrei voluto comprare il burro di arachidi!”

“È già che non lo so…” rispose lui, come se cercasse di scorgere nel volto della ragazza le parole che voleva sentirgli dire.

“Mia madre sa fare un dolce delizioso che avrei tanto voluto farti assaggiare…”

“M’immagino…”

Bion scoppiò a ridere, quasi sottovoce. Prese a giocherellare con il colletto della maglia di Rigel. “E ti avrei invitato a casa mia. Ma possiamo trovare un altro motivo, no?”

“Già, possiamo” Rigel lanciò di sottecchi un’occhiata oltre la testa di Bion. Scorse una coppia di Sostituti sentinelle lanciare uno sguardo fugace verso di loro, per poi passare oltre. Ritornò a guardare Bion, che lo stava spingendo sul marciapiedi, fino a trovarsi con la schiena contro la parete grigia di un edificio.

“Abbracciami” gli sussurrò.

Rigel lo fece, la circondò con le braccia, senza sapere bene dove metterle. Le incrociò sulla sua schiena e affondò il viso sul suo collo. Intanto, diede un’altra veloce occhiata alle due sentinelle. Sembrava non avessero affatto intenzione di andare oltre quel tratto di strada. Si dondolarono sui piedi, imbracciarono meglio il fidato mitra e si decisero infine a tornare indietro, passando molto vicino a loro due. Prima di rischiare d’incontrare il loro sguardo, Rigel chiuse gli occhi, e finse un trasporto amoroso, stringendo Bion tra le sue braccia più che poteva.

“Adesso” bisbigliò lei.

Rigel si sciolse lentamente dall’abbraccio e le sorrise affabile.

Continuando con quel fare sdolcinato, Bion lo prese per mano e lo guidò giù dal marciapiedi, svoltarono l’angolo e si avviarono lungo una stradina laterale che pareva deserta.

Rigel non era ancora certo di poter parlare, quindi si limitò a lasciarsi trascinare, le dita legate a quelle di Bion.

Lei scrutò l’alto muro che gli si parava davanti. Erano le mura cittadine, da cui ogni città di Hestla era caratterizzata. Era come una specie di barriera che proteggeva gli abitanti dall’ambiente al di fuori. Ed era proprio al di là che loro avevano lasciato la loro ancora di salvezza, l’Hydran.

“Da qui non si passa. Dobbiamo trovare un’altra strada”.

Si spostarono lungo un vicolo sulla sinistra, in mezzo a due case squadrate e pressoché identiche.

“Cavolo, questo posto è un labirinto” commentò Rigel a bassa voce.

Bion non gli lasciò la mano e lo trascinò fino alla fine del vicolo, che sbucava in un’altra strada laterale come quella che avevano percorso poco prima. E tutto attorno non differiva di una virgola.

“Mi sa che abbiamo sbagliato. Ci stiamo inoltrando nella città e allontanando dai cancelli. Torniamo indietro, Bion”.

Lei si buttò un’occhiata attorno, prima di annuire. Rigel si avviò su per la strada a sinistra, ma lei lo bloccò. “Non da quella parte. Saremo di nuovo nella via principale con quelle guardie alle calcagna. Seguimi”.

E marciò decisa nella direzione opposta, fino ad avere le mura della città ancora come ostacolo. Bion si guardò intorno. Poi si appiattì con la schiena contro la muraglia e si schiacciò più che poteva per passare nello spazio tra quella e il muro di una casa. Era molto stretto. Sentì qualche animale squittire sotto i suoi piedi. Rigel la seguiva con più difficoltà, dato che era più grosso. Quando sbucarono di nuovo all’aria aperta, un rivolo di sudore gli correva sulla fronte.

“Eccoci” disse Bion, indicando i cancelli davanti a loro. Quasi senza pensarci, si mise a correre e Rigel la imitò. Erano certi che avrebbero avuto via libera, certi che le guardie avessero trovato qualcos’altro di più interessante di loro.

Un’altra differenza che Rigel notò tra Tiva e Keel, era che Tiva non era altrettanto affollata. Quando aprirono i cancelli, affannati, sudati e desiderosi di andarsene, il cigolio che il ferro provocò li sorprese non poco. Tutto in quel posto era perfetto e futuristico, eppure quei dannati cancelli ancora stridevano.

Mentre varcava la soglia, Bion si guardò indietro. Le sentinelle che li avevano studiati fino a poco prima correvano verso di loro, alzavano le armi, prendevano la mira…

Bion urlò e prese a correre via insieme a Rigel. Si lanciarono fuori mira, oltre i cancelli e fuorono nascosti dalle spesse mura di cemento che partivano da lì e correvano tutto attorno al perimetro cittadino. Ma non erano ancora salvi, i passi delle sentinelle dietro di loro erano ben udibili, oltre le urla della misera folla spaventata.

Correre era quasi come annaspare sott’acqua, nella calura estiva. Rigel sentiva il suo respiro pesante. Vide Bion sorpassarlo, andare come una furia, le punte dei piedi che quasi non toccavano il suolo, e fu allora che si riscosse. Non poteva mollare, non in quel momento. Bion si voltò, lo sguardo disperato e Rigel lo ricambiò con un’espressione decisa e ferma.

Ce la facciamo.

L’Hydran si ergeva davanti a loro, Rigel alzò il capo grondante di sudore e gli sfuggì un sorriso. Poi, un fischio vibrò a pochi centimetri dal suo orecchio. Ritornò alla realtà in modo brusco, si volse e vide le due sentinelle affiancate da altre sentinelle, quattro, sei…

“Bion!” gridò, disperato.

Lei era già sulla scaletta, si girò di scatto e, prima di prendersi una pallottola in pieno petto, si abbassò con foga.

Rigel lesse sulle sue labbra un’imprecazione. Si arrampicò sulla scaletta quasi volando ed entrambi furono dentro. Rigel sentì i proiettili colpire la superficie del portello, mentre lo chiudeva con un tonfo.

Bion aveva azionato il velivolo. E aveva anche spinto il pulsante viola, quello che, come Gruis le aveva detto qualche giorno prima, serviva per azionare le sette mitragliatrici sul davanti dell’Hydran.

“Forza, muoviti” borbottava Bion.

Rigel non l’aveva mai vista tanto agitata. Eppure la situazione era più o meno la stessa che avevano affrontato a casa sua parecchi giorni prima. O forse no?

Il velivolo fu in aria nel giro di qualche istante, le armi sbucarono dal salvagente di ferro e si misero in posizione con un possente clangore metallico.

Bion avvicinò il dito al pulsante “Azione”, tutto era pronto e in posizione, i proiettili sparati dalle sentinelle a terra continuavano a rimbalzare sulla corazza dell’Hydran…

“Aspetta!” gridò Rigel.

Bion si girò di scatto, sorpresa. “Dannazione, che c’è?”

“Non possiamo sparare, ci sono troppi civili”.

Bion restò a bocca aperta, sconvolta. Guardo oltre i finestrini dell’Hydran, le persone disperse sullo spiazzale sottostante, alcune che gridavano, altre che guardavano la scena terrorizzate, madri che cercavano di allontanare i loro bambini…

“Sono solo Sostituti, Rigel!” urlò di rimando.

“Non possiamo sparare così su di loro, in fondo sono innocenti…”

“Dovevi metterti a fare il sentimentale proprio adesso?” Bion alzò gli occhi al cielo, sbraitando. “Ci uccideranno, lo sai questo, vero? Anzi no, ci trasformeranno proprio come loro!”

Rigel non rispose. Si fiondò sul quadro comandi e impugnò il timone con le mani sudate. L’Hydran sfrecciò via lontano da Tiva e dai proiettili delle sentinelle. Erano di nuovo sul sentiero, sotto di loro si estendeva nient’altro che vegetazione e ben presto le voci si affievolirono fino a scomparire. Calò un silenzio carico di tensione.

“Sei un po’ troppo pacifista per i miei gusti” affermò sdegnata Bion, alzandosi dalla sedia e allontanandosi da Rigel.

Lui fissò la sua schiena. “Non serve uccidere persone innocenti. Non è quello che sono venuto a fare, e pensavo nemmeno tu”.

Lei si voltò di scatto, furiosa. “Pensi che sia finita qui? Che basti scappare e lasciarsi la battaglia alle spalle? Prima o poi verrà il giorno che dovrai affrontarli veramente, Rigel. Non potrai fuggire quando saremo di fronte a Sycor”.

Rigel evitò di guardarla. Alla fine era giunto, dunque, il momento della verità. Voleva che le dicesse che non era ancora pronto? Che non voleva uccidere?

“Pensi che mi piaccia ammazzare la gente? Non è bello, credimi, nemmeno se si tratta di nemici. In fondo, noi siamo ancora umani. Ma è inevitabile che prima o poi succeda, in questo mondo e con la nostra missione da compiere”.

Si avvicinò di un passo verso di lui, che ancora evitava di guardarla.

“Conoscendo come operano, ci saranno un sacco di squadre sulle nostre tracce. Se avessimo agito, forse non avrebbero avuto il tempo di avvertire gli altri Poli…” puntò lo sguardo fuori dal vetro dell’Hydran, sul paesaggio e continuò a parlare in modo pratico, “ad ogni modo dobbiamo alzare la guardia cento volte tanto, e anche di più, se potrà salvarci la pelle”.

Rigel alzò gli occhi su di lei, la mascella serrata. Doveva forse chiedere scusa? Doveva vergognarsi di non avere sparato sulla gente? No, che non doveva. Non era un assassino, e poi cosa ne sapevano loro che tra quella folla di Sostituti non si nascondessero degli umani? In fondo era impossibile stabilirlo soltanto dall’aspetto. Magari là in mezzo c’erano umani che si spacciavano per Sostituti, con la speranza di non essere mai trovati e di poter condurre una qualsiasi vita.

Anche se Bion non era d’accordo, Rigel continuò a ripetersi che con il suo gesto aveva probabilmente salvato qualche vita umana. Non aveva mandato tutto all’aria per niente.

Mentre quei pensieri gli vorticavano in testa, e lui si costringeva a convincersi che una qualche ragione ce l’aveva, si perse con lo sguardo oltre il vetro dell’Hydran e, inaspettatamente, qualcosa là sotto attirò la sua attenzione.

Strinse gli occhi e improvvisamente ogni pensiero volò via dalla sua mente. Una figura balzava sulla terra sabbiosa, una figura agile, scattante, non umana e molto familiare.

“Freya” sussurrò tra sé e sé.

Bion lo guardò. “Cosa?”

“Freya!” ripeté Rigel più forte, con una nascente contentezza che gli si faceva spazio dentro. Era così bello vederla, voleva abbracciarla e accarezzarla. Avevano trascorso solo quattro giorni lontani, ma a lui erano sembrati millenni. E ora, la sua fedele compagna era tornata.

Rigel sorrise, impugnò il timone senza lasciare parlare Bion, senza farle elencare i possibili attentati a cui sarebbero andati incontro atterrando in quel momento.

Erano a pochi metri da terra, Bion si era rassegnata ed entrambi fissavano la lince correre al loro inseguimento. Poi, in una frazione di secondo, qualcosa la colpì, Freya emise un gemito soffocato, il suo corpo si ribaltò all’indietro e si accasciò sul suolo polveroso.

Rigel allentò la presa sul timone, lo sguardo fisso oltre il vetro, gli occhi all’improvviso pieni di lacrime. Ma non poteva essere vero…

“Freya” sussurrò, la voce spezzata. “FREYA!”

Ma la lince rossa non rispose al suo richiamo.

“NO!”

Le urla di Rigel rimbombavano nella cabina dell’Hydran. Bion lo trattenne quando lui si lanciò contro il vetro, come per trapassarlo.

Ciò che venne dopo si svolse veloce, inaspettato. Il velivolo era a pochi metri da terra, ma il dolore di Rigel era troppo forte perché lui o Bion si resero conto di cosa stava succedendo.

Un suono secco, un fischio acuto e un colpo andato a segno. L’esplosione incendiò la parte inferiore dell’Hydran che iniziò a precipitare con la velocità di un corpo inanimato. Rovinò a terra in un insieme di fuoco, fiamme e metallo. Rigel e Bion furono scaraventati all’indietro e cozzarono con la schiena contro le pareti.

Poi, molte voci gli arrivarono distorte, lontane, ma era difficile cogliere quello che stavano dicendo, sopra lo scoppiettio delle fiamme e il dolore lancinante delle loro ferite.

“Rigel…” mormorò Bion, sentì sangue fresco, il suo sangue, colarle dalla testa e finirle in bocca, mentre cercava di alzarsi e scostava faticosamente detriti dell’Hydran che aveva addosso.

“Rigel, dobbiamo andarcene…”

Dopo quelle che parvero ore, ma che furono solo pochi secondi, sentì qualcosa muoversi accanto a lei. Rigel riemerse da sotto una lastra di ferro. Aveva un fianco squartato, ed era coperto di sangue dalla testa ai piedi. Bion si disse che nemmeno lei doveva avere un bell’aspetto.

Si alzarono con uno sforzo tremendo e strisciarono fuori dall’Hydran per la fenditura che la caduta aveva provocato nella parete sinistra.

Bion vide in lontananza un gruppo di Sostituti armati che si muovevano nella loro direzione. Erano stati loro ad abbattere l’Hydran, probabilmente con un bazooka. Ma non avevano contato che il velivolo sarebbe rotolato per diversi metri lontano dal punto desiderato.

Bion prese Rigel per la maglia e lo trascinò in fretta nella coltre di alberi che delimitavano il sentiero. Correre era pesante e doloroso, ma era l’unico modo per mettere più terreno possibile tra loro e i Sostituti.

Bion lanciò un’occhiata veloce a Rigel, per accertarsi che non fosse sul punto di morire, e lo vide scioccato, gli occhi sbarrati e spalancati persi nel vuoto, il volto segnato da lacrime e sangue.

Dovevano aver fatto parecchia strada, o almeno se lo augurava. Non aveva il coraggio di guardarsi indietro, perché sapeva che la sorpresa di trovare i Sostituti a un soffio da loro non le sarebbe piaciuta.

Ma, all’improvviso, perse ogni sensibilità, vedeva le sue gambe muoversi ma non le sentiva. La testa le girò vorticosamente e tutto il suo corpo precipitò rovinosamente nell’erba alta.

Poi, tutto divenne nero.

