A
chi vive nella felice
convinzione
che il tempo
metta
un sigillo di pace
a
tutto ciò che se ne và,
così
come lo credeva
l’angelo
di Avrigue.
AUTUNNO
“Mio
eterno Autunno mia stagione mentale
Mani
d’antichi amanti costellano il tuo suolo
Una
sposa mi segue è la mia ombra fatale
Le
colombe stasera spiccano l’ultimo volo.”
(Guillaume
Apollinaire, Alcools)
L’autunno
è sceso sul parco.Gli alberi non sono più alberi. Infinite gradazioni di tutti
i rossi, di tutto l’oro, di tutto il fiammeggiare segreto, vinte dall’ombra
e dal peso del passato. Come la tela dipinta di un fondale di teatro, si
confondono con la fine del giorno. Ottobre, la parola è dolce da bere e triste
come un vino di morte, ancora così ricca del profumo della vita. Foglie
d’ambra del giardino, rossore di chioma immensa spiegata sul pavese del
ricordo.
Nella
penombra, un pavone blu di seta medievale s’allontana sul viale silenzioso.
Con
mano febbrile abbassò la finestra del bovindo, e si voltò verso il divano
perduto nell’ombra, dove i fiordalisi galleggiavano su uno stagno di seta
fucsia.
-Il
tuo silenzio non mi consola granchè in queste ore malinconiche-
Passò
la mano distratta sullo strano animale, una palla di pelo da cui emergeva uno
sguardo vago.
In
controluce, la sera nascente sottolineava le infinite ragnatele sparse nella
stanza, che frastagliavano i cassettoni intarsiati dell’alto soffitto, e
gonfiavano i muri di veli impalpabilmente azzurri. Attraversò l’atrio,
sostando a lungo davanti alle scale, lo sguardo inquieto rivolto ai piani.
Una
forza insuperabile lo spinse sulla scala. Salì i gradini con lentezza ieratica.
La sua sagoma un po’ appesantita
ritrovava nei momenti solenni come quello un’indiscutibile elganza. Con i
capelli spettinati, lo sguardo perduto, conservava alle soglie della quarantina
qualcosa dell’adolescente. Con un gesto rispettoso aprì una delle porte. La
stanza debolmente illuminata da una stretta finestra aveva il suo silenzio
particolare, più opprimente, più inquietante di tutti gli altri silenzi. La
fine del giorno allungava sul parquet un’unica pennellata di luce, un riflesso
magico di vetrata, fino al cavalletto aperto al centro della stanza. L’angelo
era lì per sempre, gli ochhi per sempre chiusi, sotto l’influsso di una
felicità o di un dolore ineffabili. Un’aura dorata di luce morente circondava
la chioma fulva dispiegata. Con il capo piegato all’indietro, le labbra
semichiuse ma così pallide, sembrava offrirsi alla morte, al sogno di
un’eternità finalmente tranquilla. Un uccello le posava tra le mani un fiore
bianco. Accanto a lei, come un sole dell’ombra, la meridiana segnava
l’ultima ora che l’aveva benedetta, e non ferita. Incapace di sostenere la
luce interiore di quegli occhi socchiusi si voltò e corse via.
Come
un’annegato che riprende fiato sulla riva, aspirò delziosamente l’aria
fredda avvolta di foschia che saliva dal Tamigi. Era la vita che ricominciava
dopo quel viaggio al di là, la vita in quei viali invasi d’erba alta.La sera
pareva scendere a malincuore.
Autunno.
Autunno
spiegato contro il cielo , in rami intrecciati. Autunno sul terreno cosparso di
foglie, e l’odore delle mele sotto la pioggia. Foglie scarlatte sui muri
inpregnate di vita.Rami di foglie alla conquista delle finestre, lanciati verso
il tetto. Foglie cadute, mischiate sulla terra ancora calda alle mani aperte
mordorè delle foglie di platano, al rame finemente lanceolato degli aceri, dei
castagni, al giallo vivo e dolcemente orlato delle foglie, e tutto era
l’autunno: la morte del parco così bella da calpestare dolcemente, l’approsimarsi
della fine in morente bellezza. Camminava come inebriato, i piedi nella
malinconia frusciante, lo sguardo stanco smarrito nella luce calda,
rassicurante, disperata. Com’era bello per quella sera immergersi nel fogliame
a ogni istante più cupo, bere in vino d’autunno la danza d’oro della
disperazione.
A
poco a poco si perdeva camminando in quel fondale e nei suoi colori, e il parco
scivolava nell’ombra come un altro se stesso. La vertigine del laudano si
mescolava nella sua testa alla foschia della sera. Poi , altre nebbie salirono
dentro di lui. Si accasciò su una panchina di pietra e cedette, le mani sugli
occhi, al sogno-incubo che aveva evocato.
Una
donna elegante lo urtò. Si guardarono, interdetti, l’uno e l’altro di colpo
consapevoli che l’icontro non era un caso.
-
So della tua malinconia, del tuo tormento, del mondo affascinante e torbido di
cui le tue tele portano il segno.La mia vita sembra così liscia e chiara. E
tuttavia sappi che non mi illudo. La parte migliore di me da tempo giace
addormentata, nelle foglie d’autunno. Ho scelto la felicità, ma la sera,
troppo spesso, penso al nostro angelo…-
-
E se tutto questo fosse stato solo un gioco?- intervenne dolcemente- La vita non
è nulla, i ruoli sono distribuiti in anticipo.-
-
Mi resta questo sogno folle di raggiungere un giorno la trasparenza.-
-
Per me, lo so già.Mi aspetta la notte.-
Le
parole si fanno più rare, ormai parlano solo per se stessi. La nebbia corre a
falde sull’erba rasa. Autunno il talento, l’amore, la solitudine,
l’amicizia, e l’acre nostalgia per tutti gli impossibili. Autunno la sera
che scende, che avvicina l’ombra e la luce. Autunno il passato, l’odore
dolceamaro delle foglie cadute.Due figure in Hyde Park. Gli alberi hanno il loro
colore. La nebbia li confonde nell’epilogo di una serie di rapporti incrociati
tra anime tormentate che si cercano e si respingono, si attraggono e si lacerano
a vicenda in una girandola di eventi cruciali e drammatici.
Hermione
guardò la nebbia scendere sul Tamigi e con voce flebile disse – Guardami,
sono ciò che avrebbe potuto essere.-
Remus
abbassò gli occhi.
Nella
penombra un pavone blu di seta medievale si allontanava sul viale silenzioso.
“Cos’è
un amico?
Un’unica
anima
che
vive in due corpi.”
(Aristotele)
FINE