Ogni singolo istante

di Shomer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***




 

Ogni singolo istante

Per Adrienne.


 





Quella pallida imitazione di una cittadina che era stata il mio rifugio durante gli anni successivi al liceo si impossessò di me tanto da diventare una prigione. Quell’aria umida e consumata si insinuava nei miei polmoni prepotentemente, facendomi tossire e nauseare, la puzza di salsedine e di mare si poteva percepire in tutte le strade, in tutte le piazze e in tutte le case non appena si apriva lievemente la finestra. C’era sempre un vento freddo umidiccio che penetrava nelle ossa, scavava da dentro in fuori quasi come se volesse uscire da te e non entrare in te e io tutto questo lo odiavo. Odiavo quella città, così tossica, ma non ne potevo fare a meno, perché fu proprio in quella città che ti vidi. Era quella la città in cui tu c’eri, e allora dovevo esserci anch’io.




Capitolo Uno


 

Poi scrissi il nome tuo versando piano sulla neve
la strana cosa che sembrava vino,
mi aveva affascinato il suo colore di rubino…
perché lo cancellasti con il piede?
Canzone delle situazioni differenti – Francesco Guccini


Avevo già passato tanti anni a guardarti e il giorno in cui ti ho fatto entrare nella mia vita non lo ricordo, ricordo invece la prima volta in cui ti ho visto per davvero. 
Mi presentai a casa tua, che era anche la mia, con due zaini e una valigia, dopo tre mesi che non ti vedevo, dopo tre mesi che non ti sentivo, per scelta e per necessità. La porta era aperta e io appoggiai gli zaini e la valigia sull’uscio senza farmi sentire, perché volevo vedere com’eri mentre pensavi che nessuno ti stesse guardando. La pioggia batteva furiosamente sui vetri e il rumore che faceva era assodante, ma nonostante questo cercai di muovermi il più silenziosamente possibile, gli occhi che guardavano il mondo in cui non mi avresti mai fatta entrare. Ti trovai con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, i gomiti appoggiati sul davanzale e i capelli lasciati cadere disordinatamente sul volto. I tuoi occhi azzurri, liquidi, quasi grigi, non erano rivolti a me, non sorridevano per me e con me come li ricordavo, ma si dirigevano distrattamente verso i tetti delle case tempestate dalla pioggia. Pensai che avrei voluto essere a conoscenza dei pensieri che ti passavano per la testa e mi chiesi se qualcuno di quelli fosse rivolto a me.
In quel momento pensai che tu sembrassi un angelo. Mi venne la vaga idea che, magari, fuori da quella finestra stessi cercando il Paradiso dal quale eri stato cacciato. Non volevo rompere quell’istante magico con inutili saluti, sapevo già che nel momento in cui ti fossi accorto che ero lì, in casa tua, in casa nostra, mi avresti trattato con freddezza e disprezzo, perciò mi persi nel contemplare ogni tuo movimento: ti guardai accendere una sigaretta, ti seguii mentre con un gesto meccanico te la portavi alla bocca ed espiravi il fumo, rimasi incollata alla tua mano che ogni tanto si teneva la testa e ogni tanto si massaggiava la fronte. Dopo un tempo che non riuscii a calcolare ti girasti e io mi accorsi che i tuoi occhi erano esattamente come li ricordavo, con ogni sfumatura più chiara e più scura nel punto esatto e le lunghe ciglia folte a contornarli.
Lo sguardo che mi lanciasti forse me l’avevi rivolto solo in un’altra occasione, occasione che avrei tanto voluto dimenticare. Ancora non sapevo che quello, seppur brillante, inquietante e indecifrabile, sarebbe stato l’unico sguardo che mi avresti rivolto per i mesi successivi.
«Ciao» mormorai, rompendo quel silenzio a fatica, tanto era leggero e familiare, tanto mi metteva a mio agio.
«Che cosa ci fai qui?» dicesti, e la tua voce era bassa e roca, però io riuscivo a scorgervi un qualcosa di melodioso e desiderai che tu continuassi a parlarmi ancora e ancora. Fu in quel momento che ti vidi: fu in quel momento che capii quanto la tua figura, i tuoi occhi, i tuoi gesti meccanici, la tua voce fossero parte di me. Ripensando a quel momento, tempo dopo, capii che forse una delle cose che stavo cercando era una di quelle che con la mia partenza avevo lasciato.
«Sono a casa» risposi, forse un po’ balbettante per il freddo, o forse era solo soggezione.
«Pensavo che non saresti più tornata» dicesti, col tono di voce più dignitoso possibile per nascondere la sorpresa. «Mi sono sbagliato. D’altro canto, pensavo anche che non te ne saresti mai andata.»
«Credevo di non avere nessun motivo per restare.»
Il tuo sguardo era come una lama gelida che veniva strofinata sulla mia pelle, tanto che credetti davvero che se fossi andato un po’ più a fondo mi avresti tagliata. L’enigma che si nascondeva dietro i tuoi occhi ancora non lo capivo. L’avrei capito molto tempo dopo.
«La tua stanza è esattamente come l’hai lasciata tre mesi fa» dicesti, gelido, passandomi affianco e sfiorandomi un gomito con la mano. «Non ho toccato niente.»
«Sono innamorata di lui» dissi, forse per giustificarmi, quando tu ormai mi avevi superato, così non avrei dovuto guardarti negli occhi e non avrei sentito neanche il tuo sguardo perforarmi la schiena. «Non è stato facile.»
«Non lo è stato neanche per me.»
Il rumore di una porta mi fece capire che te ne eri andato.


Ambientarmi di nuovo in casa mia fu difficile. Ero troppo giovane, troppo ingenua e troppo debole per comportarmi come se nulla fosse come mi ero ripromessa di fare. Non ero capace di tagliar fuori i ricordi dalla mia mente perché avrebbe significato dover tagliar fuori anche te e non potevo permettermelo.
La mia stanza non era esattamente come la ricordavo, come mi avevi detto tu. Mi accorsi subito che mancava qualcosa. La sottile catenina d’argento con un ciondolo, una chiave, non c’era più. Sul mio comodino, coperti da un sottile strato di polvere, c’erano solo dei libri. Non mi interessò subito capire dove fosse la mia collana, immaginavo che probabilmente l’avessi presa tu, arrabbiato perché non l’avevo portata con me, io che quella chiave non me la toglievo mai.
Quel pomeriggio mi chiesi per quanto tempo saresti stato arrabbiato con me, se prima o poi mi avresti perdonato o se quello che avevo fatto era uno di quegli sbagli su cui non si può sorvolare, uno di quelli che fanno troppo male. In quel periodo ancora non sapevo quanto tu avessi bisogno di me. Decisi comunque che ti avrei imposto la mia presenza, che non me ne sarei andata da quella casa che volevo condividere con te, che ti avrei riammesso nella mia vita anche se tu non mi avresti fatto più entrare nella tua. Sapevo che potevo farcela, che entrambi potevamo farcela anche se la sua immagine non se ne andava dalla mia mente, anche se non se ne andava nemmeno dalla tua, anche se lo vedevamo continuamente camminare davanti a noi con quei passi scoordinati. Avrei voluto dirti che avevo fatto uno sbaglio e non me ne sarei andata mai più, ma sapevo che tu mi avresti risposto che non te ne importava niente.
«Perché sei tornata?»
Mi voltai di scatto ed eri lì, appoggiato allo stipite della porta, chissà da quanto tempo fermo a fissarmi. Avevi i capelli scompigliati e gli occhi più chiari che avessi mai visto; immaginai che fossi arrivato lì alla porta della mia camera con quel solito passo lento e irritante, quello che fa capire alle persone che stai pensando a qualcosa di importante e che non hai tempo di stare attento a come cammini.
Mi incatenai al tuo sguardo come avevo sempre fatto per quattro anni senza accorgermene, senza sapere che non sarei potuta scappare.
«Non ho trovato ciò che cercavo.»
Ti avvicinasti a me lentamente, mettendomi i brividi, l’espressione gelida di chi dentro di sé ha solo rancore e rabbia, frustrazione e nostalgia. «Forse ciò che stavi cercando non ha voluto farsi trovare» dicesti e dentro di me lo sapevo che eri soddisfatto, perché tu avevi avuto ragione e io invece avevo avuto torto.
«Forse» ammisi mentre ti avvicinavi sempre di più nonostante io indietreggiassi fino ad appoggiare la schiena al muro. Quando quando fosti talmente vicino da riuscire a contarmi le lentiggini sul naso lo capii, lo capii dalla tua faccia che era proprio lì che volevi arrivare. Costretta a te, senza scampo, a guardarti contemplare il mio fallimento.
«Hai intenzione di rimanere?» sussurrasti, il respiro era freddo come la tua voce.
«Sì» risposi io, con decisione.
«Stai dicendo che adesso sono diventato un valido motivo per restare?»
Non volevo guardarti negli occhi. Avevo troppa paura dell’espressione che avresti assunto, ma te non importò. Non t’importava mai. Mi prendesti il mento con la mano e lo tirasti su prepotentemente, per farmi capire che con te non l’avrei mai avuta vinta, che se tu volevi che io ti guardassi allora io ti dovevo guardare.
«Dem..» provai a dire mentre i tuoi occhi mi scrutavano con attenzione e risentimento.
Allora non sapevo quanto le mie parole potessero pesare, non sapevo che quella risposta tu la volevi veramente e non avevi posto la domanda così, in modo retorico.
Ti allontanasti senza dire una parola e solo quando arrivasti alla porta ti girasti a guardarmi ancora.
«Hai lasciato tutto quanto» dicesti.

 


«Non capisco perché stai ridendo. E non capisco neanche perché ti ostini a cercare di parlare con me quando è palese il fatto che tu mi stia infastidendo e basta.»
«Perché sei sempre da solo. E non ti ho mai visto ridere, a parte il giorno in cui ci siamo conosciuti, ma non conta perché lì la tua risata era cattiva.»
«”Conosciuti” è una parola grossa… e il fatto che io sia sempre da solo significa che voglio stare da solo. Sei capace di rispettare questo mio desiderio o devo cambiare spiaggia?»
«Come ti chiami?»
«Perché non mi lasci in pace, ragazzina? Per quanto ne sai potrei anche essere uno stupratore o un tossico.»
«Io mi chiamo Nadia.»
«Buon per te. Vedo che i tuoi amici stanno giocando a palla sulla riva, perché non vai con loro?»
«Non sei molto socievole.»
«Sei perspicace.»
«Hai sorriso.»
«Non è vero.»
«Ti ho visto.»
«Hai un ritardo mentale o sbaglio?»
«Posso sedermi vicino a te?»
«Fai come vuoi.»

