When you crash in the clouds

di crazyfred
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Do not stand at my grave and weep ***
Capitolo 3: *** Let's get lost ***
Capitolo 4: *** You're not alone ***
Capitolo 5: *** May angels lead you in ***
Capitolo 6: *** As you really are ***
Capitolo 7: *** Only Time ***
Capitolo 8: *** Things you cannot know ***
Capitolo 9: *** Won't stop till it's over ***
Capitolo 10: *** She will be loved ***
Capitolo 11: *** Night in white satin ***
Capitolo 12: *** I want you so (need) ***
Capitolo 13: *** Answers ***
Capitolo 14: *** Decisions ***
Capitolo 15: *** Allison ***
Capitolo 16: *** You are my sister ***
Capitolo 17: *** No doubt in my mind (where you belong) ***
Capitolo 18: *** Gift ***
Capitolo 19: *** Long lost memory of mine ***
Capitolo 20: *** Good life (hopelessly) ***
Capitolo 21: *** Empire State of Mind ***
Capitolo 22: *** On the road ***
Capitolo 23: *** Nobody's home ***
Capitolo 24: *** Lonely Lone ***
Capitolo 25: *** I am here for you ***
Capitolo 26: *** I .... You ***
Capitolo 27: *** I was broken...but it's over now ***
Capitolo 28: *** Is this the end? ***
Capitolo 29: *** Slowly sinking ... wasting ***
Capitolo 30: *** Lay & Love ***
Capitolo 31: *** Hold on to me and never let me go (parte I) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


When you crash in the clouds - prologo
When you crash in the clouds




Salve a tutti!!!!!!! Per chi mi conosce già è inutile fare le presentazioni ma, visto che in questa sezione sono nuova, è giusto che io ricominci d'accapo. Io sono crazyfred e sono un'autrice, discretamente nota al pubblico delle FF sugli attori. Ho deciso di scrivere questa prima FF su Tyler perché adoro il suo personaggio e soprattutto volevo provare a cambiare un po' le carte in tavola con questo personaggio meno noto, ma altrettanto forte come Mallory di Welcome to the Rileys (che in Italia non è ancora uscito e per questo è una FF un po' spoilerosa). Spero che la storia possa essere di vostro gradimento. Vi lascio al prologo e, dalla prossima settimana, sempre di giovedì, andiamo avanti con il capitolo. Buona lettura!















Prologo







Micheal era morto.
Se me l'avessero detto avrei pensato ad uno dei suoi soliti scherzi bastardi e coglioni, avrei riso in faccia a qualcuno e poi avrei preso mio fratello e saremmo andati nel "nostro posto" di Manhattan a riempirci di pancake fino a vomitare, fino a non volerne più per un anno intero.
Ed invece io l'avevo visto, rapito dalla morte con quel cappio al collo, nel bell'appartamento che nostro padre gli aveva comprato. Quanto poteva valere? Cinquecentomila dollari? Cos'erano in confronto a quello che lui gli aveva preso.
Charles, non era degno di essere chiamato padre, lo aveva derubato ai suoi anni migliori, gli aveva tolto il sorriso, la sua musica, la sua vita. In giacca e cravatta lo aveva preso e portato con sé a lavorare, in giacca e cravatta l'aveva interrato per l'eternità.
Quei giorni di cui l'ha privato non torneranno, lui e la sua vita non torneranno mai indietro.
Micheal è stato ucciso.
Quanto è passato da allora? Un'ora, un giorno, un mese? Non me lo ricordo più ... non bastano le puttanate filosofiche che mi hai lasciato fratello, non bastano i fiumi di alcool che invadono il mio corpo a farmi sentire bene. Perché hai voluto che fossi io a trovare quel che restava di te, e non quell'infame...assassino di tuo padre.
So che non lo vorresti, tu in fondo eri quello buono ed io la pecora nera, la testa calda, il ribelle, ma io non ci riesco a non odiarlo per quello che ti ha fatto. Ma non avrà la mia vita e così vivrai con me, in me, a partire da questa sera.
Assaporo l'ennesimo sorso di tequila, sperando che il suo effetto sia lo stesso che nei caffè di Parigi ha reso illegale l'assenzio, escludendomi da un mondo che è fatto di merda, e che per la nostra stupidità meritiamo fino all'ultimo granello di polvere, e attendo che l'ago del tatuatore ti iscriva per sempre sul mio cuore.






















Ringrazio la carissima Iris (aka KuroiNamida_) per il bellissimo banner. Spero che vorrete da subito iniziare a commentare, perché non potete capire quanto sia importante per me sapere le vostre opinioni.
Vi invito come sempre a raggiungermi nella mia pagina FB e su Twitter.
à bientot


Federica

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Capitolo 2
*** Do not stand at my grave and weep ***


When you crash in the clouds - capitolo 01

When you crash in the clouds










Capitolo 1 

Do not stand at my grave and weep


"Tyler ..." la voce di Aidan continuava a blaterare informazioni senza senso che avrei fatto bene a tenere in mente, ma non era proprio giornata. A dirla tutta, non era giornata da un anno.

Micheal era morto da un anno e la mia famiglia aveva organizzato una cerimonia di commemorazione davanti alla sua tomba. Ci sarebbero stati tutti ma proprio tutti, per quel figlio tanto amato. Mia madre e il suo nuovo marito, di cui facevo sempre fatica a ricordare il nome da un anno a questa parte, da quando cioè i miei migliori amici erano diventati Tequila e Camel. Ci sarebbe stata la mia adorabile e adorata sorellina Caroline, la nostra piccola artista, un talento immenso racchiuso in un corpo così piccolo. E ci sarebbe stato anche lui, Charles, l'unico uomo sulla faccia della terra a portare degnamente il nome degli Hawkins, secondo un suo medesimo parere. Era dal giorno seguente il funerale di mio fratello che non lo vedevo, quando ero andato a prendermi quelle due o tre cose che Micheal aveva deciso di lasciarmi: i suoi libri, la sua chitarra, tutto quello che nostro padre gli aveva negato in nome di un successo e di un futuro solido e sicuro, ma che a Mike andava troppo stretto.
"Tyler" continuava imperterrito il mio coinquilino "ricordati che questa settimana tocca a te occuparti delle pulizie di casa, non ho intenzione di vivere in un porcile". Diceva così ogni settimana, ma il suo turno non arrivava mai ed io non avevo certo intenzione di fare il lavoro anche per i suoi porci comodi. Certo, in quelle condizioni l'unica compagnia che potevamo permetterci sarebbero rimasti dei topi di fogna, ma l'importante era che la mia camera da letto fosse rimasta pulita ed il bagno fosse decente per le notti brave. Generalmente si accontentava di uno sgabuzzino con un letto a castello, ma in certe occasioni, anche se brilli, ci si tiene a fare buona figura. Il mattino se ne andavano tutte prima ancora che preparassi il caffè, dunque non era necessario che la cucina fosse poi così pulita ... lungi da me soffermare il mio sguardo su un paio di calzini sporchi e bucati che misteriosamente erano finiti sul tavolo insieme ai rimasugli dell'ultimo Mexican Party di Aidan.
"Tyler" qualche giorno quella bocca gliel'avrei chiusa per sempre "in libreria ti hanno spostato il turno a questo pomeriggio" "va bene" risposi, sperando che la smettesse.
"Ah, e butta la spazzatura prima che esci" "Va bene" era diventato assillante peggio della vecchia zia Gertrude da cui passavo le vacanze da bambino. "Tyler" ancora "e stasera si va fuori" ... come se non uscissimo mai "ho scoperto un nuovo localino che devi assolutamente vedere...ci sono andato con Samantha l'altra sera: è una ficata! Cioè...a dir la verità sono andato con Joe della classe di letteratura, ti ricordi quel pazzo che non la smetteva di limonare con quella cessa di Annie alla festa di compleanno di Bree...Dio che schifo, non ci posso pensare che mi viene ancora il voltastomaco!!! Comunque siamo andati con Joe e ho visto che Samantha lavora come barista lì allora ho attaccato bottone e ho passato il resto della serata al bancone con lei. In realtà c'era mooolto altro da vedere ma, amico, capisci che non potevo fare niente davanti Samantha, è troppo che me la lavoro ... allora ci andiamo stasera vero?" "Va bene" risposi molto passivamente, sicuro di non sbagliare, mentre inzuppavo fiaccamente un biscotto nel latte.
"Tyler, me lo fai un ultimo favore?" sentiamo, basta che ti levi dalle scatole il prima possibile "te ne vai a fanculo?" "Va bene" risposi; mi accorsi dell'immane figura di merda che avevo fatto solo quando il biscotto che avevo in mano si disintegrò e si tuffò nella tazza, imbrattando la mia unica camicia bianca. Imprecai verso tutti i santi del paradiso. L'unica camicia bianca pulita con cui dovevo andare alla commemorazione di mio fratello...fantastico!
"Tyler la devi smettere!" imprecò Aidan, tornando sui suoi passi "non puoi vivere il resto della tua esistenza in questi stato di catatonia pura. Cazzo hai 22 anni! Svegliati, esci, c'è un mondo là fuori!"
Ecco come far incazzare Tyler Hawkins.
Presi la tazza di latte e la rovesciai ancora piena nel lavandino, con i biscotti spappolati che andavano a depositarsi attorno allo scarico. Presi una birra dal frigo e iniziai a berla praticamente a stomaco vuoto, senza curarmi nemmeno di dove fosse finito il tappo. "Ti sembra che io non faccia esattamente il tuo stesso genere di vita? Non perdiamo una festa, bevo e vomito l'anima una sera sì e l'altra pure e nel mio letto ogni mattina c'è una ragazza diversa. Cazzo vuoi da me?"
"Voglio che la smetta di vivere nel rimorso, nel dolore, che ti lasci alle spalle il passato, perché non torna indietro Tyler e lo sai meglio di me ..." probabilmente si rendeva conto che insistere con me sulla questione era una battaglia persa, ma lui era l'unico ad essermi stato davvero vicino quando avevo iniziato a dare segni di cedimento dopo la morte di mio fratello e gli avevo chiesto di stimolarmi, sempre, senza arrendersi. Mi aveva detto tante volte che prima o poi probabilmente avrebbe perso le speranze, mi avrebbe lasciato per strada, a leccarmi le ferite come un cane abbandonato; speravo che non sarebbe mai arrivato quel giorno, anche se sapevo di meritarmelo.
Mi seguì verso la scalinata anti incendio su cui la mia camera da letto si affacciava e dove puntualmente mi mettevo a riflettere in quei momenti di oblio totale. Mi accesi una sigaretta e aspirai come se fosse aria pulita di montagna, come se mi purificasse fin dentro l'anima. Ed invece mi uccidevo ogni volta, con le mie stesse mani; ma era una droga, non ne potevo più fare a meno. E non certo ero immerso nella radura più verde e lussureggiante: attorno a me, il traffico newyorkese completava il senso esalazione necrofila, come se quelle immagini che avevo perennemente davanti agli occhi non mi facessero sopravvivere ... vivere è una parola troppo grande ... come se fossi perennemente dentro una bara.
"Così ti riempirai il vestito di ruggine!" osservò il mio coinquilino mentre cacciava il suo muso fuori dal finestrone. Gli feci notare, con un ampio gesto delle mani, che peggio di come stavo messo non poteva andare, e sinceramente non è che me ne importasse più di tanto. Le uniche persone per cui valeva la pena di rendersi presentabile erano mia madre e mia sorella, per loro solo avrei fatto uno sforzo. "Senti amico" continuò "vorrei per un attimo che ti guardassi allo specchio ... sei una persona così intelligente, affascinante, tutti sanno che le ragazze che mi porto in giro ci stanno perché è te che vogliono, e sei anche ricco. Tu puoi sfondare cazzo! Non mandare la tua vita a puttane ... so che Michael non lo vorrebbe"
"Micheal non lo vorrebbe ..." ripetei la sua frase con un'espressione di sfida "tu, tu che cazzo nei sai COSA AVREBBE VOLUTO mio fratello? Lui aveva la nostra età, voleva ciò che vogliamo noi oggi. Ed invece no, mio padre gli ha tolto tutto in nome del successo. Io non li voglio quei soldi macchiati del suo ... sangue. Mi fanno schifo!"
Aidan capì che forse non era il caso di andare oltre; in fondo, cos'altro si poteva aggiungere?
Mi lasciò solo, in balia dei miei non pensieri.

Riuscii ad evadere dal pranzo di famiglia con la scusa del lavoro alla libreria, in tempo utile da non trovarmi davanti mio padre. Sapevo che mia madre e Caroline ci sarebbero rimaste male, ma non mancava mai il tempo per andarle a trovare, con la sicurezza che nessuno sguardo inquisitore mi squadrasse da capo a fondo per valutare quanti soldi stavo scalando da suo conto corrente. Mio padre sapeva benissimo che non usavo i suoi soldi da quando avevo superato la soglia della maggiore età, che mi ero ritagliato una certa indipendenza con sacrificio per non doverne manovrare, eppure non mancava di farmi ricordare dai suoi assistenti ... perché non aveva nemmeno le palle o il tempo di farmi una telefonata, lo stronzo ... chi è che mandava avanti responsabilmente la baracca di famiglia, una baracca da 10 milioni di dollari di fatturato annui. Ci incrociammo però di sfuggita, mentre mi defilavo tra un "sei bellissimo" di mia madre e "ti puzza l'alito di birra" di mia sorella. Mi vide e mi fece cenno di fermarmi, mentre continuava la sua conversazione al telefono ... il suo broker era sempre venuto anche prima di sua moglie ... ed io feci in tempo ad imprecare un paio di volte prima che mi raggiungesse.
"Non l'avevi una cravatta?" mi chiese, senza neanche salutarmi. Erano un anno intero che non ci sentivamo né vedevamo e lui mi chiedeva della cravatta, tipico. "Ciao papà!" risposi, con la speranza che cogliesse tutto il mio disprezzo. "Non rispondi?" continuò ancora lui. “Per farci cosa esattamente? Legarmela al collo come ha fatto tuo figlio?” Non avrei voluto dirlo perché, prima che ferire lui, avevo ferito me stesso, ed il ricordo che mi ero giurato di cancellare era tornato a galla, prepotente, come quella morte inutile che me l’aveva strappato.
Lo lasciai con un palmo di naso davanti all’ingresso della cappella del cimitero, mentre giuravo a me stesso che mai più sarei tornato in quel luogo di tormento ed incubo, e non avrei più pianto.
Micheal era vivo, nel mio cuore, nella mia memoria.

 

Do not stand at my grave and weep.
I am not there, I do not sleep.
I am a thousand winds that blow,
I am the diamond glints in snow,
I am the sunlight and ripened grain.
I am the gentle Autumn rain.

 

Mio fratello era in tutto ciò che poteva dirmi che anch’io ero vivo: nello scorrere delle stagioni, nel soffio del vento, o in ogni piccola cosa che cambiava e diveniva intorno a me.
Tuttavia, nel lasciarmi dietro quel posto mi voltai, nell’intento di scorgere qualcosa, per l’ultima volta. Purtroppo, per quanto potessi andare avanti con quelle menate poetiche, la verità era un’altra. Potevo sforzarmi quanto volevo a far rivivere mio fratello in me, ma restava sempre quella pietra fredda e bianca, piantata sopra quella collina in lontananza, all’ombra di quel grande acero che ormai, con l’inverno alle porte, aveva creato un caldo manto di foglie gialle e rossicce. E poi ci sarebbe stata la neve. Ed io questo non lo potevo fermare. Ed ero di nuovo punto e a capo.
Per quanto mi sforzassi, per quanto io potessi lottare, non riuscivo a trovare uno scopo per cui valesse la pena di vivere. E per morire … beh, per quello avevo troppa paura.

Mi sforzai di fingere un certo entusiasmo, mentre percorrevamo le stradine buie di un quartiere a caso di New York, già decentemente brilli, tuttavia non abbastanza per dimenticare come si cammina. La serata si era avviata con una cena cinese nel ristorante sotto casa, ed ancora mi stupivo di non averne abbastanza considerando che quell’odore pregnante di fritto si era insediato persino nelle assi di legno del nostro pavimento. Probabilmente sarei morto di cancro prima dei 50 anni, ma almeno avrei potuto dire di aver battuto il record mondiale di biscotti delle fortuna.
Aidan mi trascinò, saturo di birra e Maotai, fino a quel locale che si vantava tanto di aver scoperto, insieme ad una manica anonima di gente che si portava perennemente appresso. Non mi interessava sapere in quale remoto e malfamato angolo del Bronx eravamo finiti, purché mi avesse riportato a casa sano e salvo. Garantiva ottimi cocktail e divertimento per tutti i gusti, il resto non mi interessava.
L’ingresso del locale era piuttosto nascosto, senza grandi insegne, il che mi fece dubitare della buona fede del mio compare, che probabilmente era strafatto nel momento in cui vi aveva messo piede la prima volta. C’era un solo cartello, scritto a mano tra l’altro, che ricordava il divieto d’ingresso ai minori di 21 anni. Almeno quello …
Entrando, l’atmosfera ed il tipo di musica mi fecero capire in che razza di posto ero andato a finire. Uno strip club. Non che mi considerassi un verginello, una bella ragazza non si disdegna mai, e non è certo tanto bello usare la mano per “scaricarsi”, ma quel genere di cose andava ben oltre il mio senso del divertimento. Le ragazze che si dimenavano come ossesse attorno a quei pali erano tutto fuorché sensuali, e non ci voleva l’FBI per capire che la maggioranza di loro erano minorenni o clandestine, bastava dare un’occhiata in giro, o guardare i loro volti per davvero, non come quei porci bavosi che stavano li a guardarle, e ogni tanto manovravano con le mani sulla patta. Dio che schifo!
Pregai con tutto me stesso, semmai ci fosse stato un Dio pronto ad accogliere le mie preghiere, visto che cose come queste mi facevano dubitare della sua reale esistenza, che Aidan non decidesse di sedersi vicino ad uno di quei cosi per esibirsi. Ed invece, deficienti fino al midollo, andammo a sederci al bancone del bar, dove alcune ragazze stavano mostrando i loro tanga ad un gruppo di turisti cinesi allupati. Per un attimo mi venne da ridere: finalmente vedevano una vera donna, chissà cosa le avrebbe aspettati a casa.
Come si dice: i coglioni vanno sempre in coppia; sì perché, se Aidan aveva già iniziato a fare il cretino con la ragazza del bar (che a quanto pare non si chiamava Samantha ma Veronica), io gli andavo appresso come un automa, incapace di decidere cosa fosse meglio per me, sebbene la testa mi urlasse a gran voce di andarmene da lì. Tutto indicava guai, dalle luce rosse e basse, alla musica provocante ed incalzante, fino alla puzza di sudore del grassone vecchio e pelato che mi stava di fianco. Ed invece rimasi lì, seduto sul mio sgabello, a fumarmi una sigaretta e a bere il Margarita peggiore della mia esistenza.
“Ehi dolcezza” urlò Aidan ad una delle ballerine di lap dance che stavano sculettando sul bancone. Ad altri sarebbe parso ubriaco ed invece, strano a dirsi, quella voce da alcolista era perfettamente naturale. “Perché non fai compagnia al mio amichetto?” disse indicando me “è un po’ giù ultimamente … vedi tu di fargli tornare il sorriso”.
Vaffanculo. V.A.F.F.A.N.C.U.L.O. Era l’unica parola di senso compiuto che mi venne in mente in quel momento. Mi strofinai le mani sugl’occhi e alzai lo sguardo verso la ragazza che era davanti a me, che batteva ritmicamente il piede sul bancone. Calzava un paio di scarpe bianche con la zeppa ed il tacco enormi, quelli che sotto la suola hanno stampato il marchio T.R.O.I.A. Salendo notai delle bellissime gambe bianche, questo dovevo dargliene atto, enfatizzate ancora di più dal tacco esorbitante, ma purtroppo le calze a rete la rendevano più volgare di quanto non fosse. Volli sorvolare con lo sguardo su quanto venne dopo, perché l’abbigliamento serviva piuttosto a scoprire che nascondere. Dov’era finita la finezza e la sensualità del vedo-non-vedo?
Mi portai con gli occhi sul suo volto ed, incrociando lo sguardo, si chinò verso di me, fino a sedersi sul piano. Avanzò lentamente verso lo sgabello spingendosi verso di me, a gambe aperte, fino a cadermi letteralmente addosso. Prese dalla mia bocca la sigaretta che avevo acceso, l’ennesima della serata, ed aspirò profondamente. Per quanto disgustassi quel posto, per quanto il lavoro che quelle ragazze facevano (per scelta o costrizione) mi facesse dannatamente schifo, rimanevo comunque un uomo, sui cui lombi si era appena accomodata una bellissima ragazza dal fare estremamente provocante, ed io ed il mio fratellino non riuscivamo proprio a rimanere indifferenti; soprattutto quando lei, probabilmente accortasi della mia “costrizione” portò di nuovo tra le mie labbra quella sigaretta, pregna ora del suo sapore. Quella fu la mia morte. Iniziai a sentire caldo, e non era un bene.
“Allora …” mi disse “che ci fa un bel ragazzo come te tutto solo, eh? Non ce l’hai una ragazza?” “Non la voglio una ragazza” risposi, fingendomi annoiato dalla situazione più del dovuto, sperando che capisse che non era proprio aria. “Bene” continuò lei, schiacciando il suo piccolo seno, coperto praticamente da 5 cm di stoffa e qualche laccio, al mio petto “perché altrimenti stasera la piccola dolce Mallory … che sarei io … non potrebbe coccolare il bel … come hai detto che ti chiami?”. Evidentemente quella sera doveva recitare la scolaretta; chissà quante altre parti aveva dovuto interpretare: infermiera, poliziotta, indiana … la fantasia maschile in questo campo sa essere alquanto vasta. “Tyler … ma credo che stasera la piccola Mallory dovrà rimanere a bocca asciutta” così dicendo presi la mia giacca di pelle che avevo appeso allo schienale della sedia e, alzandomi, me la infilai, facendo scendere dal mio cavallo la ragazza.
In piedi era leggermente più bassa di me, il che significava che doveva essere davvero piccola, considerando che quei trampoli l’alzavano di 20cm. Era minuta e magrissima, quasi anoressica. Ma quel culo … potevo far finta di nulla quanto volevo, ma quel culo sarebbe comunque rimasto una favola.
Mi si avvicinò, di nuovo, e la vidi giocare con le mani birichine con i bottoni della mia camicia, fino a raggiungere il taschino dove avevo le sigarette. Nel prese una e l’accese con quella che io stavo fumando.
“E così ti vendi per una sigaretta, piccola Mallory?” scherzai con lei. “Per chi mi hai presa?” mi riprese scherzosamente, spintonandomi leggermente, e riportandosi a sedere sul bancone. “Volevo solo evitare di perdere … un compagno di giochi … vorrà dire che chiederò a qualche maestro di farmi delle ripetizioni” mi disse guardandosi in giro, e notai che posò il suo sguardo su un tizio poco più in là, che meno di 60 anni non poteva averne ma, dall’orologio che aveva al polso, sembrava anche abbastanza infagottato. Non potevo credere che per soldi sarebbe stata capace di andare con quello lì ma, probabilmente, era il suo unico modo per mangiare. Forse non esattamente decoroso ed onesto, ma i suoi occhi parlavano chiaro: Mallory, o come cavolo si chiamava, aveva fame.
Non so se fosse per proteggerla da quel pappone, se per gelosia o per pura competizione maschile, ma quello che feci un minuto dopo, mentre la vidi allontanarsi per raggiungere quell’uomo, andava ben oltre i miei piani.
La seguii e la bloccai per un braccio. “Senti … io non so cosa … fai … esattamente, e non so nemmeno se ho soldi a sufficienza per il tuo … spettacolo … ma non andare da lui”. Lei si avvicinò di nuovo a me, in parte incredula, in parte divertita; “stai con me” sussurrai, ad un passo dalle sue labbra, tanto si era avvicinata. Sorrise, ancor più compiaciuta di aver ottenuto ciò che voleva “la piccola Mallory è davvero contenta sai, non vede l’ora di giocare con te”.
Sentii gli incitamenti di Aidan e degli altri ragazzi di quella comitiva sgangherata, attutiti dalla musica ad alto volume e dal chiacchiericcio concitato della folla del locale, ma non feci caso a loro; l’unica cosa che sentivo era il contatto con le sue mani, che aveva intrecciato alle mie, mentre mi guidava verso una scala a chiocciola in ferro, in un angolo buio del locale. Preferii non pensare a cosa sarebbe successo di lì a poco, a come ne sarei uscito: in quel momento sentivo davvero di aver fatto la cosa giusta. L’avevo salvata dall’ennesimo porco, almeno per quella sera.

 


 











NOTE FINALI

Ho aggiornato oggi eccezionalmente perché purtroppo non credo di poterlo fare in settimana
Ho deciso che d'ora in avanti i miei commenti a inizio capitolo non ci saranno per lasciarvi di immergere nel capitolo totalmente e non influenzare in alcun modo la vostra lettura, e lo stesso quelli alla fine.
  Nel testo troverete i link per le canzoni che mi ispirano e di volta in volta noterete la corrispondenza del titolo con una canzone che rispecchi il tema del capitolo. Per qualsiasi domanda possiate avere sappiate che vi aspetto nella pagina dei commenti e nella pagina Facebook che è a vostra totale disposizione.
Vi ringrazio per l'ampio consenso che già solo il prologo ha ottenuto. Spero di poter ripagare le vostre aspettative con questo capitolo.
à bientot

Federica

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Capitolo 3
*** Let's get lost ***


When you crash in clouds - capitolo 2
When you crash in the clouds



















Capitolo 2
Let's get lost







Mi lasciai guidare per il piano superiore del locale come un cieco in mezzo ad una strada affollata. Le luci soffuse, tinte di un tenue ed ammiccante rosso, che non poteva far altro che rimandare agli stimoli ed impulsi più primitivi dell’uomo, non impedivano certo di vedere; ero io, piuttosto, che mi rifiutavo di alzare lo sguardo.  
Con la mia esperienza sessuale avrei potuto certamente riscrivere il kamasutra, e persino aggiudicarmi il premio Pulitzer per aver composto una pietra miliare della letteratura contemporanea, ma mi sentivo terribilmente a disagio in quel luogo, come quei ragazzini dei primi del novecento, che venivano mandati dalle prostitute dai propri padri, affinché venissero introdotti ai piaceri della carne.  
Allo stesso modo mi sentivo spaesato, timido, come se non avessi mai visto una donna nuda davanti a me e per me. Lasciai che lo sguardo continuasse a fissare cauto il pavimento, molto simile al parquet invecchiato e marcio su cui camminavo a casa mia, lo stesso scricchiolio minaccioso ed irritante.  
La musica, dal piano di sotto, perdeva di intensità e si ovattava man mano che ci addentravamo per lo stretto e scuro corridoio. Ai lati, dove una volta c’erano delle porte, ora c’erano delle tendine antimosche, che mal celavano l’attività di quelle piccole stanzette; quantunque, anche volendo tenere all’oscuro gli occhi, le orecchie non avrebbero impiegato troppo a distinguere i mugolii ed i gemiti degli altri ospiti del privé e delle loro accompagnatrici. 
Non che mi aspettassi morigeratezza o castità da un locale simile, con chiusura all'una di notte e limite nella consumazione degli alcolici, semplicemente speravo che fosse un pregiudizio mentale, o almeno, da buon figlio della borghesia americana ipocrita e bigotta, non avvenisse alla luce del sole.  
La ragazza che era con me, Mallory il nome con cui avrei dovuto chiamarla, mi fece accomodare nell’ultima stanza in fondo, la più discreta di tutte.  
“Eccoci qui” mi disse, sospirando “mettiti pure comodo”. Forse era contenta di non aver dovuto ospitare un vecchio, magari anche ubriaco, ma dal suo tono di voce traspariva tutto il disappunto e il rimorso per quel lavoro degradante ed sporco che stava facendo.  
Benché fosse un bocconcino più che invitante, non l’avrei toccata, non sarebbe entrata nell’elenco di ragazze che erano passate nel mio letto, e di cui nemmeno ricordavo il nome. Non capivo per quale motivo mi comportassi così con lei, probabilmente in un’altra serata ma anche semplicemente con un’altra persona non mi sarei fatto tutti quegli scrupoli. Ma la sentivo vicina, molto simile a me e la spavalderia, il carattere con cui dava prova della sua forza ed indipendenza, il modo disinibito e sboccato che aveva di approcciarsi agli uomini, per lei solo tasche piene di soldi, mostravano una creatura molto più timida e ingenua  di quanto desse a vedere. Non era poi così difficile leggerla, bastava focalizzarsi sulla persona e non sulla merce che aveva da offrire. 
Mi feci largo nella stanza, completamente spoglia al di là di un paio di sedie, un tavolino basso e un vecchio camino, ricettacolo ormai solo di polvere e ragnatele. Sulla cornice del caminetto, un paio di candele consunte, che certo non aiutavano a rendere l’atmosfera accogliente, restituivano all’ambiente ancora di più la miseria che il buio avrebbe dovuto mascherare. Il pavimento, qua e là macchiato, come se vi fossero finiti spruzzi di coca cola agitata, mi ricordava come tante cicatrici il motivo per cui ero finito lì.  
Mi accomodai sopra una di quelle sedie, quella che mi sembrava essere uscita illesa dal conflitto a fuoco dei miei predecessori e non potei evitare di sentirmi uno schifo. La mia coscienza mi diceva che io ero stato il suo salvatore, ma la realtà era un’altra: da lì a nemmeno venti minuti probabilmente le sue mosse conturbanti ed il testosterone già in circolo mi avrebbero reso uguali agli altri uomini che affollavano quel locale e lei mi avrebbe visto come un cliente, senza nome né volto. Le avrei lasciato la mancia, le avrei fatto una carezza ed un sorriso compiaciuto e lasciata lì come sì fa con un giocattolo rotto. Ma, se ero davvero il paladino a cui mi atteggiavo, dovevo andarmene da lì, anche a costo di passare per impotente. 
Mentre lei accendeva le ultime candele per la stanza e una bacchetta di incenso che, avevo sentito dirle, distrattamente, era alle rose e veniva dall’Egitto (chissà se qualcuno c’era mai cascato a quel pallone), una delle ragazze del bar venne a consegnarci dello champagne di terza categoria e pretese anche 20 dollari di mancia, oltre al conto della consumazione. Meno male che mi ero premunito portandomene 200, semmai ad Aidan fosse venuto in mente di far diventare la serata quella del Tyler paga da bere a tutti. E per tutti di solito poteva significare anche a tutto il locale … 
Mandato giù un bicchiere di quello che osavano anche chiamare champagne, giusto per stordirmi e rilassare i miei nervi, Mallory mi si avvicinò con fare ammiccante, più da gattina innocente che da pantera quale fingeva di essere. Salì carponi sul piccolo tavolino che avevo davanti, miagolando, e riempì di nuovo le flute, porgendomene una, e la mandai giù senza neanche assaporare, per trattenere il meno possibile quel terribile sapore sulle papille gustative. Si alzò in piedi e si mise a ballare, oscillando lentamente i fianchi, a ritmo della canzone che aveva poco prima avviato allo stereo. Con una mossa di studiata sbadataggine si verso addosso la bevanda, anche se effettivamente non c’era molto tessuto da bagnare. “Uh … sono tutta bagnata” esclamò con falsa ingenuità, puntando l’accento sull’ambiguità della frase; “vieni ad aiutarmi” mi incitò, con fare malizioso. 
“Sto bene così” dissi più a me stesso che a lei, cercando di fissare il meno possibile quella simil minigonna in stoffa scozzese e quello che, teoricamente, avrebbe dovuto coprire. Allora, noncurante del mio rifiuto, riprese ad ancheggiare, mettendo ben in vista ciò che aveva capito essere di mio gradimento. Scese dal tavolo e mi si avvicino, in maniera sempre più provocante. 
Maledetto fratello traditore, mi ritrovai a pensare, accavallando le gambe in modo da nasconderle il problema del momento. Ma, dovevo riconoscerlo, era una vera professionista nel suo lavoro, e se avessi ceduto … cosa che probabilmente sarebbe accaduta davvero a breve … ne sarebbe valsa la pena. 
Venne di nuovo a sedersi in braccio a me, avvicinando pericolosamente le nostre intimità, la mia ancora dolorosamente compressa nei jeans e la sua, a causa del tanga, assolutamente libera di compiere danni. Le sue mani vagavano praticamente dappertutto sul mio petto ed io non sapevo dove mettere le mie così, da perfetto cretino alla sua prima volta, lasciai che fosse lei ad agire.  
“Touch me I’m cold … unable to control …” sussurrò alle mie orecchie la canzone che ci faceva da sottofondo e allora tornò a galla la verità: che non c’era partecipazione in lei, né coinvolgimento. Era lì per me, non per se stessa.  
Ero andato a letto con decine di ragazze prima di lei, e nessuna era intenzionata ad avere relazioni serie; ma nessuna, prima di allora, era stata con me per soldi. E non avevo intenzione di avere un esperienza simile. Non avevo alcuna intenzione di umiliarla anch’io. 
“Ehi … ehi” le dissi, scansandola da me e portandola a sedere sul tavolino che avevo di fronte, e che prima era stato il suo palco “cosa … cosa stavi cercando di fare?”. Era una domanda ovvia ma al momento, e nello stato in cui ero ridotto, anche l’unica che mi venisse in mente. “Volevo solo che ti divertissi un po’, sai come si dice … far felice il cliente!” trillò, con la vocina cantilenante, imitando malamente i direttori dei negozi di lusso dove, evidentemente, il cliente ha sempre ragione. Raccapricciante similitudine …  
“Ma io sto bene” risposi poco convinto, tanto che lei alzò un sopracciglio in segno di disappunto. Ero davvero un così cattivo bugiardo? “Solo” tentai la via della mezza verità “preferirei un altro tipo di divertimento”. 
Quanto potesse rivelarsi infelice quella mia frase lo capii neanche mezzo minuto dopo, quando mi ritrovai quella ragazzina … sarebbe stato già un grande miracolo se fosse stata maggiorenne … ai miei piedi, tutt’intenta a slacciare cinta e pantaloni. “Beh, effettivamente avevi ragione” mi disse “hai molto più bisogno di divertimento qui” e così dicendo passò la sua mano sulla mia patta, carezzandola quasi impercettibilmente. Ma, date le mie precarie condizioni, quel suo gesto fu ultra percepito, abbastanza da farmi letteralmente sussultare sulla sedia ed emettere un gemito strozzato. Era un diavolo che andava fermato, perché io non volevo essere come gli altri. Ma la forza di fermarla, e soprattutto la volontà, tornarono ad essere di nuovo orizzonti lontani. 
“Di mano o di bocca?” chiese, mentre opponevo resistenza al suo tentativo di togliermi pantaloni e boxer in un colpo solo. “Cosa?” chiesi, del tutto spaesato. “Sono 50 verdoni per una sega” spiegò, mimando cosa intendesse, nel caso non fosse stata già particolarmente esplicita “ e 100 per un pompino … ma solo se hai il preservativo”. A quella sua delucidazione sulle tariffe della serata non ci vidi più e la scaraventai lontano da me, cercando di essere rude il meno possibile. Ma era possibile che una ragazzina dovesse annullarsi a quel modo? 
“Mi dispiace” le dissi, alzandomi in piedi per risistemarsi e cercando di badare il meno possibile al dolore che quell’interruzione volontaria mi avrebbe provocato “ma non c’era questo nei progetti della mia serata …”  
“E allora che cazzo sei venuto a fare da me?” mi disse, offesa “a quest’ora con quel fottuto vecchio avrei già finito e me ne starei cercando un altro …” “è questo che ti interessa?” le risposi, altrettanto concitato “i soldi sono la chiave di tutto? Tieni …” le dissi, lanciandole due banconote da 50 “ ma ora, sei vuoi farmi felice, stiamo qui e parliamo un po’”. “Woah … grazie Tyler!” 
Ancora evidentemente stupita dalla mia reazione, con il solito sorriso beffardo sulle labbra piccole e carnose, si allungò sul tavolino, a gambe oscenamente divaricate, puntando i gomiti sul tavolo per tenere il busto alzato. 
“E così …” iniziai, per rompere il ghiaccio “questo non è solo uno strip club?” “Cosa cazzo ti aspettavi” mi rispose “un convento di clausura?” “No, certo che no” mi affrettai a spiegare “solo non pensavo che vi esibiste anche in altro genere di performance … quanti anni hai?” chiesi, sperando che la mia domanda non la mettesse a disagio o la insospettisse. Molto matura, ebbe la prontezza di rispondere: “Quanti ne dimostro?” “Non più di 18” risposi, in tutta franchezza. “Non si può avere meno di 21 anni per fare questo lavoro …” “E quindi quanti anni hai?” “22” “”22, eh?!” la sfidai. “è quello che dice la mia carta di identità” 
Sapevo che sarei riuscita a spuntarla, me lo dicevano tutti da bambino che avrei dovuto fare l’investigatore. “Puoi anche avere un documento che dimostra che hai 22 anni … ma questo significa che tu abbia davvero 22 anni. Ma ora la mia domanda è un’altra … da quanto tempo hai 22 anni? E per quanto ancora avrai 22 anni? Mallory è il tuo vero nome?”  
“Ma vaffanculo!” sbraitò all’improvviso, agitata probabilmente dalle troppe domande che le avevo rivolto “cazzo, dovevo immaginarlo … sei un fottutissimo poliziotto!!!” “No, non sono un poliziotto!!!” mi affrettai a chiarire, prima che potesse chiamare la sicurezza e, sinceramente, non mi andava di essere ridotto ad uno straccio dal bestione che si aggirava con fare sospetto per il locale. “E allora che cazzo erano tutte quelle domande del cazzo? Eh? Che cazzo vuoi da me?” “Tu non hai più di 18 anni, vero? Dio solo sa se sei persino maggiorenne … e lavori in un locale come questo … ma non ti fa schifo? Ho pensato che almeno per una sera potevi scampartela …” “Allora riprenditi questi cazzo di soldi e vattene fuori dai coglioni, perché mi hai fatto perdere solo tempo e soldi questa sera. E ringrazia se non chiamo Dean che è di sotto … stronzo!” Quell’ultima imprecazione la fece sparire e tornare al piano di sotto, ad altri clienti, ad altri servizi. 
Probabilmente aveva ragione: ero solo un coglione moralista che aveva tentato di lavarsi la faccia facendo l’elemosina ad una povera prostituta. Non avevo il diritto di entrare nella sua vita, e non avevo il diritto di rimproverarla come se fosse stata mia sorella. Uscendo mi ritrovai nel corridoio dove poco prima, con lei, avevo camminato mano nella mano, e mi accorsi che a quel pensiero fui sfiorato da un leggero formicolio, come quando si viene presi dalla scossa. Ma il momento di pseudo poesia fu interrotto dai suoni sgradevoli che provenivano dalle altre camere. Cercai con tutto me stesso di tenerli fuori dalla mia mente, accelerando il passo per arrivare più in fretta possibile alle scale, dove la musica diventava, gradino dopo gradino, sempre più assordante. Sceso, trovai la comitiva con cui ero entrato pronta per andare via, visto che un paio dei nostri non avevano retto alla tentazione di palpare le gentili signorine ai pali senza avere intenzione di sborsare un centesimo e il gorilla Dean si stava già accorciando le maniche per buttarli fuori. Aidan, che, dopo tanti anni di conoscenza, mi stupiva ancora per la sua resistenza agli alcolici, anche dei surrogati micidiali che servivano in quel locale, era riuscito finalmente a ricevere il suo ennesimo bel due di picche dalla ragazza del bancone, così non avremmo avuto più motivi per tornare in quel locale, ed in un paio di serate avrei ben dimenticato Mallory; ma non ero sicuro che questo fosse il suo vero nome. Mi voltai un momento, prima di uscire, e la vidi volteggiare ad uno dei pali per la lap dance. Si fermò, un istante, ed in quel attimo mi sembrò quasi che mi stesse fissando, come per dirmi addio. Provai un bruciore nel petto, una rabbia montante per non aver saputo proteggerla da quel mondo e da sé stessa. 
Nei romanzi rosa della piccola Caroline, la mia precoce sorellina, questa era la descrizione del colpo di fulmine. Possibile che mi stessi innamorando di lei? 
Mentre gli altri si dirigevano verso la metropolitana, visto che erano rimasti senza soldi per il taxi, io rimasi un po’ indietro rispetto a loro, nella speranza assurda che lei mi rincorresse e mi chiedesse di aiutarla. Ma a chi la davo a bere … avevo letto e visto troppi libri e film romantici recentemente, e speravo sempre che la vita fosse come uno di quelli. Aidan sosteneva che fossero proprio quelle stupidate a permettermi di far colpo sulle donne, quel fascino un po’ intellettuale che, insieme al filo di barba e agli occhi azzurri, mi rendeva una macchina per il sesso. Forse agli occhi degli altri ero così, ma io mi vedevo ancora come un ragazzino alla fermata dell’autobus delle opportunità che aspetta da ore di prendere la sua corsa; aspetta e aspetta, e poi si accorge che si è distratto proprio mentre passava e deve prenderla al volo. 
Mentre quel pazzo sciroccato del mio compagno mi raccontava i dettagli della sua serata e premeva per sapere i dettagli della mia, capii che la mia opportunità stava passando esattamente in quel momento e dovevo coglierla, prima che fosse troppo tardi e nel tentativo invano di afferrarla mi fossi fatto male. Forse non era amore, forse era solo la voglia di sentirsi utili per qualcuno, la possibilità di dimostrare a me stesso che ero riuscito a salvare qualcuno, cosa che con mio fratello Micheal non ero stato in grado di fare; ma di una cosa ero certo: era un anno che non mi sentivo così vivo. 
Mi liberai dalla stretta del mio amico ed iniziai a correre indietro, verso il locale.  
“Ehi, ma dove vai?” mi urlò, mentre mi allontanavo, ma ero già abbastanza lontano da lui perché potesse sentire la mia risposta “Devo andare da lei”.






NOTE FINALI


La cosa che maggiormente mi preme per questo capitolo è assicurarmi che nessuno di voi si sia sentito offeso dal linguaggio utilizzato. Purtroppo non potevo fare diversamente; capite benissimo che Mallory ha un certo linguaggio e non si fa problemi ad usarlo.
 E non sta a me cambiarlo, ne va della veridicità della storia.
Per il resto vi ringrazio dell'ampio consenso e spero davvero che possa aumentare di capitolo in capitolo.
Ora che Tyler ha preso la sua decisione bisogna vedere come reagira Mallory.
à bientot

Federica

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Capitolo 4
*** You're not alone ***


When you crash in the clouds - capitolo 3


















Capitolo 3
You're not alone








Avevo perso il conto di quante vasche avevo fatto avanti ed indietro di fronte all’ingresso angusto del locale. Se ci fosse stata la security, se quella non fosse stata una bettola in un quartiere altamente malfamato, probabilmente a quest’ora sarei di fronte ad un poliziotto sospettoso e soprattutto scocciato a rispondere a domande assurde e perfettamente inutili.
Ma agli occhi dei rari passanti dovevo sembrare piuttosto un tossicodipendente in attesa del suo pusher, o di qualche altro disgraziato che uscisse dal locale per farci a botte e regolare chissà quale conto.
Non c’è spazio per le storie a lieto fine nel Bronx, al massimo ti puoi ritrovare senza una gamba dopo una sparatoria e dire che ti è andata bene; così mi era stato detto, se non altro.
Mi guardavo attorno attento, senza però dare l’impressione di essere estraneo ad un posto come quello. Nel frattempo s’erano fatte le 3 di notte ed avevo visto uscire tutti dal locale: dai vecchiacci bavosi, fino alla comitiva di cinesi allupati, che, completamente fatti, cantavano allegramente per strada un motivo che aveva tutta l’aria di essere particolarmente solenne e incredibilmente ridicolizzato.
Vidi uscire dal retro lo scimmione del locale, quello che per qualche miracolo aveva deciso di risparmiare dal pestaggio Aidan e la sua comitiva e pensai che non poteva mancare molto ormai all’uscita delle ragazze. Notai un muretto non molto alto poco distante dall’uscita posteriore del club, perfettamente di fronte dalla porticina di ferro da cui sarebbe dovuta uscire Mallory. Mi andai a sedere lì e l’aspettai. Finalmente, da sola e per ultima, vidi uscire anche lei.
La guardai attentamente e mi stupii da averla anche riconosciuta a primo colpo. Non aveva l’aria di una spogliarellista, né tantomeno di una squillo. Però una cosa non era cambiata: la fame. Se la portava dietro, come un’ombra, come quell’avvoltoio che vola, spiritato, attorno ad un’animale morente, come la iena bavosa e ridacchiante che già sente puzza di carcassa. I pantaloni, troppo larghi per quella sua vita da vespa, erano allacciati in vita da una vecchia cinta da uomo, probabilmente presa a qualche cliente come forma di pagamento o molto più probabilmente rubata. Indossava una maglietta slabbrata e sporca, con qualche buco sul collo, e si copriva dal freddo della notte autunnale newyorkese come meglio poteva, con un giubbotto vagamente militare che le arrivava alle ginocchia e le maniche, accorciate con almeno un paio di giri, le teneva ben strette tra le sue mani, come se fossero guanti.
L’uscita del locale era leggermente interrata rispetto al livello della strada, quindi  non ebbe modo di scorgermi e, sicuramente, altri pensieri affollavano la sua mente per ricordarsi di me, il primo cliente ad aver dato forfait davanti alle sue performance. “Ehi!” la chiamai, mentre si avviava nella strada buia, rimanendo ancora sul muretto “Ehi!”. Finalmente si girò e con un colpo di reni scesi dal muro e la raggiunsi. Lei dapprima sembrò non ricordarsi di me poi, puntandomi il dito contro “Tu … tu sei Tyler … giusto?” “In persona” le dissi sorridente, tendendole la mano “ e tu sei Mallory, o sbaglio?”. Speravo non si rabbuiasse come era accaduto nel club qualche ora prima, e mi mandasse via, ma probabilmente il malumore le era passato e, con aria un po’ divertita e un po’ frustrata mi rispose: “No … non sono Mallory … né Roxy, né Jennifer, né qualsiasi altro nome sentirai dentro quel locale …”
Come avevo intuito, era solo nomi fittizi, usati per recitare una parte o per non lasciare tracce di sé fuori da quell’ambiente.
Avrei voluto chiederle il suo vero nome, ma preferii non rischiare di commettere lo stesso errore due volte: doveva scoprire che poteva, anzi doveva fidarsi di me, che io l’avrei aiutata davvero, ma non stava a me darle dei tempi e forzare la mano.
Visto che non stava a me parlare, né lei sembrava interessata ad avere una conversazione con me, dopo un po’ che camminavamo insieme, silenziosi, come se nella strada mal illuminata lei nemmeno si fosse accorta della mia presenza, la piccola ragazzina che avevo di fianco prese a guardarmi con fare incuriosito, come se mi vedesse per la prima volta.
“Scusa, ma che vuoi da me?”. “Niente” risposi, abbozzando una risata divertita, pensando a quanto fosse assurda tutta quella situazione: ero nell’ultimo posto al mondo in cui avrei voluto ritrovarmi, solo, con una ragazza conosciuta in uno strip club solo poche ore prima, eppure senza avere il minimo timore che potesse accaderci alcunché di male, ma solo con l’obiettivo di starle accanto e proteggerla.
“Hai cambiato idea?” mi chiese, ma non capii a cosa si stesse riferendo. “Lavoro anche a casa però le regole rimangono le stesse del club” “Ancora!!!” esclamai, esasperato “voglio solo fare due chiacchiere con te, quelle per cui avevo pagato e non sono stato esaudito”. “Ma io ti ho ridato indietro i soldi” rispose, quasi dispiaciuta di aver perso quell’opportunità; così sfilai dalla tasca dei jeans i due bigliettoni da 50 che mi aveva tirato addosso prima e glieli misi fugacemente dentro la tasca, avvicinandomi leggermente a lei. Ovviamente la mia manovra non le sfuggì e vidi, alla luce fioca dei radi lampioni che costeggiavano le strada deserta, che non mancò di arrossire e sorridere alla buona sorte che, almeno per una volta, si era avvicinata anche a lei.
“Vieni” mi disse.
Entrammo in un discount aperto ad orario continuato, gestito da un indiano. La merce era ammassata disordinatamente e l’arredamento probabilmente non era stato né ammodernato né pulito dal giorno dell’apertura e le piastrelle recavano il segno di bevande gassate esplose sul pavimento e mai pulite. Con l’immancabile repertorio di musica etnica che il lettore cd stava riproducendo, mi chiesi se stando lì avrei avuto l’opportunità di assistere ad una rapina a mano armata in diretta, così cercai di ripetere mentalmente tutti i numeri d’emergenza di cui avremmo potuto avere bisogno. Con mio grande sollievo, constatai che li ricordavo tutti.
Mallory, o come cavolo si chiamava, passava svogliata tra gli scaffali e ogni volta che prendeva qualcosa, la rimetteva a posto quasi immediatamente, forse scoraggiata dal prezzo. Mantenendomi a debita distanza da lei, senza farmi notare, infilavo, in un cestino che avevo preso, tutto quello che lei stava scartando. Ovviamente non erano prodotti da Chez Maxime, ma era sempre meglio che rimanere a stomaco vuoto.
“Ma sei sicura che questa roba sia commestibile? … le scadenze si possono truccare, lo sapevi questo?”
Rise; probabilmente avevo la classica faccia da figlio di papà che mette il naso in terza classe, leggermente schifato, ma incuriosito, da creature strane come quando si visita per la prima volta allo zoo.
“Ti faccio ridere, eh?” le domandai, ma lei mi ignorò e si avviò verso il cassiere mezzo addormentato con un pacchetto di patatine e una bottiglia di coca.
Li intravidi parlottare un po’, mentre cercavo di interpretare cosa ci fosse dentro un barattolo di latta dalle scritte in arabo, che era persino sprovvisto di immagini.
“Senti … non puoi aspettare la prossima? Oggi non posso proprio, i soldi mi servono per pagare l’affitto!!!” “Basta! Sono due mesi che metto in conto! Ora mi paghi sennò ti mando la polizia”
Mi avvicinai intuendo che la situazione stava prendendo una brutta piega, e vidi che, quasi in lacrime, Mallory supplicava il commerciante di non chiamare la polizia e di concederle una proroga del conto che aveva aperto in quel negozio. Avere a che fare con gli sbirri avrebbe significato per lei finire in galera, oppure dover fuggire e darsi alla macchia; non per un stupido conto da un droghiere immigrato, ma perché sarebbero entrati nella sua vita, una vita a tutti gli effetti criminale. Probabilmente quella del commerciante era solo una minaccia, magari anche lui non era perfettamente in regola, ma tanto era bastato a mandarla nel panico. Picchiai sul bancone della cassa il piccolo cestito in ferro, in modo da fare rumore di proposito e attirare l’attenzione su di me. Mentre l’uomo batteva sulla cassa il prezzo dei prodotti Mallory li squadrava uno per uno e lasciava che il suo sguardo vagasse da me alla spesa, dalla spesa a me. Non impiegò molto a capire che avevo raccolto tutto quello che lei aveva lasciato ed incredula mi fissava, inebetita. Lasciai che le mie labbra le concedessero un sorriso. Non potevo sapere quale significato avesse per lei, ma tentai di trasmetterle tutta la fiducia che potevo infonderle. Volevo che si fidasse di me, lo volevo con tutto il cuore.
“Perché lo hai fatto?” mi chiese, una volta fuori dal negozio, mentre con la busta della spesa colma, la seguivo ancora per le strade del Bronx “perché hai pagato la mia spesa e hai persino saldato il mio conto?”  
“Perché mi andava di farlo … e perché ho fame, e voglio mangiare qualcosa anch’io quando arriviamo a casa tua.”
Si lasciò andare ad una fragorosa risata e iniziò a camminare all’indietro, per guardarmi bene in faccia mentre si rivolgeva a me “Allora vedi che vuoi venire a letto con me?” “Non voglio venire a letto con te! Cosa te lo fa pensare?” “Hai pagato la mia spesa” “Ma non ho pagato te!” obiettai, rispondendole per le rime. “Non paghi me perché la tua coscienza te lo impedisce … così hai meno rimorsi … sei cattolico per caso?”
Era molto intelligente, ed il suo umorismo cinico denotava non solo un vissuto troppo pieno per una ragazza evidentemente più giovane di me, ma anche un’educazione discreta, interrotta però sul più bello da qualcosa … o da qualcuno.
“Eccoci, siamo arrivati” mi disse, entrando in uno spiazzo. L’edificio sembrava essere un vecchio motel, infatti su un lato della costruzione campava ancora un’insegna sgangherata, e i due piani dello stabile – una serie di stanze che avevano come ingresso comune un lungo balcone che dava sul cortile - davano l’idea di poter cadere da un momento all’altro. Mallory mi spiegò che il condominio apparteneva al suo datore di lavoro, un certo Joe, che affittava alle sue colleghe e ad immigrati, completamente in nero, e il prezzo andava a sua discrezione. Qualcuna delle sue colleghe nemmeno lo pagava l’affitto, né le bollette, ma in cambio dovevano fornire prestazioni sessuali o girare filmini porno.
“Pensa di farmi paura con queste minacce di sfratto” continuò a sfogarsi, mentre gettava nel cortile l’ennesimo, a quanto pareva, cartello d’affitto “come se a qualcuno interessasse questa topaia. Preferisco rimanere con il culo per terra che darla a quel puttaniere. Io ho i miei diritti cazzo!”. Sembrava strano detto da lei, eppure era terribilmente giusto quello che diceva. Doveva esserci una distinzione ben precisa tra il lavoro e la vita fuori dal locale, anche se probabilmente fuori da quel posto non ci fosse un granché, ma sicuramente le garantiva ancora un minimo di sanità mentale.
Entrando in casa, ci accorgemmo che mancava la luce. “Di nuovo … vaffanculo!” imprecò, accendendo una candela che aveva sul davanzale della finestra accanto all’ingresso. “Che c’è?” le domandai “non hai pagato le bollette?”
“No” rispose, avvilita “ … è quello stronzo! Pensa che così mi decido a fare quello che gli dice la sua testa vuota, anzi suoi coglioni, visto che è con quelli che ragiona, ma non ha capito con chi ha a che fare … se ha bisogno di qualcuno per indurire il suo pisello moscio paghi una prostituta … io non sono una puttana!!!”
“Ah no?!” le chiesi. Mi pentii immediatamente di quello che le dissi, ma venne così spontaneo che non riuscii a trattenermi. Eppure lei non sembrò prendersela più di tanto, probabilmente era abituata a certe gaffes, o forse molto più semplicemente era abituata a sentirsi offendere così ogni giorno.
“Perdonami, io …” “No, tranquillo, hai ragione … so benissimo come vengono chiamate quelle come me … ma quello che intendevo io era un’altra cosa” “Sì certo …” le risposi, come se potessi capirla. In realtà non ci riuscivo per niente. Faceva la prostituta a tutti gli effetti nel privé di quel club, e anche fuori, ma faceva la schizzinosa se qualcuno le offriva di pagare in natura anziché in contanti. Non che dovesse piegarsi ai ricatti di quel porco, ma mi sembravano assurdi quei moralismi.
Nel frattempo, i miei occhi si erano ormai abituati a quella penombra e Mallory aveva acceso candele qua e là e finalmente l’appartamento iniziava a prendere forma. Non mi aspettavo un loft extralusso, ma casa mia in confronto era un hotel a cinque stelle. In quello stanzone c’erano praticamente mobili, al di là di un divano letto, un comò; la cucina economica anni ‘60 ed un piccolo frigo alla parete destra mi ricordavano molto la piccola baita di montagna dove andavamo a campeggiare con la colonia estiva io e mio fratello da bambini. Il bagno era in fondo alla stanza, ma non osai nemmeno affacciarmi, considerato l’odore nauseante che arrivava da quel vano buio.
Preparammo dei sandwich e li mangiammo sul letto scricchiolante, sporco e scomodo, con le spirali della rete che si conficcavano praticamente dappertutto; se non fossi stato attento avrei anche potuto finire sodomizzato da una di quelle molle.
“Comunque io sono Allison, Allison Eugenia Riley” mi disse, nel bel mezzo del nostro spuntino, mentre le raccontavo di come ero andato a sbattere nel suo locale. Evidentemente aveva deciso che poteva fidarsi di me, e non potevo esserne che felice.
“Ed io sono Tyler Hawkins, piacere di conoscerti Allison!” le risposi, divertito e compiaciuto per aver raggiunto quel piccolo traguardo.
“Hawkins? Sei imparentato con Charles Hawkins per caso?”
“Sì. È … è mio padre. O mio Dio! Non mi dire che lui …”
“No! Tranquillo …” sorrise, mentre io mi rilassavo. Ero già pronto ad andare a spaccargli la faccia. Lo ritenevo un uomo squallido, ma non fino a quel punto. “Lo conosco solo di nome. Mio padre lavorava nella filiale della sua società ad Indianapolis ...” interruppe le sua spiegazione, rendendosi conto che forse aveva parlato troppo, o forse ciò che mi stava raccontando non era piacevole per lei. E comunque quant’era piccolo il mondo.
“Ed ora non lavora più per lui?” chiesi, curioso. Ma evidentemente stavo toccando una nota troppo dolente, perché non era più così tranquilla mentre parlava “ … i miei si sono trasferiti in un’altra … ehm, città, sì … due anni fa … e diciamo che … non mi andava di seguirli …” “E non avevi nessun’altro con cui stare?”
Non mi rispose. Il silenzio prolungato era il segnale che mi ero spinto troppo in là, così non mi intromisi oltre. Si alzò, e dallo zaino che aveva buttato per terra e che portava con sé dal lavoro tirò fuori una scatolina di latta. Aprendola venne fuori il profumo tipico dell’erba e vidi che effettivamente aveva acceso una delle canne che aveva già rollato. “Vuoi un po’?” mi disse. Era tanto che non me ne fumavo una, dai primi mesi dopo la morte di mio fratello, ma qualche tiro per allentare la tensione che mi portavo dentro a forza di mantenere a bada i miei ormoni, non mi avrebbe fatto male. Ci allungammo sul letto e, ridendo, lasciammo che la marijuana facesse il suo effetto.
Leggermente storditi dallo spinello restammo allungati su quel letto a fissarci, con le teste sepolte tra i cuscini. Lei continuava a fissarmi, mentre era allungata a pancia in giù, con quel bel panettone che si portava dietro in bella mostra, grazie al perizoma praticamente ridotto ad un filo e alla magliettina che usava per dormire che non arrivava a coprirle il fondoschiena. Per fortuna ero anch’io a pancia a terra, così potevo nasconderle il mio inconveniente senza che ricominciasse di nuovo con la storia del sesso. Cercai di convogliare la mia attenzione ai suoi occhi che mi scrutavano attenti, alla ricerca di qualcosa.
“Io non capisco …” disse ad un certo punto, stizzita, rigirandosi nel letto e facendo cigolare tutto “com’è che non hai voglia di fare sesso con me?”. Come rigirare il coltello nella piaga … decisi, masochisticamente, di mettermi alla prova e di farle capire una volta per tutte che non era per quello che ero rimasto con lei.
Mi voltai anch’io, mettendomi supino, e mostrando il rigonfiamento un evidente nonché imbarazzante tra i pantaloni. Di solito non mi creava problemi, era motivo di scherzo con gli amici e di vanto con le donne, ma non davanti a lei.
“Secondo te?” le chiesi.
“E allora? Vuoi provare” incalzò lei, convinta di avermi piegato. “No, grazie” risposi laconico. Poteva dirmi quello che le pareva, ormai avevo preso la mia decisione, anche se dolorosa. Il che mi fece pensare che un filmino per adulti non ci sarebbe stato male l’indomani …
“Guarda che sono brava!” insistette, portandosi in ginocchio sul letto, mentre io rimanevo ancora steso. “Non lo metto in dubbio …” risposi, alquanto impacciato, distogliendo lo sguardo. Dio! Mi sembravo un ragazzino poco più che adolescente alle prese con le sue prime turbe ormonali. “E allora qual è il problema? Non mi sembra che non ti piaccio …” ironizzò, accennando al mio pacco; eppure per attimo mi fece tenerezza: sembrava una bambina, di quelle che fanno i capricci perché la mamma non compra loro il giocattolo che volevano.
Allora balzai e, gentilmente, la presi portandola sotto di me. I nostri corpi non si erano avvicinati così tanto prima, e per un attimo fui costretto ad impormi di respirare, se la mia intenzione era ancora quella di mantenere un certo contegno. Poggiai le braccia con i gomiti sul materasso, ai lati del suo bel viso. A vederla bene da vicino aveva degli occhi bellissimi, nonostante il trucco sbavato; non potevo distinguerli al buio, anche la luna aveva paura ad affacciarsi da quelle parti, ma erano grandi e brillavano, colmi di vita, passione e speranza. Era una ragazza forte, la conoscevo da poco, ma nonostante l’avessi vista affrontare la vita vera, quella tosta e bastarda, non era uscita una lacrima dai quei suoi bellissimi occhi.
Le tirai via qualche ciocca di capelli e, lievemente, carezzai la sua guancia.
“Sei bellissima …” le sussurrai “… ma non voglio essere come gli altri”.
Percepii il suo corpo fremere sotto di me, mentre le dedicavo delle attenzioni che meritava, per la sua forza, per il suo coraggio, ma che mai aveva potuto chiedere, e mai nessuno le aveva concesso.
Avrei combattuto perché tornasse ad essere viva e libera, perché lo meritava.
“Ora dormiamo” le dissi, mentre mi risistemavo al mio posto, dandole le spalle “buonanotte!”
La sentii muoversi nel letto e capii che si stava avvicinando. Si strinse a me con un braccio e presi la mano che mi aveva teso, come se stesse chiedendo aiuto. Sono qui Allison, sono qui.
Accucciò il suo viso sulla mia schiena e riuscivo ad immaginarla mentre si rannicchiava contro di me. “Buonanotte Tyler” mi sussurrò “ … e grazie”.
























NOTE FINALI

Come avrete notato alcuni dettagli di Welcome to the Rileys li ho cambiati in modo da poter avere tutti i personaggi del film presenti anche in questa storia. Nella vita, come del resto in questa storia, le cose non vanno sempre come dovrebbero, come vorremmo; anzi il più delle volte il bicchiere è mezzo vuoto. Ed è per questo motivo che Mallory, o meglio Allison, ha voluto dare a se stessa, più che a Tyler, questa opportunità.
Ma, come già detto, le cose non sempre vanno nella maniera in cui desideriamo.

à bientot

Federica

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Capitolo 5
*** May angels lead you in ***


When you crash in the clouds - capitolo 04


















Capitolo 4
May angels lead you in





soundtrack

Come tutte le mattine in cui non c’è un cazzo da fare e vorresti stare a letto a poltrire, la sveglia del cellulare venne a buttarmi giù dal letto con il suo insopportabile tremolio nella tasca dei pantaloni, che avevo ancora addosso, e la sua ancor più irritante suoneria deficiente. Il mio caro, carissimo coinquilino, aveva optato, per me, per registrare un suo messaggio sveglia, fatto di urla ed imprecazioni, che ogni volta finiva per ritorcersi contro di lui, quando mi alzavo e lo picchiavo di santa ragione. Ma era caduto dal seggiolone da piccolo, non era colpa sua se era venuto su cerebroleso.

Così, scosso dalla vibrazione e stordito dalla sua voce, mi mossi di scatto sul letto e, con un movimento scomposto, degno di un invasato, mi ritrovai seduto ad occhi spalancati. Era ancora buio nella stanza, nonostante il mio telefono sostenesse il contrario. Mi affrettai a recuperarlo e spegnerlo, senza capire molto di tutta la situazione.
Certamente la sera precedente dovevo aver bevuto o, nella peggiore delle ipotesi, avevo fumato o preso qualcosa, visto che mi sentivo come se un camion mi avesse asfaltato e poi, ripetutamente, tutti i grattacieli di Manhattan mi fossero crollati addosso. Mentre, con un mal di testa di quelli epici, i miei occhi mettevano bene a fuoco nel buio della stanza, iniziai a fare mente locale sul dove mi trovassi, ma soprattutto sul perché fossi finito lì, in un ex motel del Bronx, dimora di una ragazzina squillo che, per un non meglio comprensibile istinto da Samaritano mi ero deciso ad aiutare e, ancor più incomprensibilmente mi aveva accettato tra quelle quattro mura senza battere ciglio. Eravamo finiti a parlare, aiutati dal fumo e dall’alcol, quasi fino all’alba quando, più che intontiti, crollammo sul suo divano letto.
Erano le nove, ma in quella stanza senza finestre sembrava che non fossero passati neanche cinque minuti da quando ci eravamo addormentati, con lei che cingeva la mia vita con le sue braccia esili.
Poi, in un lampo di lucidità e logica, mi girai verso di lei che, nonostante la sveglia scassamaroni, non aveva fatto una piega e continuava a dormire beata.
Nel frattempo il mio cellulare segnava le 9 di sabato mattina. Meraviglioso, era sabato, in università non avevo lezioni e miracolosamente era anche il mio giorno libero al lavoro. Avrei potuto dormire finché anche lei non si fosse svegliata e poi le avrei chiesto di restare con me per il resto della giornata, per magari poi convincerla a non andare a lavoro quella sera. Bene … le botte di culo capitano anche a me ogni tanto …
Tornai a stendermi di nuovo al suo fianco, mentre lei si rigirava nel letto. Speravo che gli eccessi della sera precedente mi aiutassero a prendere di nuovo sonno, ed invece furono i ricordi ad avere la meglio, così che gli ingranaggi del mio cervello, già fusi dalla serata turbolenta, potessero andare in escandescenza. Il tuo cervello lavora troppo, mi ripeteva sempre Michael, così finirai col bruciartelo prima dei trenta; cazzo se aveva ragione!
Avrei dovuto fare come Aidan, ma poi pensai che, in effetti, lui se l’era già giocato, e comunque non stava tanto meglio di me.
Cosa avevo fatto? Come, ma soprattutto perché mi trovavo lì? Cos’è che mi spingeva ad aiutare una sconosciuta?
Dopo aver contato tutte le ragnatele della stanza, dai 4 angoli del soffitto all’intelaiatura del lampadario ed aver valutato la gravità della muffa che macchiava le pareti della stanza, arrivai alla conclusione che io e Mallory, o meglio Allison, non eravamo poi così sconosciuti. Doveva essere accaduto qualcosa, nella sua vita, prima che arrivasse a New York, che l’aveva fatta diventare quello che era, una piccola donna arrabbiata con il mondo, disillusa dalla vita e delusa da chi le stava intorno. Ed io, in fondo, guardandola, era come se mi guardassi allo specchio. Anche se ero stato poco con lei, avevo capito che c’era qualcosa dietro, e nei suoi comportamenti c’erano tutta la ferocia e l’orgoglio di chi sa che a stare soli si sta meglio, che è meglio bastarsi.
E non c’era altro che volessi da lei, e per lei. Era quello il mio scopo, aiutarla ad essere davvero libera ed indipendente. In cambio non volevo niente; se fossi riuscito nel mio intento, il ritorno lo avrei trovato nel mio cuore: la soddisfazione di essere riuscito dove con mio fratello avevo fallito, quando non avevo riconosciuto i segnali di allarme e le sue continue richieste d’aiuto.
Mentre mi perdevo tra progetti e fantasticherie, su come mi sarei comportato al suo risveglio oppure su cosa le avrei detto per convincerla a non tornare al lavoro, il cellulare, a cui prontamente avevo imposto il silenzio, iniziò a vibrare sul pavimento e, sporgendomi dal divano letto, con una molla ficcata nel fianco, notai che segnalava la chiamata di Aidan. Il campo era veramente poco nella parte interna del piccolo locale, così mi spostai verso l’ingresso, alzando la tapparella e addossandomi al davanzale che dava sul pianerottolo a cielo aperto. La luce di quella che appariva come una bellissima giornata di sole autunnale mi colpi con tutto il suo bagliore, accecandomi, e fui costretto a dargli le spalle. Confidando nell’abitudine di Aidan a non mollare finché non avesse ottenuto risposta, feci tutto con estrema calma, pensando a cosa gli avrei detto per giustificare la mia fuga della sera precedente.
“Pronto?” risposi, cercando di mantenere un tono disinvolto, come se quello che avevo fatto fosse stata la cosa più naturale del mondo.
“Dove cazzo sei?” tuonò minaccioso il mio interlocutore all’apparecchio. Rimasi in silenzio, evitando di rispondere a quella domanda piuttosto scomoda, anche perché sinceramente non è che avessi molto chiare le coordinate. “Senti” cercò di darsi un tono più calmo e conciliante “non mi interessa con chi te la sei spassata stanotte, escluso nel caso in cui tu fossi andato con Samantha perché in quel caso verrei fino in capo al mondo per evirarti …”
Lo interruppi con una risata “a parte il fatto che si chiamava Veronica … e comunque non sono con lei tranquillo!”
“Molto bene” sembrò decisamente tranquillizzarsi “insomma … non mi interessa sapere con chi sei, né cosa hai fatto. Dimmi solo perché cazzo non sei a casa a quest’ora?”
A volte si comportava come una moglie gelosa, o una mamma iperprotettiva nei miei confronti, ma capivo che il suo comportamento era solo dettato dalla responsabilità che sentiva nel tenermi al sicuro da ogni guaio e dal bene infinito che provava per me. Escludevo tendenze omosessuali solo perché una volta, ubriaco fradicio, c’avevo provato con lui (secondo il suo racconto perché io non ne ho memoria) ed il mattino seguente mi sono ritrovato con il naso mezzo rotto e tampone per il sangue su per una narice.
“Stai tranquillo” gli dissi, divertito ancora dal ricordo che mi aveva involontariamente evocato “non sono né in galera, né in ospedale … sono solo a casa di una ragazza” “A casa di una ragazza? Ma se le uniche ragazze che abbiamo incontrato ieri sera erano … Tyler sei andato a letto con la tipa del locale?”. D’improvviso sembrava aver perso tutta la preoccupazione e ritrovato il suo così tipico entusiasmo infantile “Amico mio? Ma che c’hai dentro quelle mutande … non ti stanchi mai?” scoppiammo a ridere entrambi perché, in fondo, di acqua sotto i ponti ne era passata tanta, forse anche troppa, ma noi eravamo rimasti gli stessi ragazzetti cretini che sottobanco, al liceo, si passavano i giornaletti a luci rosse, o facevano la gara delle dimensioni sotto le docce negli spogliatoi della palestra.
Le nostre risate fecero risvegliare Mallory … no, lei era Allison ed era giusto che io la chiamassi così … che si contorceva come una gattina dispettosa tra le lenzuola di quel lettino, troppo scomodo per avere un riposo decente. Aveva bisogno di un letto vero …
“Ora devo lasciarti … non so quando torno …” “Ma Tyler!!! ...” pigiai il tasto rosso prima che potessi sorbirmi qualsiasi rimprovero dal mio amico e prima che mi costringesse a dargli spiegazioni che non potevo, non volevo e non sapevo dargli. Onestamente, mi avrebbe preso per pazzo e l’avrei capito. Ma questa era una cosa mia, lui non doveva entrarci, non ancora.
Mi avvicinai al divano e la vidi ancora sonnecchiante, in quello stato di torpore che, grazie alla luce che finalmente entrava in quel monolocale, la rendeva innocente e sensuale allo stesso tempo, una bellezza intrappolata a metà tra il paradiso ed inferno che mi mandava in tilt. C’era poco da fare: era un bellissima ragazza e io non rimanevo indifferente ma, per una volta, il mio organo riproduttore doveva starsene a riposo dov’era, e lasciarmi fare quello che dovevo, quello che era giusto. Mi sedetti al suo fianco, cercando di essere il più cauto possibile e limitare il cigolio al minimo, e stetti a bearmi di lei; era troppo bella per staccarle gli occhi di dosso, troppo bella per dover essere sprecata a quel modo, sgualcita come un straccio per la polvere, trattata a mo’ di oggetto. Ma non erano solo le ferite dell’animo a preoccuparmi. Girandosi, aveva portato un braccio al di sopra della sua testa, mettendo in vista diversi graffi e lividi. Anche la sera precedente, mi ero accorto di una piccola ombreggiatura, mentre fissavo il suo fondoschiena, quando eravamo ancora nel locale. All’inizio, data anche la penombra, avevo ipotizzato una voglia, o qualcosa del genere. Alla luce di quelle spiacevoli rivelazione, non impiegai molto a fare due più due … non mi interessava proprio capire il motivo dei quei graffi e lividi, perché più ne scoprivo e sapevo su di lei, più il senso di nausea e la rabbia crescevano esponenzialmente in me. Ora più  che mai avevo voglia di porre fine a quello schifo.
Si stropicciò gli occhi mentre il sole filtrava dalla finestrella misera della stanza e mugugnava qualcosa che non capii, forse stava ancora sognando. Ed invece aprì i suoi meravigliosi occhi e non potei fare a meno di sciogliermi. La matita e il resto del trucco sbavato non bastavano a sminuire quegli smeraldi incastonati nel suo viso d’angelo tentatore. Era il ritratto dell’innocenza rubata, di una malizia forzata da cause di forza maggiore.
“Ehi” le sussurrai, sorridendole, non riuscendo a smettere di fissarle quei meravigliosi occhi verdi.
“Ty … Tyler?” mi chiamò, stupita, ancora stordita dal sonno “sei ancora qui?”. Tra tutte le cose che poteva chiedermi, aveva scelto proprio la più complicata; temevo che potesse respingermi, e mi auguravo che non lo facesse ma, in cuor mio, sapevo che aveva tutti i diritti di farlo. Chi ero io in fondo per entrare così prepotentemente nella sua vita, senza nemmeno chiedere permesso?
La fissai ancora per un po’, ma dai suoi occhi assonnati era difficile scorgere qualche pensiero o idea a tal proposito. Ma la dovevo smettere di vedere il bicchiere perennemente mezzo vuoto; pensa positivo Tyler, cazzo! Magari è solo sorpresa!
Così presi coraggio, era la terza o quarta volta in meno di ventiquattro ore, praticamente un record per me. “Ti da fastidio?” le domandai, tentando di celarle la mia inquietudine non solo per quella strana situazione, ma anche sul quadro più ampio, su ciò che le pieghe della sua vita nascondevano e su ciò che avrebbe potuto cambiare e migliorare, se solo avesse voluto.
“No” rispose, schietta. Probabilmente Allison non conosceva il significato dell’espressione avere peli sulla lingua, probabilmente il tipo di vita che conduceva le aveva insegnato che non c’erano mezzi termini: il sì era un sì ed il no era un no, il nì via di mezzo non era contemplato. “Solo …” proseguì “… gli altri di solito se ne vanno prima del mio risveglio. Anzi, di solito vanno via prima che io mi addormento”. C’era un pizzico di fastidio nella sua voce, come se, per la prima volta probabilmente, avesse vergogna di mostrarsi per quello che era. O meglio, come se temesse che la parte che tutti gli altri conoscevano di lei potesse avere la meglio davanti a me. C’era come un muro di difesa, ma anche d’attacco, di fronte a me; costruito per difendersi forse da quella parte scomoda di sé, e per aggrapparsi a me, per qualche motivo. Non potevo che inorgoglirmi a quella sensazione.
Istintivamente la mia mano corse alla sua guancia, calda e vellutata, bianca come le bambole di porcellana esposte in bella mostra nella camera di Caroline. Eppure lei non metteva soggezione, il suo sguardo non era vitreo come quello dei fantocci. Era viva e i suoi occhi correvano su di me in mille posti diversi, come se non sapessero cosa osservare per prima, come se volessero ricordare di me il più possibile, a conferma forse che per lei ero solo un sogno e che doveva portare con sé il mio ricordo al suo risveglio.
“Ma io non sono come gli altri” le rassicurai, mentre abbozzò un sorriso, a cui evidentemente non era particolarmente avvezza. Un risata si concede a chiunque: ad un comico di bassa lega, alle vignette di un cartone animato; ma il sorriso, il sorriso è solo per chi ti vuole bene … chissà quand’era stata l’ultima volta che per lei erano stati provati sentimenti veri, e non rigurgiti di sessualità repressa e subdola. Era raro per me capire una persona così velocemente, di solito non lasciavo che la prima impressione mi guidasse nella scelta delle mie compagnie, eppure in me c’era la strana percezione di conoscersi da sempre, che non ci fosse nulla da dirsi perché c’avevano pensato già le nostre vite, così tacitamente speculari, a raccontarcelo.
Mi alzai a malincuore da quel letto, dove avrei volentieri passato il resto della mia esistenza, immerso in quello stato di beatitudine totale, a cui non ero più abituato, ma a cui ci si può assuefare facilmente. Non c’era niente che giustificasse un rapporto tra noi, né alcun sentimento reciproco, eppure era un piccolo rifugio dove stavamo bene entrambi e per un po’ c’eravamo dimenticati di cosa ci aspettasse fuori.
Andai nel piccolo angolo cottura e misi a scaldare l’acqua per il caffè. Non ero abituato a farlo così, visto che era già stato un miracolo imparare ad usare la macchinetta automatica; speravo davvero di non sbagliare le dosi. Rovistai nei bustoni della spesa che non avevamo svuotato la sera precedente e trovai la confezione di frollini al cacao che ricordava vagamente quelli che usavo io a colazione.
“Sono quasi tutti rotti” mi lamentai mentre tornavo a sedermi sul letto, aprendo il pacco di biscotti. “Oh fa niente” mi tranquillizzò mentre ne portava uno in bocca “tanto comunque in bocca si rompono”. Scherzammo insieme ancora mentre aspettavamo che l’acqua fosse calda per scioglierci il caffè. Non fu una conversazione costruttiva, non servì a conoscerci l’un l’altro più di quanto non avessimo fatto nella notte: mi raccontò della sera precedente, di come si era sentita sollevata quando le avevo detto che volevo stare con lei e che la rabbia per il mio comportamento era dovuta soprattutto al rifiuto in sé, piuttosto che al tempo o al denaro perso.
“Posso farti una domanda?” le chiesi, mentre bevevamo il caffè; non era uscito male, per fortuna. “Dimmi”. “Perché mi hai lasciato venire qui? Sapevi benissimo che non volevo nulla di ciò che volevi offrirmi eppure non hai opposto resistenza quando ti ho detto che volevo passare del tempo con te …” avevo il terrore della sua risposta, ma dovevo sapere.
“Forse dovrei smettere di bere sul lavoro” confessò, con una risata quasi isterica “a fine serata mi dà leggermente alla testa e non capisco più molto di quello che faccio o dico”
“No, dovresti smettere a prescindere perché è una merda quello che danno da bere là dentro, ho il sospetto che ci sciolgano qualche colla o resina tossica” “Noooo” smentì immediatamente, scherzando “al massimo circola qualche bottiglia scaduta!!!” Anche la sua risata era bellissima, cristallina; dava davvero l’idea di trascorrere per la prima volta dopo tanto tempo un momento sereno. E stava facendo apprezzare anche a me quell’istante, così piccolo e semplice eppure prezioso. “Comunque” continuò “davvero non saprei Tyler … sicuramente ero un po’ brilla … e forse, forse per una volta mi andava di passare la notte con una persona per bene”
Quello che mi disse mi sorprese; ovviamente ero felice di sapere che si fidasse di me, ma non riuscivo a capire come potesse reputarmi una persona per bene in così poco tempo. “Ma come fai a dirlo? Avrei potuto recitare la parte del galantuomo e poi approfittare di te …”
“Ma dai!!! Guardati, non faresti male ad una mosca!”. E no! Questo è giocare sporco e ferire il mio orgoglio di maschio.
“Senti” replicai “non avrò il fisico da wrestler ma non mi sembra di essere un pappamolle!” “Non sto parlando del fisico Tyler!” spiegò lei “io li conosco i clienti del locale, hanno tutti la stessa faccia e anche se cercano di mascherarlo io lo so che sono maiali fino al midollo. Ma tu no”.
Cuore mio, ti prego, cerca di non farti scoprire a battere così forte, ma soprattutto cerca di non abbandonarmi proprio ora. Non ci riusciva Allison a non essere provocante, era più forte di lei; le bastava ridurre la sua vicinanza a meno di 10 cm che chiunque le fosse stato davanti, nella fattispecie io, le sarebbe caduto ai piedi. Era incredibile.
“Basta Allison” la ripresi “stiamo facendo un discorso serio. Sai che non mi devi nulla e che non pretendo niente da te”. Mi alzai dal letto e nel piccolo lavandino posai le tazze.
“E allora tu?” fece lei “perché sei venuto da me? Se non è il sesso che vuoi, che sei venuto a fare?”
Come gliel’avrei detto? Quali parole usare per non ferirla? Perché diciamo la verità: quante possibilità c’erano che non s’incazzasse con me? Avrei finito col definirla una prostituta o peggio ancora, le avrei fatto la predica sui valori morali e altre stronzate che fanno più prete di campagna che studente squattrinato e festaiolo. Mi appoggiai al piano del lavello e presi un respiro profondo. La testa mi pulsava: i postumi del venerdì sera non erano ancora andati via e la tensione del momento mi stava infliggendo il colpo di grazia.
“No non è per il sesso” confermai “e ad essere sincero non posso permettermi di spendere quanto mi chiedevi …” “Ah no?” chiese meravigliata “ma tuo padre …” “Con mio padre ho chiuso i ponti un anno fa …”. Io non mi spinsi oltre, lei non pretese altro da me, proprio come era accaduto con lei nella notte, quando avevamo scavato un po’ nel suo passato.
“Beh … se credevi di potermi sfilare dei soldi allora sei venuto proprio nel posto sbagliato” assicurò amareggiata “e i soldi di ieri sera mi servono per … o cazzo! Che ore sono?”.
Quando scoprì che erano ormai le 10.30 entrò letteralmente nel panico, scorrazzando avanti ed indietro per quella stanzetta come se avesse a disposizione un anello di pista d’atletica. Iniziò ad affilare la spesa nella piccola credenza, incurante del fatto che fossi ancora lì con lei e che stavamo avendo una conversazione. Da un lato mi rincuorò sapere che non avrei più dovuto dirle nulla, ma quel suo atteggiamento era troppo strano, sospetto; la sua agitazione arrivò al punto in cui, per lavare le tazze e la caffettiera, mi strattonò con violenza (alla quale non mi opposi): “Levati di mezzo” mi disse, senza tante smancerie.
“Che ti prende?” le chiesi.
“Te ne devi andare” mi ordinò, senza giri di parole, ancora con le mani immerse nell’acqua. “Che cosa?” domandai, ancora più incredulo. “Hai capito benissimo. Te ne devi andare.” “Ma perché?” proseguii, insistendo “stavamo così bene e di punto in bianco mi cacci?”; mi sembravo un adolescente alla prima cotta, la dovevo smettere di rincretinirmi per una ragazza che evidentemente, capito l’andazzo, non aveva alcuna voglia di starmi a sentire.
“Questa è casa mia. Saranno anche un po’ cazzi miei?” non aveva tutti i torti, eppure quella colazione fatta insieme, quelle domande che ci eravamo rivolti fino a pochi minuti prima mi avevano dato la percezione che forse sarei riuscito a perforare quella parete stagna che aveva messo tra me e lei. Ma si era chiusa, di nuovo.
“Senti” mi avvicinai a lei, cauto, mentre scalzava la biancheria dal materasso: non avevo alcuna intenzione di tornare a casa con dei lividi che non avrebbe impiegato molto a provocarmi. “Ti chiedo scusa se ho invaso troppo la tua privacy, non era mia intenzione. Se ti ho ferito in qualche modo devi dirmelo, parleremo di quello che vuoi tu …”
Si fermò dalle sue faccende, mentre riponeva in uno dei cassetti del comò le lenzuola, si voltò verso di me e mi fissò, irritata e nervosa, per meno di cinque secondi. Tanti ne bastarono per farmi capire che non era proprio aria e avrei fatto meglio a starmi zitto. “Dammi una mano a chiudere il divano, dai” mi disse. Imitai le sue mosse, e sembrò calmarsi un attimo, in quell’atmosfera dal sapore vagamente fraterno. “Sta per arrivare il capo” confessò “e se ti trova qui c’ammazza a tutti e due” “Ma è casa tua!!!” sbraitai, incredulo. Ok, era il suo datore di lavoro, oltre che affittuario, ma questo non gli dava nessun diritto sulla vita privata delle ragazze.
“Magari … il fatto è che se ti trova qui dentro penserà che sei un cliente … e vorrà la sua parte …” ammise, ed era evidente che si vergognasse a morte. Sapevo benissimo quale fosse la sua professione, ma non immaginavo che la faccenda potesse assumere determinate dimensioni. Era come un iceberg: la parte esterna è solo un inerzia rispetto al sommerso.
Ci siamo, pensai; paradossalmente era proprio quello il momento più opportuno per dirle perché ero rimasto fuori dal locale ad aspettarla, perché avevo passato la notte con lei, perché avevo scelto lei per preparare, per la prima volta nella mia vita, la colazione ad una donna. “Non lo fare più quel lavoro, Allison” la supplicai “non c’andare più!”
Mi fissò, incredula che potessi veramente averle fatto una richiesta simile. “Stai scherzando vero?” “No” “E secondo te cosa potrei fare?” “Siamo a New York, lo troverai un lavoro più decente di questo, anche pulire i cessi della stazione … è sempre meglio che fare la puttana!”
Lo sapevo, me lo sentivo che sarei arrivato a quel punto. Avevo fatto e detto esattamente le parole che mi ero ripromesso di non usare. Ora me lo meritavo proprio di essere preso a botte e di essere cacciato da quella stanza.
Allison si buttò sul divano, accendendo una sigaretta. Sembrava quasi che le mie parole non l’avessero nemmeno scalfita. Si portò le mani a coprirsi il volto e a massaggiarsi le tempie, come se anche lei avesse la stessa emicrania infernale che stava comprimendo il mio cervello.
“Tu non sai niente Tyler … niente. Che ne puoi sapere? Male che ti va corri da mammina e papino e la situazione è risolta. Io non ho nessuno pronto a pararmi il culo”.
Voleva ferirmi, ma credo che in quel modo ferisse più se stessa, ricordando l’amara verità della sua condizione. Probabilmente aveva ragione: su di lei non avevo alcun diritto e non potevo pretendere dal giorno alla notte di toglierla dalla strada e pensare che mi permettesse di farlo stendendo un tappeto rosso al mio passaggio. Come aveva detto lei, io non sapevo niente, non avevo idea di cosa volesse dire vivere in quel mondo, in quel modo.
“Vai via Tyler Hawkins … è meglio così”.
















NOTE FINALI
Oggi non voglio tediarvi con delle note finali, immaginando già il vostro stato d'animo, visto che sarà identico al mio.

Quando ho scritto il capitolo mi è costato tanto sudore, ma credo che debba essere così la loro "relazione", il loro rapporto: un andirivieni continuo, un passo avanti e tre indietro. Ma è così che funziona nella vita vera.
Vi ringrazio per il seguito, anche se mi piacerebbe sentire molte più voci...per quanto possibile su un sito internet!!! XD
Vi ricordo che potete passare a salutarmi quando vi pare sulla mia pagina FB e su Twitter; i link sono nella mia pagina qui su EFP.

à bientot

Federica



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Capitolo 6
*** As you really are ***


When you crash in the clouds - capitolo 6





Capitolo 6

As you really are








soundtrack

Io amo il mio lavoro.
Non è una di quelle frasi che si dicono quando si è ai ferri corti con il proprio datore di lavoro e si devono stringere i denti, perché io lo amavo davvero.
Stare in mezzo a quei libri, percepire fragranze diverse da pagina a pagina, distinguere il profumo della carta nuova dall’odore forte ed acre di quella riciclata, mi dava la sensazione di essere in un mondo fatto per poche persone e di essere tra gli eletti. Conoscere tutti gli scaffali, gli autori e i testi che li riempivano mi faceva sentire veramente pieno e soddisfatto. Forse era inutile studiare all’università, visto che avevo trovato la mia realizzazione in mezzo a tutti quei volumi.
Tuttavia in un modo o nell’altro, da me ci si aspettava che prendessi in mano l’azienda di famiglia e, per quanto la cosa non mi esaltasse particolarmente, lo avrei fatto; non per compiacere mia madre, né tantomeno mio padre, il quale non sembrava peraltro ansioso all’idea di passarmi il testimone al timone della compagnia,  ma per portare a termine il mio ormai ben noto progetto di ultimare ciò che Michael, fu mio fratello, non era stato in grado di portare avanti.
Per quanto detestasse lavorare con mio padre, infatti, Michael teneva al nostro futuro, come lo chiamava lui: avrebbe solamente preferito fare tutto a tempo debito e poter avere almeno un minimo controllo sulla sua vita. Questo era quanto ci aveva lasciato scritto in mezzo appunto, accanto al suo corpo penzolante ed esanime.
Al momento però, essendo soddisfatto della mia condizione, cercavo di pensare il meno possibile al momento in cui avessi dovuto sedere al tavolo degli azionisti, puntando piuttosto a ricordare l’ordine preciso del ciclo dei Rougon-Macquart di Zolà.
Tanto perché il supplizio di avere lui e le sue chiacchiere in giro per casa non pareva essere già sufficiente, Aidan, il mio beneamato compagno di casa e di studi, era anche la mia condanna sul posto di lavoro. Certo, il nostro non era un lavoro da definirsi estenuante e, alla fine della giornata, ma anche molto prima, finivamo puntualmente per cazzeggiare bellamente in compagnia l’uno dell’altro, nascosti tra i vari scaffali, e puntualmente ripresi dal direttore della libreria.
Ma la cosa più bella in assoluto? La zona bar: quel genio del boss, infatti, s’era inventato una piccola area del negozio da adibire a zona caffè per clienti e non, dando la possibilità di poter leggere i propri acquisti già dentro il negozio, bevendo del buon caffè e mangiando delle ciambelle più che decenti. Di tanto in tanto vi organizzava anche degli eventi, come presentazioni di libri e letture di scrittori emergenti. Chapeau al capo per essere stato tanto brillante, arrivando per primo ad un’idea che è poi diventata un must per i maggiori book store d’America, naturalmente ricavandone introiti considerevoli.
Quell’area relax consentiva a noi dipendenti anche di rimorchiare, dalla ragazza alla ricerca dell’ultimo libro romantico e strappalacrime alla studentessa dal profilo più intellettuale e malamente sostenuto … e poi le consumazioni per lo staff erano gratis: cosa si può volere di più dalla vita?

Il Natale a New York era praticamente alla porte il 5 dicembre,contando che i maggior centri commerciali aprono mediamente le loro offerte speciali subito dopo Halloween ed il nostro negozio era in piena corsa al regalo, specialmente quando è domenica pomeriggio e il freddo pungente delle strade newyorkesi non permette il passeggio per le strade, ancora per poco spoglie dalla neve, aiutato anche dalla nuovissimo menù di dolci e bevande a prezzi vantaggiosi che stavamo pubblicizzando ormai da due mesi.
Il nostro compito in quella bolgia, quindi, non era solo quello di sistemare i libri, stare alla cassa o, al limite, consigliare l’acquirente ma anche fare la guardia ad eventuali furti.
Io amo il mio lavoro. Lo amavo maggiormente in giorni di promozioni intense come quello, quando il marasma e il caos regnavano sovrani, ed io riuscivo a staccarmi di dosso quella piattola ambulante di Aidan.
Ed era proprio senza di lui che ero andato a fare pausa. La caffetteria era talmente affollata che non mi era possibile applicare la mia solita tecnica per aggirare la fila, la fiumana di gente era così pressante che Genny non poteva vedere, neanche da lontano, quelli che lei riteneva essere degli occhi magnetici ed un sorriso smagliante, che di solito mi consentivano un trattamento di favore; ma, siccome il cliente ha sempre ragione, il mio cartellino identificativo non aveva alcun valore pratico in termini di favoritismi. Di quel passo avrei fatto prima ad andare ad uno dei bar di Downtown.
Quando finalmente riuscii ad avere il mio cappuccino ed un muffin al cioccolato per fortuna appena sfornato capii che effettivamente l’impresa era appena cominciata. Non avendo lo stomaco fisiologicamente adatto a consumare quelle delizie nel nostro stanzino 2x2, puzzolente di scarpe e sudore anche a 40 gradi sotto zero, avrei dovuto trovare un buco per sedermi in quella babilonia. Esclusi i tavoli con le famiglie confusionarie e le vomitevoli coppiette di innamorati, mi fiondai lì dove avevo scorto un movimento sospetto: un mio simile, un nerd topo di biblioteca, che rispondeva al nome di Marc, habitué del nostro esercizio stava alzandosi per andare via dopo aver lasciato i bicchieroni dei suoi cinque caffè sul tavolo ed aver finito la copia dell’ultimo Stephen King acquistato quella stessa mattina. Presi una rincorsa da far impallidire Hussein Bolt e, con un movimento repentino ed elastico mi accomodai nella poltroncina che dava sulla strada mostrando tutto il mio compiacimento per l’impresa riuscita con uno sguardo a tratti strafottente, a tratti divertito, a chi era rimasto in piedi. Presi la mia Moleskine e vi tuffai il muso lasciando che la penna facesse scorrere rapidamente il suo inchiostro.
Era stato da sempre il regalo di Micheal per il mio compleanno e, quando se n’era andato, avevo continuato da me questa nostra piccola tradizione. Da allora avevo preso l’abitudine di usarla come fosse il mio punto di incontro con lui, una linea diretta con il paradiso … una voce così bella non poteva essere la colonna sonora per demoni ed anime dannate …
Alle volte non sapevo nemmeno io cosa gli raccontavo: la mia giornata, la cronaca di New York e del mondo, la mia depressione, ma era anche, e soprattutto, un modo per non impazzire o forse era già andato fuori di testa e non me ne ero reso ancora conto.
“Ehi” una voce femminile mi richiamò all’ordine “ il fatto che sei solo non ti permette di tenere un tavolo per sei tutto per te … voglio dire, questo posto è pieno e non cade il mondo se lasci sedere qualcuno …”
Un momento. Io conosco questa voce. Insolente un po’ roca. No non è possibile! Cosa verrebbe a fare lei qui?
Alzai lo sguardo verso la mia interlocutrice e trovai la persona che meno mi aspettavo, ma che più in cuor mio avevo sperato di vedere, almeno nelle ultime tre settimane. Eppure non era come la ricordavo, era un’altra delle sue mille facce; un’altra lei, quella a cui pochi, forse solo io qui a New York, avevano avuto modo di conoscere. Allison. Il suo volto pulito, senza quella orribile matita carbone a nascondere i suo bellissimi occhi verdi, ora davvero brillanti, a darle quell’aria dura e vagamente volgare, ed i capelli ordinatamente raccolti in un semplice chignon da ballerina.
Sembrava una di quelle ragazzine appena uscite dalla lezione di danza classica, corpicino minuto, a confermare i miei sospetti sulla sua reale età, e tutta felpata pulita e precisa, rigorose anche nell’abbigliamento.
Mi domandai quanti altri lati nascosti possedesse quella ragazza e quanti avrebbe rivelato o tenuti nascosti.
Cercai di farle notare quanto fossi felice di vederla dopo che mi ava cacciato da casa sua ed io senza protestare accusai il colpo e me andai strisciando con la cosa tra le gambe. Eppure guardandola attentamente notai che tra i due la più elettrizzata da quel nostro incontro/scontro fortuito fosse proprio lei. Ma non era stata proprio lei a cacciarmi dal suo appartamento?
“Che … che ci fai qui?” chiesi balbettante tornando a percepire quel disagio e quell’imbarazzo che avevo sentito ad averla al mio fianco la prima volta, nonostante tra noi ci fosse una certa distanza di sicurezza, imposta dal tavolo di un bar, e fossimo circostanti da una folla chiassosa ma decisamente diversa da quella che frequentava il suo locale.
“Ho un po’ di tempo libero” rispose lei quieta “così ho deciso di farmi un giro per la New York bene … a dir la verità pensavo di trovare Aidan qui, non te. Così mi aveva detto Veronica”.
Aidan? Cosa poteva mai volere lei da Aidan. Sapevo che i ragazzi erano tornati in quel locale almeno un paio di volta da quella sera ed io mi ero costantemente  e categoricamente rifiutato di metterci di nuovo piede, quasi a voler prima avere una piano di guerra e poi agire e sferrare l’attacco finale contro le forze del male. Allo stesso tempo però conoscevo bene le serate di Aidan perché, pur non volendo, lo avevo sentito lamentarsi del fatto che nemmeno in quella bettola fosse riuscito a spuntarla con qualcuna. Ergo, non poteva essere una questione di lavoro. Altri giri loschi? Me ne sarei certamente accorto se avesse cominciato a fare uso di sostanze illegali … anche perché probabilmente non sarebbe tornato a casa, ma sarei dovuto andare a cercarlo per ospedali ed obitori.
“Aidan?!” chiesi, rimanendo sul vago, senza mostrare la mia perplessità a riguardo “effettivamente anche lui lavora qui. Se vuoi lo chiamo”. Cercai di essere conciliante, anche se non mi andava a genio che si vedesse con lui; primo, perché a lui avevo messo in chiaro le cose e non tolleravo che la sfruttasse e due, perché stupidamente la consideravo mia; a quale titolo, dovevo ancora scoprirlo.
“No” si affrettò a rispondere “non ce n’è bisogno. Lo cercavo solo in quanto tuo amico”. Come diceva Cartesio? Ah, sì, sogno o son desto?. Per quanto mi sentissi inorgoglito dalla sua affermazione dovevo rimanere con i piedi per terra e non farle capire quanto fossi felice che, per qualche motivo, mi stesse cercando.
“Ah sì?” chiesi, fintamente sorpreso. “Sì” rispose affermativamente, abbassando lo sguardo, come se avesse timore di una tale rivelazione. Avrei voluto tenderle la mano, farle capire che le ero vicino e che con me non aveva nulla da temere. Ma capii le sue paure, soprattutto alla luce dei nostri trascorsi; ancor di più, doveva capire che non ce l’avevo con lei per come ci eravamo salutati l’ultima volta: certo c’ero rimasto male, ma non potevo biasimarla, non si può pretendere di essere sconosciuti ed essere accolti da subito con un tappeto rosso e grandi onori, il rispetto e la fiducia devono essere guadagnati a piccoli passi e gesti. Ed era proprio quello che avevo intenzione di fare, mosso a nuova speranza da quell’incontro.
“Avevo bisogno di parlarti e stavo aspettando solo di avere del tempo a disposizione per venire a cercarti. Devo chiederti scusa … per come mi sono comportata quella mattina a casa mia …” si era fatta piccola nel suo posto a sedere, finendo quasi per sotterrarsi letteralmente dalla vergogna per quanto aveva fatto. Ma non era stato commesso nessun delitto e, per quanto potessi essermela presa allora, era passato un mese ed avevo smaltito la rabbia, o qualsiasi cosa fosse, e dovevo farle capire che non c’era nulla da perdonarle. Ma non mi guardava, restava fissa con lo sguardo verso il basso, probabilmente ponendo la sua attenzione verso le mani che non la smetteva di torturare, almeno da quanto si poteva distinguere dal movimento scomposto delle sue braccia.
Raccolsi quelle poche briciole di coraggio e sfrontatezza che avevo e le incanalai tutte verso il mio braccio, tendendolo verso di lei. “Allison” la chiamai, ma senza successo “Allison!”. Finalmente mi rivolse lo sguardo e notai quanta sofferenza e speranza vi custodisse, ed erano dilatati ma alteri, colmi di lacrime che aveva ricacciato indietro e che si erano fossilizzate, appesantendo il suo cuore di rancore e malinconia. Chiedeva aiuto e tutta la comprensione che sapeva avevo da offrile, essendomi già proposto una volta. “Non è successo niente, io non ce l’ho con te, capito?”.
Annuì, tirando su col naso e imponendo alle sue lacrime di tornarsene da dove erano venute per l’ennesima volta: mi chiedevo per quanto tempo avrebbe retto nella strenua ostinazione di dover modulare e tenere a bada le sue emozioni. Timidamente prese la mia mano con le piccole mani, con un gesto che mi ricordava la dolcezza disarmante dell’infanzia, quando i bambini stringono le grandi mani adulte con le loro dita minute, scoprendo la novità di quel contatto così speciale. Il mio palmo avrebbe voluto spingersi ben oltre la vicinanza scontata di una stretta di mano: correre su per il suo volto ed accarezzarlo, rinvigorire le sue spalle, scuotendola da un torpore che l’aveva resa schiava di uomini senza scrupoli. Una cosa avevo capito con lei: aveva bisogno dei suoi tempi, probabilmente aveva bisogno di scoprire di nuovo il mondo e di riprendere confidenza con le persone; sapevo che ci sarebbero stati momenti in cui avrebbe mollato la presa, in cui avrei dovuto correrle di nuovo incontro, ma aveva accettato la mia mano e non avevo intenzione di tirarmi indietro. Quella non era una presa come un’altra, era l’attracco ad un porto sicuro, l’inizio di un qualcosa di importante, per lei e per me. Perché avevo di nuovo una maratona in cui valesse la pena di gareggiare, della quale non conoscevo il tragitto, ma di sicuro sapevo la destinazione, e non era l’infinito.



Michael, fratello mio, non avertene a male se do la precedenza a lei, piuttosto che a te. Ti voglio bene e non ti dimenticherò mai, ma lei è viva, ed io sono vivo con lei, ed è l’unico modo che conosco al momento per distruggere i miei fantasmi. Ti voglio bene e non ti dimenticherò mai, ma tu sei uno di questi ed io devo vivere. Se non per me, almeno per coloro che a me ci tengono. Forse non tu non la vedevi così, ma c’è un mondo di persone per cui vale la pena di vivere e non è per quei due o tre bastardi che ci mettono i bastoni tra le ruote che dobbiamo smettere di combattere per ciò in cui teniamo. Io vado a vivere Michael, ci sentiamo quando avrò buone nuove.



Questa fu l’ultima nota scritta sul mio diario prima di accorgermi che si era ormai fatto tardi e la mia pausa era scaduta da almeno 10 minuti; dovevo solo ringraziare la folla di quella domenica se il direttore non si era ancora fatto vivo per tirarmi le orecchie e trascinarmi al lavoro a suon di pedate. Allison era rimasta al mio fianco, silenziosa, bevendo il suo caffè e mangiando una ciambellina. Io nemmeno mi ero comportato tanto diversamente: dopo il nostro simil chiarimento avevo avuto poco da dirle e non volevo compromettere il nostro rapporto, già di per sé abbastanza precario, con frasi da mordersi la lingua a sangue come avevo fatto in precedenza. Per cui, aspettando un buon argomento di conversazione che non sarebbe comunque piovuto dal cielo mentre noi restavamo in silenzio, io mi immersi di nuovo nella scrittura e lei rimase pensierosa di fronte a me. Rendendomi conto dell’orario di break altamente sforato, mi alzai dal tavolo radunando quelle quattro cianfrusaglie che avevo portato con me: “Devo tornare al lavoro” annunciai, esagerando forse con un tono di voce avvilito “magari potremmo rivederci qui nei prossimi giorni se ti fa piacere” proposi “che ne dici?”.
“Posso venire con te in libreria ora?” mi supplicò “faccio un giro tra gli scaffali e non ti do fastidio, prometto!!!”. Era così strano sentirla parlare a quel modo, non la ricordavo così docile e remissiva; mi ricordava la piccola Caroline, quando aveva voglia di stare con me ed io dovevo studiare e mi supplicava affinché al facessi restare con me: c’era lo stesso tono zuccherino nella voce, lo stesso sguardo adulatore ed ammaliatore, ma senza quella malizia che la contraddistingueva. Finalmente si era rivelata per quello che era veramente, una ragazzina cresciuta per forza, a cui le miserie del mondo avevano reso la bocca amara e che manteneva dentro di sé la voglia di tornare a giocare; bastava solo che qualcuno le mostrasse dove fosse il parco giochi.
Era difficile non volerle bene e non sorridere davanti a quel visino contorto in una smorfia di implorazione, che divertiva anche lei; se avesse aggiunto un “ti prego ti prego ti prego!!!” cantilenando, l’avrei ribattezzata Caroline due - la vendetta, probabilmente era quello il motivo che mi aveva spinto come una calamita verso di lei: un’attrazione a pelle, un vincolo quasi di sangue.
Scoppiai in una risata che lasciava intendere una risposta affermativa e mi diressi verso la mia area di libreria, lasciando di mancia alla cameriera che puliva i tavoli un misero occhiolino. Non ero sicuro di conoscerla, ma Pat alla cassa della libreria garantiva che tutte lì al bar mi sbavassero dietro, ragion per cui avevo ottenuto il massimo risultato con il minimo sforzo.
“Ma fai sempre così con le donne?” mi chiese Allison mentre mi seguiva su per le scale che portavano alla sezione Letteratura Europea. “Così come?” domandai. “Lo stronzo. Le illudi con uno sguardo o un sorriso … magari lei ti ha anche lasciato il numero da qualche parte … quando invece ci scommetto quello che vuoi che tu non sai nemmeno il suo nome!” “Beh, ci hai preso” risposi onestamente “ma non per questo sono uno stronzo. Pensa alla gente che frequenti tu piuttosto. Se io sono stronzo, cosa sono loro?” Ecco che me ne uscivo con un’altra delle mie cazzate infelici, roba da prendermi a calci e rendermi neutro definitivamente: aveva ragione lei, ero uno stronzo. Ma, sorprendendomi piacevolmente non si arrabbiò; probabilmente era alticcia, o semplicemente comprese che nella mia espressione non c’era niente di offensivo nei suoi confronti.
“Quelli sono maiali, è leggermente diverso … comunque, e così tu lavori qui?” “Sì. Letteratura europea, la mia preferita”. Andavo tremendamente fiero della mia postazione, soprattutto quando qualcuno mi chiedeva qualche consiglio ed io potevo sfoderare tutta la mia conoscenza a riguardo, oppure quando dovevo sfoderare gli accenti stranieri per pronunciare i titoli dei libri; non parlavo né francese né tedesco, anche se il mio curriculum scolastico a quanto pare riporta ben 8 anni passati a studiarli, ma il mio accento, enfatizzato a dovere, faceva sempre effetto.
“Anche a me piace, Baudelaire è il mio poeta preferito. Per la prosa invece non ho nessuno in particolare, forse Oscar Wilde …”
“Davvero?” chiesi, sinceramente sorpreso “non ti facevo una lettrice così impegnata!” “Quando ancora andavo al liceo in letteratura avevo tutte A e non dovevo impegnarmi particolarmente … li vedi questi libri?” mi disse, indicando la mensola dedicata alla Austen e alla Bronte “letti tutti dagli 11 ai 14 anni. E questo” disse prendendo in mano il tomone del Signore degli Anelli di Tolkien “fatto fuori a 13 anni in 3 mesi. Ero una delle frequentatrici più assidue della biblioteca della Contea ad Indianapolis”. C’era una punta d’orgoglio nelle sue parole, un vanto neanche troppo nascosto per aver fatto qualcosa di buono e normale nella sua vita. Si sentiva bene in mezzo a quegli scaffali e faceva avanti ed indietro tra le pile di libri come un bimbo dentro un negozio di giocattoli. Conoscevo una sola persona al mondo con la stessa febbrile passione per i libri: me stesso; non era quindi così difficile per me capirla ed ero ben lieto di aver trovato un punto comune da cui partire alla scoperta reciproca.
Eppure c’era ancora qualcosa che non andava, una malinconia di fondo che persisteva. Si fermò quando vide un libro in particolare: lo prese in mano ed iniziò a sfogliarlo, accarezzandolo pagina per pagina, divorando le parole ad una ad una, come si fa sempre quando si cerca la propria citazione preferita da un testo. Erano i Promessi Sposi, dell’italiano Manzoni. “Questo è stato l’ultimo libro che ho letto … ma non l’ho mai finito” confessò con quella ormai tipica punta di inquietudine mista a rabbia che caratterizzava ogni cosa dicesse “ricordo ancora l’ultima pagina che ho letto: Addio monti sorgenti dall'acque … Non ho mai saputo se Renzo è riuscito a sposare Lucia”.
Ebbi quasi voglia di piangere per lei, che di lacrime non c’era verso che ne versasse. Aveva pronunciato a memoria quelle poche parole, trascinando con sé quella carica emotiva che il testo necessitava, come se fosse stata lei a dover addio alla sua casa, alla sua famiglia e dover voltare le spalle ai luoghi della sua infanzia e dei suoi affetti, lasciando che il dolore scavasse goccia a goccia dentro di lei. Forse aveva dovuto farlo davvero.
Mi avvicinai a lei cauto, capendo quanto personale fosse quel momento per lei. Ho sempre considerato sacro il rapporto tra un lettore ed il proprio libro, pensato che ogni pagina avesse il potere di racchiudere in sé tutte le emozioni ed i ricordi del momento, impreziositi da dettagli che il tempo abbellisce, rendendo il passato roseo alla nostra memoria. Probabilmente essendo stato l’ultimo, portava con sé ricordi poco piacevoli: non avevo idea di cosa avesse passato, né come era finita in quel giro poco rispettabile, ma certamente non era per divertimento che si era data a quella vita, lasciando famiglia e affetti. Eppure anche quel ricordo, potenzialmente doloroso, si era trasformato in un dolce souvenir.
Lasciai che le mie mani si fondessero lentamente con le sue, carezzando la loro pelle delicata e diafana, riscaldandole dal gelo che non erano ancora riuscite a smaltire. Chiusi il libro tra i nostri palmi ed attesi che alzasse lo sguardo verso di me. Quegli occhi mi parlavano di un mondo che con lei avevo conosciuto, fatto di miseria ed ignoranza, ma anche di uno che invece conoscevo bene, pieno di lussi e sprechi e che forse aveva conosciuto anche lei e di cui era stata privata.
“Tienilo” sussurrai, sorridendole “non c’è modo migliore per scoprire come va a finire un libro che leggerlo”
“Questa non è una biblioteca Tyler” affermò amareggiata “i libri non si possono prendere così. E sai benissimo che i soldi mi servono per ben altro”
Almeno qualcosa di lei ora la sapevo; non potevo dire di conoscerla quella sì che sarebbe stata una parola grossa ma era già u’inizio. Sapevo che adorava leggere, passione che evidentemente condividevamo e che con il suo nuovo lavoro aveva dovuto rinunciarvi, perché come giustamente dicevano i sempre pragmatici latini le parole volano, sono altre le cose che riempiono lo stomaco. Certo, non di solo pane vive l’uomo, qualcuno avrebbe potuto obiettare, ma che te ne fai di un libro quando stai morendo di stenti?! Ma si vedeva che quella rinuncia le costava parecchio, soprattutto ora che si trovava in quello che era il paradiso, per gente come noi, e forse per la prima volta si rendeva conto del male che aveva procurato a se stessa; non per quella rinuncia in sé, quanto piuttosto per essersi ridotta a quello stato, mentre oggi forse avrebbe potuto essere già al college o all’ultimo anno di liceo, a scattare foto con i compagni di una vita e a fare progetti per il futuro.
Ma aveva afferrato la mia mano, ed io ero il suo contatto nuovo con quel mondo che aveva perso, o forse non aveva mai conosciuto. Non saprei dire se sia un mondo perfetto, ma di sicuro migliore dell’inferno in cui già bruciava.
“E secondo te che ci sto a fare io qui? Vieni con me” le dissi trascinandola mano nella mano tra gli scaffali del quell’enorme store. La costrinsi ad attingere a quei ripiani e buttare dentro una piccola sporta di lino tutto quello che voleva: tra i mille benefici del lavorare in quel posto c’era anche lo sconto su tutti i volumi; della restante parte non me ne sarei accorto sin quando lo stipendio non fosse arrivato smezzato a fine mese. Ma succedeva così ogni mese, quindi niente drammi.
Così Allison fece incetta di volumi, dai classici alla contemporanea dai trattati filosofici alla narrativa per ragazzine. “Ho un po’ di arretrati” si giustificò, arrossendo alla mia faccia attonita davanti ai 30 libri che aveva scelto “ed io sono una lettrice incallita, non smetto fin quando non leggo la parola fine”. A quanto pareva, avevamo un’altra cosa in comune: non conoscevamo le mezze misure.
Mentre per tutte quelle persone che gironzolavano distratte era solo l’ennesimo pomeriggio di pioggia e noia a New York, per lei sembrava essere davvero la vigilia di Natale.
“Però poi me li presti … anzi” le proposi, quando passai alle casse per farmeli addebitare “perché non vieni qui a leggerli? Ti prendi un caffè e quando sono in pausa ci facciamo una chiacchierata …”
“Non so se posso …”
Eccola di nuovo che si tirava indietro; ma io imparo in fretta, dispettosa e diffidente Allison, e so come affrontarti. “Ma si che puoi, piccola come sei tra gli scaffali ti nascondi benissimo e di norma durante la settimana posso concedermi molte più pause … e non costringermi a passarle tutte con Aidan, ti prego! E poi scusa” le domandai “non avevi detto di avere qualche giorno libero?”
“Sì” confermò, quasi stupita che lo ricordassi, o che fossi stato anche ad ascoltarla; “sì” rispose forse più a sé stessa, persuadendosi probabilmente di star facendo la cosa giusta “direi che si può fare. Però ora è meglio che vada. Non conosco bene questa zona di New York ed è meglio che mi muova quando c’è ancora parecchia gente in giro …”
“Suona strano” la canzonai “detto da una che se ne va in giro per il Bronx tutta sola”. Per fortuna rise anche lei.
“Ma mica per paura scemo” mi rimproverò divertita, dandomi una botta sulla spalla. Cavoli se faceva male, menava davvero forte, dovevo ricordarmi di non provocarla mai “è solo perché non so orientarmi bene”.
Fu a quelle parole che mi si illuminò la lampadina e all’omino che ogni tanto di ricordava di abitare nel mio cervello venne un’idea potenzialmente geniale, se lei avesse reagito bene: questa era la vera incognita. Guardai l’orologio e mi accorsi che erano ormai trascorse qausi due ore dalla mia pausa caffè e che tra vreve avremmo lasciato la libreria ai ragazzi dei turno serale.
“Ascolta, se mi aspetti tra una mezz’oretta finisco il mio turno e sono libero. Ci mangiamo qualcosa in un posticino carino dietro l’angolo e poi ti accompagno io a casa” le proposi “che ne dici?”
Aspettai la sua risposta con il fiato sospeso, come se da questa dipendesse la mia esistenza e quella del mondo intero; non avremmo interrotto di certo la nostra conoscenza, semmai avesse risposto con un no, non l’avrei mai permesso, ormai c’ero troppo dentro, ma certo sarebbe stato bel un colpo, considerando il nostro muto patto di aiuto ed amicizia che c’eravamo scambiati quel pomeriggio.
Lei sembrò presa in contropiede dal mio invito e rimase, credo, un attimo senza fiato. Anch’io mi resi conto in quel momento di essere rimasto a corto di ossigeno ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a far ripartire la mia respirazione, almeno fin quando lei non mi avesse risposto.
La vidi prendere un grosso respiro ed i suoi muscoli facciali andarono a rilassarsi e comporsi in un’espressione serena “Sì, assolutamente”.