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Capitolo 9
*** Seconda Occasione ***


8

Seconda occasione

 

 

 

 

Quella mattina, Galen si svegliò tardi. Rimase disteso sul letto, le braccia spalancate, a fissare il soffitto, rimuginando sui suoi pensieri, sui suoi sogni. Il sole trapelava dalle imposte, e qualche ignaro uccellino cantava. Fuori doveva essere una fantastica giornata estiva. Un tempo, Galen sarebbe corso all’aperto senza tante scuse, avrebbe giocato e si sarebbe goduto la beatitudine di quella stagione. Ma ormai era cresciuto, e sebbene molti dicessero che a diciassette anni si è ancora piccoli, lui non si sentiva più un bambino. Era figlio di un mostro, un essere deplorevole. Forse era l’odio per suo padre che lo aveva fatto crescere troppo in fretta, o l’atteggiamento freddo di sua madre. Oppure il fatto che sapeva i piani di suo padre, sapeva cosa stava creando e quante persone erano morte per permettergli di raggiungere i suoi scopi.

Ecco perché, invece di saltare giù dal letto e correre fuori, se ne stava lì, pensieroso. Doveva assolutamente trovare un modo per mettere fine a tutto. Lui era suo figlio, dannazione, perché non avrebbe dovuto riuscirci?

Sbattè le palpebre quando un tonfo sordo lo raggiunse dal salotto. Galen si riscosse, si alzò e si mise in ascolto.

Riconobbe la voce di sua madre, ma ce n’era un’altra, maschile, piatta, senza vita. Galen aggrottò le sopracciglia. Si vestì in fretta e uscì dalla camera.

Chara gli rivolse uno sguardo, mentre l’uomo che la stava abbracciando gli fece un breve cenno di saluto con il capo.

“Buongiorno, fratello” scandì Zaniah.

Aveva ventiquattro anni, ma sembrava molto più vecchio. Portava un paio di occhialetti squadrati e trasparenti, adagiati su un naso dritto e sottile. Gli occhi erano gli stessi di Galen, azzurri come il mare. I capelli castano scuro erano laccati e piegati in modo impeccabile, la valigetta ventiquattr’ore e il cappotto nero lungo fino alle ginocchia gli conferivano un’aria molto ricercata e altezzosa.

Marciò verso Galen con ampie falcate, le lucide scarpe costose che ticchettavano sul pavimento. Gli porse la mano, come se stesse dando il benvenuto ad un cliente ad una riunione di lavoro.

 “Mi auguro che sia tutto a posto” disse in tono distaccato.

Galen gli prese la mano e gliela scrollò controvoglia. Lo guardò negli occhi con una smorfia. Lui e suo fratello non avrebbero potuto essere più diversi. Zaniah lavorava con Sycor, o meglio per Sycor. Ciò significava appoggiare le sue idee, aiutarlo a compiere i suoi piani maniacali. E Galen sapeva che a Zaniah non importava un accidente di quello che tutto ciò comportava. A lui interessava solo vestirsi bene, avere un mare di soldi e una certa fama. Voleva essere stimato e temuto, voleva il potere.

“Che cosa ci fai qui?” borbottò Galen, senza tanti preamboli.

Il viso di Zaniah, che pareva piegato in una perenne smorfia di rigidità e cupezza, si sciolse per un istante in un forzato sorriso. Ma un secondo dopo, era già sparito. “Mi manda nostro padre e si rammarica per la sua assenza”.

“Digli pure di non preoccuparsi, qui nessuno ne è rammaricato”.

Zaniah si accigliò. “È un peccato che tu ancora non riesca ad apprezzare nostro padre”.

Galen fu sul punto di ribattere, ma Chara gli comparì accanto. Gli prese una mano tra le sue, e lo accarezzò gentilmente. Gli sorrise. Galen scorse nei suoi occhi una supplica silenziosa di non replicare, di non litigare. Galen sapeva che Chara non condivideva lo stile di vita del figlio Zaniah, ma capiva che non voleva trovarsi a dover attutire l’ennesima lite in famiglia, e soprattutto non tra i suoi figli.

Così Galen rimase zitto e serrò la mascella.

Si sedettero a tavola verso mezzogiorno, e anche se Galen non aveva affatto fame, fu costretto a sottostare alle rigide regole che Zaniah, al contrario, era abituato a seguire.

Pranzare tutti insieme appassionatamente era un concetto a cui quella famiglia non sottostava più da lungo tempo. Galen notò che l’abituale umore cupo della madre era accentuato dalla presenza di Zaniah, anche se era parecchio brava a non darlo a vedere.

Hana serviva loro le portate cercando di apparire al suo meglio, andava adagio e faceva un lavoro minuzioso, appoggiando le porzioni sui piatti laccati con un’estrema professionalità. Galen la guardava rammaricato. Avrebbe voluto che non fosse così perfetta. Voleva urlarle di sbagliare, di fregarsene, di tirare la pasta dritta in faccia a Zaniah, perché lei non sapeva che suo fratello era lì anche per controllarla, per vedere come si comportava. E, a vederla così brava, avrebbe di certo pensato che lei considerava quella situazione come un bene, una cosa bella che le era capitata nella sua altresì misera esistenza.

“Questa fanciulla è adorabile e molto rispettosa” Zaniah sorrise ad Hana, che lo ricambiò, imbarazzata.

Galen lanciò al fratello uno sguardo infuocato.

“Ha un buon comportamento, in genere?”

Chara annuì, quasi senza alzare gli occhi dal piatto.

“Come sapete, sono qui anche per registrare il suo andamento. Nostro padre è convinto che una buona condotta è segno del fatto che le Aiutanti abbiano accettato la loro condizione e di conseguenza saranno più disponibili a lasciarsi trattare in futuro”.

Galen soffocò una rabbia improvvisa. Avrebbe voluto alzarsi, battere il pugno sul tavolo e gridare contro Zaniah. Lasciarsi trattare… era così che adesso si diceva? Essere trasformate in Sostitute, dopo anni di servizio non retribuito presso famiglie di uomini spregevoli e ignare di quale sarebbe stato il loro futuro.

Era proprio quello il loro piano, tacere la verità e portare avanti le menzogne. Se quelle ragazzine avessero mostrato un buon comportamento, al compimento del ventesimo anno d’età non avrebbero certo opposto resistenza quando le avessero prelevate e portate in laboratorio. Probabilmente, nemmeno allora gli avrebbero rivelato la verità. “Non preoccuparti, è solo un controllo” o roba del genere, gli avrebbero detto. E loro, ignare e ingenue, avrebbero soltanto eseguito.

Galen era nauseato a quel pensiero e la vista del fratello di certo non migliorava le cose.

“La cena è ottima, madre. È lei che si occupa di tutto?” continuò Zaniah, petulante.

Chara annuì nuovamente, prima di portarsi alle labbra un altro boccone.

Zaniah annuì e abbassò gli occhi concentrandosi sul suo piatto.

“E quindi pensate che Hana, come tutte le altre, sarà molto contenta quando la rinchiuderete in laboratorio, la ucciderete e poi la trasformerete in un Sostituto, vero?”

Hana trasalì e fissò Galen, incredula e terrorizzata. Galen le ricambiò lo sguardo, serrò la mascella, determinato. Voleva infonderle la forza della verità. Perché era quello che le sarebbe spettato, ed era arrivato il momento che lo sapesse, proprio lì di fronte a Zaniah, che tanto sosteneva quel pazzesco processo ideato dal loro abominevole padre.

“Galen, non mi sembra il momento…” borbottò Chara.

Galen scattò in piedi. “Si invece! Finitela di mentire! Tanto moriremo tutti, non è così? Affinché quel pazzo di nostro padre possa trasformarci in robot, ma a quanto pare staremo tutti molto meglio allora, vero?”

Zaniah e Chara lo fissavano. Leggeva nei loro occhi lo sconcerto, ma riuscivano a trattenersi, e le loro mascelle serrate e dure lo fecero imbestialire ancora di più. Si voltò verso Hana, che al contrario lo guardava terrorizzata, paralizzata. Era sull’orlo delle lacrime.

“Siediti, Galen, per favore…” iniziò Chara, la voce roca.

“NO!” gridò lui.

“Per favore, fratello. Lo sai che questo non porterà a nulla. Tranquillizzati”, era stato Zaniah a parlare questa volta e Galen lo fissò stupito. Non l’aveva mai sentito parlare con quel tono per lui fin troppo affettuoso. Zaniah allungò una mano verso Hana e le strinse il polso. Le sorrise. “Stai tranquilla, ragazza. Andrà tutto bene”.

Galen continuò a fissarlo. Era sbalordito. Incontrò lo sguardo di suo fratello, e gli parve volesse trasmettergli un messaggio con gli occhi. Era come se volesse dirgli qualcosa attraverso la forza del pensiero. Galen socchiuse gli occhi, e poi comprese che era meglio stare in silenzio.

Zaniah scattò in piedi, con un rinnovato sorriso sul volto. “Penso che Hana abbia fatto abbastanza”, la guardò “puoi andare nella tua stanza, piccola”.

Lei sul momento non si mosse, ma poi, ancora sconcertata e incapace di parlare si avviò silenziosamente e scomparve oltre la porta della sua camera.

“Vado a prendere il dolce” annunciò Zaniah. “Galen mi dai una mano a tagliare le porzioni?”

Galen lo fissò come se non l’avesse mai sentito parlare prima.

‘Mi dai una mano?’ Questo non è mio fratello.

Tuttavia, dopo aver scambiato un’occhiata con sua madre, seguì Zaniah in cucina. Ma il fratello non si fermò lì: aprì la porta finestra che dava sul giardino e scomparve nell’afosa luce estiva. Galen lo raggiunse.

Zaniah estrasse qualcosa dalla tasca e quando gli occhi di Galen si furono abituati alla luce forte del sole, riuscì a mettere a fuoco un pacchetto di sigarette e un accendino, che Zaniah stava protendendo verso di lui.

“Ne vuoi?”

Galen lanciò un’occhiata a suo fratello e ancora al pacchetto. Alla fine prese una sigaretta e l’accese con uno scatto dell’accendino. Anche Zaniah fece lo stesso, e dava lunghe tirate al cielo.

“Lo so che non è facile essere figlio di uno come Sycor”.

Galen alzò gli occhi, a quelle parole. Non aveva mai sentito suo fratello rivolgersi a loro padre chiamandolo freddamente “Sycor”. E anche la sua voce aveva assunto un tono più naturale, genuino. Non stava più recitando la parte del figliol prodigo.

“Lascia che ti dica una cosa. E forse dopo mi ringrazierai. Tutta la casa è sorvegliata. Ci sono telecamere in ogni stanza, persino in bagno. E ci sono persone alla base di Sycor pagate per stare ore e ore dietro a dei monitor che mostrano ogni istante della vostra vita. Se mangiate lo vedono, se pisciate lo vedono. Se ridete e scherzate, lo sanno. E quando litigate, è il loro divertimento”.

I due fratelli si scambiarono un’occhiata. E Zaniah teneva gli occhi socchiusi per il sole, ma aveva un’espressione dura e severa.

Galen distolse lo sguardo e lo puntò a terra, sul letto di erba ben tagliata con qualche margherita che spuntava qua e là. “Io non lo sapevo”.

Zaniah sbuffò una risata. “Me lo immaginavo. Altrimenti non ti saresti comportato così”.

“Tutte le volte che sei venuto a trovarci… Perché non me l’hai mai detto?” Galen alzò gli occhi e li puntò contro quelli azzurri del fratello.

“Perché non ce n’è mai stato bisogno. Non si può certo dire che tu sia stato al settimo cielo, ma non hai mai fatto scenate del genere. Ed è da queste che nostro padre capisce il tuo stato d’animo. Mi spiego meglio: se tu sei tranquillo, magari con la faccia cupa ma pur sempre calmo, vuol dire che non sei una minaccia. Ma nel momento in cui decidi di ribellarti, di esternare la tua rabbia, be’ loro lo vedono e lo interpretano come una rivolta verso il sistema, e di conseguenza verso nostro padre”.

Galen lo ascoltava con attenzione. Non l’aveva mai sentito parlare di loro padre, di quello che facevano alla base e delle sue opinioni in riguardo. A dire il vero, Galen aveva sempre pensato che suo fratello fosse favorevole. E invece, eccolo là a discutere sul bene e sul male. Era quella la vera faccia di suo fratello? Tutto il resto era dunque un ruolo che si era preposto di interpretare affinché rientrasse nelle grazie del loro padre?

Galen un po’ l’ammirava. Lo vedeva per la prima volta sotto una nuova luce, una luce migliore. Se quello era il vero Zaniah, be’, era orgoglioso di poterlo chiamare fratello.

“Da quand’è che hai iniziato a pensarci?”

La domanda che Zaniah gli fece lo riportò alla realtà. Lo fissò e corrugò le sopracciglia più di quello che il forte sole lo costringeva a fare.

Zaniah tirò dalla sigaretta, prima di replicare alla sua espressione. “Voglio dire, quando hai cominciato a pensare di ribellarti? Che questa situazione non ti andava più bene?”

Galen puntò gli occhi a terra. Si accorse che la sua sigaretta era ancora intoccata. Così diede una tirata, lasciò uscire il fumo dalle labbra e guardò il fratello. “È un po’ che ci penso, ma non ho mai concretizzato nulla. Vuol dire che sono un debole?”.

“Non sei un debole”.

“Ma mi ci sento”.

Zaniah lo guardò per un lungo istante. Non c’era alcuna espressione particolare sul suo volto. Se non un cenno di comprensione e, a modo suo, affetto.

“Solo il fatto di averci pensato, di avere l’intenzione di cambiare le cose, questo ti impedisce di essere debole. Ti sorprenderà sapere che anche io un tempo ero come te. Avevo voglia di combattere contro il mondo, contro nostro padre. Volevo vendicarmi e fuggire da tutto questo. Ma alla fine ho ceduto. Sono passato dalla parte del male, ho aiutato Sycor e ho indossato una maschera per la vita. Come credi che mi senta?”

“Non immaginavo…”

“Che fossi dalla tua stessa parte?”

Galen annuì. La sigaretta continuava a rilasciare fumo, ma lui se l’era dimenticata. Ora c’era solo Zaniah, la sua figura, i suoi abiti costosi, i suoi occhi azzurri per la prima volta tanto sinceri e simili ai suoi.

“Se vuoi sopravvivere, passare dalla parte del male è l’unico modo. Ma se vuoi rischiare, sappi che io cercherò di aiutarti per quanto mi sia possibile. Tu sei un po’ come la mia seconda occasione” allungò la mano, l’appoggiò sulla spalla di Galen e la scosse con fare incoraggiante.

Galen accennò un sorriso. La sua seconda occasione. Be’ quel pensiero un po’ lo spaventava. Gli aveva dato un compito importante. Ora, oltre a sé stesso, sua madre e Hana, c’era anche suo fratello che non poteva deludere. Si chiese se un giorno quelle persone avrebbero potuto essere fiere di lui.

“Le persone non hanno mai solo un lato. E l’apparenza inganna. Pensaci bene, Galen”.

