One love

di _joy
(/viewuser.php?uid=177888)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non ci posso credere ***
Capitolo 2: *** Ora di pranzo ***
Capitolo 3: *** Mio eroe! ***
Capitolo 4: *** Ho il tuo numero! ***
Capitolo 5: *** Ebbene sì, se mi impegno parlo ***
Capitolo 6: *** Ultimatum ***
Capitolo 7: *** La migliore colazione della mia vita ***
Capitolo 8: *** Da cento a zero in dieci secondi. Anzi, meno. ***
Capitolo 9: *** Tuoni, fulmini e un basilisco ***
Capitolo 10: *** A te che sei l'unico al mondo, l'unica ragione ***
Capitolo 11: *** Milano, così bella non ti avevo mai vista! ***



Capitolo 1
*** Non ci posso credere ***


Non ci posso credere.
NON. CI. POSSO. CREDERE.
Mi guardo attorno scoraggiata, attraverso il vetro della porta. E vedo gente, tantissima gente. Una folla arrabbiata che preme verso il tavolo dietro il quale sta la mia collega Francesca, con un’aria semi-terrorizzata.
Ok, fatti coraggio Gin.
Prendo fiato, apro la porta quel tanto che basta a sgusciare al di là e raggiungo Francesca. Vengo subito assalita da voci rabbiose.
«Insomma, questa le sembra una giustificazione? Non ha più pass? Se li procuri! È qui a far questo, no?»
Ma tu guarda questo ciccione maleducato.
«Mi scusi» dico. Il tizio lancia un’ultima occhiata sprezzante a Francesca e poi si volta verso di me.
«Ragazzina, come dicevo alla tua amica qui, non ho tempo da perdere. Lavori anche tu qui? Bene. Trovami un pass. Adesso
Stringo gli occhi, arrabbiata. Bel modo di cominciare la giornata.
«Buongiorno a lei» rispondo, con il mio tono più gelido. «Come sicuramente la mia collega (rimarco bene la parola, giusto per ricacciargli indietro il “ragazzina” di prima) le avrà detto, non ci sono più pass. E non ce ne sono, perché gli accrediti sono stati chiusi tre giorni fa. Il sito della manifestazione indica chiaramente la data di chiusura per gli accrediti. Mi vuole dire che ci ha contattai nei tempi?»
Lo guardo trionfante, perché so di avere ragione.
Io lavoro in un ufficio stampa che si occupa di manifestazioni culturali: letteratura, teatro, musica. Ci occupiamo dei giornalisti, siamo quelli che fanno uscire i pezzi sui giornali, in televisione, in radio e su internet.
Questa manifestazione, che si tiene in un piccolo paesino della Toscana, ogni anno vede un afflusso sempre maggiore di stampa. Il che è una soddisfazione, da un certo punto di vista, perché significa che è ormai conosciuta e apprezzata, e questo significa che noi abbiamo lavorato bene. L’altra faccia della medaglia è che abbiamo un numero limitato di accessi per la stampa e per il pubblico: la kermesse si tiene in un piccolo centro e, tra logistica e sicurezza, gli ingressi sono quelli e c’è poco da fare. Anno dopo anno, la questione giornalisti diventa sempre più problematica. Vogliono venire tutti. Ma mentre ci sono le persone corrette che ti contattano per tempo, si registrano e si presentano a ritirare il loro pass come concordato, è pur vero che piombano qui anche esemplari assolutamente scortesi e maleducati che, solo per il fatto di essere giornalisti, si credono Dio in terra e pensano di essere al di sopra di qualsiasi regola.
E quando mi trovo davanti esemplari umani come il cafone che mi squadra sprezzante ora, penso che vorrei licenziarmi e correre al mare a godere queste ultime giornate estive.
Non fraintendetemi, amo il mio lavoro… ma a volte mi sembra di essere più una babysitter che un addetto stampa.
«Ragazzina, io sono molto impegnato. Lo capisci? Non ho tempo di andare a leggermi stupide regole su stupidi siti. Sono qui per lavorare. Ora fammi entrare, o spiega al mio direttore perché non gli porto il servizio che mi ha chiesto.»
«Il motivo per cui non lo porta, signore, è perché non ha seguito le regole. Se mettiamo un limite per la richiesta, è perché non ci sono pass per tutti. Lei non ha rispettato la scadenza e ora io il pass da darle non ce l’ho. Mi spiace.»
Sembra ragionevole, no? E invece, come se avessi parlato turco. Il ciccione e altri come lui ci premono addosso, alzano la voce, lanciano persino minacce. Francesca sembra terrorizzata, io invece mi sto davvero incavolando. Ma insomma. Ripeto per la centesima volta che non si può più accedere perché i posti sono completi e ci sono problemi di sicurezza se non si rispettano le regole. Interverrebbero i pompieri e non è giusto per le persone che hanno pagato il biglietto e per i colleghi giornalisti che stanno già dentro a lavorare, giusto?
E invece no. Manco per sogno. E più passa il tempo e meno si placano gli animi.
Allora faccio una cosa che non avrei mai pensato di fare. Se mi vedesse il mio capo, mi licenzierebbe in tronco. E io per prima, resterei scandalizzata a vedere qualcun altro che fa una cosa così poco professionale. Ma sono così stanca di tutte queste grida che salgo in piedi sul tavolo e batto le mani per richiamare l’attenzione di tutti.
«Scusate! SCUSATE!»
Ora c’è silenzio, mi guardano tutti. Francesca, probabilmente, è svenuta. Me ne preoccuperò dopo.
«Chiedo scusa, ma devo precisare una cosa. Non ci sono più pass stampa. Chi non si è accreditato per tempo, non avrà il pass oggi. Perché non ce ne sono più. Non li abbiamo proprio, quindi è inutile insistere. Quelli che abbiamo sono per i giornalisti che hanno fatto richiesta nei tempi e sono nominali (scandisco, guardandomi attorno). Ora vi prego, si avvicini chi si è accreditato e gli altri, per cortesia, si allontanino. Non vi possiamo davvero aiutare. Mi spiace, per favore, siate collaborativi.»
Il silenzio dura ancora mezzo secondo e poi, come se non avessi aperto bocca, riprendono le proteste. Pian piano, con infinita lentezza, la coda si assottiglia. I giornalisti che hanno il pass entrano, quasi spaventati anche loro dai colleghi che li guardano in cagnesco. Che gente. Alla faccia della professionalità. Come in tutti i settori, anche nella stampa ci sono persone valide e capaci e ce ne sono altre che sono a dir poco incommentabili.
Consegno l’ennesima cartella stampa e mi guardo attorno. Sono rimaste poche persone che si guardano attorno, sfogliano i ritagli di giornale che esponiamo per mostrare gli articoli già usciti, oppure telefonano, parlano tra loro, chiedono al pubblico di ritardatari che sta entrando di vendere loro un biglietto (aiuto! Sono sicura che non sia possibile, che faccio? Intervengo? Meno male che il pubblico tira dritto, penseranno che i giornalisti sono pazzi… bè, qualcuno lo è pure).
Mi chino un attimo verso la mia borsa e la bottiglietta d’acqua che mi porto sempre dietro e, quando mi alzo, mi trovo davanti il ciccione di prima. È vicinissimo e, d’istinto, faccio un passo indietro.
Ma lui si avvicina ancora e mi alita addosso.
«Ragazzina. Non mi interessa niente delle tue stupide regole. Io devo entrare. Ho chiamato il mio direttore e quello s’è incavolato. Ora cosa dovrei dirgli? Che una ragazzetta non mi fa passare?»
Sgrano gli occhi e gli dico:
«Per favore, non mi venga addosso. Non posso fare nulla, davvero…»
Ma quello mi si avvicina ancora. Ok, lo ammetto, un po’ è inquietante. Mi guardo attorno cercando Francesca, ma lei sta parlando con due signori che chiedono informazioni. Ho una mezza idea di urlare, ma mentre decido se è il caso di farlo oppure no, sento una voce.
«Excuse me. La signorina dice di spostarsi.»
Il ciccione si volta.
«E tu chi sei? Il suo amichetto? Sono finito all’asilo?»
Stupido ciccione! Per fortuna, vedo il mio capo entrare nella sala e dare un’occhiata intorno. Mi ha vista. Bene. Vai Gin, professionale e decisa, tanto se fa qualcosa c’è il capo testimone che l’ho aggredito per legittima difesa.
«Mi scusi, glielo dico ancora. Si allontani. I pass sono finiti e non possiamo fare niente per lei.»
Una vena pulsa minacciosa sul collo del ciccione, ma il mio capo ha capito il problema e viene deciso verso di noi.
«Ginevra, problemi?»
«Sì. Ho spiegato al signore che non ci sono più pass, ma non mi crede.»
Dico decisa, tutta d’un fiato. Il mio capo fa un sorriso gelido.
«Capisco. Come lei certamente saprà, le regole sono regole. Mi dispiace, è spiacevole anche per noi, ma deve capire che le mie ragazze non possono fare nulla se non attenersi alle regole. Ora, le offro un caffè, così mi spiega per che testata lavora e vediamo di capire se posso magari farle intervistare qualcuno a fine incontro. Questo è un suo collega?»
Il ciccione grugnisce e io mi ricordo del mio salvatore. Che a quanto pare è ancora qui.
«Oh, no» dico «Il signore mi è venuto in aiuto…»
«Signore?» Dice una voce divertita. «That means… mister? Ti sembro vecchio? Oh, “dammi del tu”, mi sembra che dite così, vero?»
Ma cosa fa, mi prende in giro? Con la mattinata che ho avuto, non è proprio il caso.
Mi volto con uno sguardo fiammeggiante. Il capo e il ciccione si stanno allontanando, con il ciccione che cerca ancora di farsi valere. Patetico.
E io mi trovo di fronte a un ragazzo giovane, della mia età credo. Porta i jeans, una t-shirt a mezza manica grigia, scarpe da tennis, un cappelloe i Rayban e mi guarda con un mezzo sorriso.
Io invece di sorridere non ho proprio voglia. Quasi nemmeno lo guardo in faccia, pensando già alle cose che devo fare adesso. Oh, ho un’intervista che mi preoccupa molto, stamattina. Una giornalista pretenziosa e antipatica che si occupa di teatro per un’importante radio nazionale. Di bene in meglio.
«Ok, sì. Grazie. Sei stato gentile.»
«È un piacere. Ginevra, come la regina, vero? Molto meglio di “ragazzina”»
Sorrido stancamente.
«Sì. Grazie ancora. Buona giornata, ciao»
E lo mollo lì. Mi sento un po’ in colpa, perché è stato gentile a preoccuparsi per me, ma io ho da fare. Mi avvicino a Francesca per dirle che mi sposto nella zona interviste e la vedo fare tanto d’occhi.
«Ma che carino quel tipo! Lo conosci?»
«Cosa? Chi?»
«Il tipo con cui stavi parlando. È carino. Ci sono così pochi ragazzi della nostra età qui…come fai a non averlo visto?»
«Ma che ne so Fra. Il ciccione mi stava aggredendo! È arrivato il capo! C’è quell’intervista radio stamattina…oddio! E poi è moro…a me piacciono i biondi, no? Guarda, vado»
La mia collega mi guarda, delusa e incredula, ma io non le presto attenzione. Non ho tempo. E poi, dopo Fabio, non ho nemmeno voglia. Il mio ex ragazzo ha lasciato il segno. Cioè, ex ragazzo. Diciamo che molta parte della nostra storia era nella mia mente. Io credevo di aver trovato il grande amore e lui, a quanto pare, voleva solo divertirsi. Questo il riassunto della mia grande storia d’amore. Patetico? Sì, eccome. Se si pensa che ho 27 anni, è patetico eccome.
 
Due ore dopo sto seguendo l’intervista per la radio. È peggio di quello che pensavo. La giornalista è isterica e pretenziosa e mi ha pure spedita due volte al bar, a prenderle un caffè e poi l’acqua frizzante. Ma che, ora faccio pure la cameriera?
Calma Gin, calma, devi solo arrivare a stasera. Me lo ripeto come un mantra, cercando di non pensare che domani sarà una giornata identica a oggi, se non peggio.
«Carina, scusa» è la giornalista. Oddio, no. Cosa vuole? «Ho il sole in faccia. Gira l’ombrellone, per favore»
Cosa?? Pure??
Inghiotto la rabbia e mi avvicino.
Ma come si fa? Io non lo so fare. Annaspo e cerco di essere il più silenziosa possibile, per non disturbare l’intervista. Regola d’oro del buon addetto stampa: mai, mai intromettersi nel binomio giornalista-intervistato, mai disturbare il loro legame.
Peccato che l’ombrellone mi si schianti improvvisamente sul tavolo. Io finisco lunga distesa per terra e la giornalista urla come una pazza.
Mi metto seduta, frastornata e mortificata, e mi vedo davanti non solo ospite e giornalista, ma anche Francesca (incredula, sono sicura che sta cercando di non scoppiare a ridere, ma le trema il labbro) e il tipo di prima, che mi ha aiutata con il ciccione. Lui non ha il riguardo della mia collega e scoppia in una fragorosa risata.
Divertente davvero. Cerco di alzarmi, e scopro che il mio vestito bianco si è impigliato all’ombrellone. Francesca cerca di aiutarmi, ma in due facciamo peggio e sento lo strappo della stoffa al mio ennesimo movimento brusco. No, no!!! Il mio vestito preferito!
Il tizio sta ancora ridendo. La giornalista gracida cose che sembrano vagamente insulti e io non so più dove guardare. E quel tizio ride ancora!
«Coglione!!» urlo così forte che Francesca si spaventa e la giornalista si zittisce. E pure quella maledetta risata si spegne, finalmente. Non mi sono mai sentita così umiliata e arrabbiata.
Mi alzo in piedi, raccolgo parte della gonna lacerata e lancio un’occhiataccia al tipo.
Che, tutto tranquillo, si sfila gli occhiali da sole e dice:
«Sorry. Non ho capito. Co…cog..? Cosa hai detto?»
Ma io non rispondo, perché sto cercando le parole per scusarmi con l’ospite e per recuperare la situazione. Chi glielo dice, al mio capo? Oddio, oddio. Ma la giornalista, che un attimo prima era inviperita, ora sembra stranamente senza parole. Sta guardando il tipo.
«Sei inglese, ma…sembri…possibile che…»
Perché farfuglia? E poi all’improvviso fa un sorriso da scolaretta timida e batte le ciglia (hugh! Che orrore!)
E si lancia in un discorso in inglese di cui colgo solo poche parole, un po’ per il mio inglese non meraviglioso e un po’ perché ho voglia di tutto tranne che di concentrarmi su un pensiero che non sia emigrare all’altro capo del mondo. Il tizio annuisce, ma sembra un po’ contrariato. Lei gli si avvicina entusiasta e gli chiede, sempre in inglese, di andare al bar a prendere un caffè. Ma lui rivolge di nuovo gli occhi a me. La giornalista se ne accorge e mi guarda sprezzante.
«Bene. Che fortunato diversivo. Visto che questa intervista è rovinata, almeno non perdo la mattinata»
«No, la prego.» Sussurro terrorizzata. «Sia gentile. Possiamo sederci a un altro tavolo e…» ma lei mi guarda come se fissasse una macchia di fango sui suoi stivali nuovi e io, anche se mi vergogno ad ammetterlo, scoppio a piangere. Io, che non piango mai. E invece singhiozzo, lasciando tutti basiti dal mio scoppio, e sfogo la rabbia, la stanchezza e l’umiliazione. Che figura. E che mostro. Ci sono ragazze che quando piangono sono seducenti e romantiche, ma io sembro blob. Faccio le smorfie e mi cola il mascara. Aiuto. Ma non riesco a fermarmi. Francesca si avvicina e cerca di battermi una mano sulla spalla e il tizio fa un paio di passi verso di me. Mi ritraggo e singhiozzo più forte. Ma chi cavolo è?
E devo averlo detto in maniera quasi comprensibile perché lui si acciglia, la giornalista farfuglia indignata e Francesca, terrorizzata, mi sussurra «Sssssssshhhh!!! Ma come? Hai la sua foto in ufficio! Ma non lo vedi…che è Ben Barnes?!»

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ora di pranzo ***


Sto sognando, non c’è altra spiegazione.

 

Ben Barnes. A tre metri da me. Vero. In carne e ossa.

Sto impazzendo, credo.

 

Fingo di lavorare, di essere concentrata, ma fisso lo schermo del computer e non vedo niente, in realtà. Mi si è svuotata la testa. 

Io ho sempre mille pensieri concomitanti, sono disordinata e caotica persino nella mia mente… non c’è proprio ordine in nessuna fibra di me: sono irruenta nei sentimenti, nelle idee… è come se non fossi mai sola per il gran turbinare di cose che ho dentro. 

E nemmeno tutte salgono alla coscienza; ci sono e basta. Borbottano in sottofondo. Questa sono io. Un gran caos. 

E fuori, mi basta sedermi in un angolo con l’ipod, e trovo la pace. Cioè, trovo la quiete apparente.

 

Ma ora? C’è silenzio totale in me. E shock. E niente altro. Dov’è finita Ginevra? Aiuto.

 

Non riesco a pensare. E non è solo questo. È come se dormissi, ma in realtà sono sveglia. Come se volessi mettermi a correre ma non riuscissi ad alzarmi dalla sedia. Come se avessi disperatamente bisogno di urlare, ma fossi senza voce.

 

Alzo gli occhi. È lui. Davvero. È davvero, davvero lui.

 

Seduto a un tavolino del bar in piazza, con gli occhiali da sole inforcati. Sembra un ragazzo qualunque che fa colazione al bar.

 

Eccetto per il fatto che è bellissimo. È bello come il sole, è aggraziato, è meraviglioso.

 

Come, come, come ho fatto a non riconoscerlo? Ce lo avevo davanti. Mi ha parlato.

 

Stupida, stupida, stupidissima idiota.

 

Ben Barnes è in Italia.

 

E non in Italia circondato da guardie del corpo e attori famosi per qualche prima super-blindata, ma in Italia qui, dove sono io, e non nel senso di sotto lo stesso cielo ma nel senso letterale di qui, nello stesso minuscolo, sperduto paesello dove sono io, per puro caso, per lavoro, pensa se il capo non portava me, ma anche se ha portato me tu dimmi il fato che me lo fa incontrare e non incontrare e basta, perché io ovviamente dovevo combinare un casino, figurati se non lo facevo, figurati se questa poteva essere la mia occasione, la giornata più bella della mia vita, no, ma và, Ginevra, voglio dire, vuoi che non lo incontri di nuovo in mezzo al niente in un giorno qualsiasi così puoi fare di nuovo la figura della cretina totale …. ARGH!!!!     

 

I pensieri stanno tornando. Sarebbe meglio di no, visto che martellano così forti e accusatori che sembrano volermi trapanare la testa.

 

Abbasso gli occhi sul computer. Mi tremano le mani. Sto per mettermi a piangere.

 

BEN BARNES.

 

Già mi sentivo idiota ad aver appeso una sua foto alla mia bacheca in ufficio, a divorare ogni articolo, posto sui blog, pagina facebook o video su youtube che lo riguarda… e ora sono in piena crisi adolescenziale con lui seduto a poca distanza, vivo, vero, e stupendo. Qui.

 

Oddio, impazzirò.

 

A parte che l’ho chiamato coglione. A parte che stava cercando di parlarmi. A parte che sono qui, ancora con questo maledetto vestito strappato.

 

E non so nemmeno come ho fatto a tornare in ufficio, visto che mi è quasi preso un infarto prima, a sentire dalla voce di Francesca il nome “Ben Barnes”.

 

O mio Dio! Come posso essere così maledettamente stupida?

Come ho fatto a non riconoscerlo?

Non me lo perdonerò mai, mai. Assolutamente mai.

 

Insomma, me lo sogno la notte. Poi me lo trovo davanti di giorno, e niente. Cervello, ma sei connesso???

 

E la cosa incredibile è che, mentre prima l’ho guardato in modo talmente distratto da non vederlo nemmeno (e a parte non riconoscere il viso di Ben Barnes – già di per sé un crimine contro l’umanità – non mi sono nemmeno accorta che stavo parlando con un figo galattico, perché non si può negare che lui lo sia! Insomma, sono una cialtrona totale! Mi vergogno di me!), ora non vedo altro. Come se quel tavolino al bar brillasse di luce propria. Se alzo gli occhi e guardo da un’altra parte, è come se un magnete mi facesse girare la testa verso di lui. E mi incatenasse lo sguardo. 

Deglutisco, mentre lo vedo posare la tazza (cosa ha bevuto, cosa? Cappuccino? Latte macchiato? Thè? Lo voglio sapere, voglio sapere tutto! Anche le parole precise che ha detto alla cameriera!!!) e sorridere all’uomo seduto con lui.

 

Continuo ad alzare lo sguardo ogni dieci secondi e spio ogni sua mossa. Sono impazzita. Non riesco a pensare, non riesco quasi a respirare. Cosa faccio se si alza? Lo seguo? Lo pedino? Ma come faccio a farlo senza che se ne accorga?

 

«Ginevra?»

Ah, certo. Piccolissimo, insignificante particolare. Io starei lavorando.

Guardo il mio capo, trasognata.

«Sì?»

Lui mi osserva perplesso.

«Hai scritto la mail che ti ho detto di inviare prima? Quella per cui mi sono raccomandato, perché è importantissima?»

«Certo»

Mento spudoratamente. Annuivo mentre me la dettava, ma quando ho riguardato il blocco ho visto che ci avevo disegnato sopra dei fiorellini. Allora ho aperto Outlook, ma poi ho alzato gli occhi e ho visto Ben passarsi una mano tra i capelli (quei meravigliosi, folti, serici capelli) e – diciamocelo – cosa sarà mai una mail importante nell’ordine delle priorità dell’universo? Ordine che ha fatto sì che oggi Ben Barnes – BEN BARNES – sia seduto a pochi metri da me?

Ma scherziamo? È niente! È una sciocchezza! Sbircio lo schermo del computer, sui cui è aperta una mail che recita, semplicemente: “Caro, “

O il capo mi aveva detto di scrivere “Gentile, ”? Va bè, tanto non ho idea di cosa avrei dovuto scrivere dopo, per cui è inutile agitarsi.

 

«Tutto a posto, non preoccuparti»

«Sicura? Perché non mi sembri affatto stare bene»

Oh, ma davvero? Deve essere perché c’è Ben Barnes seduto dietro di te. Ah sì, prima potevo intavolarci una conversazione, ma non l’ho fatto per andare a seguire una stupida intervista con una stupida giornalista e uno stupido ombrellone. Tranquillo, è la mia giornata migliore.

 

«Ok. Allora, definiamo le priorità di oggi. La scaletta interviste 

è decisa, prendile tu quelle del pomeriggio e lascia Francesca in ufficio. Voglio pronto tra un’ora un comunicato sugli eventi di domani, lo mandiamo nel primo pomeriggio ai quotidiani locali. Chiama il fotografo, voglio foto di oggi. Mi raccomando, che i quotidiani locali siano ben riforniti di immagini. E anche i siti internet. Mandate via le foto nuove, voglio fotogallery aggiornate nella rassegna di domani mattina…»

 

Annuisco e fingo di prendere appunti, ma per me potrebbe parlare di come si costruisce un motore stirling, per quanto capisco. Butto un’occhiata casuale oltre le sue spalle e … AAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!! Ben non c’è più!

AAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHH!!! NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!!

Dov’è? DOV’È??

Sto iperventilando. Calma, Gin. Calma. Sono due metri quadrati di paese, dove vuoi che sia? Infatti lo localizzo due metri più avanti, con il suo amico e… Francesca? OH MIO DIO!!!! Sta parlando con Francesca!!!

 

Mi alzo di scatto e rovescio la sedia. Mi chino a raccoglierla e, così facendo, rovescio dal tavolo la borsa, la cartelletta con tutti i miei fogli e il portapenne. Annaspo raccogliendo penne e matite dal pavimento e, nel rialzarmi, sbatto la testa contro il tavolo.

«AHI!!»

Oh no. Mi avranno sentita fino a Firenze. Aiuto, no. Un’altra figura con Ben no. Non lo sopporterei. Mi verrà un infarto prima della fine di questa giornata. Resto accucciata sotto il tavolo e mi auguro di diventare invisibile. Ecco: vorrei essere una mosca. Potrei seguirlo indisturbata e ronzargli attorno tutto il giorno! Sarebbe fantastico! Finché non mi spruzza il DDT sul muso, almeno.

Sempre accucciata per terra, cerco di gettare un’occhiata oltre le gambe del mio capo… eccoli, sono ancora lì che parlano. Sento una fitta stringermi il petto: cosa si staranno dicendo? Perché Francesca parla con Ben mentre io sto nascosta sotto un tavolo? Oddio! Ben trova Francesca carina? Oh no. Devo assolutamente andare a vedere che succede.

 

Vedo delle ginocchia piegarsi. Il mio capo si accuccia sui talloni finché i suoi occhi non sono alla mia altezza e scandisce minaccioso:

«Ginevra, che cazzo stai facendo?»

«Raccolgo le penne!»

Rispondo pronta. E gliene mostro tre che stringo in mano. Sono talmente nervosa che sto per frantumarle in mille pezzi.

«Raccogli le penne» ripete, stringendo gli occhi.

«Sì, ma non posso raccoglierle tutte. Perché ho il vestito strappato. Vado un attimo a cambiarmi»

«Cosa?»

« La giornalista di prima, quella della radio, mi ha strappato il vestito»

«Ti ha…che cosa? Strappato il vestito? Ma che stai dicendo? Sei impazzita?»

Come mi è uscita questa? Non fa niente, devo andare. Mi serve una scusa. Pensa, Gin.

«Sì» ribadisco decisa. «E sappi che mi sento molto in imbarazzo. Mi si vede tutto (bugia) e mi guardano tutti (altra bugia) con sguardi che non mi piacciono proprio, se te la devo dire tutta»

«Tutti…chi?» si guarda attorno basito. Nella piazzetta ci sono tre bambini che giocano con una palla colorata.

«Ehm… tutti!» faccio un gesto vago con il braccio e indico…. Il niente.

Mi alzo e scatto prima che possa acchiapparmi.

«Torno subito. Davvero, ci metto tre secondi.»

Probabilmente teme che lo accusi di essere uno dei guardoni che ho millantato, se mi dice di no.

Grugnisce qualcosa che prendo per un ok.

 

Scatto in piedi talmente veloce che quasi mi vengono le vertigini e sfreccio verso Francesca e Ben.

Mi avvicino cercando di avere l’aria di una che pensa ai fatti suoi e non di una stalker che li ha puntati.

Ah!!!! Perché non ho messo gli occhiali da sole?

Maledetta me! Allungo la mano verso la cerniera della borsa e in quel momento Francesca alza gli occhi e mi vede.

«Ginny!»

 

Il tempo si ferma. La guardo e poi guardo Ben, che ha voltato la testa all’esclamazione della mia collega.

Mi sta guardando. Mi-sta-guardando.

Ed è lui. Oh, se è lui. Alto, magro, capelli scuri. Un accenno di barba. Bello e perfetto come nelle foto che passo il tempo a divorare. Solo che non è una foto, è lui. LUI. Potrei toccarlo. Mio Dio, se allungassi la mano potrei sfiorargli il braccio. Deglutisco e sento un ronzio riempirmi le orecchie. Ben Barnes.

 

«Stai bene? Ginny?»

Ah. Devo essere rimasta a bocca aperta in mezzo alla strada. Cioè, alla piazza. Lo sto ancora fissando. Oh no. Riprenditi, pensa. Forza.

 

Ma non riesco a parlare. Peggio, non riesco nemmeno a fare un passo.

Oddio, che beota. Che cogliona galattica.

Ginevra, riprenditi, non fare la seconda figura di merda in un’ora, non te lo perdonerai mai per tutta la vita.

Apro la bocca…e mi esce uno squittio.

 

No!!! Arrossisco furiosamente. Ben mi guarda perplesso. Il suo amico si sfila addirittura gli occhiali da sole, per guardarmi meglio. Apposto.

 

Accenno un movimento e… mi cade la borsa.

«Cazzo!»

Oh no! Maledetta la mia boccaccia. Mi tappo la bocca con la mano, ma è a dir poco tardi.

A Ben scappa un mezzo sorriso, mentre si china per prendermi la borsa, visto che io sono rigida come un pezzo di marmo. Anche il suo amico ha fatto il gesto di chinarsi. Ne approfitto per lanciare un’occhiata a Francesca. Vorrei essere capace di lanciare un SOS silenzioso, un messaggio in codice, un’onda telepatica. Vorrei essere Obi Wan Kenobi. Obi Wan Kenobi praticava la telepatia? Io ne sarei capace? Credo che tutto quello che riesco a fare sia fare una faccia da pazza sbarellata totale a Francesca, che sgrana gli occhi e mi fa un cenno come a dire “calma!!!”

 

Sì, certo, calma. Come no. Facilissimo.

 

Ben mi tende la borsa.

Sussurro un grazie (almeno non strido come un pipistrello stavolta) e arrossisco furiosamente. Perfetto. Sembro un’adolescente in piena crisi ormonale. Il prossimo passo sarà chiedergli l’autografo e dirgli se mi scrive sul braccio con il rossetto.

 

Lui si rivolge a Francesca: «Ecco, quello che dicevamo prima. Le parolacce sono la prima cosa che si impara di una lingua.»

Lei ride.

«Già! Ehi, Gin, Ben è inglese, sai? Eppure parla benissimo l’italiano, vero? Glielo stavo proprio dicendo»

Oh, ma va?? Ben è inglese!!!! Francesca, ma stai scherzando? Lo dici a me? Per chi mi prendi? Io so tutto di Ben Barnes, tutto. Cioè, tutto quello che si legge in giro e su cui posso mettere le mani e le antenne.

Però, a ben pensarci, non sapevo che parlasse l’italiano. E non so perché è qui. Ok, forse non ne so così tante. Ma di certo so che è inglese.

Sorrido, perché non fido a parlare, sai mai gracidassi, stavolta.

 

«Ragazzi, comunque, lei è la mia collega Ginevra. Loro sono Ben (MA VA!!!!) e Tommaso»

Mi tendono la mano. Nemmeno a dirlo, ignoro del tutto Tommaso e mi fiondo su Ben. Lui mi prende la mano e la stringe e io penso di toccare il cielo con un dito. Mi sta stringendo la mano. Ha una presa forte e insieme delicata e delle mani meravigliose, aggraziate, con le dita sottili, asciutte. Io invece, visto che ho gli ormoni a mille a sto sudando dall’ansia, probabilmente ho il palmo sudaticcio e non c’è cosa più schifosa al mondo.

No! Farò schifo a Ben Barnes!

 

Ritraggo la mano di scatto e mi giro verso Tommaso. Noto che è più grande di noi. Si presenta:

«Tommaso Giuggioli»

Come mai questo cognome mi dice qualcosa? Non ho tempo di pensarci, sto cercando qualcosa da dire. Ma il cervello si è di nuovo azzerato. Penseranno che non sono normale.

Francesca mi salva ancora:

«Tommaso è il fratello di Livia Giuggioli, sai…la moglie di Colin!»

Eh? Mi sa che la mia faccia è tutta un programma, perché la mia collega scoppia a ridere e dice:

«Ma insomma Gin, che hai oggi? Non sembri tu! Colin Firth! Prima che tu me lo chieda, il Colin Firth che ha vinto l’Oscar! Ben è ospite loro…cioè di Colin, Livia e Tommaso»

Poi, captando la mia occhiata omicida, il suo sorriso si spegne di botto e per qualche miracolo – forse sono la reincarnazione di Obi Wan Kenobi e le ho trasmesso la Forza - dice al volo:

«I ragazzi mi stavano dicendo che vorrebbero assistere a un incontro oggi pomeriggio. Non ci sono più i biglietti, però…»

«Non importa!» le parole mi escono di getto «Vi facciamo entrare noi. Vi diamo i nostri pass di ufficio stampa, se serve»

Francesca mi guarda attonita (lo farei anche io, al suo posto, perché questa è una cosa severamente, tassativamente vietata, ma che me ne frega? Per fare un favore a Ben farei qualsiasi cosa, compreso dare una botta in testa a uno spettatore per rubargli poi il biglietto e la mia soluzione dei pass mi sembra più elegante, no?) e i ragazzi si scambiano un’occhiata perplessa.

«No, troppo disturbo … » dice Tommaso.

«Nemmeno per sogno!» ribatto decisa.

Poi prendo fiato e faccio un sorriso:

«Davvero, non è un problema (grossa, enorme bugia). Davvero. Dai, dite di sì. Sarà un incontro davvero interessante. Forse il migliore di tutta la manifestazione»

 

Oh, grande Gin. Ho detto tre frasi. Tre frasi intere davanti a Ben. Facciamo passi da gigante.

Sorridono. Sì!! Ci vengono!

«Grazie» mi dice Ben.

«Il minimo che possiamo fare per ringraziare è invitarvi a pranzo» aggiunge Tommaso.

Ben Barnes mi ha ringraziata oddio…oh, cosa? Pranzo?? Evviva!!!!

 

Boccheggio dalla gioia e per fortuna ci pensa Francesca a confermare, perché io sono senza parole. Di nuovo. Di questo passo, dovrò imparare il linguaggio dei segni.

Ci accordiamo per vederci di lì a un quarto d’ora e io trascino via Francesca, perché devo cambiarmi il maledetto vestito. 

Fortuna che il nostro B&B è praticamente in piazza.

 

«Fra!!! Francescaaaaa!!!!»

Urlo selvaggiamente mentre butto all’aria l’armadio. Ho tre cose in croce. Certo, sono venuta per lavorare. Che ne sapevo io che veniva pure Ben, eh?? Aiuto, devo calmarmi, sto impazzendo. Cosa mi metto? Mi viene da piangere?

Francesca mi guarda preoccupata.

«Gin, stai calma»

«Non sto calma per niente. Fra, è lui. Lui!! È qui! Come mai è qui? Cosa ti ha detto? Di cosa avete parlato?»

«Ma no, niente… due frasi al volo…»

Due frasi al volo? Sto per avere un attacco. Francesca probabilmente lo intuisce perché mi fa sedere sul letto e mi dice:

«Capito. Vuoi sapere ogni singola sillaba»

Meno male, così sì che ragioniamo.

Allora, è qui in vacanza da Colin Firth e signora (e fratello della signora, a quanto pare). Non è proprio una vacanza, stanno discutendo di un progetto di lavoro, ma lui ne approfitta per esplorare un po’ la Toscana, di cui Colin gli parla sempre. E poi fa da zio-babysitter ai due figli dei Firth, con Tommaso.

 

Ok. Ci sono. Francesca mi passa dei jeans e un top. Oddio, no. Non posso mettermi i jeans. Sono grassa! Ma non posso mettermi nemmeno un vestito, perché sono grassa!! Help!!!

«Fra» piagnucolo «Non ho niente da mettermi, sono una cicciona!»

«Ma smettila! Non sei una cicciona! Sei formosa! E sei bella per questo!»

«Nooooooooooooooo!!!!» ululo «Formosa è il modo educato di dire cicciona! Oddio, Ben Barnes ci aspetta per pranzo ma io non posso venire perché sono grassa uaaaaaaaaaaaa»

«Ginny! Ma insomma! Lo sai che piaci ai ragazzi, no?»

«Non è vero. Sono un disastro. Sono single da sempre. E poi se ti fanno un complimento ma poi scappano non vuol dire che piaci. E poi, lui non è un ragazzo, è Ben Barnes»

«Bè, sai, avevi ragione. È proprio figo. E così dolce, è davvero simpatico»

No. Scatto in piedi e mi paro davanti a lei.

«Francesca, ti prego no. Non dirmi che ti piace. Non dirmelo perché mi prende un colpo. Ti prego. Ben Barnes. Qui. Lo so che non gli piacerò mai, nemmeno tra un miliardo di anni, ma fammelo sperare. Fammelo solo sognare!»

«Ginevra, ma stai calma! Ho solo detto che è carino! Insomma, è vero. E poi…» arrossisce furiosamente.

«E poi? E POI?» sto praticamente urlando.

«…e poi, sai… ecco, non volevo dirtelo, ma…a me, insomma, piace…ehm…»

«Bè? Tommaso? Oh, ti piace Tommaso! Bè, bel colpo Fra!»

«No…Arnaldo» sussurra.

E chi diavolo è Arnaldo?

AAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!!!!!

Arnaldo è il nostro capo!! Ommamma! Ora sì che mi prende un colpo.

Stramazzo sul letto.

Francesca arrossisce furiosamente.

«Ehm… ma non piace piace. Solo…piace. Insomma, è affascinante ma io non penserei mai di…»

Affascinante? Come un topo spelacchiato. Bleah.

Comunque, i gusto sono gusti. E poi, basta che non le piaccia Ben.

«Ma non me lo hai mai detto? Perché? Io ti parlo di Ben ogni giorno»

«Ma Ben Barnes mica è reale! Cioè, sì, è reale…adesso è reale, ma Arnaldo lo vediamo tutti i giorni»

Purtroppo. Io farei volentieri a cambio.

E comunque, che storia.

«Ma non è vecchio?»

«Ma no, ha una quarantina d’anni» Se, certo. E Ben mi chiederà di sposarlo appena scendo le scale.

«E poi, a me piacciono gli uomini maturi…» arrossisce ancora.

Ok, i gusti sono gusti. Starò a preoccuparmi se le piace Arnaldo? Arnaldo il nazista-stakanovista del lavoro? Se si mettono insieme, scommetto che la sottopaghrebbe comunque. E lavorerebbero pure di sera, di notte e nei weekend. Tutti i weekend. La devo salvare.

Ma adesso no. C’è Ben Barnes che mi aspetta per pranzo.

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mio eroe! ***


Ok. Sono seduta a un tavolino dello stesso bar in cui spiavo Ben un’ora fa. Ho la faccia seppellita dietro il menù, ma non vedo nemmeno una riga di quello che c’è scritto. In testa ho un  mantra che va in loop:

“Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela. Puoi farcela.”

Che sta per: “Puoi farcela a conversare con Ben Barnes”, dove la parola conversare mi pare però un po’ vaga. Intendo più una cosa tipo: prendere rapporto. No, troppo lavorativo. Ma insomma, nel senso di: c’è Ben Barnes seduto accanto a me a tavola. Quindi:

Cosa da ricordare: NON fare figure di merda.

Obiettivi: sembrare intelligente, simpatica e carina.

Obiettivi/2: capire quanto tempo si ferma in Italia e che programmi ha. E poi, cascasse il mondo, trovare il modo di infilarsi in questi programmi.

Obiettivi/3: stabilire un contatto duraturo. Cioè: quando Ben Barnes si alza da questo tavolino, io come lo ritrovo? In Italia e poi – peggio che mai – nel mondo? Ce l’avrà un numero di telefono, un indirizzo, una mail? No, la mail no, l’ha detto in un’intervista.

AH!!!! Ecco!!!!

Cose da ricordare/2: NON citare cose lette/sentite in interviste e simili. Sono sicura che è una cosa che farebbe uscire di testa chiunque e poi, da addetta stampa, so che i giornalisti una miriade di cose se le inventano. Ci manca solo che mi credo un’esperta di Ben Barnes quando l’unica cosa che sono riuscita a dirgli al momento è “ciao”. Magari tutto quello che ho sentito e letto sono tutte bufale. Tipo che non parla italiano. Ok, ok, niente citazioni improprie.

Torniamo al primo obiettivo: intelligente, simpatica e carina. Considerando che al momento devo sembrargli una goffa idiota, c’è chiaramente del lavoro da fare. Su, che sia una giornata produttiva.

Stilato questo promemoria mentale, prendo fiato e alzo la testa dal menù.

Dai Gin. Ce la puoi fare. Anzi. Ce la devi fare! È l’occasione della tua vita. 

Gin, datti da fare, o me la paghi cara.

Ben sta ancora leggendo il menù e io osservo il suo profilo. È … bellissimo. È di più. È meraviglioso.

Penso potrei restare così per sempre, solo seduta a guardarlo. 

«Ah!» grido e salto sulla sedia, perché mi è arrivato un calcio sotto il tavolo. Oddio, è stato Ben?

Ah. No. È stata Francesca. Mi guarda socchiudendo gli occhi, come a dirmi “Non fare l’idiota”. Ben per lo spavento ha fatto un salto di un metro sulla sua, di sedia, e ora mi guarda come se fossi pazza.

«Ehm … bene… cosa prendete?» chiedo, disinvolta.

«Un’insalata» dice Francesca

«Anche io» le fa eco Tommaso «Di pollo, direi»

Ma insomma, un’insalata? Tra mezz’ora avrei di nuovo fame.

«Io prendo una pizza» dico. E immediatamente mi vergogno. Ecco, sembro un baghino affamato.

Ma Ben sorride e approva.

«Ok, sono d’accordo. Anche io. Insalata…» e scuote la testa.

Sorrido.

«Francesca la mangia praticamente tutti i giorni. Io le dico sempre che è il cibo più triste del mondo» 

«Triste è proprio la parola che avevo in mente io! Come se inviti una ragazza a uscire e lei, per cena, prende solo insalata. Triste!»

«Lo so» annuisco, convinta. E anche fiera di me: è una cosa che con me non gli capiterebbe mai. Ma proprio mai. 

«So che lo hai anche detto in un’inter…» AAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!

SCEMA!!!!! Presto, rimedia.

«Cioè… dicevo… ehm… invita me. Invitami a cena e ti giuro che non prendo l’insalata. Anzi, ti porto a mangiare quello che vuoi.»

Finisco di parlare e scende il silenzio. Francesca mi guarda incredula. Io, invece, non sono incredula. Sono annichilita. Sono un’idiota. Ho chiesto… ho davvero appena chiesto a Ben Barnes di invitarmi ad uscire? Adducendo come motivo il fatto che non mangio l’insalata?

È ufficiale, rinchiudetemi. E buttate via la chiave. Sono un pericolo per la socialità.

Ma Tommaso scoppia a ridere.

«Ecco Ben. Cosa puoi volere di più? Carina e non mangia l’insalata! E allora invitala, no?» mi fa l’occhiolino e aggiunge «Ah, devo sempre spiegargli tutto»

Ben mi sorride. «Sì, vero.»