NOTE FINALI

Per la prima volta da quando ho iniziato questa storia non sono soddisfatta per nulla del mio lavoro. Forse avevo bisogno di più tempo, forse ho spero troppo tempo in discorsi inutili e ripetitivi.
Ditemi voi cosa ne pensate, perché ho bisogno di rivedere la mia scrittura e solo con il vostro aiuto posso farlo. Oggi però non voglio vedervi con musi tristi...Allison e Tyler si stanno dando una possibilità, si stanno rivelando l'un l'altro per cio che ... sono veramente...


à bientot


 Federica

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Capitolo 7
*** Only Time ***


When you crash in the clouds - capitolo 5

















Capitolo 5

Only Time


soundtrack

Mi lasciai alle spalle quell’appartamento e presi la strada di casa. Entrai nei sotterranei di New York distrattamente, fin quando non misi piede dentro i vagoni della metro. Non c’era tanta gente a quell’ora e trovai posto a sedere senza essere costretto a cederlo a nessun anziano o donna gravida della situazione.
Mi guardai un po’ intorno e per la prima volta prestai attenzione a tutti i passeggeri. Mi chiesi chi fossero, quale fosse la loro occupazione e come fosse la loro vita. Senza quella notte fuori dall’ordinario probabilmente non avrei mai fatto quel viaggio, né mi sarei posto tante domande sulle persone che mi circondavano, cercando ed osservando ogni minimo dettaglio. La realtà è che sotto il cielo, sotto i grandi grattacieli della Grande Mela siamo tutti uguali, al di là delle nostre vite e dei nostri conti in banca. In fondo, pensai, se non avessi l’avessi incontrata in quel bar, chi me l’avrebbe detto che Allison era una stripper?
Mi sentivo di merda. Avevo ricevuto una grande batosta, peggiore delle delusioni d’amore, quasi peggiore del lutto. Avevo ricominciato a lottare per aiutarla, per dimostrare a me stesso che valevo ancora qualcosa, ed invece avevo fallito miseramente, arrendendomi alla prima difficoltà. Per un momento avevo persino preso in considerazione l’ipotesi di ritornare sui miei passi, ancora, ma poi compresi che avrei fatto meglio a rassegnarmi; lei non voleva il mio aiuto, questo era quanto, ed io non avrei dovuto più interferire con lei, visto che evidentemente avevo già osato abbastanza.
Aiutato dalla musica che passavano alla radio nella metro, finii con il deprimermi ancora di più, tornando ad essere il Tyler che tutti conoscevano e che non avrebbe fatto male ad una mosca, innocuo perché perfettamente passivo.

Tornando a casa mi aspettavo di trovare Aidan con la mazza da baseball tra le mani, pronto a scatenarmi addosso l’ira degli dei ed invece, a quanto pareva, il fatto che fossi, secondo lui, andato a letto con Mallory, mi perdonava ogni cretinata. Mallory … dovevo abituarmi a chiamarla così, perché per me doveva essere solo una troietta, conosciuta in un locale di spogliarelliste, convertite all’occorrenza in meretrici dei bassifondi da un datore di lavoro/aguzzino.
“Allora Don Giovanni?” mi si buttò addosso alle spalle “Hai consumato fino all’ultimo centesimo per quella sventola?! Di’ la verità … appena ha visto il tuo pacco … ti ha proposto il pacchetto convenienza …” non risposi alle sue battute che per la prima volta dall’inizio della nostra amicizia mi sembravano squallide; avevo sempre considerato il suo umorismo piuttosto demenziale e a volte scontato, ma non mi aveva mai irritato come in quel momento. Non dovevo però prendermela con lui, ero io ad avercela con il resto del mondo, di nuovo, come una volta.

Come una volta … sembrava passata un’eternità invece erano passate solo 24 ore dall’ultima volta che mi ero sentito in quel modo.
Per il resto della giornata non avevo programmi, né avevo intenzione di uscire con Aidan e i suoi amici in serata; con la fortuna che mi ritrovavo sarebbero tornati di nuovo a fare danno in qualche locale a luci rosse. Me ne sarei rimasto a casa, o magari sarei andato da mia madre e mia sorella, la cui compagnia sopportavo più di quella dei ragazzi della mia età.
Entrai in doccia avendo ancora nelle orecchie la voce di Aidan che cianciava a macchinetta contro le mie orecchie; avrebbe dovuto fare il conduttore di televendite  o darsi alla radio o, perché no, l’avvocato: tanto la dote di raccontare balle a profusione ce l’aveva innata.
Mi rifugiai sotto il gettito d’acqua calda e, tra i fumi del vapore, cercai di lavare via ogni traccia della serata precedente: il fritto del cinese sotto casa, l’alcol e il fumo. Ma c’era un’ essenza che non andava via, nonostante i litri d’acqua e di bagnoschiuma, a dispetto della spugna passata su e giù per la schiena ed il petto; era come annidato nei condotti nasali e giù, fino ai polmoni. Era insolente quel profumo, come lei, sapeva di nobiltà, ma anche di miseria: dolce, intenso e brutale.

Ancora con l’asciugamano avvolto alla vita mi lasciai cadere a peso morto sul mio letto, trovando una superficie comoda, rispetto a quella tavola per le torture su cui avevo dormito la notte precedente. Era una sensazione libidinosa starsene lì, con il rilassamento provocato dalla doccia che si accumula sulle caviglie e come zavorra impedisce anche solo un singolo passo. Il riscaldamento centralizzato del nostro palazzo non mi costringeva nemmeno a vestirmi, tanto ai 25 gradi ci si arrivava tranquillamente, e dunque perché fare tanta fatica inutile. Chiusi gli occhi e cercai al buio le mie sigarette. Ne accesi una e aspirai fino a riempire tutto il volume polmonare. Ero in un limbo di pace assoluta, ma non bastava per essere felici, per quello esisteva già il paradiso.
Non volevo finire in analisi, in tanti avevano provato a farmi vedere da psicologi e strizzacervelli vari nell’ultimo anno, ma fortunatamente non c’erano riusciti; forse questa volta ci sarei andato di mia spontanea volontà. Mi sentivo come intrappolato nel vuoto più assoluto, in balia del vago e del nulla, dell’oblio e del disinteresse. Chissà se anche Michael si sentiva così prima di presentarsi da recluta volontaria di fronte alla morte.
Ma io no, non l’avrei mai fatto; per paura, ma soprattutto per egoismo. Mallory aveva ragione: sarei rimasto comunque il figlio di un milionario, che faceva un viaggetto nei bassifondi solo per farsi bello con gli amici. Facile fare il proletario con i soldi, ripeteva sempre il prof di filosofia a lezione. Ma allo scadere della mia mezzanotte, il bel romanzo avrebbe scritto la parola fine ed io sarei stato introdotto nei salotti bene, a discutere di politica e finanza finché fossero durati rhum e sigari.

Mentre tentavo di lasciarmi trasportare dal sonno sentii il letto sobbalzare ed è solo per le mie forze inesistenti che Aidan non si ritrovò all’ospedale.
“Allora?” mi chiese. “Cosa?” chiesi di rimando. “Che hai combinato stavolta? … e non rispondere niente perché ti conosco Tyler, quest’aria alla Jim Morrison-barra-James Dean ce l’hai solo quando combini qualche cazzata sentimentale delle tue. L’ultima volta è stato per Monica, la ragazza di scienze politiche: ci sei andato a letto una volta ed era già la donna della tua vita. E come è finita? La sera dopo sei andato a casa sua per uscire e l’hai trovata a cena con genitori e fidanzatino venuti direttamente dal Connecticut. Chi è stavolta?”
“Che te lo dico a fare?” risposi, ancora ad occhi chiusi, con la speranza che andasse via “tanto è una storia già chiusa”. Mi sembrava inutile continuare a rigirare il coltello nella piaga, quando mi sembrava più che evidente quale dovesse essere il mio posto.
Percepii il letto scuotersi sotto i movimenti repentini e maldestri del mio compagno e, così, pensai: addio sogni! Aprii gli occhi e lo vidi che, in ginocchio sul letto mi fissava, con quella sua faccia da caricatura: “Ti prego … non me lo dire: è per quella sciacquetta di ieri sera. Ma come devo fare con te?”
“Non è come credi” mi affrettai a discolparmi. “Ah no? E com’è sentiamo?” “Non è amore” no, su quel fronte potevo stare tranquillo. Le sarei saltato volentieri addosso almeno in un paio di occasioni, quello sì, ma erano più impulsi ormonali che vicende sentimentali. “È che è immersa in un mare di merda” spiegai nella maniera più semplice possibile “e vorrei aiutarla”.

“Tyler, Tyler, Tyler, Tyler …” cantilenò, segno che stava per partire una di quelle paternali del tipo amico fidati di me che ho una certa esperienza, quando la sua storia più lunga è durata una settimana ed eravamo al liceo e il suo gesto più caritatevole è stato portare la spesa della nonna su per le scale previo pagamento.
“Possibile che debba ripetertelo ogni volta …” ogni volta? In quali altre occasioni ho tentato di far uscire una ragazza da un giro di prostituzione? “… fare il buon samaritano non porta mai a niente di buono. Non puoi metterti a fare il paladino della giustizia solo perché per una volta te l’hanno sbattuta in faccia e poi ti hanno chiesto il conto. Io non ci vengo in galera con te perché il principino ha bisogno di provare emozioni forti!” Non l’avevo mai visto così alterato; il suo volto era spiritato ed era, sì, per la prima volta da quando lo conoscevo Aidan era veramente incazzato. Certamente, però, non aveva ben chiara la situazione.

“Ma che cazzo … ma che cazzo stai dicendo Aidan?” urlai, alzandomi finalmente dal letto. Avevo appena smesso di fumare ma avevo un disperato bisogno di nicotina, i miei nervi imploravano pietà. “Tu davvero credi che io ci sia andato a letto?” “Ah no?” domandò, quasi sbalordito che io potessi aver davvero solo dormito con la ragazza del club. “No” sentenziai, freddo e severo “non ho alcuna intenzione di finire dentro per pedofilia, visto che probabilmente era anche minorenne … e comunque è davvero in un brutto giro, e voglio aiutarla”.
“Tyler” mi riprese lui, sommessamente, rendendosi conto di aver esagerato poco prima e pentendosi di avermi creduto capace di certe bassezze “vacci piano. L’ho capito, sai, perché vuoi aiutarla; non pensare che non ti conosca. Ma non cacciarti nei guai amico, perché mi conosco e so che alla fine finirei col ficcarci il naso anch’io … perché a quella tua lurida pellaccia ci tengo più di te”
Lo presi e lo abbracciai di slancio. A suo modo mi aveva fatto la più straordinaria dichiarazione d’amicizia che ci si potesse aspettare soprattutto da un tipo come lui. Ma purtroppo anche se avessi voluto non avrei potuto fare nessuna pazzia non avevo né mezzi né forze per combattere da solo quella battaglia. Lei non si voleva aiutare io non avrei potuto farlo anche per lei. Goffamente cercò di divincolarsi e si allontanò da me, scuotendo un po’ la testa.

Eravamo due pazzi, ma proprio non ce la facevamo a stare lontani l’uno dall’altro. “Stai tranquillo” gridai, mentre infilava le cuffiette e si spaparanzava sul divano “No ti farò finire in galera!” “Mi augurò che queste non siano le cosiddette ultime parole famose …”. Ridemmo entrambi, liberandoci della tensione che si era scatenata con la nostra discussione: non eravamo abituati a urlarci reciprocamente le cose in faccia, e quando accadeva faceva sempre male.
Mi stesi di nuovo sul letto e spensi la sigaretta che avevo acceso, non ne avevo più bisogno.

 

Quando le chiesi se c’era da mangiare a sufficienza per un’altra persona quella sera, mia madre fece davvero fatica a nascondere il suo entusiasmo per quel figlio che, di sabato, decide di passare la serata in famiglia piuttosto che con gli amici.
Ma lei sapeva che i suoi figli si erano sempre distinti dal resto della marmaglia di ragazzi, forse proprio perché erano i suoi figli. Da piccoli non ci portava mai al mare, o in piscina, quando il caldo rendeva le strade di New York impraticabili, bensì nei musei, dove l’aria è mitigata per la miglior conservazione delle opere. E così le nostre ninna nanne non era filastrocche, ma sinfonie e sonate al pianoforte.
Difficile stupirsi dunque se due dei suoi tre figli fossero venuti fuori geni; prevalentemente incompresi, ma pur sempre geni. Ma a me, il figlio cadetto e per giunta arenato nella mediocrità delle sue attitudini, aveva sempre riservato un trattamento identico, se non più adulto. Parlavamo tanto, io e lei, sin da quando, ancora adolescente, avevo timore del mio futuro e lei tentava di spiegarmelo introducendomi alla filosofia. Lei diceva che avevo un talento straordinario, la capacità rara di conoscere le persone e capirle, e la maturità calibrata per indirizzarle e consigliarle nei loro percorsi.
Mi aveva chiesto aiuto quando la piccola Caroline aveva iniziato ad essere esclusa a scuola dalle compagne, ed insieme combattevamo quella battaglia da almeno 5 anni; mi aveva chiesto sostegno quando disperatamente voleva salvare un matrimonio a cui davvero teneva, ma in cui era rimasta da sola. Eppure non lo avevamo capito Michael, con lui avevamo solo assistito alla sua disfatta silenziosa ed improvvisa. Ma lei continuava a credere in me, e non avevamo mai smesso di parlare, anche quando il dolore portava via la voce e le parole.
Per quel motivo non avevo timore nel parlare del “Don Hill”, il locale dove avevo conosciuto Mallory. D’altronde, non si avrebbe dovuto stupirsi nel sapere che tipo di vita conduceva suo figlio, visto che ormai abitavo da solo e non certo in un monastero. Quando mi ritrovai a pensare che mia madre era un’assistente sociale rimuginai sulla fortuna sfacciata che avevo avuto, e che per una volta il destino aveva deciso di essere benevolo nei miei confronti.

“Che ti serve Tyler?” mi chiese divertito Les, il nuovo marito di mia madre. Era un brav’uomo Leslie, di questo dovevo dargliene atto, ma non ero sicuro al cento per cento che mia madre ricambiasse il suo affetto. Quello che avevo avuto modo di vedere nei quattro anni precedenti era il suo grande amore per lei, la cura, la dedizione ed il supporto che non mancava mai di dimostrarle; e forse era proprio quello il motivo che l’aveva spinta ad accettarlo nella sua vita. Inoltre, era un’ottima figura paterna per Caroline, il che non guastava.
Mio padre era stato capace di sacrificare e distruggere, con le sue stesse mani, la famiglia che aveva creato. Fino alla nascita di mia sorella eravamo stati una famiglia piuttosto idilliaca, con qualche litigio ogni tanto; ma si sa, le discussioni non possono fare che bene. Ma poi, pian piano, il nostro bel castello di sabbia ha iniziato a sgretolarsi e mio padre, probabilmente pensando di aver ottemperato ad ogni suo dovere coniugale e genitoriale, ha iniziato a metterci da parte, in favore del mero profitto finanziario. E così mia madre decise di non essere più la signora Hawkins anche perché, ad esserlo o meno, non faceva più tanta differenza: in ogni caso non avrebbe avuto un uomo al suo fianco.

“Perché?” domandai, rimanendo interdetto alla sua domanda.
“Da che ti conosco” rispose “non ti ho mai visto muovere un muscolo per fare nulla in casa, figuriamoci sparecchiare con tua madre …”. Effettivamente non aveva tutti i torti, non ero mai stato avvezzo a fare nulla in casa, ma non ero esattamente un impedito.
“Non essere così severo, tesoro” lo rimproverò giocosa mia madre “adesso vive da solo, ha dovuto imparare ad arrangiarsi. Bravo il mio ometto!!!”. Per lei ero sempre il suo ometto, quello che finiva sempre vittima degli scherzi idioti del suo fratello maggiore, quello a cui si sentiva ancora autorizzata, nonostante i 22 anni suonati, a scompigliare ancora i capelli. Cercai come sempre di divincolarmi dalle sue coccole, ma non vi riuscii. Feci una smorfia compiaciuta a Les, mentre lui andava a godersi un film davanti allo schermo piatto del salone, e tornai ad aiutarla. Caroline, appena finito di mangiare, era scappata a disegnare in camera sua al piano superiore.

“Come va con la scuola?” domandai a mia madre. Non avevo bisogno di specificare, sapeva benissimo che mi riferivo alle stupide compagne di classe della mia sorellina. Purtroppo alla piccola Caroline capitava di estraniarsi di tanto in tanto, sia a casa che a scuola, fin da piccolissima; avevamo provato a farla seguire da psicologi vari, ma tutti ci avevano rassicurato che non fossero eventi correlati a traumi o problematiche varie ed andavano assecondate, fino a quando col tempo non fossero scomparse. Finché rimaneva in  casa il suo “problema”, che non consideravamo tale, non si manifestava praticamente mai, tranne che in poche occasioni, tutte mentre era davanti alle sue tele; a scuola però, nonostante la direttrice avesse più volte rassicurato mia madre sul comportamento ineccepibile delle bambine e sull’atteggiamento altamente professionale del corpo insegnanti, i suoi “momenti”, come li chiamava lei, erano quasi all’ordine del giorno, amplificati dalle prese in giro delle pseudo – amichette e dai rimproveri delle maestre. Ed ogni volta, tutte le nostre rimostranze diventavano buchi nell’acqua.
“Ma che te lo dico a fare, Tyler …” rispose mia madre, esasperata. “Lei ormai non ne parla più, ma praticamente le insegnanti lamentano che in classe è sempre più sola ed anche i lavori scolastici ne risentono. Sono preoccupate che …” “Loro sono preoccupate?” inveii “Ma che ca…”
“Tyler!” mi riprese “questo è l’ultimo anno, poi andrà alle medie e l’aria nuova le farà bene. Almeno spero. Si tratta solo di resistere ancora per qualche mese …”
Annuii, ma non mi andava giù che il mio scriccioletto dovesse penare per delle stupide ragazzine con la puzza sotto il naso. Lei era speciale, aveva un talento che le altre si sognavano, ma era ingiusto che per averlo dovesse pagare un prezzo tanto alto.
“Sono contenta che sei qui, la tua presenza l’ha messa di buon’umore. Erano settimane che non scappava da tavola per andare a disegnare. Dovresti venire un po’ più spesso!” “Se per te va bene vengo volentieri” le risposi, con un sorriso amaro in bocca “è meglio che la smetto per un po’ di uscire con Aidan e la sua comitiva, non hanno fatto altro che procurarmi guai”.
Mia madre smise per un attimo di insaponare la pila di pentolame vario che non poteva mettere in lavastoviglie, stando ai suoi tentativi di ammaestrarmi sull’economia domestica. Si voltò verso di me, squadrandomi come solo lei sapeva fare, con un sguardo indagatore ma non sospettoso, preoccupato ma fiducioso allo stesso tempo. “C’è qualcosa che non va?” domandò. “No” risposi, rimanendo sul vago “solo … ci sono delle cose che avrei preferito non sapere”.

“Vieni” mi disse “io insapono e tu sciacqui”. Mi sembrava di essere tornato bambino, quando ci prendeva sempre accanto a lei quando voleva sapere qualcosa. Conoscevo le sue tecniche e non cercavo in alcun modo di sottrarmene, anche perché quello che avevo da dirle non era facile ed essere impegnato mi avrebbe aiutato ad aprirmi con lei.
“C’è un locale dove sono andato … dove le ragazze diciamo che hanno diversi … ruoli. E potrebbero non essere tutte attività lecite.” “Prostituzione?” chiese, con la freddezza ed il rigore che assumeva sempre quando si parlava di lavoro. “Sì” risposi e feci un sospirone per continuare “ma la cosa più grave è che probabilmente la maggior parte di loro è clandestina o minorenne …” “E tu …” fu tentata di chiedermi, ma aveva evidentemente paura di scoprire la verità. “Ed io me ne sono andato, mamma. Mi ha fatto davvero schifo quel locale, e spero vivamente che i miei compagni non ci mettano più piede”; sembrava davvero rincuorata dalla mia dichiarazione. Certo non potevo dirle che c’era mancato davvero poco perché finissi a letto con una di quelle entraineuse, ma quella che le dissi era comunque la verità.

La guardai, attentamente, sperando che cogliesse la mia muta richiesta d’aiuto.
“Noi abbiamo le mani legate, Tyler. Finché non ci chiama la polizia non possiamo intervenire. Sempre che per loro non sia più facile mandare quelle poverine in galera o rispedirle nei loro paesi d’origine” spiegò, e capii che purtroppo davvero era impotente su tutta la linea. “Puoi segnalare la cosa alla polizia, ma credo che durante i controlli questi generi di locali siano sempre terribilmente in regola e abbiano qualche santo in paradiso che li avverte se ci sono ispezioni in incognito”.

Avrei dovuto immaginarlo: d’altronde non si possono tenere in piedi certi affari per troppo tempo sperando di farla franca solo per fortuna; evidentemente c’era qualche talpa o cose del genere, pronti ad avvertirli.
“Ma se fossero le ragazze a chiedervi aiuto?” “C’è sempre prima la polizia …”.
Dunque non avevo speranze di poter aiutare Mallory in maniera concreta senza metterla nei guai: prostituzione, furti e chissà quanti altri reati potevano essere scritti sulla sua fedina penale.
Non era il caso di tornare da lei, e se mai avessi avuto le palle per farlo avrei dovuto contare solo sulle mie forze.
“Mi dispiace tesoro” cercò di confortarmi mia madre … come se fossi io quello da aiutare “ma a volte la nostra voglia di giustizia non sempre combacia con la macchina dello Stato. Vedrai che se veramente è un giro tanto losco, prima o poi verrà fuori. Ora però non ci pensare più … vai da tua sorella”.
Rimuginando su tutte le ipotesi, le congetture e le notizie accumulate da mia madre, preparai due belle tazze di gelato al cioccolato, di cui Caroline era ghiotta a tutte le stagioni; sormontai tutto con una spruzzata indecente di panna, solo per il gusto di vederle il musino tutto imbiancato.

“Maestro!” la salutai, come al mio solito; e lei a suo solito rispose con un sorriso meraviglioso. Eccola lì la donna della mia vita, chi me lo faceva fare a trovarmene un’altra? Stavamo così bene insieme!
Era bellissima la sua stanza, si aveva la sensazione di entrare in un museo, con le copie di opere d’arte alle pareti; e poi c’era il suo laboratorio, un piccolo angolo della sua stanza da principessa, pieno dei suoi disegni e dei suoi strumenti, affacciato sul piccolo giardino posteriore.
Poggiai sulla scrivania la sua coppa di gelato e mi allungai sul letto con la mia. “Dai Ty, scendi da lì! La mamma non vuole che sali sul letto con le scarpe …” le tolsi immediatamente, scalciando “… e non vuole nemmeno che si mangi sul letto!” “E noi non glielo facciamo sapere! Dai, vieni qui!” le dissi, facendole segno di accomodarsi al mio fianco.

Passammo il resto della serata a chiacchierare, come se la nostra enorme differenza d’età non fosse un problema, come se fossimo due coetanei. Guardai Caroline disegnare, perdendomi con lei in quel mondo che le sue mani, con una semplice matita, sapevano creare. Non mi sarebbe dispiaciuto avere uno dei suoi “momenti” ogni tanto, la facoltà di poter staccare la spina dal mondo, anche per pochi secondi ed entrare in un universo parallelo, dove le brutture del nostro mondo non hanno nemmeno un nome.
E tornammo di nuovo a parlare, mentre si lavava i denti, mentre le spazzolavo i capelli. Io stesso mi sentivo libero di chiacchierare ogni volta che ero assieme a lei, come se nulla fosse accaduto nelle nostre vite, come se Michael fosse ad un concerto e sarebbe rientrato tardi, come se Mallory fosse una ragazza tra le tante che in realtà faceva solo la preziosa, e non mi accorsi che Caroline, il mio prezioso talento, si era addormentata, abbracciata a me. Così mi sistemai un tantino meglio e ci coprii con la coperta.

“Buonanotte maestro!” le sussurrai.
Quella era la seconda notte consecutiva che non tornavo a dormire a casa, e non potevo che esserne contento.
Quella serata mi aveva permeato di una forte energia positiva, nonostante dentro non mi sentissi perfettamente in forma, nonostante le cicatrici che le amarezze del mondo mi avevano lasciato. Forse col tempo avrei aggiustato tutto: avrei curato me stesso, avrei aiutato quella povera ragazza, avrei persino portato la pace nel mondo. Solo il tempo poteva saperlo, ma per il momento non avevo intenzione di interrogarlo.

 

 












NOTE FINALI
Dopo questo capitolo di transizione ci sarà l'inizio di una nuova vita per Tyler...o semplicemente il ritorno alla vita di tutti i giorni.
Mallory/Allison sembra essere una parentesi di una notte sbandata...destinata a perdersi in quelle a venire.
Ma sarà davvero così? Staremo a vedere...
Vi ringrazio per i commenti sempre più profondi e dettagliati che accompagnano questa storia, anche se ammetto di essere abbastanza dispiaciuta dal vedervi di meno rispetto alle altre volte. Sappiate che, se qualcosa non vi piace, potete dirlo tranquillamente, rispettando naturalmente i canoni del buon comportamento. Ricordo qui anche la mia pagina FB dove vi aspetto con spoiler, aggiornamenti ed altro ancora.

à bientot

Federica

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Capitolo 8
*** Things you cannot know ***


When you crash in the clouds - capitolo 7













Capitolo 7
Things you cannot know







soundtrack




“E questo sarebbe il posticino carino di cui parlavi?”
Se avessi dovuto descrivere, di primo acchito una persona come Allison, avrei usato espressioni come sarcastica e senza peli sulla lingua.
Non sapeva proprio trattenersi: ma questo, che agli occhi degli altri sarebbe apparsa come maleducazione ai miei era invece ingenuità, tipica di una persona tutto sommato sprovveduta, che aveva dovuto cavarsela da sola nel mondo fin da ragazzina. Aveva una grande forza e una stoica determinazione, figlia delle continue lotte in quel porcile che era il suo pane quotidiano; eppure restava un qualcosa che sa di innocenza assopita ma non per questo perduta.
Eravamo davanti alla miglior pizzeria italiana di New York. Non era uno di quei surrogati che circolavano in giro, dove il proprietario l’Italia non l’ha mai vista, nemmeno in cartolina, e il pizzaiolo, cinese di Shangai che al massimo può condire la pizza con gli ingredienti degli involtini primavera.
Era per pochi intimi, quelli che riuscivano ad accaparrarsi le poche sedie di legno pieghevoli ed i tavolini di plastica, apparecchiati con tovaglie di carta e l’unica cosa che si salvava dal risparmio erano posate, bicchieri e piatti, quest’ultimi coloratissimi con disegni dei più classici cliché italiani. I prezzi eccellenti, la cucina ancora di più.
Il locale era stato creato in un garage di una via un po’ nascosta, ai bordi delle strade più trafficate, di quelle che non si prendono mai quando si è da soli eppure l’aria di casa che vi si respirava dava l’impressione di essere in qualche angolo della costiera amalfitana o in una viuzza di Roma, un affresco della Dolce Vita degli anni ’50. I profumi, le luci e i colori riuscivano a catapultarti nella bella penisola già a duecento metri di distanza. Eppure in pochi la conoscevano: sono pochi, infatti, i newyorkesi che si addentrano per strade secondarie se non strettamente necessario. Il mio diciamo u piuttosto un incontro casuale, come del resto tutti i migliori nella vita di un uomo, dopo l’ennesima notte da diciottenni ubriachi clandestini, che alle quattro del mattino vanno in giro senza meta, aspettando di veder sorgere il sole dalla foce dell’Hudson. Fu così che l’odore di pane fresco e appena sfornato ci invitò ad entrare in questa piccola bicocca in piena Midtown e conobbi Nando, un pizzaiolo italiano di mezza età, dal cuore grande e dalla risata sempre pronta. Forse era uno stereotipo che conservava dell’italiano medio, un’immagine fittizia che conservava per il cliente, ma finché la cucina fosse rimasta quella, chi se ne frega se la sua è tutta una recita.
“La mia definizione di posto carino è un posto dove si mangia bene” le spiegai “ Spero che per te valga lo stesso …”
“Assolutamente sì” confermò “oltretutto ho una gran fame. Ma questo posto non mi da granché fiducia …”
“Stai zitta … donna di poca fede …” la rimproverai, con un tono palesemente giocoso “E seguimi se hai fame. Altrimenti puoi anche andartene pure a casa. Da sola … che io mi fermo qui a mangiare”
“Non ci penso nemmeno ad andarmene” disse provocandomi, prendendo un passo svelto per entrare nel locale. Era abbastanza buffa ed impacciata nei movimenti tentando di fare la risoluta “ e chi se la perde una pizza a sbafo”.
“Vaffanculo! Mi hai fregato!!!” risposi, con tutto il sentimento che quell’imprecazione poteva contenere.
Era ovvio che avrei pagato la cena anche per lei, è questo quello che a quanto ne potevo sapere, fa un gentiluomo con la donzella in difficoltà della giungla moderna, ma odiavo essere preso in contropiede da una ragazzina furba e smaliziata, che ancora tanto doveva conoscere del mondo, almeno di quello vero, eppure riusciva a tenermi perfettamente testa.
Seduti a tavola e aperti i menù, ci scoprimmo entrambi amanti della capricciosa, ma soprattutto mi sorpresi di quanto voracemente potesse essere in grado di svuotare il piatto di patatine fritte prima e di pizza poi.
“Toglimi una curiosità” le chiesi approfittando dell’unico nanosecondo in cui non aveva la bocca piena – non che non riuscisse a parlare anche senza il boccone tra le fauci, ma non mi sembrava un’esperienza così emozionante ficcarle due dita in gola per liberarle le vie aeree nel caso in cui il cibo le fosse andato di traverso – “ma quanti anni hai? Seriamente …"
“18 il prossimo 20 gennaio E sinceramente non vedo l’ora …”. Come sospettavo era ancora minorenne, ma per fortuna presto non lo sarebbe stata più: un guaio in meno di cui occuparsi.
“Così potrò smettere di giocare a guardie e ladri …” aggiunse, bevendo un sorso di birra che il figlio adolescente di Giuseppe, Vince, magro e spilungone, era appena venuto a portarci. Lei non avrebbe nemmeno dovuto berla, ma l’I.D. falso le permetteva cose che normalmente non sarebbero consentite, come bere … o lavorare in uno strip club.
“Naturalmente …” intervenni, comprensivo “… eppure non mi risulta che per fare il tuo lavoro basti avere …”
“Non mi riferivo a quello” precisò, allontanando lo sguardo da me, puntando verso un angolo non meglio identificato del locale. Lasciò la frase in sospeso, segno inequivocabile che si era spinta troppo oltre per parlarne, anche con me che a questo punto, sperai, ero qualcosa di più di uno sconosciuto. E non certo pretendevo da lei di essere totalmente aperta con me, non così subito, io stesso sarei stato completamente in difficoltà a raccontarle le disgrazie che avevano caratterizzato la mia esistenza prima di conoscerla. Decisi così di cambiare argomento e tornare sul leggero; se lo meritava, per tutto lo sforzo, l’impresa titanica che aveva portato a compimento, quel pomeriggio, sul piano emotivo.
“E così …” le dissi “ti sei presa un periodo di vacanza …?”
“A dir la verità abbastanza forzato” precisò lei. Mi chiesi se ci fosse un solo aspetto della sua vita che non avesse il retrogusto amaro della coercizione e del sopruso.
“Sì” continuò a spiegare “c’è stata una soffiata che quei cazzo di sbirri di merda verranno a controllare il club nei prossimi giorni … e anche se ho i documenti falsi è meglio avere prudenza. È stata una cosa improvvisa … non è normale in questo periodo dell’anno …”
Volli sperare che dietro a quel controllo straordinario si celasse quella santa donna di mia madre, che nelle ultime settimane avevo stressato fino allo sfinimento, affinché si informasse e si impegnasse per farli chiudere. Una sua telefonata ai numeri giusti e pressioni fatte a gente che conta fanno sempre miracoli. D’altronde, lei che aveva possibilità concrete di agire, di cambiare le cose, non poteva assumere un comportamento omertoso solo per un vizio di forma della macchina burocratica.
Probabilmente, anzi quasi certamente, questi erano solo sogni di un ragazzo idealista, cresciuto a pane e Gandhi, ma restava comunque il fatto che c’era la reale possibilità che quel posto chiudesse.
“Bene” esclamai, decisamente di buon umore, sollevando il mio boccale di bionda a mo’ di brindisi “speriamo che ci sia un buon motivo per farlo chiudere, allora!”
“Ma che cazzo dici?” mi chiese lei contrariata. Non sapevo cosa avevo fatto o detto di così eclatante, ma lei si era incazzata. Era assurdo che ce l’avesse con me perché avevo auspicato la cosa più legittima al mondo, la chiusura di quella bettola che si ostinava a chiamare lavoro. “No” continuò “assolutamente no, cazzo!”
“Ed invece sì, cazzo, Allison!” ribattei io, convinto della mia posizione, “possibile che non ti rendi conto che siamo a New York, la Grande Mela cazzo e ci sono mille possibilità per una ragazza giovane e carina come te?”
Non riuscivo a capacitarmene. Rifiutava di darsi una speranza di cambiamento, si vedeva dentro quello squallido club per l’eternità, aguzzina di se stessa, continuando a vivere nell’ombra del reato e della maldicenza. Per quanto poco la conoscessi, sapevo che avrebbe meritato un destino migliore di quello, neanche al mio peggior nemico avrei inflitto una condanna simile.
Non so di quanto avessimo alzato i decibel durante la discussione, ma il chiacchiericcio dei clienti e la musica dello stereo sembravano averci attutito, abbastanza da non far girare nessuno. Eppure non ebbi il coraggio di guardarmi intorno, per controllare se per caso stessimo dando spettacolo. Continuai a fissarla, sfidandola, stufo di saperla ancora rassegnata a quella schiavitù, nonostante tutte le parole dette, e ancor di più i gesti, che urlavano più di folla inferocita.
Ma era una guerra persa da principio con lei, dura e testarda come un mulo, che non avrebbe desistito finché non fosse stato il suo avversario a cedere, per primo. “E tu?” chiese “possibile che non capisci? Io NON HO scelta.”
Mi fissò con quei suoi grandi occhi verdi, severi, cupi, come se volesse trascinarmi in quel baratro di sudiciume e disonestà che impregnava la sua vita. Nelle sue labbra, perennemente in lotta con i denti, martoriate e tumide, vittime anch’esse di baci sgraditi, tutta la vergogna e l’umiliazione che questo suo continuo svelarsi a me si portava dietro.
Ma io non l’avrei mai giudicata, immaginavo che ormai lo avesse capito, non sarei mai stato lì a puntarle il dito contro, come tanti avranno invece fatto. Sì, lo sapeva, ed era forse proprio per questo che un tipo così fiero come lei si sottoponeva comunque ad una tale mortificazione.
“No Don Hill” proseguì “no casa merdosa, no soldi per mangiare … e forse nemmeno fottutissima aria per respirare”
“Che cosa?” domandai shockato. Il mio cervello aveva iniziato a captare informazioni che lo mettevano in allarme, che lanciavano il May Day d’aiuto ed imploravano di fermarsi prima che fosse troppo tardi. Ma il mio cuore, masochista, le diede un tacito consenso a continuare.
“Irina. 23 anni. Russa. Dopo aver passato anni a fare le peggiori cose per lui” non riusciva nemmeno a pronunciare il nome di quel merdoso figlio di puttana “così da ottenere i suoi favori e guadagnare meglio decide che può bastare così e andarsene. L’hanno trovata delle mie colleghe riversa a terra in una pozza di sangue fuori dalla porta del suo appartamento e non si sa per quale miracolo sia ancora viva. Ora è passato un anno ed ancora lavora per lui …”
Il suo racconto aveva portato a galla un mondo di cui, mi rendevo sempre di più conto, conoscevo solo la punta dell’iceberg. La brutalità che nei telegiornali è sempre censurata e che, quando guardi i polizieschi, pensi sempre che sia ingigantita. Ed invece no, dura e cruda come solo la realtà sa essere, si era presentata a me per bocca una ragazzina di 17 anni, che invece di urlare dietro alle star del memento, lancia le sue grida d’aiuto per essere strappata via dall’imbuto di quelle sabbie mobili, conscia della sua impotenza.
Eppure era un continuo andirivieni il suo, tendere la mano per chiedere aiuto e tirarla indietro quando si allunga la mano per afferrare la sua. Forse era orgoglio, forse paura, ma così non saremmo andati da nessuna parte. Ingannata da un solo uomo, ora trovava difficile fidarsi del mondo intero.
Era tornata ad essere fredda, mentre raccontava, cinica come se quella storia terribile non la sfiorasse, o come se si imponesse di rimanervi fuori a tutti i costi.
“Lo capisci ora?” Lo capisci perché ti ho cacciata quella mattina? Io non posso scegliere, quella è la mia prigione”.
La sua voce sì incrinò per la prima volta, avendo forse, percezione finalmente di quanto greve e grande fosse il suo fardello, travolta dalla terribile verità della sua rivelazione.
Sì, lo capisco ora, so perché l’hai fatto: perché hai voluto proteggermi, da qualcosa che anche tu temi e non sai, non puoi tenere a bada. L’hai fatto perché mi vuoi bene, a modo tuo. Anch’io te ne voglio, qualunque cosa significhi.

“Grazie Tyler” disse, uscendo dal locale “Dio … sono pericolosa per il tuo portafoglio … ogni volta che sono nei paraggi finisci per sborsare un mucchio di soldi …”
Ridacchiammo entrambi. Poteva anche essere come diceva lei, ma non mi interessava molto. Lei li valeva tutti, fino al minimo centesimo. Era un buon investimento, se si può chiamare così.
“Lo faccio con piacere, davvero …”
Le sorrisi, sincero; doveva capire che per me non c’erano secondi fini o scopi ultimi da raggiungere. Lei mi aveva chiesto aiuto, io ero accorso. Era come in un episodio di Baywatch: anche se io non ero certo David Hasselhoff, ma la metafora rende bene. Quando l’avessi riportata, sana e salva, sulla riva, avrei sfoderato un bel sorriso e sarei andato via, tornando alla mia vita perfettamente inutile. La sua riconoscenza sarebbe stata sufficiente.
Passeggiavamo per strada svogliatamente, consapevoli che la nostra direzione era la metropolitana che l’avrebbe riportata a casa.
Con le labbra ed il naso completamente sporchi, Allison si godeva l’ultimo ed ennesimo piacere della serata, un mega cornetto alla Nutella, fumante da farmi venire voglia di strapparglielo dalle mani e papparmelo, anche se ero pieno da scoppiare. Era stato un compromesso necessario per farla desistere dal prendere un cono gelato, non esattamente salutare con il freddo che c’era quella sera per le strade bagnate di Manhattan, che i gas di scarico e i fumi dei riscaldamenti non erano riusciti ad asciugare.
Anche lei, come Caroline, adorava il gelato anche in inverno, ma questo non la autorizzava ad ibernarsi solo per viziosa golosità. Io, per compensare, decisi di riscaldarmi con la mia amata sigaretta, e mi aggiustai come meglio potevo il giubbino di pelle e il cappuccio sulla testa. Tentai di scaldarmi anche muovendomi un po’, giocherellando con la shopper di juta della libreria che lei mi aveva appioppato quando le avevo preso il cornetto, in uno dei chioschetti lungo la 47esima. Era tempo che rispolverassi il mio cappellino di lana, che faceva tanto clochard, dai meandri del mio armadio. Magari avrei smesso di radermi per un po’, che un filo di barba protegge sempre dagli spifferi del vento. Stavo morendo di freddo, ma non stava bene che lei lo notasse. Avrebbe sicuramente iniziato a prendermi in giro, senza tregua, per almeno 365 giorni.
“Spiegami una cosa …” esordì, e la cosa non mi piacque. Sapeva di ramanzina della mamma o di menata alla Aidan. “Io non ho i soldi nemmeno per piangere … e tu vai in giro conciato come un barbone che non può permettersi degli abiti più pesanti …”
“Senti …” iniziai con lo stesso impegno che c’aveva messo lei, la stessa espressione a metà tra il concentrato e lo scazzato, per apparire convincente. La verità è che non ci credevo nemmeno io, e rischiavo seriemente l’assideramento da un momento all’altro. “… questo si chiama hobo style, si vede che non capisci un cazzo di moda. E comunque sto bene”
Mi guardò attentamente, dalla testa ai piedi, e dovetti fare un bello sforzo per costringere i miei muscoli a rilassarsi e a smettere di tremare. Collaborate cazzo!!! Tra i denti che battevano, la sigaretta si stava disintegrando, lasciandomi sulla lingua segatura di tabacco e altre porcherie che, però, non servivano a dissuadermi dallo smettere. La sua occhiata era sorniona, palesemente incredula di fronte alla mia bugia. “Ma vaffanculo …” imprecò; ed io ci andai, divertito, mentre continuavamo la nostra camminata amichevole. In fondo ero stato bravo ad avere la battuta pronta …
Quelli che dovevano essere quattro passi di saluto, si rivelarono essere quasi una gita notturna nel cuore di Manhattan, tra i grattacieli residenziali e i locali più alla moda. Faceva finta di niente, come se fosse abituata a tutto quello che c’era intorno a noi, ma io lo capivo che si stava divertendo da matti, lo vedevo dai suoi occhi, lucidi e ben focalizzati su ogni dettaglio.
“Com’è Indianapolis?” mi azzardai a domandarle, sperando che non si infastidisse alla mia continua richiesta, ormai non più così velata, di conoscerla.
“Mi spieghi perché devi essere sempre tu a fare le domande?! Tu non mi dici niente di te …”
Cosa potevo dirle: che anche la mia vita era uno schifo, ma nulla di paragonabile alla sua? Avrei davvero potuto dirle una cosa del genere? Non credo proprio …
Soprattutto non mi vedevo ancora pronto e disposto a parlarle di Michael, dei silenzi con mio padre, dei problemi di mia sorella; mi resi conto solo in quel momento quanto fosse difficile aprirsi con gli altri, specialmente quando si tratta di cose che non vanno come dovrebbero e fanno restare di merda, sia chi racconta, che chi ascolta. Non mi restava che ammirare ancora di più quel piccolo scricciolo che avevo avuto la fortuna di incontrare e che ora, di fianco a me, mi chiedeva di essere sincero con lei, né più né meno di come già lei lo era stata nei miei riguardi. Per fare una cosa del genere ci volevano una forza ed un coraggio che io sentivo di non avere, almeno per il momento.
“Queste strade sono la mia vita” le dissi e fu una mezza verità politically correct che a nessuno poteva dar fastidio “conosci New York e conoscerai me.”
Ed in fondo non mi ero allontanato di molto dalla verità. Ero un New Yorker. Mia madre è del Queens e mio padre un puro sangue di Manhattan. Una vita trascorsa tra queste strade, lungo i binari della metro o a cavallo di una bici sgangherata, a raccogliere la polvere e lo smog di queste strade che pullulano di gente a tutte le ore, una vita passata a non fermarsi mai. Continuare ad andare per inerzia, per poi arrivare allo stop, e accorgersi che si era rimasti senza fiato e col cuore in gola. Fermarsi per prendere fiato e avvertire di non poter ricominciare.
“Indianapolis non è New York …” si limitò a sussurrare, continuando a camminare a testa bassa; un flebile fruscio che serviva a spiegare, almeno nella mia testa, qualcosa di molto grande: noi eravamo troppo diversi, agli antipodi, per poter sperare che ci fosse qualcosa ad accomunarci, qualcosa da poter condividere.
La bloccai per un braccio, costringendola così a voltarsi e guardarmi: “Ma in fondo tutte le città si assomigliano un po’ tutte. No?”
Se anche ci fosse stato anche solo un elemento in comune, una sola scusa per poter stare con lei anche solo cinque minuti, mi ci sarei aggrappato fino allo stremo delle forze.
“Beh questo sì!” rispose, fiduciosa.
Non c’eravamo scambiati che un paio di battute, praticamente sul nulla, eppure c’eravamo detti più di quanto non avessimo fatto usando le parole appropriata. Ma queste, a differenza, erano parole giuste.
L’accompagnai fino all’ingresso della metropolitana, dove mi chiese di poter continuare da sola. Era stata una giornata lunga, per entrambi; c’era bisogno di una buona dose di sonno e sogni. La guardai scendere le scale ed addentarsi nella notte, leggera come una piuma e pronta a tornare la guerriera della notte, che si difende dagli altri e da se stessa.
Prima di scomparire, mentre le restituivo i libri che le avevo regato, la promessa che ci saremmo rivisti presto.
Allison, così piccola e così forte, vorrei stringerti tra le mie braccia e difenderti da quel mostro, ma non sono un soldato e nemmeno un eroe. Ma se posso scaldarti, almeno con un sorriso, lo farò. E se vorrai scoprire l’amore, quello pulito, lo scopriremo insieme. Ci salveremo dalle nostre paure, fuggiremo dai nostri orchi.









NOTE FINALI
Tyler usa una parola alla fine...amore. Non incominciate a sognare, perché esistono tanti tipi diversi d'amore.
Lui non li conosce, ma vuole scoprirli e farli scoprire ad Allison.
E chissà, che in questa lotta contro le fiamme ... non finascano entrambi con lo scottarsi.
Questo capitolo è un po' più corto dei precedenti...e scriverlo è stata una fatica immane.
Grazie a tutte, siete davvero generose, anche mi sento ingorda perché i commenti che ricevo non mi bastano mai...

à bientot

Federica

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Capitolo 9
*** Won't stop till it's over ***


When you crash in the clouds - capitolo 8












Capitolo 8
Won't stop till it's over














soundtrack

“No, ti prego” sbuffai “non anche tu!”
Sapevo che lasciarle carta bianca sui libri da scegliere si sarebbe rivelato un errore fatale, come lasciare una porta aperta nei film horror. Avrei dovuto escludere dalla lista volumi adolescenziali di urban fantasy.
“Non bastava mia sorella a sfondarmi i timpani e fracassarmi i maroni con tutti questi esseri soprannaturali … ti prego” la scongiurai “almeno dimmi che non sei per il vampiro!”
Rise di gusto al mio sproloquio nevrotico. Adoravo la sua risata, era così naturale e spontanea, ne gustava ogni secondo e lasciava che le sue labbra, carnose e provocanti, ma non volgari, si aprissero ad un sorriso liberatorio di quelli che da troppo non si concedeva e che non aveva, almeno per una volta, incollato a sé il ritratto macabro del suo mestiere, salato ed insolente come la lacrima del più malinconico Pierrot.
Mi rendevo sempre più conto, man mano che passavano i giorni assieme a lei, di stare abusando eccessivamente della sua presenza, sempre più allegra e positiva. Mi sarei fatto malissimo a starle così vicino e poi non vederla più; sapevo che sarebbe andata a finire così e lasciavo scorrere i giorni sperando che l’addio non arrivasse mai, osservandolo guardingo avvicinarsi da lontano, come una nuvola di pioggia nel bel mezzo di un barbecue estivo all’aperto. Mi sarei ferito alla fine, perché non sapevo dire di no alla parte più stupida ed egoista di me stesso; le stavo vicino e non avevo nemmeno il buon senso di indossare un giubbotto antiproiettile: ne sarei uscito disastrato, ma non è che me ne importasse più di tanto. In fondo, cosa avevo da perdere, se non una vita di cui ancora raccoglievo cocci dappertutto?
Lasciavo che si imboscasse tra gli scaffali della libreria e leggesse insieme a me per tutta la mia giornata lavorativa. Magari la lettura non era interessantissima: conoscere le rogne di una tizia, apparentemente sfigata, cessa ed asociale, costantemente contesa tra due eterni nemici, si da il caso uno più bello dell’altro, non era proprio lo scopo della mia vita, ma sentirla scandire con passione ogni parola e colorare ogni pagina con espressioni di stupore o disappunto era quasi un miracolo, lo spettacolo più bello sulla terra. Ecco avrei giusto gradito che non scaraventasse il libro contro una delle pareti, quando la protagonista piange tra le braccia del suo fidanzato per l’altro, apostrofandola con epiteti poco eleganti. Credo proprio che in questo potesse darsi la mano con Caroline e con un milione di fan sparse per il mondo. Valle a capire le donne …
“E così hai una sorella?” mi chiese incuriositasi quando la citai.
“Sì, Caroline. Ha 10 anni” risposi.
“Devi amarla parecchio” disse senza domandare, ma rivolgendosi a me con un dato di fatto a cui non potei far altro che annuire. “Si vede” mi confidò, timidamente “ti brillano gli occhi”.
Avrei voluto mostrare un pizzico di spina dorsale in più, cercando una scusa plausibile al mio inguaribile sentimentalismo, ma la verità è che la piccola dama dagli occhi blu era stata la mia ancora di salvezza per mesi e mesi, l’unico vincolo che ancora mi teneva legato alle mie radici e a quel mondo che era stato la mia casa e la mia famiglia per oltre vent’anni. E poi era arrivata lei, irriverente e scomoda come solo la verità può essere, ridandomi la voglia di vivere e di fare qualcosa, e non solo per mero spirito di sopravvivenza.
Erano passati solo cinque giorni dalla nostra cenetta a base di pizza e patatine ed eravamo passati dalla fase dell’ “hey” timido, pronunciato per sbaglio ed ascoltato ancora più per errore, alla fase dei nomignoli. Ty, Allie e lo stronzo cronico. Più che un appellativo, l’ultimo era proprio la più adatta delle descrizioni che potessero essere fatte di Aidan.
Lavorando e vivendo insieme a lui non avevo potuto escluderlo dalla mia conoscenza con Allison. All’inizio aveva storto il naso, proclamando una litania di raccomandazioni; proprio lui, che era la persona meno affidabile e responsabile sulla faccia della Terra. Ma alla fine era stato anche lui colpito dalla realtà delle cose, dalla brillante e dolcissima ragazza che si celava dietro la spogliarellista, al di là del suo magnifico corpo che, a discapito della morigeratezza dei miei costumi in sua presenza, ancora mi faceva tribolare in piena notte.
In più di un’occasione avevo dovuto trattenere quel cretino, perché solo così puoi chiamare una persona del genere, da commenti poco puliti ad alta voce in sua presenza: non che non vi fosse abituata, nello squallido posto dove lavorava ne avrà sentite sicuramente di peggiori, ma a me davano veramente fastidio, come se avessero offeso la mia ragazza con avances pesanti in mia presenza.
La mia ragazza … accostare questa definizione con Allison mi sembrava allo stesso tempo strano eppure naturale; mi sarebbe piaciuto avere una ragazza, dopo i casini dell’ultimo anno, mi sentivo pronto a rientrare in piazza e c’avrei messo la firma perché fosse come lei. Una di quelle che guarda al di là della facciata esteriore, una che sa apprezzare davvero le piccole cose come se fossero dei tesori. Ma lei no, era solo il modello da cui partire. Lei nessuno avrebbe dovuto sfiorarla, se non con il suo consenso: tantomeno io.
Averla vista all’ingresso della libreria il lunedì mattina, quando ormai, dopo una notte passata a rimuginare sui vari significati dell’espressione “ci vediamo presto”, mi ero persuaso che ci avrei messo un po’ per rivederla e che, anzi, avrei fatto prima a cercarla io stesso, fu per me la più piacevole delle sorprese, la conferma insperata della sua volontà di uscire fuori da quel mondo che le andava troppo stretto, che non era certo degno di lei. Eppure, quando terminavo il mio turno, tornava a chiudersi in sé stessa, proibendosi libertà che si era concessa fino a poco più di un minuto prima, precludendosi la possibilità di riscoprire il mondo con i suoi occhi, al di fuori delle pagine di un libro. E se ne tornava nelle fogne da dove era venuta, come punizione per aver osato chiedere troppo dalla vita e da se stessa, per un sogno che non le era permesso, un memento di ciò che per lei doveva essere solo un’esperienza fugace e furtiva, inevitabilmente destinata a finire. Lo vedevo dai suoi occhi quanto le dispiacesse andare via da ogni ultimo sguardo che lanciava alle pile di libri, ai tavolini del bar, al direttore del personale che mi avrebbe licenziato in tronco se non l’avessi fatta finita di importunare le nostre clienti più giovani. Erano un milione di ultimi sguardi, gli stessi di quella prima mattina passata insieme nella sua stanza quando incredula aveva trovato me ed una colazione decente al suo risveglio. Incapace di godersi il presente perché troppo convinta di non meritarselo. E lo stesso valeva per il suo futuro.
Tuttavia, finché l’avessi trovata ad aspettarmi ogni volta che prendevo servizio, non avrei perso la speranza di aiutarla, perché lei per prima stava combattendo contro se stessa.
“Cosa odono le mie orecchie?” domandò sorpreso Aidan, affacciandosi alla nostra postazione segreta per la lettura, dove riuscivo a stare con lei senza dare nell’occhio e al contempo sorvegliare l’intera situazione. Aidan, da parte sua, faceva da vedetta e mi avvertiva ogni qual volta il capo del personale passava in rivista il nostro piano. “La bellissima Cenerentola è ancora qui a deliziarci della sua presenza?!” continuò nella sua recita, confermando la teoria di Allison secondo cui sarebbe stato perfetto come giullare di corte “Per fortuna non esistono più le fate Smemorine di una volta e gli incantesimi non durano più fino a mezzanotte …” Lui, sornione, era riuscito a farla illuminare di nuovo con un sorriso ed i suoi occhi sorridenti e raggianti corsero immediatamente a me a cercare consensi. Risposi sommessamente al suo riso, per sostenerla, ma c’era poco da stare allegri.
Non può piovere per sempre … ma nemmeno il sole c’è in eterno; così come arriva l’estate, arriva anche l’inverno; persino più puntuale della bella stagione. Più tempo passava e più avrei faticato all’idea di non vederla più, perché l’incantesimo sarebbe stato spezzato prima o poi e quel momento si faceva sempre più vicino e cercare di allontanarlo dalla mia mente non serviva a granché. A meno che non fossi stato io a fermarla, sarebbe stata di nuovo inghiottita dagli abissi torbidi e profondi della mercificazione del proprio corpo. Sì, mi sarebbe toccato fermarla, ma mi ero talmente assuefatto all’idea di averla in giro a lavoro e vederla ogni giorno che agire contro la sua volontà mi sembrava quasi una prevaricazione nei suoi confronti, oltre alla consapevolezza che l’avrei persa per sempre se avessi commesso un solo passo falso, come poteva esserlo mettersi contro di lei. Ma dovevo ricordarci che era folle, nonché criminale, starsene con le mani in mano a permetterle di rovinarsi una vita ancora salvabile.
“Mi dispiace disturbarla dalle sue ascesi quotidiane Mr. Nichilismo in persona” blaterò Aidan, riscuotendomi dai miei pensieri “ma vorrei ricordarle che dobbiamo chiudere e andare a casa, non …”
“… non senza aver accompagnato alla sua carrozza la vostra amatissima principessa, nonché me medesima” completò la frase Allison, con quegli occhi furbetti di chi sapeva che era riuscita a spuntarla con noi e a farci suoi schiavi. Non credo che Aidan sarebbe stato tipo da seguirla fino in capo al mondo, non era nella sua indole, ma era riuscita a farsi offrire le ciambelline d’avanzo che di solito il bar gli dava a fine giornata; anche se lui non aveva speso un centesimo per averle, conoscendo il soggetto è come se l’avesse portata fuori a cena da Tribeca. Erano ancora entrambi sogghignanti e sgranocchianti, più che due ragazzi sembravano due pecore ruminanti, soprattutto Aidan aiutato dalla barbetta incolta che si ostinava a voler tenere. Diceva che faceva intellettuale. Contento lui …
“No!” esclamai, ancora catalettico, a metà tra il mondo dei sogni e quello della realtà.
“No?” ribatterono loro, interrogativi; in particolare Allison, che sembrava rimarcare nel suo volto il punto di domanda che aveva espresso a voce. Non capivano evidentemente a cosa fosse da collegare il mio no perentorio.
“No” spiegai meglio ad Aidan “non dobbiamo riaccompagnare nessuno”. Spostai la mia attenzione su Allison e la vidi ancora più perplessa e probabilmente timorosa che non ce l’avessi con lei per qualche motivo. Lasciai che i suoi occhi incrociassero i miei e non avessero paura; la vidi rilassarsi, almeno un pochino “Stasera stai con noi”.


Non era particolarmente convinta che la serata potesse mantenere il tenore che avevano le nostre giornate insieme in libreria e soprattutto, per quanto non rinunciasse mai a scambiare battute e risate assieme a lui, Allison metteva in dubbio l’autocontrollo sessuale di Aidan.
“Non me ne vogliate ragazzi … ma io cose a tre non ne faccio, sia ben chiaro!!!” Mise le mani avanti, mentre ci incamminavamo verso casa, con lei ancora titubante se restare con noi o meno. L’avevo convinta almeno a pensarci lungo il tragitto, visto che comunque l’ingresso alla sua linea della metro era di strada. Se si fosse convinta, bene, altrimenti ci avrebbe lasciati a meno di metà strada.
Vedevo quella scalinata verso la New York sotterranea sempre più vicina, lei non aveva ancora deciso e Aidan ci metteva come al solito del suo per farla scappare a gambe levate. Se per oltre un mese aveva visto in me un bravo ragazzo, uno di quelli che nel suo locale ci mettono piede solo per sbaglio, ora grazie ad Aidan aveva iniziato a credere che fossi un maniaco sodomita.
“Oh tesoro mio” si rivolse a lei Aidan “non ci tengo a soddisfare le voglie omosessuali del mio coinquilino … a cui peraltro ho già rotto il naso per lo stesso motivo tempo fa … ma se proprio senti l’esigenza di fare qualcosa lo capisco, siamo fatti di carne. Sbattiamo fuori dai coglioni il nostro amichetto triste e moscio e ci prendiamo il suo letto per fare due capriole” le disse, rincarando la dose virgolettando con le dita alla parola capriole. Riusciva ad essere veramente idiota quel ragazzo, e per fortuna al suo fianco non aveva un’alunna del Sacro Cuore ma una a cui spesso la defecazione fuoriesce spedita dalla bocca e non dal sedere in quanto a linguaggio. “Due capriole te le faccio fare volentieri Aidan” le rispose provocante Allison, spiazzandomi del tutto “…  ma per le scale buttandoti fuori a calci nel culo se non chiudi quella fogna che hai tra naso e mento!!!”
Si voltò sorridente verso di me, lasciando che Aidan somatizzasse l’ennesima batosta simil-sentimentale e corse da me che ero rimasto più indietro rispetto a loro. Si mise sottobraccio e camminammo insieme per quelle poche decine di metri che ci separavano dall’ingresso della metro. Era bello stare insieme così, camminando semplicemente, anche senza dirsi nulla. L’avrei implorata di passeggiare con me per tutta la serata finché non fosse crollata per il sonno e mi avesse implorato di riportarla a casa. E poi vederla nei panni di una ragazzina acqua e sapone mi aveva fatto dimenticare l’immagine sporca di lei in quel locale, per me più un incubo che un ricordo vero e proprio.
“Non senti più freddo Ty?” mi chiese, ricordando il freddo boia della serata che avevamo trascorso insieme “che ti dicevo io che era solo questione di coprirsi un po’ di più?”
“La finisci di fare la maestrina?” la sgridai “altrimenti finisce che ti carico come un sacco di patate e a casa mia ti ci porto con la forza …”
“Voglio proprio vedere come fai …” cominciò a prendermi per il culo come al suo solito: era bravissima nel prendere in giro le persone, ma con me le riusciva particolarmente bene “… ultima volta che in libreria hai dovuto togliere 10 libri da uno scatolone c’è mancato poco che ti uscisse un’ernia …”
“Ah sì?!” le domandai, in tono di sfida, mentre lei, staccandosi da me, mi si era messa di fronte camminando all’indietro e non accorgendo di quanto fossimo vicini all’ingresso dei sotterranei. “Vieni qui!” le intimai, cominciando a correre verso di lei ed in poco tempo, per quanto fossero affollate le strade e lei molto agile e veloce la raggiunsi e me la caricai sulle spalle come fosse un sacco di patate, tanto era leggera. Iniziò a dimenarsi addosso a me come un’anguilla fastidiosa e viscida, riempiendomi la schiena e il torace con pugni e calci.
“Voglio vedere dove vai ora!!!” sogghignai, dandole delle pacche giocose sul sedere. Maledetto me quando avrei imparato a tenere le mani a posto: lei tirava forte, lo avevo già sperimentato e non so come riuscì con precisione millimetrica a sferrare un colpo al mio stomaco lasciandomi senza fiato. Riuscii però a mantenere salda la presa e a non lasciarla scappare via. Aidan, sconsolato e con la sua solita flemma ci raggiunse e, man mano che si avvicinava, rassicurava i passanti che non stavano assistendo ad un rapimento ma ad una zingarata di due matti. Intanto lei continuava a starnazzare come un’oca in preda ad una crisi isterica, intimandomi di lasciarla andare “Eddai Ty!!! Mettimi giù non sei per niente divertente” “Perché se no che fai … lo dici alla mamma? Uuuh povera piccola Mallory … Guarda!!! Di’ ciao alla metropolitana che si allontana … ciao metro!!!” “Che cosa? Noooo … sei uno stronzo Tyler!!!” “Lo so” ribattei ridacchiando, ormai eravamo proprio andati, parlavamo e litigavamo a ruota libera; non perché fossimo veramente arrabbiati l’uno con l’altro, io stesso d’altronde avevo iniziato quel gioco, ma perché non sopportavamo di dare vinta all’altro, nemmeno per gioco. “Eddai basta mettimi giùuuuuuuuu!!!!” continuò a blaterare lei “va bene dai! Ci vengo a casa tua …”.
Contento di aver conseguito quel piccolo successo la lasciai andare e, mentre si ricomponeva al meglio, facendo finta di cercare Aidan con lo sguardo tra la gente cercai di riprendermi dal gesto atletico che non ero abituato a fare. Era difficile da ammettere, ma lei aveva ragione.
“Ehi piccioncini?! Avete finito?” Aidan … era il solito bambino egocentrico, che se non era al centro dell’attenzione si insospettiva e metteva il broncio. Ridemmo di gusto tutti e tre insieme … se solo fosse stato possibile, se solo lei me lo avesse permesso, saremmo potuti diventare una bella compagnia di amici e avremmo potuto divertirci parecchio.


“Dai ragazzi ma non avete visto che bordello lì sotto? Non lo saprà nessuno che ci siamo imboscati … dai non potete dirmi di no!”
Il rapporto di Aidan con l’alcol era piuttosto complicato. Non perché non lo reggesse, anzi lo tollerava piuttosto alla grande, talmente alla grande che con la dose necessaria a lui per essere sbronzo io sarei già  in una cella frigorifera in obitorio, pronto per essere squartato dal medico legale. Piuttosto era un rapporto difficile nella misura in cui non riusciva a stargli lontano; non alcolista, direi invece storia d’amore appassionata, di quelle dove ad amarsi troppo si finisce con il farsi del male. Ed è universalmente noto che le bevande alcoliche sono amanti focose e sadiche.
“Ed invece ti dico di no Aidan … devo tornare a casa mia più tardi e preferirei farlo con le mie gambe …”
“Eddai solo unooo!!!” continuava a pregarci, sperando di convincerci con le sue faccine ruffiane. Come se potesse funzionare con me che l’avevo visto strafarsi e vomitare l’anima o con lei, che di uomini marci ne vedeva a decine ogni sera.
“Uno? Aidan ricordami l’ultima volta che era stato solo uno?” gli domandai.
Iniziò davvero a riflettere a quella mia domanda retorica. “Prima comunione?!” rispose alla sua domanda da un milione di dollari. Io ed Allie ci guardammo e lo guardammo perplessi e preoccupati per il suo comportamento e la sua stupidità, e non c’era dubbio che nei nostri occhi passava silenziosa la stessa domanda, se mai quello spettacolo indecoroso avrebbe trovato fine. Ma il nostro compare di sventura pareva ben determinato nel suo intento di dare sfogo alle sue manie etiliste e fondo alle scorte di vino da quattro soldi che circolavano a casa degli inquilini del secondo piano; così, mentre ancora discuteva tra sé e sé il modo più opportuno per ricevere da noi il permesso di andare e trascinarci con lui, lo lasciammo lì sul pianerottolo tra i due piani a discutere con l’angioletto ed il diavoletto sulle due spalle. “Smettila di blaterare da solo e vai a divertirti!” gli urlai dal nostro pianerottolo. Non se lo fece ripetere due volte che lo vidi sparire dalla mia vista e buttarsi a capofitto per la tromba delle scale. Entrammo e chiusi la porta alle mie spalle.
“E così questa è casa tua …” commentò Allison, politicamente corretta, quando ebbe finito di fare un giro dell’appartamento. Non si era sbilanciata, ma i suoi occhi curiosi mi suggerivano un vago apprezzamento.
“… e di quel pazzo” precisai io. “Naaaaaa …” considerò “lui ci dorme solo qui, sei tu che la vivi”
“E cosa te lo fa pensare?” domandai incuriosito da una teoria interessante e potenzialmente vera. “Non c’è niente che ricorda lui qui dentro. Tutto mi parla di te … ed è un bene visto che non mi hai mai voluto dire nulla”
“E sentiamo …” la sfidai “cos’è che ti dicono queste quattro mura logore?”
“Che sei molto più profondo di quanto voglia far credere, che ti piace conoscere più cose possibile … e che vivi di ricordi, visti gli appunti sparsi sul tuo letto – che non ho letto sia ben chiaro - e le foto che riempiono questa casa …”
Ed io che mi ritenevo un abile lettore di anime! Aveva appena fatto una radiografia di me e della mia vita attraverso quelle quattro cianfrusaglie ammassate senza ordine e senza rispetto in quelle due stanze; in poco meno di mezz’ora aveva capito di me più di quanto io stesso sapevo di me stesso, dopo una vita di convivenza forzata. Vivevo di ricordi … avrei preferito che non fosse vero.
“Ah!” aggiunse, spensierata “e ho capito anche un’altra cosa. Che sei un porco … cioè hai visto quel bagno?! Dio che schifo!!!”
“Senti chi parla … preferirei farla per strada piuttosto che dovermi sedere sul cesso di casa tua. Veniva un profumino quando ci sono venuto!!!” “mmmmm” mi tirò una linguaccia bella e buona e finii col vendicarmi lanciandole un cuscino in pieno volto. Era uno spettacolo vederla tutta arrabbiata, con le rughe d’espressione che le corrucciavano la fronte ed il naso che si arricciava, contratto, insieme alle labbra che si serravano in un broncio che a vederla, mi veniva voglia di mangiarmela di baci. Ok, dovevo smetterla con certi pensieri del kaiser, sembravo una fan di Justin Bibier in calore, ma uscivano spontanei e non sapevo controllarli.
Mentre mi perdevo in fantasie adolescenziali, fatte di lettere d’amore imbucate nell’armadietto di scuola e di frullati alla fragola in un bar stile Happy Days, non avevo avuto modo di controllare e prevedere la reazione della piccola peste. Iniziò a rincorrermi per tutta casa con la stessa arma con cui l’avevo ferita e sapevo che, se conosceva il proverbio quanto me, avrei dovuto soccombere con la stessa spada, nella fattispecie un cuscino che perdeva piume neanche fosse un rettile nel periodo di muta.“Tyler KEATS Hawkins?!” scandì incredula e divertita “davvero ti chiami Keats … porca puttana, i tuoi devono essere dei tipi davvero pretenziosi?!” Nella fuga dai suoi fendenti per poco non inciampai ed evidentemente dalla tasca dei jeans venne fuori il mio portafogli, perché c’era un solo posto al mondo dove tenevo sigillata a tenuta stagna la verità sul mio nome intero: la carta d’identità, ben mimetizzata nel quarto scomparto a sinistra. Arrivammo nel piccola cucina e cercai di difendermi da lei con il primo oggetto che mi capitò tra le mani, un misero tagliere di legno, lasciato lì sulla mensola da una vita e chissà quando era stato usato per l’ultima volta.
Nella concitazione della battaglia, quasi arrivati allo scontro diretto, accadde quello che nessuno dei due poteva aspettarsi: eravamo vicini, a ridosso del mobile della cucina, talmente vicini da sentire i battiti dei nostri cuori rimbombare alle orecchie dell’altro e scontrarsi l’un l’altro, mentre i respiri concitati muovevano e scontravano le rispettive casse toraciche.
Oltre al martellare dei nostri cuori ed i nostri sospiri affaticati, c’era la musica ovattata della festa hippy al piano di sotto. Erano passati ai lenti anni '60/’70, tipico sintomo che il vino aveva iniziato a fare effetto. Sobrio di vino, ma ebbro della sua presenza cercavo di non pensare a quella colonna sonora come un segno del destino, ma come una razionale, seppur bizzarra, coincidenza. Bastava davvero poco ad annullare quella distanza, bastava solo volerlo. Vedevo i suoi occhi, mentre i miei si perdevano in quel suo visto disteso, concentrato in una comunicazione verbale che per una volta non riuscivo a cogliere, preso e perso com’era il mio cervello a studiare ogni dettagli di quella situazione. Sembravano dirmi qualcosa i suoi occhi, grandi e verdi, occhi irlandesi li avrebbe ribattezzati la bisnonna Hawkins, lei che il Donegal l’aveva visto davvero, sconfinati come l’oceano e verdi come le ampie radure; sembravano chiedermi perché eravamo arrivati fino a lì e cosa esattamente stesse accadendo. Cosa rispondere a degli occhi ammaliatori come quelli?
Ma lei sembrò abbastanza lucida da decidere per entrambi e si tirò indietro. Forse era meglio così: niente contatto, meno dolore quando fosse scomparsa dalla mia vita. Era così brava a saper riprendere il controllo della situazione, così padrona dei suoi istinti che sembrava impossibile avere davanti una diciassettenne. Era per questo, forse, che non era uguale alle altre, per questo c’era in lei qualcosa in più, solo per me.
Feci appena in tempo a riprendermi da quell’attimo un po’ pericolo, che capii che un altro era in arrivo, ben peggiore. Con la coda dell’occhio vidi partire un tiro mancino, pronto a colpirmi in pieno volto. Riuscii a schivarlo appena in tempo, ma forse avrei fatto meglio a prendermelo: una vagonata d’acqua bollente mi venne addosso dalla pentola in cui avremmo dovuto cuocere la pasta. Stavo aspettando che bollisse, quindi per fortuna non era eccessivamente calda, ma sentirsela addosso d’improvviso non era certo una bella sensazione.
“Oh merda! Tyler scusami! Cazzo! Non volevo, ti giuro! Ho esagerato come al mio solito … perdonami ti prego!” iniziò a scusarsi Allison che non sapeva dove mettere prima le mani, se correre a raccogliere il pantano sul pavimento oppure a me che, fradicio e bollente, sembravo appena uscito sulla neve dalla sauna ed avevo il corpo fumante. Mi affrettai a spiegarle che non aveva nulla di che scusarsi, era stato un incidente. “Capita” la rassicurai, sorridendole “quando si fa gli scemi per casa come facevamo noi!”. Certo che però se mi avessi baciato ora eravamo a fare altro ed i vestiti non avrei dovuto certo toglierli per evitare di ustionarmi!
Andai in camera a cambiarmi e lasciai gli abiti ad asciugare sul davanzale arrugginito della mia finestra, tanto comunque avrei dovuto portarli alla lavanderia a gettoni ad un paio isolato da casa. Lei era rimasta nella zona giorno, quasi avesse pudore a vedermi senza maglietta; lei, che era abituata a ben altre visioni, ben più raccapriccianti. D’un tratto la sentii bussare allo stipite della porta “Posso?” chiese, titubante. “Certo” la esortai.
Era guardinga, forse ancora un po’ in colpa per quanto era successo.
“Aspetta” disse, mentre mi abbottonavo la camicia “ma hai un tatuaggio sul petto? Non ti facevo tipo da tatoo, sai? Che poi sul cuore … spero non l’abbia dedicato ad una ragazza che ti sei scopato e poi hai lasciato la mattina dopo perché sarebbe imbarazzante …”.
“È il nome di mio fratello” la freddai e lei passò delicatamente la mano sulla pelle, percorrendo ogni lettera come fosse cieca e quella fosse una scritta in Braille, provocandomi un leggero brivido. Sembrava voler carpire ricordi ed immagini direttamente dal mio cuore, sul quale quel nome era stato inciso.
“Scusami” si giustificò, ancora, la voce balbettante “io … io non avevo idea che …”. Abbassò lo sguardo e si allontanò da me, andando a sedersi ai piedi del letto. Era sconvolta, neanche le avessi comunicato la morte di un suo parente; ma allora compresi che dietro il suo dramma doveva celarsi qualcosa di simile, un lutto o una perdita abbastanza grave da ridurla a schiava di qualcuno per chissà quali motivi. Non eravamo così distanti. La raggiunsi sul letto e mi avvicinai quel tanto che bastava a farle capire che non me l’ero presa e che, anzi, ero ben felice di levarmi finalmente quel peso con lei, dimostrandole che la mia vita non era poi così perfetta come lei credeva.
“È il ragazzo delle foto che hai di là, vero?” annuii. “Come …”
“Suicidio” faticai a spiegarle, anche se era necessario “si è impiccato poco più di un anno fa il giorno del suo 24esimo compleanno. Si era laureato in economia ed aveva da poco iniziato a lavorare con nostro padre … ma la sua passione era la musica e lui gliel’ha distrutta, mandando in rovina tutto il resto …”
“so che sembra strano ma … ma so come ci si sente. Sia nei suoi panni che nei tuoi, credimi”.
Mi stesi sul letto, ad occhi chiusi, cercando di riordinare le idee. Era stata una bella giornata, ma anche piuttosto lunga; con Allie le cose andavano a meraviglia e sembrava essersi instaurato tra noi un clima di distensione e amicizia, forse anche qualcosa di più. Mi riusciva difficile credere che quel qualcosa di più, per me, lo avesse lei; ma l’amore è cieco, non chiede permesso, ed il più delle volte si presenta a noi irriverente ed inopportuno. D’improvviso sentii il letto scuotersi sotto delle piccole mosse; era evidentemente Allison, che si stava avvicinando a me in maniera difficile, tanto perché tra noi le cose non erano abbastanza complicate. Venne ad appoggiare la testa sulla mia spalla e, mente una mano si era fermata sul petto, l’altra era corsa ai capelli, con una timida audacia che faceva di lei predatrice e preda nel medesimo istante, in un perenne gioco di attacco e difesa. Aprii gli occhi e le sorrisi, lei però non riuscì a distendersi e a rispondermi. Le carezzai la guancia con il dorso della mano ed i suoi occhi erano tornati ad essere fermi e tristi, imploranti una pietà ed un aiuto che non avrebbero mai potuto ottenere senza sapere quale fosse il problema.
“Hei?!” le sussurrai dolcemente, stringendola a me. Avrei voluto che quel momento non finisse mai. Il suo profumo si era addolcito, addomesticato da un mondo di nuove esperienze, e ne avrei aspirato e respirato l’essenza all’infinito.
Puntò il suo sguardo dritto nei miei occhi, con la severità che solo le cattive notizie possono dare. Lo sapevo che quel momento non avrebbe tardato la sua visita, lo sapevo che sarebbe stata questione davvero di ore. E quel che è peggio che lei lo sapeva, e si era tenuto dentro fino all’ultimo minuto, soffrendo fino all’estremo sacrificio dell’addio, eppur godendo fino all’ultimo di questi attimi. Era arrivato il momento dell’insensato abbandono.
“Oggi è l’ultimo giorno Tyler” mi disse, senza celare in alcun modo la disperazione di quelle parole “domani torno a lavoro”.
L’abbracciai, d’istinto, e lei non s’oppose, chiedendo solo con tutta se stessa di potersi gustare quell’ultimo momento d’amicizia tra noi.
Le cose sarebbero cambiate, inevitabilmente, in un modo o nell’altro.












NOTE FINALI
E fu così che i due amici ... che forse amici non sono veramente ... dovettero dirsi addio. Tyler non si rassegna all'idea di lasciarla andare e Allison si aggrappa a lui con tutti le forze che possiede. Una storia d'affetto che nasce per caso e sconvolge le esistenze di chi la vive. Le cose non possono andare mai bene ... ed è per questo che quando iniziano ad andare per il verso giusto, arriva qualcosa a sconvolgere l'equilibrio. Il bello deve quindi ancora venire.

Piccolo annuncio: per scrivere i prossimi capitoli, i più impegnativi di tutta la storia, credo che mi prenderò due settimane di pausa. Tuttavia, se saranno pronti prima del previsto, non esiterò a pubblicare.

Spero che questo di oggi sia stato di vostro gradimento, che non sia stata ripetitiva, pesante o prolissa.
Per qualsiasi consiglio, critica o commento in generale sapete dove trovarmi, e vi ringrazio per il sostegno ed il consenso che mi date ogni, volta. So che siete molti di più di quanti vi vedo ogni volta e mi piacerebbe che anche voi, lettori silenziosi, vi facciate sentire. Per me è fondamentale ... nonché gratificante.

Oggi sono di una chiacchiera ...XD Vabbè ... vi lascio andare
à bientot

Federica






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Capitolo 10
*** She will be loved ***


When you crash in the clouds - capitolo 9




















Capitolo 9

She will be loved










soundtrack

Era stata la notte più brutta della mia vita. Non ero riuscito a chiudere occhio e non facevo altro che correre con la mente a lei. Non aveva voluto saperne di restare con noi; diceva che non aveva intenzione di fare l’infermierina appresso ad Aidan completamente fatto di alcool ed erba. Ma sapevo benissimo che era solo una scusa per defilarsi senza grandi cerimonie, per andarsene senza dover affrontare l’argomento “nuovo incontro”.
Trascinai Aidan su per il suo letto mentre balbettava qualcosa di incomprensibile a proposito di Woodstock e Jimi Hendrix. Dovevo segnare nella nostra bacheca il monito  MAI IMBUCARSI AD UNA FESTA DI FIGLI DEI FIORI. Mi adoperai per assicurargli un riposo sicuro, applicando che ogni giovane marmotta impara al corso di primo soccorso e, prese coperta e sigarette, mi diressi verso il tetto. Faceva freddo, tremendamente freddo ma la coperta riusciva a riscaldarmi a sufficienza. Al resto, provvedevano le sigarette.
È bella New York di notte. Apparentemente ferma e silente dai suoi tetti, nonostante il traffico non si fermi mai. È bella e magica. Lontani, i grattacieli di Manhattan si stagliano forti ed orgogliosi dritti verso il cielo, a testimoniare la nostra vanagloriosa potenza sulla Terra e sugli uomini. Ma sopra di noi rimane sempre il giudizio delle stelle. Le nuvole piene di smog e le luci della città impediscono di vederne una gran quantità, ed il traffico aereo toglie poesia anche quando la trapunta blu è perfettamente visibile.
Ma, con mia somma gioia, la luna quella sera aveva vinto la coperta di nuvole e continuava a vegliare ancora su di noi, come una madre accanto alla culla. Era bello e confortante pensare che dovunque si fosse in quell’istante, in una metropoli grande come questa, alzando il naso al cielo, chiunque avrebbe potuto vedere quello spettacolo. Una grande torta tutta farcita di panna, lì solo per noi, grande e bianca. Mi era sempre piaciuto immaginarla così da bambino, e non avevo mai smesso di fantasticare su quel magico satellite.
Michael l’adorava; collezionava storie e racconti su di lei e m’aveva trasmesso la passione per quell’astro affascinante e misterioso.
Mi piaceva pensare, anche se razionalmente era una cosa improbabile, che anche lei stesse godendo della stessa visuale.
Ma lei forse non avrebbe mai alzato lo sguardo verso quella pallida regina della notte, nella strana rivalità che il destino si era divertito a creare. Come in un mito senza tempo, il fato aveva tolto gli occhi alla luna e li aveva donati a lei, perché fossero osservati dagli uomini più da vicino. Ma la luna, dea vanitosa, si è vendicata privandola delle lacrime, esattamente come fa con l’acqua di mare attraverso le maree.
Indomabile ed indomata, nonostante la sua bellezza e la sua vivacità provenissero da una luce potente, eppure riflessa.
Era tornata alla luce, nei pochi giorni che avevamo trascorso insieme, ed aveva riscoperto il piacere di un’esistenza sana, fuori da quella prigione malata, da cui non aveva, a suo dire, via d’uscita. Da sola, invece, non riusciva a brillare e se n’era tornata nelle tenebre.
Più stavo lì a fissare la luna, dimenticandomi del tempo che scorreva e del freddo che mi avvolgeva, più mi convincevo che era il suo elemento naturale, la sua essenza.
I poeti vivono di notte, ma anche le persone di malaffare: non volevo annoverarci tra questi, né per meriti, né per colpe.
D’altronde anche gli amanti preferiscono la notte; era per questo che la luna sorgeva ogni sera: per nascondere al giorno i segreti del proprio cuore.
Ed i miei segreti sai nasconderli, Luna? I miei dubbi, i miei perché?
Nonostante fossero trascorse solo poche ore, volevo rivederla; questo era poco, ma sicuro. Come, dovevo ancora capirlo. Perché, restava un’incognita.
Quando l’avevo incontrata per la prima volta, disinvolta ed sfacciata sul bancone di quella bicocca, mi ero chiesto de per caso quella forza, quel fuoco che avevo sentito divampare in me fosse per caso quel che si dice COLPO DI FULMINE. Razionalmente mi risposi di no, che era solo voglia di fare l’eroe a spingermi verso di lei, la volontà di aiutarla, come non aveva fatto con mio fratello esattamente un anno prima, la voglia di dimostrarsi ancora importanti per qualcuno.
Eppure mi era sempre più evidente che il raziocinio aveva poco a che fare con la mia vita, negli ultimi tempi. Era diventata, infatti, un susseguirsi di passi avventati, gesti che mi avrebbero potenzialmente in un mare di guai.
Forse le mie giustificazioni logiche erano state valide quella primissima sera, quando dovetti combattere con gli ormoni a palla, ma ora le sentivo sgretolarsi come un castello di sabbia su una spiaggia ventosa d’inverno.
Non ero più certo che il mio cuore fosse ancora indipendente; era pesante e affaticato, come un operario che fa un doppio lavoro, come se battesse per due. E c’erano pochi dubbi sul fatto che l’altra persona fosse proprio lei.
Ero pateticamente avvezzo a riservarle il primo pensiero e l’ultimo, nell’arco della giornata, entrando in paranoia quando i minuti passavano e lei non era con me. Aidan me l’aveva fatto notare in più di un occasione, e l’avevo apostrofato come un visionario e mandato a fanculo tutte le volte. “Sarà” mi diceva “ma tu con quella ti bruci, fidati”.
Certo Aidan aveva ragione, fin troppa ragione, a dire che ero un tipo dall’innamoramento facile; mi conosceva troppo bene. Ma sentivo io per primo che stavolta era diverso … ok, probabilmente è una di quelle frasi che si dice di solito in questi casi, e riconosco di averla detta un milione di volte … ma stavolta era davvero diverso. Sentivo che la posta in gioco era troppo alta per potermi tirare indietro, pronto a mettere in discussione persino me stesso per raggiungere l’obiettivo. Ma non si trattava più solo di tirare via una povera ragazza da un brutto giro. Per quanto avessi combattuto contro me stesso convincermi per il contrario, dovevo cominciare ad ammetterlo: provavo qualcosa per Allison.
Intorpidito dal sonno che iniziava a fare capolino ed intirizzito dal freddo, decisi di levare le tende e tornarmene al caldo delle mie lenzuola. Starsene lì a fare i poeti maledetti, mentre lontano si intravedono le prime luci dell’alba, rischiando di ammalarsi per bene solo per riempirsi la mente di puttanate, a due passi da un cielo minaccioso di neve e freddo artico, non aveva molto senso. Meglio starsene al caldo e sognare che la vita fosse semplice e perfetta.
Prima di scendere le scale, lanciai un ultimo sguardo alla quella grande palla bianca che mi aveva fatto compagnia lungo tutta quella notte. E pensai ancora a lei.
“Buonanotte … Allison” sussurrai, e chiusi la porta del terrazzo alle mie spalle.


Ripercorrere le strade buie e vuote che portavano al Don Hill mi provocava di nuovo quella sensazione di nausea e malessere generale che avevo provato ad appartarmi con lei nel privé del locale. Avevo paura di ritrovare quell’atmosfera squallida della prima volta, la stessa spiacevole percezione del sentirsi fuori luogo ed inopportuno. Soprattutto, non ero sicuro che i miei nervi avrebbero mantenuto il contegno necessario davanti all’immagine della mia Allison che si comportava come aveva fatto con me, come era in fondo giusto che facesse, dato il suo lavoro.
L’eco della musica e dei bassi arrivava fin sulla strada e, ad accogliermi, trovai Dean, lo scimmione occhialuto che per poco non aveva reso neutri me ed Aidan durante la nostra prima visita.
Ora invece, era da solo che entravo nel covo di vipere. Non avevo dovuto accampare grandi scuse sulla mia serata alla mia babysitter Aidan, troppo impegnato a far andare in porto uno dei suoi rarissimi appuntamenti con effettive chance per il dopo serata.
Erano tre giorni che non vedevo, né sentivo Allison, ed era perfettamente logico visti i ritmi che le venivano imposti lavorando in quel postaccio. E forse anzi, quasi certamente, andare a trovarla proprio in quel posto dove l’avevo conosciuta nel dare il peggio di sé, nel buttare via anzi tutta se stessa nel peggiore dei modi, era stato l’ennesimo errore madornale della mia vita, un’ulteriore zappa tirata sopra i miei piedi, l’estrema dimostrazione della mia profonda coglionaggine; ma dovevo rivederla, continuando a sperare, almeno per lei, che era possibile non arrendersi a quella sorte.
“Chi cerchi ragazzo?” mi domandò Dean quando, una volta entrato nel club, inizia a guardarmi attorno per cercarla. Purtroppo, come nel peggiore dei miei incubi, il ricordo che avevo conservato di quel luogo era fedele a ciò che era in realtà. Le emanazioni di fumo, alcool e sudore uccidevano le mie ghiandole nasali quasi fossero scarti tossici d’industria e le luci soffuse, unite ai lampi che di tanto in tanto mi colpivano con le luci psichedeliche, avevano il potere di neutralizzarmi la vista.
La musica infine, era riuscita ad inibire il resto dei miei sensi, se questo scopo non era già stato raggiunto da luci ed odori.
“Mallory” balbettai, temendo di metterla nei guai. Cercai non usare il suo nome, per l’assurda convinzione che entrambi avevamo, di dover distinguere tra vita privata e lavoro.
“Mallory?!” domandò lui perplesso “non c’è nessuna Mallory qui”
Non è possibile, pensai, shockato. Se n’era andata? Non poteva farlo, lei stessa me l’aveva rivelato.
Possibile che mi avesse mentito riguardo al suo ritorno al lavoro, che fosse solo una scusa campata in aria solo per scaricarmi?
Effettivamente come ragionamento filava piuttosto bene … avrà avuto paura di scottarsi, ed io come uno stupito ho lasciato che mi fregasse. Me l’ero meritato in fondo, perché ne sapeva una più del diavolo e me l’aveva fatta sotto il naso non appena avevo abbassato la guardia.
“Ragazzo?! Ragazzo!!” mi richiamò all’ordine quel bestione “se sei venuto qui per farmi perdere la pazienza, dimmelo subito perché non ho tempo da perdere appresso a te … così ti sbatto subito fuori dai coglioni!!!”
“Aspetti … mi … mi lasci spiegare … io … io …”
Bella figura del pollo che stavo facendo, incapace com’ero di spiegare la situazione a quell’energumeno. Ma del resto, come farlo senza compromettere Allison e proteggerla da ulteriori catastrofi?
“Dean!” una voce alle mie spalle, proveniente dalle scale che portavano al privé, fece scattare il gorilla sull’attenti “lascialo stare … lui è qui per me. Non è vero Tyler?!”
Mi voltai non appena sentii il mio nome. Era quasi ovvio che a parlare fosse stata lei, ma nella confusione del locale, tra musica e versi poco umani che venivano emessi ad ogni angolo, era difficile distinguere una voce da un’altra. Non mi curai del buttafuori, e poco importava che fosse ormai ancora dietro di me o si fosse dileguato. Il mio sguardo si concentro su quel viso che per tre giorni mi ero esercitato a ricordare, e non c’era verso di posare gli occhi altrove, nonostante fosse tutto piuttosto visibile.
Nel suo habitat sembra sempre piuttosto disinvolta e chiaramente disinibita, probabilmente anche grazie a qualche bicchierino di troppo mandato giù per distendere i nervi. Forse era per quello stesso motivo che, nonostante gli alti, ma soprattutto i bassi, della nostra controversa amicizia, lei sembrava dare per scontata la mia presenza lì e si comportava come niente fosse.
Mi prese per mano e mi accompagno fino al bancone, costringendomi a prendere almeno un birra, ovviamente per lei. Mi accesi una sigaretta, che sapevo già avremmo finito col condividere. Non so se era così con tutti i clienti, ma per me era il nostro gioco, anche fuori da lì.
Evidentemente attenta a mantenere una certa facciata, Allison si stava impegnando con tutte le sue forze ad incollarsi a me, sedendosi sul bancone a gambe decisamente divaricate o provocandomi con ogni arte degna della migliore geisha di Tokyo. Per quanto fossi concentrato a cercare il suo sguardo, un muto consenso per una conversazione, non potei fare a meno di notare il suo corpo, come non lo vedevo effettivamente da un po’ e che tuttavia avrei difficilmente dimenticato. La gonnina scozzese aveva fatto posto ad un gonnellino nero con grembiulino, perizoma rosso da perderci il sonno e reggiseno a triangolo nero. Era provocante, come la ricordavo, sexy da far paura ma, forse perché avevo imparato a conoscerla per come era veramente, aveva perso quella volgarità tipica di una persona che svolge quel tipo di lavoro. Non indossava né calze a rete, né zeppe da battona, ma dei semplici tacchi a spillo che la rendevano la regina del locale, nonostante probabilmente fosse di ritorno da una delle sue “performance” private. Il volto era truccato in maniera composta ma elegante, come se volesse distinguersi da quella massa di prostitute che era lì con lei. “Io non sono come voi” sembrava urlare “io me ne andrò da qui”. Era come se tutta la normalità e la purezza che era riuscita a riacquistare nei giorni precedenti, non sia stata in grado di metterla da parte. E questo non faceva che riempirmi di gioia.
Anch’io del resto, avevo maturato un profondo rispetto per la Allison della libreria, quella della pizza dietro l’angolo e del cornetto alla nutella, che non riuscivo a guardare il suo corpo e a provarne piacere o desiderio alcuno, bensì ribrezzo per quella condizione di serva che era ancora costretta a subire, nonostante desse perennemente l’impressione di essere libera e serena in quei pochi panni.
Così mi rifugiavo nei suoi occhi che, scontrandosi con i miei, mi donavano ancora il riflesso di quell’anima che avevamo ripulito insieme.
“Cos’è?” le chiesi in un sprizzo di audacia “non ti fai trovare? Ho chiesto di Mallory e …”
“… e Mallory stasera non c’è. Piacere di conoscerti” tese la sua mano in segno di saluto “io sono Bridget, e sarò la tua cameriera personale della serata”. “Piacere di conoscerti Bridget!” ricambiai il saluto divertito.
Nonostante provasse in continuazione a farmi bere quella brodaglia che spacciavano per birra, l’esperienza dell’ultima volta mi era bastata al punto che anche se fossimo stati in pieno deserto, avrei preferito mille volte morire di sete. Così continuai ad aspirare dalla mia bionda, facendole fare un tiro di tanto in tanto.
Venne a sedersi su me, alla stessa conturbante maniera della primissima volta, e si avvicino al mio orecchio “C’è il capo in giro … devo ballare per forza. Scusami”.
Si stava scusando per il suo comportamento, perché doveva provocarmi e fare la sensuale, altrimenti l’avrebbero anche potuta picchiare. Allora stetti al suo gioco, sussurrandole di rimando: “Fai quello che devi …”
“Ogni tuo desiderio è un ordine” strillò quasi, probabilmente per farsi sentire da qualcuno che la stava osservando. Salì sul bancone del bar ed iniziò a sculettare e a ballare su uno dei pali. Mi dava tremendamente fastidio vederla umiliarsi a quel modo, avendola conosciuta davvero, avendo scoperto il vero tesoro di una ragazza come lei. Non un premio da comprare per una notte, non un oggetto da sfruttare a pagamento; ma una bellissima ragazza da conquistare con dignità e correttezza, nella sua dolcezza, nella sua simpatia e per la sua incredibile voglia di vivere. Mi guardai intorno, per distogliere lo sguardo da quella visuale poco gradevole, per quanto interessante potesse essere agli occhi di chiunque; cercai quel porco, per poter vedere che faccia potesse avere un criminale del genere: eppure, al di là dei due/tre buttafuori che si guardavano intorno circospetti, non c’era nessuno che potesse sembrare un criminale. C’erano solo uomini ubriachi ed infoiati, malati al punto da andare anche con delle ragazzine.
La rabbia mi saliva dentro sempre di più, al punto che forse, pensai, era meglio per tutti se me ne fossi andato. Meglio per me, che calmandomi avrei evitato guai con la sicurezza; e meglio per Allison, che avrebbe fatto il suo, seppur sporco, lavoro, senza la vergogna di farsi vedere dalla mia ombra che la sorvegliava.
“Non ho i soldi per andare di sopra, mi dispiace …” le urlai, mentre ondeggiava al ritmo di musica. Era una canzone bellissima, adatta per una romantica serata d’amore, e rovinata dall’atmosfera di quel luogo.
“Fa niente …” mi rispose “… sarà per la prossima volta. Lo sai che mi piace chiacchierare con te …” “Lo so” risposi, sottovoce, più a me stesso che a lei.
Se solo avessi conosciuto un modo per farla rimanere al sicuro, se solo avessi davvero potuto proteggerla, l’avrei portata via con me all’istante. Ma in quella prigione c’ero entrato anch’io ormai.
Al cambio di canzone la vidi rivolgere lo sguardo verso una delle bariste che, probabilmente istruita dal capo, le stava indicando con un cenno del capo, un angolo buio del locale. Era difficile distinguere chi fosse seduto a quel tavolo, ma oltre la cortina di fumo e i vapori dell’alcool, riuscivo ad intravedere una sagoma piuttosto consistente, ed immaginai che fosse un omaccione di quelli grossi, e magari con le tasche gonfie di soldi. Magari un californiano, uno con orologi e collane d’oro massiccio che coprono ogni centimetro di pelle.
Bridget, come si era fatta chiamare quella sera, scese dal bancone e, preso lo champagne e due flute, si preparò ad andare proprio verso di lui.
“È ora che vada” mi disse “se riesco a portarlo di sopra, per stasera ho finito”. C’era quasi un tono speranzoso nella sua voce, come se la ricompensa potesse valere un tale sacrificio. Probabilmente era uno di quelli da servizio completo, il che mi fece ulteriormente rabbrividire.
“Ma come fai?” le chiesi, cingendole i fianchi nudi con un abbraccio. Sperai che per un attimo si soffermasse a guardare attentamente i miei occhi, e vi scorgesse tutto lo sdegno e la disperazione che provavo a vederla in quello stato.
“Ha sessant’anni … farò in fretta …”. Cercò di sorridermi, dandomi quella misera giustificazione, ma era palese l’imbarazzo che sempre aveva a parlare con me di certe cose. Sapeva che non mi scandalizzavo, né che l’avrei mai offesa davvero, ma probabilmente dopo che si era aperta davvero con me, si sentiva legittimamente a disagio a mostrarsi in quelle vesti. Mi diede un veloce bacio sulla guancia e si diresse verso il nuovo cliente.
Laddove le sue labbra si erano delicatamente impresse sulla la mia pelle e laddove le mie dita avevano sfiorato la sua, era ancora il fuoco. Sapevo cosa significava; dovevo fare qualcosa.
Mi cercai un posto vicino a quello dove Allison stava intrattenendo il suo ospite, lavorandolo ai fianchi per ottenere il suo scopo. Pensai che quel tavolino alla loro destra, non molto distante e a riparo da occhi minacciosi ed indiscreti, fosse perfetto per me. Nessuno mi avrebbe visto, lei non mi avrebbe visto, ed io avrei continuato a vegliare su di lei. Se fossi stato beccato in fondo, mi avrebbero dato del voyeur ma, in quel marasma di pervertiti, uno in più non faceva scandalo. Accesi l’ennesima cicca e stessi lì a guardare.
Ero un masochista, pazzo e masochista come quel leone di cui Allison mi aveva letto e di cui avevo avuto la nausea. Forse ero davvero malato e ossessionato da lei, ma non potevo sopportare che mani sudice violassero quel corpo senza colpa.
La vidi muoversi su di lui come aveva fatto con me, provocandolo, e paradossalmente sembrava farlo con trasporto. Era brava nel suo lavoro, era evidente. Lui infatti gradiva in maniera più che evidente e le sue mani scorrevano sulla sua pelle cercavano di sciogliere i lacci del reggiseno anche se le mani di lei correvano immediatamente ad impedirglielo.
Sentivo dentro di me nascere una forza violenta e nera, pronta ad esplodere da un momento all’altro e a riversarsi impetuosa su chiunque mi si fosse parato davanti.
Controllavo quelle dita grasse e rugose e, nonostante non riuscissi a vederlo, potevo figurarmi con grande facilità l’eccitazione sul viso di quel porco; avrei voluto cavargli gli occhi e tagliargli quelle dita una ad una, lentamente, provocandogli lo stesso dolore che stavo provando io ad assistere a quello spettacolo indecente.
Poi fu un lampo: mi avventai su quell’ammasso di lardo, scaraventando su una poltroncina lì di fianco la povera Allison, non curandomi di dosare la mia forza e la mia rabbia. Non so come vi arrivai, né come mi districai dagli uomini della sicurezza che subito mi si erano parati addosso: l’ultimo mio ricordo infatti, erano le mani di quell’uomo che scostavano il filo del perizoma di Allison e accarezzavano la parte più intima di lei.
Mi impegnai con tutto me stesso a tirare pugni su quella merda ambulante e, con la mia giaccia tra le mani, tentai anche di strozzarlo. Sentivo i gemiti del vecchio, che arrancava nella ricerca vana di aria e aiuto. Mi accorsi che mi avevano preso solo quando non sentii più la terra sotto i piedi, e la temperatura glaciale dell’esterno mi fece capire che mi avevano portato fuori.
Dopo fu solo buio e sangue e dolore.
Tra pugni e calci, e il sangue che grondava dalla mia fronte per la testata che avevo preso e il calcio che mi aveva fatto finire a terra, riuscii a scorgere la sagoma di Allison, alta ed esile sulle decolleté nere lucide e dal tacco vertiginoso. Stringeva contro si sé la mia giacca, troppo grande per lei, ma che a malapena scendeva a coprirle i fianchi. Se ne stava lì a guardare, inerme, la bestia morire al mattatoio, tranciata e finita. La sentii implorare di smetterla almeno un paio di volte, ma le sue grida arrivavano impotenti alle orecchie dei miei aggressori. La mannaia continuava a sferrare i suoi fendenti fatti di percosse e il fuoco delle lesioni misto alla polvere dell’asfalto non si estingueva dalle ferite.
Il forte odore del sangue, ferroso e salato, mi era entrato sin dentro il cervello e mi faceva venir voglia di vomitare anche l’anima. Probabilmente qualche calcio era arrivato anche a lesionarmi lo stomaco, e non mi sarei stupito se avessi iniziato a sputare sangue dalla bocca. Sentivo la ruggine in gola, pronta ad essere espulsa. O forse, e questa era la mia grande speranza, il sangue dal naso era sceso fino in bocca oppure avevo il labbro spaccato. Ora che ce l’avevo fatta non potevo morire, anche se sentivo già il volo degli avvoltoi avvicinarsi.
Ma dovevo resistere. Allison aveva già visto di me la più brutta delle immagini, non volevo assistere ad uno spettacolo anche peggiore.
Quando sembravo più morto che vivo, incapace di reagire, la morsa della violenza di allentò. Percepii Allison che parlottava con loro, con aria supplichevole. Aprendo leggermene le palpebre vidi i due scimmioni allontanarsi ed Allison avvicinandosi, chinandosi amorevole su di me.
Peggio di una bambola rotta cercai di tirarmi su, ma mi sentivo peggio di un vaso di cristallo fatto in mille pezzi. Non avevo idea di come fosse ridotta la mia faccia, ma in fondo ero ancora lucido e non conciato poi così male, al di là di qualche doloretto, normale, per la caduta e le botte.
Ero un pappamolle, non c’è che dire; due pugni, e già vedevo S.Pietro sventolarmi davanti le chiavi del Paradiso.
Allison mi posò la giacca sulle spalle e con dei fazzolettini di carta mi tamponava il sangue sulla fronte e sul naso. Le rimisi il giaccone addosso, scherzoso: “Tieni … serve più a te che a me …”
“Ridi pure Tyler?” mi riprese, severamente. “Lo so, scusa … è meglio se mi sto zitto!”
“Vattene” rispose, fredda “per stasera hai già fatto troppi casini”
“Sì, hai ragione” confermai, in colpa “ma credimi non c’ho visto più!”
Allison mi guardava, silenziosa, ed il suo sguardo non riusciva a tradire alcuna emozione. Non era in pensiero per me, non era arrabbiata: niente.
“Non rientrare in quel locale, Allison … vieni via da lì!”
“Ancora Tyler” gridò, esasperata “ma non hai ancora capito? Io non posso …”
“Io posso aiutarti, se solo mi lasciassi …” “tu Tyler? Davvero puoi aiutarmi?” chiese, in tono palese di sfida e sdegno; ora era davvero arrabbiata. “E come? Mettendoti a fare a cazzotti con ogni cliente che mi tocca? È il mio lavoro, dovresti saperlo!”
Già, lo sapevo; ma non potevo tollerarlo. Perché l’avevo vista vivere di giorno, e avevo sperimentato che poteva essere una ragazza come tutte le altre. E poi c’era quell’altra cosetta, ancora più complicata, che mi impediva di sopportare la sua presenza in quel luogo. Se ne stava rientrando nel locale, e sapevo che se l’avessi lasciata andare, non l’avrei più vista. Non aveva l’aria di una che aveva apprezzato il mio gesto, né di chi mi avrebbe perdonato.
“Ti prego Allie … vieni via con me!” “Tu mi preghi?” invei, tornando sui suoi passi “pensa tu a pregare piuttosto, Tyler!” Non capivo dove volesse arrivare. “Vai via e prega che nessuno massacri di botte anche me nelle prossime ore, prega che io possa conservare ancora questo posto o il tetto che ho sopra la testa …”
Fu lì che mi ricordai della cena in pizzeria, di quando mi aveva raccontato la storia della sua collega. Capii il perché della sua rabbia e avrei voluto sotterrarmi per la vergogna di aver compiuto quella stronzata. Non volevo farla cadere nella merda più di quanto già non fosse, ed invece era proprio quello che avevo fatto.
Attrezzate un plotone ed eseguite la condanna di morte. Mi sacrificherò io al posto suo.
“Allison …” la chiamai, mentre di nuovo mi voltava le spalle per andarsene, lasciando per terra il giaccone “Allison!”. Racimolando le poche forze che mi erano rimaste, la ricorsi. Era l’unica cosa che ero in grado di fare da quando l’avevo conosciuta. Eppure ogni volta sembrava funzionare; ergo, non l’avrei lasciato intentato questa volta.
La costrinsi a voltarsi e, prendendole il volto tra le mani, stampai un bacio irruente sulle sue labbra. Era il nostro primo bacio, ma non si avvicinava neanche lontanamente a quello che avevo in mente per noi. Io avevo la faccia sporca e devastata, lei tra le lacrime si era ridotta in uno stato altrettanto pietoso. All’inizio, forse avendola spiazzata, sembrò rimanere passiva alle mie labbra sulle sue o, sperai, ricambiò perché in fondo era quello che volevamo entrambi. Tuttavia, al mio ancor minimo tentativo di approfondire, quando sembrava avermi dato la sua approvazione a farlo, mi strattonò da lei, mordendomi anche leggermente le labbra, come punizione.
I suoi occhi erano pieni di furore e quel morso sul labbro inferiore sembrava davvero essere una bazzecola in confronto a ciò che avrebbe potuto farmi. Offesa e presa in giro anche da me: ecco cosa urlava, con tutto il suo corpo.
“Io … io” tentennavo, ma sentivo che dovevo parlare “mi sto innamorando di te Allison. Ti voglio per me … e non posso tollerare che ti lasci toccare da nessun altro”
Non seppi distinguere la sua reazione; ovviamente sembrava sorpresa, ma positivamente o negativamente non saprei dirlo. Furono le sue parole a ghiacciarmi, e a dirmi che non avrei avuto più di che sperare.
Ostinata e arresa a quella merda di esistenza che si trascinava dietro come una palla di piombo, mi urlò in faccia: “Io non sono di nessuno … nemmeno mi appartengo. E i problemi della gente come me non si risolvono solo con l’amore …”
Raccattai i miei quattro stracci e andai a leccarmi le ferite lontano, il più lontano possibile.

 












NOTE FINALI

Personalmente mi sento parecchio arrugginita dopo la scrittura di questo capitolo, quindi se troverete difficile la scorrevolezza lo capirò, perché nemmeno io sono soddisfatta.
Ci aspettano ora capitoli non facili, e questo è solo il primo. Ho avuto bisogno della pausa di due settimane per mettere in ordine le idee e perché ho avuto da fare.
D'ora in avanti non ci diamo più una data d'appuntamento, ma diciamo che in massimo una decina di giorni dovrei aggiornare.
Non voglio parlare del capitolo perché lascio a voi le conclusioni e se avete qualche domanda sapete dove trovarmi e quali strumenti avete a vostra disposizione.

