Questa volta sono in clamoroso ed assolutamente consapevole ritardo, perché mi avevi annunciato il giorno e l’ora, però sono riuscita a sfasare di quasi una settimana lo stesso, senza olio nella lampada ma con un abbiocco cosmico inquantificabile.
Inutile dire che me ne dolgo o che la settimana in questione è stata a dir poco difficile. Qui la saggezza popolare si può profondere in pregnanti osservazioni sulle intenzioni che lastricano cose, sul latte versato, sull’aspettare il tempo – io non ce l’ho, il tempo; ma è anche vero che, in certe circostanze, l’unico modo per avercelo è crearselo, questo benedetto tempo. Quindi rimando come con una nota a piè di pagina alla sapienza delle nostre nonne, scaricando come il solito barile anche il mio dovere di far poscinesi.
Resta il fatto che comunque me ne dolgo, fosse anche solo perché a questa tua era, almeno in un certo senso, un pezzo di stagione (sì, lo so, non stiamo dal fruttivendolo di fiducia, ma se non ammazzo male la poesia prima di subito, poi casca il mondo) sui cui avrei potuto nonché dovuto sfogare i miei entusiasmi pasquali.
Ho una certa simpatia, molto malcelata, per la Pasqua; è una simpatia tutta concettuale che, secondo me, si confà naturalmente a queste materie – complice una tantum quell’orologio rotto che è il Cialtronissimo, qui fermamente piantato sull’ora giusta per una di quelle famose due volte al giorno (su quale sia l’altra e se sia pervenuta si può discutere).
Però, c’è però un però, quando si aggiusta un orologio rotto, o fermo, o quel che sia, giocoforza si devono spostare le lancette; ci si muove nel tempo e l’ora giusta non solo può ma è sacrosanto che diventi un’altra.
Quindi non posso che commentare con un sonoro e reiterato sì: sì alle tre vipere nel cuore del Carducci; sì al Maggio, con dignità di maiuscola; sì a Santa Valpurga (che negli ultimi anni mi fa particolarmente ridere perché Sint Walburga è parte dell’identità culturale del Gelderlander medio – nonché un tipico nome da attempata signora, da queste parti). E il Maggio dà senso anche alle rose ed alle spine sul finale, che inizialmente avevo un po’ faticato a collocare. Poi, ovviamente, il resto è tutto bello, bello, bello, e evocativo, e bello, bello, bello etc., ma che te lo dico a fare?
Mi ero ripromessa di ricominciare da qui, e credo di averlo annunciato anche a te – tanto per impormi dei paletti esterni, perché sai bene che l’autocontrollo non è esattamente la più eminente delle mie (non così tante) virtù… La decisione è stata dettata, sempre all’insegna dei vincoli esterni (davvero non ce la posso fare a stare al mondo), dalla guida alla lettura stilata per me dalla Fra, cui devo l’ennesima bottiglia di roba buona ed un altro “grazie” da aggiungere alla serie infinita. Col senno di poi, mi dico che c’è anche un senso tematico nel procedere su questa Aetna dopo S.O.S.; perché se c’è un Santo che ha più di tutti a che fare con la Morte, nel nome e nel tipo di potere che esercita, quello è Deathmask.
A me, anche nelle mani maldestre del Cialtronissimo, Deathmask è sempre stato simpatico. E ti dirò, per quanto moralmente riprovevole – che, poi, se ne può discutere! – la sua visione della giustizia e della forza, ha per lo meno nobili ascendenti filosofici, almeno quando applicata su grande scala, ovvero la scala geopolitica, più che dei comportamenti individuali. Quando hai il potere di spappolare le stelle in punta di dita, giocoforza operi su grande scala, non hai altre scale; ancor più, poi, quando sei uno strumento al servizio di un’Istituzione, umana o divina che sia, corrotta o integerrima (ce ne sono?) che sia. Insomma, quando entrò in scena Deathmask ai Cinque Picchi, il suo monologo tutto mi parve tranne che il delirio di uno stolto. Oddio, il ragazzo magari era visibilmente un pochettino squilibrato (nessuno è perfetto!); ma certo non uno stolto. (Non inizio qui uno sproloquio su come non credo si possa dire altrettanto di Dohko, ma ricordamelo per una prossima occasione.) Perché la sua visione delle cose, almeno a me, sembra tutto sommato realista, e lo era parsa anche alla piccola me di cinque anni o giù di lì. Brutale. Violenta. Deprimente. Ma realista.