 

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Capitolo due

Se ci sono non so cosa sono e se vuoi, quel che sono o sarei, quel che sarò domani...
Non parlare non dire più niente se puoi, lascia farlo ai tuoi occhi alle mani.
Non andare, vai. Non restare, stai. Non parlare, parlami di te.
Canzone delle domande consuete – Francesco Guccini


 



Le prime settimane di settembre passarono velocemente e le volte in cui riuscii a scambiare qualche parola con te le posso contare sulle dita di una mano.
Avevo ripreso il mio vecchio lavoro al pub in centro e probabilmente dovevi averlo capito, perché rientravi sempre in casa pochi minuti prima che io uscissi. Volevo tanto chiederti dove fossi stato per tutto quel tempo, dove stessi lavorando, se avessi lasciato gli studi; volevo sapere cosa avevi fatto della tua vita in mia assenza, se fossi andato avanti o fossi tornato indietro, se le cose sarebbero mai ritornate come prima.
Ti ci volle un mese per capire come fare a stare nella stessa stanza con me senza tormentarmi con gli occhi o ferirmi con le parole. E mi ci volle un mese per convincermi a farti quella domanda.
Quel giorno ero seduta sul divano a ripetere mentalmente l’orario delle lezioni che sarebbero cominciate la seconda settimana di ottobre e a cercare un modo per farle incastrare con lo studio e il lavoro; tu ti sedesti accanto a me, senza guardarmi neanche per un istante, senza dar segno di aver notato la mia presenza su quello stesso divano. In quel momento notai una sottile macchia di rossetto sul colletto della tua camicia e tu non dovevi essertene accorto, oppure lo sapevi e ti eri seduto lì di proposito, per farmi capire che eri riuscito a cancellarmi. Mi domandai come facessi a stare lì vicino a me se fino a poco tempo prima eri stato con qualcun’altra.
«Dove sei stato?» ti chiesi, e sentire il suono della mia voce doveva averti stupito, perché ti girasti di scatto verso di me.
«Me lo chiedi come se fossero affari tuoi» dicesti dopo un po’, alzando lievemente un sopracciglio.
«Hai del rossetto sul colletto» dissi, pentendomene subito: sapevo che quella mia osservazione avrebbe dimostrato ancora una volta che non riuscivi ad essermi indifferente.
«Non provare a parlarmi come se non fosse successo niente.» 
«Per quanto tempo ancora vuoi trattarmi così? Sono qui da un mese, ormai» mormorai, con uno slancio di coraggio che mi fu del tutto estraneo.
«Non capisci mai niente» sibilasti, alzandoti dal divano «Non è per il fatto di essere scappata, che devi farti perdonare.»
«E allora per cosa?» chiesi «Vorrei solo che le cose tornassero come prima. Sei il mio migliore amico, Dem.»
«Hai scelto lui» dicesti, guardandomi velenoso dall’altra parte della stanza «Non mi basterà una vita intera, per dimenticarlo.»
Continuasti a fissarmi e sapevo che avresti voluto dire qualcos’altro, me lo fece capire un piccolo movimento della tua bocca. Però non dicesti niente, rimanesti lì, fermo, immobile: i pugni stretti sui fianchi e gli occhi di chi sta lottando internamente.
Rimasi in silenzio, cercando di reggere il peso del tuo sguardo. Il pensiero del rossetto sul tuo colletto ancora non se ne era andato del tutto dalla mia mente, ma la mia attenzione era focalizzata sulle tue labbra serrate, sul tuo volto duro, di marmo, sulle tue parole. Avevo scelto lui. Avevo scelto lui e tu me l’avevi detto, me l’avevi detto che non avrei ottenuto nulla, avevi cercato di farmi capire in mille modi che se me ne fossi andata ti avrei perso. E io me ne ero andata lo stesso. Ed ero ritornata a mani vuote, rifiutata e umiliata.
Parlasti dopo attimi di silenzio interminabili. «Non è cambiato niente, Nadia» dicesti, e pronunciasti il mio nome per la prima volta, da quando ero tornata. «Tra me e te. Non potrebbe essere altrimenti.»
Ti guardai a lungo. Avresti potuto ferirmi in tutti i modi se avessi voluto, e sapevo che lo volevi, lo capivo dal tuo sguardo puntato verso la porta e non verso di me. In quel momento pensai che dovevi sentirti sconfitto, per la prima volta da quando ti conoscevo, perché volevi farmi del male ma non ce la facevi, nonostante l’avessi già fatto mille volte, nonostante per te fosse un gioco da ragazzi ferirmi e punirmi, perché conoscevi tutti i miei punti deboli, tutte le mie paure, tutti i miei difetti.
Avevi detto che non era cambiato niente nonostante non riuscissi a perdonarmi, tanto era il male che ti avevo fatto, e stavi accettando di vivere con me e con il rancore che ti portavi dentro, con l’orgoglio ferito, a patto che io non mi allontanassi di nuovo. Queste cose allora non le avevo capite. Le avrei capite molto tempo dopo.
«Grazie» mormorai. Tu annuisti lievemente, tornando a sederti accanto a me.
«Sei tornata da sola» dicesti, senza riuscire a nascondere una punta di soddisfazione. «L’hai trovato?»
Ti lanciai un’occhiata di sfuggita e respirai profondamente, accorgendomi che stavamo per affrontare proprio quell’argomento. Mi portai le ginocchia al petto tenendole con le mani, voltai il viso verso di te e, dopo un altro sospiro, parlai.
«Sì» risposi, preparandomi a raccontarti tutto. «Nella sua città. Nella casa che suo zio gli ha lasciato quando è morto. Gli ho chiesto perché è andato via così di punto in bianco e lui mi ha risposto che non sono affari miei, che se davvero non ho ancora aperto gli occhi allora vuol dire che sono solo una stupida, che devo lasciarlo in pace e andarmene. Ha detto che non si farà più usare da me.»
«Aprire gli occhi riguardo a che cosa?» chiedesti, con lo sguardo vagamente assente.
«Non lo so. Secondo me era solo una scusa. Non ha avuto il coraggio di dirmi che mi ha mentito per tutto il tempo. Non mi sono mai sentita così umiliata.»
Mi guardasti pensieroso per un attimo, poi ti voltasti. «Quanto ti sei fermata da lui?»
«Ci ho messo due giorni per capire dove fosse e da lui sono stata solo qualche ora» risposi. «Ho passato il resto dell’estate da mia madre.»
«Perché non sei tornata qui?»
«Avevi detto che se me ne fossi andata non sarei più dovuta tornare.»
«E allora perché poi hai deciso di tornare?»
Non risposi. Non avevo il coraggio di dirti che avevo bisogno di tornare, che senza di te mi sembrava di impazzire, che mi sentivo come se mi mancasse un pezzo. Anche se era proprio quello che volevi sentirti dire. E nonostante avessi capito che anche se fossi tornata a casa nostra tu non mi avresti mai chiuso la porta in faccia, ancora non riuscivo dirti sinceramente quello che pensavo, avevo troppa paura della tua reazione.
Tra me e te c’erano troppe parole non dette, troppi “se”, troppi “forse”. Nessuno dei due aveva il coraggio di dire all’altro ciò che realmente provava, per paura di perderlo. Il rapporto che avevamo io e te era allo stesso tempo solido e precario. Non potevamo fare a meno l’uno dell’altro, ma eravamo legati da un filo talmente teso che da un momento all’altro avrebbe potuto spezzarsi. Tu non saresti mai riuscito ad andare avanti senza di me e neanche io. Ci avevo provato e avevo fallito. Tra me e te c’erano sempre attimi di tensione, c’erano volte in cui dovevamo cercare le cose giuste da dire per evitare di ferire l’altro, momenti in cui ci guardavamo e avremmo voluto con tutto il cuore saper leggere nel pensiero, occasioni in cui ci sfioravamo e ci guardavamo impauriti, come se quel singolo tocco, quella singola parola e quel singolo sguardo potessero bastare per farci allontanare.
Quando ti rendesti conto che non avresti mai ottenuto una risposta ti voltasti accennando un sorriso che mi fece stringere le viscere.
«Non importa» dicesti e io non ebbi il coraggio di guardarti.

 

«Te l’avevo detto che non sarebbe finita bene. Non mi hai voluto ascoltare. Non andare, Nadia.»
«Non so quando tornerò, spero presto e-»
«Se te ne vai non tornare più.»


In quel periodo lavoravo in un pub frequentato principalmente da ragazzi, lo stesso pub dove per un periodo hai lavorato anche tu. Quando poi hai smesso di lavorarci, hai cominciato a venirci con lui per farmi compagnia. Vi sedevate al bancone e stavate lì per un paio d’ore a scherzare tra una birra e l’altra, senza lasciarmi neanche uno spicciolo di mancia. All’epoca pensavo che non t’importasse che io stessi con lui e amassi lui, ero anzi convinta che fossi contento che i tuoi due migliori amici stessero insieme. Non mi accorgevo degli sguardi che ci lanciavi o dei momenti di silenzio carichi di risentimento. Non avresti mai aperto bocca sulla nostra relazione se io avessi tenuto sempre te al primo posto.
Era stato lui a farmi notare che c’era qualcosa che non andava, ma io avevo preso la questione con leggerezza, convinta che non avrebbe mai potuto capire il rapporto tra me e te, convinta che nessuno l’avrebbe mai potuto capire all’infuori di noi.
«Demetrio è strano ultimamente, non l’hai notato?» mi aveva detto un giorno, accarezzando con un dito il bordo del bicchiere.
Quella sera non c’era nessuno al pub, nemmeno tu, e io ero seduta in uno degli sgabelli davanti al bancone, strofinaccio in mano e capelli arruffati.
«Più strano del solito, dici?»
«Strano e basta» mi aveva risposto. «A volte lo sorprendo a fissarti. Mi dice cose facilmente fraintendibili, frasi buttate lì, apparentemente disinteressate.»
Quella volta l’avevo liquidato con un cenno della mano e gli avevo detto che evidentemente non ti conosceva così tanto bene se pensava che questi tuoi atteggiamenti fossero diversi da quelli che assumevi di solito. Solo più tardi mi sarei resa conto che probabilmente quella che non ti conosceva bene ero proprio io.
Il primo passo verso la comprensione dei tuoi comportamenti lo feci grazie a Tommaso, il barman, che vantava un’acuta capacità di osservazione e ascolto.
Durante una pausa dal lavoro mi ritrovai a fumare una sigaretta con lui davanti al locale e mi chiese che fine tu avessi fatto, mi disse che durante l’estate avevi lavorato anche tu lì e che ti eri licenziato appena io ero ritornata.
«Non so dove lavori adesso» gli risposi. «Non sapevo neanche che avesse lavorato qui, d’estate. Probabilmente adesso è troppo impegnato per lavorare.»
«Sta studiando molto? Mi aveva detto che contava di laurearsi entro l’anno prossimo.»
«Non è solo lo studio» risposi, con un tono di voce risentito. «Una settimana fa è tornato a casa con una macchia di rossetto sul colletto della camicia.»
Tommaso rise con la risata di chi la sa lunga, prima di guardarmi con uno di quei sorrisi che io avrei rivolto solo ad un bambino che non riesce ad imparare a scrivere.
«Demetrio è stato intrattabile per tutta l’estate» mi disse, e io mi chiesi dove volesse andare a parare. «Era più cattivo del solito, una volta ha fatto piangere una cameriera che si era presa una cotta per lui. Le ha detto che se avesse voluto una donna mezza nuda che gli girasse intorno avrebbe chiamato una prostituta. Non sono riuscito a farci una conversazione per più di due mesi: appena gli rivolgevo la parola, mi rispondeva in modo freddo e acido. Arrivava sempre distrutto, senza salutare nessuno, e tutti noi ci chiedevamo che diavolo facesse quando non era qui.»
Ascoltai le parole di Tommaso con estrema attenzione, come se ne fossi rapita. Dentro di me le viscere cominciavano a muoversi e dimenarsi, come nel tentativo di uscire. Le sentivo farsi sempre più piccole e un senso di colpa abissale stava arrivano fino alla mia gola.
«Una volta l’ho sentito parlare al telefono. Penso che stesse parlando con quel ragazzo con i capelli rossi, quello che veniva sempre qui. Se non sbaglio aveva fatto il suo nome, ma adesso non me lo ricordo.»
Il riferimento a lui mi fece sussultare, ma lo incalzai ad andare avanti con un gesto della mano.
«Ho sentito solo che gli diceva che qualcuno non se ne doveva andare, che era colpa sua se questa persona era andata via, che non aveva capito niente. E che non avrebbe più dovuto rimettere piede in questa città.»
Sussultai di nuovo. Tommaso se ne accorse e fece finta di niente, guardando l’orizzonte del mare reso chiaro dalla luce della luna. Fu in quel momento che mi resi conto di tutto il male che ti avevo fatto. E mi sentii un verme.