Inaspettatamente, Galen sentì la mano del fratello scivolare sulla schiena, il braccio serrarlo stretto. Si lasciò andare nell’abbraccio con suo fratello. E per un istante si sentì al sicuro, protetto. Non si era mai sentito così. Sua madre era sempre stata debole e cagionevole e il più delle volte era lui, Galen, a doverla proteggere. Suo padre non c’era mai stato. E suo fratello fino a quel momento aveva recitato la parte del distaccato.

Ma ora, era come se anni d’odio e rancore provati verso quell’uomo pressoché sconosciuto si fossero sciolti come neve al sole. Gli sembrava che tutto potesse andare meglio, che ogni cosa potesse trovare il suo posto nel mondo, ora che aveva suo fratello dalla sua.

Quando Zaniah si staccò, Galen sentì gli occhi lucidi.

“Dai, andiamo a tagliare quel dolce, altrimenti nostra madre si preoccuperà”.

 

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Capitolo 10
*** Il Viaggiatore Solitario - Parte 1 ***


9

Il viaggiatore solitario

prima parte

 

 

 

 

Bion aprì gli occhi alla luce fioca di una candela, posata su un comodino al fianco di un letto. Scombussolata e confusa, si puntellò sui gomiti e alzò la testa per guardarsi attorno. Istintivamente, si portò una mano al capo, che le lanciò una fitta lancinante. Fece una smorfia con la bocca e soffocò un gemito. Le sue dita non toccarono i capelli, bensì qualcosa di ruvido e spesso: una benda. Si accigliò. Qualcuno l’aveva soccorsa e medicata. Qualcuno l’aveva salvata. O forse era in una base militare e aspettava di essere trasformata in un Sostituto.

Si allarmò, quando si rese conto che, per quello che ne sapeva, potevano già averla trasformata. Un ansia immane le salì alla gola a quel pensiero. Poi i suoi occhi misero a fuoco un’altra benda, attorno al polso. Si portò il braccio vicino al viso e studiò la ferita. Corrispondeva esattamente al punto dove aveva imparato a praticare una ferita per assicurarsi se una persona fosse un Sostituto o meno. Se ne fosse uscito sangue, allora aveva davanti un essere umano, ma se avesse trovato fili metallici, allora si trattava di un Sostituto.

Per qualche ragione si sentì sollevata quando notò una macchiolina di sangue raggrumato intrappolato dentro alla benda. Ma non era certa se quello volesse dire che era ancora umana…

“Ciao”.

Bion sobbalzò così violentemente che fece un salto sul posto. Era stata così presa dai suoi pensieri che non si era accorta di una persona sulla soglia della porta.

Bion lo mise a fuoco: era un ragazzo, alto, massiccio e dall’aria gentile. Aveva i capelli piuttosto lunghi, di un bel castano, stretti in una coda sulla nuca. Era vestito con abiti semplici, da lavoratore, e teneva stretto tra le mani un bicchiere. I suoi occhi azzurri, limpidi e sereni, la fissavano intensamente.

Mosse qualche passo verso di lei con un’innata pacatezza che emanava da tutto il suo essere. “Non volevo spaventarti, scusa”.

Bion non riusciva ad articolare parole di senso compiuto. Tutto le sembrava irreale. Chi era quel ragazzo? Perché le parlava come se fossero legati da una relazione d’affetto e cosa ci faceva su quel letto?

“Mi dispiace per il taglio” il ragazzo indicò con gli occhi la benda al polso di Bion, “ho dovuto farlo, per accertarmi che fossi umana”.

Di nuovo, puntò lo sguardo su Bion, che ne rimane trafissa. Aveva gli occhi penetranti e molto più eloquenti di qualsiasi parola.

“Io sono Kalb. Quasi dimenticavo di presentarmi… non voglio sembrare sgarbato, è solo da molto tempo che non ricevo visite, di quelle gradite intendo”.

“Il mio amico è salvo?” Bion quasi non si rese conto di aver parlato, ma era contenta di averlo fatto.

Kalb parve sorpreso e come elettrizzato dalla sua voce. “Certo che sì. Ma quando vi ho trovati, era messo molto peggio di te. È nell’altra stanza, dovrebbe rimettersi presto”.

“Quando ci hai trovati?”

Di nuovo, Kalb parve non aspettare altro che Bion gli facesse delle domande. Sorrise e parve piuttosto divertito. Appoggiò il bicchiere sul comodino e si sedette sul bordo del letto. “Eravate a faccia in giù nell’erba, poco distanti da qui. Avete avuto fortuna che passassi di lì per cacciare qualche cervo… insomma non è un area che frequento spesso, si trova molto vicino ad un Polo…”

Bion non distolse gli occhi da lui un secondo, seguendo attentamente il movimento delle sue labbra.

“Immagino tu sappia cosa sono i Poli...” Kalb abbassò il mento, affondandolo nel collo e la trapassò con uno sguardo fermo.

Bion fu incerta su che cosa rispondere, così decise di fare un’altra domanda. “Quando ci hai trovati, eravamo soli, o c’era qualcun altro in giro?”

Kalb rise e lei ne fu sorpresa. “Intendi se c’era qualche Sostituto a inseguirvi? No, penso che abbiano perso le tracce…”

“Ma come fai a…”

“… sapere che vi davano la caccia e che hanno abbattuto il vostro mezzo di trasporto?” Kalb le lanciò un’altra occhiata divertita.

“Ho sentito il boato dell’esplosione, mi sono messo all’erta e mi sono nascosto tra i cespugli. Poco dopo ho sentito dei rumori nell’erba, e siete apparsi voi. Siete come inciampati e siete caduti a terra. Avevate l’aria di essere inseguiti, ho atteso qualche istante, ma nessuno era dietro di voi o, se c’era, ha perso le vostre tracce. Quando mi sono avvicinato, ho capito che non eravate inciampati. Pensavo foste morti, ma poi ho sentito il tuo respiro molto flebile. Così ho deciso di portarvi qui. Un po’ di compagnia mi mancava” si alzò dal letto e si avvicinò ad una finestra che Bion notò avere la forma di un oblò. “Ma ahimè non sono riuscito a prendere nessun cervo”.

“Quanto tempo sono stata addormentata?”

Kalb sospirò, fissando un punto oltre la finestra. “Due giorni, ora più, ora meno”.

Bion sgranò gli occhi. “Due giorni?” ripeté, scandendo lettera per lettera.

“L’ho detto che eravate messi male, no?” disse Kalb, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Bion era fuori di sé. Si alzò a sedere sul letto, inarcando la schiena in avanti. Non riusciva a realizzare di come poteva essere successo. Due giorni in un letto non suo, assistita da uno sconosciuto. Non era per niente il genere di cose che le piacevano.

“Dove siamo?” chiese ancora, lanciando uno sguardo stanco a Kalb.

Lui lo ricambiò ed esitò prima di parlare. “Tu e il tuo amico siete umani, il che è raro di questi tempi. Ma devo sapere da che parte state e quali sono le vostre intenzioni”.

Bion serrò la mascella. Immaginava che quel momento sarebbe arrivato. Era da imprudenti e da ingenui fidarsi ciecamente di sconosciuti, umani o non. E di certo quel ragazzo non aveva per niente l’aria di essere uno stolto.

“Ci hai salvato. Perché, se non ti fidavi di noi?” domandò infine.

Kalb le rispose per l’ennesima volta con un sorrisetto. “Sono solo un buon samaritano, non si nota?” si puntellò il petto con la punta delle dita e non riuscì a trattenere una risata sommessa.

Bion si domandò come faceva a trovare tutto così divertente. Aggrottò le sopracciglia e abbassò lo sguardo sulla ferita al polso. “Tu sai che noi siamo umani, ma io non so cosa sei tu”.

Kalb pareva attendersi quella risposta. Piegò il capo all’indietro, senza smettere di sorridere. “Puoi fidarti quando ti dico che non c’è nessuno più umano di me”.

Bion rimase impassibile.

“Ma, nel caso non ci credessi…” estrasse con un gesto veloce un pugnale piccolo, molto simile ad un coltello e si passò la lama all’altezza del polso. Soffocò un gemito e fece una piccola smorfia. Sangue caldo e rossastro prese a sgorgare dalla ferita. Sul suo volto ritornò un’espressione allegra, mentre alzava il polso e lo mostrava chiaramente a Bion. “Soddisfatta?”

Il rivolo di sangue scese fino a metà braccio. Kalb aprì un cassetto del comodino e ne estrasse un fazzoletto bianco un po’ spiegazzato. Se lo tamponò sulla ferita, e tornò a guardare Bion.

“Che c’è? Non pensavi che l’avrei fatto?”

La ragazza era esterrefatta. Chiunque egli fosse, le sembrava sempre più degno della sua fiducia.

“Adesso, cosa stavate facendo tu e il tuo amico?”

Bion distolse lo sguardo da Kalb e iniziò a studiare le linee che attraversavano il palmo della sua mano. “Io sono contro Sycor, e anche il mio amico lo è. Gli umani dovrebbero coalizzarsi, non pensi?”

Kalb parve piuttosto sollevato e contento di ricevere finalmente una risposta degna di essere tale. Ritornò accanto al letto e si sedette sul bordo, scostando un po’ le lenzuola. “È curioso che tu l’abbia detto, perché è proprio quello che sogno di fare. Radunare ogni umano rimasto su Hestla –sempre che ce ne siano, ma dopo il nostro incontro mi sento più speranzoso – e andarcene da qui. Trovare un posto migliore, senza Sostituti, senza esperimenti, laboratori, guerra e paura”.

Bion inarcò le sopracciglia. Quelle parole messe tutte insieme le davano troppo la sensazione di utopia.

“So che può sembrare troppo per una persona sola. Ma qualcuno ci deve provare, no? Insomma, non sarebbe bello iniziare una nuova vita senza più la tensione di essere scoperti e trasformati?”

“E come intendi fare per trovare gli umani sopravvissuti?”

Kalb sorrise. “Ci sto lavorando. La soluzione è vicina”.

“Ti piace parlare ad indovinelli, non è così?”

Il sorriso del ragazzo si allargò. Le sue pupille si mossero su e giù in quelle di Bion per un lungo momento. Era come se volesse leggerle nella mente. “Be’, in fondo chi sei tu per sapere ogni mio segreto?”

Bion rimase spiazzata. Abbassò gli occhi, imbarazzata, per poi rialzarli un secondo dopo. Ma Kalb la guardava ancora come si guarda una persona che ha bisogno di affetto e compassione. La fece sentire terribilmente inferiore, come se stesse per morire di fame e lui fosse l’unico uomo sul pianeta in grado di sfamarla. E quella sensazione non le piacque neanche un po’.

Kalb si alzò. Unì le mani con uno schiocco. “Ora che sei sveglia magari hai un po’ di fame…”

Non attese la risposta di Bion, le voltò le spalle e si avviò alla porta. Un attimo prima di andarsene, appoggiò una mano allo stipite e si volse di tre quarti. Indugiò, come se avesse dimenticato una cosa importante, ma non sapesse se era il caso di tornare a prenderla.

“A proposito, non mi hai detto come ti chiami”.

Bion scorse il suo sguardo, non era più divertito e sorridente come poco prima. Non la guardava, semplicemente restò immobile, in attesa, senza nessuna precisa espressione sul volto.

“Io… Bion… mi chiamo Bion”.

“La cucina è in fondo al corridoio, Bion”. E uscì dalla stanza.

 

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Capitolo 11
*** Il Viaggiatore Solitario - Parte 2 ***


9

Il viaggiatore solitario

seconda parte

 

 

 

Mentre mangiava, Bion si convinceva sempre di più che quella colazione, quel ben di Dio, era la cosa migliore che le fosse capitata da tanto tempo. O forse era il fatto di non aver ingerito niente per due giorni e di avere il corpo così svuotato che qualunque cosa ingurgitasse le sembrava una benedizione.

Kalb la osservava con interesse. “Vedo che apprezzi la mia cucina, è un vero piacere starti a guardare”.

I loro sguardi si incontrarono, e Bion si accigliò. Il sorriso sul bel volto di Kalb si affievolì appena, prima che lui abbassasse il capo.

“Grazie, davvero” fece Bion.

Ma lui sembrava offeso per qualcosa. Si disse che forse gli era balenato alla mente qualcosa riguardante qualcosa di personale che lo aveva rattristato.

“Pensi che possa vedere Rigel? Ehm, il mio amico…”

Kalb non la guardò. Si lasciò cadere fiaccamente su un divano e borbottò un “certo”.

Bion uscì dalla stanza e ripercorse il corridoio, l’unica parte di quella casa che avesse visto fino ad allora. C’erano altre due porte, oltre a quella della stanza dove si era risvegliata. Ne aprì una, ma si rivelò essere un bagno piccolo e ordinato, da cui saliva un fresco profumo di pulito. Andò avanti e aprì l’altra.

La stanza era in penombra, perché il sole non batteva così forte oltre le finestre, da quella parte. Inoltre, c’erano due tendine grigie ricamate, che facevano da filtro ai raggi del sole.

Il letto era a due piazze, ampio e d’intaglio antico. Un’occhiata veloce all’arredamento circostante le fece pensare che quella camera doveva essere appartenuta ad una vecchia signora.

Rigel era steso, il volto quasi interamente ricoperto di bende appoggiato sul cuscino. Gli occhi – una delle poche parti che la fasciatura lascia intravedere – erano chiusi. Il petto si alzava e s’abbassava placido.

Bion si avvicinò al suo capezzale. Appoggiò una mano sul letto, molto vicina ad una delle sue,  dischiusa sulle candide lenzuola. Voleva prendergliela, toccarla come avevano fatto a Tiva, anche se era stato solo per scherzo. Ma non lo fece. Rimase ferma, distante e continuò a guardarlo.

Di colpo, si ricordò il suo volto traumatizzato, coperto di lacrime e sangue, che aveva visto un attimo prima di svenire nel bosco. E si ricordò anche di Freya, della splendida lince rossa che non sarebbe più zampettata al loro fianco come un angelo custode.

Bion sentì gli occhi bruciarle e il respiro mozzo. Proprio lei che non piangeva mai, ora si ritrovava a farlo per un animale di cui non le era mai importato tanto.

Ma per Rigel era diverso. Freya era stata la sua anima gemella per così tanto tempo…

Forse era per quello che piangeva. Per come Rigel l’avrebbe presa una volta sveglio. Per quello che avrebbe provato sapendo per davvero che la lince l’aveva lasciato.

“È il tuo ragazzo?”

Bion lanciò un grido sommesso. Si asciugò gli occhi con le dita e si voltò. Kalb era appoggiato allo stipite della porta, le mani comodamente infilate nelle tasche del giubbotto e le gambe incrociate.

“No… no”.

“Ah”.

Bion fu certa di aver intravisto il lampo di un sorriso sulle sue labbra, prima che abbassasse di nuovo il mento.

“È solo un amico”.

“Strano. Non l’avrei detto”.

Bion camminò verso di lui lentamente. “Cosa vuoi dire?”