Basta accendere un telegiornale qualunque, in questi giorni, per rendersi conto che il metro e la misura di Deathmask sono moneta corrente, e non ci sono donne e bambini che tengano. Ed ha ragione Aphrodite: è una ben macabra moneta.
Il problema è quando l’individuo, dismessa la divisa o la ferraglia che sia, si guarda le mani che hanno compiuto certe cose. Allora l’individuo deve raccontarsi altre cose e metter su altre storie, o metter teste sopra ai muri, per dare un senso alle proprie azioni e dormire la notte. Credo. In linea di principio – ti farò sapere se mai commetterò una qualunque variante tra l’eccidio e il genocidio.
In questo prologo – saranno le rose riappuntate anche in calce, saranno i gesti che trasudano simbolismo, sarà il tono lucido, quasi canzonatorio, ma comunque a suo modo crudele – Aphrodite si conquista a pieno diritto i due terzi della scena, senza colpo ferire. E va bene così.
È bastata una manciata di frasi, ma è immediatamente lampante che anche questa è una cosa bellissima. <3
Vediamo di riuscire a concludere qualcosa, qualunque cosa, quest’oggi, alla faccia del passaggio all’ora legale – passaggio molto a tema, il giorno di Pasqua, ma non per questo meno molesto.
In linea di principio, provo sempre a lasciare un commento a caldo, appena finita la lettura, capitolo per capitolo; per una ed una sola, semplice ragione: sono ricoglionita, senza speranza. E dunque sono qui a guardare i miei appuntini che attendono, dalla settimana scorsa, l’arrivo di un momento migliore per trovare una coerenza interna. Inutile dire che i momenti ideali non arrivano mai e quelli migliori neppure, indi per cui non aspettarti di trovare coerenza in questo o quel che segue; né posso garantire l’assenza di svarioni imbarazzanti.
Ignorando momentaneamente i miei appuntini di cui sopra, riprendo il filo di un discorso che ti anticipavo in separata sede, sulle narrazioni non continuative. È una soluzione narrativa per cui sono di parte, è vero, ma che riscontrerebbe le mie simpatie, particolarmente in questa materia, per tutta una serie di ragioni. Senza andare a scomodare gli antecedenti letterari “alti” del caso, credo che un progetto narrativo di questa tipologia abbia una sua profonda ragione di essere quando è messo in atto – come una forma aristotelica di cui si sente sempre l’impellente bisogno! – su una materia prima fondamentalmente disorganizzata e disomogenea come quella del Cialtronissimo. Raccontarla così è far lentamente emergere l’ordine dal caos, portare alla luce dei fili sensati da una matassa ingarbugliata dove apparentemente di sensato c’è poco e niente. Questo è punto chiave o almeno una delle ragioni principali per cui formati narrativi di questo tipo sono appetibili quando si scrive di Saint Seiya, o almeno è quanto mi dico tra me e me da una ventina d’anni a questa parte – arrotondiamo e facciamo finta, con tutta la cattiva coscienza di questo mondo e dell’altro, che sia per eccesso, eh? Sempre guardandomi indietro di una ventina d’anni o giù di lì, mi vengono in mente una serie di titoli che hanno implementato una struttura di questo tipo; probabilmente ce ne sono altrettanti, se non di più, guardandosi attorno ed in avanti, ma non ho più il tempo che avevo una volta per leggere cose a scatola chiusa. Gli esiti tendono ad essere… mah – oggettivamente, e no, non sono i miei standard ad essere impossibili –, vuoi perché gli autori si perdono pezzi per strada, e da una cosa corale ci si riduce alle vicende di uno o due agenti in croce; vuoi perché, al contrario, ci si ritrova a leggere polpettoni indigesti senza capo né coda, svuota-frigo impresentabili e improponibili; vuoi perché non emerge una continuità narrativa e l’autore, seguito a ruota dal lettore confuso e frustrato, si perde pezzi per strada e non ha palesemente idea alcuna di dove voglia andare a parare. È un formato rischioso, ecco. Ma, a volersi prendere il rischio, credo che come stai sviluppando questa storia dovrebbe essere preso a modello. Perché una cosa del genere, a volerla far bene, va fatta così. Poi, io, da lettore, non ho assolutamente nessunissima idea di tu voglia andare a parare, ma vedo, sniffo, sento ed intuisco una direzione, un piano, una coerenza; l’ordine ed il senso che emergono; e mi lascio felicemente condurre per acque che fluiscono con una loro logica, senza ritrovarmi alla deriva in un mare di polpettone, già con un’indigestione in corso.
