Recensioni per
Gorgoglìo.
di hiccup

Questa storia ha ottenuto 269 recensioni.
Positive : 267
Neutre o critiche: 2 (guarda)


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Nuovo recensore
25/01/15, ore 17:59

Questa poesia é stata per me incredibilmente deprimente. Non per il fatto che fosse triste, malinconica, ma per il fatto descrive esattamente la mia situazione in questo periodo.
Non starò qui a raccontarti delle inutili lagne di una ragazzina presa con i suoi inutili problemi adolescenziali, ma ti dico solo una cosa: grazie. Grazie per aver scritto tutto ciò che stavo vivendo, é come se mi avessi tolto un peso. Mi hai fatto scendere quelle lacrime che ho trattenuto con forza e che probabilmente mi avrebbero logorato dentro se non le avessi liberate. Grazie, grazie, grazie.
OurChildhood

Recensore Veterano
13/01/15, ore 21:58

Grazie per aver scritto questa raccolta di poesie. Io non le ho recensite perché non mi piace recensire poesie. Quindi, ritieniti fortunata ad essere l'eccezione.

Hai una fantasia che dovrebbe farmi provare invidia, ma ti voglio troppo bene. Sì, ti voglio troppo bene nonostante non ci siamo mai scambiate nessun messaggio, nessuna risata, nessun commento sull'ultimo film uscito al cinema. Ma, dopo aver letto le tue poesie, credo di poteri vantare di conoscer hiccup. Non so perché, ma mi è dispiaciuto lasciare questo 2014. Sul serio. Tutta la giornata del 31 dicembre me ne sono stata a studiare, leggere e disegnare, per tenere la mia mente occupata. Forse perché sapeva che tutti i ricordi di quell'anno se ne sarebbero andati via, piano piano. Ed io non volevo perderli. Non VOGLIO perderli.

Ma, con la tua raccolta di poesie, potrò tornare ad ogni singolo giorno dell'anno, godendomelo come se lo stessi vivendo in quei pochi minuti. Perché, in fondo, è così.
Complimenti, davvero. Spero di leggere presto qualche altra tua opera.
Ciao,
me.

Recensore Veterano
01/01/15, ore 22:57

Buonasera, buon anno nuovo innanzitutto.
È con un filo di malinconia che inizio a scrivere questa recensione, se vogliamo definirla tale, e credo che la malinconia sia destinata a crescere man mano che le parole cresceranno una sull’altra. Sì, sono malinconico e quasi nostalgico; ricordo ancora il giorno e il momento in cui ho scoperto la tua vena poetica – posso azzardarmi, dopo “366” poesie, a definirla tale? -, era ancora inverno e fuori era freddo, seppure non quanto oggi. Parlerò un po’ di me oltre che di te e della tua poetica, spero me lo perdonerai; ma come potrebbe essere altrimenti? Ho scavato nella tua anima attraverso quelle poesie in cui ti mostravi e celavi, quelle poesie che fra alti e bassi hanno attraversato un anno intero dell’esistenza di chi scriveva e di chi, anche, leggeva le tue parole.
Questa sarà la mia ultima recensione alla tua raccolta. E mi intristisco, perché contavo, dopo la passione iniziale, di continuare giorno dopo giorno a scrivere sui tuoi versi, anche solo per il piacere di farti sapere che no,  non sei stata sola in quest’avventura. Avrei voluto farlo, ho mancato l’impegno; e le scuse valgono a poco, ma il tempo a disposizione è stato minore del previsto. Purtroppo - ma anche per fortuna – sono stati mesi pieni e intensi, gli ultimi.
La prima volta che t’ho letto era il 25 gennaio del 2014. Quasi un anno fa. Non avevo mai frequentato EFP ed ero arrivato senza particolari pretese o aspettative. Cercavo solo qualcosa di bello e fresco da leggere, qualcosa di giovane, qualcosa che non sarebbe stato sotto gli occhi di tutti, qualcosa di più intimo – dopotutto è nelle situazioni meno affollate che mi ritrovo più a mio agio, un po’ come te -; avrei potuto spulciare la raccolta poetica di un Poeta o di una Poetessa non troppo famosa, ma no, volevo qualcosa di diverso. Non necessariamente su carta stampata.
Arrivai così su EFP, nella sezione Poesia; cominciai a leggere e spulciare e non ti nascondo che ila mia prima impressione fu pessima, rischiavo d’affogare nella banalità e in un fare poesia che, a prescindere dai giudizi oggettivi (è difficile dare giudizi oggettivi e rispetto il modo che ciascuno ha di fare poesia, lo sai) per me erano insopportabili. Stavo quasi per andarmene.
Poi ho incontrato la tua raccolta. Così pretenziosa e così umile nella brevissima (e neanche troppo attrattiva per i più, cercavi di farti leggere solo qualcuno?) descrizione , con quel sole aranciato che mi è rimasto impresso - e ancora oggi è tra le prime cose che mi sovvengono quando ripenso alla tua raccolta.
Lessi la tua poesia del giorno. In un certo senso fu amore a prima vista! E non fraintendermi, non si trattò né di un amore reale né di un amore platonico. Era il tuo stile ad essermi congeniale, era il tuo modo di mettere in fila le parole. E lessi del tuo segreto, senza sapere (ancora) a cosa alludessi, ma con la certezza che ogni singola parola fosse sentita, sgorgata dal cuore. Un gorgoglio in versi.
Eri malinconica quella sera, eri rinunciataria, forse eri solo innamorata. Era una poesia deontologica,  basata sul dover nascondere qualcosa che avrebbe potuto far più male – e non soltanto a te.
E leggevo quei versi, così semplici nel loro suonare naturali, ma non semplicistici o sbrigativi. E dicevi:
Permettermi solo di rimanerti accanto,
silenziosa e quieta,
docile e sicura,

e sorrido rileggendo quei versi, sorrido perché io non ti conoscevo ancora, ma la tua penna mi lasciava già intuire che quella che avresti voluto essere era lontana da ciò che eri: inquieta e insicura (e le parole e il bisogno di fare continuamente qualcosa a nascondere quei timori).  Ti eri appena descritta in versi e io non lo sapevo, non ancora. Eppure ne avevo l’intuizione.
E mi piaceva l’idea di andare oltre, oltre ciò che lasciavi trapelare su di te; c’era anche dell’altro, c’era qualcosa che ancora non sapevo e non potevo definire meglio di così:
Intanto ho letto questa di poesia e sì, mi è decisamente piaciuta e sì, si coglie al volo quell’alone di un amore passato, ma non troppo (o abbastanza?), ancora impigliato fra i tuoi capelli e i tuoi ricordi.
E poi:
E mi è piaciuto anche il resto della poesia, delicata, senza mai travalicare un confine che ti sei data (leggendo i versi credo tu sia una lei) e senza mai osare più di quello che reputi dovuto nelle metafore e nelle parole utilizzate.
La delicatezza è il tuo proprium, ancora oggi, dopo oltre trecento poesie da quella, fatichi ad osare più del dovuto. Sei troppo ordinata, precisa e simmetrica; è la tua razionalità interiore a renderti così, a mediare la tua sensibilità e lasciare che le tue metafore e similitudini spicchino il volo senza mai superare l’atmosfera terrestre. Non riusciresti mai a fare a meno della gravità terrestre, mai.
 