Kalb arretrò fino a trovarsi con la schiena contro il muro del corridoio. Guardò Bion dall’alto, mentre un rinnovato sorriso gli compariva sulle labbra.

Lei lasciò la porta della stanza di Rigel socchiusa, prima di uscire.

 “Soltanto che non sembrate conoscervi bene abbastanza da essere amici”.

Bion lo fulminò con un’occhiataccia. “E tu? Tutte queste camere, cucini, sei un buon samaritano, e non hai neanche un po’ di compagnia?”

Kalb continuò a fissarla ostinatamente. Proprio come se non avesse mai visto nient’altro che valesse la pena di essere osservato. Come se non riuscisse a staccarle gli occhi di dosso, nemmeno se avesse voluto.

“Le Sostitute non mi attirano”.

Bion sbuffò una risata. Lo guardò, sentendosi improvvisamente contagiata dalla sua spensieratezza. “Posso chiederti quanti anni hai?”

“Perché?”

“Curiosità”.

“Ventiquattro”.

“E come mai non ti hanno ancora trasformato?”

Kalb si morse il labbro. “Non mi hanno cercato nei posti giusti. Oppure, molto più probabile, non sono abbastanza interessante perché lo facciano”.

All’improvviso, Bion si rabbuiò. Il sorriso si spense dalle sue labbra, e capì perfettamente dove Kalb voleva andare a parare. Nessuno l’aveva mai cercato, voleva dire che a nessuno importava se lui fosse ancora umano o meno. Invece loro, lei e Rigel, erano stati seguiti, attaccati e quasi uccisi. Loro sì, che erano interessanti. E Kalb voleva sapere come mai.

“Cosa intendi?” Bion gli si avvicinò ancora di un passo, fino a trovarsi molto vicino a lui. Lo scrutò attentamente.

“Mi chiedo cosa portiate con voi. Sembra che siate piuttosto ricercati. Voglio dire, non avevo mai visto tanti Sostituti armati tutti in una volta…”

Bion era pensierosa. Da quello che ne sapeva, sia lei che Rigel erano preziosi per Sycor. Ricordò con un tuffo al cuore quello che aveva sentito dire ai militari mesi prima, riguardo all’assidua ricerca di Rigel che però non aveva fruttato nessun risultato. E poi c’era lei, che gli era scappata da sotto gli occhi…

Ma ogni pensiero le scivolò via e non dovette ribattere a Kalb, perché una voce flebile li raggiunse alle loro spalle. Bion si riscosse e socchiuse la porta della stanza di Rigel. Entrò; Kalb la seguì.

“Ehi…”

Rigel era sdraiato, l’espressione fissa al soffitto. Teneva gli occhi socchiusi e sembrava ancora debole e non del tutto presente a sé stesso, come nel dormiveglia.

“Come ti senti?” chiese Bion in un sussurro.

Lui voltò il capo, l’espressione stanca e assente.

“Stavo riflettendo se dirvelo o meno, ma comunque lo avreste scoperto ugualmente. Benvenuti a bordo di Chérie” Kalb allargò le braccia in un teatrale gesto, “la mia astronave”.

Entrambi, perfino Rigel sotto il fitto intreccio di bende, gli lanciarono uno sguardo esterrefatto che fu accompagnato dalla risata bassa e armoniosa di Kalb.

“Non la trovate magnifica? E non avete ancora visto niente”.

“Questa è un’astronave?” borbottò Bion, confusa. Sapeva parecchie leggende sulle astronavi, le era stato detto fin da piccola che erano macchine volanti immense e molto rare, di solito tramandate come un tesoro preziosissimo da padre a figlio per generazioni. Il possessore di un’astronave era legato ad essa da un vincolo invisibile, e spesso spezzarlo era impossibile, se non con la morte.

Questo gli impediva di vivere una vita normale, essendo costretto a prendersi cura dell’astronave prima di tutto.

Bion lanciò un’occhiata amareggiata a Kalb: ora comprendeva quale doveva essere il suo stato d’animo. Avrebbe voluto rimangiarsi le parole dette in corridoio.

“Penso che il tuo amico abbia bisogno di riposo, ora. La notizia l’ha sconvolto e forse farà più fatica ad addormentarsi. Andiamo di là”.

Bion guardò Rigel: per come lo conosceva, non era uno che si lasciava prendere troppo dalle emozioni. E infatti il suo sguardo era tornato impassibile, sebbene un po’ scombussolato. E non aveva detto niente riguardo a Freya…

Probabilmente era ancora sotto sedativi, o qualunque cosa Kalb gli avesse dato per attutire il dolore. Si notava che non era ancora pienamente in sé, sveglio e vigile. Così decise che era meglio fare come aveva detto Kalb, e lasciarlo riposare. Mentre si allontanava, Rigel richiuse gli occhi.

“Siamo di nuovo tu e io”.

Quando si volse, incontrò gli occhi celesti di Kalb che la scrutavano, qualche spanna sopra di lei e le venne spontaneo domandarsi se non avesse fatto apposta ad intromettersi nella conversazione per darle un taglio.

 “Perché non andiamo a sederci in salotto?”

Bion rimase a bocca aperta alla vista di quello che lui aveva definito “salotto”. Gli pareva una parola molto riduttiva. Era una stanza enorme, almeno grande tre volte la sala della casa di Rigel. Era arredata in modo sfarzoso, lussuoso. C’erano quadri alle pareti, tavolini con sopra eleganti soprammobili, un tappeto rosso e oro e perfino un arazzo appeso ad una parete. Sulla destra della stanza c’erano un paio di divani bianchi all’apparenza molto soffici e comodi, accompagnati da una poltrona in tinta unita e un tavolo basso su cui troneggiava un ampio vaso di girasoli.

La cosa che stonava nella stanza e che Bion notò subito, era una piccola porta in fondo, grigia, di metallo, molto moderna che non ci azzeccava affatto con il resto della mobilia così antica e ricercata.

“La sala comandi”.

Kalb le apparve di fianco, le braccia incrociate sulla schiena e il volto che non tradiva emozione. “Ti stavi chiedendo cosa c’è oltre quella porta, no? La sala comandi” spiegò, in tono pratico e alquanto divertito.

Bion gli sorrise. Averlo accanto le faceva una strana impressione. Non lo conosceva, ma quando la guardava in quel modo così gentile e un po’ malinconico, le sembrava che la conoscesse da sempre.

I suoi modi le piacevano. Non aveva mai conosciuto nessuno che le riservasse tutte quelle attenzioni e allo stesso tempo sapesse il fatto suo abbastanza da non apparire appiccicoso. E forse, dopotutto, anche lei le aveva fatto una buona impressione…

Si scrollò quei pensieri dalla testa e seguì Kalb fino ai divani. Si sedette e prese un bicchiere colmo di un familiare liquido violaceo che lui le offrì un istante dopo. Era succo di lampone.

Kalb prese posto sull’altro divano, di fronte a Bion, sporgendosi sul tavolino.

“Allora, vuoi chiedermi qualcosa?”

Bion alzò gli occhi su di lui, che la fissava con un lieve sorriso sulle labbra. Appoggiò il bicchiere di succo sul tavolino tra di loro e posò le mani sulle ginocchia. “Ho sentito parlare delle astronavi più come leggende e ora, be’, sono solo molto affascinata…”

“Da me?”

Bion non poté evitare di sorridere. Si trattenne. “Da ogni cosa”.

Kalb annuì sapientemente senza toglierle gli occhi di dosso. “Cosa vuoi sapere?”

“Perché pensi che voglia sapere qualcosa?”

“Perché è quello che traspare dalla tua faccia ogni minuto da quando ti sei svegliata”.

Era tornato per un istante serio e la scrutava con attenzione.

“Devi avermi osservata bene” sussurrò lei strappandogli un mezzo sorriso. “Tu sei umano. Cosa ci fai qui? Hai un’astronave, potresti andartene, fare qualcosa…”

“Tipo cosa?”

Bion ci pensò un attimo. Non sapeva cosa, ma pensava che con un potere del genere, possedere un’astronave dovesse almeno permettergli di fare qualcosa di grandioso. Ma forse non era necessariamente vero. Forse avere un’ astronave non significava avere il potere di cambiare il mondo.

“Ti risponderò”, disse Kalb, “anche alle domande che non mi hai fatto”.

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Capitolo 12
*** Rivelazioni - Parte 1 ***


10

Rivelazioni

prima parte

 

 

Era passata ormai una settimana dalla visita di Zaniah quando, una mattina, Galen si svegliò stranamente di buon umore.

Schizzò fuori dal letto e raggiunse un calendario appeso alla parete. Lo scorse con il dito, fino ad arrivare alla data corrispondete a quel giorno.

Esultò in silenzio, dopo aver letto una scritta sbiadita appuntata a mano.

Si lavò e si vestì velocemente per poi catapultarsi in salotto. Sua madre era comodamente seduta al tavolo da pranzo, sorseggiando un tè con la cannella e leggendo distrattamente un quotidiano.

“Ben alzato”.

Galen le corse incontro, le stampò un bacio sulla crocchia di capelli biondi e prese due fette di pane da un cesto sul tavolo.

“Non che mi faccia piacere, ma come mai tutta questa allegria?” domandò Chara aggrottando appena la fronte.

“C’è la visita, oggi” rispose Galen, inspirando una potente ondata di cannella.

“Già, quando mai si è visto qualcuno triste per una visita medica?” lo canzonò sua madre.

Galen scoppiò a ridere. “Hana verrà con me, giusto?”

Chara annuì e sorseggiò altro tè.

Il ragazzo abbassò lo sguardo sul pane. Sarebbe stata l’occasione perfetta per parlare ad Hana, finalmente senza il rischio di essere visti o sentiti. Per una settimana non avevano comunicato granché. Ma era impossibile non notare lo stato d’animo della ragazza. Era spesso distratta, tra le nuvole. Aveva gli occhi spenti e molte volte rossi di pianto. Chissà come aveva interpretato le sue parole. Doveva averla spaventata a morte, per avergli detto la verità. E quel giorno, finalmente, avrebbero potuto chiarirsi. E poi, c’era un’altra cosa importante che non vedeva l’ora di dirle.

Proprio in quel momento, la porta della stanza di Hana si aprì e lei uscì in salotto accompagnata da un certo silenzio. Galen e Chara la fissarono.

Indossava la solita tunica rosa sbiadito delle Aiutanti, ma doveva essere una di quelle di ricambio, che teneva stipate nell’armadio da usare in occasioni particolari. Una cordicella le stringeva blandamente la vita. Indossava un paio di saldali alla schiava, che le fasciavano il piede e la gamba fin sotto al ginocchio con delle strette fasce di cuoio.

I capelli biondi erano raccolti in una coda morbida, adagiata sulla spalla.

In realtà non aveva nulla di diverso della sua solita divisa da Aiutante, a parte forse la pettinatura. Tuttavia, era più bella del solito.

“Ci vediamo dopo” biascicò Chara, tornata a concentrarsi sul giornale.

“Sì, a dopo” ribatté Galen. Si affiancò ad Hana e insieme uscirono di casa alla luce del sole già alto nel cielo.

Si allontanarono un po’ dalla casa senza parlare. Galen si lanciava occhiate furtive attorno, ad accertarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi.

“Tutto bene?” Hana alzò gli occhi su di lui, e li socchiuse per il sole.

“Devo parlarti, da giorni. Mi sto solo accertando che nessuno ci ascolti”.

Hana abbassò lo sguardo e annuì con il capo. “Cosa volevi dirmi?”

Galen smise di girarsi in continuazione e si arrestò su di lei. La fissò dall’alto e la vide così ingenua e pura. Gli fece male dover iniziare quel discorso, ma se voleva salvarla veramente, era necessario.

Sei un po’ come la mia seconda occasione. Gli sembrò di risentire le parole di suo fratello. La sua seconda occasione. Già, era proprio quello che doveva essere per Hana.

“Mi dispiace non aver potuto parlarti per tutto questo tempo. Ma devi sapere che la casa è sorvegliata da mio padre. Ci sono telecamere ovunque, persino in bagno, ma non in giardino. Mi dirai che avrei potuto parlarti lì, ma mi sono detto che dopo la visita di mio fratello, un gesto del genere avrebbe cacciato nei guai tutti quanti”.

Fece una pausa, e incontrò lo sguardo di Hana.

“Penso che abbia già rischiato parecchio dicendomi la verità. Dopo la mia sfuriata a pranzo, ha trovato una scusa per chiamarmi in giardino. Ma se io avessi trovato una scusa per chiamare te, in giardino, mio padre avrebbe pensato che Zaniah mi avesse detto tutto e che io stessi cercando un modo per dirlo a te. Non so se mi segui”.

Hana annuì.

“Fantastico, perché certe volte penso di avere un cervello piuttosto contorto” rise e Hana lo imitò.

“E allora tuo fratello è buono?”

“Oh, sì. Sorprendente, vero?”

Hana inarcò le sopracciglia e sbuffò una risata.

“Senti. Le cose che ti ho detto a pranzo… erano vere. Mio padre sta realizzando un progetto che va avanti da anni. Vuole trasformare tutti gli esseri umani in una razza superiore. Li chiamano Sostituti, perché in pratica è esattamente ciò che sono. Sostituti degli umani, stesso aspetto, soltanto molto migliorati in resistenza fisica e psicologica. Ma si può dire siano ancora un prototipo, sebbene siano passati decenni dal primo Sostituto creato. Voglio dire che nemmeno loro sono perfetti. Si ammalano e muoiono. Mio padre sta proprio studiando una cura, per protratte la loro vita più a lungo possibile”.

“Si ammalano? Muoiono? Ma allora non c’è differenza con gli umani!”

“Sì, invece. Per esempio, hanno solo un punto debole. Della serie che gli puoi sparare ovunque, ma se non li becchi in mezzo alla fronte, loro continuano a camminare”.

Hana fece una smorfia disgustata.

“E diciamo che sono macchine da guerra perfette. Non hanno sentimenti molto profondi, non quanto quelli umani”.

“Quindi non sono nemmeno capaci di odiare profondamente” constatò Hana.

“No. Ma non serve provare odio profondo per uccidere qualcuno. Almeno non per loro. Le sentinelle di mio padre rispondono a comando, sono stati addestrati per questo. Ma i Sostituti normali, quelli che non hanno subito un addestramento militare – donne, bambini, lavoratori – sono più normali”.

Hana restò pensierosa.

“Non voglio mettere Zaniah nei guai. Lui lavora per mio padre, e se mai scoprisse che lo ha tradito, come minimo lo trasformerebbe in un Sostituto”.

“È terribile” commentò lei abbassando la voce di parecchi toni. Affondò lo sguardo nel terreno asfaltato sotto i suoi piedi, “quindi anche io diventerò un Sostituto?”

