Mehr Licht

di Whatadaph
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Una lunga serie di giornate pesanti ***
Capitolo 2: *** II. C'erano una volta tre fratelli ***
Capitolo 3: *** III. Dovreste conoscervi ***
Capitolo 4: *** IV. Un ragazzo brillante ***
Capitolo 5: *** V. Gellert Grindelwald ***
Capitolo 6: *** VI. Un bel posto ***
Capitolo 7: *** VII. Speranza ***
Capitolo 8: *** VIII. Condividere ***
Capitolo 9: *** IX. Incomprensioni, illusioni, idee ***
Capitolo 10: *** X. La stanza di Albus ***
Capitolo 11: *** XI. Proponimenti ***
Capitolo 12: *** XII. Interludio ***
Capitolo 13: *** XIII. Divinazione e foglie di tè ***



Capitolo 1
*** I. Una lunga serie di giornate pesanti ***


L’idea di scrivere una long-fiction Grindeldore è nata innanzitutto dalla voglia di leggerne una. Adoro questo pairing, con tutte le tinte fosche e brillanti che può assumere, tutto quel confuso miscuglio di genio e follia, occhi penetranti e occhi luccicanti. Tuttavia, benché esistano molte, splendide One-shot, di long-fic davvero long non ne ho trovata nessuna. E... beh, le parole hanno iniziato a muoversi da sole dentro la mia testa e qualcosa mi ha costretta a scrivere. Così, ecco qui! Mehr Licht è un’esclamazione di Goethe (che oltretutto ringrazio molto per tutta l’ispirazione che con I dolori del giovane Werther mi ha dato). Significa Più luce!

Prima che cominciate a leggere...

So bene che da Vita e menzogne di Albus Dumbledore di Rita Skeeter possiamo ricavare informazioni un po’ diverse da quelle riportate qui relativamente al momento della morte di Kendra Dumbledore. Da Harry Potter e i Doni della Morte: “I due giovani erano al Paiolo Magico a Londra [...] quando un gufo portò la notizia della morte della madre di Dumbledore.”

Sappiamo bene quanto la Skeeter sia inaffidabile, e per quanto mi riguarda le voci mi riferiscono che Albus e Aberforth avessero ricevuto la tragica notizia nelle ultime settimane di scuola (o perlomeno, ho immaginato che fosse avvenuto così).

Buona lettura!

 

A Ale, Silvia e Anna.
A Giulia, la mia adorabile beta.
E alla vittoria a Durbuy e tutte le mie compagne di corso, perché altrimenti non avrei cominciato a postare proprio oggi.


 

Mehr Licht

Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten.
Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera.
Johann Wolfgang von Goethe


Prima parte - Giugno 1899

Capitolo 1

“Una lunga serie di giornate pesanti”

 

Beta: Unbreakable Vow

 

Avrebbe potuto chiudere l’armadio con un colpo di bacchetta, ma non lo fece. I suoi occhi chiari e penetranti ricambiarono per l’ultima volta il suo sguardo, dal riflesso polveroso che lo specchio appeso all’interno dell’anta gli rimandava. Fu un’occhiata rapida, un breve lampo, l’ultima e definitiva comprensione che Albus Dumbledore avrebbe condiviso con la propria stessa immagine. Poi chiuse l’anta, e la sua figura riflessa si restrinse fino a scomparire nel buio di quell’interno vuoto. Accostato lo sportello, lo spinse leggermente per far scattare il meccanismo che lo teneva chiuso, facendo scorrere il palmo della mano su quella sottile fessura.

Si concesse ancora qualche istante, nel silenzio del dormitorio deserto, dritto come un fuso, per l’ultima volta. Tutti i suoi averi – abiti, cose di scuola, libri – erano adesso stipati con cura dentro il baule, che giaceva ai piedi del letto a baldacchino dalle cortine scarlatte.

Volse il capo: il sole si affacciava dalle finestre, generando sul pavimento un’eco mille volte ripetuta dei loro archi a sesto acuto. L’astro stava tramontando: i ricami di pietra delle finestre erano tinti degli avanzi brucianti dei suoi ultimi raggi. C’era quiete, sì, si respirava. Una quiete polverosa e triste come lo specchio in cui Albus si era osservato fino a neanche un minuto prima, adesso condannato a riflettere solo il fondo spoglio dell’armadio.

Udì uno scalpiccio risalire lungo la scala a chiocciola che portava al dormitorio, e non si stupì affatto nell’udire il respiro ansante e un poco ansioso di Elphias riecheggiare dall’altra parte della porta socchiusa.

“Albus,” lo sentì dire, premuroso. “A che punto sei con i bagagli? Stiamo scendendo tutti a cena.”

“Arrivo,” rispose. “Aspettami.”

Un secco ordine, venato di irritazione. Elphias Doge aveva bruscamente interrotto quel suo momento di contemplazione, con il suo tono concitato e impaziente. Albus si premurò di farlo attendere qualche istante più del necessario, prima di raggiungerlo sulla soglia.

Era più basso di lui di tutta la testa, Elphias, ed era un amico fedele. Spesso lo sorprendeva a fissarlo pieno di ammirazione, con i suoi occhi grandi e devoti, un poco sporgenti. Fiato-di-cane Doge, lo chiamavano. Albus sapeva di essere la prima delle sue preoccupazioni, ma anche l’unica persona per la quale non si sarebbe mai preoccupato davvero. Non solo sopportava Elphias di buon grado, a tratti gratificato dalle sue costanti attenzioni, ma ne apprezzava la compagnia. L’amico non era il primo ad ammirarlo, ma probabilmente sarebbe stato uno degli ultimi... Si trattava di un ritornello costante, che nelle ultime settimane il giovane Dumbledore si era ripetuto di continuo, figurandosi i commenti dei propri insegnanti.

Che peccato,” li udiva sentenziare tristemente nella propria testa. “Un giovane talmente dotato... un così grande talento. Sprecato a non far nulla in quel villaggio sperduto.”

Che peccato, Albus, che peccato.

“Hai, uhm,” Elphias si schiarì la voce, riportandolo nuovamente alla realtà. “Hai finito di fare i bagagli?”

Albus si sforzò di sorridere, e annuì. “Sì, certo. Devo solo chiedere al professor Hopkins di restituirmi le bozze del mio trattato di Aritmanzia Comparata,” sospirò. “Ma posso farlo domattina.”

L’altro deglutì visibilmente. “Bene,” fu il suo commento.

Dumbledore annuì ancora, distrattamente.

Nella Sala Comune di Gryffindor, i compagni di dormitorio erano in attesa del loro arrivo. Non appena Albus ebbe disceso con Elphias l’ultimo gradino della scala a chiocciola, gli si strinsero tutti intorno: chi chiedendo come stava, chi ripetendo per l’ennesima volta quanto fosse dispiaciuto per la disgrazia avvenuta da poche settimane, chi domandando un parere sulla risposta ad un test dei M.A.G.O.. C’era sempre qualcuno che aveva qualcosa da dire ad Albus Dumbledore. Al suo fianco, Elphias sorrideva amabilmente, poco considerato ma per nulla dispiaciuto per questo fatto. Doveva avervi fatto l’abitudine, probabilmente, dopo tutti quegli anni.

Albus rispose alle domande con gentilezza e cordialità, come aveva sempre fatto. Dopo che furono esauriti i convenevoli, il gruppo di Gryffindor del settimo anno scese in Sala Grande. Faceva uno strano effetto, considerò Albus, pensare che era l’ultima volta che seguivano quel percorso tutti assieme. Studiò per qualche istante i volti dei suoi compagni, presi a conversare di qualcosa che il giovane Dumbledore ascoltava solo a metà e che – comunque – non gli interessava granché. Li osservò uno per uno, con distaccata attenzione, chiedendosi cosa ne sarebbe stato di loro.

Cosa ne sarà di me?

Cosa avrebbe fatto della sua vita? Al momento, la sua unica impressione era che il futuro che lo aspettava fosse tremendamente simile a una prigione. Un giorno dopo l’altro, finché non fossero divenuti anni, chiuso in quella casa grande e cupa, prigioniera a propria volta di quel ristretto, bigotto villaggio. Un giorno dopo l’altro, finché non fossero divenuti anni, a prendersi cura di Ariana.

Per carità, amava sua sorella. La amava di un bene profondo e sincero, sentiva per lei un vago istinto di protezione e di certo avrebbe ucciso chiunque avrebbe mai potuto avere la malaugurata intenzione di farle del male. Ma era cresciuto pensando che il futuro gli riservasse ben altro che badare a una sorella mentecatta per il resto dei propri giorni – anche se si sentiva in colpa, terribilmente in colpa anche solo a pensare una cosa simile. Si trattava di un brutto tiro giocatogli dal destino, davvero uno scherzo di cattivo gusto.

Non gli sfuggivano le occhiate vagamente apprensive che i compagni di Casa gli lanciavano di tanto in tanto – sebbene sapesse che per loro si trattasse di una preoccupazione passeggera. Dopotutto, Albus Dumbledore aveva sempre la soluzione in tasca. Tuttavia, gli eventi delle ultime settimane si erano susseguiti molto in fretta, sfuggendo al suo controllo. E come poteva essere altrimenti?

La notizia della morte di Kendra era giunta improvvisa, neanche due settimane prima. Ad Albus pareva che qualcosa si fosse spezzato nel suo petto, qualcosa che difficilmente si sarebbe rimarginato. Aveva provato a parlarne con Aberforth, ma il fratello minore in tale occasione non si era dimostrato meno sfuggente del solito. Sembrava sempre arrabbiato, Aberforth, con lui in particolare... anche se Albus non aveva mai prestato particolare attenzione alle sue beghe di quindicenne.

Non appena i Gryffindor fecero il loro ingresso in Sala Grande, una figura massiccia tagliò loro la strada.

“Salve, Albus,” gli si rivolse con fare solenne. “Come stai?”

Si trattava di Horace Slughorn, un giovane Slytherin che aveva qualche anno meno di lui e con cui spesso Dumbledore si intratteneva per brevi conversazioni. Gli era simpatico, Horace, nonostante i suoi modi un poco pomposi e l’assoluta mancanza di pudore con la quale ricercava il favore degli insegnanti o di chiunque ricoprisse ruoli di potere. Probabilmente, nella sua mente Albus apparteneva a questa seconda categoria, giacché gli si rivolgeva con fare amichevole ma estremamente ossequioso. Nonostante ciò, il giovane Dumbledore riteneva che avesse una mente brillante, ed era una compagnia piacevole.

“Bene,” sorrise. “Al meglio.”

Slughorn era troppo sveglio per bersi quelle fandonie, tuttavia fece finta niente: non tanto per delicatezza, quanto piuttosto perché non gliene importava granché.

“Ottimo,” fu il suo commento. “Ottimo. Non scomparire, eh, mi raccomando! Dovrai raccontarmi per filo e per segno dei tuoi studi sul sangue di drago!”

“Naturalmente,” annuì Albus, facendogli eco. “Naturalmente.”

Dopo avergli stretto vigorosamente la mano – prestando bene attenzione che tutta la tavolata di Slytherin potesse avvedersene – Slughorn lo saluto allegramente per poi dirigersi al proprio posto, più che pronto a servirsi di almeno tre o quattro porzioni di maiale al salmì. O di arrosto in salsa di mele. O di qualunque altra prelibatezza gli elfi domestici di Hogwarts avessero preparato quella sera.

Come ogni giorno, diverse teste si volsero al passaggio di Dumbledore: chi avesse l’onore di conoscerlo di persona, si levava in piedi per rivolgergli un “Salve, Albus!” in tono orgogliosamente fremente.

Che pensino ciò che vogliono, finché possono. Finché ancora mi sentiranno nominare, o si ricorderanno di me.

Finalmente, riuscì a raggiungere il tavolo di Gryffindor e a lasciarsi cadere sulla panca. Il suo sguardo corse rapido lungo la serie di teste chine a mangiare, finché non incrociò lo sguardo di Aberforth. Quest’ultimo levò il mento in un cenno di saluto, lanciandogli una breve occhiata penetrante prima di riprendere a piluccare distrattamente dal proprio piatto.

Albus sospirò e distolse lo sguardo.

 

 

****

 

Era ormai un bel pezzo che Albus si rigirava fra le coltri, ma proprio non gli riusciva di dormire. Era sempre stato un problema quello del sonno, per lui: la sua mente lavorava alacremente e incessantemente, registrando e rielaborando informazioni senza tregua. Certe volte, da bambino, gli pareva di avere la testa talmente fitta di pensieri che temeva potesse da un momento all’altro scoppiare con un fragoroso botto. Erano come voci, milioni voci che si sovrapponevano l’una all’altra, idee su idee da analizzare e catalogare senza mai fermarsi: altrimenti, avrebbe rischiato di dimenticare un’idea geniale.

Ma anche un genio a volte ha bisogno di riposare, Albus in quel momento ne aveva più che mai: era stata una giornata pesante. Era stata una lunga serie di giornate pesanti.

Si rigirò per l’ennesima volta fra le coperte, sbuffò.

“Sei sveglio?” sussurrò improvvisamente la voce di Elphias, dal letto accanto al suo.

“Sì,” rispose lui semplicemente, fissando la tenda del letto a baldacchino stesa sopra la propria testa.

Udì un frusciare di lenzuola da qualche parte alla sua sinistra, seguito dal lieve tonfo di piedi nudi sul tappeto. Dopo pochi istanti, percepì il peso di un’altra persona incurvare leggermente il materasso.

Senza una parola, Elphias si allungò, poggiando la propria testa sul guanciale, proprio accanto a quella di Albus. A dividerli, meno di due pollici di cotone bianco e piume d’oca.

“Mi mancherai,” sussurrò Elphias. “Lo so che è da egoisti, dopo tutto quello che hai passato, ma mi mancherai.”

Ad Albus tornarono alla mente i baci goffi che negli ultimi due anni aveva scambiato con l’amico, e che negli ultimi tempi erano divenuti molto meno goffi e molto più conturbanti. In giro si diceva che Albus Dumbledore avesse troppo da fare per pensare alle ragazze. La verità era che sì che aveva da fare, ma anche che le ragazze non gli interessavano affatto, e per un motivo molto semplice: gli piacevano i ragazzi. Non solo loro, forse, ma certamente più delle fanciulle che lo guardavano ammiccanti e sbattevano le ciglia: quelle avevano solo il potere di metterlo in imbarazzo. Baciando Elphias, invece, non si era mai sentito a disagio. Un po’ in colpa, forse, poiché temeva che quello che lui considerava solo un grande, fedele amico – seppure non alla sua altezza – provasse invece qualcosa di più profondo nei suoi confronti.

Tuttavia, in quel momento Elphias era triste, e Albus si sentiva immensamente solo. Gli riuscì quasi di udire un commento sprezzante di Aberforth risuonare nella sua testa.

Il destino crudele delle menti geniali, eh Albus? La solitudine eterna, il pensare che mai ci sarà una persona al tuo livello...

Riusciva a dire delle cose molto cattive, Abe, e con molta facilità. Lui non era così, lui era diverso: voleva vivere in armonia, non voleva una preoccupazione al mondo se non l’ardente necessità di scoprire qualcosa di nuovo e interessante. Una costante sfida con se stesso a colpi di intelletto, in cui usciva sempre vincente: era così che aveva sempre immaginato la propria vita. Era questo il futuro cui avrebbe rinunciato.

Perché?

“E la cosa peggiore,” proseguì Elphias, “è che mi sento davvero una brutta persona. Perché non mi sento triste per te, ma per me, al pensiero che ti perderò¹!”

Senza dire una parola, lui sollevò una mano e la posò sull’avambraccio di Elphias. Lo udì sobbalzare appena, prima che gli si rannicchiasse contro come un bambino indifeso, incuneando la testa riccioluta nell’incavo fra il collo e la spalla di Albus. Quest’ultimo sperò che l’altro non piangesse.

“Io ci penso, Albus,” confessò il giovane Doge. “Penso a quando sarò in qualche luogo sp-sperduto, in Transilvania o in Siberia, e mi sentirò perso senza di te.”

“Elphias,” mentì Albus, “anche io mi sentirò perduto senza di te.”

L’altro cessò all’istante di tremare, per poi sporgersi verso di lui e premere un’ultima volta le labbra su quelle di Albus Dumbledore.

 

 

****

 

Godric’s Hollow accolse i fratelli Dumbledore in una giornata brumosa: ad Albus mai prima d’ora la cittadina era parsa così bigia e cupa. Gettò un’occhiata ad Aberforth. Il suo volto era come sempre teso e corrucciato, ma nei suoi occhi ardeva una fiamma vagamente gioiosa, e faticava visibilmente a star fermo.

È felice, realizzò Albus. Felice di rivedere Ariana.

In parte si sentì un poco in colpa, in parte lo invidiò. Una minuscola briciola di lui, invece, pensò che il fratello minore si mostrasse contento per fargli dispetto.

“Non è così,” mugugnò Aberforth.

Albus inarcò le sopracciglia sopra agli occhiali a mezzaluna, perplesso. “Come, scusa?” replicò educatamente.

Erano secoli che non sentiva la voce del fratello: sebbene gli fosse familiare quanto la propria, suonò un poco strana alle sue orecchie.

Aberforth levò gli occhi al cielo. “So cosa pensi,” disse. “Pensi che non dovrei essere felice, perché tu stai rinunciando al tuo grande futuro.”

“Abe, ti rendi conto di cosa stai dicendo?”

“Non devi starci tu per forza, con Ariana,” proseguì il minore. “Posso... posso pensarci io.”

Per un solo, singolo istante, Albus esitò. Si figurò come sarebbe potuta essere la sua vita se Kendra non fosse morta – se Ariana non l’avesse uccisa per errore, erano le parole che si sforzava di non pensare solo perché amava la sorella, e sapeva bene che lei si sarebbe strappata i capelli dalla disperazione, se fosse stata consapevole delle proprie azioni. Ad ogni modo... sarebbe stato occupato a fare di nuovo i bagagli, adesso, ma per partire con Elphias nell’avventura in giro per l’Europa che progettavano da anni. Avrebbero trascorso mesi e mesi vedendo il mondo, infine sarebbero tornati in Inghilterra e Albus avrebbe lavorato a qualche importante ricerca di Trasfigurazione Avanzata. Avrebbe scritto pagine e pagine di trattati. Avrebbe scoperto tanti nuovi usi del sangue di drago. Sarebbe stato il mago più brillante che...

Albus,” nella sua mente riecheggiò la voce di Kendra. “Ci penserai tu ad Ariana, quando io non ci sarò più. Vero?”

“Non se ne parla,” disse ad Aberforth, scuotendo la testa. “Devi finire la tua istruzione.”

“Ma –”

“Non dirò altro.”

Aberforth sbuffò e strascicò i piedi. “Non puoi -”

“Posso, Abe,” evitò di guardarlo in faccia. “Sei minorenne. Sotto la mia responsabilità. Non posso lasciare che tu rovini il tuo futuro solo perché ti preoccupi del mio.”

Con suo immenso stupore, il fratello ridacchiò. “È qui che sbagli, Albus. Io non lo faccio per te, capisci? Lo faccio per me.”

Avevano ormai raggiunto la via dove sorgeva la loro abitazione.

“Non sei al centro del mondo, Albus.”

Il giovane Dumbledore fece uno sforzo per ignorare queste ultime parole di Aberforth. “E comunque non lo fai,” si limitò a dirgli. “Lo farò io.”

Per tutta risposta, l’altro fece una smorfia: “Cambierai idea,” gli assicurò. “Cambierai idea.”

“Oh, no,” fece Albus. “Non cambierò idea, fidati.”

In qualche modo, quelle parole avevano il sapore di un giuramento.

Non si scambiarono altre parole, né lungo la strada né quando si arrestarono di fronte al cancello della loro abitazione. Albus sospirò profondamente, prima di tirare il chiavistello e aprire il cancelletto – che stridette rumorosamente nei suoi cardini. Percorsero in religioso silenzio il breve vialetto che conducevano alla porta d’ingresso. Dall’interno dell’abitazione, si udì un tonfo. Aberforth si agitò un poco.

“Starà sicuramente bene,” si ritrovò ad assicurargli il maggiore. “Bathilda Bagshot è una persona affidabile, e –”

“Lo so,” lo interruppe Abe. “Lo so.”

Il suo volto, tuttavia, rimase contratto. Albus conosceva la natura delle sue preoccupazioni: dubitava che Bathilda fosse in grado di occuparsi di Ariana a dovere – e probabilmente aveva anche ragione.

Quando entrarono in casa, il giovane Dumbledore sì stupì di quanto l’assenza di Kendra l’avesse travolto come una ventata gelida. Era una mancanza opprimente, che pareva impregnare le pareti e il soffitto.

Perché, madre? Perché?

Immediatamente, Aberforth mollò i propri bagagli a terra, scomparendo nei meandri della casa.

“Bathilda!” chiamò Albus. “Bathilda, siamo tornati!”

 

 

 


 

 

¹ Il discorso che fa Elphias sul sentirsi in colpa perché non soffre per Albus ma per se stesso, non è del tutto farina del mio sacco. Riprende infatti un passo del Fedone (dialogo di Platone che tratta della morte di Socrate, per chi non lo sapesse), nel quale Socrate ha appena bevuto la cicuta e tutti scoppiano in lacrime. E Fedone dice all’incirca così: “Io non piangevo per lui, ma per me, pensando a quale grande amico avrei perduto.”

 


Note dell’Autrice

Questo primo capitolo è decisamente corto, poiché doveva essere più che altro introduttivo e sono dell’idea che sia meglio non dilungarsi troppo con questo genere di capitolo. Diciamo che fino all’incontro fra Gellert e Albus difficilmente i capitoli saranno più lunghi di tanto... ma non ci vorrà molto, vi assicuro.

Passando all’argomento “capitoli in genere”, in questa long-fic saranno presenti i POV di entrambi i protagonisti, ma mai nello stesso capitolo. Il punto di vista di Gellert e quello di Albus saranno più o meno alternati.

Vi ringrazio per aver letto questo capitolo, e vi sarei ancor più grata se mi lasciaste un’opinione in proposito.

Per i lettori di Sulla tua pelle: ho iniziato a postare anche questa long, ma non per questo trascurerò l'altra! Posterò a settimane alterne Mehr Litch e Sulla tua pelle. Tuttavia, la prossima settimana posterò entrambe. Quindi... ci vediamo il prossimo martedì!

Daphne

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Capitolo 2
*** II. C'erano una volta tre fratelli ***


Capitolo 2

"C'erano una volta tre fratelli"

Beta: Unbreakable Vow

Gellert neanche si era sprecato a fingersi dispiaciuto. Non avrebbe avuto senso, no, non sarebbe servito a nulla.

Già da qualche tempo aveva notato l’insofferenza che gli insegnanti cominciavano a manifestare nei suoi confronti, e aveva compreso che, se davvero i suoi grandi progetti dovevano giungere a compimento, non poteva agire rinchiuso nelle mura di Durmstrang.

Sarebbe... restrittivo.

Il maggiore richiamo subito da Gellert Grindelwald era stato quello del professor Petrov. Questi era un possente russo di San Pietroburgo che insegnava Pozioni, dai folti mustacchi neri e lucidi. Teneva molto ai propri baffi, Andrej Petrov, e nei corridoi si vociferava che li spazzolasse con cura mattina e sera, appena sveglio e subito prima di andare a dormire. Gli studenti lo immaginavano nella solitudine della sua stanza da letto, l’immensa corporatura avvolta in una vestaglia di velluto ricamato, dedito a ricoprire d’olio profumato ogni pelo scuro. Un personaggio interessante, dagli occhi grigi e arguti, con i quali scrutava attentamente ogni allievo con l’aria di chi ha compreso perfettamente chi ha davanti, spesso attraverso la lente rotonda del suo monocolo.

Aveva delle mani enormi, Andrej Petrov, e spesso Grindelwald si chiedeva come diavolo riuscisse a dosare con tanta precisione gli ingredienti delle sue pozioni, dato che il suo pollice era largo almeno il doppio di una normale fialetta. In tali occasioni fissava le proprie mani: bianche e perfette, lunghe e affusolate, le dita tanto lisce da parere prive di giunture.

Queste, pensava, sono mani divine. Mani che meritano di stringere fra le dita l’arma più potente di tutte.

Gellert si era fatto un’opinione abbastanza chiara a proposito dell’insegnante: Petrov lo odiava, poiché per quanto si sforzasse – Grindelwald ne era convinto – non gli riusciva proprio di capire cosa passasse per la testa di quell’allievo tanto brillante. Gli pareva che l’avesse sempre guardato con sospetto per questo.

Mago capace, ma terribilmente gretto e insulso.

Gellert lo detestava.

Mi teme. E fa bene a temermi.

Petrov lo aveva trattenuto alla fine delle lezioni, un giorno.

“Grindelwald,” così aveva detto, nel suo tedesco pesantemente accentato. “Devo parlare con lei.”

Lui aveva sbuffato apertamente, senza curarsi che il russo non se ne avvedesse. Gli era parso di udire un suo compagno di dormitorio trattenere rumorosamente il fiato, di fronte a tanta audacia.

“Herr Professor,” si era rivolto all’insegnante in tono rispettoso, senza tuttavia cessare di tenere gli occhi puntati nei suoi – sulle labbra gli aleggiava un sorriso vagamente canzonatorio.

Petrov non era uno sciocco: se ne era reso conto perfettamente, ma aveva scelto di far finta di niente, sebbene Gellert con la coda dell’occhio l’avesse visto contrarre la mano destra, proprio come se fosse stato tentato di stringerla in un pugno.

Quella mattina, Andrej Petrov si era voltato a risistemare alcuni ingredienti al loro posto nell’armadio delle scorte, mentre attendeva che gli ultimi studenti uscissero. Gellert aveva pensato che si trattasse un gesto incauto: avrebbe potuto colpirlo con una maledizione ancor prima che se ne avvedesse.

“Von Plankestern,” l’insegnante si era rivolto all’unico allievo ancora presente nell’aula. “Vada a cercare il professor Braum, ho bisogno di altra erba fondente.”

Von Plankestern aveva annuito con fare stolido, prima di fare come gli era stato detto.

“Bene, Grindelwald,” il professore si era poi rivolto a Gellert, non appena la porta si era richiusa alle spalle dell’altro. “Lei sa perché le ho chiesto di attendere?”

Il ragazzo aveva ricambiato il suo sguardo senza batter ciglio. “Sì,” aveva risposto francamente. “Credo di saperlo, Herr Professor.”

“Bene,” aveva ripetuto Petrov. “Bene. Lei ha... ha qualcosa da dire? Qualcosa che sarebbe... opportuno, uhm, confessare?”

“Lei cosa ne pensa?”

L’altro si era un poco ingobbito, incassando il collo taurino fra le spalle. Anche così non difettava di imponenza, ma il suo aspetto era in qualche modo disarmonico, sgraziato. Aveva estratto dal taschino il monocolo e l’aveva incastrato sotto il folto sopracciglio.

“Io,” aveva detto, “penso di sì.”

“Bene,” gli aveva fatto il verso Gellert. “Ne deduco che questo discorso sia dunque perfettamente inutile, e che un mago capace come lei avrebbe dovuto accorgersene da solo.”

Lo sguardo di Petrov aveva scintillato di indignazione. “Lei è un impudente,” era stato il suo commento. “E la terrò d’occhio, ne stia certo.”

“Farebbe meglio a guardarsi le spalle, piuttosto,” aveva ribattuto lui con tranquillità. “A domani, Her Professor.”

Qualche settimana più tardi, Andrej Petrov dovette essere condotto d’urgenza dal Guaritore scolastico. Non si scoprì mai chi fosse stato a gettare una fattura sulla pozione su cui stava lavorando, ma le ustioni subite dall’insegnante a seguito dell’esplosione erano state davvero molto gravi. Si sussurrava che l’incidente sarebbe potuto essere letale.

Gellert aveva riso.

Petrov ne aveva parlato con i colleghi, e alcuni di loro avevano cominciato a osservare il giovane Grindelwald con occhio diverso. Se in precedenza avevano sempre pensato a lui come a un ragazzo incredibilmente brillante e dotato, sveglio e decisamente superiore ai coetanei, da quel momento in poi avevano cominciato a considerarlo con circospezione.

Non aveva che quindici anni, e, se le voci erano vere, era già giunto pericolosamente vicino a compiere un omicidio.

