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Autore: My Pride    24/03/2012    3 recensioni
~ Raccolta di dieci one-shot/flash fiction un po' assurda e sentimentale incentrata sulla coppia Roy/Ed ♥
» 10. It's the story of my life ~ Special Chapter ~ Hearts Burst Into Fire
Chiusi gli occhi umidi, annuendo soltanto. E la sua presa diventò più salda, più protettiva.
Stretto e piangente ad un uomo che non fosse ‘To-san o ‘Ka-san, capii che i miglior amici erano quelli che ti erano vicini al cuore anche senza saperlo.
[ Partecipante alla challenge indetta dalla community Think Fluff ]
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Roy/Ed
Note: Lime, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Shattered Skies ~ Stand by Me'
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It's the story of my life Titolo: [ Special Chapter ] It's the story of my life
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 10727 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 05. Tartaruga
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff, Malinconico
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?, Spoiler!, Narrazione al presente, Prima parte raccontata da un bambino di cinque anni


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Sono seduto sul tappeto, tra pupazzi e macchinine, e sulle gambe ho il mio orsetto, ma mi annoio un po’. Mi giro verso il tavolo, dove ‘Ka-san è seduto da tanto. Ha il volto concentrato, mentre la penna che ha in mano va veloce sui fogli che ha davanti. Ormai è sempre così. Io gioco da solo e lui lavora. Mi mancano quelle volte in cui giocavamo insieme con ‘To-san. Prima era tutto diverso. Quando gli chiedo perché, ‘Ka-san dice sempre che sono piccolo per capire bene. Ma ho quasi cinque anni, non sono piccolo! Non mi dice mai niente. Anzi, è raro che parli, certe volte. Si siede lì e lavora per ore, concentrato ma triste. Forse è perché ‘To-san non c’è.
    Sbuffo un po’, prendo l’orsetto fra le braccia e corro verso il tavolo. «‘Ka-san?» lo chiamo, tirandogli poi l’orlo della camicia. Si gira appena, sistemandosi quei così che chiama occhiali sul naso prima di guardarmi con quegli occhi scuri scuri. Ogni volta che li vedo, mi sembra di osservare il cielo durante la notte. Sono belli, però, mi piacciono. Anche se a volte mi fanno un po’ paura. Mi arrampico sulla sedia libera, poggiando le braccia sul bordo del tavolo pieno di carte. Curioso, ‘Ka-san solleva un sopracciglio fino. Metto la testa di lato, imbronciandomi. «Vuoi giocare con me ‘Ka-san?» gli chiedo, abbandonando l’orsacchiotto su uno dei suoi fogli.
    Mi sorride ancora un po’ triste, allungando una mano per scompigliarmi i capelli, rimediandoci da me un piccolo sbuffo contrariato. Lo sa che mi da fastidio, ma lo fa sempre. «Ho del lavoro arretrato, Jaz», mormora, con la voce dolce che usava con ‘To-san. «Scusami davvero piccolo». Dice sempre così. Ogni sera. Si mette lì dopo mangiato e lavora. Non è giusto, però.
    Mi imbroncio ancora, cercando di farlo sentire in colpa. «Ma io mi annoio...» borbotto, ricevendo un altro suo sguardo scuro.
    Sospira. Quel sospiro che fa sempre quando non sa che fare. Lo vedo abbassare la penna per lasciarla poi sulle carte, su cui vedo appena uno di quei disegni che mi piacciono tanto. Si scompiglia poi i capelli neri, lasciando la fronte scoperta prima di togliersi gli occhiali. Mormora qualcosa a bassa voce, e io non lo sento. E’ una di quelle rare volte in cui parlotta da solo, dicendosi chissà cosa. Lo lascio fare, finché non mi guarda di nuovo. «Ti annoi davvero tanto?» mi chiede, e il suo tono mi sembra quasi dispiaciuto.
    Annuisco, vedendo che si alza per venire più vicino a me. Istintivamente allungo le braccia verso di lui, sentendo poi le sue prendermi per fianchi prima di mettermi in piedi sulla sedia e prendermi in braccio. Strofino il viso contro la sua spalla, sentendola calda. Anche se è estate, come dice lui, è piacevole. Anche le volte in cui mi prende in braccio sono rare, e quando posso me le godo.
    «Scusami, Jaz», mi dice ancora, baciandomi la testa. «In questo periodo sono stato occupato e non mi sono preoccupato molto di te. Sono una pessima mamma». Lo dice con un tono che sembra voler far ridere, ma lo guardo triste. E’ vero che è sempre stato a lavoro. Ma non è una pessima mamma, anche se non capisco bene cosa vuol dire. E anche il suo viso è triste.
    Gli butto le braccia al collo, scuotendo piano la testa contro di lui. «Non è vero, ‘Ka-san», dico piano, come per rassicurarlo. «Io ti voglio bene».
    Ride un po’, leggero e silenzioso come fanno sempre lui e ‘To-san. Mi bacia di nuovo i capelli, prendendomi meglio in braccio prima di incamminarsi insieme a me verso il soggiorno della casa nuova. «Ti voglio bene anche io», dice sottovoce, chinandosi appena per prendere uno dei pupazzi che ho lasciato in giro. Me lo porge, e lo stringo a me poggiando la testa contro il suo petto. Sento il cuore che batte, quasi cullandomi. Se chiudo gli occhi mi addormento, sono sicuro.  Li chiudo però lo stesso, sentendo la mano di ‘Ka-san poggiarsi sulla mia testa per accarezzarmi i capelli. Lenta e calda, come le ninna nanne che mi canta la sera. Comincia lui stesso a coccolarmi, forse per farmi addormentare. Mi piace quando fa così. Mi ricorda prima, quando stavo nel lettone con lui e ‘To-san. Il caldo delle lenzuola e le loro voci. I giochi che facevamo ogni tanto. I momenti che passavano con me. Adesso invece dormo da solo. ‘Ka-san mi fa dormire con lui solo quando faccio brutti sogni. Non so perché. Prima che andassimo alla casa nuova dormivamo insieme. Mi diceva paroline dolci all’orecchio e mi stringeva fra le sue braccia, dicendo che avremmo chiamato ‘To-san il giorno dopo. E manteneva la promessa, giocando poi con me. Ora lo chiama poco e lo vediamo poche volte. Ho provato a chiedere anche questo, ma la risposta non cambia mai. Sono piccolo, ma io non mi sento bambino a volte. Però ‘Ka-san insiste. E la smetto di domandarlo solo quando vedo i suoi occhi scuri intristirsi. Allora gli do un bacio sulla guancia e prendo il libro di ‘To-san. Quello è l’unica cosa che mi distrae un po’.
    Sento ‘Ka-san che continua ad accarezzarmi la testa, mentre il rumore dei suoi passi riempie il silenzio. Non parla, come sempre. Ma sospira. Alzo la testa e le palpebre, vedendo appena il suo viso. Le labbra sottili sono all’ingiù, imbronciate. «‘Ka-san?» lo chiamo di nuovo, e lui abbassa lo sguardo, sorridendomi un pochino. Ma vedo ancora la tristezza. Siamo in corridoio, adesso, forse per andare nella mia cameretta.
    «Dimmi, piccolo», dice ancora piano. Gonfio un po’ le guance per come mi ha chiamato, però non gli dico niente e non mi arrabbio come faccio di solito. Mi accoccolo solo contro il suo petto ancora una volta, aggrappandomi con una mano alla sua camicia mentre abbraccio il mio pupazzetto.
    «Perché sei triste?» gli chiedo, sentendo un battito in più.
    Mi carezza i capelli, riprendendo a camminare. «Non sono triste», mi risponde, ma la voce mi sembra strana. «Sono solo un pochino stanco».
    «Allora perché lavori, se sei stanco?» gli faccio un’altra domanda, e lui ride un poco, come prima.
    «Perché altrimenti non mangiamo».
    «E perché?»
    I suoi occhi neri mi osservano. Un po’ chiusi. «Jaz...» dice, senza aggiungere altro. Ma io ho capito, e strofino un po’ di più il viso.
    «Va bene, ‘Ka-san, la smetto...» borbotto. Quando comincio a fare domande e poi lui dice solo il mio nome significa sempre che non gli va di rispondermi. Voglio insistere, ma ‘Ka-san è triste e non voglio intristirlo di più. Anche se mi dice che è solo stanco io non ci credo.
    «Ti va un gelato?» lo sento dire, e ritorno a guardarlo. Mi sta sorridendo, sembra quasi che mi voglia distrarre. Scuoto la testa, tornando ad accoccolarmi contro di lui, sentendolo sospirare ancora un po’. Accende la luce nella mia cameretta, avvicinandosi al lettino per poi lasciarsi cadere sopra. Mi trovo seduto sulle sue gambe, e mi scompiglia ancora una volta i capelli, portandomeli dietro alle orecchie. «E’ ora di andare a nanna», mi dice, sorridendo ancora un po’. «Domani ti prometto che giocheremo insieme, okay?»
    Mi imbroncio di nuovo, chinando il capo. Io non ho sonno, voglio giocare. Però annuisco, e ‘Ka-san mi prende in braccio per mettermi poi in piedi sul materasso. Lo vedo aprire il cassetto e tirare fuori il pigiama, ma stavolta non mi dice di metterlo. E’ lui che mi sveste e me lo infila, senza che parlo. Ora ne sono sicuro. ‘Ka-san è triste. Dopo avermi sistemato il pigiamino mi da un bacio sulla fronte, togliendomi un altro po’ i capelli dal viso. Mi infilo sotto le coperte da solo portando con me il mio pupazzetto, e lui me le rimbocca subito dopo. Quella brutta espressione, però, è rimasta.
    Mi intristisco anche io, prendendo le lenzuola fra le manine. «Sei triste perché non c’è ‘To-san, ‘Ka-san?» glielo domando, e stavolta i suoi occhi scuri si aprono un po’ di più. Si siede sul letto, girato un po’ verso di me. Allunga una mano per accarezzarmi i capelli, lentamente. Il sorriso che ha sul volto non mi piace. Non è un sorriso.
    «Un pochino», mi risponde, sottovoce. «E’ da tanto che non lo vediamo».
    Annuisco, imbronciandomi e nascondendomi un po’ di più. E’ vero. ‘To-san non viene più. Con una mano mi strofino una guancia. Mi viene da piangere. «‘Ka-san... ma perché siamo qui senza ‘To-san?» Glielo chiedo per non piangere, anche se sento che sto per farlo. Perché sono triste anche io, adesso. Quando lo sono piango sempre. ‘Ka-san invece non lo fa mai. Nessun grande lo fa mai.
    Vedo ‘Ka-san sospirare, poi mi accarezza di nuovo i capelli. «E’ un po’ difficile da spiegare, Jaz», risponde piano, sempre più triste. «Te lo dirò fra un paio d’anni». Ancora con la storia che sono piccolo, lo sapevo. Ma quanti sono un paio d’anni? «Adesso dormi, dai», dice ancora, e stavolta vedo i suoi occhi chiudersi un po’. Passa due dita sopra uno di essi, le labbra sono di nuovo all’ingiù. Però mi sembra che tremino.
    Allora mi alzo, avvicinandomi a lui. Lo guardo bene in viso. E poi la vedo. Una di quelle gocce salate. «‘Ka-san...» lo chiamo, tirandogli un po’ la camicia. «...stai piangendo?» Glielo chiedo e lui mi stringe forte forte, forse per non farmi vedere il suo viso. Non so che cos’ha, ma è molto triste e riprende ad accarezzarmi piano i capelli, coccolandomi e cullandomi fra le sue braccia. Solo di poco riesco a guardare la sua faccia. E ancora una goccia salata gli scende dagli occhi. Vede che lo sto osservando e subito si passa una mano sul viso, sorridendo. Ma lo sento che quel sorriso nasconde il vero.
    Nasconde quelle gocce che cadono ancora.
 
