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Autore: Sinful_Color    25/03/2012    1 recensioni
Sapevo che quell'uomo ti avrebbe sempre ostacolata. Ma non pensavo che ti avrebbe tolto con tanta crudeltà tutto ciò che desideravi. Capii in quel momento, e capisti anche tu, che era tutta una mess'in scena per toglierti di mezzo. Per impedirti di mostrare al mondo la tua anima, per tarparti le ali.
“Ti amo...” ripetesti, sottovoce, pensierosa, mentre sul tuo viso immobile scorrevano lacrime amare e ustionanti. Avrei voluto baciarle per cancellarle, ma non ce l'ho fatta.
Avrei voluto leccare quella ferita lacerante che si era aperta come un crepaccio nel tuo cuore.
Ma non mi sarebbe bastata una vita nemmeno per pensare a come fare.
E tu hai ovviato al problema prima di me.
Fan fiction terza classificata al contest Collapsing Night II edition del Collection of Starlight.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo del contest: Collapsing Night II del Collection of Starlight. 
Pairing: Nessuno.
Personaggi: Virginia Everett, Lily Ascott, Henry Wood (realmente esistito), Oscar.
Generi: Romanzo biografico, drammatico, sentimentale, triste.
Warnings: per una scena in particolare: non per stomaci delicati.
Credits: Per l'icon: http://boundary.livejournal.com/
Credits per le informazioni sommarie su Henry Wood, l'etimologia/significato del nome Virginia e i sintomi della sindrome di Asperger: Wikipedia docet!
Disclaimers: i titoli utilizzati appartengono solo ed esclusivamente a Michael Nymann. Nessuno scopo di lucro.
Eventuali note a fine capitolo. Eventuali MOLTE note!
Perdonate gli errori di battitura: li correggerò quanto prima, devo assolutamente approfittare della connessione che funziona. Grazie e a tra poco! Buona lettura. 



The heart asks pleasure first

Di vergini e di Fuoco.

 

Io e te non abbiamo mai parlato, Virginia. Eppure i tuoi occhi quasi neri hanno sempre scrutato i miei, leggendovi ciò che nessun altro avrebbe potuto o saputo anche solo intuire.

Per questo ho imparato ad esserti fedele, per questo ho imparato ad essere il tuo migliore amico, il tuo perno insostituibile. Ma oggi che sei morta cosa dovrei pensare?

Come dovrei sentirmi?

Tu, inafferrabile come il fuoco, ugualmente pericolosa. Tu, bianca come la luna e imperscrutabile, incomprensibile ai più, come la notte nera in cui le stelle sono tutte spente.

Tu, morta vergine. Morta oggi, in un'anonima, fredda notte inglese. Il calendario si ostina a dire 2 febbraio 1940. Io dico, è una notte qualunque. Anche tu l'avresti detto.

 

[Birth]

 

"E' una bambina!" disse la levatrice, una non meglio nota vicina di casa, quando sei nata sul talamo nuziale dei tuoi genitori, troppo lontani dall'ospedale - troppo intense le doglie di tua madre, in realtà. Lo disse, mi raccontò mia madre, con una vocetta gioiosa e preoccupata assieme: non piangevi, stranamente venire al mondo non ti aveva per niente emozionata, quel trenta novembre del 1922.

Poco dopo eri lì, avvolta in una copertina di lana tra le braccia di tua madre, con i tuoi occhi neri spalancati che la fissavi con le braccia piccine e molli raccolte al petto. Lei ti guardò in viso, incapace di sostenere il tuo sguardo così penetrante e pensò, esclamò: "Virginia!", suggellando la tua nascita col nome che hai portato per diciannove anni da viva, tuo per l'eternità.

Chissà che futuro da gran signora si immaginava tua madre per te, Virginia.

Hai imparato tutto tardi, tu. A gattonare, a camminare, a dire mamma, papà, cosa per altro inutile dato che né mia madre, né tua madre, hanno mai conosciuto tuo padre. La passione di un cuore pronto a tutto porta anche a questo.

Ma c'è una cosa che tra tutte hai imparato immediatamente, prima di impugnare il cucchiaio per mangiare, prima di riconoscere cos'era buono e cosa no, prima di imparare a prendermi in braccio, quando sono nato: hai imparato ad aprire il coperchio del pianoforte di casa, un pianoforte muto.

 

[Scent of love]

 

Uno strumento è muto, se nessuno lo suona, di un silenzio lacerante e commovente. Il silenzio ruba alla musica la sua anima, e tu, probabilmente, quando l'hai aperto, hai trasferito nei tasti d'ebano e avorio la tua.

Virginia, la tua anima, dov'era la tua anima? Dov'era il tuo fuoco, quando hai premuto per la prima volta quei tasti? Era già intrecciata alle corde vibranti e ai martelletti? Riluceva nella vernice bianca di quello strumento?

Bianco, bianco come te, ora che ci penso…splendente, di uno splendore lunare! Un tutt'uno con te. Quanto mi riempie di orgoglio questa somiglianza con voi, bianco anche io, bianco come la neve, come te, come il pianoforte, come i suoi tasti d'avorio.

Virginia, mi fai sempre divagare. Torniamo a te, e al pianoforte. E' impossibile parlare di te senza di lui.

