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Autore: elans    25/03/2012    2 recensioni
Arwen, stufa di stare ad ascoltare le previsioni catastrofiche di suo padre sull'impresa di Aragorn, parte per Chicago insieme ad Elizabeth Swann, che, da quando ha visto partire Will, è stanca della sua vita. La dragonessa Saphira dovrebbe "completare il suo addestramento, rafforzare la sua relazione col Cavaliere etc.", ma si è innamorata di Legolas. E Voldemort? Lui, poveretto, è caduto in depressione quando Harry Potter ha tentato di ucciderlo, e si consola con Queer As Folks.
Volevo scrivere una long impegnata e incasinata a tema ribellioni al destino, fughe precipitose che non riescono a tagliare i legami col passato ma anzi li rinforzano e personaggi stravolti. Non ci sono riuscita ed è venuta fuori questa.
Storia sospesa a tempo indeterminato. Le sono molto affezionata e non voglio abbandonarla, ma al momento non riesco a portarla avanti. Grazie comunque a chi la segue/legge!
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Arwen
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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001. Preludio ai sensi di colpa

 

"I am half-sick of shadows."
                              
[Lord A. Tennyson, The Lady of Shalott]



Poetici estratti dalle Lettere di Arwen Undomiel ad Aragorn, chiuse in un baule in attesa del suo ritorno.
Domenica, 1° dicembre
Amore, è passata solo una settimana da quando sei partito. Il cuore mi si riempie di un mare di lacrime ogni volta che ti penso, ma non posso fare a meno di navigare in quel mare.
[…]
Venerdì, 13 dicembre
Amore, non smetto un attimo di pensare a te. Ti vedo in ogni volto, in ogni nuvola, in ogni riflesso sull’acqua.
[…]
Sabato, 28 dicembre
Non condivido le idee di mio padre. È convinto che la vostra impresa sia fallita ancora prima di cominciare, sfiduciato. Inoltre non approva il nostro amore, lo considera una cotta adolescenziale, e vorrebbe che mi concentrassi su uno dei suoi noiosi amici plurimillenari. Ma io ti amo alla follia.
[…]
Lunedì, 6 gennaio
Vuole che parta per i rifugi oscuri. Gli ho detto che parta lui, ma per andare a quel paese. Comincio a dubitare della sua lucidità. Nonna Galadriel mi ha mandato una cartolina criptica della sua collezione. Una città piena di luci, un’altra dimensione. Chicago. Pare che tutti mi mandino messaggi subliminali, qualcosa come stai-sprecando-la-tua-vita-fuggi-finché-sei-in-tempo. Ma insomma, anche se a conti fatti non avete una possibilità una di tornare, io di qui non me ne vado.
[…] […] […] […]
Venerdì, 17 gennaio
Sta facendo i bagagli. Vuole partire per i Rifugi oscuri entro un mese.
Anch’io ho fatto i bagagli e parto. Me ne vado da qui. C’eravamo fatti un bel film, amore.