 
Quella fu la prima volta che vidi ‘Ka-san piangere.
 
 
    Da Central City ‘To-san mi ha inviato un libro. L’ha spedito dieci giorni addietro, in modo che arrivasse in tempo per il mio undicesimo compleanno.  Adesso lo sto osservando girando qualche pagina con lentezza, quasi per paura di rovinarlo. Dall’ingresso sento la voce di ‘Ka-san, che sta parlando animatamente al telefono con ‘To-san. Mi sembra un pochino arrabbiato. Scendo dal divano per affacciarmi oltre la soglia del soggiorno, dove immediatamente mi giunge il buon profumo della torta al cioccolato che sta preparando ‘Ka-san.
    «Avevi detto che ti saresti liberato per il suo compleanno», sta dicendo con tono quasi accusatorio, reggendo forte la cornetta. «Sono quasi quattro mesi che non ti vediamo». Voglio avvicinarmi di più per sentire almeno quello che ha da dire anche ‘To-san, però non voglio che la mia presenza accanto al telefono sia un pretesto per litigare. A volte succede. «Non tirare in ballo il fatto che potrei venire io lì, adesso», borbotta, tamburellando con le dita sul tavolino. «Il mio lavoro di Generale è ben diverso dal tuo, lo sai». Sospiro in silenzio, sempre nascosto dietro lo stipite per evitare che ‘Ka-san possa vedermi. Anche quelle parole non fa altro che ripeterle sempre, quando parla al telefono con ‘To-san.  «Senti, lasciamo stare...» dice adesso, rendendo la voce dolce. «Davvero non ce la fai a liberarti per venire qui? Magari domani?»
    Mi sporgo un po’ reggendo bene il libro, a quelle parole. Spero che ‘To-san dica di sì.  Non fa niente se non ci sarà al mio compleanno. Ma se ci sarà domani, festeggeremo nuovamente con lui.
    «Ah...» fa però ‘Ka-san, in tono rammaricato. «L’ispezione...»  E tutti i miei progetti vanno in fumo. ‘To-san non verrà qui. Lo capisco dalla voce di ‘Ka-san.  «Pensavo fosse la settimana prossima», riprende, sempre più dispiaciuto. «Ecco spiegato perché anche Maes ha disertato l’invito».  Non so cosa voglia precisamente dire così, ma ‘Ka-san ha ragione. Lo zio Maes, che di solito è il primo a volermi vedere, ha chiamato ieri dicendo che non veniva. La cosa un po’ mi dispiace, anche se spesso lo zio è un vero rompiscatole.
    Sento ‘Ka-san parlare un altro po’ della festa, di me e poi del lavoro. Chiacchiera tanto su quell’argomento, spiegando cose un po’ complicate. Da dove mi trovo continuo a sentire, guardandolo poi mentre si gira di spalle. Questa volta ridacchia, tenero come non l’ho mai sentito.
    «Aye, ci stavo pensando anche io l’altra sera», mormora, dolcissimo. Parla così solo con ‘To-san. O quelle rare volte con me quando cerca di farmi collaborare in cose che non voglio fare. Con ‘To-san però è sempre più dolce, come se condividessero un segreto.  «Non sai quanto mi piacerebbe averti qui e giocare, in questo momento», dice allegro, marcando parecchio la parola. Anche il termine giocare lo usa spesso, a telefono. Rimediandoci sempre una sgridata da parte di ‘To-san che riesco a sentire persino io. «Oh aye, di questi tempi le mie fantasie sono aumentate», ride un po’, leggero. Ecco un’altra cosa che fa sempre. Ride senza un motivo con la cornetta del telefono all’orecchio. Scherza e ride anche con me, ma quella è una risata strana. Complice.  «Hai mai provato il sesso telefonico?» dice ancora sghignazzando, e stavolta lo sento bene.
    La voce di ‘To-san che lo ammonisce subito.  Inviperita e parecchio alta, tanto che ‘Ka-san allontana il ricevitore. «Sei un depravato, Colonnello dei miei stivali!» esclama dalla cornetta. ‘Ka-san ride ancora una volta, tornando a parlargli. Altri scambi di convenevoli, altre risatine divertite da parte di ‘Ka-san. Poi riattacca con il sorriso sulle labbra, sorriso che vedo di più quando si volta verso di me. Mi vede e resta immobile lì, sbattendo le ciglia scure.«Da quanto sei lì?» mi chiede, con una strana nota nella voce.
    Sbuco ormai dal mio inutile nascondiglio, con il libro sotto braccio. Di poco scrollo le spalle, disegnando con il calzino che ho al piede un cerchio invisibile.  «Da un po’, ‘Ka-san», gli dico, tanto sarebbe inutile mentire. Lo vedo spalancare un pochino la bocca e arrossire. Ancora non capisco perché arrossisce sempre. Ormai ho undici anni. Ho persino perso il conto delle volte che l’ho sentito parlare di quello con ‘To-san.
    Si gratta dietro al collo, tossendo un po’ prima di avvicinarsi a me. «Quindi... hai sentito tutto?» mi domanda ancora, stavolta a disagio.
    Non ci penso su nemmeno due volte. Annuisco e basta. Si scompiglia i capelli scuri con fare frustrato, scuotendo poi la testa. Borbotta qualcosa fra sé e sé, masticando delle paroline fra i denti. I suoi comportamenti sono sempre così strani. Proprio non lo capisco. «Non dovresti origliare», se ne esce poi, come a voler ammonire me. Era lui che parlava di certe cose. Mica io. 
    «Non volevo farlo», gli tengo subito presente. «Volevo solo parlare con ‘To-san. Non verrà, vero?» Faccio risuonare questa domanda in tono triste, abbassando lo sguardo. Speravo di passare del tempo tutti insieme. Ma invece nulla. Proprio come quando ero più piccolo.
    Sento ‘Ka-san avvicinarsi a me, per prendermi poi il mento e alzarmi il viso. Guardo i suoi occhi color pece, tristi come la sera di tanti anni addietro. «Non è colpa sua, Jaz», cerca di andare in sua difesa. Ma vedo bene che invece vorrebbe imprecare come lo sento fare spesso. Una volta è stato ore a borbottare in cucina e a dire volgarità mentre cucinava. Tra tutte le parolacce che gli ho sentito dire, ci potrei fare un vocabolario dividendolo fra quelle semplici da manuale e quelle più spinte che si possono sentire solo da uno scaricatore di porto. «Ha cercato di venire qui, ma non ha fatto in tempo», lo giustifica ancora.
    Io penso invece che già lo sapeva. Altrimenti non mi avrebbe mandato il regalo con due giorni d’anticipo. Odio quando ‘Ka-san tenta in tutti i modi di non far ricadere la colpa su ‘To-san. E’ colpa sua quanto lo è della stessa ‘Ka-san. Ma non me la sento di giudicarli entrambi. Sono adulti. Sanno quello che fanno. Io sono solo un bambino un po’ più grande. 
 
 
Il giorno del mio compleanno, invece, capii che la vita non era affatto facile.
 
