Tu sai bene quanto io adori le tue storie.
C'è dentro tutto. La vicenda, un taglio introspettivo mai esornativo ma sempre esplicativo, un'attenzione al dettaglio, alla parola, ai suoini, alle tradizioni. Una premura antropologica. Linguistica. Letteraria, ché la letteratura, specie quella antica, è specchio degli usi e costumi del popolo che l'ha prodotta. Nei tuoi scritti, siano essi lunghi oppure fugaci meteore di cento parole secche, c'è tutto questo. Ed un respiro classico che non è mai vuoto orpello o squillante cembalo - come avrebbe detto qualcuno - che si limita all'acuto che rompe il silenzio.
Il tuo respiro è melodia. Che prende il lettore per la mano. Lo coinvolge. E lo guida lungo sentieri che non affaticano. Anche quando la materia che vai trattando non è proprio il pane quotidiano del lettore che la tua storia ha graziosamente preso per mano, come se si trovassero all'interno di un girotondo, o una danza corale.
Lo dico con un sentimento bipolare che mi attraversa la mente (bipolare non in senso clinico, sia chiaro): da un lato c'è la sensazione di beato appagamento che si prova quando si assiste a qualcosa di bello, che sia il tramonto a picco sul mare o un concerto poco importa. Sono felice. Soddisfatta. Un'orca sazia che fa le capriole nel mare aperto.
Ma dall'altra, c'è l'odio viscerale che nutro per Freja/Freya/Flare: mi spiace, ma per me la gattamorta asgardiana è una delle zavorre che affossano la saga di Asgard (ma si rincuori, la principessina, ché non è sola in quest'impresa!). Lei che piange per i suoi ricordi e non per la morte di un essere umano. Lei che assomiglia così tanto alla mama di Hyoga da far scampanare a distesa il mio senso di ragno ed accettare che sì, il nostro paperotto soffre di un complesso di Edipo grosso quanto l'Undicesima Casa. se non di più.
Ma - perché arrivati a questo punto c'è sempre un ma in agguato, come la tigre nell'erba alta - mi sono bevuta questa storia. Nonostante Freja/Freya/Flare. Ho visto. Ho percepito. Ho provato una genuina comprensione. Per tutti e tre (quattro, va!) protagonisti di questa storia, due che godono dell'occhio di bue, e due solo nominati, ma il cui peso, nella vita del nostro eroe, è assimilabile ad un macigno di quelli buoni per edificarci le case.
Colpa tua. Della tua penna che scivola come un pattinatore fa sul ghiaccio, come i cigni fanno sul mare, come la neve che cade senza posa.
E ho amato le differenze linguistiche, pennellate di colore appena accennate. Un acquerello di suoni e parole che qui ha senso vengano a galla. Perché la diversità non consiste solo nel colore dei capelli, degli occhi, o nell'avere Jol da una parte e il Natale dall'altro (che se andiamo a spaccare il capello in quattro, il Natale di Hyoga è il sei di Gennaio. L'Epifania), ma è soprattutto la lingua che parli, che ascolti, che pensi.
So bene come questa storia faccia parte di un periodo 'linguistico', per così dire, quando era più importante una sfumatura di voce diversa e coerente per ciascun personaggio; ma questo modo di sporcare i pensieri con parole che appartengono ad un idioma differente arricchisce e non appesantisce, arrotonda e non smargina. Perché sono piccoli, delicati accenti che concorrono a rendere un personaggio ancor più tridimensionale, e non una figuretta di carta e inchiostro su cui spendere fiumi di parole. E a tal proposito: menzione d'onore per le kenningar che hai usato in questo pezzo. La swan-rād la strada dei cigni per indicare il mare - che è poi il luogo da dove Hyoga arriva ad Asgard - ma, soprattutto il titolo. Che richiama un altro, e ben più importante draumar, quello di Baldr. Il Sole. Colui che risorgerà dopo il destino che aspetta gli dei. Ed è in questa luminosa sofficità di piume che cadono strada facendo che Hyoga sogna. La mama, Camus, Freija/Freya/Flare, Santa Lucia con la corona di agrifoglio e candele.
Lasciamolo sognare. Ne ha ben diritto, poverino! |