Galen la fissò a bocca aperta, per un attimo incerto su come usare al meglio le parole. “Tu sei un’Aiutante, e come te molte altre. Già lo sai, è così che vi chiamano. La trasformazione può avvenire solo al compimento del ventesimo anno di età. Per motivi genetici. Il Sostituto non può sopravvivere se lo sviluppo dell’essere umano non è completo. Ma quando mio padre trova umani, non gli importa che età abbiano, in qualche modo si deve accertare che, raggiunti i vent’anni, vengano trasformati. Quindi le ragazzine della tua età vengono inviate a fare le cameriere nelle case di persone importanti, mentre i maschi sono spediti a lavorare in fabbrica e nei campi”.

Galen fece un’altra pausa e valutò lo stato d’animo di Hana. Aveva gli occhi spalancati, era sconcertata. Si fermò e la prese per le spalle. Si chinò in avanti per guardarla negli occhi. “Hana, non lascerò che ciò accada. Mai”.

Lei sbatté le palpebre e finalmente i loro sguardi si incontrarono.

“Ho un piano. E se andrà bene saremo tutti salvi. Tutti quanti. Ma ho bisogno anche del tuo aiuto. Zaniah ha già fatto molto, raccontandomi tutto. Mi ha anche detto che io sono la sua seconda possibilità. Mia madre, Zaniah, tu… ci sono così tante persone che hanno bisogno di una seconda chance. Io voglio darvela. Voglio combattere e voglio vincere. Sei con me?”

Gli occhi di Hana indugiarono a lungo nei suoi. Il labbro inferiore le tremava. Annuì.

Galen le strinse a sé lievemente, come se avesse paura di romperla. “Grazie” le sussurrò.

Si staccò da lei e buttò un’occhiata all’orologio a polso. “È quasi ora della mia visita” le prese le braccia e la strinse forte. “Ascoltami, Hana. È fondamentale che coinvolgiamo il maggior numero di persone possibile. Devi parlare con le altri Aiutanti. Devi convincerle a collaborare”.

“Cosa? Ma io…”

“Ti prego. So che puoi farcela. Quando vai al mercato, o da qualunque altra parta, devi cercare di conoscerle e fartele amiche. Dovete riunirvi, essere determinate”.

“Qualcuna già la conosco. Quel giorno, con me, hanno rapito anche due mie amiche di Keel” ricordò Hana, stringendosi nelle spalle.

“Fantastico!” esultò Galen e lei lo guardò di traverso. “Certo, non perché le hanno rapite. Ma se già le conosci, potrai chieder loro di spargere la voce, e così tutte saranno al corrente della verità, di quello a cui andate incontro!”

“D’accordo. Ci proverò”.

Galen si raddrizzò con l’espressione sollevata. “Un’ultima cosa” infilò una mano nella bisaccia che portava a tracolla e ne estrasse un aggeggio minuscolo, quadrato e un po’ bombato sui lati. Aveva un display di fronte e due antenne poste sul retro. Galen glielo mise in mano. “È una ricetrasmittente” disse in tono pratico.

Hana lo guardò interrogativa.

“Serve per comunicare a distanza. Mia madre me ne aveva regalata una quand’ero piccolo, e così mi ha dato l’idea. Ne ho fatte fare altre. Ogni volta che porterai dalla nostra parte qualcuno, gliene darai una. Ma solo quando sarai davvero convinta della fedeltà di quella persona. Così potremo comunicare in ogni momento, se ce ne fosse bisogno. Ma nessuno deve saperlo, nessuno. Neanche mia madre, o Zaniah, intesi? Percui cerca di tenerla ben nascosta”.

Hana si rigirò la ricetrasmittente tra le dita. Era davvero minuscola, grande quanto una zolletta di zucchero. Chiuse il palmo e lo riaprì. Rimaneva nascosta alla perfezione. La infilò nella sua bisaccia.

“Grazie, Galen”.

Lui annuì e le appoggiò una mano sulla spalla. “Andiamo, adesso o faremo tardi” si incamminò, ma Hana rimase ferma.

“Ehi, potresti essere davvero la nostra seconda occasione” mormorò.

E lui sorrise.

 

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Capitolo 13
*** Rivelazioni - Parte 2 ***


10

Rivelazioni

 

seconda parte

 

 

 

Hana giocherellava con la corda della sua bisaccia. Era seduta su una panchina, nella via principale di Nallav. C’era il mercato, percui nessuno faceva troppo caso a lei. Aveva seguito il consiglio di Galen di restare un po’ di più dopo aver fatto la spesa: c’era la possibilità che vedesse qualcuna delle altre Aiutanti.

Le aveva anche assicurato che si sarebbe occupato lui di sua madre, così non avrebbe dovuto subire una sgridata che non si meritava.

Ma Hana era preoccupata. Stava seduta là da più di mezz’ora ormai, senza l’ombra di nessun viso conosciuto.

Sospirò. Galen era molto convinto del suo piano, al contrario di lei. Forse, se avrebbe avuto un po’ di fortuna dalla sua, poteva anche cambiare idea.

Voltò il capo a destra e a sinistra. Suo malgrado, incrociò gli occhi di uomini che la fissavano, incuriositi. Capì che non era più una buona idea starsene seduta lì.

Si alzò e s’incamminò, trascinandosi il sacco della spesa di fianco.

Qualcuno la urtò e le fece alzare il capo. Non era un uomo, e nemmeno una donna.

Era una ragazzina. Proprio come lei. E già si stava proferendo in scuse a non finire. Conosceva molto bene quella voce. Per poco non le mancò il fiato, a risentirla.

“Nadie?” chiese, pur sapendo la risposta.

“Hana, sei proprio tu?” ribatté la ragazza, squadrandola con gli occhi spalancati.

Hana fece un gran sorriso. Era bello rivederla.

Ricordò l’immagine della sua amica, quando andavano a scuola a Keel. I capelli neri come la notte, corti sulle spalle, mossi. Gli occhi di quel verde sfavillante. La bocca rosata e la carnagione pallida. Ricordava quanto i ragazzini a scuola cercassero in tutti i modi di attirare la sua attenzione. La chiamavano spesso Biancaneve, per il suo aspetto che ricordava la protagonista di una fiaba del vecchio mondo.

Ora, avrebbe giurato che non ci assomigliasse più tanto. Era terribilmente magra, la pelle più scura e sciupata. Gli occhi vitrei e i capelli unticci legati in una coda dismessa.

Hana chiese cosa avesse passato in quei lunghi mesi.

L’abbracciò.

“Pensavo che non ti avrei mai più rivisto” disse Nadie.

Hana le accarezzò la schiena fragile. Si scostò per guardarla in volto. “Cosa ti hanno fatto?”

Nadie scattò in una risatina triste. Aveva gli occhi colmi di lacrime. “Esperimenti” borbottò, cercando di nascondersi il volto dietro le braccia.

Hana sentì il cuore mancare un colpo.

“Ma sto bene. Ormai ci sono abituata”.

“Come puoi stare bene? Guarda come ti hanno ridotta” Hana prese il viso dell’amica tra le mani. Guardarla le faceva male. I bei momenti spensierati a Keel sembravano appartenere ad un’altra vita.

All’improvviso, il piano di Galen si tramutò in priorità. Al diavolo i dubbi. Doveva almeno provarci, e se non avesse funzionato, be’ tanto erano già tutti morti.

“Hai tempo per parlare?”

Nadie la guardò inquieta. “Wanda dovrebbe essere qui tra poco”.

Hana la fissò. “Wanda? Sul serio?”

L’amica annuì. “Da quando ci siamo incontrate, per caso, mesi fa, abbiamo deciso di continuare a vederci, per darci forza, per restare vive insieme. Ma questo sembra l’unico posto possibile per farlo, in ogni altra parte siamo controllate”.

 Hana si vergognò. Le sue due più grandi amiche si erano incontrate quasi tutti i giorni, rischiando la vita pur di guardarsi negli occhi, ricordare i bei momenti passati e incoraggiarsi a vicenda. Lei, invece, non ci aveva mai pensato. Andava al mercato in tutta fretta, timorosa di tornare a casa in ritardo ed essere rimproverata. Era stata egoista? O aveva semplicemente dato per scontato che le sue amiche non fossero raggiungibili, che non le avrebbe mai più riviste?

“Sarà magnifico rivederla” disse con un sorriso amaro.

Restarono ad aspettare Wanda per pochi minuti. Lei sventolò una mano da lontano, un sorriso enorme stampato in viso. Quando Nadie le lanciò un’occhiata eloquente, Wanda abbassò la mano e strinse i denti, incapace di frenare l’entusiasmo in mezzo alla folla.

Hana non poté fare a meno di ridere. Wanda era fatta così: allegra, spumeggiante, solare. Era lei che le tirava su di morale, quando qualcosa andava storto. Ricordò i piccoli problemi quotidiani che avevano a Keel. I ragazzi che beffeggiavano Nadie per attirare la sua attenzione, un brutto voto a scuola, non abbastanza soldi per comprarsi quel braccialetto di zaffiri …

Tutto era insulso, insignificante, paragonato ai problemi che avevano adesso. La loro vita era cambiata troppo presto.

Wanda lanciò un gridolino soffocato e buttò le braccia al collo di Hana. “Non posso crederci! Sei davvero tu!”

Hana la strinse. “Anche tu sei sempre la stessa. È bello rivederti”.

Wanda allungò una mano, ad accarezzare affettuosamente i capelli di Nadie. “Come ci trovi?” chiese, tornando a guardare Hana.

“Bellissime come sempre”.

Wanda scoppiò in una risata sommessa. Nadie abbassò lo sguardo.

“Sarà merito di questa tunica” commentò Wanda, dandosi dei buffetti sulla scollatura della divisa rosa da Aiutante.

Hana la guardò. Era evidente che avesse perso parecchio peso. I suoi fianchi e il suo seno, un tempo rotondi e abbondanti, ora erano flaccidi e pressoché scomparsi. I capelli biondi, che a Keel portava corti e ondulati, ora le ricadevano sulle spalle, con onde appena accennate. Gli occhi azzurri nascondevano qualcosa.

A Keel, la madre di Wanda non le permetteva di truccarsi. E lei spesso si truccava in giro, incapace di resistere. Adesso non c’era nemmeno la traccia di cosmetici sulla sua pelle, ma lei sembrava aver passato quella fase di ribellione dalla madre. Forse, adesso che le era lontana, quello era un modo indiretto di scusarsi con lei, di voler sottostare a quella semplice regola purché le fosse permesso riabbracciarla.

Perché Wanda appariva così spensierata? Era un po’ il suo carattere, il suo modo di essere: nascondere i problemi e le preoccupazioni persino agli amici. Preferiva ridere, anche se c’era da piangere. Cosa aveva dovuto passare, dopo essere diventata Aiutante? In cosa doveva aiutare quei depravati?

“Vorrei parlarvi di una cosa importante, ragazze. Ma non qui. Cerchiamoci un posto più tranquillo”.

Hana guidò le due amiche lungo la via del mercato, contro senso rispetto alla maggior parte del flusso di persone. Voltarono in una strada, attraversarono un isolato di case e giunsero in un ritaglio di verde nel centro della città. Un parco, con bambini che si dondolavano sulle altalene, ragazzi che facevano jogging e altri che passeggiavano godendosi l’aria estiva.

Le tre ragazze presero posto sul prato, sedendosi in cerchio.

Hana non sapeva come iniziare. Così aprì le labbra e lasciò uscire le parole da sole. Raccontò loro tutto quello che Galen le aveva detto. Che erano spacciate, che sarebbero state trasformate in Sostituti. Spiegò loro chi erano le persone per cui lavorava: Galen, Chara e Sycor. Disse che Galen odiava suo padre e che, con l’aiuto di suo fratello, aveva ideato un piano per combatterlo. E che aveva bisogno del maggior numero di alleati possibile.

Quando ebbe finito, ripassò mentalmente le sue parole, accertandosi di non aver taciuto nulla.

Wanda e Nadie si lanciarono un’occhiata. Non sembravano né contente, né particolarmente convinte.

“Vuoi dire che dovremo combattere? Con le armi?” domandò Wanda.

“Se sarà necessario”.

Wanda arricciò le labbra e prese a strappare fili d’erba nervosamente.

“Speravo in una reazione diversa” continuò Hana, spostando lo sguardo da un’amica all’altra. “Avete paura? Anche io. Ma guardate in che situazione siamo. Potrebbe essere la nostra occasione per tornare a Keel, per fuggire da tutto questo!”

Nadie la guardò con un misto di speranza e preoccupazione.

“Vuoi tornare a Keel? E pensi che la nostra vita possa ricominciare normalmente?”

Hana era impegnata a fissare Nadie, ma fu Wanda a parlare. Si voltò verso di lei, stupita. Aveva lo sguardo cupo, senza più traccia della vivacità che la contraddistingueva.

“Tu forse potrai avere qualche possibilità. Tutto sommato sei stata fortunata. Ma hai visto Nadie? Hai visto come l’hanno trasformata? Pensi che ci siano ancora ragazzi disposti a farle la corte?”

Wanda aveva alzato la voce, attirando l’attenzione di uno scoiattolo impegnato a rincorrere una ghianda. Hana la fissò, e un misto di rabbia e disperazione s’impossessarono di lei. Ma contro le parole di Wanda non poteva farci niente. Aveva ragione, e lei lo sapeva. Anche se Nadie si fosse ristabilita, dubitava sarebbe tornata la bellissima ragazza di un tempo. Sarebbe rimasta irrimediabilmente rotta, spezzata.

“Che cosa ti hanno fatto, Wanda?” le chiese in un sussurro. Voleva, doveva sapere. Per colpa loro, la sua brillante amica non sarebbe più tornata.

Wanda indugiò a lungo, combatté con le lacrime perché non uscissero. Alla fine irruppe in un pianto colmo di singhiozzi. Si nascose il volto tra le mani.

Hana le si avvicinò, e anche Nadie. L’abbracciarono, l’accarezzarono con dolcezza.

“Stai tranquilla. Va tutto bene” ripeteva Hana, cercando di calmarla, di farle capire che non doveva combattere da sola.

“Mi occupo di una fattoria, insieme ad alcuni ragazzi della nostra età, rapiti anche loro. Gli animali mi piacciono. Ma di sera, quando gli altri ragazzi se ne vanno a dormire stipati nelle stalle, io vengo chiamata. Sono loro che mi chiamano, gli uomini che lavorano in quei laboratori. E io devo andare, perché non posso dormire nella stalla. Non so perché, ma fanno esperimenti solo sulle femmine. Mi stendo su un lettino, mi cingono polsi e caviglie. Una luce intensa di accende su di me. Poi arrivano le scosse. Una, due, tre. È terribile. Quando perdo i sensi, non so cosa mi fanno, ma la mattina mi risveglio sempre con nuove cicatrici. Mi danno molto da mangiare, certe volte anche troppo, ma non posso lasciare niente nel piatto. Dopo vomito. E torno a lavorare in fattoria. Riesco ad assorbire un po’ della vitalità che hanno i ragazzi. Penso che mi vogliano bene. O forse cercano di essere gentili perché sanno cosa mi succede ogni notte”.