Nessuno aveva chiesto nulla a Gellert... ma se l’avessero fatto, lui avrebbe saputo perfettamente cosa rispondere.

“Mi odiava,” avrebbe risposto. “Mi odiava e mi temeva. Non capiva che ci sono cose che bisogna essere disposti a fare, mali da compiere per raggiungere il bene.”

Non aveva che quindici anni, Grindelwald, ma già aveva le idee chiare.

Nella sua mente brillante, ardeva un piano divino, un progetto geniale. Era un’idea ballerina, cangiante: bruciava e bruciava e saltava come un fuoco d’artificio. Esplodeva, poi, come il calderone di Petrov. Esplodeva e poi si riformava, come la fenice.

Eterno, mein Gott, eterno e indissolubile, assoluto e perfetto.

 

Il primo a parlare a Gellert dell’impossibilità di convivenza fra Babbani e maghi era stato Thomas Albrecht. Thomas aveva diciassette anni, quattro più di quanti ne avesse Gellert allora, ed era morto prima di poterne compiere venti. Aveva i capelli biondi e ricci come quelli di Grindelwald, ma i suoi occhi erano neri e densi come pozzi senza fondo. Era rimasto ucciso in un giocoso duello fra amici: il suo avversario l’aveva schiantato, e lui era precipitato da una rupe.

Morte da Babbano, aveva pensato Gellert, con uno strano vuoto dentro che non sapeva identificare. Morte che non meritava.

Si erano conosciuti quando Grindelwald aveva tredici anni, e già dopo neanche due anni di scuola si era fatto una certa fama a Durmstrang. I professori avevano avuto di che dire su di lui, asserendo che era destinato a grandi cose – avevano ragione – e anche nelle ultime classi anche si era parlato di quel ragazzino che lanciava incantesimi con la stessa naturalezza con la quale respirava. Thomas Albrecht, incuriosito, si era avvicinato a lui, ed era rimasto colpito da quel bambino così brillante, dallo sguardo così adulto.

“Gellert,” aveva detto da quel momento in poi. “Gellert, ragazzino, tu sei geniale.”

Gli aveva parlato del Grande Mondo. Dell’Idea Sublime. Del Bene Superiore.

“Gellert, ragazzino, tu puoi capire.”

Thomas credeva che la convivenza pacifica fra Babbani e maghi fosse un’irrealizzabile utopia. Gellert, sebbene allora lo avesse ascoltato affascinato, successivamente non fu più d’accordo con lui... sarebbe stata indispensabile la violenza, forse, per realizzare quel sogno, ma se necessaria sarebbe stato giusto farne uso. Doveva essere realizzabile.

Mali compiuti per raggiungere il Bene.

Qualunque sacrificio sarebbe stato niente, di fronte alla grandezza del risultato finale. Proprio su questo, così pensava Gellert, Thomas aveva sbagliato: la convivenza pacifica fra Babbani e maghi era a conti fatti possibile.

Serve una guerra? La combatterò. Serve la violenza? Potrò farne uso.

Niente, nessuno avrebbe costituito un prezzo troppo alto.

Per il Bene Superiore.

 

 

****

 

Per ironia della sorte, a parlargli dei Doni della Morte era stato Andrej Petrov, una volta che Gellert si era ammalato di difterite, dilagata all’interno dell’Istituto. Il giovane Grindelwald a causa del morbo non riusciva mai a prendere sonno, così lo si vedeva sempre rigirarsi, preda della febbre. Quella volta, aveva davvero creduto che sarebbe morto.

Petrov era il responsabile delle pozioni, perciò in quel periodo si era spesso recato Infermieria per dare una mano al Guaritore. In tale occasione, l’aveva guardato con una strana pietà, e Gellert per questo l’aveva odiato. Poi si era avvicinato al suo letto.

“Grindelwald,” il tono dell’insegnante era stato triste.

Morirò, aveva pensato Gellert, morirò.

“Grindelwald, come si sente?”

Morirò.

“Grindelwald, le racconto una storia.”

A Gellert quella novella era suonata familiare, sebbene non ne avesse in principio rammentato il contenuto. La sua mente, sconvolta dai deliri della febbre, era stata invasa da una sfilacciata immagine della sua antica bambinaia, che gli poggiava una pezzuola umida sulla fronte e leggeva delle fiabe inglesi.

“C’erano una volta tre fratelli,” aveva cominciato Petrov. “Che viaggiavano lungo una strada tortuosa e solitaria al calar del sole...”

Morirò.

“... Così il fratello maggiore, che era un uomo bellicoso, chiese una bacchetta più potente di qualunque altra cosa al mondo: una bacchetta che facesse vincere al suo possessore ogni duello, una bacchetta degna di un mago che aveva battuto la Morte!”

Avanti. Vai avanti.

“... Il secondo fratello chiese il potere di richiamare altri dalla Morte. Così la Morte raccolse un sasso dalla riva del giume e lo diede al secondo fratello, dicendogli che quel sasso aveva il potere di riportare in vita i morti.”

E poi? Cosa succede poi?

“... Il fratello minore non si fidava della Morte, perciò chiese qualcosa che gli permettesse di andarsene senza essere seguito da lei. E la morte, con estrema riluttanza, gli consegnò il proprio Mantello dell’Invisibilità.”

Bacchetta. Pietra. Mantello.

“... e ognuno se ne andò per la sua strada.”

E se fossero rimasti assieme? Cosa sarebbe successo, se avessero riunito i doni della Morte?

 

 

****

 

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata una goccia calcolata.

Gellert aveva pensato davvero di aver raggiunto il limite quando aveva attaccato Hilde Shreiber, professoressa di Storia della Magia e unica donna nel gruppo degli insegnanti.

 

“Herr Grindelwald,” gli aveva detto. “Si sieda composto. Un po’ di rispetto, suvvia!”

“Perché dovrei rispettarla?” aveva risposto lui. “Lei non può intimarmi nulla.”

Nell’aula era sceso un silenzio sospeso, come se tutti fossero rimasti con il fiato in gola. Erano spaventati: Gellert lo sapeva bene.

“Ha sedici anni, Grindelwald. Crede di essere un dio, ma è solo un ragazzino.”

Aveva avuto coraggio, Hilde, a parlargli così.

“Alle otto nel mio ufficio.”

Castigo. Umiliante castigo.

Gellert le aveva scagliato contro un Confundus, alle otto nel suo ufficio. Poi le aveva modificato la memoria, l’aveva Schiantata e lasciata lì.

Non lo avevano punito, per questo.

Sono terrorizzati.

 

La goccia era stata a conti fatti una cosa un po’ sciocca, se rapportata al resto. Una cosa sciocca ma grandiosa, una cosa sciocca che nessuno studente di Durmstrang, da quel momento in poi, avrebbe mai potuto ignorare.

 

PER IL BENE SUPERIORE.

La scritta aveva capeggiato sulla parete del corridoio che portava al refettorio. Era immensa, scritta in caratteri rosso fiammante. Sopra di essa, un triangolo con inscritto un cerchio, bisecato da una sottile linea verticale... il tutto somigliava a una specie di occhio singolare, ma in realtà era il simbolo dei Doni della Morte. Gellert aveva gettato un incantesimo per scrivere sul muro, nel cuore della notte, e ne aveva gettato un altro per fare in modo che fosse impossibile cancellarla.

Impossibile per sempre.

Il direttore dell’Istituto si era avvicinato a Gellert, quella mattina, circondato da un manipolo di insegnanti.

Hanno paura di me.

“Herr Grindelwald,” gli si era rivolto. “Lei è espulso.”

“Herr Direktor,” aveva risposto Gellert. “Non attendevo altro.”

Neanche si era sprecato a fingersi dispiaciuto. Non avrebbe avuto senso, no, non sarebbe servito a nulla.

 

 

****

 

 

Godric’s Hollow, 16 maggio 1899

Caro nipote,

 

sarò lieta di ospitarti. In quella gelida scuola ti hanno maltrattato. Hanno puntato il dito, ti hanno messo addosso false accuse. Vuoi sapere perché l’hanno fatto? Perché sono invidiosi, invidiosi del tuo talento. Perché non sono alla tua altezza, e perciò non possono comprenderti.

Ripeto, sarò lieta di ospitarti. La mia unica preoccupazione è che tu possa annoiarti, qui a Godric’s Hollow. C’è davvero molto poco da fare. Nessuna biblioteca o simili, per intenderci, e neanche un emporio magico ben fornito, se si esclude la farmacia. Quella è molto buona, ma mi sembra che Pozioni non sia mai stata la tua materia preferita, o sbaglio?

C’è una persona che dovresti conoscere, però, un ragazzo che ha più o meno la tua età. Un anno di più, mi pare. Ti piacerebbe, è un ragazzo davvero intelligente e dotato.

Ora ti lascio, l’ultimo lavoro al quale mi sto dedicando mi sta impegnando moltissimo tempo. Si tratta di un libro di Storia della Magia. Ho l’impressione che sarà un successo.

Con amore,

zia Bathilda.

 

 


 

 

Note dell'Autrice

Come promesso, eccomi qui.

Anche questo capitolo svolge un ruolo "introduttivo", indispensabile per raggiungere ciò che seguirà.

Noto che lo scorso capitolo ha ricevuto uno scarso feedback, ma sono consapevole di essere solo agli inizi di questa long... anche se ricevere un parere fa sempre piacere! 

Grazie di aver letto! 

A martedì prossimo.

Joie,

Daphne

PS: Come mi ha gentilmente fatto notare Sbarauau, non ho specificato che in questa long-fic do un'interpretazione degli eventi per certi versi leggermente diversa da quella canonica, secondo la quale Gellert e Albus coniarono assieme il motto "Per il Bene Superiore". Questa (assieme alle diverse circostanze in cui Albus viene a conoscenza della morte di Kendra) dovrebbe essere l'unica discordanza. Grazie, Sbarauau! =)

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Capitolo 3
*** III. Dovreste conoscervi ***


Capitolo 3

“Dovreste conoscervi”

Beta: Unbreakable Vow

Atene, 18 giugno 1899

Mio caro Albus,

il viaggio è cominciato bene, sebbene la tua assenza sia un fardello pesante da sopportare. Mi sento immensamente egoista a scrivere parole simili, poiché il tuo di fardello è di certo più gravoso del mio.

Sebbene sia acuto e persistente il dolore provocato dalla nostalgia del mio più caro amico, sono rimasto a tal punto affascinato dalla capitale della Grecia che non posso non descriverti tutte le pittoresche e arcane sensazioni che questo luogo sprigiona.

L’Acropoli di Atene è indubbiamente lo spettacolo più fulgido e immenso su cui io abbia ma posato gli occhi. Fa uno strano effetto, sai, perché sono stati i Babbani a costruire tutti questi edifici splendidi che stanno resistendo per secoli e secoli, sebbene ne siano arrivati a noi solamente i ruderi. Ruderi incredibilmente belli, però, ed è qualcosa di incantevole il contrasto fra il candore abbagliante del marmo e l’azzurro poderoso del cielo.

Nell’aria si avvertono aromi di miele e profumo di rosmarino, e di altre piante tipiche del bacino Mediterraneo. Sono aromi pungenti, questi, a tratti aspri, colmi di una dolcezza selvaggia e sfuggente che riesce difficile catturare con le parole. Riesco a vederti con l’occhio della mente, Albus, in piedi in mezzo agli arbusti. Con gli occhi chiusi, la pelle un poco arrossata dal sole, qualche ciocca color del rame che cade sul tuo volto.

Sei sempre stato bello, Albus. Lo sai? E io mi sono sempre meravigliato di non provare alcuna invidia nei tuoi confronti, sebbene tu possieda tutto ciò che io non ho. Perché, forse, ero consapevole di avere il tuo affetto, che per me vale più di ogni altra cosa.

Sull’Acropoli sorgono i bianchi resti di molti edifici. C’è il Partenone, naturalmente, il più grande e più famoso tempio dell’antichità, dedicato alla dea Atena Parthénos. Si racconta che nei tempi antichi fosse stata posta al suo interno un’immensa statua della dea, costruita con legno ricoperto di oro e avorio. Le sue colonne doriche sono qualcosa di immenso, pare che sia stato un gigante a porle lì dove stanno da tantissimo tempo. Passando fra di loro, si viene immediatamente avvolti da un’ombrosa frescura, refrigerio inaspettato per la pelle della nuca e del volto e delle braccia e di qualunque altra parte del corpo sia libera dai vestiti. Qui il sole picchia forte, Albus, come fosse eternamente mezzodì.

Superata l’ombra delle colonne, il sole arde di nuovo. Ho camminato fino al centro esatto del tempio, amico mio, l’ho fatto a passi esitanti, quasi trattenendo il fiato. Temevo... temevo di risvegliare qualcosa di arcano, di arcano e misterioso, qualcosa che non desiderava essere disturbato dalla sua quiete. Mi pareva quasi di udire il respiro di quella creatura dalle molte spire, quella creatura che chiama a sé chiunque sia passato lì. Quella creatura, Albus, si chiama Storia.

Ho chiuso gli occhi, e ho immaginato un tetto sopra di me, il piedistallo della statua di Atena Parthénos sotto il mio sguardo. Ho immaginato... ho immaginato di percorrere l’Agorà a placidi passi, nelle orecchie il chiacchiericcio soffuso di tutti coloro che si soffermavano nella piazza a conversare. Tutti quegli uomini dall’aria placida e saggia, che sorreggevano il mantello con una mano e con l’altra gesticolavano con energia, presi a spiegare qualcosa di incredibilmente interessante.

Sarebbe stato interessante vivere in quel periodo, non credi?

Ma come sono egoista, mio caro Albus. Ti racconto tutte queste cose che avrei dovuto vivere assieme a te, quando tu sei costretto in quel villaggio abbandonato da Dio.

Mi duole il cuore.

Come procede la tua vita? Mi piacerebbe ricevere una tua lettera.

Con immenso affetto,

 Elphias

****

Stizzito, Albus infilò la lettera di Elphias in un cassetto, celandola alla propria vista. Non si era mai sentito abbandonato dalla fortuna fino a quel punto. Non erano passati che una decina di giorni da quando lui e il fratello erano tornati a Godric’s Hollow, ma gli pareva fosse trascorsa una vita. Una vita molto lunga e noiosa.

“Smettila di piangerti addosso,” gli aveva detto Aberforth il giorno prima, con la solita delicatezza. “Ariana se ne rende conto, capisci? Lo sente.”

“Sono perfettamente in grado di badare ad Ariana,” era stata la sua secca replica alle parole del fratello.

Le sopracciglia di Aberforth si erano inarcate. “Oh, non ho dubbi in merito,” aveva convenuto. “Ma per quanto tempo?”

Per quanto tempo, avrebbe voluto ribattere Albus, per quanto tempo rimpiangerò il futuro che ho perduto?

Ma aveva taciuto.

Tutto sommato, se si metteva da parte il discorso relativo alla noia, le cose procedevano abbastanza bene in casa Dumbledore. Ariana non aveva avuto momenti di crisi, ma Albus si rendeva conto di trattarla con i guanti, neanche fosse una bomba a orologeria sul punto di esplodere. Abe, naturalmente, non si era lasciato sfuggire l’occasione di rimbrottarlo ancora. Lui aveva rimesso il fratello minore al suo posto con un abbondante uso di secca retorica. Non era stato particolarmente gentile, ma d’altra parte esserlo non era nelle sue intenzioni.

Il problema vero era un altro: Albus aveva già letto ogni libro presente in casa. Sebbene nei primi giorni fosse stato intenzionato a lasciarsi morire di noia – si era già immaginato come un martire osannato dalle generazioni future –, aveva finito per desistere da tale proposito. Si era quindi ingegnato per procurarsene di nuovi, ma Aberforth si rifiutava di uscire per acquistarne alla libreria più vicina. Di lasciare Ariana alle cure del fratello non se ne parlava: doveva dimostrare al quel ragazzino arrogante che aveva torto, mentre la ragione era dalla sua parte.

Quando gli fu chiaro che il fratello non avrebbe svolto per lui alcuna commissione che non riguardasse l’ordinaria amministrazione della casa – sebbene in realtà Albus considerasse i libri facenti parte di tale categoria – aveva ponderato se non fosse poi una così cattiva idea mandare degli ordini via gufo. Peccato che la civetta di casa si fosse fatta male a un’ala l’ultima volta che era uscita per andare a caccia. Albus aveva dovuto rinunciare anche a questa seconda opzione.

Sembra che la sorte mi sia contraria.

Come se tutto ciò non bastasse a rendere pessimo il suo umore, anche Elphias ci si metteva in mezzo. Davvero, Albus non sapeva come per il Buon Incantatore gli fosse saltato in testa di scrivergli una lettera del genere. Era contro tutte le buone norme della diplomazia.

Si chiese come mai fosse capitato proprio a lui. C’erano tante persone al mondo prive di talento, abiette e meschine, insulse... Non avrebbero perso nulla, se fosse accaduto loro qualcosa di simile, poiché il loro futuro si prospettava inutilmente piccolo e meschino esattamente come loro. Albus Dumbledore, invece, con tutti i talenti del quale era stato dotato, era di certo stato destinato a qualcosa di grande. O, per meglio dire, qualcosa di grande era stato certamente destinato a lui.

Che cosa era andato storto, nei grandi disegni del Destino? Quale ruota della sorte si era infine inceppata? Quale tessera aveva ceduto per prima, conducendo con sé nel baratro tutte le altre?

E soprattutto, chi aveva voluto tutto ciò?

Una risata riecheggiò improvvisamente per il corridoio, distogliendolo dai suoi pensieri. Si alzò dallo scrittoio, avendo cura che la sedia strusciando sulle assi di legno del pavimento non facesse troppo rumore. A passi felpati, seguì l’eco di quella risata fino a giungere nei pressi di una porta socchiusa, dove gli era possibile udire meglio le voci dei fratelli. Non si manifestò, preferendo restare dietro la porta.

“Questo cos’è, Abe?”

La voce di Ariana era un pigolio da uccellino, quasi fosse ancora una bambina. Ma Albus sapeva bene quanto sapesse diventare furiosa quella voce, nelle occasioni un cui la sorella diveniva preda di una delle sue crisi. Quelle note acute si tingevano di rabbia e terrore, il suo bel volto si trasmutava una maschera contratta. L’aspetto mite di sua sorella diveniva in qualcosa di spaventoso.

“Questo, Ariana?” le stava domandando Aberforth, in quel tono dolce che riservava solo a lei.

“Sì, Abe. Questo qui. Eccolo.”

Si udì un fruscio.

“Questo... questo è un calderone, tesoro mio. Si usa per preparare le pozioni.”

“Ah,” fece Ariana. “Ho capito. Come quelle che mi dà mamma. Vero?”

“Sì... proprio quelle lì.”

“Sembra un po’ una pentola.”

Aberforth ridacchiò con affetto. “Sai che ti dico? Hai proprio ragione. Sembra un po’ una pentola.”

Anche Ariana rise, come una cascata di campanellini argentati.

Albus si lasciò scivolare lungo il muro, finché non fu seduto in terra. Per qualche strana ragione, sentiva il cuore colmo di una sofferenza amara. Lì per lì la attribuì alla noia e alla solitudine, ma molti anni dopo l’avrebbe saputa chiamare col suo vero nome: invidia.

****

Quando qualcuno bussò alla porta, fu Albus ad andare ad aprire. Riconobbe immediatamente l’esile figura femminile che si stagliava sulla soglia.

“Oh,” sorrise. “Salve, Bathilda.”

“Albus,” la donna lo guardò con occhi dolci, un po’ tristi. “Come stai? Sei pallido.”

Con sgomento, il giovane realizzò di non aver messo il naso fuori di casa per settimane. Si scansò dalla porta, permettendo alla signorina Bagshot di entrare.

“Venga dentro, Bathilda,” le disse. “Si accomodi.”

“Oh, Albus,” rise. “Non c’è bisogno di trattarmi come una vecchia signora. Dammi pure del tu.”

“Va bene,” Albus annuì educatamente. “Come preferisci.”

Lei lo seguì all’interno dell’abitazione. Oltre l’ingresso, fino al comodo, fresco salotto. Ariana e Aberforth erano seduti sullo spesso tappeto che era posto di fronte al caminetto spento, impegnati a giocare a scacchi. Era un gioco che divertiva molto la sorella: le piaceva dare i comandi con quella sua voce pigolante e vedere i pezzi spostarsi autonomamente sulla scacchiera. Il bello del gioco, per lei, era proprio quello. Provava una gran pena nel vedere i personaggi tramortire brutalmente gli avversari catturati, perciò Aberforth con molta pazienza calibrava le proprie mosse affinché i pezzi bianchi e quelli neri non si scontrassero mai.

Albus fece accomodare Bathilda.

“Vuole – ehm, gradiresti un tè o qualcos’altro?” le domandò.

Lei sorrise dolcemente e scosse la testa. “No, grazie,” rispose in tono educato.

Il ragazzo si lasciò cadere meccanicamente sul divano, di fronte alla poltrona dove sedeva la donna. Lo sguardo gli cadde sulla scacchiera con la quale giocavano i fratelli minori. I pezzi facevano su e giù per la quadrettatura nera e bianca senza mai scontrarsi, a un ritmo quasi ipnotico.

“Come va, Albus?”

La voce di Bathilda lo riscosse. Sorrise automaticamente.

“Bene,” rispose. “Le- Tu?”

“Oh, molto bene,” lo guardò fisso. “Albus, seriamente,” abbassò la voce, “hai mai messo il naso fuori casa, in queste due settimane? Sei pallido e hai l’aria smunta. Dovresti passare un po’ di tempo all’aria aperta. Lo dico sempre anche a Gellert.”

Albus inarcò le sopracciglia, boccheggiando. “A... Chi?”

Bathilda sorrise astutamente. “Un mio nipote che sta trascorrendo un periodo da me. Andreste d’accordo: ha più o meno la tua età ed è un ragazzo molto brillante.”

Il ragazzo annuì.

La donna parve sovrappensiero. “Dovreste conoscervi,” propose.

Albus annuì di nuovo.

“E non capisco come mai tu non sia mai uscito di casa, in queste due settimane.”

Lui gettò un’occhiata eloquente alla sorella minore, occupata a dare indicazioni al suo alfiere con mille moine.

Bathilda alzò gli occhi al cielo, gesto che irritò parecchio Albus.

“Suvvia,” gli disse a bassa voce. “Sai bene che Aberforth è perfettamente in grado di badare da solo ad Ariana per qualche ora. Guarda com’è serena, adesso che giocano assieme.”

“Ma Aberforth è ancora minorenne,” sussurrò Albus di rimando. “Sono entrambi sotto la mia responsabilità.”

Il fratello, seduto a gambe incrociate sul tappeto, aveva levato su di loro gli occhi azzurri e penetranti. Li osservava con le sopracciglia aggrottate, colmo di sospetto ma al tempo stesso speranzoso.

“Fidati, Albus,” insistette la signorina Bagshot. “Non le accadrà nulla di male, se c’è Abe Dumbledore a prendersi cura di lei.”

Si era allungata dalla poltrona, tendendo la mano per scompigliare i capelli rossicci di Aberforth. Il ragazzino la lasciò fare con malgrazia, scoccando al fratello maggiore uno sguardo trionfante.

Bathilda si rivolse nuovamente ad Albus. “Vienimi a trovare, mi raccomando. Devi conoscere Gellert Grindelwald.”

Il giovane Dumbledore annuì, sconfitto. “Va bene,” concesse. “Verrò do-”

Ma le sue parole furono interrotte da un gran fracasso. Coinvolto nella conversazione, Aberforth aveva prestato meno attenzione alla scacchiera, e l’alfiere di Ariana aveva catturato il suo cavallo, sbattendolo con violenza e trascinandolo via.

La ragazzina scoppiò in lacrime, disperata.

****

Delfi, 20 giugno 1899

Mio caro Albus,

mi trovo a Delfi, dove aveva sede il più celebre oracolo del dio Apollo, il luogo dove – così si dice – è stata ideata la magia utilizzata per il leggendario Specchio delle Brame. Anticamente, sul frontone del tempio vi era una frase: “Conosci te stesso”. E a cosa servirebbe secondo leggenda lo Specchio delle Brame, se non a conoscere i nostri più reconditi desideri? Quelli che nascondiamo persino a noi stessi?

Ho preso alloggio in una modesta locanda, situata in un piccolo, delizioso villaggio Babbano che si trova a poca distanza dalle rovine dell’antica Delfi, alle pendici del monte Parnaso. Ti assicuro, Albus, che è la cittadina più graziosamente rustica che io abbia mai visto. Spalancando le imposte della stanza in cui dormo, posso vedere un orticello ben curato, diviso dall’aia tramite uno steccato, oltre il quale i polli e il tacchino becchettano placidamente il terreno. C’è anche una vecchia capra, legata alla staccionata. Stamane è stato il suo belato ad accompagnare il mio risveglio assieme al canto del gallo.

Sono poi salito a visitare i ruderi della città, un luogo davvero suggestivo. Non è dotato della maestosità pura ed evidente dell’Acropoli, né dell’aspro e inequivocabile fascino delle Meteore (si tratta di un luogo che ho visitato prima di Atene: monasteri Babbani e magici arroccati in cima alle montagne, con enormi biblioteche e splendidi mosaici in stile bizantino). Delfi ha un sapore di bellezza, di profumo di miele e di sole, di arcano e di fresco al tempo stesso. Un ronzio d’api sulla pelle squamosa della Storia. Ha una velata malinconia, quella strana e inspiegabile nostalgia che pervade i luoghi in cui la gente passata sembra camminare ancora.

Mi sono ritrovato a pensare a quante persone fossero passate di lì prima di me. A quanto tempo sia passato.

Vorrei davvero che tu fossi qui, Albus. Sento molto la tua mancanza.

Con affetto,

 Elphias

****

Albus aprì il cassetto dello scrittoio e vi pose la lettera di Elphias, esattamente sopra alla precedente. Si voltò poi verso la finestra, tentando di scacciare il sordo mal di capo che lo attanagliava – e che probabilmente era dovuto a quelle due settimane trascorse al chiuso. Oltre i vetri, brillava un limpido cielo azzurro.

In Inghilterra raramente il cielo era sereno. Ma quando brillava il sole, non ve ne erano di più belli al mondo. Sospirò, ormai deciso di non rassegnarsi alla noia. L’indomani, Bathilda Bagshot gli avrebbe presentato quel Gellert Grindelwald.

Note dell’Autrice

Beh, la noia è una brutta bestia (o era l’invidia?).

Da adesso in poi, gli aggiornamenti saranno ogni due settimane. Perciò, arrivederci a lunedì 16 aprile!

Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento!

Grazie a Tefnut, Wynne, Pensieve, Erodiade e Silv__ per aver recensito, e un grazie speciale (un grazie violetto) a Sbarauau per avermi fatto notare l’imprecisione del capitolo precedente!

E grazie a Giulia, ovviamente, la mia beta dai giusti consigli

Baci, Daph

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Capitolo 4
*** IV. Un ragazzo brillante ***


Capitolo 4

 

“Un ragazzo brillante”

 

 

Beta: Unbreakable_Vow

 

Bathilda Bagshot era davvero una sprovveduta, o almeno così la pensava Gellert. Una sciocca, un’ingenua. Per qualche misteriosa e astrusa ragione che Grindelwald non comprendeva – ma non mancava di deridere – pareva essere convinta che il ragazzo si annoiasse.

“Suvvia, Gellert,” gli si rivolgeva sovente. “Esci, su! Prendi una boccata d’aria!”

Premurosa in maniera irritante.

“Non ti annoi, sempre chiuso in quella stanza?”

Ingenua.

Davvero credeva che Gellert fosse voluto venire a Godric’s Hollow solo per tenere compagnia ad una vecchia parente che aveva incontrato neanche due volte prima di quel momento? Insomma, zia Bagshot non era certo una strega priva di intelletto, anzi. Tuttavia, quando si trattava di quel nipote così bello e brillante, si dimostrava come accecata.

Il giovane non poteva fare a meno di compiacersi un poco per essere riuscito a ingannarla con tanta facilità.

“Davvero, Gellert. Cosa fai, sempre tappato in casa?”

Cosa faccio, zia? pensava lui. Faccio ciò per cui sono giunto fin qui.

