Gentilissima Bea,
io non leggo questa sezione. O meglio, la leggo talvolta, sulle orme delicatissime di Colei che rinasce dalle sue ceneri, Non leggo poesie perché non so scriverne e sono anche una frana a leggerle, è chiaro. Son tipo da prosa. Avevo però del tempo da ammazzare e ho letto, e ad un certo punto ho trovato questo tuo testo. Spero non ti dispiaccia se dico due parole.
Strutturalmente, lo trovo assai maturo. L'uso di un solo avverbio a fare verso e la ripetizione della terzina danno il ritmo che differenzia la poesia dalla prosa, e il cambio di parole finale, dove non solo il significato diventa più cupo ma anche il significante (alle vocali chiare si sostituiscono vocali scure), rende il testo più incisivo.
Io credo che quando si è felici non si scrive ma si vive. E tuttavia mi auguro e spero che questa poesia sia stata scritta 'a freddo', nel ricordo delle emozioni quando esse erano ormai trascorse, ed era tempo di pensarci sopra.
Immenso è il mio rispetto per la sofferenza, per ogni sofferenza, ma mi piace pensare che possa trascorrere, come trascorre tutto.
E soprattutto non mi piace pensare a te in sofferenza.
Perché io con te, Bea, anche se non ti conosco, sono in debito. E se vogliamo è un debito di sofferenza.
E quindi voglio dedicarti una poesia di qualcuno che le sa scrivere, mica io, per carità di patria, e che è uno dei pochi che quando scriveva era felice.
E siccome mi sono fatto l'idea che tu sia giovane e bella, mi permetto pure un'osservazione da fratello maggiore o da vecchio zio, scegli tu: non si è mai infelici quanto si crede di esserlo e non c'è nulla di male a dire che siamo felici quando lo siamo.
Dovresti esserlo, madamigella.
Ed ecco - voila - la poesia:
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancora
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
Buona vita, e omaggi devotissimi,
Sacrogral |