Vero? Vero cosa? Vero, sono carina? Vero, deve spiegarti tutto? Vero che mangi la pizza?

«Ok, allora, ti porto fuori. Intanto, se ti propongo di dividere una pizza così poi prendiamo un hot dog e dividiamo anche quello, ti va bene? Io non riesco a decidere e questi due – indica Francesca e Tommaso – possiamo anche non considerarli»

«Certo!!!!» dico entusiasta. A me l’hot dog non piace. Ma chissenefrega. Lo mangerei, anche fosse terra. Al momento, ho ben altri pensieri.

Respira Gin. Non morire, concentrati. Cosa vuol dire “ti porto fuori?” Vuole davvero, davvero uscire con me? Non svenire, Ginevra. Sarebbe maleducazione.

«Dai, scegli tu la pizza» mormoro, cercando di prendere aria.

«No, aiutami» mi risponde e avvicina la sedia alla mia.

Ossignore, muoio! Ha un profumo delicato, maschile e… mi avvicina il menù e si morde un labbro, pensieroso. Poi improvvisamente sorride.

«Adoro la pizza» mi dice.

È… adorabile. È così dolce. Lo fisso ipnotizzata e sento intanto Francesca parlare a ruota libera con Tommaso. Probabilmente sta cercando di distrarlo in modo da non fargli notare che idiota è la sua collega.

Io e Ben scegliamo una pizza con uova, spinaci e pancetta (ha fatto scegliere me, in realtà, e io stavo per optare per la mia classica mozzarella di bufala, basilico e pomodorini, ma poi ho letto pancetta e mi sono ricordata di aver letto da qualche parte che lui adora la pancetta e che il suo piatto preferito è la carbonara. Lo so, lo so, la devo smettere con ‘sta storia delle interviste) e ordiniamo. Sto iniziando a rilassarmi e a parlare un po’ di più, quando una mano mi piomba sulla spalla, facendomi sobbalzare.

«Che diavolo state facendo, voi due?»

Francesca, che stava bevendo un sorso d’acqua, quasi si strozza. È il capo (Cioè, per lei è Arnaldo. Oddio. Lo guardo con occhi nuovi, cerco di vederlo dal punto di vista della mia collega…ma lo trovo più brutto che mai. Sarà che sto seduta accanto a uno degli uomini più belli del mondo…)

Francesca inizia a balbettare: «Stiamo… pranzando…»

«Tutte e due insieme? E se succede qualcosa in ufficio? E se arriva una mail importante, o passa un giornalista? Ma insomma, siete impazzite?»

Eccoci, ve l’ho detto che è uno stakanovista. Per quanto riguarda noi, almeno. Lui la pausa pranzo se la fa di almeno due ore. Siamo noi che mangiamo un panino in piedi, di solito. Sempre se ne abbiamo il tempo.

Ma oggi è decisamente un giorno speciale.

Sia Tommaso che Ben si sono irrigiditi. Tommaso si alza e dice tranquillo al mio capo:

«Ci scusi se abbiamo invitato le signorine. È colpa nostra. Capisco che state lavorando, ma francamente gliele portiamo via solo per una mezz’ora, il tempo di mangiare una cosa al volo. Ne hanno tutto il diritto, sarà d’accordo con me»

Il punto, invece, è che l’idea del capo su quali siano i nostri diritti è un po’ meno…umana di quella di Tommaso. Ma non osa evidentemente dirlo apertamente e così ribatte:

«Le signorine – calza sulla parola – non possono accettare inviti a pranzo da estranei, e lo sanno bene. Sono qui a lavorare e non in villeggiatura»

Che stronzo megagalattico. 

Ma, inaspettatamente, Francesca apre la bocca (lei non risponde mai al capo – cioè, ad Arnaldo, mammamia che nome – e ora ho capito il perché):

«Non sono estranei. Lui (e indica Ben) è …  il ragazzo di Ginevra» 

Cosa?? COSA?????? È pazza? So che sta cercando di aiutarmi, ma come le è venuto in mente? La guardo come a incenerirla e lei arrossisce mortificata. Ma Ben annuisce.

«Infatti. Posso portare la mia ragazza a pranzo, vero?» si gira a guardarmi, mi sorride e posa la mano sulla mia, stringendola piano.

Addio, mondo crudele. Sono morta. Quasi mi perdo anche il resto delle sue parole, perché fisso imbambolata la sua mano che copre la mia.

«Non l’ho vista per tutta la mattina» sta dicendo Ben «e ora lei mi dice che non posso vederla nemmeno a pranzo?»

«Che cosa romantica» il tono del capo gronda sarcasmo. «Ginevra. Io me ne frego se il tuo ragazzo vuole vederti, chiaro? Tu qui stai lavorando. Che poi…» fissa perplesso Ben «lui non è il ragazzo di stamattina? Mi pareva che non lo conoscessi…»

Help! 

«Ehm… no! Cioè sì, è lui. Ma lo conosco, ovviamente. Cioè…stiamo insieme!» dico di slancio e guardo di sottecchi Ben, che mi sorride e mi stringe la mano. Certo che è – naturalmente – un attore molto più bravo e convincente di me.

«Solo che non te l’ho detto perché…ehm…» mi impappino miseramente.

Francesca mi viene in aiuto: «Non te l’ha detto perché Ben è un attore famoso e devono stare molto attenti alla privacy. Cioè, vogliono stare molto attenti. È la loro vita privata, dopotutto.»

Arnaldo mi guarda attonito.

«Cioè, fammi capire. Tu stai…con un attore? Per di più famoso?»

E questo cosa vorrebbe dire????

«Sì» dico con tono di sfida.

«Perché è stupito?» chiede Tommaso, serafico. «Sono una splendida coppia»

«Infatti!» si entusiasma Francesca.

Oddio. Li amo. Li adoro. Farò qualunque cosa per ripagarli di questo. Li coprirò di insalata!

«In effetti, ora che ti guardo, il tuo viso mi è familiare» oh no. Il capo è entrato in modalità “capo – pubbliche relazioni”. Prende una sedia da un tavolo vicino e si siede con noi. Anzi, per la precisione cerca di infilarsi tra me e Ben. Mi spinge a lato e io, anziché dargli un calcione, tento di respingerlo con la forza del pensiero (forza, Obi!) perché se mi spinge ancora un po’ dovrò lasciare la mano di Ben, ma per fortuna Ben stesso non sembra troppo contento di come si sta mettendo la cosa e rafforza la presa sulla mia mano. Arnaldo non cede di un millimetro – oddio, non spezzatemi il braccio, please! – e Ben sembra capirlo perché sospira e mi dice:

«Darling, vieni qui, facciamo sedere il nostro…amico» 

Mi ha chiamata darling!!!!

Divento rossa come un peperone, mi alzo, e le gambe minacciano di non reggermi. Anche perché il capo mi sfila la sedia praticamente da dietro e si siede lui. Io muovo due passi, incerta, e mi avvicino a Ben. E ora che faccio?

Resto in piedi come un’idiota. Con la coda dell’occhio, colgo un movimento: sono Francesca e Tommaso che mi fanno dei cenni vaghi – probabilmente per dirmi che sembro un’ameba, lì impalata – ma io che ci posso fare? Di sicuro non mi siedo sulle gambe di Ben! No, non ci penso proprio! Se pesassi 50 chili lo farei, ma siccome non è decisamente il mio caso, se lo sognano! Rovinerei un bene mondiale! 

Francesca sgrana gli occhi e Tommaso sospira spazientito. Oh, insomma: vorrei vedere voi al posto mio! Intanto, il capo sta beatamente chiacchierando di quanto ha amato, adorato, venerato Ben nel ruolo di Dorian Gray (bugiardo bugiardissimo: l’ha definito “una cagata pazzesca, il povero Wilde si rivolterà nella tomba. Dorian Gray per prima cosa è biondo”, me lo ricordo perché me la sono legata al dito. È vero che il film con il libro non c’entra praticamente niente, ma Arnaldo è comunque un eretico). Ben trattiene a fatica un sospiro di impazienza. Io sono sempre imbambolata lì. Francesca tossisce eloquentemente. Ok ok, ho capito. Vado. Ehm…

Allungo timidamente una mano e la poso sulla spalla di Ben. Lui mi guarda ma è rapido a mascherare la sorpresa, anzi: sorride prontamente, mi prende la mano e inizia a giocherellare con le mie dita. Io lo fisso rapita.

Stavolta è Tommaso a tossicchiare. Uff! Ok, ora vi faccio vedere io!

Mi avvicino un po’ e mi poggio contro il bracciolo della sedia di Ben, poi, con la mano libera, accenno a una carezza tra i suoi capelli. Lui sorride di nuovo e mi si accoccola vicino. Il capo, del tutto ignaro del miracolo che sta accadendo nella mia vita, continua a blaterare e io, da insofferente che ero, gli sono improvvisamente grata. Divento la sua fan numero uno (cioè, numero due. C’è prima Francesca). Mi auguro che le sue chiacchiere su come il nostro studio saprebbe gestire con professionalità una campagna stampa in Italia per Ben («farai un film in Italia? No? Ma comeeeee!!! Ti prego, pensaci. Te lo chiedo a nome di tutti noi, i tuoi fan italiani, che ora io qui rappresento!» Argh! Ma cosa dice! Ma si ascolta?) durino per sempre. Perché io sono qui, ad accarezzare i capelli di Ben Barnes. E non ho nessuna, nessunissima intenzione di smettere. Ci metto tanto impegno che Ben, improvvisamente, fa un sospiro rilassato e si porta distrattamente la mia mano alla bocca e… mi bacia la punta delle dita.

Quasi cado dalla mia posizione precaria sul bracciolo. Mi salva il cameriere, che porta la nostra pizza. 

«Ah, il pranzo!» dice il capo tutto contento. Sì, ma è il nostro pranzo.

E poi, perplesso: «Ginevra, ma da quando tu mangi gli hot-dog?»

 

Dopo un’ora siamo ancora lì. Il capo ha esaurito la pazienza di tutti (tranne che di Francesca che lo guarda orgogliosa e adorante, manco fosse un bambino prodigio), ma non accenna ad andarsene. Veniamo salvati dal trillo del suo telefono.

«Devo rispondere» si acciglia. «Ma, Ben, dobbiamo assolutamente continuare questa piacevole chiacchierata» Ben ha l’aria di voler morire piuttosto che sopportarlo ancora cinque minuti. Poi il capo guarda me. Anzi, pianta gli occhi nei miei. 

«E tu, mia cara…» aiuto! «Accompagna pure Ben dovunque voglia andare…» cosa? COSA? Ho sentito bene?? Posso passare il mio tempo con Ben autorizzata dal capo? Il mio lavoro è seguire Ben? Sarò bravissima! Sarò un segugio! 

«… ma ricordati: il Tg1. Dico solo questo, cara. Il Tg1.» poi fa una risata da farmi accapponare la pelle e guarda di nuovo Ben. «La tua ragazza è bravissima. So che non serve dirle altro e che non mi deluderà! E tu (guardando Francesca): fila in ufficio!» e se ne va.

Appena è lontano, Ben sbuffa sonoramente e Tommaso scuote la testa, dicendo sconsolato:

«Ragazze, ma come fate a lavorare per uno stronzo del genere?»

Francesca sta già raccogliendo la borsa e cerca di scusare Arnaldo, dicendo che in effetti noi non ci prendiamo mai quasi due ore di pausa pranzo e che lui deve essere inflessibile per garantire che rendiamo al meglio (ma dove? La schiavitù è stata abolita, fino a prova contraria!), ma Tommaso le dice che faremmo meglio a cercarci un altro lavoro.

«Davvero, ragazze, siete così simpatiche…come fate a lavorare per una persona così? Sono sicuro che Ginevra è d’accordo, vero?» mi fissano tutti, ma io non apro bocca. Devo essere bianca come uno straccio e mi sento sul punto di svenire, per davvero stavolta.

«Ma che…?» Ben mi tocca il braccio, ma io quasi non mi accorgo. E poi sbotto:

«Cazzo!» perfetto, sembro davvero una piccola lady. Penseranno che sia il mio modo abituale di esprimermi. Ma sono così scioccata che non mi scuso nemmeno. Guardo Francesca, disperata.

«Fra…il Tg1! Ecco cosa mi ha chiesto prima! Io…non avevo capito (Traduzione: ero troppo impegnata a riprendermi dallo shock di aver appena incrociato – e ignorato – Ben Barnes). Non li ho chiamati! Oddio…» guardo l’orologio… è tardi! Troppo tardi per chiedere l’uscita di una troupe per oggi, direi. Oh mio Dio. Quando il capo scoprirà che non li ho nemmeno avvisati perderò il lavoro!

Francesca sgrana gli occhi. «No! E ora?» Spiega velocemente il problema a Tommaso e Ben, mentre io cerco freneticamente il cellulare in borsa e chiamo la redazione centrale. Non risponde nessuno, merda, merda!

Sto iperventilando, quando Ben mi dice: «Vedo se posso aiutarti io» e si allontana per fare una telefonata. Lo guardo implorante, tanto che Tommaso si mette a ridere.

«Eh, ma cosa farà mai alle donne? Sarà il ruolo del principe azzurro…»

Ma che te ridi! Io mi gioco il lavoro qui! (E poi non è solo quello! È che lui…è Ben!)

Ben torna, e mi dice che la sorella di Tommaso, Livia, conosce bene un giornalista del Tg1 e che vede se può aiutarci convincendolo a venire.

A questo punto, posso solo sperare.

Ma sono talmente in ansia che non mi godo il resto del pomeriggio, anche se sono con Ben. Per prima cosa mi dispiace lasciare Francesca da sola, anche se lei mi sibila: «Non essere scema: vai!!! È la tua occasione!». 

Quindi con Tommaso e Ben faccio un giro del centro del paese, improvvisandomi guida turistica (fortuna che i comunicati stampa li scrivo io e ci ho infilato qualche notizia sulle attrattive della città, così non faccio proprio la figura dell’ignorante) e poi ci sediamo al bar. E Tommaso conosce bene la Toscana e ci racconta un sacco di cose interessanti. 

Mi assento una decina di minuti per portare a Francesca un the freddo (mi pare il minimo, povera) e lei, quando mi vede, quasi mi aggredisce e mi rispedisce subito indietro, dicendomi che farei perdere la pazienza anche a un santo, che sono impossibile, che Ben Barnes è qui e io non ho niente di meglio che andarmene in ufficio? E no, secondo lei non sono grassa.

Poi li porto all’incontro cui volevano assistere, a rischio della vita, tra gente che si accapiglia all’ingresso e giornalisti rissosi che quasi sommergono Francesca. Vedo Tommaso lanciarle un’occhiata preoccupata. Io mi avvicino a lei e la aiuto a “dirigere il traffico” (traduzione: datevi una mossa e levatevi dalle scatole! Che però noi formuliamo in un modo molto, molto più educato). Poi entro e scopro che non ci sono più posti liberi, quindi mi siedo con Ben, Tommaso e Francesca per terra, a lato del palco.

Tommaso e Francesca mi sembrano ascoltare poco e chiacchierare molto (mmm…devo farci una riflessione, su questi due!), mentre Ben segue l’incontro con grande attenzione. Ad un certo punto mi si avvicina e mi sussurra:

«Non capisco tutte le parole…mi aiuti?»

Certo, poverino: è bravissimo con l’italiano, ma questa è una Lectio magistralis di un celebre filosofo. Certe parole non le conosco neppure io. Quindi ascolto e gli ripeto i concetti che vengono trattati, semplificando un po’. Dopo un po’ lasciamo perdere la Lectio e ci mettiamo a discutere sul termine “sostanza”. Svisceriamo l’etimologia e ci rendiamo reciprocamente edotti su varie questioni linguistiche legate alla parola, finché non veniamo interrotti dalla risata di Tommaso, che gli fa guadagnare un’occhiataccia da una minacciosa signora seduta poco lontana.

«Ma sentili…è così che streghi le donne, Barnes? Mi piacevate di più quando tubavate, prima, al bar»

Ben lo guarda male. Io invece sorrido, perché per me la risposta è sì. Non è solo bello, questo ragazzo. Improvvisamente il cellulare di Ben suona. Lui risponde bisbigliando. Poi attacca, mi guarda e mi sorride:

«Tutto ok per il tuo Tg1»

Io sono incredula. Francesca batte le mani. Dopo poco, esco per andare ad accogliere la troupe e Ben viene con me. C’è Livia Firth… ed è bellissima. Sono a dir poco in soggezione. 

Faccio posizionare la telecamera nel nostro angolo interviste e chiamo Francesca per dirle di portare qui il filosofo, appena finisce.

E va tutto liscio. Per una volta, va tutto bene. Il giornalista è gentilissimo e ride e scherza tutto il tempo. (Sarà la presenza di Ben e Livia, perché io l’ho conosciuto in un’altra occasione ed è stato un cafone per tutto il tempo. Potrei ricordarglielo, ma lascio perdere perché niente mi rovinerà questa serata: sono in pace con l’universo). Facciamo l’intervista e il capo, arrivato ovviamente quando è tutto fatto, dispensa cenni di approvazione (misurata). Poi si avvicina a Ben ma non fa in tempo ad attaccare bottone perché io, che ho appena salutato ospite e giornalista, rientro al settimo cielo e corro ad abbracciarlo.

Ben, non il capo.

E gli butto proprio le braccia al collo e lo sommergo di grazie. 

Lui è sorpreso, ma si mette a ridere. Poi avvicina il viso al mio e mi sussurra:

«Sssstttt! Io non ho fatto niente, ricordi? Hai fatto tutto da sola» e mi fa l’occhiolino.

Tu mi farai venire un infarto, Barnes.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ho il tuo numero! ***


Che sonno. 

Non ho praticamente chiuso occhio stanotte.

Innanzitutto, continuavano a tornarmi in mente flash della giornata di ieri: Ben che sorride, che mangia, che fa il turista attento, che mi parla di etimologia. Ben che mi prende la mano e che si lascia accarezzare i capelli. Mi sembra un sogno. Non mi sembra possibile che sia successo a me. Cioè, lo so che è successo a me, ma giuro: stanotte, in due o tre occasioni, ne ho persino dubitato. Sono arrivata al punto di svegliare Francesca per farmelo confermare, al che lei si è ovviamente incavolata ma, dopo avermi urlato dietro di tutto, ha confermato che sì, era Ben Barnes; sì, ha mangiato e parlato con noi; sì, ha fatto finta di essere il mio ragazzo.

Oh, Signore! Come facevo a dormire? 

E poi, un’ansia indicibile. Ieri sera, alla fine, se ne è andato con Tommaso e Livia. Lo rivedrò? Tornerà oggi? È seriamente concepibile pensare che trascorra un altro giorno delle sue vacanze in questo paesetto, che ha già visitato ieri? Sì, certo, oggi la manifestazione propone altri incontri, ma non è che posso sperare che torni? O sì? Oddio, l’ansia mi distrugge. Perché io, francamente, credo di no. Cioè, io non credo che tornerei. Quindi, cosa significa? Che non lo vedrò mai più? 

Io non ce l’ho fatta a chiedergli il numero. Non ce l’ho proprio fatta. Quando ha salutato me e Francesca avrei voluto chiederglielo, ma non mi sono venute le parole. Temevo di essere invadente. Cioè, Ben Barnes. Che non solo si è prestato a farmi da finto fidanzato per evitarmi la lavata di testa del capo. Mi ha pure procurato un’intervista con il Tg1 per uno dei nostri ospiti. Ci mancava solo che gli chiedessi di donare il sangue ed eravamo a posto.

Sospiro e rigiro il cucchiaino nella tazza. Sono nel nostro B&B e sto facendo colazione. 

«Buongiorno!»

Ecco Francesca.

«Ciao Fra» sospiro.

«Perché quell’aria triste? Non sto per ucciderti perché mi hai svegliata stanotte» dice scherzosa.

«Scusa. È solo che…»

«Ma no, dai. Capisco. È stata una giornata assurda!» sorride. «Insomma: come sta stamattina la ragazza di Ben Barnes?»

«Fra!!!»

Mi guardo attorno terrorizzata. Per fortuna non c’è nessuno. 

«Ma che dici? Sei matta?»

Ma lei ride. Cosa c’è di divertente, insomma? Nella mia vita si sta consumando un dramma!

«Fra, ti prego. Sono disperata. E se non lo vedrò mai più?»

«Ma come, scusa? Non gli hai chiesto se oggi viene?»

La mia faccia evidentemente parla da sola, perché lei sbuffa.

«Ma insomma! Cosa hai in testa? Cosa gli hai detto quando vi siete salutati?»

«Gli ho detto…»

«Sì?»

«Gli ho detto… “Ehm…ciao”»

Francesca ha l’aria di una che pensa seriamente che io non sia normale. 

«Ok. E poi?»

«E poi… basta»

Alza gli occhi al cielo.

«Sei un caso disperato. Qualsiasi altra ragazza al tuo posto avrebbe dato un braccio per avere questa occasione e tu che fai? Non gli parli, non gli chiedi il numero, lo saluti dicendogli “ciao”. Fortuna che sei la persona più estroversa che conosco»

«Fra sì, d’accordo, sono estroversa di solito. Sono chiacchierona. Anzi, diciamo pure che sono logorroica»

Lei annuisce, con un sospiro comico. Va bene, parlo tanto, e allora?

«L’unica cosa è che ora le circostanze mi sembrano un tantino estreme, no?»

«Non sono d’accordo»

«No?»

«No. Va bene, hai una cotta adolescenziale pazzesca per Ben Barnes. Incredibilmente, Ben Barnes si materializza qui, in mezzo al niente, quando ci sei anche tu. Ok, qui finisce la parte assurda e incredibile. Ora guarda quella reale. È simpatico, educato e gentile. Non è per niente uno che si atteggia, che fa il presuntuoso o l’arrogante perché è famoso. Ci ha invitate a pranzo. Si è fermato a parlare con noi anche se non ci conosce. Anzi, ti dirò di più. L’unico che gli ha parlato di lavoro è stato Arnaldo e lui sembrava infastidito, non è proprio il tipo da “oh-sì-parliamo-di-me-e-della-mia-carriera-mondiale-ma-guardate-come-sono-bravo”. Quindi?»

«… Quindi?»

«Quindi» riprende esasperata «Voglio dire che, se è stato così gentile e disponibile, potevi tranquillamente chiedergli cosa fa oggi. Non vuoi fare amicizia con lui?»

Voglio fare amicizia con Ben? No: voglio sposarlo e farci dieci figli. Il che mi sembra un po’ diverso. Francesca mi guarda in viso e sospira.

«Gin, non iniziare»

«A fare cosa?»

«Lo sai. A farti i tuoi viaggi mentali. Per favore, per favore. Devi smetterla di vivere ogni cosa come se la leggessi nelle pagine di un romanzo. Questa è la vita vera. A fare così, ti perdi delle occasioni. Guarda già solo il fatto che hai spiccicato tre parole in sei ore. Sono sicura che pensavi a quale fosse la frase magica per sorprenderlo e lasciarlo senza fiato, hai scartato tutto quello che ti è venuto in mente e quindi sei rimasta zitta. Se invece avessi parlato di più, Ben saprebbe quanto sei simpatica e spiritosa. E dolce.»

Da quando Francesca è così esperta della sottoscritta? E come diavolo fa a sapere cosa stavo pensando?

«Ma Fra» piagnucolo «Davvero, non ci sono riuscita. Mi si è azzerato il cervello. Mi sono venuti in mente tre pensieri in tutta la giornata: 

1 – sei bellissimo;

2 – sei fidanzato?;

3 – ti rivedrò mai più?

Capisci che non potevo dirgli nessuna di queste tre cose!»

«Ma iniziare con una cosa tipo, che ne so, se gli piace la Toscana, se ha visitato qualche altra città italiana, al limite se gli piace la pasta con il pomodoro…no?»

«Ma sono cose…irrilevanti! Sciocchezze! Frasi che si dicono a un estraneo con cui non ti frega niente di parlare! Domande che si leggono su Cioè! Allora, tanto valeva che gli chiedessi  se porta ancora i boxer di Hello Kitty dopo che glieli ha regalati una fan in Giappone e lui lì se li metteva perché non aveva più mutande pulite!»

«Cosa???? Hello Kitty???» Francesca è basita, ma si riprende «Senti Gin. Il tuo problema è questo: non riesci a viverti il presente, sei sempre protesa con la testa a quello che succederà tra un’ora, tra un giorno, tra un anno. Se ti succede una cosa bella nemmeno te ne accorgi perché stai già pensando che se dici così o fai cosà allora la perderai e non ti ricapiterà mai più. Devi vivere il momento. Davvero, ti perdi un sacco di cose. Per non dire che a trent’anni sarai esaurita, di questo passo.»

Ha ragione. Lo so che ha ragione. È vero che sono così. Non lo faccio apposta: insomma, il mio cervello deve essere tarato in questa maniera. Credete che sia divertente? No, appunto. Il problema è che io non ci riesco, a non fare così. Cioè, mi viene naturale. Come si fa a non pensare? Io non sono capace. E siccome penso, i miei pensieri evolvono spontaneamente in tutte le direzioni. Oddio, forse sono matta.

Francesca rincara la dose: «Quindi, per non aver trovato la frase magica che avrebbe annullato ogni resistenza in Ben Barnes e che lo avrebbe convinto a chiederti in moglie in trenta secondi, hai ben pensato che restare zitta tutto il giorno fosse una buona soluzione, vero? Uffa, Ginevra. Non ci siamo. Non hai visto ieri mattina? Sei salita su un tavolo gridando a tutti quei giornalisti di smetterla di importunarci e lo hai affascinato, e lui si è avvicinato per parlarti. È facile. Tu sapresti coinvolgerlo. È solo che l’unica che non lo sa sei tu»

«Sì, certo» borbotto «Come no. Affascinato»

Insomma, perché non capisce? Io voglio la favola, come diceva Julia Roberts in Pretty Woman. E mentre inizio ad immaginarmi Ben che viene da me salendo su una scala antincendio in ferro, con un mazzo di fiori in mano (peccato che qui siamo a pianoterra e che non c’è la scala antincendio esterna, perché sarei tentata di buttare un’occhiata fuori dalla finestra, sai mai arrivasse davvero), lei ribatte tranquilla, spalmandosi la marmellata su un toast:

«Certo. È proprio quello che mi ha detto lui»

Cosa?

«COSA??????»

Mi guarda rassegnata. 

«Cosa… quando…» farfuglio senza ritegno.

«Me lo ha detto lui ieri. Che lo hai colpito quando ti sei comportata così, che si vede che sei una ragazza decisa. Ah, e anche che sei davvero abbronzata» aggiunge, quasi ripensandoci.

Eh? Ma che c’entra? Oddio, a Ben non piacciono le donne abbronzate? Calma, andiamo con ordine.

«Francesca!!!!!» tuono, probabilmente svegliando chiunque nel raggio di 15 chilometri. «Ben ti ha…parlato di me?»

«Sì» dice lei tutta tranquilla, come se stesse parlando del tempo «Ieri in piazza. Mi ha chiesto chi eri»

Poi vede la mia faccia e aggiunge: «Ecco quello che intendevo. Non te l’ho detto proprio per questo motivo. Non scegliere i fiori per il matrimonio perché, per l’amor del Cielo, ha solo fatto una domanda. E poi Gin, affascinare qualcuno non significa che è tutto fatto e siete a posto per la vita. Significa che lo hai colpito. Probabilmente, con il tuo comportamento folle del resto della giornata, hai annullato qualunque passo avanti potevi aver fatto prima.»

Io la guardo con l’aria di un cucciolo semi-annegato  e lei sospira:

«Devi capire, Gin, che quando sei te stessa hai tutte le potenzialità del mondo. Potrei persino credere che, se c’è una persona – una fan - capace di conquistare Ben, potresti essere tu. In potenza, puoi. Non ti manca niente. Ma incasinerai tutto con le tue paranoie, ci scommetto. Hai già iniziato. Quindi: o sei te stessa e ti giochi tutte le tue carte o, se hai intenzione di trasformarlo nel film mentale dell’anno, ti dico subito che io non ci sto, chiaro? Non voglio nemmeno sentirne parlare»

È diventata un drago: deve essersi trasformata stanotte. Sarà per colpa di quello che ha mangiato a cena?

Come se non mi avesse strapazzata come una centrifuga, beve tranquilla il suo caffè e si alza.

«Andiamo?»

«No» borbotto, contrita e vergognosa. Perché lo so, nel profondo del cuore, che ha ragione. Ma non è che io sia fiera di me, anzi. Io ci provo a cambiare. È che non ci riesco. 

«Ho ancora fame» esito, poi dico tutto d’un fiato: «Comunque, non dovrei mangiare, perché l’unica tizia cui è stato associato il nome di Ben è magra e allampanata e pare un palo della luce. E se gli piacciono le donne così, allora tanto vale lasciar perdere, visto che io non sono proprio il tipo.»

Incrocio la sguardo di una Francesca esterrefatta. 

«Lasciamo perdere» le dico «Mi passi la Nutella, per favore?»

Due ore dopo, sono nel pieno di una folle giornata di lavoro. Sto cercando di raccogliere i dati di affluenza della giornata di ieri mentre aggiorno per la quindicesima volta nell’ultima mezz’ora l’agenda delle interviste.

«Ah no, guarda. Spostiamo questa intervista alle 16 precise, appena prima dell’inizio della conferenza»

Maledetto capo. Se me la fa cambiare ancora, gliela faccio mangiare. Attacco il telefono e ribatto: 

«Portiamo via troppo tempo all’ospite. Va anche microfonato: è una tv e non si può fare l’intervista sotto le scale del palco, in mezzo al casino. Prima dell’intervento è sempre un brutto momento…» intercetto l’occhiata furibonda del capo e sospiro. «Ok, ok, prima dell’intervento ». So già che scontenterò tutti e poi lì me la dovrò cavare da sola.

Francesca è sepolta sotto una valanga di cartelle stampa da assemblare. 

«Tutto ok Fra?» le chiedo.

Arnaldo sbuffa. «E che cosa non dovrebbe andare bene, scusa? Sarà capace di assemblare tre cartelle, no?»

Francesca arrossisce. Maledetto stronzo. La tratta sempre così perché lei è molto remissiva e lui il classico coglione che scambia la timidezza per mancanza di palle. Non le affida mai niente di davvero importante e so che lei ne soffre. Alla luce di quello che prova per lui, deve essere anche peggio: penserà di non valere niente. Lasciamo perdere il fatto che lui lo pensa praticamente di tutto il mondo, tranne che di se stesso. Sto per dargli una rispostaccia, quando lui mi precede.

«Ben oggi viene, Ginevra?» 

Quasi mi prende un colpo solo a sentirlo nominare. Mi cade la penna di mano e balbetto qualcosa ma per fortuna vengo salvata dal trillo del mio telefono. Un numero che non conosco. Ormai il cellulare è incandescente, da quante telefonate ricevo. Secondo voi abbiamo un telefono aziendale? Ecco, appunto, dobbiamo usare il nostro personale.

«Pronto?» dico, professionale.

«Ginevra? Sono Ben, ciao»

È Ben????? Come fa ad avere il mio numero????

«Oh. Ciao…» balbetto.

«Scusa se ti disturbo. È un brutto momento?»

Mi disturba, secondo lui? Mi ha appena trasformato la giornata da schifo totale in paradiso.

«No, no, che dici? Non c’è problema. Io… sono al lavoro, ma…»

Commetto l’errore di alzare lo sguardo e vedo il capo lanciarmi l’occhiata da: “So-che-non-è-una-telefonata-di-lavoro-e-ti-avverto-che-ho-poca-pazienza”. Distolgo gli occhi di corsa. Guardo Francesca e la vedo cercare di nascondere un sorrisetto.

Oh no.

A confermare le mie peggiori paure, Ben mi dice:

«Stamattina Francesca mi ha mandato un messaggio. Dice che mi volevi chiamare per chiedermi di vederci oggi, ma non avevi il mio numero. Così lei mi ha lasciato il tuo…»

Francesca ha il numero di telefono di Ben? Come ha fatto a chiederglielo?!

E non solo! Stamattina, mentre mi disperavo perché pensavo che non avrei più rivisto Ben, lei lo aveva! Poteva darmelo!! Non che io avrei mai osato chiamarlo, ma sapere di avere il suo numero in rubrica mi avrebbe fatta stare molto, molto meglio. 

E mi ha pure cazziata, oltre a tutto questo.

La ucciderò. Oh, se la ucciderò. Lentamente e con dolore, per giunta.

Resto zitta come una perfetta idiota e, giuro, sento Ben sorridere attraverso il telefono.

«Guarda che potevi chiedermelo ieri…» aggiunge dolcemente.

Io riesco solo a pensare a una cosa: vendetta, tremenda vendetta!

Così, inconcepibilmente, mi vengono le parole:

«Tesoro, c’è qui Arnaldo che mi chiedeva di te proprio ora» sento Ben gemere, ma lo ignoro. Peggio per lui! Non può non sapere che effetto fa sulle persone. Anzi, che effetto fa su di me: come facevo a chiedertelo ieri, di vederci ancora? Ero troppo impegnata a ricordarmi come si fa a parlare. E questa è la tua punizione, bello mio: vedrai, un’altra mezz’ora con il capo e ti passa la voglia di farmi venire un infarto. Proseguo imperterrita:

«Non vedo l’ora di vederti (non devo nemmeno fingere entusiasmo, perché è assolutamente vero, fino all’ultima sillaba). A che ora passi?»

«Ehm…non so…» esita. Non vorrei, ma scoppio a ridere. Gli ho fatto davvero paura.

«Dai, tranquillo. Scherzavo. Cioè, non scherzavo. Ma ci sono io, vedo di risolvere in qualche modo (resto vaga, perché il capo ha capito che è Ben al telefono e si sta letteralmente bevendo ogni parola che dico)»

«Io vengo, ma mi devi promettere…»

Non lo lascio finire. Non posso farlo parlare, c’è Arnaldo che si sbraccia per dirmi chissà cosa ma io lo ignoro serena.

«Tesoro. Certo, ho capito. Prometto. Tesoro»

Parlo in codice, sperando che afferri. In realtà, uso un codice che ho appena inventato e non so nemmeno bene con quali criteri, ma Ben capisce.

«Ok, capito. Non puoi parlare. Basta che mi tieni quel tizio lontano. Molto lontano.»

«Sarà fatto. Un’altra cosa…porta Tommaso, ok? Francesca non vede l’ora di rivederlo…»

Sento un rumore alla mia destra: Francesca ha rovesciato metà delle cartelle stampa. Ah! Uno a uno, siamo pari.

«Davvero?» Ben è contento. «Perfetto! Veniamo per le 18?»

Così tardi? Morirò nell’agonia, nel frattempo!

«Ok. Ma solo se ti fermi a cena.»

«Andata! Ci vediamo dopo!»

Lo saluto e attacco. Mi concentro al volo sul capo, per evitare di guardare Francesca – basita – e scoppiarle a ridere in faccia.

«Ben arriva dopo. Non è un problema, vero? Cosa mi dicevi, per le interviste?»

«Sì. Ehm…» già mi immagino cosa vuole chiedermi. « Se Ben viene a trovarti dopo, magari potrei prendere un caffè con voi…» sì, certo.

«Bè, non è una buona idea, temo» dico con la mia migliore espressione da finta innocente. «Sai, sto cercando di aiutare Tommaso facendogli incontrare Francesca e un quinto elemento…» faccio sfumare la voce. Arnaldo mi guarda perplesso. Arrivaci, coglione! Non ti vogliamo.

Francesca balbetta qualcosa, ma io intervengo, ignorandola e rivolgendomi ancora a lui:

«Sai, a Tommaso lei piace davvero molto. E non mi stupisce affatto: è una persona meravigliosa, oltre che molto carina. E io e Ben pensiamo siano una bellissima coppia »

Arnaldo le lancia un’occhiata dubbiosa. Lei arrossisce come un peperone. Io, elegantemente, mi defilo e vado in bagno.

Quando torno, Arnaldo è sparito e Francesca è nevrastenica. Fortuna che non può urlarmi addosso perché ci sono tre giornalisti nell’area stampa, che usano i computer.

«Buongiorno» dico loro con voce flautata. La giornata è decisamente migliorata. Vedrò Ben tra otto ore! 

«Posso fare qualcosa per aiutarvi? Avete la cartella stampa?» aggiungo.

Uno grugnisce qualcosa sul fatto che sta scrivendo un pezzo. Scommetto qualunque cosa che invece sta su facebook. Mi giro verso Francesca e le sorrido. Blocco il suo scatto d’ira sul nascere.

«Allora, hai visto come ti guardava Arnaldo?»

Lei chiude la bocca di scatto. Sono sicura che la mia dolce collega stava per farmi a pezzi.

«Cosa? Come?»

Sospiro, fintamente esasperata. Ah, stavolta tocca a me dare saggi consigli! Ma, a parte che mi scotta ancora il fatto di essere stata trattata come una bimbetta scema (ho i brividi al pensiero che Francesca abbia scritto a Ben che volevo vederlo ma ero troppo codarda per chiederglielo io, detta proprio in soldoni), io a Fra voglio bene davvero. 

«Fra, diciamocelo: ti piace un coglione. E non ti azzardare a dirmi di no» faccio, appena lei apre bocca.

«Ma se proprio, proprio deve piacerti lui» bisbiglio, tanto per conservare un minimo di privacy (non che ai giornalisti freghi qualcosa: io ho sentito di quei discorsi…. Prima o poi ci scriverò un libro) «allora vediamo di agire!»

«Ma che dici? Sei matta? Non posso “agire”. È il mio capo!»

«E quindi? Allora è solo un film mentale?» chiedo, serafica.

Lei mi guarda male.

«No, ma…»

«Bene, perché non avrebbe senso. Allora, o te lo togli dalla testa, oppure…»

«Oppure?» mi chiede ansiosa.

«Oppure ti fidi di me» le sorrido. «Io, del resto, sono molto brava quando si tratta degli altri»

Lei improvvisamente ride e la tensione tra noi si scioglie.

«È vero. È quando si tratta di te che sei un disastro!»

Ci rimettiamo a lavorare, ma oggi quasi non mi pesa. Ho il numero di Ben Barnes salvato in rubrica. Lo vedrò di nuovo, più tardi. Nemmeno Arnaldo che mi fa tutto un discorso su come sia importante per la nostra agenzia acquisire un cliente come Ben – “E perché mai, in nome del Cielo, non mi hai detto che stavi insieme ad un attore così famoso? Con la crisi che c’è… sai, io devo fare delle… ehm, riflessioni … (su cosa devi riflettere, esattamente? Su quanto poco mi paghi?) E potremmo fare l’ufficio stampa a Ben Barnes!” (No, che non potremmo. Come faremmo io e Francesca da sole a seguire una cosa tipo la campagna stampa de Le Cronache di Narnia? È una campagna stampa mondiale. Due ragazze di 27 e 28 anni. Da sole. Non saprei nemmeno da dove iniziare; noi abbiamo sempre seguito cose importanti, sì, ma non titaniche. E nazionali, mica planetarie! Non che a lui freghi qualcosa) – riesce a rovinarmi il buonumore: lo guardo sorridendo come una cretina e biascico una risposta poco impegnativa, troppo felice di vederlo così ansioso. Ah! Ora mi tratta con i guanti, per paura che io dica a Ben che il mio capo è uno stronzo!

Sei ore e mezzo. E lo rivedrò. 

Forse faccio anche in tempo a farmi venire in mente qualcosa per aiutare Francesca.