à bientot

Federica

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Capitolo 11
*** Night in white satin ***


When you crash in the clouds - capitolo 10















Capitolo 10 

Night in white satin










soundtrack  


Mi ritrovai faccia a faccia con quel che restava di me stesso.
Il punto era che quella poltiglia che era la mia faccia, era solo la minima parte di ciò che era stato distrutto.
Il resto se ne stava tutto dentro, a macerare ed infettare come carcasse e a ferire come tanti pungoli arrugginiti. Ritrovarmi quel riflesso, di fronte allo specchio, costituiva davvero il male minore.
Probabilmente avrei dovuto fornire spiegazioni qua e là, certamente per strada sarei stato l’oggetto di sguardi inquisitori e maligni, ma solo io potevo sapere la pena che quei graffi e quei lividi si portavano dietro, il ricordo scottante della mia colpa, marchiato in ogni eventuale cicatrice.
Per quanto avessi evitato qualsiasi consumazione in quel locale, sentivo i miei abiti pregni di quell’odore nauseante di alcol, grasso e fumo, e ristagnava ancora nelle mie narici, come nella memoria, l’essenza acre e irritante del vecchio che avevo assalito: sapeva di profumo scaduto e medicinali; non capivo come le potesse accettare di piegarsi a quelle nefandezze.
Forse era vero che non capivo le donne, ma quello andava al di là di ciò che qualsiasi ragazza avrebbe fatto normalmente. Era come suicidarsi, come guardare in faccia il boia durante la propria esecuzione.
Buttai via camicia e maglietta, insanguinate e lorde, ormai inutilizzabili, riuscendo a salvare almeno i jeans.
Avrei dovuto fare dello shopping per rinfoltire il mio guardaroba. Sperai dunque di non dover essere costretto a regalare i miei già pochi risparmi all’ospedale per farmi visitare e medicare.
Mi osservai scrupolosamente, esaminando ogni centimetro di pelle e, con mio enorme sollievo, a parte qualche livido sul costato ed un’escoriazione sul palmo delle mani, era solo la mia faccia a sembrare un campo di battaglia.
Lavai via la polvere ed il sangue che era colato lungo le tempie che, seccandosi, si era annerito e raggrumato, e disinfettai al meglio le ferite ancora leggermente aperte. Purtroppo a nulla  servirono i miei sforzi di fronte ad un occhio, rosso ancora per poco, pronto a diventare nero, e ad uno zigomo gonfio.
Felpa e pantaloni della tuta, visto che il pigiama non è esattamente tra i miei indumenti preferiti, me ne andai nella zona giorno a stendermi un po’ sul divano. Sonno non ne avevo, l’adrenalina e la tensione per quanto accaduto erano ancora in circolo. Per fortuna Aidan non sarebbe stato nei paraggi almeno fino al mattino successivo, quando sarebbe tornato completamente fatto o, nella migliore delle ipotesi, su di giri; ed, anche in quel caso, avrei avuto poche occasioni di dialogo o scontro.
Accesi il vecchio mangiadischi di Michael ed avvicinai a me un bicchiere ed una bottiglia di rhum, uno bello tosto.
Ma non stavo tranquillo neanche a bere e a sentire musica.
La bocca amara dal sangue contrastava il calore del liquore e me lo rendeva imbevibile, cosicché neanche il mio umore non riusciva ad addolcirsi.
Il pensiero correva sempre a quanto accaduto solo un’ora prima e a quanto in meno di venti minuti, avevo buttato al vento e fatto volare via.
In più, cosa ancora più emeritamente cogliona, l’avevo messa in pericolo da me, con quelle stesse mani che erano ancora doloranti per i pugni tirati all’aria, nel vano tentativo di difendermi.
E sembrava essere contro di me anche il vecchio vinile che girava sul piatto. Mi parlava di lei ovviamente. Ma, d’altronde, probabilmente lo avrebbe fatto qualsiasi altro trentatré giri avessi preso.
Mio fratello ed i suoi gusti musicali … se non erano depressi e malinconici come lui non gli piacevano. Diceva che così esorcizzava il malumore: si è visto poi come lo ha esorcizzato bene …
Mi chiesi se mai avrei la possibilità di rivederla, se mi avrebbe accettato di nuovo nella sua vita e se avrebbe permesso a se stessa di fidarsi di me, ancora.
Odiavo lei per arrendersi ad una vita scritta per lei con la forza, da qualcuno che solo con il terrore deteneva il potere; ma odiavo forse più me stesso per essermi assimilato a quella politica, per aver pensato che i miei metodi valessero anche per lei. Anche se con metri diversi, non mi ero comportato tanto diversamente da chi la forzava a rimanere in quel locale; con la scusa del sentimento buono e giusto, la stavo trascinando a forza in qualcosa che, evidentemente, non voleva.
Ma forse era anche arrivato il tempo di non pensarci più e smetterla di farsi così male.

Just what you want to be
You‘ll be in the end

 
Quello che avrebbe voluto essere, ciò che avrebbe voluto fare, sarebbe toccato solo a lei deciderlo. Io non avrei più interferito; l’avrei aspettata, in silenzio. E se avessi fatto parte di ciò che avrebbe voluto … beh, non avrei potuto che esserne felice. Ma sino a quel momento, me ne sarei stato in disparte, perché era solo sua la vita e doveva riprenderne il pieno controllo, come io, duramente e neanche totalmente, ero riuscito a fare, anche un po’ grazie a lei.

And I love you
Yes I love you

Cazzo sì se ti amo, e mi sembra di amarti sempre di più ogni secondo che passa, quasi che l’averlo detto ad alta voce sia servito anche a me per realizzarlo pianamente. In fondo, quindi ti ho anche mentito. Non mi sto innamorando … perché sono completamente pieno di te, è inutile mentirsi, uno spreco di energie e parole vane. Come del resto era inutile stare lì a dire che non avrei fatto nulla finché non fossi stata tu a presentarti alla mia porta: alla prima occasione avrei strisciato ai tuoi piedi, avrei persino scommesso contro me stesso, tanto ero sicuro che alla fine lo avrei fatto.
Ma perché sono nato così cazzone?! Possibile che non mi sia rimasto un briciolo di puro orgoglio maschile?! Guarda come mi hai ridotto Allison!
Sentivo il brusio del giradischi e della puntina che scorrendo sul disco strideva e a volte stentava nell’avanzare, quel leggero soffio nella traccia che ti ricordava del tempo che era trascorso da quando il disco era stato inciso; mi sentivo avvolto da un’aura retrò, sospeso tra i ‘Sessanta delle rivolte e i ‘Settanta un po’ in bilico tra il passato ed il futuro: vivere una vita sospesi, non male come ipotesi. Ma poi ricordai che in fondo era quello che avevo fatto per quasi un anno e, per quanto facessero male i fatti di quella notte, non si poteva dire che da quando avevo incontrato Allison la mia vita fosse la stessa di prima; ero vivo, pieno di aspettative ed obiettivi, sentimenti e passioni. Sopravvivere in anestesia dal mondo non è poi dunque quella gran cosa.
Mi accorsi di non aver acceso nemmeno una sigaretta da quando era rientrato in casa e la cosa sembrava scivolarmi via tranquillamente; spensi distrattamente il giradischi e mi misi a letto, sperando che la notte potesse portarmi consigli migliori del giorno.

Fui svegliato da ripetuti colpi, leggeri eppure decisi, alla porta di casa.
Mi girai sul fianco, dando le spalle al resto della casa, aspettando che Aidan la smettesse di martellare su quella maledetta porta. Era andato in bianco anche questa volta … possibile che fosse così imbranato? Forse non ero fortunato nelle storie d’amore, ma portare al letto una ragazza non era mai stato un problema. Si era ripresentato a casa con un due di picche e senza chiavi: una nottata all’addiaccio sul pianerottolo non gli avrebbe fatto male.
Quando sembrava che ormai avesse deciso di smetterla, provai, ancora sghignazzando, a coprirmi sotto il piumone e a chiudere gli occhi. Ma niente da fare, il coglione riprese a battere sulla porta, ancora più insistentemente di prima. Fui costretto ad alzarmi, a prendermi tutto il freddo che quella notte aveva sfoderato e a far gelare il letto, solo per alzarmi e chiudere la porta della mia stanza. “Tanto non ti apro, è inutile che sbatti!!!”
Eppure c’era qualcosa di strano: solitamente, nonostante fossimo in piena notte, Aidan avrebbe blaterato ed imprecato urlando come se fosse stato pieno giorno, e nel palazzo tutti fossero attivi e pimpanti quanto lui. Invece, al di là di quella porta, c’era solo silenzio. Iniziai a preoccuparmi, e sperai che non si fosse cacciato anche lui in qualche guaio; solo quello ci mancava.
Avvicinandomi all’ingresso iniziai ad avvertire dei timidi colpi di tosse, quasi come se chi li producesse avesse persino il timore di farsi sentire e dare fastidio, seguiti poi da dei sussurri di una voce singhiozzante e flebile. “Ty … Tyler” invocava, quasi in agonia “sono io … Allison …”
Per quanto debole, era difficile non indovinare a chi appartenesse quella voce. Aprii velocemente la porta, senza badare nemmeno a controllare nello spioncino.
Mi aspettavo di trovarmela davanti, Allison, ed invece non c’era che un borsone lercio e consunto. Furono gli ennesimi colpi di tosse, forzatamente trattenuti e smorzati, ad attirare la mia attenzione e a mostrarmi Allison.
Appena la vidi, alla luce lampeggiante e smorta del neon quasi andato delle scale, mi sentii morire.
Era rannicchiata ad un angolo, vuoi per cercare evidentemente di scaldarsi, vuoi per protrarre la difesa istintiva da qualcosa o qualcuno. Forse ero un pessimista, ma non c’erano altre ragioni per cui Allison, che avevo baciato contro la sua volontà poche ore prima, si presentasse nel cuore della notte a casa mia: doveva essere successo qualcosa.
“Allie!” mi precipitai verso di lei, in preda al panico “cos’è successo???!”
Non mi accorsi di urlare, fin quando lei stessa, con un filo di voce, mi chiese di abbassare il volume della voce.
Le mani a martoriare uno straccio di fazzoletto, portate a coprire il suo volto, celavano alla mia vista i suoi tratti e la sua espressione. Per quanto potesse vergognarsi di ciò che era, non mi aveva mai nascosto il suo viso; andava troppo fiera, giustamente, della sua bellezza: questo suo gesto, oltre ad insospettirmi, mi fece temere ciò che avrei eventualmente scoperto se l’avessi obbligata a rivelarsi.
Non rispose ai miei ripetuti interrogativi, né la forzai a farlo, ma pensai che non fosse il caso di continuare ad accusare l freddo e le correnti d’aria che si concentravano lungo le scale.
“Dai, andiamo dentro” la invitai, e non se lo fece ripetere due volte, annuendo e tirando su col naso ghiacciato e raffreddato. L’aiutai ad alzarsi, appoggiandola a me, e le si arpionò al mio collo con le sue braccia. Mi accorsi solo allora, aiutandola a stare in piedi e a prendere il bagaglio, che i suoi vestiti, vecchi e logori, inadeguati per una  notte fredda come quella, erano completamente fradici. Non mi ero accorto che avesse iniziato a piovere, c’era troppo silenzio ed il ticchettio della pioggia sul ferro delle scale antincendio non mi aveva fatto da sveglia come era solito fare. Entrati in casa e chiusa la porta alle nostre spalle, mi sentii sollevato e protetto dal tepore che, grazie al riscaldamento, aveva intiepidito l’ambiente. Era certamente freddo, ma niente paragonabile all’androne. Quel lieve calore riscorre e placo anche Allison che non aveva smesso un attimo di mugugnare e tremare; non riuscivo a distogliere il pensiero dalle mille e mille ipotesi su cosa potesse esserle accaduto, mentre le prendevo un telo di spugna per asciugarsi e mettevo sul fuoco un po’ di latte per scaldarla.
Non riuscivo a guardarla, avevo una paura matta di scoprire qualcosa di sgradito o che comunque avrebbe potuto far riaffiorare la rabbia nei miei nervi, ancora tesi per l’azzuffata fuori dal club. In fondo, sapevo benissimo il motivo per cui era venuta a farmi visita a quell’ora: se avesse voluto chiedermi scusa, avrebbe di certo aspettato un orario più propizio per farmi visita. Ed invece, scrutando l’orologio del cellulare, potei constatare che erano le 3 di notte, e un’idea me l’ero già fatta, purtroppo. Lei stessa mi aveva urlato contro ed io mi ero dannato per averla messa in mezzo alla merda, più di quanto già non fosse.
Mi avviai alla poltrona dove era ancora seduta, nel vano tentativo di asciugarsi e ricomporre i capelli. A terra una pozza d’acqua ed il divano era bagnato come lei, ma poco importava se era lei a non stare bene. Lasciai la tazza di latte caldo sul tavolino e mi affacciai al finestrone; capii per quale motivo non avevo sentito la pioggia scrosciare lungo le condutture di scolo: stava nevicando. D’altronde un freddo del genere non poteva essere giustificato altrimenti. Mentre ancora guardavo scendere la neve sui tetti e posarsi delicatamente sulle auto nel vicolo, imbiancando e purificando, la guardai di sfuggita mentre era ancora di spalle e beveva “Ho aggiunto un po’ il cioccolato un polvere, è già zuccherato. Spero ti piaccia così” “Sì … grazie” rispose lei, già abbastanza rinvigorita. “Ah” aggiunsi “se vuoi i biscotti sono nella credenza, sotto lo stereo”. Mi ero allontanato nel frattempo per evitare di far cadere il mio sguardo su di lei eccessivamente, e far male ad entrambi. Io ne avrei sofferto a vedere come era stata ridotta, lei avrebbe sofferto perché proprio io ne ero stato la causa. Andai in camera e frugai nei cassetti del comò per darle qualcosa di asciutto da indossare: la sua borsa era talmente zuppa, che difficilmente si era salvato qualcosa lì dentro. Mi fermai un attimo a guardare fuori, affascinato dalla tormenta di neve che si abbatteva su New York e si faceva sempre più insistente: ficcai i naso fuori dalla finestra e mi misi ad annusare l’aria. Era una cosa che amavo far sin da bambino; nessuno mi credeva e tutti mi prendevano in giro, ma ho sempre pensato che il freddo della neve conferisse all’aria un profumo diverso, particolare, pungente e quasi dolce. Ho sempre amato la neve. Fa tacere e nasconde ciò che di brutto c’è in giro col suo manto bianco. Da piccolo non capivo come si potesse odiarla: i miei stavano alla finestra ed imprecavano, sperando che smettesse il più presto possibile; io invece schiacciavo il naso più che potevo verso sul vetro, facendola appannare, per poi disegnare o scriverci sopra. Ridevo di chi con l’auto in panne spalava la neve per farsi strada ed invidiavo chi veniva mandato a giocare a palle di neve. Mi piace ancora la neve, come piaceva a Michael, con cui stavamo le ore a giocare a carte e mangiare cioccolata quando fuori tutto diventava bianco.
Senza nemmeno accorgermene mi ritrovai a scrivere sul vetro il nome di mio fratello, come facevamo da bambini. Mi manchi Michael, ti scriverò presto, promesso.
Trovata una maglia non troppo grande, tornai nella zona giorno e mi convinsi a parlare con Allison. Avevamo aspettato fin troppo ormai, eppure era così tipico di noi che non ci dava fastidio. Si era spostata dal divano e si era accucciata sul davanzale interno; anche lei era stata rapita dalla neve. Poggiando lo sguardo casualmente sull’asciugamano che aveva lasciato sul divano, mi accorsi di alcune sbavature di sangue, per lo più ossidato e coagulato. Cominciai amaramente a realizzare che quanto lei stessa temeva era accaduto, purtroppo. Mi sedetti a terra, al suo fianco, mentre il suo sguardo continuava a rimanere fisso sul vetro e perso nel vuoto della strada bloccata dalla neve.
“Mi ha sempre affascinato il colore della neve di notte … tutto diventa rosso …” disse. Sembrava persa e sconvolta.
“È successo vero?” le chiesi “ti hanno sbattuta fuori? … perdonami”
Ero contento in parte che fosse accaduto perché, al di là di ciò che provavo per lei, non era giusto che trascorresse la vita a fare la schiava ad un vecchio pappone. Ma il modo in cui era accaduto andava ben al di là delle mie speranze e delle mie aspettative. Non mi aspettavo nulla di romantico o letterario, solo che si armasse di un minimo di amor proprio, coraggio e, fatti i bagagli, scappasse via. Ed invece l’avevano malmenata e mandata via, lasciandola senza un soldo e senza una casa, noncuranti nemmeno della notte che avrebbe trascorso al gelo.
Ancora si rifiutava di parlarmi: era il minimo; probabilmente era venuta a rifugiarsi da me perché sapeva che ero l’unico che l’avrebbe accolta. Giocava con me: l’aveva sempre fatto e continuava a farlo; ma era perché io gliene davo la possibilità, imperterrito, pazzo di lei e stregato da qualcosa che dovevo ancora capire. Non era per la bellezza, ordinaria e pulita, non era per il carattere, testardo e schivo peggio del mio. C’era un qualcosa in lei che sentivo essere anche parte di me, la condivisione del dolore che avevano sperimentato, l’aiutarci a vicenda anche senza rendercene conto: la guardavo e vedevo me stesso; ecco perché mi ero innamorato di lei.
Mi alzai da terra e mi misi a sedere sul davanzale, di fronte a lei. Mi costrinsi a guardarla e notai che anche lei aveva un visino niente male, con lividi, gonfiori e qualche graffio. I capelli si stavano asciugando ma i vestiti ne avrebbero avuto ancora per molto. “Ti ho … preso una mia maglia, se vuoi cambiarti. Almeno non ti becchi un malanno a stare con quei vestiti umidi addosso …”
Mi rispose con un sorriso tenue, quasi accennato e forzato. Si alzò e senza curarsi della mia presenza, dandomi le spalle si tolse il camicione maschile di velluto che indossava e mise la mia maglia, mostrandomi i lineamenti perfetti dei suoi fianchi e della sua schiena nuda; distolsi lo sguardo per un momento, concedendole quella privacy che in quel momento sembrava non interessarle. La mia maglia, bianca e a maniche lunghe, sembrava piuttosto una camicia da notte, visto che era troppo grande per lei.
“Non la metto più … se vuoi puoi tenerla, ti sta bene” le confessai, ma non sembrò curarsi più di  tanto del mio complimento. Approfittando dell’aumento della temperatura – avevo nel frattempo riaperto le valvole dei termosifoni, chiuse prima di andare a dormire, unico modo per salvarsi dai bollori del riscaldamento centralizzato – si liberò anche dei pantaloni, buttandoli a terra vicino alla camicia e alla sacca che portava con se. La aiutai a metterli sui radiatori ad asciugarli e proposi di fare altrettanto con quelli che aveva in borsa: “Non credo si sia salvato qualcosa con questa tormenta …” dissi, aprendo il borsone. “No aspetta!” urlò, correndo a bloccarmi.
Ma era troppo tardi, ormai avevo aperto il borsone ed il segreto che custodiva era stato svelato. Non c’era niente dentro, niente che potesse essere di una certa utilità: l’unico indumento era una camicia da notte di satin, lunga e femminile, un’armonica a bocca e tanti libri, tutti quelli che io le avevo regalato.
“Sono” balbettò “sono le uniche cose che sono riuscita a salvare …” Era al limite, si vedeva che stava per scoppiare e mi augurai che non fosse un’implosione, perché ciò che aveva da urlare e da reclamare doveva venir fuori, e non ucciderla dentro.
“Non ho più niente Tyler!” pianse, scoraggiata, in preda alle prime lacrime che le vedevo versare “non ho più niente!”.
Si buttò tra le mie braccia e quel pianto, che forse agognava da una vita, sembrava non trovare una consolazione. Ma doveva piangere, doveva tirare tutto fuori, per poter ricominciare a vivere serenamente.
“Shhh! Shhh!” la consolai, come meglio potevo, mentre accasciata per terrà si era rannicchiata contro il mio petto sempre più piangente “è finito tutto Allie … è finito tutto ora”
“Ho avuto paura!” mi disse e le chiesi se avesse voglia di dirmi cosa le era successo. Avevo paura di sentire il suo discorso, perché paradossalmente, per quanto mi sforzassi di non pensarci, la mia mente aveva già girato almeno due o tre film sulle situazioni possibili e plausibili in cui Allison potesse essere stata coinvolta, uno più nero dell’altro e temevo che tra quelli ci potesse essere anche la realtà.
“Ho continuato a lavorare fino all’una. Tornata a casa trovo un paio di uomini accampati lì per terra, dove capitava, e uno steso sul mio letto. Gli ho detto di andarsene, che era casa mia quella …” continuò il suo racconto, alternandolo con singhiozzi che neanche un intero bicchiere d’acqua era riuscito a placare “… ma parlavano una lingua incomprensibile, forse arabo, forse arabo ... non lo so … era difficile distinguerli al buio … ma poi sono arrivati due che lavorano per il capo e mi hanno detto di andarmene. Sapevo di non poter combattere contro di loro, allora ho cercato di radunare le mie cose, ma non appena ho provato a prendere anche solo i miei slip, mi hanno presa e sbattuta al muro …”
Avrei voluto fermarla, pregarla di  smetterla, perché come racconto era già abbastanza chiaro e forte, e poteva bastare. Ma era un treno a cui si sono rotti i freni, e non sembrava in grado di smettere, e forse nemmeno voleva.
“Devo aver sbattuto la testa da qualche parte, perché ho dei vuoti qua e là … ricordo solo che ad un certo punto ho avvertito delle mani risalire sulle gambe e altre hanno tentato di slacciarmi il reggiseno”
Il senso di nausea e rabbia che mi aveva pervaso quando l’avevo vista tra le luride braccia di quel vecchio, con le nodose mani nodose e grasse che carezzavano la sua pelle era nulla a confronto di ciò che stavo provando mentre si sfogava con me. La collera era amplificata dall’impotenza del proprio essere, dalla consapevolezza che tutto questo poteva essere evitato se solo … ma con i se non ci si combina nulla, al di fuori di ipotetiche congetture che vanno bene ai filosofi, e non agli uomini e le donne che nel mondo vero ci vivono e sopravvivono con le unghie e con i denti. Dovevo … dovevamo pensare al presente, e a quello che ora potevamo fare per dimenticare il passato.
“Sono scappata via appena ho realizzato cosa stesse accadendo, mordendo, graffiando e prima che potessero raggiungermi e uccidermi di botte ero già in metro sulla strada verso casa tua.”
Le lacrime si erano fermate, ma l’angoscia per quanto era accaduto e la disperazione per un futuro che sembrava essere ancora più nero, l’avevano sfigurata. Prese in mano quegli oggetti che aveva con se, in particolare la camicia da notte che aveva uno strappo ad un lato; pareva volerli accarezzare, trattarli con una cura e una delicatezza che le avevo visto usare solo con i libri fin’ora: “era la preferita di mia madre …” spiegò “… e l’armonica era di mio padre. È tutto ciò che ho di loro … non volevo perdere anche questo”. Non volli indagare oltre, mi sembrava che la violenza subita ed il racconto che me ne aveva fatto fossero uno strazio sufficiente per la sua serata. Me ne stetti lì, a testa bassa, a guardarla emozionarsi davanti ai suoi ricordi.
“E i libri?” Una stupida domanda uscita fuori nel momento meno opportuno, uscì tipicamente dalla mia bocca.
“Perdonami Tyler per come ti ho trattato prima, fuori dal locale!” fu questa la sua risposta, il che mi fece capire che probabilmente avevo ancora una speranza con lei, ma la tenni per me; illudersi fa male, farlo per due volte è un attentato suicida.
Allison prese ad esaminare con cura i libri, forse nella speranza di non trovarli rovinati dalla neve che si era infiltrata tra la stoffa della borsa e la carta dei vari tomi. Glieli avrei ricomprati tutti, se fosse stato necessario, se le avesse restituito il sorriso per sempre.
“Ho solo ricordi con me … cose che mi legano a chi voglio bene … non ho altro Tyler!” riprese a piangere “niente altro!”
La abbracciai, d’istinto, perché anche se utopica, la speranza che mi aveva dato sembrava essere più che concreta, almeno ai miei occhi. Ci teneva a me, ed io tenevo a lei. Tanto mi bastava per essere felice, anche per lei. Se non fosse stato amore l’avrei capito, ma averla vicino mi bastava per essere sereno e poter continuare ad aiutarla “Hai me” la rassicurai “sono qui” Sì, mi aveva, rapito anima e corpo e consegnato a lei da fate ignoranti e meschine, eppure efficienti nel proprio lavoro.
Sentii le sue labbra stamparsi ripetutamente sul mio collo e le sue mani diventare febbrili, dapprima sulle braccia, per poi scendere fino ai fianchi. Non seppi come comportarmi, se assecondarla e per insano egoismo soddisfare i miei desideri, oppure oppormi e da gentiluomo ricordarle che non aveva bisogno di certi pagamenti per contraccambiare il mio aiuto. Optai per la seconda.
“Allison” la ripresi “ti prego …” Mi alzai da terra e la scostai, facendo attenzione ad ogni mio minimo movimento per non ferirla o offenderla. Mi spostai nel cucinino con il pretesto di sciacquare la tazza del latte e mi accorsi, con la coda dell’occhi, che mi seguiva con la coda dell’occhio. Una volta riposte quelle quattro stoviglie che avevo lavato come scusa, mi voltai verso di lei, che si era appoggiata allo stipite della porticina che separava il tinello dall’angolo cottura; sembrava volersi nascondere dietro quella minima parete e l’unico occhio che lasciava intravedere era persino nascosto dalla massa informe e ribelle di capelli che si erano ormai completamente asciugati. Era così innocente eppure così sensuale, gattina e leonessa racchiuse in unica persona. Non ce la facevo a starle lontano troppo tempo, ma starle vicino era altrettanto pericoloso: e da perfetto coglione mi ero tirato da solo la zappa sui piedi, lasciando che indossasse la tua maglia e lasciasse scoperte le sue bellissime gambe bianche. Non era la sua bellezza ad avermi colpito, non era una bellezza imponente e statuaria, formosa e prorompente; eppure starle vicino era come ammirare una scultura classica di dea, era inutile negare la sua bellezza, che lascia comunque senza fiato.
“Ho bisogno di te” sussurrò ed in lei c’era tutta la necessità primordiale e l’urgenza di sentirmi vicino che provavo io per lei. “Ho bisogno di te” ripeté, e sapevo cosa voleva dire.
Mi avvicinai e per un flash vidi la scena dall’esterno; non potei evitare che una lacrima scendesse persino sulle mie guance. Allungai un braccio e  con la mano cercai al buio del corridoio la sua. L’altra mano sulla sua guancia, a spazzare via le ultime gocce di tristezza che cadevano giù dagli occhi, troppo belli per essere rovinati dal pianto.
“Fai l’amore con me, Allison. Fai l’amore con me …”












NOTE FINALI

Bene, eccomi a voi con l'ennesima schifezza. Probabilmente non avete capito nulla del capitolo perché rileggendolo mi sono resa conto di quanto sia effettivamente confuso. Ma forse è perché i nostri due beniamini non effettivamente confusi...non so se il finale sia appropriato alla storia, forse ho esagerato, forse è troppo presto: sta a voi giudicare. 
Ho in serbo per voi una sorpresa per il prossimo capitolo: riuscite ad immaginarla? Mi fa piacere poter annunciare tralaltro che è già avviato. Ma non posso dirvi altro.

Come alcune di voi sapranno, durante questa settimana ho scovato dei video fan made su Youtube
che trovato pertinenti alla storia. Ditemi cosa ne pensate, vi lascio i link qui di seguito.

trailer 1  trailer 2

Vi lascio perché non ho molto tempo e vi do appuntamento al prossimo capitolo, ringraziandovi per l'ampio seguito e ricordandovi che, per qualsiasi cosa, c'è un angolo tutto a vostra disposizione per contattarmi. 





à bientot

Federica

 

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Capitolo 12
*** I want you so (need) ***


When you crash in the clouds - capitolo 11






















Capitolo 11
I want you so (need)


soundtrack




…when you fell
you fell towards me…


"Fai l’amore con me Allison, fai l’amore con me …”
Quelle parole erano entrate nel mio cuore con la forza di un fulmine, come una scossa elettrica che ti prende scuote e lascia folgorato. Incapace di muovermi e di reagire. Incapace di distinguere lo spazio ed il tempo che, immobili attorno a me consentivano una pausa dal caotico corso degli eventi.
Ero appena fuggita da quello che, nel bene e nel male era stato il mio mondo e la mia vita, la mia certezza ed il mio futuro negli ultimi anni. Me ne ero andata via a gambe levate correndo all’impazzata per sfuggire a mani grandi ruvide e sudate di uomini senza volto né ritegno. Mi ero lasciata alle spalle il puzzo dei soldi sporchi e dell’alcool, che rendeva meno amaro il sapore della mia condizione di schiava Mi chiamavo ballerina, ma davanti allo specchio del camerino ogni giorno si rifletteva una puttana di bassa lega, che aveva rinunciato alla sua vita per stupido orgoglio e si era lasciata annegare nella merda.
Anche ora mi ritrovavo tra le braccia di un uomo, come se nella mia vita fossi vincolata a quella condanna, eppure stavo bene protetta e sicura come non lo ero mai stata in vita mia.
Mi chiedeva di fare l’amore con lui … e chi lo aveva mai fatto?!
Avvezza a certe pratiche, avrei saputo soddisfare ogni sua richiesta, eppure non sapevo cosa volesse dire fare l’amore. Non l’avevo mai fatto. Per me era sempre e solo sesso; doveva esserlo, uno scambio equo di merce, se non volevo impazzire.
Ma con lui no, con lui doveva essere per forza diverso. Lo era stato fin dall’inizio, doveva esserlo anche in quel momento.
Lascia che le sue labbra mi raggiungessero di nuovo, questa volta senza trovarmi impreparata e pienamente consenziente.
Era cauto, docile, come chi sa che non può sbagliare di nuovo.
Ci sfiorammo appena, ma tanto bastò per rimanere entrambi folgorati.
Tuttavia, senza volerlo, in un moto di difesa istintivo, mi accorsi di essermi tirata indietro ancora una volta, sebbene volessi quel bacio, lo volessi con tutta me stessa.
Fu così che mi obbligai a fare un passo avanti verso di lui che, a testa bassa, se ne stava in piedi di fronte a me, con aria dimessa, trascinandosi appresso, come una spada di Damocle, una condanna di colpevolezza che non gli apparteneva.
Appoggiai le mani al suo petto e mi tirai su in punta di piedi, lentamente, colmandomi del suo odore, facendo attenzione a memorizzare ogni centimetro del suo corpo su cui i miei occhi si andavano a posare.
Eppure i suoi occhi no, mi sforzai di non cercarli, non ancora almeno; mi conoscevo abbastanza per sapere che, altrimenti, mi sarei tirata indietro, per pura codardia e complesso di inferiorità. Pur conoscendo i suoi sentimenti, infatti, non potevo dimenticare quale fosse la mia condizione e quale la sua: ero solo una ragazzina povera, ignorante ed anche un po’ delinquente, lui il ragazzo che l’aveva tirata fuori dai guai. Come potevo sperare di essere realmente sua pari?!
Allora mi concentrai sulle labbra, carnose e straordinariamente rosse, che attendevano e supplicavano di congiungersi con le mie.
Le accontentai e sembrarono esultare al nuovo incontro. Presi entrambi dalla foga del momento, ci abbracciammo, questa volta senza esitazione alcuna, prorompendo ed impossessandoci del corpo dell’altro. Mi stava baciando, Tyler Hawkins mi stava baciando nel corridoio buio di casa sua; ed io stavo baciando lui: situazione talmente assurda da essere dannatamente vera e meravigliosa.
Avvertivo le labbra umide e formicolanti, dischiuse dalle sue, dolci e decise, le guance irritate per la barba, leggermente visibile ma ispida, che sfregava il mio volto.
Mi ritrovai ad infilargli le mani sotto la felpa, e quasi mi imbarazzai, come una ragazzina alla sua prima volta, sentendo i lievi muscoli sotto la maglietta, desiderando al contempo di poter godere del calore della sua pelle sulla mia.
Oddio!!! Non voglio che la smetta!!! Non voglio che finisca.
“Dov’è Aidan?” ansimai sulle sue labbra quasi soffocando, aggrappandomi ai suoi capelli come se fossero un salvagente che tiene a galla e cercando le sue labbra come potessero offrirmi ossigeno.
“È fuori per la notte … tranquilla” rispose altrettanto concitato.
Lo volevamo entrambi e sapevamo che al di là delle conseguenze ne avevamo bisogno quasi fosse acqua nel deserto.
Eravamo così diversi eppure così simili opposti fatti per attrarsi e comporsi.
Raggiungemmo la sua stanza a stento sia per il buio, sia per l’impazienza che avevamo di donarci completamente all’altro. Ma soprattutto percepivamo la stessa urgenza del sentirsi vicini uniti pronti per ricevere dall’altro quell’aiuto che a parole non eravamo mai stati in grado di implorare.
Le nostre mani correvano febbrili ed impazienti sul corpo dell’altro e scoprivamo la forza di strapparci gli abiti di dosso, ma anche la tenerezza di una carezza dona sollievo.
Fu così che, sotto il tocco delle sue mani lunghe calde e sapienti, mi ritrovai nuda ed, in un moto di timidezza, provai a coprirmi come meglio potevo. Mi sentivo sporca, inadeguata, profanatrice di un’anima così pura come la sua. Io, che del mio corpo mi ero sempre sentita padrona, tanto da buttarlo via come se non mi appartenesse, come se fosse un vecchio straccio logoro e sviato, mi ritrovavo a fare i conti con la mia anima, venduta al diavolo per fame, e che ora reclamava gli interessi su una vita che le confacesse. Un’anima altrettanto buona, confidai, che avevo dimenticato di possedere.
Concentrata come al solito su di me, persi completamente la dimensione di ciò che mi stava accadendo attorno e non badai nemmeno alla magnificenza di quanto avevo davanti agli occhi. Tyler era davanti a me con la purezza del bianco marmo e tutta la sensualità che un uomo può trasmettere di fronte alla donna che desidera. Un mix micidiale di dolcezza, potenza ed eccitazione, che mi dava alla testa più di qualsiasi sostanza stupefacente di cui avessi mai fatto uso. Il suo corpo non era prepotente, né reclamava attenzione, eppure sentivo che, a lasciarmi avvolgere tra le sue braccia e le larghe spalle, mi sarei sempre sentita al sicuro. Non era un narciso, era evidente che non teneva particolarmente al suo aspetto: era semplicemente un ragazzo, come me, come quelli che avrei frequentato se non me ne fossi andata da Indianapolis, che voleva farmi sentire speciale, come non mi sentivo più da troppo tempo.
Le sue lunghe mani, discrete ma non per questo inesperte, risalivano lungo la mia schiena ed il suo naso percorreva la linea del mio collo, accompagnandosi con piccoli baci lasciati qua e là a bruciare la mia pelle, solleticandomi e caricandomi, come una bomba ad orologeria.
“Non temere” mi disse, accarezzandomi il volto “sei bellissima”.
I suoi occhi erano lucidi, profondi e blu come l’oceano di notte, ed avrei voluto volentieri tuffarmi in essi, scoprire ogni suo segreto, abbandonarmi in lui e rifugiarmi nel suo cuori e viverci per sempre.
Aveva detto che si stava innamorando di me. Ma io non conoscevo quella parola, non esisteva nel mio vocabolario. Eppure sentivo che era qualcosa di bello, di grande, e volevo conoscerla. Non sapevo se avrei mai imparato, ma volevo provarci.
Lo attirai a me e mi arpionai con le braccia al suo collo, appropriandomi delle sulle labbra, dolci e soffici, ancora una volt. In pochissimo tempo erano già diventate la mia droga, non potevo evitare di giocarci, succhiarle, assaporarle. La mia lingua le aveva leccate, gustate e la sua si era fatta strada nella mia bocca; prima timidamente, gentiluomo come sempre, poi sempre più affamato.
“Tyler” invocai, con lo stesso tono e la stessa devozione che si ha davanti al santo “io … io non so come si fa …”
Vedevo il suo sguardo perdersi in me, scrutare nei miei occhi una risposta che però non arrivava. Doveva suonargli davvero strana una frase di quelle che usciva dalla mia bocca! Avrebbe voluto aiutarmi, come sempre, togliendomi dall’imbarazzo di dover usare le parole per spiegarmi.
“Nella mia vita c’è stato spazio solo per il sesso” precisai “e non voglio farlo anche con te. Insegnami a fare l’amore, Tyler …”
Volevo imparare, volevo amare ed essere amata. E lui era la persona più giusta con cui farlo. Lui, che era riuscito ad andare oltre la facciata; lui, che sapeva leggermi dentro; lui, che mi amava.
Mi sorrise, mostrando leggermente i suoi denti bianchi e perfetti. Non c’era niente in lui che non andasse: non una sbavatura, non un errore. Mi ero sempre chiesta se per caso fosse stato un suo avo a posare per il David di Michelangelo. E, se c’era qualche minima imperfezione, come quel naso un po’ storto e la camminata un po’ strana, lo rendeva se possibile ancor più affascinante.
Sono senza fiato; in tutta la mia vita non ho mai desiderato un uomo con tanta intensità. Ogni carezza era un marchio a fuoco sulla mia pelle ogni bacio un timbro indelebile. Non ricambiavo i suoi sentimenti, almeno credo, eppure sentivo di fare la prima cosa giusta dopo tanto tempo. Darmi a lui non sarebbe stato mai un errore, perché lui si stava dando a me.
Avevamo ancora un ultimo indumento ad ostacolarci, eppure, quasi non desse fastidio, specialmente a lui, era come se fossimo già ben oltre, come se fossero le nostre anime a doversi unire, e non i corpi.
Percepivo, secondo dopo secondo, carezza dopo carezza, che stavo risalendo gli inferi, pronta a tornare umana; e, per qualche grazia divina, sapevo che c’era il paradiso ad aspettarmi. Mi sentivo bene viva e libera.
Improvvisamente, la sua bocca mi sfiora un capezzolo ed io sto già respirando affannata per l’eccitazione  quando lui mi spinge sul letto, finalmente. Mi domando se il calore che sentivo, l’aria che respiravo, i suoni che arrivavano otturati alle mie orecchie, fossero componenti di ciò che chiamano piacere. Strano a dirsi, per una come me, abituata a dare piacere, ma mai a riceverne.
Non c’era solletico, nei baci, non fastidio nelle mani che percorrevano senza sosta tutto il mio corpo.
Sentivo il respiro farsi sempre più pesante e sempre più chiassoso, la vista annebbiarsi ulteriormente al buio, obbligandomi a tenere gli occhi chiusi quasi dovessi addormentarmi, perdermi in un sogno, magari senza fine.
Poi, d’un tratto, tutto ciò che mi stava sconvolgendo svanì. Mi chiesi se per caso non fosse stato davvero tutto un sogno, da cui ero stata strappata a forza ed era ora di alzarsi ed andare al lavoro, alla mia condanna.
Mi riscossi dal torpore, ancora con le mani sul seno: ero nella stanza di Tyler, sul suo letto, ed il mondo girava nel verso giusto anche per me, questa volta.
Fuori la neve, ma dentro, tra quelle coltri, stava per divampare un incendio.
Alzai la testa, cercando di modulare parole e respiro: “Ty …” ansimai, al meglio delle mie possibilità. Per quanto ne sapevo, eravamo solo all’inizio, e mi preoccupai se il mio cuore avrebbe retto ad un’emozione tanto forte e grande.
Lo fissai e notai che il suo sguardo era allo stesso modo fermo sul mio: le sue mani sui lembi del mio intimo, supplicando con gli occhi il permesso per proseguire.
“Vai” gli ordinai. Non avevo più dubbi e rigettai la testa all’indietro sul cuscino.
Con un fremito sentii che la stoffa scendeva lentamente le gambe e sentii il suo sguardo spogliarmi ancora, nonostante fossi ormai definitivamente nuda sotto di lui.
Bruciava la stoffa, mentre scorreva lungo le gambe, scottavano le sue mani mentre mi sfilava gli slip. O, più semplicemente, ero io ad essere incandescente.
Sentii le sue labbra sul polpaccio, risalire poi più su verso l’interno coscia, delicatamente: sapevo cosa stava facendo e, bene o male, sapevo anche cosa avrebbe provocato; tuttavia non avevo idea delle proporzioni, della potenza e della grandezza di quanto stava per accadere.
Mi affidai completamente a lui, alle carezze delle sue mani e ai baci delle sue labbra, a contatto con le mie.
Gradualmente, ma sempre più imponente, mi sentii boccheggiare impotente, la testa ormai altrove. Era come se la mia mente si fosse staccata dal corpo, un viaggio esoterico in un modo lontano, dai colori ambrati e dai profumi orientali. Tutto andò a convogliarsi lì, dove sentivo ardere il fuoco. Mi sentivo morire, impotente com’ero in preda ad un’agonia piacevole; eppure non avrei mai posto fine a quel dolce dolore, avrei fatto di tutto per farlo durare in eterno.
Non mi vergognavo più di fronte a lui di quello che ero stata, perché Mallory e le altre non c’erano più; ero solo io, per la prima volta c’era solo Allison. E c’era Tyler, che l’amava.
Il respiro si era tramutato in gemito e, quasi posseduta, le mie mani non sapevano stare ferme: i suoi capelli si ritrovarono vittime innocente della mia ricerca d’appiglio, il suo nome corse alla mia bocca decine di volte, un inno di grazie per il suo dono.
Quando lo spazio attorno a me tornò ad essere definito ed il tempo a scorrere, compresi appieno cosa mi era accaduto. Ed ero felice ed appagata.
Avevo conosciuto l’amore e, non paga, ne volevo ancora. Amata, volevo amare a mia volta.
Mentre ancora Tyler stava lì a venerarmi … credo che non esista termine migliore per definirlo … lo feci tirare su. L’amore aveva estinto il suo debito, ma io mi sentivo una strozzina e volevo gli interessi. In fondo lo dovevo a lui. Probabilmente soffriva per quel piacere che mi aveva dato, ma che invece, per sé, stava contenendo in un paio di boxer neri ormai troppo stretti.
Lo baciai come avevo imparato ormai a fare, come, avevo capito, gli piaceva. Piccoli e a fior di labbra, un contatto ravvicinato eppure fugace, con la lingua che a malapena si faceva sentire; passione e dolcezza, racchiusi in uno schiocco di labbra rapido e fintamente innocente.
Mi tirai su da quella che era stata la mia tomba e, mentre sulle sue labbra facevo una conoscenza approfondita con il mio sapore, lo aiutai a liberarsi dai boxer e, per il sollievo,a Tyler scappò un gemito più forte degli altri. Sorrisi sulle sue labbra, seguita da lui, e mi sedetti su di lui, che era in ginocchio sul materasso. Non c’erano spalle per sorreggermi, né un letto su cui fare forza per muovermi; solo una criniera incasinata di capelli biondi ed un po’ sudati, che erano la cima della nave a cui aggrapparmi e tirarmi su, con entrambe le mani.
L’aria la prendevo sai suoi polmoni, la forza dalle sue ciocche, il resto non aveva grande importanza.
Sentivo il piacere richiamarci entrambi come un reggimento alla battaglia, un dovere cui non potevamo né sapevamo sottrarci.
Sentivo i nostri cuori battere all’impazzata e, più in basso, il suo corpo pulsare contro il mio. Mi scappò quasi da ridere, perché sembrava un pugno che bussa ad una porta, e chiede il permesso per entrare.
“Che c’è?” mi chiese Tyler, sorpreso della mia allegria, mentre le sue mani passavano tra i miei capelli, a ricomporli.
“Lo stiamo facendo?!” chiesi di rimando, quasi non fosse un’ovvietà.
“Solo se lo vuoi” replicò. Si preoccupava sempre maledettamente per me, anteponendo il mio bene al suo.
A modo mio lo amavo, qualsiasi cosa poteva significare quella parola per me.
I want you so …” mormorai, sulle sue labbra. Un istante, ed eravamo una cosa sola.
In quel momento ci incontrammo, come le correnti d’aria che si scontrano nel cielo. Fu mentre perdevo di nuovo il controllo che lo guardai, perso nel piacere e nell’amore che ci stavamo donando, che capii: non sarei più stata sola.






… when you crashed in the clouds
you found me …














NOTE FINALI

Non voglio tediarvi con grandi discorsi finali. Solo ricordarvi che non è oro tutto quello che luccica.
Capitolo più breve rispetto al solito, ma, spero, intenso. Spero emozioni voi, quanto ha emozionato me.

Oggi con questo capitolo avete anche scoperto qual è l'origine del titolo di questa FanFiction. Questa bellissima canzone dei Barcelona, che ho conosciuto grazie al primo trailer del film "Water for Elephants"

Vi lascio dandovi appuntamento al prossimo capitolo e augurandomi che questa volta si facciano sentire anche le lettrici più silenzione, perché è molto importante per me capire se questo capitolo è riuscito nel suo intento di emozionare senza essere volgare.

à bientot

Federica

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Capitolo 13
*** Answers ***


When you crash in the clouds - capitolo 12






Capitolo 12

Answers
















Se non fosse stato per la neve che ancora fioccava fuori dai finestroni, avrei definito il mio risveglio decisamente “cinematografico”; mi sentivo divinamente e la casa era pervasa da un forte aroma di caffè.
Guardai l’orario sul cellulare e, oltre a scoprire che erano già le undici, trovai un sms di Aidan che mi comunicava – Dio sia lodato per questo – di essere bloccato tra le lenzuola con la sua biondina di turno, inconsapevole della sua imminente rovina, a causa della neve. Sì, decisamente la giornata non avrebbe potuto cominciare in modo migliore.
Mi alzai, non avendo affatto quella sgradevole sensazione di disfatta fisica che mi accompagna di solito al mattino. Ricordavo alla perfezione ogni secondo di quella notte meravigliosa, ogni millimetro della sua pelle ed ogni singola volta avesse sussurrato o urlato il mio nome.
Erano più o meno le sei quando finalmente riuscimmo a prendere sonno, lei accoccolata a me, il mio torace a farle da cuscino, l’ultima immagine di quella notte che avrei sempre portato con me. Ed ero tornato a sognare, in quelle ore di riposo, come non mi accadeva più da una vita; per quanto senza senso, essi mi assicuravano davvero che nella mia testa era tornato tutto al suo posto, come se una sana notte d’amore fosse la panacea per i mali di entrambi. Volesse il cielo che fosse così, semplice e buono come mandare giù un tubetto di Smarties.
Ma naturalmente non sarebbe mai andata così, troppo bello e troppo facile; Allison, del resto, doveva essere sgusciata via dal mio abbraccio visto che, a parte me, quel letto non ospitava nessun altro. Ovviamente dagli odori e dai rumori  si intuiva facilmente dove fosse. Mi misi a sedere sul letto, non tanto per riordinare le idee quanto per gustarmi ancora un po’ quella sensazione di benessere a cui però non dovevo abituarmi, e notai la mia agenda in bilico su una pila di altri libri sul comodino. La presi ed iniziai a scorrere con la biro sui fogli ad una velocità di cui io stesso mi stupii.

 

 

La amo Michael, ne sono sicuro perché non mi ero mai sentito così prima.
Mi basta il suono della sua voce per stare bene … eppure ho paura.
Ho paura che non mi voglia, che possa tirarsi indietro, lo fa continuamente, ho paura di non sapermi frenare, mentre so che lei ha bisogno di qualcuno che segua i suoi ritmi. Ho paura che questo amore che ho da offrirle non basti.
Mi sarebbe piaciuto da morire presentartela; sarebbe piaciuta anche a te, ne sono certo.
Mi sento forte, ma allo stesso tempo vulnerabile davanti a lei: dunque è questo l’amore? Io non lo so, è la prima volta che mi capita.
Se esiste qualcosa “dopo” saprai di certo cosa si porta dietro. E chissà cos’altro mi sta nascondendo. Ce la voglio mettere tutta, mi impegnerò al massimo, affinché quelle famose impronte di cui parlavi sempre non sbiadiscano. Perché in lei c’è tanta di quella polvere che potrebbe sommergerle.
Se esiste qualcosa “dopo”, spero tu ne faccia parte: magari, ecco, puoi metterci una buona parola

“Fanculo!”
Un’imprecazione dalla cucina mi riportò al mondo reale. Feci per rivestirmi, ma l’unica cosa che trovai furono i miei boxer: non si può dire che la stanza fosse pulita a specchio, ma per quanto gli abiti fossero volati via, non ricordavo proprio di averli mandati fuori dalla finestra. Così, svogliato fino al punto di non aprire neanche un cassetto, mi avviai scalzo e in intimo verso la zona giorno da dove, oltre a raffinati francesismi e lo sbatacchiare di pentolame vario, provenivano una serie di profumi uno più invitante dell’altro.
Fu quando misi piede nella piccola cucina che mi sfiorò il dubbio; se, per caso, non fossi ancora riemerso dal mondo dei sogni; o se, chissà, le forti emozioni della notte precedente mi avessero stroncato definitivamente e quella fosse la visione angelica ad attendermi alle porte del paradiso.
Ecco chi aveva preso la mia felpa! Troppo grande per lei, Allison ne aveva ripiegato le maniche lungo le  braccia, ma faticava a tenerle al proprio posto perché il suo gomito era parecchio più piccolo anche del mio polso. Inoltre, le arrivava poco oltre la vita e gli slip a strisce bianche e rosse, che non avevo notato, risaltavano ciò che, nonostante facessi perennemente finta di nulla, preferivo di più di lei.
Si dava il suo bel da fare tra lavandino e fornelli e non so se non mi sentì arrivare o fece finta di non essersene accorta.
Poi una rivelazione: “I love playing with fire/and I don't wanna get burned/I love playing with fire/and I don't think I'll ever learn”
Doveva aver preso in prestito l’iPod di Aidan, perché solo lui poteva avere la discografia completa della Runaways e idolatrare quella bambolona di Cherie Currie. Io, personalmente, per quanto non fosse la mia band preferita, preferivo di gran lunga Joan Jett. Ed Allison, con il suo carattere e la sua fierezza, ma anche con la sua bellezza quasi ferina sembrava averne ereditato i tratti.
Non l’avevo mai sentita cantare, ad esclusione di quella volta nel club, ma allora gli ormoni erano andati a ballare la samba a Rio e non c’avevo capito un granché. Aveva una bella voce ed un buon senso del ritmo; se solo non fosse stato quel torbido curriculum che si portava dietro, avrei avuto tutte le ragioni per dire che si trattava di una ragazza perfetta.
Me ne stetti ancora un po’ lì, a godermi quello show con un sorriso da ebete stampato in faccia, appoggiato allo stipite di una porta che non c’era. Non avevo bisogno di una ragazza perfetta, avevo già lei.
Mi dispiacque un po’ quando, durante la sua performance di air guitar, a seguito di una piroetta, si accorse della mia presenza e, vergognandosi, si fermò. Sì levò in fretta le cuffiette e tornò ad occuparsi della colazione, o qualsiasi cosa stessa facendo su quel piano.
Mi avvicinai e lentamente l’avvolsi in vita con un abbraccio a cui lei, per fortuna, non si oppose. Affondai il mio volto nell’incavo del suo collo, grazie alla zip non perfettamente tirata su, anche a causa del movimento, che le faceva scendere la felpa delicatamente sulle spalle. Posai un bacio leggero lì dove pulsa la giugulare, dove ritrovai più intenso il nostro profumo, quell’essenza unica che avevamo creato nella notte: sapeva di baci, sudore, vaniglia e latte di mandorle sulla sua pelle vellutata e morbida mischiati con il ginseng del mio bagnoschiuma; una catapulta dei sensi verso le Indie Orientali e verso quelle lenzuola ancora disfatte.
Avevo paura ad affrontare con lei l’argomento più spinoso di tutti, quel noi che ero incerto di poter pronunciare. Qualcosa mi diceva che Allison e Tyler sarebbero rimasti tali, almeno per un po’; ma era giusto così: la vita era già complicata così com’era, non era proprio il caso di aggiungere altri pensieri. Per ora, pensai, avrei voluto godermi la tregua di quel tacito armistizio che avevamo sancito.
“Ti sei svegliata presto?” le chiesi, lasciandole un bacio giusto dietro l’orecchio. Sapevo che era un miracolo il suo consenso, dunque pensai bene di approfittarne e fare una bella scorpacciata di quelle coccole, prima che la luna storta tornare a renderla scontrosa e intrattabile.
“Un’oretta fa … più o meno” mi disse “fa troppo caldo qui dentro, non ci sono abituata”. Sorrideva di sé stessa e delle sue sventure, ma probabilmente mi stava nascondendo la verità.
“Allora se mademoiselle non si trova bene in simili condizioni di miseria le troviamo una sistemazione migliore … che ne pensa del sottoscala, giù all’ingresso? È abbastanza freddo e umido?”
Rise, con la medesima risata cristallina e squillante di quei giorni passati insieme tra gli scaffali della libreria, il che mi fece intuire che anche lei si era svegliata di buon umore.
Rimanendo stretta a me nella stessa posizione in cui l’avevo imprigionata tra me ed il mobile della cucina, corse con la mano ai miei capelli, tirandomi quella ciocca frontale che, qualunque posizione assumessi nel sonno, rimaneva sempre sull’attenti. Mi tirò verso di sé e mi stampò un bacio sulla guancia; mi girai con il volto verso di lei, impercettibilmente, quel tanto che bastava a farle imprimere il bacio successivo direttamente sulle mie labbra e farlo sembrare del tutto casuale. Al che mi tirò un leggero schiaffo e mi intimò di andarmi a sedere, che la colazione era pronta.
“Hai preparato la colazione?” domandai, piacevolmente sorpreso.
“E non solo” rispose lei “guardati un po’ intorno dormiglione!!!”
Effettivamente, distratto dal suo spettacolo di poco prima ed ancora un po’ intorpidito, non mi ero accorta del cambiamento radicale subìto dalla cucina. Ripulita da ogni oggetto fuori posto e dall’immondizia, ora era decisamente più vivibile ed igienica; sinceramente non ricordavo un’immagine simile di quell’angolo della casa dai tempi del mio arrivo. Anzi, probabilmente neanche allora aveva un aspetto tanto decoroso: il vecchio padrone di casa non si poteva certo definire un maniaco dell’ordine e della pulizia, a giudicare dalle condizioni in cui aveva lasciato il bagno.
La tavola, di cui rivedevo il piano dopo non so più quanto tempo, era apparecchiata con delle tovagliette che ci aveva regalato la nonna di Aidan il Natale precedente e non avevamo mai tolto dalla confezione, con piatti di ceramica e bicchieri di vetro, e non la solita carta plastificata che eravamo  costretti ad usare a forza di scaricarci l’un l’altro l’onere delle pulizie.
Mi sedetti, ancora frastornato dalla novità; c’era tutto quello di cui quella casa aveva bisogno: una donna.
“Ma … ma” le domande mi morirono in gola, non appena Allison tirò fuori dal forno i pancake in un piatto e salsicce e uova in un altro.
“Li ho messi lì in caldo … ma era talmente fuori allenamento, povero forno, che temevo di saltare in aria …” mi disse, sorridendo. Portando in tavola due caraffe e una bottiglietta proseguì: “qui ci sono lo sciroppo per i pancake ed il caffè. Buon appetito!”
A stento riuscii ad augurarle anch’io il buon appetito. Non potevo crederci; no, di sicuro stavo ancora sognando, perché un risveglio del genere era ben oltre ogni mia più rosea aspettativa. Ma i minuti passavano e la sveglia non si decideva a suonare.
Mentre lei si gustava il suo pancake io ero ancora fermo, con il piatto pieno di leccornie, a cercare di realizzare la situazione; finché mi decisi ad aprir bocca, ma non per mangiare: “Ma come hai fatto?”
“Oh beh, veramente è tutto merito della signora Craig”
“Chi?”
“La signora Craig del primo piano” lei era stata qui sì e no un paio di volte e già si intendeva gli inquilini, di cui io nemmeno conoscevo l’esistenza. Andiamo bene, pensai. “È lei che mi ha prestato la farina per fare i pancake. È una vecchina davvero adorabile … si era offerta persino di farli lei, ma poi mi toglieva tutto il divertimento. Un’unica cosa … non vi facevo tipi da frutta e verdura fresche!”
“È una lunga storia” mi limitai ad abbozzare come risposta.
“Aidan, vero?”
“Ovviamente”. Era universalmente riconosciuto che qualsiasi cosa accadesse entro quelle quattro mura fosse connessa al mio esimio collega di libreria. Le arance, nella fattispecie, facevano parte della sua ossessione per il fitness che lo aveva preso negli ultimi tempi; naturalmente con risultati nulli, visto che il fast food e l’alcool non riusciva ad eliminarli.
“E tu, fammi capire” continuai, mentre iniziavo a godermi quella favolosa colazione “sei andata dalla signora del primo piano conciata così?”. Non era per gelosia, ma solo per proteggerla da chiacchiere e occhiatacce degli altri inquilini dello stabile che feci questa domanda, enfatizzando il così con un movimento circolare del mio dito indice, puntato contro di lei, mentre con il resto della mano tenevo un bicchiere di aranciata.
“Certo che no, sei matto!” reagì lei “ho rimesso i miei abiti, ma dentro casa mi danno fastidio, così li ho tolti. Ti dispiace?”
Naturalmente non mi dispiaceva affatto, ma non potevo certo dirglielo così, come se niente fosse; era decisamente sconveniente. Così mi limitai a darle un cenno di consenso approssimato, mentre mandavo giù l’ennesimo boccone.
“Toglimi una curiosità …” dissi, intento ad innaffiare il dolce di sciroppo d’acero “perché? Voglio dire … sei stata gentilissima, ma un po’ di caffè bastava”
Si fece piccola sulla sua sedia, segno che la stavo mettendo in imbarazzo; in più, nonostante avesse abbassato lo sguardo, distinsi facilmente le guance imporporate per la vergogna. Tutto quello che ci era successo e le si intimidiva ancora di fronte a me?
“Hei!” mi rivolsi a lei, sussurrando lievemente. Alzò lo sguardo ed i suoi bellissimi occhi si rivelarono a me in tutto il loro bagliore di smeraldo. La presi in vita e la portai a sedere sulle mie gambe, compiaciuto che fosse così docile. Non lasciai la stretta, perché lei per prima teneva le mie braccia serrate attorno a sé. Appoggiai il mio mento sulle sue spalle e mi dedicai a lei dolcemente: “Che c’è?! Mmh?! Sai che puoi dirmi tutto …”
“Niente …” si riscosse “è solo il mio modo per dirti grazie … grazie per avermi ospitata anche dopo tutte le cattiverie che ti ho detto”
“Ah” ammiccai sarcastico, cercando di smorzare l’apprensione che si era creata “pensavo che volessi rimettermi in forza dopo i due round di questa notte. Ma credimi, tesoro, ci vuole ben altro per atterrarmi!”
“Oh ma fammi il piacere Tyler!” controbatté Allison, andando a sedersi di nuovo al suo posto accanto a me “non ti chiami mica Rocco!!! Fai poco lo svelto!!!”
Ridemmo entrambi per la serenità con cui entrambi riuscivamo ad entrare sempre in certi discorsi, senza scandalo né impaccio, e a ridere come se lei fosse un compagno di scuola, anziché la ragazza di cui ero innamorato.
“Quello che è successo …” iniziò lei ma mi sentii in dovere di fermarla, di affrontare quella conversazione per cui avevamo già temporeggiato abbastanza.
“Cosa è successo tra noi?” le chiesi, concentrandomi con lo sguardo fisso su di lei, sperando recepisse ciò che avevo da domandarle.
“Non è successo niente Tyler”
Ecco la doccia gelida. Ero incredulo: possibile che avesse davvero intenzione di dimenticare tutto? Le tenerezze di quella mattina e le carezze di un’intera notte sarebbero state cancellate così, di punto in bianco? Certo non mi aspettavo nulla di romantico. Ma quello faceva parte proprio delle ipotesi più nere.
“Non mi fraintendere Ty” mi rassicurò Allison, stringendomi la mano “quello che ho provato stanotte … Dio! È stata la notte più bella della mia vita. Ma non chiedermi altro: quello che vale per te non vale anche per me Tyler, capiscimi …”
Naturalmente la capivo e me l’aspettavo in certo senso.
Sapevo che non mi amava nella stessa maniera in cui io amavo lei, però non era stato solo sesso e questo faceva la differenza su tutto. Anche volendo come si poteva tornare indietro dopo aver calato ogni cortina dopo che c’eravamo entrambi esposti con tutte le nostre debolezze e fragilità di fronte all’altro?
Inoltre la sua vita scombussolata contribuiva a porre continuamente paletti qua e là lungo qualsiasi strada decidesse di percorrere. Forse era un modo di proteggermi dai suoi stessi sbagli, ma sapeva che con lei ero pronto a prendere dei rischi.
“Io … io non capisco …” o forse era miglio dire che non accettavo ciò che era lampante da comprendere.
“Senti” iniziò lei “lasciamo le cose come stanno. Stiamo bene così ,senza incasinarci la vita. Ridiamo scherziamo ci aiutiamo a vicenda … e se ci va di stare insieme lo facciamo senza troppe conseguenze il giorno dopo”
Ora la verità era chiara come il sole: aveva assaggiato il biscotto ed ora non sapeva rinunciarvi. Ipocrita lei, volgare e cinico io: dov’era finita la telenovela melensa di quel mattino?
“Certo … niente relazioni serie, ma una sana scopata guai a perderla!” sbottai, acido come mai lo ero stato. Non che da lei mi aspettassi niente di diverso, davvero, ma forse era stato un male illudersi che quel risveglio stile pubblicità fosse il mondo che mi stavo apprestando a vivere.
“Tyler sai benissimo che non è così … e che non potrei farlo con nessun altro quello che abbiamo fatto insieme questa notte. Ma non posso darti quello che non ho!”
Aveva ragione; non poteva darmi quell’amore che reclamavo e che lei per me non provava. Tendevo troppo spesso a dimenticare, infatti, che tra i due ero stato io lo stupido che aveva perso la testa. Le presi il volto tra le mani e mi avvicinai a lei: “Perdonami, non so cosa mi sia preso …”
Masochista fino all’osso decisi di tenerla ancora vicino a me, nella speranza, abbastanza vana, che magari il lieto fine potesse toccare anche a me. Avremmo fatto le cose a modo suo e magari, chissà, non erano così male come sembravano a me.
“Allora” proseguii “cos’è che siamo? Amici, amanti, frequentatori …”
“Perché dobbiamo per forza darci una definizione? Siamo Allison e Tyler, non ti basta? Non complichiamoci troppo la vita!” Annuii e l’abbracciai, dimenticando la rabbia che silente continuava ad ardere dentro ed il fastidio latente per un qualcosa che, lasciato a metà, stonava con il resto del mio mondo.

 

“La vuoi sapere una cosa?” mi confidò Allison mentre sistemava la cucina, dopo aver terminato quella colazione eterna ,che praticamente era diventata il pranzo “facevamo sempre così ad Indianapolis quando nevicava. Mia madre preparava delle enormi colazioni ma siccome nessuno si alzava mai prima delle undici, alla fine diventavano dei pranzi”.
Stavo guardando New York dalla finestra, con la chitarra di mio fratello tra le mani tentando di strimpellare qualche accordo, ma il suo discorso mi distolse, nonostante lo spettacolo fuori fosse meraviglioso: mezzo metro di neve aveva bloccato le strade e ripulito i vicoli dalla spazzatura e dalla sporcizia. Aveva smesso di nevicare, almeno per il momento secondo il meteo, e i guai stavano solo per iniziare.
Riposi la chitarra nel fodero con cautela e mi misi ad ascoltarla.
“Papà adorava uova al tegamino e salsicce così mamma ne faceva sempre in quantità industriali, ma alla fine finivano sempre per litigare perché lui si ingozzava e lei gli sbraitava contro! Papà non andava mai a lavoro quando c’era la neve e potevamo stare insieme … a giocare in giardino o a vedere vecchi film in tv. Il mio preferito era Piccole Donne”
Non c’erano lacrime da versare, né risate per ricordare dei tempi felici: restava solo il rimpianto per qualcosa che sarebbe potuta andare in maniera diversa, e la differenza stava nelle proprie mani. Conoscevo bene quella sensazione, l’avevo provata a lungo dopo la morte di mio fratello.
Cauto l’avvicinai, carezzandole la guancia con la nocca dell’indice; proprio in quell’istante una lacrima cadde a bagnarmi il sito e la sentii, quasi impercettibilmente, tremare al mio tocco.
“Li amavi” la mia non suonò come una domanda eppure la vidi annuire, sbarrando labbra ed occhi ad un dolore che avrebbe utilizzato ogni angolo del suo corpo per venire fuori.
“Non è da loro che sono scappata …” mi confessò e questo mi fece capire che la storia era molto più complicata di quanto apparisse. Una laguna di segreti che poco alla volta stavano tornando a galla. “Ma guarda il lato positivo … se non fosse stato così non ci saremmo mai contrati!” e sorrise ancora, perché la speranza in qualcosa di buono, di migliore, continuava ad averla nonostante i momenti bui. Avrei voluto avere la sua stessa forza, il suo stesso ardore nell’affrontare la vita.
Egocentricamente avrei dovuto essere contento, ma in amore bisogna saper guardare al bene dell’altro: dunque avrei preferito saperla lontana ma felice piuttosto che al mio fianco ma piena di malinconia.
Le sorrisi di rimando, avendo esaurito le parole giuste, sia da amico, che in fondo non ero mai stato, sia da innamorato, ora troppo crucciato per poter parlare.
D’un tratto suonò il campanello. Andai a rispondere mentre lei se ne andò in camera.
“Adesso che ci vede conciati così, ad Aidan prederà un colpo” ironizzò Allison.
Lei non era ridotta poi così male, qualche graffio ed il labbro leggermente gonfio, io invece sentivo; a pensarci, la trazione delle ferite che iniziavano a cicatrizzarsi e non essendomi guardato allo specchio, non avevo idea dello stato in cui ero ridotto. Ma non era quello a preoccuparmi.
“Ehm … non Allison non è Aidan. È mia madre”












NOTE FINALI

Ben ritrovate mie care, sopo una settimana e poco più d'assenza! Mi sono presa un po' più di tempo per scrivere questo capitolo, troppo delicato come immaginate,a seguito del precedente. Incomincia una nuova fase per entrambe i personaggi.Qualcuno prende coscienza di sé, qualcun'altro invece si trova immerso in un limbo di dubbi.
sono proprio curiosa di vedere cosa accadrà ora. Voi no?!
Non ci resta che darci appuntamento al prossimo capitolo.
Un bacione grandissimo a tutte ... e un grazie immenso per il seguito

à bientot

Federica

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Capitolo 14
*** Decisions ***


When you crash in the clouds - capitolo 13
When you crash in the clouds





Capitolo 13
Decisions












“Come tua madre?” mi chiese lei; più che stupita o nervosa, la sua espressione sembrava letteralmente terrorizzata all’idea di conoscere qualcuno che non fosse Aidan o me.
C’era da capirla: d’altronde, non aveva avuto molti contatti con il mondo esterno da quando lavorava in quello strip club. Ed ora che se l’era lasciato alle spalle, chiunque poteva sembrarle una minaccia, soprattutto per il modo poco ortodosso che avevano usato per darle il benservito.
“Stai tranquilla” le fui subito accanto, circondandole le spalle con un braccio e massaggiandole la schiena con la mano libera; era così rigida e tesa, che a poco servirono le mie tecniche rudimentali di fisioterapia a calmarla.
“Io non capisco” si lamentò “New York è sommersa dalla neve, e lei viene da te proprio oggi … ma che cazzo!!!”
Avrei riso del suo disappunto in altre circostanze, ma non nel momento in cui avrei dovuto avvertirla di qualcosa che mi riguardava, a proposito di mia madre.
“Veramente” iniziai, preoccupato fin dal principio per la sua quasi certa reazione catastrofica alla notizia che stavo per darle “veramente l’ho chiamata io”.
Me ne ero pentito non appena lei aprì bocca dopo averle annunciato dell’arrivo di mia madre, ma quando l’avevo fatto mi era sembrato non esserci soluzione migliore; sperai con tutto il cuore che potesse comprendere le mie ragioni.
Le diedi la notizia tutto d’un fiato, allontanandomi da lei e da ogni possibile traiettoria di volo di oggetti contundenti, tenendo timorosamente lo sguardo lontano dai suoi occhi: non volevo scorgere, né scatenare in lei rabbia o qualsivoglia sorta di malumore.
Come biasimarla del resto: era mezza nuda e stava per conoscere la madre del ragazzo con cui era andata a letto ma con cui non aveva esattamente quelle che si definiscono  intenzioni serie.
“Cos’è che hai fatto tu?” mi chiese, con una voce che, per fortuna, sembrava contenere quella rabbia che invece immaginavo prorompente e distruttiva.
“Le ho mandato un messaggio, per la precisione” confessai, come un bambino che fa sì una marachella, ma che poi non è così pentito; in fondo l’avevo fatto solo per il suo bene. “Ieri sera, quando sono andato a prenderti la maglia asciutta.  Eri sconvolta, ferita, e pensavo che nessuno meglio di lei avrebbe potuto aiutarti. È un’assistente sociale, te l’ho detto …”
Probabilmente avevo utilizzato le due parole meno appropriate tra tutte quelle a mia disposizione; quelle due paroline, indicanti una professione, che erano bandite dal vocabolario di Allison, anche se sinceramente faticavo a comprendere il motivo di tanta avversione per delle persone così altruiste e generose. Certo, la burocrazia tende sempre a rovinare tutto, ma mia madre ed i suoi colleghi non erano poi affatto male nel loro lavoro.
La vidi sedersi sul letto, portandosi le mani tra i capelli; decisamente dovevo averla sconvolta, anche se la sua reazione non era scomposta come probabilmente sarebbe stata agli inizi della nostra conoscenza: “Tu … Tyler … tu hai fatto la cosa più stupida di tutte!!!! Grazie per l’impegno che ci stai mettendo per mandarmi in galera! Lo sai benissimo come funzionano queste cose: assistente sociale uguale polizia …. Vaffanculo!”
Ringraziai che casa mia era al settimo piano di un vecchio palazzo alto e senza ascensore, anche il più allenato ci avrebbe messo un po’ a salire tutto quelle scale fino al mio appartamento. In quei pochi secondi che avevo ancora di vantaggio sull’arrivo di mia madre, avrei dovuto assolutamente rassicurare Allison e riacquistare quella fiducia che, da perfetto coglione quale ero, riuscivo ogni volta a sgretolare con le mie stesse mani.
“Allie ti assicuro …” mi gettai letteralmente ai piedi del letto, in ginocchio dinanzi a lei  “ anzi … ti giuro … quella è proprio l’ultima delle mie intenzioni. Non ci finirai in galera … dovessi andarci io per impedirlo. Te lo prometto!”
Sembrava non volermi dare ascolto questa volta, chiusa in se stessa come poche altre volte aveva fatto. Ma chi me l’aveva fatto fare? Per quanto sembrasse la cosa più buona e giusta del mondo perché avevo mandato quell’sms a mia madre? Nuova lezione imparata: mai cercare di fare una buona azione. Ma ormai c’ero più dentro di lei in quella vita di casini e toccava a me ballare se lei non voleva farlo; oltre che per lei, era diventata una faccenda personale tra me ed il destino beffardo e bastardo che si divertiva a giocarci tiri mancini ogni minuto.
“Andrà tutto bene” le sussurrai “devi fidarti di me hai capito?”
Ma Allison aveva ormai alzato le barricate dell’astio e del silenzio contro di me ancora una volta.
“Allie?” la chiamai scuotendola un po’ ma oltre ad un muso lungo ed al capo girato dall’altro lato, non rispose al mio appello.
Mia madre bussò alla porta, visto che il campanello era fuori uso da una vita, ed andai ad aprirle; avrei volentieri lasciato la porta aperta già da prima e rimanere così vicino ad Allison, ma non sai mai chi può intrufolarsi in casa a New York neanche con mezzo metro di neve per terra.
Mi diressi a malincuore verso l’ingresso, controllando la mia peste ribelle e musona con la coda dell’occhio.
Feci a malapena in tempo a salutare mia madre, e lei a poggiare in terra un paio di borse che aveva con se nel tentativo di abbracciarmi, che la porta della mia stanza si chiuse alla nostre spalle e la serratura fece un doppio scatto.
Allison si era appena chiusa dentro.
Corsi disperato verso quella porta appena mi accorsi cosa stava accadendo, nella speranza di evitare, ma invano, la chiusura a doppia mandata; mia madre mi venne dietro, in apprensione per una ragazza che non conosceva, ma che evidentemente le stava già a cuore: forse era pura deformazione professionale per lei, ma in un certo senso sapevo che, con un po’ più di conoscenza, si sarebbero adorate. E poi, mia madre si fidava di me, questo non l’avrei mai messo in dubbio e sapeva che se tenevo a qualcosa, o qualcuno, ne valeva sempre la pena.
Allison aveva bisogno di qualcuno che la guidasse, per quanto riuscisse a cavarsela benissimo da sola, ma una ragazza di quasi 18 anni non può vivere senza una madre, o almeno un supporto per i problemi tipici di quell’età.
A sentirmi ragionare in quei termini sembravo mio nonno o qualcosa del genere, ma il mio lato di fratellone protettivo era sempre in agguato quando si trattava di ragazze indifese, sia che fossero la metà di me per età e altezza sia che fossero delle bombe sexy a cui avrei dato l’anima per dividerci il letto.
Immaginai la piccola Caroline senza nostra madre: sarebbe stata persa. Immaginai qualcuno con mille guai più di lei, immaginai Allison e fu per quel motivo che non dovevo pentirmi di quel piccolo messaggio mandato a mia madre alle 3 di notte.
Impressi diversi pugni alla porta della mia stanza, che già si teneva in piedi con un precario equilibrio, tanto che mi sorprese non venne giù dopo il colpo che Allison le aveva inferto per chiuderla.
“Allie! Allie apri questa porta!!!” le intimai, urlando con quanto fiato avessi in gola “non fare la stupida, vieni fuori!”
Mi sembrava anche quella una scena cinematografica, di quelle talmente assurda da poter essere viste solo al cinema, e che ora invece era perfettamente reale. Quella mattina era la seconda volta che vivevo una situazione simile, solo che quest’ultima me la sarei risparmiata volentieri.
“Non ci penso nemmeno! Non finché tua madre è lì!!!”
Tutto era così dannatamente assurdo e quasi comico, che nel bel mezzo delle mie invocazioni mi venne da pensare alla faccia che avrebbe fatto quel cretino del mio coinquilino in una situazione del genere; un secondo dopo, per bilanciare la mia demenza, pensai invece al fatto che Allison avrebbe potuto commettere qualche gesto estremo, come uscire dalle scale antincendio e andarsene.
“Allie per piacere non fare nulla di sconsiderato” la supplicai “non scappare”
Ma bravo Tyler, se lei non ci aveva pensato le hai appena suggerito di fuggire … coglione!
“Incazzata sì … scema no Tyler!” mi rispose, ovviamente “fa freddo e sono praticamente nuda e scalza … dove vuoi che vada?! Ma non apro finché tua madre non se ne va fuori dai coglioni!!!”
Mi voltai verso mia madre, che nel frattempo era rimasta al mio fianco in silenzio; non doveva essere piacevole sentirsi rivolgere quelle parole dal una perfetta sconosciuta, ma forse ci era abituata, perché non sembrò scomporsi più di tanto. Le rivolsi uno sguardo che non poteva lasciare adito a dubbi, invitandola a prendere il mio posto in quella assurda opera di convincimento.
Fece un bel respiro profondo per caricarsi e, con la voce più impostata e modulata che aveva, si avvicinò alla porta invitando Allison al dialogo.
“Allie?! Ciao, io sono la madre di Tyler!”
“Sti cazzi” rispose, molto finemente “non mi interessa chi sei, ma quello che fai. Sei uno sbirro di merda ed io in galera col cazzo che ci vado!”
Non mi ricordavo di averle mai sentito dire tutte quelle parolacce tutte insieme in una sola frase; dalla serie: non si finisce mai d’imparare … ma non mi aspettavo, dopo tutti i progressi fatti, che potesse tornare indietro così di botto, solo perché le avevo messo dentro casa un’assistente sociale.
Vidi mia madre prendere di nuovo un bel respiro, magari per sbollentare la rabbia per quelle imprecazioni che le erano appena state rivolte. “Io non sono uno sbirro, sono un’assistente sociale … e con la polizia non ho niente a che fare …”
“Non è vero!” ribatté lei, convinta della sua posizione “lo dice solo per farmi stare tranquilla, ma io lo so che appena esco da qui mi aspetta una bella cella”
“Ma no tesoro” la rassicurò mia madre, dolcemente “sono sola e non ho chiamato nessuno. Nel mio ufficio nessuno sa che sono qui … e nemmeno ho intenzione di dirglielo. Sono solo Diane, la madre di un tuo amico … che è capitata qui per caso. Ma ora apri questa porta”
Mia madre era così sicura di ciò che diceva, che non mi sarei stupito di vedere Allison uscire da quella stanza non appena mia madre avesse smesso di parlare; ma la conoscevo abbastanza da sapere che purtroppo non l’avrebbe fatto, e con lei ci voleva di più di un paio di parole altisonanti e ben dette.
“Diane?” sentimmo chiamare, timidamente, al di là della porta. “Sono qui … come hai detto che ti chiami tesoro?” “Allie … Allison” “Bene Allison … dimmi piccola”
“Perché sei venuta se sei da sola?” le chiese; forse avevamo istillato in lei il dubbio, la possibilità che non stavamo agendo contro di lei e sperai di poterla spuntare senza essere costretto a mandare via mia madre.
“Perché un’amica di mio figlio era in difficoltà. Ho portato qualche abito pulito … non ti preoccupare … sono praticamente nuovi ... ho il vizio di portami il lavoro a casa” sorrise lei d’impaccio “un kit di pronto soccorso se c’era bisogno di medicare qualche ferita e qualcosa da mangiare … dentro questa topaia non so se ci sia qualcosa di commestibile …”
Vallo a spiegare a mia madre che grazie alla sua intraprendenza, Allison aveva preparato dal nulla una delle migliori colazioni che avessi mai fatto in vita mia. Intanto dalla camera da letto non arrivò alcuna risposta, ma solo un silenzio interminabile, fin quando non sentimmo scattare di nuovo la serratura. Mia madre ed io tirammo un sospiro di sollievo ed io le bacia una guancia di slancio.
“Eccoti finalmente!” proclamò mia madre quando Allison si fece vedere “volevi nascondermi questo bel faccino?!”
Allison si limitò ad accennare un sorriso stento, che sapeva più di timidezza che di disappunto. Non si era data pena di coprirsi un po’ di più: forse voleva che mia madre capisse, o che l’accettasse per com’era.
E, se la conoscevo bene, mia madre non era tipo da lasciarsi influenzare dal lato esteriore: quel commento sul viso, infatti, non fu pronunciato a caso; lei guardava le persone ed era proprio dritto negli occhi che instaurava le migliori conversazione. Certo, era brava ed esperta nel suo mestiere, ma rimaneva comunque dotata di un’immensa sensibilità, affinata anche dalle prove che la vita le aveva offerto.
Le due si spostarono di nuovo verso la camera da letto, anche se, personalmente, avrei evitato volentieri che mia madre si sedesse sul letto ancora sfatto dove io ed Allison avevamo fatto l’amore solo poche ore prima. Magari lei nemmeno l’aveva capito, però saperla lì mi dava un leggero senso di fastidio e pudore, che mai avevo sperimentato prima d’allora; forse anche la vergogna faceva parte della schiera di novità a cui, con l’arrivo di Allie nella mia vita, avevo dato il benvenuto e a cui avrei dovuto fare l’abitudine: non ne sapevo molto di sentimenti … se ne può discutere su milioni di libri e mai trovare una soluzione comune … ma immaginavo che questo mio disagio fosse un modo per proteggerli.
Allison si sedette nel letto, coprendosi con la trapunta, e mia madre andò a sedersi di fianco a lei, mantenendosi però a debita distanza. Ogni suo gesto, ogni sua postura, erano ben studiati e definiti per aiutare Allison a mettersi a suo agio; probabilmente Allie, nella sua intelligenza, doveva averlo capito, ma non sembrava darvi peso più di tanto: anzi, sembrò apprezzare notevolmente il rispetto che mia madre le stava dimostrando.
“Le assomiglia molto Tyler” disse poi a mia madre, con fare confidenziale, come sei io non fossi lì con loro, appollaiato sulla cornice interna di uno dei due finestroni della stanza.
Mia madre, però, contestò la sua impressione, affermando invece, fermamente, che io assomigliassi di più a mio padre.
“Non lo conosco” ribatté lei “ma ora conosco lei …” “ti prego Allison dammi del tu, mi fai sentire vecchia!” Entrambe risero.
“Allora conosco te … e posso garantire che caratterialmente siete due gocce d’acqua”
“Oh questo è poco ma sicuro … l’ho cresciuto io, non poteva essere altrimenti”
Ringraziai il cielo che solo i geni mi hanno reso fisicamente simile a mio padre, ed il danno non si fosse esteso fino a livello cerebrale. Non avrei potuto sopportare di avere ulteriori affinità con quella stessa testa di cazzo perbenista e spocchiosa, lo stesso livello siderale di presunzione, la stessa stronzaggine invadente fino al midollo osseo.
Mi guardarono entrambe ed io, vedendole lì, insieme, quasi complici nelle battute e nelle conversazione come vecchie amiche, riacquistai la speranza di vivere ancora quella piacevole quotidianità che avevo gustato quella mattina.
“allora …” esordì mia madre, cauta, subito dopo i convenevoli, durati già abbastanza “ti va di parlare di qualcosa? C’è qualcosa che vorresti dirmi?”
Allison sembrò pensarci su per un po’; cosa avrei dato per poter sentire la sua mente almeno una volta, per capire ciò che le passa per la testa quando il suo volto diventa la maschera di cera che copre tutte le emozioni. Niente fastidio, niente apprensione, niente offesa …
“Non voglio finire in galera Diane!” la scongiurò Allison, con la voce tremante ed invocante.
“E con ci finirai tesoro, te lo assicuro! Perché dovresti finirci poi?”
“Immagino a questo punto che Tyler ti abbia parlato un po’ di me” esordì lei; effettivamente sì, le avevo accennato qualcosa, ma non immaginavo a quali conclusioni mia madre potesse essere giunta, soprattutto a vederci in quel modo. “Per quanto mi ostini a ripetere a me stessa e agli altri che sono una ballerina io sono una prostituta!”
Era la prima volta che la sentivo parlare di se stessa a quel modo, sfogandosi e ammettendo, senza vergogna, la verità. Forse l’aveva celata per pudore, forse per non farsi del male o poter continuare a fare quella vita senza farsi schifo, ma finalmente era riuscita ad aprirsi,  con la speranza di aprirsi ad un futuro pulito e sempre più possibile
“ … e poi non è solo per questo” continuò “ho rubato, ho anche spacciato droga in quel locale dove lavoravo” di lei sapevo davvero poco, ne ero consapevole, e la punta dell’iceberg ora in secca, mostrava una montagna di male e violenze che aveva dovuto subire nonostante la sua giovane età.
“Questo è un bel guaio, lo riconosco” annuì mia madre, non lasciando trasparire dal suo volto alcun giudizio e sapevo che Allison, questo, lo avrebbe apprezzato molto “ma con un buon avvocato si potrà dimostrare che tu l’hai fatto solo perché costretta. E vedrai che te la caveresti con poco e potresti uscire con la cauzione … una multa o dei lavori socialmente utili”
“E chi pagherebbe la cauzione o la multa per una come me?” chiese, lamentandosi.
Mi sentii quasi offeso dalla sua domanda, come se la risposta non fosse praticamente ovvia. Così mi avvicinai e poggiai la mia mano sulla sua: lei mi guardò, sorpresa, probabilmente comprendendo il significato di tale gesto e sorridendomi grata di rimando. Non mi interessava che ci fosse mia madre a spiarci e ad indagare cosa potesse esserci tra noi, che pensasse quello che le pareva; Allison aveva ragione, stavamo talmente bene così, che complicarsi la vita con inutili definizioni era una perdita di tempo. Io ci sarei stato per lei e lei di sicuro per me: tanto bastava ad entrambi, per ora.
“Però per farlo ho bisogno che tu aiuti te stessa … devi denunciarli Allison!”
“No, non posso farlo … non posso!!!”
“Perché no Allie?!” le chiesi; sentivo che si sarebbe rifiutata, e così la spronai a tirare fuori le sue paure.
“Perché loro saprebbero chi è stato e verrebbero a cercarmi …” entrò nel panico, con la voce ancora più tremante e concitata nei gesti “no … è troppo pericoloso! Io … io … loro si vendicherebbero!”
“Ma avresti tutta la protezione del mondo credimi!” la sostenni “io non permetterei mai che ti accada nulla di male, lo sai, e poi la polizia ti aiuterebbe …”
“Tyler ho troppa paura e non voglio immischiarti in questa storia ... ti ho dato già abbastanza problemi”
“Credi che così andrà tutto bene?” intervenne mia madre, seria e severa “cosa hai intenzione di fare per ora? Startene qui, nascosta, ad aspettare che qualcuno ti trovi e venga a chiuderti la bocca comunque?”
Né io, né lei probabilmente, avevamo considerato questa ipotesi. Effettivamente mia madre aveva ragione, e le maschere di ghiaccio che erano i nostri volti sbiancati e gli sguardi agghiacciati ci fecero comprendere che quella poteva rivelarsi molto più che un’ipotesi.
“Ed in prigione sarei molto più al sicuro … naturalmente”
“Non sto parlando di prigione Allison.” Mia madre capì di aver messo a disagio Allison così si fermo un attimo a prendere fiato per far calmare i nervi di entrambe. “C’è qualcosa che vorresti fare, ora che non lavori più in quello night club?”
“Beh dovrei trovarmi un lavoro, una casa dove stare … e se riesco a mettere da parte qualche soldo mi piacerebbe riprendere la scuola e diplomarmi”
“E questo è esattamente quello che ho da offrirti” la incoraggiò mia madre “saresti protetta, avresti un tetto sopra la testa e potresti studiare o lavorare, come preferisci. Ci sono delle strutture che accolgono ragazze poco fortunate”
“Ma non accoglierebbero me …” sbuffò, scoraggiata, Allison.
“Ma che stai dicendo?” le chiesi, non capendo dove volesse arrivare.
“So come funzionano queste cose … c’ho pensato mille volte ad andarmene e mi sono informata. Ti mandano in queste case-famiglia, ti reintegrano nella società e tutti vissero felici contenti come nelle favole. Ma ovviamente non sarei Allison se per me non ci fosse un destino diverso: io verrei rispedita ad Indianapolis … e lì sarebbe peggio che andare al fresco”
“Ma perché?” la interrogai. Avevo bisogno di sapere, era necessario perché io potessi aiutarla concretamente, assieme a mia madre.
“Perché lì ho sì dei parenti … ma non una famiglia, pronta ad accogliermi a braccia aperte” scoppiò “anzi, il loro disprezzo e le loro accuse sono state abbastanza gravi da farmi scappare 3 anni fa, ora mi ucciderebbero”
“Ma cosa …?”
Ora c’ero troppo dentro, incominciavo a sapere troppe cose, ma erano informazioni troppo frammentarie perché io potessi capirci qualcosa; la pregai di spiegarsi meglio, le chiesi il perché di quest’astio nei confronti della sua famiglia, soprattutto perché nemmeno mezz’ora prima aveva parlato con affetto e malinconia dei suoi genitori.
“Possiamo evitare di parlarne ora? Ti prego …”
Lasciai stare, come sempre. Come sempre sapevo che aveva i suoi tempi e che prima o poi si sarebbe degnata di rispondere alle mie domande. Sapeva che di me poteva fidarsi e non l’avrei giudicata, quindi non temevo di non ricevere risposta. Non mi sarei mai stancato di aspettarla, ne valeva terribilmente la pena e sarei stato ricompensato prima o poi, anche se non sapevo esattamente come.
Nel frattempo mia madre sembrava averci lasciato un po’ di privacy, allontanandosi dal letto e passeggiando avanti e indietro per il corridoio, rimuginando. Lì per lì neanche c’eravamo accorti della sua assenza, impegnati a sciogliere la trama intricata della vita di Allison. Quando la sentimmo parlare tra sé però, iniziammo a preoccuparci. Lei allora si voltò verso di noi, rivolgendosi ad Allison: “Quanti anni hai?” “Ne compio 18 il 20 gennaio”
“È perfetto!” esclamò mia madre di rimando.
“Che intendi dire mamma?” chiesi, dubbioso. Era una donna troppo cervellotica e la sua mente correva era molto più veloce della mia, che stentavo il più delle volte a starle dietro.
“Ascoltate” ci disse, ma rivolgendosi particolarmente ad Allison “ho trovato il modo per darti la sicurezza di cui hai bisogno senza esporti a casini vari con denunce o robe simili”
Sia io che Allison eravamo ansiosi e concentrati nell’attesa di scoprire cosa avesse architettato, così mia madre non perse altro tempo.
“Vieni a stare da me” la invitò mia madre, orgogliosa della sua trovata geniale.
“Cosa … come vengo a stare da te?” non sembrava sconvolta negativamente, ma sicuramente nessuno dei due aveva immaginato niente di simile; non so nella sua mente, ma nella mia vedevo già me stesso, lei ed una vecchia auto e la Route 66 spianata davanti a noi nel deserto dell’Arizona. I pensieri della solita mente malata.
“Ma sì” commentò divertita mia madre “non mi dire che avevi intenzione di rimanere qui con questi maiali …”
Magari non era nelle sue intenzioni, ma nelle mie era una più che forte speranza; non solo per la compagnia migliore che aveva da offrirmi, rispetto ad Aidan, ma perché con la sua presenza e le sue capacità casalinghe saremmo certamente tornati in un mondo più civile e igienico. Allison rise e sospirò, evidentemente l’esperienza mattutina tra rimasugli di cibo andato a male e sporcizia le era basta ed avanzata.
“Verrai a stare con me” proseguì ancora “naturalmente sarà una sistemazione temporanea … fino a quando non diventerai maggiorenne e allora deciderai quello che è meglio per te … e nessuno potrà costringerti a tornare con la tua famiglia”
Il quadro che aveva prospettato non sembrava così male: avrebbe avuto un posto sicuro, tranquillo e per bene dove stare, dove io avrei potuto continuare a vederla ed avrebbe conosciuto la mia Caroline … non vedevo l’ora … ed avrebbe vissuto una vita normale e tranquilla, all’interno di una vera famiglia. Avrebbe fatto bene a lei, a mia madre, a mia sorella: sarebbe stato un bene per tutti; eppure c’era qualcosa che ancora stonava.
“Sei sicura che andrà tutto bene ma’?” le chiesi, in apprensione “se ti scoprono sarai in un mare di guai … lo sai”
“No Diane” intervenne Allison “non voglio che qualcuno paghi per me … starò bene qui. Anzi, appena troverò un lavoro mi troverò una camera ammobiliata e me ne andrò … do fastidio anche a loro”
“Ma non se ne parla nemmeno” obiettò mia madre “i miei colleghi non si sognerebbero mai di venire a casa mia, il lavoro lo lasciano sempre in ufficio … e se qualcuno dovesse fare domande ti presenterò come mia nipote … o qualcosa da improvvisare. Ma fidati, non succederà nulla”
Forse non era così, ma mia madre sembrava fiduciosa e serena che le cose sarebbero andate nel verso giusto, come da lei previsto; questo non poté far altro che tranquillizzare anche noi ed Allison si fidò di lei ed accettò infine la proposta di mia madre.
Non perdemmo tempo e organizzammo il trasloco per quello stesso pomeriggio, mentre la città si riattivava dopo la bufera e gli spazzaneve e spargisale preparavano la città al nuovo turbine notturno. Mentre Allison era sotto la doccia io e mia madre riordinammo i libri che avevamo messo ad asciugare la notte prima, per lasciare che li portasse con sé. Le spiegai meglio tutta la situazione e lei commentò: “è una cara ragazza, Ty, non mi stupisce che tu ne abbia tanta cura … ma non giocare con lei”
“Io non sto giocando, assolutamente …” la rassicurai.
“Quindi suppongo che farsi distruggere la faccia ti sia venuto dal cuore!?”
“È colpa mia” intervenne Allison, pulita e pronta per uscire nel completo che mia madre le aveva portato.
“Mmmmm … domani andiamo a fare un po’ di shopping come si deve Allison … non pensavo fossi tanto magra!”
Effettivamente gli abiti che mia madre le aveva portato erano un po’ larghi, ma almeno decenti e nuovi, rispetto agli stracci con cui si era trascinata fino a casa mia.
“È colpa mia se Tyler è stato picchiato” ribatté Allie “lui voleva difendermi ed invece io mi sono comportata da stupida”
Volevo che la smettesse di sentirsi in colpa: ognuno è responsabile delle proprie azioni e delle loro conseguenze. Io avevo assalito quel vecchio nel locale e mia era la colpa per essere rimasto passivo di fronte alle percosse. Mi avvicinai a lei e l’aiutai ad indossare il giaccone: “Non voglio sentirti più parlare così. Non guardare più al passato … ora pensa ad essere felice perché è quello che meriti”
Si strinse nella morbida e calda giacca e sorrise alla verità delle mie parole: “agli ordini signor Hawkins … non vedo l’ora!”





soundtrack






NOTE FINALI
Questa volta ho messo la canzone che di solito accompagna il capitolo alla fine, come un ponte che condurrà verso i capitoli che verrano.
Iniziamo a ricostruire il puzzle della vita e del passato di Allison e per farlo sia lei che Tyler dovranno avere tanta forza.
Sono qui anche per dirvi che per un po' mi prenderò una vacanza dalla pubblicazione.
Questo è un periodo un po' difficile e devo concentrarmi in altre cose.
Quando sarò pronta per tornare a pubblicare non so, ma la storia non rimarrà incompleta, questo è poco ma sicuro.

Grazie mille per il vostro supporto e le vostre splendide, numerose, recensioni.

à bientot


Federica

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Capitolo 15
*** Allison ***


When you crash in the clouds - capitolo 14
When you crash in the clouds





















Capitolo 14
Allison





Arrivati a casa di mia madre, Allison sembrava una bambina al suo primo giorno di scuola, in parte felice e curiosa della nuova esperienza, in parte intimorita dalle conoscenze che avrebbe fatto.

“Woah!” fu il suo commento all’ingresso, mentre si guardava intorno e dava un primissimo sguardo.
Les, nel frattempo, si era avvicinato a noi, prendendoci gentilmente le giacche; uno come lui era perfetto per mia madre, buono e senza riserve per nessuno, generoso ed anche simpatico.
“Lui è mio marito Leslie, Allison” lo presentò mia madre. Con una stretta di mano amichevole si salutarono ed Allison timidamente sorrise di rimando, confermando la buona impressione che Leslie faceva a chiunque venisse introdotto.
“Chiamami Les” fece lui, che altrettanto di buon grado la accettava evidentemente in casa; certo quella era a tutti gli effetti casa di mia madre, e lui le era devoto se possibile in ogni sua cellula, ma ero sicuro che non nascondesse disappunto o contrarietà nei confronti della nuovo arrivata.
“Vieni con me, Allison” la invitò mia madre, per mostrarle il resto della casa, lasciando così a me e suo marito, l’incombenza di portare il borsone con i pochi stracci di Allison e le buste piene di libri al piano di sopra, in quella che era stata la mia stanza. Non ero geloso che la occupasse lei, anzi, ne ero strafelice. In fondo non sarei più tornato a vivere da mia madre e quella non la consideravo più casa mia da un pezzo nonostante, i cimeli ancora sparsi per la stanza o appesi alle pareti.
Per prima cosa sostituii la sfilata di accendini da collezione che avevo accumulato negli anni su una delle mensole, con la collana di libri che le avevo regalato, più consona all’arredamento di quanto non lo fossero quelle quattro cianfrusaglie che solo per pigrizia spudorata non erano ancora finite nella spazzatura.
Les, silenzioso ma indagatore, stava lì a darmi una mano, liberando il mio vecchio armadio che negli anni si era straformato in un ripostiglio extra.
“È bella!” sentenziò, di punto in bianco.
“Chi?” chiesi, fingendo di cadere dalle nuvole “oh … ah sì! Allison ... sì, è molto bella …” farfugliai qualcosa a caso, per non destare troppi sospetto. In fondo era una bella ragazza, chiunque avrebbe potuto confermalo, anche un cieco, con il solo uso del tatto avrebbe riconosciuto dei bei tratti come i suoi.
“In quanto a ragazze hai un buon gusto, non c’è che dire” riprese “tua madre ha ragione a dire che somigli a tuo padre … ma non fare come lui,  cerca di tenertela stretta”
Les non aveva problemi a parlare di mio padre: sapeva che era e sarebbe sempre  stato una parte importante della vita di mia madre, il padre dei suoi figli; forse in minima parte lo temeva, ma la sua lealtà e le sue attenzioni avrebbero sempre avuto la meglio.
Il nostro rapporto, invece era più complicato: lo avevo ritenuto sempre una benedizione per mia madre, ma non avevamo mai legato particolarmente. Era strano dunque che mi fosse vicino e si permettesse certe confidenze e conversazioni con me Lo trovavo impacciato, forse perché per la prima volta parlavamo di qualcosa che non fosse solo il baseball, ed io lo ero quasi più di lui. Ma non mi infastidiva, d’altronde gli avevo portato una ragazza in casa, la sua opinione era il minimo che gli si potesse concedere.
“Oh! Ci puoi giurare” risposi di getto, senza pensare a chi avessi di fronte. Mai rispondere prima di aver contato fino a dieci, mi ripeteva la maestra a scuola da piccolo. Cazzo sì se aveva ragione!!!
“Ehi!” protestai, non appena mi resi conto dell’errore madornale e della colossale figura di cioccolata “non è la mia ragazza … è solo un’amica”.
“L’importante è crederci” commentò lui, sornione.
Avrei voluto controbattere, spiegare che non c’era nulla oltre la splendida e limpida amicizia che stavamo portando avanti, perché qualcuno tra di noi non vedeva nulla che potesse andare oltre, ma evidentemente era chiaro come il solo quello che provavo per Allison e anche se mia madre aveva fatto finta di niente, difficilmente  non era giunta anche lei alla conclusione più ovvia, almeno per quanto riguardava il mio fronte, ormai spacciato. Mi arresi a quel dato di fatto e misi di nuovo la testa dentro l’armadio e gli scatoloni per ultimare il riordino della stanza.
“… e questa è la tua stanza” sentii la voce di mia madre annunciare, avvicinandosi, e i passi di più di una persona pestavano il parquet e si perdevano laddove vi erano dei tappeti.
Alzando la testa mi accorsi di essere rimasto da solo con Allison, con mia madre che chiudeva la porta alle sue spalle, furtivamente sorpresa a ridere sotto i baffi, come di chi la sapeva lunga e Les che, senza che me ne accorgessi, doveva averla seguita in corridoio, prima che potessi fulminarlo con lo sguardo per l’alto tradimento.
Ok, era stupido essere imbarazzati, ma anche Allison mostrò di essere nelle mie stesse condizioni. Se ne stava sull’uscio della porta, quasi avesse paura che qualcosa potesse attaccarla in qualsiasi momento, immobile e timorosa, ma i suoi occhi non riuscivano a nascondere un’euforia generale per quella giornata estremamente fortunata e generosa che, con quella nevicata notturna, aveva letteralmente fatto cadere manna dal cielo.
Mi alzai e la raggiunsi, visto che non dava segni di movimento, e allargando le braccia le mostrai, come un fiero cicerone, quella che era ormai, a tutti gli effetti, la sua stanza.
“Benvenuta!” esclamai, sorridendo. Lei, tuttavia, sembrò non curarsi troppo di me, impegnata a guardarsi ancora intorno e a scrutare ogni dettaglio, quasi certamente ancora incredula che in poche ore il destino le avesse donato più di quanto potesse sperare e chiedere. Aveva un’espressione divertita, qua e là sostituita da occhiate più scettiche, mentre si fermava su alcuni dettagli della stanza, ma non dimostrandosi mai scortese o scontenta.
“So che non è esattamente la stanza che una ragazza può desiderare …” spiegai, vergognandomi neanche poi tanto velatamente delle mie passioni adolescenziali. Tra collezioni varie, gadget del baseball e cimeli musicali, sembrava piuttosto un bazar mediorientale che una stanza da letto.
“ … ma se vuoi puoi darle il tuo tocco personale e più femminile, non mi arrabbio” le dissi, sogghignando ma sinceramente.
“sì, me l’ha detto anche Diane” rispose “ma non credo che lo farò”. Tenne a precisare che avrebbe levato qualche vecchio poster di giocatori di baseball o vecchie locandine di film di fantascienza più vecchi di noi, ma che le piaceva così e non l’avrebbe cambiata di una virgola.
“Davvero?!” domandai, incredulo. Non aveva peli sulla lingua generalmente, ma in questo caso non mi avrebbe stupito vederla mentire pur di non ferirmi ed abusare della generosità dei suoi ospiti.
“Davvero!” confermò, con  un entusiasmo che non lasciava adito a dubbi “mi piacciono le pareti in legno scuro ed i colori caldi delle tende e delle lenzuola, l’atmosfera soft e tutte questi strumenti musicali … sembra di stare in un Hard Rock Café. Sì, mi piace!”
Sembrava sincera, e la sua energia positiva era contagiosa. Poi si accomodò sul lettone grande e morbido che troneggiava nella stanza, poggiando i piedi sulla cassapanca ai piedi del letto, con tutte le scarpe, poggiando la schiena su una delle colonnine che componevano il letto. Rividi me stesso, accovacciato lì, nella stessa posizione, solo qualche anno prima, mentre mio fratello, seduto per terra, mi insegnava a suonare la chitarra. Alla fine però, si finiva sempre con l’ascoltare i suoi assoli meravigliosi. Ci sapeva fare con la chitarra …
“La mia stanza ad Indianapolis era un tantino diversa” spiegò Allison, riscotendomi dai miei soliti sogni ad occhi aperti “tutta pizzi e crinoline, hai presente?! E c’era tanto rosa”. Sembrava una confessione divertita e leggermente imbarazzata, certamente era difficile immaginarsela in una camera da principessa delle favole, ma come al solito quando si trattava di rispolverare qualcosa dal passato, era diventata inquieta. Ero abituato ormai a vederla ridursi in quello stato, non mi davo più tanta pena come all’inizio, sapevo bene che le sarebbe passata in fretta e riuscivo anche a rimanere impassibile per non farla rattristare maggiormente. Andai a sedermi sulla cassapanca, lasciando che dal mio sguardo trasparissero pazienza e fiducia, ciò di cui aveva bisogno per aprirsi con me e stare bene. Io non avevo avuto la sua stessa fortuna quando si trattò di Michael, nessuno che fosse disponibile a starmi a sentire e volevo che lei avesse quel genere di possibilità.
“L’aveva arredata mia madre prima che nascessi” chiarì “ad Emilie piaceva tanto … la sua invece sembrava il bosco delle fate”
Forse non avrei dovuto, sentivo che qualcosa non quadrava, eppure non riuscii a trattenermi: “Chi è Emilie?”
“Mia sorella” rispose lei, telegrafica, risparmiando fiato, parole ed emozioni.
“Non mi avevo mai detto di avere una sorella” incalzai, senza rendermi conto che probabilmente ero stato il re degli indelicati.
“Infatti non ce l’ho ... è morta più o meno tre anni fa”
Rimasi freddato come se un proiettile mi avesse trapassato contemporaneamente il cuore, fermandomi i battiti, i polmoni, strozzandomi il respiro, e il cervello, arrestandomi ogni pensiero. Incapace di reagire ad una notizia tanto grave, incapace di assorbirla e somatizzarla, incapace di essere in quella stessa stanza con lei e dirle almeno una parola gentile che non suonasse stupida e banale.
Ricordai allora di quella sera,  quando le rivelai della fine di Michael, e delle sue parole: “so come ci si sente …”. Sì, lo sapeva, e per uno strano gioco, il destino aveva riservato ad entrambi un dolore tanto simile e tanto terribile. Lei in quel momento, al mio contrario, sembrava essere un vulcano di parole, come se la prima tra le rivelazioni avesse innescato una reazione a catena nei suoi cassetti della memoria.
“Aveva solo otto anni … era una bambina bellissima” non c’erano lacrime nei suoi occhi, né voce rotta dalla commozione, eppure tutte le corde del suo corpo, raggomitolato in una strana ed innaturale posizione, parlavano di un dolore che non si era estinto con gli anni, un lutto con cui conviveva da tre anni, insito in ogni sua fibra; le lacrime erano finite, ma il dolore restava intatto. Se la prima raffica di proiettili non fosse bastata a farmi fuori, era arrivata  allora anche una sciabola a conficcarsi nel mio petto, per farmi collassare una volta per tutte. Pensai a Caroline: oggi avrebbero avuto la stessa età ed un giorno si sarebbero magari incontrate al college … chiusi gli occhi, raggelato da immagini atroci.
“Come … come …?” balbettai, cercando di esserle d’aiuto, per quanto si potesse.
“Un incidente d’auto, una sera d’estate. C’era mio padre con lei. E c’ero anch’io. Ma non ricordo nulla, so solo quello che mi è stato detto e che me la sono cavata con una gamba rotta”
“E tuo padre?” domandai. “Coma. A dire il vero non ho la più pallida idea di come sia andata a finire con lui. Voglio dire … non so se si è mai risvegliato”
“Come sarebbe a dire che non lo sai?”
“Sono scappata di casa dopo poco tempo, quando l’aria è incominciata a diventare irrespirabile tra me e mia madre …”
Non sapevo cosa fare; l’entità del suo racconto era talmente grave e potente da nn  lasciare scampo. Avrei voluto interromperla ma sembrava non potersi fermare, anche se le mie orecchie imploravano pietà da parte del mio cuore, che non avrebbe retto un simile racconto. Straziante da ascoltare … impossibile da vivere. Era tanto forte la mia Allison, tanto forte da sopravvivere a tanto dolore senza sopravvivere.
Mi chiesi se avevo il diritto di sapere, se dietro la mia incapacità di bloccarla non ci fosse solo curiosità morbosa celata da un sostegno falso ed ipocrita. Non riuscivo a staccarmi da quel racconto, come catapultato indietro in tempi e luoghi sconosciuti, a condividere quel fardello insieme a lei. Però mi riscossi; alla fine il mio rispetto per lei ed il suo privato seppe prevalere sull’idiozia del curioso e pose freno al suo racconto, poggiando delicatamente l’indice sulle sue labbra, rosse e carnose, leggermente dischiuse per quel suo vizio adorabile di respirare con la bocca, che le lasciava stampata sul volto quell’espressione di perpetuo stupore che adoravo.
“Shh …” sussurrai, avvicinandomi più di quanto la mia mente avesse intenzione di fare “non sei obbligata a dirmi tutto”
“Ma io voglio” si impose, scansando la mia mano. “Sei sempre stato gentile con me Tyler” continuò, carezzandomi la guancia “ma è ora che non nasconda più nemmeno a me stessa quella parte della mia vita. E poi è giusto che tu sappia: se prendi me, prendi tutto il pacchetto”
Adoravo l’idea che, con quella frase innocente, aveva evocato, pur sapendo che per lei il significato era ben diverso da quello che io gli attribuivo. In più, compresi, che era per pura codardia che stavo negando ad Allison il diritto di parlami di sé, dopo settimane passate a sperare che si aprisse. Ma il vaso di Pandora, notoriamente, non conteneva solamente i mali del mondo: la speranza restava, per coloro che vi avrebbero creduto.
Fu così che mi affidai a lei e a ciò che aveva da dirmi.
Si stese sul letto, ed io feci altrettanto, guardandola mentre fissava un punto indefinito del soffitto a braccia conserte, le mani strette lungo le braccia.
Forse cercava di proteggersi dai ricordi troppo amari e dolorosi o forse tentava di trovare parole migliori per descriverli. Poi posò il suo sguardo perso nel vuoto su di me, cercando qualcosa che non sapevo cosa fosse: conforto, consenso, coraggio; in ogni caso, non c’era nulla che lei avrei negato, ma nulla avevo da offrirle.
Mi sentivo come un involucro svuotato di tutto: ciò che nella mia vita mi aveva spezzato ed abbattuto sembrava piuma in confronto al piombo che risaliva dal suo cuore e traspariva dai suoi occhi.
Restammo a fissarci per un po’, senza parlare, a contare i battiti lenti dei nostri cuori ed i respiri modulati a forza con l’unico scopo di tranquillizzarci reciprocamente. Finché non risolsi per entrambi di sciogliere quel silenzio: “Mi avevi detto … mi avevi detto che non te n’eri andata per colpa dei tuoi genitori …”
“No, infatti” rispose lei, dopo un lieve respiro “ma quella non era mia madre. Di lei era rimasto solo l’involucro esteriore. Il resto era solo fango e rancore”
Vidi una lacrima scendere alla fine verso l’esterno dell’orbita e scivolare delicata giù, fino a rimanere intrappolata tra i capelli.
Conoscevo quell’amarezza, conoscevo bene il gelo dell’animo di fronte a qualcuno che si pensava di conoscere. Non mi ci volle molto a riportare a galla le immagini  sfocate ed in parte rimosse di mio padre che se ne stava chiuso nel suo ufficio, su per quell’alta torre di Manhattan, invece di occuparsi di mia madre e mia sorella, che come lui avevano perso una persona più che cara, e di me, che quella stessa persona l’avevo vista penzolare nel suo appartamento. Lo avevo odiato per la sua distanza ed avevo risposto alla sua indifferenza con la stessa medaglia. Non la biasimavo dunque per la scelta che aveva fatto. Volevo solo capire il perché. E la risposta non tardò ad arrivare.
Allison si alzò dal letto e si portò davanti alla finestra bianca e squadrata, dove la differenza di temperatura tra i caldo degli interni ed il freddo dell’esterno aveva appannato il verro e qualche fiocco di neve si era incollato alla base della finestra, mentre le folate di vento li spostava dagli alberi della strada.
“la nostra era la vita di una normalissima famiglia americana. Io andavo al liceo, avevo ottimi voti e sognavo di diventare una cheerleader” iniziò il suo racconto più dettagliato, intervallandolo con occhiate fugaci verso delle mani nervose ed irrefrenabili, che contorcevano un fazzoletto di stoffa preso chissà dove.
“Quell’estate entrai nelle grazie del quarterback della squadra di football della scuola … era un senior, io solo una junior del secondo anno, puoi solo immaginare il mio entusiasmo. Mi sembrava di entrare in un altro mondo: frequentavo la gente giusta” disse mimando delle virgolette alla parola giusta “andavamo alle feste dei grandi e tutte le ragazze del mio anno erano verdi d’invidia. Ormai ero di diritto nella squadra delle cheerleader, stando sempre con loro avrei passato l’audizione anche se fosse stata un disastro.”
Mi raccontò che la madre non vedevano assolutamente di buon occhio quella nuova compagnia: diceva che l’avrebbe portata sulla cattiva strada e tutte quelle storie che una madre accampa quando si rende conto che i figli stanno crescendo e si sente impotente di fronte ad un simile dato di fatto; lo aveva fatto una donna all’avanguardia come mia madre, figurarsi la madre di Allison, a quanto pare una donna benpensante e reazionaria, restia ad ogni cambiamento, tutta casa durante la settimana e chiesa alla domenica.
“Ma una sera d’agosto questo ragazzo con cui uscivo, Steve, organizza una festa a casa sua ed io per andare accampo una scusa ai miei e la mia migliore amica di allora, Abigail, avrebbe dovuto reggermi il gioco” proseguì “Non che stessi facendo nulla di male … c’era qualche spinello e gli alcolici ovviamente, ma io non bevevo ne fumavo all’epoca. Ma i miei non approvavano ed io ci tenevo troppo ad esserci”
Ricordo benissimo quel periodo della mia vita, nonostante le frequenti sbornie di nascosto dai miei o le prime sigarette clandestine; magari nemmeno si piacevano davvero, lei e quel tizio, ma quando si è adolescenti certe cose si fanno perché le fanno tutti e non vuoi essere da meno o per dimostrare agli altri di essere grande e forte. Ma a quell’età nessuno pensa ad andare piano, che la vita poi riprende tutto con gli interessi, finché poi non viene davvero a riscuotere il suo debito nella maniera più terribile.
Allison parlava di sé come se da allora fossero passati decenni, come se non fosse ancora una ragazza, nemmeno maggiorenne, ma una donna fatta e finita che racconta, ora con distacco, ora con maggio trasporto, le disgrazie della sua gioventù. Sembrava la sceneggiatura di un film indipendente a basso budget e con attori dilettanti, un documentario sulle famiglie del ceto medio e dei loro figli viziati e ribelli, che lascia presagire un finale nient’affatto rosa.
“Però la copertura saltò, anche se non so bene come” proseguì, dimostrando le lacune che un trauma come quello aveva lasciato nella sua memoria “così mio padre venne a prendermi, ma non so perché mia sorella fosse con lui … non me lo ricordo. Ricordo che litigammo in macchina, sulla strada per casa … e poi dei fari abbaglianti che ci venivano incontro e un clacson che non la smetteva di suonare. Da lì in poi il vuoto più totale … il primo ricordo che ho è di me in un letto d’ospedale con la gamba ingessata e nessuno al mio fianco a spiegarmi che stava succedendo. Furono i medici ad informarmi di mio padre e mia sorella”
Probabilmente era ancora amareggiata per l’indifferenza dimostrata nei suoi confronti, anche se sembrava non dargli più peso e non dimostrava più segni di insofferenza verso quei ricordi, come quando convivi con rumori o fastidi quotidianamente e finisci per non farci più cosa. Forse il racconto era servito ad esorcizzare il dolore e la malinconia.
“Dopo il funerale di Emilie mia madre iniziò a fare la spola tra ospedale e cimitero, come se a casa non ci fosse nessuno per cui valesse la pena di tornare. E quando provai a reclamare la sua attenzione e ricordarle che c’ero anch’io quella notte iniziò ad accusarmi di essere l’unica responsabile della morte di mia sorella e di tutto il resto, che ero diventata una puttana … beh lei non  usò quel termine, da puritana qual era preferì usare il termine meretrice … e non ero più la figlia che lei aveva tirato su.”
Quelle ultime frasi però sembrarono affliggerla più del resto, come se l’onta per una tale offesa avesse intagliato una ferita mai più rimarginata.
“Beh” riprese “a parlare così, neanche lei aveva più tutta l’aria di essere la madre che mi aveva amata fino a poco tempo prima”
Era innegabile che sembravamo essere attratti l’un l’altro per la mole quasi speculare di eventi avversi e persone sbagliate che ci trascinavamo dietro come palle di piombo, che avevano forgiato i nostri caratteri fino a renderci le pecore nere, anziché i capri espiatori dei complessi e delle frustrazioni altrui.
“Immagino ti sia difesa dalle sue accuse e abbia sostenuto le tue ragioni …” commentai, per la prima volta, da quando aveva iniziato il suo lungo monologo.
“Ed invece no” disse, disattendendo le mie aspettative “semplicemente perché aveva ragione … so che è strano, ma più lei mi additava come una prostituita, più io mi conformavo al suo capo d’accusa. È così che sono diventata quella che sono: il primo fu Steve, poi il resto della squadra di football, finché tutta la scuola poté esprimere giudizi sulle mie abilità
Era ancor peggio dello squallido documentario che si era profilato nella mia mente, era una storia triste, ai limiti tra un romanzo contemporaneo e la vita vera, in cui il confine tra realtà e fantasia è praticamente invisibile.
Nel mio intimo il terrore che quella fosse la realtà più cruda mi faceva sperare in una bugia per intenerirmi, in un racconto ben congeniato e arricchito di elementi ultra drammatici. Ma non la davo a bere a nessuno: sapevo che era solo la pura verità e dovevo affrontarla da uomo. Così … o l’avrei persa.
“Perché?” domandai. Conoscevo e apprezzavo così tanto la parte giocosa e spensierata di Allison da non comprendere come fosse stato possibile che la parte oscura di lei potesse essere nata ed avere avuto il sopravvento.
“Mi sentivo voluta, cercata, apprezzata, all’inizio. Ma poi tutto si reggeva sui guadagni estremamente facili. Le prime volte furono delle ricariche per il telefonino, poi dei buoni per fare shopping in qualche negozio firmato. Infine arrivarono le banconote, ma tutto accadde molto velocemente, nel giro di un mese o due ero entrata in un circolo vizioso. Potevo averne quanti volevo, senza fare nulla di male … almeno così la vedevo allora … e mi sarei liberata di mia madre. Era quello che volevo di più. La sua presenza … anche solo la sua voce … era diventata insopportabile. Così, messo da parte un piccolo gruzzoletto, lasciai casa e me ne andai da New Orleans. Speravo di poter diventare una ballerina, ma i soldi non bastavano mai e così mi ridussi ad essere una cubista con … mansioni speciali.”                                                                                                                
Mi ero sempre chiesto che le storie ed i casi umani degli show televisivi fossero un chiaro esempio della tv spazzatura o se fossero reali; dunque non erano solo finzione creata per alzare lo share, accadevano davvero. Il problema è che spesso ci si dimentica di guardare davvero e con attenzione cosa c’è dietro, oltre la facciata. In giro ci sarebbero molte più anime redente e meno farisei pronti a scagliare pietre.
“Poi il locale di New Orleans venne chiuso dalla polizia ma il pappone del Don Hill mi comprò quasi letteralmente dal vecchio boss prima che finissi nei guai con la polizia e mi fece venire a New York un annetto fa. E da allora non è successo niente, almeno fino a quando un certo Aidan Hall non mi chiese di intrattenere il suo amico solitario, tale Tyler Hawkins, una sera di novembre”.
Sorridemmo entrambi, ma fu quasi un sussurro leggero e timido che, per quanto quella sera fu strana e anche difficile da gestire, testimoniava l’inizio di qualcosa di piacevole, che fosse una semplice amicizia o qualcosa di più.
Fece una pausa in cui si voltò e torno vicino al letto, dove io ero rimasto e me ne stavo seduto in religioso e rispettoso silenzio. Mi tese le mani ed io intrecciai le mie alle sue. Modellai i miei movimenti ai suoi, trovandomi in questo modo di fronte a lei, in piedi. Non sapevo come comportarmi, anche guardarla mi sembrava irrispettoso; parlare, poi, sarebbe stata la più stupida delle cose che, conoscendomi, avrei potuto fare, rovinando tutto, come sempre.
Lasciai che fosse lei a fare ogni singola, minima mossa; avrei risposto se interrogato, mi sarei mosso, se me lo avesse chiesto.
Mi prese il volto tra le mani, con un’intraprendenza dolce e naturale che non le riconoscevo e non alla maniera marcata e sgarbata di Mallory e dei suoi mille altri alter ego delle sere passate e depositò un bacio sulla mia guancia.
A che pro commentare la scossa ed il calore che invasero il mio corpo, già irrigidito da un simile contatto, del tutto inaspettato. Diceva che tra noi era tutto lecito, ma i sentimenti andavano lasciati fuori: le avevo promesso che me lo sarei fatto bastare pur di averla al mio fianco, ma sentivo che questo compromesso mi avrebbe procurato un biglietto di sola andata per il manicomio. Uno spreco di tempo soffermarsi e parlare di quelle labbra carnose, calde e leggermente bagnate che più che sulla guancia, si erano posate impertinenti ma delicate all’angolo della bocca, come se la sofferenza non fosse già al limite.
“Inutile mentire” disse puntandomi con i suoi grandi occhi da cerbiatta “mi hai cambiato la vita”.
Se era sua intenzione eliminarmi c’era riuscita in pieno. Era pienamente consapevole che per me quella era una nota dolente ed entrambi avevamo imparato quanto diversi fossero i significati che avremmo attribuito a delle simili parole; ma masochisticamente mi sforzai di adeguarmi al suo e scoprii che non era poi così male. Si stava bene anche in quel pianeta piccolo e semplice, libero da briglie ed obblighi.
L’abbracciai forte, avvolgendo le mie braccia alla sua vita e soffocai le lacrime nascevano nell’incavo del suo collo.


