Hana si sentì mancare. Fissò gli occhi di Wanda, colmi di lacrime, immobili. Tutto ciò che provava era orrore. Poi sconforto. E collera.

Non c’era nulla da dire. Niente avrebbe mai potuto alleviare quell’immenso dolore alle sue amiche. Sentì di piangere solo quando lacrime amare le bagnarono le labbra.

Nadie restò in silenzio. I suoi occhi vuoti riflettevano ogni parola di Wanda.

Hana prese un profondo respiro. “Wanda, ascoltami. Non voglio forzarti, ma ti prego di pensarci bene. Questo è un incubo, ma noi ne possiamo uscire. Dobbiamo solo provarci, non abbiamo nulla da perdere. E se ci va bene, potremo tentare di lasciarci tutto alle spalle, tornare a casa, iniziare da capo” aprì la sua bisaccia ed estrasse due cercapersone che Galen le aveva consegnato. Si rivolse ad entrambe. “Prendete, ma teneteli nascosti. Se mai cambiaste idea, non dovete far altro che chiamarmi”.

Nadie e Wanda fissarono il cercapersone, senza vederlo veramente. Erano ancora troppo scosse. Ma annuirono.

Forse si poteva ancora sperare.

 

 

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Vorrei ringraziare di cuore tutti coloro che sono passati sulla mia storia, che hanno speso un po’ del loro tempo a leggerla e soprattutto quelli che mi hanno recensito! Le vostre parole e il vostro apprezzamento mi aiutano e mi ispirano, quindi grazie!

Spero che la storia possa continuare a piacervi, ad entusiasmarvi e interessarvi. Se così fosse, non esitate a lasciare i vostri commenti, sia buoni che cattivi! Ogni critica è costruttiva ed è un vero piacere per me leggere le vostre opinioni!! J

Grazie!! Al prossimo capitolo!

 

PS: colgo l’occasione per accennarvi la nascita della pagina Facebook di “Substitute”!! https://www.facebook.com/substituteSF

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Capitolo 14
*** La storia del viaggiatore - 1° parte ***


11

La storia del viaggiatore

 

prima parte

 

 

 

Bion fissò Kalb e si fece più attenta.

“Quest’astronave era di mio nonno, che l’ha tramandata a mio padre e poi a me. Quando Sycor diede l’ordine di trovare ogni essere umano su Hestla per trasformarlo in Sostituto, mio nonno decise di scappare con un piccolo gruppo di conoscenti, proprio a bordo di Chèrie. Si misero in salvo, sorvolando un tratto di oceano e approdando su un’isola che aveva tutta l’aria della Terra Promessa. Loro avevano lasciato tutto, e quel luogo tanto fantastico quanto misterioso gli donò una seconda opportunità.

“Lontano da Sycor, dai suoi soldati e scienziati, iniziarono pian piano a vivere di nuovo. Costruirono case e allargarono le famiglie. Mio nonno morì e passò Chèrie in eredità a mio padre. Ma era considerata come una specie di maledizione, e mio padre non riuscì mai a sposarsi o ad avere una compagna fissa. Non era più tanto giovane quando nacqui io. Mia madre, al contrario, era una ragazzina. La mia nascita fu del tutto imprevista. Entrambi erano a disagio, mia madre perché era troppo giovane e mio padre perché dava irrimediabilmente ascolto a quelle leggende sulle astronavi. Credeva di non poter fare il padre, che la sua maledizione glielo impedisse.

“Così mia madre una sera, spaventata, prese me e Chèrie e lasciò per sempre l’isola dei Sopravvissuti. Tornò su Hestla e mise più distanza possibile tra noi e l’isola. Raggiunse la costa ovest e fu lì che vivemmo, sulla spiaggia, lontano da tutti e cercando di evitare i guai”.

Kalb fece una pausa e bevve un sorso di succo di lampone. Bion non smise di guardarlo.

Lui riprese: “Mia madre era giovane e agile, si procacciava il cibo nei boschi vicini e diventò amica di un’anziana Sostituto che viveva sola su una casetta che dava sulla scogliera. Tra una cosa e l’altra io crescevo sano e amato. Certo mi domandavo dove fosse mio padre, ma mia madre mi diceva che se n’era andato, che non dovevo preoccuparmi perché lei mi amava incondizionatamente e avrebbe sempre fatto qualunque cosa per me.

“E poi c’era Chèrie. Non chiesi mai niente sull’astronave, ma mi affezionai immediatamente a lei. Insomma, era come una casa, ma aveva quel qualcosa in più. Era come un’amica silenziosa che però mi dava un forte incoraggiamento. Mi sentivo legato a lei, lo sentivo nelle mie vene”.

Kalb abbassò lo sguardo. Scrollò il capo impercettibilmente e Bion si chiese se avesse intenzione di proseguire o meno. Forse stava indugiando, pensando se era il caso di continuare la storia. Forse gli faceva troppo male ricordare. Già era molto ciò che le aveva confidato.

Poi riprese a parlare, tenendo il capo abbassato.

“Un anno fa mia madre è morta. Così sono rimasto solo. La vecchia Sostituto si era ammalata e non usciva più di casa. Era come se fossi morto con mia madre. Ero perso, tutto il mio mondo se n’era andato ed io non sapevo cosa fare. Avevo sempre vissuto con lei e quella vecchia, con lei e Chèrie. E non mi ero mai spostato da quella spiaggia. Era tutto il mio mondo. Ma mi resi conto che lì non potevo più restare. Negli ultimi anni le sentinelle erano aumentate, e naturalmente ero venuto a conoscenza dei piani di un pazzo chiamato Sycor. Non avevo certo intenzione di essere trasformato. Così decisi che sarei partito, sarei tornato dov’ero nato. Sull’isola dei Sopravvissuti”.

Kalb guardò Bion. Aveva perso ogni sorriso e accenno di buon umore. Ora il suo sguardo era serio, cupo e ansioso.

“Come facevi a sapere di quell’isola?” chiese Bion.

“Mia madre me l’aveva detto. Quando diventai grande, lei buttava lì qualche frammento di verità nei nostri discorsi, ogni tanto. E così io le facevo qualche domanda, lei rispondeva e iniziavamo a parlare del nostro passato. Era arrivata anche a raccontarmi di mio padre, dell’astronave, di com’era scappata. Penso che fosse stanca di mentire, soprattutto a suo figlio. Aveva bisogno di sfogare la verità con qualcuno. Ma poi mi chiedeva di non provare a tornare. Ed io non protestavo. Avevo passato tutta la vita con lei, non avevo intenzione di lasciarla da sola”.

“Capisco”.

La trafisse con lo sguardo e annuì.

Bion ricambiò. “Non sei l’unico a cui Sycor ha rovinato la vita. Ha rapito mia sorella, sto andando a liberarla”.

Kalb alzò le sopracciglia, sorpreso ma comprensivo. “Mi dispiace”.

“Sì… stavo pensando… quest’isola, esiste davvero, no? Quindi vuol dire che ci sono degli umani sopravvissuti”.

“Già. Il tutto sta nel trovarla. Ovviamente non sarà semplice. Avranno di certo alzato parecchie difese per evitare di esser scoperti. Ma ci voglio provare, in fondo non ho nulla da perdere”.

Si scambiarono una lunga occhiata. Poi Bion abbassò gli occhi e li fissò sulle dita delle sue mani, intrecciate le une nelle altre.

“E tu invece, hai qualcosa da perdere?” le chiese in un soffio.

Lei alzò lo sguardo. Lo studiò, ma Kalb era come una tela bianca. Aveva gli occhi socchiusi, e le sembrò di vederli lucidi. Un po’ come quando si fissa intensamente il sole e nonostante gli occhi soffrano per la luce troppo forte, non si riesce a distogliere lo sguardo fino all’ultimo, perché lo spettacolo è indimenticabile.

Si chiese a quale spettacolo Kalb stesse pensando.

“Il tuo amico, forse?” incalzò lui.

Bion sorrise appena. “Non credo…”

“Già, perché sarebbe troppo complicato, vero?” abbassò un po’ il capo e continuò a scrutarla. Un mezzo sorriso gli comparve sulle labbra.

“Cosa vuoi dire?”

“Te l’ho già detto prima. Non sembrate proprio due amici a vedervi. Non c’è amicizia tra di voi. Quindi perché viaggiate insieme?”

Bion restò in silenzio. Poi abbassò gli occhi e studiò le parole giuste da dire. Ma non riusciva a concentrarsi più di tanto, con Kalb che la fissava, in attesa. E poi, lui era stato sincero, le aveva raccontato la sua storia. Perché lei non poteva fare lo stesso?

“Viaggiamo insieme, ma ognuno con i propri interessi”.

“Sei maledettamente sintetica”.

Bion sbuffò, per allentare la tensione. C’era qualcosa che la frenava dal dire tutto. Sempre il solito problema del fidarsi o meno. Guardò gli occhi limpidi e cristallini di Kalb e pensò che non c’era niente di più rassicurante al mondo. Era come scrivere un diario, parlare a un animale, nessuna delle due cose l’avrebbe mai tradita andando a spifferare i suoi segreti a qualcun altro.

E così iniziò a parlare a briglia sciolta. Gli raccontò di dove era nata, dei suoi amici, della sua famiglia e di come, dopo che i suoi genitori erano morti, si era sempre presa cura di sua sorella Hana. E poi il giorno che l’avevano rapita, e lei era come morta dentro. Dei lunghi viaggi che aveva fatto e del periodo in cui l’avevano imprigionata. Poi arrivò a parlare di quel giorno fatidico, quando aveva sentito i militari fuori dalla sua cella parlare di Rigel. E qualcosa era scattato nella sua testa. Era riuscita a sfuggire, era andata a cercarlo e l’aveva trovato. E infine di come l’aveva convinto a seguirla, buttando in mezzo anche il rapimento dei genitori di lui e la possibilità di ritrovarli.

Fece una pausa e guardò Kalb, che era rimasto impassibile, come se stessero ancora discutendo del più e del meno.

“E così lo stai solo usando” constatò lui.

Bion lo guardò confusa. “No, io…”

Ma lei sapeva che il racconto non era finito. Sapeva che c’era dell’altro, qualcosa che provava nel suo cuore. Il fatto che quel suo piano che all’inizio l’era parso impeccabile, in realtà non lo era. Perché del tempo passato con Rigel, del loro viaggio insieme, aveva solo bei ricordi che non voleva cancellare dalla mente. Quando al contrario avrebbe dovuto pensare a lui solo come carne da macello, merce di scambio. Ma era chiaro che non aveva fatto i conti con i suoi sentimenti.

Per qualche ragione, però, sentiva di non voler dire quelle cose a Kalb. La frenava. E allora era sempre più confusa. Era normale che non volesse confidarsi? Era solo per il fatto che fosse pressoché uno sconosciuto? O c’era qualcosa di più?

Ancora non lo sapeva. Scrollò il capo.

 “Perché non vieni con me?”

Fissò Kalb atterrita. “Cosa?”

“Perché non lasci tutto, e vieni a cercare gli umani con me?”

Bion rise, un po’ per allentare la tensione. “Devo trovare mia sorella”.

“Giusto” fece Kalb, abbassò lo sguardo e parve piuttosto deluso.

“Mi dispiace, Kalb. Comunque mi sembri davvero una brava persona. Ti sono infinitamente grata per averci salvato la vita, e per avermi raccontato la tua storia. È stato bello”.

Gli sembrava di aver detto solo parole al vento, che per lui non sarebbero valse niente. In fondo erano solo parole, e lei non era nulla nei suoi confronti. Ma mentre alzava gli occhi per cercare quelli di Kalb, lo vide alzarsi, avvicinarsi e chinarsi verso di lei. Si sedette sul tavolino, e ormai tra di loro non c’era più alcuna distanza emotiva. I suoi occhi azzurri limpidi e sinceri la guardavano. Prese le sue mani e le strinse delicatamente. Tutto ciò che restava era lasciarsi andare…

Ma si ritrasse.

Kalb la scrutò, si lasciò sfuggire un sorriso amaro mentre si allontanava da lei, piegandosi all’indietro sul tavolino.

“Ricordo che quando ero piccolo la vecchia Sostituto si lamentava sempre con mia madre. Diceva che gli uomini sono stati creati stupidi e così rimarranno in ogni generazione. Aveva ragione, Bion, gli uomini sono stupidi. Alcuni vivono un amore impossibile e altri si trovano accanto per caso la donna perfetta e nemmeno se ne accorgono”.

Bion non seppe cosa volesse dire con quelle parole, ma da come la guardava gli fece capire che in qualche modo stava parlando di lei. E sebbene gli occhi di Kalb avevano il potere di capirla così bene, un po’ si meravigliò quando si scoprì a pensare a qualcos’altro, a qualcun altro. Rigel.

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Capitolo 15
*** La storia del Viaggiatore - Parte 2° ***



11

La storia del viaggiatore

 

seconda parte







Rigel era ormai sveglio da un po’, ma non era ancora riuscito a trovare la forza di alzarsi. Ricordava il volto di Bion, e una figura in ombra dietro di lei che non conosceva. Era stato probabilmente quando erano venuti a trovarlo. Ma tutto era così sfocato e distante…

Al risveglio si era tastato il viso, lo sentiva compresso e impossibilitato a muoversi. Doveva essere fasciato, ma non provava più tanto dolore.

Poi, improvvisa e inaspettata gli cadde addosso tutta la consapevolezza di ciò che era successo. L’Hydran che crollava, il fuoco, le sentinelle armate che correvano verso di loro e Freya, la bellissima lince rossa, la sua compagna di vita. Freya, che mai sarebbe tornata. Il bruciore agli occhi lo assalì e senza rendersene conto piangeva. Aprì le labbra dalla piccola fessura tra le bende e lasciò uscire rantoli e gemiti che non riconosceva come propri.

Era ancora intontito dagli anestetici ed era come assistere al pianto di qualcun altro, come se i sentimenti così dirompenti che provava, pari a fuoco ardente dentro di sé, non trovassero la possibilità di manifestarsi con altrettanto dolore attraverso il suo corpo. Si sentiva estraniato e confuso. Ma nella sua mente aleggiava sempre quell’immagine, a ripetizione continua. Freya che correva, Freya che veniva colpita, Freya accasciata al suolo…

Cercò di strapparsi le bende che lo soffocavano, e le lasciò cadere a terra. Nascose il viso tra le mani, e sentì il rilievo delle ferite cicatrizzate sotto le dita.

I singhiozzi lo divorarono, le lacrime gli purificarono il volto. Non avrebbe più sentito quel dolce suono delle fuse di Freya che tanto l’aveva rassicurato nelle notti solitarie nella foresta.