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Ebbene sì, se mi impegno parlo ***


Che caldo, mamma mia.
Sono esausta. Ho corso di qua e di là dietro giornalisti e interviste. In realtà non è andata male: oggi c’erano un paio di giornalisti simpatici e lavorare con persone così è molto piacevole. Poi, secondo me, in generale siamo tutti cotti dal gran caldo e troppo stanchi per fare qualsiasi cosa che non sia trascinarci stancamente da un’intervista all’altra.
Rientro in ufficio e mi faccio aria con un calendario da tavolo. Oddio. Sono sudata e la mia maglietta è tutta stropicciata. Faccio pena. Guardo l’orologio. Le 17.15. Ok, c’è tempo.  In teoria, posso darmi una sistemata prima che arrivi Ben. In pratica, dipende tutto da quel gran mostro del mio capo. Se sparisse, potrei forse – dico forse – assentarmi e tornare al volo…
«Eccoti»
Parli del diavolo…
«Dimmi» dico stancamente.
Non lo avessi mai fatto. In un minuto, mi ha riempita di cose da fare. Cominciamo con scrivere la prima delle mille mail che gli è venuto in mente di mandare.
A Francesca non sta andando meglio. Cerco di concentrarmi mentre sento il capo gridare di cambiare la rassegna stampa esposta, di mandare una nuova selezione di immagini ai siti internet, di chiamargli il caporedattore del principale quotidiano locale e di verificare che le radio della zona passino nel gr serale il programma di domani.
Ecco, le radio toccano a me. E vai.
Che palle. Diamoci da fare.
Venti minuti e tanti scleri dopo, sto riscrivendo per la quarta volta una mail, cercando un modo gentile di tradurre gli insulti al destinatario che il capo pretenderebbe che io scrivessi. Allora, concentriamoci. “Pur comprendendo le sue motivazioni, sono a farle presente che l’accaduto comporta per noi un problema in termine di resa a livello di stampa. La flessione nel numero delle uscite che, conseguentemente a ciò, ci verrebbe imputata…”.
Mmmm. Pessimo. Sospiro e mi abbandono contro lo schienale della sedia, chiudendo gli occhi.
«Non sembri felice»
Apro gli occhi di scatto e faccio un salto di tre metri sulla sedia. Ben! Cosa ci fa già qui?
Oddio, sono un mostro.
Il pensiero mi attraversa la mente come un lampo. Come gli viene in mente di arrivare in anticipo quando io ho bisogno di tempo per tornare presentabile?
No, no. Calma. Non perdiamo la testa. Gli lancio una cauta occhiata e quasi svengo. È – inutile dirlo – bellissimo, in jeans e maglietta bianca. Non sembra nemmeno avere caldo. Siamo sicuri che sia umano?
No, aspetta. Ha… un bambino in braccio. Un bambino?
Ben nota la mia espressione incredula e sorride.
«Questo è Luca. Fai ciao a Ginevra, man»
Ma il piccolo si ritrae e gli nasconde il viso contro la spalla. Ben gli accarezza i capelli e lo mette seduto sulla mia scrivania, tenendolo sempre abbracciato e voltato verso di sé.
«È timido, scusa. Ma pesa anche tanto e sto cercando di fargli capire che non posso portarlo sempre in braccio.»
«Ah, ehm, certo. Capisco. Con questo caldo poi … »
Ah ecco. Sono pronta per l’Oscar. Dell’idiozia. Consegnato a me per acclamazione universale. Gli sto parlando del caldo. Ci manca solo che aggiunga “Prevedono caldo torrido anche per la prossima settimana, fino a giovedì”.
Per darmi un tono, mi alzo dalla sedia e mi avvicino. Allungo una mano e accarezzo la spalla del bambino, ma lui si stringe a Ben, che sorride e gli sussurra qualcosa che non capisco in inglese.
«Ma parla anche inglese?»
Cavolo. Alla faccia. Avrà sei anni.
«Sì. È uno dei due bambini di Colin e Livia. I genitori parlano loro in entrambe le lingue, così ne conoscono già due.»
Hai capito?
Cala un momento di silenzio imbarazzato. Io vorrei parlare, ma non mi viene in mente niente da dire – la costante di questi giorni, a quanto pare – e in più il caldo mi ha sfibrata e ho il cervello atrofizzato, così, se non altro, non ho forze nemmeno per agitarmi.
Ben mi guarda.
«Sembri distrutta.»
«È un complimento?» sorrido. E sorride anche lui.
«Fammi indovinare. Il tuo simpatico capo ti ha fatta correre tutto il giorno. E non ti ha fatta pranzare.»
«Bè…sì. Ma ho avuto giornate peggiori, quindi non mi lamento.»
«Peggiori di così?» è incredulo, e stavolta sono io a sorridere.
«Ehi, ma credi che il tuo addetto stampa abbia una vita facile? Sì, certo, non dovrà supplicare i giornalisti di prestare attenzione a te, ma guarda che è una vitaccia anche la sua!»
Ben sembra interdetto. Ci pensa su un attimo:
«Hai detto… sup…?»
«Supplicare. Tipo… pregare una persona di fare qualcosa.»
«Ah. Ma come? Cioè… non sono interessati a quello che fate?»
«Dipende. Non sempre. Anzi. Diciamo che il bello è quando non interessa loro e tu li persuadi che invece è una cosa che vale. Certo, non succede sempre, ma quando succede allora so che ho lavorato davvero bene. Sai… dubito che i giornalisti dicano al tuo ufficio stampa “Chi diavolo è Ben Barnes? Perché mi disturbi per una cosa del genere?” e sbattano giù il telefono.»
«Fanno così? Davvero? Hum. Sai, però io non ho un addetto stampa mio, ci sono quelli delle case cinematografiche»
«Anche peggio! Sai quanto lavoro hanno?»
«Ma io sono gentile. Li faccio mangiare!» sembra scandalizzato.
Scoppio a ridere.
«Non volevo dire che non li fai mangiare. Volevo dire che questo è un mestiere in cui, in generale, non hai orari, ferie, pause… o pranzi. E ti abitui ad essere trattato male dal capo e dai giornalisti»
«Non ci avevo mai pensato» dice lentamente «Ma allora perché lo fai?»
«Perché mi piace» poi ci ripenso e aggiungo «Quasi sempre. Spesso. A volte.»
Ride.
«Quanto spesso?»
«Mmmm… veramente, ora direi poco spesso. Ma in trasferta è sempre più difficile.»
«Trasferta?»
«Quando andiamo fuori per lavoro. Tipo: adesso siamo in trasferta»
«Ah. Ma allora non vivi qui?»
«No. Vivo a Milano. Ma vengo dalle Marche»
«Non so dov’è, scusa»
«Nell’Italia centrale. Sono una regione, che però, rispetto a qui, sta sull’altra costa italiana, quella dell’Adriatico»
«Qui vicino, quindi?»
«Insomma…» sospiro, nostalgica.
«Ti manca casa?»
«Tantissimo, quando sono lontana. È strano, perché quando sono a Milano penso che mi mancano la mia famiglia, gli amici, il mare… e vorrei tornare. Ma quando sono a casa, quasi mi manca Milano. Cioè, mi mancano teatri, musei, negozi…la gente ovunque.»
«Sono stato a Milano. Mi sembra bella»
«Ci sei stato poco, eh?»
Ride.
«Sì. È orribile?»
«No, non è orribile. Però il cielo è sempre strano, come se fosse grigio, anche d’estate. E le persone non sono molto socievoli. Io mi sento spesso sola.»
«Non hai amici?»
«Qualcuno. Ho Francesca. Ho le mie coinquiline. Ma noi lavoriamo moltissimo e usciamo pochissimo, quindi è difficile conoscere gente. E i miei amici sono in altre parti d’Italia»
«E il tuo ragazzo?»
C’è un attimo di silenzio in cui ci guardiamo. Non so bene come interpretare l’occhiata che mi lancia. Poi però vedo che il bambino mi sta sbirciando, con il visino ancora semisepolto nella maglietta di Ben.
Sorrido e allungo di nuovo una mano per accarezzargli lievemente i capelli e questa volta non si ritrae.
«Non ce l’ho il ragazzo» dico, tranquilla.
Anche Ben accarezza i capelli di Luca e gli dà un bacio leggero sulla testa.
«Fa sempre così. Ora ti ascolta e tra cinque minuti ti salta in braccio. Poi non te ne liberi più, ti avverto.»
«Va bene, allora» sorrido di nuovo. È incredibile quanto sia facile parlare con lui, ora che abbiamo iniziato. «A te manca casa?»
«Londra? Tantissimo. La adoro. Ma sono sempre in giro per il mondo…» sospira e sembra nostalgico anche lui.
«Deve essere davvero, davvero pesante»
«In realtà, è bellissimo. Solo che, a volte, vado in così tanti posti in poco tempo che, ad un certo punto, non so più dove sono. Mi è successo con Narnia. Per la campagna di promozione abbiamo girato il mondo e a volte, quando mi intervistavano, rispondevo alle domande e intanto pensavo: “Ma questo chi è? Dove sono?”»
«Io ne sarei terrorizzata» dico candidamente. «Sono attaccatissima a casa mia e l’idea di andare lontano non è mai stata uno dei miei sogni. E viaggiare è bello, ma essere sempre, sempre in giro mi sembra quasi un incubo. Non sei mai veramente tranquillo, non hai punti di riferimento, non hai le tue cose attorno…»
«Sai che sei forse la prima persona che mi dice una cosa del genere? Tutti dicono sempre che la vita dell’attore è meravigliosa, che vorrebbero essere me e viaggiare tutto il tempo…»
«Ma io sono in controtendenza. Faccio e dico sempre il contrario di quello che gli altri si aspettano da me»
«Una ribelle, quindi»
«No, affatto. Solo che tante volte parlo prima di pensare»
Scoppia a ridere.
«È vero! Comunque, se lo chiedessi a mio padre, ti direbbe che sono una ribelle nata»
«Sai, i verbi in italiano sono un incubo. Penso sempre di aver capito come funziona e ogni volta tirate fuori delle cose assurde. Cos’è che hai appena detto?»
«Ho usato il congiuntivo… dai, lo so che è difficile: l’italiano viene dal latino e diciamo che ha ereditato qualcosa della consecutio temporum per le forme verbali…»
«Farò finta di aver capito quello che hai detto» ride.
Luca solleva la testa e lo guarda curioso. Poi guarda me e mi fa un sorriso timido.
«Ma che bello che è!»
«Sì. Anche suo fratello, Matteo. Sono bellissimi. Non pensavo di affezionarmi a loro così tanto, nei pochi giorni che sono stato qui»
Quanto è dolce. Sta sorridendo a Luca e io mi sciolgo. E l’attimo di distrazione mi costa caro.
«Ginevra! Ben!!!» è il capo. Oh, no.
Incrocio lo sguardo di Ben e per un attimo ci fissiamo terrorizzati…e poi scoppiamo a ridere insieme. E non riusciamo a smettere. Arnaldo è interdetto e Luca perplesso. Ci guardano come se fossimo matti. Ma noi ridiamo e, ogni volta che ci guardiamo, ridiamo ancora. Alla fine, sono piegata in due.
Poi mi riprendo, mi asciugo le lacrime (già ero in disordine, pensa se mi è scolato pure il mascara!) e guardo il capo cercando di non scoppiargli a ridere di nuovo in faccia. Gli pulsa una vena sul collo, e non è buon segno.
Penso che lo abbia notato anche Ben, che di punto in bianco dice:
«Scusaci, i bambini sono così divertenti. Fanno cose assurde, vero, Luca? (sì, certo, proprio Luca, poverino) Come stai?» e tende la mano ad Arnaldo, che ci guarda ancora sospettoso e poi stringe la mano di Ben.
«Ah, certo. Già. Sì. Bambini. Ehm, ciao.» dice a Luca, dandogli quello che vorrebbe essere un colpetto affettuoso sulla spalla, ma è più una cauta spintarella. Ma rilassati, non è mica un drago. È un bambino. Luca si sposta di scatto per allontanare la mano del capo e quasi cade dal tavolo, perché Ben ha mosso un passo di lato per avvicinarsi ad Arnaldo. Ci fiondiamo in due per prenderlo. Arriva prima Ben (ammazza, che riflessi!) e io gli sbatto addosso. Lui serra la presa su Luca e poi mi passa un braccio dietro le spalle per sostenermi mentre mi raddrizzo.
Ehm. Siamo in tre, vicini, quasi abbracciati stretti. Io sento un’ondata di calore incendiarmi il viso. Devo essere cremisi. Vorrei spostarmi…ma no, ora che ci penso, non vorrei spostarmi proprio per niente. Non si sposta nemmeno Ben. Restiamo così per qualche secondo, finché Arnaldo – tanto per cambiare – non rovina l’atmosfera.
«Ehm…tutto ok?»
«Ah. Sì. Grazie» sembro più stordita del solito.
«Bene, hai finito quelle mail?»
Ecco che torno alla dura realtà.
«Me ne manca una» Se. Me ne mancano tipo quindici.
«Bene. Datti da fare. Ben, posso offrirti un caffè?» stronzo.
«Grazie, sei gentile, ma Luca vuole restare qui con la zia. Vero, piccolo?»
La zia?
Luca guarda Ben e poi me. E mi sorride.
«Sto qui con zio e zia» dice.
Ah!!! Sono io la zia?! Per forza sono io, sono l’unica donna qui.
«La zia?» Arnaldo è ritardato.
«Ginevra. La chiama zia, vero, Luca?»
Il bambino annuisce. È un bambino prodigio! Sono senza parole. Mi vede da cinque minuti e sono già in famiglia.
Arnaldo è basito.
«Ehm…sì. Bene. Zia.» si guarda intorno come a cercare le telecamere di Paperissima, poi dice: «Ma, Ben…voi due state insieme da molto? Ci pensavo prima. Come fate a vedervi? Dove vi siete conosciuti? Perché Ginevra non ha tutto questo tempo libero…cioè, voglio dire, non sapevo viaggiasse tanto» conclude precipitosamente.
Sì, volevi proprio dire che non ho tempo libero. E che non mi paghi abbastanza perché io possa viaggiare.
«Da poco…» balbetto io, mentre Ben, contemporaneamente, dice: «Oh, è già un po’…»
Ci guardiamo un attimo. Panico!
«È poco tempo, ma sembra tanto!» dico agitata. Ben si mette a ridere. Cavolo. ho detto il contrario di quello che volevo dire.
«Cioè…è tanto tempo ma sembra poco, volevo dire!»
«Sì. Ci siamo conosciuti in Italia. Nelle…Marca
«Nelle Marche, sì. A casa mia. Cioè, al mare.»
«Ah, già. Sei marchigiana. Bene, da molto, quindi?»
«Sì, ma ci vediamo poco…» cerco di essere vaga. Ma cosa vuole, accidenti a lui?
«Sì, troppo poco. Anzi, un paio di volte le ho detto che dovrebbe trasferirsi a Londra…»
«COSA?» tuona Arnaldo e mi guarda inferocito.
Ehi, calma! Non l’ho proposto io! Anzi, veramente, non l’ha proposto nessuno. Peccato, io mi trasferirei di corsa a Londra con Ben.
E poi, improvvisamente il mio capo mi guarda con quella che, secondo lui, è un’aria paterna (che paura!) e mi dice:
«Cara, sembri stanca. Finisci la mail e poi vai a sederti un attimo al bar, così ti riposi»
Eh??? È impazzito? Ha battuto la testa?
Lo guardo con gli occhi sgranati e lui mi si avvicina minaccioso. Mi abbranca una spalla e mi guida alla scrivania.
«Lo sai che non voglio che tu ti stanchi troppo. Finisci e vai pure»
Alle 18? Ma è seriamente uscito di testa!!
«Buonasera»
Dice una voce ed entrano Tommaso, che tiene per mano un altro bambino, e Francesca.
«Ah, salve» borbotta Arnaldo, mentre io sorrido a Tommaso e faccio ciao al bambino. Sembra meno timido del fratellino, perché mi sorride subito. Francesca, intenerita, gli fa una carezza.
Luca non ci sta e tende le braccia per venire da me. Ah! Ti ho già conquistato!
Ben lo riprende in braccio e fa il giro della scrivania per avvicinarsi a me, ma intanto gli dice:
«Non possiamo stare qui perché la zia deve lavorare, ok?»
«La zia???»
Francesca e Tommaso gridano insieme.
Io e Ben li guardiamo malissimo. Francesca sembra mortificata, mentre Tommaso sembra essere sul punto di scoppiare a ridere.
«Ah. Ehm. Bene. Matteo…ehm, la zia ha da fare. Magari torniamo dopo…» e poi crolla e inizia a sghignazzare senza ritegno. Ora lo strozzo.
Francesca invece non si perde d’animo e prende Matteo per mano, prima che dica qualcosa tipo: “ma di che cavolo di zia state parlando, tutti quanti?” e borbotta qualcosa sul lavargli le mani in bagno e se lo porta via.
Restiamo noi, con Tommaso che ancora ride. Arnaldo sembra seriamente preoccupato per la sua salute mentale. Si guarda attorno, ma tutti guardiamo altrove.
Io fisso il computer. Maledetta mail.
Ben la sta leggendo da sopra la mia spalla e lo vedo fare una smorfia. Suona un cellulare. Grazie al Cielo è quello di Arnaldo, che, sollevato all’idea di non dover fare conversazione con Tommaso che gli ulula dal ridere accanto, coglie la scusa e si allontana.
Meno male.
«Sembra la mail di un avvocato» mi dice Ben.
Sospiro.
«Lo so» tendo le braccia verso Luca, che esita ma poi si fa prendere in braccio. Lo metto seduto sulle mie gambe, gli do un bacino in testa e gli bisbiglio: «Zio è stanco. Dai, scriviamo la mail per il capo, così poi ne mancano solo altre cento e ce ne andiamo»
Ben scoppia a ridere.
«Ora mi dici che sei avvocato»
«No, ma i miei genitori sì. Tutti e due. Forse me lo hanno trasmesso con il DNA.»
«E tu come mai non sei avvocato?»
«Ma, sai…io ero quella che voleva farcela da sola, senza l’aiuto dei suoi… e poi volevo studiare Lettere, non Legge. Così l’ho fatto – mio papà è rimasto scioccato – e poi ho provato a scrivere per qualche giornale ma non mi pagavano e quindi sono approdata nella comunicazione. Ecco, la mia vita in tre righe»
Sorride.
«Anche mio padre era scioccato quando gli ho detto che volevo fare l’attore. Anche mia madre, veramente»
«La mia non era contenta, ma alla fine preferisce che sia contenta io. Solo che non le sta molto… ehm… simpatico Arnaldo…» dico, abbassando la voce.
«No, ma come? Una persona così gentile…»
Scoppio a ridere.
«Ok. Diciamo che, per due genitori avvocati, leggere il mio contratto di lavoro è stato un colpo al cuore. Mi aspetto che prima o poi mio papà esploda. Per il momento, è così. Almeno…sto facendo qualcosa che è tutto mio. Nel bene e nel male, certo. Ma faccio da sola»
Lo guardo, mordendomi il labbro.
«Sembra stupido?»
«No! Perché?»
«Bè, perché tanta gente darebbe un braccio per la sicurezza che potrei avere io. E perché l’avvocato è un lavoro più remunerativo e sicuro, in teoria almeno. E perché potrei lavorare a casa mia, nello studio dei miei. O, al limite, potrei trovarmi un altro studio, ma non sarei…come dire… una “figlia di nessuno”» sospiro e poi continuo. «Ma sentimi. Proprio tutti i motivi per cui ho sempre detestato l’idea di fare l’avvocato»
«Magari saresti brava. Di sicuro sei una che parla tanto»
Arrossisco. Ah. Sì, adesso si inizia a notare.
«Ma se volevi fare altro, hai fatto bene»
«Non sono sicura di voler fare questo. Ma intanto che mi chiarisco le idee… Oddio, sembra “che cosa vuoi fare da grande?”»
«Hai tutto il tempo per decidere»
«Guarda che tra due mesi compio 28 anni»
«Davvero? Pensavo fossi più piccola. Hai due anni meno di me»
Nemmeno tu li dimostri, Dorian Gray.
«Io pensavo vi foste sposati, nel frattempo, zio e zia» ah, ecco. Tommaso è tornato tra noi.
Io arrossisco, ma Ben ribatte:
«Esatto. E non ti abbiamo invitato, vero, Luca?»
Luca sta giocando con la tastiera del computer…oddio! La mail!
NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!
L’ha spedita! Come ha fatto??!!
«Cavolo!!» strillo
«Luca, no!!!» gli dice Ben. Ma ormai è fatta.
Ben riprende il bambino in braccio, preoccupato che io sia arrabbiata. Ma io sorrido e gli dico:
«Poverino, non lo ha fatto apposta. Dai, io rimedio e vi raggiungo. Portalo a giocare»
Chiamerò il destinatario della mail e gli dirò… Non so, che ho preso un virus e il mio pc manda mail da solo, in piena autonomia.
«Sicura? Ti aspettiamo…»
«Dove andate?» Francesca è tornata con Matteo.
«Da nessuna parte, Fra. Finiamo qui e poi andiamo a cena. Ma intanto loro possono portare i bambini a giocare»
«Giusto. Ma, Gin…sono le 18.15. prima delle 21 noi due a cena….Insomma, Arnaldo… voglio dire, per i bambini poi è tardi»
«Arnaldo dice di finire le mail e di andare» scuoto la testa, perplessa. «A te manca molto?»
«Cosa? Veramente no, ma… appena torna, ci darà altro da fare»
«No» interviene Ben «Perché gli ho fatto capire che posso convincere Ginevra a mollarlo e a venire a Londra con me e quindi oggi, almeno, sarà gentile»
Scoppio a ridere.
«Ah ecco. Non avevo capito il motivo della sua improvvisa gentilezza»
Finirà che mi abituerò ad essere salvata da Ben Barnes.
 
Un’ora dopo, siamo libere. Arnaldo voleva trattenere almeno Francesca, ma forse la paura che potrei convincerla ad espatriare con me se mai decidessi di andarmene e che così perderebbe due persone invece di una lo ha reso remissivo. Finché dura.
Voliamo al B&B a farci una doccia, ci vestiamo e trucchiamo al volo e in mezz’ora siamo di nuovo fuori. Non sono mai stata così veloce in vita mia.
E andiamo a cena. Mangiamo in un ristorante all’aperto e sembra il paradiso. Con la sera, si è alzata un po’ di aria fresca. Ci sono le lucciole e si sente profumo di fiori.
Sospiro e mi rilasso per la prima volta da settimane. A Francesca sta probabilmente succedendo la stessa cosa perché mi guarda, sorride e dice:
«Che pace, eh? Quanto sarà che non facciamo un pasto decente sedute con calma?»
«Un mese, almeno» le rispondo.
Tommaso quasi si strozza con una bruschetta.
«Un mese? Ma come? Da quando siete qui?»
«Due giorni. Ma l’ultimo mese di lavoro prima di una manifestazione, anche in ufficio, è un inferno»
Sono stanca ma serena. Guardo Luca che, in braccio a Ben, è alle prese con una fetta di pizza enorme. Gli accarezzo una guancia e lui mi sorride. È adorabile. Passerei il tempo a tenerlo in braccio io, ma si vede che stravede per Ben, e Ben per lui. E sono così belli insieme. Potrei passare la serata semplicemente a guardarli giocare e ridere. Anzi, lasciatemi pure qui e non venitemi a chiamare.
Francesca mi lancia occhiate orgogliose e io capisco cosa voleva dirmi stamattina, che occasione di conoscere con Ben rischiavo di perdere. Sono ancora in ansia al pensiero di cosa farà domani e se oserò chiederglielo dopo, ma pazienza: Roma mica è stata costruita in un giorno.
Tommaso ci prende in giro ogni cinque minuti e, da zia e zio, è passato a chiamarci mamma e papà. Faccia pure. Ben non è infastidito. Io tantomeno. Me lo sto giusto immaginando che torna a casa la sera da me e dalla nostra nutrita prole, a Londra (ben lontani da Arnaldo!), quando la serata degenera.
Matteo - che ha insistito per sedere sulla sedia da solo e che si sta dondolando avanti e indietro da mezz’ora, malgrado Tommaso lo abbia sgridato almeno trecento volte e abbia cercato di prenderlo in braccio, senza successo - all’improvviso si alza in piedi sulla sedia e, prima che chiunque di noi possa anche solo allungare una mano, cade all’indietro con tutta la sedia.
C’è un silenzio assordante che dura mezzo secondo, e fa davvero, davvero paura.
Poi è un turbine di urla, lacrime (di Luca, disperato nel vedere il fratello che ha una ferita in testa; di Francesca, angosciata perché gli stava seduta accanto e non è riuscita a trattenerlo, e di Matteo stesso, spaventatissimo), sedie rovesciate, camerieri che accorrono, ghiaccio e – alla fine – una corsa in ospedale. Che, ovviamente, in questo paesello non c’è. Prendiamo la macchina di Tommaso e, a velocità folle, percorriamo una ventina di chilometri fino alla città più vicina.
Matteo è sveglio e cosciente, ma si è tagliato in fronte e nessuno di noi dubita nemmeno per un attimo che andare al pronto soccorso sia la cosa giusta da fare. Ben lo tiene in braccio e gli tiene un fazzoletto premuto sulla testa, con dentro il ghiaccio.
Io stringo Luca, che ancora singhiozza piano. Francesca è seduta davanti, accanto a Tommaso che guida silenzioso e pallido, e continua a girarsi in continuazione e ad allungare la mano per accarezzare i bambini.
Arrivati all’ospedale, dobbiamo aspettare quasi un’ora. Matteo si rimette a piangere, per la paura e la stanchezza, e chiama la mamma. Che però è a cena a una serata di gala con il marito. Ben voleva chiamarli, ma Tommaso si è opposto, dicendo che Matteo è sveglio e non sembra grave, e farli tornare a tutta velocità, su una strada tutte curve, di notte, quando distano più di due ore di strada da qui, è una pazzia.
Francesca si mette a cullare Matteo e lo calma al punto che, quando finalmente tocca a noi, Tommaso la prende semplicemente per mano e la porta dentro con il bambino.
Restiamo io, Luca e Ben nella sala d’attesa. Ben è pallido. Si massaggia un attimo il collo e poi tende le braccia per prendere Luca, che mi sta rannicchiato addosso. Lui tira su con il nasino. Decidiamo di portarlo fuori, per distrarlo un po’, e facciamo due passi nel giardino dell’ospedale.
Io tremo. Me ne accorgo solo quando Ben mi chiede se voglio la sua felpa.
«No, grazie… credo sia lo spavento, non il freddo»
«Sei stata un soldato. Non hai detto una parola»
«Nemmeno tu» gli sorrido.
«È diverso, io sono inglese» scherza, sorridendo.
«Ah sì? Sei molto pallido per essere un inglese»
Luca, che non ha detto una parola praticamente dal ristorante, mette le manine attorno al collo di Ben e sussurra qualcosa. Ben si ferma subito e, mentre gli accarezza la schiena, vede una panchina e mi fa cenno di andare a sederci.
«Ma certo che Matteo sta bene, piccolo. È con zio Tommaso. Ora torna»
Luca ha la testa voltata dalla parte opposta a dove sono seduta io e non sento cosa dice, ma Ben gli accarezza i capelli e gli dice che certo, domani vanno tutti al mare, anche Matteo. Io sento una fitta al pensiero che quel bambino così dolce poteva farsi male sul serio e allungo una mano a stringere quella di Luca. Che dopo un po’ gira la testa e mi fa persino un mezzo sorriso. Io e Ben lo coccoliamo per un’altra mezz’ora, poi rientriamo e, dopo cinque minuti, Matteo torna con Tommaso e Francesca. Tutto bene, però gli hanno messo due punti. Lui è fiero della sua ferita di guerra ed è tornato il bambino simpatico e sorridente della cena. Tommaso però lo sgrida, mentre torniamo alla macchina, dicendogli che poteva farsi molto male e che cosa avrebbero detto mamma e papà? E la paura che ha fatto prendere a tutti?
Matteo sembra serenamente impermeabile alla sgridata, finché Ben non gli dice che ha molto spaventato Luca e lui dovrebbe essere responsabile per suo fratello più piccolo. Allora, improvvisamente vergognoso, prende la mano di Luca, che è ancora triste e silenzioso, e tutti e due camminano insieme, vicini e seri, davanti a noi.
Io, che non ho versato una lacrima prima (la paura mi gela e basta), ora, ovviamente, piango come una fontana. E singhiozzo così all’improvviso che spavento tutti. Mi si affollano intorno, ma io riesco solo a indicare i bambini e a coprirmi la faccia con una mano (sì, sembro sempre blob quando piango).
Alla fine, mi prendono tutti in giro. Ti pareva. Tomaso sghignazza, finalmente sereno: anche Francesca si accorge che la tensione in lui si è allentata e lo prende sottobraccio.
Ben non mi dice niente, ma, mentre torniamo alla macchina, sento improvvisamente la sua mano sulla schiena, a sorreggermi. E io, per non smentirmi, dalla sorpresa inciampo.
Lui rafforza la presa e io non lo guardo, perché non mi veda arrossire.
In macchina, i bambini si addormentano. E ti credo, è tardissimo. Tommaso chiede a me e a Francesca, sottovoce, se ci dispiace passare a casa loro, così mettiamo i bambini a letto. Noi rispondiamo che non c’è problema e, dopo una mezz’ora, arriviamo in una villa megagalattica tra i colli toscani.
Ben e Tommaso entrano con i bambini in braccio e io e Francesca restiamo in un atrio gigantesco, con una portafinestra hollywoodiana che dà su un giardino con piscina. ‘sticavoli.
Non che io abbia molta voglia di guardarmi attorno: l’adrenalina è scesa e la stanchezza inizia a farsi sentire.
I ragazzi tornano dopo una decina di minuti: i bambini non si sono svegliati  neppure quando li hanno spogliati e messi a letto.
Tommaso fa uno sbadiglio enorme, che si affretta a coprire con la mano.
«Scusatemi. E scusate per la serata, ragazze. Voi siete già stanche di vostro e…»
Io e Francesca non lo lasciamo nemmeno finire, protestiamo con foga. Cadiamo tutti e quattro su un divano (io con una certa ansia: è bianco come la neve, che succede se lo sporchiamo?), in stato catatonico. Guardiamo tutti fissi a terra, in silenzio, e combattiamo il sonno e la paura.
Io ricordo che l’ultimo pensiero cosciente che ho è per il divano candido, poi chiudo un attimo gli occhi… e, quando li riapro, ho la testa poggiata sul petto di Ben, che mi cinge con un braccio. Tommaso ci sta mettendo addosso una coperta, siamo mezzi sdraiati e mezzi seduti. L’unica luce è quella della luna che entra dalla finestra aperta. Io lo guardo assonnata e confusa, ma lui mi tira scherzosamente un ricciolo e mi dice solo:
«Buonanotte, Ginny»
Poi va a coprire Francesca.
Guardo Ben, il viso rilassato nel sonno. Sento il suo braccio attorno a me. Gli accarezzo un attimo i capelli e la fronte e lui sospira, ma non si muove.
Prima di ripiombare nel sonno, vedo Tommaso sdraiarsi accanto a Francesca e spostarle la testa sul suo braccio, per farla stare più comoda.
Poi, cedo al sonno.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Ultimatum ***