   
    La scuola non è poi così male, se sai bene come giostrarti. Io me ne sto semplicemente seduto a scaldare la sedia, facendo finta d’ascoltare le noiose lezioni dell’insegnante mentre è il mio migliore amico a prendere appunti anche per me. Sono due anni che ci conosciamo, ormai. Cedric Berk. Dall’indole vivace e una gran mole. Qui a Central, dove mi trovo adesso con ‘Ka-san e ‘To-san, è l’unico amico fidato che ho. L’unico a conoscenza della mia vera famiglia. A volte mi dispiace doverlo schiavizzare così, ma non più di tanto. Infatti spesso è lui ad offrirsi di aiutarmi. Perché dovrei negargli questo privilegio?
    Osservo svogliato la sua mano che scrive veloce sul foglio, seguendo le parole dettate. Mi chiedo sempre come diavolo faccia. E’ peggio dell’ormai Maggiore Falman, uno della brigata di mamma. Stiamo seguendo entrambi i corsi estivi. La cosa non mi va giù, ma non me la sono sentita di farlo notare a ‘To-san e a ‘Ka-san. Quest’ultimo ha già il suo “personale problema” da affrontare. E non è una cosa facile. E’ successo da poco infondo, deve ancora farci i conti. Così come me per quel che è accaduto. Sembro tranquillo adesso, vero, ma a volte quelle immagini ritornano. La mano non ancora del tutto guarita poi, spesso brucia come a volermi dolorosamente ricordare la colpa che ho commesso. Ma, anche se avrei voluto non farlo, sono convinto che fosse la cosa giusta. ‘To-san e ‘Ka-san dipendevano da me.
    Sospiro un po’, guardando con la coda dell’occhio Cedric. Non gli ho raccontato quello che è successo all’incirca due mesi fa, anche se più volte in questo periodo ha provato a chiedermelo. Potrei anche farlo, ma non ne ho il coraggio. Si sono accavallate troppe cose, una peggiore dell’altra. Però non mi è sfuggito il modo in cui ha fissato ‘Ka-san quando è venuto a trovarci il mese scorso. E’ stato in quel momento che ha cominciato a fare domande. E posso capirlo. L’avrei fatto anche io.
    Mi riscuote un suo veloce sguardo, e lo vedo lasciare sul banco la penna. Si stiracchia, coprendosi la bocca e sbadigliando. Quando torna a guardarmi, ha gli occhi un po’ lucidi di sonno. Li posa poi sul mio quaderno aperto, bianco come al solito, scuotendo la testa. «Non scrivi mai nulla, eh?» ironizza in tono di rimprovero.
    Non ci faccio caso più di tanto. Si lamenta sempre ma poi lascia perdere. Tanto sa che non prenderò appunti. Faccio spallucce, come ad indicare disinteresse. «Sono qui solo per scaldare la sedia, non per altro», scherzo a mia volta.
    Alza gli occhi al soffitto, quasi sbuffando. «Quando spegnerai le candeline la settimana prossima, sarò io ad esprimere un desiderio», dice sarcastico, sottovoce per non farsi sentire dal professore. «Chiederò che questi diciott’anni ti facciano entrare un po’ di sale in zucca».
    Sorrido, divertito. Ecco perché è il mio miglior amico. Sempre a preoccuparsi per me anche se non lo da a vedere. «Sarebbe un desiderio sprecato», gli faccio notare, ricevendo un’occhiataccia. Chiacchieriamo un altro po’ del più e del meno sempre tenendo il tono basso. Ci manca solo che quel rompiscatole del professore ci faccia un richiamo. Chi li sente, poi, ‘Ka-san e ‘To-san! Finalmente passano quel paio d’ore di carcere forzato, e siamo fuori a respirare l’aria fresca e pulita dalla fragranza di fiori estivi. In una bella giornata come quella siamo stati costretti a scuola. E’ violenza bella e buona, e anche gratuita, quella! Fortuna che almeno per questa settimana, è finita. Domani e anche domenica possiamo rilassarci.
    «Che fai, vieni da me o torni a casa?» domando a Cedric, voltandomi un po’ verso di lui.
    Sbadiglia sonoramente sistemandosi lo zaino in spalla, prima di scompigliarsi i capelli e stiracchiarsi come non mai.  «Se non sono di disturbo...» butta lì, anche se so che alla fine verrà lo stesso. Ha solo preso l’abitudine di dirlo da quando ha visto ‘Ka-san. 
    «Muoviti, idiota», sbotto, incamminandomi quando sento il suono d’un clacson. E’ Jean, costretto come al solito a venirmi a prendere. Quando saliamo in macchina borbotta come sempre un saluto, masticando fra i denti il filtro della sua solita sigaretta. Da un po’ fuma come una ciminiera. O forse l’ha sempre fatto e non lo sapevo. Non ci scambiamo nemmeno una parola, ma lo sentiamo bene che impreca fra i denti qualcosa, forse rivolto alla mia cara mamma che lo schiavizza. Mi evito di ridere, mentre vedo con la coda dell’occhio Cedric tentare di fare lo stesso. Certe scene le vediamo due giorni si e uno no. E’ troppo divertente.
    Arriviamo a casa e con un altro saluto Jean ci lascia e se ne va, partendo alla volta di casa sua. Poveraccio, quell’uomo, certe volte. Salite le scale e aperta la porta dell’appartamento, sento un bel via vai. Di sfuggita poi, vedo ‘To-san con una scatola. Stiamo finalmente ristrutturando un po’ casa, e in special modo la mia camera. Posso vantarmi di avere finalmente quel tanto agognato letto a due piazze, adesso. E anche delle pareti decenti.
    «‘Giorno, Signor Elric», dice Cedric al mio fianco, richiamando la sua attenzione prima che sparisca nel corridoio adiacente.
    Si volta verso di noi quasi stupito, per poi issarsi meglio sul braccio d’acciaio la scatola. «Havoc ha fatto presto stavolta?» sghignazza invece divertito. «Comunque ciao ad entrambi, ora scusate che devo finire un po’ di sistemare in giro». 
    Alzo un pochino lo sguardo al soffitto, scuotendo la testa. Fanno sempre di testa loro. «Vi avevo detto di aspettarmi», dico, come a volerlo ammonire. «Tu e ‘Ka-san non dovreste affaticarvi troppo».  I medici avevano infatti detto che sarebbero dovuti restare ancora in ospedale. Riabilitazione sotto osservazione. E non avrei dato loro torto, se non avessero voluto costringere anche me a stare lì. Fortuna che sia ‘To-san che ‘Ka-san avevano dato sfoggio del loro potere militare minacciando l’ospedale di chissà cosa se non ci avessero fatti tornare a casa entro una settimana. I volti sconvolti dei dottori ancora me li ricordo perfettamente. Si sa però che i miei tutori non sono tipi da starsene con le mani in mano. Quando vogliono divertirsi, forse. Ma non se devono star relegati in un letto ospedaliero. Ferite o altro a quel punto passano in secondo piano. Forse perché ci sono abituati, chissà. Anche se credo che almeno ‘Ka-san avrebbe dovuto seguire il consiglio.
    Appena un po’, ‘To-san agita distratto una mano, facendo attenzione che non gli cada nulla. «Sono passati due mesi, stiamo benissimo», borbotta, facendo valere la sua autorità di padre. Proprio benissimo, però, non direi. Di recente si sono visti allo specchio? Vedo di sfuggita Cedric aprire la bocca, forse per chiedere qualcosa, e come colto da un’illuminazione mi fiondo a tappargliela. So cosa vorrebbe chiedere. E ancora non posso permetterglielo. Mugola tentando di liberarsi, sfruttando la sua mole. Fortuna, però, che ho un po’ di forza nelle braccia per contrastarlo.
    «‘Ka-san?» domando, cambiando tempestivamente discorso. Sebbene mi stia ora osservando con un sopracciglio inarcato, ‘To-san accenna con il capo al soggiorno.
    «Gli ho detto di andare a sedersi un po’», risponde, guardando poi Cedric che continua a sbraitare contro la mia mano senza che si capisca quello che dica. Premo ancora il palmo sulla sua bocca, indietreggiando verso quella direzione. 
    «Cominciava a sbandare?» chiedo di nuovo. 
    ‘To-san scrolla un po’ le spalle. «Diciamo che dopo un paio d’ore a fare avanti e indietro ha cominciato a far fatica a tener conto della profondità», lo dice con tono leggero, ma sento che ci sta male.
    Decido di non aggiungere nulla o di chiedere altro, annuendo soltanto. Mi trascino dietro quell’idiota patentato del mio amico, lasciandolo andare solo quando siamo a distanza di sicurezza dalle orecchie di ‘To-san. Guardandomi con aria di stizza, incrocia le braccia al petto.
    «Io non capisco», borbotta. «Sembra quasi un argomento tabù». E lo è, infatti. Ma meglio non dirglielo.
    Mi limito solo a fare spallucce. «Ced, te lo dirò io quando me la sentirò di farlo», gli dico, cercando di rendere il tono affranto così da fargli pena. «Non chiedere nulla ai miei». 
    «Sei mio amico, Jaz, lo sai che mi preoccupo», fa ancora, imbronciandosi. «Non ho avuto tue notizie per un po’, e quando poi sono venuto qui il mese scorso stavate uno peggio dell’altro. Non posso sapere quello che è successo?»
    Lascio che mi sfugga un lamento. Mannaggia ai migliori amici, certe volte. Tentano sempre di aiutarti anche se non vuoi che si complichino la vita. Questa, però, è una cosa difficile da spiegare. E non so come reagirebbe. Forse è per quello che non ho il coraggio di dirglielo. «Lo saprai a tempo debito», provo di nuovo.
    Mi sfida con lo sguardo, forse per tentare di farmi cedere. Dopo poco, però, lascia perdere sospirando pesantemente. Ha capito che non ce la faccio, almeno. «Va bene, va bene», borbotta, un po’ ferito. «Aspetterò ancora un po’, ma poi dovrai dirmelo».
    Sorrido, accordandoglielo. Glielo devo, in fondo. E’ l’unico vero amico che ho. Perderlo mi dispiacerebbe. Chiusa quella conversazione ci incamminiamo nuovamente, e passando accanto al salotto mi affaccio un po’ per sbirciare all’interno. Vedo ‘Ka-san seduto sul divano, con un libro aperto. Non cambierà mai.  Anche se sa che non deve sforzare l’occhio legge comunque. «Ciao, ‘Ka-san», lo saluto, e lui alza la testa dalle pagine per voltarsi.
    Mi regala un sorriso, che rende più a mandorla quel suo unico occhio color pece. La benda che indossa è leggermente coperta dalla frangetta scura, anche se mi sembra che se la sia tolta o che l’abbia spostata. Non si è ancora abituato. E’ stato un vero shock, per lui. Quando i medici gli hanno detto che l’occhio non sarebbe guarito e che non sarebbe più riuscito a vedere credevo cadesse in uno stato di depressione cronica. Ricordo che in ospedale si toccava in continuazione la fasciatura, come se non se ne capacitasse. La copriva con una mano cominciando poi a guardarsi intorno, osservando qualsiasi cosa. Come se cercasse di abituarsi. E in quei momenti l’espressione addolorata di ‘To-san non mi sfuggiva mai. Il mese scorso l’ho addirittura visto davanti allo specchio del bagno di casa senza benda. Aveva il volto contratto in una smorfia. Come se il suo stesso lato del viso gli facesse ribrezzo. Una lunga cicatrice sfregiata glielo solcava dal sopracciglio, arrivando poi sullo zigomo quasi fino alla guancia. Forse era per questo che era disgustato ogni volta che lo vedeva. Accettava cicatrici ovunque, ma non sul volto. Il suo stesso corpo era pieno di cicatrici di guerra.
    L’ho persino visto dare un pugno allo specchio, quel giorno. Poi si è seduto sul pavimento osservandone i frammenti, quasi con un velo di tristezza e pianto in quell’occhio che gli è rimasto. È strano come certe cose cambino le persone.
 