Da quel momento, bambina mia, hai avuto occhi solo per lui. Non per tua madre che cercava di inculcarti quanto meno le regole basilari della grammatica, della lingua, dell'educazione, dell'etichetta. Non per la governante acida e sgradevole come un limone ammuffito, che ti teneva a testa china sul tavolo per imparare l'aritmetica elementare. Nemmeno per me che, per quanto mi impegnassi, ero davvero il tuo ultimo pensiero. Forse.

Almeno fino a quando, nel giorno del tuo quinto compleanno, non mi avvicinai e non mi posizionai accanto a te sullo sgabello imbottito del pianoforte. Restai in silenzio e guardai le tue manine bianche, frenando l'irresistibile impulso di afferrarle, di prenderle e farti capire che "Cielo, Virginia, io sono qui per te, bambina!". Invece tu non mi guardasti nemmeno. Intravidi la sagoma sfuocata dei tuoi occhi riflessa sulla vernice bianca della cassa del pianoforte, davanti a te. E tu, da lì, guardasti dritta nei miei. Mi guardavi attraverso lo strumento, mi sentii come se gli occhi della tua anima mi stessero scrutando nel profondo. All'improvviso sentii la tua manina sulla mia schiena. Sentii il mio giovane cuore riscaldarsi violentemente. Mi sentii estremamente importante. Mi sono sentito estremamente importante, per te, fino ad oggi.

Ricordo che ogni domenica mattina, quando tornavi dalla Santa Messa assieme a tua madre, sedevi ore intere davanti ai tasti del pianoforte, e io sedevo accanto a te: non parlavi quasi mai, se non per dire schiettamente ciò che pensavi, dal basso dei tuoi sei anni. I tuoi occhi scrutavano qualunque cosa o persona, imperscrutabili, come se volessero entrare nell'anima o nel cuore di ciascuno. Eppure nessuno entrava nel tuo, nessuno captava un'alterazione, un'incrinatura leggera nella tua voce quasi monocorde. Ogni domenica mattina fissavi la tastiera del pianoforte in maniera differente rispetto al resto della settimana; i tuoi occhi neri guizzavano vitali da parte a parte, da tasto a tasto, sembrava suonassi con la mente.

Tua madre era in procinto di schiaffeggiarti, esasperata, quando all'ennesima richiesta di parlare, di fare il tuo dovere di figlia, bambina, scolara, tu risposi appoggiando le dita sui tasti del pianoforte e cominciasti a suonare il tema proposto dall'organista quella stessa mattina, senza conoscere una sola nota, senza nemmeno immaginare cosa fosse una melodia. E fu il turno di tua madre, per ammutolire. Tremò da capo a piedi, lo ricordo come se fosse ieri, impallidì ascoltandoti, pensando fossi posseduta da chissà quale demonio. Ma realizzò che un demonio non avrebbe potuto suonare una canzone di gaudio per il Signore, e ti prese in braccio, ti strinse forte, commossa, ridendo, piangendo tutte le sue lacrime inneggiò al miracolo.

 

[The embrace]

 

Anche se non avevi ancora cominciato a parlare bene, a esprimerti attraverso frasi di senso compiuto, tua madre iniziò a comprare libri e libri di solfeggio, manoscritti e saggi di musica classica provenienti da tutta Europa. Vidi testi scritti in caratteri estremamente eleganti ma anche a macchina, vidi chiavi di violino, di basso, di baritono invadere il nostro spazio vitale. Tu non apristi mai quei libri. Tu volevi ascoltare, tu ascoltavi e suonavi. Tua madre invece desiderava diventassi un'erudita, una persona che studia la musica, che conosce a memoria i nomi dei grandi maestri e direttori d'orchestra, e violinisti, e pianisti, e violoncellisti…non aveva capito niente, di te.

Tu sentivi la musica nelle vene, era il tuo sangue, la tua linfa vitale più pura.

Rincuorata dal tuo talento ormai palese, ignorando la tua incapacità di parlare, di muoverti elegantemente, di reagire normalmente alle domande, tua madre ti iscrisse alla sezione per giovani della Royal Academy of Music di Londra. Tu eri nata a Salisbury, una cittadina che aveva visto la grande Londra solo col binocolo, probabilmente in cartolina. Forse nei libri.

Tu, abituata alle quiete stradine sterrate, ai romantici cottage col tetto di paglia che guardavi con curiosità durante le nostre passeggiate nei pressi della cattedrale, così diversi da casa tua, tu, affascinata dall'acqua del laghetto e dai cigni, che vedevi così simili a te…così bianchi e silenziosi. Tu, che mi hai stretto a te quando tua madre ti spinse nell'abitacolo del taxi, permettendoti di portarmi. Dio, quanto ho gioito in quel momento. Avevo capito che per te ero qualcuno di irrinunciabile.

Ma tu, Virginia, tu a Londra. Proprio tu, con la tua pelle bianca, i tuoi lunghi capelli bianchi come la luna, con i tuoi occhi neri e la tua anima di fuoco, lontana dal tuo pianoforte. Tu.

Quando arrivammo a Londra, avevi appena compiuto nove anni; il cielo grigio di fumo e l'aria densa di odori cittadini ti fecero storcere il naso. Quel giorno, mentre tua madre ti accompagnava all'audizione per iniziare a seguire le lezioni di pianoforte, osservavi ogni cosa nuova che catturava il tuo sguardo. Per la prima volta vedevo una bambina, in te, vedevo un'infantile e sana curiosità nei tuoi occhi scuri, vedevo un bagliore di meraviglia. Non l'ho più visto, fino a poche ore fa.

