Carpe Diem

di Acquiesce
(/viewuser.php?uid=111347)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo I ***
Capitolo 2: *** capitolo II ***



Capitolo 1
*** capitolo I ***


Carpe diem. Fin da piccola mi hanno insegnato l’importanza di “cogliere l’attimo”, di sfruttare le occasioni. Crescendo mi appassionai alla fotografia, all’arte di immortalare un momento, renderlo eterno, cogliere l’attimo, appunto. La fotografia era diventata il mio lavoro e la mia vita. Ogni giorno uscivo con la mia reflex in cerca di qualcosa che catturasse la mia attenzione, che mi incuriosisse. Talvolta venivo catturata da semplici gesti di persone normalissime nell’intento di operare con il loro lavoro; da una carezza di un genitore al proprio bimbo, o di un uomo alla propria donna. Amavo fotografare le persone e rendere immortali quei piccoli gesti così speciali.
Un giorno mentre mi trovavo al parco a trovare qualcosa che catturasse la mia attenzione feci un incontro speciale: incontrai una persona che mi catturò, proprio come le foto che scattavo, come le scene e le emozioni che imprimevo sulla pellicola.
Stavo scattando foto lì in giro a qualunque cosa trovassi lontanamente interessante: ero concentrata su un bambino che stava giocando con il suo grosso cane, sotto gli occhi vigili e ridenti della madre che li sorvegliava poco lontano. Aspettavo il momento adatto per fare il mio scatto, attendevo quella scintilla che mi avrebbe fatto capire che quello era l’attimo giusto da rendere eterno. Ma poi improvvisamente mi accorsi di una melodia in lontananza. Non sapevo bene cosa fosse, so solo che attirò la mia attenzione al punto di interrompere la ricerca di quell’attimo da catturare per seguire quella musica vagamente malinconica.
Più mi avvicinavo, più la melodia si faceva chiara e triste. Due accordi di chitarra ripetuti all’infinito. Nonostante fosse stata una calda giornata primaverile, avevo la sensazione che in quell’angolino di parco da cui partiva la sinfonia fosse arrivato l’autunno, senza colori, solo il freddo e la malinconia per una calda estate già passata.
Quando fui abbastanza vicina potei vedere un uomo seduto su una panchina davanti al lago intento a strimpellare con una chitarra, lo sguardo fisso verso l’acqua. Indossava un maglioncino scuro con le maniche arrotolate; potevo vedere le braccia sottili percorse da grosse vene che si infittivano sulle mani, lunghe, con le dita affusolate. –Tipiche mani da musicista.- pensai. Non si era ancora accorto di me, mentre io ero già stata conquistata da quella scena: mi chinai e imbracciai la mia reflex: inquadrai quell’uomo misterioso che mi aveva attirato fin lì con le sue note, lui, solo, in mezzo a quel ridente paesaggio; gli alberi intorno, gli uccelli che cinguettavano e che saltellavano da un ramo all’altro o beccavano sul sentiero di ghiaia alle sue spalle. Alcune anatre nuotavano nel lago sotto lo sguardo vacuo del musicista. La vita insomma, e lui praticamente immobile lì in mezzo, anche se stava suonando; aveva qualcosa di triste, che stonava enormemente con quel paesaggio radioso e dinamico.
 Catturai quell’attimo così unico e contraddittorio e rimasi per qualche secondo chinata ad osservare il mio scatto dal display della reflex. La melodia si interruppe. Solo quando alzai lo sguardo mi accorsi che quell’uomo si era accorto di me. Mi guardava incuriosito, come se avessi invaso il suo territorio, come se fossi entrata nella sua bolla di solitudine. Mi misi in piedi e decisi di avvicinarmi. Era un po’ più grande di me, avrà avuto non più di 40 anni, era biondo; alcuni capelli bianchi sulle tempie avrebbero suggerito un’età diversa. Aveva il volto stanco, sciupato, una sottile barba bionda che tendeva al bianco verso il mento. Gli occhi grigi, chiari come un cielo nuvoloso. Non solo le note, ma anche il suo sguardo suggeriva una leggera malinconia.