Sembrava essere passata una vita.

Si alzò dal letto, la testa gli girò ma riuscì a raggiungere la porta della stanza semibuia e uscì nella luce del corridoio che gli diede un forte fastidio agli occhi. Brancolò, appoggiandosi alla parete, e arrivò ad un altro corridoio. Lo imboccò; il silenzio e la tranquillità regnavano sovrani in quel posto. Poi udì delle voci, e riconobbe quella di una ragazza. Individuò la porta e fece per aprirla, ma poi decise di socchiuderla solo lievemente, senza fare rumore. Si avvicinò allo stipite e restò in ascolto.

E così Bion stava parlando di sé con quel ragazzo che lui ricordava sfocatamente. Si fece più attento, perché sentì pronunciare il suo nome. Stava parlando di lui. Proprio così, non si era sbagliato, aveva sentito pronunciarle ‘Rigel’.

Ma quello che seguì lo lasciò senza fiato. Rimase immobile, fissando lo stipite della porta e perdendosi nelle sfumature del legno. Non poteva essere vero, eppure aveva sentito perfettamente. Almeno che non fosse ancora sotto sedativi, ma non gli sembrava. L’effetto era svanito, e comunque il suo udito funzionava benissimo.

E dunque eccola la verità, dopo tante volte che si era chiesto se fidarsi o meno di Bion. Niente era stato un caso nella loro storia. Non era apparsa dal nulla quella notte salvandolo da sé stesso. Era stata un’apparizione programmata e voluta. Lei l’aveva voluto. Lui le serviva. Per salvare sua sorella.

Rigel ci pensò. Se i ruoli fossero stati invertiti, non avrebbe forse fatto la stessa cosa? Tutto pur di salvare una persona amata, un familiare. Eppure ancora faticava a realizzare la verità. Che tutto era stato solo un enorme balla architettata.

E si chiese per quale motivo tutto ciò lo sconvolgesse tanto. In fondo, sapeva dentro di sé che non poteva essere altrimenti. Immaginava già che Bion avesse altri scopi, che facesse il doppio gioco. Ma aveva forse sperato, negli ultimi giorni, che non fosse vero? Che fossero dalla stessa parte, che potessero arrivare alla fine insieme, da alleati e non da rivali?

Sì, probabilmente se l’era figurata così la storia. Con un lieto fine. Ma doveva sapere che il lieto fine succede solo nelle favole.

Si allontanò dalla porta, lasciandola socchiusa e continuò a camminare lungo il corridoio. C’era una cosa che voleva fare, si era alzato per quello. Non sapeva quanto tempo era passato e dov’era ora, ma doveva trovare il cadavere di Freya e darle una degna sepoltura.

Proseguì lungo il corridoio con la voce soffusa di Bion che ripeteva nella sua testa le cose appena sentite. E in qualche modo ancora non voleva crederci. Non voleva che fossero vere. Raggiunse una porta diversa dalle altre, per certi versi simile al portellone dell’Hydran. Tirò con forza la maniglia e la fece scivolare di lato, rivelando un prato dall’erba piuttosto alta e una luce assordante.

Rigel si portò un palmo alla fronte, per proteggersi gli occhi dai raggi accecanti del sole. Scese una scaletta di acciaio e si chiese dove diavolo fosse finito. Poi qualcosa nella sua mente riaffiorò come un ricordo lontano.

Benvenuti a bordo di Chérie, la mia astronave”.

Era la voce di quel ragazzo che associava ad una figura scura sullo sfondo della sua memoria. Quindi quella era un’astronave. Ecco perché assomigliava in qualcosa all’Hydran.

Rigel marciò sotto il forte sole estivo che gli bruciò la pelle. Non gli importava più di nulla, davvero.

Era come se una forza invisibile lo guidasse verso il bosco, verso l’erba sempre più incolta. E lui non resistette a quella chiamata. Attraversò la foresta, gli alti alberi che regalavano un sospiro di sollievo dalla calura estiva.

Non seppe calcolare per quanto camminò, dovevano essere più di due ore, ma gli parvero solo pochi minuti, con lo scopo stampato a fuoco nella sua mente.

Quando finalmente giunse al limitare della foresta, una radura arida con qualche ciuffo d’erba sparso qua e là si stagliò davanti a lui. E improvvisamente ogni ricordo si fece più vivido, più vero. Ora li vedeva come se stesse guardando un film, facendogli ricordare tutto così bene, che quasi riuscì a percepire il dolore di quegli istanti ancora ardere sulla sua pelle. Notò pezzi dell’Hydran abbrustoliti e accartocciati non molto distanti da lui.

Mosse qualche passo in quella direzione, si accovacciò. E mentre rialzava lo sguardo con un misto di tristezza e malinconia, lo vide. Ebbe un tuffo al cuore.

Il cadavere di Freya era proprio là, il rosso fulvo della sua pelliccia in netto contrasto con l’ocra quasi bianco della sabbia fine.

Camminò in quella direzione, e presto si scoprì correre. A pochi passi rallentò, si accasciò al suolo e non potè fermare le lacrime alla vista del muso del felino. Gli occhi chiusi, la pancia immobile, non più smossa dalle tenere fusa. Le orecchie lunghe e vellutate paralizzate in quella posizione di eterna insensibilità.

Rigel singhiozzò e gli parve di avere ancora quindici anni e di trovarsi solo in mezzo al bosco, raffreddato e spaventato. E tutte le altre volte succedute a quella. Ma poi un giorno era arrivata Freya, e nonostante la paura iniziale, non si era rivelata aggressiva. Avevano immediatamente stretto una forte amicizia. Non avrebbe potuto chiedere un modo migliore di essere salvato dalla sua solitudine.

E ora, tutto si era spezzato, aveva perso Freya, e con lei ogni cosa.

Fintanto lei fosse stata in vita, cosa avrebbe potuto spaventarlo? Nulla, perché erano in due. Ma adesso gli sembrava di avere di nuovo quindici anni, di essere stato abbandonato in mezzo alla foresta, ma questa volta non aveva più voglia di reagire. Non aveva voglia di ricominciare tutto daccapo.

Guardò un’altra volta il musetto rilassato della lince. Si asciugò gli occhi con le dita, ma il volto rimase rigato dalle lacrime, che non accennavano a diminuire. Raccolse il corpicino di Freya, e lo spostò da lì. Lo portò al limitare della foresta e lo appoggiò da una parte.

Poi iniziò a scavare una buca nella sabbia, raschiandola con le mani. Fece fatica, perché ogni volta che spingeva un mucchio indietro, quello tornava giù. E così dovette ripetere il gesto molte volte, finché non ebbe creato una fossa abbastanza grande.

Era sudato fradicio e sporco di sabbia ed erba. Si pulì le mani sui pantaloni e prese in braccio il corpo di Freya, posandolo delicatamente nella fossa.

Si portò due dita alle labbra e le trasferì il bacio sul muso. “Grazie per avermi salvato così tante volte. Sei stata coraggiosa a scegliere uno come me. Non ti dimenticherò mai. Spero che ora tu sia felice. Addio, piccola”.

Si costrinse a richiudere la buca, ma non fu facile. Ad ogni mucchio di sabbia, il corpo di Freya scompariva sempre più alla sua vista.

Alla fine, la terra era tornata compatta sotto il suo tocco. E lui si sentiva incredibilmente solo. Il silenzio era infinito tutt’attorno e sembrava che ogni rumore più insignificante balzasse fuori dall’anonimità con tutta la forza della natura.

Rigel alzò gli occhi al cielo, e li chiuse, lasciando che la brezza leggera, alzata dalle fronde degli alberi, gli rinfrescasse il volto e gli asciugasse il sudore.

Rigel!”

Quel momento fu distrutto. Ogni cosa bella andò in frantumi quando udì quella voce gridare il suo nome. Abbassò il capo.

Due gambe lunghe fasciate da scuri scarponcini entrarono nel suo campo visivo. Bion si accovacciò e i loro sguardi si incrociarono. “L’hai fatto?”

Rigel non perse neanche tempo a chiedersi come l’avesse capito. Forse aveva visto le lacrime sul suo volto e le mani ancora aggrappate agli ultimi rimasugli di sabbia. O forse aveva seguito l’intera sepoltura e aveva preferito aspettare piuttosto che interromperlo.

Annuì.

Oh, mi dispiace tanto”.

Rigel la odiò intensamente in quel momento. Dopo tutto quello che aveva fatto, sapeva ancora essere maledettamente sincera. Piantò lo sguardo in quello verde di lei e la fissò a lungo.

È un po’ di tempo che non parliamo, ti va?” Bion allungò una mano verso di lui e l’aiutò ad alzarsi.

Ma Rigel ce la faceva anche da solo, restò distante.

Kalb è rimasto indietro, ma ci aspetta a qualche chilometro. Così troveremo più facilmente la strada”.

Kalb… è così che si chiama?”

Esattamente”.

Rigel la fissò. “È stato lui a salvarci la vita?”

Bion annuì. “Io non ci credo che siamo ancora qui. Ci ha fatto un gran favore, e dovresti ringraziarlo come minimo”.

Lo farò”.

Silenzio.

Quanto tempo è passato?”

Due giorni, ma le ferite sono guarite in fretta. Kalb mi stava proprio raccontando della miriade di piante medicinali che…”

Avete avuto molto tempo per raccontarvi”.

Bion corrugò le sopracciglia. Rigel serrò la mascella, sentì lo sguardo stancarsi di fissarla e farsi d’istinto severo e malinconico. Ingoiò una saliva amara.

Questo cosa vorrebbe dire?”

Se non lo capisci da sola, non sarò certo io a spiegartelo”.

Molto divertente. Adesso ti ci metti anche tu a parlare per indovinelli?”

Lascia perdere”.

Rigel prese a camminare verso la selva. Sentì Bion corrergli dietro e prendere il ritmo del suo passo. Per qualche ragione non riusciva ad essere veramente arrabbiato con lei. Almeno, credeva di non esserlo. Perché mentre gli camminava accanto, la sua presenza lo sollevava invece che farlo infuriare. Lo compiaceva, invece di irritarlo. E quasi si sentì per un istante spensierato, solo con Bion sotto la frescura degli alberi, chiacchierando sommessamente come se nulla fosse successo.

Come se Freya non fosse morta, come se lui non avesse scoperto tutta la verità sui piani di lei. E così tornò a pensarci, la guardò e piombò su di lui la consapevolezza che non le importava un accidenti di lui. Che era sbagliato sentirsi bene in sua compagnia. Che lei era il nemico, che doveva allontanarla.

Il suo sguardo non fece in tempo ad intristirsi, che Bion gli sorrise e sfiorò il suo palmo.

Seppur consapevole di quanto i suoi sentimenti fossero contraddittori, la mano di Bion, calda nella sua, era come un ancora di salvezza nel lago gelido dei suoi pensieri.


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Capitolo 16
*** Incongruenze ***


12

Incongruenze




La mano di Bion lo lasciò quando la figura di Kalb apparve nel loro campo visivo.

Eccovi” li accolse con l’aria preoccupata e le braccia strette sul petto. Scrutò Rigel di sottecchi.

Scusa se ci abbiamo messo un po’…” disse Bion.

Uno strano silenzio cadde tra di loro e rese l’atmosfera molto più pesante di quanto già non fosse. Fu Rigel a romperlo, allungando la mano verso Kalb e imitando un sorriso forzato. “Grazie per averci soccorso, ti siamo debitori”.

Kalb gli strinse la mano con forza, e si staccò subito dopo.

C’è qualcosa che possiamo fare per ricambiare il favore?” continuò Rigel.

Oh, non c’è proprio nulla che tu possa fare”.

Il tono duro e secco di Kalb lo irritò. In fondo, aveva solo voluto essere gentile, anche se sapeva che ricambiare il favore non sarebbe stato possibile.

In realtà non c’è molto da fare per nessuno” continuò Kalb, ammorbidendo il tono e cercando di assumere un’aria più rilassata.

Posso sapere dove siamo?” chiese Rigel.

Siamo vicino al Lago di Bevil. Voi siete venuti da Nord, proprio dove c’è uno dei Poli. A ovest” e indicò la sua sinistra con un gesto del braccio, “oltre il lago, ci sono Dezba e Damini, meglio conosciute come le Città Gemelle”.

Rigel e Bion si scambiarono un’occhiata.

E a est, seguendo l’acqua, si sbuca nel Fiume di Bevil, che si getta nell’Oceano. Ed è proprio lì che sto andando” concluse Kalb.

E a sud? C’è il deserto di Orith, non è così?”

Kalb gettò un’occhiata a Rigel, ed entrambi serrarono la mascella. Bion abbassò gli occhi a terra, e rimase in attesa che qualcuno spezzasse il silenzio, di nuovo.

Proprio così. E se lo conosci, probabilmente saprai anche quanto sia pericoloso. Ma qualcosa mi dice che è là che volete andare, giusto?”

Giusto”.

Kalb sbuffò un sorriso. “Abbiamo in comune questa voglia disperata di morire noi, eh?”

Rigel strinse lo sguardo, lo studiò attentamente. Bion, al contrario fece un mezzo sorriso e spostò il peso da un piede all’altro.

Dato che non vedo cervi all’orizzonte, è meglio tornare all’astronave, saremo più al sicuro”.

Camminarono in senso inverso lungo un sentiero diverso da quello che aveva percorso Rigel da solo. Infatti arrivarono a Chèrie con un largo vantaggio di tempo e molto meno affaticati. Rigel si chiese per quanto tempo Kalb era fermo da quelle parti, per conoscere la zona così bene.

Si sedettero in una stanza enorme, che Kalb aveva chiamato comunemente “salotto”. Rigel si lambiccò per osservare ogni dettaglio del soffitto e delle pareti. Nei suoi occhi si rifletteva quel meraviglioso tripudio di ricchezza, oro, argento, colori mozzafiato e ogni genere di arredamento ricercato.

Ho avuto anche io la tua stessa reazione” gli sussurrò Bion e lo fece ridere.

Abbassò gli occhi su di lei, al suo fianco e il sorriso gli scemò via quando tornò a pensare al fatto che era proprio in quella stanza che lei aveva rivelato a Kalb i suoi piani.

Così non avete più un mezzo di trasporto” esordì Kalb lasciandosi cadere sul divano e interrompendo, suo malgrado, il filo di pensieri di Rigel.

Bion si sedette sull’altro divano e Rigel la raggiunse. “Sì. Gruis mi ucciderà” borbottò lei tra sé e sé.

Mi dispiace. Sembra che dobbiate attraversare il deserto a piedi, dunque”.

Rigel lo trafisse con lo sguardo. Non capiva come facesse Bion a fidarsi tanto di quel tipo. Lui, al contrario, non ci vedeva nulla di buono. E quel suo tono poi… quasi come se ci godesse che loro fossero spacciati.