   
Prima che questo avvenisse, non avevo mai visto ‘Ka-san comportarsi così.
 
   
    Domani compirò diciott’anni. E’ il terzo compleanno che festeggio con ‘To-san. Ma non credo poi che ci sia molto da festeggiare. Ho persino detto ai miei tutori che una festa non era necessaria. Non hanno però voluto sentir ragioni. Secondo loro, avrei bisogno di “svago”. Di momenti tranquilli da passare come un qualsiasi ragazzo della mia età. Però non sono un “ragazzo qualsiasi” da tanto, ormai. O forse in realtà non lo sono mai stato, chissà. Non ne sono poi così sicuro.
    Mi rigiro nel letto, guardando svogliato il soffitto. Non riesco a dormire. Tutto a causa di questi pensieri. E’ da bambini dormire con ‘To-san e ‘Ka-san? Può darsi, ma mi alzo lo stesso. Attraverso il corridoio con passo felpato, fino a raggiungere la loro camera. Mi affaccio con fare esitante, scrutando nella lieve penombra. Vedo le loro figure indistinte, i loro profili tremano alla luce argentea della luna. Li distinguo appena, ma mi sembra che sia il mio papà quello tirato su a mezzo busto.
    «Oto-san?» lo chiamo, per accertarmene. Si volta appena verso di me e, subito dopo, una piccola luce soffusa proveniente dal comodino inonda la stanza. Aye, è lui ad essere ancora sveglio.
    «Che ci fai in piedi?» mi domanda, sussurrando per non svegliare ‘Ka-san. «E’ notte fonda».
    Mi limito a mordicchiarmi un po’ il labbro inferiore, come quando sono nervoso. Lo faccio sempre. Di sfuggita, noto che ‘To-san ha la punta delle dita della sinistra adagiate leggermente sul volto sopito di ‘Ka-san, ad accarezzare appena la lunga cicatrice. Non indossa quell’esagerata benda. La notte forse la toglie. Anche durante il giorno una volta se la tolse. Proprio il primo periodo di convalescenza forzata. Cominciò a borbottare di quanto fosse inutile quel pezzo di stoffa, perché secondo lui serviva solo a nascondere la conseguenza d’un gesto che lui avrebbe ripetuto se fosse stato nuovamente necessario. Diceva d’esser fiero delle cicatrici che portava. Questo prima che la vedesse. Era stato tutto il giorno senza benda, forse per far finta che quell’occhio ci vedesse ancora. E l’illusione aveva funzionato finchè non si era ritrovato così, distrattamente, a fissare la sua immagine riflessa nel vetro della finestra della cucina. A quel punto, la maschera fittizia che si era creato era andata in frantumi. Si era portato una mano tremante a sfiorare le cicatrici ancora fresche, rosee e in via di cauterizzazione. Non le aveva mai toccate. Era ‘To-san, prima, che si occupava della fasciatura e tutto. Adesso ‘Ka-san non glielo permette. Da quel giorno non ha più avuto il coraggio di togliersi la benda in presenza di qualcuno. Lo fa soltanto quand’è sicuro d’essere solo. O a letto con ‘To-san, a quanto pare. Non tutte le cicatrici si possono mostrare, infondo.
    «Senti, ‘To-san...» comincio finalmente, sentendomi un bambino. «Solo per questa volta, posso... posso dormire insieme a voi?»
    Che mi chiamino pure moccioso. Non me ne frega un accidente di niente. Però un sorriso si disegna sulle labbra di ‘To-san, che si sporge un po’ oltre ‘Ka-san per picchiettare il lato vuoto del letto. Non dice nulla, ma quello è un chiaro invito. Stringe un po’ più a sé ‘Ka-san, permettendomi così di prendere posto. «Non riesci a dormire?» mi chiede poi, una volta che mi sono infilato sotto il lenzuolo.
    Lo guardo stringendomi nelle spalle. Più o meno ha ragione. «Diciamo di sì», mormoro, spostando la mia attenzione su ‘Ka-san. Il volto è disteso e rilassato nel sonno. Le dita di ‘To-san ancora accarezzano piano le cicatrici. «Gli fa ancora male?» stavolta sono io a fare domande, ed è invece ‘To-san quello che si stringe nelle spalle.
    Sospira pesantemente, massaggiandosi poi con la mano d’acciaio una delle sue nuove cicatrici, ben in mostra visto che è a petto nudo per il caldo. Anche per lui è stato un duro colpo. Oltre alle cicatrici al ginocchio e al braccio che risalgono a quand’era bambino, a quelle disseminate poi per tutto il corpo a causa dei colpi d’arma da fuoco, vi si sono aggiunte delle altre. Quel giorno è stato tremendo per tutti e tre. Ne siamo usciti distrutti e lacerati. 
    «Fisicamente no», mi risponde, amaro. «Ma non smetterà mai di fargli male».
    Abbasso il capo, sconfortato. Certe volte mi domando se sono io, la causa di tutti i guai. Forse porto sfortuna. Mi sono ritrovato solo quand’ero piccolo e ho rischiato di farlo di nuovo troppe volte. Esprimere questa mia teoria a voce però sarebbe peggio. Ci rimedierei solo una sgridata con i fiocchi da entrambi. Già mi sembra di sentirli. Però quest’idea la coltivo da quando sono accadute tutte quelle cose. Mi sento stupido, adesso. Gli angoli degli occhi mi bruciano.
    Alzo la mano fasciata, azzardandomi a sfiorare appena il volto di ‘Ka-san. Forse è vero, è colpa mia. «‘To-san», lo chiamo ancora, guardandolo di sfuggita. Lo vedo voltarsi verso di me con un cipiglio incuriosito. Quel solito cipiglio che la dice lunga. «Credi che... credi che vi sarebbe successo lo stesso tutto questo, se non mi avreste adottato?» Ho il coraggio di chiederglielo, ma già mi sembra che si sia irrigidito. Quello che temo? Una risposta negativa, forse. Una cosa del tipo “Nay, avremmo avuto una vita tranquilla.”  Ma non lo biasimerei se mi rispondesse con una frase del genere. Però, quello che mi sorprende, è che mi colpisce alla testa con l’auto-mail. Non molto forte, ma abbastanza da farmi sfuggire un prolungato lamento e portare entrambe le mani al punto leso.
    «Non te ne uscire più con certe stronzate, Jason», mi ammonisce in tono severo, diventando persino quasi sboccato nonostante lo odi. Questo è un chiaro segno che si sta arrabbiando. Sento ‘Ka-san mugolare infastidito, e ‘To-san gli accarezza i capelli per conciliargli il sonno prima di riprendere a parlare.  «Nessuno può prevedere gli avvenimenti, nessuno», dice ancora, con tono di stizza. «Forse sarebbe successo lo stesso, forse no. Così come forse non sarebbe accaduto nulla anche se sei nostro figlio. Il mondo è bello perché vario, non si può sapere cosa può succedere da un giorno all’altro».
    Mortificato, abbasso lo sguardo. A diciott’anni a sentirmi la paternale... non sono cresciuto affatto.  «Però...» provo lo stesso, venendo subito ammonito. 
    «Stammi bene a sentire, Jaz», comincia, scostandosi qualche ciuffo di capelli dalla fronte. «Quando siamo venuti all’orfanotrofio, e ti sei aggrappato con le manine al mio pantalone, sia io che Oka-san non ce la siamo sentita di lasciarti lì...» si concede una pausa, prima di continuare. «E il tuo visino sorridente mentre uscivi mano nella mano con Roy mi ha riempito il cuore di gioia, quel giorno». Trae un lungo sospiro, alzando il viso verso di me. Solleva appena un angolo della bocca. «Non dire più cose del genere», dice di nuovo. Poi tace, lo sguardo perso nei ricordi di quegli anni.
    È triste e sorridente al tempo stesso. Un’espressione simile non l’ho mai vista. A nessuno dei due.
 