Quel pomeriggio mi svegliò il profumo del caffè, ma decisi di rimanere ancora un po’ con gli occhi chiusi, sdraiata sul divano. Io e te non ci eravamo ancora visti dal giorno in cui avevo parlato con Tommaso e mi sentivo troppo in colpa anche solo per guardarti. In quel periodo ricordo che i miei pensieri erano un flusso continuo e confusionario, che il solo averti nella stessa stanza con me mi provocava uno scompiglio interiore che non avevo mai provato e non sapevo che cosa voleva dire o che cosa avrei dovuto fare.
«Svegliati» dicesti facendomi spalancare gli occhi.
Eri talmente vicino a me che i nostri nasi potevano quasi sfiorarsi, talmente vicino che il tuo respiro mi solleticava le guance. I tuoi occhi quasi grigi mi scrutavano.
Ci guardammo a lungo, io sorpresa e tu con quello sguardo, quello che io non capivo e non avrei capito per molto tempo: quello sguardo glaciale, brillante e forse un po’ ostile. Ti girasti dall’altra parte e ti allontanasti, avvicinandoti ai fornelli per prendere il caffè.
«Da quando arrossisci se mi avvicino?» mi chiedesti, con un tono disinteressato.
Mi toccai il viso con una mano e solo in quel momento mi accorsi dell’abbondante flusso di sangue che mi riscaldava le guance. Accorgendomene, arrossii ancora di più. «Non sono rossa» mentii spudoratamente.
La tua risata sprezzante venne interrotta dal suono del cellulare, che ignorasti senza troppi problemi dopo uno sguardo veloce.
«Chi era?» chiesi, rendendomi subito conto che non me l’avresti mai detto.
«Come se fossero affari tuoi» ghignasti, sarcastico, versando il caffè anche nella mia tazzina.
«Era la ragazza del rossetto?»
Mi resi conto solo dopo averti fatto quella domanda che probabilmente era l’unica che non avrei dovuto farti. Capii dal tuo sguardo pieno di soddisfazione, dal tuo sorriso storto e dal tono di voce che usasti che stavi aspettando solo che ti chiedessi una cosa del genere.
«Prima arrossisci e adesso fai la gelosa? Che ti prende, Nadia?» mi chiedesti, avvicinandoti sempre di più a me, che ero in piedi e immobile al centro della stanza.
Alla tua domanda avvampai di nuovo, stringendo i pugni fino a far diventare le nocche bianche. Vincevi sempre tu.
Respiravo profondamente mentre tu ti facevi sempre più vicino e non ti risposi, sapevo cosa voleva dire il tuo sguardo e sapevo cosa si nascondeva dietro le tue parole: erano rare le volte in cui tu correvi il rischio che io non capissi cosa volevi dirmi. In quel momento non ti andava giù il fatto che per tre mesi fossi scomparsa e poi, una volta tornata a casa, avessi ricominciato a comportarmi da fidanzatina gelosa, come avevo sempre fatto con te nonostante fossimo legati da nient’altro che amicizia.
Alzasti piano una mano e con due dita mi sfiorasti una guancia, facendomi rabbrividire, facendomi spalancare ancora di più gli occhi. Ero bloccata, tu avvicinavi sempre di più il tuo viso al mio e pregavo che non volessi fare proprio quello, perché non avrei avuto la forza né il coraggio di oppormi, perché se tu l’avessi fatto le cose sarebbero cambiate per sempre e io invece volevo solo che tornassero come prima.
«Dem…» mormorai, con voce spezzata, e tu ti fermasti a pochi centimetri dal mio viso. «N-non lo fare.»
«Fare che cosa?» dicesti, con voce alta e sicura, spostandoti e continuando a guardarmi intensamente. Ti appoggiasti al ripiano della cucina e cominciasti a sorseggiare il caffè, come se non fosse successo nulla, come se volessi dimenticare ciò che stavi per fare e volessi che lo dimenticassi anch’io. I tuoi momenti di debolezza dovevano sempre passare inosservati, nessuno doveva farteli notare, nessuno doveva comportarsi con te come tu ti comportavi con gli altri.
«Stavi per…» cominciai, imbarazzata ma decisa a non fartela passare liscia anche quella volta. «Eri…»
«Non volevo fare quello che stai pensando» dicesti, con un sorriso strano, amareggiato.
«E che cosa volevi fare?»
«Volevo capire.»
«E hai capito?»
«Anche troppo.»
Poggiasti la tazzina sul lavandino e afferrasti il pacchetto di sigarette dal davanzale, andandotene dalla cucina.




«Ti comporti sempre da vero stronzo con le persone. I miei amici non capiscono come faccia io a passare così tanto tempo con te.»
«Non mi aspetto che i tuoi amici possano capire qualcosa.»
«Non li conosci neanche. E non mi piace che parli così di loro.»
«Abituatici. E non ti fidare troppo.»
«Perché?»
«Non mi piacciono. E poi non ci si può mai fidare tanto delle persone, e tu sei ingenua. Le persone se ne vanno, quando si stancano, e chi si fida troppo ci rimane male.»
«Conosco loro da più tempo di te.»
«Beh, io rimarrò sempre qui.»
«Anche io. Non me ne andrò mai, Dem.»
«Ti ho detto di non chiamarmi così.»


 

Ed eccoci al secondo capitolo. Colgo l'occasione per ringraziarvi infinitamente per le recensioni, per le letture, per i preferiti e i seguiti. Non sapete quanto mi avete reso felice :)
Spero che anche questo capitolo vi piaccia e vi invito a farmi sapere qualsiasi cosa, critiche comprese, ovviamente!
Ringrazio nuovamente Adrienne che mi ha spinto a continuare a scrivere questa storia; l'ha vista nascere, crescere, morire, poi nascere ancora, poi morire di nuovo, tanto da averla chiamata "la storia infinita"!
Un bacio
Fede

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Capitolo tre


Non capisci quando cerco in una sera un mistero d'atmosfera che è difficile afferrare.
Quando rido senza muovere il mio viso, quando piango senza un grido, quando invece vorrei urlare.
Quando sogno dietro a frasi di canzoni, dietro a libri e ad aquiloni, dietro a ciò che non sarà.
Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire se non hai capito già.

Vedi cara – Francesco Guccini



 


La mole di lavoro del pub si era praticamente triplicata, quel sabato sera: i clienti avevano cominciato ad andar via verso le quattro del mattino, merito anche della musica dal vivo e della birra a metà prezzo, e io ero rimasta con gli altri ragazzi a pulire il locale fino alle sei. Dopo aver fatto colazione in un bar lì vicino avevo deciso di tornare a casa, con il sole ormai alto nel cielo e la lancetta dell’orologio pericolosamente vicina alle nove.
Dopo l’incidente del mercoledì precedente avevo deciso di tagliare qualsiasi contatto fisico con te. Stavo attenta a sedermi sempre al lato opposto del divano, non prendevo niente dalla credenza quando anche tu eri intento a cercare qualcosa, non ti passavo accanto e se proprio non riuscivo ad evitare tutte queste cose, ti chiedevo gentilmente di spostarti. Tu ovviamente te ne eri accorto e non avevi nessuna intenzione di continuare a farmi assumere quell’atteggiamento, per cui ti fermavi accanto a me di proposito sfiorandomi il gomito, mi spingevi quando ero davanti a te in corridoio, delicatamente, facendomi rabbrividire, mi toccavi i capelli rigirandoti le ciocche tra le dita, mi sfioravi prendendomi il telecomando dalle mani.
I tuoi atteggiamenti potevano certo essere facilmente fraintendibili, se qualcun altro al posto tuo si fosse comportato in quel modo avrei sicuramente pensato che avesse un qualche tipo di interesse verso di me, ma non tu. Tu lo facevi per puro spirito di contraddizione, per il gusto di ostacolarmi, per quel piacere perverso che provavi nel vedermi in difficoltà. I tuoi modi di esprimere interesse non erano certo quelli: erano molto più sottili ed enigmatici, fatti di frasi buttate lì apparentemente per caso, di occhiate di traverso e sorrisi storti. Io non riuscivo a capirlo, non riuscivo nemmeno ad immaginarlo, non avrei mai potuto pensare che il tuo interesse verso di me andasse oltre l’amicizia, oltre l’amore fraterno. Non riuscivo ancora a comprendere i miei sentimenti e quello che provavo per te all’epoca era una grande incognita, un punto interrogativo immerso in un mare di pensieri sconnessi; ancora più grande era, però, l’enigma che riguardava te e i tuoi sentimenti. Sapevo che quel mercoledì avresti voluto baciarmi, ma non mi spiegavo il motivo. Sapevo che se io non avessi detto nulla tu l’avresti fatto e sapevo che a quel punto le cose non sarebbero mai tornate come prima. E io non potevo fare a meno di te. Eri la costante e il pilastro della mia vita e senza di te sarei stata persa.
Per questo rischiai di svenire quando entrai in casa, quella domenica mattina.
Lei aveva i capelli biondi, quasi sul rossiccio, che le cadevano come spaghetti sulla schiena coperta da una maglietta che doveva essere tua, aveva le gambe lunghe e affusolate e nel complesso tutta la sua figura era delicata e armoniosa, perfino mentre armeggiava con la macchinetta del caffè. Anche se non si era ancora girata, avrei potuto giurare che avesse gli occhi chiari. Io invece li ho castani. E ho anche i capelli castani, e sono una via di mezzo fra mossi e ricci, con boccoli grandi e poco definiti lunghi fino al seno, e in quel momento dovevo sembrare un leone perché avevo lavorato tutta la notte.
Mi bloccai a fissarla. Rimasi immobile per un attimo interminabile, senza riuscire a fare nulla a parte farmi cadere la borsa per terra. Sentii un calore al livello della pancia, come se tutti i miei organi stessero cominciando a bruciare, e piano piano quel calore saliva fino ad arrivare al petto, al collo, alle guancie. Mi sentivo come se mi avessero tagliato un braccio. La mia reazione era del tutto insensata.
Tolto te, io mi annullavo. E il fatto che tu ti vedessi con qualcuna e che l’avessi portata in casa nostra mi turbava a tal punto che, se fossi stata più coraggiosa e meno orgogliosa, sarei venuta dritta nella tua stanza a chiederti che diavolo ti fosse saltato in testa, che cosa credevi di fare, a dirti che non era così che doveva andare, anche se in realtà non sapevo come dovesse andare. Stavo quasi vibrando di rabbia quando lei si girò sobbalzando per il rumore della borsa che mi era caduta e quando vidi i suoi occhi, ovviamente chiari, lo capii: tu non eri mio.
«Ciao» disse, e la sua voce limpida e melodiosa perforò le mie orecchie come un trapano. «Tu sei... abiti qui?»
«Esatto» dissi, noncurante del tono scontroso che assunsi. «Tu chi sei?»
Si morse il labbro inferiore. «Io sono...» cominciò, esitante. L’avevo messa in difficoltà e per questo mi ritrovai a sorridere. Tu non mettevi mai in chiaro le cose. Nessuna sapeva che cos’era lei per te e cosa tu fossi per lei. Non ti sbilanciavi troppo con le parole, non facevi false promesse né affermazioni compromettenti, facevi solo intendere che tu eri libero e tale saresti rimasto, senza vincoli né etichette. Non le prendevi per mano e non telefonavi per sapere se fossero arrivate a casa, non rimanevi a dormire, ma non ti importava se loro a casa tua ci rimanevano. Solitamente le sceglievi come te: acide e meschine, bellissime e arroganti, egocentriche e presuntuose, per dimostrare a te stesso che potevi avere sempre la meglio su di loro. Lei però era dolce. Lo capii quando la vidi arrossire furiosamente. «Sono un’amica di Demetrio» concluse, guardandosi i piedi nudi.
«Una sua amica» ripetei, cominciando a gironzolare nella stanza nell’infantile tentativo di farla sentire un’intrusa e metterla a disagio e alla fine mi appoggiai al tavolo accendendomi una sigaretta. Lei mi guardava visibilmente imbarazzata, come se volesse essere ovunque, ma non lì in quella stanza con me, la coinquilina e forse chissà cos’altro del ragazzo con cui aveva passato la notte.
«Come ti chiami?» chiesi, anche se non m’importava. L’unica cosa che mi interessava sapere era perché tu ti fossi portato a casa una ragazza che sembrava quasi un angelo talmente era bella, talmente era dolce. Mi interessava sapere perché per una volta non avevi rispettato i tuoi standard, perché avevi scelto una ragazza diversa, una ragazza con cui, mi ritrovai a temere, avresti potuto passare più che una semplice notte.
«Mi chiamo Marlene» disse. Anche il suo nome era dolce e melodioso. Avrei tanto voluto odiarla, ma sapevo che non ci sarei riuscita perché neanche la conoscevo, perché non sembrava presuntuosa né arrogante né stronza né meschina, perciò mi ritrovai ad odiare te, con tutte le mie forze, perché sapevi che io l’avrei vista e avrei sofferto, perché l’avevi portata in casa nostra col solo scopo di farmi del male.
«Tu...» continuò, imbarazzata. «Sei solo la sua coinquilina oppure…»
«E’ solo la mia coinquilina.»
La tua voce così fredda mi fece sussultare e mi voltai di scatto, trovandoti in piedi alla porta della cucina perfettamente vestito. Mi fissavi con un sopracciglio alzato, sicuramente chiedendoti che cosa diavolo stessi facendo, quasi come se fossi io l’intrusa e non lei, e a quel punto fui io a sentirmi tremendamente a disagio e imbarazzata. Lei invece era ritornata visibilmente tranquilla e aveva accennato un sorriso a cui non facesti caso, troppo occupato a scrutarmi torvo.
«Ti stava dando fastidio?» le chiedesti, senza smettere di fissarmi. «Nadia prova un gusto quasi sadico nel mettere in imbarazzo le persone che non conosce.»
Lei scosse la testa e provò a ribattere, ma io fui più veloce. «Non ho fatto niente» risposi. «Ci siamo solo presentate.»
«Lo spero» dicesti, girandoti verso di lei. «Lascia perdere il caffè. Vestiti, andiamo a fare colazione fuori.»
Lei annuì, mi fece un cenno timido con la testa e si diresse verso la tua stanza. Tu mi lanciasti un’altra occhiata che sembrò quasi una coltellata e te ne andasti.
Non le portavi mai a fare colazione fuori.