Un bagliore che si accentuò, comunque, vedendo l'enorme pianoforte a coda al centro della sala delle selezioni della scuola. Si presentava come la navata principale di una chiesa gotica francese: altissima, col soffitto a volta i cui archi si intrecciavano a crociera, scura e austera ma anche affascinante e con una certa aura sacrale. Non c'era traccia di colore, un briciolo di vita era dato solo dai quadri dei direttori che avevano gestito la scuola nel passato, e nulla più.

Ti vidi sobbalzare, quando una signora vestita elegantemente e con un cipiglio aristocratico ti disse "Cortesemente si sieda, miss Virginia.". Nessuno ti aveva dato del lei, quella formula ti mise molto a disagio. Non avevo idea di cosa avresti proposto al tuo uditorio: io, tua madre e tre professori eravamo pronti ad ascoltarti. Mentre attendevano che tu cominciassi, uno dei professori si sistemò gli occhiali sul naso, con una smorfia di disprezzo; capii da quel gesto altezzoso e fastidioso alla vista che avresti potuto suonare le tue melodie più belle: lui ti avrebbe ostacolata in ogni caso.

Avanti Virginia, suona, amica mia. Suona.

Quanto vorrei che ora ti alzassi e lo facessi davvero. Quella volta lasciasti tutti attoniti, suonando senza spartito e senza metronomo un Allegro di Mozart: non saprei dire quale, non sono capace di riportare alla memoria il suono. Chissà dove e quando l'avevi sentito! So per certo riportare alla memoria le espressioni di tutti i presenti, in compenso: tua madre, compiaciuta, si guardava intorno senza smettere di sorridere a labbra chiuse, mentre il professore con gli occhiali si passava la lingua sui denti. La signora elegante annuiva lievemente, mentre annotava su un foglio le sue impressioni, e così facevano anche gli altri due professori, come se si fossero messi d'accordo. Quando tu togliesti le mani dalla tastiera, nessuno lo vide: accarezzasti con affetto il leggio del pianoforte. Lo guardavi con amore, lo abbracciavi con i tuoi occhi che al mondo parevano vuoti, impudenti quando si mettevano a fissare insistentemente, forse inconciamente, cose e persone. Mentre scendevi dallo sgabello, mentre tutti ti applaudivano, ti vidi appoggiare due dita sulle tue labbra e posarle sul coperchio del pianoforte. Mi avevi riempito il cuore di calore con un solo gesto, senza minimamente sfiorarmi.

 

[The promise]

 

Ti presero quello stesso giorno, con tre voti a favore su quattro. Non mi fu difficile immaginare chi votò contro di te. Tua madre ti affidò a un uomo che personalmente non vidi mai, ma al quale evidentemente apparteneva l'appartamento nel quale abbiamo alloggiato fino ad oggi, ovviamente munito di un pianoforte verticale che tu coccolavi ogni sera con le tue dita, sfiorandone dolcemente i tasti e regalandogli il sollievo di essere suonato. Quando ti vedevo versare tenere lacrime di nostalgia, sapevo che non erano per tua madre: sapevo che erano per il tuo pianoforte bianco, lasciato a casa, abbandonato, di nuovo muto. Sapevo che dentro di te meditavi il ritorno, non per abbracciare la donna che ti aveva dato solo il nome e la casa, ma per confortare il tuo primo amore.

In una settimana avevi imparato a muoverti con destrezza per le strade affollate di Londra, e stare da sola in una grande città non ti aveva messa a disagio, ma in qualche modo ti aveva cresciuta. Avevi undici anni e frequentavi la scuola da due anni, ormai, e finalmente ti sentivo parlare più spesso, interagire, reagire alle critiche e accettare con modestia i complimenti. Eppure chi ancora non ti conosceva ti additava senza discrezione, e sussurrava “Quella bambina è strana.”.

Ad ogni modo, questa tua “stranezza” ti rendeva tremendamente affascinante agli occhi di tutti, Virginia. Per tutti, meno che per uno. Sempre lui, sempre quell'uomo, che come un'anomalia, una stonatura, incrinava qualcosa nella tua vita.

Ma non era l'unico. Sebbene io la odiassi, non avrei e non avresti mai pensato che l'unica persona che si sia mai avvicinata a te spontaneamente, l'unica ragazza che si sia mai vantata di essere tua amica, l'unica che abbia avuto il privilegio di essere considerata da te in quanto tale, sarebbe stata la tua più autentica rovina.

Si chiamava Lily Ascott. Veniva da Canterbury, seguiva le lezioni di canto di Henry Wood: la sua bellezza irlandese precedeva il suo talento di soprano, alla giovane età di qindici anni. Ricordo perfettamente la prima volta che si avvicinò a te, affascinata dalla tua treccia di capelli argentei: si sedette, sbirciò gli spartiti che da poco avevi cominciato a sfogliare e con un sorriso sbarazzino, con occhi quasi felini, ti chiese come ti chiamavi.