Ah. Mamma mia, cos’è tutta questa luce?
Socchiudo gli occhi. Oh no.
Odio essere svegliata dalla luce, la mattina.
Odio anche la sveglia, ma la luce proprio non la sopporto. La luce ti sveglia anche prima che la sveglia suoni. Ed è semplicemente inaccettabile. Per questo dormo sempre con le finestre sbarrate e le tende tirate.
Ucciderò Francesca: sarà stata lei a lasciare la finestra aperta. Io non sono stata di sicuro. La ucciderò, appena mi riprendo.
Giro la testa per seppellirla sotto il cuscino, sperando di riaddormentarmi, cosa che so bene, non succederà mai e … apro gli occhi di scatto.
Oddio.
In effetti, mi sembrava che il cuscino avesse una consistenza strana.
Non è un cuscino.
È Ben.
Mi tornano in mente subito i ricordi di ieri sera. La cena, i bambini, l’ospedale. La villa. Ci siamo addormentati tutti, sfiniti. E adesso …
Adesso, io e Ben siamo su un lato del divano, ancora abbracciati. Per la precisione, lui dorme disteso sulla schiena e io, per metà, gli sono stesa sopra. Mi tiene un braccio attorno alla vita, mentre l’altro è abbandonato e la mano è sul tappeto. Io ho una mano appoggiata sul suo petto e l’altra sopra la mia testa, vicino alla sua guancia. Ho una gamba tra le sue e l’altra… non me la sento più. Ce l’avrò ancora?
Bene, me ne preoccuperò dopo.
Mi fa male tutto, sono scomodissima e – cosa ben peggiore – ho dormito con le lenti a contatto, per cui mi sembra di avere sabbia negli occhi … ma sono la persona più felice al mondo. In un attimo, mi sento timida, eccitata e un milione di altre cose. Ho dormito con Ben!
Cioè no, non ho dormito con Ben nel senso che … insomma, ci siamo addormentati, non è una cosa romantica, però in un certo senso invece sì che è una cosa romantica: chi l’avrebbe detto, tre giorni fa, che non solo avrei incontrato Ben Barnes ma ci avrei pure dormito insieme? (Non dormito dormito, ma insomma … dormito). Poteva spingermi giù dal divano, tanto per dirne una. E invece mi ha abbracciata!
Non vorrei, ma il mio cervello rompiscatole mi lancia dei messaggi: devo aver letto da qualche parte che è un istinto normale abbracciare la persona che hai accanto mentre dormi. Uff. Dove ho letto questa cosa? In una ricerca scientificamente provata? Perché non mi convince troppo come tesi: il mio amico Luca mi racconta sempre che la notte non riesce ad abbracciare la sua ragazza, non riesce nemmeno a stringerla prima di addormentarsi, perché se sta abbracciato a qualcuna non riesce a trovare la posizione per dormire. E quindi? Allora non è vero? Bene!
ARGH.
Mi coglie un altro pensiero. A dir poco angosciante.
Non avrò mica … non avrò osato parlare nel sonno? O addirittura russare?
Oddio, no! Ti prego, ti prego, no. A me di solito non capita. Di solito. Il che significa che qualche volta sì, succede. Per fare un esempio, la prima trasferta di lavoro che ho fatto con Francesca è stata a Palermo e, la prima notte, ho parlato nel sonno. Le ho chiesto – a quanto mi ha detto lei, perché io non mi ricordo assolutamente nulla – il Corriere della Sera. Lei non ha capito che stavo dormendo ed  andata a prendermelo nella hall. Alle 5 di mattina, in pigiama.
Se ci penso ancora mi viene da ridere.
Ma oggi non c’è proprio niente da ridere. Cerco di calmarmi ripetendomi “Tu non parli e non russi quasi mai di notte” … ma come faccio a saperlo, in realtà, se io dormo sempre da sola, eccetto che per le trasferte?
Vorrei gemere e disperarmi, ma non posso assolutamente. Non posso nemmeno muovermi, perché lo sveglierei. Comunque, Ben pare dormire della grossa. Non si è nemmeno mosso. Non credo che – nell’eventualità terribile che io abbia russato, grugnito o altro – si sia svegliato. Se fosse, potrei sempre negare e dire una cosa tipo: “Impossibile, sono stata sveglia tutta la notte, perché tu ronfavi come … un maialino.” Ecco. No, assolutamente no. Come mi vengono certe idee? Ah!!! Dirò che Francesca e Tommaso ronfavano come due maialini.
Contorco il collo per guardare alle mie spalle e vedo i due in questione dormire abbracciati. Ehm. Sono rotolati per terra. E non sembrano stare scomodi, visto che sono entrambi sdraiati su un fianco e si tengono abbracciati. Ma proprio abbracciati: lei gli sta rannicchiata contro il petto e lui ha un braccio di traverso sui fianchi di lei. Lei ha un lieve sorriso stampato in viso. Che belli che sono.
No, basta, devo fare qualcosa. Guardandoli dormire così sereni sento che mi si scalda il cuore. Potrebbero essere davvero una bella coppia. Altro che quel gorilla del capo.
Ok: programma del giorno: combinare qualcosa tra Francesca e Tommaso. Che va, nell’ordine, tra la rassegna stampa, la scaletta interviste di oggi e, più in generale, la sopravvivenza all’ultima giornata di manifestazione. E Ben, ovviamente.
Ben. Lo guardo di nuovo. Ha il viso rilassato nel sonno, le labbra morbide socchiuse, e respira tranquillo. Il suo petto si alza sotto la mia mano. Gli stringo leggermente la maglietta e appoggio di nuovo la testa poco sotto la sua spalla. Adesso mi viene l’ansia di pesargli addosso.
Ma insomma Gin! Ha dormito così tutta la notte, se stava scomodo o soffocava si spostava, no?
Ok, bene. Giusto. Bando all’ansia. Sono capace di godermi il momento. Anzi, devo proprio.
Oddio, che male gli occhi. Saranno rossi come quelli di Dracula. E mi sarà scolato il trucco. Aiuto! Gozilla! Devo alzarmi e andare in bagno a darmi una sistemata. Però non posso.
Passa qualche minuto. Hum. Vorrei muovere il braccio destro, perché inizio a sentire che formicola. Che fastidio. Ma dove lo metto, poi?
Chissà che ore sono. Oddio, dobbiamo tornare! C’è il lavoro. No, magari è presto. Spero, altrimenti ci troviamo Arnaldo armato fino ai denti davanti alla porta di casa.
Chissà come stanno i bambini. Qui non si sente niente.
Oddio, mi scappa la pipì…
Eh no, basta!!! Mi detesto da sola. Insomma, basta. Stacchiamo la lampadina. Se non posso dormire, potrei almeno riuscire a non pensare per un po’?
Guardo Ben che dorme sereno e chiudo gli occhi. E il suo battito cardiaco mi calma. Lo ascolto e mi rassereno.
Che pace, potrei restare qui per una settimana, braccio formicolante a parte. Ma chissene…AAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHH!!!!
Cos’è che vibra??
È la mia tasca… il cellulare!
Cerco di muovermi piano, ma è inutile: Ben apre gli occhi. E dall’occhiata che mi rivolge anche lui, per un attimo, non sembra rendersi conto di dove siamo.
Gli poso una mano sulle labbra prima che dica qualcosa e con la testa indico Francesca e Tommaso, poi cerco piano piano di districarmi da lui. E il maledetto cellulare ancora vibra.
Ahi. La gamba. Sono in piedi e mi muovo tipo Igor (il mostro zoppo) mentre esco dalla portafinestra del balcone. La luce mi acceca. Estraggo il telefono dalla tasca, maledicendo chiunque mi abbia fatta alzare da quel divano, e quello non suona più.
Sto meditando se lanciarlo di sotto - così se la chiamata era di Arnaldo, può anche diventare decrepito nell’attesa che lo richiami – quando sento una voce dietro di me:
«Ma chi è che ti chiama alle 6.30 di mattina? Se mi dici che è quel tizio …»
«Scusa» bisbiglio «Non volevo svegliarti»
Mi volto a guardare Ben e arrossisco. Ha gli occhi gonfi di sonno, con una mano si arruffa i capelli e mi guarda storto.
«Scusa…» gli dico ancora.
Lui improvvisamente sorride.
«Non fare quella faccia. Sembri una bambina che aspetta un rimprovero. Non sono arrabbiato. Cioè, sì, sono arrabbiato, ma non con te. Sono arrabbiato con chi ti ha telefonato»
Fa uno sbadiglio enorme, che si affretta a coprire con una mano, e crolla sul dondolo. Bello: non avevo visto che c’era anche un dondolo. Tra l’altro, è coperto di cuscini morbidi e invitanti e io mi trattengo dall’andare a sedermi vicino a lui. Sono un attimo timida. Insomma, abbiamo dormito insieme (lo so, sono un disco rotto)… ma a lui il pensiero non fa effetto?
«Sai, io la mattina sono un orso. Mi piace dormire e…»
Si interrompe, perché il mio cellulare si rimette a vibrare. Io lancio un’occhiata al display, inferocita perché sicura di vedermi la scritta “Capo” che lampeggia, e invece vedo “Mamma”. Rispondo subito:
«Ma perché mi chiami a quest’ora? È successo qualcosa?»
«Ginevra» ahi. Brutto segno. Non mi chiama mai Ginevra, a meno che non sia arrabbiata. «Ma si può sapere dove sei?»
«Ehm … sono al lavoro… no?» azzardo. Veramente, ora come ora no. Guardo Ben, cha ha appoggiato la testa sui cuscini del dondolo e ha socchiuso gli occhi.
«Cosa? A quest’ora? Ma quel negriero lo sa che la schiavitù è stata abolita?»
«No. Sì. Vabbè, lasciamo perdere. Sono sveglia – mi hai svegliata tu, veramente – ma non sono al lavoro. Che succede?» magari non ti dico che sono nella villa di due estranei e che ci ho passato la notte, ma non preoccuparti mamma, uno di loro è Ben Barnes: potevo essere più fortunata?
No, meglio che sto zitta.
«Ma come che succede? Non chiami da due giorni! Non sapevo se era successo qualcosa e mi sono preoccupata!» il tono si ammorbidisce «Stai bene, vero, Gin?»
Mi sento una capra.
«Oddio, scusa! Due giorni? Davvero?» io e mia mamma non facciamo passare un giorno senza sentirci, nonostante i miei e i suoi orari infernali.
«Mi dispiace tantissimo. Davvero. Solo che qui è il solito delirio, il capo è pazzo, io mi faccio in quattro, ma…»
«Bè, Ginevra» ahi. Non ci siamo. «In effetti, lo sai benissimo che si comporta così. Lo fa sempre. Non puoi aspettarti niente di diverso se non rivendicate mai…» attacca il discorso “mamma-odia-Arnaldo-ma-te-lo-mette-da-un-punto-di-vista-professionale”.
Io sospiro. Lo so che quando parte in quarta su un argomento che le sta a cuore o che la fa arrabbiare potrebbe andare avanti per ore. Anche io sono così, ho preso da lei. Solo che, mamma…alle 6 di mattina mi devi tenere mezz’ora al telefono per dirmi che Arnaldo è stronzo? Lo so già! Mi guardo le scarpe e medito di stramazzare per terra.
Inutile. La devo fermare.
«Tesoro, stop! Lo so, so tutto. Lo odi. Anche io. Perché sei già sveglia a quest’ora?»
«Non è che lo odio, è che è un approfittatore! Comunque, tuo fratello stamattina ha una conferenza importante, deve alzarsi tra un po’»
Sicuro. Mamma lo chiamerà (sua altezza non si sveglia con la sveglia, è troppo traumatico), lui si riaddormenterà, per svegliarsi dopo almeno un’ora, incavolato con il mondo per non essere stato chiamato per tempo.
«Ma regalagli una sveglia! Tanto lo sai che non si alza»
«Stella, non essere cattiva con tuo fratello» ma la sento che sorride «Dovrò chiamarlo solo trecento volte, non si alzerà e poi sarà colpa mia se arriva tardi»
«Appunto»
«Ti ricorda qualcuno?»
«Hum» fingo di pensarci «Occhi azzurri, veste elegante e lo hai sposato?»
«Brava. E, a proposito di tuo padre. Domani riparte il campionato. Medito di trasferirmi da te»
«Non so cosa aspetti. Ah, no, vero: mi snobbi sempre perché da me non c’è il mare»
«E ti pare poco? Ah, ma come mai ho una figlia degenere che mi abbandona per trasferirsi in una città lontana, ma ne sceglie pure una senza il mare?»
«Sì, bene, miao, devo andare …» le dico scherzando.
«Lo sai che è vero. E tu, perché sei sveglia a quest’ora, tesoro?»
Sapessi, mamma!
«Mi sono svegliata. E poi ha suonato il cellulare. Così ho risposto»
«Mi dispiace. Vai a letto. Volevo solo lasciarti un messaggio. Figlia degenere!»
«Ah-ah. Ti amo anche io»
«Mi pare il minimo. Ti chiamo dopo, bambolina»
«Ciao, mami. A dopo»
Riattacco e sorrido. Io e mia mamma siamo un po’ come due sorelle.  Butto un’occhiata a Ben, ma sembra in coma. Mi avvicino cautamente.
«Ben?»
«Mmm?»
Non molto promettente, non apre nemmeno gli occhi. Mi siedo cautamente sul dondolo vicino a lui, immobile. Do una spintarella al dondolo. Medito se sfrecciare alla ricerca di un bagno, lavarmi i denti, sistemarmi i capelli e la faccia e tornare presentabile, quando Ben apre un occhio.
«Non era il capo?»
«No, era mia mamma»
«Tu parli così con tua mamma?»
«Così come?»
«Come… con un’amica»
«Perché, tu no?»
«No, io ci parlo come con una mamma. Sì, ho mangiato. Sì, ho fatto la spesa. Sì, ho preso l’aereo. Sì, per cena ci ha pensato Jack. Jack è mio fratello»
Lo so, bello mio.
«Anche io ho un fratello. Al momento dorme.»
Sorride.
«Avvocato anche lui?»
«Ingegnere. Sono io la pecora nera della famiglia»
«Ma dai. È bello che facciate cose diverse. Io non andrei d’accordo con mio fratello se facessimo lo stesso lavoro»
«Lui cosa fa?» Lo so, ma facciamo finta di no.
«Si occupa di sport. Sono fiero di lui. Tuo fratello è più grande?»
«No, ha due anni meno di me. E anche io sono fiera di lui. Lo adoro»
«Anche il mio ha due anni meno di me»
Abbandono la testa contro lo schienale del dondolo e faccio una smorfia.
«Mi fa male il collo»
«Anche a me. Mi dispiace che hai dormito così. Vuoi andare a sdraiarti di sopra?»
«No, no, tranquillo. Grazie» arrossisco «Tu eri più scomodo, mi sa»
«Io ho dormito come un sasso»
«Ho visto» scherzo «Mi sono agitata per un quarto d’ora e non hai fatto una piega»
«Oh, scusa. Quando dormo non sento davvero niente. La mattina non sono molto reattivo…»
«Ah, ecco. Ora si spiega la tua faccia…» lo prendo in giro.
«Non vale. Non devi approfittarti e prendermi in giro solo perché tu sei bella anche di mattina »
«Ahia. Frecciatina? Non sei galante» arrossisco.
«Cosa? Ma io dico davvero!»
Eh?
«Eh?»
«Una ragazza bella, è bella la mattina, quando si sveglia. Assonnata, spettinata. Come te adesso»
Ma cosa dice? Assonnata e spettinata? Oddio!
«Hum» mugugno a disagio «Lo dici a tutte le donne con cui dormi su un divano?»
Fa un sorriso assonnato:
«No, non faccio mai complimenti se non sono veri»
Poi esita un attimo, quindi allunga la mano verso i miei capelli e si arrotola un ricciolo attorno a un dito.
E per un attimo, al mondo non esiste altro che lui che mi tocca i capelli. Il tempo si ferma. Lui non mi guarda, sta fissando il suo dito che gioca con la mia ciocca di capelli, mentre io sono paralizzata. Quasi non oso respirare.
Improvvisamente, Ben alza la testa e mi guarda. Ci fissiamo in silenzio per un paio di secondi. Io… non so cosa pensare. Non so cosa dire. Forse sono talmente sorpresa dalla piega che ha preso la cosa che non riuscirei a parlare nemmeno se volessi. Mi ha fatto un complimento. Mi ha detto che sono bella. Bella.
Oddio.
«Cosa fate?»
Sobbalziamo entrambi. È Luca, che ci guarda perplesso. Ben allontana di scatto la mano da me e si alza per prendere in braccio Luca. Che però si allontana di un passo e sbircia in salotto.
«E perché zio e Francesca dormono per terra?»
Ben è visibilmente in difficoltà.
«Ehm… perché faceva caldo, stanotte, e loro, ehm…»
Scoppio a ridere. Ma come gli viene in mente? Lui mi guarda storto. Io sorrido a Luca e gli tendo le braccia. Lui esita, poi mi viene vicino. Lo metto a sedere sul dondolo e gli accarezzo i capelli. Lui mi abbraccia e sbadiglia.
«Ti sei svegliato presto, piccolino»
«Volevo vedere se Matteo stava bene. Sta bene. Dorme e dice che non si vuole alzare» dice, tutto serio.
Sono di nuovo senza parole. Anche Ben, che ci viene vicino e mette una mano sulla testa di Luca. I nostri occhi si incrociano sopra la testa del bambino e ci sorridiamo. Poi Ben lo prende in braccio e inizia a fargli il solletico, Luca ride e strilla e, all’improvviso, sentiamo delle voci soffocate provenire dal salotto.
Ah, i piccioncini sono svegli.
Francesca esce quasi di corsa sul terrazzo e mi guarda stranita. Poi bisbiglia un buongiorno e si guarda attorno come se cercasse l’uscita di emergenza. Arriva anche Tommaso, che la guarda ma non dice niente.
Bè? C’è un silenzio imbarazzato che mette ansia. Cosa hanno combinato? Stavano dormendo!
A Ben scappa da ridere. Luca invece salta giù dal dondolo e corre dallo zio, che lo prende in braccio.
«Sei già sveglio, tu?»
«Sì. Anche zio Ben è sveglio. Voglio vedere i cartoni»
«No Luca, è troppo presto. Tua madre mi ucciderà»
Ci fa un cenno e dice:
«Scusate, vado a vedere come sta Matteo. Poi facciamo colazione…»
E se ne va. Restiamo in tre. Decisamente, c’è qualcuno di troppo. Anzi, qualcuna.
Qualcuna che però viene verso il dondolo e, come se niente fosse, si siede tra me e Ben. Proprio in mezzo.
Bene, fantastico. Cosa le prende?
Francesca sospira e fissa per terra. Ben mi guarda, io scrollo le spalle come per dire “Non ho idea di cosa stia succedendo”. Passa un altro minuto di silenzio e poi Ben annuncia che va a farsi una doccia. Ci chiede se ci serve un bagno e ci porta al piano di sopra, in una delle stanze degli ospiti. Ci lascia asciugamani puliti, ci indica un bagno (e che bagno! Ha la vasca incassata nel pavimento) e sparisce. Io trascino dentro Francesca e chiudo la porta.
«Fra, che succede?»
«Niente» ma non mi guarda.
«Dai, che c’è? Perché sei così di cattivo umore?»
«Non sono di cattivo umore»
Sospiro e mi guardo allo specchio… e mi prende un colpo. Faccio spavento. Ho gli occhi rossi, le occhiaie e il mascara un po’ sbavato. Hug! Alla faccia del “bella”!
«Fra, oddio, sono un catorcio. E Ben stamattina mi ha detto che sono bella appena sveglia. Bella. Oddio, forse non ci vede. Il che, considerando il mio stato attuale, forse è un bene»
«Ma cosa dici? È vero. Vorrei essere riccia io: non sei mai spettinata, anzi. Più hai i capelli gonfi e scomposti e più stai bene. Con dei capelli così, sei sempre bella. Hai visto i capelli di Ben? Sembrava un istrice, stamattina»
«Non è vero, è bellissimo anche spettinato. Questa è proprio una cavolata. E poi non parlavo dei miei capelli, ma della mia faccia.»
«Che è sempre la tua, Gin. Lo noto anche io, Ben ha ragione. La mattina hai gli occhi assonnati, ma ti danno un’aria…romantica»
Romantica? Vabbè, lasciamo perdere.
Apro il rubinetto del lavandino e faccio correre l’acqua.
«Dai, sputa il rospo Fra. Cos’hai?»
Silenzio. Sospiro e mi guardo attorno. C’è il sapone e – miracolo! – c’è del liquido per le lenti a contatto. Ne prendo appena un po’ per sciacquare le lenti, che al momento mi graffiano la cornea come se fossero pezzi di vetro. Ah. Tutta un’altra cosa.
Mentre mi affaccendo, Francesca bisbiglia qualcosa.
«Eh? Cosa?»
Arrossisce.
«Fra… non ho sentito. Cos’hai detto?»
«Che Tommaso… insomma. Abbiamo dormito abbracciati!»
«Lo so, vi ho visti. Anche io e Ben» sorrido come una scema mentre mi guardo allo specchio.
«Ma, ma… insomma! Io nemmeno lo conosco! L’ho visto due volte! E stamattina, quando mi sveglio, me lo trovo davanti, che mi tiene stretta. E quando mi sono mossa per allontanarmi lui…lui…»
«Lui cosa?»
«Mi ha accarezzato i capelli» bisbiglia.
Non dovrei, ma scoppio a ridere. Lei mi guarda malissimo.
«Scusa Fra, scusa. È che dalla faccia che hai non sapevo cosa fosse successo! Insomma, non è così grave, no?»
«Come no? È un gesto inopportuno!»
«Cosa? Ma dai, è stato carino. È una persona così gentile, lo hai detto anche tu…»
«Sì, ma essere gentile non lo autorizza ad abbracciarmi mentre dormo o a toccarmi i capelli. E poi è più vecchio di me e…»
Ok. Aspettate un attimo.
«Fra» la interrompo dolcemente «Sai qual è il problema?»
Mi guarda sospettosa.
«Quale?»
«Lui ti piace»
«Cosa? No!!!»
«Ma sì, invece. Per prima cosa, se lui è vecchio, Arnaldo è una mummia. Per seconda cosa, tu diventi isterica solo quando qualcosa ti sta a cuore. E poi…che c’è di male? È gentile, educato, affascinante. Si vede che gli piaci. Mi preoccupo molto di più se, di fronte a un tipo come lui, preferisci uno come il capo!»
«Non è vero che gli piaccio» arrossisce ancora di più.
«Va bene, Fra, allora io sono una zucca! E ieri sera? Altro che io e Ben, zio e zia. Voi sembravate la vera coppia.»
«Non è vero. E poi, io ho aiutato solo perché Matteo piangeva e mi ero spaventata»
Che testona. Peggio della sottoscritta, il che è tutto dire.
«Allora perché sei isterica? Dai, lo hai notato anche tu che gli interessi»
«No, io… forse… veramente… ok, sì. Mi ha chiesto di uscire»
Ammazza. Che velocità. E io che pensavo di aver fatto passi da gigante con Ben.
«Ma…è fantastico! Quando te lo ha chiesto?»
Lo è davvero. Fantastico. Sono solo un pizzico gelosa: ma perché per me non è mai così facile? Ma sono ingiusta: Fra se lo merita.
«Ieri sera. Gli stavo dicendo che oggi finisce la manifestazione e dobbiamo ripartire, al che lui mi ha detto che in ogni caso gira molto per l’Italia, che a Milano capita spesso e che, per farla breve, magari potevamo rivederci»
Colpo al cuore. È vero. La manifestazione finisce oggi. Francesca continua a parlare ma io sono in preda ad un attacco d’ansia. Oddio. Oddio, oddio, oddio. E adesso, che faccio?
«Gin?»
«Fra!!! Oddio, finisce oggi. Oddio, domani torniamo a Milano. Oh mio Dio!!! Non rivedrò più Ben! Sono disperata! La mia vita è finita!»
Silenzio. La guardo quasi in lacrime. Lei sospira.
«Ecco, ti pareva. Stavo per dirti che volevo sparire e di non contare su di me per vederli, oggi, ma chiaramente mi uccideresti»
«Certo che ti ucciderei! Ma che discorsi sono?????»
«Ok. Ci sono. Stai calma. Ma, Gin: che siano chiare due cose»
«Tutto quello che vuoi»
«Bene. Uno: tra me e Tommaso non c’è niente e mai ci sarà. Punto.»
Mi guarda severa. Figuriamoci, questo poi non esclude l’intervento di un cupido. Cioè me.
«Ok. Mai. Poi?»
«Seconda cosa: oggi tu chiedi a Ben di rivedervi. Anzi, ora che ci penso… invitalo a Milano, o nelle Marche»
Cosa? È impazzita? Non posso sottoscrivere questa clausola, Vostro onore.
«No, Fra, non posso. Per prima cosa, nessuno invita qualcuno a Milano. Che cavolo di meta turistica è?»
«Ma Milano è piena di turisti!»
«Sì, ma non è una città da meta turistica. È solo piena di cose da vedere. È diverso. Dov’è il verde, dove sono le passeggiate tranquille…»
«C’è qualche parco. E puoi camminare un sacco!»
«Sì, a velocità supersonica e a patto di non intralciare la strada altrui. Ma dai!»
«Tesoro. Tu lì vivi. Quindi, se vuoi rivedere il nostro bell’attore…»
Certo che voglio rivederlo! Ma sono cose da dirsi? Mi manca già, anche se è qui intorno, da qualche parte.
Oddio che ansia. Annuisco, ma temo sia un compito superiore alle mie forze.
“Ehm, Ben…che fai domani? Magari potresti fare un salto a Milano…aria grigia, smog, gente odiosa: la meta ideale per proseguire la tua vacanza!”
Oddio, no. Non ce la farò mai.
«Ok, brava la mia ragazza. Sono fiera di te»
«Fra…non è che glielo potresti chiedere tu?»
«Assolutamente, categoricamente: no. Devi darti da fare, Gin. Se vuoi mantenere un contatto con lui, fallo e basta. Oppure, lascialo andare e ciao»
Ma è matta? Ciao??
La guardo malissimo e lei scoppia a ridere.
«Dai, bella: fatti una doccia. La fase principessa assonnata è finita. Torna presentabile. Ce li hai i trucchi dietro?»
«Sì, ho anche lo spazzolino. Ma non ho ovviamente vestiti puliti»
«Chiedi a Ben se ti presta una maglietta»
«Cosa? Ma tu sei pazza!»
Ma lei apre la porta del bagno e grida:
«Ben!! Presteresti una maglietta a Ginevra, per favore?»
Poi ride, di fronte al mio sguardo omicida.
«Certo!» sentiamo gridare in risposta.
«Fra, io ti strozzo prima di stasera, se fai così, capito?» sussurro furiosa.
Ma lei si limita a ridere e, appena sentiamo bussare, spalanca la porta.
Oddio, muoio.
Ben è evidentemente appena uscito dalla doccia. Ha un asciugamano che gli copre i fianchi e ha i capelli bagnati. E non ha altro addosso, se non l’asciugamano. In mano ha una maglietta grigia.
«Va bene questa?»
Silenzio. Io non connetto. Lo divoro con gli occhi e basta. Francesca anche sta dando una bella occhiata. Anche troppo, a mio parere.
«Ragazze? Va bene?»
Bofonchio qualcosa che potrebbe passare per un sì e allungo la mano per prenderla. Ovviamente, mi cade subito di mano. Mi chino insieme a Ben e – non posso credere di essere così maldestra – sbattiamo testa contro testa.
«Ahi!»
«Ahia!»
Sono mortificata. Ben raccoglie la maglietta e me la porge con una smorfia, mentre alza l’altra mano a toccarsi la fronte. Francesca sbotta in una risata incontrollabile.
«Però, che testa dura» sorride.
«Scusa» sono viola dall’imbarazzo.
«Niente. Tu ti sei fatta male?»
Faccio cenno di no con la testa, pregando perché la terra si spalanchi e mi inghiotta.
«Bene. Colazione tra dieci minuti, ce la fate?»
Faccio sì con la testa, ancora sotto shock. Io, in dieci minuti? Nemmeno in trenta, di minuti. Ma per te farò un’eccezione.
Ben sorride e se ne va chiudendo la porta.
Io mi accascio contro il muro. Penso che mi verrà un infarto. Francesca ancora ride.
«Gin, stai bene?» dice, tra un singulto e l’altro.
Sto bene? Sto bene? Ma come fa a chiedermi una cosa del genere?
«Lo hai…visto? Cioè… voglio dire…»
«Sì, l’ho visto» le scappa ancora da ridere «Non fare quella faccia, dai. È magro. Tanto magro. A te non piacciono i ragazzi muscolosi? Insomma, Fabio…» si zittisce di botto.
E per me, quel nome ha l’effetto di una doccia fredda. Ma, per la prima volta da mesi, sentirlo non mi fa venire voglia di mettermi a piangere. Anzi, ora che ci penso, quando mai Fabio mi ha detto che sono bella assonnata e spettinata, di prima mattina?
Sorrido a Francesca, che sembra volersi tagliare la lingua da sola.
«Ah sì? Lo guardavi interessata, però, anche se è magro. Anzi…»
Mi metto a rincorrerla per scherzo nel bagno enorme.
«Guai a te se lo guardi ancora!!!» grido scherzosa.
Lei urla e scappa e finiamo per schizzarci con l’acqua della doccia, finché siamo fradice entrambe. A quel punto, visto che è tardi da morire, finiamo di lavarci nel caos più totale, senza imbarazzo, come due vecchie amiche. Che alla fine, realizzo, è quello che siamo.
Io ho i capelli bagnati, ma fa già troppo caldo per asciugarli. Tiro indietro il ciuffo più corto con una mollettina, mi asciugo alla meglio e metto i jeans e la maglietta di Ben. Sì, è talmente magro che la sua t-shirt, anziché andarmi larga, mi evidenzia il seno. In quella di Fabio sarei affogata.
Francesca si sta rivestendo, quando le dico:
«Magari chiedo a Tommaso se ti presta qualcosa, eh…»
Lei fa un verso strozzato e allunga una mano per prendermi il braccio, ma io la evito, spalanco la porta ed esco di corsa. Rido e finisco addosso a Ben, che probabilmente è venuto a vedere se ci eravamo perse.
«Aiuto» dico ridendo, e mi metto dietro di lui. Gli circondo la vita con le braccia e poso la testa sulle sue spalle. Lui gira il collo per darmi un’occhiata, ma io lo stringo e rido ancora, dicendogli:
«Tienimi Francesca lontana!»
«No, invece, Ben: fammela prendere e poi vedi»
«No, no, scusa Fra. Scusa!»
Faccio capolino dalla spalla di Ben e le sorrido innocentemente. Lei stringe gli occhi.
«Due regole, Ginevra. Ricordatelo.»
«Chiarissimo. Non chiamarmi Ginevra, che mi sento in disgrazia!»
Non lascio la presa su Ben e lui mette una mano sulle mie, ancora sulla sua pancia.
«Cos’hai combinato?» mi chiede.
«Io?» dico, offesissima. «E perché devo avere combinato qualcosa io?»
Ben sorride a Francesca.
«Cos’ha combinato?»
«Niente!» protesto.
«Tzè. Visto? Già Ben ti conosce.» fa Francesca. E poi guarda lui e gli dice: «Stai attento con lei: è un finto angioletto»
«L’avevo già capito» sorride lui.
Cosa? Come? Perché?
Ridono tutti e due della mia espressione confusa.
Poi Francesca mi dà una spintarella sul sedere e dice che ha fame e vuole la colazione. A me borbotta la pancia. Luca fa capolino dal corridoio, scarmigliato, e dice a Ben che non riesce a dormire e vuole vedere Shrek. Ben fa finta di essere offeso e gli risponde che no, l’unico film che può fargli vedere sono Le Cronache di Narnia, ma solo i due film dove recita lui. Io e Luca ridiamo: Luca gli salta in braccio e io, che non posso ovviamente farlo anche se ne avrei altrettanta voglia, cammino vicina a lui, accontentandomi di prendere la manina di Luca.
Incrocio lo sguardo di Francesca che mi strizza l’occhio e sorrido, felice.




 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** La migliore colazione della mia vita ***


Io adoro la colazione.
È uno dei momenti migliori della giornata. Certo, se muori di sonno, fuori piove e stai per andare al lavoro senza sapere a che ora uscirai la sera e in quali condizioni… no, non è molto bella.
Ma se sei in una villa sui colli toscani, su una terrazza baciata dal sole del mattino, con una tavola imbandita nemmeno fosse una mensa reale, con un venticello che ti accarezza i capelli e – ciliegina sulla torta – Ben Barnes che ti sta imburrando una fetta di pane?
Allora è la perfezione. Il massimo. Il paradiso.
Sospiro felice e raccolgo le gambe sotto di me. Sono seduta sul dondolo e mi schermo gli occhi con la mano, mentre guardo il panorama.
«Tieni» dice una voce – la sua voce – alle mie spalle.
Mi volto e sorrido a Ben, mentre gli prendo di mano il piatto con il toast che mi ha preparato.
«Grazie!»
Mi guardo attorno e vedo Francesca, ancora timida e sulle sue, che sta tagliando una fetta di crostata, mentre Tommaso le versa un the. Lui le bisbiglia qualcosa e lei ridacchia. E arrossisce.
Ah, che giornata interessante che si prospetta. Li guardo socchiudendo gli occhi. Poi guardo Ben: anche lui li sta fissando con un sorrisino. Si volta verso di me, i nostri occhi si incontrano, e credo di aver trovato un Cupido alleato. Bene, molto bene.
«Ginevra, ti va un the?» mi chiede Tommaso.
«Non chiamarla Ginevra: la chiama così solo il capo. O io o le sue amiche se siamo arrabbiate con lei. E lei vuole un succo, la mattina. ACE, se c’è» Francesca lo corregge, scherzosa, e mi fa l’occhiolino.
«Ginny, ti va un bicchiere di succo ACE?» ride Tommaso.
«Grazie, sì» ma sto troppo comoda seduta qui.
Guardo Ben implorante.
«Ben, per favore, mi prendi il bicchiere con il succo?»
Lui sorride.
«Ti ho imburrato già il toast…»
Lo guardo con i miei migliori occhi da panda supplichevole.
«Ben, tipregotipregotiprego, mi prendi il bicchiere con il succo? Ti prego? Per favore?»
Lui sbuffa, scherzosamente. Ma io non demordo e gli faccio un sorriso.
«Tipregotiprego…?»
E Ben cede e si avvicina al tavolo. Tommaso scoppia a ridere.
«Brava Ginny, fallo correre. Il signorino è abituato a essere servito e riverito dalle donne. È ora che cambi atteggiamento»
Ah sì?
«Non è vero» dice subito Ben.
«Tzè. Il coccolatissimo Ben Barnes» Tommaso lo prende in giro. «Coccolato dalle assistenti sul set, dalle giornaliste, dalle partner attrici… »
Francesca interviene, probabilmente preoccupata che la sottoscritta esploda come una bomba atomica nel bel mezzo del terrazzo.
«Davvero, Ben? E tu…ti fai coccolare?» domanda.
«No, per niente» le risponde Ben.
«Dai un po’ sì…» attacca Tommaso, ma Ben lo guarda male e lui si interrompe.
«Ehm… dai sto scherzando, Ben. Ginny, scherzo, davvero»
Perché guarda me? Sono rimasta a bocca aperta? Mi affretto ad abbassare gli occhi sul toast.
«Non è vero che mi faccio coccolare, ma me lo meriterei. Soprattutto oggi» dice Ben «Visto che qualcuno mi ha svegliato… » mi porge il bicchiere e mi sorride.
«Lo hai svegliato, Ginny? »
«Tecnicamente, lo ha svegliato mia mamma, che mi ha telefonato»
«Ah» dice Francesca, allegra «Come sta tua mamma?»
«Bene. Voleva sapere se ero viva, visto che non la chiamavo da due giorni. Fatto impensabile per noi, come ben sai» le strizzo l’occhio. «Grazie» dico poi a Ben, prendendo il bicchiere. Lui resta in piedi accanto al dondolo.
Francesca ride.
«Davvero! Mai vista una coppia di amiche come te e tua mamma. Però…» si mordicchia un labbro, pensierosa. Poi mi rivolge un ghigno da Stregatto. Oddio, cosa sta tramando?
«Non è giusto che tu te ne stai lì seduta tutta comoda, servita e riverita dopo che hai svegliato Ben, poverino.» gli strizza l’occhio.
«Meno male che qualcuno mi dà ragione» si lamenta scherzosamente lui. «Vedi, ascolta Francesca – mi dice – e fammi le coccole: ora tocca a te»
«Cosa? No! Mi hai solo imburrato un panino» ribatto, facendo la superiore. Ma dentro fremo.
«Ingrata!»
«Pigrone!»
«Bambini, smettetela» fa Tommaso.
Io mi raddrizzo sul dondolo e mi guardo attorno.
«Ma Luca non era davanti alla tv?»
Ben scoppia a ridere e si lascia cadere seduto vicino a me.
«Guarda che diceva a noi due…»
«Ah…Bè? Perché ti sei seduto?» gli do una spintarella scherzosa. «Io ho ancora fame. Mi tagli una fetta di torta?»
«Nemmeno per sogno. Hai ancora il toast. Che ti ho preparato io.» fa il broncio «E anche io ho fame…»
«Poverino» dico, sorridendo, e stacco un pezzetto del mio toast. «Tieni»
Lui non fa nessun gesto per prenderlo, ma apre la bocca. Lo imbocco e lui mi dice subito:
«Ancora»
Scoppio a ridere.
«Ben, sei peggio di Luca»
«No, è che ho fatto un toast buonissimo»
Lo imbocco ancora. Oddio, potrei facilmente farci l’abitudine.
«Mmmm…se lo dici tu» lo prendo in giro.
«Apprezza i suoi sforzi, Ginny. Lui in cucina è un disastro» mi dice Tommaso.
«Ma imburrare un panino mica è cucinare!»
«Invece sì!» esclama Ben, scandalizzato.
Rido ancora: si può essere più felici di me ora?
«Quindi, se ti chiedo di prepararmi, che ne so… un tiramisù, una pizza…»
Ben mi guarda smarrito.
«…un petto di pollo alla griglia, un risotto…un piatto di pasta in bianco?»
Lui resta zitto. Francesca e Tommaso ridono.
«Ma Ben!» gli dico, incredula «Un piatto di pasta in bianco! Dai, sa prepararlo chiunque!»
«Non è vero!» fa lui, testardo. «Io sono inglese, e noi la pasta non ce l’abbiamo. Una volta ho provato, ma faceva schifo! Si vede che non era buona!»
«Ma ti credo» ride Tommaso «L’hai tenuta nella pentola per venti minuti almeno! Era colla!»
Io gemo.
«Non c’è niente di più schifoso della pasta scotta»
«Brava» approva Tommaso.
«Ginny è bravissima in cucina» mi appoggia Francesca.
«Non è vero» dico subito io «So fare solo i dolci. E qualche primo»
«Mmmm, dolci!» fa Tommaso «Allora, devi cucinare per noi! »
«Ok. Fra però mi aiuta» ribatto io e, visto che lei mi guarda male temendo un mio doppio fine “cupidesco”, io aggiungo precipitosamente: «Con i secondi se la cava benissimo»
«Bene» dice Ben «Intanto, mi dai ancora un po’ di toast?»
Sospiro, fintamente esausta, e riprendo a imboccarlo. Lui mi si avvicina un po’. Quasi ci tocchiamo. Io sono in apnea, praticamente.
«Dobbiamo organizzare a Milano, mi sa» dice Francesca, tenendo gli occhi bassi, come se non fosse importante. La amo. La voglio sposare. «Noi domani ripartiamo… Intanto, Gin: stai trascurando Ben» e mi fa la linguaccia.
Ben borbotta qualcosa in approvazione.
Ah sì?
Mi sposto verso di lui e annullo la minima distanza rimasta tra noi. I nostri corpi, fianco a fianco, combaciano e io sono quel tanto più bassa di lui che mi permette di poggiargli la testa proprio tra spalla e collo. Lui inarca un sopracciglio, ma non dice niente. Avvicino quel che resta del toast alle sue labbra e lui china la testa e lo mangia.
A me è passata la fame: se potessi stare così ad ogni pasto, diventerei magrissima nel giro di un mese. Ho trovato la mia dieta ideale! Non mangiare, per imboccare Ben Barnes. Perfetto.
Peccato che lui si sia spazzolato tutto quel che rimaneva del toast in un morso solo. Bevo un sorso di succo e poi gli avvicino il bicchiere alle labbra. Beve anche lui.
E adesso?
«Non è che ti alzi tu per prendere la torta, vero?» chiedo.
«Non ci penso proprio!» ribatte.
«Lo sapevo» sospiro. «Pazienza. Finita la colazione»
«No Gin dai! Ho fame! Dai, alzati. Per favore.» stavolta me li fa lui, gli occhi da cucciolo. E sono micidiali. Mi sto quasi alzando. No, no no! Ferma!!! Orgoglio, innanzitutto. Coccolato dalle donne, eh? Io, di norma, mi alzerei. Stavolta, piuttosto tagliatemi le gambe.
Mi stringo un po’ più a lui. La sua guancia poggia sulla mia testa.
«Inutile. Sto troppo comoda.»
E chiudo gli occhi. E sento il suo braccio attorno alle spalle.
«Dai Gin, per favore» mi sussurra all’orecchio.
Oddio, ma si rende conto che potrei morire?
Mi rifiuto di aprire gli occhi perché di sicuro farei qualcosa di estremamente stupido, tipo fissarlo come un pesce lesso. O saltargli addosso davanti a tutti, in alternativa.
La sua mano si posa sui miei capelli e lui comincia ad accarezzarmeli. Oh, mamma mia.
«Fra, ci porti una fetta di torta? Anzi, due? Per favore?»
Scoppio a ridere.
«Ma sei tremendo!»
Apro gli occhi e mi allontano un po’, a malincuore. Lui però non toglie la mano e mi guarda perplesso.
Gli sorrido.
«Ora torno. Solo la torta?»
«Anche un altro toast, del the e un uovo, grazie» mi fa un sorriso micidiale.
«Oddio, colazione continentale? No, niente da fare. Solo dolci» gli strizzo l’occhio.
Mi alzo e arraffo dal tavolo quanta più roba posso: io da quel dondolo non mi alzo più! Riempio due piatti al volo, buttandoci dentro di tutto. Tommaso, che si è alzato per riempire il piatto di Francesca, mi guarda basito.
Mi rifiondo sul divano, mettendo i piatti accanto a me. Scelgo una fetta di crostata e la porgo a Ben. Lui dà un morso e, intanto, mi circonda con il braccio. Io mi appoggio a lui. Mentre Ben mangia, butto un’occhiata veloce a Francesca e Tommaso. Lei è seduta su una sedia, dritta come se avesse ingoiato una scopa, e guarda fisso il suo piatto. Testona. Lui, invece, sta comodamente seduto in poltrona, ma, palesemente, vorrebbe emulare me e Ben e dividere la colazione con lei, solo che non sa come fare. Per sua fortuna, ha un angelo custode. Anzi, due. I suoi nipotini fanno capolino in terrazza e si avventano sul tavolo della colazione.
In un attimo, sembra passato un terremoto. Tommaso e Francesca accorrono per salvare piatti e tazze. Anche Ben fa per alzarsi, ma io gli metto una mano sulla spalla e lo spingo giù.
«Lascia fare a loro due» gli strizzo l’occhio.
Lui sorride.
«Giusto. Che ragazza intelligente.»
Si allunga sopra di me per raggiungere il piatto, sceglie un biscotto e me lo avvicina alle labbra.
Ussignùr.
La mattinata si fa interessante. Molto interessante.
Do un morso e lo guardo negli occhi. Anche lui mi guarda.
È … non lo so.
Non so cosa dire. Vedo solo i suoi occhi. Io pensavo di avere gli occhi scuri, ma in confronto ai suoi sono niente. Quasi non si distingue la pupilla. Ecco cosa si intende per occhi neri. Ho sempre pensato che fosse un’esagerazione, prima di guardare negli occhi di Ben.
Ho lo stomaco annodato. Vorrei alzarmi e ballare il can can, il waka waka, qualunque cosa.
Ma ovviamente non è il caso.
Opto per un altro morso al biscotto. Ben mi passa un dito sulle labbra.
Io tremo – letteralmente, tremo - e lui se ne accorge. Fa un mezzo sorriso.
Io vorrei reagire con uno scatto del tipo “Questo sorrisetto cosa vorrebbe dire? Non penserai che io muoia per te solo perché sei il ragazzo più bello del mondo?” , ma siccome io letteralmente muoio e sono sicura, assolutamente sicura, che lui sia il ragazzo più bello del mondo, non mi sembra il caso. Non mi fido a parlare, inoltre. Direi sicuramente una qualche cavolata di cui mi vergognerei per il resto della vita.
Per la prima volta in quasi 28 anni di vita, non sento il bisogno di esternare le mie emozioni parlando. E io non sto mai zitta, mai.
Capite che è una rivelazione, una cosa di una portata indicibile.
Uno tsunami.
E non mi sembra nemmeno il caso di stare troppo a pensarci: cavalca l’onda Gin!
Mi accoccolo vicino a lui e gli circondo la vita con un braccio. Lui si stringe subito a me.
«Vuoi mangiare qualcos’altro?» mi sussurra.
Io annuisco.
Non ci posso credere. Non posso credere che tutto questo stia capitando a me.
A me, Ginevra Morelli.
Cos’ho fatto per meritare una dono del genere?
Va bè, ci penserò dopo. O magari domani.
Ben mi accosta alle labbra una fetta di torta Margherita.
«Chi cucina, in questa casa?» gli chiedo sorridendo prima di addentarla. Buonissima.
«Un po’ Tommaso e un po’ Livia. Questa però è del fornaio. E poi ci sono io» scherza.
«Ah, bè, allora…» lui mi tira una ciocca di capelli.
«Ehi. Guarda che non ti do più niente da mangiare»
Lui fa per protestare e muove la mano con la quale tiene ancora la torta. E così facendo mi copre di zucchero al velo.
«Ah!!!»
«Oh, scusa!» scoppia a ridere.
Ecco, vedi. Ecco la compensazione universale all’attimo di beatitudine di poco fa.
Quanto sembrerò scema, da uno a dieci? Undici, scommetto.
Ma Ben posa il resto della torta e mi passa una mano tra i capelli. Peggio: zucchero ovunque. Io me lo tolgo dal viso e lui mi passa una mano sulla maglietta.
Ehm.
Questo non doveva farlo. Era una carezza, più che un tentativo di togliere lo zucchero.
Lui esita un attimo e poi posa di nuovo la mano, delicatamente, sulla mia spalla. Con il pollice mi fa una carezza sulla pelle, tra la spalla e il collo.
Oddio. Oddio, oddio, oddio!!!!!!!
Lascio perdere il tentativo di sistemarmi i capelli (mezzi bagnati, con lo zucchero…voglio vedere che casino avrò in testa!) e lo guardo con gli occhi sgranati.
Lui sembra voler dire qualcosa, poi ci ripensa.
Io chiudo gli occhi per un attimo.
«Ben…»
«Sì?»
«Io…»
«Tu?»
Ma perché ho aperto la bocca? Cosa voglio dire? Cosa sto per dire? Accidenti a me, non lo so. Non ne ho proprio idea.
«Ehm… ti lavo la maglietta, dopo, così te la ridò pulita»
Geniale, a dir poco.
Lui sorride e mi posa il palmo della mano sulla  guancia.
«No, tienila. Sta meglio a te che a me.»
Non direi proprio. Ma penso anche che non me la toglierò più. La metterò anche al mio matrimonio. Con lui, chiaramente.
Io…non so cosa fare.
L’ho già detto?
L’ho già detto, sì.
Comunque, non riesco a stare ferma per cui agisco d’istinto: mi sporgo in avanti e lo abbraccio. Gli poso la testa sulla spalla e gli stringo le braccia al collo. Lui mi circonda la vita con le braccia e mi stringe. E mi culla piano.
«Penso che potrei passare la giornata ad accarezzarti i capelli» mi sussurra.
Io certo non te lo impedirei.
Faccio correre una mano sulla sua schiena. Sono quasi in venerazione. Non mi sembra possibile.
Ora mi sveglio. Mi sveglio e mi trovo nel mio letto.
 
Ma pare di no.
Ben  è sempre qui.
 
Sento che mi scosta leggermente da sé. Alzo gli occhi e lo vedo fissarmi con un’espressione da infarto. Dolce, dolcissima.
«Chi l’avrebbe mai detto, che in questo posto avrei trovato te»
Eh?
EH????
Ah, lui lo dice? E cosa dovrei dire io??
Accenderò ceri e candele in chiesa da qui al giorno del giudizio.
Quel che temo è di avere un’espressione da beota stampata in faccia. Ma non so come fare a togliermela. Insomma, queste cose non succedono nel mondo reale.
A me, poi.
Ma la mano che stringo nella mia è vera, calda. Reale.
Intonerei l’Inno alla Gioia, non fosse che sono stonata come una campana. E che l’Inno alla Gioia è senza parole.
Ben mi sfiora la fronte con le labbra e mi fa appoggiare con la schiena allo schienale del dondolo. Poi gli dà una spinta per farlo muovere e mi accarezza il viso.
«Hai ancora fame?» sorride.
No, veramente sono impegnata a capire se il mondo si è capovolto o è solo il mio stomaco che fa le capriole. Ma tant’è.
Gli passo una mano tra i capelli.
«Sì» bisbiglio, piano.
E continuiamo a imboccarci a vicenda, abbracciati, finché non finiamo tutto quello che avevo messo nei piatti (alla faccia!). Io mangio persino un toast con la marmellata di albicocche, che proprio è una cosa che non mi piace. E mi sembra ambrosia. Il che la dice lunga sullo stato di beatitudine del momento.
Poi ci guardiamo attorno e scopriamo solo in questo momento che ci hanno lasciati soli.
Ci sdraiamo vicini sul dondolo e restiamo abbracciati e immersi nella luce del sole. Io gli accarezzo piano l’avambraccio, con la punta delle dita, e lui mi nasconde il viso nell’incavo del collo.
Occhio, che mi fai stramazzare per terra.
In tutto ciò, io sono sempre muta. Per chi mi conosce è impensabile. È il record mondiale del silenzio di Ginevra Morelli.
Ben sembra leggermi nella mente e dopo un po’ mi dice:
«Sei silenziosa»
«No» sorrido, accarezzandogli una guancia «sono incredula»
«Perché?»
No, Gin, no. NO.
Sono tassativamente vietate frasi tipo:
“Oh, bè, perché tu sei Ben Barnes” ;
“Oh, perché io fino all’altro giorno baciavo le tue fotografie che prendevo su internet, sai com’è…”;
“Oh, come cazzo è possibile tutto questo???”
 
Pensa. Per una volta nella vita, prima di parlare pensa.
«Perché…anche io in questo posto ho trovato…te» dico, esitante «E pensare che non volevo venirci, in trasferta»
Lui ride.
«Per fortuna hai cambiato idea»
«Per fortuna il capo mi ha obbligata, vuoi dire»
«Ah. Stai dicendo che devo offrirgli un caffè, come minimo?»
«Una cena! Almeno, voglio dire»
Scoppiamo a ridere e Ben mi bacia di nuovo la fronte, sussurrando piano un “già”.
Dopo pochi minuti, o forse è un’ora, o un attimo solo (non lo so, non ci capisco più niente), sentiamo una voce alterata che si avvicina.
«…Assolutamente irresponsabile. Cosa pensavi che avrei detto? Torno e mi dici una cosa del genere! Perché, perché non ci hai chiamati?»
Ben si alza a sedere di scatto. Io lo imito, ma siamo sempre mezzi intrecciati sul dondolo quando Livia e Tommaso passano davanti alla portafinestra. Lei è arrabbiatissima.
Ci vede e per un secondo la sua espressione è incredula. Poi torna a concentrarsi sul fratello e si acciglia di nuovo. Poi un’ombra passa loro accanto e viene verso di noi.
È Colin Firth. Ammazza, se è alto.
Fa anche un po’ paura, a dirla tutta, con quel cipiglio.
Si rivolge a Ben in inglese e io non capisco mezza parola, se non il nome di Matteo (nel frattempo ci siamo messi seduti, se non altro: non è molto bello che ci trovino aggrovigliati sul loro dondolo, oltretutto dopo aver scoperto che il figlio ieri notte è finito all’ospedale).
Ben gli risponde calmo e dopo un po’ il suo tono tranquillo sembra fare effetto. Colin allenta i pugni serrati e si passa una mano sugli occhi. Ben gli mette una mano sulla spalla. Mi fa una carezza al volo e spinge Colin verso l’interno della casa.
Io resto sul dondolo. Cerco di sporgermi per guardare all’interno, ma sento le voci sempre più lontane. Dopo un po’, il viso di Francesca fa capolino dietro le tende.
«Ah, eccoti»
«Fra» bisbiglio «Dove sono tutti?»
«Di sopra, credo. La mamma e il papà di Matteo e Luca sembrano parecchio incazzati»
E ti credo, che bel rientro a casa.
Ma siccome noi sappiamo che è andato tutto bene, per fortuna, ci dedichiamo alla nobile arte del pettegolezzo.
«Ma tu e Ben…» mi fa lei, gli occhi scintillanti.
«Sìììììììì!!! Fra, io non lo so, non so come sia possibile, non ci credo ancora, ma…ma…cioè, io…. Oddio, sto impazzendo. Com’è possibile, come, che proprio io nel mondo sia così fortunata?»
«Ma Gin! Che vuol dire? Perché non dovresti essere tu? Insomma, siete così belli insieme. E sembravate così dolci prima… ad un certo punto ci siamo sentiti – come dire – di troppo» poi ride «Luca continuava a chiedere dello zio e della zia, perchè stavano sul dondolo di fuori e non dentro casa con noi»
Rido, felice come mai nella vita.
«Fra, mi ha detto che gli sembra incredibile aver incontrato…me. Cioè, ma ti rendi conto?? Tre giorni fa me lo sognavo la notte, l’altro giorno l’ho chiamato coglione… sono due giorni che balbetto come un’idiota appena ce l’ho davanti…com’è possibile che gli piaccio?!»
«Io te lo avevo detto! Hai visto? Anche Tommaso lo pensa, ne sono sicura: hai sentito quando lo prendeva in giro perché si fa “coccolare” e poi ha smesso dicendo a te che scherzava?» Francesca è talmente orgogliosa, che mi sembra di aver compiuto un’impresa tipo scalare l’Everest a mani nude. Con la differenza che di scalare l’Everest non me ne frega niente, mentre di Ben…
Ridiamo insieme, spensierate.
Francesca mi sta chiedendo per la centesima volta se la colazione mi ha soddisfatta e se ho ancora fame (è proprio maliziosa, quando ci si mette), quando appare Livia.
Ci zittiamo al volo e ci alziamo per salutarla. Lei è un po’ pallida e sembra nervosa, ma ci sorride e ci dice:
«Ah, ecco le due ragazze per cui mio fratello e Ben continuano a venire in quel paesello sperduto a sentire conferenze di filosofia»
E riesce persino a dirlo scherzosamente, anche se si vede che è ancora tesa.
Noi arrossiamo, ma mentre io faccio un sorriso idiota, Francesca balbetta qualcosa di incomprensibile.
«Mi dispiace che ieri abbiate passato una serata non troppo piacevole»
Non si dispiaccia: non sa che bel risveglio ho avuto io oggi!
Non lo dico, ovviamente.
Le diciamo che ci mancherebbe, eravamo solo preoccupate per Matteo, ma lui per fortuna sta bene. E che ha due figli meravigliosi. E che Tommaso e Ben sono due bravissimi zii (il secondo è acquisito, ma è bravo lo stesso), sai mai fosse inferocita con loro.
Lei sorride, dice che lo sa (meno male) e ci offre un caffè. Io sono già abbastanza iperattiva, ma accettiamo.
Ci sediamo in terrazza e iniziamo a chiacchierare quando squilla il cellulare di Francesca. Lei impallidisce.
«È Arnaldo» mi bisbiglia.
No!!!
Francesca risponde al telefono, dopo poco lo copre con la mano e mi chiede qualcosa su una mail che ho scritto ieri.
«Sì, sì…no, certo, sì, stai tranquillo. Sì. Ginevra mi dice di sì. Davvero, tutto ok. Va bene, ne parliamo tra poco. Sì…»
I ragazzi escono sul terrazzo con Colin, che ha Luca in braccio. Matteo corre dalla mamma. Mi fa un gran sorriso mentre le si arrampica sulle ginocchia e io gli faccio una carezza sulla fronte. Ha un cerotto che gli copre i punti. Coline Livia si guardano e…accidenti, se sono una coppia innamorata. Si vede solo a guardarli. Lei gli sorride e lui si rasserena e… sembra un’altra persona. Le si avvicina per poggiarle una mano sulla spalla e si gira verso di me.
«Non ci siamo presentati. Sono Colin» mi dice piano, per non disturbare Francesca, sempre al telefono.
Mi alzo per stringergli la mano.
«Ginevra, piacere»
«Tommaso mi stava giusto parlando di te» scherza lui, ma sembra così serio che per un attimo non capisco se è una cosa positiva o no.
Tommaso sghignazza.
«No, è Ben che ti parlava di lei»
Sia Ben che Livia allungano una mano per dargli uno scappellotto ma lui si sposta verso Francesca e la prende per i fianchi per usarla come scudo. Lei, però, si agita talmente – anche perché ha addosso gli occhi di tutti - che commette un errore madornale.
La sentiamo dire al cellulare:
«Ehm…sì. Cioè, no. No…perché non siamo in paese. Cioè…»
«No, Fra!!!» le faccio un cenno, ma la frittata è fatta.
«COSA???» sento il ruggito di Arnaldo da qui. «Cosa vuol dire che non siete in paese? Dove cazzo siete, si può sapere? Voi non potete andarvene in giro, voi qui state lavorando!!!»
Francesca è impallidita e non sa cosa dire. Stavolta siamo veramente nei guai. Tommaso le toglie il cellulare di mano e cerca di calmare Arnaldo. Che però è talmente incazzato che non sente ragioni. La telefonata finisce con la minaccia che se non siamo lì entro mezz’ora, possiamo anche fare direttamente la valigia. E che ce la ricorderemo, questa giornata.
Ben mi mette una mano sulla spalla. Io quasi non me ne accorgo.
Merda, che brutto modo di scendere dalle nuvole.
Mi alzo e inizio a scusarmi con Livia e Colin. Luca mi tende le braccia e dice al padre:
«Voglio andare da zia»
«Da…zia?»
Oddio. Abbiamo lasciato Colin Firth di stucco.
Luca mi indica, Ben e io siamo rossi come due peperoni. Ma c’è di peggio.
All’improvviso sentiamo un urlo selvaggio. Francesca strappa il cellulare dalle mani di Tommaso e gli grida che lei è perfettamente in grado di cavarsela da sola, che lui non è la sua balia, né sua madre, né suo padre e che diavolo credeva di fare mettendosi in mezzo con il capo?
Oddio, Fra, zitta.
Tommaso è senza parole. Noi non sappiamo dove guardare. Lei marcia in casa e sparisce.
Guardano tutti me. Io non oso guardare Tommaso, che sembra un cane bastonato.
«Ginny» mi dice «Scusa. Io… volevo solo dare una mano…»
«Ma che dici, non ti devi scusare! Lo so che volevi dare una mano. Lo apprezzo, davvero. Anche Fra. Solo che – ehm – non se ne rendo conto, al momento»
Poi aggiungo:
«Magari vado a cercarla. Così poi andiamo. Scusate»
Ben annuisce e mi dice che ci riaccompagnano loro. Tommaso fa sì con la testa.
Coraggioso, però, il ragazzo.
 