 
Quella notte, invece, fu ‘To-san a versare qualche lacrima.
 
   
    Primo giorno all’Accademia Militare. Così come avevo deciso, alla fine mi sono iscritto. Divido la stanza con Cedric, tanto per cambiare, l’ultima camera del dormitorio maschile sul lato destro dell’edificio. Si può dire che trovare l’esatta collocazione è stata una tragedia, visto che il capo camerata era sparito chissà dove e ci abbiamo messo mezza giornata per cercarlo. Per svuotare le sacche con i vestiti poi, anche peggio. Ore di litigate per chi doveva prendersi un lato o l’altro della stanza. Fiero di dire, però, che tanto poi ho vinto io e ho letteralmente rivoltato il mio migliore amico come una tartaruga, lasciandolo a pancia all'aria. Ho preso il letto vicino alla finestra, alla scrivania e al comodino, così non devo fare troppa fatica per prendere la divisa da indossare il giorno dopo. Stanco dopo quella prima giornata, adesso, sono avvolto nelle lenzuola.
    Sono in uno stato di dormiveglia, sento appena quello che mi succede attorno. Un lieve russare dall’altro letto, il ticchettio della pioggia contro la finestra. Non so se definirlo uno stato piacevole o meno. Mi piacerebbe che ci fosse più silenzio, ma devo accontentarmi di quello che ho. Affondo di più la testa nel cuscino, strofinando il viso contro la federa. E’ un po’ ruvida e odora di chiuso. Forse avrei dovuto provare a rubare di nuovo il cuscino di ‘To-san o quello di ‘Ka-san e portarlo con me. Quelli sì che sono morbidi. Ci si dorme che è un piacere. Peccato, però, che non ci sono riuscito. Mi hanno beccato subito, non appena ho aperto l’armadio. Sembra quasi che ‘Ka-san abbia affinato in qualche misterioso modo l’udito. Che si affidi a quello quando l’occhio si stanca? Molto probabile.
    Mugolo qualcosa che non capisco nemmeno io mentre mi muovo un po’. Forse finalmente mi sto addormentando. Le palpebre sono pesanti, i suoni si affievoliscono. Anche la pioggia è ora uno sciabordio sommesso in lontananza. Aye, sto per cadere fra le braccia di Morfeo. Perdo la cognizione del tempo, conscio e non dei dintorni. Sogno, forse. Non so di preciso cosa. Ma sogno. Un sogno strano, un susseguirsi d’immagini. Parole e voci si mescolano, forse sono urla e spari quelli che si fondono subito dopo. Qualcuno mi chiama piano, in un mormorio. Però scuoto la testa e comincio ad agitarmi. La voce insiste, diventando più imperiosa. Un tocco sulla spalla, pesante. A quel punto apro di scatto le palpebre drizzandomi a sedere, urlando qualcosa e colpendo qualcos’altro con il dorso della mano. Sento il battito a mille del mio cuore e sento persino di avere gli occhi dilatati, mentre mi specchio in quelli di Cedric. Ha acceso la luce sulla scrivania e mi osserva. Credo spaventato. Non ne sono sicuro.
    Deglutendo, si allontana un po’, sedendosi poi sulla sponda del suo letto. «Mi sembrava che...» comincia, agitato quasi quanto lo sono io. «...che stessi male, ti agitavi e...» Si interrompe continuando a guardarmi.  Negli occhi gli vedo un velo di panico, o forse timore. Però adesso non ci faccio caso. Sono più occupato a stabilizzare i battiti del cuore.
  Respiro a grandi boccate, portandomi una mano al petto. Batte all’impazzata. Colpa del mio subconscio. Ancora non ho superato quel trauma. Basta un tocco durante il sonno per farmi ridurre in quel modo. ‘To-san e ‘Ka-san infatti non lo fanno quasi mai, adesso. Quando devono svegliarmi mi sfiorano appena. E se invece possono evitarlo, nemmeno mi toccano. Respiro di nuovo, scostandomi dalla fronte i capelli madidi di sudore. Guardo Cedric di sottecchi, vedendolo poi umettarsi un po’ le labbra. Le sente secche, probabilmente. Proprio come me.
    «Jaz...» mi chiama, anche se incerto. «Sicuro di sentirti bene?» Che dovrei dirgli, adesso? “Nay, sto uno schifo?” Così poi devo trovarmi pure una scusa per quella risposta. «E’ per quella storia accaduta un po’ di tempo fa, vero?» dice ancora. Beccato in pieno. Maledizione, ancora mi stupisco di quanto sia percettivo ‘sto ragazzo. Capisce subito i miei sentimenti o come mi sento. Eh... il fratello che non ho mai potuto avere. Proprio vero.
    Sospiro pesantemente, ritrovandomi a ravvivare i capelli all’indietro. Scappa qualche ciuffo che finisce sulla fronte, ma gli altri stanno al loro posto. Lo guardo di sottecchi, tenendomi una mano a sorreggere il viso. I traumi vanno affrontati. E’ quello che mi ripetono sempre i miei tutori. Un conto, però, è affrontarli da solo. Un altro, invece, raccontarlo ad altri. E in questo particolare caso, al mio miglior amico. «Per... Per me è difficile parlarne...» comincio sottovoce, quasi sentendo lo stomaco attorcigliarsi. Vorrei che le cose restassero così come sono, tra noi. Con un segreto troppo grande da essere espresso a parole. Ma so anche che lui è l’unico ad essermi stato vicino in questo periodo oltre i miei e gli zii.
    «A me puoi dire tutto, lo sai», lo sento dire, in tono leggero. Un po’ nervoso forse, ma non insistente.
    Mi concedo tutto il tempo necessario. Devo provare a raccontarglielo, e a non bloccarmi ad un certo punto. E’ tutto troppo... triste, crudele. Mi guardo quasi inconsciamente il palmo della mano, facendo scorrere lo sguardo su ogni anfratto di pelle cicatrizzata. Ecco quello che è rimasto della bruciatura. Una bruciatura che si è allargata dopo quel determinato avvenimento. E sono stato fortunato a cavarmela solo con quelle ustioni. Di secondo grado, certo. Ma se avessi continuato sarebbero state peggiori. Scuoto forte la testa per scacciare quei pensieri, tornando a guardare Cedric. Sembra stia solo aspettando una mia parola. E non tardo ancora a parlare. «Se dopo quanto ti avrò detto mi disgusterai, non ti biasimerò... okay?» gli dico, anche se mi sento già terribilmente arrabbiato e solo. La voce mi trema un po’. La sento insicura.
    Vedo Cedric sollevare un po’ un sopracciglio, prima che sbatta le palpebre. «Ma che stai dicendo?» mi domanda, stupito. «Perché mai dovrei farlo?» Dice così, adesso. Non sono sicuro però che sarà ancora così, dopo. 
    «Perché... Perché io...» comincio a parlare con un basso tremolio, lasciando che le parole mi scorrano via dalle labbra come un fiume in piena. Gli racconto praticamente tutto. Dal primo momento fino all’ultimo. Anche di quello che ho fatto. E ad ogni mia parola, noto i suoi sussulti sempre più crescenti. Il primo spaventato per quello che poteva accadermi quelle notti terribili, sia nel parco che in quel lurido magazzino. Poi un altro, quando parlo delle mie origini. Gli ultimi sono quelli che mi colpiscono di più e che sento più terrorizzati. Gli occhi di Cedric, adesso che ho finito di parlare, mi osservano quasi sconvolti. Come sembro ai suoi occhi, ora? Un  mostro sotto le sembianze d’un ragazzo? Non ho più il coraggio di dire nulla. Abbasso lo sguardo. Non riesco a sostenere il suo. Serro i pungi sulle ginocchia, le mani mi tremano. Perché non parla, maledizione? Perché non dice nulla? Un peso sul mio letto però non mi permette di formulare un altro pensiero.
    «Razza di stupido!» mi esclama subito all’orecchio la voce di Cedric, quasi rabbiosa, e quando mi volto un po’ per guardarlo vedo i suoi occhi un po’ lucidi di lacrime. Credevo scappasse, che so. Che uscisse urlando dalla camera. Che mi desse dell’assassino. Tutto mi aspettavo tranne quello.  Mi afferra per il colletto del pigiama, scuotendomi. «Ti sei tenuto dentro un peso del genere tutto questo tempo?!» sbraita ancora, infischiandosene dell’ora. «Diavolo, Mustang, sono o non sono il tuo miglior amico?!» 
    Resto basito a fissarlo, sentendomi come una bambola di pezza mentre continua a scuotermi. Senza preavviso, poi, mi molla un pugno. Ed è a quel punto, che sono davvero sconcertato. «Avresti dovuto dirmelo prima, avresti dovuto confidarti con me!» riprende abbassando il capo, cominciando a colpirmi il petto con pugni leggeri, come un bambino. «Davvero pensavi che sarei stato tanto meschino da trattarti diversamente!? Razza di... idiota che non sei altro...» Affievolisce il tono della voce, nonostante si senta ancora una nota arrabbiata. I colpi diventano più deboli, finché non si arrestano del tutto. Anch’io guardo altrove sentendomi fuori posto, con un groppo sempre più crescente in gola.
    Mi mordo il labbro inferiore per reprimere quello che forse è un singhiozzo. Non lo so, non ne sono così sicuro.«Scusami...» riesco solo a mormorare, con voce spenta. In risposta, però, ottengo solo un grugnito. Un borbottio che sembra volermi ammonire di qualcosa. Non aggiungo quindi altro, restando in quello strano quanto imbarazzante silenzio. O almeno finché non sento le grandi braccia di Cedric stringermi forte, come a volermi dare, in quel suo modo bizzarro, un po’ di protezione.  
    «Non metterti più i guai simili, demente», mi dice, quasi costringendomi a poggiare il mento sulla sua spalla. «Ma se proprio non riesci a farne a meno, non lasciarmi indietro». Forse lo aggiunge per alleggerire la situazione, non lo so. Ma sono felice di averlo come amico.
    Chiudo gli occhi umidi, annuendo soltanto. E la sua presa diventa più salda, più protettiva. 
 