Poi, fa sempre piacere vedere i panchinari in azione; e potrei dilungarmi in disquisizioni sui lupi, le responsabilità, i maschi alfa e lo scarica barile – questo almeno mi indicano i miei appuntini – ma te la risparmio.
Potrei anche togliermi il cappello di fronte a Camus che, una tantum, si degna di impartire una lezione sensata – che probabilmente entrerà da un orecchio ed uscirà dall’altro, ma si fa quel che si può con quel che si ha e con chi ci si ritrova sul groppone.
La mancanza di dilemmi di Camus non abbisogna di ulteriori discettazioni, se non una menzione en passant del bene all’anima che fa predicare al coro.
Come un’altra menzione d’onore spetta di diritto a: «Hyoga, Popoff. Siamo lì.». Ho riso fin quasi alle lacrime. Sallo. Penitenziage!
Piano piano, conto di avanzare in tempi ragionevoli, perché questa storia è bellissima, è ben strutturata, ha senso; e perché ci sono cose che ancora non ho capito, dunque aspetto di avere più elementi per un giudizio informato. Ad esempio, nello scorso capitolo Kanon – con una fine implicatura proposizionale, perché Kanon, con tutto l’amore, è comunque Kanon – aveva lasciato intendere di pensare che Saga è pazzo. Qui, Shion prende le debite contromisure contro un daimon – non so quanto saranno efficaci ‘ste contromisure, ma almeno quel vecchio rincitrullito un tentativo lo fa. Ora, né l’uno né l’altro sono una fonte affidabile e certa acché chi legge possa trarre una conclusione oggettiva sulla faccenda; e la faccenda istessa è tra le voci in cima alla classifica dei pasticciacci brutti brutti del Cialtrone. Non è detto neppure che le due opzioni si escludano, anzi.
Ora faccio finta di andare a fare cose… molta, molta finta!
Buona Pasqua!
Mi
prefiggo di rispettare questo piccolo appuntamento del fine
settimana che, tra
me e me, ho preso coi tuoi lavori, cascasse il mondo – o mi
cascassero una
serie di rotture di scatole tra capo e collo, come nelle ultime
settimane, oggi
incluso. Per un po' è stato un appuntamento coi tuoi signori del
Piano di Sotto,
presto sarà un appuntamento con altre cose. È un'oasi di
bellezza, questa
raccolta, anche sulle rovine fumanti di una guerra finita in
modo poco soddisfacente
per quelli che sulla carta sarebbero tra i vincitori. Mi
convince e mi piacela
struttura circolare che hai deciso di adottare, a suo modo fa
quadrare il cerchio
– ho anche fatto la brava e sono andata a rileggermi i primi
capitoli, perché a
distanza di anni la mia già debile memoria tende a perdere più
colpi di quanti
non ne perda già a breve termine.
Questi
ritratti degli Spettri sono uno più bello dell'altro; e, no, non
sono in grado
di stilare una classifica. Sono tutti vibranti, ciascuno a suo
modo, vivi nella
non-vita che descrivi.
Mi
piace Felthuz, in questa scena antica: c'è un senso dell'onore,
della misura –
anche quando la misura dovrebbe essere assoluta, on the
hard scale, per dirla coi
connazionali di un Rhadamanthys
futuro. Non credo di star proiettando (ma è sempre possibile,
ché
l'osservazione modifica il processo osservato), ma gongolo nella
sensazione che
l'Inferno, anche qui da te, rimanga una forza tutto sommato
bilanciante, senza
il trasporto emotivo dello sgozzare per il gusto dello
spargimento di sangue,
del dolore, del soggiogare.
Ma c'era rispetto. Tra nemici.
Erano guerrieri, non
bestie assetate di sangue.
In
una logica squisitamente shōnen, questi signori sono gente con
cui si può ragionare
– rigorosamente a cazzotti e a galassie sparate in faccia,
magari stringendo un'imperitura
amicizia cavalleresca, altrettanto rigorosamente in punto di
morte. Ares e i
suoi, no. Ora, io credo che il desiderio di sbudellare e giorire
dello
sbudellamento, di soggiogare il prossimo, o di brindare col
sangue e le lacrime
nei nostri nemici sia a sua volta tutto sommato umano – dici che
ho un
malcelato problema con la gestione della rabbia? Naaaah! Ma la
Morte è al di
sopra di queste piccolezze, è indifferente a queste quisquilie;
ha la sua
purezza e la sua assolutezza. Non sta forse scritto anche nelle
pagine del Cialtronissiomo
che Hades è un dio misericordioso? Certo, per bocca dei suoi, ma
rimane il
fatto che qualcuno abbia potuto dirlo.