"Virginia Everett." dissi tu, con la tua voce monocorde. "Lily Ascott", si presentò lei, cinguettando. "Sei bellissima, Virginia. Diventiamo amiche?" e sentii il mio cuore infiammarsi di gelosia. Tu eri solo mia, Virginia. Non mi rassegnai quando tu le risposi "Si.". Io sapevo che sarei sempre stato il tuo punto di vista irrinunciabile, nella caotica Londra.

Ero sempre al tuo fianco, e giuro che avrei avuto voglia di staccarle la testa a morsi, quando la vedevo arrivare con i suoi tomi di solfeggio sotto braccio, mentre agitava graziosamente la gonna blu scuro della divisa d'ordinanza. Tu avevi preteso quella maschile: scoprire la tua pelle bianca, da quando le persone avevano cominciato a elogiarti per quella, ti metteva molto a disagio.

Ti sentivi goffa non tanto per una questione di insicurezza, ma perchè lo eri davvero: ammiravi la disinvoltura di Lily. Tu l'avevi solo quando sedevi al pianoforte.

Nella primavera dei tuoi sedici anni, eri diventata la punta di diamante della scuola di musica. Eri famosa per la tua riservatezza e per il tuo talento inspiegabile: ascoltavi un qualsiasi brano anche una volta sola e lo riproducevi alla perfezione. Ma ciò che colpiva di te era il tuo rapporto mistico con la musica del pianoforte. Nessuno poteva non notare come e quanto fossi in sintonia con la tastiera, come accarezzzassi con lo sguardo le corde scoperte di un pianoforte a coda, e tutti coloro che fino ad oggi hanno camminato in quella scuola maledetta hanno sentito almeno una volta Virginia Everett suonare, e almeno una volta si sono commossi con lei.

Tu ti commuovevi spesso, quando suonavi, Virginia, ti ricordi? E con te mi commossi anche io, spesso. Ma scoppiai a piangere per l'orgoglio, quando ti sentii promettere sottovoce al pianoforte nel nostro appartamento che quando saresti morta, saresti stata in sua sola compagnia. Io sapevo che sarei morto molto prima di te.

In realtà lo speravo. Alla luce dei fatti, parrebbe di no, Virginia.

La seconda promessa che tu hai fatto nella tua breve vita è, a mio avviso, quella che ti ha rovinata. E un po' ti odio per questo. Ti odio, perchè se non l'avessi fatta forse saresti ancora qui.

Se io fossi nei guai, Virginia, sei io ti chiedessi un favore, un aiuto, tu mi prometti che sarai sempre lì ad aiutarmi?” ti chiese Lily, in un'assolata mattina di gennaio. Così insolita, per Londra.

Te lo prometto.” dicesti tu, accanto a me, fermamente, mentre lei si appoggiava languidamente alla tua spalla.

Quanto la odiai, quanto la odiai.

Ti amo tanto, Virginia...” sorrise, lei. E io vidi per la prima volta le tue guance tingersi di un rosa vivo, di un colore così bello su di te che odiai ancora di più Lily: lei non era degna di dipingere le tue guance di quel colore.
Lei non era un pianoforte.

Lei è stata la tua rovina, Virginia.

 

[All Imperfect Things]

 

Dormivo placidamente in soggiorno, quando qualcuno suonò al nostro campanello, una piovosa sera di metà ottobre. Avevi diciotto anni, stringevi un telegramma tra le mani: tua madre era morta nel sonno, e non avevi versato una sola lacrima. Avevi sorriso, invece, e avevi detto piano che eri felice. Che eri felice perchè stava bene, perchè non aveva sofferto.

Che per te soffrire e poi morire era orribile, e morire nel sonno è dolce, perchè la morte è la sorella del sonno, avevi letto tra i racconti di Oscar Wilde.

Quando apristi la porta, Lily entrò nel nostro appartamento con l'impeto del temporale che imperversava fuori, sbraitando cose che ti spaventarono. Le ringhiai contro, tu non dicesti niente finché lei non scoppiò in lacrime e finalmente decise di raccontarti cosa l'affliggesse tanto.

Sostanzialmente a fine ottobre, mentre Virginia avrebbe debuttato al cospetto della corte reale, lei avrebbe inaugurato con l'opera “madama Butterfly” di Puccini una rassegna di lirica a livello internazionale. Ma dal momento che invece di studiare con impegno aveva preferito darsi agli svaghi, Henry Wood, il suo insegnante, le aveva detto che avrebbe scelto una giovane soprano leggero con un senso della responsabilità molto più evoluto del suo.

E a ragione, direi.

Ma non so dirti che potere avesse su di te, Virginia, né saprei spiegare che diavolo ti avevano fatto quelle due parole leggere, quel “Ti amo” dalle tante sfumature che tu avevi fatto tuo, alla lettera.

Ecco, avevi questo difetto. Prendevi tutto, tutto esattamente come ti era detto.

Per fortuna che tra noi ci sono stati solo sguardi, Virginia. Non è stato abbastanza, però. Avrei voluto parlarti, se questo è ciò a cui sei arrivata.

Virginia, Virginia me l'avevi promesso...aiutami, ti prego, io ci tengo tanto...” disse lei, lacrimevole e lacrimosa.