Non mi fermai a quella poesia. Non mi sarei più fermato, avrei continuato a leggerti, fino ad oggi. Ed iniziai a viaggiare con te, su un doppio binario: ti seguivo giorno dopo giorno e contemporaneamente viaggiavo a ritroso, cercavo di ingannare il tempo e tornare dove tutto aveva avuto inizio.
Il viaggio a ritroso fu semplice, lineare, potevo seguirlo a mia discrezione. La tua poetica mi guidò attraverso occhi inermi e (non) rimanenze, amicizie quasi eterne e sfumature impresse con inchiostro simpatico, costrette a sparire dopo un po’. Ma quella sensazione sarà ridondante, sarà quasi perenne:
ti fanno sentire meno incompleta,
meno sfumata – senza contorni ben delineati.
Dopo mi hai ricordato del valore di ciò che scriviamo; ha valore fintanto che noi attribuiamo valore, fintanto che continuiamo a crederci. Diversamente, lo scrivere diventa una maledizione.
Poi incontrai una parte di te, qualcosa che riguardava la tua vita. Era una poesia dal sentore pesante, era opprimente, erano versi che avevi bisogno di gettare via, insieme a quelle sensazioni. Il terrore della malattia, in senso ampio, era là, davanti ai miei occhi. E sarò sincero, non ne colsi subito la rilevanza. E incontrai, in quello stesso momento, quel tuo linguaggio tecnico di carattere medico che a fasi alterne ti accompagnerà; sarà un modo, quello, di esorcizzare le tue paure, di trattare la malattia e il corpo umano come se fossero razionali e intellegibili – sensati, prevedibili e curabili. E rifletteva quelle tue speranze su ciò che avresti voluto essere (e che per qualche mese hai temuto non ti sarebbe più appartenuto – e il tuo lessico si è adattato, mite, ha ceduto di fronte alle tue necessità).
Poi il teatro; la tua passione per l’arte in ogni sua forma è più che comprensibile (pure condivisibile), ma c’era di più; c’era anche la tua capacità di fare selezione. Già, perché hai sempre, sempre avuto l’abitudine di accompagnare le tue poesie con dell’altro; dialoghi, reali o surreali, citazioni, versi sublimi o battute alquanto incomprensibili. Non era solo una questione di contenuto; era anche una questione d’aspetto, e non tanto per rendere esteticamente più gradevole la tua poesia (oh, aspetto che certo non hai mai trascurato), quanto per mascherare la tua paura di non essere all’altezza di questa raccolta, del tuo proposito.
Cominciarono anche i miei voli pindarici – e nonostante le tue rassicurazioni, sono certo che t’avrò spesso annoiato. Ma spesso t’avrò anche incuriosito. E quelle tue parole avevano un eco grave, per te, per me, per lui, per lei, per l’umanità; un monito:
Camminiamo ad un passo dall’oblio.
Ho scoperto anche la tua solitudine (interiore), solo dopo avrei capito che è anche un bisogno fisiologico, perché talvolta l’aria si fa troppo rarefatta e il corpo esige qualcosa che per noi resta un mistero. E bisogna conviverci, ma si può affrontare. Io l’ho imparato qualche tempo fa; lo stai imparando anche tu, poesia dopo poesia. Ma quella solitudine, quella solitudine è… appiccicosa.
Poi è arrivata quella tua perla, una delle tante. La prima in ordine cronologico. Con quel ritornello suadente, quella supplica meravigliosa:
Solo un minuto?
Lei è davvero gentile, signore.
Trovi rifugio nei tuoi luoghi preferiti, anche loro hanno trovato posto nella tua raccolta. C’è la tua anima, me ne sono reso conto sempre più, ed è una constatazione che toglie il fiato. Ti sei svestita, qua, in un forum dove chiunque avrebbe potuto leggere fra le righe, come leggendo nei tuoi occhi, chiunque avrebbe potuto capire chi sei. Ci voleva coraggio. E faccia tosta.
Boccheggiamo avari, illusi,
ma il respiro precipita, muore
.
Uno dei tuoi splendidi finali. Era pregnante e concreto, ma l’avrei compreso del tutto soltanto in seguito, e dire che invece l’avrei potuto cogliere in pieno fin da subito quel significato. Avrei solo dovuto pensare a me alla tua età.
In compenso eri già passata alla storia per il tuo essere minuziosa e certosina.  
Poi ho conosciuto la tua circolare e morbida malinconia, racchiusa fra i pollini; e la tua fredda e appassionata ricerca di risposte  - ma era piuttosto una pioggia di domande dalle troppe complicazioni.
“Che fai?”
“Leggo Bukowski per imparare a sopravvivere.”
Io compivo 23 anni, tu imparavi, una volta in più, a sopravvivere alle intemperie della nostra vita circoscritta:
fino a quando non mi percepisco
vuota,
sfibrata,
devastata,
e sottile come una foglia
violentata con disperazione
dal
vento.
Eppure volavi ancora.
Ho scoperto quindi la tua insofferenza per le domeniche e la voglia di evasione che portano con sé (qualcuno direbbe, adesso, che sei un caso disperato!). E già si intravedeva una delle tue vie di fuga preferite, un passo necessario verso la purificazione:
Ma devo uscire; devo scappare
da queste spettrali mura intonacate,
da questo rifugio ostile e monocromo:
voglio camminare, voglio correre.

Dopo – che poi sarebbe prima – ti sei fatta adorabile ed eri bellissima nel difendere la libertà di amare. E poi la corsa (e quella purificazione, che culmina nel candore dei fiocchi di neve; poi l’insonnia, le notti tormentate – e che iniziano con quelle E’ che non correggerai mai; e l’alba, forse il momento più sacro della giornata; il suo silenzio e la sensazione che il mondo è sotto controllo, che puoi programmare la giornata destinata a venire. Sei la prima ad osservarla mentre, timida, nasce. Rigorosamente bevendo un tè od un caffè.
Il tuo sette gennaio / mio cinque marzo mi hai strappato un sorriso. Hai condiviso una piccola vittoria, contro un nemico invisibile e ben nascosto dentro di te. Eri orgogliosa di te stessa, noi di te.
Dopo veniva la paura di dimenticare; e poi ancora, introdotta dalla Woolf (per la prima volta ce la presentavi), parlavi delle tue sofferenze. E io accolsi il tuo invito finale, risposi con le mie. Sei stata anche questo; conservavi con i tuoi versi, parlavi di te e scrivevi per te (con le dovute eccezioni), ma conservavi. Coi tomi affabili.
E le maree hanno trascinato con se i finali e il rapporto travagliato che intrattieni con loro; tutto finisce, purtroppo. Presto il Nonostante tutto avrebbe preso il posto di quel purtroppo. Hanno trascinato, quelle maree, anche la tua avversione ai luoghi affollati e il tuo amore per i luoghi di cultura – no, non c’è alcun paradosso. La cultura la si apprezza attraverso la contemplazione, non con le visite guidate. Sei fatta così.
Il mio viaggio a ritroso si chiudeva mentre ti scoprivo ancora legata alla bambina che sei stata e che sei ancora adesso, seppure in veste diversa (non smetterai tanto presto di reputarti infantile, o di avere paura che gli altri possano farlo al posto tuo. Ti autoaccusi per esorcizzare questa pausa – ti hanno imparato a crescere e non puoi più tornare indietro. Nonostante tutto).
E la tua promessa/speranza d’una vita (semi)nuova apriva la raccolta.
D’altra parte, io viaggiavo anche seguendo il regolare corso degli eventi. E Gennaio era quasi al termine, mentre predicavi la voglia di vivere la vita come fosse un’avventura (quasi come per farti prendere per mano, per avere meno paura dell’ignoto e del noto abitudinario; non si può correre in eterno); mentre le domeniche empty passavano lasciandoti incolume (or almost); mentre parafrasavi l’odi et amo di Catullo; mentre ammiravi la Scrittrice di storie:
 
Scrisse troppo,
scrisse ancora
e scrisse instancabilmente.
Sembri quasi tu. E le tue poesie non mancavano mai di colpirmi. Ti dissi qualcosa che adesso, dopo un anno, non posso che confermare:
ci sono poesie che mi riescono estremamente semplici da commentare; altre che mi toccano in una maniera più profonda o troppo superficiale: e allora o fanno male o non mi scalfiscono neanche. Di solito, le tue poesie sono una dolce via di mezzo: non sei mai estrema, mai abbandoni ogni speranza, mai regna l'assoluta disperazione nei tuoi versi. E neppure si potrebbe dire che sia il regno delle gioie, della celebrazione di ogni giorno come il più bello fra i belli. Anche in quelle dal tono più tragico c'è una sorta di lietezza, forse data dalla cura nella scelta dei termini, che mai travolge del tutto chi legge. È come se affiancassi parole in ossimori cauti, che mai possano risultare letali: non scrivi per uccidere.
Hai sempre avuto il tocco delicato e la mano ferma. Come quella di un artista o di un chirurgo.
Volarono via gli ultimi tre giorni, tra il desiderio di farti poesia,  titoli geniali  e una strada ancora tutta da percorrere.
Iniziai a leggerti nel tuo secondo mese di scrittura poetica. Ti dissi: La tua poesia di oggi è breve; tu, che sei loquace in qualunque forma, hai sintetizzato, hai 'condensato' quanto più possibile. Hai voluto iniziare così febbraio.
Iniziavi in punta di piedi, senza far troppo rumore. Avevi bisogno di silenzio, eri in apnea.
Incontrai allora i tuoi dolori (simili a quelli del giovane Werther) e la tua rassegnazione; la tua immaginazione cavalcare all’ombra del Big Ben, nel giorno del tuo compleanno, e io giocavo già con le tue parole per descriverti – era un abbozzo, eppure credo fosse vivido e sorprendentemente plausibile. Una dama dall'armatura luminosa, ecco come la definirei.
Febbraio proseguiva; c’erano sinapsi pronte a collassare, fallimenti preannunciati (da chi? Da te), poi quell’aria che mancava. E la paura della morte, dell’oblio, ritorna. Sì, e ci accompagna tutti. Non in biblioteca; uno dei tuoi luoghi, in cui il tempo ti scorreva a fianco, tra le inadeguatezze dei caffè e le reazioni chimiche da imprimere nella mente. Le giornate erano lunghe, ma scorrevano; la primavera si annunciava già, nei tintinnii; le stelle si stampavano sui cieli e rifiutavano di cadere giù, mentre io notavo il tuo pessimismo leopardiano, la tua forza d’animo nietzschiana (smettere d’essere troppo umani?) e ti leggevo così:
Rimangono filamenti d’incantevoli incubi
profumati di resina
E sapevo, sapevo che dipingevi con le parole. Lo facevi anche quando parlavi di te, dei tuoi limiti fisiologici, dei problemi di cui dobbiamo prendere atto. Avevamo qualcosa in comune, mentre tu scrivevi e io leggevo i tuoi versi. L’ambizione di essere progettati in maniera migliore, e non per essere destinati a sfaldarci. Era l’ambizione di fragili entità malinconiche disperse.
All’ombra luminosa della luna hai poi ripensato alla tua infanzia e ai “tuoi” bimbi, al sentore di avere qualcuno accanto – la solitudine come un’illusione, nulla di più -; ti svegliavi e il pensiero andava a baci innamorati, sanguinanti; e le parole, solo parole, troppe parole pronunciate, scritte, recitate e troppe altre parole relegate in stanzine piccole, dentro di te, in cui le (co)stringi (a stare).
La pioggia profumava e tu cercavi d’orientarti fra i sussulti tachicardici del tuo cuore, normalizzati soltanto dal profumo rassicurante d’amicizia.
Arrivò il ventitré febbraio e io t’osservai lanciarti in un esperimento azzardato, inusuale a te. Volevi lasciar spazio a dodici momenti diversi in dodici ore della tua giornata. Erano descrizioni, speranze, tormenti. C’era tutta la tua empatia, la tua sofferenza condivisa. E nel monologo finale ti/ci chiedevi: Se vi dicessi tutto questo, pensereste di conoscermi?
E febbraio si accingeva a congedarsi, e tu sapevi che avresti dovuto lasciar andare anche lui. L’avresti seguito con discrezione, un po’ a distanza, per lasciare a ciascuno i propri spazi; e le manchevolezze e i rigori matematici ponevano fine al tuo secondo mese di vagabondaggio, si spegneva nell’anonimato.
Non sognare troppo arditamente
o ti brucerai le ciocche di capelli profumati
e i polpastrelli incerti si bucheranno maldestramente
nel disperato tentativo di afferrare l’impossibile.
Era troppo, persino per un’avventuriera coraggiosa ed impertinente come te.
Ed era già marzo.
"Tuttavia mi scopro forse curiosa, impertinente e fuori luogo
a desiderare che queste piccole istantanee sgualcite
si prolunghino – lascino vagare i loro filamenti argentei –
nelle ore, nei giorni, nel mesi – negli anni?"