 

Dopo mesi di ricerche nell’enorme biblioteca di Durmstrang, era riuscito a raccogliere una discreta quantità di materiale sui Doni della Morte – era una fortuna che all’Istituto non mettessero in atto alcun tipo di censura, laddove si trattava di magie oscure o pericolose.

Gellert aveva innanzitutto tentato di rintracciare gli originari creatori dei doni – giacché, per quanto fosse strabiliante ciò che quei leggendari strumenti fossero in grado di fare, Gellert riteneva piuttosto improbabile che fosse stata la Morte stessa a farne dono ai tre fratelli. Gli pareva molto più plausibile che maghi molto dotati fossero stati in grado di dar luce a tali artefatti di stregoneria.

Il giovane Grindelwald credeva di essere riuscito a identificare i fautori dei Doni. Le numerosissime false tracce non erano state sufficienti a depistarlo, poiché a suo dire ogni indizio parlava chiaro, e tutti quelli che giudicava affidabili portavano ai fratelli Peverell. Si trattava di tre maghi inglesi vissuti svariati secoli prima, che si diceva risiedessero in un villaggio chiamato Godric’s Hollow.

Per un fortuito volere del destino, Gellert aveva una zia che abitava proprio a Godric’s Hollow. Quella zia era Bathilda Bagshot.

Proseguendo le proprie ricerche sullo sperduto villaggio, Gellert aveva scoperto quanto fosse intriso di arcana magia. Pareva infatti che, nove secoli prima, in quel luogo fosse venuto alla luce uno dei quattro fondatori di Hogwarts, la scuola di magia e stregoneria più antica e celebre della Gran Bretagna: Godric Gryffindor, dal quale la cittadina prendeva il nome.

Scrivere una lettera che trasudasse affetto e buoni propositi a zia Bathilda era stato un gioco da ragazzi, e la donna ci era cascata con tutte le scarpe.

Quale luogo migliore per dare inizio alla ricerca dei Doni della Morte se non il luogo in cui sono stati creati?

Oltretutto, l’idea di risiedere in un luogo per il quale tanti maghi potenti erano passati lo intrigava terribilmente.

Ma io sarò il più potente di tutti.

Trovare i Doni della Morte era indispensabile per dare compimento ai suoi propositi. Se fosse giunto a divenire Padrone della Morte, nulla – nulla – si sarebbe mai potuto contrapporre fra lui e i suoi obiettivi.

Per adesso, l’intuito gli suggeriva di attendere, di studiare i libri che di nascosto aveva portato con sé da Durmstrang, finché non gli fosse giunto un segno riguardante la via da seguire.

Sono stato destinato a questo. Sono stato destinato al potere.

Di questo, Gellert era fermamente convinto: lui era un predestinato. Il fato aveva voluto che qualcuno desse inizio a una nuova era. Aveva designato proprio lui, fra tanti, per dare l’input ai Nuovi Giorni ed essere Padrone della Morte. Un’eternità di potere sul mondo intero... Una prospettiva fin troppo allettante. Sarebbe stato un mondo perfetto, il suo, un mondo immacolato e armonioso.

Poiché Grindelwald era un prescelto, il destino gli avrebbe prestato ausilio, e mai avrebbe permesso al suo intuito di compiere errori. Thomas, i Doni, Godric’s Hollow... non poteva trattarsi di una mera serie di coincidenze. Gellert era in attesa di un segno, di un qualcosa che gli suggerisse che finalmente era giunto il momento di cominciare. Quel messaggio, il giovane ne era certo, non avrebbe tardato a raggiungerlo. Il suo istinto gli diceva così.

Gellert aveva anche dato un nome al proprio ruolo, quasi un lignaggio.

Gellert Grindelwald, fautore del Bene Superiore e Padrone della Morte.

 

La mattina del ventuno di giugno era cominciata l’estate, e il segno arrivò – ma Gellert non se ne accorse subito.

 

Già nella missiva nella quale lo accoglieva in casa propria con calore, Bathilda aveva parlato a Gellert di un ragazzo – tale Albus – che a suo giudizio era particolarmente acuto e brillante. Zia Bagshot era dell’idea che lui e questo Dumbledore si sarebbero potuti intendere, ma Gellert non aveva dato granché peso alle sue parole. Lui aveva dei Doni da cercare e un potere da conquistare, non c’era tempo – né motivo – di trastullarsi nella noiosa compagnia di un coetaneo che di certo non sarebbe stato alla sua altezza.

Mai, mai avrebbe pensato che di lì a poco si sarebbe ritrovato a condividere i suoi sogni di gloria con quel ragazzo che, senza neanche conoscerlo, considerava così poco.

 

“Gellert?” gli si rivolse quella mattina Bathilda, con voce carica di affetto. “Si può?”

Al suo vago gesto affermativo, la donna si fece strada oltre la porta che aveva socchiuso, per poi sedersi sulla sponda del letto. Gellert, che era quasi sommerso da opportunamente trasfigurati libri di Arti Oscure, si voltò verso di lei, rivolgendole uno dei suoi improvvisi, disarmanti sorrisi.

Era consapevole dell’ascendente che tali sorrisi avevano sulla zia, e sperava che quest’ultima si affrettasse a liberarlo della sua presenza – era impegnato nell’avvincente studio di una branca di maledizioni particolarmente difficile.

“Dimmi, zietta,” l’apostrofò con il suo marcato accento tedesco.

All’uso di quel vezzeggiativo, le guance di Bathilda si imporporarono: gli scoccò un’occhiata colma di affetto materno.

“Sono andata in casa Dumbledore, ieri sera,” disse. “E sono riuscita a convincere Albus a venire a prendere il tè da noi, oggi pomeriggio.”

Di fronte all’assoluta mancanza di reazioni da parte del nipote, la donna parve interdetta. Riuscì poi a nascondere in fretta la propria perplessità, sebbene a Grindelwald non fosse sfuggita.

“Ci pensi, Gellert?” aggiunse allegramente, tentando di coinvolgere il ragazzo nel proprio entusiasmo. “Finalmente vi conoscerete!”

A Bathilda sarebbe parso sospetto se Gellert avesse continuato a mostrare indifferenza, perciò il giovane Grindelwald sorrise.

 

 

****

 

Alle cinque in punto, si udì tintinnare il campanello.

Alle orecchie di Gellert giunse dall’ingresso il rumore della porta che si apriva, il brusio di passi, il suono di soffocati convenevoli. Poi, la voce di Bathilda risuonò per la tromba delle scale:

“Gellert, forza! Scendi giù, che è arrivato Albus Dumbledore!”

Il ragazzo lambì ancora una volta il pensiero di ignorare la chiamata della zia e rinchiudersi nella propria stanza, prima di realizzare cupamente che non aveva altra scelta se non scendere al piano inferiore e finalmente conoscere quel ragazzo così brillante.

 

Non immaginava di trovare in lui l’input che cercava, no. Non poteva, non voleva, neanche sospettava.

 

Si riservò di compiere le mosse necessarie ad abbandonare la camera con estrema lentezza, parsimonioso di fretta o di gesti troppo svelti – nonostante gli fossero propri. Voltare la testa, spingere il piede sul pavimento con pressione calcolata. Caricare il peso su di esso, la pianta salda in terra, per poi allungare l’altra gamba e levarsi adagio in piedi. Prendersi tutto il tempo necessario per stiracchiarsi appena, roteando piano il collo per sciogliere i muscoli – tutto quello studio lo irrigidiva, Gellert ne era consapevole.

A rilento fece un passo. Ne seguì un altro e un altro ancora, e sebbene procedesse quanto più flemmaticamente possibile, finì per raggiungere la porta prima di quanto non si fosse aspettato. Voltò la maniglia, roteando il polso verso l’alto per farla scattare – era difettosa, ma Gellert si era abituato al suo difetto ed esitava a ripararla.

Prima di oltrepassare la soglia, immaginò l’effetto che di lì a poco avrebbe fatto la propria figura, immobile e dritta sulla cima delle scale. Misteriosa e taciturna, con quegli occhi chiari che quasi brillavano al buio del corridoio del primo piano, dove non si affacciava neanche una finestra.

Decise che avrebbe ostentato un’espressione indifferente. Che si sarebbe mostrato noioso e annoiato, così Albus Dumbledore non si sarebbe fatto più vedere.

Forte della propria risoluzione, si fece strada oltre la porta.

Fu a quel punto che una voce riecheggiò dal piano inferiore, ribaltando ogni sua prospettiva.

“Bathilda, forse non è il momento adatto... Non vorrei disturbare.”

Una voce pacata e misurata, dalla cadenza impercettibilmente calcolata.

“Ma no, Albus, figurati! Forse Gellert non avrà sentito, è talmente preso dai suoi studi...”

“Appunto, davvero. Forse è meglio che va-”

“Arrivo!”

La voce di Gellert uscì vagamente stridula fra le sue labbra. Aveva emesso quelle tre sillabe prima di riuscire a trattenersi, preso da un’improvvisa e inaspettata ansia – una sorta di trepidazione. Qualcosa, forse l’istinto, gli aveva suggerito di intervenire. Di non lasciare che il proprietario di quel calcolo impercettibile di suoni se ne andasse prima che lui riuscisse a vedere il suo volto.

Si diresse rapido verso le scale, ormai dimentico di quell’accurata ed esasperante lentezza, esterrefatto dal modo in cui quel suono aveva capovolto il suo mondo – illuminazione, lo colse d’improvviso.

Istinto? Destino? Il tuo segno è forse questo?

Sopraffatto, perplesso, esaltato.

Impiegò neanche dieci secondi a raggiungere le scale, ma quel tempo più che ridotto fu per Gellert sufficiente a capire che si stava smarrendo in pensieri sconnessi, a comprendere che occorreva radunarne le fila e cercare di leggersi dentro.

L’istinto di un predestinato non può sbagliare.

Doveva averlo preceduto il rumore dei propri passi: lo capì dal modo in cui, al suo precipitarsi nell'ingresso, il giovane che attendeva assieme a Bathilda si voltò nella sua direzione. Lo colpì la figura sottile e flessuosa del ragazzo, i suoi arti esili e nervosi, l'apparenza scattante. Le ciocche di capelli rossicci e lucenti che contornavano un viso lievemente scavato, dal pallore malsano e innaturale, caratteristico di chi da un bel pezzo non trascorre qualche ora all'aria aperta.

Ma furono gli occhi di Albus Dumbledore a catturare la sua attenzione: occhi di un azzurro chiaro e penetrante, quasi tagliente. Il modo in cui erano vagamente socchiusi, quasi fosse perennemente sovrappensiero... La lieve sorpresa che li aveva fatti sgranare per un istante solo dietro alle lenti a mezzaluna degli occhiali, prima che il loro proprietario li socchiudesse ancora, scoccando a Gellert un'occhiata che quasi lo attraversò da parte a parte.

“Oh, ecco Gellert!” la voce di Bathilda risuonò per l’ingresso, vagamente compiaciuta. “Eccoti qui! Lui è –”

“Albus,” l’altro si fece avanti con la mano tesa. “Albus Dumbledore.”

Gellert notò come tenesse dritta la testa. Sembrava una persona avvezza a primeggiare, ad essere sempre il migliore. Le sue spalle, tuttavia, erano un poco incurvate e appariva complessivamente di umore piuttosto tetro

“Gellert,” si presentò lui a propria volta, stringendo la mano che l’altro gli porgeva.

La stretta di Dumbledore era ferma, sicura, in qualche modo stabile e franca – di quella franchezza profonda e ingannatoria tipica delle persone molto intelligenti. Quelle che – almeno per come la pensava Gellert – paiono sempre comportarsi nella maniera migliore possibile, ma al di sotto dello schermo del loro saggio, appropriato giudizio, conservano per sé un labirinto di sensazioni aggrovigliate eppure chiare a modo loro.

I loro sguardi si incrociarono. Gellert sorrise di uno dei suoi tipici sorrisi – l’espressione di Albus parve vacillare impercettibilmente, prima che il proprietario si ricomponesse e sostenesse lo sguardo dell’altro.

“Venite di là, ragazzi,” li invitò Bathilda con fastidiosa gentilezza, interrompendo il loro colloquio prima ancora che avesse inizio. “Il tè è pronto.”

Dumbledore le rivolse un sorriso cortese ma lievemente distaccato. La zia Bagshot non parve avvedersene, comunque, poiché, chiaramente a proprio agio, posò una mano sul braccio del ragazzo e condusse entrambi nel salotto adiacente.

Gellert notò come l’altro si guardasse attorno con vago, impercettibile nervosismo. Pareva un uccello in gabbia. Quella frustrazione che l’intera sua persona sembrava emanare... doveva essere un segno, sì, un segno del destino.

Grazie, si ritrovò a pensare il giovane Grindelwald. Grazie.

 

 

Note dell’Autrice

Si entra nella storia!

Credo non ci sia molto da dire, in realtà, se non che questo capitolo e disgustosamente breve per motivi di trama.

Baci, Daphne

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Capitolo 5
*** V. Gellert Grindelwald ***


 

 

Capitolo 5

“Gellert Grindelwald”

 

Beta: Unbreakable Vow ♥

 

 

Albus non sapeva bene cosa pensare, e non perché non avesse idee – quando mai gli era accaduto di non averne? Al contrario: il giovane non sapeva bene che cosa pensare perché le idee nella sua testa erano così tante e talmente scintillanti che faticava a distinguerle. Per non parlare di estrarne una da quel groviglio per elaborarla, come faceva Kendra quando si dilettava a districare un filo da una di quelle matasse che ai figli parevano inestricabili.

 

Era andato in casa di Bathilda con l’idea di accettare un tè, sorridere educatamente e scambiare quattro chiacchiere formali con quel Gellert, per poi tornare il prima possibile da Ariana ad autocompiangersi. Ma adesso, mentre il cancelletto della propria abitazione strideva nei propri cardini, i pensieri di Albus migravano in tutt’altra direzione. Altro non faceva che ripercorrere nella propria mente ogni passo o parola del pomeriggio appena trascorso, sentendosi addosso un curioso senso di trepidazione. Gellert Grindelwald riecheggiava in ogni angolo delle sue meningi, con quel suo apparire abbagliante ma al tempo stesso a tratti ambiguo.

 

Era giunto in casa Bagshot in perfetto orario, quel pomeriggio, senza smentire minimamente la sua proverbiale puntualità. Alle cinque in punto aveva premuto l’indice sul campanello, e non aveva dovuto attendere molto perché Bathilda aprisse la porta con quel suo lieve sorriso sveglio impresso sulle labbra.

 

“Oh, Albus,” gli si era rivolta amabilmente. “Sono lieta che tu sia venuta.”

 

“Salve, Bathilda,” aveva risposto lui in tono misurato. “Come stai?”

 

La donna gli aveva assicurato di essere in perfetta salute, poi con aria apprensiva gli aveva domandato come stesse lui. Albus aveva educatamente risposto che stava benissimo, grazie – anche se non era del tutto certo di averla convinta.

 

“Gellert, forza!” aveva poi gridato Bathilda sporgendosi verso le scale. “Scendi giù, che è arrivato Albus Dumbledore!”

 

Dal piano superiore non era giunto alcun segno di vita. Bathilda aveva aggrottato le sopracciglia, preoccupata.

 

“Sai,” si era rivolta in tono confidenziale al giovane Dumbledore, “non credo gli faccia bene starsene sempre rinchiuso nella sua stanza, il naso sui libri... Ha una mente notevole, ma è così giovane! Gli farebbe bene una boccata d’aria, di tanto in tanto.”

 

Albus aveva annuito con aria comprensiva. Poi, giacché ancora nessun rumore era riecheggiato per le scale, aveva ripreso la parola: “Bathilda, forse non è il momento adatto... Non vorrei disturbare,” aveva detto in tono pacato.

 

"Ma no, Albus, figurati!” Bathilda gli aveva sorriso un po’ nervosamente, “Forse Gellert non avrà sentito, è talmente preso dai suoi studi...”

 

“Appunto, davvero. Forse è meglio che va-”

 

“Arrivo!” un grido proveniente dal piano superiore aveva interrotto la sua frase ancora a metà, d’improvviso, facendolo sobbalzare... Lo aveva stupito quell’intonazione fremente, quasi ansiosa. Era lo stesso tono frenetico che solitamente assumevano i pensieri nella sua testa quando un’idea geniale minacciava di disgregarsi irrimediabilmente, sfilacciandosi sempre di più fra le dita al tentare di trattenerla.

 

Uno scalpiccio era risuonato per le scale: Albus si era voltato in quella direzione, e lungo i gradini quello che doveva essere Gellert Grindelwald metteva uno svelto passo dietro l’altro, nell’ombra. Quando finalmente aveva raggiunto l’ingresso inondato dal sole pomeridiano, per Albus era stato possibile scorgere la sua figura con maggiore chiarezza.

 

Era un giovane sottile, non troppo alto, con polsi nodosi che facevano capolino dall’orlo delle maniche della giubba che indossava. Il suo viso era leggermente squadrato, dalla mascella sicura, la sua carnagione caratterizzata da quello stesso pallore vagamente malsano della pelle di Albus.

 

Aveva un viso dai lineamenti cesellati, a tratti androgini, con folte sopracciglie bionde a tagliarlo per orizzontale. Quasi a delimitare lo spazio, smorzare la sottile ambiguità dei suoi tratti. La sua testa era ricoperta da ricci dorati e lucidi, simili a un’aureola.

 

Poi Albus l’aveva guardato dritto negli occhi, quasi rabbrividendo. Erano svegli e sgranati, di un colore misto – un grigioverde limpido, uniforme, a metà. C’era uno strano bagliore che ardeva nel fondo di essi, un bagliore stridente e in qualche modo sinistro, selvaggio.

 

Improvvisamente, Albus aveva avvertito per la prima volta lo spazio come un’entità a sé stante, viva e consistente. Lo spazio esisteva ed era denso, esisteva ed era fatto di troppa distanza. Si era accorto di avere una gran voglia di parlare, tanto e a lungo. Parlare e sputare fuori ogni cosa. Raccontare a Gellert Grindelwald cosa volesse dire essere Albus Dumbledore, colui che aveva sempre la soluzione in tasca. Raccontargli chi era davvero, francamente e nel profondo. Parlare di quel senso di prigionia, quel sentirsi tarpare le ali da un villaggio bigotto e una sorella senza colpe.

 

Parlare di sogni infranti, di speranze perdute.

 

“Oh, ecco Gellert!” la voce di Bathilda era risuonata per l’ingresso, stranamente inopportuna. “Eccoti qui! Lui è –”

 

“Albus,” si era fatto avanti con la mano tesa e la testa alta. “Albus Dumbledore.”

 

Il giovane era parso soppesarlo con lo sguardo. “Gellert.”

 

I loro sguardi si erano poi incrociati, e le labbra di Gellert si erano incurvate in un sorriso improvviso e disarmante che aveva coinvolto il volto del ragazzo e l’intera sua figura, come un fuoco d’artificio o il lampo di un fulmine.

 

“Venite di là, ragazzi,” li aveva invitati Bathilda con fastidiosa gentilezza, interrompendo il loro colloquio prima ancora che avesse inizio. “Il tè è pronto.”

 

Li aveva condotti fino in salotto e aveva fatto accomodare Albus sul divano, prima di saltare su e precipitarsi a prendere i biscotti in cucina – “Non mi piace usare la magia per queste sciocchezze... Non sono così pigra!”.

 

Per qualche istante era caduto il silenzio, poi Gellert aveva preso la parola.

 

“Come mai un ragazzo brillante come te resta a marcire a Godric’s Hollow?” l’aveva interrogato, scrutandolo con una curiosità spavalda e all’apparenza quasi morbosa.

 

Albus aveva sostenuto il suo sguardo. “Potrei farti la stessa domanda,” era stata la sua cauta replica.

 

L’altro era parso soddisfatto da quella risposta: le sue labbra si erano incurvate nuovamente in quel suo sorriso fulgente e vagamente impertinente. “Sono stato espulso da Durmstrang,” aveva detto in tono sorprendentemente indifferente, senza cessare di sorridere.

 

Se glielo avessero chiesto, Albus si sarebbe detto piuttosto perplesso: quello specifico provvedimento disciplinare gli era sempre parso come una minaccia consistente ma anche lontana. Non conosceva nessuno che fosse stato espulso, ed era proprio ciò che a lui avrebbe fatto più male... Nutriva un amore viscerale per Hogwarts: per nulla al mondo vi avrebbe rinunciato. Inoltre, un’eventuale sebbene improbabile espulsione avrebbe compromesso definitivamente la sua carriera.

 

Che poi, aveva pensato amaramente, alla fine la mia carriera è stata compromessa comunque.

 

Eppure Gellert Grindelwald non pareva neanche lontanamente sfiorato dalla cosa. Sembrava davvero che non gliene importasse granché... per Albus era qualcosa di inconcepibile.

 

“E come mai?” aveva chiesto, improvvisamente curioso.

 

Gellert aveva abbassato per la prima volta gli occhi. Le ciglia lunghe gli orlavano dolcemente gli zigomi di ombre ondulate.

 

“Non erano alla mia altezza,” aveva risposto lentamente.

 

A quel punto Albus aveva sentito un trasporto improvviso nei suoi confronti. Quante volte anche a lui era accaduto di sentirsi così! Quante volte si era visto costretto a realizzare che assieme al dono della genialità gli era stato riservato anche il lato buio della medaglia. L’eterna solitudine, ecco la sua condanna. Albus Dumbledore non avrebbe mai trovato qualcuno alla propria altezza, qualcuno con cui condividere ogni cosa.

 

Di fronte agli occhi di Gellert Grindelwald, quella certezza per un istante era vacillata.

 

“Adesso tocca a te,” la voce di Gellert era giunta a distoglierlo dai suoi pensieri. “Come mai sei qui?”

 

“Ho finito gli studi quest’anno,” aveva risposto lui quasi distrattamente.

 

Grindelwald aveva inarcato le bionde sopracciglia, e a quel punto la voce di Albus si era messa in moto di proprio conto.

 

“Mia madre è morta,” si era ritrovato a dire, “e io sono –”

 

“Sei rimasto l’unico con la famiglia sulle spalle.”

 

Albus si era detto che fosse sciocco sorprendersi. “È così,” ammise.

 

“Ma perché qui?” aveva insistito Gellert.

 

“Perché mio fratello va ancora a scuola, e mia sorella... devo badare a lei.”

 

Ancora una volta, Gellert aveva puntato gli occhi nei suoi. “È malata?” aveva domandato con vaga cautela.

 

Probabilmente se a rivolgere ad Albus un simile interrogativo fosse stato chiunque altro, lui si sarebbe sentito quantomeno seccato e probabilmente a disagio. Ma sentendosi porre la domanda da Gellert Grindelwald, la percepì in qualche modo diversamente. Gli era parso di intuire nelle sue parole qualcosa di simile a una ricerca – non gli veniva alla mente nessun vocabolo che fosse più appropriato di quello.

 

“Non esattamente,” si era sentito rispondere. “Ariana non riesce a controllare la propria magia,” aveva sospirato.

 

Negli occhi di Gellert riluceva uno strano bagliore. “E per questo rischia di violare lo Statuto di Segretezza.” Non era affatto suonata come una domanda.

 

“Proprio così,” Albus aveva annuito, vagamente sorpreso da tanta perspicacia.

 

“Ecco qui,” Bathilda era rientrata in salotto, sorridendo entusiasticamente nel vederli conversare in tanta confidenza. “Pasticcino, Albus?”

 

“Grazie,” aveva sorriso lui automaticamente.

 

Adoro i tuoi biscotti, zietta,” aveva cinguettato Gellert con un sorriso smagliante.

Albus aveva notato l’affetto del quale gli occhi di Bathilda si erano tinti in risposta a quel sorriso. Aveva sentito una curiosa risatina corrergli su per la gola, e l’aveva trattenuta a stento. Si era scoperto divertito nel prendere nota della sfrontatezza con la quale Gellert teneva le redini della signorina Bagshot, che pure era una donna sveglia. La gestiva allegramente, quasi mettendo alla prova le proprie capacità.

 

Si era ripromesso di stare attento: non si sarebbe di certo fatto manipolare altrettanto facilmente.

 

“Dovreste andare a fare una passeggiata, un giorno di questi,” aveva poi proposto Bathilda. “Vi farebbe bene prendere un po’ d’aria fresca, a tutti e due.”

 

“Ma certo, zia.”

 

Gellert aveva sorriso dolcemente, ma non appena Bathilda si era voltata aveva gettato ad Albus un’occhiata di complice esasperazione, che lui aveva ricambiato.

 

“Davvero, Gellert,” aveva ripreso Bathilda. “Stai sempre chiuso a studiare in quella stanzetta!”

 

“Hai ragione, zia,” aveva annuito il ragazzo, condiscendente.

 

“Che cosa studi?” si era informato Albus, sinceramente curioso.

 

Gli occhi di Gellert si erano quindi posati su di lui per l’ennesima volta.

 

“Incantesimi avanzati,” aveva risposto in tono neutro. “Magia oscura.”

 

La risata di Bathilda si era levata cristallina nel salotto.

 

“Oh, come è divertente,” aveva sospirato la donna. “Gellert scherza sempre.”

 

L’impressione di Albus era stata che Gellert non stesse scherzando affatto, sebbene non avesse smentito in alcun modo le parole della zia. Il giovane Dumbledore non era rimasto granché sorpreso dalla cosa, a dire il vero: sapeva che a Durmstrang le Arti Oscure venivano anteposte alla Difesa da esse.

 

“Ad esempio?” l’aveva stuzzicato.

 

“Maledizioni legate alla Trasfigurazione, perlopiù,” l’altro aveva fatto una pausa. “È una materia che mi piace molto.”

 

“Anche a me,” Albus si era detto d’accordo in tutta franchezza. “È decisamente affascinante.”

 

Gellert gli aveva rivolto un’occhiata di placida sorpresa. “Vedo che abbiamo gusti simili,” era stato il suo commento. A quelle parole, Bathilda era andata in visibilio.

 

Il pomeriggio era poi trascorso in fretta. La presenza di Bathilda era stata ininterrotta e ingombrante: si avvertiva una certa tensione nella stanza, come se ci fosse stato qualcosa rimasto in sospeso – una frase interrotta vibrante nell’aria. Lui e Gellert si erano scambiati poche frasi tutto sommato formali, ma Albus aveva avuto l’impressione che dietro quelle futili chiacchiere vi fosse qualcosa di più... qualcosa che solo la presenza di Bathilda aveva ostacolato.

 

 

Adesso, nell’attraversare l’ingresso in penombra della propria abitazione, Albus rifletteva sulle ore trascorse, tentando di valutare Gellert Grindelwald. Era una sua abitudine, quella di riflettere lungamente sulle psicologie altrui, assegnando loro giudizi il più delle volte molto severi. Tuttavia, si rendeva conto di star incontrando non poche difficoltà nell’attribuire un giudizio appropriato al nipote di Bathilda. Gellert gli aveva dato l’impressione di essere un giovane dalla spiccata intelligenza, appena venata da un velo di ambiguità – quella stessa ambiguità che aveva intuito nel fremito nascosto dietro i suoi lineamenti eterei, e nel bagliore selvaggio che albergava nel fondo di quegli occhi sorprendentemente fissi e sicuri. Era come... come se sapesse qualcosa che gli altri neanche potevano immaginare, e ciò lo rendesse estremamente compiaciuto. Albus si domandò di cosa si trattasse. Si chiese se magari Gellert gliel’avrebbe detto, prima o poi, magari in un momento in cui Bathilda non sarebbe stata presente.

 

Provava nei contronti di Gellert una curiosa sensazione. Per la prima volta in tutta la sua vita, aveva l’impressone di aver trovato un’anima a lui affine. Una persona che avrebbe potuto definire sua pari.

 

Non era più solo sul suo piedistallo.

 

 

 

****

 

 

 

Le voci di Ariana e Aberforth risuonavano allegre dalla camera di quest’ultimo. Albus sentì un improvviso trasporto nei loro confronti, e fu con un sorriso che spinse la porta per farsi strada nella stanza.

 

Probabilmente, si trovò a riflettere, Bathilda aveva ragione: faceva bene mettere il naso fuori casa, di tanto in tanto. Si sentiva già rinvigorito, e il suo umore non era mai stato tanto buono da quando era tornato a Godric’s Hollow.