Ti rividi quella sera stessa, di fronte al portone del nostro palazzo. Io arrivavo da destra e tu da sinistra, io tornavo da una passeggiata e tu da chissà dove. Non avevo voglia di vederti né tantomeno di parlarti, perciò ti feci un cenno col capo ed entrai, pensando che non appena fossi arrivata al nostro piano mi sarei chiusa in camera per non uscire fino alla mattina successiva.
Cominciai a salire le scale precedendoti, ascoltando i tuoi sbuffi contrariati, finché non perdesti la pazienza. Dopo la prima rampa di scale dovevi esserti stancato del mio silenzio, perciò mi trattenesti per un braccio costringendomi a voltarmi.
«Non essere ridicola, Nadia» dicesti, penetrandomi con lo sguardo.
«Che ho fatto, stavolta?» ti chiesi, con un tono di voce piatto e apatico, forse perfino un po’ seccato.
«Cerchi di ignorarmi» spiegasti, con una semplicità e una tranquillità tali da sconvolgermi. «Ma dovresti affinare di più la tecnica. Se arrossisci o rabbrividisci quando ti tocco non dai proprio l’idea di una pronta a fare a meno di me.»
Trasalii. Con uno strattone mi liberai dalla tua stretta e continuai a salire le scale, finchè non arrivai di fronte alla porta di casa. «Sei squallido» dissi, aprendola con un giro di chiave.
Tu scoppiasti a ridere. Ti richiudesti la porta alle spalle e mi seguisti nella mia stanza, chiudendo dietro di te anche quella porta, in modo da non farmi scappare. Come al solito, se tu decidevi che dovevo parlarti, allora io ti dovevo parlare.
«Vattene» dissi, provocando di nuovo uno scoppio di risa.
«Me ne andrò quando mi dirai cosa ti ho fatto.»
«Non mi hai fatto niente» dissi evitando accuratamente di guardarti.
«Non prendermi in giro, Nadia» rispondesti, avvicinandoti a me e prendendomi il mento con le mani in quel modo odioso e prepotente, che mi faceva venir voglia mandarti al diavolo. «E’ da giorni che cerchi di comportarti come se non esistessi. E stamattina ti trovo pure a cercare di intimidire quella ragazza.»
«Non stavo cercando di intimidire proprio nessuno» borbottai, allontanandomi da te «Mercoledì mi hai quasi baciata.»
«Vuoi aprire il discorso mercoledì
Ti girasti improvvisamente a guardarmi, con un sorriso ironico che non mi piacque per niente. Io trasalii all’improvviso, rendendomi conto di aver appena aperto quel discorso. Mi feci coraggio e continuai a sostenere il tuo sguardo che si faceva sempre più pesante e insistente. «Sì, lo voglio aprire.» dissi.
«Mercoledì non è successo niente» rispondesti, freddo come il ghiaccio. «Forse sei tu che fantastichi troppo.»
Cercai di non scompormi troppo per le tue parole che, sapevo bene, erano state dette col solo scopo di ferirmi, come ogni cosa che avevi detto o fatto da quando ero tornata a casa. Mi domandai quando avresti smesso di punirmi per qualcosa a cui non potevo porre rimedio.
«Mi hai quasi baciata.» ripetei guardandoti negli occhi.
Il tuo viso rimase immobile, non sorridesti né facesti qualsiasi altra espressione. «E allora?» dicesti, con noncuranza. «Ti ho quasi baciata. Non verrai a dirmi che te la sei presa?»
Inarcasti la bocca in un lieve sorriso evidentemente sarcastico e io cominciai a sentire il sangue affiorare in viso e ribollirmi nelle vene. «Non me la sono presa» risposi, il più altezzosamente possibile «Ti sto solo chiedendo perché.»
«Non c’è nessun perché» dicesti, mentre il sorriso diventava sempre più evidente sul tuo volto. «Non tutte le azioni hanno una motivazione di fondo. A volte le persone fanno le cose semplicemente perché vogliono farle, senza motivo. Non è il mio caso, ovviamente: io mercoledì non ho fatto niente. Hai frainteso tutto.»
Non dissi niente e abbassai lo sguardo, punta sul vivo. Sapevamo entrambi che stavi mentendo e che ti facevi forte del fatto che io non avevo il coraggio di risponderti.
Mi appoggiai alla scrivania e presi una sigaretta dal pacchetto che avevo in tasca e tu mi imitasti. Tacevi e ti concentravi nell’ispirare e nell’espirare come non avevi mai fatto. Ogni tanto mi giravo a guardarti, ma tu fissavi il muro di fronte a te e non ti voltasti mai, neanche una volta. Quando finisti la sigaretta facesti per andartene, ma io non potevo accettare che la conversazione rimanesse così, sospesa, senza una conclusione.
«Spero che questo non cambi nulla» mormorai.
«Ovviamente» rispondesti. «Come non ha cambiato niente il tuo atteggiamento di stamattina, o il fatto che sei scappata di punto in bianco senza ascoltarmi, o ancora il fatto che tu stessi con il mio migliore amico.»
«Cosa c’entra lui adesso?» chiesi. «Stiamo parlando di me e te.»
«Non c’è niente da dire su me e te.»
Ti stringesti nel cappotto che avevi ancora indosso, girasti i tacchi e varcasti la porta della mia stanza, mentre io ti trotterellavo dietro come un cagnolino scodinzolante. Entrasti in cucina e ti seguii, chiedendoti se per favore potevi spiegarmi il significato di quell’affermazione. Non dicesti una parola e continuasti a camminare. Senza troppe cerimonie ti afferrai un braccio, costringendoti a fermarti.
All’epoca non avevo capito niente di te. Ancora oggi molto tuoi atteggiamenti sono per me totalmente estranei, ma almeno so che tu, come tutti, sei fragile. E vorrei potermi comportare di conseguenza, magari rimediando agli sbagli che ho fatto in passato. Prima ti vedevo come una specie di gigante forte e deciso, capace di resistere a tutte le sfide e le delusioni che la vita ti metteva davanti. Soffrivi, certo, ma riuscivi sempre a voltare pagina. Che anche tu potessi non farcela, ancora non lo sapevo.
«Parla» ti ordinai, quindi.
«Lascia perdere, Nadia.»
«Guardami.»
Mi guardasti. Nei tuoi occhi azzurri non riuscii a leggere niente. Era come se davanti ci fosse un velo.
Ancora oggi non riesco a capire perché lo feci. Non sono riuscita a dare una motivazione al mio gesto. Se ripenso a quei secondi, se provo a sforzarmi, a cercare anche solo di immaginare cosa passava per la mia testa negli istanti precedenti a quel gesto, mi viene in mente solo il nulla. Non ti avevo permesso di farlo qualche giorno prima e, alla fine, l’avevo fatto io.
Mi avvicinai, mi alzai in punta di piedi, chiusi gli occhi e ti baciai. In quel momento, mi sentii come se il mio cuore stesse battendo per la prima volta.
Non ti opponesti. Le tue labbra morbide rispondevano al mio bacio inizialmente in modo rigido, poi con passione. Mi prendesti la testa con le mani e inclinasti la tua, approfondendo il bacio. Sentivo il mio cuore battere talmente forte che pensai che avrebbe potuto scoppiare da un momento all’altro e il tuo respiro nervoso mi solleticava il viso. Neanche mi accorsi che avevo indietreggiato finchè la mia schiena non toccò il muro e sentii il tuo corpo che si appoggiava prepotentemente al mio, schiacciandomi.
Avevo cominciato io ma il gioco lo stavi conducendo tu: era come se fossi tu a baciarmi e non io a baciare te, decidevi tutto tu. E quando, dopo un secolo, decidesti che era giunto il momento di riprendere fiato, io lo capii. Capii che ti avevo perso.


«Dov’eri finita stamattina? Ti aspettavo per fare colazione.»
«Sì, scusa. E’ domenica, mi sono svegliata tardi.»
«Non dirmi stronzate, Nadia. Quando ho visto che non arrivavi sono venuto qui, a casa tua, e tua madre mi ha detto che eri uscita e che eri venuta da me.»
«Ah.»
«Allora?»
«Sono venuta, però non mi sembrava avessi esattamente bisogno di compagnia. Ho visto una ragazza uscire.»
«E ti sembra un buon motivo per tirarmi un bidone? I miei erano fuori per il weekend e ne ho approfittato. Qual è il problema?»
«Dormi con un’altra e poi vuoi fare colazione con me?»
«Come sarebbe “un’altra”? “Una”, casomai.»
«Hai capito cosa intendevo!»
«Sei arrossita?»
«Sei proprio uno stronzo, Dem, perché godi nel mettermi in imbarazzo?»
«Ti imbarazza parlare con me?»
«Basta, vattene da casa mia.»
«Non verrai mai scavalcata, Nadia.»


 

Avevo per l'ennesima volta pensato di cancellare questa storia, perchè purtroppo per un errore di condivisione su facebook (lo so, sono un'impedita) probabilmente la maggior parte dei miei contatti l'ha vista. Avevo anche pensato di cambiare account qui, dato che ormai mi sentivo "scoperta", ma qualcuno mi ha fatto cambiare idea. Insomma alla fine si è risolto tutto, e adesso finalmente ho capito che se mi ero fatta un contatto facebook a parte per EFP probabilmente c'era un motivo!
Sperando che non ci siano più inconvenienti di questo tipo, vi lascio! A presto!