NOTE FINALI

Lo so, è passato tantissimo tempo dall'ultima volta che ho scritto. E me ne dispiace da morire. Spero proprio di farmi perdonare con questo capitolo. Non vi dico molto perché credo parli da se.

Chiedo scusa se non ho risposto a tutte le recensioni dello scorso capitolo ma non ho avuto tempo, ma vi assicuro che le ho lette tutte e prometto di essere più presente d'ora in avanti.

à bientot

Federica

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Capitolo 16
*** You are my sister ***


When you crash in the clouds - capitolo 15
When you crash in the clouds







Capitolo 15

You are my sister





soundtrack

Mi chiusi la porta alle spalle, lasciando che Allie si godesse la sua nuova stanza un po’ da sola, riordinando le idee dopo la mezz’ora trascorsa a parlarmi di sé e a far riaffiorare un passato doloroso e spiacevole. Non sapevo cosa fare, più che abbracciarla e farle sentire quel calore che negli ultimi tre anni le era evidentemente mancato, ma ero anche cosciente che tre anni di disattenzioni e angherie subìte non potevano essere spazzati via da una buona colazione ed una stanza tutta nuova, né sarebbero bastate una seduta dal parrucchiere o una mattinata a spasso tra i migliori negozi della città.
Nonostante avessi provato sulla mia pelle cosa significasse essere ignorati nel momento del dolore, non concepivo come dei genitori potessero davvero comportarsi così con i propri figli; avevo solo voglia in quel momento di stanare quella donna dovunque fosse e guardarla negli occhi, capire come potesse anche solo respirare sapendo a quale vita aveva costretto il sangue del suo sangue e poi sputarle in faccia, letteralmente, tutto lo sdegno che provavo per lei.
Era una cosa che mi ero ripromesso di fare prima o poi; tuttavia ora dovevo invece solo concentrarmi a far star bene la mia Allie in questa nuova situazione, ospite in casa di sconosciuti, che pure la stavano trattando come se fosse una di famiglia.
La mia Allison, che mia non lo era per niente. Fingevo che lo fosse, ma chiaramente era un’illusione bell’e buona, e per di più dolorosa, destinata a svanire e distruggermi. Non era interessata a stare con me, ma aveva dimostrato di essersi affezionata e di non voler rinunciare a ciò che di me potevo offrile senza creare troppe complicazioni tra noi. Mi accontentavo, sperando di farle cambiare idea, prima o poi.
Al momento però, tra i molti pensieri che affollavano la mia mente, c’era anche un piccolo comparto dal nome Caroline. Da quando avevamo messo piede in casa non si era fatta sentire, né tantomeno vedere e conoscendola sapevo che non avrebbe fatto la prima mossa. Era troppo timida per presentarsi ad un estraneo di sua spontanea volontà e le sue difficoltà di relazione con gli altri si amplificavamo ogni volta per via del timore che la trovassero strana, come non mancavano mai di ricordarle quelle stupide oche che si ritrovava come compagne di scuola, o che scoprissero dei suoi momenti di distrazione dal resto del mondo. Nessuno di noi, a casa, gliel’avrebbe mai fatto pesare, ma era terrorizzata da chiunque non la conoscesse e avrebbe potuto etichettarla come uno scherzo della natura.
Mi avvicinai alla sua stanza sperando di sentir risuonare qualche pezzo di musica classica, segno inconfondibile della sua produttività artistica. Era molto abile nella ritrattistica, prediligendo in particolar modo l’uso delle matite e del carboncino al posto dei pennelli ed ogni volta che ritraeva qualcuno, fosse un estraneo o un amico di lunga data riusciva con pochi semplici tocchi e particolari a coglierne la più vera essenza.
Ma in quel momento lo stereo non stava funzionando e, aprendo la porta, la trovai stesa sul letto. Non appena mi vide voltò le spalle e, nel breve attimo in cui incrociai il suo sguardo, non mi fu difficile scorgere astio e dissenso; evidentemente era già a conoscenza degli eventi di quella giornata e non sembrava essere d’accordo.

Mi sedetti sul letto, al suo fianco, lasciando che mi desse le spalle e mantenesse il broncio ancora per un po’, ma le schioccai un bacio sulla guancia, sapendo che a quello non sapeva proprio resistere. Ma sembrò per la prima volta non riuscire a perdonarmi, pulendosi con il dorso della mano laddove l’avevo baciata, schifata.
“Che c’è?!” cantilenai, richiamandola “non ti piacciono più le coccole del tuo fratellone?”
Tuttavia sembrava che le mie moine per ingraziarmela avessero addirittura sortito l’effetto contrario, facendola risentire ancora di più. Immaginavo che ce l’avesse con me per averle portato Allison in casa, ma dovevo capire il perché.
“Allora?!” incalzai “vuoi dirmi perché fai l’offesa? Mmh?!”
Si girò, lentamente, tirando su il naso, sperando forse che io non capissi che avrebbe volentieri pianto. Era davvero una bambina, ma il più delle volte, purtroppo tendevo a dimenticarlo.
“Chi è quella lì?” frignò. Bingo! C’avevo preso, chiaramente.
“Te l’ha detto mamma che abbiamo fatto venire una ragazza a stare qui?” chiesi; lei scosse la testa, spiegando che ci aveva visti arrivare e dal pianerottolo aveva spiato la nostra conversazione al piano di sotto.
“Si chiama Allison, è una mia amica” chiarii “ non ha più un posto dove stare e mamma ha suggerito di farla trasferire qui fin quando non troverà una sistemazione per conto suo”
Mi sembrava la spiegazione più semplice e comprensibile, che non implicasse parole difficili e situazioni che non avrebbe dovuto conoscere alla sua età, risparmiandomi una montagna di domande scomode a cui rispondere.
“Non sta bene lasciare senza una casa le persone a cui vogliamo bene, soprattutto con questo freddo, non ti pare?” le dissi.
Eppure, testarda come un mulo, affilò la lingua e rispose: “Questo varrà per te ma non per me, Tyler. Io nemmeno la conosco …”
“Se non fossi così difficile l’avresti già conosciuta” mi sentii ribattere.
“Sono in casa mia” mi contraddisse “sta a lei presentarsi!”
Restai con un palmo di naso. Dov’era finita Caroline, la mia timida, dolce, sensibile ed adorabile sorellina? Non ricordavo di avere un serpente dalla lingua biforcuta come sorella!
Quella sua risposta pronta, quel suo cipiglio fiero e battagliero mi fecero pensare ad un felino che difende il suo territorio. E per questo c’era una parola ben precisa: GELOSIA.
Solo che in ballo non c’erano solo quelle quattro mura, bensì qualcosa di più grosso e più importante: i suoi affetti.
Non era abituata a dividere ciò che le apparteneva, né tantomeno le nostre attenzioni, con nessuno altro e, anche se non l’aveva dichiarato apertamente, il suo atteggiamento parlava da sé.

“Non fare la bambina” la rimproverai “Allison ha i suoi buoni motivi per rimanere sulle sue, credimi. Ogni tanto si tratta anche di venirsi incontro. Non puoi sempre fare come se tutto ti fosse dovuto”
D’altro canto, pensai, quel suo atteggiamento, alle volte vittimistico, era dovuto al trattamento da cocca di casa che noi tutti ci ostinavamo a riservarle e che aveva inevitabilmente portato a tirarla su viziata ed egoista.
Ma come risultato ottenni solo la reazione inversa, un plateale broncio accompagnato da sbraiti e grandi sceneggiate per buttarmi fuori dalla sua camera. Avrei potuto fermarla con una mano o zittirla con un semplice richiamo ben assestato, che mia madre non era mai stata in grado di farle, ma preferii non obiettare oltre alle sue rimostranze, ero pur sempre suo fratello maggiore, e se ora il muso le sarebbe passato con una coppa di gelato o un pomeriggio insieme nel suo museo preferito, se avessi tentato di impormi avrebbe cominciato ad odiarmi per essere l’ennesima figura autoritaria nella sua vita che cercava di imporle le sue regole. A me non sarebbe piaciuto, figurarsi a lei.
“E ti ricordo” mi urlò, una volta cacciatomi dalla stanza “che ho 10 anni e mezzo … sono ancora una bambina!”
“Caroline dai …!”
In quel momento, mentre Caroline mi sbatteva la porta in faccia, un’altra si aprì alle mie spalle. Allison fece capolino timidamente dalla sua stanza ed io mi avvicinai, impacciato. La mano corse ai capelli, ma era diventato nel corso degli anni un gesto talmente incondizionato, da non farci quasi più caso.
“Non devi litigare con lei per me” mi disse, accennando a quella porta irrimediabilmente chiusa.
“Nnn …” obbiettai, borbottando “non ci fare caso. Stasera o al più tardi domani sarà tutto passato.”
“Ed invece no” si impose “non ne vale la pena. È tua sorella, ti vuole bene … le vuoi bene e non devi sprecare neanche un secondo del tempo che passate insieme.”
Capii in un battibaleno il sottile riferimento a sua sorella e compresi che forse aveva ragione. Del resto, se Michael fosse ancora vivo o se solo mi fosse data l’opportunità di trascorrere con lui ancora poche ore, certo le sfrutterei al meglio. Ma il tempo che ci viene concesso non è mai abbastanza e puntualmente lo sprechiamo, concentrandoci su futili litigi e chiacchiere inutili.
“Le parlerò” promisi, sapendo che tanto bastava poco per fare pace con la mia sorellina. “A te invece come va nella nuova stanza?” le chiesi, alludendo in realtà alla nostra conversazione di prima. Ci capitava molto spesso di parlare per traslato e, per fortuna, riuscivamo ad intenderci sempre alla perfezione.
“Bene, grazie”. Sperai che avesse capito a cosa mi riferissi, ancora una volta.
 

La neve si era quasi totalmente sciolta, nonostante un’ulteriore bufera ci avesse colpiti di nuovo quella notte, ma il gelo tra mia sorella ed Allison persisteva ancora dopo due giorni.
Ormai ero diventato ospite fisso di pranzi e cene da mia madre, per l’invidia di Aidan a cui ancora dovevo rendere conto del nuovo ordine in cucina e del perché Allison si era trasferita da mia madre: “una cosa per volta” mi sbrigavo ogni volta per affrontare quella conversazione, cambiando velocemente stanza o fingendomi impegnato in altro; lui sembrò per una volta abbastanza rispettoso da non mettersi in mezzo.
Non che mi lamentassi di quella nuova routine, economicamente favorevole e salutare per la mia dieta oltre che per l’ottima compagnia, ma il ruolo di mediatore mi andava alquanto stretto. La piccola di casa si rifiutava di scendere a mangiare finché ci fosse stata quella ed Allison andava rincuorata ogni volta che questo sprezzante accanimento si ripresentava.
“Non è giusto” diceva “non è giusto che in casa sua Caroline si comporti da estranea per favorire me.” Si offrì di cenare in camera per tutto il tempo della sua permanenza, a parte cercare di convincerci, invano, che fosse il caso di non trattenersi oltre.
“Allison” le ripeteva mia madre “Caroline deve imparare che non sempre si deve fare come dice lei”
Straordinariamente mia madre sembrava essere in accordo con me sulla questione, eppure Allie ribadiva quanto l’ostruzionismo di Caroline fosse legittimo e lei non aveva il diritto di insistere oltre. A dirla tutta aveva anche provato ad avvicinarla, ma Caroline aveva sfoderato un lato di sé che non conoscevo; sembrava un gatto furioso e prepotente, pronto a sguainare gli artigli in ogni momento.
Non sapevo più come affrontare l’argomento con lei; cercavo di farle sputare il rospo su ciò che non andava, ma il mutismo era la sua arma prediletta.
Avremmo dovuto trovare un soluzione al più presto, perché non volevo che Allison lasciasse quella casa; per quanto la proposta di una convivenza (amichevole) con me era sempre valida, anche un cieco avrebbe notato i benefici che la permanenza in casa di mia madre, vivendo con delle persone che avevano per lei un aspetto vagamente genitoriale, le aveva ridonato quella quotidianità preziosa e semplice di cui aveva bisogno. Se solo l’avesse capito anche Caroline.
Probabilmente un altro genitore, con un altro figlio, si sarebbe comportato diversamente e l’avrebbe costretto a stare a tavola comunque. Ma con Caroline non era possibile adottare certe misure ferme: non dopo il divorzio di mia madre ed il suo secondo matrimonio, non dopo la morte di nostro fratello, non con un padre-fantasma come il nostro.
“Maestro!” la salutai, dopo aver cenato, andando a ritirare il vassoio con la sua cena. Mi salutò di rimando con la sua risata appena accennata, ma che per noi parlava più di centro frasi fatte o parole di convenienza. Ma invece di lasciarla ai compiti che il pomeriggio aveva sostituito con la pittura, decisi di farle un po’ compagnia, aiutandola con i problemi di aritmetica e gli esercizi di grammatica. Di tanto in tanto cercavo di punzecchiarla con il solito argomento, che iniziava a dare la nausea un po’ a tutti. Ma era più scaltra di quanto desse a vedere e, grazie alla sua capacità manipolativa o, per meglio dire, alla mia malleabilità, non c’era verso di dirigerla verso una riconciliazione (a dir la verità, si trattava di un vero e proprio primo incontro) tra lei ed Allison.

Il giorno seguente, approfittando del mattino libero dal lavoro e dei corsi universitari senza frequenza obbligatoria, mi recai a casa di mia madre, secondo la versione ufficiale, per preparare gli esami della sessione invernale.
Les non poté fare a meno di alzare gli occhi al cielo vedendomi arrivare di buon mattino a casa sua, con caffè e ciambelle per tutti. Casa mia non era certo il luogo migliore per concentrarsi e studiare, su questo eravamo d’accordo, ma la biblioteca dell’università era molto più vicina e c’erano altri mille posti in cui andare, come la caffetteria sul posto di lavoro o altri che comunque avrei preferito, fino a qualche giorno prima, secondo il marito di mia madre.
“Ma di tutti hai scelto questo” ribadì il concetto Les, ironico, strizzando l’occhio. “Ma non ce l’hai un lavoro Les?” gli chiesi, fintamente offeso, nel nostro gioco, ormai quotidiano, di provocazione e battutine punzecchianti.
Rise sornione, addentando una delle ciambelline e brandendo una tazza di caffè che gli avevo portato, con la ventiquattrore ciondolante nell’altra mano. Uscì e mi lasciò solo in casa, visto che Caroline era a scuola ed Allison era con mia madre da qualche parte, visto che mi nascondevano tutti i loro progetti e acquisti.
Fui costretto a mettermi a studiare sul serio, distratto però ogni 5 secondi dai dettagli nuovi che arricchivano ora quella che era la mia camera e in cui mi ero piazzato, a detta di Les, “proprio a caso”. Oltre alle chitarre ed alcuni cimeli musicali di mia proprietà che aveva conservato, Allison aveva aggiunto un mobile da toilette antico in legno (sicuro opera di mia madre e della sua mania per l’antiquariato), una riproduzione della “Classe di Danza” di Degas impreziosita da una cornice in oro, finemente lavorata e lasciata volutamente per terra, in piedi, addossata delicatamente ad una parete ed invece, sulle pareti, alcune locandine di spettacoli di danza leggendari, dai Balletti Russi di Balanchine allo Smuin Ballet di San Francisco, a dimostrazione che la danza era parte integrante della sua prima vita. Magari il suo sogno era quello di diventare una grande ballerina, e lo sarebbe stata se non avesse scelto di abbandonare sua madre e la sua famiglia; ma con i se e con i ma non si combina granché …
Così, alzandomi e distraendomi per la cinquantesima volta nel giro dell’intera mattinata, lasciai la stanza di Allison per andare a farmi un caffè, visto che quelli che avevo portato li avevo ormai finiti; passai di fronte alla stanza di Caroline e non ci pensai due volte ad entrare. Mi dava un gusto particolare sbirciare le sue creazioni quando lei non era presente, soprattutto perché puntualmente finivo col cercare quelle che lei scartava o nascondeva finché non fossero concluse: non per morbosa curiosità o invadenza, ma era come entrare in un museo di work in progress. Mi guardai un po’ intorno e, oltre ai miei ritratti, di cui oramai ne aveva collezionati una dozzina, c’era qualche paesaggio innevato di New York, scorci dalla sua stanza o vedute immaginarie di Central Park e Times Square, ricordo dei giorni passati. Infine, ben nascosto tra gli altri fogli, trovai un ritratto che mi colpì. Riconobbi subito i tratti del soggetto: era Allie, seduta tra morbidi cuscini sul davanzale interno della sua camera, intenta ad osservare qualcosa fuori eppure con lo sguardo perso nel vuoto, un libro aperto sulle ginocchia.
Doveva averla spiata parecchio, doveva averla osservata con attenzione per aver trovato in lei così tanti particolari degni di nota: le labbra sempre leggermente dischiuse, i capelli mai in ordine e la testa appoggiata sul freddo vetro; neanche una leggera escoriazione sul collo le sfuggì, cicatrice della notte in cui era scappata dalle mani violente e lerce di gente straniera e violenta. Trovai con sorpresa che nonostante lo shopping con mia madre Allie non si era più staccata dalla mia felpa grigia, vecchia e slavata, che usava più come camicia da notte per quanto era grande, le sue belle gambe, bianchissime e perfette, in vista ed i suoi piedi delicati da ballerina, contratti come se camminasse sulle punte.
Pur avendo la possibilità di averla davanti a me in carne ed ossa ogni singolo giorno, quel disegno mi ricordò ancora una volta perché ci avevo messo poco ad innamorarmi di lei: il suo corpo era sì da paura, ma era al contempo un tempio perfetto per l’anima ancor più meravigliosa che ospitava.
Neanche l’avessi fatto apposto in un tempismo degno della peggiore telenovela sudamericana, la porta d’ingresso si aprì ed un cicaleccio risalì le scale, rivelando mia madre ed Allison, infreddolite nei lori cappotti e coperte in sciarpe e cappelli, piene di buste e sacchetti da negozi di abbigliamento scarpe e accessori, gli ennesimi della settimana, che corsero a nascondere divertite, in camera di Allison … come se non sapessi che mi avrebbero fucilato se solo avessi sbirciato … donne …
Rivolsi un cenno del capo ad Allison, che subito fu al mio fianco.
Mi scoccò un bacio fraterno sulla guancia e le porsi il disegno che mia sorella le aveva dedicato. Forse non stava bene, ma credo che per entrambe fosse necessario sapere che si volevano bene senza nemmeno conoscersi.
Lasciando stare il comportamento di una bimba di 10 anni, stava alla controparte cercare di mediare a questo punto.
“È molto bello” commentò Allison, nascondendo stentatamente la commozione che saliva. Ricordavo bene la gioia della prima volta che Caroline mi ritrasse tutto l’orgoglio che mi portai dentro per giorni, capivo bene come potesse sentirsi: finalmente benvenuta ed amata.
Poi ripensai a ciò che mi aveva raccontato pochi giorni prima e compresi quale ulteriore valore potesse aver per lei una probabile nonché del tutto possibile amicizia con mia sorella: Emilie, la sorellina scomparsa, avrebbe avuto la sua età così ebbi un’idea.
“Credo che dovresti fare un ultimo tentativo di parlare. Perché … perché non le racconti di Emilie?” provai a suggerire; era rischioso, ma Caroline era abbastanza sensibile e discreta per una storia simile e forse avrebbe trovato un’amica con cui aprirsi e condividere i suoi altrettanto pesanti fardelli.
“Non lo so Tyler” si espresse scettica Allison “non penso che sia una buona idea, non voglio rattristarla, ha già i suoi problemi … né tanto meno impietosirla”
“Credimi Allie … Caroline è tutto meno che impressionabile” la incoraggiai “ e poi si tratta solo di una prova. Abbiamo sbagliato approccio con lei, abbiamo pensato che si stesse comportando solo da maleducata dimenticando che ha solo 10 anni”
Probabilmente era anche un po’ gelosa di Allison, ma la paura più grande doveva essere quella di perdere me. E come quattro cretini nessuno di noi lo aveva capito prima, ci saremmo risparmiati un sacco di discussioni e di richiami a porta sbattute in faccia.
Lasciai casa di mia madre, direzione lavoro, con Allison che ancora rimuginava sul da farsi. Per strada un clacson attirò la mia attenzione: Caroline in macchina con Les tornava a casa. Mi avvicinai all’ingorgo e mi affacciai all’interno della vettura per salutarli.
“C’è qualcuno che vuole parlarti a casa” dissi subito a Caroline, velocemente prima che potesse cambiare discorso” non essere indisponente, per favore. Fallo per me”
La vidi rabbuiarsi all’istante, ma almeno annuì e così la lascai, sperando che a cena non sarei stato costretto più ad essere il cameriere di quella piccola permalosona.

 

Non so se ritenermi contento del successo che Allison ed io ottenemmo su Caroline. Certo mi fece indubbiamente piacere vedere come lei ed Allie si affiatarono in fretta, subito dopo essersi parlate, quella sera stessa non si staccarono un attimo l’una dall’altra. Tuttavia nei giorni seguenti ebbe inizio la tiritera di domande impiccione della mia sorellina impertinente a cui non c’era modo di sottrarsi quando rimanevamo soli in camera sua.
“State insieme?” iniziava. Alla mia negazione stizzita allora proseguiva con: “ma ti ci metterai?” oppure “vi siete almeno baciati?”, fino all’inaudito “ci sei andato a letto?”
Mi vergognavo a parlare con lei di certe cose perché con lei non avevo mai parlato di ragazze prima d’ora e poi soprattutto perché non avevo idea che a scuola fossero tanto precoci nel parlare di educazione sessuale.
Ma la cosa davvero sconcertante era sentirsi dire da uno scricciolo di 10 anni (10 e mezzo come teneva a precisare) “non giocare con lei Tyler, ha sofferto molto”
Senti chi parla, avrei proprio voluto rimbeccare!
Era proprio l’unico rimprovero che non accettato proprio da nessuno, dopo tutte le dimostrazioni tangibili di ciò che avevo fatto e stavo ancora facendo per lei, perché stavo facendo tutto meno che giocare con lei.
Nessuno però sembrava accorgersene, nessuno vedeva quanto fossi cambiato per lei. Nessuno … tranne Allison.
















NOTE FINALI

Sono tornata, finalmente. Vi sono mancata, vero? Credo però che scrivere e pubblicare sia mancato più a me.

Il brivido del postare, l'ansia per le recensioni. Chiedo scusa a proposito per non aver risposto a tutte, ma sappiate che leggo sempre con molto affetto e gratitudine ogni vostro commento, sia positivo che negativo, quando essi sono costruttivi ed educati.

Entriamo in una fase molto particolare della storia, molto si è assestato, ora ci sono solo dettagli da mettere a posto, che sembrano essere insignificanti, ma che in realtà sono colonne portanti.

Immagino che vi starete chiedendo che ne sarà dei nostri due eroi. Non posso dirvi niente ... se non al limite consigliarvi un film, "500 giorni insieme" che vi potrebbe chiarire un po' le idee.

Non vi do un appuntamento perché non so quando potrò scrivere e pubblicare e poi amo vedervi sorprese dalla pubblicazione.

à bientot

Federica

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Capitolo 17
*** No doubt in my mind (where you belong) ***


when you crash in the clouds


























Capitolo 16
No doubt in my mind (where you belong)



soundtrack


I giorni sul calendario sfilavano velocemente tra i turni in libreria, sempre piena per la corsa ai regali di Natale, e le giornate a casa di mia madre. Per quanto Allison tentasse di farmi studiare - sembrava essere sempre la più grande e responsabile tra i due -  finivamo sempre per metterci a fare altro. Una volta era la musica, un'altra un film, trovavo sempre la scusa per stare lontano dai libri e sempre più spesso vicino a lei. D'altronde era inevitabile, con lei si stava troppo bene, irradiava luce e calore naturalmente, nonostante le giornate buie e fredde che ci stavano accompagnando verso le feste.
Mi ero messo in testa l'idea di farla divertire e farle recuperare tutte le uscite che si era persa negli anni passati, fossero esse a base di amicizia o qualcosa di più. Non potevo portarla in nessun club visto che non era maggiorenne e mia madre si era premunita di confiscarle i documenti falsi, per evitare che finisse in altri guai. Inoltre gli scagnozzi del suo boss non si erano fatti vivi ma portarla in discoteca poteva esporla ad una certa visibilità restando il fatto che in quel business era abbastanza conosciuta ed i locali notturni erano di sicuro il primo posto dove l'avrebbero cercata.
Al di là di questa insignificante impasse, cenette e serate di cinema non ce li levava nessuno. Avevamo svaligiato la videoteca più grande di New York ed il cinese sotto casa mia, insieme ai vari fast food della zona, erano tornati ad essere i fornitori ufficiali delle mie cene, a parte le rare occasioni in cui Allison riusciva ad averla vinta e la lasciavo mettersi ai fornelli. Per quanto se la cavasse molto bene in cucina, non mi andava giù che si sentisse in obbligo di fare alcunché, come se mi dovesse qualcosa.
Tuttavia a mezzanotte, massimo l'una, mia madre aveva preteso che la riaccompagnassi a casa, come la più moderna delle Cenerentole e, quando questo non accadeva, il mio telefono si riempiva di chiamate a profusione. Credevo che si fidasse di me, lo aveva sempre fatto; incominciai ad avere il dubbio che non si fidasse di Allison: magari le avrebbe anche fatto piacere se tra noi ci fosse stato qualcosa, ma aveva il timore tutto materno che avremmo bruciato le tappe. In questo riconoscevo le sue ansie di quando io e Michael uscivamo per i primi appuntamenti con le ragazze, quando fu lei stessa a consegnarci un preservativo perché, a suo dire, non ci teneva a diventare nonna a 40 anni. Non si fidava perché lei stessa si era scottata e non avrebbe mai permesso che accadesse lo stesso ai suoi figli, naturali o d'adozione: perché era questo, in fondo, Allison.
In tutto questo il mio coinquilino, Aidan, se ne stava beatamente fuori dai coglioni.
Non mi fu possibile però, purtroppo, tenergli tappata la bocca troppo a lungo. A seguito dell'ennesima serata trascorsa insieme ad Allison, dopo che mia madre era venuta di persona a prenderla (la responsabilità che sentiva su di lei era a volte eccessiva), trovai Aidan sulla soglia di camera mia, braccia conserte, a scrutarmi con fare circospetto. Non osai nemmeno controllare, ma immaginavo che stesse anche battendo il piede a terra.
"Ora mi spieghi una volta per tutte che cazzo state combinando tu e Miss Femme Fatale ..." esordì.
Come antifona era certamente delle peggiori.
"Senti Aidan, non incominciare" feci per scansarlo, ma mi si piantò davanti, imperterrito, e, nonostante lo sovrastassi di 10 abbondanti centimetri, non riuscii a lasciarmelo alle spalle. "Eh no Tyler, se pensi di passarla liscia anche stavolta ti sbagli di grosso" minacciò, senza il tono scherzoso che lo contraddistingueva solitamente e che non avrebbe intimidito generalemente nemmeno un bambino. Ma possibile che nessuno sa farsi i cazzi suoi? Non dico sempre ... ma ogni tanto non guasterebbe.
"Va bene la privacy e tutto il resto" sospirò "mi interessa fino ad un certo punto con chi ti vedi e lo sai, ma ne converrai che con quella ragazza le cose sono un tantino diverse. E siccome ho imparato a voler bene a tutti e due, non voglio che finiate nella merda perché avete giocato troppo col fuoco"
Fu a quella parola ... giocare ... che non ci vidi più e scattai: "giocare...giocare...ma è possibile che non sappiate dire altro? Tu, mia madre, persino mia sorella di 10 anni! Siamo due persone adulte e vaccinate, Allison è molto più matura di molte persone di mezza età che conosco, e sappiamo quello che facciamo"
Lo portai nel salone e lo feci sedere sul divano per spiegargli come stavano le cose tralasciando però i detagli più personali che riguardavano la storia di Allison ... e in parte anche me.
Naturalmente, dopo un momento di serietà assoluta, non sarebbe stato Aidan se non avesse iniziato a sparare cazzate.
"Ma tu ..." insinuò "cioè voi..."
"Cosa?" domandai, pur sapendo a cosa alludesse. Iniziò uina serie di ceni del capo più o meno compensibili e assertori, che avrebbero avuto, secondo lui, lo scopo di farmi capire meglio a cosa si stesse riferendo. Non capivo, visto che eravamo soli e non in luogo pubblico, perché non si decidesse a fare nomi e cognomi, e a dire le cose come stavano. Continuai a fare l'indifferente, finché non sbottò ... lui: "Oooh, insomma, gliel'hai data una bottarella si o no?"
Mi chiesi se fosse consapevole della volgarità che emanava o fosse un difetto di fabbrica ormai irrecuperabile.
"Allora?" incalzò ... e lui era quello che non voleva sapere niente di me.... belle ultime parole famose....
Con lui non mi ero mai fatto scrupoli a parlare delle mie conquiste, tutte quelle che mi ero portato a letto finivano più o meno anche nel suo letto la notte dopo, ma da quando si trattava di Allison su moltissime cose avevo cambiato prospettiva. C'era soprattutto, costantemente, della ritrosia ed un certo pudore a parlarne. Era come se mi avesse restituito le mie priorità e la mia scala di valori e di moralità.
Tentennai per più di un po', finché il maschio di scimmia Bonobo che era in me non prese l'iniziativa senza conscultarmi e fece le scarpe al mio Homo Sapiens.
D'altro canto Aidan, che era un maestro in questo genere di conversazini diceva sempre che per l'uomo è naturale parlare della propra vita sessuale con gli altri amici, si tratta secondo lui, di un mero retaggio antropologico: UOMO=PISELLO=CHIODO FISSO PER IL SESSO.
"Due volte
per la verità, quando tu non c'eri" Alla fine confessai un po' turbato ma maggiormente divertito. "Vedo che non hai perso tempo ...bene bene! Separate o nella stessa sera? No perché amico, se è la stessa sera vale come una sola"
"E scusa chi l'ha detta questa cosa...due goal segnati nella stessa partita non fanno per uno..." lo corressi e mi stupii di me stesso per la grande genialata di risposta che avevo sfoderato.
"Ma due round fanno parte di uno stesso match bello mio ... è così che funziona. Ma in ogni caso sono contento per te"
commentò soddisfatto Aidan, dandomi una pacca sulla spalla "Vuol dire che tu funzioni e lei ha apprezzato"
"Altroché ..." commentai, senza neanche curarmi di abbassare il tono della voce "ehi! ma che cazzo mi fai dire, coglione?!" Aidan iniziò a ridere perché per quanto quelle cose che gli avevo confidato fossero vere, era riuscito a farmi entrare nella sua trappola ed ormai era troppo tardi.
"Dai dai...ora devi dirmi tutto! Ha lavorato in quel cazzo di posto ...come si chiamava ... il Don Hill....non può non essere una forza a letto. Dimmi, l'hai fatta lavorare un po'?"
"Che cosa stai dicendo?" chiesi, disgustato, da ciò che aveva appena detto. Meno male che aveva detto di volerle bene ...
"Lavoretto di mano?" "No!" "Di bocca?" "No!"
"Ci sono...le hai fatto TU un lavoretto di lingua.." affermò, come se avesse fatto la scoperta del secolo.
Cercai di mantenere la calma e un certo grado di ironia per quanto aveva detto, perché altrimenti gli avrei spaccato la faccia. Oltre che un minimo autorità, naturalmente.
"Siamo in piena recessione, la disoccupazione è alle stelle ... niente lavoretti!"
Girai i tacchi e me ne andrai a chiudermi nella mia camera. "Guarda che ti ho visto sai...ho visto che hai abbassato lo sguardo, quando ho detto la parola lingua ... lasciatelo dire, amico mio, sei un signore!"
E così dicendo si allontanò, continuando a blaterare per cazzi suoi che era quello il motivo del mio successo con le donne, che lui non ci sarebbe mai riuscito ed altre stronzate simili.
In ogni caso, aver troncato lì quella conversazione si era rivelato la classica vittoria di Pirro. Infatti, nonappena poteva cogliere l'occasione propizia, si rifaceva sotto con le sue domande inopportune e anche piuttosto sconce.
"Ascoltami bene Aidan" sbottai all'ennesimo attacco, la mattina della antivigilia di Natale "e ascoltami bene perché parlerò una volta sola: non tollererò più che ficchi il naso in faccende TANTO private. E pretendo rispetto per Allison ... ha molta più dignità di tutte quelle battone che frequentano l'università e che dopo un bicchiere offerto sono già in bagno a farsi scopare"
Ci misi davvero poco a pentirmi per essere stato tanto rude nei suoi confronti, quasi non provassi per lui un affetto molto vicino a quello che provavo per mio fratello. Ma Allie era al di sopra di tutti, anche al di sopra di Michael.
Ma lui, incredibilmente, sembrò non curarsi della mia sfuriata; al contrario, si dimostrò incuriosito dal mio atteggiamento severo ed il suo sguardo indagatore iniziò a farmi una bella radiografia come solo lui era in grado di fare, con quel sopracciglio destro alzato più dell'altro e gli occhi allucinati. In più, sotto quei baffetti appena accennati e il pizzetto a capretta che si ostinava a portare, non riusciva proprio a nascondere un ghigno furbo di chi la sa lunga.
"Ti saresti mica innamorato davvero Tyler?" chiese, incredulo delle sue stesse parole. Mi aveva sempre detto che ero uno dal cuore facile, che si faceva prendere subito dal batticuore e stronzate simili, ma il tono delle sua domanda era persino diverso stavolta: anche lui aveva capito che stavolta ero andato ben oltre le menate sentimental-adolescenziali in ero solito buttarmi. Tuttavia non sapevo come rispondere; temevo, infatti, l'arma a doppio taglio che avrei forgiato con le mie stesse mani, rispondendo. "Tyler" continuò "sai che di me puoi fidarti. Il gioco è bello quando dura poco ... io di solito lo faccio durare un po' di più, lo ammetto, ma ora sarò serio"
Potevo stare davvero al sicuro con lui? Sì, in più di un'occasione me ne aveva dato prova.
"Sì Aidan, la amo" confessai tutto d'un fiato "ma le cose sono complicate ..."
L'espressione che aveva assunto cambiò, specchio della mia, nonappena il mio tono di voce divenne più grave, serio ed impassibile. Non era più il tempo degli scherzi.
"Io credo in fondo che niente sia complicati. E' il genere femminile ad essere il vero problema" dichiarò, orgoglioso della sua rivelazione "mi rendo conto che Allison è un po' l'eccezione che conferma la regola, ma credimi ... nascoste da qualche parte ha un paio di ovaie pronte ad esplodere in ogni momento!"
E addio momento serio, ma come potevo sperare del resto che con Aidan sarebbe durato più di cinque minuti. Così, per riguadagnare la sua attenzione e un po' di concentrazione da parte mia, passai al vaglio, scandaglaindole con metodica precisione, le due settimane trascorse da quando io ed Allison ci eravamo conosciuti, per così dire, più intimamente; con l'aiuto di Aidan tirai fuori tutti i articolari, anche quelli che all'apparenza potevano sembrare insignificanti e che, a guardarli bene, diventavano dei grossi cartelloni pubblicitari con tanto di scritta luminosa. Passeggiate mano nella mano per Central Park, sigarette rubate direttamente dalla mia bocca, le mie spalle usate come cuscini mentre si guardava un film e, dulcis in fundo, le lunghe battaglie a colpi di solletico, perfette per far aderire i nostri corpi in maniera quasi scandalosa, soprattutto in virtù del fatto che la signorina mal sopportava i suoi vestiti e puntualmente finiva col rimanere in coulotte e maglietta.
"Senti ma ..." si insinuò Aidan nel bel mezzo del mio riepilogo " in queste due settimane non avete più ..."
Scossi ampiamente la testa.
"Niente di niente?" proseguì il suo interrogatorio "non dico un home run, ma almeno arrivare in 2°/3° base ...?"
"Quando dico niente è niente, Aidan, mettitelo bene in testa!"
"Va bene, va bene!" si arrese, sventolandomi davanti agli occhi un Cleenex bianco in segno di resa.
"Ma lei sa cosa provi?" soggiunse, facendosi pensieroso "Ti sei dichiarato insomma?"
"sì..." tentennai, ricordando non solo la mia dichiarazione, ma anche il bacio ed il morso che mi ero beccato in meno di un minuto, con la faccia gonfia ed insanguinata ed il freddo che spezzava le ossa che non erano state già fracassate dai gorilla di quella bettola.
"Ma?" proseguì lui, capendo subito che non c'era ancora un lieto fine in quella storia.
"Ma lei ha detto che non può darmi quello che voglio, perché non è quello che vuole lei" spiegai. "Però ha detto anche che se ci va di stare insieme ... in quel senso ... possiamo farlo e al mattino non ci sarebbe nessuna conseguenza"
"Cioè ..." intervenne Aidan, sconvolto " come si dice, chi ha il pane non ha i denti, bello mio. Hai la donna perfetta davanti a te, cazzo! Non vuole una relazione seria ma non ha problemi a venire a letto con te. Se solo tu ...."
"...se solo non fossei innamorato di lei, già"
"Veramente stavo per dire ... se solo tu non fossi così coglione. Cioè, veramente, come si fa a dire di no ad una proposta simile!!!"
Evidentemente abbiamo concetti diversi di moralità, caro Aidan. Non potrei concepire sesso senza amore e, per quanto quella notte fosse stata la migliore della mia vita, quanto sarebbe stata straordinaria se lei avesse provato per me quell'amore che io avevo per lei.
"E quindi cosa sei per lei!" mi domandò.
"Non me lo chiedere ..." risposi, onestamente impacciato e desolato. Pensai però che forse sarebbe stato meglio dimostrarsi forti; non tanto perché non avrebbe compreso il mio stato d'animo, cosa di cui peraltro ero convinto, o perché sarei stato compatito, cosa che detestavo; ma perché, in fin dei conti, masochisticamente stavo bene nella mia bolla personale, immerso nella beata illusione di un rapporto perfetto ma che a conti fatti non esisteva nemmeno nei miei sogni.
"Ma poi scusa ..." mi ripresi, con fare sostenuto "sappiamo benissimo come stanno le cose tra noi, siamo due persone mature ... ci dobbiamo per forza omologare? è roba da ragazzini del liceo ... cicci cicci, pucci pucci ... ma mi ci vedi così? No, decisamente non fanno per me!"
"Parli come un nerd che fa finta di essere disgustato dall'amore perché in realtà non se l'è mai filato nessuno"
"Ok" annui, sarcasticamente, come se con la sua accusa avesse colto nel segno, preparandomi invece a sferrare l'attacco che lo avrebbe ucciso moralmente "... innanzi tutto, l'ultima ragazza che ha accettato di stare insieme a te - e non parlo di sesso Aidan, fa attenzione - era Sarah Cohen, al terzo anno di liceo, ed è durata una settimana, ora più ora meno"
Vidi che tentava di rispondere ed obiettare, ma gli tappai la bocca, pronto per la stoccata finale "e tuo fratello Bill, l'unico esemplare maschio della tua numerosa famiglia in età da relazioni sentimentali è fidanzato con la stessa ragazza da quando .... tipo dal 2000?"
"1999" rispose, freddi ed impassibile, prendendo il sandwich che si stava preparando mentre parlavamo e sparendo dalla mia vista, sconsolato.
"Millenovecentonovantanove" ripetei, divertito e soddisfatto per la rivincita."Non prenderla come un'offesa" gli dissi, passando davanti al suo angolo-letto, dove fingeva di ascoltare musica da un iPod evidentemente spento "ma non puoi certo definirti un guru delle relazioni moderne"

"Tu glielo vuoi chiedere" mi disse Caroline, nel bel mezzo della conversazione che stavamo avendo, a proposito del progetto di portare Allison a visitare i musei di New York durante le vacanze di Natale.
"Veramente gliel'ho già chiesto, ha detto che viene" risposi, anche un po' seccato dal fatto che fossimo ancora a quel punto.
"Tyler!" mi richiamò lei, con insistenza. Ok, lo ammetto, effettivamente mi ero un po' distratto. Eravamo a cena da mia madre per la vigilia di Natale e la famiglia di Leslie si era unita a noi per i festeggiamenti. C'era persino la zia Sarah, che la mamma aveva appioppato a Les pur di togliersi di torno lei ed il suo profumo allo Cherry. Mancavano solo due persone all'appello: mio padre, che per queito vivere mia madre invitata e lui per altrettanto quieto vivere declinava ogni anno l'invito, ed Allison, che a quanto ne sapevo, si era barricata in camera sua dalle 5 e mezza di quel pomeriggio e alle 9 non si era ancora degnata di scendere. La mia mente vagava al pensiero di quanto bella sarebbe stata e valutava in una scala da 1 a 1 milione quanto sarebbe stata grave la mia sincope alla sua vista.
"Che c'è?" chiesi a mia sorella, riprendendo le redini della mia attenzione e alzandomi per trovare altro da fare oltre che pensare a lei. Tirai fuori il pacchetto che avevo nella mia giacca e, stringendolo forte, andai a metterlo insieme agli altri regali sotto l'albero. Lo aveva fatto lei quest'anno insieme a mia sorella, innescando una battaglia sulle decorazioni da usare che la videro uscire vincitrice dopo almeno 8 anni di supremazia da parte della piccola di casa.
"Abbiamo cambiato discorso almeno 5 minuti fa Tyler...stai dormendo in piedi per caso?"
No, sto pensando all'amica tua veramente, avrei tanto voluto rispondere. Ne convenni che non era il caso di aggiungere benzina al fuoco delle sue teorie su una mia relazione segreta con Allison di cui lei era una fervente sostenitrice.
"Stavamo parlando di Allison e del fatto che non mi dice mai niente su di te..."
"Ma cosa dovrebbe dirti di me? Sei mia sorella, dovresti conoscermi meglio di lei ..."
"Ma parlo di voi, stupido! A volte sei proprio ritardato ..." sospirò, come se con me avesse perso ogni speranza. Ho perso ogni speranza con me stesso da solo, cara sorella.
"Ma non c'è niente da dire su die noi, te l'ho già detto: è un'amica. Come mai Allison non ti ha ancora tirato una bella cuscinata? Scommetto che la esasperi continuamente..."
"Sì sì, come ti pare" commentò, sorvolando sull'accusa che le avevo rivolto "Ma lo vedo come la guardi e come lei guarda te, le facce sceme che fate quando te la nomino e quando ti nomino ... o come diventate rossi"
"Scusami" la interruppi " ma siamo sicuri che hai 10 anni?"
Lei sorrise divertita, ma io non ero ami stato così serio.
"Comunque, secondo me me tu glielo vuoi chiedere..." mi ripetè. Ma ancora non avevo capito. "Ma chiederle che cosa?" Non amavo nasconderle niente, ma non sapevo come avrebbe reagito Allison e così preferivo mantenere il gicoo, anche se iniziava a darmi noia.
"Di mettervi insieme, ovvio. Non credo che a lei dispiacerebbe, dovresti vedere com'è brava ad indagare sul tuo conto! Io e mamma  ci facciamo sempre un sacco di risate quando state al telefono ..."
"E quindi secondo te a lei piaccio?" le domandai a fatica, mordendomi la lingua per aver parlato più del dovuto, per aver fatto intendere che da parte mia c'era un certo interesse.
"Secondo me sì ... e non tu preoccupare" aggiunse strizzandomi l'occhio "con me sei in una botte di ferro!"
Mi chiesi se per caso non fosse in realtà sorella di Aidan e non mia, per via della lingua lunga; io la lingua pungente e la battuta pronta non sapevo nemmeno dove avessero casa, di solito.
Soprattutto non ero sicuro fi poterle affidare i miei segreti, ipotizzando che quelle rivelazioni venissero da Allison stessa, che si era magari confidata, fidandosi ciecamente di una bambina di 10 anni che sembrava un angelo ... ma non lo era per niente.
"Però io farei in fretta se fossi in te" proseguì la mia piccola saggia "non vorrei che troppo ad aspettare si stufi e finisca per scappare con il primo Damon Salvatore che incontra per la strada"
"Il primo chi? Chi è questo Damon?" domandai un attimo perso e anche leggermente nel panico.
"Un bonazzo qualsiasi" sbuffò, come se quel Damon fosse Gesù in persona ed io non avevo idea di chi fosse "uno con gli addominali scolpiti e la faccia da schiaffi"
Sorvolando sul linguaggio usato da Caroline, non c'erano dubbi su chi le avesse insegnato quel nuovo vocabolario, qualcosa mi fece capire che si trattava di qualche celebrità, qualche attoruncolo a cui bastava togliersi la camicia per alzare gli incidi d'ascolto. Qualcuno che, evidentemente, condivideva le attenzioni di mia sorella e di Allison.
"E questo Damon piace anche ad Allison?" mi accertai, preoccupato.
"Tyler, Damon Salvatore piace a tutte!"
Ero ufficialmente nel panico. In una scala da 1 a 10, 100 per mia sorella, che a 10 anni aveva il corpo di una bambina e le turbe ormonali di una 40enne. Avrei dovuto guardare più spesso la TV con lei...
e 1000 per Allison, che ancora una volta non avevo capito e a quanto pareva non stava aspettando altro che una mia mossa, lei che di sentimenti non ne sapeva niente. Era un'ovvietà che puntualmente avevo omesso. Datemi un muro per fracassarmi la testa, vi prego, almeno avrei una scusa per giustificare tutto il suo vuoto.
Mia madre venne a chiamare mia sorella. Les aveva esaurito tutti gli argomenti di conversazione con mia zia, e ora stava iniziando ad appiccicarsi a lei. "Caroline fai vedere alla zia i tuoi ultimi lavori, da brava, non lasciare che la mamma sia accusata di omicidio natalizio"
Ridemmo entrambi. "Vengo con te" la incoraggiai "avviandomi verso le scale "così vado a vedere se per caso Allison nonsia stata inghiottita dal gabinetto"
Ma non appena alzai lo sguardo, la vidi scendere le scale, bella come non l'avevo mai vista. Splendida e pura come le statuette di porcellana del '700, la pelle candida come il latte ed il calore che, leggero  e timido, si diffondeva sulle sue guance, aveva quasi paura di rovinare quel pallore delicato. Una principessa, una fata, una dea.
Eppure niente era di troppo, niente era pesante o fuori luogo. C'era rifore ed equilibrio nella scelta del suo vestiario, un semplice ed alegande abito a palloncino, la cui fantasia a scacchi mi diceva che c'era il tocco di mia madre in quella scelta, fissato con Burberry e le sue linee. Niente tacchi per lei quella sera: da quando aveva potuto smettere di indossare i trampoli del suo mestiere, ai piedi aveva solo ballerine o scapette da tennis, alla riconquista di una adolescenza che ancora faceva parte di lei, seppure in cassetti della memoria che faceva ancora fatica ad aprire.
"Sei bellissima" non potei far altro che constatare e lei arrossi a quel complimento. Certo si trattava di una bellezza mai convenzionale, talvolta anche aggressiva, ma non c'erano dubbi a riguardo.
"Ce ne hai messo di tempo ..." commentò Caroline, che saliva le scale tenendo per mao una già barcollante zia Sarah, che non si curò di Allison neanche per un attimo. Speravo ardentemente che facendole mangiare qualcosa, gli effetti dell'alcool su di lei si sarebbero attenuati prima di cena.
Allison si limitò ad annuire, un po' imbarazzata. 
"Ne è valsa la pena però ..." la incoraggiai e notai le sue guance imporporarsi di nuovo, oltre a quel sorriso accennato a testa bassa, che adoravo.
"Anche tu sei bellissimo stasera" disse, e la mia risposta si limitò ad un sorriso timido e ad una mano tra i capelli. Avrei potuto fare di meglio, ringraziarla, ma era il meglio che mi veniva con Allison davanti. Come hai fatto a farmi diventare così, piccola gattina impertinente? Quale maga hai corrotto per farmi una fattura così potente?
Che poi non capivo cosa potesse rendermi così bello come lei paventava: giacca e cravatta neri, camicia bianca ... niente di così straordinario."Comunque" mi ripresi e cambiai argomento "quella che ci ha sorpassati poco fa insieme a Caroline era zia Sarah, l'alcolista di famiglia"
"Non avete paura a lasciarla sola con Caroline?" domandò in apprensione.
"Nooo....al limite si può accasciare sul letto di Caroline priva di sensi, ma credimi non farebbe male ad una mosca":
Nonostante l'avessi rassicurata, mentre scendevamo le scale Allison continuò a voltarsi indietro per controllare che al piano di sopra fosse tutto tranquillo. Voleva bene a Caroline, almeno quanto gliene volevo io.
Le presentai il resto degli ospiti e nessuno obiettò o ebbe qualcosa da ridire su quella ragazza sconosciuta che viveva con Leslie e Diane. L'avevamo presentata come una mia amica proveniente dall'Indiana. Agli altri stava raggiungere le proprie conclusioni. Che avessero pensaro male o bene non mi importava, dal momento che non ci sarebbero state altre occasioni per incontrarsi.
Allison dal canto suo era nervosa, e muoversi in mezzo a degli sconosciuti, recitare la parte della ragazza educata e per bene che aveva dimenticato ad Indianapolis, la rendevano impacciata. Era una brava ragazza, ma nonostante fosse cambiata molto, aveva ancora poca dimestichezza con il bon ton, soprattutto quando alzava le sue difese in situazioni di impaccio.
Passata la cena indenne, con la zia che ogni tanto ne sparava una delle sue, ma ormai nessuno più si scandalizzava conoscendo il soggetto, tutti si spostarono in salotto per il dopo cena, a base di pettegolezzi o discussioni di politica ed economia che nella notte di Natale avrei evitato volentieri. Allison inoltre, pur non mostrandolo, aveva una voglia matta di allontanarsi da tutta quella gente.
"Vuoi andare sopra?" le sussurrai ad un orecchio, mentre l'aiutavo ad alzarsi da tavola. "Sì ti prego" rispose, quasi implorando. Era il momento giusto per restare da soli e parlare. Tuttavia, poiché avevo notato gli sguardi furtivi di mia madre durante tutta la serata, avevo bisogno di crearci un alibi. "Caroline!" la chiamai, sperando che ci avrebbe coperti a sufficienza "vuoi venire di sopra con noi, andiamo a vedere il DVD dello Schiaccianoci..."
Caroline corse immediatamente via dal salotto, correndo per le scale senza dire una parola e con un sorriso innocente che ne sapeva una più del diavolo. Mentre noi, calmi, avevamo appena messo piede sul corridoio del secondo piano, dove c'erano la sua stanza e quella di Allison, la vedemmo correre come un razzo fuori dalla stanza di Allison con quella che probabilmente era la custodia di un DVD e corse a chiudersi in camera, non prima di averci fatto l'occhiolino ed averci augurato la buonanotte. Che peste!
Entrammo allora in camera di Allison e io mi allungai sul letto a peso morto, distrutto dal tour de force culinario che avevamo portato a termine poco prima. Allison mise un po' di musica allo stereo e venne a stendersi accanto a me, poggiando la sua testa sul mio torace. Era il momento. Anche la canzone che c'era in sottofondo sembrava essere fatta apposta per l'occasione. Il mio cuore iniziò ad accelerare i suoi battiti e sentivo la gola riarsa di botto.
"Che c'è? Sei nervoso?" chiese Allison. Mi chiesi se per caso non avesse letto la mia mente, ma molto semplicemente accostandosi al mio torace aveva solo sentito il mio cuore battere forte. Presi un bel respiro e sputai il rospo: "Cosa stiamo facendo?" domandai. Lei, ovviamente non capì. "Cioè ... so che ne abbiamo già parlato ma ... vorrei capire ... cosa c'è tra noi due?"
"Non so, non ne ho idea" rispose lei senza riflettere neanche per un istante "ma che importanza ha?". Forse per lei non aveva importanza, ma per i miei nervi era un'informazione vitale. "Voglio dire" riprese"io sto bene con te, tu stai bene con me?"
"Sì" risposi, senza ombra di dubbio sì. E l'omino del mio cervello saltava di gioia all'idea che anche lei stesse bene con me.
"Perfetto" sentenziò lei, pensando di poter chiudere lì il discorso. E per un attimo lo pensai anch'io: le sue labbra aperte in un sorriso, i suoi occhi vivaci nello scrutarmi, le sue gambe che, per girarsi e rivolgersi a me, si erano intrecciate con le mie, e le mani che non la smettevano di giocare con le mie, erano per me la peggiore distrazione che potesse capitarmi.
Ma mi imposi - e lo imposi anche al mio fratellino con una certa fatica - di riprendere il controllo e un certo contegno così proseguii. Non avevo certo finito io.
"Non siamo obbligati a metterci un'eticherra. Lo capisco, lo accetto." Non lo capivo e non lo accettavo, ma se era il prezzo da pagare lo avrei fatto pur di averla per me. "ma ho bisogno di sapere che ... come posso essere sicuro che domani mattina non avrai cambiato idea..."
Vidi la sua espressione cambiare, man mano che scandivo con attenzione le mie parole. La vidi farsi seria, staccarsi da me, distogliere lo sguardo. La vidi tirarsi su e pensare ed io la seguii a ruota, mettendomi a sedere accanto a lei.
"Senti" iniziò "non posso darti ciò che vuoi ... perché non ho la minima idea di cosa sia." In tutti i suoi difetti, la sincerità era il migliore. Feriva, ma almeno apriva gli occhi. "Guardo le persone attorno a me e non ci capisco niente ...  cosa provano marito e moglie tra loro? E un fratello e una sorella? Due ragazzi che al parco si baciano su una panchina? Due amici? Quanti tipi di amore ci sono e come si distinguono ... io non ne ho la più pallida idea."
Mio Dio. Quella testolina era ancora tanto incasinata. Non dava a vederlo, ma c'era una bella confusione. E quanto ancora se lo sarebbe tenuto dentro se non le avessi parlato?!
"Quello che non posso dare a te, Tyler, non posso darlo né a me stessa né a nessun altro" mi disse. "Ma una promessa posso fartela" aggiunse "non ci sarà mai nessun altro a cui darò il permesso di amarmi"
Persi un paio di battiti, come minimo. Era come una confessione d'amore, forse anche meglio.
"Perché?" domandai, tentando di trattenere le lacrime.
"
Esiste davvero l'amore o è solo una montatura che facciamo finta ci vada bene per non rimanere soli? Non lo so, ma sento che quello che tu provi per me è sincero, onesto. Ho bisogno di un amore così"
Sai che ti amo, amore mio. L'hai capito e lo vuoi. Nel tuo cuore c'è confusione, ma se me lo permetterai ti aiuterò a capire meglio come va il mondo. Non c'è solo il marcio...
Presi la sua mano e la baciai, piano. Poi, con entrambe le mani, mi appropria del suo volto, baciandone ogni angolo, lasciando per ultime quelle labbra che sapevano dire le parole più più profonde, che avevano colpito diritte al mio cuore.
Mi presi tutto il tempo del mondo per venerare quella labbra, con una delicatezza che forse neanche un artista mette davanti alle sue opere. Ed il tempo sembrò regalarci se stesso, fermandosi, concedendoci la lentezza necessaria per approfondire e apprezzare ogni gesto, ogni tocco, ogni flebile carezza.
Mi alzai ed interruppi quei baci controvoglia. Dovevo chiudere la porta a chiave se non volevamo essere interrotti. Spensi anche la luce; neanche un passo al buio e mi ritrovai Allison addosso, che aveva arpionato le braccia al mio collo, e le sue mani scorrevano morbide tra i miei capelli. Sentivo le sue labbra sorridenti sulle mie e entrambi ci lasciammo andare a delle risatine, quasi sciocche, quando veramente a fatica ci lasciammo cadere per terra, perché era troppo buio per raggiungere il letto. Ma quando la vista sembrò abituarsi, ritrovai i suoi occhi e lei ritrovò i miei, entrambi luccicanti di emozione. Ci stavamo ritrovando ancora e forse nessuno dei due se lo aspettava.
Dal salone, sebbene in lontananza, si percepiva il tintinnare di cristalli ed un vociare festoso.
"Buon Natale" mi disse, regalandomi l'ennesimo bacio. Qualcosa mi diceva che quella notte non sarei tornato a casa a dormire. Qualcosa mi diceva che quella notte non avrei dormito. Punto.












NOTE FINALI
Chiedo venia per il mio immane ritardo. Ma come ho già spiegato sul gruppo di FB, il primo finale non mi piaceva per niente.
Spero che questo vada meglio. Qualcosa mi dice che è così.
Le cose sono un po' incasinata, ma Tyler ama troppo Allison per tenersi strette le sue ragioni e lascia vincere Allison pur di non perderla. Chissà dove li porterà tutto questo.
Per ora vi lascio questo capitolo e credo che prima di un mese non ci risentiremo. Spero inoltre di potervi portare la prossima volta anche una piccola sopresa... non vi dico nulla però

Fatevi sentire numerosi
à bientot


Federica

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Capitolo 18
*** Gift ***


When you crash in the clouds - capitolo 17















Capitolo 17
Gift



soundtrack


I am bleeding joy, still peaceful, 
I am waiting for patience 
I live something beautiful, just thinking not too fast



Riaprii gli occhi lentamente, protetto da una bolla di calore profumato che mi avvolgeva. Sapeva di latte di mandorle, sapeva di … Allison. Ci misi poco a ricollegare tutta la faccenda, dove mi trovassi, ma soprattutto con chi avevo passato la notte. Quando all’improvviso un leggero fruscio del lenzuolo mi annunciò che la ragazza che dormiva al mio fianco si stava probabilmente svegliando. Mi rigirai nel letto alla mia sinistra e fu solo allora che mi accorsi che era rimasta ancorata a me, le braccia come due arpioni ai miei fianchi ed il viso schiacciato contro la mia schiena. Non si era ancora svegliata, così mi mossi lentamente, per lasciarla sognare ancora un po’ e rimasi allungato prono, ricambiando il suo abbraccio. Avevo sperimentato che per fortuna non aveva un sonno leggero, al mattino era sempre un’impresa svegliarla, ma quando dormiva continuava ad essere bella come da sveglia, forse anche di più. I suoi tratti erano completamente rilassati, i capelli completamente sconvolti, ma ne guadagnava in dolcezza. Avrei volentieri preso quelle labbra per mangiarmele di baci …
Era così piccola sotto di me, che avevo la costante paura di farle male. Ma era stupefacente il modo in cui riuscivamo a trovarci, qualcosa che andava ben oltre il sesso, che pure era straordinario. Quello era amore, con la A maiuscola, in grassetto e sottolineata. Non c’era la corsa al piacere sfrenato, la volontà di appagare i propri bisogni meramente fisici aveva ceduto il passo ad un ringraziamento reciproco, per tutto quello che ci eravamo donati reciprocamente, l’aiuto, il sostegno, l’incoraggiamento, e tutto quello che ancora avevamo da offrirci e far diventare patrimonio comune. Niente di materiale, ma con molto più valore di ogni ricchezza.
Mentre restavo a bearmi di lei e del suo respiro profondo e placido, del suo profumo che a tratti sapeva anche di me, mentre godevo ancora di quei piccoli morsi di una mattina di Natale diversa dalle altre la sentii muoversi, spostandosi, ancora dormiente, sul mio torace, e stringermi ancora più forte. Venne ad accucciarsi al mio collo, come faceva ogni volta che voleva delle coccole da me. Eravamo ancora nudi, perché non c’era stata né la necessità, né francamente la voglia, di rivestirsi: sentivo così ogni centimetro della sua pelle muoversi lungo la mia, riuscivo a percepire ogni cambiamento di posizione. Non riuscivo però ancora a decifrare se stesse dormendo o se, fingendo ancora di dormire, volesse accaparrarsi qualche coccola extra ed essere contemporaneamente lasciata in pace ancora per un po’. Valla a capire la mia micia volubile e imprevedibile.
Mi sentivo in pace, pur non essendo quella una situazione tranquilla. Era come se il compromesso a cui mi ero dovuto piegare non fosse il peso che avevo temuto, ma piuttosto un sollievo per le mie paturnie e le mie inquietudini. Temevo che quel comportamento sarebbe potuto diventare un’abitudine, ma al contempo dentro di me lo speravo. Un conflitto di interessi e di sentimenti mi sbranava già da un po’, ma quella notte era stato l’ennesimo colpo di grazia per le mie speranze di poter far andare le cose tra noi in maniera adeguata. Aveva i suoi tempi lei, ma anche le sue necessità evidentemente, e al contempo non sapeva rinunciare a niente. Ed io … la verità è che io non sono mai stato in grado di dirle di no. Per la sua voce, che incanta, per i suoi occhi, che stregano, per il suo corpo, che ammalia.
Mi ricordai allora della mitologia greca, che Michael adorava e che, a forza di botte in testa con libri e tomi vari, aveva infilato anche nella mia zuccona vuota di tredicenne o giù di lì. Non c’era forse un nome preciso per quelle come Allison? Belle e terribili, capaci di uccidere senza pietà coloro che avevano attirato a sé. Le chiamavano sirene, voci di miele e serve di Thanatos.
Non era nella sua volontà farmi del male, questo non lo mettevo in dubbio, ma il suo comportamento e la sua indole, i suoi desideri e le sue indecisioni, non avevano propriamente quello che si definisce effetto placebo su me, ma anche neanche su di sé. Di questo passo saremmo finiti entrambi annegati nei nostri stessi dubbi ed esitazioni, con la convinzione che quelle onde ci stessero cullando invece di travolgerci. Non ero da solo a farmi male, anzi forse a me toccava proprio la parte minore del danno, perché in parte ne ero consapevole e me assumevo ogni responsabilità.
“Mmmmm!!!”
La sentii lamentarsi e capii che si era ormai risvegliata definitivamente. Strusciò il suo viso sulla mia spalla, quel tanto che bastava per mandarmi in overdose di dolcezza. Ma si può essere tanto checca? Dio mio, pensavo ci fosse un limite …
Ma lei sembrava proprio uno di quei cuccioli paffuti e arruffati che si sfregano le zampette al muso quando devono pulirsi.
Quando aprì finalmente gli occhi nella penombra della stanza, ancora chiusa con finestre e tapparelle abbassate, non riuscii a scorgere bene né i suoi adorati occhi verdi né i suoi lineamenti, che per primi di solito parlavano per lei. Non riuscivo a capire quali fossero i suoi pensieri e non c’era modo di indovinarli; tanto, anche se ci avessi provato, con lei niente era mai limpido.
L’ultima volta che eravamo stati assieme, la prima volta, l’avevo ritrovata serena e positiva al mattino. Il ricordo della colazione a base di pancakes e coccole mi fece ben sperare, ma con la regina dell’imprevedibile era d’obbligo non farsi mai trovare con le difese abbassate. A meno che non si volesse finire ridotti a brandelli.
“Oh cazzo!” disse, tirandosi su di scatto “cazzo cazzo cazzo!!!”
Non feci in tempo a domandarle cosa fosse successo che la vidi balzare fuori dal letto in pieno panico, scalzando via le coperte portando via con sé tutto il tepore che avevamo guadagnato nella notte. Tornai a coprirmi in tutta fretta con il piumone mentre la seguivo con lo sguardo, notando che, raccattando i suoi abiti da terra, si era messa già rimessa addosso gli slip e una vestaglia presa in bagno.
“Ma porca puttana!” imprecò per l’ennesima volta.
“Ma si può sapere che cavolo ti prende?” le chiesi, infine.
“Ti prego dimmi che non l’abbiamo fatto di nuovo …”
“Nooo” risposi sarcastico “abbiamo giocato a strip poker e ci hanno ripulito”
“Non è questo il momento di fare gli spiritosi, Tyler!” mi rimproverò. “Come cazzo ci è venuto in mente di fare una stronzata del genere!!! Siamo due irresponsabili
…”
Ma che cazzo le prendeva? Non era ubriaca la sera prima, di questo ne ero certo. Io, d’altro canto, non lo ero abbastanza da abusare di una ragazza e non ricordarlo. “Mi … mi era sembrato che ieri sera fossi di un altro avviso Allison ... e poi, com’è che avevi detto?” continuai, ricordandole parole uscite dalla sua stessa bocca “se ci va di stare insieme lo facciamo senza troppe conseguenze il giorno dopo giusto? Ora che sono tutte questi sensi di colpa?!”
“Come al solito non capisci un cazzo …” sbraitò, catapultandosi di nuovo nei panni e nei modi della ballerina di lap dance volgare ed insolente che avevo conosciuto una sera di tre mesi prima.
“Oh certo … come al solito sono io quello che non capisce un cazzo!” sbottai e fui costretto ad alzarmi anch’io dal letto e a rivestirmi, per raggiungerla.
Non riusciva a stare ferma nella stanza, si passava e ripassava in continuazione le mani tra i capelli per portarle poi davanti alla bocca, sconcertata.
“Mi vuoi spiegare dov’è il problema?” chiesi, perentorio.
“Abbiamo fatto una stronzata abominevole” sentenziò “ci siamo comportati peggio di due ragazzini, completamente irresponsabili”
Lei che faceva a me la morale? Bene, ero finito in un mondo parallelo in cui il mondo va decisamente al contrario.
“Ma di cosa hai paura? Guarda che non c’è pericolo, non ti ho mica messa incinta. Forse non te lo ricordi, ma il preservativo l’ho usato … cavoli non mi sembravi messa tanto male ieri sera”
Rise per un attimo, ma era più che altro guidata dal nervosismo più che da reale divertimento. Si vedeva che era tipica risata di chi ride per non piangere.
“Proprio non riesci a capire, eh? Dov’è che siamo … questa non è solo la tua vecchia camera. È anche casa di …” “Di mia madre” continuai la frase per lei.
Non c’era bisogno di aggiungere altro, il puzzle si era ricomposto ed io c’ero come al mio solito arrivato in ritardo.
“Lei ha così fiducia in me … ed io ho contraccambiato andando a letto con suo figlio. Come una puttanella qualunque. Bel modo di ripagarla di tutto quello che ha fatto per me … chissà ora cosa penserà”
La bloccai per le spalle e la costrinsi a voltarsi e guardarmi. Sorvolando sul fatto che indugiò sulla mia camicia bianca della sera precedente completamente sbottonata, cosa che in altre circostante mi avrebbe reso fiero di me stesso, la fissai, calmo ma deciso. Dovevo infonderle quella fiducia che forse non riponeva completamente in mia madre.
 “Io non credo che se la prenderà così tanto” la tranquillizzai “quando è venuta a prenderti casa mia quella mattina non avrà impiegato molto a fare due più due e credo che a quest’ora penserà che stiamo insieme e non glielo diciamo solo perché la situazione è un po’ delicata e tu sei ancora minorenne”
C’era anche quel piccolo particolare per cui, essendo lei minorenne ed io più grande di quattro anni, per la legge americana avrei potuto essere tacciato di pedofilia e sbattuto in galera. La nostra storia, o quel che cavolo era, stava diventando come un barbecue il 4 di luglio; pieno di carne pronta per finire sulla brace. E sinceramente non faceva parte dei miei progetti futuri finire incenerito, anche solo metaforicamente.
“Sei sicuro?” chiese lei, ancora titubante. “Ma certo!” risposi e man mano iniziavo a crederci anche io. Forse lei l’avrebbe risparmiata, ma io sarei finito castrato, ne ero ormai più che certo. Già me la vedevo, isterica e incazzata, urlarmi contro e minacciandomi per aver approfittato di Allison, la sua protetta. Peccato, ci tenevo a diventare padre, prima o poi … più poi che prima.
“E ora?” Quella era la domanda da un milione di dollari a cui non sapevo proprio dare risposta. Sbirciai verso l’orologio a muro e scoprii che erano solo le 9.45.
“Per ora ce ne torniamo a letto, nel frattempo ci inventeremo qualcosa …”
Prima di rientrare sotto le coperte alzai le serrande per lasciar entrare un po’ di luce naturale nella stanza. Corsi a letto di filato, lasciando di nuovo a terra pantaloni e camicia, raggelato dalla temperatura glaciale della stanza; ma ormai anche il calore del letto era andato perso, così approfittai della ritrovata serenità di Allison per avvicinarmi a lei e riscaldarci un po’ insieme.
“Dio che dormita però” commentò, con un sonoro sbadiglio e stiracchiandosi fino a travolgermi con le sue braccia. Mi guardò con gli occhi socchiusi – odiava quando le facevo luce di botto – e notai che, oltre ad essere ancora un po’ sconvolta, aveva tutta l’aria di chi aveva goduto del migliore dei riposi della sua esistenza. “Ma quanto ho dormito?” domandò “E che giorno è oggi?”
Sorrisi, perché davvero non credevo di aver approfittato di una giovane fanciulla brilla. Scusandomi sorridendo, le confessai l’atroce reato.
“Ma quale ubriaca!” si giustifico “è questo letto la mia rovina, è troppo comodo e dormo ogni notte come se non dormissi da dieci anni”
Il che, parzialmente, corrispondeva a realtà. Negli ultimi anni aveva vissuto principalmente di notte, riservando il riposo al mattino, ma il suo monolocale, lercio e scomodo, non era esattamente il posto adatto per recuperare le energie, specialmente quando convivi con il perpetuo terrore che qualcuno possa scovarti e portati via, guardie o ladri che fossero.

Buon Natale, comunque” le dissi, baciandole dolcemente una guancia, sorridendole “è la mattina del 25 dicembre”


I'm offering this simple phrase,
To kids from one to ninety-two,
Although it's been said
Many times, Many ways
Merry Christmas to you.


Per un attimo si tirò su e si mise a sedere, coprendosi accuratamente con il piumone rosso come se fosse un bozzolo. Faceva così freddo che, pur non avendo badato al tempo che c’era fuori dalla finestra, non mi sarei stupito di trovare accumulati almeno una 20 di centimetri di neve. Maledetta Allison…qua c’è qualcuno che ha freddo…la smetti di scoprirmi!!! Stavo quasi per iniziare una delle nostre schermaglie farlocche, una di quelle da concludere a cuscinate, ma notai che era tornata di nuovo impenetrabile, con quel broncio tutto suo che lasciava intendere un pensiero scrupoloso e rimase lì, silenziosa per qualche secondo ed io non potei fare altro che allungarmi di nuovo con le braccia dietro alla nuca, altrettanto impegnato ad osservarla e a ridere di quella comicità del tutto involontaria. Era comica, sì, nei suoi gesti, in quella saggezza grossolana, dettata più dall’esperienza che dalle conoscenze, quella voglia di tornare ad essere la signorina per bene ma senza dimenticare la ragazza un po’ rozza e sguaiata che calcava i cubi da lap dance anziché i palchi di danza classica.
“Che bello!” sentenziò, scattando e voltandosi verso di me fiera e soddisfatta. “Questo …” iniziò la frase, ma venne chiaramente colta da quel pudore che l’accompagnava puntuale quando si trattava della sua vita passata “… questo è il primo Natale vero che festeggio dall’incidente. Il mio ultimo Natale in casa con mia madre e la nostra famiglia, pochi mesi dopo la morte di Emily, non fu esattamente idilliaco”
“So che non posso ridarti niente di quello che avevi ad Indianapolis” aggiunsi, portandomi a sedere di fianco a lei e poggiando il mento sulla sua spalla, abbracciandola delicatamente da dietro “so non posso ridarti tua sorella. Ma permettimi almeno di alleviare questa malinconia. È il mio secondo Natale senza Michael, so come ci si sente”
Già, sapevamo entrambe com’era vivere con un pezzo mancante nel cuore.
Si girò verso di me e mi baciò sulle labbra. Non era un bacio passionale, preludio di una mattinata dai toni più roventi; aveva tutta l’aria di essere un bacio coccoloso, di quelli che generalmente si danno al mattino le coppie delle soap opera, quando la mattina di Natale fuori nevica e fa troppo freddo per alzarsi. Io non avevo idea nemmeno dei pensieri che la mia mente stesse partorendo in quel momento, sopraffatto da una scala di sensazioni tutte nuove ma potenti e docili allo stesso tempo. Era così che si comportava una coppia, o due amici di letto si comportano allo stesso modo? Ed era ancor più inutile provare a parlarne con lei, che aveva le idee ben più sconnesse delle mie. Dove saremmo finiti di questo passo?
Finimmo allungati e intrecciati, di nuovo, innocenti e pericolosi allo stesso tempo.
“Non voglio più uscire da qui”. Fu un soffio, sussurrato con il volto schiacciato completamente sul mio petto, al quale per devozione e tradizione ormai finiva sempre con l’ancorarsi, ma io non ebbi difficoltà a distinguerlo.
“Non dobbiamo per forza …” la rassicurai, ma sapevo che la verità era un'altra. Al piano di sotto ci stavano aspettando mia madre, suo marito e mia sorella, insieme ad una tonnellata di sensi di colpa e figure di merda serviti su un piatto d’argento. “Cosa diremo?” mi chiese. Sapevo che, dopo quanto ci eravamo detti la sera precedente, non mi avrebbe mai più fatto fare niente che non mi andava. Ma io stesso non l’avrei spinta in recite che le stavano strette e che non sarebbero state mai pienamente credibili.
“Ciò che vuoi” le risposi, accarezzandole i capelli con una mano e sfiorandole la pelle con il pollice dell’altra, impegnata a stringerla a me, nuovamente libera anche lei da ogni indumento, eccetto gli slip.
“Ma non ce l’hai una maglietta?” la rimproverai, pur non credendo neanche a io a quello che stavo dicendo, per il semplice gusto di vederle arricciare il naso. “Senti chi parla…” rispose e finimmo col ridacchiare come due scemi. Adoravo quei piccoli momenti di normalità che mi concedeva, pur essendo cosciente che per lei non significavano nulla. O magari mentiva, a me e a sé stessa, ma dal momento che le andava bene ed io sopportavo ancora bene le conseguenze del mio ben noto autolesionismo, andavamo avanti ancora per quella strada.
“A parte gli scherzi” tornai per un attimo ad essere serio “possiamo anche pronunciare un bel no comment e dirgli di non azzardarsi a tirare fuori l’argomento perché sono solo fatti nostri … il che mi sembra un’idea perfetta.”
“Forse” annuì, non ancora pienamente convinta “ma rimane il fatto che ho tradito la fiducia di tua madre”
Incredibile. Se di questa ragazza attenta e giudiziosa mi avessero raccontato la storia quella mattina di Natale, non c’avrei mai creduto. Ma io la conoscevo in modo che forse anche sua madre a Indianapolis si sognava … quindi non avrei dovuto stupirmi più di tanto.
“Ma non sei una suora di clausura, questo non è un monastero e mia madre non è il Padre Eterno. Può anche blaterare quanto le pare, ma non si deve nemmeno azzardare a giudicarti.”
Non parlò più ed il suo respiro sembro regolarizzarsi e diventare anche più lento, segno che forse si stava anche riaddormentando. Ma i pensieri nella mia mente non andarono certo diminuendo e aspettai che fosse nuovamente assopita per sgusciare via dal letto. Avevo bisogno di risistemare le idee, di parlare eventualmente con mia madre, chiarire e scusarmi anche. Tutto questo davanti a del caffè e una sigaretta.
Per fortuna Allison aveva voluto per sé alcuni miei vecchi abiti, con la scusa della comodità, così non dovetti presentarmi al piano di sotto con gli abiti della sera precedente. Non ricordavo che nessuno avesse anche solo provato a disturbarci, nessuno che fosse venuto a chiamarci o che avesse chiesto a Caroline cosa ci facevamo con la porta chiusa a chiave. Non che fossi attento a ciò che accadeva fuori, ma le voci bene o male si sentono anche distrattamente.
Così scesi le scale e mi ritrovai nella zona giorno calda e piena di differenti odori: eggnogg, prosciutto arrosto già in forno per il pranzo e caffè e mince pie. Caroline non credeva più a Babbo Natale da un pezzo, da quando mio padre almeno un paio di Natali prima durante una lite con mia madre le fece candidamente capire che eravamo noi a lasciarle i regali sotto l’albero; era una di quelle cose che mi ero segnato al dito, la dimostrazione che di noi non gli era mai fregato un cazzo, ciò che gli importava era solo il suo dannatissimo lavoro. Così da quel giorno mamma la cucinava comunque ed invece di lasciarla per Babbo Natale, la mangiamo tutti insieme a colazione.
Notai sul mobile d’ingresso un bigliettino con la grafia di mia madre, che avvisava me e Allison che erano andati tutti in chiesa. Sapevo che sarebbero andati tutti insieme in Chiesa nella notte, quindi doveva essere rimasto lì dalla sera precedente. Il mio rapporto con Dio era un po’ complicato e andare in Chiesa per le feste comandate mi sembrava un atto di profonda ipocrisia. Come potevo credere che colui che non aveva salvato mio fratello fosse davvero venuto a salvarci tutti? Per cui, dal momento che amavo profondamente la mia famiglia, mi godevo le feste come occasione per poter stare accanto a mia madre e mia sorella. Forse era un modo di pensare profondamente consumistico, ma da buon newyorkese non poteva essere diversamente.
Entrai in cucina, dove mia madre e Caroline erano di spalle, entrambe indaffarate, l’una ai fornelli, l’altra a spazzolare via una tazza di cioccolata calda e biscotti di Natale che, come voleva la nostra tradizione, andava sempre a rubare dall’albero. Les mi accolse con un colpo di tosse sospetto, eppure mi guardò sorridente e divertito, quasi complice.
Mia madre si voltò all’istante, così come anche Caroline, che corse ad abbracciarmi. “Buon Natale Tyleeeeer!!!”
“Buon Natale anche a te piccola!” ricambiai “hai trovato il regalo che il vecchio Santa ha portato da parte mia?”
“Lo sai che so la verità Tyler … comunque l’ho trovato. È bellissimo! Grazie!” era un libro su Modigliani, uno dei miei artisti italiani preferiti.
“Sai ... si dice che non riuscisse a dipingere gli occhi nei suoi quadri perché non riusciva a scorgere l’anima dei soggetti” le spiegai. Quella era la leggenda, eppure un suo quadro riesce ancora a parlare, ad oggi, più di quanto non riescano mille predicatori in un’intera vita. “Che peccato che  tu sia nata così tardi sorellina, avresti potuto insegnarli qualche trucco per la parte dell’anima!” continuai, strizzandole l’occhio. Bastava poco per farla sorridere e diventare rossa;; impazzivo a vederla tanto felice e spensierata, lei che a volte aveva la serietà e la tristezza che accomuna gli adulti.
“Ehm … Carol” ci interruppe nostra madre, con un tono di voce decisamente poco natalizio “perché non vai con Les in soggiorno e lo aiuti a montare il suo regalo”
“Ma maaaaaaa’….” “Niente ma’, vai!”
A malincuore fu costretta a lasciarmi andare e io dovetti fare altrettanto. Era un atteggiamento poco maturo il mio, ma averla al mio fianco mi avrebbe risparmiato ramanzine poco piacevoli.
“Dorme?” domandò ed io annuii silenzioso.
“Senti Tyler …” sospirò e non impiegai molto a figurarmi tutta la predica sul passato turbolento di Allison, sulla sua sofferenza ed i miei doveri di tenere le mani a posto e anche qualcos’altro nei pantaloni. Così mi armai di coraggio e la sfidai ancor prima che potesse formulare alcunché di accusatorio.
“Mamma” la interruppi, cogliendola anche piuttosto di sorpresa “so cosa stai pensando, ma non è come credi. Non sto giocando e non mi permetterei mai. Se ti ho messo in imbarazzo con gli ospiti ieri sera ti chiedo scusa, ma credimi non hai nulla di cui preoccuparti, non sto giocando con lei. Non lo farei mai”
“No, non è per quello” chiarì immediatamente per prendersi poi un attimo per pensare “E così … state insieme?” si limitò a chiedere. Non sembrava turbata, anzi pareva anche piuttosto sollevata sapendo che io avevo capito i suoi timori e li avevo dissipati quasi totalmente.
“Mi piacerebbe poterti dire che è così mamma, credimi, ma non posso. Come certamente saprai la vita di Allie è un casino. So che non è una giustificazione valida, che non è il genere di notizia che a una madre piace sentire, ma questo è ciò che possa darti, una verità nuda e cruda” sorridemmo sommessamente entrambi alla mia battuta infelice “non so come andrà a finire ma io ci metterò tutto l’impegno e l’amore che ho per farle andare bene. Questo te lo posso garantire”
“Amore?” si lasciò scappare, con un volto che minacciava lacrime. “Buon Natale mamma!” risposi, sorridendo, chiudendo così una conversazione spinosa e pericolosa. Mia madre seppe arrendersi e accetto di buon grado, dandomi un bacio e ricambiando i miei auguri. Mi raccomandai con lei affinché non le sfuggisse nulla con Allison a proposito della nostra conversazione e me ne tornai a casa a cambiarmi per il pranzo. Non c’era neve per le strade, il tempo però era freddo e nuvoloso. Una tipica mattina di Natale. La metrò era tranquilla e poco affollata e anche nella radio interna trasmettevano le tipiche canzoni di Natale. Al pensiero che avrei trascorso anche quel giorno con lei, anche quelle musiche, le luci ed i festoni, sembrarono riprendere i colori e i toni che negli anni avevo perso.


soundtrack2

Sulla via del ritorno verso casa mia madre, incrociando le vetrine chiuse ma comunque illuminate ed addobbate di una gioielleria, ricordai che non avevo ancora dato il mio regalo ad Allison. Non era niente di speciale, una scemenza davvero, ma era difficile poter trovare un modo per non sentirmi un idiota totale, senza sentire l’imbarazzante ingerenza di mia sorella e del nostro patrigno come degli avvoltoi che ti stanno lì con il fiato sul collo, senza occhi indiscreti pronti a ficcare il naso in faccende che non gli riguardavano, senza che si scatenasse il gossip del secolo.
Con questi pensieri mi ritrovai al numero 13 di Cranberry Street, Brooklyn senza neanche rendermene conto. Mia sorella aveva dato evidentemente il via alla maratona dei concerti di Natale sulle varie reti nazionali e Les si dava da fare a stare appresso a mia madre che il giorno di Natale ci si metteva proprio d’impegno a diventare più isterica del solito. Per fortuna eravamo solo noi a pranzo, il che avrebbe evitato a tutti di rimanere ingessati in formalismi e cerimonie inutili. Andai ad appendere il mio giubbotto nel ripostigli all’ingresso mentre tutti si limitarono a salutarmi con un cenno del capo, troppo indaffarati nelle loro faccende per darmi retta. Non mi accorsi, al buio di quel piccolo stanzino, che Allison s’era piazzata alle mie spalle, appoggiata alla porta dello sgabuzzino. Quasi mi venne un colpo quando, girandomi, me la ritrovai davanti.
“E così te ne sei andato?” disse, seria “senza neanche dire ciao”
“Ciao” risposi, imbarazzato. Cosa potevo dire a mia discolpa? Che volevo evitare il momento imbarazzante in cui lei sarebbe scesa per fare colazione e tutti gli sguardi si sarebbero posati ed intercambiati su di noi? Che preferivo far passare il malumore a mia madre prima di stare insieme alla sua presenza?
“Allora?” rincarò lei la dose. Ma si poteva sapere cosa voleva da me?
“Abbiamo già fatto questo discorso stamattina Allison, è Natale, non mi va di discutere”
Magnifico! Solo quello ci mancava: avere una Allison imbronciata durante il pranzo di Natale. Che poi non riuscivo a capire cosa ci fosse di sbagliato. Non era stata proprio lei a lanciare il manifesto dell’indipendenza tra di noi. Amici di letto, è questo ciò che eravamo; non poteva pretendere da me che le portassi la colazione a letto e le lasciassi un biglietto romantico sul cuscino assieme ad una rosa. L’avrei fatto, ma solo se avessi potuto considerarla la mia ragazza. E lei aveva messo in chiaro che quell’opzione non era contemplata. Inutile che ora teneva il broncio.
Se ne andò per fatti suoi verso la sala da pranzo, apparecchiata di tutto punto. Io, invece, me ne andai in salotto.
“Ciao scricciolo!” salutai mia sorella, imbambolata davanti versione del Canto di Natale di Dickens fatta dal Muppet Show. Vedere Caroline seduta davanti alla TV era un evento più unico che raro, anche se mi rinfrancava il fatto che, negli anni, mi aveva risparmiato lunghe e pallose visioni dei cartoni di Barbie Raperonzolo e compagne.
Prima che potesse distogliere lo sguardo dal programma, mi riappropriai del regalo di Allison, che la sera precedente avevo messo sotto l’albero e che per fortuna nessuno aveva toccato. Decisi di scartarlo e toglierlo dal pacchetto, ma qualche folletto impertinente aveva un udito troppo acuto per non accorgersi che stavo scartando un regalo.
“E quello che cos’è?” chiese mia sorella, curiosa.
“Di … nessuno” bravo Tyler, proprio una bella risposta …
Infatti la mia peste preferita si alzò da terra e lasciò perdere lo spettacolo … mannaggia a me mannaggia a me … per raggiungermi prima che potessi far sparire le prove della mia colpevolezza nella tasca dei miei pantaloni.
“Oh mio Dio Tyler ma quell..” feci in tempo a tapparle la bocca prima che fosse troppo tardi e le feci cenno di stare zitta. “È una sorpresa per Allison!” spiegai a bassa voce ma deciso, arrendendomi al fatto che non si poteva nasconderle nulla “ma ora fa la brava e torna al tuo film … lasciami fare …”
“Ricevuto!” mi sorrise e si mise sull’attenti come un piccolo Marines con tanto di saluto militare. “Brava!” le dissi e le scoccai un bacio in fronte.
Allison era in cucina, seduta ad uno degli sgabelli della grande penisola che riempiva l’intera stanza, impegnata a leggere un quotidiano; in casa non c’era campo libero, con il via vai di mia madre e Les tra cucina e sala da pranzo, così dovetti ingegnarmi diversamente. Le andai vicino e le sventolai davanti un pacchetto di bionde: l’avversione al fumo di mia madre si era ripercossa anche su di lei, forzandola ad astenersi dalla nicotina; immaginavo dunque che agognasse una sigaretta più di qualunque altra cosa, a giudicare da quanto era incostante e nervosa nelle ultime ore, oltre a quella gamba che non la smetteva di agitarsi sul piede della sedia.
“Vieni giù in lavanderia” le sussurrai vicino all’orecchio “e mettiti la giacca”
In meno di un minuto me ci ritrovammo nel posto convenuto, e potevo facilmente immaginare lo smarrimento che era dipinto sul suo viso, soprattutto perché l’avevo fatta imbacuccare per poi rimanere in uno stanzino temperato come il resto della casa.  
“Non credo che stare qui ci salverà … lo sai che tua madre ha installato il sistema antincendio per tutta casa, compresa la lavanderia. Una boccata di fumo e finiremo col farci una bella doccia!”
Così le sventolai davanti al naso una piccola chiave dorata, sorridendo sornione alla sua espressione ancora più incerta. Le feci segno di seguirmi per un piccolo corridoio buio e anche un po’ sporco che nessuno mai usava e che conduceva ad una porticina chiusa da secoli.
“Non può essere la chiave di ...” esclamò sorpresa Allison, puntandomi il dito contro sgomenta, mentre armeggiavo con quella vecchia serratura “mi ha detto Diane che la chiave ce l’ha solo lei ed è ben nascosta …”
“io non ci giurerei … nel comò tra le lenzuola non è certo il miglior nascondiglio” affermai fiero del mio ingegno da Arsenio Lupin, mentre aprivo finalmente la porta “è da quando Michael aveva 15 anni che questa chiave fa avanti e indietro da quel cassetto e nessuno se n’è mai accorto. Dopo di lei signora …”
Così ci ritrovammo nel piccolo androne sotto la scalinata d’ingresso dell’intera abitazione, deposito delle biciclette e dell’arredamento da giardino che mia madre toglieva dal giardino alla fine dell’estate. Mentre ci concedevamo una sigaretta ciascuno, raccontai ad Allison di come mio fratello si ingegnò per primo a trovare un posto clandestinamente e di come me ne rese partecipe e le spiegai il sistema per sbarazzarsi del mozzicone una volta terminato.
“Ecco vedi” le dissi, arrampicandomi sopra un cassone di legno “basta farle scivolare delicatamente sul marciapiede. Così chiunque penserà che qualche passante maleducato l’ha buttata via”
Rise e salì anche lei sulla cassa per fare altrettanto. Rimanemmo un po’ seduti lì ancora un po’ dopo la fine dei racconti, silenziosi; il vento soffiava abbastanza forte e non bastavano i cappucci dei nostri giubbotti e le sciarpe a ripararci. Allison mi sfilò il pacchetto di Camel e andò ad accucciarsi per terra, con la schiena alla parete, per stare più riparata, e se ne accese un’altra. Aspirò profondamente e poi lo buttò via godendosi appieno il momento, buttando la testa all’indietro. Non avrei pensato mai dirlo, ma la trovavo sexy anche con una sigaretta tra le labbra. Le andai accanto e mentre se ne stava ad occhi chiusi con il volto al cielo, quel piccolo squarciò di cielo grigio e nuvoloso che si scorgeva tra le case e i rami del viale alberato, le allacciai il suo regalo al collo. Si riscosse non appena sentì scivolare quella cosa fredda lungo il suo collo e quasi zompò in aria per lo spavento. Depositò la sua cicca tra le mie labbra e portò le sue mani al collo, prese tra le mani la collana e la osservò. Sembrò quasi nascerle un sorriso tra occhi e labbra, ma probabilmente si impose di rimanere seria; certamente, però, era sorpresa.
“Però … un lucchetto e una chiave … il massimo del romanticismo” commentò, con una vena acidula nella sua voce. Non ci badai quasi, sapevo che quella forma di difesa così cafona era solo un retaggio del suo vecchio lavoro e non riusciva a trattenersi.
“Ti sbagli” risposi, chiudendo nel mio palmo la sua mano e la collana “quando l’ho visto ho pensato a te, ma non è certo quello che pensi tu. Niente chiavi del cuore o boiate simili … il lucchetto è la tua vita e la chiave affianco significa che è solo tua, nessuno può disporne se non gliene dai tu il permesso”
Sapevo che era la cosa giusta per lei, sapevo che avrei colpito nel segno. Forse non mi avrebbe mai detto grazie a parole, forse non era tipo da abbracci in quelle circostanze, ma vedere gli occhi lucidi e anche solo una lacrima rigarle il viso mentre entrava in tutta fretta dentro casa prima che io potessi accorgermene, mi ripagò di tutto.


soundtrack

Non ero esattamente di buonissimo umore quando mia madre e Les ci lasciarono a casa davanti alla TV per andare a trovare degli amici, mentre Caroline disegnava in camera sua. Fuori era già buio e in quell’angolo di Brooklyn che si affaccia su Manhattan era un trionfo di luci e addobbi ad ogni numero civico.
“È da sfigati starsene a Natale dentro casa davanti alla TV se si ha di meglio da fare” commentò Allison ricominciando d’accapo con lo zapping per centesima volta “tu e Caroline dovreste uscire!”
“Non se ne parla!” chiusi perentorio l’argomento prima che ricominciassimo da dove avevamo interrotto durante il pranzo, quando Caroline, ferita da una mia parola indubbiamente di troppo, abbandonò la tavola imbronciata e offesa.
“Posso capire che tu non voglia parlargli ma è anche suo padre, ha il diritto di vederlo almeno a Natale” disse Allison, più matura di quanto io stesso non fossi. Ma non volevo averla vinta con un tizio come Charles Hawkins. Diventai immediatamente furioso quando mia madre mi comunico che io e Caroline saremmo dovuti andare da nostro padre, che alle 18.30 per lui andava bene e che mezz’ora prima sarebbe passato il suo autista a prenderci. Non ci vidi più quando mia madre mi disse che dovevo farlo perché ero suo figlio e dovevo portargli rispetto, almeno a Natale. Dovevo fare qualcosa che già di per sé non mi andava e dovevo anche farlo aspettando i suoi comodi.
Per me era decisamente troppo.
“Tu non puoi capire, Allie. Io non posso nemmeno guardarlo più negli occhi … non ce la faccio! Lui … lui ha ucciso mio fratello” dissi sostenuto sottovoce, ma il mio cuore urlava ancora per quel dolore che di tanto in tanto faceva ancora capolino e per una ferita che, in momenti come quello, si apriva di nuovo e tornava a sanguinare.
“Sì che posso capire. E lo sai. Non sei il solo ad avere una storia triste in questa stanza” e dopo avermi dato questa stoccata si alzò, andando verso la cucina. Rimasi raggelato dalla sua freddezza, dal suo distacco e dalla realtà che aveva messo in quelle poche parole. La vidi tornare con un paio di birre e me ne passo una. Heineken, la mia preferita.
Fece un lungo sorso, stette un po’ sulle sue mentre la televisione parlava per conto suo da un lato ed il caminetto scoppiettava dall’altro. Poi, d’un tratto, preso un lungo respiro, si lasciò andare: “Tu che ce l’hai un padre, tu che un rapporto con lui puoi ancora salvarlo, fallo per favore” mi pregò, guardandomi con degli occhi che sembravano non avere più lacrime per quell’argomento, ma che se avessero potuto si sarebbero lasciati andare volentieri al pianto. Se fosse stato solo per lei, quello sforzo l’avrei fatto, mi sarei anche umiliato. Ma non avrei mai potuto assistere allo spettacolo indecoroso e pietoso di un uomo che non aveva idea di cosa significasse fare il padre e due, tre volte l’anno ci provava con una bambina di 10 anni che lo adorava comunque. A dir poco imbarazzante.
“Vieni con me!” proposi, con un’enfasi forse eccessiva.
“Scusa?” chiese, incredula “cosa c’entro io?”
“Ti prego io stavolta … vieni con me. Mi devi aiutare a trattenere la calma … potrei anche spaccargli la faccia!”
“Non sono sicura che sia la cosa giusta da fare” ribadì “se ha davvero un brutto carattere come dici, non credo che la prenderà bene a vedere un’estranea entrare in casa sua senza preavviso, tanto più se questa estranea non ha alcun titolo per presentarsi con suo figlio”.
Non aveva tutti i torti ma io avevo bisogno di lei, non sarei andato da nessuna parte senza di lei e non avrei fatto muovere neanche Caroline, ero irremovibile.
“Voglio dire” tentò di spiegarsi quando ebbi finito con il mio monologo “torniamo allo stesso discorso Tyler, gli diciamo che sono una tua amica? E perché questa amica non è casa sua a passare il Natale con la sua famiglia? Inizierà a fare domande e lo sai quanto detesto che mi si faccia il terzo grado”
Lo sapevo e sapevo che con mio padre era possibile che la sua previsione si avverasse, ma non avrei permesso mai che lui la trattasse male.
In fondo mi stavo convincendo che era una cosa giusta fargli visita, per Caroline più che altro ed Allison e mia madre avevano ragione. In più non volevo fare brutta figura agli occhi di mia sorella, e già mi ero quasi giocato il suo affetto con la sfuriata del pranzo, non potevo rimetterci ulteriormente. Ma non vedevo alternative possibili: “O con te o nulla Allison” le dissi, sperando che potesse comprendere. Mimò un cenno arrendevole e affermativo con la testa, mentre mandava giù l’ultimo sorso di birra, e mi sentii l’uomo più fortunato del mondo ad averla accanto, in qualsiasi modo volesse o potesse.
“Sei sicuro che vado bene così?” domandò scrupolosa Allison per l’ennesima volta, aggiustandosi i vestiti e i capelli per l’ennesima volta nello specchio dell’ascensore mentre salivamo su per i 72 piani della Trump World Tower. Se avessi dovuto scegliere io un appartamento per lui, non avrebbe saputo fare di meglio; non c’era posto al mondo che rendesse al meglio le sue aspirazioni, le sue manie di grandezza, la sua smania di potere e la sua sete per il denaro e gli affari. Tutto richiamava lusso e potenza, dagli arredi extra lusso, alle finestre che dominano sull’East River e la Midtown Manhatta fino a quell’ingresso superbo e arrogante proprio di fronte al quartier generale delle Nazioni Unite; se c’era un modo per far sentire i propri ospiti delle cacchine insignificanti, quello era proprio il migliore.
“Non ti preoccupare, sei perfetta” la rincuorai “meglio non conformarsi ai suoi canoni estetici, potrebbe affezionarsi …”
Al di là del mio umorismo contestatore e di bassa lega, stava davvero bene Allison quel giorno: capelli sciolti e morbidi e un look da lei stessa definito rock chic – almeno secondo quanto le aveva detto la commessa del negozio – con jeans neri e tshirt grigia stampata e un blazer grigio leggermente asimmetrico. Per l’occasione sciolse il suo voto di astinenza dai tacchi e ai piedi aveva un paio di Louboutin grigie tacco 12. Questo, sempre secondo quanto detto da lei … io annuii colpito, ma per me rimaneva arabo.
Caroline invece sembrava più eccitata che preoccupata, con i suoi completi da bombola troppo cresciuta metteva tenerezza, ma era in quella classica fase in cui non si è ne bambine né ragazzine; stringeva tra le braccia il fodero in pelle con cui portava i suoi disegni, che era sempre orgogliosa di mostrare a nostro padre. Speravo solo che lui fosse interessato a vederli.
Mrs. Hill, la governante di mio padre venne ad accoglierci alla porta. Prese le nostre giacche e ci saluto molto calorosamente, augurando a tutti un buon Natale. “Oh Eve!” esclamai, riprendendole la mia giacca di mano e appendendola da solo “neanche a Natale ti lascia libera quell’orco!”
“Oh Tyler! Non devi parlare così di tuo padre! È un bravo datore di lavoro! ” mi riprese lei “E poi lo sai che non ho nessuno con cui passare il Natale da quando il mio povero marito non c’è più. Mia figlia si è sposata dall’altro lato degli Stati Uniti e mio figlio preferisce andare con gli amici in montagna. Non è proprio un problema per me stare qui …”
Era una santa quella donna, davvero. Convivere con mio padre praticamente 365 giorni all’anno … un’impresa. Era deliziosa signora sulla cinquantina, che aveva perso il marito a seguito dell’11/9 e si era dovuta rimboccare le maniche come poteva per crescere i figli e farli studiare. Mandare avanti una casa era l’unica cosa che sapeva fare e ne fece il suo lavoro. Era sempre stata gentile con noi, con un occhio di riguardo per la piccola Caroline e non sembrò turbata più di tanto quando le presentai Allison. “Oh benvenuta Allison!” la saluto, anche piuttosto entusiasmata da quella novità “non può immaginare da quanto aspettavo questo giorno”
Ovviamente era arrivata alla conclusione più ovvia, ma anche quella più sbagliata. Io ed Allison ci guardammo perplessi per un attimo e sorridemmo sconsolati.
“Ma prego” continuò “il signor Hawkins vi aspetta nel suo studiolo”.
Ci incamminammo per l’appartamento, troppo grande per essere quello di un divorziato che non trascorre mai del tempo con i figli, ma la megalomania di quell’uomo non conosceva confini. E nemmeno la liquidità delle sue carte di credito. Eppure, per quanti soldi potesse spendere per l’affitto mensile di quella piccola reggia arredata, era asettica e fredda quanto lui. Persino le decorazioni natalizie della casa sembravano prese da un catalogo e messe qui e là solo per dovere di cronaca. L’unica nota positiva era la vista mozzafiato su tutta New York di cui disponeva. Da rimanerci secchi. E neanche ad Allison sembrò passare inosservata.
Quando entrammo nello studio Charles Hawkins era in piedi di fronte al camino, nel suo abito italiano di pregiata sartoria da 5 mila dollari e un bicchiere di Whisky canadese invecchiato in mano. Quando ci video non fece nulla per dissimulare la sorpresa, e aggiungerei il dissenso, di una terza persona accanto a Caroline e me. Il gelo che si era creato era palese persino alla piccola Caroline, che si affrettò a correre da suo padre e distogliere l’attenzione da quell’ospite inattese e sgradita. Lui sembrò, per fortuna, interessato alle smancerie di sua figlia, che l’aiutarono a sciogliersi un po’ … rimanendo sempre nei suoi standard.
“Papà” mi sforzai di interpellarlo “lei è Allison, una mia amica”.
Gliela presentai nella maniera più calma e gentile che potessi, per lei … non certo per rispettare lui. Dovetti modulare il respiro e ripetermi come un mantra dentro la mia testa che lo stavo facendo per Caroline e non potevo scappare da lì, che con Allie al mio fianco sarebbe andato tutto bene.
“Buon Natale signor Hawkins, piacere di conoscerla!”
