 

Come sempre, Aberforth e Ariana erano seduti sul tappeto e presi dai loro giochi. Aberforth piegava e ripiegava dei fogli di pergamena sottile affinché prendessero le sagome di animali, stupendo la sorella con figure sempre più strambe. Albus si chiese dove avesse imparato e si rese conto di quanto poco in realtà conoscesse del fratello minore. Ariana osservava gli animali di carta con occhi scintillanti, ridendo e battendo le mani. Poi sollevò gli occhi, incontrando quelli di Albus.

 

“Ciao, Al!” esclamò allegra. Era l’unica persona che mai l’avesse chiamato con quel nomignolo: Aberforth raramente gli rivolgeva la parola, e anche talora lo facesse pareva sempre evitare con cura di dire il suo nome ad alta voce, quasi lo infastidisse. Al contrario, Elphias lo pronunciava per intero con voce velata di ardente ammirazione.

 

“Ciao, Ariana,” fece lui di rimando, quietamente, accomodandosi sul bordo del letto del fratello.

 

Quest’ultimo, che gli dava le spalle, emise un grugnito indistinto per dar segno ad Albus di aver preso nota della sua presenza.

 

E che non è gradita, pensò Dumbledore fra sé.

 

“Ciao anche a te, Abe,” sbottò lui in tono irritato. “Vi saluta miss Bagshot,” disse poi con tono privo di inflessione, “tutti e due.”

 

“Emozionante,” commentò Aberforth con sarcasmo. Albus trattenne una risatina per non dargli soddisfazione.

 

Ariana, dal canto suo, sorrise di quel suo sorriso vago. “Bathilla è buona,” articolò.

 

Anche se non poteva vederlo in volto, Albus percepì il sorriso trasudante affetto del fratello aleggiare nella stanza, quasi fosse un’entità a sé stante. Ariana cercò gli occhi di Albus, che annuì rassicurante.

 

“Com’è quel Grindelwald?” domandò Aberforth. “Mi ha detto Ariana che Bathilda Bagshot non ha fatto altro che blaterare di lui per un mese intero.”

 

“Niente fastidio,” precisò la ragazzina.

 

“Come hai detto?” le chiese Albus.

 

“Niente fastidio,” ripeté lei. “Niente fastidio che Bathilda parla di Gellert. Bathilda piace tanto Gellert.”

 

“Hai ragione,” convenne Albus, “Me ne sono reso conto oggi.”

 

Nel vederlo della sua stessa opinione, Ariana parve illuminarsi. Abe, al contrario, parve quasi contrariato.

 

“Be’?” fece, piegando l’ala di un cigno di pergamena.

 

Albus capì al volo a cosa si riferisse. “Mi è parso essere una persona interessante,” mormorò, cauto.

 

Aberforth si volse nella sua direzione, cosicché i loro identici occhi azzurri e penetranti si incontrassero. Le sue sopracciglia erano inarcate. “È raro che tu lo dica,” commentò.

 

“Credo ti piacerebbe,” ribatté Albus, assolutamente certo del contrario.

 

L’altro ignorò le sue parole. “È stato espulso da Durmstrang, vero?”

 

“Sì...” annuì, fingendosi distratto.

 

“Perché?” fece il fratello.

 

Lui scrollò le spalle. “Non saprei,” fece una pausa. “Si mormora che il regolamento di Durmstrang sia oltremodo rigido, per quanto concerne la disciplina.”

 

Aberforth sbuffò. “Oh, ma la vuoi smettere di parlare come un libro stampato?”

 

Albus era combattuto fra lo scoppiare a ridere o il rispondere al fratello per le rime, ma alla fine non fece nessuna delle due cose. Aberforth lo guardò fisso, aggrottando le sopracciglia. I suoi occhi sembravano dire: “Ancora una volta hai fatto esattamente quel che mi aspettavo da te.

 

“Non ti smentisci mai,” mugugnò infatti Aberforth, arrabbiato.

 

“A cosa ti riferisci?” replicò Albus, serafivo.

 

“Lo sai perfettamente,” il tono dell’altro era brusco.

 

Ariana passava lo sguardo dall’uno all’altro fratello, l’espressione tinta di perplessità. Dumbledore si sentì improvvisamente irritato – forse perché un infinitesimo angolo di lui sentiva di essere dalla parte del torto.

 

Il suo sguardo cadde sulle creazioni di Abe, che Ariana era intenta a rimirare, e improvvisa nella sua mente balenò un’idea. Estrasse la bacchetta e la puntò sui giocattoli dei fratelli, sotto gli occhi grandi e curiosi di Ariana. La mosse appena, e il cignò di pergamena che la ragazzina teneva fra le mani spiegò prima un’ala e poi l’altra, sbattendole lievemente sfuggì dalle sue dita e prese a svolazzare per la stanza. Per un istante parve perdere quota, salvo poi riprendersi immediatamente. Ariana rise e batté le mani, per una volta Aberforth parve sinceramente sorpreso. Uno alla volta, tutti gli animaletti di pergamena cominciarono a prendere vita, e in breve tempo la stanza fu piena di bianche creaturine che svolazzavano o camminavano goffamente sulle loro fragili zampe, in un allegro sovrapporsi di fruscii.

 

Dopo un po’ la risata di Ariana coinvolse anche Aberforth, e presto anche Albus si lasciò coinvolgere dalla generale allegria. Per qualche minuto in quella casa grande e triste altro non si udì che le risa dei tre fratelli Dumbledore. Abe levò lo sguardo sul maggiore, sorridendogli come nei suoi confronti non faceva da anni.

 

 

 

****

 

 

 

Quando Albus tornò nella propria stanza, trovò un gufo sconosciuto appollaiato sulla colonnina del suo letto. Era un allocco dal piumaggio bruno, con due occhi color ambra che lo scrutavarono al suo avvicinarsi.

 

Albus slegò il pezzo di pergamena che era stato arrotolato strettamente e legato alla zampa dell’animale, per poi dirigersi alla finestra e aprire le ante, permettendo alla creatura di uscire e riflettendo che con ogni probabilità era entrata dai vetri spalancati in camera di Aberforth. Osservò il gufo compiere ampi cerchi nel cielo prima di scomparire nella notte – probabilmente per andare a caccia chissà dove. A quel punto, si dedicò al biglietto. Lo spiegò con calma: vi erano state vergate poche frasi striminzite, in una grafia frettolosa e tagliente.

 

 

Albus,

 

zia Bathilda gradirebbe oltremodo se ci intrattenessimo al più presto in un’altra viva conversazione fra grandi menti. Ne sarebbe deliziata. Stessa ora, all’aperto. Niente tè.

 

G.

 

 

Il biglietto era firmato solo con l’iniziale, ma Albus non aveva alcun dubbio sull’identità del mittente. Si ritrovò a sorridere fra sé. Poggiò quindi la pergamena in bella vista sulla scrivania, prima di tornare al davanzale per serrare le imposte... giusto in tempo per vedere una figura oltre i vetri della finestra a dirimpetto della sua.

 

Rimase per qualche istante immobile nella brezza notturna, prima di andarsene a letto lasciando le imposte spalancate.

 

 

 

 

 

Note dell’Autrice

 

Posto con un paio di giorni di ritardo, perdonatemi! Anche se il capitolo è di una lunghezza decente, stavolta. Fra non molto dovrei aver finito le interrogazioni, e salvo prove di danza extra dovrei (e dico dovrei) riuscire a postare anche ogni settimana.

 

Spero che vi sia piaciuto questo capitolo (e i precedenti, ovvio XD) e mando un bacio grande grande grande grandissimo a Giulia

 

Bisous,

 

Daphne

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Capitolo 6
*** VI. Un bel posto ***


 

Capitolo 6

 

“Un bel posto”

 

 

Beta: Unbreakable Vow

 

 

 

Quel giorno Gellert attese l’ora del tè con trepidazione. Aveva trascorso la mattinata in uno stato di febbrile irrequietezza: percorreva le assi del pavimento di Bathilda in lungo e in largo, esplorandone ogni scheggia e discontinuità.

 

“Hai fame, Gellert?” gli aveva domandato la zia alle dieci del mattino, facendo capolino dalla porta del suo studio.

 

Lui aveva scosso il capo distrattamente, riprendendo a poggiare un passo dopo l’altro sul legno del pavimento – un ritmo costante e ripetitivo, quasi ossessionante.

 

“Vorresti della frutta?” la testa di Bathilda si era riaffacciata alle undici e mezza.

 

“No, zia, grazie,” era stata la secca replica di Gellert, che, arrestatosi per un istante, aveva poi ripreso a pestare i piedi sul legno bruno.

 

La zia aveva inarcato le sopracciglia con una certa perplessità, prima di chiudersi di nuovo la porta alle spalle.

 

Era ricomparsa un’ultima volta a mezzogiorno. “Cosa vorresti per pranzo, Gellert?” aveva chiesto al nipote, incrociandolo nel procedere in direzione della cucina.

 

“Va bene tutto,” era stata la risposta del ragazzo. “Adoro le tue pietanze,” aveva poi aggiunto quasi distrattamente.

 

“Oh, non adularmi!” aveva sorriso Bathilda, arrossendo appena, prima di scomparire in cucina.

 

Gellert aveva dunque ripreso per l’ennesima volta a camminare su e giù, salvo poi capitolare sfiancato sul sofà che troneggiava in salotto. Il suo ininterrotto e ossessionante camminare non era servito solo a scandire lo scorrere del tempo – una manciata di secondi per ogni passo – ma anche a consentirgli di riflettere.


Di qualcosa era certo: il segno che aspettava, l’input che il destino aveva in serbo per lui... era arrivato. Era arrivato con la voce ferma e misurata di Albus Dumbledore, con l’acutezza dei suoi occhi azzurro chiaro. Gellert si chiedeva come avesse fatto a non pensarci prima. In fondo era ovvio: gli serviva un compagno, qualcuno con cui condividere la battaglia che era in procinto di combattere. Qualcuno in grado di stemperare i suoi moti estremi, di placare parte della sua fiamma. Qualcuno capace di accompagnarlo nella lotta che gli si prospettava – l’altro piatto della bilancia, colui che assieme a lui avrebbe retto l’equilibrio del mondo. Era una prospettiva magnifica e perfetta... perché, sebbene mai l’avrebbe ammesso, dividere l’eternità con Albus Dumbledore non significava semplicemente spartire con lui il trono, bensì diluire la solitudine che altrimenti sarebbe stata la sua condanna.

 

La condanna di chi deterrà lo scettro del Bene Superiore.

 

Oltretutto, avere qualcuno al proprio fianco avrebbe reso tutto più semplice anche in termini pratici, giacché i suoi piani – i grandi e gloriosi piani per il Bene Superiore – avrebbero di certo avuto una maggior facilità di compimento se nel perseguirli non fosse stato da solo. In Albus vedeva innanzitutto un alleato, un ausilio che – riflettendoci – si sarebbe con ogni probabilità rivelato indispensabile.

 

Il fato così ha stabilito. Ha designato me come prescelto e al mio fianco ha posto un compagno fedele.

 

Perché, Gellert ne era certo, Dumbledore lo sarebbe stato: i piani del destino non avevano falle, perciò colui che aveva insignito suo alleato doveva avere in sé tutte le doti necessarie al proprio ruolo.

 

Tuttavia, il giovane era cosciente che le sue idee potevano apparire esageratamente estremiste a chi non vi fosse già di per sé avvezzo. Doveva dunque agire cautamente per tirare Albus Dumbledore dalla propria parte, scoprire i suoi punti deboli e far leva su di essi, puntare su ciò che lo angosciava o atterriva – o lo irritava, lo faceva infuriare.

 

Se c’era qualcosa che Gellert aveva ben compreso, difatti, era che tutto avveniva per un motivo. Avrebbe fornito ad Albus il motivo per seguirlo, posto dei punti che avrebbero reso anche per lui il Bene Superiore un’alternativa irrinunciabile.

 

Non era forse stato così anche per lui, dopo tutto?

 

In fondo l’abolizione dello Statuto di Segretezza non gli sarebbe premuta così tanto se, anni prima, proprio per una violazione di esso a suo fratello non fosse stata tolta la bacchetta. E Thomas Albrecht sarebbe forse morto se lui e i suoi amici non fossero stati costretti a duellare sul ciglio di un burrone per non rischiare di essere avvistati dai Babbani?

 

Gellert ricordava sempre Thomas con distacco – o almeno così credeva. Era morto, dopotutto, non sarebbe tornato più – e così Gerko Grindelwald e il resto della sua famiglia. Bathilda Bagshot era quanto rimasto dei parenti di Gellert, e forse anche per questo l’aveva accolto con tanto calore in casa propria.

 

“Come mai mi fissi, Gellert?” quasi l’avesse chiamata, la voce della zia riscosse il ragazzo dalle sue riflessioni.

 

Preso dai propri pensieri, infatti, il giovane a stento si era accorto di aver abbandonato il sofà e di essersi messo a tavola assieme a Bathilda.

 

“Pensavo che mi sei rimasta solo tu,” rispose con franchezza. La sincerità talvolta poteva tornar comoda.

 

Come previsto, a quelle parole le gote della zia si imporporarono e i suoi occhi luccicarono di tenerezza. “Nipote caro,” mormorò la donna in risposta, sporgendosi oltre il tavolo per scompigliare i capelli di Gellert, come si fa con un bambino. Lui sopportò di buona grazia quella tortura, consapevole di essersela cercata.

 

Una volta che Bathilda si fu accomodata nuovamente sulla propria seggiola, i due ripresero a mangiare i silenzio, e la mente di Gellert ricominciò a galoppare.

 

Se i maghi avessero controllato anche la società Babbana, con ogni probabilità questi ultimi non avrebbero più combattuto fra di loro inutili guerre... E se così fosse stato anche solo pochi anni prima, Amaberga e Georg Grindelwald non sarebbero stati scambiati per sostenitori del cancelliere Otto von Bismarck¹ quando Gellert era solo un ragazzino... e non sarebbero stati avvelenati entrambi dai seguaci dell’imperatore tedesco. Erano stati assassinati con viltà, uccisi da una dose di arsenico² nel vino che avevano bevuto a cena, in una locanda di una località non magica dove erano stati costretti a sostare, e l’arsenico era un veleno Babbano del quale i maghi non possedevano un antidoto.

 

La Pietra, si ritrovò a pensare Gellert, quasi distrattamente. La Pietra potrebbe riportarli indietro.

 

Quando Gellert Grindelwald sarebbe salito al potere, avrebbe regnato la pace.

 

Ci sono ferite che è necessario infliggere per raggiungere la guarigione.

 

 

 

 

****

 

 

 

 

L’orologio del pianterreno suonò le cinque, cogliendolo quasi impreparato. Al ridondante suono del pendolo, Gellert sobbalzò leggermente, per poi restare bloccato dove si trovava per una manciata di secondi.

 

Era curioso, si trovò a riflettere mentre scendeva le scale due a due, il modo in cui il tempo fosse parso gocciolare con esasperante lentezza nelle ore passate ma che l’ora prevista per l’incontro con Dumbledore fosse poi giunta stranamente inaspettata.

 

Aveva il cuore in gola quando raggiunse l’ingresso, e per un istante si arrestò sulla soglia della porta. Non usciva dalle mura di casa Bagshot da almeno due settimane: in effetti, era trascorso parecchio tempo da quando aveva preso per l’ultima volta una boccata d’aria. Non che gli importasse granché della salute: il suo sublime incarico gli avrebbe di certo fatto dono della forza necessaria ad ogni modo.

 

“Stai uscendo, Gellert?” la voce di Bathilda, improvvisamente comparsa nell’ingresso, gli parve piacevolmente sorpresa.

 

“Sì,” disse, rivolgendole, “ho appuntamento con Albus.”

 

La donna annuì dolcemente. “Lo sospettavo,” ammise. “Mi fa piacere che tu abbia trovato compagnia.”

 

“Oh, zia, fa tanto piacere anche a me!”

 

Non sai quanto, zia Bagshot.

 

La donna lo fissò. “Divertiti, caro,” soggiunse quietamente.

 

Gellert annuì, per poi aprire la porta e uscire sulla veranda. Lì si fermò, seminascosto dal melo che Bathilda aveva in giardino, e così facendo poté osservare non visto Albus Dumbledore per alcuni istanti.

 

Del ragazzo poteva intravedere solo il profilo, poiché egli sostava appoggiato al muretto di casa Bagshot, il capo appena voltato di lato. I lunghi capelli ramati erano raccolti in una modesta coda sulla nuca, una fiamma rosseggiante che serpeggiava fra le sue scapole, spiccando contro il nero degli abiti a lutto. Gellert poteva vedere la sua sagoma solo dalla cintola in su, poggiato com’era al muro di mattoni secchi: aveva una figura scattante, nervosa ma al tempo stesso in qualche modo solida, con le sue spalle larghe e magre. Nonostante non avesse modo di guardarlo in viso, dalla sua posa ferma e stabile Gellert dedusse che l’altro fosse di umore mite.

 

Sorrise fra sé: se Albus Dumbledore si fosse rivelato sempre così bendisposto nei suoi confronti, tirarlo dalla propria parte non sarebbe stato per nulla difficile.


Non smise di sorridere mentre scendeva i gradini della veranda a passi felpati, né quando percorse il vialetto del giardino facendo scricchiolare la ghiaia sotto ai piedi. Il rumore dei sassolini che schizzavano qua e là dovette giungere alle orecchie di Albus, poiché si volse di scatto in direzione di Gellert, lanciandogli un’occhiata penetrante e in qualche modo fremente. Poi le sue labbra si curvarono nell’ennesimo sorriso misurato, e si schiusero mostrando l’orlo di denti candidi quando il ragazzo parlò.

 

“Buon pomeriggio, Gellert,” lo salutò in tono controllato.

 

“Una puntualità disarmante,” commentò lui allegramente per tutta risposta.

 

Albus inarcò lievemente le sopracciglia e annuì, costretto a convenire. “È una mia caratteristica,” ammise con tranquillità.

 

Gellert lo guardò fisso. “Supponevo,” mormorò.

 

Per qualche istante calò il silenzio, poi Albus si schiarì la voce con fare lievemente imbarazzato. “Dove vorresti andare?” gli domandò cautamente.

 

L’altro scrollò le spalle. “Non conosco bene Godric’s Hollow,” rispose. “Vorrei andare in bel posto,” aggiunse poi.

 

Albus sorrise – questa volta con aria meno controllata. “Un bel posto, hai detto?”

 

Pochi minuti dopo, Gellert seguiva Dumbledore per le viuzze tortuose della cittadina. Albus non aveva sprecato molte parole sul luogo in cui lo stava conducendo, e lui non aveva fatto domande in proposito. Sebbene non si fossero scambiati altre parole, il ragazzo poteva avvertire un curioso senso di sollievo. Bathilda probabilmente l’avrebbe attribuito al fatto che finalmente era uscito a prendere un po’ d’aria fresca, ma Gellert non pensava si trattasse di quello... era come se un senso di intesa fosse calato fra lui e Albus, il che era ben diverso dalla strana tensione che aveva avvertito nel tempo che aveva trascorso assieme all’altro il giorno prima, in presenza di Bathilda. Probabilmente quella tensione era causata proprio dal fatto che la zia era stata assieme a loro gran parte del tempo, così come il sollievo nasceva dall’assenza della donna. Probabilmente, Bathilda provocava una certa interferenza – o forse, era solo troppo diversa da loro.

 

Gettò un’occhiata ad Albus. Camminava spedito, con decisione e una fiamma negli occhi azzurro chiaro.

 

Il destino non sbaglia mai le proprie scelte, rammentò Gellert.

 

Decisamente: il fato non aveva compiuto nessun errore nel designare Albus Dumbledore come suo compagno allo scopo del raggiungimento del Bene Superiore. O almeno, questa era l’impressione di Gellert.

 

 

“Siamo quasi arrivati,” annunciò Albus parecchi minuti più tardi. “Di qua.”

 

 

 

Ormai avevano superato le ultime abitazioni del villaggio, raggiungendo gli avamposti della campagna. Di fronte ai loro occhi, si aprivano a perdita d’occhio frutteti e campi coltivati. Le colline erano ricoperte da tappeti di un verde rigoglioso e saturo, punteggiato di tanto in tanto dal bianco sporco che intonacava le mura di sparute fattorie.

 

Dumbledore condusse Gellert lungo un vialetto sterrato e polveroso – non pioveva ormai da qualche giorno. Il giovane lo seguì per la stradina pietrosa senza parlare, bevendo e assorbendo come suo solito tutto ciò che lo circondava – colori, viste, impressioni, suoni, odori. C’era odore di erba verde e terra smossa, sano profumo di estate e di sale e caldo.

 

I due ragazzi procedettero l’uno al fianco dell’altro fino ad un punto in cui il sentiero andava a formare un’ansa, oltre la quale gli avanzi di una siepe troppo crescuta e per nulla curata celavano in sé un passaggio. Superando quella soglia di ramoscelli abbarbicati e pungenti, davanti agli occhi di Gellert si aprì la visuale di uno sterminato campo di grano, carezzato dai raggi del sole calante che faceva vibrare d’oro la cima delle spighe mature.

 

“È tempo di mietitura,” disse Albus in tono didattico. “Fra non molto taglieranno via tutto.”

 

Gellert lo ascoltava solo a metà, preso com’era dall’incredibile vista di quel trionfo estivo – quello era un luogo di contemplazione, così decise.

 

“Abbiamo fatto giusto in tempo, dunque,” mormorò. “Mi piace il colore del grano.”

 

Gli piaceva davvero: dopotutto, i suoi capelli erano di quello stesso identico colore.

 

A quel commento, Albus parve adombrarsi senza un perché. O meglio, a causa di un perché che a Gellert sfuggiva.

 

"Sei di parola,” buttò lì per risollevargli il morale, riserbandosi di tornare in una diversa occasione sull’argomento che gli premeva – scoprire i punti deboli di Albus, individuare i nodi del suo animo che sarebbe stato utile andare a colpire.

 

L’altro parve educatamente perplesso. “Come, scusa?”

 

“Sei di parola,” ripeté Gellert, “è un bel posto.”

 

Albus non sorrise, ma nei suoi occhi danzò una pallida scintilla. “Sono lieto che ti piaccia,” replicò. “Se fosse primavera, le ginestre sarebbero in fiore, e così le eriche.”

 

“Com’è il cielo d’Inghilterra in primavera?” domandò lui.

 

Dumbledore parve vafamente stupito dall’interrogativo, ma dopo alcuni istanti di silenzio il suo volto si aprì in un sorriso, e il giovane rispose: “È bello,” disse, “di un azzurro timido, tenue.”

 

Uno sbuffo di ventò spirò sul campo di grano, raggiungendo i due ragazzi e scompigliando i ricci di Gellert. La ciocca ramata che era sfuggita dalla coda di Albus, sfiorandogli lo zigomo, si sollevò e ricadde con grazia sul suo volto. Il giovane la scansò con un secco cenno del capo.

 

“Come ti trovi a Godric’s Hollow?” chiese improvvisamente.

 

“Non l’ho visitata più di tanto,” ammise Gellert, “sono rimasto sempre in casa.”

 

Albus sospirò. “Non ti sei perso molto,” mormorò. “Qui è una tale noia...”

 

“Ah, ti annoi?” Gellert finse stupore.

 

L’altro inarcò le sopracciglia. “Tu no?”

 

“No,” rispose lui con franchezza, “sono sempre molto impegnato.”

 

“I tuoi studi?”

 

“I miei studi,” confermò.

 

Calò ancora il silenzio, rotto solamente dal lontano gracchiare di una cornacchia.

 

“Per cosa studi?” si informò poi Albus. “Insomma...”

 

Visto che ti hanno espulso, dicevano i suoi occhi. Gellert si accorse che all’altro l’espulsione pareva un castigo pressoché inconcepibile.

 

Sospirò teatralmente. “Interesse personale, purtroppo, considerata la mia espulsione...”

 

Albus non sembrava molto convinto, ma in qualche modo – così parve a Gellert – era anche partecipe del suo fasullo rammarico.

 

“Non mi è ancora del tutto chiaro il motivo per il quale ti hanno espulso,” mormorò Dumbledore.

 

“Non sono riusciti a capirmi,” rispose Gellert con il medesimo tono di voce.

 

Per alcuni istanti, entrambi tacquero. L’altro lo guardava con serietà.

 

“Purtroppo,” riprese lui, “la genialità ha in sé la condanna alla solitudine.”

 

Albus parve al contempo dispiaciuto per lui e vagamente divertito da tale sfacciata mancanza di modestia. “Sei sincero,” osservò.

 

Gellert accennò un sorrisetto. “Solo consapevole delle mie capacità,” replicò. “Non serve a nulla sminuire le proprie doti.”

 

Albus annuì prima di incupirsi. “Posso capirti, ad ogni modo,” sbuffò.

 

“Lo immaginavo.” Gellert lo guardò fisso per qualche istante, poi sorrise apertamente – esultando intimamente nel vedere Albus sussultare in risposta a quel sorriso.

 

Ti avrò presto in pugno, mio caro.

 

Tuttavia, Albus si ricompose immediatamente, scoccandogli un’occhiata sorprendentemente ferma. A Gellert parve di esserne attravaersato da parte a parte. Si sentì improvvisamente messo a nudo, spogliato, quasi che l’altro avesse saputo cogliere ogni barlume di lui e con un solo, singolo sguardo. Non sapeva quanto gli piacesse tutto ciò.

 

Con cautela, si ripromise.

 

“Quindi ti annoi,” osservò. “Come passi il tempo?”

 

“Hai toccato un punto dolente,” confessò Albus. “Non ho nulla da fare.

 

“Leggere?”

 

“Mi piacerebbe,” sospirò l’altro, “ma ho già letto tutti i libri che abbiamo in casa.”

 

“Se vuoi,” Gellert fece una pausa, “posso prestartene qualcuno dei miei.”

 

Albus non rispose, ma dal modo in cui sgranò gli occhi e parve improvvisamente grato Gellert capì che voleva. Voleva eccome.

 

“D’accordo,” risolse di sorridergli di nuovo con complicità, “te ne presterò un paio. O anche più, se vorrai. Ti interessano le Arti Oscure.”

 

“Mi interessa tutto,” rispose Albus con semplicità.

 

“Bene!” concluse Gellert. “Domani te ne porterò qualcuno.”

 

L’altro parve esitare un istante. “Domani?” ripeté.

 

“Domani,” convenne lui. “Stessa ora?”

 

 

 

 

****

 

 

 

Gellert,

è stato un pomeriggio decisamente piacevole. Da tempo non mi accadeva di sostenere una conversazione tanto interessante. Convengo che un nuovo incontro fra grandi menti potrebbe sortire argomenti illuminanti, pertanto confermo per domani alle cinque.

A. D.

 

 

****

 

Albus,

mi piace la tua civetta, ha un’espressione intelligente per essere un pennuto. Confermo anche io, ad ogni modo. A domani.

G.

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

¹ Otto von Bismark: politico tedesco, fu primo ministro della Prussia dal 1862 al 1890.

 

 

² Arsenico: sostanza altamente letale.

 

 

 

Note dell’Autrice

 

Perdonate il ritardo, ma questa settimana sono stata impegnatissima fra studio, prove di danza, etc...

 

Ad ogni modo, mancano solo una ventina di giorni all’inizio delle vacanze estive. Per allora conto di aver già postato un altro capitolo (o forse due).

 

Grazie a tutti coloro che stanno seguendo questa storia!

 

Bisous,

 

Daphne


PS: su Facebook ho creato un gruppo per postare notizie sulla pubblicazione ed eventuali ritardi di Mehr Licht. Lo trovate qui: Write your own dance

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Capitolo 7
*** VII. Speranza ***


Capitolo 7

“Speranza”


 

Beta: Unbreakable Vow <3

 




Godric’s Hollow, 30 giugno 1899

 


Mio caro Elphias,

perdonami se mi sono fatto attendere nel rispondere alle tue numerose e sentite missive, ma sono stato davvero impegnato. Qui c’è molto da fare, sai...


D’accordo, sto mentendo. A dire il vero mi sono annoiato, tanto e profondamente. Posso dire di essermi lasciato un po’ troppo andare, giacché per ben due settimane non sono mai uscito di casa. Questo di certo non ha giovato alla mia salute né al mio umore, come puoi facilmente immaginare.