Venerdì, 2 febbraio, ore 07.40
Stanza 39, Motel U.S.A. Paradise
Chicago, USA

Elizabeth lanciò un’occhiata torva alle nuvole colme di pioggia che si rincorrevano al cielo in un buffo, impacciato inseguimento in slow motion. Pioveva anche l’ultima volta che aveva visto Will vivo. A volte, Liz si chiedeva se sarebbe mai riuscita a passare oltre, a dimenticare, a innamorarsi ancora. Anche se non fosse stato quel grande amore totalizzante, da adolescenti appassionati senza precedenti né esperienza, le sarebbe andato bene: sarebbe bastato che le togliesse dalla bocca e dai pensieri quel sapore stagnante e al contempo duro come metallo, quel sentore di impotenza che ribolliva e si dibatteva negli ultimi spasimi sotto la rassegnazione. Eppure ogni volta che un uomo le parlava si ritraeva, inventava impegni inesistenti, era gelida e lontana; le ritornava in mente sempre la stessa calligrafia aggrovigliata, la stessa frase rabbiosa e nostalgica al tempo stesso…
Ed ho solo vent’anni, si disse.
Cercò di scacciare con un gesto della mano quei pensieri e accese la radio a tutto volume.
Wen si rigirò sul letto mugolando. (Come la minuscola stanza del motel riuscisse a inglobare cucina, sala da pranzo e camera da letto in sei metri per sei, era un mistero per entrambe.) “Che stai facendo, Liz?” borbottò, squadrandola con gli occhi socchiusi alla tenue luce del sole.
Liz aveva ancora i capelli fradici e indossava solo un cardigan di lana a righe bianche e blu abbottonato sulla pelle nuda, mutandine a vita bassa di lycra nera e le solite pantofole con la testa del Muppet. Bevve un sorso di caffè. “Lo so, è presto e sveglio tutti. Ma…”
“Will?” chiese Arwen mettendosi a sedere sul letto.
“Will” sospirò Elizabeth. “Wen, prima di andare via Will mi diede un libraccio sconquassato, vecchio già allora. Il diario di Davy Jones.” Fece un mezzo sorriso. “Sì, lo so che sembra il film su Bridget Jones. Però… Io speravo di trovarci qualche indicazione, un modo per salvare Will da quella merdata, per sciogliere la maledizione. E invece… Invece è un testo introspettivo. A un certo punto Jones comincia una specie di soliloquio ossessivo diretto alla sua amante.”
“Che paroloni. Chi era la sua amante? Calypso?”
“Sì. Come fai a sapere tutto? Comunque, alla fine tutto si riduce alla stessa frase, ripetuta migliaia di volte.”
“E cioè?” chiese Wen. Liz non sapeva come, ma l’elfa riusciva sempre a capire quando era il momento di cavarle le parole di bocca, e la cosa la faceva sentire bene. Era felice che qualcuno la comprendesse, in un certo senso.
“La frase dice: Perché tu non c’eri?
Wen taceva, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno all’anulare.
“E se col tempo Will mi dimenticasse? E se io mi dimenticassi di lui? E se…”
“Liz, in cinquant’anni io non mi sono mai dimenticata di Aragorn. Piantala con queste… queste seghe mentali.” Di solito Arwen non era volgare. Mise un pentolino di latte al fuoco e lanciò un’occhiataccia alla gabbia dello scoiattolo.
“È alto un francobollo messo in orizzontale, ma russa” sorrise.
“E puzza come una fogna” aggiunse Liz. Prendere in giro Voldemort era l’unica cosa che riusciva a tirarle su il morale in questi giorni. “Se non troviamo un posto dove nasconderlo e non gli facciamo il bagno nello Chanel n. 5, ci defenestrano.”
“Ho osservato attentamente Saphira, e comincio a pensare che…” la interruppe Wen.
“Si vede lontano un miglio che è innamorata” abbaiò lo scoiattolo con una terribile voce profonda, e Liz sobbalzò. “Puah. Questa gabbietta fa schifo.”
“Senti, Lord Voldemort, sei tu che hai voluto trasformarti in uno scoiattolo” bofonchiò Elizabeth in direzione della gabbietta. “Oh, Wen rendi conto che ha sentito tutto quello che abbiamo detto? Ti rendi conto che ci vede nude ogni volta che usciamo dalla doccia? Ti rendi conto di che filmini si fa? Ti rendi conto…”
“No” grugnì cupo Lord Voldemort. “Gli scoiattoli devono essere presbiti. Comunque, se volete il mio modesto parere, quel rettile è innamorato perso.”
“È arrivata la Posta Del Cuore” sbuffò Liz. “E non chiamarla rettile! Proprio tu, poi. La tua unica relazione affettiva è stata con un serpente, e hai anche avuto il coraggio di chiamarla Nagini. Se qualcuno mi chiamasse Nagini mi suiciderei.”
“È innamorata, e la cosa manderà a farsi fottere parecchie cose, se non starà attenta” pronosticò Lord Voldemort.
“Cerchi di usare un linguaggio un po’ meno scurrile, per favore” lo pregò Arwen. “Stiamo parlando di un drammatico amore che probabilmente non riuscirà a consumarsi.”
“E a me non pensi?” gemette lo scoiattolo. “Pensa a me e al Potterino. Insomma, pensavo sempre a lui. A come farlo fuori, va bene, ma era il senso delle mie giornate. E quello cosa fa? Ti illude di essersi fatto ammazzare, poi risorge e ti fa nero.”
“Amor non corrisposto, soffro e dimagrisco” lo prese in giro Liz. “Wen, accendi la tv. Fra due minuti comincia Queer As Folks, e visto che qui accanto abbiamo un ex dominatore del mondo fallito, adesso scoiattolo omoserpentofilo, direi che non puoi dire di no.”
“Comunque, personalmente credo che tra Brian e Justin non possa durare” disse Arwen, mettendo a scaldare nel microonde degli spinaci cosparsi di tè al ginseng per il suo piatto elfico del giorno.
“Avevo due mangiamorte di nome Brian Lenoch e Justin Caldwell. Poi ho dovuto ammazzarli” sospirò Lord Voldemort con uno squittio malinconico.
“Ma stia zitto.”