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Capitolo quattro

Ed io che ho sempre un eskimo addosso uguale a quello che ricorderai,
io, come sempre, faccio quel che posso, domani poi ci penserò se mai
ed io ti canterò questa canzone uguale a tante che già ti cantai:
ignorala come hai ignorato le altre e poi saran le ultime oramai..
Eskimo – Francesco Guccini




 

 

Non ero solita riflettere sulle conseguenze delle mie azioni. Non pensavo che forse qualcuno avrebbe potuto soffrirne. Anche quando avevo deciso di andarmene da casa nostra non avevo pensato neanche per un secondo che forse avrei dovuto ascoltarti quando mi dicevi di restare, quando mi dicevi che se me ne fossi andata non sarei più dovuta tornare. Avrei dovuto pensare che se mi dicevi quelle cose c’era un motivo. Il pensiero invece non mi aveva mai sfiorato. L’unica cosa che riuscivo a pensare era che non potevo più dormire in quel letto e guardare quelle mura, troppo piene di ricordi. Conoscere lui era stata la mia rovina e innamorarmi di lui era stato il mio sbaglio più grande; essere stata trattata come una pezza vecchia, infine, era stata la mia punizione.
Forse pensavi che non mi bastava, che il semplice essere abbandonata non era una punizione abbastanza incisiva, per questo da quando ero tornata ti comportavi in quel modo.
Avevi fatto per me cose che nessun’altro aveva mai fatto e io come ringraziamento ero scappata. E poi ti avevo baciato. E poi avevo fatto scappare te.
Mi guardasti e i tuoi occhi azzurri non erano mai stati così limpidi.
«Che cosa significa?» sussurrasti, non spostandoti di un centimetro, tanto che riuscivo ancora a sentire il tuo respiro sulla mia pelle.
«Non lo so» risposi, e così feci crollare tutte le mie difese, mi mostrai indifesa davanti a quell’arma che erano i tuoi occhi, sincera con te come poche volte lo ero stata.
«Non lo sai» ripetesti. «Cioè dovremmo comportarci come se non fosse successo nulla.»
«Questo non cambia niente tra noi» mormorai, forse più per convincere me stessa che te.
Non ti allontanasti dal mio viso neanche di un millimetro, in modo da costringermi ancora a respirare il tuo odore, in modo che non potessi interrompere il contatto con i tuoi occhi; volevi tenere vivo quello che era appena successo e non avresti permesso che io provassi a dimenticarlo o a comportarmi come se nulla fosse, come tu avevi fatto in passato.
«Allora perché l’hai fatto?» sibilasti, e i tuoi occhi erano ormai diventati due fessure.
«Non lo so» ripetei. «Dimenticalo, per favore.»
Mi lanciasti un’ultima occhiata intensa e ti spostasti, dandomi le spalle, contrariamente ad ogni mia previsione. “Mai dare le spalle al nemico”, dicevi sempre. E in quel caso il nemico ero io.
«Come preferisci» dicesti e io rimasi spiazzata.
Credevo di conoscerti abbastanza bene da poter prevedere che non ti saresti mai piegato di fronte ad una mia decisione, che se tu volevi che quel bacio avesse un peso allora quel bacio doveva avere un peso. Non mi sarei mai aspettata un atteggiamento così collaborativo. Che cosa mi nascondevi?
Prendesti una sigaretta dal pacchetto che avevi nella tasca dei jeans e l’accendesti, senza dire una parola. Cominciai a sentire un lieve rumore di pioggia sbattere contro il vetro della finestra. Silenziosamente uscisti dalla stanza e dalla casa, e io sentii qualche lacrima bagnarmi le guance.


Il fiume di domande che avevo in testa nei giorni che seguirono quel bacio sembrava essere infinito e soprattutto nessuna di quelle domande trovava risposta. Non sapevo perché l’avevo fatto né che cosa sarebbe successo tra noi, non sapevo cosa avevo provato io né che cosa avessi provato tu. Sapevo solo che in quel momento, nell’esatto istante in cui le mie labbra avevano sfiorato le tue, mi ero sentita viva. E sapevo anche che non potevo fare a meno di te.
Tu avevi cominciato ad ignorarmi. Facevi l’impossibile per non sfiorarmi, guardarmi, parlarmi. I nostri ruoli si erano capovolti, ma io non ero abbastanza forte per impormi come avevi fatto tu. Non avevo più il coraggio di costringerti alla mia presenza se non la volevi, non riuscivo a rivolgerti la parola se sapevo che tu non mi volevi parlare e non osavo guardarti per paura del baratro in cui sarebbe sprofondato il mio stomaco. Avevo fatto la stessa cosa che pochi giorni prima ti avevo impedito di fare per paura che cambiasse qualcosa tra di noi. Il nostro rapporto era troppo fragile per essere messo alla prova da un bacio e io avevo spezzato il filo, già abbastanza teso, che ci teneva uniti. Non mi sentivo in colpa per quello che avevo fatto, però: eri stato tu per primo ad infrangere le regole. Avevi scelto di portarti quella ragazza in casa: avevi scelto una ragazza bella, dolce e forse anche intelligente al posto delle ragazze che frequentavi di solito. L’avevi fatta entrare nella mia casa e nella mia vita, nella nostra vita, la trattavi come non avevi mai trattato le altre, nonostante sapessi che io ne avrei sofferto, nonostante sapessi che non lo dovevi fare perché era contro le regole che non ci eravamo mai detti, ma che esistevano, e che non dovevamo infrangere perché altrimenti saremmo stati perduti. Allora non dovevo sentirmi in colpa per aver infranto anche io quelle regole invisibili, ma che c’erano, quelle regole che giorni prima avevo deciso di farti rispettare. Non dovevo sentirmi in colpa per aver spezzato un equilibrio che probabilmente non si sarebbe più creato, perché tu l’avevi messo a dura prova prima di me.
Avevi deciso di agire in modo da farmi soffrire e allora lo dovevo fare anche io. Non passai neanche un istante a chiedermi perché non sopportavo l’idea di lei e invece sopportavo quella di tutte le altre ragazze, neanche un istante a domandarmi perché avevi deciso di ignorarmi, nemmeno uno. Non mi chiesi mai perché è sbagliato infrangere le regole, anche se non dette e non scritte. Mi sarei posta quelle domande molto tempo dopo, solo che allora sarebbe stato già troppo tardi.
Quando aprii la porta di casa e vidi proprio lei, Marlene, il mio primo istinto fu quello di chiuderle la porta in faccia.
Non riuscivo ad odiarla: quella ragazza era solo la vittima inconsapevole della tua ripicca, un pedone nella tua scacchiera creata solo per farmi del male. Con lei stavi cercando di fare a me ciò che io ti avevo fatto stando con lui, e ci stavi riuscendo. Solo che allora io non sapevo dell’esistenza delle regole.
«Ciao» salutò. «Disturbo?»
«Demetrio non c’è» risposi.
«In realtà cercavo te.»
La feci entrare in casa con un’espressione incuriosita, chiedendomi che cosa mai volesse da me la ragazza che passava le notti con te, la ragazza che mi avevi messo di fronte per farmi capire che non ci saresti stato per sempre. Feci sfoggio dei miei modi più gentili e accomodanti e la invitai anche a sedersi, ma lei non accettò.
«Devo chiederti una cosa» disse mordendosi un labbro, visibilmente imbarazzata. «Io tengo molto a Demetrio, anche se ci vediamo da poco più di un mese, e volevo sapere se ora o in passato c’è stato qualc-»
«Fermati» la interruppi, perdendo tutta la gentilezza che avevo raccolto in precedenza e cominciando a guardarla in modo ostile. «Siamo solo coinquilini. Te l’ha detto lui, giusto?»
«Sì» rispose, arrossendo furiosamente. «Però vi conoscete da tanto tempo e lui mi guarda sempre in modo strano quando faccio domande su di te... Tu sei l’unica persona che fa parte della sua vita a quanto ne so, non mi ha mai detto niente di genitori, fratelli o amici.»
«Dovresti chiederti perché non ne te ha mai parlato» dissi, gelida. «E se hai domande sul nostro passato dovresti farle a lui, non a me. Non saresti dovuta venire qui, Demetrio si arrabbierà.»
Non le dissi che tra me e te non c’era mai stato niente di fisico, a parte quel bacio, non cercai di rassicurarla. Non so perché non lo feci, non so perché cercai di sottintendere qualcosa che non era mai esistito. Ma volevo che si sentisse inferiore a me. Volevo sentirmi superiore a lei.
«Non potresti semplicemente dirmi che tra te e lui non c’è niente?» chiese.
«Non ho intenzione di dirti nulla» risposi. «Devo chiederti di andartene.»
Lei mi fissò con uno sguardo al limite tra l’indignazione e l’umiliazione e non ribatté. Il fatto di aver trovato una persona più vigliacca di me mi fece sentire forte mentre l’accompagnai alla porta e la salutai con garbo. Lei rispose con un cenno e sul suo volto non c’era neanche l’ombra di un sorriso, ovviamente.
Quando chiusi la porta sperai che non ti raccontasse niente di quello che c’eravamo dette, rendendomi conto troppo tardi che, molto probabilmente, ti avrebbe riferito tutto.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Capitolo cinque

 

Le vie del mondo ti sono aperte, tanto hai le spalle sempre coperte
ed avrai sempre una scusa buona per rifiutarla.
Per rifiutare sei stata un genio sprecando il tempo a rifiutare me
ma non c'è un alibi non c'è un rimedio se guardo bene no non c'è un perché. […]
quando sei dentro vuoi esser fuori cercando sempre i passati amori ed hai annullato tutti fuori che te,
ma io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato ieri
persa a cercar per sempre quello che non c’è.

Quattro Stracci – Francesco Guccini

 


 

 

