Nell’epoca dell’estetica dell’istantaneità, un componimento poetico ci riconduce con audacia al cuore della lirica più intima e visionaria, là dove parola e sentimento si fondono in un testo che è bello come una trasfigurazione. L’incipit “Ove mai vi dovesse esistere un luogo”, anonimo o volutamente impersonale, si offre come un esercizio di memoria, in bilico tra il ricordo e la condanna, tra l’amore idealizzato e il dissidio interiore.
Fin dall’incipit, la poesia si configura come una dichiarazione controcorrente: “Io non v'andrei”. In un mondo che spesso auspica l’oblio del dolore, l’io lirico rifiuta ogni fuga, ogni redenzione offerta dall’eventualità di un “luogo” dove le “funeste memorie” possano dissolversi. Questo rifiuto è, al contempo, un atto di resistenza e di fedeltà. Non vi è vittimismo, bensì un’accettazione quasi sacrificale dell’esperienza vissuta, incarnata da una figura femminile che appare e svanisce come un’epifania: “ella mi si palesò... Fuggitiva, maliziosa, aggraziata, leggiadra”. Quattro aggettivi dei quali il primo rivela forse la natura più profonda, gli altri sono una qualificazione successiva, ma è sul primo che inevitabilmente si fissa immediatamente l’attenzione del lettore riportando lo scenario alla sua primigenia sostanza.
Il cuore semantico del componimento risiede nel simbolismo evocato dalla coccinella, creatura minuta ma potente nella sua carica metaforica. La coccinella – fragile ma audace – diviene alter ego di quella figura evanescente forse un tempo amata e forse dello stesso io poetico, condannato a un “moto perpetuo” nel quale “vi posai la mia anima”. L’immagine dell’infinito, attraverso il “moto circolare”, non è solo una figura retorica, ma il perno intorno a cui ruota la condizione esistenziale di chi si trova a dover ricordare il passato, che sia con tormento o con irrisolvibile dualismo.
La tensione binaria si manifesta con forza nel finale: “Fiamme impetuose alla mia destra, ghiaccio inerte alla mia sinistra”, polarità archetipiche di passione e assenza, di ardore e paralisi emotiva. Ma il vero centro, ci dice l’autore, è l’umanità stessa, “al centro”, un crocevia ma al tempo stesso una rivendicazione di esistenza, di equidistanza che forse è uno slancio verso l’alto. Non è forse quando si ascende al cielo che è possibile, con un solo colpo d’occhio, cogliere paesaggi tanto diversi? A questo nucleo – che è il cuore stesso della contraddizione umana – appartiene la figura destinataria dei versi, enigmatica e ambivalente: “forse innocua coccinella, forse insidiosa spina”.
Lo stile si distingue per un lessico ricercato, a tratti arcaizzante, che richiama la lirica classica e la poesia simbolista. L’uso calibrato delle metafore naturalistiche e delle immagini poetiche contribuisce a creare una musicalità che è tanto eterea quanto tagliente. Forza e delicatezza insieme. Il componimento non si lascia leggere con superficialità: esige tempo, immersione, empatia, ma si lascia leggere con piacere, restando denso e sfaccettato, che si fa interprete di una condizione umana tanto eterna quanto contemporanea: l’impossibilità di separarsi dalle proprie ferite quando esse coincidono con ciò che di più vero abbiamo amato. |