Avresti voluto eternizzare l’effimero, forse per via del tuo problema con gli addii e con l’annebbiamento dei ricordi; ti sono sempre sfuggite le ragioni del disegno in cui appariamo nel ruolo di non-protagonista, così ti affidavi all’entropia dell’universo. E mi dicevi: e l'entropia è una cosa che emoziona anche me; non finirò mai di stupirmi davanti alla vastità del mondo e dell'universo; noi siamo esserini minuscoli con pensieri ancora più piccoli e... è tutto quasi magico. Toglie il fiato, no?
Toglie il fiato, sì. E mentre annaspando, non osasti rispondere quando ti chiesi:  Eppure, a ben pensare, non abbiamo molto da invidiare all'universo: anche lui pare sia destinato a spegnersi, solo che la sua agonia sarà più lenta. O per caso tu lo chiameresti ancora universo, nonostante l'oscurità in cui sarebbe avvolto e disperso?
Forse l’hai solo dimenticato. Il nostro Freud direbbe che no, non esistono coincidenze accidentali, ogni evento psichico è determinato. Temevi la risposta.
Il quarto marzo è superato e puoi accantonarlo. E non riuscirò mai a porre la parola fine sulla carta bianca. L’hai fatto invece. E marzo proseguiva: un’ode al cuore che irrorava emozioni; un flusso di coscienza a forma di poesia dall’alba al tramonto di un sole che finge di morire; uno schizzo di felicità sbarazzino; i resoconti di una serata poco seria e di un pomeriggio gocciolante. E poi la semplicità dell’amore, senza troppi fronzoli, un amore inerziale e immaturo; eppure intenso, (per)(in)vadente, alle origini di una primavera violentata dall’inverno. Era ancora presto. Era tempo di sperimentare:
 
ed
inevitabilmente
non vi muovete:
siete
immersa
in
un
mare
di
ricordi.
Orme sulla cenere d’una corrispondenza a senso unico. Ne so qualcosa anche io.
La poesia del tredici marzo è, a suo modo, altrettanto particolare: è un’apologia della donna, del sesso debole. Introdotta da Woolf, forse la Donna per eccellenza nel tuo immaginario letterario, una donna forte e debole allo stesso tempo; una donna umana, troppo umana. E tu eri là, pronta a difendere e lottare, eri agguerrita e polemica. Eri vivace, eri viva, pronta ad impuntarti. Non ero d’accordo con quanto dicevi, non del tutto almeno; ma era il modo in cui lo dicevi ad incantarmi, come sempre.
Ancora: le tempeste emotive su entità disperse, e la musica è tempestosa, avvolgente, tentacolare; le lettere, ciò che testimoniano (sono come zollette insolubili), la sottigliezza;  il sedici marzo e quella meravigliosa poesia. Non bastano poche parole, ne merita altre, merita le tue.
"Adoro passeggiare tra le vie, i vicoli e le strade diroccate,
troppo strette o troppo umide per il più delle persone;
mi piace il profumo di segreti osceni e di memorie intense
che s’inala passo dopo passo;
sono solita guardare il cielo, le nuvole, la pioggia
chiudendo gli occhi nell’azzurro assoluto e totalizzante,
mi faccio guidare dall’esperienza, dagli anni e dalle ore trascorse;
lo scroscio del torrente singhiozzante
e le risate accese e sfumate dei bambini
mi accompagnano lungo la strada."
Versi pieni di elementi ricorrenti, ma così ordinati e armoniosi. È poesia. E la resa al cielo, che mi sta tanto cara: chiudendo gli occhi nell’azzurro assoluto e totalizzante. E volavi ancora ( e così sia?): Inciampo in vite diverse e isolate dalla mia, […]non sono più io e solo io; divento parte della terra, dell’aria e della gente." Eri in comunione con il mondo, lo osservavi dagli occhi di una bambina cresciuta troppo in fretta. E le parole sono pregnanti, come le persone di cui – metaforicamente . – t’innamori:  Poi, le parole lette - a voce alta, sussurrando, nella mente – hanno un gusto delizioso e prepotente contro il palato; non dilungatevi in voci vuote, mi perderete di vista. La tua poesia scorreva veloce, scappava via, tu con lei. Verso la ricerca del sublime, verso l’apoteosi, lontana dalla superbia di un mondo osceno e in frantumi.  Lei, la bambina, sapeva ancora ricomporlo.
Nella seconda metà di marzo hai affondato le radici sul film di un grande poeta e sul quadro di un grande pittore, riprendevi in maniera composta – e ci usavi le accortezze di una madre ai figli – e tu, viandante in un mondo (interiore) senza superstiti, convogliavi ogni energia rimanente per sopravvivere ai cataclismi circostanti e interni, e il tuo proverbiale pessimismo ad accompagnarti mentre notavo che rispondevi alle tue stesse domande nella tua stessa poesia: Q) Si può scappare da se stessi? A) Diciannove marzo: nulla di fatto. Dopo una poesiadaleggerenonogginondomanimaungiorno (non era la tua, bensì di Saba), tu stavi solo come a fare da contorno con i tuoi versi, avevi bisogno di passare in secondo piano, volevi non essere al centro dell’attenzione, mentre ti districavi in due corsie di versi fra una prospettiva violenta e nichilista e una dalla saggezza dolce e delicata; l’accusa ai sognatori, cercando di mettere in scacco te stessa: Lo vedi che fine fa chi trangugia troppi sogni?, ma io ti facevo notare che parlavi di anime come di ebrei nella Germania nazista. Era avventato, insensato, rischioso. Stavi mettendo in gioco ogni certezza, volevi rivedere ogni evento sismico degli ultimi cent’anni e trovarvi un messaggio di Dio.
Proseguivi tra i tuoi deliri di presunto egoismo (ti condannavi e ti preparavi ad assolverti, ti saresti meritata la grazia) e le notti insonne con le litanie dei bambini desiderosi d’incantarsi dinnanzi ad una magia e ad una storia; il ventiquattro marzo – e quella è una data buffa, non ricordavo di te intenta a delirare sull’espatrio e io intento a delirare con aneddoti storici di dubbio valore; erano ancora versi di bisogno, di un richiamo silenzioso d’aiuto, di sentire un abbraccio e qualcosa di più, di Lui. Ho ritrovato due battute che m’hanno fatto sorridere.
Nothing to be done, direbbero Vladimir ed Estragon.
You should have been a poet, direbbero Vladimir ed Estragon.
L’espatrio sarebbe stato inutile, covavi già l’influenza; era l’ennesima sfida in versi.
Mi siedo e attendo, quindi,
qualcosa che forse non giungerà mai;
perché ho il terrore primordiale - assurdamente infantile
di perdermi qualcuno d’importante; di non vederlo;
di non riuscire a registrarlo nella memoria; e quindi aspetto.
Raccontavi paure comune a tutti noi esseri passeggeri, così indecisi e inclini all’errore; avevi bisogno di distrarti, persino correndo, persino con i malanni del caso (restare a casa significava respirare un’atmosfera a tratti opprimente, significava anche raccogliere nostalgia e rimpianti e dover farci i conti). Eri sul punto di piangere. E avrebbe pianto V. Woolf, se avesse avuto la possibilità di leggere l’omaggio che hai fatto a lei, in versi, con i tuoi versi. L’ammirazione il rispetto, anche nel momento più traumatico e avventato: il suicidio, lasciando indietro tutto e tutti.
Ma la marea andò via e la leggerezza tornò, tra piccole cose e la percezione di una sorprendente completezza umana, tra una notte stellata lì a farsi ammirare nella sua eterna fragilità; ma chiudevi marzo colma di tristezza ed ansia, perché un punto di volta nella tua vita stava arrivando e tu no, non eri pronta. Eri ancora fragile.
Malessere interno e mentale:
lasciatemi a me stessa,
concedetemi il silenzio che merito,
non voglio percepire i vostri pensieri integri:
i miei si frammentano irrimediabilmente
innanzi l’ennesimo fallimento, l’ennesima delusione.
Arrivò aprile e le forze che legavano i tuoi versi presero a sfaldarsi, cercavi concretezza e lasciavi trasparire solo versi taglienti o nulli; bastò un’alba a riprenderti, una minuzia, forse eri tu ad importi di sorridere, di nutrire fiducia. Componevi versi colmi di tenerezza e malinconia, ispirata dalla tua musa, immaginando un noi che non sarebbe giunto tanto presto (ma è un’attesa che renderà più dolce quel momento, credimi). Continuavi fra giorni archiviati nei ricordi passati, con il tuo amore per la scrittura sempre vivo, con meno artifici retorici  e qualche verso giù di tono – davi tutta te stessa per realizzare un sogno. Quante stelle, quante stelle… (ri)esclamavi, mentre controllavi di essere sempre tu e denunciavi, ancora, la nostra imperfezione; sei preda di questo tepore così familiare e così melanconico. Arrivavi alla centesima poesia, eri felice e realizzata in quell’istante – ma eri già tesa per i prossimi giorni, poetici e non: È un dare per ricevere; è un ricevere per donare di nuovo, assicuravi.
Poi il nulla, nelle sue vesti spaventose, e le corsie delle cliniche in cui riuscivi a trovarvi poesia, e le notti in cui il tempo sonnambulo sembrava non trascorrere più, sembrava fermarsi per sempre. E gli incubi, tornati irruenti, non ti permettevano di godere della vita che pure c’era, nonostante tutto (e quel sogno che, per te, era quasi-tutto):
Tutto splende;
magari
riuscirò a trovarne un barlume
anch’io,
di quel sole.