Quale
chiusa migliore, dunque, di quella che hai scelto? Nessuna.
Davvero nessuna,
perché su questo sfondo di un'Atene piegata e svuotata di senso
da una Guerra
brutale che alla Morte non può aver dato alcun piacere vincere
solamente sulla
carta; sullo sfondo della soggiogazione, anche il lettore (o
almeno questo
lettore) riesce per un ultimo istante a guardare il tutto con
gli occhi degli
Spettri, e a scorgerla, la promessa assolutamente preferibile di
questa Morte
che è una liberazione.
Mi
sa che al prossimo giro ci vediamo su in vulcano! Ed anche
questa è una promessa!
Un
abbraccio, e grazie ancora di aver scritto questa meraviglia!
Potrei
lanciarmi in quarta in
uno sproloquio sulle regole – soprattutto quelle che ci
imponiamo e che ergiamo
a guida dei nostri ragionamenti, pubblici o privati che siano –
e su come l'esser
fisse, o inflessibili, non è una condizione sufficiente né
probabilmente
necessaria acché siano regole. Per quel po' di decenza che mi
rimane, me lo
risparmierò, perché sono già noiosa di mio, senza bisogno di uno
sproloquio aggiuntivo
a carico. Però, credo che la tua scelta di lasciare Minos qual
Minos
all'anagrafe sia in sé e per sé giustissima, e non solo perché
crea l'occasione
per tratteggiare in pochi giri di frase un ritratto vivido del
fu babbo di
Minos. Lasciamelo
dire en passant:
un pochino mi ha stretto il cuore il babbo di Minos, non solo
per una serie di
ragioni di circostanza che mi portano ad avere una simpatia di
categoria con
questo poveraccio. E mi chiedo, in un pensiero ozioso, in quale
fossero la
disciplina e l'area di specializzazione, di quest'uomo che pare
aver passato la
vita a rincorrere domande e spiegazioni e teorie e risposte,
scrivendo libro su
libro. Publish or perish, vengono spesso ammoniti i
giovani
accademici. Pubblica
(come un
pazzo) o muori.
Poi se muori per
pubblicare come un pazzo, eh, beh, non avevi la stoffa. Ma io
ho sempre avuto l'impressione
che uno alla fine muore lo stesso – e la sorte del babbo di
Minos almeno non mi
dà torto! – e che, allora, se tutto questo lascia così poco
tempo, tanto vale
che non ne trovi troppo di più. Altrimenti, alla fine, si
finisce davvero come
il babbo di Minos: troppo perso a rincorrere cose che non si
faranno mai
davvero acchiappare per trovare il tempo per andare a visitare
un luogo amato,
almeno nel sogno del mito. A volte è meglio non riuscire a
toccare con mano un
mito che amiamo, per lasciarlo nel suo spazio mitico e
intoccabile; ma è anche
vero che c'è qualcosa di immensamente triste nel non riuscire
a conquistarci il
tempo giusto e sacrosanto per le cose che amiamo. Ho
l'impressione di star
facendomi una filippica sulla corda, comoda comoda in
poltrona, nella mia
casuccia dell'impiccato, ma non sottilizziamo. In compenso,
non ho progenie per
cui essere un padre assente – o una madre degenere. Sono
piccole conquiste.
Comunque,
dicevo, a proposito di Minos che è Minos all'anagrafe, credo che
sia una scelta
immensamente espressiva, perché crea una continuità tra Minos e
Minos, tra il Minos
che è e il Minos che sarà ma che non è ancora, ti consente di
mettere in scena lo
scivolare del presente nel futuro. È un po' un'allegoria della
permanenza e del
cambiamento, riflette su quello che resta con la morte, in
relazione alla morte,
la dialettica tra quello che passa e quello che rimane
immutabile – che è il
filo conduttore non solo in questo capitolo, esplicitamente e su
tutti i
livelli narrativi; ma dell'intera raccolta. Mi dispiace di
essere quasi in
dirittura d'arrivo: questo tuo lavoro m'incanta ogni volta e mi
fa pensare
pensieri che mi piace pensare. O forse è solo un po' di angoscia
del punto
fermo e della compiutezza, o semplicemente della fine.