Anche lui mi scrutava allo stesso modo, vide in me una donna poco più giovane di lui, lunghi capelli corvini e mossi, occhi verdi. Uno sguardo curioso e furbo.
Quando gli fui vicina mi fece cenno di sedermi. –Perché stavi suonando quella melodia così triste?- gli chiesi, o meglio, quelle parole mi uscirono di bocca senza che potessi controllarle, tanta era la mia curiosità; lui continuava a fissarmi, poi rispose:-Tu perché spii le persone cercando di immortalare le loro emozioni?-. rimasi spiazzata, senza parole, finché aggiunse:-Sono un musicista: creare delle melodie è il mio lavoro. Lo faccio per guadagnarmi da vivere, tutto qui.- concluse tornando a fissare il lago con ancora la chitarra in braccio. Sapevo che mentiva,  che non era tutta la verità. Lui era come me: io non scattavo foto solo per sbarcare il lunario, lo facevo per passione. Anche lui non suonava  solo per arrivare a fine mese, lo faceva perché amava la musica. Se vuoi uno stipendio fisso e sicuro non ti metti a fare il musicista di strada o il fotografo free-lance.
Gli chiesi se potessi scattargli delle foto, almeno per rompere quel silenzio imbarazzante che si era creato intorno a noi, e lui mi lasciò fare. Fui attratta dalle sue mani: se ne stava appoggiato con le braccia sulla cassa della chitarra e teneva le mani a penzoloni, o meglio, reggeva la sinistra con l’altra mano. Cercai l’angolazione migliore e scattai. Dopo un paio di foto imbracciò la chitarra e riprese a suonare, ma non intonò più quei tristi accordi, bensì una melodia ben più allegra. Lui suonava e io scattavo foto. Quella fredda atmosfera malinconica e quasi autunnale ben presto sparì lasciando spazio a qualche timido sorriso divertito di lui che si trasformava in risata quando tentavo di cantare sulle note di qualche canzone famosa che stava suonando. Nonostante fosse più allegro di quando lo vidi, quel velo di malinconia non lasciava il suo volto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** capitolo II ***


Alle prime ombre della sera ci spostammo in un locale per prendere qualcosa. Eravamo uno di fronte all’altra, la sua chitarra chiusa nella custodia al suo fianco, la mia reflex sul tavolo. Parlammo delle nostre vite, o meglio, dei nostri rispettivi lavori che in un certo senso sono tutta la nostra vita. Mestieri diversi ma complementari: io immortalo le emozioni nelle foto, lui le trasmette attraverso sette note. Eravamo affascinati l’uno dal mondo dell’altra e dai diversi modi di comunicare e descrivere le stesse cose: lui trasmetteva la tristezza mettendo insieme alcuni accordi vincenti mentre io catturo gli ambienti più tetri, le luci più fievoli, i soggetti più solitari.
Quando uscimmo dal locale proseguimmo il nostro scambio di vedute facendo una passeggiata e senza che me ne accorgessi raggiungemmo casa mia. Non appena me ne resi conto ammutolii di colpo, rimanendo per un attimo interdetta. Anche lui si bloccò di colpo, un incredibile silenzio era sceso su di noi. Lo guardai e lui capì dove l’avevo inconsciamente condotto. Senza proferire una parola spinsi quel fatiscente portone e mi avviai verso le scale: speravo che mi seguisse. Era una follia, ma non potevo fare a meno di agire in quel modo: faceva parte di me, del mio modo di essere. Non sono mai stata una persona che fa le sue scelte in base a cosa sia giusto o meno, piuttosto preferisco fare ciò che sento e quella sera sentii di lanciarmi su per le scale nella speranza che quel misterioso musicista mi seguisse. E così fu: cominciai a sentire dei passi saltellare sui gradini alle mie spalle; quando arrivai sul pianerottolo quel rumore di passi si interruppe. –Magari è solo un inquilino del palazzo…- cominciai a pensare un po’ disillusa mentre giravo la chiave. Aprii la porta e mi girai di colpo nella speranza di trovarlo lì, come quei giochi che si fanno da bambini e lui era davvero lì, a pochi centimetri, vicinissimo, mi ci ero quasi scontrata. Potevo sentire il suo respiro caldo e leggermente affannoso per la corsa sul mio viso. Mi fissava negli occhi in attesa di una mia reazione. Passato lo stupore iniziale gli angoli della mia bocca si contrassero accennando appena un sorriso. Quello per lui fu il segnale: mise giù la custodia con la sua affezionata chitarra, mi prese il viso tra le mani e mi baciò; iniziando una sorta di valzer mi condusse dentro e girammo brevemente in tondo, finché non mi ritrovai appoggiata alla porta alle mie spalle appena chiusa.