Trovo Francesca nel bagno dove ci siamo lavate prima, in lacrime. Chiudo la porta e mi siedo vicino a lei. Le passo una mano sui capelli.
Lei singhiozza.
«Sono stata coooosì… stronza»
Mi mordo un labbro per non ridere.
«Bè, in effetti sì. Ti voleva solo aiutare. Perché hai reagito così?»
«Non lo so…non ci ho capito più niente! Arnaldo gridava, io ho detto una cazzata, i genitori di Matteo e Luca penseranno che siamo matte… oddio, c’era Colin Firth in terrazza!» dice d’un fiato.
Rido. Non riesco a trattenermi.
«Ah, ecco. Tutto si spiega. Colin Firth ti ha mandata in palla. Bè, è sposato. Però suo cognato è single e sembra interessato… scherzo, scherzo!!!!»
È capace che mi tira un pugno, per come sta questa mattina.
Ci metto un po’ a convincerla a uscire dal bagno (dice che si vergogna troppo), ma quando le ricordo che dobbiamo presentarci al lavoro o sono guai (più grossi di quelli in cui siamo al momento, cioè), schizza in piedi come un razzo.
Ben e Tommaso ci aspettano fuori, vicino all’auto. Francesca rifiuta di guardare Tommaso e mi si appiccica addosso, come a dire di non lasciarla sola.
Scusa, Fra, lo faccio per te (e per me, anche).
Vado da Ben, gli circondo la vita con le braccia e gli do un bacio su una guancia. Lui mi stringe e per un attimo ci siamo solo noi due e nessun altro.
«Se volete, scappiamo» dice Tommaso, e scherza solo in parte.
«Non è una cattiva idea» mi bisbiglia Ben.
Sorrido e ci avviciniamo alla macchina abbracciati. Io salgo e c’è un braccio di ferro di sguardi tra Francesca e Ben per chi può sedersi vicino a me.
Ma il mio principe azzurro, inutile dirlo, vince.
La guarda e le dice: «Mi siedo io vicino a Gin, ti dispiace?»
Francesca non può dire di no e si siede davanti, vicino a Tommaso. Io e Ben ci abbracciamo. Lui mi accarezza i capelli e io riesco persino a rilassarmi. Peccato il tragitto sia così breve.
Quando arriviamo, i ragazzi insistono per accompagnarci. Noi non vorremmo, soprattutto per evitare l’imbarazzo di farli assistere a una delle celebri scenate di Arnaldo. Loro sono irremovibili.
Tra parentesi, sono le 9. Nemmeno fosse mezzogiorno. Orario di lavoro perfetto.
Peccato che questo non plachi la belva.
Appena ci vede, ruggisce: «Rassegna stampa sul mio tavolo in due minuti. Filate.» poi guarda i ragazzi e scandisce: «E voi due, fuori dai piedi. Non voglio vedervi qui attorno per nessuna ragione»
I ragazzi immediatamente si irrigidiscono.
«Scusi, ma questo è un posto pubblico» dice Tommaso. «Noi stiamo dove ci pare e piace. Lei, piuttosto, stia attento a quello che fa con le ragazze, o ne risponde a noi»
«Io me ne frego di attori famosi e quant’altro. Voi avete fatto abbastanza danni distraendo le ragazze. Sparite di qui, è meglio»
Dovrei stare zitta per non inasprirlo, lo so. Già il fatto che parli così a Ben, mentre ieri avrebbe baciato la terra su cui cammina, è segnale chiaro del fatto che l’allarme incazzatura è sul rosso fisso.
Ma non ci riesco.
«Stai passando il limite» gli dico, e il tono della mia voce è talmente freddo che quasi non lo riconosco. «Io e Francesca siamo due persone e, come tali, frequentiamo chi ci pare, dormiamo dove ci pare e con chi ci pare e la nostra vita privata non ti riguarda, a patto che non interferisca con il lavoro. E non lo fa.»
C’è un attimo di silenzio in cui Arnaldo mi fissa con uno sguardo di puro odio.
Ben mi si avvicina e mi mette un braccio attorno alle spalle.
«Tu qui non ci rimani» scandisce, con la mascella contratta.
«Ben…»
«No. Gin. Tu qui non ci rimani.»
Guardo Francesca, pallida e silenziosa. Tommaso è nervoso quanto Ben e ha i pugni serrati. Oddio, non è che arrivano a mettersi le mani addosso?
Fra pensa la stessa cosa, credo, perché mi sussurra:
«Ginny, andiamo, non mettiamoli in questa situazione»
Lo so che ha ragione. Ci manca solo che faccio finire Ben sui giornali. “Attore famoso picchia capo rompicoglioni e lo manda in ospedale”
Anche se…
Sospiro, e poso la mano sulla spalla di Ben. Lo faccio voltare verso di me, ma lui, testardo, evita il mio sguardo, perché sa già cosa sto per dirgli.
Mi allontano con lui di qualche passo e gli poso le mani sulle guance.
Oddio, quant’è bello.
«So cosa stai per dirmi. Sono scema»
«No, ma non capisco come fai a sopportare una persona così maleducata e prepotente. Insomma, non esiste che per lavorare una persona si faccia trattare così»
È un discorso che ho sentito mille volte. Dai miei, dagli amici.
«Ben. Lo so. Ma cosa posso farci? È il mio lavoro. E lui è compreso nel pacchetto.»
«Ginevra, non è per forza così. A me non sta bene che tu faccia un lavoro in cui consideri normale che ti trattino con maleducazione. Come quella giornalista il giorno in cui ci siamo conosciuti. Ma che tu resti qui, con un tizio del genere per me è inconcepibile!»
Ahia. Fa più male di uno schiaffo.
Ma perché non capisce? Mica tutti siamo attori famosi trattati con i guanti. O viviamo in ville megagalattiche con piscina. La maggior parte di noi ha un lavoro di merda, non ha una casa o fa una vita di merda.
Almeno, a me tocca solo la prima di queste tre opzioni. Sono molto più fortunata di tanti altri.
Però lo so che, nel profondo, Ben ha ragione. E so anche che non sono felice. Inutile negarlo.
Ma io detesto mollare, mi sembra un’ammissione di debolezza. Non ci riesco, è più forte di me.
La mia indecisione mi si legge in faccia, credo. Mi mordo un labbro per non mettermi a piangere come una scema, davanti a tutti. Ma lui se ne accorge e, immediatamente, i suoi occhi si addolciscono.
Mi stringe tra le braccia e mi accarezza la schiena, finché non sente che mi rilasso.
«Se avete finito…» il tono di Arnaldo gronda sarcasmo.
Io inizio a contare fino a dieci (ma penso che dovrei arrivare almeno a cento), ma Ben mi dice ad alta voce:
«Io resto qui, Gin. Per qualunque cosa chiamami. Non mi muovo di qui.»
Ragazzi, ho trovato il principe azzurro.
Ben si china verso di me e mi bacia sulla guancia, vicino alla bocca.
Ehm. Mi dimentico persino di Arnaldo.
Stavamo quasi – quasi – per darci il primo bacio. Davanti al capo. Hugh.
 
Ma, mentre raggiungo Francesca e ci incamminiamo, ecco la goccia che fa traboccare il vaso.
«Oh, che bello, ecco il grande eroe» sta dicendo il capo. «Bello e coraggioso. Cosa credi, che essere un attore famoso ti renda migliore di noi comuni mortali?»
Cosa? Io e Francesca ci giriamo di scatto, giusto in tempo per vedere Tommaso che centra in pieno Arnaldo con un pugno e lo stende.
Ma non è finita qui.
Io prendo fiato, mi giro e marcio verso i ragazzi. Guardo Arnaldo, ridicolamente accucciato a terra, e scandisco:
«Sai che ti dico? Ben ha ragione. Nessun lavoro vale la mia dignità. Questo lavoro, fatto con te, tantomeno»
«Ginevra…»
«Vaffanculo» gli dico.
E poi lo lasciamo lì, per terra, a guardarci mentre ce ne andiamo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Da cento a zero in dieci secondi. Anzi, meno. ***


Che strana sensazione.
Come se fosse la più bella giornata della mia vita e, insieme, la più brutta.
Sono seduta a un tavolino dell’ormai solito bar in piazza, l’unico del paese. Ho davanti un cappuccino, come se non avessi lo stomaco annodato dall’ansia e la pancia piena per la colazione pantagruelica di nemmeno due ore fa.
Alla mia sinistra c’è Francesca, ancora pallida per lo shock. Quando me ne sono andata (mi sono licenziata! Io!!), lei non ha esitato nemmeno un attimo e mi ha seguita (senza il vaffanculo finale al capo, però. Cioè, ex capo). Ma penso che solo ora stia davvero razionalizzando il passo che ha fatto. Ha le labbra strette e sta facendo a pezzetti un tovagliolino di carta. Il suo caffè, davanti a lei, è ormai freddo: non ha nemmeno preso in mano la tazzina.
Le stringo una mano.
«Tutto ok, Fra?»
Lei mi fa un pallido sorriso e annuisce.
«Ma certo che è ok!»
Tommaso, davanti a me, sta brindando a suon di crodini ed è tutto felice, nemmeno fossi io quella che rischia di prendersi una denuncia. Francesca la pensa come me, a quanto pare.
«Tommaso, non è ok per niente. E se Arnaldo ti denuncia? Lo hai steso!»
«Macchè! Figurati se uno così mi denuncia. A parte che lo vado a cercare, ma poi lo sa che ho amici “belli e famosi” che mi proteggono» fa il verso a Ben, che è seduto alla mia destra, e gli dà un pugno scherzoso sul braccio.
Ben sorride, ma gli dice:
«Dai, le ragazze non hanno voglia di sentirne parlare. Piuttosto, pensiamo a cosa fare oggi. Io voto mare»
Francesca lo guarda scandalizzata.
«Ma noi non possiamo venire al mare! Stiamo lavorando…» la voce le sfuma. Arrossisce. «Scusate, che scema.»
C’è un attimo di silenzio rotto dalla suoneria del mio cellulare. Guardo il display. Sara. È la mia coinquilina. Sospiro. Non ho proprio voglia di parlare, ora. Avrei da raccontarle milioni di cose: “Ciao tesoro! Come stai? Io bene: qui accanto a me c’è Ben Barnes che mi tiene la mano. Sì, quel Ben Barnes. Ah, ti ho detto che mi sono licenziata un quarto d’ora fa?”
Non mi sembra il caso. Al momento, non ho forze.
«Sara, ciao» rispondo «Scusa, ma non posso parlare. Ti richiamo io, va bene?»
«Non riattaccare!!!!» mi grida.
Sospiro ancora.
«Ok, spara. Ma veloce.»
«Abbiamo un problema.» pausa drammatica. Sì, quale? Le si sarà rotta la piastra.
Va bene, sono odiosa. Le voglio bene, è che a volte fa drammi per cose stupidissime. E poi non lavora, quindi non si rende conto di cosa significa non poter stare al telefono una mattina a lamentarsi di come l’estetista le ha fatto la manicure.
Detto  questo, è una brava ragazza. Viviamo insieme da due anni e siamo diventate amiche.
«Che problema?» tento di armarmi di pazienza.
«Ehm… non abbiamo più una casa.»
Cosa?
«Cosa?»
«È passata quella stronza della proprietaria e ha fatto un casino sulla storia del tavolo. Di nuovo.»
La nostra terza coinquilina, Anna, sta traslocando in questi giorni perché non sopporta la padrona di casa, che in effetti è una pazza maleducata che non so dove abbiamo trovato, ma la casa è decente e non costa troppo, per cui ce la facciamo andare bene. Tranne che quando entra in casa nostra senza avvertirci con la scusa che deve annaffiare i suoi gerani. Maledetti gerani.
Insomma, per farla breve, Anna ci ha litigato per l’ennesima volta quando ha rotto uno dei vasi di quegli stupidissimi fiori e ha deciso che se ne va. Ma, per nostra disgrazia, una settimana fa ha bruciato il tavolo della cucina poggiandoci sopra una pentola bollente e, da quel giorno, è finita la pace tra noi e la signora dei gerani.
Ero quasi felice di partire per venire a lavorare.
«Va bene, lo sappiamo che è pallosa» tento di calmare le acque, come faccio sempre.
«Non è solo pallosa, Gin. È matta. È cattiva. Mi ha gridato di tutto e allora io ho perso la pazienza»
Sapete quante volte ho sentito queste parole? Che sono vere, lo so. Ma perché sono sempre io quella che deve raccomandare di portare pazienza?
Mi guardo attorno distrattamente. Mi sta venendo sonno. Sarà l’adrenalina che scende. Ben mi sorride e io gli stringo la mano sotto il tavolo. Lui mi accarezza il dorso della mano con il pollice.
Mmmm. Che beatitudine. Mi lascio distrarre così tanto che ci metto un paio di secondi a realizzare cosa mi sta dicendo Sara.
«… E quindi le ho lanciato contro uno dei suoi stupidi vasi di fiori!»
«COSA?» strillo, facendo sobbalzare tutti. «Sara, ma sei matta? Quella ci manda via di casa!»
«Gin, non hai capito. Quella ci ha mandate via di casa.»
«Oh, no, cazzo Sara! Ma come ti viene in mente? E quando dovremmo andarcene?»
«Ehm…» chiaramente non si aspettava questa reazione. «Oggi.»
«OGGI?» probabilmente mi hanno sentita fino a Roma. Tommaso fa una smorfia. Io me ne frego.
«Che cazzo vuol dire “oggi”? Io non ci sono nemmeno! Ho tutte le mie cose in casa!»
«Tranquilla, te le porto via io!»
«Ma come me le porti via tu? Ma via dove? Ma dove pensi di metterle? Oh, ma perché a me?» gemo.
«Senti, non preoccuparti, sto mettendo tutto in macchina di Marco» Marco è il suo ragazzo. «Porto le cose da lui e poi, con calma, te le riportiamo.»
«Ma ti rendi conto di quello che dici? Tu vai da Marco e io che faccio? Cosa dovrei fare? Torno a Milano e vado a dormire sotto un ponte?»
«Ma no, che ponte!» fa lei, serena «Ci metteremo un po’ ma qualcosa troviamo, vedrai.»
Altro pensiero.
«Sara. Le caparre. Te le ha ridate, almeno. Vero?»
«Ehm…»
Oh, no.
Sono talmente incavolata che non parlo e Sara, che mi conosce, sa che non è un buon segno.
«Tesoro, dai, non facciamone un dramma…»
Non facciamone un dramma? Io vengo sfrattata in absentia, tutte le mie cose (i miei vestiti! Le borse! Le scarpe!! Oddio!) sono affidate a quella tonta di Sara e al suo ragazzo più tonto di lei, non abbiamo le caparre in mano e io non ho più un tetto sopra la testa.
Certo, perché mai dovrei agitarmi? Facciamoci una risata sopra.
Di solito mi dispererei. Oggi, semplicemente, chi mi fa arrabbiare rischia che lo faccia a pezzi.
Mi torna persino il tono gelido che ho usato prima con Arnaldo, quando le dico:
«Sara, ascoltami, perché te lo dico una volta sola. Tu perdi una mia sola cosa, dimenticati anche solo uno spillo o rovina una sola cucitura della mia Vuitton nuova e sei nei guai. Grossi guai. Ti chiamo quando devi riportarmi le cose. Per il resto, vaffanculo.»
«Ma tesoro…» tenta.
Le attacco il telefono in faccia.
«Vaffanculo sta diventando la parola del giorno» commenta Tommaso, allegro.
«Tutto bene?» mi chiede invece Ben.
«No, per niente. Quella scema della mia coinquilina si è fatta sfrattare di casa. Anzi, ci ha fatte sfrattare. Ora sta caricando nella macchina di quello sfigato del suo ragazzo le mie cose e, semplicemente, se ne va. E io dove vado, quando torniamo a Milano? Ah, giusto, secondo voi ha recuperato almeno le caparre? Ovviamente no.»
«Hum. Intelligente.» commenta Tommaso.
«Ma che idiota!» dice Francesca «Ma no Gin, chiama la proprietaria e dille…»
«No, Fra. Niente proprietaria, lo sai che è matta. Chiamo la cavalleria.»
Ben mi guarda perplesso. Francesca comincia a raccontare a lui e a Tommaso dei vasi di gerani, mentre io digito velocemente un numero che so a memoria.
«Studio legale Morelli, buongiorno»
«Ciao Carla, sono Ginevra. Devo parlare con papà. Subito, per favore.»
«C’è un cliente, tesoro…»
«Carla, passamelo per favore. O lo chiamo al cellulare.»
Mi mette in attesa e dopo due secondi sento la voce di papà.
«Tesoro, sono in riunione. Ti richiamo tra poco. Tutto bene?»
«Papà, scusa, lo so che non puoi parlare. In breve: non ho più un lavoro e non ho più una casa. Ma sto bene. Solo che…ho bisogno di parlarti.»
C’è una pausa di silenzio. So cosa sta pensando.
«Sto bene, papà, davvero»
Non per niente, mio papà è il migliore degli avvocati e come tale resta impassibile e dice solo:
«Bene allora. Ti richiamo tra poco.»
Non vorrei essere nei panni di chi gli sta seduto davanti ora, se commetterà l’imprudenza di farlo anche solo alterare.
Tempo due minuti e suona il cellulare. Mamma.
«Amore, cosa succede? Papà dice che non hai più il lavoro»
«Mi sono licenziata. Anzi, per essere precisi, ho detto ad Arnaldo di andare… a quel paese»
«Champagne, stasera!»
«Mamma!» scoppio a ridere.
La aggiorno sui recenti avvenimenti e lei, dopo aver insultato un po’ Arnaldo e un po’ Sara, mi dice di non preoccuparmi, che ci pensano loro.
Meno male.
«I tuoi sono arrabbiati?» mi chiede Francesca.
«Credo che mia mamma sia appena andata a festeggiare» le dico, sorridendo. E poi aggiungo:  «Basta, non ci voglio più pensare. Per favore. Non stiamo tutto il giorno qui a parlare di Arnaldo e della mia ex casa, vi prego.»
E così ci alziamo e facciamo una passeggiata. Con calma, come chi ha tutto il tempo del mondo. Un lusso, per me.
Relego in fondo alla mente ogni pensiero su cosa farò domani e mi concentro sul presente. Prendo la mano di Ben. Lui mi tira vicino a sé e, quando Tommaso porta Francesca a vedere “gli interessanti scavi nella cripta del Duomo” (sì, certo), noi restiamo fuori e andiamo a sederci su una panchina.
Io mi siedo tra le gambe di Ben, di profilo: mi accoccolo contro di lui e chiudo gli occhi. Lui gioca con i miei capelli e tra noi c’è un silenzio perfetto.
Non posso proprio dire che, malgrado tutto, vorrei cancellare questa giornata dal calendario. Anzi.
Sì, il lavoro mi piaceva. Ma è solo un lavoro.
Sì, la mia casa mi andava bene. Ma è solo una casa.
Ma lui…
Apro gli occhi per guardarlo e sorrido. Con un dito seguo il profilo dello zigomo e poi gli sfioro le labbra.
Lui sorride e mi bacia la punta del dito.
Ci guardiamo per un attimo e io sento che è il momento.
Oddio, ora mi bacia.
Non c’è niente come quell’improvviso vuoto allo stomaco, quando capisci che la persona che hai davanti sta per baciarti.
Le mie amiche mi prendono in giro e lo chiamano “il radar di Ginny”, perché sostengono che non si possa “sentire” un bacio che arriva. Si capisce, a volte, questo sì. Ma non si “sente”.
Ma non è vero, io lo sento sempre.
E stavolta, non è una persona qualsiasi.
Mi scappa un sospiro mentre Ben mi prende il viso tra le mani, con delicatezza, e mi guarda negli occhi.
«Ragazzi! Andiamo?»
Ucciderò Tommaso. Adesso.
Ben fa una smorfia e poi mi bacia la punta del naso.
«Sei sicura che stai bene?» mi chiede. «Vuoi che…non so… che parliamo, che ti compro un gelato, che andiamo a dare un altro pugno al tuo capo…»
Mi metto a ridere.
«Che stiamo soli, io e te?»
Mi sorride.
«Mi sembra un’ottima idea» risponde, e si alza per dire qualcosa a Tommaso.
Io mi avvicino a Francesca e le bisbiglio:
«Se scappo via con Ben…a te va bene? Cioè, non per molto. Solo… un po’. Da soli. Ti dispiace?»
«No…» guarda Tommaso di sfuggita.
«Dai Fra, non è un orco! E poi, devi farti perdonare per come lo hai trattato stamattina»
«Lo so» sospira.
E così, io e Ben siamo finalmente soli. Facciamo un giro per il centro mano nella mano, poi andiamo a sdraiarci sotto un albero, nella minuscola pineta del paese. Che pace.
Restiamo abbracciati e parliamo, parliamo tantissimo.
Lui mi racconta di quando ha deciso di fare l’attore, delle difficoltà, della reazione della sua famiglia. Del successo improvviso e della svolta che Narnia ha rappresentato. Di quello che significa girare sempre per il mondo, essere lontano da casa.
Io gli racconto dell’università, di casa mia, di quello che sognavo di diventare e di quello che invece faccio. Del lavoro. Di come per me sia difficile ammettere di aver fatto un errore nella mia scelta lavorativa, non tanto per l’errore in sé, quanto per il fatto che sento il peso delle decisioni prese, delle scelte fatte. Contro il parere della mia famiglia.
«Sai quante volte me ne sarei voluta andare?» gli dico «Però poi pensavo: ci sono voluta venire io, qui. Contro il parere di tutti. E allora non è più la singola arrabbiatura che mi prendo. È tutto insieme. È troppo facile dire semplicemente “Oh, basta, il capo è stronzo e io non ci sto. Il lavoro è faticoso e quindi me ne torno a casa”. Se tutti facessimo basta subito non arriveremmo da nessuna parte»
«Hum, non so. Cioè, in teoria sì. Senza esagerare, però. Ma tu, dove vuoi arrivare?»
«…Non lo so»
«Ma vuoi fare questo lavoro?»
«Di nuovo, non lo so. Non era quello che sognavo. Ma mi piace abbastanza»
«”Abbastanza” non è … abbastanza, alla tua età» mi sorride.
Sorrido anche io.
«Lo so. È solo che … che io non so cosa voglio fare. Non so dove sto andando. E quindi mi limito a…andare, in qualche modo. Faccio e …  non lo so. Aspetto.» giocherello con il bottone della sua maglietta.
Mi accarezza i capelli.
«Non è da te. Voglio dire: sei indipendente, fai le tue scelte, sei abbastanza coraggiosa da portarle avanti… ma non è detto che il primo lavoro che fai sia giusto. E se fosse giusto, comunque quel posto lì non andava bene per te. Arrivare a dire che va bene anche una situazione così pur di non dire “ho sbagliato” è troppo. Sbagliare non vuol dire fallire. Non sempre, almeno. Per te, no. Vuol dire che devi – come si dice – correggere il tiro.»
«È che non so in che direzione puntare.»
«Da piccola cosa volevi fare?»
«L’astronauta»
Scoppia a ridere.
«Dico davvero!»
«Va bene, niente. Da grande, cosa vuoi fare?»
«Ben, non lo so! Davvero! Anzi, no, guarda: non voglio fare niente. Voglio stare sul divano tutto il giorno!»
«No, non sei il tipo.»
«Sì, invece. Ozio e shopping tutti i giorni.»
«No, bocciato. Odio lo shopping»
«Cosa? E io che volevo chiederti di farmi compagnia…» scherzo.
«Odio persino comprarmi i vestiti! Me li faccio lasciare dai servizi fotografici, se posso!»
«Ma smettila!»
Ridiamo e ci prendiamo in giro e poi lui si mette a farmi il solletico e io mi contorco e rido fino alle lacrime.
Rotoliamo per terra e, in un attimo, lui è sopra di me. Mi bacia una guancia, la fronte, e mi asciuga gli occhi con il pollice.
Io mi sciolgo.
Mi sfiora le labbra con le sue, leggermente.
Sento la sua barba appena accennata che mi solletica la pelle.
Probabilmente, la beatitudine è questa.
Lui gioca con le mie labbra e io stringo la presa sulla sua schiena.
E, proprio quando posa con decisione le labbra sulle mie e schiude la bocca per baciarmi seriamente, mi suona il cellulare.
Ma che cazzo!!!!
Ma chi è?
Ben si ferma e sbuffa, ma lascia le labbra quasi a contatto con le mie.
«Chi cavolo è? Guarda che te lo sequestro, quel cellulare.»
Sorrido e gli do un bacio veloce sulle labbra, mentre mi contorco per sfilare il cellulare dalla tasca dei jeans con una mano, mentre con l’altra continuo a stringerlo.
Mamma.
«Ciao, mami»
Ben alza gli occhi al cielo. Mia mamma inizia a parlarmi della proprietaria di casa e della caparra e io faccio uno sforzo per non scoppiare a ridere.
Accarezzo la nuca a Ben, che mi mordicchia un lobo dell’orecchio.
Ah, muoio!
Lui ridacchia nel vedere la mia espressione.
«Gin, tutto bene? Mi ascolti?» chiede mia mamma.
«Sì, certo» ma ho quasi l’affanno.
Spingo Ben di lato e gli rotolo sopra, invertendo le nostre posizioni.
E faccio un errore, perché lui inizia a baciarmi il collo. Di quello che mi dice mia mamma, a questo punto, capisco una parola su venti.
«Mamma, scusa, ti posso richiamare io?»
«Perché? Cosa stai facendo?»
Mmmm. Direi che non te lo dico.
«Niente. Ma…»
«Niente?» fa Ben, offeso.
«Gin! Ma sei con qualcuno?»
«No. Sì. Ehm. Con Francesca. Mamma, scusa, ti richiamo tra un attimo….ho una chiamata sotto!»
E attacco. Finalmente.
«Dispettoso» gli dico, scherzando.
Ben mi sorride e mi tira verso di lui.
Alleluja. Dove eravamo rimasti?
«Signorina! Mi scusi! Signorina!»
Mi sento tirare per la maglietta. Chi è?
È un signore anziano, a spasso con il cane. Ci guarda male e ci dice:
«Non potete stare così, per terra. Questo è un posto pubblico. Ci vengono i bambini»
Pure. Ci manca solo la denuncia, oggi. Ci scusiamo e ci alziamo tra i borbottii del vecchietto, che però si allontana veloce quando vede l’occhiataccia che gli rivolge Ben.
«A Londra non succedono, queste cose» mi dice.
«Allora vengo a trovarti a Londra» rispondo allegra «E stiamo una giornata intera distesi per terra, in un parco.»
Torniamo in piazza. Io ho una mezza idea di iniziare a urlare “Scappate tutti, c’è una bomba!!!!!” così restiamo soli e finalmente può baciarmi senza che veniamo interrotti dal mondo, quando lui si ferma di botto e mi tira per il braccio. Lo guardo e mi dice:
«A quanto pare, anche se stiamo da soli non ci lasciano in pace, quindi…»
Quindi mi bacia. Lì, in piedi, davanti a tutti.
E giuro, credevo che di baci del genere si leggesse solo nei libri.
Di baci che ti fanno piegare le ginocchia e girare la testa.
Io gli stringo le braccia al collo e il tempo si ferma. Non sento più il caldo, le voci delle persone. Sento solo il suo profumo, le sue mani, il suo calore. Ben si stacca dalle mie labbra per baciarmi la guancia e, da lì, il collo, e io boccheggio in cerca di aria. Infilo le dita tra i suoi capelli e reclino indietro la testa. Le sue labbra corrono sulla mia gola. Una mia mano scorre sulla sua maglietta: gli accarezzo il petto e l’addome. Lui geme piano e mi stringe più forte. Le nostre labbra si incontrano ancora.
Nessuno mi ha mai baciata così.
Io non ho mai baciato nessuno così.
Con una sintonia perfetta, come se non facessimo altro da una vita.
Con passione, ma anche con una dolcezza infinita.
Quando ci stacchiamo, restiamo vicinissimi. Io ho ancora gli occhi chiusi e Ben mi bacia la fronte, per poi poggiarci la guancia.
E poi lo sento irrigidirsi. Apro gli occhi e butto uno sguardo sopra la sua spalla e faccio un salto dallo spavento.
Abbiamo un pubblico schierato in fila.
E non un pubblico qualsiasi.
C’è Francesca, felicissima. C’è Tommaso che ride. Ci sono Colin e Livia, lui abbastanza sconcertato e lei sorridente. E ci sono Luca e Matteo, perplessi.
Merda.
Voglio emigrare.
Ma non possiamo restare da soli per un’ora, cazzarola?
 
Andiamo tutti a pranzo insieme – ovviamente, figuriamoci se potevamo stare in pace – e, quando ci sediamo, ci stanno ancora prendendo in giro. Ben è tormentato da Colin e Tommaso e, per farli smettere, afferra Luca e lo porta in bagno a lavarsi le mani.
A me va meglio, perché Francesca e Livia sono più discrete. Fra gongola, però. Livia mi bisbiglia che, da quando lo conosce, non ha mai visto Ben esporsi così con una ragazza.
«Sai, alla fine che fa questo mestiere spesso è molto solo. Sempre in viaggio, in giro per il mondo…. Costruire un rapporto è molto difficile. Affezionarsi a qualcuno spesso fa più male che bene… Tu, evidentemente, gli piaci davvero molto. Si vede da come ti guarda.»
Io scoppio di felicità. Racconto a Livia di quando l’ho incontrato, il primo giorno, e lei si mette a ridere. Francesca le dice che non riuscivo a dire due parole in fila perché c’era lui e, tempo una decina di minuti, siamo grandi amiche.
Incrocio lo sguardo di Ben sopra la tavola e gli sorrido. Lui sembra sui carboni ardenti.
Livia se ne accorge e ridistribuisce i posti a tavola. Rimbrotta il marito e si siede vicino a lui, mentre Ben corre a sedersi accanto a me, con Luca, e Matteo e Tommaso si mettono ai lati di Francesca.
Tra l’altro, l’atmosfera tra lei e Tommaso sembra più serena. Tommaso continua a lanciare frecciate a Ben, che da quando ci siamo seduti è rosso come un peperone e passa la maggio parte del tempo a guardare la tovaglia, e Francesca gli dà uno scappellotto in testa.
«Basta!» gli dice, sorridendo. «Sei peggio dei bambini»
Io stringo la mano di Ben sotto il tavolo e poi gli passo un menu.
Ordiniamo e ci mettiamo a parlare del nuovo progetto di Livia, quello in cui vorrebbe coinvolgere Ben.
E io non ci posso credere. Stanno parlando del film tratto dalla serie “Vampire Academy”.
Io salto di gioia sulla sedia e dico a Livia che ho letto tutti i libri usciti in Italia (in America la serie è già completa) e che avevo letto che erano stati venduti i diritti per il film.
Sul web acclamano Ben quasi universalmente come Dimitri Belikov, il protagonista maschile della serie.
«Ti ci vedo tantissimo» gli dico «Anche se Dimitri è alto più di due metri»
«Sì» dice Livia «Ed è muscolosissimo. Mi sa che dobbiamo mandarti in palestra…» scherza.
Ben geme e io rido.
«Non ho ancora accettato» dice.
«Ma devi!!!» io sono scandalizzata «È una serie bellissima! Altro che Twilight! È avvincente, i personaggi sono interessanti, Dimitri è favoloso! Dai, ti prego! Ti prego, Ben!!!»
Livia si mette a ridere.
«Sono giorni che provo a convincerlo. Aiutami, per favore, Ginevra»
«Se posso» le sorrido. «A patto che poi mi racconti tutto del progetto»
«Ma sì, lascia che ci pensi la ragazza di Ben» interloquisce Tommaso.
Lei annuisce, ma Luca reclama la sua attenzione perché vorrebbe chiedere al cameriere una pizza e due gelati per pranzo.
Mangiamo e poi Livia e Colin tornano a casa con i bambini, con la promessa di tornare la sera: la manifestazione chiude ed è previsto un concerto. Viene Jovanotti e, anche se non lavoriamo più qui, non me lo perderei per niente al mondo.
Restiamo in quattro – i fantastici quattro – seduti al tavolo. Il cellulare di Francesca squilla e lei risponde.
Subito fa una faccia costernata…seguita da un’espressione birichina.
«Ah, salve…sì, mi dica…no, certo…»
E poi mette in vivavoce. A me scappa una risatina.
È un giornalista che scrive per un quotidiano ed è una persona a dir poco imbarazzante. Infatti inizia subito a bersagliare Francesca: potete prenotarmi una stanza d’albergo? Sì, so che non mi sono accreditato, ma sono molto impegnato e ho deciso all’ultimo di venire. C’è un rimborso spese previsto? Anzi, meglio, pagate tutto voi? C’è una cena prevista per stasera? Ma qualcuno mi viene a prendere in stazione?
Ben e Tommaso sono senza parole.
E il meglio deve ancora arrivare. Quando Francesca riesce finalmente a liquidarlo, dandogli tra l’altro il numero di Arnaldo da chiamare (l’ex capo non dava mai il suo numero ai “comuni” giornalisti, ma solo ai “big”. Traduzione: le rotture tutte a noi, lui non ha mai mosso una mano nemmeno per chiamare un taxi. Ah! Voglio vedere come pensa di fare oggi, e da oggi in poi!), suona il mio telefono.
E stavolta è un giornalista odioso e viscido che ci prova con me e che fa finta di non capire i miei rifiuti, forte del fatto che non posso mandarlo a quel paese perché conosce il mio capo. Ovviamente, i viscidi sono tutti amici, tra loro. Francesca ci ha preso gusto e mi fa cenno di passarle il telefono.
«Pronto?» dice, tutta allegra.
«Ginevra, che piacere sentirti, cara» dice quello, con tono mellifluo (bleah!).
«Sono Francesca, la sua collega.»
«Ah, ciao.»
«Buongiorno, posso aiutarla io?»
«Eh…sì…no, è che volevo chiedere di quel progetto che seguite…quale…cosa…insomma, che state facendo?»
Io scoppio a ridere. A Fra manca poco e, mentre comincia a spiegargli, quello la interrompe:
«Sì, ok, bene, senti…la tua collega, Ginevra…non è che…ehm… »
«Che…?»
«Che magari…ti ha parlato di me?»
Cosa?
Stavolta è Francesca a ridergli in faccia. Lui borbotta qualcosa, offeso, ma lei gli dice:
«Sì, mi ha parlato di lei. Mi ha detto che è un vecchio e viscido porco e che le fa venire da vomitare. È contento? Addio.» e gli attacca il telefono in faccia.
Tommaso ride e le dà il cinque.
«Brava!»
«Grazie» dice lei. «Anche se forse potevo passarlo a Ben»
«Giusto, è un lavoro da fidanzato, non da amica»
Guardiamo tutti Ben, ma lui ha le labbra serrate e guarda il tavolo.
«Ben…tutto ok?» gli dico piano.
«Sì. Ma secondo me non fa ridere»
Tommaso ulula di gioia.
«Dai, non fare così! Non sapevo fossi così geloso!»
«Non sono geloso, è che penso che uno che si comporta così con una ragazza è proprio uno che va preso a calci»
Tommaso sghignazza ancora, ma io guardo Ben preoccupata. Gli faccio una carezza al volo sulla guancia, ma lui non mi guarda.
«Ben, dai. Mi dispiace. A volte succede ed è una cosa antipatica, ma…»
«Antipatica? Ginevra, aspetta un attimo. Per te è normale lavorare per uno che ti tratta come una schiava e sopportare gente che si comporta come questo qui? Per lavoro? Ma perché, tu di lavoro fai l’accompagnatrice, che deve andarti bene tutto?»
La…cosa? Cosa ha detto?
Mi zittisco, come se mi avesse dato uno schiaffo.
Incrocio lo sguardo di Francesca, che è interdetta. Persino Tommaso ammutolisce.
C’è un momento di silenzio davvero pesante. Io sono incredula. Mi salgono le lacrime agli occhi. Soprattutto perché lui non mi guarda nemmeno. Tamburella con le dita sul tavolo e guarda per terra.
Ma che cavolo succede?
«Ben, dai» gli dice Tommaso, esitando «Hai detto una cosa…cioè, insomma, so che non volevi dire questo, però…»
«No, io volevo dire proprio questo…»
Non sento la fine della frase perché mi alzo di scatto, quasi rovesciando la sedia, e mi precipito in bagno.
Mi chiudo dentro e mi guardo nel minuscolo specchio appeso al muro. Vedo una ragazza con gli occhi enormi e sperduti, i capelli in disordine (cos’è quella roba? Ah, lo zucchero al velo di stamattina) e le guance pallide. Mentre mi fisso, vedo una lacrima rotolarmi su una guancia.
Sento bussare piano alla porta del bagno. Ditemi che è lui.
Ma sento la voce di Francesca chiamarmi piano.
Apro la porta e lei entra e mi guarda dispiaciuta.
«Dai, non piangere. L’avrà detto per…per…»
Ma non sa nemmeno lei cosa dire. Io singhiozzo.
«Per gelosia!» finisce la frase e mi porge un fazzolettino.
«No Fra. Ma non hai visto che faccia? Non mi ha nemmeno guardata! Insomma, in teoria può aver ragione, ma con Arnaldo eravamo obbligate ad essere educate fino a questi estremi…»
«Esatto. E lui non lo sa»
«Ma ha ragione a dire che non è giusto. Solo che…me l’ha detto in un modo…»
Fra mi abbraccia e io verso qualche altra lacrima e poi mi sciacquo il viso, ma non ho proprio voglia di uscire di lì. Disgraziatamente, non possiamo passare tutto il pomeriggio chiuse in un bagno (tantomeno se è l’unico bagno dell’unico bar di tutto il paese).
Quindi mi lego i capelli, poi usciamo e troviamo i ragazzi fuori, che ci aspettano. Non si parlano. Ben guarda per terra e Tommaso sembra in imbarazzo. Dopo avermi gettato un’occhiata, lo sembra ancora di più: mi sa che si vede che ho pianto.
Ben non mi guarda. Tommaso propone a voce bassa un giro in pineta. Ci incamminiamo, ma la situazione non potrebbe essere più assurda.
Ben cammina con le mani in tasca e non dice mezza parola. Io nemmeno ci provo ad avvicinarmi a lui. Francesca e Tommaso cercano di tenere viva una conversazione inesistente.
Arrivati in pineta, la situazione non migliora. Ben sta sempre zitto e guarda per terra. Io fisso triste l’albero sotto il quale nemmeno tre ore fa ci siamo sdraiati abbracciandoci.
Tommaso, ad un certo punto, dice:
«Ragazze, voi cosa pensate di fare? Cioè, tornate a Milano, sì, ma quando?»
Ottima domanda. Per quanto mi riguarda, aggiungerei anche: se torno a Milano, dove cavolo vado a dormire?
Francesca mi legge nel pensiero e dice:
«Bè…non so, in teoria dovevamo tornare domani. Gin, tu puoi stare da me tutto il tempo che serve» lei sta in una casa che è di sua madre, non è in affitto. Le faccio un sorriso per ringraziarla e le stringo la mano.
«Vuoi che torniamo domani?» mi chiede.
«Io…» sbircio Ben, ma niente. Guarda sempre per terra. «…non so…»
«Magari…» esita Tommaso «Potreste fermarvi un paio di giorni da noi. Di spazio ce n’è. Andiamo un po’ in giro per la Toscana. Andiamo al mare, anche. Luca e Matteo ci resterebbero male a non vedervi più. E poi….bè, magari…insomma, forse potremmo accompagnarvi io e Ben a Milano. Io dovrei comunque andarci a breve e magari Livia per lavoro deve…»
Fa sfumare la voce. Ben sta zitto.
«Ben?» gli dice, dopo un attimo.
Lui alza gli occhi e a me prende un colpo per quanto è fredda e indifferente la sua espressione.
«Certo, come vuoi» dice, come se non potesse fregargliene di meno. «Per Milano non credo. Resto con Livia e Colin e poi, quando abbiamo deciso cosa fare per il film, torno a Londra.»
È ufficiale. Voglio morire.
Cosa gli è preso? Cosa gli ho fatto?
«Ma…» pure Tommaso è senza parole, quindi è una decisione che ha preso adesso.
Adesso, dopo che mi ha baciata e che stamattina ha detto tutte quelle cose…
Oddio, non metterti a piangere Gin. No, no, no e poi no.
«Cosa?» gli dice Ben, seccato «Non posso restare qui a tempo indeterminato. A casa mia non ci vado da mesi.»
«Sì, certo, però pensavo…»
Francesca copre la mia mano con la sua. La guardo e vedo Tommaso guardarmi dispiaciuto.
C’è di nuovo silenzio.
Io non o reggo più, bisbiglio una scusa e mi alzo.
Mentre mi allontano, sento delle voci concitate dietro di me:
«Ma insomma, cosa ti prende?» questa è Francesca, che parla nel momento esatto in cui Tommaso sbotta:
«Cosa c’è? Ti sei messo a fare lo stronzo all’improvviso?»
Non sento risposte.
Mi allontano un po’ e mi appoggio a un tronco.
Dopo un po’ sento una mano leggera che mi sfiora il braccio.
Mi volto, aspettandomi di vedere Francesca, e invece è Ben.
Mi asciugo gli occhi con rabbia, perché non voglio che mi veda piangere.
Lui resta in silenzio per un po’. Non mi abbraccia, non mi tocca nemmeno.
Sembra un’altra persona rispetto a quella che si è svegliata con me stamattina.
Poi sospira e dice:
«Gin, senti, mi dispiace. Io… volevo scusarmi per tutto. Per oggi.»
Per…oggi?
«Io…non dovevo. Insomma, non che sia niente di che, ma…»
Non che sia…che cosa? Ma cosa sta dicendo?
Evidentemente mi legge in faccia l’incredulità perché riprende a parlare e mi dice:
«Senti, sei davvero una bella ragazza…»
Oh, no. Vi prego, no.
«…ma io adesso non posso proprio impegnarmi in nessun modo con qualcuno…»
Oddio, no. Lo so come finisce questo discorso. Lo so a memoria.
«…e sì, oggi magari non dovevamo, ma comunque… insomma… bè, volevo dirti…questo»
Cosa voleva dirmi?
«Volevi dirmi…cosa?»
«Che noi…» esita, ma poi prende un bel respiro e mi dice: «Che non è come diceva Tommaso oggi. Il tuo ragazzo… ci pensa il tuo fidanzato. Non è così, Ginny. Le cose non stanno così, tra noi. È stato…solo un bacio.»
Solo un bacio? Solo un bacio?
No, scusa, ma stamattina? Le coccole, le cose che mi ha detto…
Non posso credere di aver trovato te…
Oddio, sto per scoppiare a piangere.
Per lui non significa…niente. Assolutamente niente.
Io, invece…non so cosa credevo, ma sinceramente tutto tranne questo.
«Fammi capire» dico, esitando «Ti sei spaventato perché Tommaso ti ha chiamato “il mio ragazzo”?»
«Non mi sono spaventato» dice con rabbia. «È che non è vero»
«Bene. Non è vero. Non te l’ho chiesto io, comunque. E quindi? Nel giro di quanto - due ore? - ti rotoli con me sotto un albero e poi? Non vuoi vedermi più?»
«Non è che non voglio vederti più. Se venite a casa di Tommaso per qualche giorno…»
Non ci credo.
«Non ti ho chiesto seTommaso vuole vedermi» gli dico, gelida. «Ti ho chiesto se tu vuoi vedermi»
Non mi risponde.
 