Ti vidi prendere il cappotto, furente alla vista delle lacrime della tua adorata Lily, e ti seguii sotto la pioggia mentre i tuoi capelli si inzuppavano d'acqua gelida. La scuola era aperta fino a tarda notte, per questo entrasti senza nessun problema e, quasi correndo, irrompesti nella sala riservata agli insegnanti. Ti vidi puntare dritta verso Wood, che ti osservò sbigottito.

Lei non troverà mai qualcuno come Lily.” cominciasti. Avevo i brividi, Virginia, eri gelida nel corpo, nello sguardo, nella voce.

Lei non sa chi è Lily, la sua voce è capace di splendidi virtuosismi, di sublimi emozioni, e un sordo come lei, uno stonato come lei come può permettersi di giudicare, come? Quante volte il suo cuore ha sussultato per la voce di Lily? Ebbene, il mio mille, e mille ancora! Lei deve assolutamente aprire la rassegna, perchè senza di lei non avebbe senso, non avrebbe ragion d'essere!” Vaneggiavi. Vaneggiavi tremendamente, la tua voce piatta non era aggressiva come avresti voluto, il tuo respiro singhiozzante non faceva che rendere comica tutta la scena. Ti stavi rovinando per lei, ti stavi compromettendo per lei.

Sordo! Sordo, stupido, stupido sordo! Nessuno può permettersi di ignorare, di capire la bellezza della voce di Lily Ascott! Lei sarà la regina del canto, lei è la migliore e voi non potete scartarla, pazzi, voi, tutti sordi, ma specialmente lei, Henry Wood, che la minacci di non essere scelta, che sei solo invidioso della sua splendida voce e della splendida persona che è!” lo chiamasti per nome e cognome, nel vano tentativo di sibilare. Le tue labbra si muovevano da sole, la tua voce gorgogliava versi incomprensibili salendo e scendendo di tono, riducendoti al silenzio e a picchi assordanti di urla e sussurri, tutti con la stessa musicalità inesistente.

Tutti i presenti ammutolirono. Quell'attacco innaturale che tu avevi scagliato contro il professore aveva lasciato tutti di stucco. Avevi confermato dubbi e perplessità, avevi gettato le basi di dicerie e di pregiudizi, Virginia.

Avevi fatto in modo che quel “Quella bambina è strana.” sussurrato, diventasse un “Quella giovane è pazza!” urlato.

 

[The wounded]

 

La tua posizione nella scuola era salva semplicemente grazie al tuo talento, perchè la stima di tutti nei tuoi confronti era improvvisamente scomparsa, dopo quella sera. A te non interessava, a te interessava solo continuare a suonare, solo essere un tutt'uno con la tua musica. A te interessava la stima di una sola persona, e non è difficile immaginare chi.

Sebbene tu non avessi più attaccato nessuno, le dicerie su di te aumentavano. Nei corridoi, sulle scale, nel cortile e all'ingresso, per non parlare dell'aula insegnanti. Eri diventata una barzelletta, Virginia. Una settimana, e da stella nascente eri caduta nel fango in una maniera impietosa.

Ma a te non interessava, mentre mormoravi tra te e te suoni senza senso, parole di cui non ho mai compreso il senso logico.

A te bastava che ogni sera, in ogni pausa, ci fossero o Lily, o il pianoforte. Non importava che fosse tuo, importava che ce ne fosse uno.

Ti importava che invece Lily, fosse tua. Tua, tua, solo tua.

Io la odiavo, la odio. Ma riconosco e riconoscevo che più tu ti avvicinavi a lei, e più lei si allontanava da te, avendo ottenuto il posto tanto agognato come iniziatrice della rassegna, più la tua musica cresceva di intensità e di sentimento, più era bella, più era emozionante e coinvolgente.

Più lei si allontanava, più tu la rincorrevi, più il tuo sangue ribolliva, più la tua anima bruciava.

Non ti vevo mai vista sudare come pochi mesi fa, mentre suonavi il pianoforte con un'energia tale da sfiancarti, da spossarti terribilmente, da costringerti a immergere le dita nell'acqua gelata per trovare sollievo. Suonavi passionalmente, con una tensione squisitamente romantica ed esasperata: era uno spettacolo guardarti riprendere fiato col sorriso sulle labbra.

Sembrava che assaporassi il piacere più puro, mentre suonavi pensando a lei.

Dopo quella sera, però, le voci crebbero a dismisura, e valicarono i confini della scuola, uscendo, dirompendo nell'area circostante. A Londra, di bocca in bocca, di casa in casa, nel giro di pochi giorni, tutti vennero a sapere come Virginia Everett, la ragazza con i capelli di luna e la pelle bianca come l'avorio e gli occhi neri come l'ebano, aveva tacciato di cose abominevoli l'illustre Sir Wood.

Io sapevo chi aveva gonfiato quelle voci. Sempre lui. Sempre quell'incrinatura in sordina nello spartito della tua vita, che cominciava ad essere scritto con un tratto troppo tremante per i miei gusti.

Fu uno scandalo di cui tu non ti curasti minimamente. Almeno fino a quando il preside non ti convocò nel suo ufficio.

Ricordo che ci sedemmo fuori dalla scuola, sui gradini dell'ingresso secondario. Avevi lo sguardo perso nel vuoto, riflettevi. Vidi i tuoi occhi lucidi, acquosi.

Non avresti deliziato i Reali con la tua musica. Non si sarebbero alzati per applaudirti, non avrebbero gustato il piacere intenso e puro della tua anima versata direttamente nelle loro orecchie.

