Passavo davvero di corsa…
Correvo in Rue de la Chaussèe d’Antin, così, perché ogni tanto mi piace tornarci.
Scorrendo alle porte un poco sbrecciate, lungo la fila di casacce, gli occhi all’insegna, mi sono detta che dovevo fermarmi.
Mi spiace non averlo fatto prima.
L’odore, dentro, sa di buono, sa di conosciuto, qualcosa che risale alla memoria di secoli perduti, entro un luogo incrociato per caso ma scolpito dentro, assieme alla stretta della mano che là mi aveva condotta.
Gli avventori non erano tanti ma mi è stato concesso un tavolo in disparte, anche se poi, ad ascoltare (origliare che quelli parlavano mica tanto a voce alta) mi sono detta ch’era meglio non ordinare vino.
Qui, alla Disperazione, conviene davvero abbandonarsi all’ascolto dei suoni evocati da una scrittura fitta, composta da sequenze di nomi e nomignoli, strade che si incrociano per mano divina oppure per puro caso, ordito che appare piano piano anche se non sempre i fili sono tutti compatti e ben tesi, qualcuno sfugge e impone di rallentare e fermarsi, magari senza avere il tempo di farlo.
Nella bettola ancora vuota – o volutamente tenuta tale - quando ancora gli avventori sono al lavoro e allora c’è un poco di freddo, appena punto dall’acuto sentore del vino, ecco che i nomi si animano e divengono folla di ribelli - o davvero rivoluzionari - che si armano, chi di penna d’oca o brace di carbone, chi d’un boccale di birra o d’un bicchiere Legrande, chi di crocifisso di legno, chi di nulla che non siano i propri sogni e chi neppure di quelli ma semplicemente di se stesso, pulcino che intenerisce ma sorprende, come sorprendono tutti i mocciosi, come la neve in primavera.
Sono loro i ribelli della scrittura, quelli che ribaltano il gioco e strappano gli altri protagonisti, quelli che tutti conosciamo, al ruolo da sempre immaginato.
Non ho chiesto vino, come ho detto, ch’era troppo presto, appena pomeriggio, e quegli strani discorsi non è che mi sian proprio piaciuti, seppur mi è giunto all’orecchio il racconto basso, un poco sorpreso, dei pochi avventori, a loro volta stupiti dell’evolversi estraneo degli eventi per via d’un vino o forse di ciò che quel vino induce a credere e a fare.
Non sia mai che la mente dei parigini finisca per deformarsi in quella dei patetici “muschiatini” ammaestrati da Orphée d’Amblanc - mesmerista dall’intelletto persuasivo come quello del vecchio De Sade - forse i due potrebbero essersi incontrati nella vecchia Bicêtre?
Sta che ci si ritrova non in una sola narrazione bensì presi da narrazioni, come rette parallele al momento, che chissà quando e come e dove forse si incontreranno per intrecciarsi e stringersi attorno al lettore costringendolo ad accelerare la lettura e poi prendere fiato per poi lasciarlo libero, pure di sorridere e illudersi d’aver compreso e d’esser stato più furbo dell’autore.
Difficile dirlo – d’esser riusciti a scovare davvero il filo - inutile chiederselo. Meglio lasciarsi condurre!
Le parole s’incatenano una all’altra, come una sorta di sentiero che s’inerpica e impone attenzione a particolari, monologhi, pensieri, brandelli di ricordi sparsi nel flusso della narrazione che rimbalza dal piano dei protagonisti, a quello del narratore, e persino a quello del lettore che deve metterci del suo per immaginare e comprendere.
Prima ci sono il poeta, l’oste, il prete, il bambino, il medico, il boia e la Morte (e tutti quelli che lambiscono i pensieri e la storia ci ciascuno) che quella non chiede mai il permesso e s’accomoda sempre, bisogna tenerla in grande considerazione e trattarla bene.
Poi ci sono Oscar e André, tratteggiati e colti entro istanti rubati dagli occhi attenti del poeta e del narratore, inseguiti in quella vita che giunge lenta e meditata – lieve, disincantata, ma alle volte messa a dura prova da scelte che a loro non spettano - fino allo strappo e poi fluisce oltre e a fatica si ricompone in un equilibrio precario, forse dolente, per via del ritrarsi di André che ha commesso un grande errore e della presa di coscienza di Oscar che quell’errore ora lo vede in tutta la sua magnifica disperazione.
Centellinare le loro immagini, anche solo entro mezza riga, esalta la loro presenza, li rende protagonisti, pur nel mezzo della folla di caotici ribelli.
Non ci sono eroi, nessuno in fondo lo è, ma al tempo stesso lo sono tutti.
Eroi del Volo, esseri che diventano tali perché acquistano spessore, riga dopo riga, dignità di esistere nell’immaginario di ogni lettore.
Non eroi di carta, di una storia originale o di chissà quale Storia, ma eroi del lettore.
Resta il dubbio (a me lettrice, ovviamente) se davvero per De Sade loro – Oscar e André - siano soltanto nomi (insegna nominalismo logico alle giovani vendemmiatrici, ci si domanda se sposi Ockham ossia i nomi sono solo tasselli di un discorso?) oppure il marchese non si sia illuso di vederli e volerli individui?
S’apprende che De Sade, indubbiamente materialista, diffida di tale dicotomia, santi e diavoli, Dio e Satana, Bene e Male e darebbe la vita pur di distruggere una dicotomia che ritiene essere la dannazione dei popoli ma quando gli attribuiscono il Male – chissà se nel vino contaminato dalla sua velenosa vena nichilista e nominalista– solleva la propria ira contro quelli che non gli credono, contro quelli che, nel pregiudizio del suo nome, lo ritengono colpevole.
Essere immaginato colpevole, a prescindere, non gli piace e finisce per inzozzare lo strano e squilibrato rapporto che i tre sembravano aver costruito.
Avrei immaginato dunque che quel manrovescio avrebbe colpito più forte e che quelle mani si sarebbero davvero strette attorno al collo, in nome del materialismo che De Sade professa, così che la materia, il corpo, sarebbe stata attraversata dall’ultimo respiro di vita.
S’intuiscono i “limiti” intensamente necessari che consentono al Volo di proseguire, così da consentire al lettore di rincorrerlo.
S’intuisce la sceneggiatura oscura che aggroviglia i fili del destino, che gioca sull’ignoranza di sé e l’ignoranza dell’altro, su cui De Sade ci sputa sopra, perché l’ignoranza di se stessi, dell’essere donna, o innamorata, o amante, o quel che si è, non è ammessa.
Dunque non ci sono eroi e forse l’unica redenzione è diventare – ciascuno di loro – consapevole di se stesso.
Mi perdonerà l’autore per aver scritto tanto e non aver detto niente. O aver detto quello che non serve.
Deformazione personale è cercare sempre un filo conduttore che non mi è facile scovare e neppure mi è facile ammettere che forse non c’è, oppure che non è quello che penserei d’aver scovato.
Grazie per questo Volo a cui mi affido, con lentezza e in silenzio.
Capo Rouge |