 
Stretto e piangente ad un uomo che non fosse ‘To-san o ‘Ka-san,
capii che i miglior amici erano quelli che ti erano vicini al cuore anche senza saperlo.

 
 
    Questa che è sorta oggi è una giornata come tante. Sono passate appena un paio di settimane da quando abbiamo iniziato l’Accademia e da quando ho raccontato tutto a Cedric. Da quel momento mi tiene ancor più sottocontrollo. Non mancano, però, i momenti in cui combiniamo casini. Forse sarà per questo che il nostro comandante in seconda ha scomodato ‘Ka-san. Ci troviamo con lui fuori, adesso, quasi vicino al poligono. L’occhio truce di ‘Ka-san che ci squadra non mi piace affatto. Mi ricorda quello d’un rapace che tiene sotto mira la sua preda. E sono io, la preda. Non capisco però che abbiamo fatto di così sbagliato. E’ stato il nostro comandante, infondo, a dirci di dover usare i fucili d’addestramento. Assestamento tattico sul campo di battaglia. Ha detto proprio così. Non capisco di cosa si lamenti.
    «Due settimane, solo due misere settimane», sento borbottare ‘Ka-san, mentre cammina a grandi falcate in direzione dell’ala ovest dell’edificio. «Due settimane e già mi vengono a dire che attentate alla vita dei vostri comandanti, perfetto». Che esagerazione. Io mica l’ho fatto apposta. E’ stato lui a dire di sparargli contro in stile bersaglio. O forse stava scherzando? Forse stava usando solo un eufemismo? Dirlo a ‘Ka-san però complicherebbe solo le cose. E poi non sono stato l’unico. Tre o quattro ragazzi l’hanno preso alla lettera come me e Ced.
    «Due teste vuote, ecco che siete», riprende a parlottare fra sé. «Se mai riuscirete a diplomarvi e vi presenterete alla sede Centrale e sarò io il Comandante Supremo vi sbatto fuori a calci». Aye, dice sempre così. Comandante di qua, Comandante di là. Ma intanto resta sempre Generale. Di corpo d’armata, adesso. Ma sempre Generale è.
    «Signor Mustang, andiamo... non ne faccia una tragedia», si azzarda a ribattere Cedric.
    Mossa sbagliata e stupida. L’occhio di ‘Ka-san lo fulmina all’istante. Avvicina il pollice e l’indice al suo viso, con un’espressione indemoniata.  E Ced si allontana un po’, timoroso. «Non ne devo fare una tragedia, eh?» fa ‘Ka-san, e il suo tono mi mette un po’ i brividi. «Chi credete che dovrà starsene ore in più in ufficio per rimediare alla vostra bravata?» Ecco spiegato il motivo della sua aria arrabbiata. Gli toccheranno degli straordinari.
    Vado in aiuto del mio amico, allontanando la mano di ‘Ka-san. Non vorrei che in un momento di stizza decidesse davvero di schioccarle, quelle dita. A volte con lo Zio lo fa. «Dai, ‘Ka-san, puoi sempre utilizzare la scusa della stanchezza», provo a farlo ragionare, sentendo quella perla nera puntata su di me, stavolta.
    In quest’ultimi tempi, quando si annoia di lavorare, va sempre a lamentarsi da chi di dovere dicendo che sforza troppo la vista.  “Sono ancora in convalescenza” , “L’occhio deve ancora abituarsi” , “Ho mal di testa per essermi sforzato troppo” o cose del genere. Quando però vede che le scuse non bastano con la sua diligente Riza, allora fa di peggio. Assume un’aria sconsolata e mesta, accarezzandosi la benda. Proprio come un cane bastonato. Borbotta qualcosa fra sé e sé e poi fa per togliersela. E, anche se tutti sanno che non se la toglierà davvero, alla fine si impietosiscono. Nessuno dei suoi sottoposti se la sente ancora di non accontentarlo in ogni piccolo capriccio. Se chiedesse la luna sono sicuro che troverebbero il modo per portargliela. Chi non ci casca affatto, è lo Zio Maes. Non lo calcola minimamente, quando fa così. Anzi, gli ha persino affibbiato un soprannome. O meglio, un nomignolo. Guercino, lo chiama scherzosamente. E anche se a ‘Ka-san a volte da fastidio, poi ci ride su. Quel che mi fa piacere, almeno, è che si sia ripreso un po’. Prima non voleva nemmeno che si facesse presente che aveva un occhio cieco. Adesso invece la prende alla leggera. Anche se certe volte si lascia andare a quel vago retrogusto di tristezza. Il dolore resterà proprio come ha detto ‘To-san, ma sembra affievolito. E quella è una chiara testimonianza di quanto sia forte di spirito.
    «Non oso immaginare cosa combinerete in questi due anni», mi riporta alla realtà la sua voce, e lo vedo mentre si scompiglia i capelli, ravvivandoseli poi all’indietro in modo di tener scoperta sia la fronte che la benda. «Vi spediranno a pulire le latrine ogni giorno, me lo sento».
    Lo seguo ancora verso il dormitorio e lo lascio borbottare, facendo finta di nulla. Di tanto in tanto lancio qualche occhiata a Cedric, che sospira pesantemente. Non gliel’ha fatta il padre la paternale, gliela fa la mia mamma. Che ironia della sorte. «E come se non bastasse devo riattraversare la città per tornare al Quartier Generale e finire il mio turno, con tutto che ancora non dovrei guidare», continua a lagnarsi, bofonchiando. «Sappiate che se mi fermano vi prendete la colpa anche di questo». 
    Come al solito, ci rifila sempre le solite cose. Dice che per colpa nostra è costretto a fare avanti e indietro in macchina. E, visto che non può scomodare Oto-san per farsi accompagnare dove vuole, è lui a mettersi al posto di guida nonostante non possa. Come minimo dovrebbe far passare un bel po’ di tempo, per farlo. Sospiro pesantemente seguendolo fin sopra le scale, visto che ci sta praticamente  accompagnando dentro al dormitorio. Incasso la testa nelle spalle quando vedo gli altri pochi ragazzi presenti nel corridoio, che ci osservano come a capire il perché della presenza della mia mamma. Ci mancava solo questa. Non basta il mio cognome. Adesso anche la bella presenza di “papà”. Dopo questo sono sicuro che verrò preso di mira da quelli dell’ultimo anno. Preferirei solo sotterrarmi, in questo momento. Il sistema accademico, dai tempi di ‘Ka-san, è cambiato un po’. Ora ci si entra superando concorsi e test d’ingresso. Scritti e psicologici. Non tutti vengono accettati. E la maggior parte dei ragazzi lì presenti si è fatto un culo così per riuscirci. Io invece sono passato subito. Semplicemente perché queste cose per me sono facili, come l’alchimia. Loro, però, quando hanno saputo il mio cognome, hanno tirato le somme. Certe volte odio il lato “eroico” di ‘Ka-san. Come adesso.
    Mi volto appena verso Cedric, vedendolo pensoso. Ha la fronte leggermente corrugata. Forse si starà preparando a ricevere una strigliata anche da suo padre. Come ‘Ka-san infatti, è a sua volta un militare. Non a caso Ced ha deciso di iscriversi anche lui all’Accademia. Me lo disse un giorno a scuola, quando avevamo entrambi quindici anni. Di preciso non ricordo quando, ma proprio i primi tempi credo. Di sfuggita  vedo ‘Ka-san aprire la porta della nostra camera, facendoci poi cenno d’entrare. “Veloci e senza protestare”, sembra che dica quell’occhio che ci scruta. Fulmina con lo sguardo anche i ragazzi restanti, che fanno finta di nulla prima di riprendere a camminare non curanti o entrare a loro volta nelle proprie stanze. Quando è incazzato, ‘Ka-san fa paura. E di brutto anche. Nessuno vuole ritrovarsi col culo bruciato quando ha la luna storta.
    «Papi, potevi anche evitare di accompagnarci», gli faccio notare, enfatizzando sull’appellativo in tono mieloso. Come se quello basti. Peccato che stavolta non funzioni. Difatti indica ancora la stanza, maggiormente stizzito.
    «Smettila di tergiversare e muoviti», sbotta, spostando la sua attenzione verso Cedric. «Anche tu forza, non ho tempo da perdere con tutti e due. Ho del lavoro in arretrato e ora mi tocca anche quello che mi è stato affibbiato per colpa vostra. Senza contare il fatto che dovrò avvertire tuo padre», tiene presente, indicando il mio amico. «Il ché significa che mi toccherà scendere di due piani fino agli uffici interni del Tribunale Militare per cercarlo e raccontargli l’accaduto».  Aggiunge questo quasi tutto d’un fiato, mentre gli vedo una leggera vena sulla fronte. Stavolta mi sa che l’abbiamo combinata davvero grossa.
    Cedric, però, fa per ribattere, con cipiglio preoccupato. «Non è mica così necessario avvisarlo», prova, con tono leggermente nervoso.
    Un’altra occhiataccia lo fulmina. «Volete che vi porti con me al Quartier Generale per far firmare a voi le scartoffie?» ribatte ‘Ka-san esageratamente tranquillo, nonostante la vena pulsi di più. Meglio lui che ‘To-san, almeno, in questo momento. Mi ritrovo a pensare quello, mentre li sento battibeccare come bambini. Se ci fosse stato ‘To-san non ce la saremmo cavata con così poco.  Difatti ‘Ka-san se ne va solo dopo averci fatto una bella tirata d’orecchi. E bella davvero, visto che mi fanno male. Ma se invece di lui avessero convocato ‘To-san, sarebbe stato anche peggio. Quindi siamo stati fin troppo fortunati.
    Mi lascio cadere sul letto mentre mi massaggio ancora l’orecchio, imbronciato. Vedo Cedric fare lo stesso, prima di stendersi a braccia spalancate sul materasso.«E per fortuna che per mezza volta abbiamo eseguito gli ordini», borbotta, voltandosi appena verso di me per guardarmi. «Figurati se non l’avessimo fatto».
    Sospiro e mi stendo anche io, osservando il soffitto. «Credo proprio che ‘Ka-san abbia ragione», ironizzo, per sdrammatizzare. «Finiremo davvero a pulire le latrine ogni giorno».
    «Non mi sono mica iscritto qui per pulire i cessi», ribatte lui.
    Lo guardo con un sopracciglio inarcato. «Perché secondo te farlo è sempre stato il mio sogno, eh?» replico, ancor più sarcastico di prima.
    Quella giornata almeno, è stata una delle poche in cui mi sono davvero sentito, dopo tutte le brutte cose che mi sono accadute, un ragazzo normale. Un ragazzo di diciott’anni e mezzo che passa la giornata insieme al suo miglior amico.
 