Cominciai a sentirmi viva come non mai, rapita da quell’insolita situazione. Ero ancora in tempo per fermarlo, mandarlo via, se solo avessi voluto. Ma la verità era che non volevo lasciarmi scappare quell’occasione tanto insolita quanto irresistibile. Eravamo appiccicati l’uno all’altra, l’unica cosa che ci divideva, seppur parzialmente, era la mia reflex ancora appesa per la tracolla al mio collo. Mi aggrappai ai lembi del suo maglione sui fianchi e aiutandomi con il mio peso lo spinsi via facendo perno con le spalle contro la porta. Lui mi guardò confuso, non si era ancora accorto della mia espressione maliziosa. Gli presi la mano e lo sorpassai, trascinandolo prima, poi semplicemente guidandolo verso la mia camera. Lì mi fermai e mi voltai e lui ne approfittò per sfilarmi la reflex dal collo; cominciò a maneggiarla tentando di scattarmi una foto, e ci riuscì un attimo prima che riuscissi a riprendermela. Ero quasi tentata di guardare il suo scatto improvvisato, ma preferii saltargli al collo e baciarlo di sorpresa come aveva fatto lui poco prima. Misi giù la mia macchina fotografica e mi concentrai su quel misto di emozioni mai provate tutte insieme. Semplicemente mi abbandonai a quel momento, a quelle sensazioni, mi abbandonai tra le braccia di quell’uomo.
Ci esplorammo, ci unimmo, ci mischiammo pelle, anime e ossa, voracemente, come in preda al timore che da un momento all’altro qualcosa potesse separarci per sempre, come se fossimo stati convinti che quella scintilla sarebbe potuta spegnersi troppo presto. Eravamo inebriati l’uno dall’altra, era qualcosa di primitivo, qualcosa mai provato prima. Come essere in cima alle montagne russe e cadere giù di colpo. Un’esperienza unica. Fu qualcosa che mi ricordava l’erotismo negli scatti di Chip Willis, ma anche quella forza quasi esoterica nei riff di Jimmy Page. Tante cose messe insieme. Senza contare che ogni fibra del mio corpo vibrava sotto quel tocco ruvido delle dita del musicista, rovinate dalle dure corde della chitarra.
Quando quel vortice di passione si affievolì rimanemmo per un po’ in silenzio a fissare le luci della città che penetravano dalla mia finestra e si proiettavano sul soffitto della stanza, accompagnati dall’eco dei nostri respiri e dei nostri fremiti di poco prima. Non so spiegarmi perché ma d’un tratto mi allungai verso il comodino su cui giaceva la mia reflex e la afferrai. Senza dire una parola la alzai sopra le nostre teste e mi preparai a scattare una foto. Forse quello era l’unico modo in cui sapevo comunicare. Il musicista dapprima seguì i miei movimenti e guardava l’obiettivo, poi preferì sfiorarmi la guancia con le sue labbra, regalandomi un piacevole brivido proprio nel momento in cui scattai la foto. Avevo colto l’attimo ancora una volta. Cominciò ad accarezzarmi e a baciarmi e io in preda a quei fremiti misi giù la macchina fotografica con poca grazia sul pavimento. Questa volta però i suoi baci avevano un sapore diverso, mi ricordavano quel pomeriggio al parco quando lo vidi per la prima volta. Come se mi stesse dando il bacio dell’addio. In quel momento però non ci diedi troppo peso, presa com’ero da quell’atmosfera così calorosa.