 

Sono lieto che il tuo Grand Tour in giro per l’Europa si stia rivelando tanto interessante. Ho trovato molto poetiche alcune tue definizioni, specie quelle relative alle spire squamose della storia. La reputo una metafora affatto bislacca. Conferisce alla questione un certo alone di mistero molto romanzesco e affascinante. Appare chiaro da quanto tempo tu desiderassi compiere questo incantevole viaggio.

 

Le tue riflessioni filosofiche sono tutto fuorché banali. Mi piacciono. Hai usato parole di grande vividezza, amico mio. Quasi parrebbe di essere lì.

 

Come già ho accennato, mi sono annoiato. Tanto e profondamente. Non avevo più libri da leggere e – forse – ero sprofondato nella mia mestizia al punto da non avere più la forza per pensare. Sono cosciente di quanto tutto questo paia ai tuoi occhi poco credibile, affatto verosimile. Mi conosci, mi ammiri, sai chi sono. Sai quanto amo pensare e quanto penso bene. Tuttavia, ho vissuto la sgradevole esperienza di trovarmi d’improvviso privo di ogni spunto di riflessione, di ogni fonte d’ispirazione. Ho perso tutto, ho perso il mio futuro.

 

Cosa ne farò del mio futuro? Credimi se ti dico che al momento attuale non ne ho la più pallida idea. Non so che cosa farò. Non so se potrò fare qualcosa.

 

Per grazia di Dio ho trovato qualcosa da fare al momento. O meglio, ho trovato qualcuno con cui passare del tempo. O forse è stato lui a trovare me, chissà. 
Si chiama Gellert e ha il mio intelletto. Può capirmi. È alla mia stessa altezza.

 

Lui è il nipote di Bathilda Bagshot, quella vecchia amica di famiglia della quale alcune volte ti ho parlato. Non lo conosci perché frequenta Durmstrang. O meglio, frequentava: gelosi del suo talento, dei maligni l’hanno coperto di menzogne. Hanno tentato di imprigionare le sue doti, di assoggettarlo. Ma non ci sono riusciti: se n’è andato.

 

Ho deciso che Godric’s Hollow non ci riuscirà con me. Nulla potrà tarparmi le ali. Troverò il modo di farmi valere anche fra queste case grigie.

 

Stammi bene.

 

Con affetto,

 

Albus


 

****

 


 

Il sole di fine giugno inondava placido il volto di Albus, mentre se ne stava con gli occhi chiusi poggiato al muretto di casa di Bathilda. In un impeto di magnanimità si era deciso a rispondere alle lettere di Elphias, quella mattina, e non riusciva a fare a meno di sentirsi un poco in colpa per alcune frasi che aveva scritto.

 

Si chiama Gellert e ha il mio intelletto. Può capirmi. È alla mia stessa altezza – aveva indirettamente affermato che Elphias invece non lo era. C’era solo da sperare che l’amico non riuscisse a cogliere tali sottigliezze.

 

Ma in fondo era solo la verità. E poi Elphias “Fiato-di-cane” l’avrebbe perdonato sempre e comunque, no?

 

 


“Salve, Albus.”

 

Quasi l’avesse chiamato, la voce di Grindelwald si udì per il giardino. Albus si volse di scatto nel sentirsi salutare, giusto in tempo per incontrare gli occhi dell’altro, che lo fissava con un curioso luccichio nelle iridi e un astuto sorrisetto sulle labbra. Aveva la testa leggermente chinata e sembrava quasi un angelo, con i suoi ricci dorati orlati di sole.

 

Albus pensò che fosse bello, così etereo e longilineo, con quel collo flessuoso e quasi femmineo a fare capolino dal colletto blu scuro della giubba che indossava.

 

“Salve, Gellert,” rispose quietamente, sostenendo il suo sguardo.

 

Fiato-di-cane non aveva importanza alcuna, decise.

 

“Ho pensato che fosse inutile portare i libri con noi,” lo informò Gellert in tono rilassato. “Dopo dovremmo comunque passare di qui, tanto vale che te li dia più tardi.”

 

Albus si disse d’accordo, riflettendo su quanto fosse piacevole parlare con qualcuno che non chiedeva notizie sulla sua salute, che non gli domandava come stesse. Nelle ultime settimane si era più volte ritrovato a detestare tale genere di interrogativi: milioni di domande a cui dare sempre la stessa, bugiarda risposta. Bene... come poteva star bene, con Kendra nella tomba e il suo futuro fatto a pezzi?

 

Albus Dumbledore, colui che ha sempre la soluzione in tasca.


“Gellert,” esordì improvvisamente, dopo che ebbero camminato in silenzio l’uno di fianco all’altro per parecchi minuti, “ti hanno mai chiesto come stessi pur conoscendo perfettamente la risposta?”

 

L’altro parve avere un brevissimo momento di esitazione, prima di poggiare il piede sinistro al suolo per un altro passo e volgersi dunque in direzione di Albus.

 

“Sì,” disse semplicemente, guardandolo con occhi strani.

 

“In che occasione?” domandò Dumbledore a bruciapelo.

 

Gellert emise una sorta di sorrisetto amaro. “Zia Bathilda,” rispose, “quando sono stato espulso. Il maestro di Pozioni, quando Thomas è morto.”

 

Albus avrebbe voluto chiedere a Gellert chi fosse quel Thomas, ma si trattenne. Non voleva essere indiscreto... sarebbe stato come se l’altro gli avesse domandato di Kendra. Sgradevole, quindi.

 

“Non amo quando me lo chiedono,” proseguì Gellert d’improvviso, quasi stesse pensando a voce alta. “Il più delle volte chi lo domanda neanche ascolta la risposta.”

 

A quelle parole, il cuore di Albus diede in un misterioso sussulto – la gola si strinse in una sorta di nodo felice e triste al tempo stesso. Era così strano, così curioso... così particolare parlare con qualcuno la cui mente seguisse gli stessi intricati percorsi della sua. Era esaltante, sorprendente, disarmante. Vero e reale – quando pareva quasi un sogno.

 

“Lo chiedono tanto per dire,” si ritrovò a mormorare in risposta. “Per non sentirsi a disagio restando in silenzio.”

 

“Andiamo.”

 

Gellert afferrò improvvisamente la sua manica destra, all’altezza del gomito, pronunciando quella parola quasi tra i denti. Non trattenne però le dita sul suo braccio: fu solamente una breve stretta, al seguito della quale aveva preso a camminare più velocemente sulla stessa strada percorsa il giorno prima. Albus si affrettò a imitarlo, pensando ammirato a quanto doveva essere spiccata la memoria visiva di Gellert, se era in grado di ripetere con tanta sicurezza un percorso da lui compiuto solo una volta prima di quel momento. Era un’altra qualità che condividevano – sarebbe stato più facile del previsto, non farsi tarpare le ali da quell’esercito di case grigie.

 

Forse il destino aveva condotto Gellert a Godric’s Hollow proprio per trarre Albus in salvo, per portarlo via da lì.


 

Ariana.



Certo, Ariana. Sarebbe sempre stato necessario prendersi cura di lei. Ma mancavano solo due anni al momento in cui Aberforth avrebbe finito la scuola, e allora ci sarebbe stato lui a badare alla sorella. Albus sarebbe stato libero di spiegare le sue ali e...

No. Non poteva infrangere la promessa fatta a Kendra.


 

Albus, ci penserai tu ad Ariana, quando io non ci sarò più. Vero?”

 

“Naturalmente, madre. Te lo prometto.”



Era parso così facile, allora, forse perché sembrava impossibile. Kendra, morire? Non l’avrebbe mai fatto. Era troppo ferma, troppo stabile e sicura e madre per andarsene.

 

È facile fare una promessa, quando si è convinti che mai ci si troverà a doverla mantenere.

 

“Cos’hai per la testa?” chiese Gellert all’improvviso, quando ormai erano giunti all’altezza delle ultime case del villaggio.

 

Albus si soffermò a guardarlo per qualche istante prima di rispondere: “Mia madre. Mia sorella.”

 

Gellert annuì e tacque.

 

Non mi chiede nulla, pensò Dumbledore, aspetta che sia io a volermi confidare.

 

Il tatto dimostrato dall’altro giungeva decisamente gradito – Albus sopportava poco le persone troppo invadenti, e per ciò che riguardava la sua famiglia era già di natura riservato. Tuttavia, doveva ammettere che tanta delicatezza da parte di una figura brillante quanto Gellert Grindelwald non lo stupiva affatto: somigliava molto al modo in cui lui stesso si sarebbe comportato, dopotutto.

 

Di una cosa era certo: Gellert cercava di rendersi amabile.

 

Pensò a quanto dovesse essersi sentito solo, a Durmstrang. Pensò a quanto lui stesso si fosse sempre sentito tale, fin dai suoi primi giorni a Hogwarts – neanche nel luogo che aveva fatto la sua felicità era riuscito a sfuggire dalla propria solitudine. Nei primi giorni al castello scozzese aveva percepito diffidenza da ogni dove... Lui stesso era stato sospettoso nei confronti di tutti, convinto com’era che tutti sapessero che Percival Dumbledore si trovava ad Azkaban. Aveva infatti stretto amicizia con Elphias Doge, messo in disparte da tutti a causa dei segni che il Vaiolo di Drago aveva lasciato sul suo volto. Poco alla volta, poi, coloro che circondavano Albus avevano iniziato a notare il suo incredibile talento, mentre lui si guadagnava la stima degli insegnanti e l’ammirazione dei compagni di classe. Non era stato necessario molto tempo affinché divenisse lo studente migliore della scuola.

 

Infine, l’iniziale diffidenza aveva finito per sostituirsi alla consapevolezza di essere sempre un gradino sopra agli altri. Vedeva oltre le nubi, certo, ma sulla colonna c’era posto per un solo eremita.


 

 

Lanciò un’occhiata a Gellert, che camminava al suo fianco, guardandosi attorno con curiosità. Si ritrovò a pensare che la solitudine, se condivisa, sarebbe forse potuta diventare compagnia.


 

 

****

 

 


 

“Hai amici, Albus?”

 

Sotto ai loro occhi, il campo di grano era sfiorato dal sole. Gellert era appollaiato in cima alla malmessa staccionata che lo recintava, e scrutava Albus con il capo leggermente inclinato.

 

Il giovane Dumbledore ricordò improvvisamente che si conoscevano da appena tre giorni, e che perciò quel genere di domanda era perfettamente naturale e opportuno.

 

“Sì,” rispose, dopo averci pensato su per qualche istante. “Uno, credo.”

 

Gellert annuì, sollevando il mento a guardare il cielo. Strinse le dita attorno al legno della staccionata e allungò la schiena all’indietro, quasi volesse lasciarsi cadere. Albus si accorse che aveva gli occhi chiusi appena in tempo per cogliere il momento in cui li spalancò di scatto e lo guardò fisso, senza tirarsi su. I riccioli biondi dondolavano nel vuoto come molle libere dietro la sua testa.

 

“È tuo fratello il tuo amico?” chiese Gellert.

 

“Come sai che ho un fratello?” replicò Albus.

 

“Lo immagini perfettamente,” lo rimbeccò l’altro, “me l’ha detto Bathilda.”

 

Le labbra di Albus si incresparono in qualcosa di simile a un lieve sorriso. “Lo immaginavo,” concesse.

 

“Volevi cambiare discorso,” aggiunse Gellert.

 

Albus inarcò le sopracciglia e soppesò per alcuni istanti l’espressione dell’altro prima di annuire.

 

“Non ti piace parlare di tuo fratello o sbaglio?” domandò Grindelwald serenamente, tirandosi di nuovo su. I suoi capelli gli ricaddero scomposti sulla fronte, lui li scacciò con la mano.

 

Albus sospirò. “Non è questo,” disse. “Solo che non siamo propriamente amici, ecco.”

 

“Non andate d’accordo?”

 

“Affatto.”

 

“Quindi non è lui l’amico del quale mi parlavi,” constatò infine Gellert. “Chi è, dunque?”

 

Albus deglutì leggermente. “Si chiama Elphias Doge.”

 

“E siete amici.”

 

“È quello che ho detto.”

 

“Che tipo è?”

 

Sulle prime, Dumbledore non seppe bene come rispondere a tale interrogativo, ma nel giro di pochi secondi gli salirono alla mente due aggettivi perfettamente calzanti, perciò li pronunciò. “Premuroso e fedele.”

 

“Ha cervello?” chiese Gellert. Stava ponendo una domanda dopo l’altra, quasi si trattasse di un interrogatorio, ma nonostante ciò riusciva in qualche modo a non risultare inopportuno.

 

“Entro certi limiti,” rispose Albus, cauto.

 

“Ti vuole bene?”

 

“Mi adora.”

 

“Gli vuoi bene?”

 

Quest’ultima domanda lasciò Albus un poco spiazzato. Tentò di rispondere con sincerità: “Gli sono affezionato.”

 

“Dunque è una presenza tutto sommato gradevole ma non indispensabile, che stravede per te, che dal canto tuo gli sei affezionato come lo si può essere a un cagnolino di compagnia abbastanza sveglio,” commentò Gellert. Non disse queste parole con causticità, bensì in tono leggero, quasi stesse parlando del tempo.

 

Albus riconobbe suo malgrado che aveva ragione, perciò non lo contraddisse.

 

“Quindi,” concluse Gellert, “non siete amici.” Lo guardò, rivolgendogli  un inaspettato sorriso. “Vuoi essere mio amico?” chiese.




****




Gellert,

cosa vuol dire essere amici?

A. D.






Albus,

suppongo voglia dire tenersi compagnia. Parlare, fare progetti per il futuro. Avere bisogno l’uno dell’altro. Volersi bene, non semplicemente essersi affezionati. Avere un legame. Sorridere, a volte. Avere delle insicurezze, forse. Essere felici in molti momenti. Costruire qualcosa.

Tu cosa ne pensi?

G.







Gellert,

vuol dire non essere soli, credo. Essere apprezzati. Avere qualcuno che non pensi che tu possa sempre cavartela da solo. Non richiedere nulla in cambio e ricevere qualcosa in cambio comunque. Tu hai mai avuto un amico?

A.







Credo di sì.







Gellert,

stai parlando di quel Thomas, vero?

A. D.







Albus,

il tuo intuito è notevole.

G.







Gellert,

non era difficile capirlo. Quando hai nominato il suo nome l’hai fatto con un tono abbastanza particolare. Lui era alla tua altezza? Ti aiutava a non sentirti solo?

A.







Albus,

a dire il vero non so. Ero ancora un ragazzino. Mi aiutava a non sentirmi solo, sì. Parlavamo di molte cose interessanti.

G.







Me ne racconterai qualcuna, spero.

Albus







Albus,

penso proprio che lo farò.

Ho apprezzato molto il fatto che tu non mi abbia rivolto troppe domande in merito, oggi. Hai dimostrato un notevole intuito anche in questo, così come una particolare sensibilità nei confronti delle psicologie altrui. È abbastanza raro, e per di più la mia non è una personalità semplice.

G.







Gellert,

non volevo essere indiscreto. Penso che un amico debba pensare anche al bene altrui, al modo giusto di dire le cose e al momento adatto per porre determinate questioni. Non credi?

Credo che saremo grandi amici.

A.D.








Lo credo anche io.

G.








Note dell’Atroce Autrice


Bene, sono riuscita a postare (grazie anche al betaggio a tempo record di Giulia <3).

Beh, il rapporto fra questi due comincia a evolversi, e credo sia giunto il momento di spendere due paroline sulla lunghezza di questa long. Ovviamente non procederò sempre un giorno alla volta... ci sarà ogni tanto il salto di qualche giorno quando Albus e Gellert cominceranno a conoscersi meglio. Diciamo che dovrebbero essere una trentina di capitoli complessivi secondo i miei piani – forse qualcuno in più, forse qualcuno in meno.

Ovviamente spero che vi piaccia.

Bisous,

Daphne









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Capitolo 8
*** VIII. Condividere ***


Seconda parte – Luglio 1899

 


Capitolo 8

“Condividere”



 

“Parlami di tuo fratello,” disse Gellert, modulando con attenzione la voce nel formulare la sua richiesta.

 

Come previsto, alle sue parole l’espressione di Albus mutò impercettibilmente, irrigidendosi appena.

 

“Vuoi sapere qualcosa in particolare?” replicò in tono cauto.

 

Gellert sorrise. “Vorrei solo che tu mi parlassi di lui.”

 

Quel giorno il tempo non era dei migliori, sebbene ormai i primi giorni di luglio fossero sopraggiunti. Il cielo era coperto da una sottile coltre di nubi sfilacciate, attraverso le quali i raggi del sole riuscivano a tingere il campo di grano ancora non mietuto di una sterile luce opaca.

 

Gellert ormai conosceva a menadito la via da percorrere per giungere a quello che pareva essere stato designato come loro luogo prediletto, tuttavia ancora una volta aveva scelto di attendere Albus di fronte a casa Bagshot piuttosto che dirigersi al campo di proprio conto. Si trattava di una scelta ben ponderata: in questo modo accompagnarlo lì sarebbe diventato una sorta di incarico attribuito ad Albus, che avrebbe così avuto l’inconsapevole impressione che Gellert dipendesse in qualche modo da lui. Il che era indispensabile a conquistare la sua fiducia, come il giovane Grindelwald ben sapeva.

 

Osservò Dumbledore fissare per un istante lo sguardo su quel cielo mesto, per poi scostare una ciocca ramata dalla fronte e volgere gli occhi verso di lui.

 

“Aberforth è una persona semplice,” parlò poi Albus in tono neutro. “Ama studiare la natura.”

 

Fece una pausa, e Gellert ne approfittò per porre un’ulteriore domanda.

 

“E il suo carattere?” chiese. “Com’è?”

 

“È un tipo energico,” rispose l’altro. “Impulsivo, a volte irrazionale. Tende... tende a vivere ogni cosa in maniera appassionata, e raramente limita le proprie sensazioni. I suoi sentimenti sono spesso bianchi o neri, assoluti.”

 

“Non comprende che esistono anche sfumature di grigio,” concluse Gellert per lui.

 

Albus gli scoccò un’occhiata penetrante. “Esatto,” convenne.

 

“Gli vuoi bene,” constatò Gellert.

 

“È mio fratello,” sospirò Albus. “Come potrei non volergliene?”

 

Quest’ultima affermazione suonò in qualche modo amara, e Grindelwald capì che l’altro ancora non aveva detto tutto.

 

“Lui ti vuole bene?” domandò ancora.

 

Albus parve pensarci sopra per qualche istante. “Suppongo di sì,” disse poi. “Ma è innegabile che covi un certo rancore nei miei confronti.”

 

“Le cause di questo rancore sono fondate?” lo interrogò Gellert.

 

“Aberforth ne è convinto,” fu la cauta risposta.

 

“E tu? Tu ne sei convinto?”

 

Albus si passò stancamente una mano sulla fronte, gesto che ormai Gellert aveva iniziato a identificare come sintomo di un discorso che gli era scomodo.

 

“Aberforth mi ritiene un egoista,” mormorò. “Crede che io pensi solo a me stesso, ma-”

 

“Ma non può capire.”

 

Albus lo guardò con espressione grave, poi emise una sorta di sorriso triste. “No,” convenne, continuando a fissarlo. “Lui non può.”

 

“Nessuno può comprendere la nostra solitudine,” concluse Gellert. “Non sei d’accordo, Albus?”

 

“Lo sono,” annuì altro. “Lo sono.”

 

Seguì qualche istante di silenzio, in cui Gellert si prese tutto il tempo necessario a osservare Albus con attenzione. Il ragazzo era appollaiato accanto a lui sulla staccionata, e le sue lunghe gambe erano piegate, giacché si puntellava con i piedi sull’asse di legno scheggiato per mantenere l’equilibrio. Sebbene il suo volto apparisse ancora cupo e smagrito, le vistose occhiaie che fino a una settimana prima avevano orlato i suoi occhi cominciavano adesso a sbiadire, così come il suo incarnato malsano, quasi grigiastro, andava scaldandosi un poco. I suoi lineamenti si erano fatti appena più distesi, rilassati, e adesso era palese quanto fosse di bella presenza.

 

Gellert non si aspettava altro, in effetti. Dopotutto, il fido Compagno scelto per lui dal Destino non poteva avere un aspetto sgradevole – ne era convinto per chissà quale motivo. Non poteva negare, difatti, che star seduto lì a rimirare i lineamenti di Albus fosse un piacere alla vista. Fece scorrere lo sguardo sulla sua intera figura, che aveva qualcosa di scattante, quasi nervoso, snello ma non propriamente felino. Non l’avrebbe paragonato a un gatto o a un ghepardo, men che meno a un leone. Si soffermò sul suo volto bello e incavato, sul profilo deciso e i penetranti occhi azzurri, che ricambiavano indecifrabili il suo sguardo attraverso le lenti a mezzaluna degli occhiali. Guardò i suoi capelli rossicci e folti, raccolti sulla nuca in una sorta di coda, che però non riusciva a trattenere alcune ciocche che gli sfioravano gli zigomi e le mascelle. Il suo aspetto arguto e il rosso dei capelli lo rimandarono all’immagine di una volpe, curiosa e superba.

 

Albus parve stancarsi di quel silenzio, giacché presto riprese la parola. “Tu hai fratelli, Gellert?” chiese cautamente.

 

Le parole dell’altro risuonarono stentoree nella mente di Grindelwald, mentre il suo cuore si colmava di amarezza. Cercò tuttavia di mantenere stabile il proprio tono di voce, pur consapevole che ad Albus non doveva essere sfuggito il leggero cambio di espressione che aveva attraversato il suo volto.

 

“Ne avevo uno,” disse. “Si chiamava Gerko.”

 

Gli occhi di Albus si tinsero di tacita comprensione, piuttosto che di banale compassione, e per la prima volta Gellert pensò che sarebbero potuti diventare amici anche per il loro stesso piacere di avere qualcuno con cui condividere il tempo, e non solo per raggiungere il Bene Superiore. Che forse l’illusione imbastita per Albus stesse divenendo realtà? Non se ne rammaricava affatto, se doveva essere franco. Dopotutto, perché mai il Fautore del Bene Superiore non sarebbe dovuto essere felice?

 

“Mi spiace di essere stato indelicato,” fece Albus.

 

“Non c’è problema,” replicò Gellert, neutro. “Non potevi averne idea.”

 

“Avrei potuto dedurlo,” lo contraddisse Albus, “dal fatto che tu non ne avessi fatto parola prima.”

 

Gellert lo fissò. “Invece hai fatto bene a pormi questa domanda,” sospirò. “Per me non è un problema parlarne.”

 

Improvvisamente, aveva compreso che parlare della propria famiglia con Albus era davvero un’ottima idea. Confidandosi con lui l’avrebbe di certo spinto a fare lo stesso.

 

“Ne sei sicuro?” Dumbledore chiese una conferma ulteriore.

 

“Non l’avrei detto, altrimenti.”

 

“Hai ragione,” ammise Albus. “È stato sciocco da parte mia chiedere conferma.”

 

Gellert pensò che non fosse affatto sciocco, ma non volle dare all’altro la soddisfazione di essere rassicurato. “Mio fratello si chiamava Gerko,” esordì, “e per certi versi mi somigliava. Non mancava certo di intelletto né di arguzia, ma faticava molto a controllare le sue emozioni. Era un tipo impulsivo, a volte persino aggressivo. Parlava a lungo e quasi a vanvera, agli occhi di qualcuno. Ma, beh,” si ritrovò a sorridere, “mi capiva. O forse non capiva me, ma comprendeva e accettava il mio modo di essere.”

 

“Che cosa gli accadde?” mormorò Albus.

 

“Si macchiò di una notevole violazione allo Statuto di Segretezza e fu espulso da Durmstrang. Spezzarono la sua bacchetta.”

 

Comprese di aver colto nel segno quando vide l’altro deglutire. Se c’era una cosa che aveva avuto modo di appurare a proposito di Albus, questa era quanto lo colpisse venire a sapere di espulsioni. Gellert credeva anche di aver capito come mai colui che ormai era divenuto suo amico reagisse in quel modo: per lui l’affermazione personale era maledettamente importante, e una forzata interruzione degli studi dal suo punto di vista equivaleva a un intoppo sulla strada del successo.

 

Ma si ricrederà. Si ricrederà quando comprenderà di essere destinato al Bene Superiore quasi quanto lo sono io.

 

“Dopo essere stato espulso,” riprese, “Gerko iniziò ad annoiarsi, e finì con l’affogare il dispiacere nella vodka. Divenne un alcolizzato, e dopo pochi mesi morì a seguito di una rissa magica in cui era stato coinvolto,” sospirò. “Non avendo più la sua bacchetta, non ebbe modo di difendersi.”

 

“È molto triste,” commentò Albus.

 

“Già,” Gellert sospirò. “Se solo lo Statuto di Segretezza non fosse mai esistito...”

 

Gli occhi di Dumbledore furono attraversati da un lesto bagliore, e Gellert seppe di aver gettato l’amo. C’era solo da sperare che il pesce abboccasse.




****





Gellert,

 

ci tenevo a ringraziarti per i libri che mi hai prestato, li trovo davvero interessanti. Sono un ottimo diversivo e sento che la mia mente lavora di nuovo. Credo che tu possa capirmi se dico che avere di nuovo qualcosa da imparare è un sollievo.

 

Ho trovato molto avvincenti i paragrafi riguardanti l’uso della Trasfigurazione per migliorare alcuni funzioni degli Incanti Proteus. Credo costituisca una branca di studi che andrebbe meglio approfondita.

 

Più di ogni altra cosa, tuttavia, ho trovato affascinanti i volumi sulla fabbricazione delle bacchette. È incredibile il fatto che basandosi sulla leggenda della Bacchetta di Sambuco siano stati compiuti studi che hanno contribuito a migliorare la qualità delle bacchette!

 

Spero di non essere stato indiscreto, oggi pomeriggio.

 

A.D.





Albus,

 

sono lieto che i miei libri stiano contribuendo a migliorare il tuo umore e stuzzicare il tuo intelletto. Hai ragione, posso capire: restare privi di stimoli può rivelarsi un’esperienza davvero frustrante.

 

Anche io sono molto affascinato dalle tecniche di fabbricazione delle bacchette! E la Stecca della Morte costituisce ancora uno dei più grandi enigmi del mondo magico, come penso tu sappia. Ad ogni modo, come ogni leggenda anche questa ha in sé un fondo di verità. Vi sono tracce storiche della Bacchetta di Sambuco, sai?

 

Non sei stato indiscreto. Io ti ho chiesto di tuo fratello, tu mi hai chiesto del mio. È del tutto legittimo.

 

G.




 

Gellert,

 

ti interessi della Bacchetta di Sambuco? Ti parrà forse una cosa sciocca da dire, ma da bambino amavo che mia madre mi narrasse la fiaba dei Tre Fratelli. 
Trovavo straziante la stoltezza con cui i due fratelli più grandi male utilizzavano gli incredibili oggetti che erano stati dati loro in dono. Mi ritrovavo ogni volta a pensare che se fossi stato al loro posto avrei agito senz’altro con più criterio.

 

Mi ha fatto piacere confidarmi con te.

 

A.





Albus,

 

senz’altro utilizzeresti i Doni con più criterio. Credimi se affermo che anche io penso la stessa cosa! A dire il vero esistono tracce storiche anche dei tre fratelli. Pare che il loro cognome fosse Peverell.

 

Perdona il cambio di argomento, ma zia Bathilda è appena entrata nella stanza e mi ha chiesto cosa stessi facendo. Io le ho risposto che stavo scrivendo a te e allora i suoi occhi hanno preso a luccicare. Ha detto in tono commosso che dobbiamo avere davvero tante cose da dirci per proseguire la conversazione via gufo una volta tornati ciascuno in casa propria. Si è detta davvero lieta che io abbia trovato un amico.

 

Per quanto la zia sia di lacrima fin troppo facile, non posso negare di condividere questo sentimento.

 

G.




 

Gellert,

 

Peverell? Ha un suono familiare, come se già l’avessi sentito da qualche parte.

 

Bathilda deve essere un tipo piuttosto sentimentale, per commuoversi a questa maniera! Trovo tuttavia che sia molto dolce da parte sua. Deve essere una zia amorevole.

 

Condivido anche io, ad ogni modo.

 

Albus





Mi fa piacere.

 

G.






Note dell’Autrice

 

Come sempre è solo grazie alla rapidità di Giulia nel betare che sono riuscita a postare in tempo! 