Vorrei dirgli una marea di cose. Vorrei insultarlo, prenderlo a schiaffi, dirgli che è un umorale, un coglione, un maleducato, un ignorante.
Che è un presuntuoso arrogante attore di merda che crede di essere chissà chi perché ha fatto due film al cinema e ha uno stuolo di ragazzine che gli corrono dietro da tutto il mondo.
Che è un superficiale, un idiota, uno stronzo peggiore del porco che mi ha telefonato prima. Almeno, le intenzioni di quel tipo erano chiare.
Ecco, è quello che mi merito. Cosa credevo, davvero?
Che fosse una favola? Che toccasse a me?
Ma chi sono io, per pensare che mi possa capitare una cosa del genere?
Non riesco a parlare. Ho la gola chiusa, mi sembra di non riuscire nemmeno a respirare.
Non mi perdonerei mai, se mi mettessi a piangere davanti a lui.
Giro le spalle e me ne vado.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Tuoni, fulmini e un basilisco ***


È incredibile quanto il tempo riesca a cambiare velocemente, a fine estate. Gira un attimo il vento e, d’improvviso, sembra un’altra stagione.
Stamattina era soleggiato e caldo e ora il cielo è coperto da nuvoloni grigi. L’aria è pesante, si sente che si prepara un temporale.
O sono passate tante ore e sono io che non me ne rendo conto?
Ho silenziato il telefono e continuo a ignorare il fatto che il display si illumina a intervalli quasi regolari.
Eccolo.
Vedo comparire per la centesima volta “Francesca”. Ignoro la chiamata. È lei che mi ha cercata più di tutti. Ho due chiamate del capo (pardon, ex capo: evidentemente spera in un ravvedimento. Anzi, me lo immagino mentre mi dice con la consueta prosopopea: “Ginevra, voglio darti la possibilità di rimangiarti le sciocchezze che hai detto e tornare a lavorare dodici ore al giorno, per una paga da fame. Certo, dovrai ringraziarmi copiosamente per la mia magnanimità.”, mentre mi guarda dall’alto in basso. Coglione.), sette di mia mamma, tre di Sara. Qualche numero sconosciuto. Niente da Ben, nemmeno un messaggio.
Non voglio sentire nessuno.
Avevo quasi pensato di chiamare il mio migliore amico. Ho scorso la rubrica fino a trovare il nome di Enrico, ma poi mi è mancato il coraggio. So già cosa mi direbbe. Resterebbe zitto e aspetterebbe che io finissi le parole e, poi, le lacrime. Quindi mi direbbe: “Ma come cazzo ti è venuto in mente? Non ci avrai creduto davvero?”
Poi mi consolerebbe, perché mi vuole bene. Un mondo di bene. Ma direbbe che me la sono cercata. Che io non sono una persona capace di avere una storiella senza impegno (che poi, storiella un corno. Quale cazzo di storiella prevede due carezze su un dondolo, un bacio e una pedata nel sedere a tempo di record?) e cos’altro pensavo che sarebbe stato? Una storia vera? L’inizio di qualcosa?
Non ho paura di essere giudicata, perché so che lui non lo farebbe. Ma odio l’idea di essere compatita. Di essere sempre la piccola Gin che fa – ma tu guarda! – ancora gli stessi errori.
“Gin, puoi giocare solo quando conosci e usi le stesse regole di chi gioca con te”
Me lo dice sempre.
Peccato che a me mancano proprio i fondamentali.
Sospiro e allungo le gambe davanti a me.
Sono seduta per terra nel magazzino che serve ai tecnici per riporre le apparecchiature audio per stasera. Stanno montando il palco. Io sono entrata con il badge di addetto stampa che non ho ancora restituito.
Non sapevo dove andare.
Così mi sono messa a camminare e le gambe mi hanno portata … qui.
Mi sono seduta dietro un’enorme cassa e … niente. Ho messo le cuffie e acceso l’i-pod. Stranamente, oggi non sopporto nessuna delle mie canzoni preferite. Mi fanno tutte pensare a lui. Così, continuo ad ascoltare e riascoltare Supermassive black hole. La voce di Matt Bellamy, se non riesce a consolarmi, almeno mi fa compagnia.
Non voglio parlare con nessuno. Non voglio pensare a niente.
È stupido, ma mi sento sola.
Ed è ridicolo, perché non è possibile che mi manchi. Semplicemente, non può. Due giorni fa nemmeno lo conoscevo. Nessuna persona può far breccia così velocemente, nemmeno lui. Sono solo delusa. E amareggiata. E stanca. E incazzata.
È così per forza. Pensavo che fosse un sogno. Insomma, il mio attore preferito, in carne e ossa. Ci ho fantasticato sopra e basta, mi ripeto rabbiosa.
È uno che gira il mondo. Oggi è qui, domani sarà in Australia. Dopodomani in Cina. Il giorno dopo in Nuova Zelanda.
O giù di lì.
Cosa pensavo che sarebbe successo?
Che mi avrebbe chiesto di metterci insieme? Che mi avrebbe detto “teniamoci in contatto”? Che mi avrebbe mandato qualche sms dalla cima del Kilimangiaro?
Non lo so. Non ci avevo pensato. Ma per quanto capisco che sia assurdo … questo no. Non me lo merito.
Nessuno si merita un comportamento del genere.
Poteva dirmelo subito. Poteva mettere le cose in chiaro in partenza.
Mi scende una lacrima, mentre penso che probabilmente non l’ha fatto perché per lui non ne valeva la pena. Non si sarà nemmeno posto il problema. Avrà miliardi di ragazze in tutto il mondo che aspettano solo che lui schiocchi le dita. Si starà rotolando per terra con qualcun’altra, in pineta, già adesso.
Mi scappa un singhiozzo mentre vedo nella mia mente due visi che si sovrappongono, uno delicato come una miniatura, con profondissimi occhi neri e un accenno di barba e l’altro con labbra carnose e ridenti occhi azzurri.
E tutti e due dicono la stessa frase: “Sei davvero una bella ragazza, ma…”
Ma, sempre ma. Solo ma, per me.
Quando Fabio mi ha lasciata, l’ha fatto con le stesse parole. “Sai quanto mi piaci, sei bellissima, sei intelligente, ma io non sono pronto a innamorarmi di nessuna. Nemmeno di te.”
Che cazzo vuol dire? Come si fa a decidere quando sei pronto? Ti suonano al citofono di casa?
Il fatto che Ben abbia detto la stessa cosa mi fa infuriare centomila volte di più. E se la mia parte razionale continua a ripetermi che certe romanticherie succedono solo nei film (la star internazionale che si lega a una ragazza qualsiasi), la mia parte emotiva ribatte che invece non significa proprio un cavolo.
Io sono una persona e ho i miei sentimenti e il mio orgoglio.
E pure lui è una persona. Non è un dio.
Che poi, è assurdo, ma non riesco più a pensare a Ben come a Ben Barnes. Cioè, ora è … solo Ben. Il Ben che ha dormito con me, che ha fatto colazione con me. Che mi ha baciata. Non il principe Caspian, quello irraggiungibile. Quello che vive dall’altra parte del mondo, che vedo solo nelle foto su internet e nei dvd dei suoi film.
Mi rifiuto di farmi mettere in soggezione dall’idea della sua fama. Non me ne frega niente se è famoso. Non mi piace perché è famoso. Sono allergica alla gente famosa. Mi piacerebbe lo stesso, anzi, mi piacerebbe di più, se fosse un ragazzo qualsiasi.
Avrebbe sempre quegli occhi incredibilmente espressivi e quel sorriso meraviglioso. Quella voce suadente e sexy da morire. Quel modo così dolce di fare le smorfie.
Sarà così stronzo perché soffre di un delirio di onnipotenza? Sarà un totale menefreghista? Un bugiardo così convincente? Possibile che io non me ne sia accorta?
Possibile, sì. Ero totalmente, completamente incantata.
Se un qualsiasi ragazzo normale è allergico alle relazioni stabili, figuriamoci lui.
Oh, ma vaffanculo.
Perché non sono capace di dire “Ok, basta, è stato bello. Non poteva durare. Ho baciato Ben Barnes, che è più di quanto avrei mai potuto sognare. Stop. Esci e conosci qualcun altro”?
L’idea mi fa accapponare la pelle. Già io sono difficile di mio, figuriamoci da ora in avanti. Voglio dire… Ben Barnes. Ecco.
Alzo il volume dell’i-pod e Bellamy grida a squarciagola. Vorrei che riuscisse a urlare più forte dei miei pensieri.
 
Passa ancora un po’ di tempo e sento una mano posarsi sulla mia testa.
Francesca.
«Ehi»
«Ehi» si siede per terra, vicina a me «Ero preoccupata»
«Tutto ok»
«Vedo» accenna a un sorriso «Ne vuoi parlare?»
«C’è poco da dire» stringo le labbra «Dice che non vuole impegnarsi al momento. Ah sì. Non è stato “niente di che”, testualmente. E poi cosa? Oh, si è scusato. “Per oggi”»
Francesca boccheggia.
«Ma…ma… ma insomma, cosa vuol dire? Così, dal niente? Un attimo è felice e quello dopo...»
«Non chiederlo a me.»
«Lui sembrava….triste, quando è tornato da noi. Non ha praticamente più detto una parola»
«Sto morendo dal dispiacere per lui, guarda. Io sono triste, altroché»
«Lo so» esita «Cosa pensi di fare?»
«Me ne vado a casa»
«Domani?»
«No. Adesso.»
«Cosa? Ma…pensavo volessi…» le sfuma la voce.
«Volessi cosa? Rivederlo? Perché?» esito e mi abbraccio le ginocchia. «Mi sento così stupida, Fra»
«Non devi nemmeno pensarlo. Come facevi a saperlo?»
«Ma a sapere cosa? Cosa? Io non capisco cosa gli è preso! E poi… Com’è possibile che a 28 anni mi faccio trattare così? Non sono riuscita a dire niente! Niente, assolutamente niente! Almeno potevo tirargli uno schiaffo!»
«Bè, non eri preparata…insomma, un attimo prima faceva il fidanzato perfetto e poi…» ci pensa un po’ su. «Tommaso è mortificato. Dice che non gli sembrava vero vederlo così contento e a suo agio. Dice che Ben è molto timido, che si apre difficilmente…e invece con te… solo che poi non sa cosa gli è preso. Ben non gli ha spiegato nulla.»
Mi odio, ma la domanda che mi ronza in testa la faccio lo stesso.
«Dov’è adesso?»
«Ben? »
Annuisco.
«Non so. A meno che non sia rimasto sulla panchina in pineta. Tu non tornavi, lui non ci diceva niente… insomma, io a un certo punto sono venuta a cercarti. E Tommaso è venuto con me»
«Oddio. Che figura da cretina totale. Con Tommaso, con te, con tutti.» ho dei flash di me e Ben che giochiamo a fare i fidanzati. «Chissà cosa credevo…»
«Ma smettila. Insomma, adesso sarebbe colpa tua?»
«Sì» dico con rabbia. Mi sento così e non ho voglia di spiegarmi o di farmi consolare. Voglio autocommiserarmi da sola, e basta. «Sarà meglio che vada a fare la valigia»
«Gin, dai, ascolta. Non è il caso. Come fai a tornare? A che ora arriveresti? Da qui devi arrivare a Firenze e ci sarà un treno ogni morte di papa. Poi, anche se arrivi a Milano, dove vai?»
Ci penso un attimo.
«Magari non vado a Milano. Torno a casa.»
«Ah. Ma…ma poi torni, è vero?»
«Non lo so Fra. Insomma, nel giro di un giorno ho perso lavoro e casa. Magari è un segno»
«Dici così perché sei triste e arrabbiata. Ma… hai sempre detto che questa era la tua sfida… e che a casa non volevi stare…»
«Vero. Poi ho trovato un lavoro di merda, una casa di merda e poi ho perso tutto. Se faccio un bilancio, non è esattamente positivo, ecco»
Lei prova a dissuadermi, a convincermi, ma io sono irremovibile e, ad un certo punto, Fra scoppia a piangere.
«Fra!!! Ma perché piangi?»
«Perché…perché…» singhiozza disperata «Ho perso il mio lavoro, e ci tenevo tanto. Davvero. E ora tu te ne vuoi andare e io mi sento…sola. Pensavo che avremmo cercato qualcosa insieme, o che…non so… insomma…tu sei sempre così decisa, forte, più forte di me. E se tu molli allora io…»
Ora mi sento pure un mostro.
 Cerco di calmarla ma allo stesso tempo non le prometto niente, perché davvero non riesco a pensare con lucidità e prendere una decisione ora è fuori questione.
Certo, a casa morirei di noia, ma almeno sarei a casa. A Milano troverei qualcosa da fare, in un modo o nell’altro, ma mi sentirei sola come un cane. Belle prospettive entrambe, non c’è che dire.
Pazienza. Domani. Ci penserò domani.
Riesco a convincere Francesca a uscire, dicendole che, tra le altre cose, stiamo intralciando il lavoro dei tecnici. Emergiamo dal magazzino e, subito, vedo Tommaso venirci incontro. Guarda me e poi Francesca, che ha ancora gli occhi rossi, e accelera il passo.
«Ragazze, tutto…ehm…bene?»
«Questa è veramente la cosa più stupida che abbia sentito dire oggi» ma riesco a sorridergli. Lui ricambia.
«Bene, me lo merito. Allora, che si fa?»
«Si torna a casa. Io, almeno» gli sorrido di nuovo. «Fra però resta. Non farmene pentire, se te la affido, ok?»
«Rimani anche tu» mi dice lui.
«Mi dispiace, è escluso» gli rispondo, categorica. «Dobbiamo lasciare il B&B, perché vedrai se Arnaldo non ha già provveduto a disdirci la stanza. E da te… non mi sembra il caso, ecco».
«Gin, senti. Secondo me si sistema tutto. Dovete solo prendervi un attimo e… »
«No» lo interrompo. «Non voglio nemmeno sentirne parlare»
Poi addolcisco il tono, perché mi rendo conto che sono stata davvero odiosa. Non è colpa sua, poveretto.
«Davvero, non voglio. Detesto l’idea che la situazione diventi imbarazzante per tutti. Perché sarebbe così. Anche per te, Livia e Colin. Voi dovete godervi le vacanze, non preoccuparvi per me»
«Ma il punto è che dovremmo goderci le vacanze insieme!» tenta lui «senza di te Francesca sarà infelice! E Luca: come faccio a dirlo a Luca?»
Fa un’espressione comica e io, malgrado tutto, rido. Poi lui aggiunge, dolcemente:
«E comunque, per la cronaca, io mi preoccupo per tutti e due. Per te e per quel testone del mio amico, che non so cos’ha in testa, ma che è un bravo ragazzo. Non giudicarlo male. Forse…»
«Non è questione di giudicare» sono divista tra l’imbarazzo di parlarne con lui, che è suo amico e che io non conosco praticamente per niente, e il bisogno quasi inconscio di avere una parola di conforto da chi lo conosce, da chi potrebbe dirmi che una spiegazione c’è, che si può tornare indietro…
Ma lo so che non si può.
«Solo, penso che si merita un gran calcio nel sedere.» tento di buttarla in scherzo, ma non mi riesce troppo bene.
«Mi pare il minimo» concorda lui. Ma tanto, a che serve?
Malgrado le insistenze combinate di Francesca e Tommaso torno al B&B e loro mi accompagnano. Pensare che quando me ne vado di qui di solito sono felice come una pasqua. La signora che gestisce il B&B ci conosce bene, perché dormiamo da lei tutti gli anni. È stupita perché ce ne andiamo così e borbotta qualcosa di poco lusinghiero su Arnaldo quando le diciamo che le cose non si sono proprio messe bene con lui. Per usare un eufemismo.
«Due ragazze così brave!» ci dice «E quello lì, a trattarvi come le sue schiave!»
Poi guarda Tommaso.
«Tu sei il fidanzato di Francesca?»
Lui, giuro, arrossisce. Lei è cremisi, ma prima che possa negare io annuisco e strizzo l’occhio alla signora.
«Che bella coppia!» dice, contenta. Poi guarda me. «E tu, tesoro? »
Ahi.
«Io, niente» le dico. Lei mi guarda perplessa.
«Ma una ragazza bella come te…»
Sì. Soprattutto fortunata, direi.
«Il suo ragazzo sta facendo un momento lo stupido, ma gli passerà» dice Tommaso, deciso. E resta fermo anche davanti alla mia occhiataccia.
«Se non gli passa, tesoro, peggio per lui! Te ne trovi un più bello! Poi vedrai come torna!»
Fosse così facile, signora…
«Ehm, bene. Vado a fare la valigia» dico, precipitosamente.
Alla fine, sia io che Fra raccogliamo tutte le nostre cose e usciamo.
 
Francesca e Tommaso stanno discutendo da mezz’ora su quale sia la cosa migliore da fare (“Non posso lasciarla andare da sola” , “La porto io in macchina a Firenze” , “La portiamo da te di peso?” , “Ma se vi fermaste entrambe… ” , “In effetti forse un rapimento è la cosa più semplice”) e io ormai faccio finta di non sentirli più, mentre cammino verso la stazione con loro in coda.
Mi guardo attorno per l’ultima volta: non ci tornerò più, qui. Di sicuro non per lavoro; come turista direi che ormai so anche quanti sassi ci sono a terra nella piazza; a livello emotivo … bè, piuttosto andrei a farmi un viaggio di piacere in una discarica.
Ma senti quei due che ancora parlano. Che coppia, ragazzi.
Forse dovrei convincere Francesca a non sprecare questa occasione.
Che buffo, si sono invertite le parti.
Butto un’occhiata distratta al tabellone delle partenze e mi prende un colpo. Niente treni. Ma come niente treni per Firenze fino a domani?
Scherziamo? Io me ne voglio andare! Adesso!!
Mi leggo tutta la lista dei treni in partenza (che sono tipo due, quindi non ci metto molto) e poi litigo con il signore della biglietteria, ma niente. Non c’è niente.
Non c’è un autobus, non c’è mezza possibilità di muovermi di qui fino a domani mattina.
Che giornata di merda.
Lancio un’occhiataccia a Tommaso e Francesca che si stanno sforzando di non apparire compiaciuti, ma con scarso successo. Odio l’idea di darmi per vinta, ma che alternative ho?
Faccio finta di concentrarmi sugli orari degli autobus locali mentre rifletto sulle mie inesistenti opzioni.
B&B? No.
Casa di Tommaso? NO.
Quindi? Dormo sotto il palco?
Meraviglioso.
E non è ancora finita.
Mi volto con un cipiglio minaccioso. E mi vedo davanti Ben, fermo sulla porta della stazione.
 
Il mio cuore fa una capriola. Ho paura di essere sbiancata.
Lui non dice niente mentre guarda me e il mio borsone a tracolla, poi Francesca (incazzatissima, sembra volerlo incenerire) e Tommaso (espressione da giocatore di pocker. Non sarà che parteggia per Ben ma non osa dirlo a Francesca? È meglio se sta attento.)
Restiamo tutti zitti per un attimo. Poi Ben mi guarda di nuovo.
«Dove vai?»
Dove vado? Ma che gli frega?
Ok, Gin. Calma. Non sclerare.
Non si merita una risposta.
Non apro bocca e marcio decisa fuori dalla stazione. Non mi volto a guardare, ma sento dei passi dietro di me. Tanti passi.
Oh, bene. Mi stanno inseguendo come tre anatroccoli? Che bella scena.
Questo maledetto borsone pesa quanto un macigno e mi sta incidendo una spalla: maledetta me e la mia tendenza a riempire ogni bagaglio buttandoci dentro mezzo armadio. Non lo farò mai più, mai più.
Mentre arranco, inizio a sentire qualche goccia di pioggia. Tempo due minuti e arriva il diluvio.
Nemmeno Fantozzi regge il mio confronto.
Stringo le labbra e continuo a camminare in direzione del centro di questo stramaledettissimo paese, finché non sento una mano tirarmi per la tracolla del borsone.
È Ben.
«Dai, dammelo»
Se lo scorda. Il massimo che può avere da me è un calcio nel sedere.
«Lascialo!» gli rispondo affannata.
Ci mettiamo a strattonare la tracolla in mezzo alla strada con tanto impegno che ignoriamo persino Tommaso che cerca di fare da paciere.
«Ben, lascia!»
«Ma si può sapere cosa fai? Dove pensi di andare con questo tempo?»
«Dove vado sono cazzi miei! Lascia!!»
«Non fare la bambina!»
La bambina? Io? Mi ha appena scaricata, lo stronzo.
Molto bene. Lascio la tracolla all’improvviso e Ben si sbilancia.
«Lo vuoi? Tutto tuo, allora»
Mi volto e riprendo a camminare. Non so dove andare, sinceramente, ma non mi sembra il caso di fermarmi a riflettere qui. Non gli darei mai la soddisfazione di fargli capire che non so che fare. E poi, piccolo particolare, tra un po’ per spostarmi mi servirà l’Arca di Noè.
Tommaso mi si affianca, sostenendo Francesca per il braccio.
«Bene, andiamo fino in paese e rifugiamoci da qualche parte. Poi chiamo Livia e…»
Io mi fermo di botto. Non ci siamo capiti.
«Io con voi non ci vengo!» grido, ma nel frastuono della pioggia quasi la mia voce non si sente.
Mi volto e faccio per tornare in stazione, ma Ben mi si para davanti.
«Gin, dai, cammina»
Nemmeno per sogno. Nemmeno se mi trascinate.
Faccio per aggirarlo, ma lui mi prende per il braccio. Io mi divincolo – nemmeno avesse le zecche – ma lui non molla.
I nostri sguardi si incrociano. Lui sembra arrabbiato. Io sono furiosa, ma non so perché mi salgono le lacrime agli occhi.
Sono stanca. Voglio andarmene. Voglio che se ne vada.
 
Voglio che mi chieda scusa adesso e mi dica che possiamo stare insieme e che non succederà mai più.
 
No Gin. Non pensarci. Tommaso mi prende per il gomito.
L’espressione di Ben si ammorbidisce.
«Dai, per favore. Sei fradicia. Siamo tutti bagnati. Andiamo da qualche parte all’asciutto»
Io resto ferma e guardo ostinata a terra, ignoro persino le preghiere di Francesca, finché un fulmine non squarcia il cielo. Il rumore è fragoroso e io sobbalzo, terrorizzata.
So che avere paura dei fulmini è da sfigati, ma io ho paura. Anche di lampi, tuoni e quant’altro, per colmare la misura.
Al secondo fulmine, mi copro le orecchie con le mani.
Sento un braccio attorno alla vita e non ho bisogno di aprire gli occhi per sapere che è Ben.
Lo sento.
Il suo corpo si avvicina al mio e lui cerca di sfruttare la differenza di altezza tra noi per ripararmi dalla pioggia, per quanto possibile. Sento la sua voce e quella di Tommaso mentre l’uno passa il mio borsone all’altro. Poi Ben fa per voltarmi e mi sussurra che dobbiamo muoverci di lì, mentre io mi ostino e punto i piedi, finché Tommaso non minaccia di alzarmi di peso e riportarmi indietro.
Cedo, ma solo perché so che lo farebbe davvero. È alto e ha i muscoli necessari, a occhio e croce.
Mi ci manca solo questa.
Iniziamo a camminare ma fare anche solo un passo è complicato per la violenza della pioggia che ci si rovescia addosso. Vorrei allontanarmi da Ben, ma la faccenda si fa complicata. Lui mi tiene sempre il braccio. Gli lancio un’occhiata di sfuggita e vorrei prendermi a calci da sola, visto che l’unico pensiero coerente che formulo è: ma come fa ad essere così bello anche ora?
Noi tre sembriamo tre pulcini affogati.
Continuo a ripetermi “stupida, stupida, stupida, stupida” mentre torniamo indietro. Per fare poca strada ci mettiamo un tempo incredibile e, quando finalmente approdiamo al bar, potremmo tranquillamente passare per dei profughi.
Mi stringo le braccia attorno al corpo mentre metto una certa distanza tra me e lui, avvicinandomi a Francesca. Tommaso ordina caffè per tutti, poi ci ripensa e chiede the caldo.
Tremo e guardo per terra, quando sento una mano sfiorarmi i capelli per scioglierli.
Incrocio lo sguardo di Francesca e la vedo esitare, ma poi lei si allontana avvicinandosi a Tommaso, che le mette un braccio attorno alle spalle e la stringe piano.
Mi concedo di dare loro un’occhiata malinconica, mentre mi ostino a far finta di non accorgermi che ho Ben accanto, che si sta dando da fare per tentare di districarmi i capelli.
Se me ne importasse qualcosa, gli direi che è una battaglia persa.
Se non me ne importasse niente, del resto, non tremerei.
E non sto tremando per il freddo.
Lui non se ne rende conto, perché mi si avvicina e fa per stringermi. Io mi divincolo e lo fulmino con gli occhi.
«Cosa vuoi?» peccato che il mio tono gelido quasi si perda per il fatto che batto i denti dal freddo.
Lui esita.
«Stai tremando. Pensavo che forse hai freddo…»
È la scusa più idiota del mondo. Certo che ho freddo. Anche lui ha freddo, per forza. Abbiamo i vestiti appicciati addosso (io ho ancora la sua maglietta, per giunta), i capelli che grondano, le scarpe da tennis fradice.
«Non mi toccare» gli dico.
Lui si acciglia, ma si allontana di un passo.
Tommaso ci guarda preoccupato.
Bene, ora potrei sfogarmi. Potrei dirgli tutto quello che prima non gli ho detto. Potrei insultarlo. Perché sono così idiota, invece, da non spiccicare parola?
La porta del bar si apre. Io quasi non me ne accorgo finché una persona non mi urta.
Non ci credo. Il mio ex capo. Meglio di così si muore.
Arnaldo mi lancia un’occhiata sprezzante, ma poi la sua espressione cambia. Perché mi fissa? Abbasso gli occhi e vedo che ho la maglietta completamente appiccicata addosso.
Fortuna che è una maglietta da uomo e non è trasparente, almeno.
Ben mi si mette davanti e Tommaso gli si avvicina subito. C’è un momento di puro confronto maschile, a forza di sguardi. Mi aspetto che tirino fuori le clave, quasi.
Arnaldo però, in svantaggio numerico, si limita a voltarsi e ad andarsene.
Sono imbarazzata. Non guardo Francesca, ma lei mi viene accanto e mi conduce a un tavolino. Si siedono anche i ragazzi.
Che situazione assurda.
Fra versa il the, un cameriere ci porta dei biscotti.
Ma cosa faccio, seduta qui?
Cerco almeno di organizzare le idee, ma da quando ho visto Ben mi si è svuotata la testa. Tommaso mi lancia un’occhiata e sembra decidere che sono tranquilla abbastanza da arrischiarsi a dire:
«Allora. Come dicevo, non vedo altre opzioni. Non avete più la stanza al B&B e non ci sono treni. Gin, devi venire da noi almeno stanotte» esita e poi continua. «L’offerta della mini-vacanza è sempre valida»
«Grazie, no» non lo faccio nemmeno finire di parlare. Non lo guardo, fisso il piano del tavolino. «No per la vacanza e no anche per stanotte. Ma grazie lo stesso.»
«Come no?»
Ben.
«Ma dove vuoi andare stanotte a dormire? Per strada?»
Alzo gli occhi. Vorrei essere capace di incenerire con lo sguardo. Vorrei essere il basilisco che vive nella Camera dei Segreti.
«Preferisco dormire per strada che vedere te anche solo un altro minuto»
Detto questo, non posso che alzarmi e andarmene sbattendo la porta.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** A te che sei l'unico al mondo, l'unica ragione ***


È matto. Non c’è altra spiegazione.
Cammino nervosa per strada, cercando di ripararmi sotto i cornicioni delle case dalla pioggia battente.
Tremo e impreco dentro di me.
Ma come è possibile?
Mi scarica senza troppi complimenti e poi, cosa fa? Mi segue per strada? Mi abbraccia?
Ma quando mai! Ma non esiste al mondo!
Ma allora…perché?
Cosa vuole? Cosa succede?
Non so dove andare, ma non riesco a smettere di camminare. Mi sento un leone in gabbia.
Attraverso di corsa la piazza, con la testa abbassata contro la pioggia.
Potrebbe essere una buona idea iniziare a riflettere su dove passare la notte. Questo paesetto è minuscolo e ci sono solo un paio di B&B: lo so, perché ero io a occuparmi della sistemazione dei giornalisti.
Escludiamo subito quello dove ho dormito finora, perché quando ce ne siamo andate la signora ha detto che aveva già promesso la stanza a una coppia di tedeschi che volevano fermarsi una notte in più. Provo l’altro, ma senza nessun risultato: sono al completo.
Impreco mentalmente contro quei crucchi affamati di vacanza (poverelli) mentre cammino come un’anima in pena. Sono tornata in pineta. Vedo un invitante angolino riparato dagli alberi che sembra vagamente più asciutto.
Ma non è pericoloso ripararsi sotto gli alberi durante i temporali?
Esito. Lo so che non dovrei. Ma sto letteralmente grondando e potrei riposarmi solo un nanosecondo…
Mi avvicino al tronco e poggio le spalle. Che freddo, se non mi prende un colpo oggi…
Allora, Gin, pensa. Che si fa adesso?
Mi lascio scivolare a terra: tanto sono fradicia, cosa sarà una macchia d’erba sulla mia mise?
Cerco di legarmi i capelli con mani tremanti quando sento all’improvviso una voce:
«Sei diventata matta?»
Faccio un salto di tre metri per la paura. È Ben.
E sembra furioso. D’istinto mi irrigidisco, ma non mi alzo. Oddio, quanto sono stanca.
«Con un temporale del genere tu vai a sederti sotto un albero? Ma sei matta davvero!»
Io volto la testa da un’altra parte e non gli rispondo. Sapere che ha ragione non mi rende i suoi rimproveri più graditi.
Sento improvvisamente una mano afferrarmi il braccio e strattonarmi.
«Alzati!»
Mi fa voltare di lato e, per ritrovare l’equilibrio, allungo l’altra mano per terra e la immergo nel fango. Bleah. Ben mi sta ancora tirando.
«Lasciami! Insomma, cosa vuoi?»
Faccio per tirarmi indietro i capelli con la mano sporca e mi fermo appena in tempo.
«Voglio che ti alzi e vieni via di qui. E che smetti di comportarti come una pazza furiosa.»
Io? Una pazza furiosa? E lui allora?
«Senti chi parla! Ma tu non eri quello che non è assolutamente il mio ragazzo e a cui non interesso abbastanza? Allora vattene!»
«Non ho mai detto che non mi interessi!»
«No, è vero: l’hai dimostrato, il che è peggio»
«Senti Gin» Ben esita «possiamo parlarne, ma adesso…»
Possiamo parlarne?
«Ma come ti permetti di trattarmi con condiscendenza? Hai fatto tutto tu, fino a prova contraria.»
«Va bene, è colpa mia. Dai, alzati»
Giuro, ora lo prendo a schiaffi.
Mi muovo goffamente per alzarmi (ho sempre un braccio in mano a Ben e sono in ginocchio nel fango) perché non voglio che mi torreggi sopra. È comunque più alto di me, ma fa niente.
Strattono il braccio che mi tiene, ma lui non si allontana.
Molto bene.
Gli marcio contro, fino ad arrivargli a un centimetro. Lo guardo negli occhi e scandisco:
«Tu-mi-devi-stare-molto-molto-lontano»
«Guarda che parli con un inglese, non con un analfabeta»
Oh, divertente.
«Tu, invece, non parli con una scema. Io non ho bisogno di una balia che viene a cercarmi.»
«Anche Francesca e Tommaso sono venuti a cercarti. Solo che tutti e due pensavano che non potevi essere così stupida da venire in pineta con il temporale, per cui sono andati in un’altra direzione»
«Stai dicendo che sono una stupida?»
«Sto dicendo che ti sforzi molto di sembrarlo»
Sono senza fiato. Ma come…osa?
E non cede di una virgola. Non ha fatto nemmeno un passo indietro. Non lo ammetterò mai,  nemmeno  con me stessa, ma questo me lo fa piacere ancora di più. Maledetto.
«Ben» riprovo «Soffri di amnesia?»
«Cosa vuol dire?»
Ah, pure. Nemmeno la lingua mi dà una mano.
«Che non ti ricordi le cose!»
Ma tu dimmi se devo insultarlo e poi spiegargli le parole che uso!
«Hai presente: tu, io, stamattina e oggi pomeriggio? O ti faccio un disegno?»
«Gin, ascolta. Ma dobbiamo parlarne adesso, sotto la pioggia?»
«Sì!» grido «Dobbiamo parlarne finché non capisco cosa ti è preso! Perché ti sei comportato come uno stronzo! E se tu sei una persona che non dà peso alle cose che dice, io invece lo faccio! Quindi se vuoi giocare, fallo con qualche stupida ragazzetta disposta a starci solo perché sei famoso, ma non permetterti mai più di pensare che io sia così! A me non me ne frega niente se sei Ben Barnes!»
Ben si acciglia.
«Non penserai che io mi approfitto delle donne perché sono famoso?»
«Certo che lo penso. Guarda come hai trattato me!»
E mentre lo dico, sento la vergogna che mi fa avvampare le guance. Odio mettermi dalla parte di quella debole e piagnona che elemosina spiegazioni. C’è qualcosa da spiegare dopo quanto è successo? No.
Come mi direbbe Sara: La verità è che non gli piaci abbastanza.
Lo so. Me ne vergogno. Ma non posso farci niente.
Ben mi prende per le spalle e mi scuote con forza. Per un attimo, mi fa quasi paura da quanto è arrabbiato.
«Non è così! Io non lo farei mai! Non capisci Gin? Non capisci che è il contrario?»
Abbassa le mani e la sua espressione, di colpo, diventa triste e vulnerabile.
«Non lo sai quant’è difficile… la gente che si interessa a te perché sei famoso. Le ragazze che prima ti ignoravano poi, all’improvviso, ti stanno tutte attorno perché sei un attore. Non so mai se posso fidarmi. O di chi. Uno sbaglio e finisci sui giornali. Sai quanto è difficile avere una vita privata? Te ne rendi conto?»
«No. E ti dirò la verità: non me ne frega niente. Io non sono così. Ma per chi mi prendi? Per una che starebbe con te per poi correre dai giornalisti a spifferare tutto?»
«Tu ci lavori, con i giornalisti» mi dice, ancora triste.
Cosa? Cosa? Ma per chi mi prende?
Boccheggio.
«Ma…ma…ma che cosa stai dicendo? Ma non penserai davvero una cosa del genere? Io?»
Sono talmente scioccata da quest’idea assurda che mi zittisco un attimo per raccogliere le idee.
«Non starò a farti un discorso di serietà professionale. Parliamoci chiaro: io i giornalisti li conosco. Se volessi, potrei inventare storie su di te. Ho il tuo numero in rubrica. Ma io detesto la stampa di gossip. La odio. Non mi ci avvicinerei nemmeno morta. Proprio perché la conosco. Non ci hai pensato?»
«Non…lo so» esita «Non ci avevo nemmeno pensato finché Colin non ha sollevato il problema…»
«Ah» dico, ferita «così è questo che sono? Un problema?»
«No, no Gin. Davvero. Io…io non lo so. Un po’ sì.»
Ma chi cavolo si crede di essere Colin Firth per insinuare una cosa del genere su di me? Sono incazzata nera.
«Di bene in meglio, allora.»
«Non per i giornalisti. Io…e te. Non era, ecco…previsto»
E no, eh. No, no, no e poi ancora no.
«Ah, perché tu prevedi chi incontrerai nella vita? Come fai? Ce l’hai scritto nell’agenda degli impegni, tra un’intervista e un servizio fotografico? Chi te la scrive, l’agenda? Sibilla Cooman?»
Aggrotta le sopracciglia e io non posso trattenermi dall’aggiungere:
«Harry Potter…»
«Lo so, la prof di divinazione»
Lo sa? Voglio sposarlo!
No, no! Gin, stai concentrata!
«Luca ha visto il film l’altroieri. Non prendermi in giro.»
«Non ti prendo in giro. Secondo te ho voglia di ridere?»
«No. Io… senti, mi dispiace. Sono stato…maleducato. Lo so. Non volevo. Se possiamo… cioè, se vuoi…»
«Se voglio…cosa?»
Esita.
«Ben! Cosa?»
«Io… Gin, senti, ma se ne parliamo dopo?»
Dopo?
«No. Ne parliamo ora.»
Voglio disperatamente, disperatamente credere che questa situazione si possa sistemare. Magari si è spaventato per questa cosa della stampa. Ma a questo punto? Bè, se fosse a me della stampa non frega niente: il mio lavoro mi ha fatto sviluppare un’allergia per i giornalisti impiccioni. Lo capirà. Glielo farò capire io. E poi…e poi cosa succederà?
«Non so. Devo pensarci…»
Deve pensarci. Come dire: una secchiata d’acqua. Io sto qui a fantasticare di storie che si recuperano e lui mi tira un’altra mazzata. Me lo merito, si vede che prima non ha colpito abbastanza forte, se io ancora sono qui a sperarci.
Lo aggiro e comincio a camminare per allontanarmi. Mi segue subito.
«Dai, non fare così.»
Ma così come? Mi mordo il labbro per non sbottare e coprirlo di insulti.
«Gin, aspetta.»
Accelero. Ma quando lui mi afferra il braccio scivolo. Incespichiamo entrambi e finiamo lunghi distesi nel fango.
 