Quando entrai in casa, il giorno dopo, mi travolgesti come un uragano. Avevi i pugni stretti e lo sguardo feroce e io non ebbi neanche il tempo di rendermi conto che eri lì, davanti a me, vestito per metà e che probabilmente volevi dirmi qualcosa dopo quattro giorni di silenzio totale, che tu avevi già cominciato ad urlarmi contro, con una faccia che non ti avevo mai visto, con una ferocia di cui pensavo non fossi capace. Avevi la camicia sbottonata e dal tuo collo pendeva la mia collana, quella con la chiave. Probabilmente avevi dimenticato di nasconderla.
«Da quando ti comporti come una ragazzina stupida?» gridasti. «Non capisco proprio chi credi di essere, non sei mai stata così arrogante e presuntuosa. Che senso aveva dire quelle cose a Marlene? Che cosa ti ha fatto?»
Ti guardai un po’, sbigottita per quello sfogo che da te non mi sarei mai aspettata. Lei non sarebbe dovuta venire ad importunarmi in quel modo eppure tu te la stavi prendendo con me.
«Che ti importa?» ti chiesi. «Ho solo risposto alle sue domande. Non mi verrai a dire che tieni a lei?»
«Non è affar tuo sapere a chi tengo io» ringhiasti. «Hai perso il diritto di conoscere gli affari miei molto tempo fa.»
Non mi scomposi. In condizioni normali quelle parole mi avrebbero ferita come una coltellata, ma in quel momento ero talmente arrabbiata che avrei potuto resistere a qualsiasi tua cattiveria.
«Io lo so perché continui a vederla» rivelai, facendo sfoggio di un coraggio che non credevo di possedere. «Continui a vederla per ripicca verso di me. Lei è solo una povera illusa e tu la stai usando. Sei squallido.»
«Sei egocentrica e fastidiosa» sibilasti. «Davvero credi che tutto quello che faccio sia in funzione tua? Prima mi baci e mi dici che devo far finta di niente e dopo ti comporti da fidanzata gelosa, ti comporti come se tra me e te ci fosse qualcosa. Devi deciderti, Nadia, io non ho intenzione di stare dietro ai tuoi capricci.»
«Non ti ho mai chiesto di farlo» risposi, punta sul vivo. «Ma non comportarti come se fossi superiore a queste cose, Dem, perché non mi sembravi dispiaciuto mentre ti baciavo. E hai la mia collana al collo.»
Sussultasti, per la prima volta da quando ti conoscevo. Non mi sentivo vincitrice, però: mi sentivo sporca. Non ero capace di rendermi meschina, come facevi tu, senza sentirmi in colpa.
Abbassasti la testa per guardare il ciondolo e con rabbia te lo staccasti dal collo, gettandolo ai miei piedi.
«Una volta era mio» ringhiasti. «Non avresti dovuto togliertelo. Ma non mi interessa. L’importante è che tu capisca che io ho una vita nella quale tu non condizioni ogni cosa.»
Ancora una volta sapevamo entrambi che stavi mentendo e io lo sapevo più di te; non avresti mai ammesso che molte delle tue azioni fossero in funzione mia, né io volevo fartelo ammettere, perché avrebbe significato arrivare ad un punto in cui sarebbe stato impossibile tornare indietro. Volevo solo che tu capissi che non avresti dovuto comportarti come se io contassi meno di zero, perché ogni tuo gesto e ogni tua parola dimostrava il contrario. Raccolsi il ciondolo da terra e me lo rimisi al collo, dove avrebbe dovuto stare, in modo da averti sempre con me. Sapevo che durante la mia assenza l’avevi preso per lo stesso motivo ma non te lo feci notare, perché sapevi che io l’avevo capito.
«Mi hai detto che dovevo far finta che tu non mi abbia baciato» dicesti, quando ti rendesti conto che io non ti avrei risposto. «Perché sei ancora innamorata di lui, vero?»
Distolsi lo sguardo. Non mi avevi mai chiesto una cosa del genere e io non ero pronta a risponderti con sincerità. Non riuscivo a far luce alla marea di sentimenti che mi inondava l’animo e la testa, ma almeno una cosa la sapevo: non dovevo cedere.
«Sì» risposi, dopo un po’.
Mi guardasti con l’espressione più inquietante e che io avessi mai visto. «Hai esitato» dicesti, con un sorriso storto. «Il giorno in cui sei tornata a casa mi hai detto di essere innamorata di lui senza pensarci due volte. Ora hai esitato.»
«Questo non significa niente» risposi, conscia del fatto che invece significava tutto. «Non importa quanto io abbia impiegato a rispondere, l’importante è ciò che ho risposto. Sono ancora innamorata di lui, nonostante tutto.»
«Non dici neanche il suo nome» sussurrasti. «Vuoi farmi credere di essere innamorata di uno di cui non riesci neanche a dire il nome ad alta voce? Ti ha trattato come una pezza vecchia. Non posso credere a quello che dici.»
«Il fatto che io sia innamorata di lui o no non cambia nulla.»
«Sei come un libro aperto per me» sussurrasti. «Non conta ciò che mi dici. Io so quello che pensi.»
Rabbrividii. C’è stato un periodo nella mia vita in cui le parole mi rimanevano strozzate in gola e tutto ciò che volevo era che le persone capissero ciò che stessi pensando senza il bisogno che fossi io a dirglielo. A quei tempi, invece, facevo di tutto per fare in modo che tu non capissi quali fossero i sentimenti che neanche io avevo ben chiari.
«E sentiamo» dissi, con aria di sfida. «Cosa starei pensando?»
«Stai pensando che quello non era solo un bacio» sibilasti, facendoti sempre più vicino a me mentre sentivo le mie viscere contorcersi. «E hai paura.»
Assottigliai gli occhi, furente di rabbia per essere stata scoperta, perché tu avevi detto esattamente quello che io pensavo da giorni. Non l’avrei mai ammesso. «Forse è il caso che torni con i piedi per terra» dissi.
Sorridesti con un amarezza che non ti avevo mai visto. Quella sensazione di inquietudine che non provavo da tempo nel guardarti ritornò, più forte che mai, più forte di quella che provai il giorno della mia partenza quando mi dicesti di restare.
«Sei cambiata, Nadia» dicesti, senza guardarmi. Ti accendesti una sigaretta e ti affacciasti alla finestra, dandomi le spalle. «Sei debole. Un tempo non eri così.»
«Siamo cambiati entrambi» sussurrai, percorrendo con lo sguardo la linea della tua schiena, ben visibile anche da sotto la camicia.
«Io non sono cambiato» dicesti, deciso. «Quando voglio qualcosa me la prendo. L’ho sempre fatto e lo farò anche questa volta. Quando ti ho conosciuta, quattro anni fa, anche tu eri così. Ora invece aspetti che qualcosa o qualcuno faccia il lavoro sporco per te. Tu non sei innamorata di Marc: la tua è un’ossessione. Sei ossessionata da lui perché ti ha umiliata. Stai solo aspettando che in qualche modo se ne vada dalla tua testa, perché tu non sei capace di scacciarlo, perché non puoi fare niente per curare il tuo orgoglio.»
Sussultai quando pronunciasti il suo nome. «Non eri così chiacchierone, prima che partissi» dissi, ignorando tutto ciò che avevi detto perché ammettere che avevi ragione mi faceva troppo male.
«Tu non sei mai stata così silenziosa, invece» sussurrasti, sempre dandomi le spalle. «Avrei voluto che le cose andassero diversamente.»
Sapevo che non ti riferivi a ciò che non ti dicevo e che comunque non ti avevo mai detto. Nonostante cercassi in tutti i modi di restare da sola nella mia bolla, nonostante provassi e riprovassi a fare in modo che tu non decifrassi ogni mio singolo pensiero, tu mi leggevi sempre; anche se ero silenziosa, come dicevi tu, alla fine ce la facevi. Mi resi conto che probabilmente non eri tu a non volermi far entrare nel tuo mondo, ma ero io a tirarmi indietro, perché avevo paura.
Durante tutti i momenti passati con te, sapevi sempre ciò che mi passava per la testa. Perché ormai ti eri abituato a capirmi.
Io, invece, non ero capace di capirti con un semplice sguardo. Tu non me l’avevi mai permesso.
In quel momento capii che erano successe troppe cose, che avevamo detto troppe parole sbagliate e avevamo tenuto dentro quelle che invece avremmo dovuto dire; capii veramente che dopo tutto quello che era successo, io e te ci facevamo male a vicenda solo guardandoci, ma non avremmo mai potuto fare a meno l’uno dell’altro.
«Dem» ti chiamai, e tu ti voltasti verso di me. «Credi che riusciremo mai a superarlo? Tutto questo, intendo,»
Non mi rispondesti. Ti avvicinasti a me e mi prendesti per le spalle. Poi mi baciasti. Non ci fu l’attimo in cui i visi si avvicinano timorosi e gli occhi si chiudono piano, in cui le mani si sfiorano e il respiro si fa più pesante. Posasti le tue labbra sulle mie velocemente e con forza, dandomi un bacio prepotente e disperato.
Non mi opposi. Sapevo che non avrei dovuto farlo, sapevo che questo, il nostro secondo bacio, era il punto di non ritorno. Ma avevo capito che non aveva senso resisterti, avevo capito che più ti respingevo, più mi incatenavo a te. E mi incatenavo a te così tanto che non avrei più potuto tornare indietro, così tanto che i tuoi sbagli diventavano i miei sbagli, le tue paure diventavano le nostre paure, i tuoi difetti diventavano solo miei.

 

 

«Che cosa apre quella chiave che porti al collo?»
«Eh?»
«Hai un ciondolo con una chiave. Le chiavi di solito servono per aprire qualcosa. Quella che cosa apre?»
«Stai cercando di fare del romanticismo su una stupida collana? Non apre proprio un bel niente. E’ solo un ciondolo.»
«E chi te l’ha dato?»
«Non ne ho idea. Ce l’ho da quando ero bambino. Forse i miei genitori o qualche parente, non mi ricordo. Non mi è mai interessato.»
«A me interesserebbe sapere da dove viene qualcosa che porto sempre. Altrimenti non ha significato.»
«Io la porto per abitudine. Non mi interessano i significati nascosti.»
«Se lo dici tu…»
«Senti, facciamo così: questa stramaledetta collana la prendi tu, così potrai portarla
conoscendo l’identità di chi te l’ha data e potrai attribuirgli tutti i significati che vuoi.»

 

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


Capitolo sei

Son cose che spero perdonerai com’io ti ho perdonato ormai a quest’ora,
come se fossi solo un pianta guai, il “but i love him” che gli urlasti allora,
così ti canto ora in questa casa mia che sai e non sai.
100 Pennsylvania Ave – Francesco Guccini



Non ricordo in che modo mi umiliai ancora una volta né che modo trovai per ferirti anche quella sera. Ricordo vagamente che ti dissi qualcosa che somigliava molto a "non avresti dovuto farlo". Se ripenso a quei momenti ricordo solo frustrazione, indecisione e rabbia. Ricordo che il modo in cui mi guardasti non aveva niente di familiare, non aveva niente di enigmatico né di misterioso. In quel momento mi stavi odiando. E mi odiavi con talmente tanta forza e decisione che non riuscisti nemmeno a sputarmelo in faccia, quello che pensavi. Andasti nella tua stanza sbattendo la porta, e io ebbi paura che se avessi voluto avresti potuto far crollare la casa oltre a far crollare me, e poi uscisti mezz’ora dopo e io non sapevo dove stavi andando né che cosa avresti fatto, non sapevo neanche se saresti ritornato.
Passai tutta la notte sul divano, rannicchiata e con la televisione accesa in un inutile tentativo di sentirmi meno sola.
Non tornasti a casa il giorno seguente né il giorno dopo ancora; le mie giornate erano un susseguirsi di lezioni e lavoro, lavoro e lezioni, ridevo alle battute di qualcuno anche se non volevo ridere, perché se non ti avevo accanto non potevo farlo, parlavo tranquillamene anche se non ero tranquilla perché mi sentivo come se dentro di me ci fosse un uragano, rispondevo con gentilezza anche se avrei voluto urlare in faccia a tutti la frustrazione che non avevo il coraggio di urlare a te.
Avrei voluto dirti mille cose ma le parole mi rimanevano strozzate in gola; ero troppo immatura per prendermi la responsabilità del destino del nostro rapporto, non volevo che quel peso gravasse sulle mie spalle, che tu mettessi tutto nelle mie mani.
«Certo» avevi detto sprezzante quella sera, con la voce che vibrava di rabbia e io lo sapevo che avresti voluto urlare. «Stabilisci tutto tu.»
Per tutta la tua vita il tuo carattere deciso e forte aveva sempre messo te al primo posto. Mi avevi fatto capire in tutti modi che se tu volevi una cosa allora te la andavi a prendere, che se volevi fare in un certo modo allora bisognava fare come dicevi tu, eppure quella sera mi avevi scaricato tutto addosso probabilmente stanco del mio eterno conflitto interiore, ma io lo sapevo che era solo un modo per mettermi alla prova, io lo sapevo che non ti saresti mai arreso con me. Lo speravo.
Ero talmente egoista che ti avrei tenuto per sempre con me nonostante tu volessi qualcosa che io ero non ero in grado di darti, ma che desideravo con tutte le mie forze. Quando finalmente avevo capito quello che volevi, mi ero resa conto di volerlo anch’io.
Ero troppo ingenua per capire che anche tu eri una persona come me e che non avresti resistito in eterno, non ce l’avresti fatta per sempre. E io, che per tanti mesi avevo ingannato me stessa oltre che te, non potevo aggiustare le cose perché non ne ero capace, perché ero ossessionata da qualcuno che non riuscivo a mandar via e perché non potevo ammettere che tu avevi ragione e io avevo torto, che l’unico mio problema era l’umiliazione e l’orgoglio ferito.
Avevo troppa paura di quello che sarebbe successo se avessi dimenticato anche se era più difficile ricordare, perché a quel punto non avrei avuto più niente che a separarmi da te e nonostante io ti volessi terribilmente al mio fianco, non avrei potuto sopportare di averti così vicino.
Quel giorno mi resi conto che probabilmente sapevo da sempre quello che volevi, dentro di me, ma non avevo mai avuto il coraggio di ammetterlo a me stessa. Si capiva da tutti i tuoi gesti e da tutti i tuoi sguardi, si capiva dal modo in cui mi parlavi e dal modo in cui ti comportavi. Sapevo da sempre che io e te saremmo arrivati a questo punto, troppo diversi e troppo egoisti per mettere i sentimenti dell’altro al primo posto, e sapevo che non avremmo più potuto tornare indietro perché ormai il danno era fatto. Io non avrei mai dimenticato le tue dita accarezzarmi la guancia e tu non avresti mai dimenticato il male che ti avevo fatto e che mi ero fatta. Eravamo qualcosa di rotto, qualcosa di malato e incurabile e non avevamo via di scampo. Quella consapevolezza si abbatté su di me come un macigno.