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Capitolo 9
*** IX. Incomprensioni, illusioni, idee ***


Capitolo 9

“Incomprensioni, illusioni, idee”

 

 

Beta: Unbreakable_Vow

 

Quel giorno, Albus si destò parecchie ore più tardi dell’usuale. Al momento del risveglio, gli occorsero parecchi istanti prima di realizzare come mai il sole era già così alto nel cielo. Giunse alla conclusione che Aberforth doveva aver deciso di non svegliarlo, più per il gusto di passare del tempo con Ariana o rimproverare il fratello maggiore per aver fatto tardi che per una reale premura.

Una volta presa coscienza di ciò, comprese cosa fosse intervenuto a richiamarlo dal sonno: di fronte alla finestra sostava uno splendido gufo reale, dal piumaggio castano, che becchettava impaziente contro il vetro. Albus lo riconobbe immediatamente come uno dei volatili appartenenti a Hogwarts, e capì subito cosa portasse con sé: i risultati degli esami finali suoi e di Aberforth, più con ogni probabilità la lista dei libri necessari all’anno successivo per quest’ultimo.

Scattò in piedi e si recò alla finestra, spalancandola. Il gufo si fece strada nella stanza con un altezzoso frullare di piume, facendo cadere tre buste di pergamena giallastra sulla scrivania di Albus prima di volarsene di nuovo via.

Il ragazzo sospirò, prima di vestirsi rapidamente e affrettarsi a scendere al piano di sotto.

Trovò Aberforth e Ariana seduti al tavolo della cucina, intenti come loro solito a parlottare allegramente. Negli occhi di Abe brillava la gratuita dolcezza che dedicava solo ad Ariana.

“Buongiorno,” salutò Albus, rendendo nota ai fratelli la propria presenza.

Abe sollevò il capo. Il suo sguardo passò dal volto del fratello alle buste di pergamena che stringeva fra le dita, e infine si posò ancora su Ariana.

Albus pensò che avesse finto di disinteressarsi ai risultati scolastici al solo scopo di irritarlo.

“Ciao!” disse Ariana allegramente.

Si sforzò di sorridere. “Buongiorno, Ariana,” mormorò, con una carezza sulla sua testolina bionda.

“Hai fatto tardi, ieri sera,” furono le prime parole che Aberforth gli rivolse. Una semplice constatazione. Non era una domanda ma neanche un rimprovero.

“Dipende da quel che si intende con tardi,” replicò Albus, cauto.

“Stavi di nuovo a scambiarti lettere con quel Grindelwald?”

Cosa?!”

“Non fare finta di non capire.” Aberforth sbuffò. Si appoggiò allo schienale della sedia e scrutò il fratello con il capo appena inclinato, le sopracciglia aggrottate sopra agli occhi azzurri e penetranti – gli stessi occhi con cui, impassibile, Albus sosteneva il suo sguardo.

“Ti ho visto,” disse infine Aberforth. “Tutti i pomeriggi ti vedi con il nipote di Bathilda Bagshot. E continuate a scrivervi anche fino a tarda sera. Cosa avete da dirvi di così importante?”

Albus pensò che fosse la frase più lunga rivoltagli da Abe almeno negli ultimi due anni.

“Scrivevo a Elphias,” mentì. “Non fa altro che raccontarmi del suo Grand Tour.”

Ebbe l’impressione che Aberforth avesse deciso di credere a quest’ultima scusa.

Albus scostò una sedia dal tavolo e vi si lasciò cadere. “Sono arrivati i risultati degli esami.”

“Ah, sì?”

“E anche la tua lista dei libri,” aggiunse.

“Bene.”

Albus voltò la prima delle buste di pergamena che aveva posato sul piano del tavolo. Sul retro c’era scritto il suo nome. La posò di fianco alle altre due, che subito porse ad Aberforth. Dunque si accinse ad aprire la propria lettera.

MAGIE AVANZATE DI GRADO OTTIMALE

Voti di promozione: Eccezionale (E)

                         Oltre Ogni Previsione (O)

                         Accettabile (A)

Voti di bocciatura: Scadente (S)

                         Desolante (D)

                         Troll (T)

 

ALBUS PERCIVAL WULFRIC BRIAN DUMBLEDORE HA CONSEGUITO:

Antiche Rune: E

Aritmanzia: E

Astronomia: E

Babbanologia: E

Cura delle Creature Magiche: E

Difesa Contro le Arti Oscure: E

Erbologia: E

Incantesimi: E

Pozioni: E

Trasfigurazione: E

Storia della Magia: E

 

Albus sospirò, abbandonandosi sullo schienale della sedia. Non era una sorpresa, in fondo: Gridelda Marchbanks – che l’aveva esaminato in Incantesimi e Trasfigurazione – non aveva nascosto la propria ammirazione nei confronti del giovane Dumbledore, e lo stesso avevano fatto gli altri insegnanti che avevano dovuto mettere alla prova le sue indubbie capacità.

Si poteva dire soddisfatto, naturalmente, ma entro certi limiti. Erano senz’altro dei risultati incredibilmente meritevoli, ma a cosa gli sarebbero serviti, se la sua condanna era trascorrere fra le case grigie di Godric’s Hollow il resto dei suoi giorni?

“Tutte E, suppongo.”

Nell’udire la voce di Aberforth, Albus sollevò la testa dalla pergamena e annuì. Poi porse la mano, e Abe gli consegnò i risultati dei propri G.U.F.O., che il maggiore si accinse a leggere.

 

Astronomia: O

Babbanologia: O

Cura delle Creature Magiche: E

Difesa Contro le Arti Oscure: E

Erbologia: O

Incantesimi: O

Pozioni: O

Trasfigurazione: A

 

Albus sollevò gli occhi dal foglio, accigliato. “A cosa è dovuto questo Accettabile in Trasfigurazione, Abe?”

L’altro scrollò le spalle, indifferente. “Odio Trasfigurazione,” si limitò a borbottare in sua discolpa.

“Sei cosciente che non potrai continuare a seguire la materia con un voto inferiore a Oltre Ogni Previsione?”

“Sì.”

“E la cosa neanche ti sfiora?”

Improvvisamente, Aberforth gli scoccò un’occhiata furiosa. “Sai cosa neanche sfiora te, Albus?”

“Sentiamo,” lo provocò lui, incrociando le braccia sopra al tavolo e stringendo gli occhi oltre le lenti degli occhiali.

“Non ti sfiora neanche l’idea che al mondo esista qualcosa di più importante di te e dei tuoi perfetti risultati scolastici! Che esista qualcosa oltre al successo e alla celebrità!”

Albus scattò in piedi, serrando le dita attorno al bordo del tavolo. “Ti rendi conto che stiamo parlando del tuo futuro, Aberforth?” respirò bruscamente, irato. “Ti rendi conto di quanto sia importante una buona valutazione in Trasfigurazione per qualsiasi strada tu voglia intraprendere?!”

“No litigate,” mormorò Ariana nervosamente. “No. Non mi piace.”

“Albus, al mondo non esisti solo tu! Ci sono persone che hanno idee diverse di futuro, idee diverse su cosa conti davvero nella vita! E vuoi saperla una cosa? Una di quelle persone sono io!”

Adesso anche Aberforth si era alzato in piedi. Il suo volto era del tutto contratto, quasi stesse per scoppiare in lacrime.

Albus si sentiva accecato dall’ira.

“Pensa a cosa direbbe la mamma, Aberforth!” ringhiò. “Mi stai urlando addosso!”

“Non osare nominare la mamma,” sibilò Aberforth, rosso in volto. “Tu ti senti sacrificato a essere qui con noi, invece che in giro per il mondo a mostrare i tuoi talenti a qualunque cretino che si dimostri interessato! E se davvero amassi me e Ariana non ti comporteresti in questo modo! Non ci faresti penare ogni giorno per averti costretto a stare qui con noi!”

“Io amo te e Ariana!” protestò Albus.

Aberforth scoppiò in una risata amara. “Oh, no, Albus. Tu ami solo e unicamente te stesso.”

“Ti sbagli!”

“Allora inizia a dimostrarlo!”

Vennero entrambi distratti da un singhiozzo improvviso. Sulle guance di Ariana le scie delle sue lacrime luccicavano alla luce del sole, che faceva capolino oltre le tende socchiuse della finestra. La furia sul volto di Aberforth fu repentinamente sostituita da una profonda angoscia, mentre si precipitava al fianco della sorella e la stringeva fra le braccia.

“Va tutto bene, Ariana,” mormorò dolcemente. “Va tutto bene.”

Albus, colpito e costernato, rimase immobile a osservare i fratelli mentre a poco a poco i singhiozzi di Ariana si placavano e il suo respiro si faceva più regolare. Sapeva che avevano evitato una crisi solo per un pelo.

Aberforth levò il capo su di lui. I suoi occhi azzurri erano velati di lacrime.

“Non farci questo, Albus,” mormorò.

Spinto da chissà quale istinto, Albus si alzò e raggiunse i fratelli. Li circondò con le braccia, stringendoseli al petto.

 

Si sentiva profondamente colpevole, ma non sapeva quanto tale consapevolezza fosse fuggevole di natura. Se ne sarebbe presto andata così come era venuta.

 

 

 

****

 

“Sei triste, Albus?”

Alla domanda di Gellert, Albus sollevò lo sguardo dalla spiga di grano con cui stava giocherellando quasi per caso. I chicchi, avvolti nei loro involucri, erano picchiettati dall’arancio e dall’oro del sole calante.

Anche i capelli di Gellert riflettevano i raggi del sole.

“Perché mi fai questa domanda, Gellert?” replicò, cauto.

L’altro sollevò la testa per guardarlo in volto.

Questa volta era stato Albus ad appollaiarsi in cima alla staccionata, il volto carezzato dal vento e nell’anima un profondo senso di vuoto. Chissà come, Gellert era parso percepire il suo stato d’animo, giacché non aveva fatto alcun tentativo di iniziare una conversazione. Si era limitato a lasciarsi cadere ai piedi della staccionata, poggiando la schiena su di essa e chiudendo gli occhi, apparentemente perso nei propri pensieri.

“Perché ti vedo assente,” replicò in tono quieto. “Che cosa succede?”

Albus deglutì. Quel senso di vuoto da un momento all’altro l’avrebbe fatto scoppiare. Dentro di sé percepiva il deserto, oppure una folla di persone sconosciute. Aveva bisogno di sfogarsi, di lasciare che le parole scorressero come un fiume, portando via anche un po’ della sua desolazione – solo che non lo sapeva ancora: neanche con Elphias era mai riuscito ad aprirsi e a dare spazio a tutto ciò che provava.

“Ho,” deglutì, stranamente incerto. “Ho litigato con Aberforth, stamattina.”

“Ah,” Gellert annuì, volgendo lo sguardo all’orizzonte. “Ne vuoi parlare?”

“Sì,” mormorò Albus. “Credo di sì.”

Gellert si alzò in piedi e si arrampicò al suo fianco sulla staccionata. “Come mai avete litigato?”

“Sono arrivati i risultati dei nostri esami scolastici.”

“Ah... Penso sia inutile chiederti come tu sia andato. Avrai senz’altro ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie.”

Albus gli rivolse un sorriso stentato. “Beh, sì. Anche i voti di Abe non sono poi così tremendi... fuorché in Trasfigurazione. Una sufficienza sputata.”

“E avete litigato per questo?”

“Non solo.” Albus sospirò. “Mi ha accusato di essere un egoista. Di amare solo me stesso. Di non preoccuparmi minimamente dei sentimenti altrui.”

“Ha ragione di dire cose simili?”

“In un certo senso.”

Gellert lo fissò. “Non riesce a capire quanto è doloroso rinunciare al tuo futuro, vero?”

“Esatto,” Albus annuì. “Non capisce.”

L’altro lo guardò intensamente. “Albus, lui non può capire.”

Annuì ancora. “Ariana ha quasi avuto una crisi,” proseguì. “È rimasta colpita dal vederci discutere. Abe è riuscito a calmarla quasi per miracolo.”

Stava guardando da un’altra parte quando sentì la mano di Gellert posarsi sulla sua.

“Che cosa è successo ad Ariana, Albus?”

Per un istante, esitò. Kendra non sarebbe stata felice vedendo suo figlio parlare delle loro vicende familiari con qualcuno che in fin dei conti conosceva appena. Tuttavia... aveva la sensazione di essere amico di Gellert da sempre. Fra loro c’era un’affinità d’animo che era impossibile ignorare.

“Era solo una bambina,” esordì. “Giocava in giardino e produceva della magia involontaria. Dei ragazzi Babbani passavano di lì e udirono delle piccole esplosioni... l’hanno vista compiere magia e si sono spaventati. L’hanno aggredita. Lei... lei ha subito dei gravi traumi. Anche adesso è fortemente instabile, un qualsiasi evento fuori dalla norma fa esplodere tutti i suoi poteri.” Sospirò. “Mio padre aggredì quei ragazzi Babbani. Fu spedito ad Azkaban. È... è morto lì.”

Gellert pareva sinceramente colpito. Lo guardava con occhi tristi, estremamente partecipe del suo dolore.

“Posso capire,” mormorò. Il suo sguardo si accese: “È tutta colpa dello Statuto di Segretezza!” quasi gridò. “Se non fosse mai esistito niente di tutto ciò sarebbe avvenuto. Ariana starebbe bene. Tu avresti un futuro.”

“Vale la stessa cosa per te,” indovinò Albus.

“Se mai dovessi diventare una persona influente,” disse Gellert, “farei in modo che venisse abolito.”

“Gellert,” replicò lui tristemente, “non è una cosa possibile, purtroppo.”

“Io invece dico che lo è.” Respirò profondamente. “Babbani e maghi potrebbero vivere in armonia.”

Albus scosse la testa. “In che modo?”

“Noi maghi dovremmo avere il potere. Abbiamo più mezzi dei Babbani, potremmo riuscire a mantenere la pace. Dovrebbe essere una convivenza pacifica.”

Albus ci pensò un po’ su prima di ribattere. “Il problema,” disse lentamente, “sta nel come raggiungere il potere.”

Gellert lo guardò dritto negli occhi. “Noi potremmo,” disse poi. “Noi due. Insieme.”

Era una prospettiva utopica, certo, ma senz’altro molto allettante.

Ariana non avrebbe più dovuto vivere segregata. Lui avrebbe potuto ottenere il futuro che desiderava... ma non in solitudine. Mai più in solitudine.

“Gellert,” chiese. “Pensi davvero che sia possibile?”

L’altro gli rivolse un sorriso disarmante. “Per noi, sì.”

 

 

****

 

Gellert,

la nostra conversazione riguardo alla convivenza pacifica fra Babbani e maghi è stata davvero interessante. Mi piacerebbe parlarne ancora.

Purtroppo domani non potrò venire al nostro appuntamento. Tuttavia, mi farebbe piacere se venissi qui per un tè. Così potrai conoscere Aberforth e Ariana.

A. D.

 

 

Albus,

accetto volentieri il tuo invito!

G.

 

 

Ne sono lieto.

Albus

 

 

 

 

 

Note dell’Autrice

 

E siamo giunti alla fine del capitolo nove. Se esprimete un parere non mordo mica, eh! ;)

A presto,

Daph

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Capitolo 10
*** X. La stanza di Albus ***


Capitolo 10

“La stanza di Albus”

Gellert si sentiva decisamente euforico.

Parlare con Albus delle tragiche vicende familiari di quest’ultimo aveva in qualche modo fatto sì che ogni pezzo andasse definitivamente al posto che gli spettava. Il destino stava mandando al suo prescelto un messaggio scritto a lettere ben chiare: il compagno a lui destinato per portare al compimento il Bene Superiore possedeva anche quest’ultimo requisito necessario – un movente personale che lo spingesse a ricercare una definitiva e pacifica convivenza fra Babbani e maghi.

Gellert aveva sete di potere, Albus sete di giustizia. Insieme avrebbero potuto fare grandi cose.

Per questa serie di motivi l’umore di Grindelwald era dei migliori mentre raggiungeva a pochi passi la casa in cui Albus abitava, immediatamente accanto a quella di Bathilda.

“Dove vai?” gli aveva chiesto l’amorevole zia, vedendolo infilare la porta d’ingresso. “Hai appuntamento con Albus?”

“Mi ha invitato per il tè!” aveva risposto Gellert baldanzoso, prima di schioccare a Bathilda un rumoroso bacio sulla guancia. La zia si era imporporata in volto, e aveva espresso la propria contentezza con grande entusiasmo.

“Sono davvero felice che tu abbia trovato un amico!” erano state le sue liete parole. “Sapevo che Albus aveva la stoffa per andare d’accordo con te.”

Per quanto ingenua, la zia era stata decisamente lungimirante.

Gellert non ebbe bisogno di suonare il campanello, giacché, non appena giunse davanti al cancelletto che imprigionava il fazzoletto di giardino infestato da erbacce, trovò Albus in piedi sull’ultimo dei gradini che conducevano alla veranda, la sua figura che si stagliava scura contro la luce smorta di quel pomeriggio dal cielo coperto.

Sembrava quasi che il sole avesse compreso che per quel giorno il campo di grano non avrebbe ospitato i due giovani, e che si fosse per questo disteso a riposare dietro alla fitta coltre di nubi grigiastre.

I capelli ramati di Albus erano raccolti nella solita coda bassa sulla nuca, i suoi occhi brillavano attraverso le lenti a mezzaluna degli occhiali. Il suo viso affilato era appena rallegrato da un quieto sorriso, ma le sopracciglia aggrottate erano indice di un certo nervosismo. Gellert dedusse che il litigio con Aberforth del giorno prima non fosse stato ancora del tutto stemperato.

“Gellert,” lo salutò l’amico. “Entra pure.”

Tirò il chiavistello e si fece strada lungo il viottolo. In veranda, Albus lo accolse con una mano posata fraternamente sulla spalla.

“Sono lieto di vederti,” disse.

“Anche io, Albus,” rispose lui con sincerità. “Anche io.”

L’altro gli sorrise e inclinò appena il capo, prima di aprire la porta d’ingresso e spostarsi di lato per farlo passare.

L’ingresso che accolse Gellert era molto simile a quello della casa di Bathilda, che doveva evidentemente essere strutturata allo stesso modo. L’ambiente era in penombra, una luce a metà che parlava di quieta frescura. Da una stanza lontana provenne l’eco di una risata. Albus strinse le labbra, quasi seccato, e Grindelwald ebbe l’impressione che se ne sentisse escluso. Lo vide poi levare gli occhi su di lui, sentendosi attraversato dal suo sguardo limpido e penetrante.

“Vuoi conoscere i miei fratelli?” gli domandò a mezza voce.

“Con grande piacere,” rispose.

Le dita fredde di Albus si chiusero gentilmente attorno al polso di Gellert, che lo seguì in silenzio lungo le scale. Dumbledore lasciò il suo braccio solo quando giunsero di fronte a una porta socchiusa, dalla quale faceva capolino un sottile spiraglio di luce.

Gellert si accorse di avere il fiato corto, ma non diede troppo peso alla cosa.

Albus bussò piano alla porta per annunciare la loro presenza, prima di distendere la mano sul legno scuro e spingere l’anta, che si aprì su di una stanza non troppo grande ma pulita e luminosa. Dai disegni infantili appesi alle pareti e le tendine rosa chiaro, Gellert dedusse che si dovesse trattare della camera da letto di Ariana.

Dunque posò lo sguardo sul tappeto di fronte al letto e per la prima volta vide i fratelli di Albus.

Aberforth dimostrava pienamente i suoi quindici anni. Somigliava moltissimo ad Albus nei lineamenti, sebbene fosse più robusto del maggiore. Aveva i suoi stessi occhi azzurri, ma non portava gli occhiali; i capelli erano dello stesso colore, ma più corti e scompigliati.

La cosa più diversa da Albus, tuttavia, era la sua espressione. Al loro ingresso aveva levato il capo per guardarli, e Gellert aveva potuto notare come le sue sopracciglia fossero aggrottate in una smorfia sospettosa. Aveva un’aria più rude e selvatica del fratello, più che a una volpe lui somigliava a un orso bruno.

Ariana era di spalle quando loro entrarono, ma Gellert ebbe appena il tempo di vedere una schiena esile sotto al vestito azzurro, ricci biondi liberi da nastri o forcine, prima che la ragazzina si voltasse verso di loro.

Aveva un bel viso pulito, dai lineamenti regolari. Non somigliava affatto ai fratelli, non fosse stato per la limpidezza dei suoi occhi azzurri, nei quali però albergava un’espressione ben diversa, in qualche modo spaesata. Sulle sue labbra rosee aleggiava un sorriso vago e quieto, quasi fosse lì con loro e al contempo in un luogo molto lontano.

“Ciao,” pigolò.

Albus le sorrise con dolcezza. “Ciao, Ariana. Questo è Gellert,” disse, indicandolo.

Ariana posò lo sguardo su di lui. “Ciao,” ripeté, sgranando i suoi occhi chiari.

“Ciao, Ariana,” disse Gellert, facendo eco alle parole di Albus. “Piacere di conoscerti.”

Il sorriso vago di Ariana si fece più largo. Non doveva essere abituata a sentire sconosciuti rivolgersi a lei normalmente, come se non fosse stata una squilibrata.

Gellert pensò di aver fatto una mossa intelligente.

Ariana si chinò sul foglio di carta che aveva davanti e aggiunse dei capelli biondi alla stilizzata figura umana che stava disegnando. Tracciò aggrovigliate spirali per rappresentare dei riccioli. Le bastarono pochi istanti, poi emise un versetto soddisfatto e porse il foglio a Gellert.

“Per te,” disse. “Tu.”

“Oh, grazie mille!” Gellert le sorrise ancora. “Sei davvero gentile.”

“Anche tu,” disse Ariana, tornando a sedere. “Comportati bene, visto che sei gentile.”

Nell’udire queste ultime parole, Gellert dovette fare un grande sforzo di autocontrollo per non sobbalzare. Si era reso conto improvvisamente del fatto che Ariana doveva avere una percezione diversa della realtà, in un certo senso più istintiva. Fargli dono di un disegno era stato un modo per sdebitarsi della gentilezza con cui le si era rivolto, e quell’accenno a comportarsi bene costituiva un ammonimento, quasi una velata minaccia.

Per fortuna, Albus sembrava non essersi accorto di nulla.

Aberforth, invece, aveva assistito a tutta la scena stringendo i suoi occhi lucenti.

Capì che non si sarebbe mosso di una virgola.

“Ciao,” disse, chinandosi per porgergli la mano. “Io sono Gellert.”

Aberforth la strinse con circospezione, scrutandolo attentamente, senza dar cenno di volersi alzare in piedi. “Aberforth,” mugugnò infine, prima di ritrarre bruscamente la mano.

Bastò quella parola digrignata fra i denti per rendere Gellert cosciente di un importante fattore: Aberforth Dumbledore non si fidava affatto di lui. In sua presenza avrebbe dovuto agire con cautela.

“Vieni, Gellert,” disse Albus. “Ti faccio vedere il resto della casa.”

Si trattava di una scusa bella e buona per andarsene di lì – Gellert lo capì all’istante.

Albus lo condusse fino al lato opposto del corridoio, dove gli fece strada oltre l’ennesima porta scura. Gellert comprese immediatamente che quella era la stanza di Albus, poiché la prima cosa che poté notare entrando furono i libri.

I libri erano ovunque: ne era stipata la grossa libreria situata sul fondo della stanza, le numerose mensole, il ripiano della scrivania. In terra vi erano ordinate pile di volumi, e Gellert avrebbe giurato che gli scatoloni sotto al letto dalle lenzuola perfettamente lisce contenessero libri. Sul comodino di Albus catturarono la sua attenzione i tre libri che lui stesso gli aveva dato in prestito, vicino ai quali era posto un quadernetto dalla copertina nera, che aveva tutta l’aria di essere infarcito di appunti.

Gellert immaginò pagine leggermente ingiallite, ricoperte della sottile scrittura obliqua che aveva avuto modo di ammirare nelle lettere che Albus gli mandava. Lui non era così ordinato: scriveva a zampe di gallina, specchio del suo animo irrequieto.

Albus pareva essersi accorto del modo in cui Grindelwald divorava con gli occhi quella stanza, ma lo lasciò fare, in silenzio e immobile al suo fianco.

Gellert si soffermò sullo scrittoio, un bel mobile in mogano irto di cassettini. Notò le lettere che si era scambiato con Albus, impilate in una pila ordinata accanto alla penna d’oca ben pulita e al calamaio chiuso con attenzione. Da un cassetto socchiuso faceva capolino un’altra lettera, coperta di una scrittura diversa. Gellert suppose che fosse stata scritta da Elphias, il cagnolino da compagnia di Albus che adesso era in giro per il mondo.

Si chiese perché Albus tenesse le sue lettere bene in vista sul piano del tavolino, se al tempo stesso ammassava quelle di Elphias in un cassetto, ma poi capì.

Le lettere di Elphias Doge erano celate agli occhi perché Albus non indendeva vederle. Per lui erano specchio del passato ormai lontano e del futuro che aveva perduto: scatenavano sensazioni negative nel suo animo.

Le lettere di Gellert erano la speranza di un futuro ancora diverso, di una condivisione al posto della solitudine cui Albus era abituato. Teneva le lettere in vista perché facevano sì che in lui scaturissero sentimenti positivi, o comunque piacevoli.

Chissà perché, il pensiero scaldò un poco il cuore di Gellert.

Notò un armadio chiuso, sormontato da un grosso baule vuoto, che immaginò essere quello che Albus, per sette anni, aveva riempito ogni primo settembre per portare a Hogwarts tutto l’occorrente per la scuola.

Una volta portata a compimento la sua analisi della stanza, Gellert si volse in direzione di Albus, il quale sorrise.

“È come immaginavi?” gli chiese.

Anche Grindelwald sorrise, scrollando le spalle. “All’incirca,” ammise. “Immaginavo che fosse ordinata e piena di libri.”

Era la verità: così si era immaginato la stanza di Albus. Ma non riusciva a trovare le parole per descrivere quella specifica sensazione che aveva provato entrando, quel curioso sentore di genio e giovinezza, l’odore polveroso di una strana e orgogliosa incoscienza. Era odore di legno, misteriosamente frammisto al profumo delle gialle ginestre che crescevano attorno alla strada che portava al campo di grano.

Albus accese con un colpo di bacchetta la lampada a olio della scrivania, e agitandola di nuovo evocò una comoda sedia per Gellert. Gli fece cenno di accomodarsi, mentre egli stesso si sedeva a quella della scrivania.

Grindelwald pensò che si trattava della prima volta in cui Albus Dumbledore aveva compiuto una magia davanti ai suoi occhi, Aveva riconosciuto nelle sue movenze una sensazione che gli era propria, quella naturalezza nel compiere sortilegi che gli insegnanti spesso gli avevano riconosciuto negli anni passati a Durmstrang.

Albus parve accorgersi del suo sguardo, poiché sorrise quasi in segno di sfida e agitò ancora la sua bacchetta magica. Dalla punta scaturì una cascata di scintille dorate, che vorticando e contorcendosi si levò verso il soffitto fino a prendere la forma di una fenice, che spalancò il becco e cantò dolcemente, allungando il collo. Poi spiegò le ali e planò verso di loro, e sfiorando la spalla di Gellert produsse un suono come di campanellini argentati. Infine tornò verso il soffitto e si contorse su se stessa ancora una volta prima di svanire con un piccolo sbuffo di fumo.

Grindelwald capì cosa volesse dire quello sguardo divertito: una sfida a chi avrebbe saputo produrre l’incanto più bello e soprendente.

Estrasse la bacchetta, pensando che la risposta fosse più semplice di scintille dorate e una fenice che sbatteva le ali.

Scoppiò a ridere fragorosamente, e guardò Albus dritto negli occhi prima di mormorare: “Expecto Patronum.”

Dalla punta della sua bacchetta una volpe argentea capitombolò sul pavimento e prese a saltellare allegra per la stanza, annusando la trapunta del letto e le gambe della scrivania. La sua coda soffice e lucente carezzava il folto tappeto e il pavimento piastrellato.

Gellert guardò Albus, che osservava con un lieve sorriso impresso sulle labbra la volpe aggirarsi per la stanza. Ricordò distrattamente quanto l’amico gli fosse parve simile al piccolo animale la cui forma prendeva il suo Patronus.