NOTE FINALI


Innanzi tutto spero che vi abbia fatto piacere questo ritorno prima della scadenza del mese di attesa. Ma sono sicura che è così...
Poi volevo fare una precisazione per la colonna sonora. Ho cercato una canzone che esprimesse la confusione di Tyler ma anche quella di Allison. Quando si è confusi ma felici come loro è veramente facile commettere errori. E loro ne stanno facendo uno dopo l'altro. Per adesso sanno capirsi e perdonarsi ... ma per quanto ancora potranno andare avanti così?
Tyler Allison e Charles ... vedremo cosa accadrà tra loro. Tyler pensa di aver capito che tipo è suo padre, ma sarà davvero così?
Per le altre canzoni ho cercato di attenermi al tema natalizio cambiando il ritmo a seconda dell'esigenza del racconto. Ma nella track list sulla pagina di FB aggiungerò solo Gift


Merci pour tous e à bientot






Federica

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Capitolo 19
*** Long lost memory of mine ***


When you crash in the clouds - capitolo 18
When you crash in the clouds

Capitolo 18 

Long Lost Memory of Mine












soundtrack

“Buon Natale signor Hawkins, piacere di conoscerla!”
“Buon Natale a lei Allison” rispose educatamente mio padre.
Sapevo bene, tuttavia, quanto fosse irritato da quella visita. Non tanto per la conoscenza in sé, che poteva anche tollerare, quanto per non avere la situazione perfettamente sotto controllo. Non c’era cosa che lo mandasse più in bestia, del resto, dell’imprevedibilità, da pazzo maniaco del controllo qual era.
“La prego signor Hawkins” ribatté Allison, le cui guance si erano fatte tutte rosse, imbarazzata e con lo sguardo basso “mi dia del tu, non sono abituata a tutte queste formalità”.
“Molto bene Allison, come vuoi” le disse mio padre, che sembrava stranamente interessato a lei. “E così sei la ragazza di Tyler …” sentenziò, fintamente interessato e per nulla toccato.
“Ehm no … papà” mi affrettai a prendere posto di Allison nella conversazione, ben sapendo quanto la imbarazzasse rispondere a quel tipo di domande “Allison è solo un’amica.” Sapevo talmente bene quel copione ormai che se anche fosse stata una bugia completa, e non per metà, non avrei avuto difficoltà a reggere il gioco. “Al momento abita a casa di mamma” continuai “e così lei l’hai invitata a passare il Natale con noi.” Sembrava ad entrambi il modo migliore per aggirare l’argomento più ostico senza generare grande curiosità o domande inopportune. 
“E così abiti con la cara Diane, eh?” Allie annuì. “Ti trovi bene?” domandò mio padre, proseguendo il suo terzo grado.
“Sì molto bene signore, grazie” rispose lei, decisamente convinta; avrei sottoscritto anche io, se fosse stato necessario. Non c’era stata decisione migliore di quella, per l’umore ed il benessere generale di Allison. E anche del mio.
“Diane e Les sono due persone estremamente cordiali ed ospitali” aggiunse Allie “Les poi è simpaticissimo!”. Chiunque le avrebbe creduto, con quel sorriso che parlava da se. E chiunque conoscesse Les e mia madre avrebbe concordato. Chiunque tranne mio padre, ovviamente. Vidi Allison guardarmi e mordersi la lingua subito dopo quella sua ingenua confessione, ma con un cenno le feci intendere che non doveva assolutamente prendersi pena per ciò che aveva detto. Avrebbe dovuto essere contento mio padre, se era vero, come lui sosteneva, di essere ancora innamorato di nostra madre, di sapere che nostra madre aveva trovato un uomo per bene e di saperla finalmente felice. Peccato che Charles non sopportasse nemmeno che si nominasse Leslie davanti a lui; una volta lo sentii persino accusarlo di averlo fatto becco, mentre invece mia madre gli era rimasta fedele fino all’ultimo giorno. Non dava a vederlo Charles Padronanza-della-situazione Hawkins, ma covava ancora dentro la rabbia per non essere riuscito a tenersi stretto sua moglie.
“E come mai stai da lei?” proseguì l’interrogatorio, prima che il pensiero di Les e mia madre potesse infastidirlo più del dovuto; questa volta nella sua espressione era istillata una vena di sospetto, ed anche i suoi occhi sembrarono diventare più piccoli e scuri, dei piccoli radar fatti per scrutare ed indagare al meglio.
“Ho perso il lavoro e la casa” rispose lei, in fondo sincera e tranquilla “e così Diane si è gentilmente offerta di ospitarmi fin quando non troverò un lavoro che mi permetta di affittare un appartamento per conto mio. Nel frattempo l’aiuto in casa e mi sono anche rimessa a studiare per il diploma da privatista”
“Purtroppo questa crisi sta colpendo tutti” commentò lui, fingendo di sapere di cosa stesse parlando Allie. Il problema era il grande dislivello tra l’alta finanza dei ricchi sempre più ricchi, ed i pochi soldi che permettono a gente normale, come Allison, di sopravvivere. Non avrebbe mai potuto capire. “E quindi devi ancora diplomarti … ma sei giovanissima, non avrai più di 18 anni?”
“In effetti non li ho ancora compiuti … ne saranno 18 a gennaio.”
Mio padre rimase un attimo in silenzio, immerso nelle sue teorie e impegnato ad elaborare accuse che aveva da rivolgermi. Immaginavo che non si sarebbe bevuto la storia dell’amicizia, in fondo era un uomo anche lui, e forse nemmeno credeva che Allison abitasse veramente con mia madre.
Guardai Allison per un attimo, incrociando il suo sguardo. Era sicuramente nervosa, ma non mostrò un minimo di esitazione. Era bravissa in quel genere di cose, dissimulare le sue emozioni, incredibilmente padrona com’era della sua mimica facciale. 
“E come vi siete conosciuti tu e Tyler … raccontami un po’ …”
Non capivo tutto l’interesse di mio padre. Chissà, forse voleva andare a fondo e cercare il marcio che era sicuro di poter trovare. Se c’era una cosa che dovevo riconoscergli, infatti, era l’estrema capacità intuitiva insieme ad un’abilità incredibile nel servirsene, nella vita privata come nel lavoro; era un cane da caccia, pronto a fiutare e stanare ogni sua preda. Dote che, da pezzo di pane qual ero, evidentemente non avevo ereditato.
Allie non sembrava però impensierirsi, forse confidava ancora nella buona fede del suo interlocutore. “Oh beh, sa come succedono queste cose” disse lei, briosa “ci si incontra di sera per caso in un locale, si beve qualcosa e si finisce a letto insieme …”
Se mio padre era rimasto di sasso, io ero invece un involucro porpora al cui interno era rimasto solo un cuore in supersonica accelerata, tamburellante e rimbombante nel vuoto più assoluto.
“Stai scherzando, vero?” osò domandare mio padre, utilizzando la riserva d’aria che aveva inglobato poco prima, ai limiti dello shock. Io ero invece in preda ad un legittimo attacco di panico ed ero troppo impegnato a valutare tutte le uscite di sicurezza, pronto a fuggire in caso di furia cieca di mio padre, per occuparmi dell’omicidio di Allison. Se fossimo sopravvissuti a Charles Hawkins, avrei sicuramente avuto tutto il tempo del mondo per farle passare un brutto, bruttissimo, quarto d’ora. Dio, mi ha fatto perdere cent’anni di vita! Ma come poteva esserle venuto in mente di dire certe cose davanti ad un puritano come mio padre, un repubblicano metodista e fariseo come pochi?
Mentre ogni secondo nella mia mente sembrava durare dozzine di minuti, la risata canterina di Allison risuonò per l’intera stanza: “Ma naturalmente signore!!! … ci siamo conosciuti sì in un bar, ma l’unico interesse comune che abbiamo sono i libri, mi creda!” 
Vidi mio padre ridere assieme a lei, ma non ero sicuro che fosse una risata onesta, di spirito. Io ripresi a respirare, ed il mio pensiero corse immediatamente a Caroline, che era seduta alla scrivania di nostro padre, intenta a disegnare. Quanto aveva captato dell’exploit di Allie? Di solito tendeva ad estraniarsi mentre si dedicava al disegno, ma sapevo che quando si trattava di cose piccanti o pettegole, era sempre pronta con le antennine ritte e pronte all’ascolto. 10 anni e mezzo … ho detto tutto.
Andai verso di lei, mentre mio padre spiegava ad Allison che le sembrava un volto conosciuto.
“Ehi” sussurrai all’orecchio di mia sorella, piegandomi su di lei “cosa disegni di bello?”
Era ancora un primissimo scheletro, ma già si distinguevano Allison e mio padre al centro, in piedi di fronte al camino, che ridono e conversano amabilmente.
“E poi ci sarai tu” mi rivelò “all’angolo del camino, più indietro, con il tuo solito broncio e le mani nelle tasche dei pantaloni”
Ogni visita di Caroline a nostro padre terminava sempre così: con lui che la manda a disegnare, così da poter occuparsi di ciò che gli interessa davvero. Pensava così di assolvere al suo ruolo di padre, scaricarsi la coscienza dal peso di un assenteismo reiterato e intenzionale una volta ogni due settimane – nonostante il giudice avesse deliberato la custodia congiunta – e mandando l’autista sotto casa ogni mattina per portarla a scuola. Ma il risultato era solo una figlia sempre più distante e confusa, offesa nella sua grande intelligenza. “Mi creda signore” tornai di nuovo a focalizzare la mia attenzione su Allison “a meno che lei non sia un frequentatore di locali notturni, non credo che ci siamo mai incontrati prima. Oltretutto non sono qui da molto … in realtà sono di Indianapolis”
“Indianapolis?!” esclamò mio padre, stavolta davvero sorpreso, ma solo perché in qualche modo si toccavano i suoi interessi “c’è una filiale della nostra società. Lo sapevi?”
“Sì, signore, lo sapevo” disse, senza mostrare il briciolo di emozione per aver evocato, anche se per vie traverse, la figura di suo padre “Tyler deve avermelo accennato.” Straordinariamente politically correct, brava la mia Allison.
“Ma dove sono finite le mie buone maniere? Prego Allison, accomodati!” la invitò mio padre, indicandole il divano e una delle due poltrone in pelle marrone-rossiccio di fronte al camino. Mentre Allison si sedeva, mio padre mi lanciò un’occhiata intollerante, inquisitoria, che tutto pareva dire fuorché sono contento, figliolo, che tu abbia incontrato questa brava e simpatica ragazza,trattala bene.
Falsità, recite e menzogne: questa era la vita di Charles Hawkins e non riusciva mai a smentirsi. Prima che potessimo tornare alla conversazione, però, dei colpi alla porta della stanza annunciarono l’arrivo di Eve. Entrò nella stanza con un carrellino da servizio, pieno di leccornie per tutti i gusti, che sembrava essere uscito dal Regno dei Dolci. Cioccolata calda con cannella e panna, praline, bacchette di zucchero, la tipicissima Christmas cake, biscotti di pan di zenzero … c’era persino una casetta di pasta frolla tutta decorata, che sembrava uscita direttamente dalla fiaba di Hansel e Gretel: tutto quello che potevi desiderare era in quei vassoi e Caroline, per quanto matura, restava pur sempre una bambina nel giorno di Natale così, nonostante gli abbondanti pasti degli ultimi due giorni sembrò ritrovare il sorriso e finì col fiondarsi sul carrello e la povera Eve, che a stento riuscì a contenere la sua golosità.
“Vogliate scusarmi un attimo” si congedò mio padre, mentre la signora Hill era riuscita a catturare l’attenzione di Allison. Dovevo riconoscere che anche io non ero rimasto indifferente a tutto quel ben di Dio, e non seppi dire proprio di no ad uno di quei cupcakes con le divertenti decorazioni natalizie, dalle renne di marzapane ai pupazzi di neve di zucchero, disposti su un’alzatina a forma di albero di Natale. Chissà perché a Natale basta davvero poco per rallegrare l’aria e far tornare tutti bambini.
“Come va?” chiese premurosa Eve ad Allison.
“Bene, grazie” le sorrise, cordiale.
“Bene …” ironizzai “figuriamoci! Puoi dirla la verità … dille che ti sta spellando viva …”
“Ma perché dovrei mentire Ty?!” si oppose “sono solo una sconosciuta per lui, è normale che mi faccia un po’ di domande. È una persona un po’ formale, su questo siamo d’accordo, ma non per questo è sgarbato o altro”
“Se lo dici tu …” mi arresi; d’altronde lei non poteva conoscerne l’animo subdolo e manipolatore, non poteva apprezzare le sue doti di giudice implacabile e censore della moralità nazionale. Lo conosceva del resto solo da cinque minuti, quel tanto che basta ad ammaliare con classe e charme dal tocco europeo. È a lungo andare che i difetti verrebbero a galla.
D’altro canto però dovevo dargli atto che non si era lasciato distrarre dal suo lavoro o non si era immerso in un elogio auto celebrativo dei suoi, del tipo: io ho fatto, io ho detto.
“Oh Tyler” mi rimproverò la signora Hill “Allison ha perfettamente ragione … se solo non ti ostinassi a vedere in tuo padre il marcio che non c’è …”
Il marcio che non c’era? Come lo chiamavano loro uno che impone ai proprio figli una vita che non vogliono, anche a costo di sacrificarli pur di averla vita, nel rispetto del buon nome della famiglia e non della loro felicità e autorealizzazione. Poteva anche essersi redento agli occhi degli altri, ma per me rimaneva solo uno sporco dittatore egoista.
Non feci in tempo ad oppormi che  Charles rientrò nella stanza. Senza dire una parola d’affetto o anche solo d’augurio, consegnò a me e Caroline due grossi pacchi regalo, mentre ad Allie ne diede uno più piccolo.
“Se Tyler mi avesse avvisato per tempo che saresti venuto anche tu avrei provveduto diversamente” le disse, mettendomi come sempre in mezzo e come sempre in cattiva luce.
“Oh signor Hawkins!” lo bloccò Allie “non ce n’è bisogno davvero! Non posso accettare!” 
“Ah!” la riprese lui, sorridendole “non accetto che mi si dica di no!” Mi vantavo di sapere distinguere alla perfezione gli atteggiamenti di mio padre, le sue recita, ma questa volta era davvero difficile, il limite tra realtà e finzione era particolarmente labile.
Rimasi a guardare Allison che, ancora meravigliata, apriva il piccolo cadeau. All’interno c’era un fermaglio impreziosito da cristalli a forma di fiocco di neve e mi scappò da ridere a pensare che, per un attimo, quasi avevo creduto alla buona disposizione di mio padre nei suoi confronti. Quel fermacapelli era la versione femminile del regalo aziendale che mio padre ogni anno distribuiva ai dipendenti. Per anni, infatti, mia madre aveva scelto personalmente il modello della spilla, o del ciondolo o del fermaglio di turno. Riconoscevo ora la carta regalo ed il logo della bigiotteria di lusso che li forniva. Nemmeno il fiocco del pacchetto era cambiato negli anni. E conoscevo anche bene l’abitudine di mio padre di riportarsene sempre un paio a casa, nel caso fosse capitato un regalo dell’ultimo minuto.
Allison ne era entusiasta e lui era riuscito nel suo intento e me ne aveva messa un’altra contro, sul fronte della nostra guerra privata. Il suo sorriso soddisfatto e compiaciuto ne era una prova lampante.
Caroline invece era rimasta senza fiato davanti al piccolo carosello meccanico, evidentemente di altissima fattura artigianale, che aveva ricevuto in dono. Era un pezzo di grandissimo valore, che si andava ad aggiungere alla sua già grande collezione di giostrine simile che aveva iniziato da piccolina e che ora era diventata una vera e propria città dei balocchi. Caroline partire la carica e la musica del carillon interno era sognante, incantevole. Sembrava d’immergersi in un sogno d’altri tempi.
“E tu Tyler?” mi chiamò mio padre “tu non apri il tuo regalo?”
Ero indeciso se accettarlo o meno, ma pensai che se lo avessi restituito avrei fatto ancor di più il suo gioco, specialmente con Allison presente. Avevo in mente un altro genere di smacco per lui.
Aprii la shopping bag, che portava la firma del più grande store di abbigliamento vintage di New York, e quello che vi trovai andava ben oltre ogni aspettativa, oltre ogni peggiore previsione. Fu un colpo terribile.
“So che ami il vintage” disse mio padre “mi hanno detto che questo è un pezzo incredibilmente raro”
Era una giacca originale di Bob Dylan, un mito per Michael. Stava per ore ad ascoltarlo e per lui quella giacca era come l’Eldorado, una miniera d’oro e di fortuna. Durante i suoi anni di college abbiamo girato mezz’America ogni estate per trovarla, visitato ogni negozio possibile, ma nessuna replica che fosse come quella. E ora davanti a me, tra le mie mani, avevo l’originale.
E mio fratello gliel’aveva persino chiesta per i suoi diciotto anni, l’unica preghiera della sua vita a nostro padre … ma lui preferì regalargli l’orologio del nonno. Banale e insensibile; ma lui aveva detto che non voleva vedere suo figlio come uno di quei pezzenti che stanno alla YMCA.
“Eve” mi rivolsi alla governante, sperando che recepisse il messaggio dal mio sguardo eloquente e corrucciato “perché non porti Caroline con te?” Mio padre rimase sconcertato, lo vedevo dai suoi occhi come il sangue gli s’era raggelato nelle vene. Ed anche Allison sembrò essere colpita dalla stessa preoccupazione, lo percepivo dalla sensazione sgradevole di avere i suoi occhi puntati addosso. Rimasi tuttavia con lo sguardo fisso su mio padre, con aria di sfida, ma con la cosa dell’occhio mantenni la situazione sotto controllo; vidi Allison spostarsi verso Caroline ed andarle vicino, aiutandola a raccogliere i fogli ed il materiale da disegno. Mia sorella dal canto suo non batté ciglio; sapeva che tra me e mostro padre finiva sempre a quel modo e non ne faceva più un dramma, era moralmente preparata a sostenere l’urto.
“Vengo con te Caroline” le disse Allie, dolce e attenta nei suoi confronti.
“Non c’è niente che io abbia da dire che tu non possa sentire Allison” la fermai, anche un po’ bruscamente e vagamente autoritario, sperando che decidesse di rimanere al mio fianco. Ne avevo bisogno come l’aria i polmoni, come spiraglio d’aria fresca in una camera piena di gas.
“Sono affari di famiglia Tyler, non mi sembra il caso” sentii la sua voce tenace e ferma, che suonava alle mie orecchie come un rimprovero per aver rovinato tutto-
“Eh no Allison” la corresse mio padre, tagliente “a quanto pare  fai parte della famiglia molto più di quanto tu stessa voglia ammettere. Perciò rimani”. Quelle ultime due parole suonarono come un obbligo per Allison, che non poté fare altrimenti.
Eccolo lì il vero Charles, quello che tutti tranne me facevano finta di non vedere, quello cinico, autoritario, prevaricatore.
La sua voce tuonava imperiosa,offensiva,denigratrice; ma non era più capace di ferirmi. Ne avevo prese talmente tante, che ormai ero in grado di farmi scudo e proteggermi da qualsiasi angolazione e con qualsiasi arma colpisse. Solo tre miei punti deboli: la famiglia, quella vera, la memoria di Michael ed Allison. Ma non gli conveniva colpire lì: se solo ci avesse provato, sarebbe finito in cenere. “qual è il tuo problema Tyler?” chiese, non appena Eve e Caroline ebbero chiuso la porta alle loro spalle.
“Bob Dylan era il cantante preferito di Michael … quella giacca doveva essere il suo regalo perfetto, non il mio” lo accusai, arrancando con la voce man mano che i ricordi tornavano a galla prepotenti e dolorosi “non fingere con me di essere il padre generoso e attento che non sei mi stato … che mai potrai essere”
Anni di frustrazioni, di bocconi amari inghiottiti per forza, lacrime trattenute per dimostrare di essere il più forte, schiaffi morali e rifiuti subiti stavano consumando la loro vendetta in quel momento; eppure non aveva il sapore dolce che si dice l’accompagni. E non era fredda. Aveva il sapore acre del sangue e bruciava dentro come il fuoco, senza vederne l’estinzione. Lui sembrava persin più forte di me, non curandosi delle mie accuse,, arroccato nella sua torre di pietra, alta ed ermetica al punto da non sentire né vedere più nessuno eccetto sé stesso.
“Lo farai credere a Caroline” proseguii “ma a me non lo nascondi che ogni anno è Janine ad occuparsi dei regali di Natale”
Ricordo ancora quando Michael ed io scoprimmo nostra madre al telefono con la segretaria di nostro padre, per accordare i regali di Natale, lo sdegno da parte mia, allora solo uno studentello di liceo, nel sapere che neanche durante la festa più importante dell’anno quell’uomo era capace di dedicare cinque minuti ai suoi figli.
“Ma tu che ne vuoi sapere di come funziona la mia vita … il mio lavoro … che ne puoi sapere di quello che faccio io per farvi fare la vita che fate?” mi rimproverò. Ma erano parole al vento, gridate all’aria e volate via, di cui rimaneva solo un’eco destinato evitabilmente a svanire. Io non ricevevo più un dollaro da lui da una vita, non mangiavo alla sua tavola da almeno un anno ed i suoi regali li ripagavo ogni volta fino all’ultimo centesimo. Non mi poteva comprare così.
Del suo lavoro sapevo d’altronde che non l’avrei mai fatto: una vita di lusso ed esclusività a discapito dei rapporti interpersonali? No, grazie. Povero in canna ma felice con amici e famiglia suona decisamente meglio. Morto Michael mi ero riproposto di continuare per lui, ma dall’incontro con Allison molte cose erano cambiate, io stesso mi sentivo profondamente diverso, finalmente vivo dopo mesi e mesi di torpore. C’era in me una nuova consapevolezza di me stesso, pronta a rivendicare i propri diritti, pur nella memoria di mio fratello. Ma c’è Tyler sulla Terra, sembrava ripetermi ogni giorno la coscienza.
“Tu l’unica responsabilità che hai è quella di cambiarti le mutande al mattino … cosa ne puoi sapere di aziende come la mia? Sei solo un ragazzino …” insinuò “che si diverte tra alcool e puttanelle. Come la paghi lei … a ricariche telefoniche?”
Vidi Allison crollare di getto in ginocchi sopra il tappeto di fronte alla finestrone in fondo alla stanza, che dominava l’intera New York notturna, totalmente illuminata a festa. Le andai vicino e la trovai pallida e muta, senza lacrime o parole per potersi indignare e difendersi dal fango uscito dalla bocca di quello che, solo sulla carta, rimaneva mio padre.
“Ma che cazzo dici!!!” scattai, rivolgendomi a quella figura di bronzo che stava davanti a me, immobile ed saldo, come se nulla di ciò che dicesse o facesse lo toccasse minimamente “come cazzo ti permetti???”
Mi alzai repentinamente e gli andai incontro con veemenza, vedendo tutto nero attorno a me. Questa volta aveva superato ogni limite di decenza, rispetto, educazione. Il primo peccatore del mondo che scagliava pietra su pietra contro una vittima della fame de della violenza. Senza provare nemmeno per un attimo a capirla, ad immedesimarsi. Solo per sentito dire, solo per il suo giudizio dall’alto di un piedistallo.
Lo spinsi contro una parete, prendendolo per il bavero della camicia. Nella mia vita avevo fatto tante cazzate, tanti errori di cui poi mi ero puntualmente pentito,ma quella non era certo nell’elenco: per la prima volta , forse, usare la violenza mi era sembrata la cosa più giusta da fare, forse addirittura l’unica.
“Credi … credi” tentò Charles di parlare, annaspando nella morsa delle mie mani. Non volevo fargli male davvero, solo fargli capire che il suo era solo un delirio di Onnipotenza che anni di adulazione da parte dei suoi dipendenti lecchini e paraculi avevano contribuito a consolidare Doveva darsi una svegliata e quale miglior strategia se non quella di fargli sentire la terra mancargli sotto i piedi, fargli capire che è un signor nessuno.. Doveva scendere dal trono, prima che potesse trasformarsi in un patibolo e ritorcersi contro di lui. Non volevo ferirlo, solo istillare in lui un sano terrore della fine, la sua fine. Placai la stretta e lo lasciai parlare: “Credi che io non sappia niente … di te, di Caroline … ma io so tutto di voi. So quando starnutisci … figurati se non so dove l’hai raccattata quella lì”
“Noto con piacere che non hai perso il vizio di farci controllare a vista come se fossimo dei ricercati …” lo lasciai andare e mi tirai indietro, ridendo sardonico mentre lui divorava letteralmente l’aria e respirava voracemente. Non potevo credere che l’incubo di Michael stesse prendendo vita con noi di nuovo e lui stesse ripetendo di nuovo lo stesso errore con me e Caroline, sorvegliati speciali da un pull di agenti segreti e guardie del corpo come quando Michael cominciò a lavorare per lui e la sera andava a suonare comunque di nascosto. Non gli era servita ancora di lezione la perdita del suo figlio preferito? Mi lavai le mani di lui e le scossi, platealmente, per ripulirmi dallo schifo di aver anche solo tocaato i suoi abiti, sporchi del sangue del suo primo figlio e di quello che avremmo versato io e mia sorella quando sarebbe giunto il nostro turno. Ma volevo salvarci entrambi da lui prima che fosse troppo tardi. Fosse stata l’ultima cosa che avrei fatto in vita mia.
Allison in tutto questo se n’era rimasta accasciata al suolo, sconvolta ancor più dalla mia frenesia che dall’onta ricevuta. Avevo sentito infatti i suoi continui richiami ed i suoi inutili sforzi a calmarmi, nonostante i riguardi poco cavallereschi che Charles aveva avuto nei suoi confronti; ma tutto era arrivato alle mie orecchie ovattato, come se l’adrenalina che circolava nel mio organismo avesse fatto di me un sordo, almeno temporaneamente.
Corsi di nuovo da lei che mi guardò severa, arrabbiata quasi. “Sai che te ne pentirai” mi sussurrò. “Sai che non accadrà mai” le risposi, serio ma risollevato.
L’aiutai a rialzarsi e guardai mio padre, con il fuoco che ancora divampava dentro di me. Solo avere Allison vicina mi ritraeva dalla voglia di strappargli i coglioni, perché uno che parla e si comporta così … che uomo è?”
“Forse non ti conosco bene come dovrei … ma so bene che non sei il gentiluomo che fingi di essere … e so che tra noi non sono io a dover dispensare regali per farmi amare da chi mi circonda. Andiamo via Allison” la trascinai per un braccio di peso “lo sapevo che non dovevamo venire qui oggi …”
L’accompagnai fuori dallo studiolo e andai a chiamare Caroline, che era in cucina con la signora Hill ed il signor Smith, l’autista, a finire la sua cioccolata.
“Non si preoccupi Smith” tranquillizzai l’autista che si stava affrettando a risistemarsi la divisa “non c’è bisogno che ci accompagni. La metro andrà benissimo”
“Ma signor Hawkins” replicò lui – dello staff di mio padre, infatti, solo Janine e la signora Hill che ci conoscevano da una vita erano abituate a trattarci con confidenza, per gli altri eravamo solo i figli del capo “fa freddo fuori e la stazione più vicina è lontana. In più avete i pacchi regalo con voi, quello della signorina Caroline è fragile, non vorrei si rompesse …”
“Allora accompagnerà solo Caroline ed Allison.” Mi sembrava la cosa più giusta da fare. “E non prenda il mio regalo” aggiunsi “quello rimane qui.” Se non lo volevo prima, Charles Hawkins mi aveva dato un ulteriore buon motivo per lasciarlo dov’era.
Andai insieme a Caroline all’ingresso, dove Allison si era già rivestita. Aiutai mia sorella con il cappottino e mi chinai a darle un bacio in fronte prima di abbassarle bene il cappellino sulle orecchie; mi rialzai e sistemai bene anche la sciarpa di Allison. L’abbracciai ai fianchi e la attirai a me in modo da averla più vicina che potevo e far sì che mi guardasse bene negli occhi. “Passerà anche questa” le dissi, massaggiandole energicamente le braccia. “È già passata” rispose e sorrise, seppur sommessamente. Se la sua era la verità ne ero contento; era tanto forte la mia Allie, una guerriera. Speravo ardentemente che non lo dicesse per farmi stare tranquillo.
“Voi andate … io ho ancora qualcosa in sospeso” dissi loro, guardando verso lo studio, dove le luci s’erano spente e da cui provenivano solo i bagliori del focolare e delle sue fiamme.
“Tyler, non fare niente di cui potrai pentirti” si raccomandò Allison, puntando lo sguardo verso Caroline. Capivo a cosa si riferisse: non era solo mio padre e Caroline nel bene e nel male gli voleva bene, e lo ammirava molto.
“Tranquilla …” la rassicurai e sembrò fidarsi di me. Avrei lottato contro me stesso per ripagarla del suo sostegno e della fiducia a volte cieca che mi accordava; non potevo prometterle che non l’avrei più rivisto dopo quella sera, ma non avrei permesso che il nostro astio rovinasse il suo rapporto con Caroline e nemmeno che lui trovasse un pretesto per parlarle male di me. “Non so se tornerò da mamma stasera. Al limite ti chiamo” le feci l’occhiolino e mi rispose con un sorriso timido dei suoi. Ed io mi sentii riscaldato e avvolto da un’aura protettrice e corroborante.
Alle persone basta davvero poco per stare bene insieme, anche nei momenti meno facili e felici. Se solo mio padre fosse stato in grado di capirlo, forse tante cose sarebbero andate in maniera diversa.
Tornai dove lo avevo lasciato e lo trovai seduto alla scrivania, riverso totalmente su qualche documento o qualcosa di simile. Mi avvicinai a lui ma non se ne accorse, i passi attutiti dai tappeti che ricoprivano l’intero parquet.
Quello che stava studiando era il regalo di Caroline, un ritratto ad acquerelli di nostro padre a Martha’s Vineyard, alla casa al mare dei nonni, preso da una foto di qualche anno fa, quando lei, forse, non era nemmeno nata.
Forse era il suo modo per dirgli che avrebbe desiderato vederlo in quel modo, sereno e rilassato, senza quei gessati super costosi e fuori dai grattacieli claustrofobici e vertiginosi  fuori da un mondo che per lei era il mostro che le rapisce il padre per intere settimane.
“Lo vedi che hai sbagliato tutto?!”
Alzò lo sguardo alla mia voce e non appena si accorse che ero lì, si affrettò a ricomporsi e a ridarsi il suo solito aplomb. Tuttavia per un istante colsi nei suoi occhi non solo sorpresa, nel vedermi ancora lì, ma anche e soprattutto quella che avrei detto essere disperazione. Ma fu un nanosecondo, prima che potesse calarsi nuovamente nei panni dell’orco.
“Quando Janine mi ha fatto vedere quella giacca l’ho riconosciuta subito” confessò “ho pensato che potesse farti piacere avere qualcosa che sarebbe piaciuto a Michael … non dimentico quanto gli fossi legato”
L’avevo quasi preso a botte e lui parlava della giacca, ancora. Guai a non conservare le apparenze in casa Hawkins, che squallore! Ma non mi intontiva con le sue chiacchiere, così decisi di riprendere l’argomento che mi stava più a cuore. “Spero proprio che tu capisca che dopo quanto è accaduto io e te abbiamo chiuso. Non è mettendoci appresso dei segugi che ti dimostri attento. Spero che questo consiglio possa aiutarti con Caroline … lo vedi” dissi, prendendo in mano il lavoro che gli aveva dedicato “per lei conti moltissimo!”
Mi scrutò con attenzione e incrociammo i nostri sguardi; non più da padre a figlio ma da uomo ad uomo, da perfetti pari. Non avevo paura a reggere il suo sguardo, non c’era più nessuna reverenza filiale che potesse frenarmi: era diventato un estraneo, in tutto e per tutto. “Forse ti starai divertendo a fare l’eroe ora” dichiarò, senza perdere la sua natura sfrontata e sprezzante “ma prima o poi ti stancherai.” Era chiaro come il sole che stava parlando di Allison. “Ma chiudila qui questa pagliacciata, Tyler. Prima che sia io a decidere che può bastare. Sei un Hawkins, da te ci si aspetta un certo comportamento. E quella sgualdrina deve uscire dalla tua vita e da quella di Caroline. Subito. Te lo dico con le buone anche per il bene di tua madre. Non mi costringere a passare alle cattive ... non vuoi che si ritrovi la polizia in casa, vero? Non ci vuole niente a far scoppiare uno scandalo, Tyler”
Per quanto quelle minacce suonassero terribile non mi facevano minimamente paura. Sapevo che non ci sarebbe mai riuscito. Era talmente interessato a mantenere la facciata immacolata, che scatenare uno scandalo che lo avrebbe risucchiato inevitabilmente era l’ultima delle sue aspirazioni. E poi, se era vero che ancora provava qualcosa per mia madre, non l’avrebbe mai esposta a tal punto o messa nei guai.
“Io non sono uno dei direttori dei tuoi giornali, a cui fai cambiare colore politico per conservare il posto di lavoro. Non sono nemmeno Michael, che hai omologato ai tuoi canoni di perfezione. Non mi piego, io.” Purtroppo questa era la verità. Mio fratello non era stato abbastanza forte da resistergli. Bisognava essere altrettanto forti per tenergli forza e forse era questo, purtroppo, il punto. Talmente uguali da respingerci, io e mio padre eravamo della stessa pasta.
“E mi aspetto” continuai “che nei prossimi giorni arrivi a casa di mamma una lettera di scuse formali alla signorina Allison Eugenia Riley.” Doveva capirlo che in vita mia non ero mai stato tanto serio.
“Avrà anche fatto la spogliarellista per sopravvivere” era inutile mentire, dal momento che probabilmente ne sapeva anche più di me sul suo conto “ma è soprattutto una povera ragazza sfortunata, a cui la vita ha riservato prove persino più dure delle nostre. Suo padre era oltretutto un tuo dipendente ad Indianapolis, se ti può interessare. Viene da una buona famiglia … è solo una vittima delle tante cattiverie di questo mondo di merda”
Detto questo gli voltai le spalle, prima che potesse prendersi la briga di rispondermi. Svuotai il mio portafoglio – più o meno 300 dollari tra i regali in denaro che avevo ricevuto negli ultimi giorni – sulla giacca di pelle che doveva essere il mio regalo, abbandonata sul divano dello studiolo e me ne andai, senza salutare, senza nemmeno la minima tentazione di voltarmi indietro.











NOTE FINALI

Non ho molto da dire per congedarmi da questo capitolo. Forse nessuna di voi (e nemmeno io) si aspettava un Tyler così.
Ma è stato colpito laddove fa più male, nei suoi affetti più cari e nella memoria di suo fratello.
è pero questo il capitolo dove ci accorgiamo che Tyler è cambiato molto dall'inizio della storia. ma la vita è così, ci modella a partire dalle nostre esperienze.
Mi preme come al solito ricordarvi di fare attenzione al testo della canzone che ci accompagna. Mai scelta a caso...e in questo capitolo di più delle altre volte.
Dove ci porterà tutto questo? Non credo per ora di poter aggiungere altro se non...dateci dentro con le recensioni =)))

Grazie mille per la vostra gentilezza ed il favore che sempre mi accordate

à bientot

Federica

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Capitolo 20
*** Good life (hopelessly) ***


When you crash in the clouds - capitolo 20


















Capitolo 20
Good life (hopelessly)














soundtrack





“Tyler?! Tyler mi ascolti?”
“Eh?! Sì, che c’è?”
“È da un paio di giorni che sei strano … si può sapere che hai?”
E come te lo faccio a spiegare amore mio? Come te lo dico, anche se probabilmente sei abbastanza intelligente da averlo già capito, che dietro alla mia distrazione c’è quello stramaledetto pomeriggio nell’ufficio di mio padre?! Il tuo di padre, invece, mia amata Allie, il grande uomo che amavi e ami ancora così tanto, in una maniera che io non oso nemmeno sperare, è vivo e ti sta cercando.
E so che sono un mostro, ma sai che c’è? Che non oso dirtelo, perché temo, anzi sono sicuro, che firmerei la mia condanna e sarei costretto a lasciarti andare. E non sono disposto a farlo, non ora che ti sento tanto vicina.
“Mi ricordi per piacere il motivo per cui siamo qui?” risposi con un’altra domanda, inventando la prima cosa che mi passava per la mente, buttandola sul ridere, dispersi nel reparto maschile di un non meglio per me identificato negozio di intimo all’interno del Manhattan Mall, in cui lei mi aveva trascinato a forza un’oretta prima.
“Perché non posso tollerare che stasera non indosserai niente di rosso” rispose calma e seria. “E dal momento che non vuoi mettere il maglione che ti ha regalato tua zia, un paio di boxer non dovrebbero costarti tanta fatica”
“Ascolta bene” rimbeccai “il Natale è passato ormai e non ho intenzione di travestirmi da Babbo Natale con il maglione di mia zia …” la vidi ridere di gusto e dimenticai tutti i crucci che mi affollavano la mente, ogni nuvola che mi annebbiava il cervello e mi impediva di godermi appieno il presente, anziché calcolare e pianificare il futuro maniacalmente. Evidentemente anche lei concordava con me che quella maglia era un orrore, mancavano i folletti e il Grinch e avremmo avuto un film di Natale perfetto su un maglione di lana: orribile, nemmeno le associazioni caritatevoli lo avrebbero voluto!
“E comunque” proseguii “non comprerò un paio di boxer che so già indosserò solo per un paio di ore, dal momento che c’è un’alta percentuale di possibilità che tu me li strapperai di dosso”
Non so se a provocare la sua reazione stizzita furono le mie parole, oppure il mio ammiccare volutamente accentuato e squallido. Ma adoravo persino vederla andare in bestia, perché era allora che diventava adorabile: possedeva una carica energica invidiabile, ed era uno spettacolo vederla scatenarsi.
“Pensi che non sappia resisterti?” domandò, cercando invano di non scomporsi troppo. I luoghi pubblici erano la cosa migliore che potesse capitarci in molto circostanze: in molti casi erano la sola ragione per cui avevamo evitato di essere arrestati per atti osceni in luogo pubblico, contenendoci in nome della pubblica decenza.
“No” l’affrontai, arrogante e pungente “penso che io non saprò resisterti … specialmente se hai intenzione di indossare quel completino sexy che ho sbirciato in camera tua”
Come risposta mi arrivò un bel ceffone in piena guancia: beh, quello un po’ me lo meritavo.
“Quanto sei stronzo!” fece l’offesa, ma era evidente che non riusciva a trattenere le risate “ti hanno mai detto di non ficcare il naso negli affari e nei guardaroba delle signore?”
“Seeee … ha parlato Jacqueline Kennedy …”
Quella era la cosa più bella e straordinaria tra noi, che con fatica e un bel po’ di musi lunghi, stavamo conquistando e gustando sempre di più: potevamo permetterci anche il lusso di sfotterci e prenderci a parolacce, sicuri di ridere anziché sentirsi offesi alla fine del gioco.
Si poteva anche parlare di sesso pur non stando insieme. Avrei certo preferito qualcosa di più, ma ero un uomo e non una stupida liceale. Anche se molto lentamente, iniziavo a non farne più un dramma: me la godevo finché potevo così com’era, soprattutto dal momento che probabilmente molto presto avrei dovuto salutarla
In fondo, a ben vedere, ci mancava solo l’etichetta, e a me nemmeno serviva: eravamo a tutti gli effetti una coppia, migliore anche di quelle vanno in giro a sbandierare il loro amore ai quattro venti e poi alla prima difficoltà gettano la spugna invece che sedersi a tavolino e discutere, cosa che invece noi facevamo praticamente tutti i giorni.
Eravamo una coppia … ma chi prendevo in giro, non c’era mai stato un noi … e per quanto ne sapevo non c’era alcuna speranza che ci sarebbe mai stato; perché lei sarebbe tornata ad Indianapolis ed anche a voler fare i romantici: quanto sarebbe potuta durare una storia, un’amicizia, a miglia e miglia di distanza? La risposta: neanche il tempo di dirsi ciao.
“Comunque” riprese lei, dondolando un paio di boxer rossi sotto il mio naso “prova questi. Non c’è nessuna scritta stupida e dovrebbero essere della tua taglia, corri a provarli che voglio uscire da qui!”
Quando le feci notare che non era colpa mia, che io nemmeno ci volevo entrare in quel centro commerciale, mi ritrovai sotto il fuoco incrociato di maledizioni, occhiatacce e percosse con borsa che mi ricordarono la prima regola per la sopravvivenza da shopping: annuire sempre e comunque, anche se la ragione era dalla nostra. Quanto era vero che le donne cadevano in trance durante la caccia al saldo, come fossero davvero felini in cerca della preda migliore. Ed Allison non era da meno, pur dando il suo tocco un po’ rock e maschiaccio all’intera faccenda.
Riuscii a trascinarla fuori da lì solo dopo aver sventolato bandiera bianca ed aver accettato la resa. Sembrava una bambina di cinque anni davanti al suo dolce preferito quando le dissi che potevamo prendere quei boxer, per quanto inutili continuassero a sembrarmi. In realtà, tutto quel tira e molla aveva avuto anche dei benefici, al meno a giudicare dai miei ormoni, ormai da un mesetto con residenza ufficiale su Venere: dal camerino, e sbirciandola dalle tendine notai che si era buttata a capofitto su una cesta di felpe maschili scontatissime, ma che probabilmente o erano Made in China o erano di 20 anni fa e nessuno le voleva più. Ma a lei facevano impazzire, le avrebbe messe anche per uscire, e più erano vecchie e malandate e più le piacevano, soprattutto se avevano le maniche lunghissime  da poter tirare e nasconderci dentro le mani. Un segno ulteriore di quella sua sensualità un po’ naif e un po’ inconsapevole che adoravo. Da quando poi era fuori dal giro di malaffare in cui l’avevo scoperta, infatti, molto del suo savoir faire era andato perso, a favore però di quella dolcezza e quel romanticismo che non speravo quasi più di trovare in lei.
Era una ragazzina maleducata e mascolina che giocava a fare la femmina, quando l’avevo conosciuta, sboccata e goffa; smuoveva l’ormone, certo, ma non era Miss Eleganza. Sembrava un’altra persona, quella che avevo ora davanti a me; mi sembrava impossibile, e non mi sembrava quasi vero che potevo attribuirmene il merito, ma l’esserci incontrati ci aveva cambiati, tanto: lei era sempre più donna, ancora ragazza, ma sicuramente conscia di sé molto più di prima, non solo dei suoi doveri, ma anche e soprattutto dei suoi diritti, come essere pensate e con un cuore pieno di emozioni.
Era una sorpresa continua quel volto mutevole e capriccioso, con una scala di espressioni diverse che si alternavano ad ogni nuovo stimolo; e a me piaceva stare lì a fissarla, senza dire una parola, magari di nascosto, guardala passare dal pensieroso al felice, per una pagina bella di qualche libro, dal serio al triste, per qualche notizia del telegiornale, dall’eccitato al completamente rapito, quando eravamo solo io e lei, e ad entrambi sembrava di toccare il cielo con un dito. Era in quei momenti che riuscivo a convincermi che anche lei mi amava ed era solo questione di tempo. Ma poi, al mattino, ecco la sveglia e la doccia fredda.
“Ti ha chiamato Caroline?” le chiesi, fermi ad un chioschetto di hot dog sulla 35sima West di Manhattan; ormai era lei a tenersi in contatto con la mia famiglia, abitando con loro e occupandosi della casa. Mia sorella, mia madre e Les erano partiti da un paio di giorni e, per niente dispiaciuto di passare per un cafone, non mi mancavano. Non mi ero trasferito da Allison solo perché sapevo che l’avrei messa a disagio e mi bastava andarmene via tardi, o riaccompagnarla a casa dopo essere stati fuori tutta la sera. Portarla da me, non era il caso, Aidan era l’altra ragione per cui non potevo permettermi di dormire fuori casa: con il capodanno già nelle vene, ossia con una dose massiccia di alcool in corpo, mi avrebbe ridotto casa in un cumulo di immondizia, merda e vomito senza rendersene conto: aveva bisogno di una balia e di un’infermiera. Lui c’era stato per me ed io dovevo estinguere il mio debito nei suoi confronti.
“Sì, stamattina” rispose lei “era contenta perché c’era una bufera di neve e non se ne vedeva via d’uscita. Il che significava che non avrebbe messo piede fuori dall’albergo per un bel po’ ”
Non c’era nulla da dire, io e mia sorella eravamo fatti della stessa pasta su quel fronte: dateci una poltrona e saremmo campioni mondiali di stampa del sedere sul cuscino, ma farci praticare alcuno sport è pari ad una condanna capitale.
“Quanto è stupida!” commentò Allison “Diane le aveva proposto di andare a pattinare nella pista privata del Resort e ha detto di no! Se ci fossi stata io non le avrei nemmeno fatto finire la frase che ero già a bordo pista”
“Davvero?” domandai, mentre sentivo già l’omino del cervello accendere l’interruttore e la lampadina accendersi in ogni singolo neurone.
“Mm mm” annuì. La presi per mano ed iniziai a correre. La sua presa era salda, fiduciosa, seppure le sue parole inducessero a pensare al contrario: “Si può sapere dove andiamo? Tyler vuoi rispondermi?!!!”
Correvo a perdifiato e mi al contempo cercai di godermi ogni secondo che, senza malizia, quelle dita erano intrecciate alle mie.
Scendemmo nella stazione della metro ad Herald Square e ci infilammo in uno dei vagoni della linea B colma di gente come solo durante le feste può esserlo: turisti, lavoratori in ferie, ragazzini in vacanza dalla scuola. Trovare un posto era impossibile, così mi curai almeno che Allie fosse al sicuro da mani leste o morte, non avevamo tempo per la comodità. Le feci scudo tra le mie braccia e lei sembrò apprezzare, anche se era ancora un po’ interdetta per questo cambio repentino di programma, per lei oltretutto ancora sconosciuto … il che, sono sicuro, la rendeva ancora più nervoso e scostante. Mi piaceva prenderla alla sprovvista, dal momento che generalmente non era mai contenta se non metteva bocca in tutto e ci mettesse la firma, dando l’ultima parola. Era bello chiuderle quel becco ogni tanto, per adorabile che fosse.
La vidi drizzare le orecchie e farsi più attenta quando le dissi che Rockefeller Plaza sarebbe stata la nostra fermata e dovemmo scendere.
La folla per strada era immensa e quasi le correnti di aria gelida avevano difficoltà a diffondersi con tutte quelle persone che pullulavano per la via: i giornali e in tv non si sentiva altro che parlare di crisi, di crescita zero, di mancanza di soldi per le famiglie, eppure attorno a me vedevo solo una marea di gente con buste e pacchi straripanti. Ed i negozi sono tutti pieni, dalle 9 alle 20, orario continuato.
Valli a capire gli Americani…
Finalmente vidi aprirsi davanti a noi un varco tra la folla e la grande statua dorata di Prometeo del Rockefeller Center si presentò di fronte a noi in tutto il suo splendore, troneggiando e risplendendo al contrasto con il bianco della pista di pattinaggio.
“Oh My Gosh!” urlò Allison in un esplosione di gioia che non le avevo mai visto prima. Era estasiata, non c’erano parole per descrivere il suo stato d’animo. Un bambino all’ingresso di Disney World ad Orlando si sarebbe comportato con maggior contegno a mio parere. Ma lei era così, una donna d’estremi. Ed era bellissimo poterla vedere risplendere per la sorpresa e l’emozione. Non la smetteva di fare la sua scatenata Happy Dance. “Ty! Ty! Ty!” ripeté saltellando sul posto, aggrappata al mio braccio che ormai non sentivo più. “Io … io ti adoro! … mio Dio! Non credo ti renda conto di quanto io sia felice in questo momento!!!”
May Day May Day … l’abbiamo persa, è ufficiale.
“Direi che una vaga idea me la sono fa…” ma non feci in tempo a terminare la frase che mi ritrovai le sue labbra stampate, spalmate sulle mie, con le braccia arpionate al mio collo a non darmi scampo. E chi ci pensava a scansarsi?
Le cinsi la vita con le mie braccia e ricambiai il suo esuberante modo per dirmi grazie. Sapevo che non significava per lei quello che significava per me, ed è strano a dirsi ma lo sentivo, percepivo la differenza delle sue attenzioni rispetto al mio modo di pormi. Ma cercavo di farmi scivolare di dosso quei fantasmi.
In “Dead poets society” il professor Keating invitava i suoi ragazzi al Carpe Diem ed io avevo tutta l’intenzione di cogliere l’attimo, dal momento che vedevo sempre più chiaro davanti a me che era davvero questione di giorni per me ed Allison. I miei sforzi non sarebbero serviti a nulla, non sarei mai riuscito a farla davvero mia. Tanto valeva lasciarci un buon ricordo di quei pochi giorni che ci erano stati concessi.
E quello era certamente uno dei ricordi che avrei sempre conservato di lei: il suo sorriso dolce e raggiante, il naso rosso e gelato dal freddo, il paraorecchie di peluche per proteggere le orecchie e le sue mani con i guanti di lana intrecciate alle mie.
Peccato che l’euforia contagiosa venne presto smorzata dalla lunga fila che si prospettava davanti a noi, a dimostrazione che l’estemporaneità non sempre paga, soprattutto se abiti a New York e durante le feste vuoi appropriarti di una delle mete più gettonate dai turisti. Per fortuna in pista sembrava ancora esserci un minimo di spazio per scivolare in pace con i pattini.
“una volta venni qui con mia madre e Michael … portammo Caroline a pattinare per la prima volta, aveva due anni, non si reggeva in piedi all’asciutto figurati sulle lame” raccontai divertito “solo che la pista era talmente stracolma di gente che in realtà sembravamo una colonia di pinguini che giravano intorno.”
La sua risatina timida e quasi nervosa si diffuse per tutta la coda, o molto più semplicemente le mie orecchie avevano ormai imparato ad escludere tutte le voci della folla, ad esclusione della sua. Non c’era altro che vedessi né sentissi. Un po’ deprimente, un po’ folle, ma non potevo farci proprio nulla.
“Non era esattamente un bello spettacolo …” ne convenni, ancora un po’ traumatizzato da quel ricordo, grattandomi la testa. Per salvare la mia reputazione, lungi da me raccontare dell’incontro ravvicinato del mio naso prima e del mio deretano poi con il pavimento ghiacciato. Non era colpa mia … il ghiaccio che era scivoloso!!!
Dopo un’interminabile attesa, ingannata perfettamente in compagnia di Allison, tra cioccolata calda e i pretzel giganti presi quasi al volo da uno stand vicino, ci furono consegnati i pattini e fummo letteralmente buttati in pista per l’intera ora successiva.
Coscienziosamente non avevano riempito la pista fino all’inverosimile, come quella sera di qualche anno prima, ma in ogni caso prima di mettere le lame sul ghiaccio invocai mentalmente Dio, Jahvé, Allah, Krishna o chiunque altro ci fosse al piano di sopra, di non farmi fare una figura beghina con Allison e farmi rimanere in piedi.
Sembrava avermi ascoltato, chiunque fosse, perché non solo non caddi ma mi sembrava anche di essere piuttosto sicuro … e non sembrare un pinguino era piuttosto un miracolo per me. Non si poteva dire la stessa cosa di Allison, che passò i primi cinque minuti a litigare con la pista, attaccata alla barriera. Mi obbligò a lasciarla da sola per un po’, con la scusa che doveva riprenderci la mano da sola, ma lo vedevo che non era esattamente il suo genere di sport. Non resistetti lontano da lei che per due giri di pista e la raggiunsi, spiaccicandomi anche io sulla recinzione, a seguito di una frenata sborona finita male.
“È la prima volta, vero?” le chiesi, ma senza intenzione di colpevolizzarla o prenderla in giro e per fortuna lei lo capì. Annuì, timidamente.
“Sul ghiaccio sì” chiarì “da piccola avevo un paio di rollerblade, ma non è esattamente la stessa cosa … e comunque è passata una vita da allora”
La cinsi per i fianchi con un braccio, pur tenendomi di lato, a distanza di sicurezza.
“Vediamo se in due si cade meglio” ironizzai, prendendo con la mia mano libera la sua.
Piano piano avanzammo, cadenzando il ritmo delle nostre pattinate, la sua un po’ più impacciata della mia. Eravamo quasi praticamente fermi e sempre sull’orlo del precipizio, ma sembrava di volare comunque.
“Ah! Aiuto Ty!” urlava Allie di tanto in tanto, quando voleva fare di testa sua e non seguire le mie istruzioni. “Che ti ho detto?” la rimproverai, bonariamente “la schiena non la devi tirare troppo su, o finirai per andartene all’indietro!”
Allo scadere dell’ora eravamo accaldati, stanchi e nemmeno c’eravamo accorti che la notte era scesa già a New York e tutte le luci delle feste si erano accese, nonostante fossero solo le cinque del pomeriggio.
Le strade iniziavano a riempirsi di tipi alla Aidan, che passano il veglione di Capodanno per strada, sperando di far colpo su qualche bella ragazza e poterla baciare a mezzanotte sotto le luci della quinta strada. Ai bordi della strade c’erano già i poliziotti con lo sguardo arcigno, pronti a sbatterti dentro appena sgarri. E poi c’erano le prime bottiglie di birra vuote abbandonate sui marciapiedi, perché fa freddo e si crede ancora alla teoria che l’alcool riscaldi. Domani mattina saranno centinaia di migliaia, come coloro che barcolleranno per le strade e sarà un miracolo se troveranno di nuovo la via di casa, e le bestemmie di chi dovrà pulire si sprecheranno. Ma è la notte più lunga dell’anno e si riesce a perdonare anche il vomito del post-sbronza.
Ed era in quella notte che avrei detto ad Allison di suo padre, perché avevo atteso abbastanza e non avevo il diritto di trattenerla oltre. Non ero nessuno per lei, se non uno che aveva provato a fare l’eroe per un po’, non mi doveva niente ed era un suo sacrosanto diritto tornare da suo padre e sua madre. Perché non c’erano altre strade plausibili, neanche nei miei sogni più belli esiste la versione in cui lei decide di rimanere a New York con me, al di là di tutto. Perché io non ero nessuno.
Non ero nessuno anche se seduta nel vagone del metrò aveva la testa sulla mia spalla e sonnecchiava nonostante il baccano e la folla attorno a noi, anche se le sue mani erano racchiuse nelle mie, perché cadendo sul ghiaccio i guanti di lana erano bagnati e gelidi.
“Che vuoi fare stasera?” le chiesi, cercando di tenerla sveglia con le chiacchiere; lo avrei fatto molto volentieri, ma era logisticamente un po’ difficile imbracciarla e portarla via in quella bolgia. “Possiamo raggiungere Aidan e stare con lui ed i suoi amici in strada … oppure stare da soli a casa e aggiornarci sul count down con qualche programma trash in tv”
“Stiamo a casa” mi disse, con la stessa voce lagnosa che mia sorella ha al mattino quando non vuole alzarsi dal letto ed andare a scuola “cucino qualcosa ed aspettiamo la mezzanotte sotto le coperte … ho sonno!!!”
Per quanto potesse suonare innocente, e sono sicuro che lo fosse veramente, visto lo stato in cui era ridotta, l’omino del mio cervello ed il suo amichetto del piano inferiori si misero a ballare la Samba al pensiero di ritrovarsi sotto le coperte con Allison, che non era particolarmente avvezza all’uso del pigiama. Anzi, il mio fratellino ricordo anche all’omino del cervello del completino intimo famoso e fui costretto a pensare alle cose più brutte del mondo per evitare di andarmene in giro col pacco lievitato.
Era dalla vigilia di Natale che non stavamo insieme-insieme ed ero sempre più convinto che stare a fissarci negli occhi castamente non era contemplata come ipotesi da nessuno dei due. Allison si sarebbe ridestata con un bel caffè e sarebbe andata avanti sveglia come un treno fino all’alba. Ok … forse meglio evitare questi doppi sensi, non aiutano affatto il fratellino …

“Mancano solo 2 minuti al nuovo anno New York!!!”
Il vecchio Dick Clark della ABC, presentatore della diretta da Times Square, annunciò orgoglioso alla folla radunata e a tutti i suoi megaospiti che era ora di preparare le bottiglie di champagne e gli scintillanti, che il 2009 era proprio agli sgoccioli.
In tutto questo io ero pronto con la mia bottiglia di spumante dolce italiano, Allison aveva in mano i bicchieri e davanti a noi, una distesa sterminata di persone, tutte pronte e cariche per dare il benvenuto al 2010.
Alla fine eravamo scesi anche noi in strada, trascinati da un Aidan trasfigurato dall’euforia per la nottata di bagordi che lo aspettava. Ci eravamo uniti alla sua compagnia di matti, ma non avevo ancora ben chiaro da dove sbucassero quelle persone, dove le avesse conosciute o se le andava raccattando per strada a patto che portassero fiumi di alcool e facessero un casino della malora.
Non era stata poi una brutta serata, anche se avrei preferito starmene al caldo tra le lenzuola solo con Allie e forse anche lei lo voleva, perché in piedi davanti alla torre del New York Times dove il conto alla rovescia era evidenziato dai led dei cartelloni animati che riempiono la strada.
Tra noi due, lei era sicuramente quella più impaziente di lasciarsi il vecchio anno alle spalle, e buttare via tutto quello che di brutto e vecchio aveva con sé: la vecchia vita, le sue brutture, le paure, ma anche e soprattutto la vecchia Allison. In un certo senso anch’io avevo qualcosa da salutare una volta per tutte: il Tyler complicato e depresso era ormai un ricordo, anche se continuava a seguirmi come un’ombra e non ero sicuro che, cambiato il calendario, mi avrebbe abbandonato. Bastava poco per farlo tornare alla carica, bastava che quella splendida ragazza che era con me fosse andata via.
Non la smettemmo un attimo di ridere quella sera: sicuramente eravamo entrambi brilli ed eccitati, la birra con cui innaffiamo la cena in piedi a base di pizza take away aveva fatto il suo effetto, e ad ogni stupida melodia che sentivamo risuonare dagli altoparlanti, dagli stacchi pubblicitari alle performance live di qualche artista, prendevamo fuoco e ballavamo, o per meglio dire saltavamo, considerando che eravamo serrati tra le transenne come sardine, ridendo come due idioti insieme alla compagnia di matti che ci portavamo appresso.
Ma stavamo bene, felici, senza il minimo pensiero a turbarci la serata. Non eravamo stati disturbati né da Aidan, né da mia madre, quindi non potevamo chiedere di meglio.
“5 … 4 … 3 … 2 … 1 … BUON ANNO!!!”
Un tripudio di luci e colori esplose nella piazza, insieme ai fuochi d’artificio che partivano dai grattacieli intorno a noi e da lontano rimbombavano quelli che scoppiavano sulle rive dell’Hudson. Un boato di gioia generale risuonò per tutte le strade e migliaia di tappi di spumante e champagne saltarono via all’unisono. Era uno spettacolo senza precedenti né uguali, che valeva il freddo e la noia di starsene in piedi per ore ad aspettare.
Non la smettevamo di urlare nemmeno noi e sembravamo fatti di qualcosa di davvero potente perché avevamo davvero fatto il pieno di carica di vita quella sera, sarei potuto andare per strada nudo e scalzo che non avrei sentito né freddo né dolore. Personalmente ero in uno stato di felicità perfetta da farmi quasi schifo, perché una cosa del genere non mi era mai successa prima: forse era trovarmi lì con Allison, forse perché sentivo che molte cose erano andate al loro posto, forse perché non sentivo più la mancanza di Michael come assenza di una parte di me stesso.
Ed Allison come me non la smetteva di ridere, sorridere e gridare, e sicuramente aveva più motivi di me per credere che quello sarebbe stato di sicuro un anno migliore.
Avrei voluto contemplare quell’immagine in eterno ma non era quello il momento per immagini slow motion e musica soft. La presi e la baciai, perché non c’era niente di meglio da fare, perché volevo che quell’anno cominciasse con lei e con il suo sapore sulle mie labbra, il suo profumo tutt’intorno a me e speravo quell’aura di allegria e gioia pure che emanava potesse accompagnarci per il resto dell’anno.
“Oh vi prego … sono di stomaco debole io!” commentò sarcastico Aidan, con una bottiglia di Vodka liscia vuota tra le mani, ma ancora sufficientemente sobrio da restare in piedi. Ce ne voleva di alcol per atterrarlo ormai …
Sentii Allison ridere sulle mie labbra, ed era una cosa che mi faceva impazzire, contagiando anche me.
“Invece di stare a guardare noi come uno squallido voyeur” gli fece eco Allison, staccatasi per un attimo da me “perché non ti trovi anche tu una ragazza da baciare!”
“Ubriaca magari” mi venne da aggiungere, ridacchiando “così domani mattina non ricorderà nulla di quella tragica esperienza!”
Ci congedò con un dito medio e si buttò nella calca che non demordeva nei festeggiamenti. Era passata mezz’ora dall’inizio del nuovo anno, ma per me erano solo cinque minuti. Allison volle baciarmi ancora, con la scusa che a stare vicini ci si riscalda meglio.
“Vorrei tornare a casa” mi urlò all’orecchio, mentre l’ennesima popstar si esibiva sul palco ed i fan isterici cantavano a squarciagola ogni rima della canzone.
Fu un’impresa raggiungere la metropolitana e la parte più bella fu sicuramente tenerla per mano o abbracciata a me, la sensazione straordinaria di proteggerla e l’emozione che mi regalava sempre la certezza che lei, con me, si sentiva protetta e sicura.



soundtrack2



“Ti giuro … mi venne vicino e disse: tu, con me, nel mio letto!” Allison non la smetteva di ridere al mio racconto del mio primo capodanno passato in compagnia di Aidan a casa di Trisha, una bruttona con una marea di soldi che lo aveva invitato in questa villona un po’ fuori mano solo perché mi aveva adocchiato a scuola e voleva portarmi a letto ed Aidan era l’unico punto di contatto che aveva con me. Molte delle mie avventure erano nate così e lei stentava a credere che davvero non me ne cercavo una ma, al contrario, cadevano tutte ai miei piedi.

“E tu?” chiese curiosa, a quel punto.
Io iniziai a ridere nervosamente, perché quella, da uomo, non era una parte di cui andare molto orgogliosi: “Beh … per quanto mi fossi sforzato a pensare a Pamela Anderson … niente da fare!”
“Cosa?!!!” era sconvolta. Come darle torto, avevo 16 anni e fui compatito dai miei compagni di scuola per il resto dell’anno. Non bastò un’estate di conquiste a riabilitarmi. La povera Trisha, per quanto ne so, dovette ricorrere alla chirurgia plastica appena compiuti 18 anni per rimediare.
“Voi uomini … siete tutti uguali” cosa? Ora era colpa mia? Quella era un cesso e la colpa del mancato alzabandiera è mia??? “se una non ha le tette di Pamela Anderson e il culo di Jennifer Lopez non siete contenti…”
“Non è vero!” provai a ribattere “a parte il fatto che così mi offendi…”
“Ah ti senti pure offeso, dopo quello che hai fatto alla povera Trisha!”
“Sì …” risposi, riflessivo, mentre lei era seduta cavalcioni su di me. Approfittando dell’assenza degli altri inquilini non c’eravamo presi troppo la briga di arrivare in camera da letto e chiuderci dentro. Così gli abiti erano sparpagliati tra il pavimento e le poltrone, e noi distesi sul divano, nudi e un po’ sudati, ci godevamo quegli attimi di calma e distensione post orgasmica tra una chiacchiera e l’altra, giocando e ridendo come due ragazzini.
La casa era buia e le uniche luci provenivano dalle luci ancora accese ancora a pieno regime in tutte le abitazioni del vicinato. Mi piaceva starla a guardare in quella semioscurità, quando i barlumi della strada e il pallore argenteo della luna, nascosta tra i palazzi, si riflettevano sulla sua pelle perfetta e candida.
Con le mani ancora caldissime e pregne di lei accarezzai la linea perfetta del suo collo, fino ad afferrare il suo mento in una mano, così da potermi sporgere e baciarla. Anche lei sapeva ancora di me, e quella commistione di sapori ed umori mi dava alla testa; noi, insieme, il privilegio che avevo avuto ad incontrata e le libertà che troppo spesso mi concedevo nell’averla, erano dei pensieri che mi turbavano. Lei non era mia, non voleva essere mia, eppure era sopra di me, nuda e bella come una Venere.
Con la mente intrappolata ancora in quelle elucubrazioni negative, ripresi a percorrere una strada immaginaria sul corpo di Allie, scendendo dal collo fino al petto, dove incontrai i suoi seni e li racchiusi tra le mie mani.
La perfezione di quelle curve, la loro semplicità eppure al contempo la loro sensualità mi lasciavano ogni volta senza fiato: ne conoscevo ormai ogni linea, ma .mi portavano sempre alla scoperta di mondi nuovi ed incontaminati. Una volta era la calda ed assolata africa, un’altra l’esotica e mistica Asia, un’altra la selvaggia Australia; oppure poteva essere semplicemente una culla ed una casa, l’anziana e colta Europa o l’accogliente e fiorente America.
“Che c’è?” chiese lei, mite e materna, sussurrando.
La guardai negli occhi e vidi quanto era bella. Lo sapevo già, ma c’era qualcosa che in lei non avevo mai notato prima, una nuova sfumatura di donna, ad ulteriore riprova della mia teoria.
“Dimmi cosa stai pensando?” continuò “deve essere qualcosa di particolarmente importante perché corrughi sempre le sopracciglia quando c’è qualcosa che non va … e diventi un cucciolo adorabile”
“Niente” risposi “solo che sei bellissima …”
Dolcemente guidai le mie labbra su una di quelle coppe e ve le posai, sperando che potesse capire a quale punto potesse arrivare la mia dedizione nei suoi confronti. Le sue mani si afferrarono ai miei capelli e la sentii posare un bacio sul mio capo.
“Non è vero” ribatté, modesta “porto una mezza di reggiseno e”
“il tuo seno è perfetto” non la feci finire di parlare “e poi compensi alla grande con altre curve importanti”
Ammiccai e spostai le mie mani a palparle quel sedere da paura che si ritrovava: “JLo ti fa una pippa proprio…”
“Quanto sei volgare!” mi riprese, spintonandomi e rigettandomi sul divano “a forza di passare tempo con Aidan sei diventato un porco come lui”
E di nuovo punto e a capo, non c’era discorso o appunto romantico che potesse essere portato a buon fine tra noi; ma era bello anche così, perché non eravamo come i personaggi di Anna Karenina, depressi e tenebrosi, né come i protagonisti di Beautiful, con quei primi piani in silenzio pieni di suspance.
Eravamo solo Tyler e Allison, due ragazzi di 22 e 17 anni che stavano provando a rimettere insieme i cocci di due vite disastrate.
“Ehi! Ma qui qualcuno diventerà maggiorenne a breve?!!!” esclamai, portandola sotto di me e solleticandola leggermente. Adoravo vederla ridere e ne approfittavo in ogni modo possibile.
“Mmmmmm … ti prego non ricordarmelo!!!”
“C’è qualcosa che vorresti? Stavo pensando ad un regalo speciale ma non mi veniva nulla in mente”
“Tu cosa hai fatto per i tuoi 18 anni?” domandò. “Non vorresti saperlo, fidati. Ti basti pensare che furono organizzati da Aidan e mio fratello … allora insieme non facevano per una persona!!!”
“Non c’è niente che io voglia … tu mi hai dato tutto quello che potessi desiderare …”
Quando si dice che uno fa una santa morte. Se solo avessi avuto la certezza che le sue parole andassero ben oltre il materiale.
Non mi andava di rovinare l’atmosfera che si era creata tra noi, il precario equilibrio tra amicizia e desiderio fisico che si sarebbe potuto sgretolare con una sola parola. Non le avrei mai più ripetuto quelle dichiarazioni che parlavano d’amore e della speranza di un futuro insieme. In più quei giorni di divertimento stavano per finire e stava solo a me decidere quando.
“Una cosa però ci sarebbe” dichiarò, timidamente.
“Dimmi … lo sai che non c’è niente che ti negherei” le dissi, incoraggiandola “e non voglio che tu mi nasconda nulla”
“Non è proprio un regalo … è un sogno che ho, ma so che è impossibile …”
“E chi lo ha detto?” la sfidai, sereno, aggiustandole i lunghi capelli castani che scendevano sulle spalle e sul seno, lievemente increspati dall’umidità.
Lei buttò lo sguardo altrove, fissando un punto non ben definito del camino spento davanti a noi. Sentivo che quello era in uno di quei suoi momenti in cui apriva totalmente il suo cuore, quando non riusciva a reggere lo sguardo del suo interlocutore per paura di rivelare quanto fragile fosse dentro.
“Ehi …” mormorai, carezzandole con la punta dell’indice la guancia. Eppure le non tolse lo sguardo dal vuoto.
“Vorrei tornare ad Indianapolis … vorrei portare dei fiori alla tomba di mia sorella” la sua voce si ruppe per il trasporto ed il carico di ricordi che quella sola semplice frase portava con sé. “Ma non posso chiedere a nessuno di voi di esaudire i deliri di una ragazzina”
“Non sei una ragazzina” obiettai “ed è giusto che tu voglia andare da tua sorella in un giorno speciale come il tuo compleanno. Se te la senti, noi non possiamo impedirtelo”
Presi un respiro profondo e continuai: “Però c’è una cosa che devi sapere …”
Era arrivato il momento: avrebbe ascoltato con attenzione e forse era abbastanza calma da non avere un crollo di nervi.
“Non mi spaventare Tyler” esclamò, corrucciata. Dovevo aver usato un tono di voce troppo greve e averla terrorizzata inutilmente.
“No, stai tranquilla … è una buona notizia” risposi, mettendomi a sedere “però è una cosa un po’ delicata”
Lei mi seguì a ruota, alzandosi e sedendosi di fianco a me, coprendoci con una coperta che mia madre teneva sempre su una delle poltrone del salotto, per scaldarsi a sera guardando la tv. Eravamo in un piccolo bozzolo, caldi e protetti, e quel tepore non solo mi diede la forza per andare avanti, ma portò con sé anche una flebile speranza che la sua reazione non sarebbe stata negativa.
“È una cosa che ho scoperto da pochi giorni … solo che non sapevo come dirtelo e ho aspettato un po’” in più ho voluto trascorrere le ultime feste con te, prima del tuo sicuro addio.
“Si tratta di tuo padre Allison … è vivo, è uscito dal coma”
Il suo sguardo non era mai stato tanto imperscrutabile prima di allora; lei mi fissava, in uno stato tra lo shockato, il terrorizzato e l’euforico. Era incredula, di sicuro, perché forse non era quella la notizia che si aspettava, non aveva messo in conto un tale sviluppo della situazione.
“C-come? Cosa? Io … io … non capisco”
Allora, nella maniera più cauta che potessi, passai ad illustrarle tutta la trafila di eventi che portarono mio padre alla conclusione che lei era quella Allison che il suo dipendente andava cercando per mezza America insieme a sua moglie e che, di conseguenza, era sopravvissuto all’incidente.
Allison era rimasta in silenzio per tutto il tempo e avrei giurato che fosse morta di crepacuore se non fosse stato per il respiro a bocca aperta, un po’ pesante, a cui era costretta da quando quel pomeriggio si era raffreddata sui pattini.
Speechless è il modo più opportuno per descrivere il suo stato d’animo e dal canto mio non riuscivo a levarmi dalla mente il terrore che potesse prendersela con me per non averglielo detto subito; e in più, una volta che si fosse ripresa dallo shock cosa avrebbe fatto? Mi avrebbe allontanato? Mi avrebbe mandato via? … forse era meglio se fossi stato da solo a fare quel passo, di mia spontanea volontà.
“Senti” presi la parola, lasciandola sotto il plaid e iniziando a rivestirmi “forse è meglio che io ti lasci da sola, ora avrai bisogno di rimettere in ordine le idee. Puoi chiamarmi però, a qualsiasi ora e per qualsiasi cosa. Ok?”
La vidi annuire passivamente e poi battere rapidamente gli occhi, svegliandosi dallo stato catatonico in cui si era rifugiata, probabilmente per difendersi da quegli sconvolgimenti troppo repentini di una stabilità che aveva difficoltosamente conquistato nelle ultime settimane.
“Sì … cioè no!” si corresse “tu non vai da nessuna parte! Ho bisogno di te!”
Quella affermazione mi rinfrancò ancora una volta. Perché la sapevo essere onesta più che mai e sapevo che mi voleva nella sua vita. Quasi certamente non nel ruolo che andavo reclamando, ma qualcosa dovevo pur contare a questo punto.
Si alzò dal divano e si avvicinò a me, ancora avvolta nella coperta: “Io … io credo che a questo punto devo proprio andare ad Indianapolis”
Annuii. Beh era il minimo, sapevo che era una cosa necessaria, naturale e non potevo contrappormi al richiamo della famiglia.
“Però” continuò lei “non voglio andarci da sola … non posso andarci da sola. Vieni con me”
L’abbracciai, perché questa volta era stata lei a volermi partecipe di qualcosa di tanto personale. Lei non mi aveva lasciato solo a combattere quell’orco di mio padre e io non l’avrei lasciata sola. Tornare ad Indianapolis non significava solo rivedere suo padre, ma anche affrontare sua madre: non era solo una battaglia, probabilmente sarebbe stata la soluzione finale.
E poi, una volta rimesse apposto le cose, avrei dovuto trovare il coraggio per dirle addio.



















NOTE FINALI

Comunque ... la dolcezza e il buon'umore nella vita reale come in quella fantastica possono essere soppiantati dalla malinconia in un battibaleno. Sta a noi trovare la forza e lo spunto per vedere nelle cose sempre il lato positivo, non si può stare sempre lì a deprimersi.
Ed è esattamente quello che Tyler sta facendo ora, seppur con molta difficoltà.
Allison sta subendo una lenta trasformazione, non è più la ragazza che abbiamo conosciuto nei primi capitoli, ora in lei c'è più un mix tra una donna matura e una ragazzina ingenua alle prese con il primo amore. Eppure il fantasma di Mallory c'è ancora, molto in profondità. Non sono sicura che si lascerà completamente andare se quel fantasma non andrà via.
Non mi uccidete per quanto vi faccio aspettare ogni volta, vero? Vi do capitoli lunghi apposta, così potete leggerli a più riprese e non vi manco!!! XD

Ragazze mi raccomando, lo so che la scuola vi porta via molto tempo, ma vi sarei grata se lasciaste tutte un commentino.
E venite a trovarmi sulle mie pagine di FB e Twitter

à bientot


Federica

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Capitolo 21
*** Empire State of Mind ***


When you crash in the clouds - capitolo 19





















Capitolo 19
Empire State of Mind

















 

“Lei come sta?”
Imbronciata. Appena siamo tornate a casa è corsa su per le scale senza salutare nessuno e si è chiusa in camera sua. Adesso dorme” mi rispose Allison, senza preoccuparsi troppo di nascondere la apprensione per quella bambina, che ormai considerava quasi come una sorella. “Ma le passerà, vedrai” continuò, con fermo ottimismo “credo ce l’abbia con suo padre più che altro. Non è stupida, ha capito come stanno le cose … e ti vuole troppo bene per prendersela con te”

Lo speravo davvero tanto, perché sbagliavo di continuo con le persone a cui volevo bene e, per una volta che mi sentivo di aver fatto la cosa giusta per difenderne una, non volevo pagare un prezzo troppo alto.
“Tu come stai?” continuò lei, probabilmente in pensiero dopo avermi visto con gli occhi rossi e le orecchie fumanti di rabbia, come nelle migliori vignette.
“Io … io non lo so” risposi candidamente “ancora un po’ frastornato a dire il vero. Io … io non ho saputo resistere, tu lo capisci” e la mia voce iniziò ad accelerare il discorso, volevo trovare una scusa, un appiglio per quanto avevo fatto, pur non essendocene bisogno, pur trovando corretto il mio agire. Ma lei comprese e mi freno: “Sì, sì lo capisco … lo sai, ci sono passata anch’io”
Si prese un attimo per riflettere, una pausa necessaria ad entrambe per riordinare le idee ancora incasinate nelle nostre teste. Era un bene che fossimo al telefono; gli sguardi bassi e scuri, i crucci e i rancori di quella giornata così lunga e difficile era meglio tenerseli per sé. Non volevo che mi vedesse agitato com’ero né io volevo vederla triste; avrebbe riportato a galla ricordi poco piacevoli e trasmesso in me ulteriori istinti violenti che stavo cercando con tutte le mie forze di reprimere.
“Però” riprese lei “voglio che domani tu venga qui e parli con lei … e con tua madre”
Già, mia madre. Probabilmente era quella la cosa che la preoccupava di più, oltre me e mia sorella. Aveva trovato in lei una figura di supporto insostituibile: un surrogato materno, un’amica, una zia, una sorella maggiore, mia madre era tutto per lei, si fidava di lei molto di più di me e cercava di non deluderla mai.
Ma io conoscevo Charles abbastanza da sapere che non c’era nulla da temere.
“No piccola, stai tranquilla. Non accadrà nulla di male … Charles vuole solo metterci paura, ma non passerà mai dalle parole ai fatti”
Mi lasciai scappare un sorriso, vuoi anche per incoraggiarla e lasciare che distendesse i nervi. L’avevo chiamata piccola e avrei sinceramente voluto mangiarmi la lingua: a giudicare da una reazione che non avvenne non doveva aver notato quella parola in più che avevo messo e per lei non doveva avere il significato che aveva per me. Meglio così, mi risparmiava un sacco di scuse campate per aria. Me la immaginavo seduta sulla poltrona, in camera sua, a piedi scalzi e lì appollaiata nella posizione più contorta, a dimostrazione che gli anni da ballerina di lap dance le hanno conferito una elasticità invidiabile, leggings neri e maglia bianca del sottoscritto sformata e sbiadita, leggermente pendente sulle spalle da lasciar vedere il reggiseno nero. E la coda di cavallo che arrangiava in quella maniera così strana che mia sorella ogni volta la guardava come se avesse visto un fantasma.
“Tyler non è il momento di scherzare” mi rimproverò la mia maestrina, destandomi dalle mie fantasie senza speranza; era più grande di lei di oltre 4 anni, eppure lei era la mamma ed io il bambino scalmanato di 5 anni da mettere in riga “sto parlando sul serio. Domani  le spieghi la situazione ed io mi troverò un posto dove stare. In qualche modo riuscirò a trovare i soldi per l’affitto, dovessi anche …”
“Dovessi anche cosa Allison? Non voglio più sentire una cosa del genere … non mi sono fatto spaccare la faccia per farti andare via da quel locale e farti pagare l’affitto di un appartamento a suon di prestazioni sessuali” quella era una cosa che non tolleravo; mi aveva fatto sempre schifo parlarne, figurarsi ora che quello spettro sembrava essere svanito dalle nostre vite, dalla sua vita, una volta per tutte.
“Tyler ma sei matto! Non ho intenzione di fare più la puttana … dicevo, anche a costo di mettermi a fare la donna delle pulizie nei cessi della metro”
Tirai un sospiro di sollievo. Erano le stesse parole che avevo usato io tempo addietro per convincerla a lasciare quella bettola. Umile ma onesta, era quella la Allison che preferivo.
“In ogni caso” continuai “se proprio non ti trovi bene da mia madre verrai a stare da me. Ma non hai motivo di temere, mio padre non vi torcerà un capello nemmeno metaforicamente”
“Tyler” mi richiamò lei. “Dimmi” le sussurrai, dolcemente.
“Prometti che le parlerai” le sue  parole alle mie orecchie suonarono come una preghiera, l’ultima supplica ad un santo.
“Va bene” cedetti, infine “le parlerò. Ma ora fammi andare. Ho bisogno di farmi una bella dormita su ciò che è successo oggi. E faresti bene a farlo anche tu”
“Ok. Hai ragione. Buonanotte Ty”
“Buonanotte piccola”
Lei chiuse il telefono praticamente all’istante. Forse non ebbe il tempo di sentire come l’avevo chiamata, o forse era proprio quello il motivo per cui mi chiuse il telefono in faccia. Ero stato troppo diretto, di nuovo, e ripetere lo stesso errore due volte nella stessa conversazione era sintomo che qualche rotella in me non girasse a dovere, o forse girava fin troppo bene. L’espressione cotto di lei probabilmente non è sufficiente a spiegare la mia situazione, il mio stato d’animo. Devastato eppure mai stato così sereno in vita mia, almeno da quando Michael non c’era più. Era come se avessi trovato un collante per riattaccare i pezzi rotti del mio cuore; forse qualche piccola breccia sarebbe rimasta, una piccola falla microscopica, ma non sufficienti a fare danni di nuovo, almeno finché ci fosse stata lei a tenermi in piedi.

 

Buon Natale Michael, è una vita che non ti parlo, me ne rendo conto. Ma sono stato … un tantino impegnato. Ma immagino che tu lo sappia già, non è così? Da lassù la visuale è senz’altro migliore. È inutile che io ti dica quello che penso, quello che provo, quello che faccio. Sai quanto la amo … e non fare quella faccia nauseata, l’amore non sarà stata cosa per te, ma ricordi cosa dicevi ad Aidan di me? Il mio fratellino è fatto per i fotoromanzi …
Forse avevi ragione, la mia vita assomiglia ad una di quelle soap sudamericane con i sottotitoli e l’audio in ritardo. Anche con nostro padre … hai visto che sceneggiata? Da Oscar, vero?! Mi ripeto che era l’unica cosa giusta da fare ma ora non lo so più … c’è qualcosa che non mi quadra; possibile che fosse davvero l’unica soluzione possibile? Tu ti sei arreso, io non ho intenzione di farlo, perché ho troppe persone al mio fianco per cui vale la pena di continuare a vivere … Caroline, la mamma, sì anche Les e Aidan … e naturalmente lei Allie. Dio che spettacolo Mike, vorrei che la vedessi …
Dicono che amare sia essere se stessi con l’altro; eppure sento di essere cambiato, tantissimo, per lei … e forse anche per me.
Sono senza più parole … conosci i miei dubbi, i miei desideri: come al solito vedi di metterci una buona parola. E salutami la nonna, dille che come fa lei i biscotti di Natale alla mamma non verranno mai!!!
Buon Natale ancora, mi manchi

Avete presente quelle mattine di festa in cui sai che non hai un cazzo da fare e sai che potrai stare a letto fino alle due del pomeriggio perché nessuno verrà a romperti i coglioni e sbatterti giù dal letto? Beh, purtroppo quella mattina non era una di quelle.

Finiti i pranzi-maratone, finiti gli incontri e gli abbracci ipocriti con i parenti, la vita di tutti i giorni ricominciava con il peggiore degli auspici possibili: il ritorno di Aidan nel nostro appartamento, e per lui poco importava che fossero le 6 del mattino e c’era gente che ancora dormiva; fintanto che lui era sveglio e pimpante
“Che ti sei fumato per essere così euforico?” gli chiesi, mentre distrattamente e miracolosamente, riuscii a tenere in mano la tazza di caffè che mi aveva passato. Non stetti a sentire nemmeno una virgola delle sue mirabolanti avventure con l’amica Amish di sua cugina, che  aveva lasciato a quanto pareva la sua famiglia per entrare nella civiltà moderna. Eppure per quanto mi sforzarsi di porre un freno mentale alle sue parole, esse penetravano con insistenza nel mio cervello, senza che io riuscissi a fermale, impregnando di nuovo i miei neuroni di quel fastidio naturale e ai cui mi ero ormai assuefatto dato dalla sua semplice presenza. “È difficile resistermi” si vantò; e purtroppo l’esperienza mi aveva fatto constatare quanto potesse essere veritiera quella sua frase. Altrimenti dopo 5 anni di liceo, tre di università vissuti praticamente fianco a fianco come gemelli siamesi dubito che sarebbe ancora nelle mie vicinanze se mi fosse stato così sulle palle quanto andavo blaterando. Ok, a volte era un coglione-stronzo cronico tendente, ma come Allison l’aveva perfettamente descritto, era un adorabile cagacazzo. Dove sarei io se non ci fosse stato lui a prendermi quel giorno che mio fratello si tolse la vita? Probabilmente nella tomba accanto alla sua, finito sotto un treno o volato già da una delle finestre di casa mia.
Era rincasato tipo da due ore, ma le pulizie di Natale di Allison erano state vanificate in tipo 10 minuti, tempo di fargli usare il piano cottura, la doccia e fargli sparpagliare le valigie di panni puliti che la mamma gli aveva preparato sul divano.
Nel frattempo ascoltai le notizie finanziare al giornale radio e scesi a comprare un giornale di economia al chioschetto più vicino. Era la prima volta che lo facevo in una vita; mi piaceva tenermi informato sulle notizie, ma era il mio giorno della mia intera esistenza che chiesi al giornalaio di darmi una copia del Wall Street Journal e del Financial Times. Probabilmente Charles Hawkins avrebbe storto il naso a vedermi con il Financial tra le mani, ma la mia teoria era che bisognasse leggere le notizie da tutte le prospettive possibili. Anche da quelle più parziali.
Leggere tutte quelle cifre e dargli un significato mi stupì; mio padre mi aveva insegnato da ragazzino, quando per andare in visita alla Borsa con la scuola non volle che fossi impreparato. Mi stupii più che altro di ricordare ancora come si facesse: l’alfabeto cirillico. Per mia madre, era più facile.
Michael invece diceva che quello era un segno: “Tu sei l’erede naturale di nostro padre” mi ripeteva “dagli solo il tempo di capirlo …”
Peccato che di mezzo ci siano passati un divorzio, un suicidio ed una lite talmente insanabile che a confronto rincollare Humpty Dumpty era un gioco da ragazzi.
E più leggevo quegli articoli, più accumulavo dati, più mi rendevo conto che  Michael aveva ragione. Io ero un economista nel sangue: quei soldi che schifavo avrebbero potuto essere fonte della mia fortuna, di quella dell’azienda e di quella della mia intera famiglia. Era possibile reprimere l’indole personale? Non lo sapevo ma contavo di farlo, perché non mi sarei ridotto ad uno sciacallo speculatore, innamorato del denaro ed impiegato part time con i propri affetti. Non mi sarei ridotto come mio padre.
“Mh” biascicò Aidan alle mie spalle, mentre masticava una fetta di pane tostato, comparendo all’improvviso alle mie spalle “prova a raccontagli del Dow Jones oggi ai nostri clienti, magari otteniamo il premio di produzione”.
Ecco il mio vero problema, la fantasia. Mi è bastato un articolo di giornale per vedermi guru della finanza, in piena crisi finanziaria per giunta: che tempismo! La verità era che mi aspettava una nuova giornata di lavoro in libreria, in pieno periodo di svendite post natalizie? Anche in libreria, chiederete voi … ebbene sì, soprattutto dal momento che il boss non ha intenzione di mantenere in magazzino copie di libri ordinati appositamente per il Natale come “Il manuale fai-da-te per fare un nano da giardino” o “Le ricette della cucina tradizionale pannone”, logicamente invendute. E ora stava a noi l’arduo compito di promuoverli e venderli. In più bisognava riordinare tutti gli scaffali e far posto alle decorazioni per la fine dell’anno.
Odiavo il capodanno; per Aidan era un’occasione come un’altra per fare baldoria e strafarsi, per me un’occasione come un’altra per essere trascinato a forza in locali troppo bui e troppo affollati. Mi rasserenava il fatto che avrei avuto una buona scusa per defilarmi quest’anno. Ultimo tango a Parigi era un film che Allison doveva assolutamente vedere ed era perfettamente in grado di non offendersi per la sessualità esplicita che le avrei proposto con quelle scene.
“Ohi che mi dici di Allison?” chiese Aidan urlando, tra i clacson dell’ora di punta del mattino freddo e inquinato di New York, mentre per attraversare l’incrocio bisognava pregare che non sbucasse nessun pony express in bicicletta che andava di fretta. Un giorno o l’altro il sottoscritto sarebbe rimasto gambizzato …
“avete concluso qualcosa? E parlo di quel qualcosa Tyler, perché lo so che sei troppo imbranato per riuscire a concludere dal punto di vista sentimentale”
“Ma che cazzo…?!” “Oh andiamo!” non ebbi nemmeno il tempo di protestare che subito si rifece lui sotto “sappiamo entrambi che se fosse stato per te non l’avresti più vista dopo la notte in quel locale … le ragazze normali solo a letto te le porti facilmente, per chiedergli un appuntamento ci metti dalle due alle quattro settimane. Figuriamoci con lei”
Touché. Cos’altro avrei potuto aggiungere che non fosse così dannatamente vero? Ma fui aiutato dal ritardo e dalla figura del boss in allerta all’ingresso della libreria, così mi misi a correre con Aidan che mi seguiva, col fiatone, verso l’ingresso secondario.
 
Quando una giornata inizia di merda, sinceramente, quante sono le speranze che si raddrizzi? A mio parere, veramente poche. Non solo ci beccammo la mazzolata del secolo per il ritardo mostruoso di 20 minuti. Come facemmo ad arrivare in ritardo essendo svegli dalle sei, ancora dovevo capirlo, ma questo mio processo mentale a ritroso per trovare una scusa non mi evitò la sezione libri per l’infanzia. Che strazio! Quelle musichette da carillon dei libri per i più piccoli mi mettevano un’ansia addosso insospettabile, mi sembrava di essere in qualche film dell’orrore e mi mettevano addosso una sconcertante voglia di piromania addosso. Rimettendo a posto dei libri sulla mitologia greca per ragazzi mi venne in mente la mia Caroline, a cui poco tempo prima ne avevo regalato uno molto simile, per quanto fosse più brava del disegnatore, era affascinata dalle illustrazioni di quel libro, e quella giustificazione bastava per rileggerlo ogni volta daccapo o anche solo sfogliarlo.
Per fortuna quanto accaduto nei giorni precedenti non l’aveva turbata più di tanto, anzi, era stata abbastanza in grado di accettare le ragioni per cui io non l’avrei accompagnata alla cena che nostro padre tradizionalmente ci offriva a S.Stefano. E con nostra madre tutto s’era risolto come avevo previsto: una bella risata da parte sua e una carezza rassicurante ad Allison, che per poca conoscenza del soggetto, s’era presa un brutto spavento.
“Imparerai anche tu a conoscerlo purtroppo” liquidò in fretta l’argomento mia madre.
Si poteva dire che anche quella era passata.
“Ma si può sapere dove cazzo hai messo il cellulare?” raffinata quanto uno scaricatore di porto, Allison si fece avanti a grandi falcate lungo gli scaffali della libreria, noncurante dei clienti che rispettavano il silenzio imposto nel locale e della moderazione del linguaggio richiesta nella zona bimbi. Sembrava un’amazzone, con quel broncio che si portava dietro. Il problema vero era che, purtroppo, era rivolto a me, qualsiasi cosa le avessi fatto.Alzai le mani in alto in segno di resa, sorridendole: “Buongiorno, Allison!” “Buongiorno a te, idiota!” esclamò. Cos’è che avevo detto? Ah, sì: giornata di merda. “Spero che almeno la testa al lavoro ce la porti: dov’è il tuo telefono?”
Oh cazzo! Lo sfilai dalla tasca dei jeans, convinto di averlo lasciato lì, per giunto acceso, per tutta la notte. Morto, giustamente. Datemi un muro per sbattere la testa, vi supplico.
“Scusa … è tornato Aidan ed è da stamattina che non ci capisco più niente. Lo capisci che mi ha svegliato alle sei?”
“Aidan è tornato?! Dov’è quel coglione! Devo farlo crepare di botte: non s’è neanche fatto sentire per gli auguri …”
“È nella zona letteratura religiosa. Ma io non andrei se fossi in te… non vorrei incappare in qualche fanatico avventista del settimo giorno…” “Tyler non tentare di farmi cambiare argomento!!! Sono profondamente incazzata con te, ho il ciclo e le ovaie rigirate … questa mattina non volevo uscire e sono stata costretta perché qualcuno era irraggiungibile”
“Ma perché” mi allarmai “è successo qualcosa?”
Per quanto ne sapevo, tutti eccetto me erano ancora a casa per le vacanze e mia madre, Les e Caroline sarebbero partiti solo l’indomani per la settimana bianca, lasciando a me ed Allison la casa libera per ben 10 giorni … Tyler, un po’ di contegno. Porca puttana!
“Nooooooo … solo un centinaio di chiamare non risposte al cellulare da parte di tuo padre. Pensava che fossi da noi così ha chiamato a casa”
“Mio padre?” chiesi, palesemente sorpreso “che vuole?”
“E io che ne so” rispose Allison, terribilmente inacidita. Speriamo il ciclo le duri poco … non ho intenzione di mandare all’aria il mio programmino di capodanno. Tyler, basta! “Ha detto che devi andare nel suo ufficio da solo oggi pomeriggio, deve parlarti. Di più non ha detto. Però ha scassato così tanto che alla fine mi sono offerta di venire ad avvertirti di persona. E visto che a casa tua non c’eri … beh, ovviamente eccomi qui.”
“Grazie per esserti scomodata, ma non se ne parla” chiusi lì, freddo e duro, distaccato a sufficienza da dimostrare quanto poco tenessi a lui. Purtroppo la situazione era un’altra. Quell’uomo rimaneva pur sempre mio padre e, per quanto mi imponessi di tenerlo lontano, era un meccanismo che poteva funzionare solo se applicato da me. Ad chiunque me lo ricordava, il lavoro fatto si sgretolava. E di nuovo lo tsunami di dubbi tornava alla carica, man mano che il tempo passa.
“Non fare lo scemo. Tu ci vai eccome!” disse imperiosa mentre per un braccio mi trascinava lungo la libreria che ormai conosceva piuttosto bene. “Ray!” urlò ad uno dei responsabilità “Ty si prende una pausa!” Ray capì che non doveva nemmeno osare a fare domande.
Davanti ad una ciambella e ad un caffè caldo, la mia visione delle mie cose non cambio di un millimetro. Ero soddisfatto della mia tenacia, dote che non ero assolutamente conscio di possedere. Ed invece riuscivo a non demordere. Era la cosa migliore non vederlo, qualsiasi cosa avesse da dirmi; anche se stargli lontano faceva senz’altro un po’ male, stargli affianco avrebbe significato calpestare ogni mia convinzione.“Devo ricordarti le parole che mio padre ti ha riservato l’altro giorno Allie?” le chiesi. Non avrei voluto ricordarle una cosa così brutta, ma le non sembrò toccata più di tanto. Estrasse un bigliettino dalla sua borsa e me lo passò: era la terribilmente perfetta grafia di mio padre, che si scusava con la signorina Allison Eugenia Riley per il suo comportamento riprovevole e si riprometteva un nuovo incontro pacificatore.
“Il tutto accompagnato da tre dozzine di rose. Sono arrivate stamattina” commentò, senza lasciare che alcuna emozione le segnasse il viso. Era disillusa, forse? O pensava di non dovermi influenzare?
“Senti Allison” forse le avrei fatto male, ma di quell’uomo doveva conoscere fino in fondo lo schifo di cui era capace “quelle scuse, beh veramente …”
“Gliele hai suggerite tu? Naturalmente … ma lo ha fatto. E questo dimostra che almeno a te ci tiene. Per cui vai e ci parli.”
“Per dirgli cosa esattamente?” rimbeccai, mi dava fastidio non avere ragione su un argomento come quello. Sembravamo essere tornati indietro di un paio di giorni, quando Allison era impegnata a convincermi che dovevo andare a trovare mio padre il giorno di Natale. E quello che era successo proprio quella sera, certo non mi aiutava a scegliere favorevolmente per un nuovo incontro.
“Beh, intanto tu ascolti quello che vuole dirti lui” rispose, calma e decisa “e poi deciderai, civilmente, come comportarti, senza sclerare come ha fatto l’ultima volta”
“Ah perché ora ho io la colpa!” sbraitai “lui ti chiama puttana e io ho la colpa!” risi shockato dalle sue parole: non pensavo potesse arrivare a tanto. Poteva non dare peso alle offese che mio padre le aveva rivolto, poteva essere rimasta impressionata dalle sue scuse, ma non le avrei permesso di addossarmi la colpa. Mentre mi intimava di fare silenzio, visto che nella caffetteria ci stavano praticamente guardando tutti, mi afferrò le mani con le sue; erano due ghiaccioli, come al solito, così toccò a me raccogliere le sue tra le mie.
“Sai bene che non è quello che intendevo dire” si corresse, mortificata “ma vorrei solo che avessi un po’ di contegno con lui. Che lo rispettassi un po’ per ciò che rappresenta. È tuo padre … se fosse vivo il mio o se avessi l’opportunità di riavvolgere il nastro con mia madre … forse la coda la terrei un po’ di più tra le gambe. Non rovinare la tua famiglia”
Capivo la sua prospettiva, ma il punto era che quella famiglia non esisteva più da un po’, e non certo per colpa mia. E preferivo conservare gli stracci che mi restavano piuttosto che tentare un rattoppo estremo, destinato a non funzionare. Tanto con Charles significare tornare punto e accapo ogni volta. E oltre a farmi male, il che rappresentava il problema minore, avrei fatto male a mia sorella e questo non lo tolleravo.
“Telefonagli almeno” incalzò, passandomi il suo cellulare “così puoi valutare senza doverlo vedere per forza in faccia”.
Mi strizzò l’occhio – ricordava ogni minima cosa le confidassi e questo mi istillava un’incredibile fiducia in lei – e composi il numero, sbuffando come quel bimbo di otto anni a cui la madre ha imposto di fare i compiti invece di stare davanti ai videogiochi.
Naturalmente dovetti passare prima per la zona filtro delle tre segretarie: quella generale, quella del suo piano e la sua personale. Janine, che mi conosceva da una vita, ebbe molto piacere di risentirmi e lo stesso valeva anche per me. Lei come tutti quelli che conoscevano di mio padre solo il lato professionale, ne tessevano le lodi ogni giorni e lo stimavano particolarmente come un lavoratore insaziabile. Il problema era che io e mia sorella non avevamo bisogno di un lavoratore, bensì di un padre.
“Tyler” mi rispose mio padre con il suo solito tono piatto “finalmente!”
“Scusa, avevo il telefono scarico ed ero a lavoro. È stata Allison ad avvisarmi”
“Molto gentile da parte sua … salutamela”
Sentivo che faticava a parlare di lei, ma almeno l’aveva digerita, cosa che volente o nolente prima o poi avrebbe dovuto fare perché non avevo intenzione di lasciarla andare da nessuna parte.
“Cosa c’è?” tagliai corto “mi ha detto Allison che vuoi vedermi”
“Sì” rispose lui e lo sentii diventare alquanto turbato “si tratta di una questione delicata e non mi va di parlarne al telefono”
Non capivo di cosa parlasse. Non avevamo mai discusso di affari di famiglia, né di eredità o cose simili. Ero decisamente frastornato.
“Che … che tipo di questione?” domandai.
“Ci vediamo oggi pomeriggio verso le 5 nel mio ufficio. Finisco una riunione e sono completamente libero, non ho altri impegni. Avremo il tempo di parlare con calma”
Lui che non aveva altri impegni mi suonava come nuova; di solito la frase era ho un’ora sola, facciamo in fretta. Ora invece era completamente libero: era sempre stato libero e ci mentiva regolarmente, oppure finalmente aveva cambiato atteggiamento? Era bastata la mia sfuriata a farlo cambiare così. L’avessi saputo me ne sarei occupato prima. In ogni caso, non dimenticai quanto manipolatore sapesse essere, quindi decisi di non fidarmi troppo di lui, non avevo intenzione di scottarmi.
“Se non mi dici di che si tratta non vengo” minacciai, anche se ero troppo curioso per dargli davvero buca. Allison di fronte a me alzò gli occhi al cielo e le sorrisi, ammiccando divertito.
“Ho delle buone notizie … su Allison”
Mi prendeva in giro o cosa? Mi vidi riflesso nello sguardo mutato di Allison, dallo spensierato al inquieto. “Che significa?” domandai.
“Vieni qui e lo saprai” ribatté mio padre “ma non ne fare parola con lei per il momento … come ti ho spiegato è una faccenda complicata”
E non ne feci parola. In un lampo ripensai al nostro ultimo incontro ed ebbi come dei flash che scorrevano nella mia mente: i segugi di mio padre, Allison, il locale. Però erano buone notizie, aveva detto: eppure non riuscivo a stare tranquillo.
Mantenni la promessa, accampando ad Allison la prima scusa che mi venne in mente e chiedendole di tornarsene a casa. Lei sembrò bersela, o quantomeno finse di farlo, ma se non poteva avere la verità da me, almeno aveva ottenuto che mi vedessi con mio padre e questo bastò per risollevarle il morale.

Finito il turno e sistematomi un poco (il che significava jeans puliti e una camicia che non fosse a quadri) mi ritrovai all’ingresso dell’Empire State Building.

La società di mio padre si era trasferita lì dal 2002, quando riuscì a risollevarsi dal disastro del World Trade Center intascando i soldi dell’assicurazione. Purtroppo nell’economia i morti non c’è il tempo di piangerli, soprattutto se sei quotato in borsa. E così, sistemati gli uffici e trovato nuovo personale, la “Hawkins Communications” e la sua sorella maggiore “Steven&Jacobs Publications” si erano rimesse in marcia, sotto l’egida di Charles Hawkins che ne aveva approfittato per mangiarsi i suoi due soci e divenire azionista di maggioranza. Mors tua vita mea, dicevano i latini. E cazzo se avevano ragione.
Sembrava di essere in uno di quei film anni Ottanta sull’alta finanza, dove tutti sono rigorosamente in giacca e cravatta e non cavi alle persone un sorriso di bocca neanche dopo una serie di giornate positive a Wall Street. Sembravano tutti essere troppo indaffarati nei propri affari, per badare a segnali di vita che andassero oltre agli indici di gradimento nei loro grafici o alle altalene degli indici di Borsa.
Eppure ad alzare lo sguardo, al mio passaggio, tutti erano subito pronti a richiamare il collega sull’attenti e a far partire i regolari salamelecchi. Mettevo piede veramente di rado in quell’edificio, ma per loro ero sempre il figlio del capo ed erede dell’impero, ed ognuno lì era impegnato a mantenersi ben stretto il suo posto di lavoro, la bella poltrona di pelle e la scrivania in frassino. Oltre allo stipendio d’oro e al caffè caldo e ciambella gratis al mattino.
Dalla Hall fui spedito al 75esimo, dove c’era la segreteria della società. Salii poi fino al 90esimo piano, dove gli uffici del grande capo. Appena le porte dell’ascensore si aprì, trovai Janine seduta alla sua scrivania. Il tempo passava, ma restava sempre una bellissima donna. Pur rigorosa nel suo tailleur nero gessato e comoda nelle sue scarpe basse, non dimenticava di viziarsi un po’ con i foulard di Hermes, l’unica sua vera debolezza a sentirla parlare.
“Chi non muore si rivede” mi disse, vedendomi.
Le sorrisi “È bello rivederti Janine … grazie per il regalo di Natale!”
“Dio Tyler ho combinato un bel guaio, non avevo idea…”. Sembrava così contrita, ma io volevo solo fare una battuta. “Ma non è colpa tua!” la rassicurai “tu non potevi sapere … d’altronde  dovrebbe occuparsi lui di quelle cose …”
“Vieni dai” cambiò argomento, conducendomi verso l’ufficio di mio padre, poggiando una mano sulla spalla “ti sta aspettando”
“Com’è il suo umore?” chiesi, tanto per andarci prevenuto.
“Basta che non gli fai venire un infarto come al tuo solito e vedrai che andrà bene” sorrise, strizzando l'occhio impertinente. Sapeva del mio pessimo carattere, e sapeva altrettanto bene quanto lui non lo soffrisse. “Cerca di non bere troppo caffè, ti rende nervoso” mi consigliò, con candida insolenza.
“Charles c’è tuo figlio” mi annunciò e da dentro la voce che così tanto mi dava i nervi mi richiamò a sé. Entrai, chiudendomi la porta alle spalle.
Parlammo del più e del meno per 10 minuti, intercalando frasi fatte modi di dire ad argomenti di conversazione generali, come il meteo, il lavoro, e le notizie del giorno.
Nel momento in cui avevamo ormai esaurito ogni distrazione dal vero motivo per cui mi aveva convocato, arrivò il telefono a toglierci dall’imbarazzo di quel silenzio che si stava diffondendo tra un sorso di caffè e l’altro.
“Non mi interessa che siano i Cinesi o chiunque altro. Vi ho già ripetuto che sono impegnato con mio figlio e non vogliono essere disturbato”
Non l’avevo mai sentito parlare così, e si vedeva che era certamente imbarazzato dal pronunciare queste parole in mia presenza, nel mostrarsi così vulnerabile proprio davanti a me, che per una vita l’avevo ritratto come un despota burbero e dal cuore di pietra.
Chiuso il telefono in faccia persino a Janine, si sedette alla sua bella scrivania ed estrasse un fascicolo giallo che, senza dire una parola, mi passò.
“Cos’è?” chiesi, titubante e non ricevetti alcuna risposta, ad esclusione di un cenno che sembrava un invito evidente ad aprire la cartella.
Sfilai l’elastico e sfoglia un plico di carte su cui erano segnati dati anagrafici ed una serie di nomi di città con delle cifre, che potevano significare tutto o niente, non reputandoli di grande importanza, non mi soffermai a leggere le piccole scritte in grassetto. Fin quando, pietrificato, mi ritrovai di fronte alla foto di una ragazzina, da primo anno di liceo, o forse qualcosa in pià. La strappai con foga dal foglio su cui era stata attaccata con la spillatrice e la guardai più attentamente, mentre la cartella e i suoi fogli caddero a terra, ma non me ne curai; tutto quello che mi interessava al momento, era la ragazzina della fotografia, che io conoscevo evidentemente molto bene.
Girai la foto, notando in controluce il calco di una scritta nella carta plastificata della foto: 20 Gennaio 2007, 15 anni.
Due anni fa, quasi tre ormai. Prima della tragedia, prima che diventasse la piccola donna che io conoscevo, prima d che noi … e mio padre aveva una sua fotografia nel suo ufficio, in una cartelletta da investigatore privato.
“Fino a dove si può spingere la tua sete di controllo? Come hai avuto questa fotografia, maiale!” lo aggredii solo con le parole, perché la mia voce non reputava nemmeno di dover perdere fiato con quell’uomo.
“Non è come credi” rispose calmo “lasciami spiegare”
Si alzò dalla sua poltrona e si portò verso la finestra, a guardare fuori, a distogliere i suoi occhi da me, a nascondermi il suo sguardo.
“Era da poco che Michael …” iniziò, e sembrò già non farcela “questa coppia di Indianapolis“si presentò qui a chiedermi aiuto. La loro figlia maggiore Allison era scappata di casa, ed avevano ricevuto delle segnalazioni da New York, ma nessuno nella polizia aveva voluto dargli retta, così sono venuti da me, sperando che potessi aiutarli”
“Io … lo so che sembra strano detto da me … ma non potevo tollerare che quelle persone potessero soffrire come stavo soffrendo io, avevano già perso la figlioletta. Così per farla breve decisi di aiutarli, ma dopo un iniziale successo in un piccolo bar notturno di Harlem sembrò sparita letteralmente nel nulla”
Ero in uno stato tra il rigor mortis ed i’euforico, shockato non basta per descrivere le montagne russe di sensazioni ed emozioni che si alternavano tra testa e cuore. Felice, eccitato, disperato, terrorizzato: e tutto allo stesso momento, dire che erano un tantino sopraffatto era un eufemismo.
“Aspetta un momento” intervenni, riacquistando lucidità “non mi pare di aver capito bene: hai detto una coppia giusto?”
“Sì” rispose lui affermativamente “lui è uno dei nostri migliori impiegati”
“Ma questa è una notizia meravigliosa …” ma lui non poteva capire, non sapeva “Allison non sa che suo padre è vivo! È convinta che non si sia risvegliato più dopo il coma”
“Beh …” replicò lui “non era proprio in formissima quando ci siamo incontrati, ma da allora sono passati due anni, scommetto che ha recuperato alla grande”
“Ma tu … non li senti più?” indagai “non dopo che si sono perse le tracce. Ecco perché mi ero dimenticato completamente di lei … questo fascicolo c’ho messo una notte intera per riesumarlo da casa mia”
E dire che era un maniaco del controllo e dell’ordine.
Mi ricordai di quella sera, per la prima volta da quando ero con lui. Lui sapeva chi era, sapeva benissimo con chi aveva a che fare, ma non aveva esitato un secondo ad offenderla ed umiliarla.
“Dimmi una cosa” mi feci avanti, di nuovo serio “perché lo stai facendo? Per rispedirla da sua madre in modo che io non possa più vederla? Perché sinceramente è un po’ antiquato come metodo … esistono le web cam ed esistono gli aerei che ti piaccia o no”
“Senti Tyler …” provò ad intervenire ma non gli lasciai mettere due parole di fila.
“Lo sai perché se n’è andata di casa? Perché sua madre era proprio come te, forse è per questo che vi siete trovati. La figlia era distrutta e non trovava di meglio che insultarla e darle della troietta, invece che starle vicino e cercare di correggerla come ogni madre sana di mente avrebbe fatto”
“Smettila Tyler” si impose “io non avevo idea di chi fosse quando l’hai portata a casa, la sera di Natale. In quanti siamo a New York, ci saranno migliaia di Allison. Ed è stato solo dopo che mi hai detto il suo cognome e che sua padre lavorava per me che ho unito tutti i pezzi del puzzle. Indianapolis, il suo nome, suo padre.”
“Come sarebbe a dire che non sapevi niente su di lei? Non è possibile! Sai meglio di me dove, come e quando l’ho conosciuta e i tuoi cani da riporto non sono stati capaci di saperne di più?!” Non volevo deriderlo, eppure era esattamente quello che venne fuori dai miei sputi di parole insolenti.
“Oh Tyler non essere stupido!” mi ammonì “Allison è come se non esistesse per l’America: i suoi documenti sono falsi, non ha nome o ne ha mille, nel bar dove lavorava era solo una sigla con tre iniziali e non certo andavano a raccontare al primo che passa i loro affari.”
E anche lui c’aveva ragione.
“Io non sapevo chi fosse” mi supplicò di credergli e volli fidarmi
“Ma questo non giustifica quello che hai detto. Io … credo di aver bisogno di una boccata d’aria”
Me ne andai intascando la fotografia di quella ragazzina dell’Indiana, che ancora non sapeva che il suo desiderio più grande era realtà. Sarebbe toccato a me dirglielo e non sarebbe stato facile. Non avrei mai potuto presentarmi da lei e dire: “Ciao, lo sai che tuo padre è uscito un annetto fa dal coma, ti va di andare al McDonald?”
Né andava fatta una tragedia alla Re Lear di Shakespeare. Non ero il miglior comunicatore, ma ero l’unica persona in grado di poterle dare una notizia del genere. Ci voleva tatto, sensibilità e una gran dose di fiducia reciproca.
Presi la mia bici fuori dal grattacielo ed iniziai a sfrecciare incurante del freddo pomeriggio di New York lungo il traffico della città, sormontato da quegli imponenti dominatori dell’aria, mentre nuvole di smog mi drogavano ed uccidevano respirando a pieni polmoni.
Dopo nemmeno un paio di isolati mi sentii già affamato d’aria pulita; forse era lo smog, forse la massiccia dose di novità che mi aveva preso in pieno come un treno in corsa o forse, più semplicemente, paura di dirle la verità e scoprire che non ero una ragione sufficiente ad impedirle di andarsene via da me.

