Non lo trovavi, ma il Sole c’era. Tu però non eri abbastanza. Ti salvò l’uscita scout, un piccolo impegno quasi imprevisto, mai così opportuno; e la veglia, persone che ti alleggerivano l’anima (E sei già un po’ meno sola e un po’ più reale.) e un altro momento, di tre giorni, indimenticabile (è il compito che dai a te stessa: ricordare. Anche scrivendo, se necessario. Lasciare una traccia).
Eri tornata, meno fragile ma pur sempre insicura e tormentata, non credevi nel lieto fine; solo la fiducia-collaborazione di qualcuno a te caro ti aiutava a sconfiggere certe paure. Ma il fallimento continuava a bruciare, a pizzicare la tua pelle e non darti pace. Scrivevi poesie difficili, ricordo benissimo quel periodo. I tuoi versi erano pesanti, pesantissimi; non erano versi cattivi, ma scriverti si faceva difficile e doloroso, correvo il rischio di toccare nervi scoperti, di farti del male. E tu soffrivi abbastanza. Eri disperata, avresti voluto non fallire con lui, e ogni riferimento diveniva l’occasione per riporre in Lui gli ultimi barlumi di speranza. Non eri in grado di riversarli in una direzione diversa, era un cambio di rotta ancora precoce. Nonostante fosse indispensabile, rimandavi la ripartenza. Eri un treno ingoffato.
Poi ti rallegrasti del vento. Era una piccola gioia, una scoperta da niente, ma era qualcosa. E le distrazioni cominciarono a portar via quell’aprile che ancora  arrancava; logorata dalle promesse mancate – o eri solo confusa – alzavi bandiera bianca e ammettevi a te stessa che, in quel caso, il mondo aveva avuto la meglio. Eri stata sconfitta, avresti dovuto cambiare rotta.
E la notte piomba su di noi, implode in se stessa e nei nostri cuori;
Mi sveglio, mi sveglio, mi sveglio
E non respiro, non respiro, non respiro;
solo un sogno, solo un sogno, solo un sogno.
Ti svegliavi. E ripensavi agli ultimi mesi, l’ultimo giorno di aprile, inconsapevolmente pronta a ricominciare. Sai che prima o poi dovrai farlo, sebbene timorosa di non svegliarmi l’indomani, vacillante: non sono altro che un’entità sperduta, ma serena, sotto questo cielo azzurro, abbracciata alla terra feconda e pulsante. Non ci credi molto, nella serenità dico, ma farsi coraggio era indispensabile. Eri pronta persino a supplicare:
Mi concederai di coricarmi col sorriso,
mi permetterai di non vederti,
di non desiderarti, di
non sognarti?
Il sei maggio avevi un piglio diverso; nuotavi fra le parole, ti dibattevi, citavi Saffo; eri pronta a tornare sui tuoi passi tornando bambini, dicendoti d’aver desiderato troppo.  Succedeva pure che le tue liriche si facessero quasi sofistiche, nell’accezione negativa del termine:
E forse il tutto è il nulla
e il nulla è il tutto.
 
Ma stavi ritrovando una via (quella giusta? Difficile dirlo, però era una via) e scrivevi su qualcosa di candido e senza finali troppo tragici: era un buon segno.
Un pranzo veloce, consumato tra una risata e un sorriso,
e poi via di nuovo; corrono tra l’erba, sotto un cielo gravido,
spolverati da una breve pioggerellina primaverile, ma
[i bambini ] si divertono.
Ed è questo che importa. Tutto il resto non conta più.

Era una marcia nebulosa, era una guerriglia di parole, e quasi ti sentivi in equilibrio: è una stasi pura, affascinante e benevola.
La tua voglia di rinnovamento procedeva con poesie più concise, meno dense; raccontavi di streghe teatrali, della primavera acerba e prossima a voltarsi dall’altra parte, con la pioggia ancora a picchiettare sull’uscio di casa; leggevi con le tue sorelline, la sera, e con una inusuale quietezza attendevi il che il dinamismo del mondo riprendesse a svolgere il proprio compito. Erano gli ultimi dieci giorni di maggio e tu scrivevi sull’apparire piuttosto che sull’essere, e mentre scrivevi una poesia che ti avrei detto “non mi piace” appuntavi una citazione di Anne Carson, non immaginando che di lì a breve mi avresti fatto innamorare anche del suo fare poesia.
Ti ricapitava ancora di cadere nel dubbio, se tornare indietro, giustificandoti con l’incertezza del vivere, ma i gelsomini erano spuntati e fingevi soltanto di augurarti l’apatia – non fa per te, lo sai.
Perché è così, no?
Le cose si affrontano di petto, dice Padre;
le persone si conoscono con il cuore, dice Madre;
le giornate si affrontano un passo dopo l’altro,
se ti fermi sei perduto, dicono.
Non eri sola, non lo sei mai stata; per questo la marea non ti prese, per questo riuscisti a sopravvivere alla vergogna per quella notte da codarda, perché l’amore è benevolo e allevia le pene e crea legami indissolubili, più forti del tempo e dei ricordi in chi è vivo; ti accanivi contro ogni dogmatismo, nutrivi cattivi presagi, dicendo: Il punto è che forse ci sono troppe cose che prevedo e non accadono. Eri infastidita dalle decisioni, dall’irreversibilità (e dalle inversioni).
Intanto era già giugno e tu meditavi sul linguaggio delle persone, del cuore, dei fiori; e ti crogiolavi davanti ad un camino pieno di semirimpianti: Inspiro ed espiro; sogno il tuo tocco delicato, i tuoi occhi violenti e il tuo profumo amaro; ma siamo anche ammassi di materia fedele alle amicizie, alle relazioni; siamo più fedeli agli altri che a noi stessi. Parlavi con te stessa, in poesie diverse, dialogavi.
Ti barricavi nelle macchine altrui per non pensare d’essere inutile, per scacciare via i fantasmi portatori d’incompletezza e d’inadeguatezza (e le domeniche non avrebbero smesso di renderti più malinconica del solito); ti riempivi di domande: E se io fossi vuota? E se tu fossi un nulla dentro? E il cielo pareva oscurarsi e farsi tetro, nefasto. Ma non eri vuota; avevi dei ricordi dentro di te, veri e immaginari, tuoi e altrui, parimenti necessari. E in una poesia brevissima ti ricordavi:
Ma dall’abisso si riemerge;
dalle ceneri si rinasce;
dalla guerra si ricostruisce.