 


 

Venerdì, 2 febbraio. Ore 20.10.
Grotta Di Saphira
c/o Foresta Elfica Dal Nome Impronunciabile Che Comincia Con Du,
Alagaesia.

“Waaargh”.
Saphira si lasciò cadere mollemente a terra, e mentre l’impatto dei suoi tremilaseicentododici chili dragoneschi con il terreno della grotta provocava un boato tremendo cercò di pensare a qualcosa di insulso, come la bellissima sciarpa verde di Arya, una canzone americana, o Leonardo DiCaprio.

[Negli ultimi mesi era andato tutto a scatafascio (e qui comincia un brevissimo riassunto che, se ricordate ancora cos’è successo in Eragon ed Eldest, potete anche risparmiarvi).
Per la precisione, i problemi erano iniziati alla morte di Brom, il cantastorie jedi/talent scout che aveva scoperto lei ed Eragon in un paesino sperduto tra le montagne e li aveva accompagnati in un viaggio attraverso il loro continente, l’Alagaesia, in fuga dall’imperatore Galbatorix (cattivo) verso un gruppo di ribelli chiamati Varden (buoni).
Brom in realtà non era solo un cantastorie, un talent scout e l’unico ottantenne in grado di intrigare Saphira con il suo charme da macho macho man mentre cuoceva coniglio all’ortica. Era anche stato un Cavaliere dei Draghi, un bravissimo spadaccino e una guida spirituale per lei ed Eragon, tipo Obi Wan Kenobi. Morale della favola, senza di lui – e insieme a una specie di ibrido tra Bambi e Kurt Cobain di nome Murtagh – la loro avventura era diventata il sequel di Casino Royale per fantasy lovers: erano riusciti a penetrare, non vi dico con quanto sforzo e con quante indicibili stronzate commesse da Eragon, nella macabra fortezza di uno scagnozzo psicopatico del re munito di poteri soprannaturali, un certo Durza, in cui era rinchiusa un’elfa di nome Arya; e, contro ogni pronostico, erano riusciti anche a salvarla e ad andarsene tutti interi. Ora, Saphira avrebbe dovuto essere riconoscente ad Arya, perché proprio lei aveva custodito per molti anni l’uovo da cui era nata; solo che la dragonessa non riusciva a capire come l’elfa potesse sembrare uscita dal catalogo di un sexy shop dopo svariati mesi di durissima prigionia, e neanche come facesse a risvegliare gli ormoni di Eragon pur trovandosi in stato comatoso.
Comunque, erano riusciti ad arrivare dai Varden e, dopo aver combattuto una tremenda battaglia dentro una montagna, ucciso Durza e sostenuto un migliaio di consigli di guerra noiosissimi e lunghi ore ed ore, senza mai mangiare o andare alla toilette, avevano acconsentito a raggiungere la Meravigliosa Magica Foresta Elfica Du Weldenvarden (nome da pronunciarsi con erre moscia e tono estatico) per “completare il loro addestramento”. Lì avevano incontrato, oltre alla regina degli elfi che altri non era se non l’adorabile mammina di Arya (la quale, nel frattempo, si era svegliata dal letargo e sculettava dappertutto), anche un Cavaliere vecchio come la morte e il suo drago dorato, entrambi muniti di una saggezza e una tranquillità quasi insopportabili. Ah, a proposito, Murtagh/Bambi era sparito nel nulla quando l’allegra comitiva si trovava ancora presso i Varden. Saphira sospettava che si fosse unito a una cover band dei Nirvana e se ne fosse andato a cantare Smells Like Teen Spirit a qualche troll puzzolente. Con quest’ultima insignificante notizia, possiamo chiudere il nostro riassunto.]