Mosse la bacchetta, e la volpe sparì.

“Bella scelta,” commentò Albus. “Naturale ma proprio per questo sorprendente.”

“Oh, ho apprezzato anche le tue scintille dorate,” Gellert ricambiò il suo sorriso. “Un incanto di tua invenzione, suppongo.”

“È molto semplice,” Albus scrollò le spalle. “È bastato trovare il modo di associare le idee dell’oro e della fenice all’incanto per le comuni scintille.”

“Semplice ma comunque geniale,” mormorò Gellert. “Che forma assume il tuo Patronus?” chiese poi a voce più alta.

“Quella di una fenice,” fu la risposta.

Si disse che non avrebbe dovuto esserne così sorpreso.

La cosa più sorprendente era che il Bene Superiore non fosse stato il suo unico pensiero quando aveva prodotto il suo Patronus.

****

Gellert,

alla fine non abbiamo fatto in tempo a parlare dell’argomento che più mi preme, ma spero che potremo rifarci domani. Alle cinque al solito posto?

Mi piace molto la forma che assume il tuo Patronus. È curioso, chissà perché non avrei mai immaginato che fosse una volpe.

A.

Albus,

confermo per domani, cinque al solito posto.

Io ti ripeto che le tue scintille dorate sono una gioia per gli occhi. Domani voglio vedere il tuo Patronus, niente scuse!

Suppongo che l’argomento che più ti preme sia quello relativo alla convivenza pacifica fra Babbani e maghi.

G.

Esattamente.

Come ti sono parsi i miei fratelli?

A.

Albus,

Ariana è stata molto dolce a farmi dono di quel disegno. Invece non credo di stare molto simpatico ad Aberforth.

G.

Gellert,

non preoccuparti per Abe, è fatto così. Un sospettoso di natura.

A.

Albus,

lo immaginavo. A domani.

G.

Buonanotte.

Albus

Note dell’Autrice

Se c’è qualcuno che ancora segue questa storia, mi scuso enormemente per il ritardo. La spiegazione è semplice: sono stata in vacanza! D’ora in poi farò sempre in modo di avere almeno un capitolo pronto al momento di postare, così da evitare ritardi. Ci vediamo fra una settimana!

Bisous!

Daphne

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Capitolo 11
*** XI. Proponimenti ***


Capitolo 11

“Proponimenti”

 

“Non mi piace.”

Albus trasse una lunga sorsata dalla sua tazza colma di tè. Deglutì con calma, per poi sollevare su Aberforth i suoi occhi chiari e penetranti. Quest’ultimo sostenne lo sguardo del maggiore con uno identico al suo.

“Di che cosa stai parlando?” rispose, serafico.

“Non dirmi che non lo sai,” replicò l’altro in tono caustico.

Albus strinse le labbra. “C’è qualche motivo in particolare per cui Gellert non ti piace?”

Abe fece una smorfia, storcendo la bocca. “Non mi ispira fiducia.”

Le sopracciglia fulve del maggiore si inarcarono nette. “Che cosa intendi dire, Aberforth?” ribatté, imprimendo nella propria voce quanto più gelo possibile.

Con quale coraggio quel ragazzino veniva a parlargli a quella maniera? Come poteva pensare di sottrarre a lui, suo fratello, l’unica consolazione rimastagli in quei giorni eterni di eterne case grigie?

Aberforth avrebbe dovuto volere la sua felicità, pensò.

“Non intendo dire una cosa in particolare.” Il quindicenne sbuffò, seccato. “Voglio dire che mi dà l’impressione di essere un... un falso. Come se facesse il doppiogioco.”

“Gellert non è un doppiogiochista,” affermò Albus con decisione.

“Se almeno mi lasciassi spiegare!” Aberforth batté la mano aperta sul piano del tavolo, esasperato.

“Fai piano,” lo rimproverò lui freddamente. “Che svegli Ariana.”

Abe parve ferito. “Non voglio svegliare Ariana.”

C’era qualcosa che Aberforth aveva ereditato da Kendra in maniera tanto evidente da incutere quasi spavento. Era quel modo di dire una cosa e allo stesso tempo comunicarne un’altra, con tanta palese e decisa onestà da lasciare interdetti, lì per lì. Un’affermazione come questa... Non voglio svegliare Ariana, aveva detto Abe, e al contempo tutto – la sua espressione, il dolore che si leggeva nei suoi occhi, la sua postura tesa e guardinga – aveva trasmesso anche qualcos’altro: Non voglio che Ariana soffra o che le accada qualcosa di male.

“Non si sveglierà,” decise Albus, perentorio, soffocando la rabbia innaturale che sembrava averlo aggredito dall’interno. “Spiega, allora. Su!”

“Mi sembra che la sua non sia un’amicizia disinteressata,” disse in fretta Aberforth.

Albus rimase impassibile. “Hai informazioni fondate su cui basare questa tua deduzione?”

Abe scosse la testa. “Te l’ho detto,” fece, stizzito. “Più che altro è una mia sensazione.”

“Credi che io debba interrompere un’amicizia sulla base di una tua supposizione?” il tono di Albus suonò severo.

“Lo vedi che non mi ascolti?” sbottò Aberforth. “Volevo solo dirti di fare attenzione. E poi lo conosci da neanche un mese. Io sono tuo fratello da quindici anni. Non credi che io sia più meritevole della tua fiducia?”

“Mi è passata la fame.” Albus allontanò bruscamente la sua tazza di tè e fece per dirigersi al piano di sopra.

“Si vede che sei in difficoltà,” sibilò Abe. “Altrimenti non te ne scapperesti così.”

Albus rimase immobile, dando le spalle al fratello minore.

“E si vede che ho ragione,” proseguì l’altro, “proprio perché sei in difficoltà.”

Non poteva continuare a ignorarlo: si volse di scatto. “Chi sei tu per pensare di potermi dare consigli?” mormorò, rabbioso.

Sul volto di Abe fece capolino di nuovo quella strana smorfia contratta. “Sono tuo fratello.”

 

 

****

 

“Aberforth diventa sempre più maligno,” si sfogò Albus.

Gellert lo osservò con aria meditabonda. Poggiava il gomito sul muretto a secco che limitava il giardino di Bathilda. Doveva aver dormito poco la sera precedente, poiché i suoi occhi erano cerchiati e la pelle del suo volto pallida persino più del solito.

“Suppongo sia per questo motivo che ti sei precipitato qui alle nove del mattino,” osservò con voce arrochita.

Albus lo guardò, dispiaciuto e anche appena amareggiato. “Non vorrei averti disturbato.”

“Figurati.” L’altro sorrise, anche se stancamente. “Vederti è sempre un piacere.”

Il giovane Dumbledore si crogiolò nello strano calore che si era diffuso improvvisamente all’altezza del suo stomaco. Per un momento temette di aver gorgogliato dalla contentezza, ma a giudicare dall’aria impassibile di Gellert doveva essere riuscito a contenersi.

“Forza,” riprese Grindelwald. “Che cosa è accaduto?”

Albus lo soppesò con lo sguardo per alcuni istanti, esitante. “Non vorrei metterti a disagio,” lo avvisò. L’altro fece un gesto con la mano, come a dire che non aveva importanza, quindi Albus proseguì. “Abe crede che tu non sia degno di fiducia.”

Uno strano silenzio ristagnò per una frazione di secondo, poi Gellert scrollò le spalle. “Avevo avuto l’impressione di non essere fra le sue simpatie,” assentì, tranquillo.

Albus quasi sospirò di sollievo.

“Ha detto su cosa basa questa sua supposizione?” domandò poi l’altro, sempre serenamente.

“Dice di avere la sensazione che la nostra amicizia non sia... disinteressata, da parte tua.”

Gellert sorrise, di quel suo sorriso che coinvolgeva anche il resto del volto e tutto il suo corpo. “Aberforth non manca d’intuito,” commentò. “In un certo senso ha ragione.”

Albus non era sicuro se stesse o meno scherzando. Probabilmente no: Gellert non aveva mai scherzato – o se l’aveva fatto, nelle sue parole c’era sempre stato un fondo di verità.

Tacque, attendendo che l’altro proseguisse il suo discorso.

“Non esistono amicizie disinteressate, Albus.”

Nel frattempo, il villaggio aveva iniziato ad animarsi. Lungo la via sulla quale si affacciava la casa di Bathilda – anche quella dei Dumbledore, a dire il vero – gli abitanti di Godric’s Hollow si muovevano in lungo e in largo. Il continuo cicaleccio da loro provocato arrivava sino alle orecchie dei due giovani.

Albus non aveva fatto in tempo a metabolizzare le parole di Gellert che questi proseguì.

“In tutte le amicizie si dà e si riceve,” proseguì. “Ricordi quando abbiamo parlato del concetto di amicizia?”

Albus lo ricordava perfettamente. Gellert si riferiva al loro primo scambio epistolare realmente significativo, che risaliva a neanche venti giorni prima.

Sembra che siano trascorsi secoli.

Annuì.

“In quell’occasione, mi hai scritto che essere amici significa non chiedere nulla in cambio, ma ricevere qualcosa in cambio comunque.” Gli rivolse un sorrisetto sghembo. “Non è forse questo un concetto di amicizia in qualche modo interessato? Se consideri qualcuno tuo amico, confidi nel fatto che quella persona ti darà qualcosa in cambio anche se tu non chiedi alcunché.”

Albus non trovò nulla da obiettare.

“Ti sei rivelato d’accordo anche sul fatto che due amici hanno bisogno l’uno dell’altro. Non si tratta forse dello stesso concetto? Se due amici hanno bisogno l’uno dell’altro, quel qualcosa che si daranno in cambio sarà l’uno all’altro. Aberforth ha ragione, in un certo senso. La nostra è un’amicizia interessata perché io ho bisogno di te e tu di me.”

Il cuore di Albus prese a battere furiosamente. Più di quanto avrebbe dovuto.

“I tuoi sofismi sono eccezionali, Gellert,” si complimentò. “Sapresti vendere bacchette magiche alla Morte in persona.”

Sul volto dell’amico si aprì un sorrisetto enigmatico. “La Morte in persona, hai detto?”

Albus scrollò le spalle. “Solo un vecchio detto.”

Gellert annuì distrattamente. “Ti va di entrare? Bathilda sarà lieta di vederti.”

“Se non è di troppo disturbo...”

L’altro rise. “Ma figurati!” Afferrò il gomito di Albus e se lo trascinò dietro all’interno dell’abitazione. Dumbledore non poté fare a meno di notare quanto apparisse improvvisamente allegro.

Senza lasciare il suo gomito, Gellert zigzagò rapidissimo da una stanza all’altra. Infine fece capolino dalla porta di una di esse, parlando ad alta voce: “Zietta, Albus è qui!”

Quest’ultimo faticò un po’ a trattenere un risolino nel vedere come Gellert vezzeggiava Bathilda, che d’altro canto pendeva dalle sue labbra.

“Oh, che piacere!” sorrise Bathilda, sinceramente lieta, sollevando il naso dalle pergamene che stava esaminando e togliendosi il paio di occhialetti dalla montatura dorata che indossava. “Come stai, caro? E i tuoi fratelli?”

Albus sorrise. “Oh, si può dire che tutto procede bene.”

“Mi fa piacere, mi fa piacere...” la voce di Bathilda si affievolì, mentre la sua proprietaria gettava uno sguardo anelante alle pergamene appena abbandonate. “Ragazzi, vi dispiace se...”

“Oh, no, assolutamente!” Gellert si avvicinò alla zia e le pose un bacio sulla fronte. “Non avevamo intenzione di disturbarti.”

“Ma non mi avete disturbata affatto,” sospirò la donna, scrutandoli con affetto. “Questo libro sarà un successo, vi assicuro. Ho anche pensato al titolo.”

“Su cosa è ricaduta la scelta?” domandò Albus, non solo per cortesia: riteneva gli studi storici di miss Bagshot davvero interessanti.

Storia della Magia!” annunciò loro Bathilda con una certa soddisfazione. “Semplice, ma di effetto!”

“Non c’è che dire!” si complimentò Albus. “Davvero appropriato!”

Gellert parve agitarsi, in piedi lì dov’era. “Non ti distogliamo oltre, zietta,” annunciò, ammiccando. Quindi afferrò di nuovo il gomito di Albus, trascinandolo fuori dalla stanza. La risata divertita di Bathilda si udì anche in corridoio.

“Perché mi hai trascinato via?” protestò Albus senza essersene rammaricato affatto. “Poteva anche darsi che fossi interessato a ciò che–”

Gellert lo azzittì posandogli due dita sulle labbra, giocoso. “La parte del complimentoso ti si addice, Albus!”

“Non facevo la parte del complimentoso,” rise lui. “Lo trovo davvero un titolo semplice, d’impatto e appropriato!”

Gellert rise a propria volta, e Albus si sentì bene.

 

 

****

 

Per il giorno successivo avevano in programma di tornare al campo di grano, dove non si recavano ormai da qualche giorno, ma un diluvio inaspettato ostacolò i loro piani.

La pioggia cadeva scrosciante su Godric’s Hollow, tamburellava i tetti delle case e ingrigiva gli angoli delle strade. Gellert Grindelwald sostava in piedi di fronte alla finestra della propria stanza, rimuginando su torbidi pensieri. D’un tratto, oltre il vetro rigato di pioggia, gli parve di scorgere una figura che procedeva lungo la via, sollevando piccoli schizzi con le suole dei suoi stivali. La figura – misteriosa e irriconoscibile in quella cortina di pioggia – virò con decisione in direzione della casa di Bathilda. Proprio mentre si accostava alla porta, Gellert udì il trillo del campanello.

Le sue labbra si incurvarono automaticamente in un sorriso. Aveva capito chi fosse ancor prima di vederlo fermarsi di fronte a casa Bagshot.

Era felice di vederlo. Ogni volta che vedeva Albus Dumbledore, il Bene Superiore si avvicinava di un altro passo.

O forse sono io che assieme a lui riesco a camminare più rapido verso il mio obiettivo?

Non l’avrebbe mai creduto possibile, ma il suo infallibile istinto da prescelto gli suggeriva che fosse così.

Gli suggeriva di passare più tempo possibile con Albus, glielo suggeriva continuamente.

“Gellert!” la voce della zia riecheggiò dal piano di sotto. “C’è Albus!”

Si mosse dalla finestra, uscì dalla stanza e scese in fretta le scale, giusto in tempo per udire Bathilda rivolgersi al giovane Dumbledore. “Sarai tutto infreddolito, povero caro. Da pazzi uscire di casa con questo diluvio! Lo sai, vero?” Il tono era di affettuoso rimprovero.

Ma, come Gellert poté constatare, i capelli di Albus erano perfettamente asciutti: rossicci e raccolti nella solita coda, cui alcune ciocche sfuggivano sfiorando zigomo e mascella del ragazzo. L’unico indizio del fatto che avesse camminato nella pioggia fitta fino a quel momento erano i suoi stivali bagnati, che Albus stava educatamente sfregando sullo stuoino. Emanava odore di pioggia, fresco e lievemente pungente.

“Un Impervius perfettamente svolto, suppongo,” disse, e non appena ebbe parlato la testa di Albus scattò nella sua direzione, come quella di una volpe che coglie una pista inaspettata.

Gli occhi azzurri e penetranti di Albus si colmarono di gioia improvvisa. Gellert rimase lì dove si trovava, la mano ancora poggiata sul corrimano delle scale.

“Buongiorno anche a te, amico mio,” parlò Albus con la sua voce pacata. Ringraziò educatamente Bathilda e lo raggiunse sulle scale. Gellert, quasi senza pensarci, gli gettò un braccio attorno alle spalle e lo strinse brevemente a sé.

Quando sciolse l’abbraccio, gli occhi di Albus brillavano.

I due amici si diressero verso la stanza di Gellert, dove quest’ultimo si accomodò alla scrivania. Con naturalezza – perfettamente a proprio agio – Albus si pose accanto alla finestra. Per una frazione di secondo scrutò il cielo bigio e tempestoso che si intravedeva appena oltre il vetro, quindi volse il capo in direzione di Gellert.

“Anche ieri hai studiato fino a tarda notte?” gli si rivolse.

“No,” ammise Gellert. “Ho messo il punto all’ultima lettera che ci siamo scritti e ho fatto appena in tempo ad affidarla a Giselle prima di addormentarmi di sasso.”

“Un po’ di riposo non può che farti bene,” osservò Albus.

Gellert gli scoccò un’occhiata a metà fra l’esasperato e il divertito. “Sembri zia Bathilda.”

Albus alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, teatralmente afflitto.

Grindelwald lo squadrò per alcuni istanti, prima di decidersi a parlare. “Qual’è la tua fiaba preferita, Albus?”

Interiormente gli pareva di conoscere la risposta, e desiderava con tutto il cuore che fosse quella in cui confidava.

Sul volto di Dumbledore passò appena un’ombra di perplessità, prima che il ragazzo facesse un mezzo sorriso. “La storia dei Tre Fratelli.”

Gellert dovette trattenersi per non sorridere trionfante. “Come mai?” tentò di soffocare la trepidazione che si avvertiva nella sua voce.

Albus gli scoccò un’occhiata penetrante. “Mi piace l’idea che tre maghi siano stati abbastanza accorti e capaci da essere in grado di sfidare la Morte in persona. Apprezzo l’audacia del primo fratello, la capacità di amare del secondo e l’arguzia del terzo.”

Gellert gli rivolse un sorrisetto storto. “Sarebbe bello, eh? Sei Doni della Morte esistessero davvero.”

Un bagliore bramoso parve attraversare gli occhi di Albus.

“Potrebbero essere l’arma che cerchiamo,” gli fece notare Grindelwald, sicuro di essere sulla strada giusta. “I Doni della Morte potrebbero aiutarci a raggiungere il nostro obiettivo. La convivenza pacifica fra Babbani e maghi.”

Albus annuì. “Sarebbe bello. Peccato che sia una fiaba.”

Gellert levò gli occhi su di lui. “Il terzo fratello si chiamava Ignotus Peverell,” buttò lì.

L’altro aggrottò le sopracciglia. “Questo è un nome che mi sembra di avere già udito.”

Gellert gli lanciò un’occhiata sbiega. “Viveva a Godric’s Hollow,” disse. “Tanti e tanti anni fa.”

 

 

****

 

Gellert,

credo che sia opportuno dirigersi come prima cosa al cimitero, non appena farà bel tempo. DOBBIAMO trovare la tomba di Ignotus. Se davvero lui e i suoi fratelli sono stati in grado di fabbricare artefatti del genere – dubito dell’intervento della Morte stessa – sulla sua lapide DEVE esserci qualcosa. Un segno, un indizio, qualcosa che riconduca ai Doni.

Non sei d’accordo?

A.

 

 

Albus,

sono pienamente d’accordo con te.

Ci pensi? Pensi a dove potremo arrivare, io e te, con i Doni della Morte?

G.

 

 

Il pensiero mi esalta, devo ammetterlo.

Spero che questa pioggia si plachi presto! Nonostante l’Impervius, temo di essermi buscato un raffreddore.

Albus

 

 

Riguardati, come direbbe zia Bathilda.

Non vedo l’ora di vederti.

G.

 

 

 

 

 

Note dell’Autrice

Mi scuso per l’indecente ritardo negli aggiornamenti, ma la scuola mi sta seriamente tenendo sotto torchio. Oggi riesco a postare perché ho deciso di non studiare. Mi sono autoprescritta un pomeriggio di riposo XD

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Ne sono abbastanza soddisfatta, ma mi rende anche un po’ insicura.

Bisous!

Daphne

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Capitolo 12
*** XII. Interludio ***


Capitolo 12

 

"Interludio"

 

 

 

 

 

Non posso crederci, Albus.

 

NON PUOI avere l'influenza!

 

G.

 

 

-

 

 

Gellert,

 

puoi dirlo forte.

 

(Immagino che già lo stessi dicendo forte. O forse no. Le mie capacità intellettive, cognitive, intuitive, riassuntive, etc… sono notevolmente rallentate a causa dell'influenza. Inibite.)

 

Odio avere l'influenza. Non riesco a respirare e mi gira la testa come se avessi bevuto una pinta di Firewhiskey.

 

A. D.

 

 

 

-

 

 

Oh, voi inglesi con questo Whiskey… Dimmi, hai mai assaggiato la Vodka della Strega?

 

G.

 

 

-

 

 

 

No. Mi piacerebbe provarla assieme a un flacone di antidoto alla febbre, però. In questo stato non sono in grado di badare ad Ariana. Abe non vuole lasciarla sola e perciò mi devo tenere la febbre…

 

A.

 

 

 

-

 

 

Lo stai facendo apposta. Vuoi che io legga fra le righe.

 

G.

 

 

-

 

 

 

Che devo farci! Mi annoio da morire, ecco perché le mie facoltà intellettive sono inibite.

 

A.

 

 

-

 

 

D'accordo, accompagnerò l'antidoto da febbre fino alla tua stanza.

 

Sempre se non ti dispiace.

 

G.

 

 

-

 

 

Potrebbe mai dispiacermi?

 

Albus

 

 

****

 

 

La fronte di Albus scottava e i suoi occhi erano lucidi. Gellert l'aveva trovato a girare barcollando per la casa, le mani gelate e lo sguardo abbacinato.

 

Nel vederlo, l'altro aveva schiuso le labbra in un accenno di sorriso, per poi passarsi una mano sulla fronte con espressione improvvisamente sofferente.

 

"Ma quanto sei testardo," mormorò Gellert fra sé, sorreggendolo mentre salivano le scale. "Non ti reggi in piedi."

 

"Mi reggo in piedi benissimo!" si difese l'altro con espressione indignata.

 

"Come no," replicò lui, piatto, e improvvisamente ebbe una gran voglia di ridere. "Forza, Albus. Ancora pochi gradini… Ci siamo quasi."

 

"Cosa ci fai tu qui?"

 

La voce che era risuonata per il pianerottolo suonò più tagliente di mille coltelli. Gellert si fermò, voltandosi con lentezza misurata.

 

Aberforth era lì, con quello sguardo chiaro che trapassava come una lama, tipico anche di Albus – certo, non di Albus in quel momento.

 

Gellert schiuse le labbra in un sorriso che non sfiorò gli occhi, mostrando leggermente i denti. Si sentiva improvvisamente irritato dal modo in cui quel ragazzino – quel moccioso – osava mettersi in mezzo, interporsi fra lui e Albus.

 

"Sto accompagnando l'antidoto alla febbre in camera di tuo fratello," replicò in tono cortese.

 

Aberforth lo fissò. "Albus non mi ha detto nulla."

 

"L'ha detto a me." Gellert chinò la testa. "Con permesso."

 

Con cautela, si voltò e sorresse Albus fino alla porta della sua stanza, la nuca come perforata dallo sguardo di Aberforth.

 

Non poté negare di sentirsi sollevato, quando la porta si fu chiusa alle sue spalle.

 

Riuscì a sospingere Albus fino al letto sfatto, dove lo costrinse a stendersi nonostante le proteste, per poi rimboccargli le coperte, provando una certa costernazione nello scoprirsi impiegato in simili premure. 

 

Forse la cosa più strana era la più totale mancanza di imbarazzo.

 

"Piantala di fare il bambino," redarguì Albus al suo ennesimo tentativo di protesta, che – come i precedenti – sfociò in un borbottio indistinto e delirante.

 

Sfiorò la fronte dell'amico con la punta delle dita: era bollente.

 

"Albus, Albus…" sospirò. "Razza di testardo."

 

L'altro lo guardò, lo sguardo improvvisamente più presente. "Gellert." Lo chiamò, rauco. Le sue labbra si distesero in un sorriso. "Grazie di essere qui."

 

"Non dire sciocchezze." Replicò Grindelwald. "Pensa a riposarti, d'accordo?"

 

"No." Albus abbandonò la testa sul cuscino. "Sei qui. Parliamo."

 

"D'accordo." Gellert sospirò, condiscendente. Si tolse il mantello e lo appoggiò allo schienale di una sedia, quindi si sedette sul bordo del materasso. "Prima bevi questo, però."

 

Infilò la mano in tasca, traendone un flacone di antidoto alla febbre – attinto dalla scorta di Bathilda; tolse il tappo sigillato e si sporse in direzione di Albus. "Ecco."

 

Con delicatezza – sorreggendogli la testa – versò fra le sue labbra socchiuse qualche goccia di medicina. Si concesse alcuni istanti per osservare il volto di Albus prima di sfilargli gli occhiali con attenzione.

 

Il suo volto era livido per la febbre, la sua pelle leggermente lucida di sudore. Lo sguardo nei suoi occhi appariva fosco e quasi assente, ma in qualche modo anche più brillante del solito. I capelli rossicci erano in disordine e gli sfioravano le spalle, ma Gellert si rese conto di preferirlo così, con i capelli sciolti.

 

Gli parve attraente, in qualche modo.

 

"Mi stai guardando?" Il rauco mormorio di Albus giunse all'improvviso, facendolo sobbalzare.

 

Gellert osservò la linea squadrata della sua mascella, gli zigomi affilati. "Me lo chiedi?" replicò, soprappensiero.

 

"Non ci vedo bene, senza occhiali," fece l'altro, a mo' di giustificazione.

 

Gellert si ritrovò a sorridere. "Certo, scusa." Sospirò. "L'avevo dimenticato."

 

"Mi fa così male la testa…"

 

"Ti passerà." Distrattamente, allungò un braccio e gli accarezzò una ciocca di capelli. "Hai preso l'antidoto, lascia solo che agisca…" Si ritrovò a sfiorare la linea della sua mascella. Così, istintivamente. "Non ci metterà molto."

 

Albus strinse gli occhi, come se si stesse sforzando di vedere meglio. "Quando andiamo a vedere il cimitero?"

 

"Presto," gli assicurò Gellert. "Non appena starai meglio."

 

Aveva pensato di andarci da solo, più tardi, poiché gli era parso di non riuscire più ad aspettare. Tuttavia, qualcosa gli diceva che non sarebbe stato giusto.

 

Gellert Grindelwald si fidava del proprio istinto. Fu per questo che promise.

 

"Te lo prometto."

 

Albus emise una risata stentata. "Grazie anche per questo. So che ti preme andare lì."

 

"Mi preme andarci con te."

 

A quelle parole, seguì qualche istante di silenzio. Gellert guardava Albus senza vederlo davvero, sentendosi lì ma anche lontano mille miglia – la cosa gli causò una breve, brevissima stretta al cuore. Continuava ad accarezzare i capelli di Albus senza pensarci, mentre questi lo guardava con la sua espressione abbacinata e febbricitante.

 

Gellert deglutì. "Vuoi provare la Vodka della Strega, allora?"

 

 

 

****

 

 

 

Tre giorni più tardi il cielo sopra Godric's Hollow era di un azzurro tenue e quasi esitante; il sole spandeva i suoi raggi sui tetti e sui campi, messo in ombra da qualche nube che di tanto in tanto attraversava il cielo. 

 

Albus si era completamente rimesso in sesto. L'unico segno della malattia che solo pochi giorni prima l'aveva colpito era una leggera raucedine e un velo di pallore ormai pressoché impercettibile. Aveva di nuovo raccolto i capelli in quella sua coda bassa sulla nuca – chissà come mai, la cosa procurò a Gellert un vago moto di fastidio. Temeva forse che quell'atmosfera strana, isolata, che si era formata mentre Albus era ammalato, potesse spezzarsi per una tale minuzia, un particolare così bislacco.

 

Ma non era quello il momento di pensare a simili facezie. 

 

Stavano procedendo lungo l'animata via centrale di Godric's Hollow, l'uno di fianco all'altro. Lo sguardo di Albus si perdeva talvolta a osservare i passanti, come se dopo quei tre giorni che aveva trascorso costretto a letto avesse bisogno di fare indigestione di vita vera. Gellert osservava la cosa con una punta di affettuoso divertimento. 

 

Trascorsero qualche altro minuto in silenzio, camminando vicini. Gellert di tanto in tanto sbirciava in direzione di Albus, aspettando una parola, una reazione… insomma, qualcosa. Ma Dumbledore continuava a distrarsi osservando quello che lo circondava. 

 

Si sentì pervaso da un improvviso nervosismo, accompagnato dal subitaneo impulso di afferrare Albus per le spalle e costringerlo a guardare lui

 

"Osservi la gente?" domandò in tono aspro.