E ancora: sono qui ed ora e non sono sola qui ed ora: non ho paura. Prendevi coraggio, il peggio era passato. Giocavi con l’html colorato – sei perdonata perché eri ancora convalescente in parte -, mentre ti indispettivi per gli addii temporanei e pazientavi nelle stazioni, in attesa di un treno. E per chi non creda che tu abbia un certo caratterino piccante, consiglio vivamente di leggere le note della poesia di giorno sedici giugno.
Giugno non fermava la sua corsa, al contrario del treno, e procedeva: il compleanno della nonna, con la tua tenera dedica poetica; certi sospiri proibiti e disdicevoli, frutto di serate anomale; il desiderio di visitare Parigi (quando ci andrai mi aspetto una cartolina); le “acute digressioni sulla parola margine”;  le enumerazioni:
acqua e pioggia; ematoma;
passi sul vento; la brezza mi bacia i malleoli;
tu singhiozzi; lei affoga nell’inchiostro;
sussulti; spasmi; la furia dell’orgasmo;
dita febbrili; corse mancate;
apnea ottica; scivolo sui ricordi;
l’odore di pagine vecchia;
libri strappati; maledizioni di fuoco;
vicende turpi; intrighi banali;
vite prevedibili; nulla dentro;
l’oceano risucchiato dalle ore.

 Non eri esente da giornate “no”:
Eppure ogni sera sembra precipitare una stella,
una galassia implode, un enorme buco nero
che risucchia ogni sfumatura piacevole in moti bruschi e violenti;
passi concitati sulle scale di granito, porte che sbattono,
domande infantili strappate da sogni d’incanto,
voci ed urla - urla e voci - ad un passo dal sonno ambito.
Ogni sera sembra che non ci sia un limite al peggio;
si precipita ancora, sempre di più, senza mai toccare, però, il fondo.

 
E quindi da poesie meravigliosamente e magistralmente  introspettive, che io descrivevo così: Non penso di peccare di presunzione se la definissi soltanto uno sfogo, realizzato magistralmente (in my opinion it's a little work of art, a mesmerizing piece of beauty) e destinato alla tua anima, a nessuno, a chiunque passi di qua. Come un iceberg impetuoso che emerge nel bel mezzo dell'oceano artico, come un cubetto di giacchio che scivola via dal contenitore e cade a terra, è l'ennesima traccia - niente di più, niente di meno - di te, l'ombra di un'orma che hai lasciato, oggi, nel mondo.
E dopo versi suggestivi di polverose soffitte piene di scatoloni di memorie; poesie dedicate alla tua Persona (e i tuoi immancabili e, sono pronto a scommettere a detta di tutti, orrendi calzini color senape); terzine frammentarie ispirate al ritorno nella tua raccolta di Saffo; i tentativi di condividere il tuo amore, la tua contemplazione artistica e la passione  per le perfette figure scultoree; le poesie riscritte (non nella stessa identica maniera; non ce la faresti).
L’aria mancava ancora, talvolta:
All’improvviso tutto quanto è troppo;
è troppo anche per me e per la mia pazienza;
per la mia voglia di fare, di vivere, di crescere, di conoscere;
si annulla ogni cosa improvvisamente;
il fiato s’arresta in gola e si annoda lì,
dolorosamente, fastidiosamente;
e non respiro, non respiro, non respiro.

(e lasciami dire che tu ami le triplici ripetizioni)
E leggo. E sbadiglio. E mi emoziono. E affondo.
Giugno si sciolse infine in un caffè insapore, era il trenta del mese. Il nuovo mese lo presentavi così:
Tornando alla poesia di oggi devo dire che mi è piaciuto scriverla; c’è un po’ di tutto dentro scultura, arte, acqua, pioggia, la persona, i desideri, le emozioni, i sogni e giusto un po’ di indecenza formale (esiste un termine simile?) quindi, sì, spero che piaccia un pochino anche a voi, che leggete.
E la citazione, bè, è presa da un poema di Shelley. E sì, preparatevi a citazioni di Shelley a destra e a manca;
lo amo, lo adoro, lo venero, ha superato il mio Wordsworth e sono ancora sconvolta dalla bellezza di alcune sue poesie. <3
Ambientazioni bucoliche (improvvise), poesie dai titoli pavesiani - verrà la morte e avrà il tuo sorriso. – poi la poesia del quattro giugno, con il suo carico di ansia, per un presente imminente (altrui e caro) e un futuro lontano (nebbioso e tuo).
Appunto tutto quanto, scrivo le mie giornate, descrivo
i miei appuntamenti, i miei sogni, le mie persone, i miei
sentimenti con grandinate di aggettivi a altri aggettivi ancora;
trascrivo le frasi che mi colpiscono di libri, di film, di voci
altisonanti; scrivo e metto ogni cosa possibile nero su
quel bianco abbagliante che è il nulla, che è la dimenticanza,
che è un futuro senza alcun passato.

Certe notti erano afose, ma comprimibili; in certe notti l’insonnia si camuffava da paura del nulla; la benedizione giungeva dalla pioggia di giugno: E tutto il male, tutti i rimorsi, tutti i sospiri se ne saranno andati verso l’orizzonte; e noi ci sentiremmo leggeri, come nuovi, sereni. Che ne dici? Io dico che sarebbe grandioso; giusto un po’ meno della marea che s’infrange contro gli scogli e risucchia le lettere abbandonate, forse; ma si può sempre migliorare. E il tuo idillio ideale con il tè, prima di un’ennesima poesia meravigliosa. Era rivolta a tua madre, era commovente.
È freddo ora che il sole si è coricato
e quindi ho infilato una felpa calda sopra la pelle
increspata e ho raccontato, ma racconto sempre troppe cose,
e Madre s’è seccata perché sbadiglia, ma non lo vuole
dare a vedere ed è stanca; dice che se non parli bene
io no che non ti ascolto, e io un po’ mi adombro
perché non è giusto, mi dico, ma poi annuisco
e preparo la tavola; metto una tovaglia nuova, quella
bianca e gialla con gli inserti arancioni, perché
da’ colore e magari porta anche un po’ di felicità
e riesce a farti sorridere, ma Madre non sorride,
perché sono stanca, mi dice, quel giallo abbaglia
un po’ troppo gli occhi, aggiunge, mi verrà mal di testa.
E il tuo silenzio, la tua assenza di una conclusione diversa da questa è il gesto più rispettoso e comprensivo di una figlia meravigliosa quale debba essere tu.
Crescevi intanto, te ne accorgevi di rado, eri preoccupata a restare in equilibrio per farci caso più spesso; e non rinunciavi a cambiare, nei versi, come quelli del dodici luglio, numerosi e brevi, musicalmente incompleti; dichiaravi solennemente di odiar ei puntini di sospensione – lo dicevo anche prima, devi restare con i piedi per terra, tu, non sospesa e incapace di dirigerti. Desideri essere libera, non di una libertà fasulla, mentre ti abbandoni in romantici sogni kafkiani. Poi ti rimproveri e ti rimproverano, con frasi nascoste malamente fra parentesi quadre:
Non sei più una bambina, ormai sei una donna adulta,
e non guardarmi così e non scrivere tutto il giorno; ci
sono molte altre cose che potresti fare ben più utili.
Frustrazione, perché scrivere è più che utile, è più che umano.
Quindi i paradossi (come sussurrare senza voce?), che sono metafore poetiche per le tue paure (perdere la voce?) e la ricerca della tua strada, cercando di sfuggire all’infezione del morbo dei Fantasiosi. Eri già infetta. E arrivasti alla tua duecentesima poesia. Era un traguardo importante ma tu non sei una che festeggia prima del dovuto; non c’era molto da festeggiare, quella sera:
La casa gravita nel silenzio tombale
dell’ennesima notte senza sogni né incubi
recalcitranti; le sinapsi condannate a sfibrarsi
e morire agonizzando in sorsate empie di liquidi
bollenti tanto quanto la vostra rabbia:

perché tutto questo non è giusto e
non dovrebbe andare così,
vi ripetete ancora e ancora, ma non cambia nulla;
non cambia
mai nulla;
ci sono solo guizzi di feroci lacrime ardenti
e cocenti tanto quanto le fiamme brutali dell’inferno
a tormentare le tue notti bianche. Solo un abbraccio.