Insomma, non erano passati neanche due mesi dal loro arrivo nella Du Weldenvarden, e Saphira non vedeva già l’ora di andarsene. Si sentiva sola come un cane e piena di nostalgia. E di conseguenza, aveva un umore da George Orwell col mal di pancia.
Quella sera non faceva eccezione.
Aveva passato una giornata odiosa, sotto un insopportabile sole elfico gelido e palliduccio, a fare esercizi simili, più che a manovre di volo, a lezioni di kamasutra formato drago.
Come al solito, inoltre, il suo già fragile sistema nervoso era stato bersagliato dagli onnipresenti coglioni elfici che popolavano quel cavolo di boschetto. (Non che la razza elfica le desse fastidio. Anzi. Quegli esseri alti e sottili "come fuscelli" le ricordavano tempi migliori, mondi migliori. Li adorava: erano quasi tutti affascinanti, intelligenti e comprensivi. Gli unici spilungoni orecchielunghe vanesi, gelidi e ottusi avevano messo su casa, per l’appunto, nella Du Weldenvarden.)
Lanciò un'occhiata al fondo della sua caverna intrisa di gelo e umidità. Da qualche parte, in una scatola di cartone mangiucchiata poco a poco dall'acqua, c'erano i vestiti che Arwen ed Elizabeth le avevano prestato la settimana precedente: una corta gonna a fiori, calze smagliate troppo leggere, un maglione di lana grigia, un enorme trench nero.
La non ancora signora Aragorn e la troppo tardi signora Turner avevano preso in affitto insieme la camera di un motel a Chicago, nel secolo ventunesimo, prima che Saphira partisse per la Du Weldenvarden. (Non era granché. Anzi, la dragonessa non riusciva a capire come facessero a vivere in una stanzetta di quindici metri per quindici ingombra di libroni, carte geografiche, bottiglie di rum e mantelli di Lothlorien senza soffocare.) Arwen aveva in mente già da tempo di lasciare la Terra di Mezzo a tempo indeterminato, e quando era venuta a sapere che Elizabeth si era vista morire Will davanti agli occhi, aveva deciso di non aspettare oltre. Gli elfi erano strani. Saphira non era mai riuscita a capirli. Alcuni si divertivano a rovinare la vita degli apprendisti Cavalieri dei Draghi passeggiando per la Du Weldenvarden con le loro faccette ebeti; altri scoprivano di essere innamorati di te cinque minuti prima che fosse troppo tardi; altri ancora prendevano decisioni importanti per la loro vita solo quando c'era un amico a cui salvare la vita.
Il giorno in cui aveva lasciato la Terra di Mezzo, Arwen era comparsa all'improvviso nella radura dove Saphira stava riposando, bellissima nei ricami del suo vestito bianco dalle lunghe maniche, l'aveva presa per un braccio e l'aveva trascinata su un'isoletta sperduta in mezzo al Pacifico. Elizabeth era distesa sulla spiaggia gelida e spazzata dal vento, tra un tronco caduto e un fagotto di pochi vestiti arrotolati. Fissava in silenzio il mare lambito dal tramonto. Aveva grumi di capelli sudici appiccicati al viso e si era quasi strappata la pelle dalle ossa a forza di graffi. Saphira ricordava di essersi chiesta se l'amore fosse davvero in grado di trasformare la gente in quel modo, e di aver avuto paura per sé stessa.
Arwen le si era avvicinata piano. "Liz, vieni via" aveva sussurrato, prendendole la mano. Le sue curve sembravano ancora più sinuose, confrontate al corpo spigoloso e alle braccia sottilissime di Elizabeth.