 
Fu quello, forse, l’inizio d’una vita con un fardello più sostenibile.
 
 
    Ho avuto la mia prima, vera, licenza. Non come la prima volta, che sono quasi scappato. A casa, però, non ho avvertito nessuno. Non l’ho ritenuto necessario. E sarebbe anche stupido farlo, arrivati a questo punto. Sono già davanti al portone, indeciso se salire subito o meno. Vorrei andare a farmi un giro, ma sono anche stanco per il viaggio. Il viaggio sì, visto che da un paio di mesi siamo stati trasferiti in un’Accademia fuori città. Il perché non lo so, forse per ristrutturazione o simili. Sto per indietreggiare quando mi tradisce uno sbadiglio. Sono troppo stanco per uscire.
    Controllo distratto l’orologio da taschino che mi ha regalato ‘To-san, notando che sono appena le quattro del pomeriggio. A quest’ora sono a lavoro. Fortuna che ho sempre con me le chiavi di casa. Sbadiglio ancora mentre apro il portone, salendo le scale a due a due. Non vedo l’ora di sdraiarmi su un letto comodo. Il mio, quello dei miei o persino il divano mi vanno bene. Se non fosse duro dormirei anche sul pavimento.
    Apro piano la porta quando raggiungo finalmente l’appartamento, venendo subito avvolto da un silenzio così netto che quasi mi rimbomba nelle orecchie. So che è il mio battito quello che sento, ma la quiete di quel tipo mi fa sempre uno strano effetto. Altrettanto silenziosamente mi richiudo la porta alle spalle, lasciando la sacca che mi sono portato dietro accanto al mobiletto presente nell’ingresso. Mi libero anche del berretto, lanciandolo quasi su un braccio dell’attaccapanni. E sorrido come un idiota quando lo colpisco. Le piastrine che indosso le lascio in bella mostra sulla canotta, togliendomi solo la giacca. Fa un po’ caldo in casa, ma è un caldo piacevole. Un caldo familiare. Quel caldo che si sente quando si sta tutti insieme.
    Camminando piano, stando attento che i miei scarponi non facciano rumore, attraverso il corridoio, inspirando a fondo il profumo di casa. Si sente ancora il caffè che hanno preparato quella mattina. Vado in cucina per vedere se ne è rimasto un po’, trovando la macchinetta mezza vuota. C’è solo un goccio, ma non mi va di prepararlo. Borbotto un po’ tra me e me, uscendo nuovamente in corridoio mentre mi stiracchio sempre più e sbadiglio sonoramente. Quel che mi ci vuole, prima d’una bella dormita, è un bel bagno rilassante. Entro quindi in camera mia, prendendo vestiti puliti e leggeri. Mentre mi dirigo alla biblioteca però, mi ricordo una cosa importante. Il bagno secondario non ha la vasca. Solo quello in camera dei miei ce l’ha. Che tirchi. Potevano farlo anche lì.
    Sbuffando, ritorno sui miei passi, andando verso la loro stanza. Non credo che gli dispiacerà se lo uso per un po’. E nemmeno se consumo mezzo contenitore di bagnoschiuma, no? Mi scappa un altro sbadiglio mentre apro la porta senza dar più peso al silenzio visto che sono solo in casa, e socchiudo di poco gli occhi lacrimanti. Sto per fare un passo all’interno quando, una volta focalizzata l’immagine, mi blocco lì, sulla soglia della camera con i vestiti sotto braccio. Due occhi dorati mi fissano sconcertati, mentre l’altro, nero come la pece, è dilatato come non mai. Dire a chi appartengono sarebbe superfluo e anche scontato...
    «E... E tu cosa diavolo ci fai qui!» esclama ‘Ka-san rosso in volto, in una posizione un po’... beh... più che contro facente al suo ego e al suo orgoglio maschile.
    Vorrei distogliere lo sguardo, ma non ci riesco. E forse vorrei anche ridere, ma non riesco a fare nemmeno quello. Così guardo ‘To-san, la cui schiena è leggermente nascosta dal lenzuolo che per miracolo non è scivolato via, mentre si trova sopra ‘Ka-san. Aye, sopra. Non voglio andare oltre con i dettagli. Sembra boccheggiare un po’, anche lui rosso in viso. Non so se sia per la mia presenza o per quello che ho interrotto. Però non voglio indagare oltre. Meglio restare nel dubbio.
    «Tu dovresti...» comincia anche ‘To-san, e lo vedo distintamente deglutire. Ma ormai io non ci faccio più nemmeno caso. Li ho beccati tante di quelle volte a farlo che nemmeno dovrebbero arrossire. Forse è per il cambio di ruoli? Credo proprio di sì, visto che ho notato che ‘Ka-san ha chiuso l’occhio come per far finta che sia tutto un bruttissimo sogno. Peccato per lui che non sia così. Adesso ho visto anche il suo essere completamente donna.
    «Scusate il disturbo», mi limito a dire scrollando le spalle, ritornando tranquillo sui miei passi.
    Non appena mi richiudo la porta alle spalle sento il letto che cigola appena, segno che si stanno muovendo per rialzarsi e rendersi presentabili. O forse per ricominciare come se nulla fosse, chissà. Dubito però di questa mia seconda ipotesi, rifugiandomi in cucina. Quel caffè quasi quasi mi tenta, stavolta...
    Mi riempio una tazza, accomodandomi al tavolo per sorseggiarlo mentre aspetto. Non ci mettono più di cinque minuti a raggiungermi, anche se ‘To-san ha ancora la camicia aperta e si sta affrettando a sistemarsela insieme ai capelli come meglio può. Quello che mi fa ridere in questo momento sono le loro espressioni. Specialmente quella di ‘Ka-san. E come dargli torto. Almeno a letto, ero sempre stato sicuro che avesse il controllo della situazione, visto che quando li beccavo era sempre lui quello che comandava. Adesso, invece, quella mia certezza è sfumata. ‘Ka-san è sottomesso in tutti i sensi. Mentre continuo a bere li vedo lanciarsi occhiate, quasi nervosi. Poi noto di sfuggita ‘Ka-san sistemarsi meglio la benda, e sono pronto a scommettere che il colorito arrossato del suo volto supera di gran lunga quello di ‘To-san. Fa poi per aprire la bocca, ma gli viene subito tappata.
    «Che hai combinato, stavolta?» si rivolge a me Oto-san in sua vece, con tono calmo ma oserei dire un po’ isterico. Si vede lontano un miglio che gli dispiace che gli ho interrotto il gioco.  E non darei torto nemmeno a lui. Agito appena una mano finendo il caffè, voltandomi poi per sorridere ad entrambi.
    «Stavolta ho una vera licenza, ecco cos’è successo», dico, un po’ anche per sbeffeggiarli. «E ho pensato di sfruttarla passando un po’ di tempo con voi. Non siete contenti?»
    Dall’espressione di uno dei due non si direbbe. Proprio quest’ultimo riesce a liberare la bocca, inveendo contro di me. «Ti ci strozzo con quelle piastrine che hai al collo!» sbraita, tenuto subito dopo a freno da ‘To-san. Di nuovo domato. Altro che cavallo selvaggio.  L’orgoglio del mustang si è perso da tanto, mi sa.
    «Quello che Oka-san voleva intendere è che non ti aspettavamo», ribatte ‘To-san quasi afflitto, mentre vedo ‘Ka-san continuare a sbraitare contro la mano d’acciaio che gli tappa la bocca.
    Sorrido spavaldo, alzandomi. «Non dovresti agitarti così tanto, ‘Ka-san», gli dico, schernendolo. «Ti fa male alla salute, soprattutto dopo quel sano movimento». 
    Detto questo scappo svelto verso la soglia della cucina, venendo subito seguito dagli strepiti di ‘Ka-san, ormai libero dalla presa di ‘To-san. Che si sia liberato da solo o che sia stato Oto-san a decidere di gettare la spugna è difficile da dire. Ma non è mamma quello che mi raggiunge in biblioteca. E’ lo stesso ‘To-san, con in volto dipinto un ghignetto divertito.
    «Lascialo perdere», mi dice subito, avvicinandosi al divano sul quale mi sono accomodato per darmi una leggera pacca sulla spalla. «Anche se fa così, è felice che sei tornato». A quell’affermazione, sorrido anche io. Sbraita e si lamenta in continuazione, ma poi mi accontenta in ogni minima cosa.«E’ solo imbarazzato per quanto hai visto», continua, lasciandosi sfuggire un piccolo sbuffo d’ilarità, vagamente orgoglioso.
    Ridacchio anche io. Ci credo che è imbarazzato, ‘Ka-san. E ci credo che ‘To-san invece se la ride. Becco sempre lui sotto! «Cos’era, oggi, la rivincita dei passivi?» lo prendo un po’ in giro, perché so bene com’è la situazione. ‘To-san, da quando ne ho memoria, ha sempre e solo avuto ‘Ka-san. Anche un po’ prima che mi adottassero, da quanto mi ha detto. Le sue uniche conoscenze in quel campo, quindi, sono con ‘Ka-san. Non ha mai avuto nessuna donna a differenza sua.
    Lo vedo arrossire un po’, segno che ho fatto centro. Si gratta distratto una guancia, guardando altrove. «Se vogliamo metterla così...» borbotta, anche se gli scappa un sorrisino. Qualche soddisfazione doveva pur averla anche a letto, infondo. Meglio abbondare quando si può. E poi, quello sarà un buon modo per prendere in giro ‘Ka-san. Mi viene quasi da ridere, non so perché.   Non che non vedessi ‘To-san così... intraprendente. Solo, non mi sarei mai aspettato che ‘Ka-san facesse il passivo. Non voglio nemmeno sapere perché hanno deciso di cambiare. Questi sono strettamente affari loro. E io non mi immischio.
    «Hai già mangiato?» mi chiede ‘To-san, riscuotendomi. E’ uno dei suoi modi per mettere da parte i discorsi. Chiedere se hai pranzato e se hai fame. Un classico.
    Gli sorrido ancora, annuendo. «Aye, ma ad una cena in famiglia non si dice mai di no», sghignazzo serenamente, vedendolo sorridere a sua volta. E’ da tanto che non passiamo del tempo tutti e tre insieme. Se possiamo, tanto vale sfruttare l’occasione. Chissà quando ce ne capiterà un’altra.
    Lo seguo in cucina, dove ‘Ka-san sta ancora borbottando fra sé e sé. Ormai anche quello è diventato d’abituale routine. Vedo però che è un piccolo sorriso, quello che gli increspa le labbra. In fondo, è pur sempre la mia mamma.
 