Ho steso Ben Barnes. Letteralmente.
 
Voglio sprofondare. Qui, nella melma, va benissimo.
Ben si alza con una smorfia. Poi, incredibilmente, mi guarda e si mette a ridere.
Quanto farò schifo, mi chiedo, per farlo ridere così?
Eppure…non so, vederlo ridere mi fa provare una strana sensazione di calore. È così….non so. Non so cosa mi prende, ma io lo voglio. Ho bisogno di lui. Mi sento come se nient’altro valesse la pena di…
Povera me, come sono ridotta. Melmosa e scema.
Mi alzo in silenzio e Ben mi prende la mano.
«Tutto bene?»
«A meraviglia» rispondo, secca.
Sorride ancora. E mi passa una mano sulla guancia per togliermi un po’ di fango. Mi ritraggo imbarazzata.
«Sei un disastro»
«Immagino che tu pensi di essere bello e pulito»
«Mmmm…ok. Siamo due disastri»
Tu non troppo, a dire la verità.
«Sei molto arrabbiata?»
«Sì» replico subito, decisa.
Lui ci pensa un attimo.
«Ti fermi da noi stanotte?»
«No»
«Testona. Fermati, e parliamo»
«No. Se hai qualcosa da dirmi, dilla adesso»
«Ma perché non possiamo aspettare e parlarne con calma?»
«Perché se hai qualcosa da dire, puoi farlo in qualsiasi momento e in qualsiasi posto. Anche se piove. E se non hai niente da dire, è inutile che perdiamo tempo.»
«È bianco o nero con te, per forza?»
«Sì» gli dico semplicemente «O tutto o niente. Ma scegli adesso.»
Gli sto dando un ultimatum. Io! Sono fiera di me: ho una paura assurda di quello che sceglierà, ma sono fiera di me.
«Non posso scegliere adesso, non così. Non si può scegliere senza riflettere»
Ah.
Bè, immagino che sia il rischio della scommessa: tu ti lanci e sai che puoi vincere. O puoi perdere.
Come me ora.
Forse – dico forse – una parte di me ci sperava.
Ritraggo dolcemente la mano dalla sua.
«Invece, secondo me, ci sono cose su cui non occorre riflettere. Ci sono cose che sai e basta. E se non sai la risposta…bè, è solo un modo di dire che la sai, ma non vuoi darla»
Mi guarda confuso. Io sospiro.
«Comprare una casa non si decide su due piedi. Lasciare il tuo lavoro. Tranne me oggi, a quanto pare, ma lasciamo perdere. Immagino che quando scegli se accettare una parte in film tu ci rifletta su»
Annuisce, e io proseguo.
«Ma se io ti piaccio, devi saperlo. O è sì, o è no. E se devi pensarci su, vuol dire che è no. Non è una cosa che ora è “forse”, tra due ore è “no” e stasera è di nuovo “sì”»
I miei occhi si inumidiscono, ma lotto per mantenere la voce ferma.
«Se lo chiedi a me… se mi chiedi se tu mi piaci, io la risposta la so. Non ci devo pensare. Se tu devi farlo, vuol dire che io ti piaccio abbastanza per stare con me due ore, come stamattina… ma per poi scaricarmi come hai fatto oggi pomeriggio»
«No, non è vero. Io non l’ho fatto perché non mi piaci. L’ho fatto…»
«Invece sì, Ben» lo interrompo «Perché se io ti piacessi davvero, non ti sarebbe nemmeno venuto in mente di farlo. Per nessuna ragione, giornalisti o meno. Come ti sentiresti tu se, dopo stamattina, all’improvviso io ti dicessi: “oh guarda, scusa, ci ho pensato su negli ultimi cinque minuti e ho deciso che non voglio un ragazzo famoso che gira per il mondo, ma uno che vive nella mia stessa città”?»
Lui tace, ma io lo incalzo.
«Dai, sii sincero. Se avessi fatto così, cosa avresti pensato?»
«Non…so. Credo che…sì, avrei pensato che volevi scaricarmi. Ma è diverso.»
«È diverso se sei tu a scaricare me? Perché? Perché sei famoso e la tua motivazione vale più della mia? Perché sei famoso e quindi non vieni scaricato dalle donne?»
«No!» sbotta «Perché tu…insomma, non penso che…»
«Vedi che non ci hai nemmeno pensato? Non ti poni nemmeno il problema, perché sei sicuro che non ti avrei mai scaricato io»
Gli leggo in faccia che ho ragione. E il mio orgoglio si infiamma.
«Bè, mi dispiace deluderti. Sì, vero, non l’avrei fatto. E mi sento molto stupida a dirlo, per quel che vale. Ma io non sono una con cui puoi sperare di avere un flirt e cavartela così. Soprattutto senza mettere le cose in chiaro. Io non ci sto per una volta e via. E se sei Ben Barnes, io me ne frego. Direi la stessa cosa a chiunque. Se ne valesse la pena, lo direi a chiunque. Tutto o niente, con me»
Lui apre la bocca per parlare, ma sembra indeciso su cosa dire. Ci fissiamo in silenzio per un attimo lungo una vita. E poi sentiamo delle voci.
Arrivano Francesca, Tommaso e Livia.
Francesca mi abbraccia, Livia sembra preoccupata. Io mi sento svuotata. Come se avessi terminato ogni residuo di energia. Una piccola parte di me sa che è bene aver messo le cose in chiaro e detto quello che volevo dirgli da subito. La restante parte di me si sente come se fosse stata schiacciata da un tir.
Quando finisce questa giornata? Chiedetemelo ora, se vorrei premere “Rewind”. Manco morta.
Torniamo in paese. Ormai mi rassegno a lasciare dei solchi per terra in questo posto.
Al bar, mi fiondo in bagno. Due secondi dopo, arriva Ben. Siamo conciati da far pena. Io, che stavo sussurrando a Francesca cosa ci siamo detti, mi zittisco e cerco di assumere un’aria innocente, tipo “Oh-non-mi-hai-affatto-appena-rovinato-la-vita”. Mi lavo le mani e cerco di sistemarmi i capelli.
Va bene, è una battaglia persa.
Non so da dove cominciare. Volto la testa…e mi prende un colpo.
Ben si è sfilato la maglietta per mettersi la felpa che Tommaso gli sta porgendo.
Muoio.
Non va bene. Non va affatto bene.
«Devo farmi una doccia» dice, alzando la zip mentre, contemporaneamente, arriccia il naso.
«In effetti, fate paura tutti e due. Vi siete rotolati per terra?»
Lo sapevo. Ecco che ricominciano. Infatti, Tommaso mi guarda e dice:
«Immagino tu non stia riconsiderando l’idea di venire da noi»
«Infatti»
«Nemmeno per una doccia? Sei conciata da far spavento»
Questo è un colpo basso, decisamente.
E muoio anche di freddo. Ho i vestiti fradici, i capelli zuppi e sono completamente infangata.
Cazzo.
Tommaso mi legge in faccia che sono prossima alla resa e, cavallerescamente, non me lo fa notare.
Va bene, andiamo in questa maledetta casa.
 
Ora che sono qui, ammetto che un bagno in vasca ha i suoi pregi.
Mi lavo anche i capelli e poi frugo nel borsone alla ricerca di qualcosa da mettermi, ma ho solo cose leggere. Tommaso e Ben si offrono di prestarmi una felpa e io prendo quella di Tommaso. Ben non dice niente, ma mi lancia un’occhiata poco convinta. Devo anche rimboccarmi le maniche due volte.
Mi alletterebbe molto l’idea di andare a dormire e svegliarmi tra un mese, ma appena scendo in salotto Luca mi salta in braccio e dice che vuole andare al concerto. Anche io non avrei chiesto niente di meglio, solo qualche ora fa. Matteo coinvolge Tommaso e Francesca in una partita con i videogiochi. Io mi siedo sul divano con Luca e Ben, che sta leggendo, dopo un po’ ci si avvicina. Io evito il suo sguardo. Luca sta giocando con i miei capelli e il braccialetto che ha al polso si impiglia nei miei ricci. Lui tira e io faccio una smorfia, finché Ben non gli prende il braccino e gli dice che ci pensa lui.
Scivola sul divano vicino a me e mi libera. Poi lascia una mano tra i miei capelli, finché io non allontano la testa. Luca scende dalle mie ginocchia per andare a giocare con Matteo.
«Cosa leggi?» gli chiedo, perché il silenzio tra noi è davvero pesante, considerando soprattutto il baccano che fanno gli altri quattro, davanti al televisore.
«Il testo per Vampire Academy» mi risponde.
Lo fa apposta. Lo sa che ora voglio vederlo.
Infatti me lo mostra e io lo divoro e poi ci mettiamo a parlare. Arriva anche Livia e, quando Tommaso ci dice che sono le otto, a me sembra impossibile. Di già? Ma com’è possibile che quando sto con lui il tempo vola e io mi sento così bene?
Decidiamo di tornare in paese per cena, perché Luca non la smette più di cantare l’Ombelico del mondo. Mangiamo mentre i musicisti fanno il sound-check e poi aspettiamo il concerto. Si esibiscono quattro cantanti e Jovanotti è l’ultimo. Io lo adoro, ma stasera inspiegabilmente nemmeno la musica riesce a coinvolgermi. Mi sento come se avessi spento un interruttore e ora ci fosse tutto buio, dentro e attorno a me.
Fingo di divertirmi mentre Francesca e Tommaso ballano con i bambini e Livia e Colin (cui ho detto sì e no due parole da dopo il discorso con Ben in pineta, e grazie mille) parlano con Ben del film.
Ma non riesco proprio rilassarmi. Ho un peso sul cuore.
E quando arriva Jovanotti, paradossalmente sto peggio. Canta Tutto l’amore che ho, e Francesca grida a Tommaso che siamo state insieme al concerto a Milano. Entrambe lo adoriamo. Tommaso l’ha visto a Firenze.
Ben ovviamente non sa di chi parliamo e non sembra troppo convinto. Luca gli saltella attorno cantando (sa una parola su dieci, è troppo dolce) e Ben ride e lo prende in braccio. Tommaso glielo mette sulle spalle e poi solleva Matteo. Luca mi tende la manina e io gliela stringo. A Il più grande spettacolo dopo il Big Ben, Luca si agita talmente tanto che Ben fa una smorfia e lo fa scendere a terra, ma lo tiene per mano.
E poi, è la volta di A te.
Già questa canzone di suo mi fa venire i brividi ogni volta che la ascolto, ma oggi… oggi è semplicemente troppo.
A te che sei l’unica al mondo 
L’unica ragione per arrivare fino in fondo 
Ad ogni mio respiro 


Oddio.
Forza Gin, stringi i denti. Luca mi tira la mano e si mette a cantare anche lui. Gli faccio un sorriso, ma temo sia abbastanza stentato.
A te che sei,
semplicemente sei,
sostanza dei giorni miei,
sostanza dei sogni miei
 
E… incredibile! Tommaso si china verso Francesca e, dopo un attimo, si baciano appassionatamente. Io mi precipito a prendere Matteo, perché Tommaso gli ha lasciato la mano. Lo porto da noi e il piccolo ride e indica suo zio e Francesca. Ben alza un sopracciglio e sorride ai bambini.
Io, invece, cerco di trattenere le lacrime.
A te che sei il mio grande amore 
Ed il mio amore grande 
A te che hai preso la mia vita 
E ne hai fatto molto di più 
A te che hai dato senso al tempo 
Senza misurarlo 
A te che sei il mio amore grande 
Ed il mio grande amore 



E poi diventa semplicemente troppo. Mi viene da piangere, per cui metto di forza la manina di Matteo in quella di Ben e mi allontano quasi di corsa, approfittando del fatto che ci sono i bambini e non può seguirmi.
 
Vago per le stradine e svolto in un paio di vicoli. Quando vedo una panchina, mi ci lascio cadere sopra.
Mi asciugo gli occhi e sospiro. E poi sento una mano sulla spalla. Chiudo gli occhi e dico:
«Per tua informazione, questa canzone mi fa sempre piangere, Ben. Potresti…»
Poi mi volto e mi zittisco. Non è Ben. È Arnaldo. Allontano di scatto la sua mano e mi alzo in piedi.
 «Ciao» dico, circospetta. Che palle. Ma proprio adesso dovevo incontrarlo?
«E così quello ti lascia a piangere qui tutta sola?» farfuglia lui.
Che cavolo? Ma è ubriaco?
Oddio, il capo ubriaco. Mi scappa quasi da ridere.
«Allora, dov’è Dorian?»
«Si chiama Ben» gli dico.
«Ah. Ben. Sì. Come bene. Voi due state bene insieme…o no?»
Mi guarda perplesso. Mi manca solo di dover dare delle spiegazioni a lui e sono a posto. Faccio un gesto vago con il capo che potrebbe significare qualunque cosa.
«Che peccato. Gli attori sono gente strana, Ginevra. Egoisti. Egocentrici. È difficile viverci assieme»
Quasi mi viene da dargli ragione. Poi, all’improvviso, lui si avvicina.
«Mentre tu…sei…così…»
Eh?
«…bella»
Cosa? Bella?
Arnaldo allunga una mano verso la zip della mia felpa. Io mi ritraggo di scatto e mi guardo attorno.
Deserto.
Ecco. Sono la solita cogliona. Da una vita mi sento ripetere che non si deve andare nelle strade deserte e solitarie da sole e con il buio e io che faccio? Finisco in una strada deserta e solitaria, di notte, da sola. Anzi, con il mio ex capo sbronzo. E non so se è un miglioramento. Ma temo di no. Infatti le sue parole me lo confermano.
«Tu mi hai lasciato, ma…»
«Ma cosa stai dicendo? Io mi sono licenziata!»
«È lo stesso» scuote la testa e barcolla un po’ «Vedi uno giovane e con i soldi e puf! Te ne vai»
«Puf un corno! Io mi sono licenziata perché tu sei uno stronzo!»
«No, è perché tu sei una facile. E lui è giovane, ricco e famoso»
«Io non sono per niente una facile e lui…è lui. Non c’entrano niente i soldi o la fama. È lui e basta»
Non faccio in tempo a finire di parlare che Arnaldo mi prende per un braccio. Io mi divincolo, ma lui è molto più forte di me. Fa per accarezzarmi una guancia ma io mi ritraggo. Mi afferra i capelli. Io grido.
Cerco di allontanarmi ma lui stringe la presa e, nel muovermi, si strappa una manica della felpa.
Non riesco a pensare lucidamente, non so cosa fare. Una parte del mio cervello rifiuta semplicemente l’idea: insomma, è il mio ex capo. Quel coglione senza cervello.
L’altra parte è meno ottimista.
Arnaldo mi spinge di forza sulla panchina e, al contatto improvviso con il metallo, io strillo per il dolore. Lui mi si avvicina mentre continuo a divincolarmi, ma sembro una bambina nelle mani di un adulto, per quello che riesco a fare.
Poi, all’improvviso, la presa su di me si allenta. Alzo la testa e vedo Tommaso che quasi lo alza di peso e lo sbatte a terra.
Ho una mezza idea di alzarmi per impedirgli di ammazzarlo di botte, visto che sembra averne tutta l’aria, ma un’ombra copre la mia visuale.
Ben.
Ha un’aria stravolta mentre si china su di me e mi prende tra le braccia. E appena mi stringe, il mio corpo si rilassa e inizio a tremare.
Oddio. Ho davvero, davvero rischiato che…?
Lui mi stringe, mi accarezza i capelli e io scoppio a piangere. E piango mentre mi culla e mi bisbiglia parole in inglese che non capisco assolutamente. Piango mentre lui mi ripete di stare tranquilla, che c’è lui con me e che non mi lascerà e non riesco a smettere.
Sfogo la rabbia, la paura e il senso di solitudine che mi è rimasto addosso da questa giornata assurda.
E quando finalmente smetto di singhiozzare, Ben è ancora lì che mi abbraccia. Mi bacia la fronte e mi scosta piano per guardarmi preoccupato. Poi mi abbraccia ancora e mi accarezza la schiena.
Sono svuotata. Appoggio la testa sulla sua spalla e mi abbandono alla sensazione meravigliosa di essere tra le sue braccia.
Potrei restare per sempre così e far finta che non esista nient’altro.
Ben mi volta e mi solleva le gambe sulle sue. Poi mi abbraccia di nuovo.
Sento le sue mani sulla schiena e sui capelli, le sue labbra sulle guance mentre mi bacia piano. Poi mi asciuga una lacrima.
Alzo gli occhi e vedo che è preoccupato. Davvero. Per me. Ed è incazzato nero, si vede da come serra la mascella. Distrattamente, gli faccio una carezza sul viso, perché non mi piace vederlo così teso. Voglio che mi sorrida. Lui mi prende la mano, mi guarda negli occhi.
E poi mi bacia. All’improvviso. Un bacio vero, come quello che mi ha dato stamattina.
E io non mi faccio domande, ma lo stringo a me.
Ci baciamo e io mi dimentico persino quanto è appena successo, tanto che, quando alla fine ci separiamo per respirare, guardo oltre la sua spalla e vedo Arnaldo fissarmi a occhi sgranati, con Tommaso e Colin che lo tengono fermo.
Ah. Giusto.
Ehm.
Ben si volta per vedere cosa sto guardando e si incupisce subito. Si alza e poi mi guarda preoccupato, ma mi alzo anche io e metto la mano nella sua. Lui la stringe subito. Ci avviciniamo e io, incredibilmente, mi sento serena, tranquilla e protetta.
Guardo quel verme del mio ex capo e non provo niente, se non disgusto.
«Stai bene, Gin?» mi chiede Tommaso, teso.
Annuisco. Guardo Colin, che è impassibile. Sta trattenendo a forza un uomo, ma ha l’aria di uno che guarda il panorama. Cioè, di un inglese composto e impenetrabile che guarda il panorama.  Ora, se si azzarda a dire qualcosa sul fatto che potrei vendere lo scoop alla stampa, lo prendo a pedate.
«Bene» mi dice «Direi che non è il caso di chiamare la polizia. Consideriamolo… un incidente»
Figuriamoci se non lo diceva. Niente scandali.
«No, invece» dice subito Ben «Non esiste. L’ha aggredita»
«Non essere impulsivo» lo riprende Colin.
Ma Ben, testardo, mi passa un braccio attorno alla vita e mi stringe a sé.
«No, Colin. Invece la chiamiamo, la polizia. Poteva…poteva…» mi guarda e serra le labbra.
«Ben, è tutto ok. Davvero. Sto bene. Probabilmente non avrebbe…voglio dire, non credo che…»
«Sono d’accordo con Ben» afferma Tommaso. «Mi dispiace, Colin, ma ha ragione. L’ha aggredita. Se non fossimo arrivati noi poteva succederle qualsiasi cosa. E tu, testona: si può sapere dove vai da sola di notte?»
«Eh, io…ehm…volevo fare due passi» dico precipitosamente.
Tommaso sbuffa e Colin inarca un sopracciglio, ma Ben mi stringe più forte. E io, ostentatamente, mi appoggio a lui. Poi fisso Arnaldo.
«Potrei denunciarti, coglione: lo sai vero?»
Ma lui ghigna e guarda Ben.
«Sai, Ginevra, ho sempre amato di te questo tuo spirito indomabile. Anche quando lavori sei così. Immagino che quando il nostro grande attore ti porta a letto, tu lo sia anche di più»
Non faccio in tempo a trattenere Ben.
In un attimo gli è addosso e gli tira un pugno, e poi un altro.
Tommaso si precipita a prenderlo, ma deve sollevarlo quasi di peso.
«Lasciami subito!» ansima Ben.
Ma io decido in un attimo. Non voglio metterlo in mezzo a una storia così squallida.
Mi faccio avanti e poso la mano sul braccio di Ben, che ancora si dibatte per liberarsi dalla presa di Tommaso.
«Ben, calmati. Dai.»
Lui è ancora teso, ma mi guarda e vedo che accenna a rilassarsi. Tommaso aspetta di vederlo fermo e poi lo lascia. Io gli prendo la mano e lo guardo, poi gli passo un braccio attorno alla vita. Ha ancora le labbra serrate e sembra che faccia fatica a controllarsi, ma per il momento almeno sta fermo. Ok. Guardo di nuovo Arnaldo.
«Questa è l’ultima volta che ti vedo» scandisco «Non voglio incrociarti mai più. Sei un poveraccio e non vali la fatica di passare la nottata al comando della polizia. Ma se solo ti azzardi a far trapelare mezza parola su stasera e su Ben, ti avviso che me la paghi»
Lui ha la solita aria di sufficienza che ho sempre detestato, ma si spegne anche quella quando preciso:
«I miei genitori sono avvocati. Tutti e due, e lo sai. Io ci metto davvero un secondo a rovinarti la vita. Prima ti denuncio, poi ti sbatto su tutti i giornali raccontando che sei un porco, oltre che un idiota incompetente. E lo sai che ho i contatti per farlo.»
Ci guardiamo un secondo poi lui, furioso, annuisce. Colin lo lascia e gli dà una spinta.
«Vattene»
E lui se ne va, imprecandoci contro.
«Però» dice Tommaso «Ben, credo sia la prima volta che ti vedo fare a pugni. Che cavaliere» mi strizza l’occhio.
Ma Ben è ancora teso e rigido come un manico di scopa. Colin prende Tommaso per il braccio e mi dice:
«Noi ci avviamo. Vi aspettiamo al bar. Non tardate troppo, fa freddo»
Io annuisco.
Poi, appena siamo soli, mi volto ad abbracciare Ben. Non dico niente, lo stringo solo. E quando sento che lui fa ancora fatica a rasserenarsi gli sussurro che sto bene, che non voglio vederlo così.
Mi abbraccia forte e nasconde il viso nell’incavo del mio collo. Stavolta sono io ad accarezzargli i capelli.
«È tutto a posto, davvero»
«Se penso che potevi…»
«Shhh…tranquillo. Sto bene»
«Se andavamo alla polizia…»
«Non pensavo fossi un tipo sanguinario» gli dico, scherzando. E quando vedo che non risponde e non mi guarda, gli accarezzo piano la nuca e gli sussurro:
«Però magari potresti…»
«Cosa?»
Gli bacio il collo e lui freme.
«Potresti darmi un bacio, magari»
Finalmente sorride. E posa le labbra sulle mie.
Come bacia, ragazzi. Solo che quando fa scorrere le mani sulla mia schiena io sobbalzo.
«Ahi!»
«Cos’è successo?»
Mi guardo il fianco. Mi sta già uscendo un livido, dove ho sbattuto sulla panchina, prima. Ben stringe gli occhi.
«Niente, è un livido»
«Non direi niente. Io…»
Lo zittisco baciandolo di nuovo. Chi se ne frega di uno stupido livido, al momento ho in testa cose più importanti.
Ci baciamo ancora e ancora e ancora. Non sento nemmeno più il freddo.
Ben è delicatissimo, come se avesse paura di farmi male. Mi accarezza, più che stringermi. Ogni tanto si ferma un momento per guardarmi, come per assicurarsi che io stia veramente bene.
Io, per parte mia, non ci capisco letteralmente più niente. Sono famelica. Sarei capace di strappargli i vestiti qui, adesso, per strada.
Quando si ferma ancora, mugugno qualcosa e me lo tiro più vicino. Lui ride sulle mie labbra.
«Ehi, piano»
«Ma non sono le donne che lo dicono, di solito?» ansimo io.
«Credo di sì. Sicura che stai bene?»
«Ben, se me lo chiedi ancora, te lo do io un pugno. Ok?»
Lui ride ancora e poi mi bacia di nuovo. Ora sì che ragioniamo. Quando ci stacchiamo, mi appoggio a lui. Ho il vago sentore che dovremmo tornare dagli altri, ma non voglio. Non voglio lasciar passare questo momento: e se si allontana di nuovo da me, cosa faccio?
Alla fine, Tommaso e Francesca ci vengono a cercare.
«Ma insomma!» strilla lei «Vi pare modo? Sono morta di paura! E voi non tornavate! Gin, stai bene? Tommaso dice che Arnaldo, quello stronzo…»
Sorrido. Direi che la sua cotta assurda per Arnaldo rimarrà il nostro piccolo segreto.
«Sto bene, Fra»
«Ma se glielo chiedi due volte, ti prende a pugni» scherza Ben.
«Veramente, il pugile qui sei tu» ribatte Tommaso.
«A proposito di coppie…» gli dice subito Ben.
Ah! È vero!!!!!
«Ah!!!!!» strillo io «Mi ero dimenticata!!!»
E abbraccio Francesca, che borbotta un “ma come ti eri dimenticata?” seppellita nella mia felpa. Ma mi abbraccia.
E torniamo al bar, tutti e quattro. Due coppie. Livia e Colin hanno portato a casa i bambini, ma noi ci fermiamo a bere qualcosa. Tommaso ride del mio bicchiere di succo di frutta, mentre Ben mi abbraccia da dietro e mi bacia piano il collo. Francesca si scola tre tequila una dietro l’altra, perché dice che deve riprendersi dalle emozioni del giorno e, alla fine, Tommaso deve portarla alla macchina praticamente di peso.
Io rido, ma ho paura. Mi sembra di essere tornata a questa mattina e temo di avere un altro brusco risveglio.
Quando arriviamo a casa, Tommaso mi dice:
«Non è che domani mattina vuoi prendere un treno alle 6, vero?»
«No, lei resta» risponde Ben per me. E poi aggiunge: «Accompagna Francesca di sopra. A Gin penso io»
Il che è tutto un programma. Decisamente.
Saliamo le scale insieme e Ben entra in camera sua per prendermi una t-shirt. Io resto ferma sulla porta. Lui si avvicina con la maglietta, me la porge ma poi ci ripensa. Mi prende per mano, mi fa entrare e chiude la porta.
Si siede sul letto e mi fa cenno di avvicinarmi. Poi sorride e mi dice:
«Non ti mangio. Cioè, almeno ci provo»
Mi sa che sembro impanicata. Insomma, Gin, calma.
Vado a sedermi accanto a lui e lui mi prende la mano e mi dice:
«Voglio scusarmi con te. Ho pensato molto a quello che mi hai detto e a come mi sono comportato e tu hai ragione»
Mi dà un bacio leggero sulle labbra e aggiunge:
«Chiedimi se tu mi piaci»
Oddio.
«Dimmelo tu. Sei in debito.»
Sorride.
«Tu mi piaci»
Meno male.
«Mi sono comportato male, perché per me è una cosa nuova. Dicevo davvero, quando ho detto che ero felice di aver trovato te. Sono felice. Però ho avuto paura, perché affezionarmi a qualcuno, con la vita che faccio, significa che molto probabilmente soffrirò io e farò soffrire anche te»
«Non mi importa» dico di getto.
«A me sì. Non voglio farti del male. E ho paura anche io di soffrire»
«Ben Barnes» gli dico «Se pensi di scaricarmi un’altra volta…»
Mi bacia. E quando si allontana da me mi dice:
«Zitta, tocca a me.»
Ok. Io non fiato.
«Quello dei giornalisti era un problema. Colin sa cosa significa cercare di proteggere se stessi e la propria famiglia dalla stampa che ti sta sempre addosso e ha cercato di darmi un consiglio. Ma io di te mi fido.»
Mi accarezza il dorso della mano con il pollice e si fa pensieroso.
«Avevi ragione anche quando mi hai detto che mi sono spaventato, oggi, a sentire che tutti ci consideravano una coppia. Ma dopo stasera, io… Io non so cosa avrei fatto se ti fosse successo….qualcosa di brutto. Quindi, tu mi piaci. Molto.»
Bene. Un modo un po’ estremo di realizzarlo, ma se è servito...
«Solo che non so dove ci porterà questa cosa. Non so quanto viaggerò per lavoro e dove. Tu qui hai la tua famiglia, gli amici. Devi trovare la tua strada. E per me il mio lavoro è importante. Ma passo mesi all’estero, chissà dove. E non solo per le riprese. Ci sono i tour promozionali, c’è la mia famiglia, a casa. I miei amici. Dimmi la verità: tutto questo non ti spaventa?»
«Un po’ sì» ammetto «Perché è tutto così…enorme. Però ne vale la pena, per me»
«Secondo me non te ne rendi davvero conto…e ho paura che, quando vedrai com’è la mia vita, non ti starà bene»
«Io voglio stare con te. E se tu sei tutto questo, va bene. Ce la farò»
«Lo dici adesso Gin, ma poi…»
«Ma lo dirò anche poi. Quindi, basta»
«Ma se…»
Stavolta lo bacio io. Dopo un po’ mi stacco e gli sussurro:
«Zitto»
Lui sorride e mi abbraccia e a me non sembra vero. Lo sento. È convinto. L’ho convinto. Oddio.
«Quindi» dice.
«Quindi» dico.
«Quindi, che si fa?»
«Bè, per esempio, potresti accompagnarmi a Milano»
Sorride.
«Pensavo che Milano fosse una città grigia e senza cielo»
«Un po’ sì. Ma siccome io non ti ho ancora perdonato, non ti conviene fare troppo il difficile»
Mi sorride in modo così dolce che io mi sciolgo.
«Devo farmi perdonare, quindi?»
«C’è bisogno che lo chiedi?» rispondo, angelica.
Ride.
«Va bene, capito. Sarà dura.»
«E non sai quanto!»
Poi mi spinge sul letto e mi bacia e tutte le preoccupazioni mi sfuggono di mente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Milano, così bella non ti avevo mai vista! ***


Sto rivalutando il dormire con le finestre aperte e, quindi, l’essere svegliata dalla luce del sole.
 
Innanzitutto, oggi non devo lavorare, per cui potrei tranquillamente restare a letto tutto il giorno, poco importa la luce. Posso girarmi dall’altra parte e sprofondare sotto il cuscino.
Poi, il panorama che si vede dalla finestra di questa camera è incredibile: colli verdi e un cielo azzurrissimo. A completare la vista idilliaca, sento persino qualche uccellino che cinguetta.
Che pace.
E poi – e questa è la cosa principale – se le finestre fossero chiuse, sarei senza luce e quindi mi perderei questo spettacolo.
Ben dorme sul fianco, voltato verso di me. Con il braccio destro mi cinge la vita e la sua mano sinistra è stretta nella mia. I capelli scuri risaltano sul cuscino bianco. Un ciuffo gli ricade sulla fronte. Quando dorme è ancora più bello: sembra un bambino, è angelico. Non riesco a trattenermi e gli accarezzo piano i capelli. Non voglio svegliarlo.
Dopo quanto mi ha detto ieri sera nessuno di noi due si decideva a staccarsi dall’altro e abbiamo rimandato la questione “dove dormire” il più possibile. Io ero divisa tra il desiderio di restare con lui e una certa ansia di affrettare troppo le cose. O, più probabilmente, paura di fronte a quanto le cose stessero cambiando in fretta, tra noi due. Insomma, lo conosco da tre giorni. E anche se mi sembra di conoscerlo da una vita giusto per il fatto di essere una sua fan da sempre, il ragazzo che dorme accanto a me è il vero Ben, a trecentosessanta gradi, non Ben l’attore. E, altra cosa, anche lui non conosce ancora me.
Infatti, alla fine lui a malincuore si è staccato da me per baciarmi la fronte.
«Ti lascio dormire»
«Ma tu…dove vai?» non riuscivo a decidermi e, per guadagnare tempo, gli ho preso la mano.
Lui me l’ha baciata e mi ha stretta di nuovo.
«Tu dormi qui così stai comoda e io vado sul divano»
«No, la camera è la tua. Vado io sul divano…»
«No, no, vado io»
Ma nessuno dei due aveva davvero voglia di andare, visto che siamo caduti di nuovo sul letto, avvinghiati. Dopo un po’, mi sono azzardata a dirgli:
«Magari…»
Lui mi stava baciando il collo e io mi sono zittita per sospirare.
«Magari…?»
«Magari potresti restare qui. E anche io. Insomma…»
Sono arrossita e la mia voce è sfumata in un bisbiglio. Lui mi ha sorriso e ha poggiato una mano sulla mia guancia.
«Non sai quanto vorrei. Ma possiamo aspettare, tutto il tempo che vuoi. Non c’è fretta. Davvero»
Ci ha pensato su un attimo.
«Sai, quando ieri mi hai detto che pensavi che mi approfitto delle donne perché sono famoso…»
Ecco. Un ottimo momento per desiderare di essermi tagliata la lingua. Ho fatto per parlare, ma me lo ha impedito.
«Vedrai che non sono così»
«Ma io…»
«Davvero, Gin. Non voglio rovinare il momento. Nessun momento che passo con te. Quando succederà, saremo convinti tutti e due al cento per cento»
Io sarei già convinta. Ma direi una bugia se affermassi che non sono stracontenta che lui sia quel tipo di ragazzo: quello che ti rispetta, che sa aspettare.
E quindi, eccoci qui.
Ci siamo addormentati parlando e abbiamo dormito abbracciati. È la cosa più meravigliosa, più intima del mondo.
E mentre lo guardo, realizzo che non mi importa cosa farò oggi, domani o fra una settimana o un mese: basta che ci sia lui. Per me, potremmo direttamente restare in questo letto.
Mi avvicino di più a lui e, con il dito, seguo il profilo del viso, senza toccarlo. Quant’è bello. È semplicemente perfetto.
All’improvviso non resisto e gli do piano un bacio sulla punta del naso. Lui aggrotta le sopracciglia e, senza aprire gli occhi, mi stringe più forte con il braccio.
Gli do un altro bacio, sulla deliziosa fossetta che ha sul mento.
«Buongiorno»
«Mmmm….» borbotta qualcosa.
Io sorrido e gli faccio una carezza sulla spalla e lungo il braccio. E lui mi tira più vicina, affondando contemporaneamente il viso tra i miei capelli.
«Cinque minuti…» mi dice.
Ma io rido e inizio a mordicchiargli il collo.
Dopo pochi secondi, Ben mi rotola sopra e apre un occhio.
«Dispettosa»
Mentre gli circondo il collo con le braccia si apre la porta.
«Zio Ben…» Luca si ferma perplesso a guardarci.
Noi facciamo entrambi un salto sul letto. Ben si stacca subito da me e tutti e due ci contendiamo il lenzuolo. Ma Luca si avvicina tutto tranquillo e dice che vuole venire nel letto con noi.
Scavalca Ben e si piazza tra noi due. Alla faccia dello chaperon. Ben borbotta qualcosa poco convinto, ma lo sta già abbracciando.
Neppure dieci minuti dopo, dormono tutti e due stretti l’uno all’altro.
Li guardo per un po’: sono meravigliosi. Poi mi alzo, faccio una doccia e scendo in cucina. Livia sta lavando le stoviglie della colazione sua e di Matteo. Mi faccio un the e ci mettiamo a parlare: lei mi racconta del suo lavoro e io del mio (a ieri, naturalmente). Colin le ha detto di Arnaldo e lei è senza parole. Mi dice che secondo lei sarebbe stato preferibile andare alla polizia. Io le dico che non è successo nulla di grave e che non volevo coinvolgere nessuno in questa storia. Lei mi rivolge un’occhiata penetrante.
«Sai, Ginevra, se davvero vuoi stare con Ben, devi ricordarti di essere comunque, sempre, te stessa»
«Cioè?»
«Cioè, le tue idee, le tue decisioni devi portarle avanti»
«Ma l’ho deciso io! Ben voleva che andassimo»
«Dicevo in generale. Sai, mio marito è molto protettivo e severo sulla nostra privacy. Se non fosse così, non avremmo una vita nostra. E ci preoccupiamo soprattutto per i bambini»
Sorride a vedere la mia espressione.
«Non devi preoccuparti di non piacere a Colin. Se fai felice Ben, gli piaci. Ma lui è protettivo con le persone cui tiene e Ben è giovane e così candido a volte… Te lo dico perché magari dovrai prendere decisioni che vi coinvolgeranno entrambi e quando uno dei due è un attore famoso diventa tutto più difficile. Non siete tu e lui e basta. Siete tu e lui e la carriera. Tu e lui e i paparazzi. Tienilo a mente»
Sembrerò irresponsabile, ma tutto questo mi sembra facile, rispetto al fatto che ho incontrato Ben e che abbiamo iniziato…qualcosa. Insomma, quante probabilità nell’universo c’erano? Appunto.
Poi parliamo del film che sta per produrre.
«Ben ha deciso?» le chiedo.
«Sembra abbastanza convinto. Anche più convinto, da quando gliene hai parlato tu»
«E chi sarà Rose?»
«Non abbiamo scelto nessun altro attore. Ben è il primo con cui ne parlo»
«Non sceglierne una troppo bella, se lui accetta» storco il naso.
Lei scoppia a ridere. Poi parliamo del copione e io inorridisco davanti ai cambiamenti.
«Ma Gin! Gli adattamenti cinematografici sono sempre diversi dai libri!»
«Sì, sono sempre più brutti! Tu devi fare un film bello»
Ne stiamo ancora parlando quando scende Francesca. È pallida e ha le occhiaie, segno che la tequila ha lasciato il segno. O che non ha molto dormito per altri motivi. Hum. Devo indagare.
Anche Livia la sta fissando e probabilmente pensa le stesse cose che penso io, considerando che l’altra persona coinvolta è suo fratello.
Francesca incontra i suoi occhi e arrossisce, ma Livia sorride e ci lascia per andare a vedere cosa fanno i suoi figli (mi trattengo appena in tempo dal dirle dove può trovare Luca).
«Allora…» dico maliziosa a Fra, ma lei geme e nasconde il viso tra le mani.
«Mi scoppia la testa…» si lamenta.
«Sono i postumi della sbronza, o non hai dormito per altri motivi?»
«Macchè. Gli ho quasi vomitato addosso» borbotta.
Ah. Bè, Fra non è famosa per essere una grande bevitrice. Dopo poco però Tommaso scende in cucina e la saluta con un bacio in fronte. Ha un ottimo carattere, non c’è che dire: se lei avesse provato a vomitare addosso a me ora passerebbe un guaio, altro che.
Poi lui mi fa l’occhiolino e chiede:
«Ben dov’è?»
«Dorme»
«Ah. Stanco dopo stanotte?»
«Veramente è a letto con Luca»
«Ah!!!! Hai un rivale!» mi strizza di nuovo l’occhio «Bè, potrebbe essere un problema…»
Scoppia a ridere quando io faccio il gesto di lanciargli contro un tovagliolo.
Dopo cinque minuti sono io a scappare, quando il livello glicemico tra lui e Francesca sale a livelli preoccupanti. Schizzo di sopra con una fetta di torta e faccio capolino in camera di Ben. Luca è sparito e lui è ancora disteso, con un braccio di traverso sugli occhi. Chiudo la porta e mi avvicino.
Mi siedo sul bordo del letto e con il dito traccio il profilo del suo avambraccio. Lui sospira e abbassa il braccio. Gli bacio la fronte e poi le labbra. E quando lui mi tira sul letto, capisco che non scenderemo subito dagli altri.
 
Tre ore dopo, siamo tutti in terrazza. Ben sta leggendo un libro in inglese a Luca e sia io che il bambino gli stiamo accoccolati addosso, sul dondolo, uno per parte. Lui ha una mano tra i miei capelli e Luca gli sfoglia le pagine. La sua voce mi culla: malgrado la sua pronuncia chiara, non sono concentrata e capisco una parola su tre, ma non fa niente. Mi basta ascoltarlo. Si interrompe solo per dare un morso alla torta salata che gli avvicino alle labbra.
«Vai avanti!» gli dice Luca, imperioso.
Io rido e Ben gli dà un bacio tra i capelli.
«Agli ordini»
«Luca, lascialo mangiare» gli dice suo zio, ma Luca mette il broncio. Poi io gli tendo le braccia e lui scavalca subito Ben per venire da me.
«Ahi!» fa Ben, mentre Luca gli cammina praticamente sopra.
Io lo prendo al volo e lo metto seduto sulle mie gambe. Divido la restante torta salata tra lui e Ben, che non sembra interessato a mangiare seduto a tavola, se può stare abbracciato a me e farsi imboccare. Mi sa che stiamo prendendo un’abitudine, qui. Ma non posso resistere. Non so se gli do più torta o più baci, ma ad un certo punto Tommaso viene a prendere Luca e lo porta da Francesca.
«Quando voi due piccioncini avete finito… decidiamo cosa si fa? Si va a Milano?» chiede Tommaso.
«Io direi di sì, se a voi non dispiace…avevate altri progetti?» risponde Francesca.
«Ma no…non avevamo deciso niente in particolare…certo, non so come dirlo ai bambini: vi si sono già affezionati….»
«Mi dispiace…magari…Gin, che dici se…Gin! Ben!»
Noi mugugnamo qualcosa, ma non smettiamo di baciarci. Almeno, io mi stacco da Ben solo quando vedo un’ombra coprirci e a qual punto faccio un salto per la paura. Tommaso ci incombe sopra.
Ben mi stringe e poi gli dà una pacca sul braccio.
«Ehi! Qui è privato!»
«Non credo, siete sulla terrazza di casa mia, fino a prova contraria. Il minimo che potete fare è partecipare alla discussione. Altrimenti, venite dove decidiamo di portarvi io e Fra»
Ben mi guarda un attimo.
«Per noi va bene. Decidete voi» e si china su di me.
Tommaso e Francesca gemono all’unisono e io scoppio a ridere.
«D’accordo, stiamo a sentire»
Mi stringo a Ben e inizio a fargli i grattini sull’avambraccio. Lui sospira e chiude gli occhi.
Tommaso mi guarda male.
«Lo fate apposta. Ben, mi piacevi di più single e attivo, chiaro?»
Poi intercetta lo sguardo di Francesca e, improvvisamente, si impappina.
«Cioè io…ehm…allora, se ieri ho detto, voglio dire, lo so che sto sempre a punzecchiarvi, ma…»
Francesca lo interrompe.
«Quello che vuole dire è che è molto dispiaciuto di aver ficcato il naso nei vostri affari privati e sentimentali e che non lo farà più, giusto?»
Lui annuisce e io provo un immediato moto d’affetto, perché sembra davvero pentito. Gli sorrido e anche Ben, che dice:
«Non è colpa tua. È stata colpa mia»
Mi guarda e sorride:
«Avevi ragione quella mattina in cui mi hai definito un … com’era la parola?»
«Ah…ehm…un coglione»
Tommaso scoppia a ridere.
«Apposto! Ma quando? Che ragazza intelligente!»
«Me lo merito» Ben fa una smorfia.
«Assolutamente sì» gli sussurro, prima di dargli un bacio. Non è che io lo stia esattamente tendendo sulla corda, ma come potrei?
«Non ricominciate!!! Insomma, prendete esempio di decoro da me e Fra» Tommaso assume quella che nelle sue intenzioni vorrebbe essere un’aria virtuosa, ma fallisce miseramente. E quando tutti ci mettiamo a ridere, si unisce a noi.
 