NOTE FINALI
Chiedo scusa per aver tardato nell'aggiornamento. Ma come già vi dissi in precendenza non diamoci più una data perché non so se l'ispirazione o altro mi daranno la possibilità di essere costante.
Non so cosa dire di questo capitolo. Spero possa parlare da solo.
Il resto ditemelo voi...lasciate che siano le vostre emozioni a parlare.
Vi aspetto

p.s.:appena potrò risponderò a tutte le recensioni del vecchio capitolo. Croce sul cuore =)


à bientot
Federica

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Capitolo 22
*** On the road ***


When you crash in the clouds - capitolo 21






Capitolo 21

On the road











soundtrack


Con due pesanti trolley ed altrettanti borsoni ci incamminammo per il terminal, gremito di autobus sebbene fossero le nove di sera, seguiti da mia madre, alla ricerca della nostra corsa. Les se n’era rimasto a guardia del SUV, parcheggiato in doppia fila in un posto alquanto fortuito, giusto per scaricare i bagagli.
“Io ancora non riesco a capire perché non abbiate voluto prendere l’aereo. È più comodo ed impieghereste meno tempo …”
Io ed Allison ci scambiammo un’occhiata tanto eloquente quanto scoraggiata.
“È inutile che fate quella faccia” rimbeccò mia madre, squadrandoci e puntandoci contro l’indice “sapete bene che ho ragione”
Mentre il fattorino ci aiutava a caricare le valigie sul pullman, tentai di spiegare ancora una volta a mia madre il perché di quella scelta: Allison non avrebbe accettato più soldi né da mia madre né da me né da nessun altro ora che era quasi, mancavano pochissime ore, maggiorenne, e quelli che era riuscita a guadagnare occupandosi di Caroline (un lavoro a metà strada tra babysitter e istitutrice) non bastavano per pagarsi nemmeno un biglietto in economica.
In più, parte del suo pacchetto “desideri per la maggiore età” prevedeva un viaggio on the road, come nella migliore tradizione americana. Tuttavia nessuno dei due era un bravo pilota: lei non aveva avuto il tempo di fare pratica, scappando subito dopo aver preso la licenza; io, invece, avevo un rapporto di amore/odio con le auto. Più che altro, si trattativa di una vera e propria dominazione dell’automezzo nei miei confronti. Per cui entrambe avevamo concordato che mettersi alla guida, non era di certo una cosa fattibile: depressi e sfigati sì, ma alla nostra pellaccia ancora ci tenevamo.
“Va beh” si arrese mia madre, al momento dei saluti, disperata nemmeno fossimo in partenza per il Vietnam “ma mi raccomando, chiamatemi … almeno per farmi sapere che siete vivi … Tyler non fare come al tuo solito, come quella volta che sei andato in gita ad Ellis Island”
Come al mio solito?! Ma se prendeva sempre in esempio (l’unico che aveva) quella gita ad Ellis Island in 5a elementare, quando il telefono cellulare era ancora un mattone con l’antenna estraibile e lo schermo monocromatico e solo mio padre che era un milionario poteva permetterselo.
Madri … quel cordone famoso non sarà mai abbastanza reciso nella loro testa.
Ci abbracciò entrambe, e se non l’avesse smessa con quelle moine le sarebbero arrivati due bei ceffoni (uno da me, l’altro da suo marito che a larghe braccia da lontano esprimeva tutta la sua solidarietà nei nostri confronti), e finalmente ci lasciò salire sull’autobus.
Per essere l’autobus un mezzo usato, almeno in America, dai meno abbienti … beh devo dire che non c’è niente di cui lamentarsi. Sarà stato anche per il parco auto recentemente rinnovato dalla compagnia, ma non ci mancava proprio nulla: sedili confortevoli e larghi anche per un spilungone come me, prese della corrente per ricaricare gli apparecchi elettronici, wireless. Non avremmo avuto problemi a trascorrere le successive, lunghissime ore.
La durata, infatti, era l’unico problema di quel viaggio: 16 lunghissime ore, lungo le sterminate autostrade americane, a volte anche nel bel mezzo del nulla.
“Io vicino al finestrino” strillò Allison, precipitandosi a sedere, sgusciandomi di fianco mentre sistemavo le giacche nel cassettino sopra le nostre teste.
Mi cacciò una bella linguaccia di soddisfatta vittoria non appena mi accomodai vicino a lei, e quello fu il primo atteggiamento vagamente sereno e spensierato da almeno un paio di settimane.
Sicuramente il pensiero di tornare nella sua città natale, il terrore di incontrare qualche parente o amico per sbaglio la faceva tremare come una foglia ed agitare. Diceva di sentire come un pugno forte allo stomaco, una fiammata al cuore e il respiro che le si troncava in gola ogni volta che pensava a quell’eventualità. “Cerca di non pensarci” la incoraggiavo. “Fosse facile” rispondeva puntualmente lei.
Non era solo un semplice ritorno agli affetti, se ancora questo per lei poteva significare qualcosa, ma era anche e soprattutto un ritorno a ciò che lei era stata, un faccia a faccia con la ragazzina innocente ma ribelle e la piccola donna ormai tranquilla ma con un carico di tormenti sulle spalle.
Avevamo provato a fare programmi, nei giorni precedenti alla nostra partenza, anche per distrarla un po’, ma anche solo cercare un albergo dove dormire, per lei era un dolore ed una fatica in più. Quello no…era il padre di un suo compagno di scuola, quell’altro nemmeno…sua madre giocava a bridge con la figlia del proprietaro. Quell’altro nemmeno a parlarne…era la pensione ultraeconomica dove la portavano i ragazzi quando aveva iniziato il suo giro di amicizie “intime”.
Speravo di sbagliarmi, lo speravo con tutto me stesso, ma niente mi levava dalla testa che quel viaggio sarebbe stato un disastro.
E il fatto che il suo umore fosse sottoterra, ai minimi storici da quando la conoscevo, non faceva che rafforzare la mia ipotesi.

“Sei davvero sicura?” le chiesi, titubante, ancora una volta. S’era messa in testa di voler chiamare i suoi, prima di partire per Indianapolis, almeno per capire che aria tirava.
Senza proferire verbo annuì vigorosamente, fissando il telefono come fosse un mostro letale. “Devo” precisò; afferrò la cornetta di quel vecchio apparecchio che Les ancora teneva in casa, nello studiolo, attentamente, quasi scottasse e iniziò a comporre le cifre a memoria, senza neanche controllarle sul file che mio padre ci aveva fatto avere e che era da giorni aperto nel computer di mia madre: d’altronde era pur sempre il numero telefonico di casa sua.
Una mano reggeva la cornetta, con l’altra si aggrappava stretta al bordo della scrivania; il suo respiro era affannato, irregolare, non ero sicuro che avrebbe retto a lungo. Non era il suo primo tentativo, ma tutti erano falliti miseramente, interrotti richiudendo malamente l’apparecchio prima che potesse anche solo sentire una risposta. L’ultima volta che ci aveva provato, solo il giorno precedente, aveva resistito un bel po’, prima che scattasse la segreteria telefonica.
Dopo cinque squilli e i suoi nervi ancora saldi e decisi nell’andare avanti, sentii una voce maschile rispondere all’altro capo del telefono. Ma lei era diventata pallida e muta, turbata da quella voce a lei evidentemente familiare.
“Pronto? Pronto?! Ma chi è?!” continuò l’interlocutore, mentre lei riusciva solo a respirare rumorosamente, finché non si risolse a riattaccare, ancora.
Scattò via, furiosa, probabilmente imbarazzata da quella figura appena rimediata. Ma doveva capire che non era colpa sua, era del tutto naturale essere impacciati in una circostanza simile. “Allison! Allie!” le corsi appresso, per cercare di calmarla, ma lei non voleva sentire ragioni. Entrati in camera sua – era già tanto che non mi avesse chiuso la porta in faccia – accese lo stereo a palla, mettendo su qualcosa di veramente pesante. Aveva iniziato a maltrattarsi labbra, mani e capelli, segno evidente che qualcosa non andava. Girava intorno nella stanza, torcendo quella povera malcapitata di una tshirt bianca che usava in casa.
“Allie!” la presi e la fermai, placcandola con le mie mani sulle sue braccia “calmati!”
Bisognava essere fermi e decisi in quelle situazioni, soprattutto con lei che era la regina nel passare da una crisi depressiva ad una isterica. Era necessario prevedere e prevenire ogni sua mossa.
Quando si fu calmata, quando il suo respirò sembrò regolarizzarsi e i suoi incisivi avevano smesso di solcare a sangue le sue belle labbra carnose e rosse, la lasciai libera e placai anche il mio tono di voce.
“Perché sono così stupida?!” borbottò tra sé e sé, severa contro il suo riflesso allo specchio sulla toletta, rimproverandosi evidentemente per quella conversazione mai iniziata. “È tuo padre cazzo!” continuò “Cosa c’è di più normale che parlare con tuo padre…cogliona! Sei sempre la solita emerita cogliona…fatta apposta per rovinare tutto!”
Non le avrei permesso di autodistruggersi così, neanche se avesse avuto ragione di farlo – e non era quello il caso. C’era una cattiveria ed un rancore nei confronti di sé stessa che poteva essere particolarmente deleterio; quell’indice puntato in maniera feroce all’immagine allo specchio, uno sguardo sprezzante rivolto a sé stessa che non avevo mai visto. L’avevo vista disprezzare gli altri, odiare l’immagine che di sé avevano gli altri, deprecare il suo lavoro anche…ma lo sterminato orgoglio innato le avevano sempre conferito una straordinaria pienezza di sé. Ma non negli ultimi giorni, non da quando le ultime barriere erano cadute.

Mi era sembrato di aver letto il nome Pittsburgh da qualche parte sui cartelloni stradali che sfilavano lungo l’autostrada. Era difficile esserne sicuri quando sei appena sveglio dopo una dormita su un autobus in viaggio, alle primissime luci dell’alba, quando non capisce bene se è notte o giorno, con i fari delle auto che sfrecciano veloci tutt’intorno. In ogni caso i cartelloni pubblicitari e il paesaggio intorno a noi, vagamente lussureggiante rispetto alle abituali colate di cemento delle mie zone, mi diedero da pensare che avevamo lasciato alle nostre spalle i popolosi stati di New York e del Connecticut ed ci eravamo lanciati a capofitto nella cavalcata verso il West, incominciando con la Pennsylvania. Buttai un occhio all’ipod che ancora suonava della musica techno negli auricolari, che come un innocuo moscerino ti da fastidio ma cerchi di ignorare; l’orologio del lettore segnava le 7.30 del mattino - orario di New York, ma noi stavamo andando in Indiana, quindi una volta arrivati avrei dovuto ricordami di portare le lancette un’ora indietro. Attorno a noi era tutto ancora buio ed addormentato, gli altri passeggeri rispettavano il silenzio imposto nella vettura, visto che qualcuno era ancora assopito.
Cercai Allison, che di solito aveva l’abitudine di addormentarsi usando le mie spalle come suo cuscino; ma stavolta non era così, aveva scelto il vetro freddo ed umido, ammorbidito dal cappuccio della felpa e dal piccolo collare di gomma gonfiabile che mia madre le aveva dato prima di partire.
Era da un paio di giorni che era strana, imbronciata, silenziosa. Era come covasse qualcosa dentro, ed avevo la netta sensazione che era una malinconia comune: entrambi vedevamo la realtà in faccia, vedevamo il punto di svolta sempre più vicino, al di là di ciò che sarebbe potuto accadere; e ne eravamo spaventati a morte, ma invece di aiutarci a vicenda ci evitavamo l’un l’altro. Era un muto addio, un abituarsi all’idea che non sarebbe stata più la stessa cosa tra noi.
Se qualcosa fosse andato storto, ed egoisticamente ad essere sinceri me lo auguravo proprio, forse sarebbe tornata con me a New York, ma non sarebbe stato più lo stesso: non sarei stato più la persona più importante della sua vita, quella a cui rivolgersi per un problema, l’unica che potesse garantirle aiuto e riparo. Non osavo nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto quando avrebbe rivisto sua madre, ammesso che avrebbe accettato di rivederla, cosa di cui non ero sicuro. Non si poteva negare, però, che a suo padre non aveva intenzione di rinunciare. Se lei provava per suo padre il bene incondizionato che Caroline provava per nostro padre, nonostante tutti gli sbagli in cui lui perseverava, lo avrebbe rivoluto nella sua vita con le unghie e con i denti. E poi, a sentir parlarne Allison, suo padre avrebbe potuto combattere contro il resto del mondo per tenersela stretta. E faceva bene, anche io lo avrei fatto se fosse stato un mio diritto.
Ma non lo era, ed eccomi su un autobus per riportarla a casa, la sua vera casa.
“Che cos’è questa faccia triste Ty?”
Sobbalzai alla voce di Allison che d’improvviso mi richiamò alla realtà.
“Sei sveglia?!” domanda idiota. “Ma niente, non preoccuparti” le sorrisi cordialmente “sono solo stanco … ho dormito poco e male”
“Sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata” commentò, sibillina, puntando uno sguardo severo verso l’orizzonte dove c’era ancora il buio. L’alba, invece, era alle nostre spalle. “Spero proprio che la prossima fermata ci sia a breve” disse, stiracchiando le braccia “ho bisogno di sgranchire le gambe e prendere un po’ d’aria … ho ancora nelle narici la puzza di fritto della cena di Bombolo.
Bombolo era un passeggero del sedile davanti a noi, soprannominato così da Allison per via del suo volume, oltre che per la quantità immane di ciambelline ingurgitate dal momento della partenza fino all’1, quando l’autista spense le luci e si mise anche lui a dormire.
“Siamo nei pressi di Pittsburgh” la informai “lì ci fermeremo. Io ho proprio bisogno di una sigaretta!”
“Nervoso?” domandò. Scossi la testa: “dicono che il fumo porti dipendenza … non si può stare molte senza fumare e mi pare che dovresti saperne qualcosa …”
Mi cacciò la lingua, indispettita come tutte le volte che provavo ad essere sarcastico con lei, e l’aria tra noi sembrò tornare vagamente respirabile, escludendo il fatto che, al di là di qualche parola o informazione, non ci eravamo detti molto, immersi nella lettura o nelle rispettive playlist.
Alla stazione degli autobus, tra barboni addormentati sulle panchine e tossicodipendenti che si avvicinano per racimolare qualche soldo d’elemosina, riuscimmo a darci una rinfrescata in bagno e a prendere la colazione al bar. Non era Starbucks, ma non era nemmeno acqua sporca. Seduti allo scalino del marciapiede, al freddo pungente del mattino, aspettavamo che l’autobus fosse pronto per partire di nuovo. Ci aspettavano altre 7 ore di viaggio: un calvario se tra me ed Allie non se ne fosse andata quell’atmosfera da funerale.
Tra un sorso di caffè e un tiro di sigaretta infatti, i cappucci delle felpe e delle giacche calati sulla testa, gli occhiali a nascondere le borse sotto gli occhi, non avevamo niente da dirci; e per due come noi, che per smettere di parlare avevano bisogno di minacce atomiche, era davvero grave.
E non era come quando si sta bene anche senza dirsi nulla, perché non si stava bene per niente. Era il classico silenzio assordante e stridente, fatto di urla e parolacce urlate a vicenda, che per quanto eravamo coglioni andavamo a letto insieme (per la verità dopo Capodanno mi aveva mandato in bianco tutte le volte che ci avevo provato) eppure se c’era un problema da risolvere non eravamo capaci di dircelo in faccia.
Ma il tempo per dirsi tutto quello che ci passava per la testa, per giocarsi le ultime carte, era agli sgoccioli; meglio che ti dia una mossa Tyler!!!
“Come ti senti?” chiesi, usando una domanda generica per rompere il ghiaccio. Dio, sembravamo due estranei, che cosa patetica!
“Meglio ora, il caffè mi ha rimessa al mondo proprio!” esclamò soddisfatta, stringendo il bicchierone fumante del caffè tra le due mani e portandolo vicino alla bocca, per riscaldarsi meglio oltre che per bere.
“Non mi riferisco a quello” replicai.
“Quanto lo odio quando fai così, Tyler!” esclamò lei, e sembrò veramente incazzarsi di punto in bianco. Beh, rispetto all’apatia delle ore precedenti, era già una certa botta di vita. “Che c’è?!” chiesi. “Mi fa incazzare questo modo di fare che hai … sei sempre perennemente criptico! Risparmia il fiato e dimmi che cosa vuoi sapere?!”
“Innanzi tutto non c’è bisogno di scaldarsi così tanto, stai calmina” le dissi, alzandomi per buttare il mio contenitore del caffè. Nel frattempo accesi la sigaretta numero due, perché mi aveva fatto schizzare di nuovo i nervi … ma perché era così maledettamente lunatica e isterica?! “e poi se proprio non ci arrivi da sola, volevo sapere come ti senti al pensiero che stiamo andando ad Indianapolis”
Prese una lunga boccata di nicotina, lasciando che le invadesse tutte le vie aeree; conoscevo quella sensazione piacevole e consciamente letale. Poi si alzò e si diresse verso l’autobus, liberandosi anche lei del bicchiere di carta del caffè. Notai così che anche gli altri passeggeri si stavano avvicinando al bus. Allie chiese all’autista ancora un paio di minuti per finire la sigaretta, così restammo ancora un po’ di fianco al portellone del bus. Anch’io feci un altro tiro, eppure non riuscivo a calmarmi. E la fretta che ci aveva messo addosso l’autista non aiutava. Forse avrei dovuto provare con una spranga in testa.
“È una cosa che andava fatta” rispose calma, tirando fuori l’ultima colonna di fumo. Salì poi con uno scatto i gradini del pullman ed io la seguii a ruota, buttando la cicca sull’asfalto e raggiungendola ai nostri posti.
“Non mi sembri felice” constatai. “Dovrei?!” fece lei, disincantata.  
“Certo” affermai “domani è il tuo compleanno, farai 18 anni e rivedrai tuo padre, che credevi morto. Dovresti sprizzare gioia da tutti i pori … io lo farei. Voglio dire, se mi dicessero che Michael è vivo io …”
“Hai ragione, scusa” disse, stringendomi la mano “il problema è che non si tratta solo di mio padre, Tyler, e lo sai”
“Tua madre?” chiesi. Era bello vedere che tirando fuori i rospi le cose tornavano a posto tra noi, benché già in partenza non è che fossero esattamente in ordine. Ma l’ordine mentale, al momento, anche quello bastava.
Lei annui, senza aggiungere altro, ma solo fissandomi, scrutandomi con attenzione e la cosa non mi piaceva affatto; sapevo benissimo che era capace di leggermi dentro, con una sensibilità che mai nessuno prima d’ora aveva avuto: nessuno mi aveva mai compreso come lei, e lo odiavo perché non c’era nulla che potessi nasconderle, niente che da cui potessi proteggerla in quel senso.
Abbassai lo sguardo ma tanto la scansione l’aveva già fatta e vedevo bene, con la coda dell’occhio, il modo in cui mi osservava.
“Tu piuttosto …” disse “che è quel broncio? È da stamattina che ti porti quel muso lungo dietro … è da un paio di giorni che sei giù, l’ho notato sai, ma oggi proprio non riesci a mascherarlo. Potevi dirmelo che è un problema per te accompagnarmi, non mi sarei offesa e sarei venuta da sola”
“Ma che dici … no, non è come credi” mi affrettai a replicare. Anche se con la morte nel cuore, non le avrei mai permesso di fare un viaggio come quello da sola. Come disse lei? Ah sì: è una cosa che andava fatta.
“Sono solo preoccupato” risposi, genericamente. Non era il caso di spiegare nei minimi dettagli la mia preoccupazione, anche perché sarebbe stata la volta buona che mi avrebbe preso per pazzo e mollato a calci nel sedere alla prima stazione di servizio. “Tu non lo sei?” incalzai. Era l’unico modo che conoscevo per distrarmi e distrarla: farla parlare di sé.
“Certo che sono preoccupata. Ma tu non dovresti, Tyler. Dimmi cosa c’è che non va Tyler”
Cosa non andava mi chiedeva? Mi scrutava dentro ma per fortuna non era ancora in grado di leggermi i pensieri in dettaglio, o sarei stato spacciato.
Così me ne inventai una … che poi era una mezza verità visto come stavano le cose.
“Non voglio vederti soffrire di nuovo. Non voglio che quella donna ti tratti come ha fatto mio padre. E non vorrei vedere delle porte chiuse in faccia. Non lo sopporterei …”
“Oh Ty!” esclamò e si strinse a me prendendomi per un braccio, come negli ultimi giorni non aveva più fatto “io non so cosa accadrà se e quando andrò a casa dei miei genitori. Ma ti prometto che non mi lascerò piegare … te lo devo per tutte quelle volte che sei stato forte per me. Perché sei stato tanto forte”
Lei posai delicatamente un bacio sui capelli, mentre stringendosi ancora più forse Allie intrecciava le sue gambe alle mie, poggiando finalmente la testa sulla mia spalla. Il sole, seppur timido e pallido, aveva deciso di fare una comparsata in quella giornata, e le distese di boschi e radure attorno all’autostrada si rincorrevano e susseguivano, mentre noi, dall’autobus, li osservavamo, un po’ più sereni.

Quasi 18 interminabili ore ci erano volute per arrivare a destinazione, nonostante la compagnia di viaggio assicurasse nei suoi depliant la massima puntualità. Ma nulla può il mezzo e un buon autista contro cause di forza maggiore. No, non parlo di traffico, incidenti stradali, maltempo o bazzecole simili. Parlo delle vesciche delle nonnette che non riescono a trattenerla ed invece di prendere un comodo treno optano per prendere il mezzo di trasporto più selvaggio di tutti: l’autobus.
Raggiunto l’albergo, un Bed & Breakfast a ridosso del centro, economico ma ben tenuto, di nuova gestione e libero da ogni possibile legame con la sua vita ad Indianapolis, andammo in camera, a gettarci nel letto per una dormita decente, in barba a fame o sete, senza contare che erano solo le due del pomeriggio.
“Hai visto che non c’era niente di cui aver paura?” esclamò Allie ad alta voce, mentre si asciugava i capelli di fronte allo specchio, ancora con l’accappatoio addosso. Io invece me ne stavo morto sul letto e non avevo alcunissima intenzione di muovermi da lì per il resto della mia vita. “Ti ho detto che il russo che l’ha fatta è un vero portento … se non se n’è mai accorto nessuno tra New Orleans e New York non vedo come potessero accorgersene qui”
“Sarà…ma mi hai fatto sudare freddo comunque!” Quando infatti Allison estrasse la sua carta di identità contraffatta al check in alla reception, infatti, avrei voluto morire, sotterrarmi e decompormi. Non era andare in villeggiatura al fresco che avevo in mente per festeggiare i suoi primi 18 anni, con l’accusa di contraffazione, pedofilia e rapimento di minore. Vallo a spiegare alla polizia che, anzi, la stavo riportando dai genitori …
Lei continuava a ripetere che non c’era altro modo, che non poteva andare in giro con il suo vero nome, non era ancora sicuro, ed inoltre mancavano ancora 9 ore alla mezzanotte del 20 gennaio, ora in cui sarebbe stata finalmente libera da ogni obbligo verso i suoi genitori e verso la legge che l’avrebbe ricondotta a casa anche contro la sua volontà.
Così, durante i nostri pernottamenti nella città dei motori, lei sarebbe tornata ad essere Mallory Banning.
“Mi spieghi una cosa?” le chiesi, riflettendoci un po’ su.
“Dimmi!” mi incoraggiò lei.
“Tu mi hai sempre detto che per il tuo … lavoro … hai sempre usato nomi diversi. Perché hai scelto proprio Mallory per la tua seconda identità?”
“Ehm…non prenderla a male” iniziò lei, e già da lì la cosa non mi piacque. Forse non avrei dovuto chiederlo. “Croce sul cuore!” esclamai, da buono scout. “Banning è il cognome di mia madre da nubile. Mallory invece è il secondo nome di Emily. Quando mi chiesero come volevo farmi chiamare fu il primo nome che mi venne in mente, perché in fondo avevo sempre la piccola in mente …” conoscevo bene quella sopraffazione che si prova in certi momenti, quando vivi e sopravvivi per qualcosa che non è più vivo, reale, e pure fa parte di te a tal punto che vivi di quei fantasmi. “Poi anche nel locale dove ballavo a New Orleans iniziarono a chiamarmi così e non potevo tollerarlo perché sentivo di macchiare la memoria della mia sorellina, così inventai la storia dei personaggi diversi e cercai di essere Mallory il meno possibile. Ma il danno era fatto … a molti piaceva vedermi e chiamarmi in quel modo e non potevo farci nulla. Ma dentro morivo per quello che stavo facendo.”
Era terribile quello che aveva passato, e volevo fortemente che sua madre, la donna che l’aveva messa al mondo, si rendesse conto di ciò che aveva causato. Volevo che soffrisse per lo schifo vissuto da sua figlia, ma non sarebbe mai stato abbastanza, perché non l’avrebbe mai vista come l’ho vista io, sculettare vestita da prostituta attorno ad un palo, con i genitali praticamente sbattuti in faccia a chiunque le mettesse la mancia nel tanga.  
“Fa strano” le confidai “sentire quello che mi dici e ricordare che io ti ho conosciuta proprio come Mallory”
“Già” annuì lei, pacata “è come un cerchio che si chiude”
Ma ormai era il suo sorriso ad essere serrato; con la mia stupidità le avevo tolto anche quel briciolo di pace che le era rimasto, riportando a galla ricordi che era meglio lasciare sopiti per ancora qualche ora.
Accesi la tv per riempirci la testa con le chiacchiere inutili che quella scatola propinava, il gossip delle riviste patinate e il bagliore dei flash sui tappeti rossi. Non mi fece alcun effetto vederla spogliarsi e rivestirsi davanti a me, ne vederla muoversi per la stanza in mutande e canottiera. Stavo vivendo di nuovo quei momenti di imbarazzo e profondo schifo, trasportato in un universo parallelo, nella camera ammobiliata e lercia in cui mi aveva condotto Mallory, dove avevamo fumato una canna ed avevamo parlato tutta la notte, decisamente su di giri, e dove, in fondo, avevo lasciato il mio cuore a farle da guardia.
Capii che Mallory non se n’era davvero mai andata, e se non l’avesse fatto, se Allison non l’avesse mandata via, niente sarebbe potuto cambiare. Non solo per quello che avrebbe potuto esserci tra noi, ma avrebbe complicato ogni suo progetto, ogni relazione.
Lei mi voltò lei spalle e ci mise poco ad addormentarsi, ma a me la stanchezza aveva sempre procurato l’effetto contrario, così decisi di uscire ed esplorare un po’ la città. Preso il mio zaino, le lasciai un appunto sul comodino, un bacio in fronte ed uscii.
Per quanto decisamente più piccola di New York, Indianapolis rimaneva comunque una città che non si poteva girare a piedi senza qualcuno a guidarti. Mi feci chiamare un taxi alla receptionist, ma non appena montai in macchina mi accorsi di non avere la benché minima voglia di visitare la città da solo, senza Allison pronta a viverla con me. Era come passeggiare per New York senza di lei, una camminata ad occhi chiusi, anziché una scoperta continua di cose che in 22 anni non avevo mai notato.
“4319 Springwood Trail” ordinai al tassista “il quartiere dovrebbe essere Wynnedale”
Quando un cartello stradale mi indicò l’ingresso nel  quartiere di Wynnedale, mi ritrovai in un delizioso quartiere residenziale, di quelli da vita tranquilla da serie televisiva, dove le madri fanno ancora le torte di mele e i bambini vendono la limonata per strada d’estate. I due lati della strada erano delimitati da querce alte e probabilmente secolari, che bene si accostavano alla semplicità e alla familiarità delle villette, costruite su delle piccole collinette. Il sole di un caldo e anomalo pomeriggio invernale batteva sul lato della strada che era la mia destinazione, e le case dipinte con colori tipicamente autunnali si riscaldavano e avevano tutta l’aria di essere molto accoglienti. Era un bel posto dove vivere, dove metter su famiglia. Ma è anche un posto dove è facile – e forse d’obbligo – celare le proprie disgrazie familiari.
Scesi dal taxi e presi un gran respiro, mi incamminai su per il lungo viale che mi conduceva alla grande casa marrone, ad un solo piano ma molto ampia, con un giardino ben curato e una berlina della Cadillac parcheggiata davanti al garage. Almeno qualcuno era in casa.
Suonando il campanello mi accorsi che sul portone campeggiava una scritta, incisa su una placchetta d’ottone. Welcome to the Rileys.
Sorrisi amaramente; la loro – ormai – unica figlia era scappata perché si sentiva una estranea in casa propria e loro mi auguravano il benvenuto…decisamente il festival dell’ipocrisia.
Venne ad aprire un uomo alto e grosso, praticamente una montagna. Era un po’ stempiato, sulla cinquantina probabilmente, invecchiato per l’età o più probabilmente per colpa di un destino che non gli aveva risparmiato nulla.
“Il signor Riley?” domandai, tendendo la mano che lui seppur titubante non rifiutò e strinse. “Sì?!” rispose, esitante.
“Sono Tyler Hawkins, figlio di Charles Hawkins” “Hawkins jr?!” chiese conferma, ancor più incerto, probabilmente la mia visita lo aveva preso in contropiede. “Sì signore, sono io. Avrei bisogno di parlare con lei” “Ma..ma certo! Si .. si accomodi!”

Entrai in casa e subito si aprì davanti a me la grande zona giorno con i mobili in legno scuro e le pareti rosso veneziano; avrei potuto girare perfettamente per quella casa senza sbagliare e tutto era rimasto probabilmente come lei lo aveva lasciato e come me lo aveva raccontato.
“È stato già in ufficio? Le hanno detto loro che mi avrebbe trovato qui?” chiese l’uomo, preoccupato. Ma io negai, non era per un’ispezione per conto di mio padre che io ero lì. “Sa” spiegò “il martedì esco sempre prima dal lavoro…è stata una casualità che mi abbia trovato a casa”
Mentre Doug mi invitò ad accomodarmi su una delle poltrone di fronte al camino in pietra, notai le sedie del tavolo da pranzo ancora con il cellophane sulla seduta, e le bomboniere disposte maniacalmente nella vetrinetta insieme ai servizi buoni, esattamente come Allison me le aveva descritte.
“Signor Hawkins” mi chiamò Doug. “La prego signor Riley, mi chiami Tyler” lo corressi; non ho mai amato che delle persone più grandi di me mi chiamassero per cognome solo perché ero il figlio del capo.
“Va bene Tyler, però tu chiamami Doug” rispose affabile “… lei è mia moglie, Lois”
Mio Dio, era una bellissima donna! Ora capivo la bellezza, semplice eppure allo stesso tempo sofisticata, di Allison. Capelli dalla piega impeccabile biondi, ma probabilmente non naturali, indossava una gonna grigia a tubino, una semplice camicia bianca e delle perle che impreziosivano il suo look senza strafare. Se Allison a volte mi era sembrata una principessa, sua madre era una regina. Doug era un uomo molto fortunato.
Mi alzai e la salutai. Sembrava estremamente timida, una donna tutta casa e chiesa, timorata di Dio e devota alla sua famiglia.
Tuttavia queste erano il genere di sensazioni che di solito la gente provava quando conosceva mio padre; il che fece suonare il campanello d’allarme nel mio cervello, e mi consentì di restare all’erta.
Poteva trattarsi anche di una regina, ma guardando ai suoi trascorsi, era piuttosto la strega di Biancaneve invece della dolce madre della Bella Addormentata. Era difficile credere che quella stessa donna che era davanti a me, era stata capace di tante malignità nei confronti del suo stesso sangue; ma d’altronde il delitto perfetto è quello in cui tutte le prove vengono fatte sparire.
I successivi cinque minuti trascorsero in maniera molto formale, con la signora Riley che preparava del tè ed io e Doug parlavamo del più e del meno, di mio padre e dell’azienda, del suo cordoglio per la morte di mio fratello e del mio per la morte della piccola Emily.
“È stato suo padre a dirglielo?” chiese la signora Riley, bianca in volto, di ritorno dalla cucina, con la teiera e tre tazze.
“Non…non esattamente” precisai. Lasciai che Lois servisse il tè e le chiesi di accomodarsi con noi. “È per questo che sono qui” spiegai “ho bisogno di parlare con voi di una cosa che so per certo vi sta molto a cuore”
Vidi i loro sguardi incrociarsi e diventare apprensivi, scorsi anche una vaga luce di speranza, negli occhi annoiati di quell’uomo di mezza età e in quelli afflitti della sua consorte. Uniti ancora dopo tante prove, uniti nonostante tutto: forse avrebbero avuto loro qualcosa da insegnare ai miei genitori su come far funzionare un matrimonio. Ma quella è un’altra storia …
Vidi Lois portarsi una mano davanti alla bocca, incredula eppur felice: doveva aver capito. “Allison?!” chiese, con una voce piatta e flebile, ed io non feci altro che annuire.
“Fermi un momento” intervenne Doug, concitato “che cosa … che cosa significa Allison? Tu conosci mia figlia? Sai dove si trova?”
“Allison è una delle mie migliori amiche, sì … diciamo così” non potevo certo dire loro che eravamo compagni di letto occasionali “l’ho conosciuta per caso nel posto dove lavorava e l’ho aiutata a rimettersi … in carreggiata”
Speravo di aver usato le parole più giuste per descrivere una situazione spiacevole come quella in cui si era cacciata Allison. Nonostante i motivi che l’avevano costretta a fuggire di casa, i suoi genitori, specialmente suo padre, non sembravano delle persone meritevoli di subire altri torti o umiliazioni. Generalmente nessuno dovrebbe esserlo. “È stata lei” continuai “a raccontarmi di voi e di Emily”
“Aspetta un attimo giovanotto” prese la parola Doug “che significa che l’hai rimessa in carreggiata?”
Non avrei voluto dargli quella mazzata, già mio padre mi aveva consigliato di andarci piano, ma era meglio sentirlo da me che dalla bocca della propria figlia. Presi un attimo per radunare le parole e li vidi entrambi tendere verso di me anche con il corpo, sporgendosi dal divano in pelle su cui erano seduti. Lui le stringeva la mano, era quasi un piacere per gli occhi vederli così uniti.
“Lei … lei lavorava in un club per adulti … come entreneuse” tirai fuori tutto d’un fiato, senza guardarli e senza pensare. Ora, però, dovevo essere pronto alla raffica di domande che sicuramente mi avrebbero rivolto. Ed invece davanti a me avevo solo il silenzio di due mummie, imbalsamate e sconvolte, rotto soltanto dal singhiozzare di Lois, che per disperazione o per vergogna si era nascosta il viso con le mani. Suo marito l’abbracciò e lei proseguì il suo pianto sul petto di Doug, che aveva tutta l’aria di essere la sua roccia.
Avevo giurato a me stesso che non avrei avuto pietà con lei, che l’avrei fatta sentire uno schifo per come aveva trattato sua figlia, ed invece erano bastate solo due frasi per massacrarla.
“È colpa mia … è tutta colpa mia” pianse Lois, abbracciata a suo marito; ma lui non si mosse, non fece una piega: restò lì ad abbracciarla e a consolarla, a ricordarle che non era colpa sua e che si sarebbe aggiustato tutto e tutto sarebbe andato bene.
Fu allora che non ci vidi più: perché posso tollerare una madre straziata dal dolore, posso capire l’incredulità e lo shock, ma negare quanto accaduto … beh, mi dispiace, ma non lo accetto.
“Senta Doug!” dissi, alzandomi “io non so quanto sua moglie le ha raccontato di ciò che è accaduto mentre lei era in coma, ma so quello che mi ha raccontato Allison. E so cosa ha passato in questi anni. Quindi per favore: mi faccia il piacere di non dire che non è successo niente e che non è colpa di nessuno”
Doug sembrava impietrito; persino Lois aveva smesso di piangere ed entrambi mi guardavano come se avessero visto un fantasma, uno spirito che li ammoniva per le loro azioni.
“Io non sono un pervertito che va per locali di spogliarelliste … mi trovavo lì per caso ed ho incontrato vostra figlia. Era … beh, non penso che avreste voluto vederla la notte che ci siamo conosciuti. Una serie di circostanze hanno fatto sì che diventassimo amici ed lei mi ha permesso di aiutarla ed ora sono convinto che riuscireste a stento a riconoscerla per quanto è bella e buona e fantastica in tutto quello che fa. Ma se è vero quello che lei mi ha raccontato, ed ho piena fiducia in lei, beh dovreste smetterla di fingere e assumervi le vostre responsabilità!”
“Pensi che io stia fingendo?” trillò allora Lois, che se ne era stata in silenzio fino a quel momento, a riprendersi dalle lacrime “pensi che io non mi senta in colpa per aver trascurato mia figlia ed averla fatta finire in una cattiva strada. Se potessi tornare indietro le starei più vicina, non la lascerei mai andare via …”
“Lois” la zittì suo marito, prendendola per mano. “Tyler, io credo che tu abbia frainteso le mie parole” continuò, rivolgendosi a me “volevo dire che è inutile stare qui a incolparsi, perché quel che è fatto è fatto, non si può tornare indietro. Ora dobbiamo rimettere apposto le cose, per quanto possibile”
“Ma lei…” cercai di ribattere, ma lui me lo impedì. “Tyler io non ti conosco e non posso giudicarti … allo stesso modo tu non puoi giudicare noi. Quindi fammi il favore non dire altro. Noi ci conosciamo, sappiamo cosa è successo e quali sono le nostre responsabilità e non abbiamo bisogno di un estraneo che venga a farci una ramanzina già sentita”
Mi aveva appena tirato addosso una raffica di mitra, freddandomi sul colpo. Lui aveva ragione, perfettamente ragione; e pensai che tutti avremmo potuto imparare tanto da lui e dalla sua fierezza, nella quale riconoscevo tutta quella dignità che Allison portava sempre con sé. Abbassai il capo e, forse per la prima volta in vita mia, chiesi perdono. Perché questa volta me lo sarei detto da solo: sei solo un ragazzino Tyler!
Doug mi si avvicinò e, con dei leggeri pacchi sulla spalla, mi sorrise. “Vieni, dai” mi disse “andiamo a fare due passi …”











NOTE FINALI
Eccomi presente all'appello! Visto che ho pubblicato prima che un mese passasse...direi che merito un applauso. Scherzo naturalmente! L'applauso lo meritate voi che rimanete fedelissime...
Dunque...le cose procedono molto velocemente...però non so come giudicarle.
La semi-sfuriata di Tyler, la gentilezza del padre di Allison, e senza dimenticare la reazione di Lois, la madre. Sono cose che sinceramente spiazzano anche me ... che posso pianificare una storia, ma fino ad un certo punto.
Io non dico altro...aspetto che siate voi a commentare. Spero siate numerose come sempre


Grazie mille a tutte

à bientot

Federica

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Capitolo 23
*** Nobody's home ***


When you crash in the clouds - capitolo 22




















Capitolo 22
Nobody's home
Arrivammo in silenzio fino al parco giochi alla fine del lungo viale alberato. Cinquecento metri, forse meno. Faceva freddo e si cercavano gli ultimi barlumi di sole per riscaldarsi, come fanno le lucertole, e non c’era nessuno in giro. Né bimbi, né anziani. Avevo persino la sensazione, guardandomi intorno, di non essere nemmeno negli Stati Uniti … avevamo per caso cambiato nazione? Era il Canada per caso?
Doug sguinzagliò il cane, un beagle; ne aveva approfittato per portarlo a spasso e lo guardò mentre correva libero giù per la collinetta. “Non avevamo mai permesso alle bambine di avere un cane, per quanto si disperassero” disse, sorridendo amaramente ed evitando accuratamente il mio sguardo “Lois è sempre stata una maniaca dell’igiene e dell’ordine” spiegò. “Ed ora eccoci qua … ad occuparci di un cane come terapia antidepressiva”.
Non sapevo cosa dire: incolparlo non mi sembrava il caso, avrei infierito su un dolore che lui per primo aveva provato, probabilmente senza alcuna colpa; incolpare sua moglie me lo avrebbe messo di nuovo contro e difficilmente anche una persona ben disposta come lui fosse un tipo capace di perdonare per due volte.
Così rimasi sul generico, diplomatico e vago: “Sono certo che Allison lo adorerebbe …”
“Sa che sei qui?” mi chiese, senza tanti preamboli, sedendosi ad una delle panchine.
“Nì” risposi, abbozzando un sorriso. Il che corrispondeva alla realtà in fondo: “Non sa che sono venuto a casa vostra ma sa che sono qui ad Indianapolis”.
Mi accesi una sigaretta: era l’unica arma che avevo per rimanere calmo e concentrato. Mia sorella e mia madre combattevano ogni santo giorno per farmi smettere ed ogni sigaretta promettevo che era l’ultima, ma sapevamo tutti che non era così. Erano come un’oasi nel deserto per me, dopo giorni e giorni avanti e indietro tra le dune, innegabile come l’ultimo desiderio per un condannato a morte.
Ne offrii una anche al mio interlocutore, che mi ringraziò con un sorriso che aveva tutta l’aria di essere sincero, oltre che amichevole.
“È una delle tante cose che in casa non mi è mai stata concessa …”
A quel punto iniziai a chiedermi quale fosse la giornata tipo in quella famiglia, quando le cose andavano bene, con una donna come Lois a mandare avanti la baracca. Forse le fobie le erano venute dopo la disgrazia? Ma non mi risultava poi così difficile, a questo punto, capire i continui dissidi tra Allison e sua madre e la sua decisione di allontanarsi da lei il più possibile.
Ma non era quello il momento per lasciarsi sprofondare nei pensieri. Riordinai le idee e continuai dove mi ero fermato: “Allison sa che sono qui ad Indi” presi un bel respiro “perché è qui con me, Doug”
“Allison è qui con te?” domandò, cercando malamente di mantenere la calma, ma era chiaro come la luce del sole che dentro fremeva. Annuii. “È stata una sua idea venire qui” proseguii “voleva andare da sua sorella per il suo compleanno”
“Domani …” sussurrò Doug, probabilmente a sé stesso. Nel frattempo il beagle tornò dal suo padrone, portando tra le fauci un bastone, si mise a sedere ai nostri piedi, riposando beatamente e godendo delle carezze un po’ grossolane che quelle grandi mani gli dedicavano; eppure sembrava che gli recassero giovamento, a giudicare dal suo sguardo pienamente soddisfatto.
“Non aveva idea che lei fosse uscito dal coma” continuai “quando lo ha saputo ha insistito ulteriormente per venire. E così eccoci qui …”
“Le vuoi bene Tyler?” domanda con una risposta ovvia, ma non era certo quella che mi aspettavo di ricevere in quel momento. Mi prese in effetti del tutto in contropiede, ed era anche molto rischiosa. D’altronde, pensai, era proprio una domanda da padre. E forse quella che voleva era proprio una risposta da genero.
“Sì signore, molto” l’onesta era l’unica carta possibile. Avrei voluto aggiungere che a volte le volevo bene nel modo sbagliato, in un modo che lei non poteva accettare, ma erano considerazioni che per il momento era meglio tenere per sé.
“Si vede” commentò lui e non potei far a meno di notare che il suo tono di voce nascondeva una serie di messaggi, ben poco celati al dire il vero. Certamente aveva capito cosa c’era da parte mia, forse non immaginava che per sua figlia la faccenda era un tantino diversa e complicata, ma se questo fosse bastato per aiutarmi a tenerla vicina, non sarei stato certo io a negare una relazione che non c’era, ma che era l’unica cosa che desiderassi per me al mondo.
“Dov’è ora?” chiese. “In albergo. Dorme. Ha insistito per pagarsi da se tutte le spese del viaggio e quindi ci siamo dovuti accontentare di venire in autobus”
“Una sfacchinata insomma …” osservò, ridacchiando. “Ma lei ha ripreso a me in quanto a testardaggine. È sempre stata testarda e orgogliosa, fin da bambina …”
Lo vidi scurirsi in volto, perdere tutta la serenità che la notizia di una figlia tanto vicina gli aveva donato, in favore di un grigiore che sapeva di vecchio e passato, di una sfilza di ricordi troppo dolorosi per potersi sbiadire nonostante i lunghi anni ormai trascorsi.
“Tyler” esclamò, teso e risoluto “ho bisogno che tu mi dica tutto di lei …”
“Signore” lo frenai “non credo di essere la persona giusta per farlo. Sono venuto a prepararvi, ma questa è una cosa che può fare solo Allie. Non me lo chieda di nuovo …”
Assentì, mesto, ma io sentivo di non poterlo fare. Mi ero già spinto troppo oltre.
“Però mi sento di dirle una cosa Doug: io prima mi sono fermato … ma non creda che Allie vi risparmierà. Soprattutto sua moglie …”
“E non sarò io ad impedirglielo” rispose mentre, riagganciando il cane al guinzaglio, si preparava per fare marcia indietro e tornare verso casa “è giusto che lei dica quello che si è tenuta dentro per tutto questo tempo. Forse se lo avesse fatto allora tutto questo non sarebbe successo, ma d’altronde con i se e con i ma non si fa nulla, giusto?!”
Sorrise, di nuovo sereno, e, mentre appena arrivati sul marciapiede, si voltò verso di me e si fermò di nuovo. “Prima devi esserti fatto un’idea sbagliata di me … io non sono l’uomo pacato che sembra, ho anch’io i miei momenti. Non sai quanto è stato difficile i primi sei mesi dopo il coma, quando mi sono ritrovato da solo in casa, con una moglie profondamente segnata e cambiata, una figlia al cimitero e l’altra chissà dove”
In quel momento mi tornarono in mente come un flashback in bianco e nero i primi mesi dopo la morte di mio fratello; in fondo si tratta solo di un anno, ma sembrava ormai passato un secolo. Ricordavo com’era difficile accettare che non avrei più sentito la sua voce, che non avrei più ascoltato la sua musica, che non avrei visto più la sua risata. E poi vedevo mia madre piangere e mio padre che si allontanava sempre di più da noi. Capivo e condividevo facilmente le sensazioni di Doug.
“Ho litigato, strillato, bestemmiato, rinnegato contro mia moglie notte e giorno … ma non mi faceva sentire meglio e non cambiava le cose. Così mi sono rimboccato le maniche ed ho provato a salvare il salvabile, perché è mia moglie e la amo comunque … ed essere uniti ci ha aiutato anche nelle ricerche, ci ha portati fino a New York da tuo padre.”
“Le ho detto Doug” ripresi, mentre camminavamo verso casa “che non la giudicherò, però io trovo che sarà molto difficile per Allison dimenticare le parole dette da sua madre”. Era giusto che sapesse: “Lei è qui per sua sorella e per rivederla…ma ho come la sensazione che non voglia rivedere sua madre”. Doug annuì, rassegnato. 
“Penso che non sia il caso di far sapere a Lois che vostra figlia è qui, almeno per il momento. Forse … forse è meglio che vi incontriate voi per primi e poi magari si convincerà a vederla”
Conoscendola, aveva decisamente bisogno di fare le cose con calma, riprendere possesso di quella parte della sua vita a piccoli passi, in briciole anziché un sol boccone. Del resto, anche Mary Poppins lo diceva:  basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Appunto: prima lo zucchero e poi la medicina amara.
“Tu non puoi fare niente per convincerla, Tyler?
“Non credo” risposi “sta già facendo tanto … e poi, mi scusi, ma se fossi nei suoi panni io non vorrei rivederla. Ragion per cui non la forzerò a fare qualcosa in cui non credo”

“Quando credi che potrò vederla?” chiese. Non so se non approfondì il mio commento per evitare discussioni in mezzo ad una strada o perché si rendeva conto che effettivamente avevo ragione. Non volli indagare perché sentivo che, in fondo, anche per me era meglio così.

“Domani mattina andremo al cimitero …” gli dissi, mentre mi sbracciavo per far avvicinare un taxi che si era fermato di fronte ad una casa poco più avanti. “Però non si faccia illusioni … Allison non è più la bambina che ha lasciato casa sua anni fa”

“Lo immagino…purtroppo”. Si lasciò scappare quel commento, ma non gli diedi peso. Molte delle cose che si era lasciato sfuggire, molte delle osservazioni che forse aveva represso nel corso degli anni, mi ero ben curato di lasciarle al vento, senza intervenire. Era il minimo che potessi fare, non farlo sentire in colpa; lasciarlo sfogare senza che sentisse il peso di alcun giudizio su di sé.

Gli strinsi la mano, congedandomi con un sorriso impercettibile, ed entrai nell’auto che mi aspettava.

 

Non avevo considerato una cazzata quell’incontro pomeridiano con i signori Riley fin quando non mi ritrovai faccia a faccia con Allison. O meglio; nonostante fossi pienamente convinto ancora della mia innocenza e della mia buona fede, non riuscii a confidarlo ad Allison, temendo una delle sue solite reazioni spropositate. Lei non notò niente di strano e io feci in modo che lei non accorgesse di nulla.
Risultato: la cazzata da regolare stava diventando di dimensioni mastodontiche, il che complicava inevitabilmente i miei sforzi per tenerla nascosta.
Nel frattempo, ci si metteva anche una insolita tensione a complicare le cose; eravamo entrambi tesi come due corde di violino, io inconsciamente reo di un non meglio identificato crimine contro l’umanità e già sentivo la scure del mio giustiziere penzolare sulla mia testa, lei atterrita, in bilico su un precipizio con degli spietati inseguitori alle calcagna. Eravamo due cadaveri ambulanti insomma.
La cena nella tavola calda accanto alla pensione trascorse taciturna e nemmeno, per fortuna aggiungerei, quando venne fuori che nel pomeriggio ero stato in giro per la città, Allison sembrò interessarsi più di tanto. Ma io dico: perché ogni fottutissima volta che dobbiamo fare qualcosa, finiamo sempre per complicarci la vita con complessi e menate varie? Non sarebbe più facile lasciar scorrere gli eventi come vengono, cavalcando semplicemente l’onda del momento?
No … non saremmo noi d’altronde … due asociali complessati e depressi, perennemente insicuri, troppo presi a rimuginare su di sé da badare al mondo che intorno a loro continua la sua corsa. Avrei voluto volentieri alzare la testa e guardarmi attorno, anche solo per un attimo, ma avevo paura di scoprire un mondo troppo veloce per me, un mondo che non mi avrebbe permesso di raggiungerlo e mi avrebbe lasciato troppo indietro, da solo. E così me stava rintanato nella mia spelonca buia, in compagnia almeno dei miei pensieri.
Sebbene fossi sveglio da ormai da un indecente numero di ore, stanco dal viaggio e da una giornata ricca di altalene emotive, me ne stavo a pancia insù nella mia parte del letto, con le mani dietro la testa ed ad occhi sbarrati. Allison, dal canto suo, era altrettanto sveglia ed irrequieta. Indubbiamente aver dormito nel pomeriggio non l’aveva aiutata, ma ero sicuro che non fosse quello il vero problema; la radiosveglia sul comodino segnava le tre di notte: era da poco maggiorenne e tra poche ore sarebbe stata sulla tomba di sua sorella. In più, ma questo lei non poteva saperlo, avrebbe rivisto suo padre.
Mi chiesi se fosse il caso di dirglielo, ma ne convenni che spiegarle il mio gesto sarebbe stato una perdita di tempo, nel caso – le probabilità era vicine al 100% - non avesse gradito.
Dopo aver passato un’ora a rigirarsi tra quelle lenzuola ruvide, la vidi alzarsi. Al buio della stanza, con le sole luci dei neon che venivano dalla strada, la vidi prendere le sigarette e uscire sul balcone, in pigiama. Mi alzai a ruota, rivestendomi alla svelta.
“Copriti o ti prenderà un malanno” la rimproverai dolcemente, poggiandole sulle spalle il suo giaccone. Lei lo strinse meglio a sé, infilandolo, ma sorridendomi appena con la sigaretta tra le labbra.
“Sono andata in giro meno coperta di così quando faceva anche più freddo” disse, poggiandosi sulla ringhiera del balcone e portando via il suo sguardo “ e non mi sono mai ammalata”
Era diversa, negli ultimi giorni, era quasi cattiva. Era come se rimettersi addosso quel nome, Mallory, la stesse sporcando di nuovo. Ma io non volevo questo per lei.
“Si può sapere che ti prende?” le chiesi, infine.
“Forse venire qui non è stata una buona idea …” rispose, finalmente dando voce ai suoi pensieri.
“Vuoi andartene?” domandai. Sapere che non era sicura di sé mi dispiaceva, ma mi rassicurava sul nostro futuro.
“No … ormai ci siamo e non si torna indietro” disse, prendendo il posacenere sul piccolo tavolino del balcone e facendovi un po’ di cenere accumulata. Io nel frattempo mi andai a sedere su una delle due sedie che erano sul balcone, anche se mi accorsi ben presto che la mia idea non fu affatto saggia e mi ritrovai con il sedere ghiacciato. “Oltretutto” continuò “voglio davvero andare da mia sorella. Ma ho paura di vedere la mia famiglia … specialmente mio padre”
“Tuo padre?!” chiesi, interdetto. Questa era una cosa che non mi aspettavo: del resto quando le avevo dato la notizia della sua guarigione mi era sembrato, al contrario, un incentivo alla sua decisione di partire.
“Non sei costretta ad incontrarlo se vuoi” la rassicurai comunque, mentre mi accendevo anch’io una bionda, per scaldarmi “sei libera di fare quello che vuoi. Sei maggiorenne ora. A proposito … auguri!”
Mi alzai e l’abbracciai in vita, mentre era ancora di spalle, e nonostante l’imbottitura del piumino riuscii ad arrivare in quel punto del collo, appena dietro l’orecchio, dov’era più sensibile. Purtroppo non parve gradire e si divincolò immediatamente, appoggiandosi di schiena al balcone e guardandomi in faccia, severa: “Essere maggiorenni non significa essere liberi” esclamò, con una freddezza ed una malinconia devastanti e lo sguardo perso nel vuoto “essere maggiorenni significa che inizi a fare le cose perché devi”
Iniziai a preoccuparmi seriamente: l’avevo sempre ritenuta più grande della sua età, un’adulta intrappolata nel corpo di una piccola donna. Eppure sentivo che c’era qualcosa che andava oltre la sua incredibile maturità e quella sua saggezza a volte un po’ naive.
“Perché dici questo?” le dissi “nessuno può obbligarti a fare ciò che non vuoi. Non più”. C’era stato un tempo in cui questo per lei non valeva, ma d’ora in poi sarebbe dovuto essere solo un brutto ricordo, un cattivo esempio da tenere come monito.
“Sai che puoi e devi dirmi tutto” la spronai. Come potevo aiutarla, d’altra parte, se si teneva tutto dentro?!
“Di sicuro mi prenderai per stupida …” disse, ma io negai, scuotendo vigorosamente la testa. Come poteva solo pensare, ancora, dopo tutto quello che avevamo vissuto insieme, che potessi prenderla per stupida? Non c’era niente in lei che non andasse, niente che fosse stupido e valesse una battuta di scherno. “Ho paura che rivedendo mio padre io mi senta in dovere di restare qui … ed io non voglio. Non voglio neanche rivedere mia madre” aggiunse “ma so che lui finirebbe per convincermi a farlo”
“Lui non lo farebbe mai” mi lasciai sfuggire “non ti forzerebbe mai a fare qualcosa che non vuoi”.
“Tu non capisci” replicò “io non sono mai stata capace di dirgli di no!”
Forse allora era più corretto dire che più che di suo padre, era di sé stessa che aveva timore, e della sua capacità di non saper mantenere controllo e autorità sulla situazione. Io le sarei stato vicino, innegabilmente, anche perché si trattava di riportarla a casa con me, e se ieri vedevo la situazione buia e nera, ora c’era una luce bianca e sfavillante alla fine del tunnel ed avrei fatto di tutto per raggiungerla insieme a lei. Anche se, indubbiamente, la sua parola contava più della mia e se alla fine lei avesse scelto di rimanere ad Indianapolis, non mi sarei opposto e non avrei dato in alcun modo a vedere il mio dispiacere.
“Certo tocca a te essere forte. Ma io credo che tuo padre capirà che non sei più quella di una volta … e non farà o dirà nulla che possa ferirti” stavo giocando troppo con le parole e con il fuoco, a dosarle male avrei potuto finire bruciato.
“No … tu non lo conosci!” obiettò “Non è un prepotente ma sa come usare le parole”.
“Credimi Allie … posso assicurarti che non è così” ribadii “ci tiene troppo a te per pensare di condurre il gioco”
Sapevo che mi ero gettato troppo oltre; lo vidi nella sua espressione, che da abbattuta passo ad essere dubbiosa ed esitante. Avevo istillato sospetto in lei ed ero sicuro che mi avrebbe fatto sputare il rospo e sarebbero stati guai, guai seri. Si stava preparando una battaglia e si prevedevano molte vittime.
“Che cosa significa Tyler?” domandò. La vidi prendere un grosso respiro, preludio ad una sfuriata con i controfiocchi, mentre spegneva la cicca nel posacenere. Io la seguii a ruota, entrando di nuovo in camera e chiudendo la finestra, gettandomi finalmente alle spalle il freddo e l’umidità di quella notte.
“Ti prego Tyler” mi supplicò, portandosi le mani ai capelli dopo essersi levata a giubba “dimmi che non c’hai parlato davvero? Dimmi che me lo sono solo immaginata!”
Avrei voluto dirle che era proprio così, che era solo frutto delle sue paure se quelle strane idee le venivano in mente. Ma non potevo, anche perché di lì a poche ore ci saremmo visti e i nodi sarebbero venuti al pettine. Così la guardai e il mio solo sguardo avvilito bastò a farla capire … e ad esplodere.
“Come …” urlò, insensibile alla norma secondo cui nella struttura era assolutamente vietato ed impensabile un tale schiamazzo nel cuore della notte. Poi si frenò e si rese conto che forse era il caso di dare una regolata ai decibel ed inizio a sproloquiare sottovoce: “Come cazzo ti è venuta in mente una stronzata simile???” Se la situazione non fosse stata grave sarei di certo scoppiato a riderle in faccia: era troppo comica quando si incazzava.
“Io non lo so dove le vai a pescare queste tue brillanti idee … cos’è, Aidan ti ha regalato il manuale del coglione perfetto a Natale?” continuò “perché è incredibile … solo tu riesci a tirare fuori dal cilindro nel momento più inopportuno la cazzata perfetta!”
“Ma io … io …” cercai di replicare, ma davanti a me avevo un essere non meglio identificato di un colore che oscillava tra il cremisi e il blu cianotico. Lei che ogni volta che parlava mi terrorizzava, proprio lei aveva paura di affrontare un pezzo di pane come suo padre. “Ma io cosa?!” rimbrottò “sentiamo che altro hai da dire?”
“Io pensavo …” così non ce l’avrei mai fatta. Mi armai di tutto il coraggio che avevo e di quel poco testosterone che mi era rimasto e li usai per tenerle testa: “Io pensavo che avessi bisogno di una mano … qualcuno che andasse a spianarti la strada e a preparare i tuoi genitori”
“Io non ho parole” commentò lei, platealmente basita, andandosi a sedere ai piedi del letto “cioè tu hai fatto proprio l’ultima cosa che avresti dovuto fare!!!”
La vidi cercare di respirare a pieni polmoni, per incamerare aria e calmarsi. Mi sembrava proprio uno di quei tori scalpitanti delle corride, furiosi e insofferenti, che hanno voglia di far fuori una volta per tutte i loro carnefici. Mancava solo che il fumo le uscisse dalle narici.
“Sappiamo tutti e due che era una cosa che volevi anche tu” le dissi, gettandomi ai piedi del letto, di fronte a lei. Cercai anche di prendere le sue mani tra le mie, ma invano. “Tu non c’eri riuscita, così mi sono fatto avanti io”
“Ma nessuno te l’ha chiesto!” mi rimproverò, alzandosi in piedi, furibonda. “Questa è una faccenda che non ti riguarda … si tratta di me e della mia famiglia” spiegò, sforzandosi di mantenere la calma “non ho bisogno di nessuno che mi faccia da ambasciatore. Io mi basto per combinare casini. Non ho bisogno che tu ne aggiunga altri … non ho bisogno di te”
Quell’ultima frase mi gelò come nessun’altra mai pronunciata da lei aveva saputo fare. Ci eravamo già presi a parolacce prima d’ora, ma quel linguaggio era parte di lei come parte di me, non ci scalfiva né feriva. Ma questa volta era ben diverso: mi sentivo offeso, per tutte le volte che mi ero fatto avanti per lei, e rinnegato, per ogni volta che era stata lei a chiedermi il suo aiuto. Cosa era rimasto di quel aiuto reciproco che ci eravamo promessi … cos’era rimasto di quell’amicizia un po’ speciale che spesso a volte andava anche un po’ oltre? Datemi la macchina del tempo: vorrei tornare alla notte di Capodanno, vorrei essermi fatto i fatti miei, vorrei non averle detto nulla, vorrei non aver saputo nulla di suo padre, vorrei non averle mai fatto incontrare il mio. Se fosse possibile resettare tutto, sarei la persona più felice del mondo.

Ok perfetto” esclamai, sarcastico e distaccato “grazie a Dio non hai bisogno di me … vedi, basta che me lo fai sapere. Così la prossima volta che hai bisogno di sfamare la micetta è meglio che ti trovi qualcun altro” Voleva merda? E merda le avrei dato. Perché questa volta mi aveva fatto male ed era giusto che sapesse quanto come mi sentissi. Ero stato straordinariamente volgare, ma dentro mi sentivo come una terra arida ed incenerita dopo un incendio, con ancora qualche focolaio tra le sterpaglie carbonizzate.
Andò verso l’armadio e prese una coperta ed un cuscino di scorta. “Sai che non era quello che volevo dire” tentò di riparare al danno, disastrosamente, gettandomi quella biancheria addosso e rivelando in quel momento tutta la fragilità che aveva dentro. Ma non mi inteneriva, non in quel momento. “… e ora scusa” proseguì, indicandomi con gli occhi il tappeto sul pavimento sul quale, apparentemente, avrei dovuto trascorrere la notte “sono stanchissima, ne parliamo domani”.
La vidi sparire sotto le coltri del letto matrimoniale, ora troppo grande e freddo per dormirci da soli. E così rimasi con un palmo di naso, ferito e umiliato da una ragazzina maleducata e pure ingrata. Le sue parole mi riecheggiarono nella mente: non ho bisogno di te … ne parliamo domani. Ma era già domani …
“No” dichiarai, nel buio pesto della stanza appena tornata all’oscurità “ma non mi metto il cuore in pace finché non mi dici cosa c’è tra noi”
La vidi riemergere dalle lenzuola profondamente sconvolta. Evidentemente non si aspettava una reazione del genere. Onestamente, da me stesso, non me l’aspettavo nemmeno io.
“E questo cosa significa? Che … che cosa c’entra?” domandò lei, mentre si avvicinava a me.
“C’entra … perché se tra noi ci fosse qualcosa mi porteresti lo stesso rispetto che io porto a te. Te ne fregherebbe un po’ più di me … anziché trattarmi come se fossi il tuo schiavetto, da usare solo quando ti fa comodo!”
Eravamo arrivati al bivio dove non avrei mai voluto trovarmi, ma era il momento di affrontare la realtà. Le sarei sempre stato d’appoggio, magari nell’ombra, ma bisognava giocare quella partita ad armi pari. Dovevo poter smettere di vivere nell’illusione di un rapporto perfetto che era solo un’utopia, un sogno da cui dovevo risvegliarmi. Ora o mai più.
“Non c’è niente tra noi” affermò lei, evitando però accuratamente il mio sguardo “siamo solo … ami” “No!” proruppi “non mi prendere per il culo con la storia dell’amicizia …”. La ritenevo troppo intelligente per rifilarmi una stronzata del genere … o semplicemente ero troppo codardo io per ammettere che avevo perso. Non volevo credere alle mie orecchie, non volevo arrendermi a quella sconfitta.
“Non è così che si comportano due amici” ribadii, puntandole un dito contro “due amici non vanno mano nella mano per strada, non si baciano sulla bocca ma soprattutto due amici non fanno l'amore come l'abbiamo fatto io e te. Perché quello era amore Allison ... non sesso. Amici … amici un paio di palle!”
Mi guardò demoralizzata, come se non fosse sua la colpa della mia sfuriata, come se lei non potesse fare nulla per risolvere quella situazione. Evidentemente non ci credeva nemmeno lei a quello che aveva detto, perché se davvero non ci fosse stato niente tra noi, non saremmo finiti a letto insieme una, due, tre volte.
“Lo sai che mi piaci” confessò “il punto è che non posso avere una relazione seria!” “Piantala” sbottai di nuovo “non sei l’unica ad avere voce in capitolo! Esisto anch’io … ed io dico che siamo una coppia porca puttana!”
Presi il mio giaccone e le mie scarpe e me le rinfilai, facendo fatica ad allacciarmi i lacci per via del tremore che la rabbia mi aveva scatenato. Sentivo la sua voce che mi richiamava in lontananza, come ovattata. Forse mi stava chiedendo dove volessi andare, cosa volessi fare o forse mi stava pregando di non andarmene. Ma non volli curarmi più di lei che a lavare la testa all’asino si spreca solo il sapone. Presi il mio borsone e lo zaino, che non avevo avuto voglia di disfare, fregandomene di ciò che avevo lasciato e chiudendomi la porta alle spalle. Passai per la reception, scusandomi per gli eventuali rumori e saldando il conto per i tre pernottamenti che avevamo prenotato.
Quando il taxi arrivò mi feci condurre all’aeroporto: non avrei sopportato un altro calvario come quello dell’andata e oltretutto il mio biglietto era nella valigia di Allison. Non sapevo quanto avrei dovuto aspettare per un volo per New York, ma non mi importava. Non avrei resistito un minuto di più in quella città, insieme a quella ragazza.
Continuavo a provare per lei quell’amore che avevo sentito sin dall’inizio, perché altrimenti non avrei perso tempo ad arrabbiarmi così tanto, ma ora volevo solo mettere 700 miglia tra noi. Fui felice di scoprire che Allison non venne a cercarmi, né alla reception, né all’aeroporto, e quando mi dissero che avrei dovuto aspettare fino alle 6 per un volo con posti disponibili in Economy, non mi preoccupai molto di addormentarmi su una panchina di metallo. Avevo smesso di combattere per lei; aveva ragione, quella era la sua battaglia ora e non era certo di uno scudiero che aveva bisogno.

















NOTE FINALI

Mi dispiace portarvi un capitolo tanto triste proprio alla vigilia dell'anno nuovo.
Piange il cuore anche a me.

Sembra la fine...ma dietro una fine si nasconde sempre un inizio.

È solo l'attesa a renderci nervosi.
Vi dico solo una cosa...abbiate pazienza.

Grazie mille e spero che le recensioni aumenteranno ora che siete in vacanza

à bientot





Federica

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Capitolo 24
*** Lonely Lone ***


When you crash in the clouds - capitolo 23




Capitolo 23

Lonely lone
















soundtrack

Non serviva a molto pensarti se poi voltandomi non c’eri.
A cosa serve l’immaginazione se poi non c’è la realtà a completarla?

 

Lonely spell to conjure you, but conjure hell is all I do

 
Così me ne stavo ferma, raggomitolata nel mio angolo di letto, freddo e vuoto, cercando di guadagnare del calore che non sarebbe arrivato mai. Me stavo con gli occhi sbarrati, perché a chiuderli l’unica immagine che si formava era il ricordo di quella litigata in piena notte, scellerata e stupida, come stupide erano state le mie parole.
Sempre meglio che starsene a piangere e a compatirsi addossati ad una parete o alla porta, cosa che avevo già abbondantemente fatto non appena lui aveva lasciato la stanza. Incapace di corrergli dietro, me ne stavo pietrificata, messa al tappeto dalla mia stessa idiozia; continuavo a ripetere a me stessa quanto fossi stata stupida e, tiritera della mia breve esistenza, cogliona e stronza. Perché ce ne voleva di cattiveria per dire quelle parole ad un ragazzo come Tyler: era facile dire che aveva un cuore d’oro, ma lui andava ben oltre l’immagine di bravo ragazzo. Era un angelo, un essere soprannaturale che aveva avuto la pazienza di curarsi di me, di starmi vicino, di aiutarmi. Mi ha vista quando ero invisibile, mi ha ascoltata quando ero muta, ha continuato a parlarmi persino quando ero sorda. E l’unico ringraziamento che ero stata in grado di dargli era uno schiaffo morale, uno sputo sporco sulla sua anima pulita.
Non ho bisogno di te, gli avevo detto, non ho bisogno di te. Bugiarda, testarda e stupida. Perché non solo sentivo di aver bisogno di lui come l’aria nei polmoni, ma ero stata ulteriormente egoista nel sentirmi l’unica protagonista di quella cosa bellissima che stavamo portando avanti, qualunque cosa fosse.
Ed ora mi ritrovavo in una città piena di ricordi dolorosi, a dover affrontare un passato scomodo: ed ero da sola. Per la prima volta nella mia vita sentivo di aver davvero paura del buio. 

No sweetheart in the dark to call my own

 
E non c’erano più le braccia dove andarsi a rifugiare, le mani lunghe che asciugavano le mie lacrime erano andate via. E mi mancavano da morire: era come non poter respirare ad alta quota, era come l’arsura nel bel mezzo del deserto. Ma io non avevo bisogno di lui … vai a raccontarlo a chi ancora ti crede Allison!
Immobile ed infreddolita me ne stavo sotto le lenzuola che, sarà stata la scarsa qualità del tessuto o la quantità enorme dei miei rimorsi, sembravano cosparse di spine e non la smettevano di pungere ad ogni singolo movimento. Mi sembrava di essere confinata di nuovo in quel mio stanzone 4x4, sporco e maleodorante, costretta a vedermela da sola con il resto del mondo. Come si stava male da soli.
Perché … perché la razza umana è così pateticamente ottusa da accorgersi del valore delle cose che ha solo quando le perde? Perché dobbiamo arrivare alle conclusioni più ovvie quando ormai è troppo tardi? Non ci basta vivere in un purgatorio … non siamo contenti se la vita non è un inferno in Terra.
O almeno questo valeva per me, la viziata, spocchiosa, egocentrica Allison, pronta a restare sola nel suo guscio, piuttosto che rischiare di imboccare la via stretta e tortuosa per avere una migliore compagnia.
La notte scivolava via, insonne e silenziosa, interrotta solamente dai singhiozzi di un pianto solitario e muto. I muscoli non si erano tesi nello sforzo di raggiungerlo e fermarlo, le corde vocali non si erano sgolate per fargli cambiare idea e così mi ritrovavo a fissare sul comodino lo schermo di un vecchio orologio digitale che lampeggiava ad intermittenza, troppo lento perché il tempo potesse scorrere correttamente, e un telefono muto come tutto quello che lo circondava. Non avrebbe chiamato, chi volevo prendere in giro? Dopo quello che gli avevo detto era già troppo che non mi aveva presa a calci.
Lui non avrebbe cambiato idea, era troppo arrabbiato e troppo deciso per farlo, e le mie braccia al contempo sembravano atrofizzate per prendere il cellulare in mano e comporre il suo numero. Paura marcia di un addio a cui non c’era rimedio e che mi ero meritata.
Tyler aveva diritto di pretendere da me risposte a domande che sicuramente erano rimaste zitte e irrisolte per settimane, pur non avendo potuto scegliere un momento peggiore per rivolgermele. Se solo avesse aspettato che tutto quel trambusto fosse passato, se solo mi avesse dato un paio di settimane per ambientarmi con le novità … forse la mia risposta sarebbe stata meno sgarbata, e certamente sarebbe stata diversa.
Non un sì a testa alta e senza esitazione, ma un nì possibilista. Perché Tyler è speciale e vale la pena provare. Per lui … per me.
Avrei impegnato tutta me stessa per tentare ciò che per lui, per mia evidente colpa, era già una realtà; mi sarei impegnata anima e corpo affinché lui non soffrisse. A me poco importava: un cuore più spezzato, non era possibile averlo. Ma lui, per tutto quello che aveva fatto per me, meritava di certo qualcosa di più di un paio di gambe aperte ed un corpo arrendevole.
Non ero la persona giusta per lui, col mio carico di guai non avrei fatto altro che rovinargli la vita, ma di me gli interessava solo il cuore e non stava a me negarglielo.
Ero sola e per la prima volta avevo paura del buio: paura di affrontare da sola ciò che mi si parava davanti, paura di scegliere, paura di usare il cuore al posto della ragione.
Come si poteva dormire o anche solo riposare, se il rumore degli ingranaggi del mio cervello produceva un rumore infernale? Il suo era un lavoro straordinario a cui negli ultimi tempi era abituato, ma che tuttavia stava mostrando i suoi effetti negativi, sfiancando l’intero sistema. L’allarme era stato lanciato, le sirene spiegate, la spia rossa era accesa: esplosione imminente. Io non avrei saputo dove rifugiarmi e non c’era nessuno, stavolta, pronto a soccorrermi, nessuno di cui potessi fidarmi completamente almeno.
Mi accorsi le notte non era ormai così buia e avendo ormai scaricato l’Ipod a furia di ascoltare ininterrottamente la stessa canzone, l’unica che potesse descrivere al meglio le mie sensazioni, optai per una doccia lunga e bollente, per distendere i nervi e prepararsi a quella lunga giornata.

 

sountrack2

Presi un lungo respiro e raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo quando l’autobus urbano mi lasciò a pochi passi dall’ingresso del cimitero. Per essere inverno era una bella giornata e non era nemmeno tanto freddo, era per giunta piacevole starsene fermi al sole. Ma io non la smettevo di tremare: strinsi meglio il giubbotto, benché sapessi che la temperatura non aveva niente a che fare con i miei brividi. Fin da piccola odiavo l’idea di dover mettere piede nei cimiteri e con gli anni la fobia non mi era di certo passata. Ma questa volta avrei dovuto mettere da parte soggezione e orrore per un posto tanto funereo e considerare quella passeggiata all’aria aperta come una visita che si fa a casa di un parente. E non di uno qualunque, ma di mia sorella.
Quella distesa quasi infinita di pietre tombali, poggiate sul manto erboso verde e ben curato mi metteva una tristezza ed una malinconia infinita. Man mano che procedevo verso la mia meta, e nonostante fossero ormai trascorsi un bel po’ d’anni dall’ultima volta che ero entrata in quel posto, scoprii di aver mantenuto una certa familiarità con quelle tombe. Conoscevo i nomi di coloro che si succedevano e, nonostante non ci fossero foto, di alcuni di loro ricordavo bene i volti dall’infanzia o fui sorpresa di ritrovarli lì e non dove li avevo lasciati, alle loro scrivanie o nei loro salotti. Di alcuni ricordavo persino buffe storie, tra il comico ed il macabro, che ascoltavo dai miei genitori ogni volta che si passava in mezzo a quelle lapidi. Finché non la vidi. Era piccola e semplice, di un marmo bianco e puro, proprio come lei.

Emily Mallory Riley, beloved daughter and sister.

“Ciao piccola” sussurrai e mi ritrovai ad inginocchiarmi di fronte alla sua tomba, esattamente come avevo fatto prima di partire. Accanto alla stele con il suo nome e le date c’era una cornice in argento, ossidata dalle intemperie e dal tempo che passa, anche in un posto come quello. Ricordo di aver scelto personalmente quella fotografia, non solo perché era bellissima ma perché in quella piccola bocca aperta in una risata sfavillante c’era tutta la mia Emmy, tutta la sua dolcezza, tutta la sua vivacità, tutto il suo amore per un’infanzia serena e la gioia di una famiglia quasi perfetta. L’avevo scelta perché potessi dimenticare il suo volto diafano e tumefatto dentro la bara bianca, perché potessi evitare di ricordare quella odiosa frase che gli anziani dicono di fronte ad un cadavere: “pare dormire”.
Posai sul prato una rosa bianca ed un coniglietto di peluche, regalo di Caroline.
“Questo te lo manda una mia amica, Caroline” le dissi, come se sperassi che potesse sentirmi “lei avrebbe … no, tu avresti la sua età se non …”
Ma non riuscii a proseguire, i lampi di ricordi di quella afosa notte d’estate facevano ancora male, nonostante tutta l’acqua fangosa che era passata sotto i ponti.
“Le voglio bene” dissi “anche lei ha perso un fratello, anche se era parecchio più grande di lei e poi … e poi c’è Tyler, l’altro fratello. Era venuto qui con me per farti visita, sai? Ma io mi sono comportata come una stupida e lui è andato via …”
Prima di partire ero stata diverse volte di fronte alla tomba di Emily, ma quella era la prima volta che le parlavo, come se lei potesse sentirmi e per giunta rispondermi. Di solito me ne stavo zitta, in piedi, di fronte a quella pietra bianca, e anche nella mia mente era silenzio. Sentivo solo il fruscio degli alberi lontani se c’era vento o il rumore delle auto provenire dalla strada più vicina.
Ma stavolta era tutto diverso: sentivo il bisogno che qualcuno mi ascoltasse, avevo bisogno di parlare apertamente con qualcuno, senza giudizio, senza freni, senza censure. Facile farlo con chi non può più rispondere … eppure non mi sentivo così, era come se lei fosse lì con me, come mai era accaduto prima.
“Avrei voluto che lo conoscessi anche tu” ripresi “ti sarebbe piaciuto e sareste andati subito d’accordo, ne sono sicura!”
La mia mente corse per l’ennesima volta a Tyler e pensai a tutte quelle volte in cui l’avevo visto assorto e letteralmente immerso nella suo taccuino, mentre scriveva a suo fratello. Iniziavo a comprendere il sollievo che si sentiva ad avere quel genere di contatto.
“Sono in un bel pasticcio sorellina” le confessai “adesso abito a New York con una famiglia meravigliosa, tutti mi vogliono bene e Tyler … beh Tyler è il ragazzo perfetto però ha detto che mi ama”

Come però?
Sembravano chiedermi i suoi occhietti vispi dalla fotografia. “Il problema è che non so cosa voglio io … io, io gli voglio bene, mi piace da morire, mi tratta come se fossi l’unica cosa di cui avesse bisogno, però non me lo merito io uno come lui …”Era la prima volta che sentivo uscire la verità non solo dalle labbra ma anche dalla mia testa. Un groviglio di ma, se e però, di congetture e dubbi, si erano avvolti e ingarbugliati attorno all’unica chiave del problema. Presa la chiave, mancava la toppa corrispondente, dove infilarla per aprire la serratura.“Io non sono stata una brava persona negli ultimi anni … me ne sono andata da casa ed oggi è la prima volta in 3 anni che rimetto piede ad Indianapolis. Oggi è il mio compleanno, Em. Ti ricordi i nostri compleanni? La torta al cioccolato di mamma e i barbecue di papà … non è rimasto più niente.”
Mi mancavano quei giorni; tuttavia non potevo negare che i giorni meno belli e più difficili erano stati necessari: senza di loro non sarei diventata la Allison che si è lasciata alle spalle lo squallore della sua vita malfamata, non avrei conosciuto persone speciali come Diane e Les, non avrei mai riso con Hayden e non avrei mai potuto conoscere quanto amore si può ricevere da persone come Tyler. Lui mi amava e, a modo mio, ero sicura di ricambiare quell’amore. Forse non era perfettamente inquadrato, non vedevo il mondo colorato di rosa confetto e non era zucchero filato l’unico odore che il mio olfatto percepiva: ma anche il mio era amore; ma noi, del resto, non eravamo Barbie e Ken. Anche quel noi, ormai, non suonava più come il rullo finale dei tamburi sul patibolo, un attimo prima dell’esecuzione capitale.Non meritavo tanta fortuna tutta insieme, neanche come risarcimento per gli orrori visti e vissuti, ma per una volta forse era il caso di non curarsi di cosa fosse giusto, ma piuttosto di cosa avessi più bisogno io. L’unico rimpianto era averlo capito troppo tardi.
“Dici che è troppo tardi?” domandai a mia sorella, ma invece di cercare oracoli, la mia attenzione si spostò sull’ombra che d’improvviso avvolse la lapide di Emily e me. Mi voltai e, ritrovandomi in piedi prima che potessi anche aver pensato di alzarmi da terra, rimasi di sasso. Una lacrima rigò una mia guancia, lentamente, fino a gocciolare sulla linea della mascella.

Ricordare come lo avevo lasciato e vederlo di nuovo fu un sollievo ed un dolore devastante che contemporaneamente si alternavano nel mio animo. La consapevolezza degli anni persi, il rimorso che con il sennò di poi mi rinfacciava di non aver resistito un altro po’, invece che scappare via come un coniglio impaurito.

E la gioia di vederlo in piedi, perfettamente in salute, grande e in forze come lo ricordavo dai giorni migliori: la mia roccia, mio padre.
Eppure non riuscivo a muovere un muscolo per avvicinarmi o lasciare che lui si avvicinasse a me. Era troppa la paura che fosse un sogno, troppo il timore di essere delusa anche da lui.
“Ciao Allison” disse, e riascoltare quella voce dopo mesi e mesi di silenzio mi fece sentire fragile come una bambolina di porcellana. Era bello sentire una voce familiare, ancora più sentire una voce che credevi persa per sempre e di un avevi il terrore di perdere il ricordo.
“Papà” soffiai, rapidamente, mentre l’emozione di poter pronunciare ancora quella parola mi rapiva il respiro.
Ero felice, davvero felice, come quando ricevetti il regalo di Natale di Tyler, come quando andammo a pattinare, come quando la mia Emily ed io facevamo la battaglia dei cuscini. Era una di quelle gioie semplici eppure non quantificabili, che nascono dentro senza apparente motivo.

Eppure dovevo andarci con i piedi di piombo, perché ero stata via per parecchio tempo e non ero l’unica ad essere cambiata.

“Sei venuta a trovare Emily proprio oggi … ne sono 18 vero?” chiese, sommesso e sicuramente preoccupato anche lui di usare la parola sbagliata. Eravamo troppo simili per non capirlo e certe cose non cambiano.

Annui e lo lasciai proseguire; avevo bisogno di starmene zitta a metabolizzare ma contemporaneamente volevo prendere quanto più potevo di quella voce e riempire i cassetti della mia memoria.

“Ti va … ti va se andiamo a prendere qualcosa in centro … c’è ancora il tuo negozio di torte preferito, sai? Solo … solo io e te … sempre se ti va” ribadì e per quanto mi era servito per ritrovare me stessa, sentivo che quel contatto con mia sorella era sufficiente. Che lui fosse arrivato proprio in quel momento, proprio mentre dalla mia bocca usciva la frase dici che è troppo tardi sembrò il modo che aveva mia sorella per dirmi che il mio posto era tra i vivi e che era ora di andare. 

“Sì … sì mi va” risposi e ci incamminammo insieme verso l’uscita.

Avevo mille cose da chiedergli, da confessargli e più di ogni altra cosa sentivo una voglia matta di attaccarmi al suo collo e non lasciarlo più, di recuperare ogni secondo perso di coccole padre/figlia. Ma non riuscivo a muovermi e le corde vocali sembravano non essere in grado di emettere alcun
suono.
“Credevo … credevo di non trovarti da sola” disse mio padre, che mi precedeva di pochi passi, voltandosi ed aspettando che lo raggiungessi “so che gli avevo promesso di non dirti nulla, ma è stato il tuo amico, Tyler, a dirmi che ti avrei trovata qui … non te la prendere con lui”
“E chi ti dice che me la prenderei con lui?” chiesi,  diretta e immediata, anche vagamente ironica, come avrei fatto quotidianamente con lui.

“Allison!” mi riprese mio padre, con un’espressione che la diceva lunga “come se non ti conoscessi!?”

Purtroppo fu costretto a mangiarsi la lingua da solo e a frenarsi perché di rese conto da sé di quanto poco veritiera fosse quella affermazione. Non poteva più dire di conoscermi, perché quella che aveva davanti non era la Allison che lui era andato a prendere alla festa di Steve Johnson anni prima, poco prima che la nostra auto si schiantasse. Anche se, in quel caso, ci aveva preso, perché era proprio la sua conversazione con Tyler che mi aveva fatto scattare nella notte.

“Lui … lui non è più qui. È ripartito per New York questa notte. E comunque mi aveva detto del vostro incontro …”

“Spero che non sia stata quella la ragione per cui è ripartito … lui lo ha fatto solo per il nostro bene, Allison. Anzi, per il tuo bene” spiegò. Ma io, stizzita, lo interruppi: “Dobbiamo parlare di Tyler papà?!” domandai. Non volevo essere dura, ma non ci vedevamo da due anni e mezzo e lui pensava ad un estraneo.

“No … hai ragione” ne convenne. Si lasciò andare ad un sorriso lieve, mentre mi avvicinavo e lui sembrava preso dai suoi pensieri. “Sai” mi confessò “è bello sentirsi chiamare di nuovo papà …”

Non riuscii a resistere oltre; come avrei potuto del resto?! Corsi verso di lui e lo abbracciai, nascondendo il volto e le lacrime nel suo petto: bastò veramente un istante per ritrovare quell’intimità perduta, il profumo di casa dei suoi abiti e l’odore forte di dopobarba, sempre lo stesso.
Per quanto mi sforzarsi, più sentivo le sue grandi mani accarezzarmi vigorosamente la schiena e le sue larghe braccia stringermi a sé, più i singulti aumentavano ed il pianto sembrava diventato inconsolabile. La scoperta di non essere più soli, la consapevolezza che mio padre era davvero ancora vivo ed era lì con me mi dava una felicità ed un entusiasmo che non erano quantificabili; più sentivo che lui c’era ed era con me, più l’emozione cresceva e le lacrime uscivano fuori. Lui stava lì, a stringermi come faceva quando avevo degli incubi da piccola, aspettando che mi passasse. Era bellissimo essere amati senza remore, senza se e senza ma.
“È … è bello poterti chiamare ancora papà” affermai, ancora singhiozzante, quando lo tsunami di emozioni che mi aveva travolta iniziò a ritirarsi e a darmi fiato. “Shh … shh piccola mia” mormorò mio padre, senza sciogliere l’abbraccio tra noi “è tutto finito bambina mia … papà è qui con te”
Forse non si era reso perfettamente conto che non ero più l’adolescente sola e ribelle che era perennemente in conflitto con sua madre e con un grande desiderio di libertà. Ora ero una donna, forse non completamente fatta e finita, ma certo non erano più le coccole di un padre ad interessarmi. Avrebbe dovuto presto fare i conti con un’altra realtà: avrebbe dovuto condividere le mie attenzioni con altre persone. Eppure, anche a me, per qualche minuto, aveva fatto piacere ritornare con le lancette a qualche anno prima, quando tutto era al suo posto e quando New York era solo una grande metropoli lontana e che non aveva nulla da offrire se non i migliori musical e forse la migliore scuola di danza al mondo.

Il viaggio per tornare in centro fu impacciato e quasi imbarazzante: quando hai tante cose da dirti, infatti, o si parla troppo o non si parla per niente. Noi optammo per il mutismo.

“Ti sei fatta proprio grande” si lasciò sfuggire mio padre, titubante e non del tutto sicuro che fosse la migliore cosa da dire in quel momento “però dovresti mangiare un po’ di più … sei così magra”. Mi diede un pizzicotto sul braccio, libero dall’imbottitura del giaccone, che avevo levato quando lui aveva acceso il riscaldamento.
Parenti … non cambiano mai: le uniche cose di cui sanno parlare o sono i ragazzi, o sono i chili in più o in meno che ti vedono addosso.
“Ero molto più magra di così fino a qualche mese fa, papà, credimi” ammisi “durante le feste di Natale mi hanno ingozzata come un tacchino … sono sicura di aver preso come minimo tre chili!”

E come se non fossero bastati, mio padre mi condusse nel mio negozio di torte preferito, il migliore della città. Mi ci portava sempre a fine anno scolastico e ci andavamo sempre a prendere la torta per il compleanno della mamma, quando era categorico che lei non passasse la giornata sui fornelli, neanche per fare un dolce.

“Ma è meraviglioso” esclamai, mandando giù la mia torta preferita, impasto al cioccolato e crema di nocciole e mascarpone, il tutto ricoperto di panna “è proprio come allora …”
“Beh … in fondo due anni passano in fretta e non sono poi così tanti …” osservò mio padre “anche se a me sono sembrati un’eternità”. Lo vidi rabbuiarsi mentre, beveva un sorso di latte dal suo bicchiere.
"Lo so … vale anche per me” confermai “ma ora siamo qui”. Presi la sua mano e la strinsi, sorridendogli quando alzò lo sguardo verso di me: non volevo che pensasse che sarei rimasta con lui ad Indianapolis per sempre, ma ora che ci eravamo ritrovati non avevo intenzione di perderlo di vista di nuovo per troppo tempo, anche se far ripartire tutti gli ingranaggi sarebbe stata un’impresa faticosa. Lui sembrò distrarsi da quei brutti pensieri e, ritrovando il sorriso, infilzò una fetta di torta. “Questa la devi proprio assaggiare … è nuova” disse, tentando di imboccarmi “senti … pare una di quelle merendine che mangiavi da piccola …”

“Dai papà smettila” mi lagnai, quando tentò di imboccarmi con tanto di aeroplanino “non ho sei anni! Ti stai rendendo ridicolo!”

“E allora prendi e mangia” ribadì, sornione. Gli presi la forchettina tra le mani e assaggiai questa famigerata torta … beh, effettivamente quel retrogusto paradisiaco di Kinder Delice c’era proprio … Dio che bontà.

“Visto?!” fece mio padre, notando evidentemente che nel gustarmi quella bontà avevo persino chiuso gli occhi come fanno nelle pubblicità.

Conclusa con una grossa risata di mio padre quella imbarazzante parentesi padre/figlia un po’ da bambini, un po’ da dementi, mi imposi di tornare alle cose più serie e più urgenti da discutere. Credo che fosse di questo avviso anche lui, perché mi precedette di pochi secondi nel parlare.

“Dio quanto mi sei mancata …” disse, e sentivo bene il retrogusto dolce amaro delle sue parole “… dove sei per tutto questo tempo Allison?”

“Non vorresti saperlo” gli dissi. “Purtroppo ne ho una vaga idea” ammise, ma fu risoluto da cambiare registro abbastanza in fretta “Come … come vanno le cose ora Allison?”

Era un bene che ne parlasse come se non fosse accaduto nulla di tanto grave, da un certo punto di vista; mi rendeva tutto più facile e non mi faceva sentire in colpa ad averlo lasciato solo, senza uno stralcio di spiegazione.

“Adesso abito con Diane, la madre di Tyler, ed il suo nuovo marito … mi trovo molto bene con loro, sono delle persone splendide! Mi hanno vestita, nutrita, protetta … senza voler sapere nulla di me o di ciò che avevo fatto per arrivare a ridurmi in quel modo …” e lì mi fermai. Non avevo idea di quanto gli avesse detto di me Tyler ed ebbi il timore che parlarne troppo apertamente avrebbe aperto in lui un’ulteriore ferita. Ma la pietra l’avevo ormai tirata, nascondere la mano fu inutile, visto che poi fu lui stesso a voler approfondire l’argomento.

“Ridurti come?” domandò, serio e con una maschera di ferro a nascondere le sue emozioni. Ricordai allora che era un discreto giocatore di poker e doveva imparato al tavolo verde a non scomporsi troppo.

“Piena di lividi e ferite … presa a pugni e vestita di stracci, magra ai limiti dell’anoressia, rozza e volgare come se gli anni passati da educanda nei migliori istituti della città fossero solo un miraggio” avrei voluto fermarmi, ma perché tacere ormai “ho finto per tanto tempo di essere solo una ballerina, ma è stato solo quando ho incontrato quella gente così generosa e buona che ho capito che era il momento di smetterla di mentire persino a me stessa. Ero solo una pro-”.
Ma mio padre di si alzò di scatto, prendendo il portafogli dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni. “Forse è meglio se ce ne andiamo da qui …” disse, andando verso la cassa. Io lo segui, in silenzio, ma quella cosa mi colpì molto e mi deluse in una certa misura. Mi chiamava la sua bambina eppure voleva discutere in privato di qualcosa che, alla luce del sole o di nascosto, era di dominio pubblico tra chi ci conosceva ad Indianapolis.
Una volta fuori dalla pasticceria, lungo la strada per raggiungere l’auto, allargai le braccia e mi calai gli occhiali sugli occhi: non tanto per il sole, quanto per nascondergli gli occhi gonfi di rabbia e delusione, che avrebbero potuto tracimare di nuovo da un momento all’altro. Scossi la testa, mentre lui, confuso, mi guardava. “È inutile nasconderlo o evitare di dirlo … io ero esattamente quello che sai. Non ero sulla strada e non ho preso malattie se è quello che ti preoccupa, ma comunque il risultato non cambia: ho venduto il mio corpo per vivere. Puoi usare il termine che preferisci per definirmi … ma rimane il fatto che ero una prostituta”

Preferii voltargli le spalle ed incamminarmi da sola verso il parcheggio sotterraneo dove Doug, mio padre, aveva lasciato l’auto. Presi dal mio zaino nero le sigarette e me ne accesi una, in preda ad una tale agitazione, da non riuscire nemmeno a far partire l’accendino.

“Allison! Allison!” mio padre grido, sempre più vicino, così mi fermai. Non volevo discutere con lui, non ora; ma non potevo tollerare che degli estranei come Diane e Les avevano avuto la sensibilità di non giudicare ed invece mio padre faceva il moralista e pretendesse di lavare in casa i panni sporchi.

“Forse ho sbagliato” ammisi “non avrei dovuto dirti certe cose. Ma era il solo modo … non esistono edulcoranti per questo genere di cose. Il punto è che non voglio nasconderti nulla e questa era tutta la verità”

“Sarà anche la verità” disse mio padre, un po’ affannato per la corsa che, data la sua stazza un po’ tozza, doveva essergli costata fatica “ma perché vantarsene?”
“Non è un vanto per me papà. È quello che sono … o almeno, quello che ero finché Tyler non è entrato nella mia vita. Non posso far finta che questi due anni per me non siano esistiti e” aggiunsi “non dovrai farlo nemmeno tu”
“Hai ragione” si scusò, affiancandomi “la prossima volta farò più attenzione. Però non essere arrabbiata con me”

“Non sono arrabbiata con te papà” dissi “è solo che non sono più abituata a sentirmi dire ciò che devo fare … e appena qualcuno ci prova, scatto. Credo di essere io a dover chiedere scusa”
.
Era la prima volta forse che chiedevo il perdono di qualcuno, veramente, non come una frase fatta ma per vera ammissione di colpa. Significava molto per me, sentivo che era un punto di partenza importante, un notevole tassello da aggiungere alla mia crescita. La vecchia Allison non ci sarebbe mai riuscita, sarebbe fuggita a spron battuto invece di rimanere e provare a parlarne.

Così lo presi sottobraccio e riprendemmo a camminare, stavolta insieme. Calcare quelle strade mi faceva uno strano effetto, un misto tra una consuetudine che non se n’era mai andata ed l’indifferenza per dei luoghi che ormai sentivo non appartenermi più da un pezzo.

“Dimmi solo perché …” riprese lui. “Avevo voglia di libertà … qui era diventato un inferno e avevo bisogno di andarmene” confessai, cercando le parole più adatte per non pugnalarlo “e quello era l’unico modo possibile per trovare i soldi alla svelta. Ma quella libertà aveva avuto un prezzo troppo alto da pagare e mi sono ritrovata ben presto in catene”

Non volli guardarlo, né sentivo il suo sguardo addosso: eravamo stati entrambi raggelati dalla mia confessione, lui perché forse non immaginava che la vita potesse riservare un destino tanto amaro a sua figlia e si rendeva conto di quanto la lotta contro lo sterco del mondo mi avesse resa dura e spigolosa, ed io perché non provavo né odio, né ribrezzo per quel passato, poi non tanto remoto, ma solo una grande e profonda apatia, come se fosse la vita di un’altra.

In lontananza, nella lunga avenue che stavamo percorrendo, individuai il palazzo in cui aveva sede l’ufficio di mio padre, la filiale della Hawkins Communications,  proprietaria tra le altre cose di alcune televisioni locali, almeno fino a due anni fa. Inutilmente tentai di sviare i miei pensieri, ma essi si focalizzarono su Tyler. Era passato da poco mezzogiorno, le undici a New York e di sicuro era già a casa da un pezzo se, come era nei suoi progetti, aveva preso l’aereo. Finita quella giornata, avrei dovuto iniziare a pensare anche a lui. Perché non volevo perderlo, non potevo.

“Sai che ho conosciuto il tuo capo?!” dissi a mio padre, per tentare di distrarmi.

“Il signor Hawkins?! Ottima persona, non trovi?” chiese. Purtroppo, non potei trovarmi d’accordo con lui perché, sebbene si fosse interessato in prima persona per questo mio viaggio e stava tentando in tutti i modi di recuperare per la scenata di Natale, non riuscivo ancora bene a capire di che pasta fosse fatto e che gioco stesse giocando. Potevo spronare Tyler a riavvicinarsi a suo padre, ma dentro di me pregavo sempre che lo facesse con molta cautela e che di un uomo come lui era meglio non fidarsi. Annuii a mio padre, ma per fortuna fu lui stesso a chiudere il discorso sul nascere. “Hai detto che ora abiti con la ex signora Hawkins, giusto?” annuii “e cosa fai ora? Non te ne starai con le mani in mano tutto il giorno spero…”
Mio padre era sempre stato uno stakanovista, il primo ad entrare in ufficio e l’ultimo ad uscirne, in casa sapeva arrangiarsi nelle riparazioni di ogni tipo e si dava da fare ad aiutare mia madre, quindi capivo la sua domanda.

“Beh … in effetti sto in casa quasi tutto il giorno … ma è lì che lavoricchio. Mi occupo della Caroline Hawkins, la figlia più piccola di Diane e Charles, è come se fossi la sua governante … e in più aiuto nelle faccende di casa, anche se per quello c’è già la domestica. Diane mi da una specie di paghetta a fine settimana, il giusto per mangiare fuori o andare al cinema, ma in casa non mi manca niente, così sono riuscita a mettere da parte un bel gruzzoletto, anche con i regali di Natale … però per venire qui ho speso tutto” feci spallucce. Purtroppo ero praticamente al verde, e se volevo sperare di pagare l’albergo da sola, visto che avevo praticamente usato una doppia ad uso singola, avrei certo dovuto chiedere una mano a mio padre. Mi scocciava farlo, ma glieli avrei restituiti, a costo di inveire ancora contro di lui.

“In più a Settembre inizierò a frequentare una scuola serale, in modo da poter lavorare di giorno per mantenermi agli studi … anche se quel lavoro devo ancora trovarlo. E devo trovarmi una casa per conto mio … voglio bene a Diane, Les e Caroline, ma non voglio abusare della loro generosità … hanno già fatto troppo per me”
“Vuoi tornare a studiare?” domandò mio padre, mentre entravamo nel parcheggio sotterraneo.
“Sì” risposi “voglio prendere il diploma e poi, chissà … magari andare al college”

Non speravo di poter arrivare così in alto, mi bastava un pezzo di carta per trovare un lavoro decente ed onorevole, con uno stipendio sufficiente a pagare un affitto e a non morire di fame. Magari avrei potuto permettermi anche di pagare la retta ad una scuola di danza e avrei potuto anche ricominciare a ballare, solo per il piacere di farlo e senza nessun secondo fine, una scuola dove i passi sono fatti di tecnica e non sculettate volgari.

Era bello potersi permettere di sognare di nuovo e soprattutto sapere che i sogni potevano realizzarsi stavolta.

“Io … io lo so che è presto per parlarne, ma visto che hai tirato fuori l’argomento …” esordì mio padre, ridestandomi dai miei pensieri “ma pensavo che, magari … ecco … potresti tornare qui per il finire il liceo e poi anche il college …”

Sapevo che avrebbe sfruttato quell’opportunità per tirarmi a sé e tenermi stretta, ero preparata ad un’eventualità del genere; del resto il mio lancio era stato perfetto e lui aveva preso letteralmente la palla al balzo. Ma Tyler aveva ragione: se non era quello che volevo, dovevo essere ferma ed oppormi. Per questa ragione, scossi vigorosamente la testa: “No papà”

Ma lui continuò, imperterrito: “non avresti bisogno di trovarti un lavoro per mantenerti e potresti dedicarti pienamente allo studio, così ti sarà più facile andare al college”. Sapevo anche che l’avrebbe messa sul piano dei soldi, ed era una nota dolente visto che non ne avevo e in un periodo come quello era davvero difficile reperirne onestamente. Ma Indianapolis non era più casa mia da due anni, era questo che doveva capire.

“Non fare così papà, ti prego. Non rendere le cose più difficili. Non avrei voluto dirtelo così presto, ma è meglio essere chiari fin dall’inizio”. Presi un bel respiro e tutte le forze che avevo per dargli la mazzata, perché quella, in fondo, era un mazzata bella e buona. Lo vedevo fermo e teso, di fronte alla sua auto, pronto a ricevere un colpo che sapeva lo avrebbe ferito. Ma questo non bastò a fermarmi.

“Io non sono venuta qui per restare. Riparto tra due giorni, forse anche prima” non aveva senso restare oltre, sentivo di poter continuare il rapporto con mio padre anche da lontano e forse sarebbe stato anche più facile. In più c’era una cosa che mi premeva fare a New York in quel momento: sentivo questa urgenza scalpitare di ora in ora e a poco serviva il mio raziocinio a placarla.

“Ma Allison” esclamò mio padre “sei … sei appena arrivata. Devi … devi incontrare con tua madre … dovete parlare, dove chiarirvi … avete tante cose da dirvi, non puoi andare via così … la uccideresti!”
“Lei … lei sa che sono con te?!” chiesi. “No … non sa nemmeno che sei qui, Tyler è stato molto cauto …” “Bene … perché non dovrà saperlo … ” fui perentoria “non abbiamo niente da dirci per il momento”. Sapevo di fargli male, perché lui doveva volerle ancora bene, non avendola abbandonata nonostante tutto, aiutato di sicuro da una visione poco chiara di come sono andate le cose.
“Dì la verità” proseguì mio padre “è per lei che non vuoi restare. Ti assicuro che è molto cambiata … stenteresti a riconoscerla …”

“Siamo cambiati tutti papà” lo freddai, buttandomi a capofitto dentro l’auto, allungandomi nel sedile posteriore della sua berlina per non essere costretta a guardarlo in faccia. Lui mi seguì e avviò l’auto per andare via.

“E comunque” ripresi “non è per lei. La mia vita è a New York ora, tutto il mio futuro lì. Capitolo chiuso. E ora ti prego … riportami in albergo”

Lungo la strada fummo entrambi taciturni e presi dai nostri pensieri. Mi chiesi se non ero stata per caso troppo dura con lui, ma ne convenni che ad un tipo come lui si poteva tener testa solo in quel modo, anche se con me sembrava docile come il burro sul pane tostato.

“Dannazione papà! Non essere arrabbiato con me!” sbottai, irritata da tutto quel silenzio “non ho intenzione di perderti proprio ora!”

“Non sono arrabbiato con te” rispose, con voce piatta. Non poter vedere il suo volto, vincolata dalla cintura di sicurezza, mi metteva un’ansia addosso ulteriore.

“Oh beh perché ti comporti proprio come se fossi arrabbiato con me …” gli feci notare.

“Non mi comporto come se fossi arrabbiato con te” disse e chiuse il discorso.

Muovendomi sul sedile potei finalmente arrivare a scorgere delle sue occhiate fugaci attraverso lo specchietto retrovisore. Nonostante le mie parole suonassero già come un addio, nonostante i battibecchi, lo vedevo sorridere, carico di una gioia quasi puerile e beffarda per non essere riuscito ad essere un padre severo ed imperterrito per più di cinque minuti. Ma d’altronde non era mai stato il suo forte. Lui era sempre stato il buono e coccolone di casa e mia madre quella che portava i pantaloni, maniaca e isterica. Almeno di una cosa potevo essere sicura che non era cambiato nulla.

Fermi ad un semaforo rosso, mi sembrò di avere un dejà vu. Poi capii: quello era l’incrocio dove anni prima avvenne l’incidente. Ed era più o meno tutto come allora: papà taciturno e imbronciato al posto di guida ed io seduta dietro, altrettanto taciturna ed imbronciata, che guardavo fuori dal finestrino. Le uniche differenze erano che era una notte calda d’estate e accanto a me era seduta mia sorella. Steve abitava dall’altra parte della città e per tornare a casa nostra bisognava attraversare tutto il centro.

“Posso chiederti una cosa?” esordii, prendendo coraggio “perché quella sera con te c’era anche Emmy … cosa è successo … io non mi ricordo nulla”

Lo vidi cambiare letteralmente espressione dallo specchietto. “Cos’è che ricordi?” mi domandò, inquieto.

“Ricordo che eri venuto a prendermi a casa di Steve Johnson ed Emily era con te. Vi avevo detto che passavo la notte da Abigail, ma evidentemente avete scoperto la verità … poi mi ricordo che tornando a casa abbiamo discusso. E poi il vuoto. Cos’è successo?”

C’era una sola persona, oltre a mio padre, a conoscere quei miei ricordi. Al resto del mondo, a mia madre, ai medici, avevo detto di non ricordare nulla. Nessuno seppe spiegarsi perché mi trovassi in macchina con mio padre e non ricordavo come Abigail ed io giustificammo la cosa, anche perché passo poco tempo e smisi di parlare con tutti i miei amici più cari e fidati.

“Cos’è successo mi chiedi?! Quello che succede sempre … la vita, il destino” la sua imperturbabilità  mi spiazzò e mi sembrava di essere di fronte al riflesso di me stessa. Mi ricordai di quando avevo criticato Tyler e gli avevo detto che non era l’unico ad aver sofferto … ora era il proprio il caso di auto-rimproverarmi. “Era una serata afosa ed avevamo deciso di prendere un gelato per rinfrescarci prima di andare a letto” continuò “La piccola Emmy volle venire con me perché voleva scegliere i gusti. Così andammo alla gelateria artigianale di Vincenzo, poco distante da casa di Abigail … e fu lì che la trovammo con la sorella. Non poté mentirmi…”

Sapevo che non poteva essere andata lei a spifferare tutto ai miei. Quando era venuta a raccontarmi come erano andate le cose l’avevo cacciata, distrutta dal dolore per la perdita di mia sorella. Poi l’avevo allontanata. Mi sarebbe piaciuto sentirla, anche se sinceramente non credevo di poter avere qualcosa in comune con lei.

“Decisi di venire a prenderti e portarti davvero da Abigail prima che tua madre potesse scoprire dov’eri stata” andò avanti mio padre nel frattempo “Steve non  mi piaceva … ma le sfuriate di tua madre nei tuoi confronti non mi piacevano ancora di meno. Io ero dell’opinione che bisognava farti fare i tuoi errori, per me eri abbastanza intelligente da capire da sola quali fossero le persone da seguire e quelle da tenere a distanza. Ma tua madre voleva sempre avere il controllo su tutto …”

Ricordai allora le sue parole di quella sera. Tu ora vai dove dovresti essere, mi disse, e domani mattina tornerai a casa come se ci fossimo solo incontrati dal gelataio ed Emily si è trattenuta a giocare con te … io e te faremo i conti poi.

Ma non ci fu possibile. A quel maledetto incrocio un pazzo ubriaco ci venne contro frontalmente, dopo un sorpasso azzardato che gli fece invadere completamente la corsia opposta.

Al di là dei brutti ricordi, mi confortava tuttavia sapere che, almeno sul comportamento di mia madre, la pensavamo alla stessa maniera. Forse io non avevo capito di star facendo la cosa sbagliata, ma se mi avesse lasciato fare ci sarei arrivata, prima o poi. Ed invece, in quel modo, aveva solo stimolato la mia disubbidienza.

Arrivati davanti all’albergo uscimmo entrambe dall’auto per salutarci.
Senza accorgercene avevamo trascorso insieme metà giornata, per lui era ora di rientrare in casa prima che mia madre si allarmasse o si insospettisse. “Sei sicura di non voler venire a casa?” chiese, ma ormai ero ben decisa. Avrei trascorso probabilmente un’altra notte insonne, in compagnia della mia testa logorroica, ma era meglio che rovinarsi il fegato con litigate senza via d’uscita.
“Vuoi che ci vediamo domani?” chiese allora, dopo il mio rifiuto, accorto e premuroso.

“Sì” risposi, sicura “ma dopo il lavoro … non vorrei che a tua moglie venisse all’orecchio che hai chiesto due giorni di permesso …”

“Non chiamarla così … è tua madre e ti vuole bene” disse lui, ma per quanto ne sapevo l’ultima volta che c’avevo parlato mi aveva detto che ero la più grande delusione della sua vita. “So che non sarà facile, ma promettimi che pian piano proverai a legare anche con lei … un colpo di telefono non le dispiacerebbe. Se hai bisogno di consigli da donna o … che ne so io …”

Non era certo un’immagine in cui mi vedevo bene, al telefono che parlavo con mia madre di assorbenti o di protezioni da malattie veneree. Sarebbe corsa di certo fino a me dall’altro capo della cornetta per mettermi sotto una campana di vetro. Ero sempre stata una bambolina di porcellana per lei e quando non lo ero più … beh ha semplicemente svalvolato.

“Promettimelo” insistette mio padre, prendendomi il volto tra le sue mani grosse e calde. Non potevo resistere ai suoi grandi occhi verdi, che mi aveva lasciato in eredità.
“Promesso” riuscii a dire e lo abbracciai forte, in punta di piedi, perché mi era mancato da morire quel contatto e quella vicinanza con lui. Lui mi baciò la testa e io mi allontanai, avendo cura di nascondergli le lacrime di gioia che stavano sgorgando.


















NOTE FINALI

Eccoci giunti alla fine di un capitolo che oserei definire cruciale. Perché entriamo in un modo diverso nella testa di Allison. Mentre l'ultima volta era per descrivere la sua scoperta dell'amore, qui invece viviamo con lei un'intera giornata. La sentiamo vivere, pensare, esprimere opinioni. Viviamo insieme a lei delle emozioni importanti.
Credo che a questo punto si possa dire con certezza che non solo è una ragazza che ha sofferto tanto, ma è soprattutto una ragazza decisa a voltare pagina e lasciarsi andare pienamente.
E secondo me ora è anche pronta a concedersi qualcosa in più con Tyler.
Purtroppo ha dovuto averlo lontano per sentirlo vicino.
Ma ora c'è anche il padre con lei, inizia una fase nuova della sua vita ed è anche il giro di boa della storia se vogliamo.
Scusatemi se il capitolo è un po' lunghetto, ma non volevo lasciare nulla in sospeso prima di tornare a New York da Tyler.

Grazie mille per l'enorme seguito e l'entusiasmo con cui seguite la storia. Significa molto per me.