Sembravi distrutta, ma il giorno successivo eri già fuori, coglievi girasoli. Sei così.
Trascorrevano le poesie, talvolta anche il tempo mutava di generazione in generazione nelle stesse poesie; trascorrevano anche le malinconie estive e reprimevi gli sbadigli, le nuvole non smettevano di partorire il sole; trascorrevano seguendo le logiche impervie delle sorelline e coltivando quella speranza fioca ma ardente (una candelina dalla fiammella ardente la definivi). E arrivò anche una poesia in inglese – infrangendo quella promessa e quell’assicurazione d’italianità poetica, per salvaguardare la coerenza della raccolta. Tsk, io ero certo che sarebbe successo. E me lo aspettavo, eri meravigliosa anche in quella veste:
It’s echoing around us;
pay attention:
do you feel my
waves of emotion?
Luglio sarebbe finite presto; restavano da vivere le tachicardie da spiaggia; le meduse spettrali; le responsabilità spinose; le incrinature cardiache.
Era il trenta luglio ed era ora di partire; ero un po’ triste; avevo passato un mese infernale con lo studio e avevo avuto troppo poco tempo da dedicare alle tue poesie e adesso giungevano le partenze di fine luglio e d’agosto. Mi saresti mancata, con le tue parole, e avrei avuto sempre meno tempo per poterti dire quanto mi sarebbero piaciute. Ma non ho mai smesso di leggerti.
Tornasti e cominciasti a raccontare di ogni attimo vissuto nella tua ultima avventura: il momento della partenza, atteso e un po’ teso; i sogni e i respiri altrui, tangibili e percepibili nella vostra vita momentaneamente vagabonda; gli ossimori concreti e quotidiani e vivificanti; le notti fresche e febbricitanti; le piccole emozioni; e tende che ospitano baci, abbracci, ossa e piedi scalzi; la veglia e la comunione di migliaia di anime fraterne;  hai anche avuto la forza di condividere gli attimi più brutti con i tuoi antichi mostri a fare capolino.
Il tuo ritorno lascia degli spazi vuoti, colmati da poesie vecchie di anni; e Cesare Pavese ti ispira ancora e fa dire: la notte pullula di stelle e sento potrei contarle tutte: una ad una. Un proposito ambizioso, ma so che saresti in grado di farcela. Così come hai superato la quarta fase dei traumi, su cui ancora preferivi non soffermarti (per scaramanzia e per non soffrire); e promettevi:
facciamo che passate
da me ed io vi metterò tra le mani dei petali di

esperienze strani e magnifici, colorate e dense come
l’acqua delle cascate che gorgoglia e scivola
sulle rocce consunte;

Eppure temevi ancora d’essere inutile; come quella volta, non a caso forse, mentre trovavi rifugio nella macchina altrui, somatizzandone la sfumatura d’amicizia. Era già agosto inoltrato, ripetevi come un mantra “voglio solamente sentirmi importante per qualcuno” con una certa impazienza;  e si susseguivano silenzi emotivi; e t’accendevi smaltandoti di rosso, contrastava la tua pelle chiara;  e quei pensieri dedicati – in ritardo – a Viola, e io notavo (e non potrei essere più d’accordo): Il tuo punto di partenza è un punto a suo modo fermo nella tua ricerca poetica e probabilmente esistenziale, è la fissazione che hai per lo scorrere del tempo e per le conseguenze che comporta.
Tu eri pronta a darmi ragione:
Tornerei indietro se potessi abortire il passato e ghermire
una vita altra con pugni più decisi, meno tentennanti, ed una
voce meno singhiozzante e rotta dal Terrore; se potessi non
mi sveglierei prima del sole e non riconoscerei con una fitta
al cuore i dolori e le ombre dell’alba violentata dal cielo.

(e sono versi riscritti tre volte)
La tua vita era di nuovo in mano tua, così come il manuale di anatomia. Non avresti mollato, non prima di un ultimo (?) disperato (?) tentativo. E scrivevi: termini inglesi terribilmente obsoleti; sulle idee parcheggiate nei palazzi sinaptici ; sui sogni riposti e che quasi non ti azzardavi a rimaneggiare:
 Non hai bisogno di un sogno oggi; la stanchezza ed il freddo sono
Semplicemente troppo grandi e troppo penetranti; però sai dove
Cercarlo, quel sogno, domani

E anche agosto si eclissò, dopo averti impaurito (E se dovessi fallire una volta ancora?) , dopo aver macchiato la carta porosa con nuove speranze (è ora di cominciare a vivere di nuovo), dopo situazioni casuali delle date che si incrociano e delle ricorrenze da non dimenticare; dopo un elenco di cose belle – e vale la pena rileggerle per capirti un po’ meglio:
I fiori pressati e lasciati ad imporporare
le pagine ingiallite di qualche tomo;
 
ii. Le bustine di tè lasciate ad annegare nelle
tazze a pois per mezz’ore intere – e l’acqua
che diventa scura, scurissima, pastosa.
 
iii. Le scrivanie che vomitano fogli volanti,
che cullano tazzine smaltate di caffè vuote;
 
iv. Gli acquarelli e le sfumature dell’acqua
e l’odore della trementina sulla tela e le chiazze
di colore concentrato sui polpastrelli;
 
v. Le poesie di Lorca che odorano di soffitta
di segreto, di fiori strappati brutalmente;
 
vii. Le antiche rune incise alla bell’e meglio
sui sassolini trovati in riva al fiume in montagna;
 
viii. I capelli appena lavati;
 
ix. La schiena nuda ed increspata dal freddo e
dal sole quando si aspetta il tramonto sulla spiaggia;
 
x. Le lettere di Virginia e Vita;
 
xi. Lo smalto per unghie rosso scuro, rosso sangue,
rosso bruno e denso; il rosso di quel maglione caldo;
 
xii. Le coroncine di margherite;
 
xiii. Il silenzio fragile e suggestivo delle biblioteche;
 
xiv. Il tedesco;
 
xv. I vestiti tinta pastello, panna, crema e beige;
 
xvi. Il respiro del mattino e l’alba che s’infiltra
insolente tra le imposte socchiuse;
 
xvii. La fatica dopo una lunga corsa ed i polmoni
che ansimano e le labbra che si tingono di serenità.
Settembre si volse con timidezza, era l’alba e tu aspettavi intrepida di assistere allo sviluppo di questo timido cielo tinta pastello. E ti è piaciuto dedicare qualche verso alla tua passione per la traduzione, esaltandone il significato oltre l’esegesi letterale; quindi i sogni ad occhi aperti, le meningi trillanti messaggi inviati per bolle, il tuo essere frammentata e unitaria (Non è mai solo, un qualcosa, mai), mentre le poesie perdevano forza – l’ansia, come mesi fa, cominciava a farsi pressante.
Quando, se mai, tornerai penso, oh sì,
penso mi troverai terribilmente sciupata
sciupata come una vecchia lettera abortita;
penso mi troverai piacevolmente sfumata

Eri sciupata, lo eri ma trovavi la voglia di raccontarci una storia in versi di un bambina che farà sbuffare una ragazzina indispettita; e poi, forse, il momento più bello dell’anno, mi dicono che questa volta ci sono riuscita. Eri senza parole, o quasi, per una volta.
Eri riuscita in questo, riuscirai nella patente, riuscirai in questa raccolta, riuscirai in tanto altro.
Fu una piccola svolta, poetica e non; ti lasciasti andare in confessioni notturne, sentivi d’accarezzare il cielo e i fondali marini (capirti non era dopotutto così importante), l’elenco della felicità prendeva il posto dell’ormai superato elenco di cose belle.
Non tutto aveva o avrebbe trovato il proprio posto (ma c’è un tempo per tutto); c’era ancora un dolore sottile, raffinato, grandine fredda, glaciale, e carne ustionata da fuochi inesistenti; ti dimostravi ambiziosa (vorrei catturare respiri con singole parole vibranti); c’era la malattia presente in quegli occhi assenti, ti spaventa(va) a morte; devi lottare e stringerti da sola per difendere la tua bolla di felicità dalle ammaccature, confidando nella protezione di rituali sacri che recitano ti voglio bene. Non sei mai stata pretenziosa, piuttosto sei stata pragmatica e in quanto tale, avvertivi il pericolo, che minacciava la tua felicità così duramente conquistata; e l’empatia diveniva una condanna angosciante e sbadigliavi nelle notti fasulle e ti scusavi e i tuoi echi raggiungevano le stelle. La tua vita ha sempre grondato d’ambivalenze e ti ha consumato i capelli mentre perdevi tempo a respirare; metaforicamente ti capitava di non-esserci, lo avresti desiderato quando:
E gli ansimi di una notte eterna; ancora urla,
ancora silenzi infranti – e ne hai abbastanza,
ma non riesci ad allontanarti dal nido, non ti
capaciti di abbandonare tutto e tutti; non riesci.
Sei debole, ti tremano ancora le gambe

Anche Settembre si apprestava a lasciar spazio ad una nuova stagione, tra i racconti di Wilde, la differenza tra persone minuscole e maiuscole, i troppi caffè e le menzogne che respiravi. Iniziava Ottobre:
Pizzicano le mucose al freddo della mattina
grigia – le dita s’ingarbugliano nella nebbia
densa e spessa tanto quanto il manto che la
notte ha fatto cadere ai tuoi piedi, denudandosi
e rimanendo con le ossa al vento: scheletro di stelle.