Non avresti potuto mostrare all'Inghilterra il tuo cuore, far divampare le fiamme dei tuoi sentimenti nell'atrio di Buckingham Palace.

Appoggiai dolcemente la mia testa alla tua spalla, per farti sentire che c'ero. Tu sorridesti appena, riempiendomi il cuore di gioia. Non sapevo come altro fare per dirti che io c'ero sempre per te, e che ci sarei sempre stato. Mi abbracciasti, stringendomi piano. Nella tua goffaggine eri comunque sempre delicata, con me.

Si alzò improvvisamente una folata di vento, un vento fastidiosamente freddo. Decidesti di alzarti e di tornare nell'edificio, io ti seguii.

E fu lì che vedemmo ciò che ti spezzò definitivamente il cuore.

Quell'uomo, quell'incrinatura, quella sorda stonatura, appoggiato al muro con aria altezzosa e indifferente e il suo cipiglio sprezzante costantemente stampato in volto, nascosto per metà da una colonna, accarezzava teneramente -un gesto così dissonante- il volto di Lily, chinandosi a baciarle le labbra. Lei sorrideva.

Sorrideva di quel viscido contatto, di quell'umido bacio che sapeva di sporco, vecchio e tabacco, secondo me.

Quel bacio doveva avere il gusto delle ciliegie. Quel bacio doveva essere tuo, Virginia.

Sapevo che quell'uomo ti avrebbe sempre ostacolata. Ma non pensavo che ti avrebbe tolto con tanta crudeltà tutto ciò che desideravi. Capii in quel momento, e capisti anche tu, che era tutta una mess'in scena per toglierti di mezzo. Per impedirti di mostrare al mondo la tua anima, per tarparti le ali.

Ti amo...” ripetesti, sottovoce, pensierosa, mentre sul tuo viso immobile scorrevano lacrime amare e ustionanti. Avrei voluto baciarle per cancellarle, ma non ce l'ho fatta.

Avrei voluto leccare quella ferita lacerante che si era aperta come un crepaccio nel tuo cuore.

Ma non mi sarebbe bastata una vita nemmeno per pensare a come fare.

E tu hai ovviato al problema prima di me.

 

[Big my secret]

 

Io ti ho seguito per tutta la vita, Virginia. Ho provato passione e ho pianto per te, mi sono commosso con te e la tua musica, la tua anima, ti ho sentita amica, sorella, cugina. Mi sento più vecchio di te, ora, e per me sei una figlia da quando i tuoi sentimenti si sono concentrati non più sulla musica, ma anche su Lily.

E sono il tuo complice, da quando la tua anima ha cominciato a bruciare febbrilmente d'odio profondo nei toni cupi delle tue prime composizioni.

Per un mese hai pianto ogni notte, anche il giorno del tuo compleanno, il trenta novembre. Nascevi diciannove anni fa, e già morivi dentro di te.

Quando ti ho sentita riprodurre Scherzo Diabolico di Alkan, la scorsa settimana, ho capito cosa succedeva nella tua mente.

Non hai toccato il pianoforte per un giorno intero. L'hai passato a rimirare un pugnale pregiato, col manico intarsiato da splendidi arabeschi: il dono di un ammiratore siriano che ti aveva sentita suonare in una casa da thè, la tua prima e unica esibizione fuori dalla scuola.

Ho temuto tante volte che te lo saresti conficcata nel petto da un momento all'altro, ma mi volevo convincere che non l'avresti mai fatto: tu non volevi morire soffrendo.

E non è stato così, infatti.

Hai tagliato i tuoi lunghi capelli bianchi, li hai tagliati cortissimi, corti come quelli di un ragazzo, hai sparso i tuoi ciuffi recisi come fiori da quel pugnale per tutta la cucina, sul pianoforte, sul divano, nel camino dove ardeva il fuoco, sul tappeto, su tutti gli arredi spartani del nostro appartamento.

Alla luce, sembrava che tutto risplendesse. Eri così diversa senza la tua lunga e morbida treccia bianca come l'avorio, eri così...spigolosa e dura.

Per un momento hai avvicinato il pugnale al tuo collo, e ho quasi gridato. Ti sei fermata, mi hai guardato e l'hai lasciato cadere. Ti sei chinata su di me, mi hai baciato la fronte. Hai ripreso quel maledetto pugnale e hai aperto la porta di casa, sei uscita, sei uscita correndo sotto la pioggia. Io ti ho seguita, correndo come mai in vita mia.

Non sapevo dove stavi andando con quel pugnale, non sapevo e non immaginavo nemmeno. Scherzo diabolico, pensavo. Ucciderai lui, che ti ha rubato il tuo grande amore, la tua grande e cara amica dalla voce d'angelo.

Ucciderai l'uomo che ha gonfiato le voci sul tuo conto, tacciandoti di essere una donna facile, voluttuosa e volubile, sciocca e sboccata, che ha offeso il grande Henry Wood.

In qualche modo avrei dovuto fermarti, ma tu ti sei piantata davanti a una casa. Un condominio.

Fradicia, hai nascosto il pugnale incastrandolo nell'elastico della gonna e coprendolo con la camicia. Hai bussato alla porta di quella casa a lungo, davvero a lungo. E chi ti avrebbe aperto la porta, in piena notte?