 
Il susseguirsi di eventi tranquilli, dopo, fu molto più presente di quanto io stesso potessi sperare.
 
 
    «Guercino!» 
    E’ incredibile quanto risuoni alta la voce dello Zio nella piazza dinnanzi al Quartier Generale. Eppure, con tutti i ragazzi di fine Accademia che sono lì radunati, dovrebbe confondersi nel trambusto e nel vociare dei presenti. Ci troviamo lì anche noi, tutti in ghingheri. ‘Ka-san nella sua uniforme graduata, con tanto di meriti e medaglie in bella mostra. A sua volta anche ‘To-san, anche se è andato -Sotto mia “umile” richiesta- alla ricerca di Cedric e di suo padre per scattare una foto tutti insieme. Io, invece, indosso per la prima volta la divisa. Sono diventato un militare, proprio come i miei genitori. Mi sento entusiasta come non mai. Anche perché sto già pensando all’esame per Alchimista di Stato. Non dovrei correre così tanto, ma oggi non riesco a stare dietro ai miei pensieri. E’ come se scappassero via da soli.
    «Guercinooooo! Ehi!»  Lo Zio, intanto, continua a chiamare ‘Ka-san. Ma come sempre, lui fa finta di nulla. Si volta sì nella sua direzione, però non lo calcola minimamente. Guarda un punto oltre a lui, concentrando l’attenzione del suo unico occhio un po’ più avanti. Oggi, in via eccezionale, ha deciso di fare a meno della benda. E’ un po’ a disagio e si vede, ma cerca anche di non pensarci. Quando gli ho chiesto perché ha semplicemente detto che gli andava. Ha però nascosto un po’ la cicatrice con la frangetta, che porta un po’ più lunga sul lato sinistro. Forse proprio per coprirla in casi come quello, chissà. Non ho voluto domandargli anche questo. Se basta a farglielo affrontare del tutto, tanto meglio così.
    «Guercino!» Ancora un richiamo. Più alto dei precedenti. E a questo punto, spazientito, ‘Ka-san lo guarda dopo tanto.
    «Che cazzo vuoi, coglione!» esclama a sua volta, richiamando l’attenzione di parecchie persone. Roy Mustang. La mia mamma. La finezza fatta persona... 
    Un tantino perplesso, lo Zio si ferma a poco distanza da noi, sbattendo le palpebre. Ma poi sorride più che mai, gettandosi letteralmente addosso a ‘Ka-san. «Andiamo, come sei scorbutico!» si lagna, cominciando, con le nocche della mano destra, a scompigliargli i capelli, quasi fosse un ragazzino. Vedo ‘Ka-san tentare di scrollarselo di dosso, stizzito più che mai. Poi dicevano di me e Ced. Loro, a cinquant’anni e passa, sono peggio di noi. «Tuo figlio si diploma e tu sei così nervoso?» continua lo Zio prendendolo in giro, guardando poi me con quel solito sorriso. Però non mi piace poi tanto, quel sorriso...
    Difatti, eccolo lasciare ‘Ka-san per avventarsi su di me, cingendomi il collo con un braccio. «Congratulazioni!» esclama divertito, scompigliando anche a me i capelli. «E’ proprio vero, allora! Tale padre tale figlio!» 
    Tento di dire qualcosa, ma ‘Ka-san mi precede. «In realtà sarei la madre, ti ricordo...» ribatte, vagamente risentito. Lo Zio lo guarda, allentando un po’ la presa e permettendomi così di respirare.
    «Mica parlavo di te, infatti!» sghignazza, ricevendo un’occhiata letteralmente infuocata. E per fortuna che stamattina ‘To-san gli ha impedito di indossare i guanti proprio per evitare che desse fuoco a Zio Maes!  Ormai libero mi permetto di ridere anche io, guadagnandoci la medesima occhiata. Ma non ci faccio poi tanto caso. Sono di routine quelle occhiatacce, tanto.
    Mentre loro due cominciano a litigare come al solito, tra borbottii sconnessi e false minacce di morte, ne approfitto per allontanarmi il più possibile prima della cerimonia d'apertura, guardando distrattamente verso il cielo azzurro sopra di me una volta solo. Ne ho passate tante, in questi ultimi anni, e quasi credevo che non sarei riuscito a cavarmela in sveriate occasioni. Eppure eccomi lì, ancora vivo, insieme ai miei genitori.



Questa è la storia della mia vita. Un po’ triste, certo. Ma è la mia bellissima vita.






_Note inconcludenti dell'autrice
E dopo questa one-shot praticamente chilometrica, con la quale avevo una voglia matta di concludere la raccolta, eccoci finalmente giunti alla fine. Avevo scritto questa storia tantissimo tempo fa, e in essa volevo racchiudere alcuni dei momenti più significativi di Jason, personaggio nato quasi per caso al quale io e la mia nipotola abbiamo voluto più bene di quanto noi stesse ci aspettassimo.
L'abbiamo praticamente visto crescere, da bambino di tre anni a ragazzo, ed è fin troppo normale che ci affezionassimo in questo modo a questo nostro Original Character e a tutto il background dietro ad esso. Non sono mancati i sorrisi, le lacrime, le nuove amicizie e gli amori, e a lui alla fine abbiamo affiancato Cedric, suo migliore amico e altrettanto combinaguai; si è aggiunto in seguito anche Dick, suo commilitone nell'esercito, facendo sì che nascesse il Monster Trio, se proprio vogliamo chiamarlo in questo modo.
C'è stata tutta una vita da vivere, in pratica, e posso candidamente affermare di essere orgogliosa come non mai della storia che io e la mia nipotola Red Robin abbiamo messo su.
Chiedo scusa per queste inutili precisazioni, ma ci tenevo davvero a scriverle.
Spero alla prossima. ♥


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