 

Finalmente, l'altro gli gettò un'occhiata sorpresa. Quindi decise di soprassedere.

 

Diplomatico come sempre.

 

"Mi piace osservare la gente." Ammise Albus, voltando lentamente il capo come a voler raccogliere nel proprio sguardo tutto ciò che lo circondava. Gellert osservò il riflesso delle case sulle lenti dei suoi occhiali e di nuovo ebbe quella sensazione a mozzargli il fiato. Nelle lenti di Albus avrebbe voluto veder riflesso solo se stesso. 

 

L'altro tornò a guardarlo. "Mi piace osservare la gente e pensare che ogni persona ha una sua… identità. Penso sia incredibile il modo in cui le identità delle persone riescano a conciliarsi, ad avere una sorta di equilibrio."

 

"Questo è senz'altro arguto." Gellert avrebbe voluto liberarsi di quella sensazione. "Ma ricordati che loro non sono come noi."

 

Di nuovo vide riflessa negli occhi di Albus una genuina sorpresa. 

 

"Noi li salveremo tutti," concluse.

 

Adesso Albus osservava lui al posto della gente, e Gellert sostenne il suo sguardo penetrante con un sorriso. Si accorse solo in quel momento che si erano fermati al centro della strada acciottolata e che nessuno sembrava far caso a loro.

 

Forse era meglio così.

 

 

****

 

 

L'ultima visita di Albus al cimitero risaliva circa a un mese prima, per il funerale di Kendra. Era stata una cerimonia semplice e intima, di cui ricordava poco o niente. Sapeva di aver gettato la prima manciata di terra umida sulla bara, una volta che questa era stata calata nella fossa. 

 

Ricordava i fiori di Bathilda, l'espressione spaesata di Ariana – così poco abituata a uscire all'aria aperta; il volto sofferente e gli occhi lucidi di lacrime di Aberforth. Ma erano tutte immagini confuse, sfocate dal dolore. 

 

Il presente invece era così nitido. I confini del profilo di Gellert erano chiari e definiti, così come il volume occupato dal suo corpo nello spazio; la distesa di lapidi era chiara nella luce trasparente di quella mattina estiva, i cipressi in lontananza si stagliavano contro il cielo. 

 

Gellert parve capire cosa gli passasse per la testa, come sempre. Albus sentì il peso caldo e vivo della mano dell'altro posata sulla propria spalla in una stretta rassicurante. L'amico non lo guardava, ma era lì. "Cerchiamo di sostituire i ricordi tristi con ricordi felici." Fu solamente un sussurro, ma Dumbledore lo udì distintamente.

 

"Cerchiamo la tomba di Ignotus." Si limitò a suggerire.

 

Si divisero, allontanandosi l'uno dall'altro in quel labirinto di pietre verticali. L'aria era odorosa del profumo dei fiori sulle lapidi: delicato in quelli freschi, più forte e dolciastro negli altri. 

 

Ad ogni tomba, Albus si chinava per leggere il nome inciso sulla lapide, finché non udì un grido estatico in lontananza. "L'ho trovato! Albus, l'ho trovato!"

 

Non pensò a nulla. Corse e basta, a perdifiato, superando il crinale di una collina per raggiungere Gellert. Arrivò col fiato corto e trovò l'altro inginocchiato davanti a una lapide dall'aria antica, le dita che artigliavano il suolo e le ginocchia in mezzo all'erba. La sua espressione era  la rappresentazione stessa della felicità: sembrava che il suo viso si fosse in qualche modo scomposto, aveva perso ogni maschera, ogni controllo. 

 

"Guarda!" Sollevò una mano dal terreno e la strinse attorno al suo polso, tirando finché anche Albus non finì ginocchia a terra come lui, di fronte alla lapide.

 

Il nome – Ignotus Peverell – era inciso in lettere consumate dal tempo, ma ancora leggibili. Appena sopra la dicitura, un simbolo: un triangolo con iscritto un cerchio, bisecati da una sottile linea verticale. 

 

Automaticamente, senza pensarci, Albus sollevò una mano e seguì con i polpastrelli il profilo dell'incisione. "La bacchetta." Percorse la linea verticale. "La pietra." Le sue dita descrissero il cerchio. "E il mantello." Lasciò ricadere la mano.

 

"Capisci cosa significa?" La voce di Gellert era tremante di meraviglia. 

 

Albus si sentiva leggermente spaesato, forse solo troppo felice. "Che i Doni della Morte sono esistiti davvero."

 

"Se sono esistiti possiamo trovarli," fece Gellert, e lo strinse.

 

O meglio, gli si gettò addosso di peso, stringendolo all'altezza del petto. Albus riuscì a non sbilanciarsi solo grazie al braccio con cui si resse al suolo, il gomito solleticato dai fili d'erba. La testa di Gellert aveva trovato il modo di incunearsi fra il suo mento e la sua spalla, mentre le sue braccia gli serravano il torace in una morsa. 

 

Ricambiò l'abbraccio, reprimendo l'impulso di sollevare la testa dell'altro e premere le labbra sulle sue. 

 

Non è così che deve andare, Albus. Non è così.

 

 

****

 

 

Non riesco a dormire dall'entusiasmo, Gellert. 

 

Ci credi? Non è solo un sogno indistinto e lontano, non è solo una leggenda. I Doni sono una realtà, presto diverranno l'intera realtà. Un pensiero che mi colma di una tale trepidazione… Adesso ogni cosa mi sembra più raggiungibile, concreta. 

 

Siamo sulla via giusta, lo sento. Hai detto il giusto, stamane: NOI LI SALVEREMO TUTTI.

 

Prima o poi la convivenza fra Babbani e Maghi perderà il suo equilibrio, non sarà più conciliabile. Allora sarà il caos. Ma noi anticiperemo tutto questo: li salveremo tutti.

 

A.

 

 

-

 

 

 

Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.

 

Neanche io riesco a dormire, non che questo mi dispiaccia. Non sento addosso neanche un briciolo di sonno o stanchezza, o persino torpore. Ho bisogno di pensare, di agire. 

 

Sai che non sarà una strada facile. Dovremmo combattere, com'è probabile. Delle persone moriranno, forse. Ma questo è necessario al Bene Superiore. Una somma di mali non fa il Bene, ma qualche volta dei piccoli mali sono indispensabili per capire COSA è il Bene.

 

E naturalmente anche i Doni sono indispensabili.

 

G.

 

 

-

 

 

Ci sono cose che dobbiamo essere disposti a fare, e il più delle volte la strada più giusta non è quella più facile.

 

Non potremmo proseguire questo discorso di persona? Sono certo che tu sia perfettamente in grado di uscire di casa senza che Bathilda se ne accorga.

 

Albus

 

-

 

Scherzi? Imbrogliare la zietta è la cosa più facile del mondo.

 

Va bene, arrivo.

 

Gellert

 

 

 

 

 

 


 

Note dell’Autrice

 

Sono piuttosto vergognosa, lo so e me ne dispiaccio. Il fatto è che l’anno della maturità si sta rivelando parecchio impegnativo, e tenere dietro a tutto è un po’ difficile. Nonostante ciò, credo di potercela fare!

 

Non do date precise riguardo al prossimo aggiornamento (anche per non dire una cosa e poi venir meno all’impegno) ma in linea di massima posso dirvi che entro due/tre settimane dovrei farcela. 

 

Ad ogni modo, ringrazio tutti coloro che continuano a seguire questa long, e (anche se in ritardo) vi auguro un buon 2013!

 

Come sempre grazie a Giulia, la mia fantastica beta <3

 

Bisous,

 

Daphne

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** XIII. Divinazione e foglie di tè ***


13. Divinazione e foglie di tè

 

 

 

 

Il giardino di casa Dumbledore era sprofondato nel buio.

 

Le figure contorte degli alberi e delle siepi malcurate incombevano nell'ombra, oscure sagome dai bordi indefiniti. Il silenzio era compatto e denso, rotto solamente dal bubbolio di qualche gufo e dal lontano frinire dei grilli. Il vento frusciava sulle cime degli alberi.

 

Il sospiro di Gellert risuonò pesantemente, mentre si guardava attorno, in attesa. Non dovette attendere molto: dopo appena una manciata di secondi, le sue orecchie furono raggiunte dal lieve scatto della porta d'ingresso e dai passi felpati di Albus nel prato incolto.

 

Quando finalmente la figura dell'amico si delineò tra le ombre, Gellert fu piacevolmente stupito nel vedere che i suoi capelli rossicci – bronzo vecchio alla luce della luna – erano liberi dal solito legaccio; ricadevano disordinati a sfiorare le spalle, come se avesse appena sollevato il capo dal guanciale.

 

Le labbra di Gellert si incurvarono spontaneamente in un sorriso, mentre subiva una sorta di sussulto interiore. Da quel pomeriggio – dall'istante esatto in cui suoi occhi avevano letto il nome di Ignotus Peverell inciso su quella lapide – si sentiva addosso una sorta di frenesia. Esaltato e pieno di speranza, non si era mai sentito così vicino al proprio destino come adesso. L'adrenalina non aveva cessato in tutte quelle ore di scorrere nelle sue vene e l'euforia gli faceva ribollire la pelle. Era certo che da quel momento in poi sarebbe stato un crescendo di successi – un'onda dal montare inarrestabile.

 

Gellert Grindelwald e Albus Dumbledore avrebbero viaggiato sulla cresta di quell'onda, come vincitori affamati di giustizia e di potere.

 

Guardando Albus, immobile e silenzioso nell'aria fresca della notte, sentì come il bisogno di avvicinarsi a lui: abituato com'era a dare retta ai propri istinti, allungò il braccio e gli strinse il gomito, percependo con estrema precisione la sua corporeità, il volume in cui viveva nello spazio.

 

Cercando di afferrare la sua anima, in qualche modo.

 

L'altro continuò a tacere, guardandolo in volto con una curiosa espressione. Gellert si sentì improvvisamente meno saldo sulle gambe. Infastidito dalla sensazione che qualcosa stesse sfuggendo al suo controllo, si decise a parlare.

 

“Non dovevamo vederci per proseguire il nostro discorso faccia a faccia?” scherzò a mezza voce.

 

Albus sorrise, serafico. “Così si era detto.”

 

Si accorse di star ancora stringendo il suo braccio: lo lasciò andare, sentendosi subito dopo preda di uno strano senso di vuoto.

 

C'era qualcosa di diverso nell'aria, quella notte. Qualcosa che sembrava lambirlo a tratti e quasi lo infastidiva – non sarebbe dovuto essere così, non adesso che era ad un passo dall'iniziare la ricerca dei Doni e Albus, se non dichiaratamente, era palesemente dalla sua.

 

Naturalmente, l'altro non mancò di rendersi conto del suo malessere. “C'è qualcosa che non va, Gellert?” domandò, posandogli una mano sulla spalla.

 

Come quel contatto – quella connessione tra di loro – si fu ristabilito, si sentì sollevato, come al primo respiro dopo aver lungamente trattenuto il fiato.

 

Sorrise, osservando il volto di Albus, disegnato dalle ombre notturne. “Sto bene,” disse, avvicinandosi all'altro di un passo. “Sono felice.”

 

Io ho bisogno di te e tu di me.

 

Erano parole che lui stesso aveva tracciato, nella sua grafia striminzita e frettolosa: una delle numerose, calcolate frasi che aveva prodotto al solo scopo di tirare Albus dalla sua parte. Ma era del tutto così? O forse c'era un fondo di verità in quelle parole?

 

Dopotutto – si disse – Albus era l'unica persona al mondo che gli avesse mai dato l'impressione di essere adatta a lui.

 

Quel bisogno di fisicità che adesso percepiva ne era la prova: prima di quel momento, Gellert aveva vissuto solo di cervello. La sua mente era ingorda e sempre affamata: qualsiasi cosa vi prescindesse, anche bisogni primari del corpo come bere o mangiare, era necessariamente in secondo piano.

 

Le cose stavano cambiando, evidentemente.

 

“Stavi dicendo,” esordì in tono tranquillo, “che ci sono cose che dobbiamo essere disposti a fare per raggiungere il nostro obiettivo.” Fece una pausa, soppesandolo con lo sguardo. “E tu, Albus? Cosa saresti disposto a fare?”

 

Lui strinse la presa sulla sua spalla. “Per te, Gellert?” Sospirò. “Qualunque cosa.”

 

Si ritrovò a sorridere, sollevando la mano per posarla su quella dell'altro. “L'hai detto tu stesso,” rilevò. “Non sempre la strada più giusta è quella più facile.”

 

“Quasi mai, oserei dire,” convenne Albus. “Dobbiamo essere pronti ad affrontare qualunque difficoltà.”

 

Nelle parole di Albus c'era molto di non detto. Egli sapeva bene che probabilmente si sarebbe trovato ad agire contrariamente a quanto il suo codice morale gli avrebbe imposto, ma si tratteneva dal pensarci perché la cosa lo disturbava. A Gellert, invece, non importava più di tanto di quante orribili cose avrebbe dovuto compiere, perché era tutto per una buona causa.

 

Per il Bene Superiore.

 

“Noi lo faremo, Albus,” mormorò. “Noi due e i Doni della Morte... Pensaci. Chi potrebbe mai fermarci?”

 

 

 

****

 

 

 

“Non eri a casa, questa notte.”

 

Dall'altro capo del tavolo, Aberforth aveva sollevato la testa dai suoi compiti di Pozioni, scrutando il fratello maggiore con gli occhi assottigliati.

 

“Perché dici così?” replicò Albus pacatamente, osservando Abe da sopra l'ultimo libro che Gellert gli aveva prestato.

 

Il minore scrollò le spalle, insolitamente tranquillo. “Ti ho sentito rientrare poco prima dell'alba. Non mi avevi detto che avresti dormito fuori.”
 

“Non ho dormito fuori, infatti,” sottolineò lui, chiudendo il libro. “Ero in giardino e il tempo è passato prima che me ne rendessi conto.”
 

“Da solo?” domandò Aberforth con falso candore.

 

Albus comprese improvvisamente perché il fratello apparisse tanto calmo: probabilmente stava solo cercando altro materiale da covare assieme al suo rancore. Doveva essere davvero molto stanco per non averlo capito subito.

 

“Tu avresti dovuto dormire, a quell'ora,” rimproverò Abe per non dover rispondere alla sua domanda. Per qualche motivo, era certo che la sua espressione nell'udire che era con Gellert – come se non lo immaginasse benissimo! – non gli sarebbe piaciuta affatto, e quella mattina non era in vena di intavolare discussioni.

 

Abe ingoiò il rimprovero e tornò a dedicarsi ai compiti con aria rassegnata. Da qualche parte dentro di sé, Albus si sentì in colpa.

 

 

 

 

Alcune ore più tardi – verso le cinque del pomeriggio – affidò Ariana al fratello e si apprestò a uscire. Il sole splendeva ancora di traverso sui tetti: doveva passare da Gellert e poi proseguire con lui verso il campo di grano, come avevano stabilito di comune accordo la sera precedente.

 

Da parecchio non tornavano al luogo che aveva fatto da cornice alla loro prima conversazione significativa; adesso che erano giunti ad una fase tanto cruciale dei loro piani, avevano sentito il bisogno di tornarvi.

 

Personalmente, all'idea si sentiva in qualche modo trepidante. Era certo che anche Gellert si fosse reso conto che il rapporto in qualche modo stava iniziando a mutare, chissà in quale direzione. Aveva l'impressione che tra lui e il tedesco si fosse sviluppata una comunione di natura profonda, che andava decisamente oltre un sentimento di fraterna amicizia.

 

Per la prima volta in tutta la sua vita, si trovava ad avere paura. Aveva avuto paura il giorno precedente, al cimitero, quando il corpo di Gellert era stretto al suo. La stessa paura che aveva formicolato sotto la sua pelle nella notte appena trascorsa, quando l'espressione dell'altro si era tinta di una sorta di fastidio.

 

Sto bene. Sono felice.”

 

Di certo non poteva permettere ai sentimenti che provava di mettere a rischio la sua amicizia con Gellert. Il loro legame era fondamentale per il futuro dell'intero Mondo Magico.

 

Se davvero fossero riusciti nel loro intento, avrebbero dato l'avvio ad una nuova era. L'utopia si sarebbe fatta realtà: lui e Gellert sarebbero stati fondatori e bilanceri di un mondo perfetto. Forse, grazie ai Doni della Morte, lo sarebbero stati per l'eternità.

 

Era certo che nessuno, oltre a loro, potesse mai essere adatto a quel ruolo.

 

L'arrivo di Gellert lo riscosse dai suoi pensieri. Quasi senza rendersene conto, aveva percorso il breve tragitto che separava la sua abitazione da quella di Bathilda e lì si era fermato, la schiena poggiata contro il muretto a secco.

 

Si beò per alcuni istanti dell'immagine dell'altro, colpito in pieno dai raggi obliqui del sole pomeridiano, che si infrangevano contro i suoi abiti blu scuro e la testa coronata di ricci dorati. Sentì il bisogno di stringerlo e si chiese se era questo che provava Elphias ogni volta che vedeva lui: vuoto allo stomaco, felicità straziante, desiderio inespresso.

 

“Perso nei tuoi pensieri, Albus?” Gellert sembrava sottilmente divertito e per nulla stupito. Notò che aveva l'aria sfinita ma reattiva: il suo volto recava tracce evidenti di stanchezza, ma nei suoi occhi ardeva uno scintillio febbrile.

 

Riconosceva quell'espressione: corrispondeva perfettamente a quanto lui stesso aveva provato in quei momenti in cui il corpo quasi raggiungeva il limite, ma la mente – infaticabile – non voleva saperne di mettersi a riposo.

 

Ebbe la conferma di qualcosa che spesso aveva sospettato: Gellert viveva quella che considerava la sua missione di vita con anima e corpo, lasciandosi coinvolgere completamente in un moto irrefrenabile e appassionato, ai limiti della follia. Ed era allora che, assorbito da quello sfrenato vortice, il suo genio risplendeva in tutta la sua grandezza.

 

“Hai l'aria sfinita,” osservò, senza premurarsi di rispondere alla sua domanda.

 

Gellert scrollò le spalle. “Solo il mio corpo è stanco, Albus, come ben sai.” Sporse il busto, allungandosi verso di lui per stringergli il gomito, come la sera precedente.

 

Qualcosa sembrava essersi sbloccato dall'abbraccio che si erano scambiati il pomeriggio precedente davanti alla lapide di Ignotus Peverell: prima di quel momento, Gellert aveva cercato il contatto fisico con lui assai sporadicamente. Adesso, invece, sembrava che egli stesso ne avesse bisogno.

 

Dopo una breve stretta, Gellert parve in qualche modo più dritto sulle spalle e sicuro nei passi, mentre si voltava e iniziava a precederlo lungo la strada che conduceva al campo di grano. Albus si affrettò a seguirlo, il cuore in gola e un curioso senso di aspettativa che premeva all'altezza dello stomaco.

 

Non si scambiarono molte parole, camminando l'uno di fianco all'altro nel labirinto di viottoli tortuosi che Gellert – Albus lo sapeva – già conosceva a menadito la seconda volta che li avevano percorsi assieme. Aveva capito immediatamente che Gellert aveva solo finto di aver bisogno della sua guida per stabilire una connessione tra di loro. A che pro, allora non avrebbe saputo dirlo; adesso – gettando occhiate furtive alla figura sottile che gli camminava a fianco, appena accarezzata dai raggi del sole, pensò che non aveva molta importanza.

 

L'unica cosa che contava era essere insieme a lui in quel preciso luogo e preciso istante. Oltre ovviamente al Bene Superiore.

 

Insieme, lui e Gellert avrebbero fatto grandi cose: si sentì improvvisamente attraversato da un sentimento di gratitudine profonda. Gellert gli aveva donato quel futuro glorioso a cui credeva di aver dovuto rinunciare per sempre. Gli aveva restituito la vita e la speranza, condividendo con lui il proposito di dare l'input ad un mondo migliore.

 

Albus non aveva mai creduto nel fato: riteneva che il destino non fosse scritto e considerava la Divinazione e le foglie di tè alla stregua di trucchetti da prestigiatore. Coloro che possedevano la Vista erano assai rari, e comunque le loro visioni del futuro dipendevano in gran parte dall'interpretazione che si dava loro.

 

Tuttavia, Gellert era riuscito in qualche modo a convincerlo che quanto si prospettava fosse destinato solo ed esclusivamente a loro; persino a rigor di logica, Albus non poteva dargli torto. Il fatto che si fossero incontrati proprio a Godric's Hollow – luogo d'origine dei fratelli Peverell – non poteva essere solo un caso, una fortuita coincidenza.

 

“Oggi sei pensieroso,” osservò Gellert, intercettando il suo sguardo mentre come sempre l'osservava di sottecchi.

 

“Perché, di solito non lo sono?” Scherzò. “Potrei offendermi, Gellert.”

 

L'altro rise, cristallino. “Non fingere di non aver capito quello che intendevo, ti prego. Non è da te.”

 

Albus incurvò le labbra in un sorriso. “Non lo farò,” promise. “Ad ogni modo, le nostre ultime scoperte mi hanno dato di che riflettere.”

 

“Immagino che sarai giunto ad una conclusione, allora.” Gellert piegò la testa da un lato, il volto illuminato a tratti dal sole che scompariva e si riaffacciava tra gli arbusti. “E che probabilmente sarà quella giusta.”

 

“Lo spero,” Albus chinò il capo per schivare i rami più bassi di un melo, mentre Gellert vi passò sotto senza problemi. Avevano superato il limitare del villaggio, addentrandosi in piena campagna. “Stavo pensando che eravamo in qualche modo destinati a incontrarci qui.”

 

Gli occhi di Gellert furono attraversati da un bagliore improvviso, quasi sinistro. “Non è da te parlare di destino, Albus. Sbaglio o di solito ti ritieni al di sopra di certe sciocchezze?”

 

Le sue parole erano rilassate e giocose, al punto che Albus dimenticò l'oscura scintilla che solo pochi istanti prima aveva balenato negli occhi dell'altro. O forse, scelse deliberatamente di dimenticarla.

 

“Devo ammettere che mi stai facendo ricredere, Gellert, e su molte cose,” mormorò di rimando. “Come hai detto tu, nessun altro può capirci. Come noi, siamo solo in due.”

 

Erano giunti ormai nei pressi della siepe che dovevano superare per raggiungere il loro luogo prediletto. Gellert passò per primo e Albus lo seguì dopo pochi istanti, trovandolo con lo sguardo puntato in lontananza e i ricci dorati baluginanti al sole, smossi da una lieve brezza.

 

Il grano era stato mietuto, ma i monconi delle spighe tagliate erano ancora punteggiati d'oro.

 

Affiancò Gellert, che si voltò di scatto verso di lui, aprendo il volto in uno di quei suoi meravigliosi e inaspettati sorrisi che sembravano ogni volta coinvolgere la sua intera figura.

 

“Sono felice di averti incontrato, Albus.”

 

 

****

 

 

“Dovremmo cominciare con la Bacchetta di Sambuco,” fece Gellert, seduto a gambe incrociate sulla comoda sedia che Albus aveva Evocato per lui. “Tra gli altri, è il più semplice da rintracciare... Una scia di morte e distruzione che va avanti per secoli.”

 

Albus si raddrizzò gli occhiali sul naso, il gomito poggiato sul piano in legno della scrivania. Il sole era quasi del tutto calato oltre l'orizzonte, ma alcuni raggi aranciati si infiltravano ancora tra le tende della finestra, disegnando striscie luminose sui mobili e sui loro corpi. “Non sono d'accordo,” ribatté, studiando le reazioni dell'altro. “La Pietra potrebbe esserci altrettanto d'aiuto.”

 

Gellert sollevò un sopracciglio. “La Pietra è il meno utile dei Doni.”

 

Qualcosa stridette nelle orecchie di Albus, come un campanello d'allarme. Lo ignorò. “Non sono d'accordo,” ripeté. “Richiamare i morti potrebbe essere utile anche per avere informazioni in più.” Rilasciò lentamente il fiato tra le labbra. “Potremmo ricostruire i percorsi che hanno fatto il Mantello e la Bacchetta nei secoli anche in questo modo.”

 

Non disse a Gellert che sperava di richiamare Kendra perché si occupasse di Ariana: era abbastanza certo che non avrebbe gradito.

 

“Solo con l'unione di tutti i Doni si può essere Padroni della Morte,” gli ricordò Gellert. “Con la sola Pietra i morti non possono tornare in vita... Quello che vedresti di tua madre sarebbe solo un'immagine fuligginosa e inesistente. Di certo non in grado di badare ad Ariana.”

 

Si irrigidì a quelle parole: Gellert non gli si era mai rivolto tanto duramente prima di quel momento.

 

Qualcosa gli doleva nel petto. Non disse nulla.

 

L'altro parve accorgersi del proprio errore, perché gli rivolse uno sguardo di pallide scuse. “Perdonami, Albus. Sono molto stanco.”

 

Era abbastanza certo che ci fosse molto di sottointeso nelle parole di Gellert, ma preferì soprassedere. “Forse hai ragione,” cedette infine, perché non desiderava entrare in conflitto con lui. “La Bacchetta potrebbe rivelarsi la più semplice da trovare.”

 

Alla fine, un Dono valeva l'altro. Non aveva importanza l'ordine in cui si sarebbero dedicati alla ricerca di ciascuno di essi, e inoltre il volto di Gellert si era appena aperto in uno dei suoi luminosi sorrisi.

 

Lo osservò alzarsi dalla sedia e iniziare a camminare su e giù per la stanza, tracciando milioni di percorsi sulle mattonelle del pavimento. Torturò con le dita una ciocca di capelli rossicci – aveva deciso di lasciarli sciolti, quel giorno – nel tentativo di sopire l'improvviso istinto di raggiungere Gellert e stringerlo a sé. Dunque si limitò a osservare il modo in cui la luce e l'ombra si alternavano rapide sulla sua figura, a seconda se si trovasse o meno in un punto in cui i raggi del sole riuscivano a trasparire dalle tende.

 

Ebbe l'impressione che qualcuno stesse stringendo il suo petto in una morsa; quella presa somigliava a Gellert, in qualche modo.

 

Cercando d'incanalare da qualche parte la propria tensione, scelse infine di alzarsi e porsi in piedi davanti alla finestra, la schiena poggiata al davanzale; la sua ombra si stendeva oblunga sulla stanza.

 

Fu in quel momento che Gellert improvvisamente si fermò, proprio mentre passava di fronte ad Albus. “La leggenda narra,” disse a mezza bocca, rivolgendosi quasi più a se stesso che a lui, “che Antioch perse la bacchetta dopo essersene vantato pubblicamente. Fu ucciso nel sonno e il suo assassino si impadronì della Bacchetta di Sambuco. Ma questo, Albus, lo sai forse anche meglio di me.”

 

Il giovane annuì. “Per questa ragione la chiamano la Stecca della Morte,” asserì. “Dovremmo fare in modo di visitare l'Archivio Magico Britannico... Sicuramente troveremo qualcosa.”

 

Gellert scosse la testa. “Vecchie pergamene ammuffite... No. Quella parte del lavoro l'ho in parte portata avanti a Durmstrang. Sono riuscito a ricostruire la storia della Bacchetta con relativa sicurezza fino alla metà del Settecento. È praticamente certo che si trovasse in Danimarca fino all'epoca della rivoluzione Illuminista. Sembra sia stata riportata in Inghilterra alcuni anni prima dello scoppio, da un funzionario della delegazione britannica della regina Caroline Mathilde...”

 

Ma Albus aveva smesso di ascoltarlo ormai da qualche secondo. O meglio, aveva distolto l'attenzione dalle parole che Gellert stava pronunciando per concentrarsi invece su di lui, sul suo modo di animarsi nella sua elucubrazione, sulla decisa espressività del suo volto, sul suo energico gesticolare.

 

Fu in quel momento che realizzò con sgomento che i suoi sentimenti potevano effettivamente costituire un problema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'Autrice

So di non aggiornare da più di un anno e me ne vergogno parecchio, ma la Real Life ha avuto bisogno dello spazio che prima non le avevo concesso.

Ad ogni modo, sono qui per finire quello che ho iniziato, ed è quello che farò!

Spero che il capitolo non sia troppo sconclusionato: è in corso da diversi mesi, l'ho scritto a pezzi e ogni pezzo a una certa distanza dal precedente.

Un bacione,

Daph

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