Alla fine, decidiamo di partire per Milano il giorno dopo.
Passiamo il resto della giornata con i bambini, ma dire loro che dobbiamo salutarci per un po’ è molto più complicato del previsto. Luca piange tanto che io mi sento un mostro e persino Ben resta senza parole. Lo tiene solo in braccio e lo stringe, ma non riesce a calmarlo, finché sua madre non lo porta in un’altra stanza.
Matteo mi fa quasi più tenerezza, perché si sforza di non piangere ma si vede che è tristissimo. E quando va a sedersi sulle gambe di Francesca, è quasi lei che si mette a piangere.
Quando alla fine andiamo a letto, siamo tutti e quattro stremati, nemmeno avessimo corso la maratona. Se non altro, non volano frecciatine e battute sulla divisione delle camere. Arrivati sulla sua porta, Ben decide di andare di nuovo a controllare Luca e Tommaso e Francesca mi salutano e vanno insieme in camera di lui.
Quando Ben torna, io sono già stesa a letto. Gli tendo le braccia e lui viene a sdraiarsi accanto a me.
«Lo so che è assurdo, ma non pensavo di affezionarmi così ai bambini.»
«Lo so, si vede che li adori. Ti dispiace che partiamo?»
«No» mi dà un bacio «Mi dispiace solo vederli così. Ma i bambini si riprendono velocemente. E li rivedrò a Londra…»
Londra.
Cavolo.
Un pensiero mi folgora la mente e non mi abbandona neppure quando Ben si toglie la maglietta e mi si accoccola vicino.
Certo, lui deve tornare a casa sua e poi…e poi dove andrà?
E io? In tutto questo, come mi colloco io?
E quando succederà? Quando dovremo salutarci per fare…cosa? Telefonarci? Vederci nei weekend? Sempre se lui non va a girare un film dall’altra parte del mondo… oddio!
Cerco di non pensarci, di tranquillizzarmi. Mi ripeto che Ben ieri parlava proprio di questo e che quindi lui ha già considerato e valutato il problema, anche se quella grande tonta della sottoscritta si è limitata a scrollare le spalle fingendo che non esistesse, troppo presa com’era dal momento.
Tutto questo non ti spaventa?
Mi spaventa sì. Mi spaventa l’idea che partirai, che ti allontanerai da me, e che io non potrò fermarti. Mi spaventa l’idea di non vederti per chissà quanto tempo. Mi terrorizza il pensiero che tu possa stancarti di me, di un rapporto a distanza. E che tu possa incontrare qualcun’altra.
E io…cosa farò?
Non riesco nemmeno a pensarci, voglio solo stare con lui.
Lo conosco da tre giorni e mi sono già annullata? Com’è possibile?
Ma mentre lo stringo forte, mi viene da piangere al pensiero che quella che sembra una favola magari è destinata ad un finale niente affatto felice.
 
La mattina dopo mi sveglio ancora agitata. Ho fatto fatica ad addormentarmi e, quando alla fine ci sono riuscita, mi svegliavo ogni mezz’ora. Morale: sembro un cadavere, ho due occhiaie spaventose.
Ben mi passa una mano sul viso e mi chiede:
«Non stai bene?»
«No no, tutto ok. Ho dormito male, tutto qui»
«Perché?»
«Non so, niente…» ma lui sembra preoccupato, per cui sorrido e gli dico:
«Te l’hanno mai detto che russi?»
«Cosa? Non è vero…»
«Invece sì, e in più ti agiti e tiri i calci»
«No, non è vero. A meno che io non dorma con donne particolarmente antipatiche…»
Ride e mi blocca i polsi per evitare che io lo picchi.
«… o particolarmente brutte, o…non lo so.»
«Ah, pure!»
«Allora, russavo?» mi sorride.
«Mmmm….forse, dopotutto, no» dico io e lui ride ancora. Poi mi lascia le mani e io schizzo in bagno per il restyling.
Tornata umana, scendo a fare colazione. Siamo di nuovo solo noi quattro, perché Livia e Colin hanno portato i bambini al mare, per non farli rattristare di più.
Affogo le mie preoccupazioni in un cappuccino doppio. Cappuccino e confabulata di nascosto con Francesca. Le bisbiglio a raffica le mie preoccupazioni, nascosta dietro una pianta in terrazza.
Lei sgrana gli occhi.
«Bè, sì, è una preoccupazione normale: il vostro sarà per forza un rapporto a distanza. Non ci avevi pensato?»
«No!»
«Ma come no? Tu che progetti le cose da qui a cinque anni…»
«Stavolta ero – come dire – preoccupata innanzitutto della fattibilità della cosa!»
«Bè, a quanto pare è fattibile. Ora, accetta l’idea che sarete spesso lontani…»
«Lo dici come se fosse facile! Ma tu con Tommaso come pensi di fare?»
«Non lo so. Non me ne preoccupo di certo ora. Ci siamo trovati. Funziona. Per il momento mi pare abbastanza, no?»
Uffa. Ma sarò solo io in tutto l’universo a pensare che non è abbastanza, che non basta mai? Non mi sembra così strano lo sperare di essere felici. Nel tempo. Durevolmente.
Emergiamo dalla pianta cercando di darci un tono. Io sgranocchio un secondo cornetto alla crema. Ecco, potrei preoccuparmi di non lievitare come una balena, magari. Della serie: come tenere la mente lontana dalle preoccupazioni amorose, concentrandosi sulle preoccupazioni caloriche. Che faticaccia.
Tommaso sta finendo di caricare le valigie in macchina. Ben è al telefono con Livia.
«Va bene, prometto che decido entro la fine della settimana. Ok, dico a Gin di chiamarti. Sì, ciao. Dai un bacio ai bambini»
«Perché devo chiamarla?» gli bisbiglio io.
«Dice che non avete finito di chiacchierare. Si vede che ti vuole già bene. Come tutti» mi sorride.
«Anche tu, spero» non posso fare a meno di dirgli.
«Soprattutto io» mi stringe.
«Pensare che ero convinta di sembrarti una stupida, all’inizio» dico, appoggiando la testa sulla sua spalla.
«No, perché?»
«Non riuscivo a parlare quando mi guardavi!» mi vergogno ancora al ricordo.
«Pensavo di esserti antipatico»
«Cosa?»
«Il giorno che ci siamo conosciuti. Ti guardavo da lontano parlare con tutte quelle persone, sempre sorridente e gentile… sei persino salita in piedi su quel tavolo! E invece con me…sono venuto ad aiutarti con quel giornalista ciccione e nemmeno mi hai guardato in faccia. E anche dopo….non parlavi mai»
«Prima perché ero troppo tonta per accorgermi che eri tu! E dopo perché ero troppo in ansia per aver capito che eri tu!»
Scoppia a ridere.
«Ma non dirmi…non sarai una mia fan?»
«No. Voglio dire, sì. Ma fai finta di non aver sentito, così non ti monti la testa»
«No, no, invece ho sentito benissimo!» mi dà un bacio. «Basta che non mi chiedi un autografo, o dettagli delle scene di nudo di Dorian Gray, o qualcosa sui capelli del principe Caspian…» scherza.
«Ben, ti prego, mi fai un autografo? Ben, ma lo sai che eri troppo carino in Prince Caspian: sembravi un orsacchiotto smarrito?» gli dico subito.
Lui fa una smorfia.
«Parliamo di Dorian Gray, anzi, di certe scene di Dorian Gray…» proseguo, imperterrita.
«Dai, ti prego, no…» geme lui.
«Va bene, allora parliamo di Killing Bono. Con chi stavi quando l’hai girato? E non dirmi che non stavi con nessuno, perché ho sentito un’intervista a Robert Sheenen in cui lui diceva che eravate entrambi fidanzati»
Parlo d’un fiato. E poi resto di stucco: ma da dove mi è uscita questa?
Cioè, ce l’avevo in testa da un po’ (va bene, va bene, ho rivisto ieri il video su youtube), ma … come mi è venuto di chiederglielo così?
Anche Ben sembra senza parole per un attimo.
«Ah. Robert non sta proprio mai zitto» borbotta. Poi sorride.
«Bè, immagino che prima o poi il discorso “ex” doveva saltare fuori. Solo che con te succede sempre tutto prima di quello che penso»
«Ah sì?»
«Guarda noi»
«Stai per dirmi di nuovo che non ero prevista?»
«Non eri prevista. Ma sei stata una sorpresa meravigliosa»
«Va bene, ti sei salvato…» borbotto.
Mi dà un bacio in fronte.
«E per Killing Bono: è vero, stavo con una persona» mi prende per mano e mi porta a sedere sul dondolo. Io mi rannicchio accanto a lui e gli poso la testa sulla spalla. Guardo le nostre mani intrecciate: non so più se voglio saperlo davvero. Cosa potrei farci, dopotutto? E se scopro che ha un passato con tutte modelle e attrici di Hollywood? Come se io non fossi il tipo che va in paranoia.
«È durata per un po’, stavamo insieme da prima. Ma non in modo continuo, ci siamo lasciati e siamo tornati insieme più volte.»
«Eri molto innamorato?» non lo guardo chiedendoglielo, ma faccio finta di essere assorta a giocare con il cinturino del suo orologio. Che bugiarda penosa.
«Non…lo so. Cioè, siamo sempre stati amici, le voglio bene. È stata una persona importante, sì. Ma non era la donna della mia vita, se è questo che ti preoccupa» mi dà un bacio sui capelli.
È pure sensitivo.
«Bè, non vuol dire. Puoi essere molto innamorato di una persona anche se non è quella della tua vita»
«Stai per raccontarmi dei tuoi ex, quindi?» sorride.
«Veramente pensavo tu avessi da farmi una lista infinita…»
Si mette a ridere.
«Decisamente no. Guarda che più da giovane io ero sfortunato con le ragazze. Ero sempre il più magro e il più piccolo di tutti. I ragazzi che piacciono sono quelli biondi, alti e muscolosi.»
Io gli faccio un sorriso.
«Dimmi che non hai ex biondi, alti e muscolosi»
«Ehm…»
«Ecco, lo sapevo. Voi donne siete così prevedibili…»
«Ma smettila! Per prima cosa, non è vero. Per seconda cosa, starai a preoccuparti tu di me? Io cosa dovrei dire, visto che tu passi il tuo tempo tra attrici e modelle?»
«Non significa niente. Per prima cosa io non sono uno da feste, non frequento party con modelle a meno che non siano party per i miei film o per film di amici. E le attrici le vedo sul set»
«E le baci anche, sul set!»
«Sai, mi piace molto questa te gelosa. Dimmi di chi devo essere geloso io, dai»
«Dei giornalisti vecchi, brutti e pallosi?»
«Dell’ex fidanzato biondo e palestrato?»
«Sai, mi piace molto questo te geloso!» lo prendo in giro, poi proseguo: «Comunque, fidanzato è una parola grossa. Di fidanzati, nella mia vita, non ce ne sono stati. Diciamo che ci sono stati dei…ragazzi. Ma niente di troppo serio. Il mio ex è palestrato, è biondo, fa il giornalista, è un cretino. Rendo l’idea?»
Si mette a ridere.
«Il fatto che è un cretino me lo fa piacere di più»
«Torniamo a te e alle modelle…»
«Parliamo del cretino…»
«Tu vuoi svicolare!»
«Anche tu»
«Va bene, d’accordo. Hai ragione. Non voglio svicolare, è che non c’è molto da dire. Solo che io ero innamorata di lui e lui di me no. O almeno, non era innamorato di me quanto io di lui. O forse non è proprio capace di amare qualcuno, gli manca la generosità… Comunque, ci siamo lasciati»
Ben non indaga oltre, ma mi fa una carezza.
«Sempre preoccupata per le modelle?»
«Certo!»
«Ok, ammetto che la mia ex fa la modella»
Lo sapevo.
«Bionda, scommetto»
«Sì»
Il brutto è che sono sicura di sapere di chi parla (sì, leggevo i gossip su di lui. Tutti) e mi si attorciglia lo stomaco. Mi trattengo appena in tempo dal dirgli che però è bionda tinta e quindi non conta.
«Voi uomini siete così prevedibili…»
«Ma io preferisco le more!»
Il problema, con Ben, è che quando sorride mi manda in pappa il cervello e non riesco a concentrarmi. E nemmeno ad arrabbiarmi.
«Va bene, parlami delle altre»
«Non ce ne sono. Avventure, sì. Ma donne importanti no. Sai, nessuno ci crede quando dichiaro che sono single perché davvero non ho il tempo da dedicare a una persona, ma è vero. E poi io non voglio una donna che sta con me perché sono famoso»
Esita un attimo e mi accarezza la guancia.
«Sei sempre dell’idea che vuoi stare con me? Tu meriti una persona che ti dedichi tutto il tempo del mondo…»
«Mi basta tutto il tempo che hai tu»
Ci guardiamo per un attimo.
«Sicura?»
No.
«Sì»
Lo voglio. Più di qualsiasi altra cosa. Quindi, in un modo o nell’altro…me la caverò.
 
Quando la sera arriviamo a Milano ci accoglie quell’afa tipica che opprime la città da tutta l’estate. Non si respira. Tommaso propone di andare tutti nel suo appartamento.
«Non staremo comodissimi come in Toscana, ma almeno evitiamo di spostarci per venire da voi con questo caldo»
E viene fuori che l’appartamento è un loft in zona San Babila. Pieno centro, a due passi dal Duomo. Ma davvero due passi. Tommaso e Ben sembrano non farci caso; io e Francesca, che conosciamo il mercato immobiliare di Milano, siamo un po’ più colpite dalla cosa.
«Hai capito? Alla faccia dell’appartamento» borbotta Francesca, guardando con sospetto un’enorme tela contemporanea che occupa un’intera parete.
«Dovrai abituarti all’idea di fare la sciura» le dico scherzosa, e lei mi pizzica il braccio.
Piuttosto, mi chiedo il perché di queste tinte pastello. Sono belle e luminose, ma si sporca tutto con una facilità incredibile. Non mi azzardo a sedermi sul divano con Ben, che ha acceso la tv e guarda il notiziario della BBC, ma opto per una doccia.
Quando tutti ci siamo rinfrescati, decidiamo di mangiare fuori e andiamo in Corso Sempione. Tommaso parcheggia e fa per guidarci tutti in un super ristorante lussuoso, quando Francesca mi dà di gomito appena in tempo.
Guardo l’insegna.
«Ehm… Tom» lo chiamo come fa Ben, ormai. «Te l’ho mai detto che io non mangio il pesce?»
Si ferma di botto.
«Non mangi il pesce…in che senso? Che non mangi…lo scorfano? O magari l’aragosta?»
«No, che non mangio il pesce nel senso di nessun pesce. E per pesce si intende, per la cronaca, tutto quello che vive sott’acqua. Molluschi compresi.»
Lui geme.
«Ma insomma Gin…ma come? Tutti mangiano il pesce! A Milano, poi!»
«Sì, ma tutti tranne me, perché io sono intollerante»
Mi guarda come se fossi la fonte di tutti i suoi problemi.
«Non importa» interviene Ben «Tu porta Francesca a mangiare il pesce e noi andiamo da un’altra parte»
Ma lui e Francesca non vogliono sentirne parlare. Passiamo l’ora successiva a cercare posto in altri ristoranti (con Tommaso che borbotta a cadenza regolare che non sapeva esistessero marchigiani intolleranti al pesce), ma alla fine troviamo una bellissima osteria gestita da un signore sardo simpaticissimo, così loro mangiano il pesce e io le pappardelle al ragù.
Ah, chi più felice di me?
 
Il giorno dopo, fa ancora più caldo, se possibile.
«Ah, il meraviglioso venticello dei colli toscani» si lamenta Tommaso, alle sette di mattina.
Siamo tutti in piedi, accaldati e stanchissimi, perché l’aria condizionata non funziona e le stanze da letto sono diventate camere della tortura.
Ben è accasciato su una sedia (persino il divano è inavvicinabile: la stoffa ti si appiccica addosso) con gli occhi socchiusi. Gli do un bacio su una spalla, passandogli accanto per andare a fare l’ennesima doccia.
Davanti allo specchio del bagno guardo la mia pelle sudata e le mie occhiaie e lego i capelli in cima alla testa, per scoprirmi il collo.
Francesca passa davanti alla porta e mi sorride.
«Doccia?»
«Sì, grazie» ansimo io.
Lei ride e, improvvisamente, entra e chiude la porta.
«Gin, senti… ma tu e Ben…ehm…?»
Abbasso la voce in un bisbiglio da cospiratrice.
«Ancora no. Voi?»
Le leggo in faccia la risposta ancor prima che parli.
«Fra!!!! Quando?»
«Shhhh! Stanotte» bisbiglia. «Insomma, faceva così caldo che io sono venuta a farmi una doccia. Solo che anche lui non riusciva a dormire. E quindi ha pensato bene di raggiungermi e…ehm..»
«E?»
Arrossisce furiosamente.
«E…tutto bene. Sono davvero felice»
«Non sai quanto sono contenta. Ti abbraccerei, se non facesse così caldo. È davvero un bravo ragazzo»
Lei annuisce e io aggiungo.
«Certo che bruciate le tappe. Io ero innamorata di Ben praticamente prima di conoscerlo…» scherzo «E invece guarda voi due! Altro che Arnaldo!»
Lei si fa subito seria.
«Gin, mi dispiace tantissimo per quello che è successo in Toscana. Con Arnaldo. Non avrei mai pensato che lui…»
«Ma mica è colpa tua!» la interrompo «Certo, non avrei mai pensato che, oltre a tutti i suoi difetti, fosse anche un maiale. O meglio, forse sì, ma non credevo certo che si comportasse così! Con me, poi!»
«Io invece ero sicura che gli piacevi. Bastava guardare come ti osservava, sempre»
«Cosa? Non me ne sono mai accorta!»
«Perché sei un’incantata! E da quando hai incontrato Ben, lo sei ancora di più» ride lei.
Non posso darle torto.
 
Dopo la doccia, abbandoniamo i ragazzi seduti per terra con le finestre aperte.
«Ditelo, che volete andare a fare shopping» dice Tommaso, accusatorio: «Quale motivo potete avere per uscire con questo caldo?»
«Se proprio vuoi saperlo» gli dice Francesca con grande dignità «Stiamo andando a prendervi la colazione»
«Sarà…» le dice lui, guardandola con gli occhi socchiusi. «Ma secondo me è il richiamo delle vetrine…»
Noi lo ignoriamo compassate e io do un bacio a fior di labbra a Ben.
«Lo vuoi un cappuccino?» gli chiedo, perché so che lo adora.
«Troppo caldo. The freddo, per favore»
Mi dà un bacio anche lui e mi dice:
«Dimmi la verità: non torni più perché andate a fare shopping?»
«Tranquillo, non dovrete chiamare “Chi l’ha visto?”»
«Guarda che non va bene raccontare bugie al tuo ragazzo…» interviene Tommaso.
«Ma che malfidato!» sbotta Francesca «Non solo andiamo a prendervi la colazione, ma sentiamo anche le lamentele!»
Ce ne andiamo con aria di grande dignità. E andiamo davvero al bar a prendere la colazione. Il fatto che, nel tragitto, riusciamo a fare una deviazione lampo da Tezenis dimostra soltanto che noi donne siamo capaci di fare più cose contemporaneamente.
E siamo anche veloci: ci gettiamo sugli scaffali al volo e tiriamo giù le cose a piene mani. Il vantaggio di Tezenis è che sai già che taglia porti e quindi vai sul sicuro.
Francesca aggancia tre completini in pizzo in colori sgargianti, mentre io assalto le sottovesti e i pigiamini a culotte.
Insomma, non si sa mai. Guarda Francesca e Tommaso. Quando una cosa deve succedere, succede. E la mia regola di vita è che è meglio farsi trovare pronti. Non si sa mai. Ecco. E poi, un pigiama in più serve sempre.
Oh, guarda quella delizia di camicia da notte a scacchettini …sarebbe un delitto lasciarla qui.
Pigiamo tutto per bene dentro le borse e andiamo al bar. Tornate a casa, io spingo con nochalance la mia borsa stracolma dietro il divano, mentre Francesca serve le brioches.
Dopo colazione, il tecnico dell’aria condizionata ancora non si vede e noi decidiamo di andare nella palestra che io e Fra frequentiamo, per passare la giornata nell’idromassaggio e sperare di arrivare a sera senza andare in ebollizione.
In spogliatoio, io mi cambio a velocità supersonica e sfreccio sui piedi di Francesca per salire di corsa le scale e fiondarmi nella vasca. Sono immersa fino al collo quando Fra mette dentro la testa e mi guarda stranita.
«Ti stai allenando per la maratona?»
«Spiritosa. Non ho intenzione di sfilare davanti a Ben in costume da bagno, grazie.»
«Ah, bè, certo. Quindi le cose che hai comprato oggi non gliele fai vedere? Gli dici che le hai addosso e che deve arrangiarsi a immaginarle a luce spenta? Perché se è così potevi risparmiarti la spesa»
«Mi sto attrezzando, sappilo» le rispondo, sostenuta.
Dopo poco arrivano Tommaso e Ben, in costume. Ben è davvero, davvero magro. Tommaso invece è abbastanza prestante. Gli lancio un’occhiata e intercetto lo sguardo di Francesca, che gli si accoccola addosso tutta felice e mi fa l’occhiolino.
Ben mi abbraccia e io gli poso la testa sulla spalla.
È martedì mattina e non c’è quasi nessuno, per cui possiamo tranquillamente occupare la vasca senza disturbare e senza rannicchiarci in un angolino. Quando andavamo io e Francesca, finivamo sempre pressate tra estranei sgarbati e musoni o ragazzi che urlavano, ridevano e si spruzzavano acqua addosso. Oggi che potremmo anche distenderci in acqua e schiamazzare a nostro piacimento, io e Ben ci sistemiamo in un angolo della vasca, mentre gli altri in quello opposto e siamo troppo presi per preoccuparci di quello che facciamo, a vicenda. Quando Tommaso e Francesca si alzano e dicono che vanno a farsi un paio di vasche in piscina (salutisti fino al midollo, questi due) io quasi non me ne accorgo.
Rimasti soli, io e Ben ci stringiamo ancora di più. Le sue mani corrono sulla mia schiena e io gli accarezzo il petto. Quando gli faccio una carezza sul ventre, lui sospira e sorride e mi prende con delicatezza la mano.
«Le pareti sono trasparenti…»
La vasca è in una stanza fatta praticamente di vetro, tranne che per il pavimento.
«Accidenti» sbotto io.
Lui si mette a ridere e poi, improvvisamente, inverte le nostre posizioni e si mette sopra di me, mentre io poggio la schiena contro il bordo della vasca.
Lui mi guarda e io mi sento…bene. Perché mi guarda con tenerezza, persino con ammirazione. Con un dito, traccia il contorno del mio zigomo e poi scende sul collo. Io chiudo gli occhi. Si arrotola attorno al dito una ciocca di capelli che mi è sfuggita dallo chignon.
«Da chi hai preso questi ricci?» mi chiede, baciandomi il collo.
Lo stringo più forte.
«Da mia mamma»
Lui sorride e mi scioglie i capelli e ci infila poi subito le mani.
«Li preferisco sciolti» mi dice, semplicemente.
Dopo altri dieci minuti di coccole e carezze, mi sembra chiaro che la situazione si sta scaldando. E poi, proprio quando Ben mi bacia in modo più febbrile e allunga la mano verso il pezzo di sopra del mio bikini, entrano tre signore.
Si piazzano nella vasca e si mettono a fissarci. Bisbigliano tra loro e ci guardano.
«Oggi ho visto la Mariella, dal macellaio» si mette a raccontare una, che intanto squadra per bene la schiena di Ben e alza un sopracciglio in direzione della sua compare.
«Ah, che cara!» dice un’altra, che mi fissa spudoratamente, fregandosene del fatto che io la guardo male in risposta.
Ben non le vede, perché è di spalle, ma sente che io mi sono irrigidita, per cui si ferma per guardarmi. E mi vede mentre tento di incenerire con lo sguardo le tre galline. Si volta e gli viene da ridere.
«Ehm…Gin…magari andiamo, che dici?»
Dico che le strozzerei, tutte e tre.
Di là, Francesca e Tommaso si sfidano a stile libero. Ci chiamano perché li raggiungiamo, ma noi decliniamo e restiamo seduti sul bordo della vasca a guardarli (io rigorosamente avvolta nell’accappatoio, mentre sostengo che no, non ho per niente caldo. Accidenti.). Siamo entrambi un po’ scossi dalla brusca interruzione del nostro bagno… ma per quanto scossa e incavolata, mai nella vita - ma mai, mai, mai e poi mai - mi farei vedere da Ben con in testa la cuffia per fare nuoto.
 
Tornati a casa, scopriamo che il tecnico dell’aria condizionata è arrivato e che il portinaio l’ha fatto entrare, per cui passiamo in casa, al fresco, il resto della giornata. Non usciamo neppure per cena, ma ordiniamo la pizza.
La mattina dopo, però, tiro Ben giù dal letto per portarlo a fare colazione nel mio bar preferito, in zona Brera. Francesca e Tommaso promettono di raggiungerci a breve…sì, come no. Messaggio recepito. Vogliono stare soli.
Usciamo nell’aria del mattino e Milano mi sembra più bella che mai. Il cielo è miracolosamente azzurro e noi passeggiamo verso il Duomo e poi ci dirigiamo verso il Castello.
«Non puoi dirmi che questa città non è bella» mi dice Ben.
«Ma io ti sto facendo vedere il meglio» sorrido io.
«Probabilmente con te mi piacerebbe anche il peggio» mi sussurra e io ho un brivido.
Gli butto le braccia al collo per strada.
«Ridimmelo. Soprattutto ora che sto per dirti che devo assolutamente andare a comprarmi qualcosa da mettere perché non ho più niente in valigia»
«Lo shopping non mi piace in nessun modo» ma lo dice sorridendo «Ma, anche se preferirei vederti andare in giro per casa senza vestiti, mi sa che non posso dire di no in questo caso»
«Grazie! Prometto che non mi divertirò» rido io.
«Promettimi che facciamo presto, piuttosto. E che prima mangiamo qualcosa. Mi serve del caffè, se devo affrontare i negozi»
 
Il mio bar preferito mi è proprio mancato. Innanzitutto, conosco tutti quelli che ci lavorano e tutti mi chiamano per nome e sembra di essere tra amici. E poi fanno dei dolci buonissimi. Non a caso, è sempre pieno di gente. Io e Ben troviamo un tavolo e poi io vado al bancone per ordinare. I baristi mi salutano, mi chiedono com’è andata in Toscana (soprassediamo) e dov’è Francesca. Parlo un po’ con loro e poi torno al tavolo. Arriva quasi subito Michele, il cameriere, con la nostra colazione.
«Ecco qui, bellissima»
«Grazie, Michi»
«E di che! Certo, preferiamo Francesca a questo ragazzo…che è tuo fratello immagino…» mi guarda speranzoso e io scoppio a ridere.
«No»
«Tuo cugino?»
Ben lo guarda male.
«Nemmeno» gli sorrido e lui fa una smorfia esagerata.
«Con questa notizia mi hai rovinato la giornata, lo sai, vero?»
Io rido, ma mi affretto a prendere la mano di Ben.
«Peccato, perché io invece sono molto, molto felice»
Michele se ne va e Ben fa per parlare, quando vede un altro barista mandarmi un bacio da lontano.
«Per sapere, qui fanno tutti così?»
Io rido e gli faccio una carezza.
«No, tanto per capire. Quante volte vieni qui?»
«Due al giorno?»
«Due?»
«Almeno» sorrido, angelica.
Michele mi passa dietro e mi tira una ciocca di capelli. Ben si sporge dallo sgabello per guardarlo male, ma quello, tutto tranquillo, ride e lo saluta con la mano.
«Non ci veniamo più qui» mi dice, categorico.
«Geloso, Mr. Barnes?»
«No…io…un po’» ci pensa su «È solo che c’è così tanto di te che non so…e il pensiero che quando saremo lontani…»
Mi è rimasta l’ansia di vederlo cadere in preda ai dubbi, per cui mi affretto a interromperlo.
«Ah, quindi io sono gelosa delle modelle e tu dei baristi?» dico, cercando di buttarla sullo scherzo.
«Vedi delle modelle qua attorno? Perché io vedo solo i baristi»
«E io, invece, vedo solo te»
Lui fa un sorriso.
«Quand’è così…possiamo sempre fare colazione da un’altra parte»
«Lo dici perché non hai assaggiato le loro torte»
Con la forchetta prendo un pezzetto della mia torta e glielo avvicino alle labbra. Lui mastica piano e poi mi guarda male.
«Sono sempre dell’idea di cambiare bar»
Io reprimo un sorriso e gli do ancora torta. Lui impercettibilmente si rasserena e mi prende la mano. Facciamo colazione imboccandoci a vicenda e Ben chiede addirittura un’altra fetta. Io mi alzo e vado ad appoggiarmi a lui. Circondata dalle sue braccia, gli do un bacio sui capelli e lui si stringe a me, affondando il viso nella mia spalla.
Gli accarezzo la schiena.
«Gelosone» gli sussurro. Lui non dice niente, ma mi stringe più forte.
Ma so che quello del futuro è un discorso che fa capolino tra noi, nei nostri pensieri, più spesso di quanto vorremmo.
Infatti più tardi, mentre camminiamo per strada in cerca di vestiti per la sottoscritta (non posso credere di essermi ridotta a non avere vestiti, proprio io! Ecco cosa si intende parlando di pena per contrappasso: potrei scrivere su un saggio su come spiegare l’Inferno di Dante con questa metafora), Ben dice esitando:
«Ieri mi ha chiamato il mio agente. Voleva sapere quando torno, perché vuole propormi dei copioni»
Io cerco di mantenere un tono di voce tranquillo, quando chiedo:
«Oh, bene. Che tipo di copioni?»
«Film. Per ora il teatro è un po’ da parte…»
Si ferma e mi abbraccia.
«Lo sai che prima o poi devo tornare a Londra»
«Sì, lo so» sussurro, stretta a lui «Ma va bene. Lo sapevo. Non c’è problema. E poi Londra non è così lontana. Insomma, un’ora d’aereo. Se volessi andare a Bergamo ci impiegherei lo stesso tempo! Diciamocelo, ormai con i voli si arriva dovunque e…»
Mi interrompo per prendere fiato.
«La mia piccola coraggiosa» mi sussurra lui.
Io all’improvviso lo stringo forte.
«Ben, dimmi solo se è un addio o no»
«Certo che no» mi dice, accarezzandomi la schiena, come se volesse tranquillizzarmi.
«No, davvero. Io ho bisogno di sapere solo questo: se quando partirai tu vorrai ancora vedermi e stare con me o se finisce tutto così e io resterò qui a chiedermi cosa fai e se mi stai pensando mentre tu sarai al Polo Nord per lanciare qualche super film…»
«Al Polo Nord e circondato da modelle. Tutte bionde.»
Io faccio un mezzo sorriso.
«Scusa, mi ero ripromessa di non angosciarti…»
«Non scusarti. È normale avere questi dubbi. Mi sembravi fin troppo serena, in effetti. Avere una storia a distanza è difficile»
«Tu ne hai avute?»
«Sì…con la mia ex eravamo spesso lontani. Però anche lei viaggiava molto per lavoro e cercava di raggiungermi appena poteva»
«Questo posso farlo anche io» certo, se escludiamo il problema soldi e il fatto che sono senza lavoro, ma affrontiamo una cosa per volta. «È finita per la lontananza?»
«No. Però lei mi accusava sempre di essere troppo impegnato, distante… non voglio che succeda anche con te»
«Non succederà, Ben»
«Non puoi saperlo, Gin. Non ci siamo ancora salutati e già ti rendo triste»
«No, tu mi rendi felice. Per questo non voglio che finisca. Io sono solo spaventata che tu ti stanchi, che non abbia voglia di aggiungere ai tuoi impegni anche…me»
«Ma Gin, io ero sicuro di non voler avere una storia prima di conoscere te. E da quanti giorni ci conosciamo? Quattro? Mi sembra che sia chiaro che io voglio stare con te, se tu hai cambiato le carte in tavola così velocemente»
«Sì, ma tu…tu sei Ben Barnes e io invece…» lo sto ancora stringendo e non lo guardo, ma lui si allontana di un passo e mi prende il viso tra le mani. E quando io evito di incontrare i suoi occhi, resta in silenzio e mi accarezza lo zigomo con il pollice.
Alzo lo sguardo.
«Io non sono Ben Barnes, ma semplicemente Ben. E questo sia chiaro da subito, ok? Tu e io e basta»
«Ok» dico esitando.
«Gin, davvero a me la vita da jet set non interessa. Ma se tu non ti fidi, io non so come fare a costringerti a credermi. Se mi dai fiducia, vedrai che è vero. Ma devi anche sapere che a volte è inevitabile che io vada alle feste e incontri persone. Lo faccio per lavoro»
«Ma io mi fido di te! È solo che, rispetto a te, io sono così…»
«Cosa?»
Io resto zitta.
«Gin! Così cosa?»
«…insignificante»
Lui sospira.
«Scusa, ma questa è la cosa più stupida che potevi dire e non sono abituato a sentirti dire cose stupide. Ma perché, cosa ho fatto per farti pensare che sono così presuntuoso?»
«Niente, io non lo penso!» sono scandalizzata.
«Invece sì, perché se io penso che tu sei una ragazza bellissima e intelligente e tu sei convinta che io invece ti considero insignificante, allora io sbaglio qualcosa, ma so cosa, quindi dimmelo tu!»
L’ho fatto arrabbiare. Mannaggia a me. Detta così, sembro anche una stronza.
«Ben, non sei tu, sono io! È solo che io…io non me lo so spiegare com’è possibile che io sia stata così fortunata da incontrarti e da essere qui con te, ora» dico d’un fiato.
«Ma perché?»
«Ma come perché? Ma perché è…impensabile! Ancora mi chiedo se sogno o se è vero»
Lui scuote la testa.
«Scusa, ma io potrei dire lo stesso. Anzi, io te l’ho detto per primo, se proprio dobbiamo essere precisi. Che mi considero fortunato per averti trovata. Pensi che io non sono sincero? Pensi che mi reputo superiore a te?»
Sto per ripetergli che lui è…bè, è lui, ma mi mordo il labbro appena in tempo. Ma capisce lo stesso.
«E non dirmi di nuovo che io sono Ben Barnes, per favore. Per me non significa niente. È il mio lavoro. E basta. Ma tu sei nella mia vita privata, ora» poi esita «Sempre se lo vuoi, almeno»
«Ma certo che lo voglio!» entro in panico «Come fai a pensare di no?»
«Perché tu ne esci con queste idee assurde. Scusa, cosa dovrei pensare? Noi stiamo insieme o no? Dimmelo.»
Ah, devo dirlo io?
«Certo!!» esclamo precipitosamente.
«Allora basta. Niente Ben Barnes. Ben e Gin. E basta»
Annuisco.
«E guai se te lo sento dire di nuovo. Non lo devi nemmeno pensare» mi ammonisce.
«È solo che sembra troppo bello per essere vero»
«Ma perché siamo io e te, o perché io sono famoso?»
«Perché siamo io e te! Insomma, a me non importa se sei famoso. Anzi! Solo che tu lo sei e quindi per me è ancora più strano! Primo che io sia fortunata, secondo che tu sia tu! Ok, ok, non lo dico più» concludo precipitosamente, vedendo la sua espressione.
 «Gin…a volte dici cosa con poco senso, sai?»
«Lo so» mi mordo un labbro «Scusa»
«Vieni qui» mi abbraccia di nuovo e io mi rilasso.
Sono un’emerita idiota e se rovino questa storia a suon di paranoie non so cosa mi faccio.
«Dopo che ti ho fatto arrabbiare, vieni lo stesso con me a fare shopping?»
«Non sono arrabbiato. Volevo solo che le cose fossero chiare. Lo shopping è proprio, proprio necessario?»
«Sì, se non vuoi che io giri nuda»
«Fantastico, allora non serve!»
«Molto bene, ma te ne pentirai quando domani andremo a fare colazione al bar»
«Se la metti così, non vale» sospira in modo esagerato. «Va bene, hai vinto tu»
 
Alla fine, sono davvero brava: faccio tutto velocissimamente e mi fermo a sbavare solo davanti a un vestito nero, drappeggiato, lungo fino al ginocchio, monospalla con manica ricamata in pizzo, meraviglioso, fantastico, incredibile, che costa la modica cifra di 490 Euro e che quindi resterà un mio sogno proibito. Torniamo a casa e reclutiamo Francesca e Tommaso per andare nel mio vecchio appartamento, di cui ho ancora le chiavi.
Normalmente, io non inviterei nel mio minuscolo ex appartamento Ben, chiaramente abituato a ville megagalattiche e a loft in pieno centro, ma pazienza. Mi ripeto che vuole stare con me – me l’ha detto lui – e di darmi una calmata mentre entriamo come ladri nella mia ex stanza.
Lui si guarda attorno e scoppia a ridere quando vede una suo foto che campeggia nella bacheca appesa al muro.
«Carino, vero?» dico io, disinvolta «È il mio ragazzo, sai…»
«Molto carino, sì» sorride lui.
Non c’è praticamente più nulla di mio qui. Sara ha davvero portato via tutto. Stacco la bacheca dal muro e me la porto via.
 
La sera, mentre siamo a cena, Livia chiama Ben al cellulare. Lui si scusa e si alza e, quando torna, dice che ha un annuncio da fare.
«Allora è deciso, ho accettato. Recito nel film di Livia»
Tommaso esulta e gli dà il cinque.
«Ma avevo capito che il tuo agente ti sconsigliava di accettare…»
«Infatti è così. Ma io ho deciso che invece accetto. E accetto più volentieri se tu, Gin» e qui mi prende la mano «Verrai a lavorare con me, al film»
Momento di attonito silenzio.
«Cosa?»
«Voleva dirtelo Livia, ma te lo preannuncio io. Ti offrirà un lavoro nella crew del film. L’hai molto colpita con la tua conoscenza dei libri e le tue idee»
Francesca batte le mani. Tommaso fa un fischio.
«Ben, è un’idea meravigliosa! Ma perché non ci ho pensato io?» esclama
Io sono senza parole.
«Gin? Che ne dici?» ben mi sorride dolcemente.
Che ne dico? Se riuscissi a parlare, magari…
«Io…non lo so» lo guardo stranita «Non sono capace»
«Di fare cosa?»
«Di fare…quello che dovrei fare. E che cosa sarebbe a proposito?»
Tommaso scoppia a ridere, Francesca scuote la testa invece:
«Gin, sarai bravissima. Non preoccuparti. È un’idea fantastica: potrete stare insieme»
Potremo stare insieme! È vero! Oddio, non ci avevo pensato. Mi si illuminano gli occhi.
Ben mi stringe la mano.
«Gin, ascolta. Voglio che decidi sulla base di quello che vuoi tu. E egoisticamente anche sul fatto che sì, potremo vederci di più. Ma tieni conto che dovrei girare un altro film prima che siamo pronti per questo. Che dovrò viaggiare molto, comunque. Che per te significa lasciare casa tua, la famiglia…»
«Ben, la stai spaventando!» dice Francesca, scandalizzata.
«Sto dicendo la verità» sospira lui «Gin, io vorrei che tu dicessi di sì. Ma per prima cosa voglio che ci pensi bene, perché è una decisione importante. Noi due ce la faremo comunque, anche se scegli di dire no»
 
Io sono seriamente, seriamente a rischio di innamorarmi di questo ragazzo. Oltre la razionalità, la prudenza, oltre qualsiasi cosa.
 
«Ok, dimmi i pro» lo guardo negli occhi, quegli occhi scuri in cui potrei perdermi, e li vedo addolcirsi.
«Ci vedremmo di più. Potresti già venire a Londra con me, tra qualche giorno: Livia ci raggiungerebbe presto. Quindi non dovremmo salutarci, per ora. Londra è stupenda. Livia è una professionista, so che ti troveresti bene. Non ti proporrei mai di lavorare con qualcuno che non sia bravo, serio e professionale come lei»
«Potresti viaggiare molto e conoscere tante persone nuove» mi dice Tommaso.
«E sarebbe una nuova esperienza, che fa sempre curriculum» aggiunge Francesca.
Ci guardiamo e lei sorride:
«Non osare dire di no perché ti ho detto che volevo che cercassimo lavoro insieme»
Tommaso le passa un braccio attorno alla vita.
«Non preoccuparti per lei» aggiunge.
E io incontro di nuovo gli occhi di Ben. Mi guarda attento e premuroso.
«Gin, pensaci. Senza fretta, davvero…»
Io lo voglio. Voglio che funzioni davvero, con lui.
Qui non ho più il lavoro, né l’appartamento.
Sarebbe così tremendo accettare?
Io di solito sono una persona che riflette cento volte sulle cose e poi ricomincia da capo. Ma stavolta… cosa ho da perdere? Non ho idea di cosa sia questo lavoro, ma ci sarebbe Livia. E, cosa più importante, ci sarebbe Ben. Anche se si trattasse di portargli il caffè, sarebbe così male? Potrei vederlo sempre. Non dovrei salutarlo a breve. Vedrei Londra, con lui. casa sua, i suoi amici…la vita che ha lontano da me.
Anche se tutto questo non significasse un nuovo lavoro, sarebbe così tremendo?
Vorrei dire che non lo so, ma lo so. Da quando l’ho incontrato, lo so cosa voglio.
 
Così lo guardo negli occhi e dico semplicemente:
«Sì»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=993270