Una giovane donna in vestaglia da notte nera e le trecce di capelli rossi raccolte sulla nuca ti osservò con sorpresa, quando ti vide dietro la porta di casa sua.

Lily Ascott si era appena svegliata da un placido sonno, lo vedevo a partire dai suoi occhi verdi annacquati.

Gli stessi occhi si spalancarono al'improvviso, quando tu, Virginia, conficcasti quel dono prezioso nel suo petto. Fredda. Come se il tuo fuoco si fosse spento per un lunghissimo e agognante istante, per poi divampare impetuoso nell'ira omicida che stava macchiandoti gli abiti e la pelle di un sangue rosso cremisi.

La smorfia di sorpresa di Lily non ebbe il tempo di trasformarsi in un'abominevole espressione di dolore puro, nessuno sentì mai il suo urlo di terrore quando vide negli occhi la morte, soffocato dal sangue gorgogliante alla base della sua gola.

Virginia deturpò il torace di Lily con una furia disumana, conficcando il pugnale nella cassa toracica della sua vittima per poi tirarlo violentemente verso il basso, componendo un macabro concerto di suoni di morte violenta.

Non riuscivo a capire, Virginia. Perchè uccidere in quel modo atroce la persona per la quale ti struggevi tutte le notti e che desideravi tutti i giorni, per la quale suonavi con un'energia meravigliosa?

Poi ho capito, Virginia. Senza di lei avresti riavuto la tua anima. Saresti stata di nuovo capace di suonare con tutta te stessa, di tornare fedele al tuo primo, vero amore.

 

[The Sacrifice]

 

Sei scappata sotto la piggia, e io ti ho seguita. Piangevi, gridavi, ma ridevi e gioivi assieme, danzavi in mezzo alla stanza tra i tuoi capelli sparsi per terra, libera come una ninfa.

Ti sei fermata a guardarmi, mi hai abbracciato, mi hai baciato la fronte e accarezzato la schiena, lasciandomi andare subito dopo. Hai raccolto i tuoi spartiti in una borsa, ti sei cambiata d'abito e mentre mi asciugavo davanti al camino acceso tu mormoravi le tue solite pazzie, le tue solite riflessioni a denti stretti.

Mi hai voluto con te e mi hai dato di che coprirmi quando in piena notte, stavolta sotto un ombrello, sei scesa in strada dopo aver appiccato le fiamme nel tuo appartamento.

Non ti interessava che il pianoforte si sarebbe incenerito: avevi tolto il tasto del do maggiore, lo custodivi nella tua borsa. Tanto ti bastava.

Stavi tornando dal tuo primo amore. Eccolo, quel bagliore nei tuoi occhi, quella fanciullezza ritrovata, quel fuoco che tornava a pervaderti.

Dopo due ore di strada percorsa in un taxi, pagato con i tuoi unici risparmi, la tua eredità, siamo arrivati davanti alla tua casa natia.

Entrare dopo tredici anni in questa casa ha scatenato in me le emozioni più contrastanti. Scene ed episodi si ripetevano davanti ai miei occhi uno ad uno, e ho provato un'enorme voglia di sorridere all'improvviso. Ma non potevo sorridere mentre tu, piccola mia, piangevi disperatamente, accasciata sul tuo pianoforte bianco.

Mi sono avvicinato per capire cosa stesse succedendo. E con orrore ho constatato che il tuo amato pianoforte bianco era chiuso a chiave, non si apriva. Era inaccessibile, ti aveva voltato le spalle, lo avevi tradito e lui ha tradito te, ora che sei tornata solo per lui.

In lacrime hai rivoltato tutta la casa di tua madre alla ricerca di quella maledetta chiave, e non riuscendo a trovarla hai cercato di violentare tantissime volte quel coperchio che da piccola eri sempre riuscita ad aprire con semplicità, ingenua com'eri.

Sei impazzita totalmente.

Hai afferrato il manico di una scopa trovata sul pavimento e hai cominciato a spaccare ogni cosa con una furia cieca, urlando e sbraitando insulti contro tua madre, contro Lily, te stessa. Ma non contro di me.

Quando mi hai guardato negli occhi per l'ultima volta ti sei fermata e mi hai sorriso. Non ti ho seguita quando sei andata in cucina, né mi sono mosso quando sei tornata.

Ti sei seduta sullo sgabello del pianoforte, ti sei stesa sul suo coperchio sigillato, e sorridendo tra le lacrime hai cominciato ad accarezzarlo.

Poco fa mi hai chiamato accanto a te. Mi hai accarezzato la testa.

Ti voglio bene, Oscar.”, mi hai detto.

 

[Death]

 

L'ultimo pensiero che mi concedo di fare su di te, piccola mia, è che il tuo nome è stato il tuo più grande compagno di vita.

Virginia.

Sei morta vergine, nata vergine, e sei nata e morta col fuoco nel cuore e nel corpo, ma mai ferita da lui.

Mi fa sorridere, Virginia.

Non sei mai stata una bambina, una ragazza, una giovane donna normale. Ma non ho mai, mai pensato che tu fossi pazza, deviata...ho sempre pensato che tu fossi un dono.

Il mio tesoro più prezioso. Ti ho permesso di morire perchè io non posso fare altro.
Ma ora che vedo cadere dalle tue mani un'ampollina, ora che ne annuso il profumo, mi fai davvero sorridere.