à bientot

Federica

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Capitolo 25
*** I am here for you ***


When you crash in the clouds - capitolo 24



Capitolo 24

I am here for you






soundtrack


Erano passati i tre giorni fatidici. Sarebbe tornata a New York in un’ora, o poco meno, o non sarebbe tornata più. Dopo quello che era successo, dopo la mia sparata di quella notte, vedevo difficile riavvicinarmi a lei come se nulla fosse, con un caloroso abbraccio e un “bentornata!” contornato da festoni e palloncini. C’era troppo in ballo che non poteva più essere nascosto e troppo che le avevo rinfacciato e le avevo urlato e non poteva essere rispedito nei miei polmoni.
Il 70% di ciò che avevo detto non lo pensavo, per l’altro 30 era meglio se una volta tanto mi fossi fatto i cazzi miei e avessi dato tempo al tempo.
Ero a casa da due giorni ormai, avevo ripreso la mia routine nonostante le ferie per evitare sindromi maniaco-depressive; non dovevo pensare a le h24, la mia vita doveva tornare alla normalità, soprattutto in prospettiva del suo non ritorno. Non potevo deprimermi di nuovo, Aidan non me lo avrebbe perdonato stavolta, non per una ragazza almeno.
Così mi misi sotto con lo studio e tornai tra gli scaffali della libreria con somma gioia del capo che non era più obbligato a pagarmi le ferie. Tuttavia nessuno, al di fuori di Aidan e dei miei colleghi di lavoro e di università, sapeva del mio ritorno. Non potevo certo dire a mia madre di aver lasciato Allison da sola in un bed & breakfast, né che tantomeno spiegarle che lo avevo fatto perché, in una sorta di dichiarazione, lei mi aveva dato il ben servito ed io me l’ero presa. Certo, non appena fosse andata alla stazione degli autobus a prenderla, sarei stato sgamato alla pulita e già sentivo i suoi acuti isterici perforarmi i timpani, ma fino ad allora potevo far finta di aver dimenticato il carica batterie a casa tenendo il cellulare spento. Inoltre, potevo essere abbastanza sicuro del fatto che lei ed Allison si dovevano essere sentite davvero di sfuggita perché, se lo avesse saputo da lei, a quest’ora avrebbe fatto sfondare la porta e le finestre di casa mia dai vigili del fuoco pur di parlarmi. Non c’erano dubbi sul fatto che avesse ottime conoscenze tra le forze dell’ordine.
Sebbene potessi dire di averla fatta franca da mia madre, almeno per il momento, nulla avevo potuto contro quella suocera travestita da studente universitario di Aidan. Generalmente le sue rimenate non mi facevano né caldo né freddo, entravano da un orecchio ed uscivano dall’altro, ma stavolta mi avevano fatto veramente male. La sfilza di “avresti potuto … ma perché non hai fatto così … io al posto tuo” che erano volati si sprecavano, così come avevo perso il conto di quante volte, mentalmente, avevo interpellato i componenti femminili della famiglia di Aidan in maniera poco garbata. Lui non poteva parlare di amore e veniva a fare a me la paternale … tipico. Ma non ero più il tipo remissivo a cui le offese non facevano un graffio. Così avevo finito col prendere anche Aidan a parole grosse, senza pesare il significato di ogni fosse, senza considerare quanto tempo avrei impiegato per riparare a ciascuna di esse. Come si dice, mi ero decisamente tirato la zappa sopra i piedi e dalla padella ero passato alla brace.
Ci eravamo ridotti allo stato di due conoscenti che condividono un appartamento ed il posto di lavoro, invece che essere due amici che alle spalle avevano anni e anni di bisbocce e ricordi anche dolorosi da partecipare.
Ancora pieno di rancore e collera, covati per tanto tempo, scoppiati nel giro di nemmeno 10 minuti  e rimuginati lungo tutto il volo, non trovavo ragione che fosse dal lato di Allison. Dopo tutto quello che avevo fatto per lei, dopo essermi esposto per lei come non avevo fatto per nessuno prima di allora … bel modo di essere ripagati. Potevano scusarla in ogni modo possibile, ma per come la vedevo io, era arrivato il momento di accantonare le attenuanti e lasciare che si assumesse ogni responsabilità. Forse lo aveva fatto inconsciamente, ma mi aveva ingannato, o quantomeno aveva istillato in me false speranze. È il minimo sentirsi di merda come mi sono sentito io. Avrei solo voluto, per una volta, che capisse lei come mi sentissi io, e non fossi io, per una volta, l’accomodante, il comprensivo.
E così, da incazzato sono passato al depresso. Fantastico! Portatemi il muro del pianto vi prego, ho bisogno di versare qualche lacrima e ripetere le mie dolenti litanie. Perché l’unica colpa che sentivo di dover espiare è di amare una donna che non sente di amarmi o che mente persino a sé stessa a tal proposito. Non riuscivo più a distinguere se quella fosse la colpa o la condanna: splendido!
E il tutto per colpa di una ragazzina che non ero sicuro che avrei rivisto, egoista insensibile e frigida.

Basta! Urlai a me stesso, di fronte allo specchio del bagno, pulendo con la mano lo specchio appannato, dopo la doccia bollente. Stavo ricamando l’immagine di Allison con gli epiteti più raffinati, la dipingevo come una persona ingrata ed insensibile, uscendo dalla vicende come la vittima dall’anima candida, umiliato e offeso da una donna senza scrupoli.
Ma come in tutte le cose nella vita la verità sta nel mezzo, e se era vero che stavolta non potevo prendermi tutte colpe, era anche vero che non dovevo lasciarle tutte a lei.
Però per quanto potessi mortificarla, anche soltanto nella mia memoria, non riuscivo a sminuire il sentimento che provavo per lei. Ricordavo ancora quella notte buia nel Bronx, quando le dissi che mi stavo innamorando di lei. Alcune cose erano cambiate da allora, ma il buio apparentemente era stato al mio fianco in diverse occasioni, mi aveva aiutato ad nascondermi quando avevo bisogno invece della massima esposizione. Anche le mie parole erano cambiate: non le avevo pronunciate ad alta voce, ma solo uno stupido non le avrebbe colte tra le righe. Ed Allison non era una stupida. Io l’amavo e lei lo sapeva.
Tra poche ore avrei saputo la verità e avevo paura persino di andarmene a dormire senza la sua telefonata o di qualcun altro per lei. Se mi fossi svegliato senza che nessuna chiamata mi avesse spaventato nel cuore della notte o alle prime luci dell’alba, sarebbe stato proprio il caso di dire addio ad Allison.

E se invece tornando non avesse voluto più vedermi?  Comprensibile, inattaccabile, ma era mio dovere avvicinarla e cercare di spiegarmi. Almeno così mi diceva il cuore. Ma la ragione non comprende le ragioni del cuore, è per questo che nella nostra vita combiniamo tanti disastri: amiamo definirci animali razionali, ma la verità è che se seguissimo un po’ più spesso il nostro cuore, la via filerebbe un pochettino più dritta.
Ma la notte era passata indenne da risvegli improvvisi, a parte la sagoma di Aidan che rientrando non faceva nulla per evitare di svegliarmi. Così mi ritrovai alle dieci spaccate davanti alla porta di casa di mia madre, aspettando che qualcuno venisse ad aprirmi. Ero sceso dal letto all’alba, quando ancora fuori era buio, saranno state le sei meno un quarto, massimo mezz’ora più tardi, non badai troppo a controllare sull’orologio, ma tanto ero sazio delle pur poche ore di sonno che mi ero concesso quella notte. E mia madre salutò la mia giornata con una chiamata fredda e telegrafica. Non avrei voluto rispondere, ma c’era poco da fare i polli in una situazione simile. “Vieni qui, subito” disse e non aggiunse altro, riagganciando la conversazione senza lasciarmi nemmeno il tempo di dirle buongiorno. Non una parola al fatto che non fossi con Allison, non un accenno alla mia fuga da adolescente ribelle. Non si perse nemmeno troppo nei convenevoli quando venne ad aprirmi, ancora nel suo pigiama bianco e avvolta in uno scialle dello stesso colore. Aveva i capelli raccolti in una coda fatta senza troppa cura, il che significava che anche lei aveva avuto altri pensieri per la testa, come me. Cazziatone in arrivo, lo sentivo nell’aria.
“Non dovresti essere al lavoro oggi?” “Pomeriggio” rispose, al massimo della sintesi.
“Caroline?” chiesi, per stemperare la situazione. Sembrava di essere al Polo Sud e già mi vedevo i pinguini di Madagascar sbucare per casa come se niente fosse. Mi sembrava fuori luogo chiedere di Allison, dal momento che era sicuro al 100% che dovesse parlarmi di lei.
“Sono le dieci e un quarto Tyler … dove vuoi che sia?!” rispose, piuttosto acida. Ora, una madre che non coccola suo figlio come se fosse il Teddy Bear di una vetrina di negozi di giocattoli è universalmente riconosciuto come un brutto segno, ma non capivo se fosse dovuto al ciclo mensile, oppure ai cambiamenti di umore dovuti al fatto che, forse, il ciclo lei non lo aveva più. Comunque la girassi, restava una situazione di merda.
“Senti Tyler” si sedette alla penisola della cucina, di fronte a me, passandomi una tazza di caffè “immagino che tu sappia di cosa voglio parlarti, non c’è bisogno che lo dica perché lo immagini … vero?”
“Certo mamma” risposi, da perfetto bambinone consapevole di averla fatta grossa. Mi sembrava di essere rimpicciolito su quella sedia, mi sentivo stretto nella divisa della scuola privata, con il cravattino, il blazer e i calzoncini corti, le ginocchia sbucciate e i capelli a spazzola biondissimi. Ed in compenso vedevo mia madre grande e minacciosa, come se temessi che potesse confiscarmi la collezione di figurine o impedirmi di andare a vedere la partita degli Yankees. “Allison” dissi, ma credo che mi sentii da solo e fu più che altro per il labiale se lei poté annuire.
“Senti mamma” mi affrettai a prendere la parola, non perché volessi che capisse le mie ragioni, ma perché volevo che sapesse che la pensavo come lei, avevo colpa e me ne assumevo ogni responsabilità “non c’è giustificazione per come mi sono comportato con Allison, sono stato un irresponsabile a lasciarla da sola! Ora vorrei solo poter rimediare …”
Non avevo ben chiaro il tipo di ascendente che mia madre aveva su Allison, anche se ero sicuro che si volessero molto bene e che Allison provava per lei un profondo rispetto; speravo però che fosse sufficiente a darmi la possibilità di spiegarmi e farmi perdonare. Perché pur di non perderla avrei accettato anche l’amicizia fraterna. Guardare e non toccare sono due cose che fanno crepare, su questo sono d’accordo tutti, ma vederla sparire sarebbe stato mille volte peggio.
“Lascia stare quello che è successo tra di voi, sono cose private in cui io non voglio entrare …” mi frenò lei, mettendo letteralmente le mani avanti. Era bello sapere che nonostante fossimo amici di letto quasi alla luce del giorno, ci era ancora concessa della privacy, anche se forse la riservatezza di mia madre era dovuta più al pudore che da altro. “E del fatto che te ne sei letteralmente sparito senza dire una parola ne parleremo più tardi … ma ora c’è una cosa che mi sta più a cuore …” disse lei e notai nelle corde della sua voce un cambiamento radicale: sembrava più preoccupata che arrabbiata e questo era un presagio peggiore, rispetto alle mie previsioni.
“Oddio!” esclamai, figurandomi davanti immagini sciagurate di incidenti stradali, con carcasse di autobus in fiamme e lenzuoli bianchi stesi qua e là sul manto stradale. “Dov’è Allison mamma? Dov’è?” domandai inorridito, alzandomi dalla sedia senza che il comando fosse mai partito dal cervello ai miei muscoli. Sentivo la mia voce agghiacciata dagli scenari che mi si erano profilati e solo a pensare a quella tremenda ipotesi il mio corpo rabbrividiva.
“Tyler!” mi riprese mia madre, mettendomi a sedere di nuovo, esattamente come quando ero bambino “Tyler calmati! Va tutto bene, è tornata ieri sera e sta benone. Solo …”
“Solo?” incalzai. Odiavo quel suo modo di fare, quando interrompeva le frasi stile soap opera. Se mi devi dare una brutta notizia, non c’è niente di peggio che averla a piccole dosi, provando più dolore che ad apprenderla in una sola botta.
Vidi mia madre chiudere gli occhi e passarsi le mani sul volto, a nascondere lo sguardo. Era visibile la sua tensione, il dubbio che aveva, il terrore probabilmente di usare le parole meno adatte. Una volta ripreso evidentemente il controllo, strinse meglio a sé lo scialle e parlò: “Allison è andata alla polizia, Tyler. È uscita presto di casa stamattina” mi raccontò “aveva detto di voler andare a correre per sgranchire le gambe dopo il lungo viaggio in autobus. E dopo un’oretta ci arriva la sua chiamata dalla polizia, dicendo che aveva bisogno di un avvocato
Il resto della conversazione non fu esattamente chiaro, ricordo la voce di mia madre come un’eco lontana, un suono ovattato che la mia testa, in confusione, non aveva fatto in tempo a decodificare.”
Mi madre aveva parlato di denuncia, ma non avevo ben capito sé era andata a denunciare i suoi aguzzini o a costituirsi. Che poi non capivo cosa avesse da confessare: lei era stata solo una vittima arrendevole. Contrariamente a quanto si crede generalmente, nel suo caso piegarsi era meglio che spezzarsi, questione di sopravvivenza.
E così la mia piccola Allison era finita davanti a quei mastini delle guardie: così piccola ed indifesa che al minimo tentennamento avrebbero potuto mangiarsela in un solo boccone.
Corsi a perdifiato per la strada, perché la stazione di polizia più vicina non era particolarmente lontana e avevo bisogno che l’aria gelida di New York mi raffreddasse il cervello, in ebollizione per tutte le informazioni che mia madre mi aveva dato: gli uffici a cui dovevo rivolgermi, tutti i nomi che aveva fatto e che mi avrebbero aiutato a vederla. Sapevo che non era sola, Les si era fatto subito avanti per sostenerla. Perché avere per patrigno un avvocato, a volte, può essere davvero un vantaggio.
Finché non salii le scale della centrale di polizia non potevo ancora credere che lo avesse fatto. Man mano che passavo di ufficio in ufficio, ogni volta che mi lasciavano ad aspettare fuori da una porta o che davanti a me un poliziotto grassotto mi stava a guardare con sufficienza, aspettando qualcuno che dall’altro capo del telefono rispondesse, ero sempre più sconvolto dall’idea che lo avesse fatto per davvero. Avevo ancora davanti a me, nitide, le immagini di quella mattina tragicomica, dopo la notte più bella della mia vita, quando avevamo fatto l’amore per la prima volta, mia madre si era presentata al mio appartamento e lei, presa dal panico, si rintanò in camera mia facendo l’isterica e urlando che mai e poi mai lei sarebbe finita in gabbia. Ed ora si stava offrendo volontaria. Meraviglioso!
“Tyler!” sentii chiamarmi alle spalle, mentre davanti ad una macchinetta del caffè prendevo quello che era il quarto caffè della giornata. Forse una camomilla sarebbe stata più appropriata, ma avevo bisogno di essere il più vigile e reattivo possibile. Les mi venne incontro in jeans e maglione di lana, invece che con il suo solito gessato carbone d’ordinanza. Aveva in mano un fascicolo, che supposi essere tutta la documentazione riguardante Allison. Mi strinse la mano e ci lasciammo andare ad un abbraccio che in tanti anni di parentela acquisita non ci eravamo mai concessi. Eravamo entrambi nervosi e capii che in qualche modo quella ragazza era entrata anche nel suo cuore. Come poteva essere diversamente.
“Ma che cosa …” volli domandare, ma evidentemente sentiva l’urgenza di dirmi qualcosa che fosse più importante.
“Ti ringrazio di essere venuto. Allison non voleva che ti avvisassimo ma io e tua madre abbiamo pensato che non fosse giusto …”
Non sapevo cosa dire, ero del tutto stordito. Riuscii a pronunciare un grazie stentato. Avevo bisogno di una sedia o sarei caduto a terra come una pera cotta. Notai una panca accanto al distributore di bevande e mi lasciai stramazzare lì sopra, abbandonato da tutte le forze.
“Dov’è?” domandai. “È con gli ispettori, le stavano facendo delle domande fino a poco fa, ci siamo presi una pausa, ma lei non può muoversi … sai come sono i poliziotti qui … sembra ancora di stare nel Far West”
Me lo ricordavo bene: nei primissimi mesi dopo la morte di Michael, infatti, Les era stato costretto a tirarmi fuori di prigione per tre volte, e i capi d’accusa erano uno più ridicolo dell’altro. L’unica volta che mi ero veramente cacciato nei guai, ma non ricordavo molto considerati i fiumi d’alcool che erano scivolati via quella notte, quando, qualche anno prima, non ancora ventunenne, ero stato beccato ubriaco per le strade di NY ed eravamo andati a fare i cretini con dei vecchi compagni di liceo proprio davanti ad una volante della polizia. Scemo e più scemo. Quella volta fu l’avvocato di mio padre a tirarmi fuori di prigione e lui me lo rinfacciò così tanto che avrei preferito marcire in prigione piuttosto che farmi pagare la cauzione da un uomo di mio padre.
“E ora” chiesi, esitante e preoccupato “che succede ora?”
“Vorrei poterti dire che non succederà nulla … il problema è che non lo so neanche io” rispose inerme ma franco “sicuramente verranno avviate delle indagini, ma non le risparmieranno il processo. Lo sai, qui è il …”
“… il Far West” completai io la sua frase “lo so”. Non avevo idea del motivo che l’avesse spinta a quel gesto, visto che proprio lei era quella che vedeva la casa circondariale come uno spettro da evitare con tutta sé stessa. Volevo esserle vicina, volevo che sapesse che le ero accanto, davvero, volevo che sapesse che non l’avevo abbandonata, nonostante la mia fuga da stupida ragazzina adolescente che fugge anziché affrontare le sue responsabilità. “Posso … posso vederla?”
“Non credo Tyler che te la lasceranno incontrare …” rispose Les, titubante.
“Andiamo!” lo incalzai “sei o non sei il migliore avvocato di tutta la costa Orientale?”
“No, non lo sono” negò lui, ridendo, mentre lo scuotevo per le spalle. Ok, probabilmente la mia era stata la sviolinata meno riuscita della storia, ma comunque Les restava un buon avvocato, a New York era rispettato e questo doveva pur valere qualcosa. Quando gli ribadii quello che pensavo di lui, lo vidi alzarsi, forse per orgoglio, forse per autocompiacimento, sistemarsi il colletto della camicia e dirigersi in un ufficio in fondo al corridoio.
Dieci minuti dopo, dopo una serie di urla e parole un po’ pesanti da parte di un insospettabile Les, mi trovavo in una stanza di quelle che fanno tanto poliziesco, con gli specchi unidirezionali e le cimici a registrare ogni singolo respiro. Non era la condizione idea per rivederla, ma per lei potevo sopportare anche che un omaccione afroamericano mi rovistasse dappertutto per controllare che non avessi nulla di potenzialmente pericoloso con me.
Quando me la condussero avrei voluto stringerla forte e baciarla, ma ne convenni che non era il posto né la circostanza migliore per lasciarsi andare a pubbliche dimostrazioni d’affetto. Eppure, al contempo, non avrebbe potuto esserci opportunità migliore: se solo non mi fossi comportato da emerito cretino l’ultima volta che c’eravamo visti. Ero stato un cretino, e da cretino patentato mi stavo comportando: sì perché non riuscivo a non essere fiero del mio comportamento; hai fatto bene, doveva sapere continuava a ripetermi la mia coscienza. E se quella testa ciarlona non l’avesse finita l’avrei schiacciata, come si fa con i grilli che parlano troppo.
Così lei mi salutò con un cenno del capo e un piccolo gesto con la mano, nascosta quasi completamente nella manica della maglia. Aveva paura: faceva sempre così quando era spaventata. Eppure non si stava tirando indietro, affrontava il suo peggior nemico e lo stava facendo con dignità.
Venne sedersi accanto a me, poggiando le mani, quasi giunte, sul tavolo. D’istinto le presi tra le mie: erano gelate; le portai verso la mia bocca e le baciai, sperando che non le ritraesse, né che prendesse a male il mio gesto. Fortuna mia, non accadde né l’una, né l’altra cosa.
“Perché?” le domandai, finalmente.
“Immaginavo che Diane e Les non ti avrebbero tenuto all’oscuro per molto. Anzi … direi proprio che non hanno saputo tenere la bocca chiusa nemmeno per un secondo” non capivo per quale motivo evitasse di rispondere alla mia domanda, non riuscivo a trovarne uno che fosse sensato. Pensai alla vergogna, alla paura, ma entrambe erano fasi che avevamo superato da un pezzo? Se mi avesse detto che non era una faccenda che mi riguardava più mi avrebbe fatto incazzare ancora di più di quanto non mi era accaduto solo pochi giorni prima, perché mi ero fatto spaccare la faccia per lei, e non mi andava a genio l’idea di farmi illividire per niente.
“Spiegami perché” pressai, pregando che non si risentisse della mia insistenza.
“Detenzione di documenti falsi è l’accusa al momento” rispose “prostituzione, spaccio di droga e furto dovranno essere accertate. Ma sono tutte imputazioni di cui mi sono personalmente accusata davanti al mio avvocato. Appena finiranno con l’interrogatorio mi trasferiranno al piano di sopra …”
Sapevo bene cosa c’era un paio sopra a dove ci trovavamo noi: avevo già dormito un paio di notti in gattabuia ed ero sempre stato attento a non farmi scarcerare prima della colazione: è gratis ed è dannatamente buona. Ma lei no, non volevo che ci entrasse nemmeno per un secondo.
“Les dice che non ci passerei più di un paio d’ore, tempo di sbrigare tutte le prassi burocratiche … uscirei con la cauzione. E poi, certo, ci sarà il processo”
“E cos’altro dice Les?!” sputai, sarcastico “lo dice che non hai idea del pasticcio in cui ti sei cacciata? Che la giustizia americana è un Far West dove è meglio non immischiarsi perché solo chi è forte vince?”
“Io sono forte Tyler … posso farcela. Non ho paura di entrare in una cella … ho vissuto anni in gabbia!” rispose lei, con altrettanto fermezza. Tuttavia non era una questione di carattere, piuttosto una questione di potere. Era fortunata a non avere un avvocato di ufficio, sottopagato e spremuto fino all’osso dallo Stato, ma il suo processo non sarebbe stato sulle prime pagine dei giornali come Lindsay Lohan e nessuno le avrebbe ridotto la pena solo per aver letto il suo cognome. Non volli insistere oltre: Les le aveva tenuto nascosta quella parte e non stava a me darle queste cattive notizie; inoltre, da ragazza intelligente qual era, dubitavo fortemente che non sapesse già quello che, per proteggerci entrambi, aveva sicuramente finto di non capire.
“Va bene” dissi, cercando di reprimere la rabbia che mi saliva a vederla così calma “però mi devi dire perché diamine l’hai fatto. Perché sei venuta dalla polizia?”
La vidi abbassare il capo e nascondermi i suoi bellissimi occhi, cosa che mi innervosiva sempre perché voleva dire che non aveva fiducia in me o per qualche ragione si vergognava e mi temeva. Ma come, avrebbe dovuto saperlo, non dovevano esserci barriere: erano cadute nello stesso istante in cui mi aveva fatto entrare nella sua vita.
“Io” tentennò “l’ho fatto perché avevo bisogno di dire addio a Mallory una volta per tutte. Non bastava far sparire dei documenti falsi o darsi una ripulita per iniziare una nuova vita”
“Una nuova vita?” chiesi spiegazioni, ma avevo paura che la sua risposta potesse farmi male. Ma dovevo saperlo subito, se aveva intenzione di dirmi addio
“Tu avevi ragione … io ho semplicemente fatto finta di non vedere quello che per tutti era alla luce del sole” esordì, sorridendo sommessamente, quella vaga aura malinconica che sempre la circondava.
“A cosa ti riferisci?” domandai. “A noi” rispose lei, questa volta lasciando che i suoi grandi occhi verdi arrivassero dritti ai miei, per rimbalzare verso il mio cuore e farlo in mille pezze.
Avevo sentito bene?! Aveva detto proprio NOI, quella parola magica che da tempo sognavo di sentire. Quindi credeva come me che quel noi esisteva, ma si era ostinata a non voler vedere.
“Io lo sai, non ne capisco molto di sentimenti” riprese, stringendo lei questa volta lei miei mani “però io … io ho c’ho pensato a lungo in questi giorni e so già che sarà un casino … ma voglio provarci”
Sapevo che non avrebbe mai usato le parole che avrei potuto usare io, capivo la difficoltà e l’impaccio nell’esprimere sentimenti che fondamentalmente non conosceva. Però sentivo anche tutto lo sforzo che ci stava mettendo e sentivo forte il battito del suo cuore, il calore e l’emozione che quella dichiarazione un po’ sbadata le stavano procurando. Era tutto passato, dimenticato; non c’era rancore o sdegno: c’era solo tutto l’amore che ero pronto a darle e che lei, finalmente, si sentiva pronta a ricevere.
“Non è mai facile Allie … ma quando si è in due tutto è più facile” sapevo che non dovevo usare paroloni che l’avrebbero spaventata, era meglio sottintendere. Doveva essere tutto facile, dovevamo rimanere Allison e Tyler di sempre, quelli che andavano in giro per New York a divertirsi o rimanevano in casa a coccolarsi: perché eravamo già una coppia, l’eravamo sempre stati agli occhi degli altri. Solo che, ora, l’avremmo saputo anche noi.
Sciolsi la presa delle nostre mani e le accarezzai una guancia, sorridente. Mi sentivo un idiota, ma non me ne fregava nulla. Ero felice e, anche se non ero esattamente sotto la Tour Eiffel, avrei voluto gridarlo al mondo. Ma la cosa più straordinaria di tutti era quella meraviglia che avevo davanti agli occhi, quella porcellana che con la mia carezza stavo sfiorando: era felice quanto me, e non aveva paura di mostrarlo; forse per la prima volta da quando la conoscevo, si occupava davvero di sé stessa. Stava mettendo da parte gli scrupoli e si stava concedendo il mio affetto senza scrupoli, senza più porsi le domande o preoccuparsi di trovare un modo per sdebitarsi.
“Devo chiederti scusa per come mi sono comportato con te ad Indianapolis” le confessai “eravamo entrambi nervosi e come al mio solito ho finito per peggiorare la situazione. Avevo troppa paura di perderti …”
“ed invece è stata proprio la tua sfuriata ha farmi aprire gli occhi … forse lo sapevo già … ma è stato quando sono rimasta sola che ho capito che la mia vita è qui, con te”
Ero un uomo, ma avrei voluto piangere; avrei voluto prenderla, baciarla, abbracciarla, magari anche portarla davanti ad un prete e sposarla in quel momento. Mi voleva … mi voleva davvero. Non era possibile eppure era vita vera e non un sogno malefico venuto a torturarmi per lasciarmi con l’amaro in bocca una volta sveglio. E se è un sogno vi prego … lasciate che io muoia ora così questo sarà il mio ultimo ricordo.
Mi avvicinai a lei quel poco che bastava per sfiorare le sue labbra. Non volevo la passione, ma solo sfiorare le sue labbra, sentire il suo sapore ed il suo profumo invadere i miei sensi in maniera gentile ed innocente, come lei sapeva fare; ma mi fermò, premendo l’indice contro la mia bocca. “Non qui … non ora” parlò sottovoce, tuttavia emozionata ed imbarazzata, accennando a qualcuno che era oltre la mia spalla.
Un paio di poliziotti in borghese, le facce impenetrabili e serie, facevano le belle statuine all’ingresso della stanza e sperai che fossero lì da poco.
“È ora di andare ragazzo” mi disse uno di loro, avvicinandomi e prendendomi per il braccio.
Le lasciai una lieve carezza sulla guancia e per entrambi era stato come bruciarsi.
“Sono qui fuori ad aspettarti” le sussurrai. Lei annuì, sicura che fosse la verità.
Nel corridoio incontrai Les, che aspettava di riprendere l’interrogatorio con un plico sempre più grande di carte e libri da studiare e a cui ricorrere.
“Come l’hai trovata?” mi chiese, notando evidentemente che, rispetto a quando era entrato, ero decisamente più rilassato. “Bene” risposi “è serena e ha fiducia in te. Non deluderla”
“Faccio del mio meglio lo sai” replicò lui “ma devo pensare anche a tutta un’altra serie di cose ora. Se, come penso io, partiranno le indagini, anche noi verremo coinvolti … niente di cui preoccuparsi, ma vorranno almeno sentire quello che abbiamo da dire”
“Certo certo” annuii. E ne avrei avute di cose da dire io; se fosse servito a farmi vedere in faccia quel pappone che aveva ridotto Allison ad una schiava, se fosse servito a sbatterlo in galera e a buttare via la chiave, avrei parlato davvero molto volentieri.
“Un’altra cosa Tyler …” riprese Les “dovresti avvisare i genitori di Allison. La polizia li avrà già avvertiti visto che era stata fatta una denuncia di scomparsa, ma ho bisogno che li tranquillizzi. Allison non vuole vederli …”
Annuii e lo lasciai rientrare negli uffici dove si stava tendendo l’interrogatorio. Ero ancora troppo euforico per pensare a trovare un panino da mettere sotto i denti per il pranzo e non avevo oltretutto la minima intenzione di abbandonare l’edificio. Una promessa è una promessa e va mantenuta.
Prima di tutto avrei dovuto chiamare i Riley e non sapevo cosa aspettarmi: Les aveva detto che Allison non voleva vederli e questo, oltre ad rattristare, mi metteva il dubbio che lei non li avesse incontrati, nonostante avessi organizzato un incontro fortuito con suo padre il giorno del suo compleanno; oppure lui non si era fatto avanti, ma questa era un’ipotesi che mi sentivo di poter scartare.
Ma il mio corpo sembrava essersi calmato e riavviato alla grande dopo l’incontro con Allison e nel giro di dieci minuti i crampi allo stomaco mi stavano corrodendo e implorando di buttare giù qualcosa. Mi sembrava di ricordare, a memoria visiva, di un bar a pian terreno, ed infatti fu lì che andai; eravamo io ed un centinaio di altre persone ad intasarlo: per prendere un hamburger e una Coca Cola impiegai 20 minuti sani, tanto che mi sembrava di essere nella mia libreria nei giorni di punta: avrei provato il trucchetto degli occhi dolci, se solo al bancone non ci fossero solo uomini. Mangiato al volo me ne andai a fumare una sigaretta fuori dall’edificio, in mezzo al passeggio continuo dei marciapiedi di New York: avevo voglia di caffè, ma per oggi ne avevo presi già troppi. Tra un tiro e l’altro tirai il naso in su, tra i grattacieli il sole era al suo zenit e si scorgeva; era una strana giornata d’inverno: non era fredda e umida, come al solito, ma calda e secca, quasi primaverile. Ma non per questo provai a togliermi il giaccone.
Presi il telefono e trovai di getto il numero di casa Riley sulla mia rubrica, dove Allison aveva voluto che lo salvassi: previdente come al solito.
Non passarono che due squilli da quando avevo avviato la chiamata.
“Pronto?” rispose all’altro capo Doug. La sua voce era esattamente quella di colui che è in attesa di notizie gravi e sviluppi e non era certo mia intenzione tenerlo sulle spine.
“Doug?! Salve Doug sono Tyler …” “Oh Tyler, benedetto ragazzo!” sentii esclamare, ma stavolta a parlare era Lois, la mamma di Allison, leggermente in lontananza. “Signora Riley?!” chiesi, titubante, a causa di una conversazione non particolarmente limpida. “Tyler non preoccuparti … sei in vivavoce” esclamò Doug, leggermente rilassato a sentire una voce amica “dimmi tutto”
Non sapevo fino a che punto spingermi, avevo paura di sbagliare come e peggio di prima. Rischiare di perdere Allison una volta avrebbe potuto essere umano, ma perderla due … era decisamente diabolico.
“Non preoccupatevi” cercai di minimizzare, diplomatico “la situazione è in mano al marito di mia madre, Leslie
Hirsch. È un ottimo avvocato, dovete davvero stare tranquilli …”
“Tyler ma di cosa è accusata?” chiese Lois, in apprensione. “Signora … davvero glielo devo dire?!” chiesi, sperando di non risultare troppo cinico “e comunque è stata lei a presentarsi dalla polizia. Ha denunciato le sue vecchie … compagnie … ma per farlo ha dovuto dare loro i suoi vecchi documenti e spiegare la sua posizione. La faremo uscire pagando la cauzione, ma Les è fiducioso che il giudice capirà la posizione di Allison e lei ne uscirà pulita”
Forse mi ero spinto troppo oltre, raccontando loro una versione del futuro a cui non credevo, ma sapevo quanto Les avesse sofferto e non meritava altro dolore. E per quando si fosse comportata da stronza, neanche Lois lo meritava.
“Bene” commentò Doug, ma era così ermetica la sua voce che non capii se si trattava di soddisfazione vera o fosse una mera constatazione: optai per la seconda. “Noi verremo a New York in ogni caso” dichiarò “… tempo di trovare un volo. Domani sera al più tardi saremo lì”
“No Doug!” lo fermai “non è il caso davvero! La situazione è sotto controllo e già questa sera Allison sarà a casa” … con me, aggiunsi, ma lo solo le mie labbra se ne accorsero.
“Tyler è nostra figlia!” ribatté Lois “non puoi impedirci di vederla”
“Io no” ne convenni “ma lei sì. È maggiorenne ormai … Doug, avrei bisogno di parlarti privatamente per favore”
Non era per cattiveria, ma c’erano cose che Lois non sapeva e non stava a me parlargliene. Ne sarebbe venuta a parte solo quando e se sua figlia avesse voluto. Io avevo sbagliato una volta, non mi sarei fregato con le mie stesse mani di nuovo.

“Dimmi Tyler” disse Doug e mi accorsi immediatamente che eravamo rimasti solo io e lui nella conversazione, sentendolo decisamente più vicino. “Cos’è successo? Allison dice che non vuole vedervi. Io non le ho chiesto nulla, ma Les dice …”
“È colpa mia” mi interruppe “non ce l’ho fatta a nascondere la verità a mia moglie. Le ho detto che era in città ed andata da lei …”
E così non era riuscito a mantenere il silenzio; purtroppo, era una cosa che avrei dovuto aspettarmi. A vederli insieme, Doug e Lois, era palpabile quando fosse solida la loro unione, ma soprattutto la loro fedeltà e fiducia l’un l’altro, nonostante le prove che avevano dovuto affrontare. Potevo solo immaginare la reazione di Allison a trovarsi sua madre di fronte, l’ultima persona che lei avrebbe voluto trovarsi davanti.
“Ora non mi stupisce che non ci voglia vedere … si è sentita tradita” constatò lui, demoralizzato “l’ho accompagnata alla fermata degli autobus per ripartire, ma ci siamo scambiati poche parole. Parlale Tyler, ho paura che non voglia più vedermi …”
Doveva essere una paura ricorrente quella, c’ero passato anch’io e sapevo cosa si provasse. “Proverò” mi impegnai “ma non garantisco”
Ci salutammo cordialmente e cercai di tranquillizzarli di nuovo entrambi. Lasciai loro anche il recapito telefonico di Les, volendo accollarsi l’onere della cauzione. Anche se non erano in buoni rapporti, anche se ricucire quel legame sembrava difficile, sembravano intenzionati a far funzionare le cose. C’era da fidarsi di loro, o almeno di Doug: conoscevo quel genere d’impegno e determinazione, perché era lo stesso che mi aveva portato ad averla vinta proprio con Allison.
Passai il resto della giornata nella sala d’aspetto della centrale, tra gli sguardi sospetti degli agenti e squallide riviste comprate nel giornalaio in fondo alla strada in tutta fretta, per evitare di non essere presente quando Allison fosse stata rilasciata. Di tanto in tanto andavo a rompere le scatole negli uffici a chiedere informazioni, ma venivo molto poco educatamente rimandato a sedere e ad aspettare, perché quel genere di cose non ha un tempo stabilito e non possono parlarne con il primo che capita. Il tempo passava, più di quanto io stesso avevo stimato e fui costretto a chiedere ad Aidan di fare gli straordinari in libreria per sostituirmi; ce l’avevo ancora con lui e lui con me, ma non era riuscito a dirmi di no: “Spero per te che ne valga la pena” aggiunse, quando gli spiegai perché stavo passando la giornata in una centrale di polizia.
Quando vidi Les uscire dall’ascensore erano ormai le sette di sera, e non mi ero nemmeno accorto che erano state accese le luci nell’edificio. Nell’androne eravamo rimasti in pochi, qualche barbone rifugiatosi lì per la notte e gente in fila per denunce o documenti.
Gli andai incontro mentre si preparava ad uscire, infilandosi giaccone e sciarpa. Sembrava soddisfatto ed io tirai un deciso sospiro di sollievo, anche se non potevo esserne ancora certo.
“Allora?!” domandai e dal tono che mi uscì dovetti risultare più in apprensione di quanto non fossi realmente, a giudicare dall’espressione scettica di Les.
“Come?!” chiese lui a sua volta, sarcastico e divertito, ricordando le mie lusinghe di quella mattina “non mi avevi definito il miglior avvocato della East Coast?! E questa è tutta la fiducia che riponevi in me … complimenti!”. Ridemmo entrambi e lui mi mise un braccio attorno alle spalle, dandomi un grosso scossone, notando sicuramente quanto quell’intera situazione mi aveva coinvolto e provato. “È andato tutto come previsto” continuò “Allison sta prendendo le sue cose e scenderà a breve. Io me ne torno a casa, è stata una lunga giornata …”

“Grazie … grazie mille Les” esclamai, abbracciandolo davvero di cuore. Ma lui si stacco, lasciandomi delle pacche sulle spalle confortanti e annuendo leggermente con la testa: era sempre stato un gran chiacchierone e uno che non ha peli sulla lingua, a riprova del fatto che la sua professione calzasse a pennello con la sua personalità, e vederlo lì in silenzio, quasi commosso dalla mia espansività nei suoi confronti, mi disorientava. Di figli non ne aveva avuti, né con mia madre, né dal suo primo matrimonio, finito male, con un’oca acida che, se non fosse stato per sue le ottime conoscenze nel foro di New York, aveva tutte le intenzioni di ridurlo sul lastrico. Ed ora si occupava in maniera egregia della piccola Caroline e negli ultimi tempi anche di me; era un ottimo padre putativo, cosa che non era riuscita affatto al nostro padre naturale, colui che vi aveva dato il nome. Mi sarebbe piaciuto che fosse stato lui lì con me, che lui si fosse fatto in quattro per Allison, che lui mi avesse dato quelle pacche sulle spalle. Ma nella vita non si può avere tutto, e se questo era il meglio che potevo avere, lo prendevo con molta gratitudine. Les si allontanò, ma prima di uscire mi salutò un’ultima volta: “Immagino che non dobbiamo aspettarci un rientro di Allison a casa prima di domattina, giusto?”


soundtrack2


Risi, un po’ timidamente e mentre lui se ne andava mi voltai, accorgendomi che gli ascensori si stavano aprendo di nuovo. Allison era finalmente davanti a me. Dentro quella stanza, prima di pranzo, avrei voluto prenderla, abbracciarla e baciarla. “non qui … non ora” disse lei; ma ora sì che avrei potuto, e anche se il luogo non era esattamente il più romantico e appropriato che conoscessi, sentivo che potevo farlo. Avrei baciato Allison; ero emozionato come una adolescente al suo primo bacio, anche se quello non era certo il primo bacio che avrei dato ad Allison. Ma la mia ragazza, per lei sì che era il primo bacio.
Fu lei però a sorprendermi e a venirmi incontro, lasciando che sue braccia si ancorassero alle mie spalle e le mani si arpionassero tra i miei capelli. Nascose la testa nel mio collo ed io la tirai su. Non piangeva, non rideva e non ero nemmeno sicuro che stesse respirando. Stavamo lì, fermi, a bearci l’uno della stretta dell’altro. Il suo profumo al ridosso del mio corpo mi era mancato immensamente e quell’aroma di latte di mandorle era ormai il mio calmante naturale; mentre con una mano le cingevo la vita, con l’altra le accarezzavo i capelli lisci e setosi.
“Sei qui!” disse lei quando ci staccammo, quasi incredula ma felice di avermi trovato. “Sono qui!” confermai ed i suoi occhi si fecero lucidi, le labbra si contrassero, come quando si vogliono reprimere a forza le lacrime. Eppure era raggiante. “Sei qui!” ripeté, la voce rotta. “Non piangere” sussurrai, stringendole il volto tra le mie mani e posandole un bacio sulla fronte “dove pensavi che fossi … te l’avevo promesso”
Così come lei era rimasta interdetta dall’avermi trovato lì ad aspettarla, così io ero ancora sconcertato dall’idea che la mia piccola eroina aveva deciso di dire addio al suo passato nel modo più terribile, e lo aveva fatto per noi, perché potessimo stare insieme senza ombre e senza paure.
La vidi ricacciare in dentro le lacrime, obbligandosi a sorridere anche se aveva voglia di piangere tutte le lacrime di questo mondo. Mi diceva sempre che le lacrime non erano fatte per la felicità e si stava impegnando per far sì che fosse così.

“Ora me lo puoi chiedere” disse, posando le sue mani sul mio torace; dapprima non capii e non ci fu bisogno di chiedere, perché lei comprese il mio disorientamento. Dovevo avere una faccia che era tutta un programma … “quello che mi hai chiesto ad Indianapolis” chiarì “chiedimelo di nuovo”
Non aspettavo altro e non ebbi paura. Perché sapevo bene quale fosse la risposta e non c’era nemmeno bisogno di chiederglielo. Lasciai scorrere le mie mani dal suo volto al collo, intrecciando le mie dita con l’attaccatura dei suoi capelli alla nuca, l’attirai a me e l’ultima cosa che vidi prima di chiudere gli occhi fu il suo sorriso. Le nostre labbra si incontrarono di nuovo dopo quello che mi sembrava un periodo lunghissimo, una vita intera. Si salutarono prima timidamente, poi sempre più spavalde, come chi ha atteso e palpitato perché quell’incontro avvenisse. Tutto quello che avevamo passato fino a quel momento era in quel bacio, la fatica di capirsi e aprirsi all’altro, la facilità di stare insieme e divertirsi insieme. I sorridi, le lacrime e anche e soprattutto i litigi. Eravamo cambiati molto, entrambi, ma non eravamo mai stati così tanto noi stessi per l’altro. Sentii le sue mani finire di nuovo nei miei capelli, afferrandoli, tirandoli eppure quello che i nostri corpi frementi parlavano era un idioma diverso da quello delle nostre bocche; mentre le nostre mani ci avrebbero strappato già i vestiti di dosso, le labbra assaporavano quel momento fino in fondo, fino all’ultimo: un filmato a rallentatore che apprezzava ogni singolo fotogramma.
Dovemmo staccarci controvoglia, ricordandoci che quella era una stazione di polizia e nessuno dei due aveva intenzione di finire dentro per disturbo alla pubblica decenza. Non c’era niente di male a baciarsi, ma i poliziotti non sono persone particolarmente sensibili …
La presi per mano, intrecciando le nostre dita ed andammo via: fino a quel momento ogni volta che lo avevo fatto avevo dovuto ricordarmi che non era per lei quello che valeva per me. Ora invece no, quello che aveva un significato per me, lo aveva anche per lei: era una sensazione di alleggerimento mai provata prima. Non avrei dovuto più pesare le mie parole e i miei gesti e, anche se non sarebbe stato facile, era certamente una passeggiata rispetto alla situazione precedente, quando eravamo in bilico tra amicizia e amore.

“Ciao Aidan” salutammo il mio inquilino, appena rientrati in casa. Più entrare civilmente, sembrava più che altro che avevamo sfondato la porta, battendovi contro, impegnati a baciarci mentre aprivamo la serratura.
“State bene voi due?” domandò Aidan, uscendo dal cucinotto con in mano un sandwich. “Sì” rispondemmo all’unisono, ma lui ci guardò perplesso. Effettivamente, tra le risate e gridolini dovevamo dare l’idea di essere ubriachi; ma era proprio così che mi sentivo, ero assolutamente strafatto di Allison, del suo profumo, del suo sapore, del suo sorriso, dei suoi occhi. “Aidan” esordii, con aria solenne “ti presento Allison, la mia ragazza!” “Ciao Aidan!” mi fece eco lei, altrettanto euforica. Andai in cucina a prendere due birre e lei prese il telefono per chiamare per ordinare delle pizze.
“Ma tu non eri in galera?” le chiese Aidan, facendosi serio. “Strumento meraviglioso la cauzione, non trovi?” rispose lei, non riuscendo a rimanere seria. Avvicinandomi, le porsi la mia bottiglia e lei mi tirò a sé per la maglia per darmi un bacio, così mi buttai sul divano anch’io e mi curai poco di Aidan, rimasto lì a reggere il moccolo. Neanche nei miei sogni migliori era stata così espansiva, ma immaginavo fosse solo la carica del momento e che passate le prime ore, ci sarebbe passata ad entrambe. Almeno lo speravo, altrimenti Aidan sarebbe stato costretto a trovarsi un altro appartamento.
“Ho capito …” decretò il mio coinquilino e staccandomi controvoglia da Allison lo vidi imbacuccarsi per uscire “è meglio se per stasera mi trovo un altro posto per dormire”









NOTE FINALI

Ok, lo so già che mi ammazzerete ora perché come finale è orrendo e c'era una cosa che volevate leggere ... vi conosco ormai porcelle XDXDXD
Comunque, questo è quanto. Finalmente! Allelujia!! Samba!!!
Lo so, lo so ... ce ne abbiamo messo di tempo ma alla fine ce l'abbiamo fatta. Spero che non sia stato tutto troppo frettoloso, ma ho veramente avuto tanta difficoltà a scrivere questo capitolo e se provavo a dividerlo in due mi risultava vuoto. 
Spero che vogliate farmi sapere cosa ne pensate perché è davvero fondamentale per me. Parlo soprattutto con voi...lettrici silenziose ù.ù
Vi rinnovo l'invito a passare sia sulla pagina di Facebook che su Twitter 
Ora mi prendo una pausa di un mesetto (forse anche più) e vi saluto chiarendo che la storia non è assolutamente finita, anzi.

à bientot

Federica


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Capitolo 26
*** I .... You ***


When you crash in the clouds - capitolo 25










ATTENZIONE:
questo capitolo potrebbe contenere parti adatte solo a lettrici adulte. Per consentire a tutte la lettura ho deciso di non cambiare il rating della storia da ARANCIONE a ROSSO. Confido nella vostra grande maturità.
















Capitolo 25
I …. You










"I stroke her lightly, memorizing her body.

I want her to melt into me, like butter on toast.
I want to absorb her and walk around for the rest of my days with her encased in my skin.
I want.
I lie motionless, savoring the feeling of her body against mine.
I'm afraid to breathe in case I break the spell."
(Water for Elephants )









Rimasti da soli, nel silenzio di quelle quattro mura ed il ronzio della città che veniva da fuori, sembrava di essere in un universo parallelo. Non avrebbe dovuto esserci, eppure sentivo dell’imbarazzo a ritrovarsi soli, da parte di entrambi.
Per sciogliere il ghiaccio mi staccai per un momento da lei, dal suo abbraccio e dal suo sguardo e presi a bere la mia birra.
Non era mia intenzione ubriacarmi, non c’era un secondo di quella lunga notte che avessi intenzione di perdermi; dovevo distendere i nervi, e non conoscevo nulla che assolvesse il compito meglio dell’alcool. A parte il sesso e le sigarette, ma ogni cosa va fatta con ordine.

“Dici che l’abbiamo spaventato?” chiese lei, spaparanzandosi sul divano, con i gomiti e comodamente appoggiati sullo schienale. Sorrisi, ricordando la faccia di Aidan quando ci aveva visti rientrare in casa come se fossimo i due protagonisti della commedia romantica e schifosamente zuccherina di turno. Era strano pensare che quella descrizione potesse valere anche per noi, che c’eravamo mandati a fanculo reciprocamente tante di quelle volte che ormai avevo perso il conto e che, se avessimo potuto, ci saremmo presi a pizze in faccia.
Ora sembravamo piuttosto la versione a due zampe di Lilli e il vagabondo, mancava solo un piatto di spaghetti da condividere. Se mi fossi guardato dall’esterno, probabilmente mi sarei fatto schifo da solo, ma ero in uno stato di tale beatitudine con me stesso e con il mondo che se mi avessero svaligiato casa sotto il naso non avrei reagito. Atteggiamento da checca, ne convengo, ma non era una cosa che potessi controllare.
“Ti va di mangiare?” domandai, visto che le pizze che avevano portato si stavano freddando sul tavolino di fronte a noi; ma la vidi arricciare il naso: “nnn … dopo”. “Allie … le pizze” il gran coglione che era ribatté, nel momento meno opportuno. “Le riscaldiamo al forno …” borbottò lei contro le mie labbra, pragmatica e al contempo smaniosa di arrivare al dunque della situazione. Mi ero fidanzato con una ragazza perennemente ingrifata ed io stavo lì a proporle una cenetta romantica. Cazzone!

Può darsi che attraversassi una fase in cui ero leggermente effeminato, ma non riuscivo a digerire l’idea di prenderla lì com’era e portarla in camera da letto, oppure farlo lì sul pavimento, di punto in bianco.
Forse perché mi piaceva pensare che fare l’amore con lei fosse sempre qualcosa di speciale e meritasse di essere trattata con i guanti.
Volevo prendere di lei ogni cosa che aveva da offrirmi ed io ero pronto a donarle in cambio tutto me stesso. Ma a modo mio.
Mi avvicinai e le posai un bacio sulle labbra, e finalmente potei assaporarne ogni istante, in silenzio, senza il chiasso dei miei dubbi, senza i sensi di colpa. Le sue mani corsero rapidamente ai miei capelli e sentivo le sue dita giocare con le ciocche, tirarle leggermente, aggrappandosi come fossero radici. Era bello immaginare che ogni problema, da quel momento in poi, si sarebbe risolto in quel modo, spegnendo ogni malumore dell’uno sulle labbra dell’altro. Ogni paura svanita, ogni dubbio dissipato, il tempo riprese a scorrere lievemente insieme ai nostri respiri, calmi e sicuri. Non poteva esserci nulla del resto di più naturale, se non un ragazzo ed una ragazza che si stringono ed esprimono i sentimenti con la parte migliore di sé. Non c’è niente di sbagliato, niente di immorale o volgare, nel voler celebrare l’incontro di due anime con i corpi che si cercano fino allo spasmo. Ero stato uno stupido a credere di poter rendere tutto più bello e perfetto, cercando l’attenzione per il dettaglio, pianificando ogni mossa; siamo animali, in fondo, è bene ogni tanto seguire i propri sensi.
E non c’era posto dove volessi essere, se non quello in cui l’olfatto, l’udito, il gusto, la vista ed il tatto mi avevano condotto: tra le sue braccia, sulla sua bocca, a contatto con la sua pelle, immerso nei suoi occhi; e presto dentro di lei, di nuovo. Una seconda prima volta non viene concessa spesso: non avrei perso neanche un singolo battito di ciglia.

Ci eravamo tacitamente definiti amici di letto fino a qualche giorno prima, ma alla fine avevamo condiviso le lenzuola solo in 3 occasioni. Tutto quel sesso centellinato in fondo aveva contribuito a rendere ancor più speciale quel momento perché tutto era visto con occhi diversi, ogni suono, ogni gesto, ogni odore. Non era qualcosa di scontato che avevamo già fatto o che veniva da sé; era l’ennesima scoperta dell’altro, il raggiungimento di nuovi limiti e di nuove mete.
Non conoscevo ancora precisamente quelle sue linee perfette, quelle sue forme timide e leggere a cui mi ero sempre incastrato perfettamente, per quanto me le sognassi la notte ,ed ero pronto a scommettere che lo stesso valesse per lei ,che agognava per un nostro contatto più profondo come l’ultimo desiderio di un condannato a morte. Ma nessuna condanna all’orizzonte se non la splendida esecuzione di un verdetto che ci aveva colpiti entrambi, destinati ad appartenerci nonostante tutto, a dispetto della sua testa calda o della mia reticenza a farmi avanti, nonostante le vite diverse o i traumi per le tragedie vissute.
Misi a dormire il grillo parlate che aveva chiacchierato un po’ troppo nella mia testa, mi alzai e, abbandonate per qualche istante quelle labbra ormai rosse e gonfie, le guance accaldate, mi ritrovai a spogliarmi di fronte a lei che mi seguiva attenta, affamata di ben altra carne. C’era desiderio ma anche purezza in quello sguardo ed era devastante sentirmi spogliare l’anima per mano dei suoi soli occhi. Quando rimasi solo in boxer si alzò. Sapevo che avrebbe voluto pensarci lei, così mi fermai e stetti ad aspettare, troppo dolorosamente per il signorino del piano di sotto, compresso e soffocato dalla stoffa dell’intimo.

Ma prima di venirmi incontro Allison fece una cosa che non avevo previsto e che fu la mia morte definitiva. Rimanendo seduta e sempre con quegli smeraldi infuocati incastonati nel volto intenti a squadrarmi ,si tolse in un sol colpo la maglia di lana e la tshirt bianca che aveva addosso, rimanendo con nient’altro che un paio di jeans attillati  nel punto che più amavo di lei.
Dio mio, cosa ho fatto di male per meritare una simile tortura? E cosa ho fatto di tanto  buono per meritare un simile premio?
Sentivo di volerla, non solo con tutti i muscoli del mio corpo, dal più sveglio in quel momento al più inutile: era un bisogno cerebrale, un tarlo che, se non soddisfatto, mi avrebbe portato all’autocombustione. E per l’attesa era tanto più penosa e piacevole, quanto più ero mi rendevo conto di quanto meravigliosa e promettente fosse quella notte.
“Tu il reggiseno no, eh?” commentai, sarcastico, ma contento che quel suo vizietto portasse con sé i migliori benefici.
Fece spallucce e finalmente si alzo, avvicinandosi. Mi avvolse con le braccia il collo, provocante come la più ruffiana delle gattine.
Poteva aver rinunciato alla sua vecchia vita, rendendomi l’uomo più felice del mondo, poteva aver riconquistato l’adolescenza buttata alle ortiche, ma non poteva dire addio alla geisha che era in lei, a quelle abilità e quelle movenze ormai acquisite, di cui il suo corpo era ormai pregno. Non le avrei detto di smettere, ora che quella sensualità ormai ingentilita era tutta per me, perché non c’era dolore più gradito, non c’era piacere più grande che avrei chiesto, se non quello donatomi da lei.
Io non resistevo più e vedevo che per lei era lo stesso: mi abbassò il viso con le sue mani per baciarmi, prima le labbra, poi più intraprendenti, le nostre lingue si incontrarono senza che nessuno diede loro ordine alcuno.
Poi, l’unica cosa che ho in mente è l’immagine del suo seno nudo che sfiora pericolosamente il mio petto e le sue mani che giocano con l’elastico dei boxer, un attimo prima che la stoffa sparisca, sostituita dalla morsa di sollievo e calore della sua mano. “Dio …” fui in grado di esalare, infine, in un estremo lampo di lucidità, quando le mie labbra sono vicine alla pelle del suo collo, calda e morbida. Forse perso nel mio paranirvana, egoista come solo un uomo eccitato può essere, mi accorsi solo dopo un po’ che lei era ancora fasciata dai suoi jeans, quando tentai scendere con le mie mani su quel monumento che era il suo fondo schiena.
“Adesso tocca a me però” le dissi, portandola ad allungarsi sul divano. Ringraziai mentalmente, perché se non mi fossi imposto quella pausa, sarei miseramente esploso prima del previsto. E non era quello il momento di ricoprirmi di ridicolo davanti alla mia ragazza.
Le sfilai via i jeans e lei tolse anche le mutandine, che io avevo lasciato. Erano lontani i tempi in cui si vergognava di quel corpo umiliato e profanato da cani e porci; ora era solo mia e sembrava felice e fiera di esserlo. Sapeva che c’era rispetto nelle mie frasi sussurrate, c’era compostezza in ogni posa e si fidava: non potevo esserne più felice, per lei e per me … per quel noi che finalmente era reale.

Posai un bacio leggero sul fianco, avvicinandomi verso l’ombelico; sapevo che avrebbe riso, e adoravo sentire il suono della sua risata, il tintinnio leggero e delizioso delle sue corde vocali. L’abbracciai in vita e poggiai il mio mento sul suo ventre piatto, standola a guardare per un attimo: era bellissima, pure accalorata e già un po’ sudata. Ma la cosa più bella erano i suoi occhi, lucidi e vivi come non lo erano mai stati prima e per una volta mi sentii libero di esserne orgoglioso, perché ero io la causa della sua estasi. La sua mano, piccola e vellutata, tracciò una carezza lungo il mio volto guardandomi con quello sguardo pacato e timido che amavo. Non c’era nulla di più puro, nulla che mi facesse rinascere quanto quella dolcezza che veniva a posarsi su di me.
“Vieni qui” sussurrò e mi gettai su di lei, sulle sue labbra ed entrambi lasciammo alle nostre mani il compito di esplorarci ancora e darci sollievo. Sarà stata anche una notte fredda fuori, ma per noi era una notte di mezza estate, umida ed afosa, buona solo per guardare le stelle ed esprimere i propri desideri.
E non c’era niente ormai che potessi chiedere, perché lei mi aveva dato tutto e non volevo indietro me stesso: ero suo e stavo da dio.
Ma come se non fosse già abbastanza la vidi staccarsi da me e scendere verso il basso, posando una scia di baci roventi lungo il suo tragitto; sapevo qual era la sua meta e un arsenale di fuochi d’artificio esplose in me: il corpo era pronto ad accogliere le sue attenzioni e anzi le bramava, ma la mente aveva tirato il freno a mano e invocato il may day. I flash di quella notte in cui mi ridussi la faccia ad una poltiglia per lei erano ancora troppo vividi per tollerare che lei si inginocchiasse davanti a me, non come la donna che amavo ma come l’amante di una notte. Non a caso le avevo promesso che le avrei insegnato l’amore e non il sesso, non potevo lasciarla spingersi tanto oltre.
Con le ultime riserve di razionalità la spinsi via, delicatamente, senza che potesse fraintendere alcunché di male e la attirai a me, con la scusa di un bacio, tirandomi a sedere con lei. “Lo sai che non devi …” le dissi, la voce troppo roca per essere autoritaria, alludendo a ciò che stava per farmi. “Ma io…” riprese lei, ma la fermai, portandole un dito sulle labbra. “Non voglio che … ti senta obbligo di fare qualcosa solo perché la faccio io” spiegai, al meglio che potevo; pensavo infatti che si sentisse in dovere solo perché io le avevo spesso riservato quel tipo di trattamento. Ma non doveva pensare che io fossi quel genere di persona.
“Non devo io” sussurrò sulle mie labbra, tornando ad accarezzarmi più in basso “o non vuoi tu?! Perché io lo voglio … per la prima volta”
Bastarono quelle poche parole ad aprirmi un mondo: il sesso è amore, e diventa volgare solo se lo si vuole rendere volgare. Allie aveva fatto per tanto tempo quello che le era stato chiesto dietro pagamento, piegandosi e umiliandosi davanti a perfetti estranei; ma io l’amavo e lei amava me, non eravamo affatto estranei. La volevo e volevo tutto quello che aveva da offrirmi, in un modo che incominciava davvero a far male, ma non ci riuscivo. Lei sembrò leggermi nella mente perché si abbassò verso la punta e, con un visino fintamente timido, prese in mano la mia erezione e, avvicinandola alla sua bocca come fosse un microfono,
disse sorridendo sorniona e provocante. “Neanche un bacetto?”
Mi lasciai cadere sul divano, ormai definitivamente abbattuto, ridendo come un matto e coprendomi con le mani il volto, come un santarellino indignato e scandalizzato. Come poteva esserci volgarità in quel viso da gattina, impertinente e divertita. Cosa c’era di osceno in un due ragazzi che non si trattengono dal ridere neanche mentre fanno l’amore?
“Solo perché non ce la faccio più” mi giustificai, sostenuto, ed in parte era vero che avevo i minuti contati “ma dopo mi concedi il secondo round …”
“Strano” commentò “di norma avrei dovuto chiederlo io a te”
Ma non le diedi più retta o sarei venuto solo a guardarla e, in un surreale silenzio, persi completamene la trebisonda.

 

“Ecco qui” disse Allison, entrando in camera da letto con un piatto colmo di pizza, già tagliata a spicchi, i tovaglioli e una bottiglia di birra.
Non capivo perché le donne amassero tanto indossare le maglie degli uomini dopo aver fatto l’amore: Allison non era certo impegnata a sfatare questo mito ed io non perdevo il mio tempo a contestare, la mia salivazione subiva impennate storiche ogni volta che lei si aggirava per casa con una delle mie felpe, facendo bella mostra delle lunghe gambe bianche e di quella libidine con i fiocchi che si intravedono leggermente dal bordo della maglia.
“Grazie” risposi, sporgendomi a rubarle un bacio, dolce e fugace, mentre veniva a riscaldarsi sotto le coperte; in fondo era solo la fine di gennaio e le tracce dell’ultima, copiosa, nevicata erano sparite da poco.
Non c’era nulla di più bello – a parte il sesso – che stare con lei a chiacchierare a letto, scherzando e coccolandosi, al buio della camera da letto. Lo avevamo fatto la sera che ci eravamo conosciuti e le migliori tradizioni vanno conservate rispettosamente.

“Ho parlato con tuo padre oggi pomeriggio” le dissi, addentando un pezzo di pizza bollente. Dopo la figuraccia rimediata ad Indianapolis ci tenevo a chiarire immediatamente le mie intenzioni e le spiegai ampiamente perché l’avevo chiamato e ciò di cui avevamo parlato, senza tralasciare alcun dettaglio. Lei stette ad ascoltarmi, tranquilla e silenziosa. Quando ebbi finito, sorrise e, prendendo un tovagliolo, mi pulì il bordo della bocca, evidentemente sporco di pomodoro e mozzarella: “tu e mio padre siete simili per un certo verso …”
“cosa” scherzai “ci sbrodoliamo mentre mangiamo”- Sorrise. “Per proteggere chi amate siete disposti ad accollarvi ogni colpa”
Non capii a cosa si riferisse, in un primo momento.
“Ha detto a mia madre dove mi trovavo solo perché non c’era altro da fare” spiegò “io sono stata tanto ingenua da chiamarlo al cellulare quando era in casa e rispose lei al posto suo. È stato costretto a dirle tutto, non poteva fare altrimenti. E poi lei si è presentata in albergo … a proposito, non ti ho ringraziato per aver pagato il conto”. Scoccò un bacio proprio in quell’angoletto della mia bocca che aveva appena pulito e si alzò per portare via il piatto ormai vuoto, spazzolato per bene in meno di 5 minuti.
“Non ce n’è bisogno” dissi, raggiungendola in cucina con il resto della spazzatura che avevamo fatto. Era passata da un bel po’ la mezzanotte e faceva un freddo cane nell’appartamento, così la convinsi a lasciar perdere le stoviglie e a tornare sotto il piumone.
“Com’è andata con tua madre?” domandai, mentre smadonnavo mentalmente per i suoi piedi ghiacciati intrecciati alle mie gambe.
“È diversa da come la ricordavo …” rispose. “E questo è un bene o un male?” sondai. “Non lo so … era diversa, punto. Non so se la mia memoria si era creata un ricordo sbagliato o se è cambiata e basta” spiegò “però a pensarci mi sento uno schifo per come l’ho trattata, non l’ho lasciata nemmeno parlare e avevo promesso a mio padre che avrei fatto un tentativo. Lei ci è andata piano e io l’ho aggredita … al mio solito”
Era sfiduciata, si sentiva, delusa per aver deluso suo padre, a cui doveva tenere molto. “E Doug? Con lui come è andata?” decisi di cambiare argomento, mentre lei colta da improvvisa inquietudine iniziò a muoversi agitata nel letto; così l’attirai a me più di quanto non fosse già e presi a carezzarle la schiena con una mano mentre l’altra, intrappolata tra le sue, era impegnata in uno strano gioco ad intreccio. “Bene … con lui è andata molto bene” disse ed ero felicissimo di sentirglielo dire; almeno il mio errore era valso a qualcosa. “Non mi ero resa conto di quanto mi fosse mancato fino a quando l’ho visto lì davanti a me, vivo e perfettamente in salute” confessò “ci siamo ritrovati subito e abbiamo chiarito diverse cose … come il mio stare qui”

“Cosa ti avevo detto?!” le dissi, rassicurante “ero sicuro che ce l’avresti fatta ad importi …” “Sì avevi ragione … avevi ragione su tante cose… e poi” cercò di continuare, ma la sentivo distante, rapita già da un primissimo torpore che quelle coltri calde avevano favorito. Era stata una giornata lunga ed estenuante, ci meritavamo entrambi un po’ di sano riposo, insieme.
“È tardi amore … mi racconti meglio domani, abbiamo un sacco di tempo …”
“Ehm no Tyler …” disse, come svegliata di soprassalto da un bombardamento. Posò la sua mano sul mio petto, dove già si era prontamente sistemata a mo’ di cuscino “Ti prego … non chiamarmi … è difficile …”
“Cosa?” domandai perplesso “credevo che ora sarebbe stato tutto diverso … perdonami” “No, no … non chiedere scusa” si affrettò a mettere in chiaro “è tutto diverso ora ma … devi darmi un po’ di tempo per abituarmi. Io voglio stare con te, lo voglio davvero … ma niente nomignoli, ti prego”
Come al mio solito correvo troppo. Dovevo aspettarmi questa sua reazione spaventata e forse per un verso era anche meglio così, perché se avesse tenuto tutto dentro sarebbe stata una peggiore tortura per entrambi. Ma sentirla confidarsi e chiarire era un segnale che le cose andavano bene e che c’era fiducia, onestà e rispetto.
“Ok, come vuoi … hai ragione. Ora dormi però … Allison”
Ci sdraiammo di nuovo e quando chiusi gli occhi per lasciarmi andare al sonno un paio di labbra carnose si posarono lievemente sulle mie.
“Grazie” sussurrarono, credendomi ormai assopito “… ti amo”.







NOTE FINALI

Non ho granché da dire, ma immagino che capirete il motivo.
Mi premeva darvi questo capitolo più di ogni altra cosa. Spero vi sia piaciuto e spero che possa avere numerose recensioni...
Vi saluto e vi do appuntamento al 17 febbraio, data in cui festeggeremo il primo anniversario di questa storia.


à bientot
Federica

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Capitolo 27
*** I was broken...but it's over now ***


When you crash in the clouds - capitolo 26













Capitolo 26
I was broken ... but it's over now












soundtrack



Quando mi svegliai quella mattina, fu una sensazione strana ad accogliermi. Piacevole, ma strana.

Allison dormiva ancora, sdraiata accanto a me, respirando profondamente e abbracciata al suo cuscino, in posizione fetale. Sembrava un cucciolo in letargo e sospettavo che non l’avrebbe buttata giù dal letto neanche un cannone: era stata una lunga e stressante giornata quella che precedente, che ci aveva scossi ed elettrizzati entrambi. Benché in un primo momento l’euforia avesse preso il sopravvento, ero ben consapevole ancora di quanto fosse accaduto in realtà e quanto ci aspettasse nei giorni che sarebbero seguiti: a seguito la denuncia di Allison, ed il suo arresto, la polizia avrebbe aperto un’indagine, ci sarebbero stati altri interrogatori, deposizioni, tutte quelle cose che fanno tanto film poliziesco. Era assurdo pensare che fosse quella l’unica soluzione che Allison avesse per liberarsi definitivamente del suo passato.
Ma il pensiero di qualcuno che avrebbe potuto minacciarla, farle del male o rivendicare diritti assoluti su di lei, mi inorridiva: non avrei mai permesso che le accadesse niente di male; avevo lottato fino a quel momento affinché fosse al sicuro e non mi sarei certo fermato ora. Mosso da un improvviso istinto di protezione l’abbracciai, avvolgendola completamente, e posando un bacio quasi impercettibile dietro l’orecchio, laddove era più sensibile. Ed il suo profumo mi invase e mi accolse, proprio come se fosse l’odore di cucina che pervade le case durante il pranzo della domenica: sapeva di famiglia, di benvenuto; era stato sciocco pensare, quando credevo di non avere speranze, che avrei mai saputo farne a meno.
Al suo risveglio e per il resto della giornata i brutti pensieri erano ormai un’ombra lontana, che tenevo ben alla larga pensando ad altro ma soprattutto pensando a lei e alla soddisfazione immensa di aver raggiunto quel tanto agognato traguardo. Aidan tornò a casa per cambiarsi e ci trovò più o meno come ci aveva lasciati: lei seduta sulle mie gambe, al tavolo della cucina, che beveva una tazza di caffè. Non disse molto, oltre ad alzare gli occhi al cielo, finché lei era rimasta con noi. Ma sapevo che non mi avrebbe risparmiato, quando lei non ci fosse stata.
“E così l’hai spuntata, eh?” chiese, sulla strada per l’università. Avevamo lasciato Allie nel vagone della metro, dal quale non sarebbe scesa prima di un’ altro paio di fermate. Da casa mia a casa di mia madre c’era un bel po’ di strada, ma non ti puoi lamentare se paghi 500$ d’affitto rispetto al doppio che pagherei ad abitare in un quartiere più vicino al centro e più raffinato.
Cercai comunque di non dare a vedere ad Aidan quanto facevo fatica a lasciare andare Allison, nonostante sapessi che l’avrei rivista a sera..
“Sì …” risposi, con una punta di fierezza, forse eccessiva date le circostanze. È risaputo che i maschi adorano vantarsi delle proprie conquiste, ma il nostro era un caso ben diverso: quella con Allison non era una relazione a tempo determinato, di quelle che quando le inizi sai già che finiranno; ci siamo trovati quando tutto attorno a noi c’era buio e ci siamo reciprocamente guidati fuori dalle nostre nebbie. Una volta fuori, era stato naturale per entrambi, capire che il legame che ci univa era qualcosa di più del mero istinto di sopravvivenza.
“Bene …” commentò, impacciato “immagino che ora dovrò fare l’abitudine ad avere una nuova coinquilina in giro per casa” Per lui non doveva essere facile vedermi con Allie, anche se sentivo che ne era segretamente felice: eravamo sempre stati solo noi due in quell’appartamento, al lavoro, a scuola, che dividermi con un’altra persona sarebbe stata dura da digerire. Non si preoccupava certo di mantenere un certo contegno dei modi – conosceva troppo bene Allison per dar peso a certe cose, visto che lei era il primo scaricatore di porto – ma conoscevo la sensazione nauseante che si prova ad essere il reggi moccolo della situazione.
“Non più di quanto lei non lo fosse già” lo rassicurai, dandogli una pacca sulla spalla. Forse non sarebbe stato esattamente come gli stavo promettendo, ma mi sarei impegnato affinché non si sentisse troppo a disagio.
Non feci in tempo a mettere piede in università e a trovarmi un posto nell’aula perché mi vibrasse il cellulare. Era Allison, mi avvisava che mia madre mi voleva a cena per quella sera. Nient’altro. Né un mi manchi, né un bacio, nulla. Mi rendevo conto che per lei era difficile lasciarsi andare e quello che avevamo raggiunto fino ad allora erano passi da gigante, rispetto a quando nemmeno riusciva a guardarmi in faccia per parlarmi, ma un po’ incominciava a diventare pesante quel portare pazienza. Per fortuna fu sufficiente ripensare a quanto dimostrasse di amarmi quando eravamo insieme, oppure a quel ti amo sussurrato sulle mie labbra quella stessa notte, quando era convinta che io fossi addormentato. E ero ben sicuro che non fosse un sogno: doveva solo abituarsi, comprendere che era una situazione normale e non c’era niente di male ad essere affettuosi.
<<Ok>> le risposi <<… e cmq anche tu mi manchi ;-) >>
Lei forse non sapeva come ci si comportava in una relazione, ed io non ero un maestro in relazioni durature, ma qualcosa ne capivo e quindi risolsi di insegnarle quel poco che ne sapevo.
Arrivati a sera mi presentai a casa di mia madre con la carica di un bimbo che torna da scuola con dei bei voti, con l’unica differenza che mia madre non avrebbe mai ficcato il naso nel mio libretto universitario e tutto quell’energia veniva in realtà dal fatto che finalmente non avrei dovuto più fare recite davanti a mia madre e Les. Sapevano già cosa provassi per Allison, l’avevano capito fin dall’inizio, forse pensavano addirittura che tra noi ci fosse già qualcosa in corso – senza contare che tecnicamente era la verità visto che andare a letto insieme è già qualcosa – ma visto che non c’era nulla di ufficiale e di moralmente accettabile da una persona adulta dovemmo mentire e tacere per un po’. Naturalmente supponevo i fatti della vigilia di Natale fossero diventati di pubblico dominio e continuare a fingere per la quiete di Allison era diventato davvero difficile. Ora però niente più recite, finalmente, e glielo dissi ben chiaro quando, a pranzo, le telefonai. Non sembrava particolarmente entusiasta all’idea, ma se n’era fatta una ragione e probabilmente già si aspettava da me una simile richiesta, tanto che la sua risposta affermativa arrivò all’istante.
Feci per suonare il campanello e sentii la voce di Allison avvicinarsi e avvertire mia madre che sarebbe venuta lei ad aprire la porta.
“Ehi … ciao!” sussurrò, portando dietro le orecchie una ciocca ribelle, con una dolce timidezza che era sempre più visibile in lei e che stava soppiantando la sguaiata e volgare Mallory dai trampoli volgari e le collant bucate.
“Diane è Tyler!” disse lei a volume più alto, mentre io entravo. Ancora con il giaccone addosso mi avvicinai a lei per abbracciarla e darle un bacio, che erano oltre 10 che non ci vedevamo e mi era mancata da morire.
“No dai!” disse, quasi infastidita, ritraendosi dal mio abbraccio e scansandomi.
“Che c’è?!” domandai, perplesso. “Non me la sento ... se ci vede tua madre? O Caroline … pensa se ci vede Caroline?” domandò. Oh amore mio … ma come devo fare con te?! Possibile che non riesci a fare nulla senza rimuginarci su ogni volta!
“Ma chi vuoi che ci veda scusa?” ribattei “e poi che ti frega?!”. Non volevo essere severo con lei o esigere che si comportasse con nonchalance dal primo minuto, ma mi sentivo in dovere di farle capire che non aveva bisogno di essere così impacciata proprio in casa di mia madre, dove c’erano persone che ormai erano la sua famiglia. La attirai a me con decisione e le cinsi la vita, cercando e ottenendo che mi guardasse dritto negli occhi. Lei sembrò essere ancora titubante, ma si lasciò plasmare a mio piacimento: era una di quelle cose mi fecero capire che neanche lei riusciva a starmi troppo lontana, come io non riuscivo a staccarmi da lei.
“Ehi!” mormorai, scotendola un po’ da quel broncio che aveva ogni volta che le cose non la convincevano “Prima di tutto … credi davvero che mia madre e Les non sappiano nulla? Devo ricordarti della notte di Natale? Non dovrei dirlo ma insomma … ieri sera Les non c’era per riportarti a casa, se n’è andato quando mi ha visto ad aspettarti e ti risparmio il commento sarcastico”. Con la battuta su Les riuscii a strapparle un sorriso, seppure lieve e mi accorsi che le sue braccia, prima rigide e ferme sulle mie come pronte a respingermi, ora erano finite dentro la mia giacca, oltre la camicia, ad afferrare la mia maglietta all’altezza dei fianchi. Pensai così che mancava poco a farla cedere, così sferrai l’ultimo attacco.
“E Caroline non è mica così impressionabile sai …” continuai “si vede quanto poco la conosci”
“Sarà …” disse lei annuendo, ancora poco convinta “… so che te lo avevo promesso, ma per me è difficile … non so come spiegarlo …”
“Dimmi a parole tue …” la incoraggiai “lo sai che non devi tenermi nascosto nulla”
“Io … io … non so darmi una misura” spiegò, sebbene non capissi cosa volesse intendere “voglio dire … non voglio essere una di quelle oche appiccicose e che sbavano in continuazione appresso al loro ragazzo, non voglio essere petulante e asfissiante con te … ma nemmeno apatica e frigida, perché non mi sento così. Ma non so cosa sia giusto. Quando siamo soli è tutto più facile, naturale … ma con altri davanti è un problema … e non ho intenzione di rimanere chiusa in camera da letto per il resto della mia vita …
“Per quanto sarebbe una bellissima prospettiva” scherzai ed anche lei si lasciò trascinare dalla mia risata. Ora capivo quale fosse il problema. Certo non era facile trovare un equilibrio tra la ragazza appiccicosa e quella distaccata e non certo potevo dirle io come essere, perché non sarebbe stata lei stessa ma solo ciò che io avrei voluto che fosse. Povero cervello mio … a volte non mi seguo da solo per quanto corri veloce!
“Ciao Tyler!” una voce mi salutò alle spalle di Allison. Era Caroline, scendeva le scale per andare in cucina, ma sembrava proprio non curarsi di noi.
“Ciao maestro!” contraccambiai. “Cosa fai ancora con il giubbotto?” domandò.
“Ah sì … no, niente, lo stavo levando …” dissi, ma lei era ormai già sparita dietro la porta va e vieni della cucina. Mi resi conto solo in quel momento che io ed Allison non ci eravamo minimamente staccati l’uno dall’altro e la piccola, per fortuna, non aveva fatto una piega. Avevo detto ad Allison che Caroline non era sensibile a certe cose, ma non ne ero poi tanto sicuro; la cosa che più temevo non era la rabbia, visto che voleva bene ad Allie, quanto piuttosto un’imbarazzante euforia.
“Visto!” le dissi, stringendole forte la mano. Che culo! pensai. “Vieni … ti mostro una cosa”
La portai con me nel ripostiglio delle giacche, all’ingresso. Mentre io mi spogliavo lei stava allo stipite ad aspettare, a braccia conserte, come se fosse in attesa di qualcos’altro.
“Vieni qui” le dissi a bassissima voce, disgustosamente roca – anche se alle sue orecchie doveva suonare altamente sensuale visto che si accese letteralmente come un cerino. La spinsi verso di me, quasi schiacciandola contro il muro e fui fortunato che nell’impeto incontrollato non si fece male, grazie alle giacche imbottite che fecero quasi da air bag. Prese a ridacchiare in quel modo timido e decisamente poco innocente che aveva lei, ormai perfettamente conscia del fatto che, anche solo con quella risata, riusciva a far suonare la cavalleria ai piani inferiori.
Prima le stampai un bacio sulle labbra, innocuo e anche fastidioso. “Questo” spiegai e la voce uscì dalle mie corde vocali quasi spiritata, che mi misi paura da solo “è un bacio a stampo”. “Non mi piace” confessò lei, stuzzicandomi “anche in Via col vento fanno di meglio”
Allora fu lei a prendere l’iniziativa; le sue mani risalirono dal mio collo fino al volto, e sentii distintamente il sangue ribollirmi fin dentro le arterie più interne. Si arpionò ai lobi delle mie orecchie e prese a giocarmi: tanto bastava per annebbiarmi la vista. Nonostante tutto riuscii a vedere come mi guardava, come riuscisse a farmi sentire nudo sotto il suo sguardo indagatore e perennemente sbalordito, ed era una sensazione meravigliosa. Mi sentivo suo e mi sentivo come un privilegiato; vederla guardarmi come se fossi il suo miracolo mi riempiva i polmoni di aria calda. Poso un bacio leggerò sulle mie labbra, ma era tutto fuorché innocente. Rincarò la dose e sembrava quasi che avesse intenzione di divorarmi le labbra. Ed ero ben felice di sottopormi a quel genere di cannibalismo, nonché di sdebitarmi.
“Così va decisamente meglio …” pronunciò, mentre per un secondo, le posavo un bacio sul collo. “Solo che così non mi so fermare …” mi lagnai, ma sapevo di non crederci più di tanto. Le sue mani erano finite in un nano secondo tra i miei capelli e le mie erano già sulla linea di partenza per la staffetta tra seno ed il sedere, visto che ritenevo un’ingiustizia decretare un vincitore tra quelle due meraviglie, anche se dovetti combattere un bel po’ con me stesso per rimanere al di sopra i vestiti.
In poco tempo, in quel piccolo stanzino l’aria divenne bollente e irrespirabile.
“Tyler! Allison!” arrivò la chiamata di mia madre e fummo costretti a staccarci, a malincuore, e a ricomporci, più facile a dirsi che a farsi. Ma non potevo presentarmi a tavola con un cuscino tra le gambe a nascondere il pacco lievitato. Così optai per levarmi la camicia e farle il nodo sui fianchi, sperando che potesse bastare e che il signorino rientrasse nei ranghi al più presto.
“Mi piace quella stanza” disse Allison, ancora un po’ accaldata, mentre attraversavamo il corridoio di ingresso “dovremmo starci più spesso”. “E non dimenticare la lavanderia …” rincarai la dose. “Tu.sei.un.genio” affermò, mentre entravamo in cucina, tenendoci per mano.
“Buonasera a tutti!” salutai, visto che anche Les era lì. Per fortuna, altrimenti chi se le sarebbe sentiti i che ti avevo detto di Allison, diedero tutti per scontato il fatto che io ed Allison eravamo entrati nella stanza mano nella mano e, visto che era impossibile che non l’avessero notato, non potei far altro che apprezzare la loro discrezione ancora una volta.
“Che fine avevate fatto?” chiese mia madre “sei arrivato 10 minuti fa e non sei venuto nemmeno a salutarmi”. Eccola che ricominciava … fosse stato per lei mi avrebbe dato il biberon con il latte e i Plasmon per cena. Io ed Allison ci scambiammo uno sguardo fugace di incredulità, che nel mio caso si traduceva piuttosto nel girarli al cielo, sgomento.
“Ehm … siamo andati sopra, mamma” le dissi, dandole un bacio per farla contenta mentre era ancora ai fornelli “avevo bisogno del bagno”
Potei giurare di aver sentito Les borbottare “sì..adesso si dice così” ma non indagai.
La cena passò abbastanza tranquillamente, io ed Allison riuscimmo a non creare scandalo e a contenerci, senza neanche essere troppo distaccati. Parlammo del suo viaggio ad Indianapolis, della sua amica Abigail che aveva rincontrato dopo tanti anni e del negozio di torte dove l’aveva portata suo padre per festeggiare il compleanno. Non toccammo l’argomento Lois, sapevo che per lei era ancora complicato parlarne.
“So che il tuo compleanno è passato da qualche giorno ma volevo festeggiarlo comunque” disse mia madre ad Allison “buon compleanno tesoro!”
E così estrasse da una scatola per dolci una torta a forma di cupcake gigante e che probabilmente avremmo impiegato un anno per finire. Era tipico di mia madre andare alla ricerca delle torte più strane; ricordavo ancora la torta per i miei 18 anni: il classico pan di spagna circondato di KitKat e ricoperto da M&Ms. Era entrata nella leggenda ormai!
“Esprimi un desiderio!” le gridammo quando, dopo averle cantato Tanti Auguri, doveva spegnere le diciotto candele. Così, dopo averci pensato su qualche secondo, soffiò sulle candeline, facendo esplodere gli applausi.
Mi avvicinai, cauto, sperando che nell’allegria e nell’atmosfera generale di festa non mi respingesse con la scusa che eravamo in pubblico.
“Io … io non ce l’ho un regalo a dire il vero” ammisi. Con il trambusto della partenza, il litigio e poi tutto il resto non avevo avuto tempo per comprarle nulla e sinceramente non avevo avuto nessuna idea in mente che non fosse scontata e banale. “Sai che non ho bisogno di niente da te … mi hai già dato tutto quello che potessi chiedere” disse e mi sentii inorgoglito. “Non avrei avuto nemmeno bisogno di esprimere un desiderio … con te li ho avverati tutti!”
Quello che mi stava dicendo andava ben oltre chiamarsi amore e darsi dei vezzeggiativi. Sapevo bene che non eravamo quel genere di coppia, che non era nemmeno necessario per noi prenderci per mano perché l’importante era dirsi in faccia quello che provavamo; e quello ci veniva benissimo.
“Posso dirti una cosa?” domandai. Annuì. “Ti amo” le dissi e non mi importava che mia madre e gli altri fossero lì a guardarci “e anche se mi odierai per avertelo detto … ieri notte ti ho sentito mentre lo dicevi a me”. Feci l’occhiolino e le sorrisi, ma non sembrò fortunatamente essersela presa; anzi, prendendomi per la nuca, mi abbassò alla sua altezza “mmm…non mi importa” disse “perché tanto è vero. Ti amo”
E così non potei resistere e le lasciai un bacio … sulla fronte. “Grazie” sussurrò.


Dopo cena mi ritirai per un po’ nello studio con Les, per capire qual era la situazione di Allison e come sarebbero andate le cose d’ora in avanti per lei che tecnicamente non era libera, ma in libertà vigilata. Soprattutto volevo accertarmi che non era pericoloso, per lei, aver denunciato i suoi aguzzini.  Allison nel frattempo stava al piano di sopra a lavare i capelli di Caroline.

“Purtroppo non so rispondere a questa domanda Tyler” mi rispose, onesto “vorrei dirti che non corre pericoli, ma non ne sono sicuro … sono cose che vedremo man mano che vanno avanti le indagini. Però tu ad Allison non dire nulla”
“Ci mancherebbe altro …” risposi. L’ultima cosa che volevo era che Allison si preoccupasse inutilmente. Les andò avanti, spiegandomi che, dato che avevamo pagato la cauzione, ovviamente Allison non era in libertà a tutti gli effetti, e avrebbe dovuto presenziare alle varie udienze che lo stato avrebbe intentato contro di lei, ma al contempo non c’era da preoccuparsi perché avevano assolto gente per cose molto più gravi di un documento falso.
“E le altre accuse?” chiesi, non completamente sicuro “lo spaccio … il furto … la prostituzione … tutte quelle cose di cui lei si è accusata?!”
“Farò in modo di portare la questione a nostro favore … Allison ha appena compiuto 18 anni, a nessuno verrà in mente che lei possa aver fatto tutto questo di spontanea volontà”
Il problema era che, per quanto incredibile che fosse, per quanto spinta dalla fame e dalle necessità, lei si era gettata volontariamente nelle braccia del suo protettore. Che poi lui non era stato ai patti che aveva preso con lei, quello era un altro paio di maniche.
“C’era un’altra cosa che volevo chiederti” proseguii “Allison era preoccupata per mamma? Temeva di procurarle problemi una volta che verrà fuori che lei vive qui”
“Dille di stare serena … tua madre sa destreggiarsi da sola, lo sai che è un Marines”
Tranquillizzato, fino ad un certo punto, me ne andai al piano di sopra, dove sentivo ancora il rumore del fohn e le loro chiacchiere, il tutto condito da musica chiaramente adolescenziale, scelta evidentemente da mia sorella. Stare lì a guardarle era uno spettacolo, una seduta sullo sgabello di fronte al grande specchio del bagno, l’altra intenta a passare la spazzola e il fohn a quelle ciocche bionde, lunghissime e lisce. Sembravano un quadretto familiare terribilmente spontaneo e naturale, che quasi viene da ridere a quei primissimi giorni quando Caroline non voleva saperne nemmeno di incontrarla. Ed ora sembravano due sorelle. Chissà come doveva sentirsi Allison a prendersi cura di quella bambina che aveva la stessa età di sua sorella: conoscevo bene la sensazione di trovarsi di fronte alla tomba del proprio fratello, ma trovarsi un surrogato, qualcuno a cui vuoi bene ma non è mai quel lui o quella lei che hai perso, doveva creare un tumulto interiore non indifferente. Ne avrei parlato con lei, al più presto.
Mi sarebbe piaciuto restare lì fuori a guardarle, spiarle per qualche minuto magari, carpirne qualche segreto. Ma lo specchio era davvero grande e, anche se ero alle loro spalle, non ebbero difficoltà a scorgermi dal riflesso.
“Tyler!” gridò la mia sorellina “che ci fai lì! Lo sai che non si spia!!!”
“Io?!” finsi di cadere dalle nuvole “di cosa stavate parlando?”
Con quell’asciugacapelli a pieno regime saremmo finiti tutti sordi a forza di urlarci, ma faceva caldo in quel bagno e si stava bene, c’era una atmosfera che non respiravo da tempo, da quando io e Michael eravamo dei ragazzini e mamma faceva il bagno alla piccola Caroline. La piccola di casa ancora indossa il pigiama e la vestaglia azzurra dopo il bagno e le pantofole sono sempre quelle profumate con i pupazzi di peluche: non è cambiato nulla da allora … o quasi.
Mi sedetti allo spigolo della vasca da bagno, curandomi che l’avessero svuotata e che fosse tutto asciutto: non era proprio il momento di rompersi la testa.
“Parlavamo male di te ovviamente” rispose sarcastica Allison “di quanto baci da schifo”
“Ah sì?” dissi, con fare minaccioso e feci per alzarmi ma mi ritrovai una folata di aria bollente di faccia a mo’ di pistola così alzai le mani, e mi arresi.
Allison e Caroline esplosero in una risata complice ed io con loro “la verità è che tua sorella mi sta facendo il terzo grado a proposito di questa novità … riguardo a noi due”
“E chi te l’ha detto a te, signorina?” le domandai. “L’uccellino … chi vuoi che sia stato Tyler! Mamma ne parlava con Les e poi vi ho visti a cena … piccioncini!!!”
Ti rendi conto che stai diventato vecchio quando la tua sorellina, dieci anni e mezzo, ti parla con quello che ha tutta l’aria di essere una bozza di sarcasmo. E ti fa male, perché allora capisci che non potrai fargliela sotto al naso, e non potrai più prenderla in giro o farle scherzi. Rimasi di sasso.
“Tornando a noi Allison …” continuò mia sorella nel terzo grado alla povera Allison “ahia mi hai bruciato l’orecchio!” “Scusa piccola ma te l’ho detto che dovevi levarti gli occhiali … che mi danno fastidio” rispose Allie. “Sì ma poi non ci vedo …” rimbeccò mia sorella. “Stiamo parlando non hai bisogno di vedermi ma di sentirmi” ribatté Allison. “Sì ma con il fohn non ti sento … almeno leggo il tuo labiale..no?”
Se mia sorella si era messa in mente qualcosa era difficile farla desistere, perché l’ultima parola doveva andare a lei. Ed Allison lo sapeva; così, dopo qualche schermaglia iniziale, se ne stava zitta, sorridendo. Chissà quanto dovevano esserle mancate quelle polemiche tra sorelle tra un colpo di spazzola e un altro.
Io guardai Allie affascinato, perché se quella era la donna per me, quella che è per sempre, avrei fatto di tutto per tenermela stretta, straordinaria com’era in ogni pregio e anche in ogni difetto. Forse vide una veda di scetticismo nel mio sguardo, del tipo ma come fai a sopportarla, che in parte corrispondeva a verità visto che io, a stare con un tipo come Caroline tutto il giorno e occuparmene come fossi una balia, non avrei resistito più di 24 ore.
“E tu non ci hai viste quando le passo la piastra …” disse lei, ironica. Risi perché me le immaginavo e sinceramente avrei voluto vederle.
“Comunque” riprese Caroline “visto che ora sei la ragazza di Ty te ne andrai da qui? Andrai a stare con lui”
Mia madre mi disse sottovoce, durante la cena, che non avevano detto nulla a Caroline dell’avventura di Allison in gattabuia, quindi non sospettava che ci sarebbero potuti essere altri motivi a spingere Allie a cambiare indirizzo.
“Ma no tesoro!” le disse Allison, protettiva e amichevole “potrà capitare” e lì ci sfuggì un’occhiata nei miei confronti “che io rimanga a dormire da Tyler perché si da tardi … ma non me ne vado. Perché dici così?”
Si avvertiva tutto il disagio della mia sorellina all’idea di perdere un’amica vera, una confidente, forse l’unica che abbia mai avuto, a parte me.
“E comunque” mi venne spontaneo aggiungere “anche se Allison non dovesse abitare qui non è che ti lascia … ce la porto io qui a pedate se solo ci prova”
“Ehi!” si lamentò lei e mi arrivò una spazzola sulla testa “non mi piacciono i tipi violenti” Così mi alzai e la baciai e lei si arrese al bacio sin dal principio e fu un crescendo di emozioni.
“Bleah …  che schifo” osservò mia sorella, fintamente inorridita.
Ma non ci curammo di lei, che infatti si arrese uscendo dal bagno, i capelli ormai completamente asciutti e ben piegati. Il bacio crebbe piano piano, quasi metafora di quel nostro rapporto difficile e sofferto, diventato da poco qualcosa di più. Ma una volta costituitosi qualcosa di concreto, quel bacio era diventato forte e generoso, regalando soddisfazioni immense.
Mi chiedevo se mi sarei mai abituato o se baciarla avrebbe perso col tempo quel carico di emozioni che ci trascinavamo dietro da un po’.
Al momento però, non mi interessava più di tanto.




















NOTE FINALI

Salve ragazze! Sono riuscita a darvi il capitolo come promesso. Buon anniversario a me, a voi, ma soprattutto a Tyler ed Allison che ci accompagnano in questa avventura da un anno ormai. Non credevo che sarebbe durata tanto ... ma soprattutto quando ho iniziato non credevo che sarebbe stata tanto apprezzata e seguita.

Grazie Grazi Grazie!!!
Non mi dilungo perché non c'è nulla da spiegare. Volevo dare loro un attimo di respiro, un momento per godersi questa giovane storia. Come dice la canzone che da il titolo al capitolo, erano "rotti" ma ora è finita. Ora si sentono entrambi capaci e degni di amarsi, hanno trovato una persona con cui poter esprimere sé stessi senza vergogna. Ed è una cosa meravigliosa. Spero abbiate apprezzato ... ma credo di sì-
Per il momento vi dico arrivederci, non so quanto ci risentiremo, perché devo decidere come evolvere la storia per la volata finale e avendo poco tempo non voglio scrivere capitoli frettolosi e brutti solo per rispettare date ... non è una cosa che fa per me.
Infine chiedo scusa se non rispondo alle recensioni, ma veramente non riesco a trovare un momento per sedermi a rispondere. Ma sappiate che leggo e apprezzo ogni singola parola. Vi voglio bene!
à bientot

Federica

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Capitolo 28
*** Is this the end? ***


   When you crash in the clouds





Capitolo 27

Is this the end?





soundtrack



Michael,
la vita è tornata a scorrere nel verso giusto ultimamente. Persino io riesco a vedere il bicchiere mezzo pieno, pensa un po’…
A volte penso alla nostra vita ora e, anche se mi impongo di non farlo, non riesco a levarmi dalla testa il pensiero che, se ce l’avessi permesso, se solo ne avessi parlato, avremmo trovato una soluzione anche per te. La morte non è mai la soluzione giusta fratello … e non parlo solo di quella fisica.
Io ho passato mesi a vegetare e, anche se non è così, sembrano passati anni da quando la mia esistenza era ridotta ad una mera sopravvivenza. Eppure basta poco per darsi una scossa, basta solo volerlo. Certo ci vogliono anche gli stimoli giusti, ne convengo. Forse siamo stati solo più fortunati di te. Per non sentire più il sapore acre della colpa mi ripeto che non hai avuto la mia stessa fortuna, che non è colpa mia. Ma non ci riesco  … ti ho perdonato tempo fa per ciò che ci hai fatto, ma non so se mi sento pronto a perdonarmi ancora per non aver capito che avevi bisogno d’aiuto. Forse ora stai bene, ti va bene così, d’ovunque ti trovi, ma la verità è che vorrei averti qui, vorrei che vedessi come si sta bene una volta mandato a fanculo nostro padre.
Sono passati già 3 mesi da quando io ed Allison ci siamo messi insieme, ma sembra sempre essere successo ieri. Le cose vanno molto meglio ora, lei sembra essersi abituata all’idea di noi e si lascia andare molto di più alla mia idea di coppia. Io le dico sempre di non pensare troppo, perché è quando lascia vincere l’istinto che viene fuori la parte migliore di lei. E povero Aidan: ormai ha deciso di convivere con noi, perché si è stufato di passare tutte le notti fuori, e si è armato di tappi per le orecchie. Ma non voglio fingere di sentirmi in colpa per lui … dovrebbe trovarsi una ragazza anche lui, sarebbe meno isterico.
Anche il processo di Allison si è risolto per il meglio: la sentenza c’è stata la settimana scorsa e Les è riuscito a farla uscire pulita da tutti i capi di imputazione. Dovrà ancora essere a disposizione della polizia e dei giudici per le indagini sul giro di prostituzione, ma almeno lo spauracchio della prigione è ben lontano ,per la felicità di tutti.
Ora ti devo lasciare, Allison mi sta chiamando. Dovresti sentire che buon profumo viene della cucina … vado a fare colazione.
Ti voglio bene … e mi manchi, sempre.



Tyler

 



C’era una cosa che però avevo omesso dalla mia abituale lettera per l’aldilà: in realtà una cosa che mi preoccupava c’era. I genitori di Allison tempo un paio di giorni sarebbero venuti a New York. Lei ovviamente era contraria, ma non poteva più opporsi alla loro presenza nella sua vita, non quando era stata proprio lei a fare il primo passo verso di loro.
Il padre di Allie era stato abile a porre sua figlia in una condizione di debitrice, accollandosi le spese processuali e pagando l’assistenza di Les. Naturalmente per Doug rappresentava un obbligo morale piuttosto che una mossa ben giocata, ma era innegabile che Allison si sentisse leggermente frustrata. Non lo diceva a parole ma non era nemmeno in grado di nasconderlo, non a me almeno. Del resto se c’era una cosa che detestasse, ed io con lei, era proprio sentirsi debitrice nei confronti di qualcuno, con il timore continuo di sentirsi rinfacciare quanto era stato fatto per lei. Come se non bastasse, a sentire che la loro figlia non voleva trattenersi oltre da mia madre, Lois e Doug si erano dati un bel da fare tra siti internet e telefonate varie per trovare qualche soluzione, da visionare naturalmente tutti insieme. E l’affitto sarebbe stato a loro spese, ovviamente. Ecco spiegato il motivo del loro viaggio imminente: questo bastava a mandare Allison in bestia. A starle dietro c’erano tutti i presupposti per diventare matti, garantito.
I rapporti con sua madre non erano migliorati per niente da quando era tornata da Indianapolis: si era limitata a mandarle i saluti un paio di volte quando era al telefono con suo padre, ma solo se fosse stata sua madre per prima a salutarla, in lontananza, dall’altro capo del telefono.
Brutta faccenda la storia di quella famiglia: si vedeva che c’era una voglia matta ed un bisogno estremo di ritrovarsi, da entrambe i lati, ma ciascuno di loro continuava a fare un errore dopo l’altro, esigendo che l’altro si avvicinasse completamente anziché trovarsi a metà strada.
“Se rimanessi da mia madre le cose sarebbero più facili … non dovresti nemmeno preoccuparti di rendere conto a tua madre” le dissi, portando avanti una crociata che in realtà non mi apparteneva, ma che mia sorella mi aveva costretto a combattere. Lei la voleva con sé, ma la verità era che ci serviva davvero un posto dove stare da soli, davvero soli. Una volta era Aidan, un’altra Caroline, un’altra ancora mia madre o suo marito, così diventavano davvero striminzite le occasioni che riuscivamo a ritagliare solo per noi.

Era sempre straordinario ed eccitante fare l’amore con Allison, ma a volte era davvero frustrante doversi tappare la bocca reciprocamente, oppure obbligarsi a contenere un grido o un sospiro di troppo perché non si è soli in casa, dove le pareti hanno le orecchie e le porte gli occhi.
“Lo sai anche tu che non è così” replicò lei, mentre si alzava dalle mie ginocchia e si metteva a sparecchiare le stoviglie della colazione. Nel piccolo cucinino di casa mia c’era spazio per due sedie, ma la sua erano ormai le mie gambe, e se Allison aveva deciso qualcosa, non si poteva farle certo cambiare idea …

“Però in parte Tyler ha ragione Allison …” intervenne Aidan, entrando in cucina. Era come se fosse appena uscito dal film L’alba dei morti viventi, trascinandosi sfatto e pesante nel piccolo stanzino, con i capelli arruffati e non badando a dove mettesse i piedi. Fu per questo che con il suo alluce scalzo beccò in pieno il piede del tavolo … una miriade di santi venne chiamati in causa quella mattina. Così, una volta passato il dolore si rifugiò con la testa nel frigo, bevendo svogliatamente e direttamente dal boccione del latte, senza curarsi – ma, visto il suo aspetto di quella mattina, probabilmente senza accorgersi – che la bevanda, colando dai lati della sua bocca, era finita su tutta la maglia del pigiama. Allison non avrebbe retto a tanto.
“Aidan che schifo!” gli urlò contro lei, infatti, fungendo da sveglia meglio di qualsiasi orologio “io sgobbo qui per tenervi casa pulita e tu ti comporti come un maiale … non dico di farlo per igiene ma almeno per rispetto nei miei confronti!”

Su questo aveva ragione Allison: nel tempo che passava a casa da noi, ne avevamo guadagnato in igiene e salute, grazie anche alle sue qualità di casalinga e cuoca provetta. Probabilmente non era uno chef della nouvelle cousine, ma rispetto agli esperimenti culinari di Aidan che ero costretto ad ingurgitare prima, pena rischio sopravvivenza, era un notevole passo avanti. In più la lavanderia a gettoni dietro l’angolo aveva ripreso relazioni stabili e civili con i nostri abiti e le lenzuola, dopo quasi un anno in cui ci eravamo lasciati in maniera dolorosa, soprattutto per noi. Noi davamo la colpa ai macchinari ostili, ma in realtà eravamo semplicemente troppo svogliati per portare la biancheria a lavare una volta a settimana. Avevamo provato a tirare avanti con gli smacchiatori a secco per diversi mesi, ma quelli non levano via la puzza di sudore. Così alla fine riempivamo sacche intere di roba e lasciavamo a mia madre e alla madre di Aidan, a turno, l’incombenza di lavare e stirare. Ora invece Allie aveva preso in mano le redini della situazione, che nella fattispecie significava trascinarmi per un orecchio in quel locale (più che altro una caverna buia e minacciosa), dopo avermi dato ripetutamente del porco e viziato. Il che tradotto in termini correnti significava “D’ora in avanti i panni dovrai farteli da solo sennò rimani a bocca asciutta, cretino” ed io, muto e rassegnato, obbedii.
“Vedi Allison” si rivolse a lei Aidan “questo mio comportamento …” E si fermò, pensante, per trovare l’aggettivo più appropriato. Allison, che di prima mattina era più scazzata del solito, suggerì che la parola più appropriata fosse animalesco.
“No … non animalesco. Primordiale piuttosto” la corresse lui “vedi Allison …. Questo comportamento primordiale lo devi vedere come una forma di richiamo … una richiesta implicita … un invito a rimanere …”

“Bel modo che hai per chiedermi di restare!” si complimentò con lui. Non aveva poi tutti i torti.
“Certo!!! Non possiamo vivere senza di te, Allie, ci hai visti?!” la supplicò, con una vocina melensa e con fare ai limiti de melodrammatico, esagerando volutamente ogni sua mossa in modo teatrale “se proprio devi cambiare casa … vieni qui da noi! C’è tanto spazio nel letto di Tyler …”
“Oh su questo non ho dubbi” commentò lei, ormai non riuscendo più a fare la sostenuta e la severa. Ma con Aidan era risaputo che non si poteva restare seri per più di dieci secondi contati. Era forse per questo che due come noi, in passato fondamentalmente dei depressi cronici, lo avevano scelto come migliore amico, come unico vero amico. Non era facile conquistarci … e per esserci riuscito, nella sua stupidità, doveva ben valere qualcosa quel ragazzo.

Ed era bello vederlo bisticciare con la mia Allie, perché erano come fratello e sorella, di quelli che si tirano i capelli se stanno vicini troppo a lungo, ma che se non si vedono per un po’ si cercano.
“Lo sai che non si può” insistette lei “e poi ho bisogno della mia privacy”. Parlò con Aidan, ma il suo sguardo era puntato, dritto, verso di me. La pensavamo alla stessa maniera ed evidentemente aveva capito che, anche quando lo chiedevo di rimanere da mia madre, in realtà non ci speravo per niente. Anzi, piuttosto il contrario.
Rimasti soli nella mia camera da letto, mentre ci preparavamo per uscire, mi disse qualcosa che, sinceramente, non mi aspettavo.

“Probabilmente comunque non avrò nemmeno bisogno che i miei paghino l’affitto al posto mio quando avrò casa … potrei aver trovato un lavoro!”
“Davvero?” domandai, sorpreso ma assolutamente felice per lei. Credevo che fosse una tappa fondamentale per voltare pagina e ricominciare daccapo. Aveva fatto il giro di diverse tavole calde e qualche bar ma, vuoi per l’esperienza inesistente, vuoi perché, più semplicemente, neanche a NY quello era un buon periodo per trovare lavoro; era riuscita a farsi prendere in prova in un piccolo caffè a Manhattan, sull’ 81esima, ma ero stato costretto ad uscire prima dal lavoro per andarla a prendere, perché qualche cliente, non riuscimmo a capire se riconoscendola o solo perché fondamentalmente pervertito, aveva allungato le mani e lei s’era fatta risentire ,alla sua maniera.
Si gettò al mio collo e pianse a lungo quella sera perché secondo il proprietario del posto, lei avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco, ma Allison non ci stava più. Aveva smesso di farsi umiliare, aveva ribadito, non importava che fosse in un diner anziché in un club per adulti. Ero stato veramente fiero di poter vedere tanta maturità e tanto orgoglio in lei.
“Si tratta di consegnare la posta in un ufficio per ora” spiegò “ma con il diploma potrei anche aspirare a qualcosa di più … è tutta questione di gavetta …”
Certo non era niente di che, di sicuro nemmeno la paga era un granché, ma eravamo di poche pretese. “Beh certo” annuii. Sembrava un lavoro onesto e rispettabile, ma soprattutto il fatto che lei sembrasse contenta e soddisfatta deponeva a favore di quell’impiego.
“E dov’è questo ufficio?” chiesi. “Ehm …. Empire … Empire State Building” balbettò “si tratta dell’ufficio … degli uffici di tuo padre”
“Che cosa?” esclamai, sconvolto “hai chiesto lavoro anche a lui?! Pensavo ne avessimo già parlato Allison ….”
Quando aveva iniziato la ricerca di un lavoro, infatti, mia madre ci aveva proposto di chiamare Charles, mio padre, perché con il suo prestigio e la sua influenza un lavoro sarebbe saltato fuori in un battibaleno. Ma io mi ero opposto con tutte le mie forze, perché non volevo che quell’uomo trovasse un nuovo motivo per farmi sentire in debito nei suoi confronti; o peggio ancora, far sentire Allison in debito.
Lei stessa sembrò essere risoluta nell’opporsi sia alla proposta di mia madre, sia a Les, che invece si era offerto per trovarle un lavoro in uno studio legale associato al suo come receptionist. Voleva guadagnarselo il lavoro, aveva detto, ma evidentemente erano state parole dette per non contraddirmi al momento, per farmi stare buono, oppure alla prima difficoltà si era arresa. In entrambe i casi, mi aveva deluso.
“Non è come credi” si affrettò a spiegare “è stato tuo padre a contattarmi. Ti ricordi quando sono andata ad accompagnare Caroline nel suo ufficio la scorsa settimana?”. Annuii; lui aveva una riunione delle sue, di quelle che sai quando iniziano ma non sai quando finiscono ed aveva chiesto a Caroline di raggiungerlo nei suoi uffici per non lasciarla sola a casa, ma lasciando però che la sua segretaria tuttofare, le facesse da babysitter. “Beh io sono rimasta con Caroline per un po’ perché l’avevo vista a disagio con Janine …” raccontò. Ricordavo anche quello: era rimasta lì praticamente tutto il pomeriggio, fino a che la riunione non si concluse, alle nove di sera. “Così mi accompagnarono fin qui con l’auto di tuo padre, visto che avevo declinato l’invito a cenare con loro. E allora parlando del più e del meno a Caroline è venuto in mente di dirgli che stavo cercando un lavoro. Credimi se avessi potuto l’avrei ammazzata! E ieri lui mi ha chiamata … non vorrai incolpare tua sorella ora!”
Naturalmente no … ma non avrei permesso che lei accettasse nulla da quell’uomo.
“Allison” le andai vicino e l’afferrai per le braccia, energico e deciso, ma non aggressivo “mio padre è uno di quelli che non fa mai niente per niente … e tanto non accetterai la sua proposta … questo è quanto, fine della discussione.”

“Scusa?!” esclamò, e sentivo tutto lo sdegno nel suo tono di voce “primo … come ti permetti di venirmi a dire quello che devo o non devo fare?!” Già … come mi ero permesso?! Mi stavo comportando esattamente come tutto ciò che disprezzavo, come un despota coglione e ottuso. “… e poi … anche se volessi accettare … dove sarebbe il problema? Cosa c’è di male se tuo padre mi aiuta? Non l’ho capito allora e non lo capisco adesso”
“Cosa c’è di male?!” ribattei “raccomandazione Allison, si chiama raccomandazione … e poi tu sei la mia ragazza, di sicuro inizierebbero a correre voci …”
“È questo che ti da fastidio Tyler? Il giudizio degli altri?” mi aggredì verbalmente “pensavo che fossi l’ultima persona al mondo che desse peso a queste cose … ed invece sei proprio come tutti gli altri …”

Le ultime parole furono pronunciate non solo con sprezzo e avvilimento, ma soprattutto con delusione, specchio del suo volto. Io mi ero detto deluso dal suo comportamento, ma si vedeva che lei lo era di più tra di noi. In fondo mi ero sempre professato paladino della giustizia e della verità, io che non mi ero lasciato ingannare dall’abito che indossava nel nostro primo incontro e che avevo saputo andare oltre, arrivando al cuore della sua bellissima persona. Ed ora ero proprio come tutti gli altri, gente senza volto né nome, che l’aveva ignorata e sminuita, collocandosi al di sopra della sua volontà grazie al ricatto e al potere dei soldi e della paura.
Si mise addosso giacca e borsa a tracolla e fece per uscire dalla stanza. La seguii; non le avrei permesso di andarsene così, senza chiarirci, senza che mi disse l’opportunità di scusarmi, da emerito coglione qual ero. Nella concitazione della discussone non c’eravamo neanche accorti che Aidan se n’era andato, forse per rispettare la privacy del nostro primo litigio vero e proprio.
Eccolo lì … pensavo che non sarebbe mai arrivato ed invece si era presentato facendo già dei danni importanti; ma non volevo, davvero, avrei voluto chiuderla lì, darle un bacio e chiederle scusa, ma non riuscivo a tollerare che lavorasse per mio padre, che ricevesse come stipendio il denaro di quell’affarista criminale ed egoista.
“Allison” la fermai, quando la sua mano era già sulla maniglia della porta, un attimo prima che uscisse. Forse la mia voce rotta, forse il mio sguardo supplichevole, forse le sue sensazioni sgradevoli simili alle mie, ma qualcosa la fece desistere dall’aprire la porta ed andò a sedersi sul cornicione di una delle finestre della zona giorno.
“Io … io non ci vedo niente di male” disse, in un lamento. Odiavo vederla piangere e non le avrei permesso di farlo per mio padre, non ne valeva proprio la pena. Se era stato un piano di quello stronzo, studiato apposta per farci litigare, c’era riuscito alla grande. Ma eravamo superiori a lui, noi ci volevamo bene davvero e non solo a parole, avremmo superato anche quella.
“Capirai che bella raccomandazione …” continuò, ridendo nervosamente “… smistare la posta e consegnarla agli impiegati”
“Non è per questo Allison …” le dissi, portandomi di fronte a lei ed inginocchiandomi. Le presi le mani ed iniziai a giocarci: erano piccolissime tra le mie, quasi come quelle di una bambina, ma erano lisce e si intrecciavano bene con le mie. Era bellissimo, in una situazione di tensione come quella, poter stabilire un contatto intimo e personale come quello. “Tu non lo conosci Allison … non bene quanto me, almeno” insistetti “ non sai quanto possa essere pressante”. Bastava ricordare quanto accaduto a mio fratello, che era finito due metri sotto terra solo perché non ce la faceva più ad obbedire ai suoi ordini e a seguire le sue disposizioni.
“Vuoi passare il resto della tua vita ad essere riconoscente a mio padre?” incalzai “perché lui non te lo farà dimenticare mai, sappilo. Non lo ha fatto con me e con Caroline … non si farà tanti scrupoli a farlo con te!”