Eppure li aveva salvati. Perché mai allora?

Continuò ad osservarlo, ma gli occhi di Kalb erano spostati, e si muovevano velocemente come se non volesse concentrarsi per troppo tempo su qualcosa. Rigel seguì la traiettoria. Era Bion che guardava, ignara e impegnata a fissarsi le mani.

Ma certo. Ora tutto gli era più chiaro. Era lei che aveva salvato, lei che gli era importato d’aiutare. Ma non avrebbe potuto lasciare morire lui, Rigel, perché altrimenti lei sarebbe impazzita.

Anche senza sapere ancora la verità, Kalb già le aveva fatto il regalo più grande: salvare la vita all’idiota che era con lei, che rappresentava la cima di salvataggio, la sua unica chance di salvare sua sorella Hana.

Rigel si meravigliò di quanto le cose, seppur inconsapevolmente, erano andate a finire al loro posto per tutti, tranne che per lui.

Kalb aveva fatto indirettamente un piacere a Bion, oltre a salvarle la vita, e chissà cos’era successo tra di loro in quella stanza, poche ore prima.

Bion poteva ancora contare sulla sua preziosa merce di scambio umana.

E lui? Freya era morta, la sua fiducia verso Bion tradita, e quel miraggio di salvare i suoi genitori andava sempre più sbiadendo, come un’oasi nel deserto a mezzogiorno.

Cosa poteva fare? Forse doveva parlare con Bion? Chiederle spiegazioni? E poi? Cosa sarebbe successo dopo? Non c’era possibilità che lei cambiasse idea, su questo ne era certo. Ma poi perché doveva essere lei a cambiare idea? In fondo era stato lui ad essere tradito, quindi non avrebbe nemmeno dovuto pensare di riappacificarsi con lei. Una volta sputata la verità, il tempo non si riavvolge. E allora, meglio fingere per restare vivi.

Rigel?”

Solo allora si accorse del viso di Bion volto nella sua direzione. I suoi occhi verdi che lo scrutavano, irremovibili. Si era imbambolato a fissarla per tutto quel tempo, mentre la sua mente era partita per un altro pianeta.

Si?” fece. Si schiarì la gola.

Cosa ne pensi?”

Di cosa?”

Caspita, non credevo che quelle piante anestetizzanti fossero così durature” commentò Kalb.

Bion accennò un sorriso. “Ti senti bene?”

Rigel annuì e fulminò Kalb con lo sguardo.

Kalb ci stava indicando la via più breve per attraversare il deserto. E allora mi chiedevo cosa ne pensi. Dovremmo seguirla o attraversare il lago e fermarci in una città a fare provviste?”

Quello che preferisci” borbottò Rigel. Non gli importava che strada facessero, non sapeva ancora se la voleva fare o meno. Quel viaggio era diventato come una corsa verso il patibolo. E cosa avrebbe trovato alla fine? Se l’avessero semplicemente ammazzato, forse non poteva lamentarsi. Ma aveva la brutta sensazione che Sycor non si sarebbe limitato a quel destino, per lui. E nelle mani di Sycor, qualunque cosa era peggio della morte.

Bion, ti ho detto che potete rifornirvi qui”.

No, Kalb. Il tuo viaggio sarà altrettanto faticoso, non voglio che dai via le tue provviste per noi”.

Il tono dolce con cui si rivolgevano l’uno all’altra lo fece sentire immensamente tagliato fuori. Li guardava discutere sul cibo, sul viaggio, sul terreno, e non poté sentirsi altro che un intruso. Non c’entrava niente. Loro si conoscevano, lui non conosceva nessuno. Nemmeno sé stesso. Non più.

Scattò in piedi. Borbottò qualcosa d'incomprensibile anche alle sue orecchie e lasciò la stanza, senza degnare né Bion né Kalb di uno sguardo.

Ma che gli prende?” chiese il ragazzo con un’occhiata accigliata.

Bion sospirò e strinse le labbra. Si alzò e uscì dalla stanza.

Rigel?” mormorò poco dopo, aprendo piano la porta della stanza dove l’aveva visto entrare.

Lui era seduto sul letto, le braccia molle lungo i fianchi, le dita incrociate sulla piegatura delle gambe, il viso spento, gli occhi vuoti.

Gli si avvicinò a passi lievi, gli si accovacciò accanto e allungò la mano, per sfiorargli la spalla. Lui volse il capo e si allontanò con uno scatto. Bion si ritrasse.

Che c’è?”

Vattene, Bion”.

Rigel si alzò dal letto, non riusciva più a starle accanto. Era diventata una specie di tortura, la sua presenza. Perché lo aveva tradito da sempre, e perché lei non immaginava che lui sapesse, e continuava a comportarsi in quel modo che gli piaceva così tanto.

Smettila va bene?” sbraitò all’aria.

Di fare cosa?”

Lo sai. Ne ho abbastanza”.

Bion sbuffò. “Di cosa diavolo stai parlando?”

Eccola di nuovo che fa l’innocente. E come le veniva bene. Non riusciva ad odiarla, e costretto ad averla accanto, si sentiva come in trappola. Sì, perché avrebbe anche potuto fuggire, ma dove? Non aveva più Freya e dubitava che fosse rimasto qualcosa della sua casa nella foresta. E poi, nonostante tutto non voleva andarsene. Voleva restare, voleva coglierla di sorpresa proprio sul più bello, girarle le spalle e fargliela pagare, prima di rassegnarsi a finire nelle grinfie di Sycor. Ecco cos’avrebbe fatto, se le cose fossero andate male.

Se invece fossero andate bene e avesse trovato vivi i suoi genitori, allora sarebbe scappato con loro e avrebbero iniziato insieme una nuova vita lontano da tutto.

Senti, Rigel. Capisco come ti senti. Dopo la morte di Freya deve essere dura per te andare avanti. I miei genitori sono morti e mia sorella è stata rapita, come credi che mi senta io ogni giorno? Ma stiamo solo perdendo tempo così. Ogni lamento, ogni pausa è tempo vitale che togliamo ai nostri cari, ai tuoi genitori e ad Hana”.

Rigel le diede tutta la sua attenzione.

Quindi dobbiamo ripartire. E lo stesso farà Kalb. Sai, ha detto che sta andando a cercare l’Isola dei Sopravvissuti. È dove ci sono tutti gli umani rimasti. E se avrà successo, potremo raggiungerlo anche noi, una volta che questa storia sarà finita”.

Quella era decisamente una soluzione inaspettata. Un’isola dove gli umani si erano nascosti per decenni, dove avevano iniziato una nuova civiltà lontano da Sycor e dai Sostituti. Un piccolo, nuovo pezzo di mondo. Rigel ancora non riusciva a crederci. Quante volte aveva pensato di essere l’unico rimasto? E quante volte si era sentito abbandonato e solo per quello?

Ma c’era ancora speranza, da qualche parte. Era semplicemente meraviglioso. Ecco dove sarebbe andato con i suoi genitori: sull’Isola dei Sopravvissuti.

Rigel” Bion pronunciò il suo nome con un nuovo tono di voce. Dolce e pacato. Gli andò vicino, gli appoggiò le mani sulle spalle e lo guidò a sedersi sul letto. “Devo dirti una cosa” prese posto accanto a lui, così vicino che le loro mani si sfiorarono. Lo guardò negli occhi intensamente e Rigel pensò che dunque il momento era arrivato. Gli avrebbe detto tutta la verità sul suo piano architettato.

Dobbiamo essere più attenti. Non possiamo farci sfuggire nulla, capisci?”

Rigel pendeva dalle sue labbra, ora. Annuì.

È chiaro come il sole che qualcuno ci ha sabotato. A Tiva, le sentinelle. E poi sul sentiero, quando ormai eravamo distanti”.

Rigel lasciò uscire l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento. Non stava parlando di ciò che lui sperava. Però ascoltò con attenzione ugualmente. “Avevi detto che ci avrebbero seguito comunque” le ricordò, aggrottando le sopracciglia.

Sì, ma è stato tutto troppo ben architettato. Voglio dire, avevano un bazooka, e sapevano esattamente quale sarebbe stata la nostra posizione”.

A Rigel venne in mente solo una parola. “Freya”.

Cosa?”

Freya. Stava correndo sotto di noi, ricordi? E loro le hanno sparato… quando hanno capito che l’avevamo vista!”

Pensi che Freya c’entrasse qualcosa?”

Freya era solo un’esca. Non so cosa le hanno fatto. Non oso neanche immaginare perché lei gli obbedisse. Ma l’hanno fatta spuntare sotto di noi, affinché io la vedessi e poi le hanno sparato, e allora non ho capito più niente, l’Hydran era senza pilota, indifeso almeno quanto noi su un campo minato. È allora che ci hanno affondato. Ma gli siamo sfuggiti”.

Okay, Rigel. Probabilmente è andata proprio così, ma non è questo che mi interessa”.

Rigel la fissò.

Penso che qualcuno ci abbia traditi”.

Lui quasi volle riderle in faccia. Ma davvero? Voleva dire. Chi l’avrebbe mai detto, eh? Al contrario, restò in silenzio e si mordicchiò l’interno del labbro inferiore.

Qualcuno che abbiamo incontrato prima di partire. Avy, per esempio”.

Rigel inarcò un sopracciglio. “Avy” ripeté, esterrefatto a quel pensiero tanto strambo.

Perché fai quella faccia?”

Okay, a te non piaceva, ma questo non fa di lei una traditrice. E allora non hai pensato ad Arael, Gruis, la gente della locanda…”

Sono sicura che Arael e Gruis non farebbero mai…”

Oh, se lo dici tu” la canzonò.

Bion aprì la bocca per ribattere e scattò in piedi. “Tu non vuoi capire! Sei solo impegnato ad ingelosirti senza alcun motivo!”

L’espressione di Rigel s’indurì all’istante. La fissò furioso e lei gli restituì la stessa occhiata.

Che motivo avevano Arael e Gruis di sabotarci? Nessuno! E Avy? Suo padre, magari?” lo guardò scrollando il capo ad enfatizzare il tono di voce provocatorio.

Non ti seguo”.

Bion sbuffò sonoramente e prese a camminare avanti e indietro per la stanza. “Il padre di Avy è malato e, a quanto mi hai detto, lei è un Sostituto. Suppongo che anche suo padre lo sia, altrimenti tu non ti saresti sentito come l’unico umano sopravvissuto per tutti quegli anni. Di conseguenza, non pensi che Avy abbia riferito la nostra posizione a Sycor, facendoci così catturare, in cambio di cure per suo padre?”

È solo un’ipotesi che hai messo su al momento” tagliò corto Rigel.

Perché lo fai?”

La voce spezzata di Bion lo colse di sorpresa. Alzò il capo su di lei, che si era arrestata nel centro della stanza, in piedi a pochi passi da lui. Era sull’orlo delle lacrime, ma combatteva per trattenersi.

Un giorno stiamo bene, l’altro sei distante. E sei così sprezzante. È per Kalb? Spiegami per favore, perché non capisco”.

Perché sono io a dovermi spiegare? Perché non tu? Anche io voglio che tu mi dica la verità”.

Bion socchiuse le labbra, le pupille si mossero veloci negli occhi di Rigel. Per un istante un lampo di terrore le attraversò lo sguardo. “Non ho niente da dire”.

Rigel si alzò. “Nemmeno io”.

La sorpassò e giunse alla porta. Si volse lievemente verso di lei, ma senza cercare il suo sguardo. “E comunque non credo che Avy ci abbia sabotato. Volevi una ragione per incolparla di qualcosa. Sei solo impegnata ad ingelosirti senza alcun motivo”.

L’urlo arrabbiato di Bion rimbalzò sulle sue spalle, quando uscì dalla stanza e chiuse la porta. Era quello che si meritava.

Restò fermo nel corridoio, ad ascoltarla piangere. Non gli piaceva. Nonostante un po’ se lo meritasse, ciò che le aveva detto non gli piaceva.

Nonostante la sua mente fosse continuamente affollata da pensieri, in quel preciso istante era vuota. Non pensò, soltanto fece quello che il suo istinto gli comandava. Spalancò la porta e si trovò faccia a faccia con Bion. Ebbe appena il tempo di incrociare il suo sguardo, prima che lei gli si gettasse addosso e lo spingesse con tutta la sua forza contro il muro dall’altra parte del corridoio.

Sei un idiota!” gli gridò.

Rigel sbatté la schiena e le ginocchia gli si piegarono, facendolo scivolare a terra lungo la parete. “Mi stavo proprio chiedendo dove fosse finita la tipa tosta che conoscevo”. Nonostante tutto, sentiva ancora la voglia di fare del sarcasmo.

Bion restò a bocca aperta. Si fissarono, si studiarono. Rigel fece un mezzo sorriso. E lei tirò su con il naso, cercando di ricomporsi e di calmarsi. “È ancora qui, pronta ad ogni evenienza”.

Sì, l’ho notato” ribatté Rigel, allungando una mano verso di lei.

La ragazza la guardò per un momento, prima di afferrarla e aiutarlo a tirarsi su.

Rigel balzò in piedi e strinse la presa nella sua stretta. Le fece un sorriso e l’abbraccio. “Scusa” borbottò tra i suoi capelli. La accarezzò alla base della schiena, sospirò contro la sua pelle.

Bion restò immobile, ancora scossa e parecchio stupita. Le braccia alzate ferme in aria, il corpo rigido e fremente. Quando Rigel si sciolse dall’abbraccio, catturò la sua occhiata sorpresa, incrociando per un istante i suoi occhi verdi.

Lui non aggiunse niente. Accennò un breve saluto con la mano e si allontanò lungo il corridoio.

E mentre camminava, ogni tassello andò al suo posto e all’improvviso capì tutto quanto. Ecco perché li avevano seguiti, ecco perché avevano sparato all’Hydran e Freya era morta. Non era solo Bion ad essere ricercata. Sycor li voleva entrambi.

Perché lui fosse così importante, ancora non lo sapeva.

Ma allora se il piano di Bion era quello di scambiare lui per sua sorella, perché lui non poteva fare lo stesso? Avrebbe dato Bion per i suoi genitori.

A quell’idea fece un mezzo sorriso, che gli sparì immediatamente dalle labbra. Non era poi tanto bello. Sentiva che non era la cosa giusta da fare. Ma era la più semplice. Nonostante tutto, sentiva di provare qualcosa verso Bion. Un certo affetto forse, o qualcos’altro. Le si era affezionato. Come avrebbe fatto a tradirla?

Si chiese come si sentisse lei, sapendo dentro di sé di non aver altra scelta che quella. Scambiare lui per Hana. Decidere tra due persone a cui si vuole bene. Sempre che lei gliene volesse, di bene. Gli tornò alla mente il suo urlo di poco prima, e il suo pianto sommesso.

Era forse così che ci si sentiva?


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