Ce n'è ancora un po' dentro, Virginia.

Mi volevi davvero bene. Anche io ti voglio bene.

Lecco il bordo dell'ampollina e raggiungo le poche gocce che sono rimaste lì dentro. Poi torno da te, mi accoccolo contro di te, sotto la tua mano, come prima.

E che adesso non si dica che un gatto non è fedele.

Fino alla fine, Virginia.

 

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Note personali:

Vediamo di spiegare un po' le dinamiche di questa storia.

1. La prima impressione che ho avuto vedendo Virginia è stata quella di una persona persa in un mondo suo, smarrita.

Virginia è affetta dalla sindrome comportamentale di Asperger: è un disturbo mentale associato alla sfera dell'autismo che spiega molti dei suoi comportamenti. Virginia non reagisce bene alle domande, risponde in maniera monosillabica; è goffa nei movimenti, non parla, fa molta fatica ad imparare a parlare, mangiare e scrivere, ma come la gran parte delle persone affette da questa sindrome tende ad interessarsi maniacalmente e con successo a un determinato argomento. Nel suo caso, il pianoforte.

I soggetti affetti da questo disturbo sono particolarmente predisposti alla mania, alla depressione e al comportamento bipolare. La voce è solitamente monocorde, e non riescono a manifestare in maniera comune i loro sentimenti. Questo non vuol dire che non ne provino. I sintomi dell'Asperger sono davvero molti e non si manifestano tutti in una sola persona. Ne ho selezionati alcuni, i più significativi e i più utili per la caratterizzazione di Virginia.

2. L'accostamento Vergine-Fuoco non è casuale. Deriva ovviamente dal latino "verginius" che al femminile è tradizionalmente accostato a virgo, vergine. In realtà il nome Virginia è di origine etrusca. Dall'etrusco gentilizio "vercna", infatti, significa Fuoco. Ho giocato molto su questa duplice valenza.

3. Sono stata personalmente a Salisbury, è deliziosa. Attualmente è a quarantacinque minuti da Londra, ma immagino che agli inizi del novecento, essendo piena campagna, non fosse così facile raggiungere la Capitale.

4. Il personaggio di Henry Wood è il mio personaggio reale: è stato studente presso la citata Royal Academy of Music di Londra, ha preso lezioni di canto e ne ha date: il fatto che fosse stonato è attestato dal suo insegnante di canto, che non aveva un'ottima opinione della sua voce xD Infatti si è dato alla carriere di direttore d'orchestra. Quando Virginia frequenta la scuola, lui è davvero professore nella stessa.

5. Il movimento a cui ho associato Virginia è, banalmente, quello della musica classica. Di fondo. Infatti cito un Allegro di Mozart e lo Scherzo diabolico di Alkan. Sono praticamente i due estremi, nella mia più umile opinione: chi suona il pianoforte o ha qualche rudimento di musica, sa che un allegro di Mozart può essere complesso, ma fondamentalmente abbordabile. Lo Scherzo Diabolico di Alkan è pura pazzia, poche persone lo padroneggiano correttamente. Virginia lo suona più o meno nel trentanove, il fatto che le sue opere fossero in circolazione allora è una supposizione mia: molti manoscritti e pubblicazioni di Alkan sono state perdute. Licenza letteraria a me!

  1. Eccetto Birth e Death, i titoli che aprono ogni mini capitolo della biografia sono tratti da una serie di brani composti da Michael Nyman, "The heart asks pelature first". Consiglio la lettura dell'intero brano ripetendo "The Sacrifice", o leggendo ciascuna parte con il brano che le conferisce il titolo.

  2. Ah. Oscar è un gatto. Ma lo chiarisco solo a scanso di equivoci, che per esperienza ci sono sempre...per questo non ha mai parlato, né interagito con Virginia.

Fan fiction terza classificata al contest Collapsing Night II edition del Collection of Starlight.

Ora veniamo alle note più personali. 
Quando ho visto Virginia per la prima volta, me ne sono innamorata. E' nata nella mia mente come una ballerina. Poi ovviamente l'idea mi è scaduta, e ha timidamente provato a diventare una pittrice. Poi la modella di un pittore. Poi ho pensato che poteva diventare quello che io non sono più, quello che a me piacerebbe essere: la sposa di uno strumento musicale. Del pianoforte, perché è lo strumento di cui io sono innamorate e che per vari motivi non posso più suonare. Così è diventata una pianista. Allo stesso tempo, quando l'ho vista...ho capito e ho deciso che qualcosa in lei doveva essere stonato. E così ho scelto l'Asperger. E' stato tutto molto naturale, in una maniera un po' inquietante, ecco. 
Il gatto è un po' una fissazione. E' il mio animale preferito. E in questa storia è anche il mio colpo di scena! 
Che dire, sono felicissima si sia classificata terza. Leggere le due storie classificatesi prima e seconda (Clà! <3) mi ha solo fatta strafelice: la competizione era davvero di un altissimo livello qualitativo, sono onorata di essermi guadagnata il terzo posto. 
Penso di non aver altro da dire. Virginia direbbe che ho detto anche troppo. O forse no? 
Grazie per il tempo dedicatomi. 

Sinful_Color. 



 

  
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