Lui tornò che era notte e tu non c’eri. Se ci fossi stato probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Aprii la porta di casa e lui era lì, come se avesse tutto il diritto di starci.
Era esattamente come lo ricordavo: sorriso spavaldo e capelli rossi disordinati. Mi guardava con un misto tra il divertito e il malizioso e sapevo che in quel momento dentro di sé stava ridendo per la mia espressione sconvolta. Quando lo vidi non riuscii a formulare un solo pensiero sensato per qualche attimo, ma non appena ebbi il tempo di ricompormi sperai con tutto il cuore che tu tornassi presto a casa perché quella era una situazione che io non potevo gestire, perché se ancora non gli avevo chiuso la porta in faccia voleva dire che non l’avrei più fatto.
«Non sei cambiata di una virgola» mi disse, non appena capì che io non avrei detto né fatto nulla. «Forse dovresti toglierti quell’espressione sconvolta, però: non sta troppo bene sul tuo bel viso».
Volevo aprire la bocca per ribattere qualcosa, per dirgli di andarsene, per dirgli che non lo volevo più vedere. Non lo feci.
«Non parli?» sogghignò. «Ti faccio ancora quest’effetto?»
«Ti prendi gioco di me?» chiesi, assottigliando gli occhi. Sperai che la mano che tenevo salda alla maniglia della porta non cominciasse a tremare per la rabbia, la frustrazione e l’umiliazione che non ero riuscita mai a sfogare.
«Non l’ho mai fatto» rise, passandosi una mano tra i capelli. «Io sono a posto. L’unica che dovrebbe farsi un esame di coscienza qui sei tu.»
Sentii il mio stomaco accartocciarsi su se stesso e la rabbia salirmi fino in gola.
Avevo passato tutta l’estate a chiedermi il motivo per cui lui fosse andato via, a domandarmi che cosa c’era di sbagliato in me, incapace di tenermi strette le persone. Avevo passato tutta l’estate da sola a farmi continuamente le stesse domande, analizzando e rianalizzando le parole che mi aveva detto per trovare un qualche significato nascosto e l’unica conclusione alla quale ero arrivata era che fossero un mucchio di balle. Poi avevo lasciato perdere e anche in quel momento non mi interessava, perché non ero più innamorata di lui, non volevo esserlo, avevo mentito spudoratamente e inconsciamente quando l’avevo detto a te, perché volevo giustificarmi per tutto quello che avevo fatto. L’amore era passato insieme all’estate trascorsa a casa di mia madre, dopo il secondo rifiuto ricevuto da lui, dopo la sua risata sprezzante. E avevi avuto ragione quando mi avevi detto che la mia era solo una stupida ossessione, solo che io me ne ero accorta troppo tardi, ferendo me e ferendo te.
«Dimmi che cosa sei venuto a fare oppure vattene» sbottai, con la voce tremante di rabbia.
«Sto partendo» disse, come se fosse ancora autorizzato a raccontarmi gli affari suoi, come se facessi ancora parte della sua vita. «Ho trovato lavoro negli Stati Uniti. Sono venuto a dirvi addio.»
«Io e te ci siamo detti addio mesi fa» dissi. «Dem non ha niente da dirti. Non sono stupida, non posso credere che tu sia venuto qui a salutare, dopo quello che mi hai detto a giugno.»
«Non sei stupida, Nadia» disse, e il tono di voce sembrava essersi addolcito. Mi si strinse lo stomaco. «Sei solo molto ingenua. Non ti accorgi di ciò che ti circonda finchè qualcuno non te lo fa notare.»
«E di che cosa non mi sarei accorta, di grazia?» sibilai, acida. «Mi hai mentito per tutto il tempo in cui siamo stati insieme e mi hai mentito anche quest’estate. Mi hai raccontato un mucchio di balle e mi hai mollata qui senza una parola, dopo tutto il tempo che avevamo passato insieme.»
Sorrise e il suo sorriso sembrava più una smorfia, talmente era amaro. Si passò di nuovo una mano tra i capelli. «Non importa quello che credi tu» disse. «Ma dov’è Demetrio?»
«Non è in casa» risposi.
«Non sai dov’è» comprese, con un sorriso sarcastico. «Avete già cominciato a litigare come due sposini?»
«Ma che diavolo stai dicendo?» sibilai. Lui non mi rispose ed entrò dentro, ignorando le mie proteste. Si appoggiò sul davanzale della finestra e cominciò a fissarmi.
Io non sapevo cosa fare, avrei tanto voluto che se ne andasse e che mi lasciasse in pace, avrei voluto che tu fossi a casa, perché tu avresti saputo come comportarti.
«Dimmi che cosa vuoi, per favore, Marc» sussurrai.
«Sono venuto solo per salutarti» ripeté. «Puoi pensare di me quello che vuoi, Nadia, ma io non ti ho mai mentito. Mai, neanche una volta. So cosa ti diceva Demetrio sul mio conto, e magari alcune cose erano anche vere, ma con te sono stato sempre sincero. E non potevo sopportare di continuare a stare con te dopo aver capito quello che c’era tra te e lui.»
Risi amaramente, non credendo ad una parola di ciò che usciva dalla sua bocca. «Tra me e lui non c’è mai stato niente. Niente. E tu sei solo un bugiardo, un verme. Non hai avuto il coraggio necessario per lasciarmi e non ce l’hai tutt’ora per dirmi la verità. Mi disgusti.»
Rise anche lui e non c’era ombra di allegria nella sua risata. «Forse hai ragione» disse. «Forse mesi fa non ho avuto il coraggio, ma adesso ti sto dicendo la verità. Sei libera di non credermi, Nadia, ma non ti ho mai presa in giro. Mai.»
«Ma che belle parole commuoventi.»
Il suono della tua voce mi fece gelare il sangue.

«Smettila di fissare Marc con quell’espressione imbecille.»
«Ma che dici?»
«L’hai fatto la prima volta che è venuto e anche questa volta.»
«E’ carino. E poi non lo fisso come un’imbecille.»
«La prossima volta che viene non te lo dico.»
«E perché?»
«Non voglio che le persone che conosco pensino che ho amiche ninfomani.»
«Quello con cui ho fissato Marc era il mio sguardo normale. Guardo tutti così.»
«Non è vero. Non mi hai mai guardato in quel modo.»




 

 


Oggi la mia felicità riceve livelli stratosferici perchè ieri sono usciti i risultati di un contest a cui ho scoperto di essere arrivata prima. Il contest è questo e qui di seguito riporto il giudizio (in cui ho tagliato alcune parti che altrimenti rivelebbero il finale) e i banner.
 

GIUDIZIO:

Grammatica e Lessico 13,5/15 (di cui Grammatica 7/7, Lessico 4,5/5 e Punteggiatura 2,5/3)

Allora, la Grammatica è impeccabile, tempi verbali corretti e nessun errore ortografico, quindi su questo il voto pieno non te lo toglie nessuno.
Sul Lessico ti ho tolto mezzo punto perché in alcuni casi sarebbero stati meglio altri sinonimi, ma è proprio una sciocchezza (tanto per fare un esempio, “interiormente” sarebbe stato meglio di “internamente”, all’inizio del capitolo due).
Per la punteggiatura ti ho tolto un altro mezzo punto perché usi moltissimi punti fermi, creando così tanti periodi brevi, quando usando un punto e virgola il tutto sarebbe più scorrevole ed elegante, come anche l’uso di trattini, che sarebbero stati bene al posto di due virgole, per esempio, ma anche qui sono questioni di particolari.
Ho notato che non usi molto gli apostrofi (per esempio, non lo usi quando scrivi s’impossessò nel prologo), e anche quelli avrebbero reso la lettura più scorrevole, ma, anche qui, nulla di che.

Stile: 9/10

Per lo stile ti ho tolto un punto perché nonostante il modo in cui scrivi sia davvero brillante e coinvolgente, e le descrizione sono accurate e ben fatte, la sovrabbondanza di passati remoti a volte rende la lettura meno scorrevole di quello che potrebbe essere. (Magari hai genitori o parenti del sud come me, che parlano spesso al passato remoto ^^).
Nonostante ciò, mi devo davvero complimentare con te, perché la tua storia è davvero quella scritta meglio, sia dal punto di vista grammaticale che stilistico – e, personalmente, ho adorato il tuo modo di scrivere. Ti prende fin dall’inizio, e ti catapulta nel mondo di Dem e Nadia, attraendoti irresistibilmente. Un vero capolavoro!

Originalità: 10/10

Poi, bè, l’originalità c’è tutta, lei che era la fidanzata del migliore amico di lui, però inconsciamente innamorata dell’altro … o meglio, il tema non è originalissimo, ma lo è il modo in cui hai sviluppato la storia, e soprattutto il carattere e le azioni dei protagonisti (e poi, sono mezza innamorata di Dem anche io u-u), specialmente il fatto che loro due vivano insieme, geniale! Quindi sono praticamente costretti a stare insieme tutti i giorni, e il modo in cui descrivi come cercano di evitarsi/non evitarsi a volte è semplicemente esilarante, specie quando dici che lei cerca di evitarlo e lui invece le finisce addosso in tutti i modi.

Riferimento al contest: 10/10

Anche il riferimento al contest c’è tutto, un amore a tratti un tormentato, complicato, che non è tutto cavalli bianchi e rose rosse, anzi, è anche un amore negato a lungo, per anni, e eppure c’è. Il massimo dei voti mi sembra il minimo.

Gradimento Personale: 5/5

Bè, per il gradimento personale direi che la una delle cose che ho apprezzato di più è stato il fatto che hai inserito parti dei loro dialoghi passati, quando ancora il loro rapporto non era così complicato. Davvero meravigliosa la parte

«Non voglio che le persone che conosco pensino che ho amiche ninfomani.»

«Quello con cui ho fissato Marc era il mio sguardo normale. Guardo tutti così.»

«Non è vero. Non mi hai mai guardato in quel modo.»”

L’ultimo capitolo l’ho letto con ansia, indecisa se leggerlo davvero o no. Non ero sicura di voler sapere come andava a finire. Non ci crederai ma per tutto il tempo mi sono sentita pizzicare gli occhi, e poi, alla fine, mi hai anche fatta commuovere.
Questa è la storia migliore di tutte, e per questo, non a caso, hai mezzo miliardo di premi – per colpa tua ho perso una giornata a fare banner, sentiti in colpa :P
Vorrei spiegarti anche perché ti ho attribuito il Premio Miglio Personaggio Femminile.
Nadia, a cui è appunto riferito il Premio, non è una donna perfetta, un’eroina Disney o roba simile. Ti ho dato il premio per lei perché ha sbagliato, gravemente e in molte cose, ma accetta i suoi errori, li ha compresi, e solo grazie a questo riesce a trovare – o forse, ritrovare – Demetrio, a capire davvero ciò che c’è tra di loro. Demetrio sarà anche il lucchetto, ma Nadia è la chiave, l’unica chiave possibile.
Bravissima, il primo posto è tuo, AllegraRagazzaMorta, e te lo meriti fino in fondo.
Hai creato un piccolo miracolo di storia.