Liz non aveva detto niente. L'aveva seguita, bagnandosi gli orli strappati del vestito sulla battigia. Da allora nessuna delle due aveva più messo piede nella propria vita. E per entrambe era stato un toccasana. Si erano trovate un lavoro in un luogo chiamato "nightclub" di cui Saphira non era ancora riuscita a cogliere l'essenza e, dai discorsi misteriosi in cui la coinvolgevano, sembrava che stessero architettando un piano diabolico per conquistare il mondo, o qualcosa del genere. Elizabeth aveva persino rimesso su qualche chilo (tra gli hobby pluricentenari di Arwen c'era anche Cucina Tipica Elfica Con Forno A Microonde e Surgelati Del Lidl). Pareva che per tutta la loro vita non avessero aspettato altro che aggirarsi per le sudicie Avenue americane con addosso vestiti vintage di seconda mano, alla ricerca di un libro, un oggetto, una persona che le aiutasse a risolvere le questioni che riempivano le pagine ingarbugliate di decine di block notes nella loro stanza.
A volte - spesso, negli ultimi tempi - Saphira faceva un salto a trovarle. E anche da questo punto di vista quella sera non faceva eccezione.
Gli occhi persi nell'ennesimo poetico tramonto, Saphira pensò alla nottata alternativa che le si prospettava davanti.
Ma all’improvviso le parve che un esercito di minuscoli spilli le si stesse conficcando in fronte. Gli inconfondibili pensieri lamentosi del Cavaliere le riempirono la testa.
“Eragon, se non è una cosa seria ti impicco. Ti prego, ho il mal di testa. Si tratta della sgualdrina?” chiese Saphira.
“Sgualdrina? Oh, Saphira, come puoi… Arya è… I suoi occhi sono profondi come due laghi neri di perdizione…” cominciò Eragon. (Ebbene sì. Se la scusa del mal di testa riusciva a convincere migliaia di mariti a convertire una serata piccante in una sessione avanzata di Yoga e meditazione, beh, non bastava a sedare un teenager preda del suo primo amore.)
“All’inizio era gentile con me, e sembrava quasi che potesse esserci qualcosa tra noi. Ma poi s’è fatta sempre più distante, e ora dice che tra noi non può esserci nulla.” Si fermò, inspirato. “Oh, Saphira, non faresti così se avessi dato un morso al biscotto dell’amore e poi fossi stata costretta a rinnegarlo per sempre.”
Il fatto che Eragon fosse così ottuso quando si trattava della sfera sentimentale della dragonessa abbassava il morale di Phy in modo devastante.
Possibile che negli ultimi tre mesi non si fosse accorto che Saphira, la sua Saphira, avevauna serata prima raggiunto picchi di euforia, poi di malinconia e infine di completa sfiducia e depressione? Quale altro Cavaliere dei Draghi avrebbe mai ignorato che i battiti del cuore del suo compagno di vita stavano rallentando sempre di più? In altre parole, non aveva capito, Eragon, che Saphira era innamorata?
Si sentì come se un gigante le avesse preso il collo e glielo avesse annodato due volte di seguito. Tutto il fuoco che le ardeva dentro sembrò congelarsi e diventare un pesantissimo, gelido iceberg pieno di spigoli.
“Saphira? Saphira? Stai bene? Mi senti?” chiese Eragon, abbandonando la voce triste e profonda da declamazione a quella squillante e insopportabile da interrogatorio.
“Maremma cane, Eragon! Non è che se mi sfracelli del tutto i coglioni poi vinci la bambolina!” abbaiò Saphira. “Passo e chiudo” aggiunse, e oscurò la propria mente.
Le sembrò quasi di sentire la voce di Glaedr che sbraitava: Tu e il Cavaliere dovete condividere TUTTO!
Ma che andasse a farsi fottere, si disse, e andò a nascondersi nel punto più buio della grotta perché nessuno potesse vederla mentre diventava umana.
   
 
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