Ma lei continuava a scuotere la testa, nonostante mi avesse dato la possibilità di dire ciò che pensavo; cosa che, a differenza sua, io non ero stato in grado di fare. “Perché non gli dai la possibilità di riscattarsi Tyler? Da quella notte di Natale è cambiato … e tanto. Dovresti dargliene atto e dovreste parlavi, vi farebbe bene!”
Ma quello era il mio turno di scuotere la testa, vigorosamente, imbronciandomi pure. Era un falso, che poteva darla a bere agli altri con i suoi modi educati ed eleganti, ma io conoscevo sin troppo bene il soggetto per farmi ingannare: il lupo perde il pelo ma non il vizio, era risaputo.
Lei si alzò, di colpo, quasi facendomi cadere per terra. Mi alzai anche io a quel punto e la vidi che se ne stava in piedi, camminando per la stanza con una mano ai capelli e l’altra su fianco, inspirando ed espirando forzatamente, cercando di imporsi un ritmo e darsi una calmata. Ecco, ci siamo, pensai … stava per scoppiare.
“Quanto … quanto cazzo mi fai incazzare Tyler” iniziò, al limite delle lacrime “com’è che mi dicevi? Dalle una possibilità Allison! Tua madre ha sofferto molto in questi anni … non è più quella che raccontavi”. Ora mi faceva pure la caricatura, fantastico! Ed io me ne stavo lì, come un cane bastonato, a subire una passivamente una ramanzina che non ero del tutto sicuro di meritare. “perché dovrei farlo se non lo fai nemmeno tu?!” domandò “non permetterti più di farmi una cazzo di predica, Tyler, perché sei il primo qui dentro a fare lo stronzo”
“Non è la stessa cosa …” provai a giustificarmi, anche se alla mia scusa non ci credevo più nemmeno io.

“Ed invece sì Tyler!” insistette “forse mi sto comportando da egoista con mia madre, perché non sono stata l’unica a perdere Emily quella notte. Lo stesso vale per voi … non sei il solo ad aver perso Michael, ti sei mai chiesto come possa essersi sentito lui?”
Aveva ragione, ero solo uno stronzo … e non ci pensai nemmeno a smentirla. In effetti il suo discorso non faceva una piega ed anzi mi aveva aperto un mondo di domande e riflessioni che prima o poi avrei dovuto affrontare, anche se da coniglio qual ero cercavo solo un modo per ritardare quel confronto il più possibile. Io stavo ogni giorno ad intercedere per una donna che praticamente conoscevo solo di vista, con cui non avevo mai avuto una conversazione decente e lei, invece, occupandosi di Caroline aveva passato molto più tempo di me con mio padre nell’ultimo periodo. Avrei dovuto concedere il beneficio del dubbio a Charles, in fondo la mia strigliata di Natale poteva davvero essere stata la scossa necessaria per cambiarlo però, come Allison con sua madre, non mi sentivo ancora pronto ad affrontarlo. Ecco dunque che le parole di Allison dovevano suonarmi profetiche: testa bassa e silenzio, perché lei aveva avuto ragione, ancora una volta.
Mi stravaccai sulla poltrona, abbracciando la chitarra di mio fratello che tenevo lì di fianco. Provai a strimpellare qualche accordo, ma era scordata … non avevo dedicato molto tempo alla musica ultimamente. Allison invece se ne stava ancora lì davanti a me, ancora con quello sguardo severo negli occhi e quel broncio aggressivo che detestavo e la imbruttiva. Ma almeno aveva buttato sul divano sia la giacca che la borsa. Andò nel cucinino e, sbattendo violentemente lo stipo per prendere un bicchiere, prese a bere l’acqua del rubinetto. Tramite il finestrone che si apriva sull’angolo cottura potevo controllarla e vidi che si appoggiò sul lavello, come in preda ad un attacco di nausea. Al pensiero che fossi io la causa del suo malessere mi veniva proprio voglia di picchiarmi con le mie stesse mani per quanto ero stato stronzo.
“Scusa” sussurrai, onestamente pentito, ma ero certo che mi avesse sentito “hai ragione su tutta la linea …. È della tua vita che stiamo parlando ed io non mi intrometterò più, sei libera di fare come vuoi. Puoi anche uscire da questa casa se lo ritieni giusto …”
Vidi con la coda dell’occhio, cercando però di puntare il vuoto, che si voltò verso di me, forse non sicura di aver capito quello che le avevo appena detto.
“Sì hai capito bene” proseguii “non ne faccio una giusta, hai ragione. Per cui se pensi che per te sono troppo cazzone va bene, lo accetto. Anche se farà male da morire senza di te …”
Il mio cervello non fece in tempo a registrare quanto tempo passò dacché finii di parlare a quando Allison si buttò letteralmente tra le mie braccia, togliendomi la chitarra dalle mani, per baciarmi ed abbracciarmi. Era finito tutto. L’aria non mi mancava più ed il sangue era tornato a scorrere correttamente nelle vene, senza che il cuore facesse male.
“Sì” disse, affannandosi tra un bacio e l’altro, prendendomi il volto tra le mani “sei un cazzone, coglione e ti comporti da stronzo a volte. Ma sei il Mio cazzone, il MIO coglione, il MIO stronzo … e non vado da nessuna parte …. Almeno non senza di te”
“Ti amo” le dissi, prima di congiungere per l’ennesima volta le mie labbra con le sue. Ed in quei momenti non c’era nulla che andava, non c’erano madri e padri petulanti e dittatori, non c’erano affitti da pagare né conti in sospeso con la legge. C’eravamo solo noi e si stava da dio-
“Farò come vuoi tu” aggiunse lei, ricomponendosi per uscire di nuovo di casa, stavolta insieme “capisco il tuo punto di vista in un certo senso, perché provo lo stesso per … per Lois, perciò se davvero per te è così difficile accettare che io possa lavorare per tuo padre non fa nulla, mi inventerò altro, cercherò altrove”

“No Allison” mi opposi, mentre chiudevo a chiave casa  lei mi aspettava sul pianerottolo. Le diedi la mano e ci incamminammo giù per le scale “ non devi rinunciare a quel posto. È un’offerta che non ti ricapiterà e non importa quello che penso io di mio padre. Tu ti fidi di lui e questo è ciò che conta …”
“Grazie” esclamò, abbagliandomi con il suo sorriso ritrovato e attirandomi a sé per un bacio, brandendo il collo della mia giacca con la sua presa forte. Sì, ok, ero affamato, drogato di quelle labbra, ma meglio qualche momento di imbarazzo davanti ai vicini che ti colgono i flagrante nell’androne del palazzo, piuttosto che altro. Abbracciandola più stretta in vita, infatti, non mi accorsi che la signora del terzo piano, di origine greca, era appena entrata e, vedendoci, aveva preso a tracciarsi ripetutamente il segno della croce, alla maniera ortodossa, e a pronunciare frasi incomprensibile, ma che potevano essere benissimo sia maledizioni che esorcismi. La buttammo su ridere, lasciandola passare e aiutandola con le buste della spesa stracolme che le erano cadute per lo scandalo.

“Cosa farai oggi?” le domandai, mentre ci salutammo all’ingresso della librerai. Sarebbe stata una giornata lunga per me: avevo il turno centrale, perché il mese precedente mi ero preso troppi permessi per lo studio, vanificati dal ronzarmi intorno di una certa ragazza, e ora dovevo recuperare le ore perdute se volevo avere uno stipendio decente a fine mese. Ergo, sotto con gli straordinari.
Lei fece spallucce: “Chiamerò tuo padre per dirgli che accetto il lavoro … ma solo se tu vuoi davvero. In fondo è un lavoro come un altro … non voglio vedere musi lunghi …”
“Ok …” risposi, divertito “e voglio davvero che tu sia serena; quindi se tu lo vuoi, lo voglio anche io. L’hai detto … è un lavoro come un altro”
In fondo era quello che ci voleva: un lavoro onesto, tranquillo, sicuro. Che mi piacesse o meno il datore di lavoro poco importava, tanto volente o nolente quella sarebbe stata la mia stessa sorte tra qualche anno, non potevo scappare.
“E poi vorrei andare a vedere un paio di appartamenti” continuò lei “senza lo zampino dei miei …”
“Vienimi a trovare però” la supplicai. Già la giornata sarebbe stata dura stare lì a non fare niente tutto il giorno, figurarsi senza di lei. Avevo già in mente di romperle le scatole ogni secondo con i messaggi, giusto per il gusto di vedermi mandare a fanculo via sms e subito dopo ricevere un messaggino di scuse con scritto ti amo. Forse ero regredito all’adolescenza insieme a lei, ma non importava davvero.
“Non se ne parla … l’ultima volta c’è mancato poco che Ray ti sbattesse fuori a calci in culo” “Quanto sei raffinata amore mio …” la presi in giro; sapevo quanto odiava che la chiamassi in quel modo. “grazie tesoro mio” rispose lei, stando al gioco e gettando gli occhi al cielo “comunque non se ne parla … l’ultima cosa di cui hai bisogno è che giocarti il posto per colpa mia. E poi hai sempre Aidan … non ti sentirai solo!” Le risposi con un bel dito medio, facendola ridere.  
La lasciai andare solo dopo che ebbi avuto una razione sufficiente di baci per una giornata intera, dopo aver respirato il suo profumo sul collo quanto basta per non andare in crisi d’astinenza e solo dopo che il mio capo, con un’occhiata fulminante mi passo d’avanti per aprire le serrande del negozio e mi impose, eloquente benché muto, di troncarla lì.


Tempo di tornare a casa e mi avrebbe sentito quella cretina … lasciarmi senza messaggi o chiamate per un’ora e mezza. Qualunque cosa stesse facendo non era una scusa sufficiente a giustificare un silenzio di ben 90 minuti, troncando la comunicazione con un <<sto tornando a casa. Devo prendere la metro, il tel lì non prende. Non ti far prendere dal panico>>
Non si trattava di farsi prendere dal panico … è che la metro dal Queens all’East Village ci metteva un’ora, ma qui eravamo andati ben oltre e lei non s’era fatta sentire. Capivo che non volesse prendere il taxi, costavano veramente troppo, ma andare a finire nel Queens per prendere casa e dover tornare a Manhattan tutti i giorni per lavoro era una fatica che spero si sarebbe risparmiata. In ogni caso arrivai a casa e non feci in tempo a salire la prima rampa di scale che il telefono iniziò a vibrarmi in tasca. Eccola: di sicuro aveva fatto tardi davanti a qualche vetrina, oppure mia madre l’aveva chiamata a rapporto. Come biasimarla, dopotutto era sotto la sua responsabilità, ma si vedevano sempre più di rado. Non che vivessimo insieme a tutti gli effetti, era troppo presto per entrambi, ma ci mancava davvero poco.

“Dove sei? Non hai letto i miei messaggi!!!” esclamai, seccato ma sollevato. “Tyler Hawkins?” una voce femminile dall’altro capo dell’apparecchio, educata e formale, mi fece capire che non stavo parlando con Allie. Il campanello di allarme iniziò a risuonarmi in testa e il mio cuore prese a battere all’impazzata. Mi fermai per le scale, a metà strada, sedendomi sui gradini. “Sì … sono io” risposi, la voce tremante “chi … chi parla?”
“Salve Tyler, sono nurse Kristie, chiamo per conto del Pronto Soccorso del Bronx-Lebanon Hospital Center … il suo numero era quello più ricorrente nel telefono della signorina Allison Riley e abbiamo pensato di chiamarla … lei la conosce vero?”
“Certo, certo che la conosco … è la mia ragazza!”
Non ero sicuro di aver capito bene … Allison era in ospedale?! Nel Bronx? Cosa ci faceva Allison nel Bronx se era andata nel Queens?!

“Scusi” incalzai, prima che l’infermiera potesse parlare di nuovo “ma cosa … cosa è successo alla mia ragazza?”

“Ci hanno chiamati e l’abbiamo soccorsa per strada, era priva di sensi e piena di ferite e ecchimosi … abbiamo già chiamato la polizia”
Senza pensarci due volte mi buttai a capofitto giù per le scale e mi ritrova
i in strada, senza accorgermene, con la mano alzata per fermare un taxi; era l’unico modo che avevo per arrivare il più presto possibile da Allison. Nel frattempo l’infermiera continuava a parlare di assicurazione sanitaria o cose simili, ma io mi ero già perso quando aveva detto che era priva di sensi.
“Io sto ... sto arrivando, faccio prima che posso … ma lei mi deve dire come sta”
“Non glielo so dire, mi dispiace … tutto quello che so gliel’ho appena detto”

“E ti pareva” sputai, chiudendole il telefono in faccia. Saltai al volo sul primo taxi vuoto che beccai e provai a mandare un messaggio veloce a Les, ma le mani mi tremavano talmente tanto che non ero sicuro di  aver scritto nulla che avesse senso compiuto.
Ma cosa ci faceva Allison nel Bronx? E che cosa le avevano fatto?

La cosa più spaventosa era la sgradevole sensazione di conoscere già la risposta a quelle domande, ed il sangue mi si raggelava nelle vene all'idea che quell'incubo non fosse affatto finito.



















NOTE FINALI

Rispondendo alla domanda del titolo: no...non è la fine. Ma ci siamo molto vicini. E non vi preoccupate in qualche modo...prima o poi...le cose si sistemeranno.
Ok lo so, sono malefica. Muahahahahh!!! Vorrei dirvi altro, ma come faccio??? XDXDXD
Ah...dimenticavo...mi do il bentornata da sola dopo un mese di assenza. Ma vi avverto da subito che il prossimo capitolo lo avrete dopo Pasqua, non mi aspettate prima perché non ho proprio il tempo di scrivere. In compenso vi lascio il link del trailer della storia ,che potrete già aver visto sulla pagina di FB

 http://www.youtube.com/watch?v=6QTwVy7cc3Q
spero che vi piaccia...è un primissimo esperimento...spero possa essere seguito da altri...
Ora bisogno del vostro aiuto...se conoscete qualcuno che possa tradurre la mia storia in inglese vi sarei grata se poteste mettermi in contatto tramite la pagina FB, perché diverse persone su twitter mi hanno chiesto se era possibile averne una versione inglese ... ed io, benché sia abbastanza fluente con la lingua, non sono in grado di fare delle traduzioni come si deve.

ora vi devo lasciare, ho una cena e mi devo preparare.

à bientot


Federica

p.s.= chiedo scusa ma non mi è proprio possibile rispondere alle recensioni...spero comprenderete. Risponderò solo se ci dovessero essere domande a cui rispondere...spero che ce ne siano ^_^


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Capitolo 29
*** Slowly sinking ... wasting ***


When you crash in the clouds - capitolo 28
When you crash in the clouds










Capitolo 28
Slowly sinking … wasting








soundtrack 


Era un incubo quello, non poteva essere altrimenti. No, certo che no, quella era solo la naturale conseguenza di una delle tante sere in cui avevo mangiato pesante. Lo prometto, basta con ali di pollo fritte e patatine per cena … lo sapevo che prima o poi avrei mandato in malora stomaco, fegato e budella.
A breve avrei aperto gli occhi ed Allison mi avrebbe portato una tazza di camomilla a letto per aiutarmi a ripulirmi dalle porcherie della cena ed io avrei fatto le storie come un bimbo quando gli mettono davanti la medicina cattiva; datemi tutto ma non la camomilla, è una cosa che proprio odio, da sempre.
Sì, sarebbe andata di certo così, doveva andare così, perché non era possibile che ogni cazzo di volta che provo ad essere felice va a finire tutto in rovina, come un castello di sabbia sulla battigia di fronte all’alta marea.
Continuavo ad illudermi, ma sapevo bene che quella era la nuda e cruda verità. Non sarebbe cambiato nulla; l’unica cosa che poteva evitarmi ciò che mi stava aspettando era un bello svenimento, ma persino il mio organismo si rifiutava di collaborare, dandomi una forza per affrontare quegli eventi che sinceramente avrei preferito non avere. Ma lei si fidava di me, aveva bisogno di me, e se fossi caduto mi sarei dovuto rialzare, per lei.
Il taxi si fermò nel bel mezzo di un ingorgo così, quando seppi dal tassista che l’ospedale era a pochi isolati più avanti, decisi di pagarlo e proseguire a piedi. Il mio cellulare aveva continuato a vibrare nei miei pantaloni per tutta la durata del viaggio … non dico rispondere, ma non avevo nemmeno il coraggio di vedere chi fosse. Troppe domande a cui non potevo né sapevo rispondere, sebbene per molte di quelle conoscevo già la risposta dentro di me. Se fossero stati i genitori di Allison cosa avrei detto: avevo ripagato la loro fiducia, la fiducia di una padre che aveva da poco ritrovato quella figlia tanto amata, mandando quella povera ragazza dritta in ospedale. Non ero stato capace di prendermene cura, di proteggerla, di starle vicino ed ora chissà in che stato era. Mi si pararono davanti le immagini più disparate, una peggio dell’altra, e non riuscivo a mandarle via. Nella migliore delle ipotesi si era rotta qualche osso ed aveva qualche livido, nella peggiore … mi rifiutai di pensarci.
Che poi, cosa c’era tornata a fare nel Bronx? Non era forse il primo posto che lei avrebbe dovuto evitare, dove le bande si fanno guerra ogni tanto giorno e dove il suo pappone aveva il suo quartier generale?
Quando mi trovai all’ingresso del Lebanon Hospital accadde tutto così rapidamente che non credo di aver veramente vissuto la seguente mezz’ora: qualcuno doveva aver premuto il tasto fast forward, perché mi ritrovai a vagare senza una meta ben chiara di reparto in reparto, chiedendo informazioni, venendo sbattuto da una parte all’altra dell’edificio, aspettando in sale d’attesa in cui nessuno mi diceva nulla perché andava bene avvisare il fidanzato per dare le brutte notizie, ma quando si tratta di spiegare la situazione … beh allora non sei nessuno. Finché qualcuno non si impietosì di me, diciamo pure finché qualcuno non capì che stavo per fare un casino, avendo già mandato per aria un paio di barelle non occupate. Mi si parò davanti una donnona alta e leggermente mascolina, capelli da maschiaccio e bionda, con una cartelletta tra le mani e uno zaino vecchio e malandato, che riconobbi essere la borsa che Allison scorrazzava con sé e che era grande quanto una valigia. Era talmente mal ridotta che di certo non sembrava uscita dal negozio solo dopo l’ultima svendita di Accessorize.
“Lei è qui per Allison Riley, giusto?” dalla voce riconobbi la donna con cui avevo parlato al telefono, l’infermiera Kristie o come cavolo si chiamava. Certo non era così che me l’ero figurata. Più Candy Candy, meno signorina Trinciabue.
“Dov’è? Come sta?” mi precipitai e non fui sicuro che l’infermiera comprese appieno quello che stavo dicendo, o forse le parole nemmeno erano uscite.
“Senta io vengo dal Pronto Soccorso” proseguì lei, non interessandosi minimamente di me, anzi a dir poco scocciata dall’incombenza di dover parlare con un ragazzo sclerato, che come unica colpa aveva quella che nessuno gli diceva nulla a proposito della sua ragazza da almeno mezz’ora. “Queste sono le cose che aveva con sé la sua ragazza quando l’hanno portata qui. Ora però ci sono queste carte da firmare, sono per il ricovero. Ce l’ha l’assicurazione, vero?”
“Io … io non l’ho so” balbettai “però posso, possiamo pagare non preoccupatevi. Lei è sola qui, ma appena arriveranno i suoi genitori potrete parlare con loro di queste cose.” Conoscevo tutto di lei, sapevo quante volte al giorno andava in bagno e quando aveva il ciclo, conoscevo ogni suo vizio ed ogni suo gusto, ma di una cosa così fondamentale come l’assicurazione sanitaria non avevo la più pallida idea. “Domani saranno qui …” rassicurai la donna, quando la vidi indisporsi ulteriormente a quell’imprevisto “e tra un po’ dovrebbe arrivare il suo avvocato che è il suo tutore; può parlarne con lui se lo ritiene necessario”
“Bene” fu solo capace di rispondere, mentre rimetteva in ordine la pila di carte che aveva portato da firmare. Mi persi a controllare la borsa di Allison, ma al suo interno non mancava nulla di importante a prima vista, il mazzo di chiavi era ancora lì e il portafogli era ancora ben chiuso nella tasca interna, pieno di soldi e documenti nuovi di zecca. Non era stata una rapina, dunque, ma il mio istinto questo lo sapeva bene, prima ancora che fossero delle prove a dirmelo.
Rialzando la testa mi accorsi che l’infermiera si stava allontanando, ma non poteva farlo, non prima di avermi detto come stava Allison, dov’era e se avessi o no potuto vederla. Anche lei però si aggiunse al novero di persone che non sapeva nulla.
“Non è possibile!” inveii, attirando l’attenzione dell’intero corridoio “è mezz’ora che sono qui ed io non riesco ancora a sapere nulla della mia ragazza!” “Si calmi la prego” fu solo capace di dire “non è questo il luogo per certe scenate” “No, non mi calmo” continuai “non è possibile che nessuno possa dirmi dov’è o come sta … l’unica cosa che vi interessa sono solo queste cazzo di carte … ma pulitevici il culo!”
“Senti ragazzino …” disse l’infermiera, spazientita dalla mia sfuriata, passando dalle buone maniere formali ad una schiettezza un po’ gretta e poco consona al suo ruolo “non credere che noi siamo qui a rigirarci i pollici, lo vedi anche tu quali sono le condizioni in cui lavoriamo … io lavoro all’accettazione, questo è il mio compito e di più non posso fare. Ora se hai la bontà di stare calmo per altri dieci minuti, faccio un paio di telefonate e troviamo la tua ragazza …”
E, come al solito, ebbi la conferma che le cose si ottengono solo alzando la voce. In dieci minuti trovai Allison, ricoverata nel reparto di Chirurgia Generale, il primo reparto dove ero stato mandato, ma dove non mi fecero entrare nemmeno entrare perché non era orario di visite. Ora invece con un permesso scritto e la scorta di un vigilante, venni ammesso tra gli sguardi contrariati dei professoroni in camice bianco e delle vecchie infermiere zitelle ed acide.
Venni condotto oltre le poche camere, nella grande corsia dove i letti sono divisi da tende divisorie. Fu allora che finalmente sentii la sua voce, dopo un intero pomeriggio in cui ero stato senza e dopo aver temuto che non l’avrei più sentita. Era un mugolio piuttosto, un lamento di dolore, ma tanto era bastato per togliermi il peggio dalla mente. Quando scostarono la tendina per farmi entrare, trovai un giovane medico, assistito da un’infermiera, intento a fasciarle il volto, dove si vedeva una estesa medicazione della guancia sinistra, forse avevano anche messo i punti. Lei era infastidita, certamente dolorante, ma almeno era vigile. La bocca era gonfia, con una decisa spaccatura sul labbro superiore; gli occhi tumefatti e a stento riusciva a tenere aperti, perciò in un primo momento non si accorse di me, anche a causa della grande lampada che le era stata puntata addosso dal medico che le stava ricucendo la ferita sulla guancia e che doveva averla abbagliata.
“Lei è?” mi chiese l’infermiera che era vicino al letto di Allison. “Il suo ragazzo, Tyler Hawkins” dissi con una punta di fierezza, mostrando il permesso. Non era il momento di fare gli eroi, ma non potei farne proprio a meno. “Ty…” tremò di gioia la voce di Allison “Ty …”. “Amore sono qui” mi feci largo in quella piccola stanzetta di fortuna, sedendomi sul letto, incurante del rimprovero che a tal proposito mi venne fatto. “Ty…ler” pronunciò a stento Allison, che non ce la fece proprio a trattenere le lacrime. Le presi le mani tra le mie e notai che anche le braccia, scoperte per via del camice, erano piene di ematomi e graffi, quelli più profondi medicati e coperti. “Ho avuto paura … tanta paura” pianse e la vidi sforzarsi nella speranza di alzare il busto e raggiungermi, ma non aveva forza nemmeno per compiere un gesto tanto banale. Povero amore mio, chi è stato tanto animale da trattarti come una bambola di pezza? Chi è quella carogna … spera solo che non passi sotto le mie mani, perché allora mi rimarrebbero solo il braccio della morte ed il miglio verde.
“Shhh … shhh piccola non ti agitare” le sussurrai, avvicinandomi a lei più che potevo, facendola rimanere in posizione semiseduta e non pesandole sopra. Volevo passare la mia mano tra i suoi capelli, gesto che amava e sapevo quanto la rilassasse, ma al posto delle morbide ciocche castane trovai solo una matassa informe e stopposa, insudiciata dalla polvere e da sangue raggrumato. Non osai immaginare cosa ci fosse nella parte di corpo coperta, se quella che si figurava ai miei occhi era solo la punta dell’iceberg.
“Io … io devo dirti … spiegarti come …”
“Ora devi stare solo calma e pensare a rimetterti, quando starai meglio ne riparleremo” la tranquillizzai. Ci sarebbe stato tempo per tutto, l’importante era sapere che ora era al sicuro e che sarebbe stata bene.
“Signor Hawkins” l’infermiera che era in stanza con noi fino a poco prima venne alle mie spalle, appoggiando una mano sulla mia schiena, facendomi voltare. Io mi alzai e mi rivolsi verso di lei: “Mi chiami Tyler”; avrà avuto l’età di mia madre, non mi sembrava corretto farmi trattare come un uomo di mezza età. “Tyler” continuò lei, visibilmente più a suo agio “qui fuori ci sono un paio di persone che vorrebbero parlarti …”.
“Allison sono qui fuori, non vado via” mi girai verso la mia ragazza, accucciandomi su di lei leggermente per lasciarle un bacio sulla fronte. “Le dia uno sguardo” chiesi, implorante, all’infermiera che annuì dolcemente. Finalmente qualcuno con un po’ di cuore.
Prima di uscire verso la corsa mi voltai un’ultima volta: “Quando potrò parlare con un medico?” chiesi alla donna. “Una decina di minuti e sarà a tua disposizione, deve finire il giro di medicazioni”. Le sorrisi e uscii.
Individuai immediatamente le due persone che mi stavano aspettando: erano due poliziotti, in borghese, ma con il distintivo ben in vista. Ero già stato avvertito che la polizia fosse stata allertata e ne ero ben contento. Loro avrebbero dovuto proteggerla fin dall’inizio, avrebbero dovuto capirlo che un soggetto come lei poteva correre dei rischi ad andare in giro da sola dopo aver fatto nomi e cognomi e dato un volto a criminali reiterati. Al contrario, invece, non avevano smesso per un secondo di tranquillizzarci e così anche il più scettico tra noi a riguardo, cioè il sottoscritto, si persuase che Allison avrebbe potuto e dovuto godersi una ritrovata tranquillità. Oltretutto erano passati diversi mesi dalla sua denuncia e le indagini proseguivano spedite, e per quanto ne sapevamo sarebbero state concluse entro la fine dell’estate, con arresti e ampia risonanza da parte della carta stampata e dei network televisivi. Ma soprattutto molto altre schiave sarebbero state liberate dalle loro catene.
Il più anziano tra i due, bianco, mi venne incontro e mi strinse la mano, presentandosi. Il suo collega se ne stava in disparte, guardandosi attorno con fare circospetto, e doveva essere uno di quelli che non lascia il proprio lavoro neanche varcata la soglia di casa. “Sono il sergente Neil Craig e lui è il mio collega, l’agente Thompson. Leo!” richiamò all’ordine il gorilla alto e nerboruto accanto a lui che, a forza di stare troppo di vedetta, si era distratto un attimo. Era però un gigante buono: mi strinse anche lui la mano, affabile.
“Il personale dell’ospedale ci ha detto che la ragazza aveva con sé una borsa e che ve l’hanno riconsegnata … ha per caso notato se manca qualcosa?”
“No” risposi “ho dato uno sguardo ma pare non mancare nulla. Le chiavi di casa ci sono e così il portafogli. Non erano i soldi ad interessarli. Oltretutto io ed Allison non navighiamo nell’oro. Lei ha appena trovato lavoro e finora faceva la babysitter, io lavoro in una libreria part time e studio. A casa nostra non c’è niente che possa interessare dei ladri …”
Non parlai del fatto che Allison in realtà avesse la residenza con mia madre, la cui casa avrebbe fatto particolarmente gola a dei ladri, perché sapevo benissimo che non era stata una rapina finita male, ma dietro c’era qualcosa di ben più grave. Una minaccia forse, un avvertimento a stare al proprio posto da parte di qualcuno, il suo vecchio boss probabilmente, che sentiva la terra tremare sotto i suoi piedi.
“I sanitari ci hanno detto che l’hanno trovata sul ciglio della strada. Che è arrivata una segnalazione anonima e sono corsi” spiegò il gorilla. “Pare fosse riversa in una pozza di sangue … i vestiti strappati e scalza. Quando siamo stati allertati abbiamo subito pensato che fosse una prostituta o una povera ragazza violentata … qui capitano spesso casi del genere”. Chiusi gli occhi per un attimo e quasi mi sentii mancare, al pensiero di quello che aveva potuto passare in quegli attimi. Si sarà sentita sola, indifesa come mai e il pensiero che io non abbia potuto evitarle tutto quello mi rodeva dentro, mi bruciava come fuoco liquido nello stomaco. Avevo voglia di spaccare tutto, prendere quei porci che le avevano fatto del male e guardarli in faccia, sputargli e castrarli, perché chi tratta così le donne che uomo è? Che campa a fare?
“Dunque mi sembra che la rapina sia da escludere” disse il capo “… sa se c’è qualcuno che potesse avercela con lei? Un … chiamiamolo così … amore non corrisposto … non so …”
“Senta” lo fermai, prima che quei suoi voli pindarici andassero troppo oltre “pensavo che conoscendo il nome della mia ragazza sarebbe arrivato subito alla conclusione più ovvia e non avrei certo dovuto spiegarglielo io”. Mi feci più vicino che potevo, abbassando il volume della voce quasi a parlare in un sibilo. “Allison era coinvolta in un giro di prostituzione minorile in un locale a South-West Bronx, è stata lei stessa a denunciare la faccenda alla centrale di Brooklyn e a far partire le indagini. Immagino a questo punto che il vostro dipartimento non fosse coinvolto …”
“Aspetti un momento …” mi fermò il sergente “ Allison Riley … Allison Riley. Giusto, ma certo! Come ho fatto a non pensarci prima …”. Sembrava aver avuto un’illuminazione divina. “Probabilmente non c’ho pensato prima perché il semplice fatto che nei nostri atti il suo nome compare solo con le iniziali, per motivi di privacy, A.R. capisce?” Annui. Certo mi risultava strano pensare che su delle carte la privacy venisse rispettata e che poi nessuno si era preoccupato di controllare che Allison fosse al sicuro in giro per le strade di New York.
“Beh credo di non aver bisogno di altro. Ora devo solo parlare con la signorina, solo lei può dirci chi era ad aggredirla e se i nostri sospetti sono fondati” i miei sospetti caro sergente, che se non era per me … ma me ne stetti zitto, non mi andava di finire ai ferri per una parola di troppo.
“Lasciatela riposare” li pregai “è distrutta, non credo che sopporterebbe un interrogatorio proprio ora”. “Si tratta di un paio di domande …” insistette l’agente Thompson. “No!” lo rimproverò il sergente Craig “torneremo domani, non si preoccupi. Ora vorrei controllare alcune cose … arrivederci signor Hawkins, si tenga a disposizione” “Naturalmente, arrivederci!” li salutai e me ne tornai da Allison. Per un attimo però, mentre percorrevo il corridoio, provai la spiacevole sensazione di sentirmi osservato. Sarà stato per lo sguardo furtivo dell’agente Thompson che mi aveva squadrato per tutto il tempo, sarà stato lo stato di ansia che mi portavo appresso da quando avevo messo piede in quell’ospedale, la bruttissima sensazione che non era finito un bel niente. Mi guardai intorno e vidi un uomo appoggiato ad una parete, che parlava ad un telefono fisso, e che però continuava a fissarmi, incurante del fatto che io me ne fossi accorto; mi sembrava una faccia conosciuta, un uomo di mezza età alto alto con la testa minuta, che però non riuscivo ad associare ad un nome o ad una situazione. Stavo quasi per avvicinarmi a lui, per chiedergli se ci conoscessimo, se ci fosse qualcosa che non andava, ma il pensiero di lasciare Allison ancora da sola prese il sopravvento e mi fece cambiare idea.
L’infermiera non era rimasta con Allie, d’altronde chissà di quanti altri pazienti aveva di cui occuparsi, ma d’altronde la mia cucciola si era appisolata e sembrava tranquilla, forse anche per la dose di tranquillanti che le stavano somministrando tramite le flebo. Io mi sedetti accanto a lei: vederla riposare era il miglior auspicio dopo una giornata sbagliata come quella, non c’era niente di meglio che potessi chiedere per lei e per me. Le presi la mano, delicatamente per non farla svegliare, e la strinsi tra le mie, lasciando qua e là dei piccoli baci, quasi impercettibili, sulla pelle livida e fragile.
“Tyler” sussurrò una voce familiare alle mie spalle. Era mia madre. Le corsi incontrò e le mi abbraccio forte. Era come quando da piccolo mi ero perso a Central Park all’orario di chiusura, c’era da liberarsi entrambi di un bello spavento. Anche lei si avvicinò al letto e carezzo vellutata la guancia di Allison libera dalle bende. Mi fece tenerezza vederla trattare con tanta cura ed amore una persona che fino a pochi mesi prima nemmeno conosceva e che ora era per lei come una figlia.
“Come c’è finita qui?” mi domandò, sottovoce. Feci spallucce: era una di quelle cose che ancora non riuscivo a spiegarmi e di cui non gliene avrei fatto una colpa, ma di cui avrebbe dovuto rendere conto; non solo a me, ma anche e soprattutto alla polizia.
“Caroline e Les?” domandai. “Caroline l’ho portata da papà” mi disse “per una volta si assuma le sue responsabilità e se ne occupi, non avevamo tempo di trovare una babysitter e aspettare che arrivasse a casa. Da papà c’è Eve che la conosce e se ne occupa meglio di chiunque altro”. Quello era vero, e oltretutto mi rendeva felice il fatto che mia madre non tentasse di coprire le carenze di mio padre come genitore e anzi, spingesse affinché fosse lui a prendersi cura di mia sorella, visto che tecnicamente avevano l’affidamento congiunto. “Les è dalla caposala …” riprese “gli hanno dato un bel malloppo di documenti da compilare e firmare”
“Scusa se vi ho avvertiti con un messaggio” le dissi, riportandomi vicino al letto e vicino ad una Allie ancora dormiente, stringendole ancora le mani. Feci un grosso sospiro e provai a nascondere un ghigno beffardo: mi aggrappavo a lei come se fosse un’ancora, quando era evidente che tra i due non ero certo io quello messo peggio. Dovevo essere forte per lei, ma era lei l’eroe. “Ma credimi non ci stavo capendo niente” mi giustificai. “Senti, avete chiamato i genitori? Io non ho il coraggio …” ammisi; ero un codardo, era poco ma sicuro, ma chi al posto mio avrebbe avuto il sangue freddo e le palle per affrontare tutto senza il minimo cedimento mentale. Io mi sentivo stanco, svuotato, e non solo per la giornata di lavoro da scaffalista in libreria o perché era ora di cena e nel mio stomaco non c’erano rimasti nemmeno i succhi gastrici: ero stanco di dover stare sempre all’erta, di guarda perché nessuno provasse a scalfire ciò a cui più tenevo. Ma la resistenza prima o poi cede ed io mi sentivo sempre più vicino alla ritirata.
“Sì, non ti preoccupare” mi tranquillizzò mia madre, massaggiandomi le spalle “arrivano domani ad ora di pranzo, non dovrebbero avere difficoltà a cambiare i biglietti che avevano per questo week-end”.
Mi risollevai; avere i suoi genitori vicino sarebbe stato certamente un bene per Allison: quale migliore occasione per stare vicini ed prendersi cura l’un l’altro.
“Povera donna” esclamò mia madre, evidentemente riferendosi a Lois “quante gliene dovranno capitare ancora?” Ma io la vedevo un po’ diversamente: certamente non era stata fortunata, il destino le aveva riservato prove difficili, ma lei non aveva provato sulla pelle quello che invece aveva vissuto Allison. Ora la capivo, la mia piccola, quando diceva che sua madre non la capiva, che non si sarebbero mai capite e che non bastava sedersi a prendere un caffè per risolvere il mare di problemi, incomprensioni e rancori che c’era tra loro.
Per cui certamente le avrei aiutate a ritrovarsi, ma certo non avrei più forzato la mano. Spesso mi fermavo a pensare, e non a caso, che Allison avesse ragione: e anche quella volta era così, come sempre del resto.
“Tyler?” Les mi chiamò dal corridoio e accanto a lui il medico che, appena arrivato, trovai al letto di Allison a medicare le ferite. Mi alzai, senza dire nulla mi diressi fuori da … no, non eravamo in una stanza, perché c’erano solo delle tendine a dividerci dagli altri malati… mi allontanai insomma dal letto e mi diressi verso l’ingresso del reparto, dove c’era l’ufficio medici e lasciando indietro anche Les e mia madre. Io mi sentivo responsabile di Allison e di quanto le era accaduto, io ne avrei reso conto ad Allison stessa e ai suoi genitori, nonostante lei fosse maggiorenne ed indipendente da loro.
Il dottor Hernandes, un uomo di mezza età con la divisa verde da chirurgo ed il camice bianco, mi condusse fino alla sua scrivania, dove aveva lasciato la cartellina dedicata ad Allison. Sembrava un tipo taciturno e pragmatico, nonostante le sue origine ispaniche farebbero sospettare un’indole più aperta. O forse la questione era ben più grave e non lasciava spazio a sorrisi.
“Allora dottore, mi dica …” lo incalzai mentre, dopo un tempo che a me era sembrato eterno, se ne stava ancora a sfogliare le sue carte.
“Dunque” esordì “la signorina è arrivata in ospedale priva di sensi, tuttavia i suoi parametri vitali erano presenti, sebbene fossero alterati … e aggiungerei anche logicamente, vista la situazione di shock e la notevole perdita di sangue subìta. Al Pronto Soccorso sono stati eseguiti degli esami del sangue in emergenza, ma essi sono risultati tutti nella norma e abbiamo scongiurato, per il momento, la necessità di una trasfusione. Quando l’hanno portata qui in reparto le ho autorizzato una Radiografia al cranio, visto che non era più priva di sensi, ma era alquanto soporifera”. La qual cosa mi preoccupò non poco, visto che era di là che dormiva, ma non avevo il coraggio di fare la figura di merda e chiedere se il fatto che dormisse fosse un bene o un male. “Tuttavia” riprese l’uomo, risollevandomi un minimo il morale “non ho riscontrato alcuna frattura al cranio. Però nei prossimi giorni vorrei farle fare una TAC e una visita neurologia, perché potrebbe aver subito qualche trauma che è al di là di ciò che con i raggi possiamo vedere”.
“E le ferite?” domandai, cercando di mostrarmi partecipe; non che non lo fossi, è che avevo la tendenza ad estraniarmi quando ero particolarmente concentrato.
“Sono un bel po’, sparse su tutto il corpo. Soprattutto graffi e qualche taglio” spiegò “e tanti lividi. Mi dispiace essere così crudo, ma l’hanno riempita di botte. La sua ragazza non mi ha risposto mentre la visitavo, perciò vorrei escludere l’ipotesi di violenza carnale con una consulenza ginecologica.”
Bonjour finesse. Grazie tante, eh. Raggelai e fui costretto a sedermi perché non potevo concepire che qualcuno potesse essersi accanito su quell’esserino così fragile ed indifeso con tanta veemenza e crudeltà gratuita. Ma quel che andava fatto, andava fatto, dovevamo sapere tutti la verità. Soprattutto Allison.
Mi sentivo un fuoco ardere in gola e seccarmi la lingua, atrofizzandola. Il chirurgo venne a sedersi al mio fianco, invece che al suo posto, di fronte. Aveva una brocca d’acqua tra le mani e me ne offrì un bicchiere. Lo feci fuori in un nano secondo, distruggendo anche il bicchiere che era di carta. Il mio interlocutore non si scompose, probabilmente aveva a che fare con gente come me tutti i santi giorni.
“Non si preoccupi” mi disse, dimostrandosi finalmente più gioviale “gliela rimetto in sesto la sua ragazza!”
Ed io tirai fuori un leggero sorriso, sollievo misto a tutta quella stanchezza accumulata. Non mi interessava se fosse rimasta qualche cicatrice, non mi importava se avesse zoppicato o se avesse dovuto portare gli occhiali per leggere d’ora in avanti, l’importante era riaverla con me, a casa, seduta sul letto con il computer portatile sopra le gambe o allungata in poltrona a vedere la serie tv di turno. Mi interessava poterla abbracciare di nuovo, soprattutto senza dover più temere niente e nessuno.
Passammo la notte da soli, io ed Allison, nonostante mia madre mi avesse implorato di lasciarle il posto, ma dormire a casa, da solo, sapendo lei in un letto d’ospedale, era impossibile. Così restammo lì, io nella poltroncina più scomoda del mondo e lei nel letto, immobile ma smaniosa, ora infastidita dalla luce di corsia, ora per la sirena di un’ambulanza, ora per i dolori che le riaffioravano.
Il mattino dopo, mi allontanai giusto l’oretta necessaria a me per tornare a casa e per cambiarmi, a lei per essere ripulita da capo a piede dalle infermiere, che gentilissime le fecero il bagno a letto, togliendo tutto il sangue anche dai capelli con un bello shampoo, anche se non capivo bene la dinamica del loro operare. Avevamo detto loro che sarebbero arrivati i suoi genitori e loro le dissero che non poteva farsi trovare sporca e puzzolente (sì, puzzava leggermente). A sua madre, e qui dovevo dargli ragione, sarebbe preso un infarto. Sembrava stare meglio Allison, il che mi mise decisamente di buon umore. I dolori li aveva ancora dappertutto, come giusto che fosse dopo quello che aveva passato e nonostante la dose di antidolorifici fosse ancora massiccia, ma sembrava sopportarli meglio e lo spavento sembrava essersi allontanato. Era una leonessa la mia Allie, e come tale si sapeva rialzare alla grandissima. Era molto più forte di me, su quello c’erano pochi dubbi.
Quando tornai, più tardi del previsto, mi incontrai con i genitori di Allison giusto fuori dalla porta del reparto, e capii che non era il momento per entrare. Li abbracciai entrambi, visto che era dalla mia toccata e fuga da Indianapolis che non li vedevo. Li avevo sentiti spesso, ma era la prima volta che me li ritrovavo davanti da quando ero tecnicamente loro genero; faceva uno stranissimo effetto.
“C’è il medico legale dentro” mi disse Doug. Mi prese un attimo un attacco di panico, ma poi mi ricordai che non fanno solo autopsie quei poveretti. “È venuto con la polizia, sta analizzando tutte le ferite di Allison” mi spiegò infatti Doug … mio suocero. Si, era decisamente strano, meglio togliersi quella idea stramba dalla testa.
Lui era al solito una roccia, stava in piedi davanti alla porta d’ingresso e sembrava non scalfirlo nulla. Lois invece era come la ricordavo, la casalinga per bene della borghesia di provincia, camicia e gonna, filo di perle perennemente al collo e borsetta sopra le gambe, impaziente e nervosa, come se fosse seduta su un letto di chiodi anziché una panca in plastica. Voleva bene alla sua bambina, allo stesso modo di suo marito, eppure c’era qualcosa che si era rotto qualche anno prima, qualcosa che ora da parte sua era tornata apposto, ma che Allison doveva ancora ritrovare.
“Come siete arrivati fin qui?” le domandai, sedendomi accanto a lei per rompere il ghiaccio e tentare di calmarla. “Il signor Hawkins … ehm, tuo padre. È stato così gentile da mandare il suo autista a prenderci all’aeroporto” immaginai che mia madre dovesse aver suggerito quella mossa, sebbene agli occhi del suo dipendente e sua moglie apparisse l’immagine di un uomo gentile e premuroso. “Lo abbiamo trovato qui quando siamo arrivati … è venuto a trovare Allison prima di andare a lavoro” intervenne allora Doug. Questa proprio non me l’aspettavo. “Oh Tyler è stato così gentile” proruppe allora Lois “ci ha invitati a stare nel suo appartamento fin quando non ripartiremo. Ma non vogliamo abusare della sua generosità”
“E perché no?!” obiettai. Quando vi ricapita tanta generosità da parte di quell’orco, pensai. “Lui non c’è mai a casa, molte volte si ferma persino in ufficio a dormire … ha una piccola stanza lì. Sapete com’è … ha sposato il suo lavoro”
Odiavo me stesso per risultare così gentile e garbato nei confronti di un uomo come Charles che non lo meritava, ma loro avevano un’altra immagine di lui che non mi sentivo di distruggere.
Vidi Doug tentare una replica, ma ogni sua parola venne strozzata in bocca da un urlo agghiacciante che venne direttamente dal reparto. Non bastarono le pareti semi isonorizzate ad attutirlo. Ci guardammo terrorizzati ed io corsi avanti, battendo contro la porta chiusa a chiave affinché aprissero. Una volta dentro mi fiondai verso il letto di Allison, ma venni bloccato dai poliziotti che avevo conosciuto il giorno prima. L’unica che fecero passare fu la madre, Lois. Mentre Doug chiedeva, concitato, spiegazioni, tutto quello che io riuscivo a sentire erano il pianto inconsolabile della mia Allie e le sue grida quasi incomprensibile. “Guarda! Guarda!” sembrava dire tra i singhiozzi, forse rivolgendosi a sua madre.
Spinsi per andare oltre e raggiungerla, ma il poliziotto che avevo ribattezzato il gorilla, di cui non ricordavo il nome, mi fermò dicendomi che era stata Allison a chiedere di non lasciarci avvicinare. A cosa era dovuto questo cambiamento così repentino? Perché aveva consentito a sua madre di avvicinarla e a me e a suo padre no?
Intanto il dottor Hernandes parlava con Doug, così mi avvicinai a loro, sperando che il mio nervosismo si placasse. “La ferita che però più mi preoccupa è quella al volto” spiegò il chirurgo “spero che si rimargini bene altrimenti dovremmo intervenire chirurgicamente.” Dunque era per quello che Allison stava urlando: una brutta ferita profonda sul volto. Non voleva farsi vedere, soprattutto da noi che le eravamo più cari, ma avrebbe dovuto sapere che per noi non era il volto a renderla la persona speciale che era. “Ne ho già parlato prima con i poliziotti” riprese “perché sinceramente appena medicata mi è parsa subito molto strana … quasi intenzionale”
 “Che significa intenzionale?” intervenni. Non capivo; ogni singola ferita procurata era intenzionale, non possono averla ridotta ad uno straccio accidentalmente.
“È la forma che mi ha insospettito, non è quella di una ferita inferta a caso … è come se avessero voluto sfregiarla, lasciarle un marchio … ed il medico legale è della mia stessa opinione. E le urla della povera Allison hanno confermato i nostri sospetti …”
Vidi in fondo al corridoio Lois che usciva dalla piccola stanzetta di fortuna dove era ricoverata Allison. Era seria, provata. Fece cenno a me e Doug di venire avanti. Poco prima che potessi essere sufficientemente vicino da vedere Allie oltre la coltre di medici e infermieri che la coprivano, Lois si avvicinò e poggiando una mano sul mio petto mi bloccò. “È sconvolta, la stanno sedando … è terribile quello che le hanno fatto, povera la mia piccola”.
Ero ancora più scioccato, perché non riuscivo a capire cosa ci fosse che non andava, oltre la ferita che le avevano lasciato sul volto. Era stata violentata? … no, non dovevo pensarla nemmeno una cosa tanto brutta. Chi era la carogna che avrei dovuto mangiarmi fino all’ultimo grammo di carne?
Mi avvicinai, cauto, temendo che solo a vedermi si sarebbe agitata ulteriormente ed era l’ultima cosa che tutti noi volevamo. Non sapevo cosa aspettarmi, sinceramente … una bruciatura, una guancia corrosa dall’acido … nessuno che si fosse degnato di prepararmi. E tremavo, tremavo come una foglia. Non perché avessi paura di vederla, ma perché avevo il terrore che i miei occhi e il mio viso potessero tradirmi ed ingannare Allison. Non l’avrei mai lasciata, ma una reazione sbagliata, anche non voluta, avrebbe potuto far crollare tutto. Tieni duro cuore, sii forte, pregavo dentro di me.
Fu allora che la vidi: i nostri sguardi si incrociarono e in lei il lago di lacrime torno prepotente a galla, come se non avesse pianto fino ad allora. Mi focalizzai sui suoi occhi, così verdi e così lucidi, così splendidi che quasi non vidi il grande squarcio sulla gota sinistra. Erano più d’uno anzi, quattro linee oblique che riempivano l’intera guancia, unite a formare un disegno continuo, una lettera forse, la W. Lei continuava a fissarmi, come se cercasse qualcosa in me, come se mi implorasse. Cosa voleva? Perdono? Scuse? Non c’era niente da perdonare e niente per cui scusarsi. Io la volevo solo vedere felice. Eppure non c’era niente di felice in quegli occhi, quegli occhi così tristi che le avevo visto solo una volta da quando la conoscevo: quando, cioè, scappò via dai suoi aguzzini che volevano farla fuori. Quando non aveva più nulla, quando era solo una ragazzina che per tanto tempo aveva negato anche a sé stessa la verità di quella squallida vita.
Poi ebbi un lampo, il ricordo di quella mattina, dopo che avevamo fatto l’amore la prima volta, quando incontrò mia madre e le confessò quale fosse il suo mestiere.

“Per quanto mi ostini a ripetere a me stessa e agli altri che sono una ballerina io sono una prostituta!”
Mi sedetti sul letto, accanto a lei, che mi abbracciò forte, come non aveva mai fatto prima, e scoppiò di nuovo a piangere. Nessuno era rimasto attorno a noi, nessuno che ci fosse né d’intralcio né d’aiuto; non ne avevamo bisogno: ancora una volta ci bastavamo, io e lei insieme.
Non era stata violentata: peggio. Le era stato inflitta una punizione, un marchio perenne. Lei lo aveva sfidato ed era sopravvissuta, lo ha sfidato di nuovo e lo ha quasi messi in galera e lui ha risposto così, imprimendole sulla pelle il ricordo di ciò che era stata e che secondo lui sarebbe stata per sempre.

W. Whore. Puttana.

No, non per me. E mentre la consolavo, avevo ancora addosso la sensazione di un paio di occhi che mi fissavano.














NOTE FINALI

Oggi mi trovate di pochissime parole. Ho una connessione di cacca XD e questo capitolo mi ha letteralmente prosciugata.
Spero vivamente che abbiate voi qualcosa da dire a proposito perché vi lascio la parola e vi do appuntamento tra un paio di settimane. Se siete shockate lo sono io quanto voi...forse un po' di più...perché ho dovuto trovare le parole giuste, quando di parole ce ne sono veramente poche.
Vi lascio solo un paio di appunti per la riflessione: ecco spuntare un nuovo personaggio, Neil Craig, padre di una certa Alyssa Craig, interpretata in Remember Me dalla bellissima e dolcissima Emilie De Ravin ... e poi, di chi sono quel paio di occhi che Tyler continua a sentirsi addosso?

à bientot

Federica

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Capitolo 30
*** Lay & Love ***


When you crash in the clouds - capitolo 29
When you crash in the clouds






Capitolo 29 

Lay & Love







soundtrack

Si era riusciti a calmarla alla fine, rassicurandola che quello sfregio non sarebbe rimasto sul suo volto a lungo, che avremmo cercato il miglior chirurgo plastico del mondo se fosse stato necessario. Per ora, però, altro non si poteva fare che coprire con una benda e sperare che non ci cadesse l’occhio sopra; solo così, per il momento, si poteva evitare di rinnovarle il dolore che aveva dentro, anche se con scarsi risultati.
La cosa che però mi rendeva felice, anche in quel momento in cui non avrei dovuto esserlo, era sapere che lei mi voleva al suo fianco e quasi non mi permetteva di lasciarla sola. E non sarei stato certo io a fare il guastafeste della situazione. Ero lì con lei anche quando la polizia andò ad interrogarla, il giorno seguente, quando i medici avevano scongiurato ogni complicazione cerebrale e autorizzato l’incontro con le forze dell’ordine. Presto sarebbe anche tornata a casa … ma una cosa per volta.
“Allora signorina” iniziò il sergente Craig, affacciato alla finestra della stanza che finalmente si era resa disponibile per Allie “io lo so che per lei non è difficile, ma la prego di fare uno sforzo e cercare di aiutarci il più possibile. Le prometto che faremo il massimo per dargli quello che si meritano”

Non sembrava il genere di poliziotto insensibile e tutto d’un pezzo, anzi sembrava essere davvero preoccupato per Allison e il suo modo di fare aveva infuso grande sicurezza in tutti noi. Sapevamo che non sarebbe stato facile ritrovare quei bastardi, neanche se Allison avesse fatto nomi e cognomi, soprattutto quando c’è di mezzo un giro di affari loschi e malavita organizzata come quella. Non avevo mai ben capito cosa ci fosse sotto, mafia russa o cinese, boss sudamericani, o altro: non ne avevamo mai parlato apertamente con Allison né io ero stato lì a fare domande; lei diceva sempre “il boss qui, il boss là”, ma non sapevo con esattezza se fosse il capo dei capi o un piccolo frammento del quadro più esteso. Era una parte delicata della sua vita che non me l’ero mai sentita di riportare a galla.
“Forza Allison” la incitò ancora l’uomo “raccontami come sono andate le cose”
Vidi Allison prendere un respiro profondo, mentre io me ne stavo ad un angolo della stanza, in piedi e a braccia conserte, quasi trattenendo il respiro, come se avessi paura di rompere quell’ecosistema delicato e precario che si era venuto a creare. “Ero … ero andata nel Queens” cominciò lei, apparentemente tranquilla; io sapevo benissimo che non lo era per niente, lo vedevo da come stava martoriando quelle povere lenzuola. Dunque era stata davvero nel Queens, non aveva fatto nulla di avventato come in un primo momento avevo temuto.

“Dovevo vedere alcune case in affitto, e ho passato lì tutto il pomeriggio”
“C’è qualcuno che può confermarlo?” domandò lui, mentre un suo giovane collega, non il gorilla, che era invece rimasto di guardia fuori, prendeva appunti su un piccolo block notes, ansioso di non perdere nulla. Aveva tutta l’aria di essere un damerino alle prime armi e di essere al primo caso davvero importante della sua vita, ed aveva addosso tutta l’eccitazione e l’agitazione di non sfigurare davanti al capo che gli aveva fatto la grazia di averlo portato con se.

“Naturalmente” rispose lei “l’agente immobiliare che mi ha accompagnata”
“Hai fatto o ricevuto qualche telefonata?” “Mi ha chiamata la signora Diane Hirsch, la madre di Tyler … e poi beh, io e lui” disse Allie indicandomi “ci siamo scambiati parecchi messaggi durante il pomeriggio, l’ultimo prima di andare a prendere la metropolitana”
“Perfetto” commentò il poliziotto. Ricordavo bene quel semplice messaggio, l’avevo letto e riletto per non so quanto tempo, aspettandone un altro che non arrivava mai, che non sarebbe mai arrivato. “Hai notato qualcosa di strano nel pomeriggio?” continuò l’uomo. “Strano?” domandò lei. “Sì … che so … una macchina che ti seguiva, qualcuno che ti fissava insistentemente o che ti ha avvicinato facendoti strane domande, qualsiasi cosa … anche una spallata innocente potrebbe essere sospetta”
Ma lei scosse il capo vigorosamente. “È stato un pomeriggio assolutamente normale, niente di strano che io possa ricordare … mi dispiace”

Era assurdo che lei si sentisse in fallo, colpevole di non riuscire a ricordare nulla di particolarmente interessante per un investigatore. Ma lui capì il suo stato d’animo e le si avvicino, carezzandole lievemente la testa, come forse solo un genitore sa fare. “Non ti preoccupare Allison, va bene così … andiamo avanti. A che ora sei scesa a prendere la metropolitana?”
“Sette e un quarto, sette e venti … non ricordo di preciso” disse, ma si vedeva che si stava agitando, perché la voce aveva preso a tremare e correva mangiandosi le parole “dovrebbe esserci…dovrei avere il …il biglietto nella mia borsa, nel … nel portafogli se vuole l’orario preciso”  
Con un cenno, il sergente indicò al suo attendente l’armadietto, dove aveva ci aveva visti riporre la borsa, e il ragazzo … non poteva avere che un paio d’anni più di me, corse impacciato ad eseguire l’ordine. Ma era talmente goffo che in una sola mossa aveva scombinato tutto l’ordine certosino che la mamma di Allison aveva fatto. “Aspetta … lascia stare” intervenni, cercando di tamponare quel disastro che aveva fatto. “Ecco!” dissi, passandogli la borsa.
Immaginavo che non potesse servire più a cercare impronte, visto che era passata in mano a non so più quante persone, e immaginavo che il sergente lo sapesse anche meglio di me. Intanto prese il biglietto della metro. Probabilmente sperava di risalire a qualche telecamera a circuito chiuso tramite l’orario.

“Poi sono salita sul vagone per tornare a casa” ricominciò Ally senza che nessuno l’avesse interpellata. Sembrava lei un vagone in corsa. “era pieno zeppo, c’erano solo posti in piedi e così mi aggrappai ad un corrimano e stetti ad aspettare che si liberasse qualche posto. Facemmo un paio di fermate … forse tre e poi iniziò un tratto lungo, senza fermate. Fu lì che mi venne puntata una pistola alla schiena…”
A sentire quelle parole non ressi più. Mi ero avvicinato al letto e avevo preso dal comodino una bottiglietta, per porgere ad Allison un bicchiere d’acqua. Aveva la gola completamente secca e la lingua incordata dalla salivazione azzerata, si percepiva dallo sforzo enorme che faceva per scandire ogni parola. Ma il bicchiere d’acqua finì a terra, rompendosi, e la bottiglia, rovesciatasi, riversò tutta l’acqua sul pavimento. “Scusatemi … scusatemi” fui solo capace di dire mentre, ormai agitato ed in profondo imbarazzo, mi davo da fare per asciugare il pavimento, consumando tutto il rotolo di carta per le mani che era in bagno. Il sergente mi fece aiutare anche dal giovane agente Cody Rogers, nome che scorsi dal distintivo. Nel frattempo, il suo capo non si fermò e cominciò anche a prendere gli appunti per l’interrogatorio.
“Gli hai visti in faccia?” chiese. “No…mi hanno minacciata dicendomi che se solo avessi provato a girarmi avrebbero sparato a me e a qualche passeggero a caso sul treno. Non potevo rischiare…”
“Mmm …” mugugnò lui “nessuno si è accorto di nulla quindi” “No..non credo, non penso. C’era molta gente, non ci si poteva muovere, figuriamoci guardarsi intorno…no, era impossibile”
“Poi cosa successe?” “Alla fermata successiva mi dissero di scendere e di non voltarmi o provare a scappare perché mi avrebbero gambizzata se solo ci avessi provato…e quella è gente con cui non si scherza. Se promettono una cosa la fanno. Comunque non avevo idea di dove fossimo, non me lo ricordo…non ho avuto il tempo di guardarmi intorno. Ma non era una fermata molto frequentata, con noi non scese nessuno. Risalendo in superficie all’uscita della metro mi condussero fino ad un vicolo cieco, senza illuminazione. Lì mi bendarono e legarono e mi fecero salire di peso sul retro di un furgone e partimmo”
“Eri da sola lì nel retro?” “Immagino di sì…non vedevo nulla, l’unica cosa che ricordo è il rumore di una pistola o di un fucile … non lo so … che veniva caricato”

“E le voci? Te le ricordi le voci?” “Beh sì …” “Cosa mi sai dire? Qualunque cosa può aiutarmi ed aiutarti Allison”
“Ma non le basta signore?” intervenni, stufo di vedere Allison che si stava letteralmente ammazzando per ricordare ogni singolo dettaglio, che stava provando il terrore di quella sera di nuovo sulla sua pelle. Lui non la conosceva, ma ogni movimento del suo corpo, ogni tensione di muscolo ed ogni incrinatura della sua pelle mi faceva stare sul chi va là.
“Sto bene Ty” mi tranquillizzò Allison. Lei si preoccupava per me, ma non si curava di sé stessa, non lo faceva mai. Il sergente dal canto suo rimase in silenzio, comprendendo la mia posizione ed aspettando che fosse Allison a decidere cosa fare. “No, non stai bene” insistetti “il medico dice che devi riposarti”

“E lo farò” promise, prendendomi per mano, quando mi riavvicinai a lei una volta terminato il mio lavoro di pulizie “ma è meglio che io finisca questa cosa al più presto possibile e che io dica al sergente Craig tutto quello che so e che ricordo ora … domani potrei aver perso già molti dettagli”.
Da quel punto di vista poteva anche avere ragione, ma non volevo che impazzisse andando dietro a dei ricordi tanto dolorosi. Ma sembrava non importarle o non avere timore. Da dove le veniva tutta quella forza e quella sicurezza?
“Se non ce la fai a sentirmi, puoi anche uscire … lo capisco” “No, io sto qui con te, non ti lascio” dissi, fermamente, baciandole la mano. Così la lasciai continuare.

“Le voci erano tre, tutte maschili. Le due che mi avevano braccata sulla metro e l’altra probabilmente era dell’autista del furgone. Lui era americano, o comunque parlava inglese senza particolari accenti, gli altri due avevano l’accento spagnolo”
“Messicani?” “Forse … o di qualsiasi paese del centro o sud America dove si parla spagnolo”
“Le avevi mai sentite prima?” “Quella dei due uomini no … l’autista sì. Era uno dei buttafuori del locale, John, non so il suo cognome” “Sapresti farne un identikit?” “Naturalmente…”  John lo ricordavo anche io: come dimenticare l’uomo che mi aveva spaccato la faccia. L’altro invece … tutt’a un tratto ebbi come un’illuminazione. Bastò che Allison pronunciasse la parola buttafuori per ricordarmi dove avevo già visto quell’uomo che da due giorni gironzolava intorno al reparto, fissandomi insistentemente ogni volta che gli rivolgevo lo sguardo. Uno spilungone con la testa piccola, Dean, il buttafuori che per poco non ridusse me ed Aidan in poltiglia la prima volta che entrammo nel Don Hill e lo stesso che mi lanciò fuori dal locale quando provai a picchiare un vecchio porco.

Nel frattempo, mentre Allison e i poliziotti continuavano a parlare di come, quando e perché l’avessero condotta nel vecchio motel dove abitava, dove ad aspettarla c’era Mr Don Hill in persona, che tutti chiamavano così, ma era chiaro che non fosse il suo vero nome; lei pensava fosse russo o qualcosa del genere, perché il suo accento lo tradiva. Lei era la prima volta che lo incontrava, avevano sempre “trattato” per intermediari, tuttavia non ebbe modo di vederlo in faccia perché l’avevano lasciata bendata. Non sentii più nulla del suo racconto, né di lei di cosa si sono detti, né e soprattutto di quando hanno alzato le mani su di lei. Avevo resettato completamente il mio cervello, concentrandomi su quell’uomo che, evidentemente ci avevano messo a farci da guardia, senza nemmeno curarsi troppo di rimanere nell’ombra: o erano scemi, o erano incredibilmente sicuri di loro stessi. Non sapevo come dirlo al sergente, soprattutto nei riguardi di Allison che non doveva preoccuparsi troppo.
Speravo che il gorilla lì fuori se ne fosse già accorto e che presto ci avrebbe dato lui stesso la notizia e lo avrebbe fermato. Certo, sarebbe stato interessante uno scontro tra titani, visti i soggetti, ma preferivo che ad avere la meglio fosse il gigante buono, ovviamente.
“Chiedo … chiedo scusa” interruppi la conversazione tra Allie e il sgt. Craig “Allie io scendo al bar, ho bisogno di un caffè … vuoi qualcosa?”
“No, grazie Ty, va pure” rispose lei, dolcemente, come se avesse capito che il mio era solo un pretesto; non che ci volesse un genio per capire che stavo accampando una scusa qualsiasi per uscire da quella stanza, dove l’aria era diventata decisamente irrespirabile. Tra Allie che indugiava nei particolari del massacro e gli sbirri che la spalleggiavano, mi sentivo imprigionato in qualcosa che non mi apparteneva. Avevo fatto l’eroe troppo a lungo, ed Allison non mi aveva mai chiesto tanto: me lo diceva sempre, ma non le davo mai ascolto. Era arrivata l’ora del time-out, di staccare la spina e prendersi almeno cinque minuti per tornare ad essere un ventiduenne irresponsabile ed ingenuo, che nulla sa della malavita se non quelle poche notizie che sente al notiziario la sera.
“Lei sergente?” domandai, garbato, prima di lasciare la stanza “prende qualcosa?”
“No grazie ragazzo … noi siamo apposto” rispose, anche a nome del collega a lui sottoposto.
Presi ad aspirare fumo dalla sigaretta, seduto ad una panchina all’ingresso dell’ospedale, il bicchiere di caffè al mio fianco. Ma né la nicotina, né la caffeina mi davano più soddisfazione, non placavano più i miei malumori come una volta. Anzi, mi ritrovai senza pensarci troppo a gettare a terra una sigaretta consumata per metà, disgustato da quella esalazione fatta ormai più per vizio che per piacere oggettivo. Non ricordavo più né quando né perché avessi iniziato, ma ora sentivo che era arrivato il momento di provare a darci un taglio, e non solo perché individui in divisa bianca mi avevano guardato in cagnesco per aver osato fumare una sigaretta alle porte di un nosocomio.

Provai a fare il punto della situazione, sorseggiando il mio caffè e osservando l’andirivieni di gente che mi passava davanti: donne gravide o neomamme, ragazzini ingessati o anziani in sieda a rotelle, ragazze bellissime ma con foulard che tentano invano di coprire un male che va ben oltre qualche ciocca di capelli in meno. Cosa ero io confronto? Ed eccolo di nuovo, quel senso opprimente di impotenza, riaffacciarsi sfrontato e bastardo, a comprimermi il cuore, a levarmi il fiato. Mi accasciai quasi sulla panca, letteralmente ripiegato su me stesso, le mani giunte, balbettando una preghiera qualsiasi, retaggio di una infanzia passata con una nonna pia che mi aveva insegnato a recitare le sue devozioni a memoria. Ma la mente era stata svuotata di tutto, come un computer in sovraccarico che viene formattato. Si poteva finire così? No, non di certo. Tutto l’amore che avevo dato e ricevuto non era stato vano, era ancora lì, racchiuso in un cuore che non ha smesso di battere neanche per un secondo, forse un po’ stordito dopo le continue percosse. Illividito forse, ma non ferito a morte.

Mi rialzai dopo aver schiarito le idee, pronto a riaffrontare di nuovo la trama della vita che il destino aveva tramato per me; avrei voluto la vita noiosa e stupida di molti miei coetanei, ma se quello era il prezzo da pagare per poter amare – ed essere amati – dalla donna che avevo al mio fianco … beh allora avrei alzato le mani e avrei dichiarato la mia resa.
Fermo davanti alle porte degli ascensori, erano già cinque minuti che attendevo il mio turno … sarei arrivato già a destinazione se avessi preso le scale, ma ero troppo pigro perché sei piani di scale potessero attirare la mia attenzione. Decisi di prendere comunque l’ascensore alla fine, nonostante andasse ai piani sottostanti … l’importante era riuscire a salirci. Infatti, quando tornammo a pian terreno, eravamo di nuovo strapieni, che solo un paio di persone riuscirono a salire. Fu lì che lo vidi, l’uomo/vedetta, che da quando eravamo in quell’ospedale non aveva fatto altro che osservarci, come il peggiore degli avvoltoi; lui però, a dispetto di un’altezza ragguardevole, non mi vide tra la folla, compresso com’ero nel vano dell’ascensore. Tentai di sfruttare la sua distrazione a mio favore e, una volta arrivato al livello del reparto dove era ricoverata Allison mi decisi ad aspettarlo e ad affrontarlo. Non avrei dovuto fare l’eroe, non era gente dalle buone maniere quella … non c’avevano messo niente a rovinare la faccia di Allison, non sarei stato certo io ad impressionare un bestione come quello.
Ma volevo togliermi la soddisfazione di guardarlo dritto negli occhi e sputargli in faccia tutto il mio schifo, e poi avrebbe potuto fare di me quello che voleva.
Avevo recitato per tanto tempo la parte dell’eroe buono, quando in realtà non ero da paragonare nemmeno al Robin di Batman, ero sempre il primo nella lista dei conigli. Ma quella era una cosa da cui non potevo esimermi.
Mi sedetti nella sala d’attesa di fronte all’ingresso del reparto, dove i parenti senza permessi speciali aspettavano l’inizio dell’orario visite; lui avrebbe dovuto fermarsi lì, non l’avevo mai visto aggirarsi nel reparto oltre quel paio d’ore giornaliere regolamentari. Pochi minuti dopo, infatti, eccolo spuntare con il suo passo pacato ma impavido, come di chi sa il fatto suo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto passare inosservato dall’alto dei suoi due metri di altezza. Indossava un paio di jeans e una tshirt slavata, un gilet che immaginai essere un giubbetto antiproiettile e un auricolare all’orecchio destro. No, decisamente era sua intenzione far notare la sua presenza: come monito, come a dire “noi siamo qui … ci siamo sempre … guai a voi”
Si sedette di fronte a me, un paio di posti più a destra, fingendosi intento alla lettura di un giornale: ma quegli occhi erano troppo vispi e troppo attenti ad altro per seguire il filo di un articolo.

Presi un respiro profondo. “Puoi farcela Tyler … devi farlo per lei” mi incoraggiai quando, da codardo qual ero, mi balenò in testa che forse sarebbe stato più corretto far intervenire la polizia anziché immischiarmi in faccende così pericolose.
Mi portai a sedere proprio di fronte a lui ed attirai la sua attenzione chiedendo gli l’ora esatta. Notai che il mio approccio lo mise a disagio e la cosa mi stupì: se era stato tanto spavaldo da farsi notare, perché aveva timore di me?
“Ha qualche parente ricoverato in chirurgia?” gli domandai a testa alta e accomodandomi meglio sul seggiolino di plastica, mostrando una finta sicurezza. In realtà me la stavo facendo addosso come mai prima di allora. “L’ho notata nei giorni scorsi …” continuai, ma lui accennò un mezzo sorriso e annuì, scocciato dalla mia ingerenza. Chiunque avrebbe potuto pensare che la causa del suo malumore fosse il mio fare scortese ed inopportuno, soprattutto perché generalmente la malattia ed il dolore non sono un buon argomento di conversazione. Ma sapevamo entrambi che non era così.
“Scusi…devo fare una telefonata” bofonchiò, alzandosi e andando verso un’uscita secondaria del pianerottolo, che conduceva agli ascensori di servizio.
“Ehi! Ehi!” lo chiamai, venendo rimproverato da un paio di vecchiette. Provai a corrergli dietro ma barella con un malato di ritorno dalla sala operatoria mi ostruì la strada e raggiunsi l’ascensore solo quando le porte si furono richiuse davanti a me. Sbattei i pugni contro le porte un paio di volte dalla rabbia ma per fortuna nessuno se ne accorse. Presi così a scendere le scale all’impazzata, quasi rischiando di rotolare giù a valanga per aver saltato un paio di gradini, sperando di vederlo almeno uscire dall’ascensore. La sorte mi fu vicina almeno in quell’occasione, perché del personale di servizio aveva bisogno dell’ascensore per trasportare un carico di medicinali dalla farmacia fino all’ultimo piano, quindi fu costretto a scendere. Fu lì che lo persi, saltandogli letteralmente addosso. Non ero pesante, ma l’effetto sorpresa mi permise di atterrargli comodamente alle spalle e buttarlo a terra. Avevo qualche secondo prima che la sua reazione mi mettesse k.o., ma forse penso che l’ospedale non fosse il posto migliore per massacrarmi di botte, soprattutto quando ci sono delle guardie pronte a metterti dietro le sbarre qualche piano più in alto, e così si limitò a rimetterci entrambi in piedi e a condurmi verso un cortile interno della struttura, dove il personale si lasciava andare nei momenti di pausa.
“Guarda che non ti faccio niente … ma tu non devi fare certe cazzate!” mi disse l’uomo “ringrazia che non c’era nessuno in giro … come ti è saltato in mente di aggredirmi in quel modo!!!” Effettivamente la mia era stata la genialata del secolo, mi capitava spesso di farne: avevo rischiato io di finirci dietro le sbarre anziché mandarci lui.

“Non ci siamo presentati” esordì lui “io sono Dean Johnson”
“Piacere” risposi alla sua stretta di mano “ io so-” E lì mi fermai. Se era nel medesimo giro in cui Allison era fino a qualche mese prima, e se era il primo nella lista degli scagnozzi del suo aguzzino, non c’era da fidarsi manco per niente.
Poteva avermi mentito sul suo nome, oppure poteva essere stato sincero sulle credenziali ma rimanere uno stronzo voltagabbana pronto a fare amicizia con me e a sputtanarmi con chi di dovere un secondo dopo, al solo scopo di finire il lavoro che avevano iniziato con Allie. Per cui serrai per bene la bocca.
“Io so chi sei” sputai, incazzato ma sicuro che non mi avrebbe potuto fare niente davanti ad altra gente. Anche se sembrava proprio quella la sua intenzione.  “Tu lavori al don Hill … come posso fidarmi di te?”
“Perché non dovresti?” domandò lui, tranquillo, come se avesse la coscienza pulita.
“Come posso fidarmi di uno che viene da quello schifo di posto … chi me lo dice che questa non è un giochetto per farmi parlare?”
Ai suoi occhi dovevo sembrare un ragazzetto che giocava a fare il poliziotto e che aveva visto troppi episodi di Criminal Minds. Dovevo farlo ridere, ero lo scemo del villaggio al suo confronto, ma rimaneva impassibile ed imperturbabile.
“Solo tu puoi decidere se fidarti o meno di me” rispose lui, calmo “ma a mio parere di conviene. Io non sono qui per farti del male, te l’ho già detto. E ho bisogno che mi aiuti …”
Io?! Ma per chi mi avevano preso … per una crocerossina? Per madre Teresa, forse? Io non riuscivo a cavarmela da me per allacciarmi un paio di scarpe e a saltava sempre fuori che ero indispensabile a tutti.
“Cosa vuoi da me?” domandai.
“Ti ho visto vicino a quella ragazza che è ricoverata in chirurgia, quella che è stata picchiata … e ti ho visto parlare con la polizia. Ho bisogno che mi aiuti a raggiungere un accordo con la polizia?” “Che genere di accordo?” “Io parlo … ma devo uscirne pulito”
“Ma tu sei pazzo!!! Ma per chi mi hai preso? Posso darti il numero di un buon avvocato, anche del principe del foro newyorkese se vuoi, ma se vuoi andare dalla polizia a costituirti devi farlo per assumerti ogni responsabilità e pagare il tuo debito con la giustizia, non per ricevere una condanna a saldo. Non è così che funziona”
“Ma io ho le mie buone ragioni…”
“Anche quella povera ragazza aveva le sue buone ragioni per vivere in santa pace” gli urlai contro, sprezzante “ma tu lo sai che cosa hanno fatto i tuoi amici alla mia ragazza?” Venni colto da una risata isterica e non mi accorsi di aver parlato troppo. “Certo che lo sai …” ripresi “altrimenti non staresti qui a farci da guardia”

“E così sei il ragazzo di Allison?!” domandò “e brava la piccolina!!!”
“Tu … tu conosci il suo nome vero?” chiesi, interdetto, distogliendo la mia attenzione dalla sfuriata. “Sì … conosco i nomi di tutti lì dentro. Ero il responsabile della sicurezza, non un semplice buttafuori. Mi occupavo di documenti, identità, sviare i controlli della polizia … era tutto sotto il mio controllo”
“Era?” domandai. Lui annuì. “Me ne sono andato l’altro giorno, dopo quel capolavoro che hanno fatto ad Allison …” affermò, distogliendo lo sguardo da me e puntando altrove, gli occhi nascosti dagli occhiali da sole “… ne avevo fatte tante di cose scorrette e illegali, non ero certo fiero di me stesso … ma quando l’unica cura per tuo figlio costa centomila dollari e l’assicurazione non copre certe spese faresti di tutto … di tutto”
La fame, la disperazione, eccole di nuovo. Le avevo viste negli occhi di Allison quando l’avevo conosciuta, le percepivo di nuovo nella voce di quell’uomo tanto grande e grosso quanto fragile.
“Ma quello che mi avevano chiesto di fare ad Allison non potevo tollerarlo … è solo una bambina. Così me ne sono andato … ora vorrei solo rifarmi un’altra vita. L’ideale sarebbe cambiare città … ma mio figlio non può interrompere le sue terapie quotidiane. Così ogni giorno sarà una battaglia per sopravvivere … letteralmente”
Non lo interruppi perché sentivo che il suo era solo uno sfogo di cui aveva bisogno per se stesso, piuttosto che la voglia di parlare davvero con me della sua tragica storia. Avrei voluto recriminare sulla ragione che gli aveva impedito di far del male ad Allison; diverse ragazze prima di lei avevano subito quel trattamento, ma prima di allora non aveva aperto bocca o protestato. Perché? Mi risolsi a tenermi quel dubbio per me, la mente umana è troppo contorta.
“Mi dica perché è qui a fare il cane da guardia allora … se non lavora più per quegli uomini?” la mia suonò più come una preghiera disperata che come una domanda.
“Mio figlio viene tutti i giorni in ospedale … un giorno è l’oncologia, l’altro è la dialisi, un altro ancora la pediatria … la mia presenza in ospedale passa davvero inosservata ai più. Ma tu mi conosci ragazzo, sai dove lavoravo …”
“… come potrei dimenticarlo … il tuo collega mi ha spaccato la faccia e tu mi hai fatto fare un volo di due metri in lungo prima di Natale”
“Davvero?!” domandò, cercando di trattenere una risata nervosa “scusa … ma non me lo ricordo” Eh, chissà a quanti l’avrete riservato quell’accoglienza … io non ci trovo nulla da ridere!!!
“E quindi …” incalzai, ritornando all’argomento di conversazione principale.
“Sono stato io a chiamare la polizia e l’ambulanza …” disse, tutto d’un fiato “ mi ero lavato le mani di quel lavoro, non mi ero mai sporcato con il sangue di quelle ragazze … lo avevano sempre fatto altri al posto mio … ma non potevo parlare o protestare,  quei bastardi mi tenevano per le palle con la storia delle cure per mio figlio”
Eccone un altro, un’altra vittima della macchina del terrore. Ora che lo conoscevo meglio non faceva più paura, anche lui era un gigante buono. Non sembrava più nemmeno tanto grande ora.
“Dissi loro che mi sarei occupato io di lei, avrei dovuto lasciarla a morire di stenti secondo loro sotto qualche ponte o in qualche vicolo dove nessuno passa mai … ma come ho sempre fatto con le altre ragazze ho chiamato i soccorsi”
“Dean … grazie” dissi, sinceramente, posando una mano sulla sua spalla, approfittando del fatto che si era seduto su un gradino dell’edificio. “Se c’è qualcosa che posso fare per te … qualsiasi” Lui l’aveva salvata, questo mi rendeva debitore a vita. Lui scosse la testa, sorridendo sommessamente: “Tu l’hai salvata, nessuna di quelle ragazze per cui ho chiamato l’ambulanza aveva un ragazzo che passasse la notte con loro in ospedale o che smuovesse cielo e terra per farle avere la miglior assistenza possibile. L’ho visto sai …”
In parte quell’uomo aveva ragione, se io non ci fossi stato, lei avrebbe continuato a fare la vita di prima, o sarebbe caduta ancor più in profondità nel baratro.
“Comunque io mi chiamo Tyler Hawkins” dissi alla fine, tendendogli io la mano questa volta, decidendo di fidarmi. “Sarai tu però Dean a farmi un favore” dissi “devi andare alla polizia, devi fare nomi, cognomi, tutto quello che sai glielo devi dire … non possono passarla liscia”
Lui strinse la mia mano, e sorrise: eravamo d’accordo. Dal canto mio gli avrei convinto Les ad occuparsene, le sue parcelle onerose gli concedevano di tanto in tanto di fare gratuito patrocinio.
Rientrando in reparto, accompagnato da Dean il redento, vidi gli agenti lasciare finalmente la stanza di Allison. Li salutai, garbatamente, lasciandomeli alle spalle in fretta tornare da Allie. Alle mie spalle sentii Dean parlare con gli agenti e, girandomi per un istante, vidi che se ne stavano andando insieme, serenamente.
Entrando in stanza notai Allie finalmente in piedi, appoggiata alla finestra, che guardava fuori. Bussai, per avvisarla del mio ritorno.
Quando si girò per vedere chi fosse, la sua bocca si spalancò in un sorriso non appena mi riconobbe, assolto da ogni pena e da ogni colpa, libero da ogni paura. Le andai vicino e l’avvolsi tra le mie braccia … non che ci volesse molto piccola com’era e le posai un bacio sulla fronte. Me ne accorsi dopo un po’ che anche io stavo sorridendo, scioccamente. Mormorai: “Ora possiamo tornare a casa”. Lei non rispose, ma la sua mano era arpionata alla mia maglia; tanto mi bastava a capire che andava tutto bene.














NOTE FINALI


Non ho molto da dire, se non che mi dispiace per l'immenso ritardo. Non mi rocordo nemmeno quando è stata l'ultima volta che ho pubblicato... mi duole dirlo, ma ho avuto il cosiddetto blocco dell scrittore e non riuscivo a venirne a capo. Non so infatti quanto sia gradevole questo capitolo. Certo scioglie molti nodi...
Vi lascio un'anticipazione, che più che altro risponde ad una domanda che alcune di voi mi hanno fatto. A questo capitolo ne farà seguito un altro, massimo due, e poi l'epilogo (che poi sarà in realtà un prologo). Ma non sarà una chiusura definitiva; come molte di voi sanno, e come vi ho fatto capire usando la parola prologo qui sopra, sono intenzionata a dare un seguito alla storia, cambiando completamente toni e registro. Se posso darvi un'altra anticipazione...quasi non li riconoscere più questi due.

Prometto che risponderò appena posso alle recensioni

à bientot

Federica


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Capitolo 31
*** Hold on to me and never let me go (parte I) ***


When you crash in the clouds - capitolo 30

 

When you crash in the clouds

 

 






Capitolo 30

Hold on to me and never let me go (Parte I)







soundtrack

Eve la cena è stata magnifica, grazie mille! Però non ce n’era bisogno … io e mia madre ce la saremmo cavata benissimo da sole!”
Sentii Allison protestare con la domestica di mio padre, in sala da pranzo, mentre sparecchiavano la tavola dalla sontuosa ennesima cena che Eve aveva organizzato durante la permanenza dei Riley a New York, ospiti di mio padre.

“Allison ha ragione Eve, tu non sei una cuoca d’albergo e noi non siamo la famiglia del Presidente degli Stati Uniti” rincarò Lois “questi banchetti quotidiani non sono necessari … ci stai viziando troppo!”
“Oh ma io lo faccio con piacere signora” sentii Eve risponderle “mi capita così di rado di cucinare per più di una persona…anzi sono più le volte che il signor Hawkins cena fuori e questa cucina rimane fuori uso per settimane. E poi tu Allison sei ancora convalescente, piccola … non credere che me lo sia
dimenticata. Perciò ora voi due andate di là, che qui ci penso io”
“Vai tu tesoro” disse Lois dolcemente a sua figlia “io devo fare un discorsetto alla nostra Eve … sono ancora convinta che il suo maiale con le mele abbia un ingrediente segreto e lei non voglia dirmelo”
Risero tutte insieme e il chiacchiericcio tra donne si infittì e divenne incomprensibile, vuoi perché si erano spostate in cucina, vuoi perché, infastidito dal vociare delle signore, Doug aumentò il volume del televisore.

“Ci fosse una santissima volta che io possa seguire un po’ di sport in santa pace … e ciùciù ciùciù ciuciù…sempre radio Lois in sottofondo” si lamentò, sbuffando.

Tentai malamente di nascondere le risate, ma alla fine bastò uno sguardo tra me e Doug per farci ridere di gusto, insieme.
Era tutto così nuovo e strano, non solo per Allison, che non riusciva – e forse nemmeno ci si sforzava troppo – a nascondere una sensazione di disagio nei confronti di questa situazione, a dir poco surreale, venuta fuori in poco meno di un paio di settimane, ma anche per me, che le famiglie in armonia le avevo viste sempre e solo in pubblicità da quando avevo 14 anni.
Dopo le dimissioni dall’ospedale, fu opinione comune che per Allie fosse meglio un periodo di riposo e calma a casa di mia madre, nella bella e grande stanza che aveva a sua disposizione lì. Avrebbe dovuto riprendere le forze al 100% e non poteva certo pensare a fare da balia a me ed Aidan nel nostro piccolo appartamento/discarica; né era mia intenzione d’altronde che Lois e Doug vi entrassero e ci vedessero vivere lì, insieme: sapevano tutti ormai che stavamo insieme, e forse non era difficile per loro immaginare che passavamo il più delle notti nello stesso letto, ma Allison aveva solo 18 anni, nonostante l’estrema maturità, e sua madre e suo padre non erano certo pronti ad accettare un tale passo quale la convivenza con un ragazzo.

Così Allison tornò da mia madre ed io cominciai la patetica recita del ragazzo d’oro, che se ne tornava a casa sua dopo il bacio della buona notte. Questo almeno, fin quando Allison non decise, con mia somma gioia dopo nemmeno una settimana, che ebbe recuperato a sufficienza la forze e fosse ora di smetterla con quell’astinenza forzata e dolorosa. Così, come due adolescenti, di nascosto dai genitori, ce ne andavamo a casa mia e se avessi potuto mi sarei chiuso dentro e avrei buttato la chiave. Non c’era niente di più bello che starsene a letto, o sul divano, o sul pavimento o sul tavolo della cucina o sotto la doccia, avvinghiati, intrecciati, stretti, affannati e sudati, stanchi ma appagati, obbligati a prendere ossigeno dal respiro dell’altro per respirare, sazi e saturi dei nostri sapori e dei nostri umori. Poco importava avere a disposizione cinque minuti o un pomeriggio intero, non era doloroso dover reprimere urla e gemiti, quando guardando negli occhi dell’altro vedi un vulcano che esplode e ti rendi conto che quella è la persona che ami, ed insieme siete magia allo stato puro, e niente è come voi messi insieme.

Perso nei miei pensieri venni risvegliato da una cuscinata in faccia, che solo da una persona poteva venire. Mi girai e la vidi entrare nella stanza, lentamente, come se volesse farsi ammirare da me e farmi venire voglia di rapirla. Era quasi estate, giugno era ormai alle porte: non faceva particolarmente caldo, ma Allison si sentiva autorizzata ad andare in giro già in infradito, con shorts bianchi e una canotta attillata, mettendo così in mostra generosamente le sue bellissime gambe. Il fratellino del sottoscritto ringrazia sentitamente.

Mi venne incontro e si chinò su di me, che me ne stavo seduto su una poltrona accanto a suo padre, e sperai che la partita di baseball offrisse proprio in quel momento qualche azione importante, abbastanza da estraniarlo completamente e distogliendo l’attenzione da noi. Allison prese il cuscino che mi aveva tirato addosso, e lo posizionò direttamente sopra la patta dei pantaloni, dove si notava un certo rigonfiamento. Si sedette poi sopra il braccioli della poltrona alla mia sinistra, avvolgendomi le spalle con il braccio destro.

“Quando pensi certe cose” mi sussurrò all’orecchio, badando bene a coprire il labiale con la mano libera “cerca almeno di non farlo davanti a mio padre”

“Non sono io …” le risposi, sporgendomi verso il suo orecchio “che vado in giro sculettando mezza nuda”. Le depositai un piccolo bacio proprio dietro l’orecchio, poco al di sopra della nuca: sapevo che era particolarmente sensibile in quel punto, e la sentii decisamente rabbrividire al mio tocco, seppur lieve e veloce. Bastava così poco per infiammarla …

“Portami a casa” pronunciò, monocorde, ad alta voce, fissando lo schermo tv come se fosse la frase più normale ed innocente del mondo. Ma entrambi sapevamo che non era così: non certo voleva che la portassi a Brooklyn, da mia madre. Era il mio appartamento che desiderava, soprattutto perché non erano nemmeno le dieci e quel giorno non ci eravamo visti per niente, io confinato in libreria, lei rapita da sua madre e mia sorella in visita al Guggenheim.

Mi bastò annuirle che subito si alzò e corse a prendere la sua borsa e una maglietta a maniche lunghe che aveva avuto la decenza di portare con in caso a sera fosse stato più fresco. Salutò sua madre, che era ancora intenta in cucina a fare un dettato le ricette di Eve, ma senza grande successo, visto che non avrebbe mai spifferato la ricetta completa. Era impossibile rubarle i segreti in cucina, l’unico modo possibile sarebbe stato drogarla o qualcosa di simile.

“Mamma noi andiamo” si rivolse Allison a Lois, cingendole le spalle da dietro con un abbraccio e lasciandole un bacio sulla guancia. Non sembravano due persone che non si erano parlate per tre lunghi anni, non sembravano una madre e una figlia che avevano dovuto ricucire una ferita profonda e dolorosa, ma sapevo bene quanto costasse ad Allison sforzarsi d’essere così espansiva con sua madre, soprattutto così in fretta. “Come?” domandò la donna “di già?! Ma è presto …”

“è stata una lunga giornata” intervenni, entrando in cucina ed intromettendomi tra le due “e domani ve ne aspetta un’altra. Allison si è stancata molto, è meglio che vada a nanna”. Lungi da me rivelare a Lois il mio significato di nanna, ma queste erano cose nostre.
“Certo ragazzi … allora buonanotte!” Lois ci lasciò andare, non sospettando minimamente alcuna deviazione del nostro percorso, nonostante mia madre ci lanciasse occhiatacce letali ogni volta che accompagnavo a casa Allison a notte fonda e puntualmente ce la ritrovavamo in salotto con l’abatjour accesa e un libro sulle gambe, di guardia come un metronotte guardingo e vigile. Mi faceva sentire colpevole come un adolescente alle prime uscite, ma capivo che sentisse una enorme, ulteriore, responsabilità nei confronti della sua protetta, dopo quanto accaduto. Era una cosa di cui cercavamo di parlare il meno possibile, anche  per aiutare Allison a riacquistare una certa stabilità, ma era inevitabile che ci avesse cambiati un po’ tutti. Io dal canto mio mi ero impegnato a non lasciarla mai sola nei limiti del possibile, e ad accertarmi che non fosse da sola quando non era con me; ad altri sarebbe apparsa una decisione eccessiva, ma dal momento che la polizia non ci aveva potuto assicurare protezione, erano stati loro stessi a consigliarci di starle accanto il più possibile e non abbassare la guardia, e poi anche Allison pareva sentire l’esigenza di avere sempre qualcuno vicino. Da qui, il riavvicinamento repentino con sua madre.

Arrivati al pianterreno, all’ingresso del condominio extralusso, vedemmo mio padre, di ritorno da un viaggio di lavoro. La ventiquattrore ben stretta in mano, il telefono cellulare all’orecchio, entrava a testa bassa nell’androne del palazzo mentre il portiere gli teneva la porta aperta. “Non mi puoi fare questo John … e lo sai” inveì contro il suo interlocutore “no, no … senti, così tu mi uccidi”. Immaginai che fosse John Jacobs, il suo vice, la cui azienda di editoria era stata accorpata a quella di mio padre, ma grazie alle sue capacità aveva mantenuto un ruolo di comando nella nuova società. Insieme lui e mio padre erano come Scrooge e Marley, una coppia temuta e temeraria, spauracchio dell’alta finanza e avvolto per le compagnie che navigavano i cattive acque. Laddove c’è crisi e fallimento là ci sono loro pronti a risucchiare e a guadagnare il massimo del profitto con il minimo dispendio di risorse.

Invece che venire verso di noi, cioè verso gli ascensori, si diresse verso un piccolo salottino nella hall. Il palazzo infatti, con i fattorini e tutti i servizi che aveva a disposizione sembrava più un resort che un condominio.

Poggiò la sua valigetta nera su una delle poltrone in pelle bianca, estraendo in tutta fretta il suo iPad nuovo di zecca. Quella nuova diavoleria made in Apple era uscita da pochissimo e gli era stata recapitata direttamente in ufficio con i complimenti di Mr Jobs in persona. Non avevo mai visto mio padre come un intenditore o appassionato di tecnologia, ma immaginavo che possedere quell’aggeggio fosse per lui più uno status symbol, piuttosto che una concreta necessità. Lo vidi smanettare sullo schermo touch-screen, alle prese probabilmente con l’andamento di qualche borsa asiatica: per cos’altro del resto avrebbe potuto avere tali interesse ed apprensione? Mi aveva mostrato con estremo entusiasmo le applicazioni che gli consentivano di seguire in tempo reale gli indici azionari e i movimenti di capitali intorno al globo 24/7; io non ci trovavo nulla di straordinario, era solo la tecnologia che seguiva il suo naturale corso evolutivo, ma dovetti ammettere che c’è chi si esalta per le cazzate. E mio padre faceva parte di quella categoria di persone.

“Senti” continuò mio padre se possibile ancor più incazzato di prima “chi tra noi due è il capo? … Ecco vedi allora non sono affari tuoi quello che faccio fuori dall’orario di  lavoro. Ti basti sapere che sono appena tornato da Washington e non ho intenzione di venire in ufficio ora”

Fosse stato per me, avrei tirato diritto senza curarmi di lui. Ma Allison era di un altro avviso e, purtroppo, finiva sempre per decidere lei per entrambe. Ero convinto che lui non ci avesse visti, che saremmo passati inosservati visto che era immerso completamente nel suo lavoro e che, se solo ci fossimo avvicinati, gli avremmo solo recato disturbo e lui non ci avrebbe accolto con lo stesso slancio che lei gli avremmo riservato. “E se anche così fosse” mormorò Allison, tirandomi per impedirmi di scappare fuori dall’edificio “non saremo certo noi a fare la figura dei cafoni”. Ma io mi sentivo tipo una ragazzina timida, di quelle che non vogliono fare qualcosa da sole che si vergognano e mandano avanti l’amica o la mamma. Alla stessa maniera io cercavo di mandare avanti Allison. E lei, invece, testarda e mascolina, rimbeccava e borbottava, giustamente.

Mentre noi decidevamo ancora sul da farsi – Allison aveva già deciso, ero io a dovermi convincere – notai un facchino avvicinarsi a mio padre, ma egli lo mandò via a grandi gesti, infastidito.

“Vedi che non è aria … andiamocene” tentai di dissuadere Allison. Non mi andava di parlare con mio padre, ma lei era cocciuta e mi prese per un braccio, trascinandomi verso le poltrone dove era seduto. “Tyler Keats Hawkins” sbraitò “smettila di fare il bambino!”

“John … John, te lo ripeto un’ultima volta: non sono affari tuoi.” Anche mio padre, seduto nella sua comoda poltrona di pelle, sbraitava e si dimenava, nervoso. Qualcosa non andava, lui non era uno di quelli che si scomponeva facilmente, era sempre in grado di mantenere un certo contegno e conservare un aplomb quasi british. Mia madre diceva sempre che gli anni di studio alla London School of Economics gli avevano forgiato quel carattere freddo e distaccato, ma per me si trattava solo di DNA di stronzo patentato. “Prima … prima cosa?” domandò, tonante, e c’era da scommettere che chiunque fosse all’altro lato dell’apparecchio fosse atterrito e ammutolito. Si alzò dalla poltrona con uno scatto repentino e si voltò, notandoci a primo colpo. Si sbracciò per salutarci, rivolgendoci quello che poteva sembrare un sorriso, ma che forse, più probabilmente era rivolto a qualche notizia positiva dall’ufficio. Ci fece segno di accomodarci, sulle poltrone accanto a lui ed Allison, soddisfatta e fiera di aver avuto ragione, non se lo fece ripetere due volte. Si avvicinò alla zona lounge con fare altezzoso, in tono quasi di sfida nei miei confronti, con il naso all’insù e camminando come se toccasse a malapena con i piedi per terra. Io mi sedetti sull’ottomana più distante da mio padre ed Allison fu costretta a seguirmi.

“Smettila tu piuttosto di farti la svelta” protestai, come un bambino dell’asilo che non accetta la sconfitta “ non hai fatto niente di che”. Ma lei mi rispose, puntuale, con una linguaccia.“A te non deve fregare di come gestivo gli affari prima e di come gli gestisco ora” continuò mio padre “è così importante che io ci sia? Possibile che non riuscite a sbrigarvela da soli?! … lo vedi?! Lo vedi?! E allora …! Non farmi perdere altro tempo … eh … buonanotte!”
E riattaccò, sbuffando rumorosamente e gettando il telefono nella borsa, venendoci incontro. In tanti anni che lo conoscevo quella era forse la primissima volta che lo sentivo rinunciare ad una riunione di lavoro. Per lui erano sempre state la cosa più sacra di tutte, anche più delle feste comandate ,anche più del 4 luglio il giorno più sacro di tutti per ogni cittadino americano. “Gli affari non dormono  mai” disse una volta al piccolo figlioletto di 8 anni quando, allacciandosi la cravatta davanti allo specchio, gli spiegava perché avrebbe dovuto rinunciare alla giornata padre figlio che la scuola aveva organizzato e a cui il piccoletto non vedeva l’ora di partecipare, orgoglioso com’era del suo papà gigante, “ e se ti distrai un attimo, puoi star certo che ti ritroverai qualche pivellino pronto a mettertelo in quel posto”.
Era così strano dunque, vederlo rinunciare al suo lavoro, ammettendo le sue debolezze e preferendo la sua vita provata agli affari.

A pensarci bene non era la prima volta che notavo questo genere di stranezze da parte sua (in un’altra persona sarebbe stato normale … ma in lui era sicuramente un comportamento fuori dalla norma), il che mi fece temere che non fosse tutto apposto anche se fisicamente era sempre l’uomo in forma e in perfetta salute che conoscevo.

“Già andate via ragazzi?” ci chiese ,approcciandoci e abbracciando Allison. A me riservò invece una pacca sulla spalla. Dopo la figuraccia  di Natale stava tentando di recuperare punti nei nostri confronti. Forse il suo cambiamento era anche merito di quella sfuriata che gli avevo riservato, anche se io non riuscivo a fidarmi pienamente di uno come lui ,e mi mantenevo sempre a distanza di sicurezza ,diffidente. Mi ero già bruciato tante volte con lui, non avevo voglia di ritrovarmi un’altra cicatrice da ustione per colpa sua. Allison da parte sua se era fin da subito resa disponibile a dimenticare quanto accaduto ,lasciando che l’innegabile fascino di un uomo come Charles la irretisse.

“Sì Charles … sono un po’ stanca questa sera” rispose Allison, come al solito gentile “” ma sopra ci stono mamma e papà. Questa sera non sono usciti … ci sono gli Yankees contro i Baltimore Orioles …”

“Uh.” Commentò mio padre sovrappensiero “… beh allora è meglio che mi sbrighi a salire ,scommetto che li stiamo facendo neri!”

Anche se la sua serata tipo generalmente ,quando non era a lavoro, vedeva mio padre  impegnato in riunioni privatissime al suo circolo esclusivissimo, da quando aveva invitato i Riley a stare in casa sua finché ce ne fosse stato bisogno, aveva rinunciato alle sue amicizie altolocate in favore di serate tranquille nel suo appartamento tra cenette e partite di biliardo quando Lois e Doug non erano in giro a godersi la New York by night.

Si era creato un buon rapporto tra il padre di Allison ed il mio, forse aiutato dal fatto che parlassero la stessa lingua a proposito di lavoro, nonostante Doug fosse un semplice contabile. In più, entrambi erano fan degli Yankees in Major League.

Nel frattempo entro nel palazzo anche Smith, l’autista di mio padre. “Signore mi ha chiamato?” chiese lui, formale e reverente. Mi ricordai solo allora di averlo visto manovrare il cercapersone quando ci vide all’uscita degli ascensori.

“Sì Bruce” ero talmente abituato a chiamare l’autista con il suo cognome, che ogni singola, rarissima, volta che sentivo quel nome, dovevo trattenere le risate, come un cretino. Ma non era colpa mia se Smith non aveva la faccia da Bruce manco per niente.  “Per favore riaccompagna la signorina Riley e mio figlio. A casa tua, Tyler, vero?” mi domandò mio padre, sorridendo con aria furba.

“Sì … cioè no” mi ripresi, ma solo dopo una dolorosa gomitata in pieno fianco da parte di Allison. “ma ... ma cosa …?!“ rimasi interdetto. Non era da lui  usare dell’umorismo leggero e sornione, soprattutto quando parlava con me. “non crederete davvero che io e Doug non abbiamo capito il trucco del
 riposo … siete giovani e vi volete bene … è normale cercare qualche momento di intimità”
No ok vi supplico … scavate una fossa per sotterrarmi … Dio che vergogna! Certi discorsi me li aspettavo da Les ,con il quale negli ultimi tempi avevamo instaurato un rapporto amichevole splendido, ma non da mio padre l’uomo moralista e tutto d’un pezzo, sempre ligio al dovere e mai disposto a prendere la vita con leggerezza. L’uomo che aveva sorriso per l’ultima volta nel 1999 quando gli dissero che finalmente aveva avuto una figlia femmina.

“Touchée” sorrise Allison tra il divertito e l’imbarazzato “però non dica nulla a mia madre la prego. L’ultima cosa di cui ho bisogno è una lezione sui fiori e le api da parte sua …. O peggio ancora che mi faccia una di quelle prediche sulla morale d il buon costume che il pastore della sua congregazione le ha fatto imparare a memoria.”

Mio padre sorridendo imitò una cerniera lampo che si chiudeva sulle sue labbra: “Non ti preoccupare … sarò muto come una tomba. Buona notte ragazzi!”

Buonanotte papà!” salutai, spontaneamente e, come non mi accadeva più da una vita, non sentii il sapore amaro della forzatura e della farsa. Non mi accorsi quasi di essermi accomodato nella sua Maybach scintillante e luccicante senza nemmeno una mia minima rimostranza, e che per una volta dopo tanto tempo vedevo in quell’uomo mio padre e non un orco che era stato costretto a darmi il suo nome.
La brutta esperienza di Allison ci aveva davvero cambiati tutti.

Seduti nel retro della limousine mentre la strada e i palazzi sfilavano tutt’intorno e New York si illuminava per la notte, Allison si accucciò a me, intrecciando le sue gambe alle mie. Non era esattamente una posizione comodissima, le due poltrone erano infatti divise da una colonnina divisoria con il frigorifero per le bevande e la consolle multimediale; ma lei era piccolina, riusciva a trovare spazio per accomodarsi anche nelle superfici più ristrette. Le posai un bacio sulla testa carezzando la bella chioma castana, molto più lunga setosa e profumata di quando la sfiorai la prima volta, nel buoi di quella catapecchia che lei aveva per casa. Poi scesi con la mano verso le tempie, massaggiandole per un po’, e poi più giù, con il dorso della mano ad accarezzare quasi impercettibilmente la sua guancia offesa.

I punti che le avevano applicato erano caduti da soli pochi giorni prima, lasciando al loro posto una lettera scarlatta come impressa a fuoco. Il chirurgo plastico che l’aveva presa in cura subito dopo l’incidente aveva già cominciato le infiltrazioni di cortisone e le applicazioni giornaliere di creme e cremine, in più si stava incominciando a pianificare un’eventuale laserterapia a fine estate se non ci fosse stato nessun miglioramento con la terapia farmacologica.

Noi cercavamo di non far cadere lo sguardo sullo sfregio che quei bastardi le avevano lasciato perché, più che fisicamente, ad Allison faceva male moralmente; d’altro canto però, Allison stessa s’era rifiutata di coprirla con trucchi e correttori vari. Voleva andare avanti, ma non si sarebbe mai concessa di dimenticare quello che le avevano fatto.

“Dimmi un po’” esordii “mio padre non ti sembra un po’ strano ultimamente?”

“Mmm no” rispose Allison, dopo averci riflettuto un po’ “se per strano intendi che passa più tempo a casa rispetto a qualche tempo fa’… beh sì, ma non lo trovo strano: io e te siamo spesso a casa sua per via dei miei e sicuramente ne vorrà approfittare per starti vicino … hai visto che anche con Caroline la situazione è migliorata tantissimo”

Già, Caroline. La piccola era entusiasta della trasformazione positiva di nostro padre, che l’aveva persino portata a visitare il suo museo preferito, il Met, il giorno in cui Allison era appena tornata dall’ospedale ed era importante che avesse attorno meno confusione possibile. Forse non lo aveva fatto proprio per stare con la bambina, ma considerando i precedenti, quello era un passo da titani.

“Non lo so” continuai, scettico “mi sembra strano che tutt’a un tratto si comporti da padre amorevole e premuroso come per anni non ha fatto. Voglio dire … sono contento, soprattutto per Caroline, ma non mi convince … è cambiato dall’oggi al domani!”

Allison riemerse dalla cuccia che si era creata tra le mie braccia e il mio costato, tornando a sedersi, con un gioco di contorsionismo, sulla sua poltrona e guardandomi con attenzione, mentre mi posava una mano sulla guancia.

“Perché ti sento preoccupato?” domandò, corrucciata.

Come al solito, mi leggeva dentro meglio di chiunque altro, meglio anche di me stesso, che non riuscivo a decifrare mai con chiarezza tutte le paturnie e pippe mentali che mi tormentavano. Sì, aveva ragione, mi sentivo invaso da una strana sensazione di paura e preoccupazione, come se gli ultimi eventi mi avessero convinto che non si potesse mai abbassare la guardia, che non c’è mai fine alle disgrazie.

“Sì … sono preoccupato, hai ragione” ammisi. Ma perché? “Ho paura” le confidai “ho paura che gli sia successo qualcosa, qualcosa che gli abbia fatto mettere in discussione la scala dei suoi valori. Che voglia passare del tempo con i suoi figli o che voglia redimere le sue cattive azioni perché non sta bene … o qualcosa del genere.” Era un’assurdità, a dirla ad alta voce me ne rendevo conto da solo, ma con un uomo come mio padre il diritto diventava rovescio con una facilità disarmante. Quindi dovevo ampliare il raggio del plausibile…

“Non ho un buon rapporto con mio padre, lo sai” continuai “ma è pur sempre mio padre e gli voglio …”

“… bene” concluse Allison per me una frase così semplice, ma così devastante, che mi si bloccò in gola.
“vedi?!” proseguì lei “è la stessa cosa che è successa con mia madre. Le cose non sono ancora andate a posto tra noi, ma il nostro è un legame di sangue che non si spezza mai del tutto.”

“Già” fu tutto quello che fui capace di dire. Non c’era nulla da fare, Allison sarebbe sempre stata molto più matura e responsabile di me.

“La tua famiglia – come la mia del resto – ha subìto una grave perdita. La botta è stata forte per tutti, per noi, per loro e ognuno reagisce in maniera diversa, te l’ho già detto una volta. Magari tuo padre ci ha impiegato un po’ di più per via del brutto carattere … e la tua strigliata di Natale gli è servita per svegliarlo e fargli capire che ha altri due figli che sono ancora vivi e hanno bisogno di lui. Esattamente come io ho svegliato mia madre andandomene di casa”

“Tu credi?” “Ne sono sicura … sei l’unico che in questi mesi non se n’è accorto … non c’è niente di cui preoccuparsi” mi incoraggiò, serena. Mi sorrise, semplice e luminosa come una mattina d’estate. Mi piaceva l’estate, mi piaceva lei. Riusciva a trasmettermi tutta la calma interiore e la serenità che solo la pace riconquistata con sua madre le aveva potuto restituire. Adoravo la prima Allison, quella piena di problemi che mi facevano dimenticare i miei, scontrosa e a volte intrattabile, ma la nuova Allison, quella vera, quella che avrei potuto incontrare per le strade di Indianapolis solo qualche anno prima, lei mi aveva rapito il cuore.

“Sei perfetta … come farei senza di te” esclamai, avvolgendola in vita e trascinandola a sedere su di me – i vantaggi di un’auto con i vetri oscurati.

“Non è vero” replicò lei, arricciando il nasino e corrugando la fronte, mentre nascondeva il viso nell’incavo del mio collo, bordeaux per la vergogna.

“Lo sei” insistetti, pretendendo che mi guardasse e scuotendola fino a farla ridere “perfetta per me”

“Ti amo” disse, sfiorando le mie labbra, arpionandosi alla mia t-shirt.

“Ti amo” risposi, e colmai l’esigua distanza che c’era tra noi con un bacio.












NOTE FINALI

Eccoci qua, l'inizio della fine.
Beh, come ormai immagino abbiate capito, non sarà un addio, ma piuttosto un arrivederci, ma dopo tanto tempo è difficile e strano  usare la parola fine per qualcosa che ci ha accompagnato. Per me è stata una esperienza meravigliosa, un viaggio difficile e  tortuoso, una sfida costante, una ricerca dei miei limiti (al solo scopo di superarli ogni volta). Ma non voglio tediarvi con discorsi pesanti e strappalacrime, non è ancora il momento. Ho voluto occuparmi di Charles tra gli altri oggi, con questo capitolo, perché non mi sembrava giusto chiudere la storia e lasciarlo lì, con la sua cattiveria e con quell'aura da cattivo che, in realtà, è solo una corazza di dolore che si porta dietro dalla morte del figlio. Certo Tyler non è ancora pronto a riallacciare dei buoni rapporti padre-figlio con lui, ma è un'inizio. Così come è agli inizi, il rapporto Allison-Lois, di cui però parleremo più ampliamente nel prossimo capitolo, l'ultimo (prima dell'epilogo).
Grazie mille a chi non mi ha mai fatto mancare il suo appoggio, grazie a chi vorrà commentare (spero sarete di più dell'ultima volta)

à bientot



Federica

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