 

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette ***


Capitolo sette

Io credo che sappiamo che è diverso se le cose son state poi più avare…
Le accetti tiri avanti e non hai perso se sono differenti dal sognare
perché non è uno scherzo sapere continuare.
E scusami se sono qui a pensare a te, le tue parole e i tuoi sorrisi…
100 Pennsylvania Ave – Francesco Guccini

 

 

Il suono della tua voce mi fece gelare il sangue. Rabbrividii nel sentirla e mi voltai di scatto, felice che tu fossi tornato a casa, felice perche avresti risolto la situazione e cacciato Marc una volta per tutte. L’avresti cacciato dalla mia casa e dalla mia vita e allora sarei stata libera.
«Demetrio» salutò Marc, spostandosi dalla finestra e camminando fino al centro della stanza. Quando vidi che stava arrivando vicino a me, mi spostai. «Sono felice di rivederti. Durante l’ultimo nostro contatto telefonico non sei stato molto, mmh, cordiale.»
I tuoi occhi si assottigliarono, ostili, e per un attimo ebbi paura che volessi saltargli addosso e picchiarlo finchè non fossi rimasto senza forze, invece mantenesti un contegno degno solo di te, un tono di voce glaciale che avrebbe fatto rabbrividire chiunque e rispondesti alla sua provocazione con tutta la dignità possibile.
«Lo puoi ben dire» sibilasti. «Adesso vattene da casa mia. Andate a giocare agli innamorati che si incontrano di nuovo lontani da me, o potrei non rispondere delle mie azioni.»
«Io non vado da nessuna parte» protestai.
«Fai quello che vuoi, non mi interessa» dicesti, senza guardarmi. I tuoi occhi glaciali erano puntati su Marc e non l’avrebbero lasciato stare finchè non si fosse chiuso la porta di casa nostra alle spalle.
«Perdona l’intrusione» disse lui, senza accennare ad abbandonare quell’espressione divertita, quella che ti stava facendo infuriare e che presto ti avrebbe fatto esplodere. «Non volevo rovinare la vostra commedia romantica con la mia presenza.»
«Ti ho detto di andartene» sibilasti ancora, la voce dura come una lastra di marmo.
«Mi sono sempre chiesto per quale motivo anche tu ce l’abbia con me, Demetrio» infierì Marc. «Io a te non ho fatto niente. Adesso dovresti solo ringraziarmi per averti liberato il campo».
Centro. Stringesti i pugni fino a far diventare le nocche bianche e avrei potuto giurare che sui palmi delle tue mani le unghie si stessero conficcando nella carne. Assottigliasti gli occhi talmente tanto che sembrava fossero chiusi e un movimento quasi impercettibile del tuo braccio mi fece pensare che stessi lottando per non colpirlo.
Marc capì e sorrise. «Tolgo il disturbo, tranquillo» disse e mi guardò. «Pensa a quello che ti ho detto».
Non risposi. Io e te lo guardammo voltarci le spalle e dirigersi verso la porta, sbattendola.
Non l’avrei rivisto mai più.


Esplodesti dieci minuti dopo che lui se ne andò. Passasti quei dieci minuti a vagare per la stanza, nervoso, a spostare oggetti e a fumare, senza girarti a guardarmi nemmeno una volta.
Non avevo il coraggio di aprire bocca perché non avevo la minima idea di ciò a cui tu stessi pensando e avevo paura di dire qualcosa di sbagliato, avevo paura che tu ti allontanassi ancora di più da me, avevo paura che mi rifiutassi come io avevo fatto con te troppe volte.
Le parole di Marc erano troppo vere e facevano troppo male per fa sì che io pensassi anche solo lontanamente che forse era il caso di ammettere che aveva ragione, che tra me e te c’era sempre stato qualcosa, che tu l’avevi capito e io invece no. La cosa più assurda era che quella sensazione che indicava qualcosa di irrisolto io l’avevo sempre avuta, ogni volta che ti guardavo, ogni volta che ti ascoltavo e ogni volta che ti toccavo. Aveva ragione Marc quando aveva detto che io non mi accorgo delle cose finchè qualcuno non me le sbatte in faccia, aveva ragione quando diceva che l’avevo ingannato. E avevo ingannato anche me e anche te.
Quando finalmente ti decidesti a parlare io avevo solo voglia di piangere.
«E’ stato un teatrino molto romantico» dicesti, evitando di guardarmi. «Erano mesi che aspettavi che lui tornasse a dichiararti tutto il suo amore e ora è arrivato. Non sei felice?»
Non risposi. Rimasi solo a fissarti mentre girovagavi per la stanza cercando qualcosa da fare.
«Mi è dispiaciuto fare il cattivo della situazione» continuasti. «Ma in casa mia non lo voglio. Potevi seguirlo, però. Vabbè, potrete sempre vedervi stasera».
«Non mi ha dichiarato nessun amore» dissi, dopo un po’. «Non hai capito niente, Dem».
«Non c’era molto da fraintendere» dicesti, gelido. «Sono arrivato e lui stava negando tutto quello che ha fatto nei mesi passati e tu sei talmente stupida da andargli dietro, non capisci che ti ha solamente usata, scegli lui ancora una volta!» gridasti. «Io sono stufo di tutta questa storia, Nadia. Sei solo una bambina, non sai neanche tu quello che vuoi e io mi sono stancato, io ho bisogno di risposte!»
«Hai frainteso tutto» dissi, cominciando ad alterarmi anch’io. «Io non vado dietro a nessuno e tu devi smetterla di accusarmi sempre, non sai neanche com’è andata, non c’eri!»
«Forse mi sono sbagliato quando ho detto che la tua è solo un’ossessione» sibilasti. «Forse avevi ragione tu. Quello che è successo poco fa ne è la dimostrazione.»
«Non è successo niente poco fa!» risposi, sentendo gli occhi inondarsi di lacrime mentre tu li perforavi con il tuo sguardo. «E non ti sbagliavi!»
«Non mi interessa più» dicesti. «Va bene così, Nadia. Non ci ho mai sperato più di tanto. Ho sempre saputo che saremmo arrivati a questo punto e ho sempre saputo che non avremmo mai avuto una conclusione. Va bene così.»
«Di che cosa stai parlando?» chiesi, anche se sapevo esattamente a cosa ti riferivi. Stavi dicendo tutto quello che io avevo pensato nei giorni precedenti e non avevo il coraggio di dire ad alta voce. Il motivo per cui io e te continuavamo a respingerci ero solo io, ma allora non me ne rendevo conto.
«Sto parlando di me e te» dicesti, finalmente. Lo stavi ammettendo dopo mesi di frasi spezzate e rifiuti, di sguardi obliqui e pianti. Stavi ammettendo quello che io non avrei mai voluto che tu ammettessi. Era questo il punto di non ritorno, non i nostri baci, non i nostri sguardi. Nell’esatto istante in cui tu pronunciasti quelle parole io realizzai che era veramente finita.
Rimasi immobilizzata a guardarti per quelli che mi parvero secoli, cercando le cose giuste da dire, pregando di essermi sbagliata, sperando di poter ancora aggiustare le cose.
«Non sei mai stata così lontana» sussurrasti. «Non so più che cosa fare.»
«L’altro giorno mi hai detto che quando vuoi qualcosa te la vai a prendere» mormorai.
«Lo so. Ma in questo caso non ne sono in grado» ti sedesti su una sedia e in quel momento mi accorsi che eri veramente sfinito. Appoggiasti un braccio sul tavolo e lasciasti cadere l’altro lungo un fianco. Fissavi un punto imprecisato nel vuoto e avevi l’espressione più triste e amara che io avessi mai visto. «E’ da anni che provo a farti capire.»
«Io ho capito» dissi. «Non sono innamorata di Marc.»
Voltasti la testa e ricominciasti a guardarmi con quegli occhi terribili e penetranti. Ti alzasti e arrivasti vicino a me.
«E di me?» chiedesti, in un sussurro.
«Non lo so» ammisi.
Sorridesti e in quel sorriso vidi tutte le parole che avresti voluto dirmi negli anni passati e tutte quelle che mi avevi detto. Sorridesti e io finalmente capii che nonostante i tuoi sentimenti verso di me, non avresti accettato che io ti ferissi ancora. Quando ti avevo baciato per la prima volta avevo capito che ti avevo perso, in quel momento invece capii che ero stata io ad andarmene.
«Non è abbastanza, Nadia» dicesti, senza smettere di sorridere. Io sentii la prima lacrima bagnarmi la guancia perché sapevo cosa significava quel sorriso.
«Non mi lasciare sola.» sussurrai.
«Non posso rimanere qui.»
Ti avvicinasti di nuovo a me e mi asciugasti la lacrima con la mano. Poi mi baciasti a fior di labbra, con dolcezza. Quando accettasti di staccarti da me, decidesti anche di staccarti dalla nostra casa, dalla nostra città e dalla nostra vita.
Lasciasti tutto quanto anche tu.


«Stavo pensando che mi piacerebbe tornare nella mia vecchia città.»
«Ti vuoi trasferire?»
«A luglio mi laureo e poi dovrò fare la specialistica, che c’è anche nella mia città.»
«Voglio venire con te. Posso cominciare lì l’università.»
«Verresti sul serio? Anche se l’università c’è anche qui?»
«Sì.»
«Potremmo vivere insieme.»
«Sarebbe bellissimo. Così non sentirei mai la tua mancanza.»
«Quanto sei sentimentale.»

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Epilogo

Ditele che l’ho perduta quando l’ho capita, ditele che la perdono per averla tradita.
Atlandite – Francesco De Gregori


 

Te ne andasti che io non ebbi neanche il tempo di rendermi conto di ciò che stava succedendo. Preparasti uno zaino e varcasti la porta di casa, mentre io ero ancora immobile al centro della cucina che ti osservavo, senza sapere cosa dire o cosa fare, perché sapevo che le cose non sarebbero potute andare diversamente. E sapevo anche che era colpa mia.
Nei giorni successivi mandasti qualcuno a prendere il resto della tua roba e io non avevo idea di dove fossi né di cosa stessi facendo. Pensai che non ti avrei mai più rivisto.
A tre anni da allora posso affermare con certezza che se fossi stata meno egoista e più coraggiosa probabilmente avremmo sofferto di meno, ma posso dire con altrettanta sicurezza che se ti avessi ascoltato e se avessi aperto gli occhi, se non avessi infranto le regole e se neanche tu le avessi infrante, probabilmente sarebbe finita allo stesso modo. Non ero pronta a te esattamente come tu non lo eri a me, anche se ti ostinavi a credere di esserlo, ma tutta la sofferenza che ci siamo causati a vicenda poteva essere evitata semplicemente se io mi fossi posta le domande giuste al momento giusto.
Ricordo che un mese dopo la tua partenza rividi Marlene e le chiesi scusa per come mi ero comportata; lei mi sorrise e mi chiese se sapevo dove fossi.
Eri scomparso senza lasciare tracce e io pensai che era stata fatica sprecata, perché non avrei avuto il coraggio di cercarti per molto tempo.
Ti eri innamorato di me la prima volta che mi avevi visto e l’avevo capito troppo tardi. Io mi ero innamorata di te col tempo e ti eri radicato nel mio cuore e nella mia anima con talmente tanta forza che sarebbe stato impossibile scacciarti e tutt’ora sarebbe impossibile farlo. Questo l’ho accettato solo adesso.
Durante tutto questo tempo spesso ho avuto paura che tu mi avessi lasciata indietro, mentre io ho passato tutti i giorni a ricordare e nella mia mente ho rivisto ogni singolo istante, ho risentito ogni singola parola e ogni singolo tocco. Pensavo che se ancora non eri venuto a cercarmi allora voleva dire che avevi dimenticato tutto, che non te ne importava più niente. Ho dovuto combattere contro me stessa per venire da te e stranamente dentro di me avevo la sensazione di sapere già dove trovarti.
Mentre ti guardo seduto in riva al mare penso che tu sia la cosa più bella che io abbia mai visto.
Ti raggiungo e mi fermo a qualche passo dietro di te, perché ancora una volta voglio vedere come sei quando pensi che nessuno ti stia guardando.
Stuzzico con una mano la collana con la chiave che porto al collo. Non l’ho tolta nemmeno una volta da quando me l’hai restituita.
Dopo un’infinità di tempo ti volti a guardarmi e non sei sorpreso, anzi: hai lo sguardo di qualcuno che aspetta un momento simile da sempre, lo sguardo di chi era convinto che prima o poi sarebbe successo. Come al solito, capisci sempre tutto prima di me.
«Ce ne hai messo di tempo» mi dici.
Sorrido. Ripenso a tutto ciò che è successo negli ultimi anni e che non riuscirò a lasciarmi alle spalle.
«Pensavo che mi avessi dimenticata» rispondo.
«Sei la solita stupida. Mi ricordo tutto. Ricordo ogni singolo istante.»
«Posso sedermi vicino a te?» chiedo.
«Sì.»


«Posso sedermi vicino a te?»
«Fai come vuoi.»

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