Vivi giorni senza copione, vaghi senza perderti nel tempo e nello spazio – ma poi ti chiedi dove sono? E non riesci a reprimere certi moti spontanei dei tuoi ricordi e di quelle sublimi sincronie d’amore; scrivi lettere  e graffi la pagina, forte di soli venti inverni; eppure diventano troppi, quando osservi le tue lenzuola fredde ed il tuo letto vuoto, riallacci i rapporti con poesie in inglese iniziate da tempo che recitano:
I sigh singing in a muttered voice a little and small
Refrain of a forgotten and ancient song;
That’s a lullaby which gives me a sort of relief
And my hearts aches less. 
And so the night goes on. 
It will be worthwhile dici e non noti che per la seconda volta hai usato un colore dei caratteri diversi; una sfumatura ti è sfuggita. E allo specchio del bagno ti rifletti e la luce pallida carezza le tue iridi verdi; fuori brillano le stelle silenziosamente tonanti e tu ci spieghi che leggi perché non resiste alle lusinghe delle vite e parole altrui. A ciascuno le sue debolezze. Sono parole e vite che non saranno mai perfette (sebbene alcuni lo meritino, noti), ma che nei loro cieli paralleli ti offrono riparo, sono fonti di fantasia ed estasi pura, precisi come i meticolosi dettagli dei sogni: ho tutte le intenzioni del mondo d’imprimermi nella mente e nella memoria febbricitante tutti i tuoi particolari, dici, senza smettere d’essere innamorata, senza smettere di provare qualcosa per qualcuno. Intanto ti abitui a nuove usanze e costumi; sei una studentessa universitaria e la tua vita è mutata di colpo, trafitta dagli impegni, dallo studio, dalle lezioni che sei felice di seguire. Viaggi e leggi e il segnalibro è alla stessa identica pagina di quando sono partita per ritornare. Non mancano le preoccupazioni per lei che ti è cara e tesa nello sforzo disumano di rimanere ancorata alle ossa e non puoi non scriverne e non potrai tagliare i capelli, che cresceranno ancora un po’.
Raggiungi quota trecento poesie. È un numero che ti spaventa, che suscita ammirazione e timore reverenziale. Ne approfitti e lasci ancora le tue richieste: sono le stesse di sempre, con quello stesso bisogno d’essere importante per qualcuno, qualcuno che si offra d’essere il tuo centro orbitale.
E anche ottobre si raccoglieva su di sé, mentre abbandonava una ragazza docile, infreddolita, incapace di contenersi, in attesa, ricomposta in alternative forme.
Novembre ti scuote, ti scopre fragile; ripensi a Parigi e ti trattieni, conscia che:
(Non posso dire altro.)
Eppure basta un giorno, poi:
Cammino tra castelli immaginari
- alte guglie e segrete negli abissi
dell’anima che vibra, che giace
sconquassata; non dovrei pensarlo
 né dirlo né probabilmente sognarlo.

Ti concedi di ammiccare e accennare a qualcosa che infrangerebbe un limite, sei così presa dall’intento di percepire il tuo respiro tra i miei sogni, perché il cuore pulsa e vorresti qualcuno a condividere le prospettive dei tuoi orizzonti romantici – sembrano fatti per due. Sai di rischiare, sai che ti artigli su qualche gracile parola sospesa nell’alba purpurea, è quasi come una volta; come in passato, come quei brandelli di malinconia e la tua carne è un superconduttore, e i versi si assottigliano. Si coprono. Si camuffano. Nascondono qualcosa. Quasi a metà novembre ti rivedi vacillare, frantumata da questi dubbi, da questi rimorsi, dai nuovi e se; riemergono le vecchie contraddizioni:
 vorrei non essere così sola e così
attorniata da gente, da persona, da corpi
vibranti e annaspanti

non avverto quasi più niente; non
avverto quasi nemmeno me stessa;
l’attesa mi dilania e le domande sopite
mi colpiscono violentemente, spingendomi
e facendomi precipitare oltre il confine.

Ma la tua mente riprende a viaggiare – a desiderare l’idea di viaggiare, della primavera, e il motivo parigini ti stuzzica e assalta i tuoi versi, s’intromette; e quella poesia del diciannove novembre, in cui ti svesti e ti abbandoni in dei versi magnifici. Sei più sfacciata d’un tempo. E continui a meditare sulla incombente catastrofe che dovrai affrontare da sola, alle lotte impari a cui dovrai adeguarti da sola; come chi perde l’orientamento, l’aria profuma di ghiaccio e spezie lontane; ma non ci sono stelle. Rileggi le lettere mai spedite e ci confidi che, forse, non sei mai stata in grado di scriverne – certo non di spedirle; delle piccolezze vibranti  e delle spezie aromatizzanti impreziosiscono le tue attese; le tue poesie sembrano più fioche mentre si spegne novembre. Solo l’ultimo giorno ritrovi te stessa e la voglia di scrivere:
Succede a tutti; nessuno pretende da te la perfezione distorta,
e non dovresti farlo nemmeno tu;
hai un cuore che pulsa vivido e vibrante nel petto,
la tua pelle profuma di occasioni da raccogliere
e di emozioni forti, i tuoi occhi guarderanno
oltre il tramonto; concediti di rannicchiarti un po'
e di addormentarti con la consistenza appiccicosa
della malinconia e dei dubbi addosso;
rimani bellissima anche così.

Accedi all’ultimo tassello dei dodici; il tempo comincia a dilatarsi e restringersi, intrappolato fra anafore e ripetizioni discordanti; il tempo ha perso importanza per quella donna che vai a trovare e a cui annunci il Natale imminente; è una poesia che non t’accorgi di inserire per due volte, e che spiegherà il perché del 366esimo giorno.
Galleggi placidamente mentre manchi d’intingere la pagina, ti manco qualcuno; fai visita a una folla di alberi, ti manca qualcuno; prepari una lista di fioretti, vorresti in cambio soltanto qualcuno: cerco qualcosa, ripeto. E anche:
Aspetto qualcosa; il sonno,
forse; il silenzio, forse; un momento per
uscire dall’apnea, forse; o magari aspetto
solamente un mazzolino di viole.

Frattanto s’intromettono le tue imperfezioni e quei limiti incomprensibili – perché l’accesso a gran parte del nostro cervello ci è negato? – che ti rendono padrona di niente.
Non mi resta che chiudere tutto a chiave, in un
cassetto che odora ancora di vecchie fotografie
e di resina dorata – lo riaprirò prima o poi.
(Mi auguro sia un prima che un poi.)

Sarà il tempo a dirlo – e i tuoi capelli si slegano e vivono di vita propria e saresti disposta a concedere persino a loro quelle tue chiavi – se solo promettessero di non dimenticarsi di te, di curarsi di te. Per l’ennesima volta rischi di annegare nelle Ore che rigorosamente  ti ostini in certe occasioni a scrivere con la maiuscola; per l’ennesima volta quei venti inverni alle spalle mutano forma e assumono il peso di macigni, raddoppiano; e i dubbi si fanno tremendi:
due paia
di occhi – scuri e chiari – che si scrutano, si analizzano,
si studiano (
ohi, sarà mica un duello, questo, o forse sì –
magari in senso poetico, narrativo – o forse no per davvero?)
perforano l’altro, quasi a tentare di denudarlo con pura
e cruda curiosità, bramosia, tristezza, malinconia;
un paio di minuscoli cosmi racchiusi in due crani
così diversi ed eppure così simili:
questo fa paura.
Non sei più chiara come un tempo, nei tuoi versi; ti trattieni, non valichi più i confini.Ed è un continuo viaggio nel tempo:
M’abbandono a vecchie memorie di antichi
giorni dipanati con polpastrelli tormentati;
affidate con cura a ingiallite pagine romanze.

E anche dicembre si prepara alla Fine.
La prima poesia l’ho scritta alle elementari
e la maestra l’ha letta ad alta voce davanti
a tutti; la prima vera poesia l’ho scritta una notte di
marzo di quasi quattro anni fa – e da allora mi piace
pensare di non aver più smesso – per sfortunaoperfortuna
Verrà Natale, porterà una buona dose di malinconia, con la paura di perdere. Desidereresti un Natale diverso. Dopo la penultima ultima lista dell’anno: un elenco di brividi, più cause ed effetti. L’ultima la dedicherai, in maniera vaga, ai poi dell’anno a venire. E le giornate hanno sempre qualcosa di sbagliato:
e risate per una volta riecheggiano anche
nella dimora famigliare, e tutto sembra più

Recensore Master
24/12/14, ore 20:46

Ciao! Rieccomi!!
Innanzitutto buone feste.
Poesia toccante, davvero sorprendente.
Anche io le perdo le forcine!
Scherzi a parte è davvero bellissima.
Quell'aroma del caffè che accompagna tutto il componimento è sublime.
A presto,
-JB45

Recensore Veterano
29/11/14, ore 16:08

Meravigliosa, meravigliosa, meravigliosa.
Sai parlare di te in modo splendido, sai come descriverti, sai come scriverti.
Bellissima.

