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Autore: Just another Ghost    29/03/2012    2 recensioni
Logan Lerman
I nostri respiri si rincorrevano, i gemiti, i sospiri.
"Solo attrazione fisica" sussurrai sul suo collo.
"Non potrebbe essere altrimenti" mi rispose, baciandomi un’ultima volta, dolcemente, e accasciandosi al mio fianco.
Quella frase mi aveva lasciato l'amaro in bocca.
Lui amava Anna.
Lo avrebbe sempre fatto.

Non sottovalutate questa fanfiction, non è una storia d'amore fatta di zucchero e cannella.
Qui c'è fin troppo dolore. Perdite. Tradimenti. Sensi di colpa. Bugie. Musica.
Già, la musica.
Non fatemene una colpa se in ogni capitolo troverete una canzone.
Io campo di questo.
La musica è il mio veleno e
la mia
medicina.
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 The sun is breaking in your eyes.
 


1. What would it be without you, Anna?


 
«Porca merda sono in ritardissimo!» sbraitai rivolta alle lancette dell’orologio stilizzato nel mio cellulare.
Rebecca sapeva essere stronza forte quando in ballo c’erano le prove e un concerto imminente, per quanto di poco conto fosse.
Non eravamo dei mostri con gli strumenti, ma amavamo la musica, e questo bastava.
Suonavamo principalmente cover di band già affermate, soprattutto Paramore o Evanescence su mio preciso suggerimento, perché più compatibili con la mia voce. Però non mancavano i classici del metal e del grunge, ai quali riuscivo ad adattarmi, bene o male.
Amavo cantare, suonare e scrivere, per quanto fossero patetici i miei tentativi di comporre qualcosa di decente, che non suonasse melenso e ad alto tasso glicemico.
Ci provavo, seppur con scarsi risultati.
Rebecca si ostinava a dire che i miei testi fossero “da pelle d’oca”, ma ciononostante non avevamo mai pensato seriamente di arrangiarci una melodia.
Ero più portata per i lunghi racconti introspettivi che per i brevi e striminziti testi musicali.
Molti non mi capivano, compresi i ragazzi della band.
Passavo ore rinchiusa nella piccola camera all’interno dell’appartamento in affitto, condiviso con Rebecca per meglio sostenere le spese, a leggere senza sosta, oppure a fantasticare mentre melodie conosciute suonavano dallo stereo bianco.
Non avrei mai ammesso a nessuno la mia indole sognatrice.
Ero una stoica cantante senza né arte né parte, al primo anno di psicologia dell’Università di Milano.
E, in un certo senso, andava bene così.
Mi piaceva il mio sarcasmo, grazie al quale potevo ergere una sottile ma impenetrabile barriera tra me e il mondo esterno.
Potrebbe sembrare una cosa crudele e malsana, ma non avrei mai rischiato di soffrire inutilmente, non più.
Avrei preferito anni di apatia al dolore più insopportabile.
Sentii qualcosa vibrare nella tasca posteriore dei pantaloncini a jeans e lessi il nome sul display illuminato.
Gab.
Alzai gli occhi al cielo e mi preparai al peggio.
Okay, potevo farcela.
Mi ero preparata questa scusa per tutta la mattina, doveva funzionare.
«Ascolta, lo so. Va bene? So di essere in ritardo, ma credimi, posso spiegarti. La colpa è di questa tempesta solare che manda a farsi fottere ogni genere di apparecchio elettronico, compresa la nuova sveglia super tecnologica che ho comprato proprio ieri. Non è colpa mia, giuro! Tra l’altro, sono già a pochi isolati da casa tua!» dissi d’un fiato, incrociando le dita e sperando che se la bevesse.
Silenzio, poi uno sbuffo.
«Sbrigati, ci sono novità» grugnì dall’altro lato dell’apparecchio un incazzatissimo Gab.
Rimasi interdetta un attimo.
L’Arcangelo Gabriele, il Santo Protettore della Calma e del Sangue Freddo che mugugnava senza sosta, straripante nervosismo?
Già, quella tempesta stava mandando i nostri cervelli dritti al capolinea, non poteva che essere altrimenti.
«Novità?» mi arrischiai a chiedere con una voce innocente da agnellino.
«Sì. A Reb è venuta in mente una cazz… un’idea assurda» spiegò.
Ridacchiai. «Cosa c’è, Gab, il fioretto di quest’anno riguarda il non dire più parolacce?» lo presi in giro, chiudendo subito la chiamata prima che potesse rispondere e di conseguenza mandarmi a quel bel paese.
Corsi letteralmente fino al cancello in ferro battuto che dava sull’enorme villa di Gab, nella periferia di Milano.