Quando fu mattina mi sorpresi abbastanza nel ritrovarmi di nuovo sola nel mio letto. Come sempre. Tastai il lato vuoto del materasso ed era ancora tiepido, segno che si era alzato da poco. Mi guardai intorno ma i suoi vestiti erano spariti. Sperai che fosse sotto la doccia o in cucina alla ricerca di qualcosa di commestibile, ma rimasi delusa quando realizzai che non era in casa. Perfino la su chitarra che aveva lasciato accanto all’ingresso era sparita. Improvvisamente quella tana per topi del mio appartamento cominciò a sembrarmi enorme. Mi buttai sotto la doccia per togliermi il suo odore di dosso e per poi precipitarmi fuori da quel posto per un po’. Solo quando tornai nella mia camera con ancora il letto sfatto che mi riportava a quella notte notai che la mia macchina fotografica era stata spostata: non era sul pavimento dove ero sicura di averla lasciata, ma era appoggiata sul comodino con un foglietto strappato da un block notes infilato sotto per metà. Voleva essere sicuro che lo trovassi. Lo presi tra le mani e lo lessi: “Non posso restare, mi dispiace” tutto qui. Non un punto, non un addio, una firma, niente. Solo in quel momento mi accorsi che non conoscevo il suo nome e realizzai anche che l’addio me l’aveva dato quella notte stessa con quei baci dal sapore così strano. Mi sentii un po’ meglio sapendo che in un modo o nell’altro mi aveva salutato prima di andarsene, ma quel buco di appartamento continuava a sembrarmi fin troppo enorme, così afferrai la reflex e corsi fuori, diretta al parco. Speravo di rincontrarlo. Almeno per dargli il mio addio. Credevo. Forse avevo solo voglia di rivedere una persona che mi aveva regalato emozioni così grandi e speciali. Mi diressi verso il laghetto, ma non sentivo nessuna melodia. Quando fui abbastanza vicina vidi la panchina: vuota. Lui non c’era, se n’era andato per davvero. Decisi di raggiungere comunque la panchina e sedermi, come per aspettarlo, forse. Presi tra le mani la reflex e diedi una scorsa alle foto delle ultime due giornate. –Ecco la foto che mi ha scattato.- pensai quando vidi una foto in cui il palmo sfocato della mia mano occupava quasi tutta la scena e dietro il mio viso divertito immortalato mentre dicevo qualcosa al fotografo di ventura.  Sorrisi davanti al ricordo di quel momento ludico. Mi divertiva anche il fatto che quella foto fatta così all’improvviso e senza particolare professionalità mi sembrasse così viva: trasmetteva l’emozione di quel momento. Una foto più avanti ed ecco che salta fuori la nostra foto a letto, l’unica insieme. La mia espressione, gli occhi socchiusi comunicavano tutta l’emozione del momento, quel phatos che il musicista riusciva a regalarmi. E poi lui: solo guardando la foto mi accorsi che quel velo di tristezza era ritornato sul suo volto. Il suo attimo si stava per esaurire e quel bacio avrebbe dovuto farmelo capire.
Non rimpiango niente però. Non so cosa ci abbia spinto a vivere quell’avventura, quell’attimo fuggente nel vero senso della parola e forse non lo capirò mai ma sono felice comunque. Anche se è stato breve ho vissuto un’avventura, un attimo incredibile. Non capita a tutti e non si ha sempre la fortuna di incontrare qualcuno che ci faccia stare così bene,  che sia così in sintonia con te nonostante sia tanto diverso, aggiungerei. Anche se nel mio caso fu quello che qualcuno chiamerebbe “fuoco di paglia”. Ma non mi importa. Che sia una notte, un anno o una vita, il tempo non cambia l’importanza di un attimo, di un’emozione, e della felicità che possa dare. E io sono felice, felice come lo sono stata raramente. Come non lo ero da tempo. Felice e viva.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=994966