Recensore Master
17/11/14, ore 23:58
Cap. 286:

Hey! Era da un po' che non ti seguivo (e mi dispiace molto) e, scegliendo questa data, vedo una poesia non solo abbastanza lunga, ma in inglese! Per un attimo mi sono domandata se non avessi cliccato per sbaglio qualche altra pagina o autrice, e invece no. Così l'ho letta e mi è piaciuto molto il pensiero della paura del giorno, a differenza di molti che hanno paura della notte. Riesco sempre a trovare qualcosa di mio nelle tue poesie.

Recensore Veterano
13/11/14, ore 11:13
Cap. 312:

Questa poesia è bellissima.
Esprime una serenità unica. Una gioia inscrivibile.
L'uso delle parole, la metrica, tutto è modellato per rendere questa poesia una vera avventura.
La scelta delle parole, così auliche, ma non elaborate e ampollose. Il sottile senso percepibile tra le righe, tutto porta a pensare ad un momento di pura estasi. Credo la dedicherò, è davvero fantastica, molto forte, ma così delicata.
Sento il profumo di novembre, sento una forte passione che sgorga, sento l'animo divampare.

Recensore Veterano
09/11/14, ore 10:53
Cap. 308:

Intanto buona domenica.
Era da un po' che non commentavo, approfitto della domenica mattina relativamente libera per passare di qua.
La poesia è tua, tipica di te; c'è una vena malinconica che aleggia nell'aria, volteggia, poi cade e lascia il posto ad un tono quasi rinunciatario, è consapevolezza di pretendere troppo o è solo paura di sentirsi rifiutati?
Intendiamoci, la prima strofa sa già cosa sta facendo, conosce già la soluzione; ma non è così facile, dico bene? Non basta sapere cosa fare, bisogna trovare il coraggio di farlo.
Le emozioni sono visibili, emettono segnali luminosi fin troppo chiari:

"Mi fissi le labbra ed io,
infantilmente, non ricordo
più nulla – "

Tutto il resto svanisce - ti ricorda nulla?

"devo ancorarmi
alle povere regole e ai moduli
spartani di un’esistenza che
non riesco più a percepire tra
un battito di ciglia e un sospiro
annegato in un caffè troppo dolce;"

Un'esistenza sfuggente, come se fosse stata tramortita d'un tratto e non ha ancora ripreso coscienza. Forse è soltanto un mascheramente. Qualcuno potrebbe dire che è amore. Qualcuno potrebbe dire che è solo innamoramento. Ed è ben diverso.
Comuqnue sia, c'è una persona, coi suoi due occhi il suo naso e la sua bocca, una persona reale insomma, molto più reale di quel cielo e di quelle stelle a cui è persino semplice rinunciare.

"dovresti smetterla di spingermi
a soffocare i miei respiri, non credi?"

Dovresti, sì. Ma forse non saresti più te stessa, se non continuassi a coltivare l'abitudine di soffocare un respiro minuto, un battito di ciglia, una contrazione del tuo corpo. Non puoi rinunciare alla compostezza emotiva, non sarebbe da te. Devi solo stare attenta a non lasciarti prendere la mano; tieni il conto di quanti soffocamenti sei causa, fa' in modo che siano innocui, cogli i momenti più adatti. Potrebbe essere una soluzione alternativa ad una presunta cura che, forse, neppure esiste. Non credi?

"Cammino tra castelli immaginari
- alte guglie e segrete negli abissi
dell’anima che vibra, che giace
sconquassata; non dovrei pensarlo
 né dirlo né probabilmente sognarlo."

Belli i versi di questa strofa. Tutti camminiamo tra quei castelli, a volte qualcuno si perde, altri svaniscono. La via d'uscita c'è, basta non perderla di vista, non allontanarsi troppo (come, forse, pensi d'aver fatto?).
Ci sei tu in mezzo a questi versi e c'è qualcun altro. C'è un ostacolo, un blocco interiore, un divieto tassativo.Ci sono più personaggi in questa poesia: qualcosa d'intentato, un rimpianto pronto a farsi avanti e il disagio dell'incertezza. Difficile indovinare chi prevarrà.

Complimenti per la poesia e per la mole di versi che hai accumulato finora. Comincia ad incutermi timore la tua raccolta.
 

Recensore Junior
06/11/14, ore 20:28
Cap. 290:

Mi è piaciuta, mi piacciono le tue poesie; ne ho lette alcune a seconda dei giorni che mi ispiravano e alla fine non so mai cosa potrei scrivere in una recensione se non che mi sono piaciute e mi hanno lasciato qualcosa.
Complimenti! (le recensioni non sono il mio forte come si è notato)

Tomboy

P.s. da dove è presa la citazione in tedesco?

Recensore Junior
29/10/14, ore 15:21

23 luglio... ventitré luglio... il giorno del mio compleanno! Vabbė, molto carina questa serie di poesie. Scritte anche se non molto scorrevoli, ma comunque per l'impegno di scrivere una poesia ogni giorno o anche di più merita una recensione positiva e molti complimenti.

A presto-,
Ginevra♥

Recensore Veterano
18/10/14, ore 13:15
Cap. 284:

Sbaglio o nel titolo hai citato Freud? Se ben ricordo, qualche tempo fa - in estate, te la avevo già scritta io, quando studiavo Lacan e Freud  :3
Fra l'altro è bellissima, avevo anche imparato a pronunciarla in tedesco, aw.
Bello rileggerti e riscriverti in versi; considerando quanto tu sia impegnata, adesso più di prima, è magnifico pensare che tu riesca ancora e sempre nell'impresa di scrivere una poesia al giorno - e il giorno finale, l'ultimo giorno si avvicina sempre più, ci pensi? È già quasi novembre, il mese prima di dicembre e della fine dell'anno.
Penso che i versi di "oggi" mostrino bene, ancora una volta, una parte di te e del tuo modo d'essere. La tua cautela si mescola ad un pizzico di felicità, si interseca con il tuo pessimismo cronico e con il tuo moderato ottimismo che scaramanticamente tieni nascosto, queste tue parole incontrano la tua soddifazione professionale e l'insoddisfazione intima e personale. Il distico finale è incisivo e la dice lunga su quello che provi, su quello che pensi d'essere e di poter essere. Sei un po' scissa e poggi su sfumature diverse che cerchi di mantenere composte, fai tutto quel che serve e gioisci dei traguardi raggiunti, senti l'ebrezza della felicità intorno a te, delle convinzioni e delle certezze che vorresti assorbire, come per osmosi. Il distico quasi infrange le speranze della strofa; sei sempre pronta a ricordarti di tenere i piedi per terra, sembri quasi convinta che non potrai spiccare il volo.
"Ma io sono io." ed è vero, ma tra cinque anni le costellazioni saranno allineate diversamente, la nostra galassia si sarà spostata nell'universo e tu sarai una persona diversa in una congiuntura (non solo astronomica) diversa.

Complimenti ^^

Recensore Master
17/10/14, ore 19:49
Cap. 284:

Ciao! Scusa l'assenza ma ho impegni vari. Però oggi avevo proprio voglia di una tua poesia!
Mi piace molto, perchè parla del farsi bastare e dell'accettare che noi siamo noi stessi e per quanto ci sforziamo non possiamo avere tutto ciò che vogliamo.
Alla prossima!!
<3
-JB45

Nuovo recensore
15/10/14, ore 22:01
Cap. 75:

Ho iniziato a leggere le tue poesie da poco, nonostante io abbia riconosciuto la tua bravura tempo fa. Le leggo quando ho un briciolo di tempo e, ogni volta, non mi pento di averlo investito in questo. Non ti ho lasciato nessuna recensione finora, ma questa ne meritava assolutamente una! Credo sia la mia preferita. Mi rispecchio in ogni cosa riportata in essa e, parlando in generale, le tue poesie sono per me un modo per comprendermi meglio, esprimono me stessa. Grazie perché "mi fai compagnia" ogni sera. Continua così, perché - detto in parole povere - stai andando alla grande!
Complimenti!
Saluti,

MssHodh

Recensore Master
01/10/14, ore 20:58

Ciao! Un attimo libero ed eccomi!
Bella questa riflessione sulle persone, quelle di cui hai soggezione, quelle con cui scherzi e quelle che ti lasciano un segno, ma non ti lasciano per nulla (scusa il gioco di parole). Persone che saranno sempre con te nel bene o nel male, le persone di cui ti puoi fidare.
A presto!
-JB45

Recensore Junior
24/09/14, ore 13:30

Mi viene l'immagine di questa donna che sul far della sera si rigira tra le mani una penna per capire che cosa prova in quel momento. Un bellissimo componimento.
Forse la parte che ho più apprezzato è

Ma ho le palpebre pesanti e le ciglia che
piangono postille in una lingua dimenticata;
leggere e delicate lettere trapuntate di sogni.

Ogni parola occupa un posto quasi naturale.
Bellissima :)

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