Suonai il campanello, stringendomi nel leggero giubbotto di pelle beige e maledicendomi in silenzio per la mise decisamente troppo estiva.
Non ero più nella soleggiata Sicilia, dove puoi camminare in pantaloncini fino a Novembre inoltrato.
Avvertii un click metallico e spinsi il pesante portone, attraversando il giardino ben curato ed entrando in casa dalla porta aperta.
«Ehilà!» gridai alla casa all’apparenza vuota, dirigendomi verso la porta sul retro che conduceva alla piccola dependance adibita a sala prove poiché insonorizzata.
Entrai nel piccolo abitacolo, trovando tutti i membri già lì.
Rebecca suonava distrattamente la sua batteria rosso fuoco, persa nei suoi pensieri, i begli occhi verde acqua distanti anni luce.
Marco scribacchiava le ultime cose sulla scaletta per il concerto ormai prossimo, seduto su una sediolina di legno con il petto a contatto con lo schienale.
Gab, infine, accordava nervosamente la sua chitarra, seduto per terra a gambe incrociate.
Lanciai un fischio preoccupato. «E’ così grave?»
Reb sollevò gli occhi su di me e fece un sorriso strano, malinconico.
«Ci sono altre novità» annunciò, venendomi incontro e fissandomi con quegli occhioni immensi.
«Altre?»
Lei annuì, abbracciandomi fortissimo per qualche secondo. «Mi dispiace tantissimo» esalò, staccandosi.
«Ti dispiace per cosa?» chiesi aggrottando le sopracciglia e poi spalancando gli occhi sentendola sussultare a causa di un singhiozzo.
«Non ce la faccio…non ce la faccio…» ripeté a bassa voce, abbracciandosi a Marco.
Stavano insieme da qualche mese, ormai.
«Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?» quasi urlai, marciando verso il centro della stanza, rivolta a Gab. «Almeno tu» sibilai, puntandogli un dito contro.
Mi fissò senza espressione per un po’, poi, con un sospiro, si alzò e aprì la bocca per parlare.
«Si tratta di Anna» disse con voce piatta, atona.
«Anna?» domandai in un soffio, portandomi una mano alla gola.
Anna era stata la nostra bassista per un sacco di anni, fin dalle superiori, ed era una delle mie più care amiche, una di quelle alle quali ero più legata.
Poi, però, aveva vinto una borsa di studio per l’università newyorkese di scrittura creativa ed era partita, lasciandosi dietro un vuoto enorme.
Non la sentivo da mesi, ormai.
E mi mancava da morire.
«Sì. Ha… ha avuto un incidente. È grave» mormorò ancora Gabriele, mentre Rebecca piangeva in silenzio stretta alla maglietta di Marco.
Mi pietrificai, incapace di comprendere fino in fondo quelle parole.
Vorticavano nella mia testa, sconvolte, disordinate.
Anna. Incidente. Grave. Anna. Incidente. Anna. Anna. Incidente. Grave.
Mi sentii soffocare e dovetti avvicinarmi alla finestra.
«Dimmi che è uno scherzo, Gab» esalai ad occhi chiusi, nel tentativo di trattenere le lacrime.
«Sarebbe davvero di pessimo gusto. Emma, dobbiamo andare da lei. Subito» ordinò con voce tremante Gabriele, mordendosi le labbra per non piangere.
La amava.
Dio, se la amava.
Era stata il suo unico punto di riferimento per anni e quando era andata via era caduto in uno stato di depressione terrificante.
Adesso andava meglio, ma la notizia dell’incidente aveva fatto tornare a galla ogni cosa.
Annuii. «Immediatamente. Faccio la valigia e prendiamo il primo volo. Informatevi, io sono qui tra meno di un’ora» dissi d’un fiato, volando letteralmente fino a casa.
Non pensavo al sudore che mi colava dalle tempie, non pensavo a quanto potesse essere grave la situazione, non pensavo alla pazzia che stavamo per fare o ad avvisare i miei.
L’unica cosa che riuscivo a pensare era “Non lei”.
 
Gettai un paio di completi in valigia, a casaccio, senza curarmi degli abbinamenti né tantomeno dei colori.
Mi sentivo daltonica, il mondo era tutto una scala di cupi e tristi grigi.
Una volta chiusa la valigia e sbarrata la porta dell’appartamento, tornai a casa di Gab e non mi stupii di trovarli tutti già fuori, con la macchina caricata e pronta.
«Svelta» mi mormorò dolcemente Gabriele, vedendo i miei occhi lucidi.
Mi ero ordinata di non piangere.
Non avrei ceduto.
Caricai tutto e mi sedetti davanti, accanto a Gab, mentre Rebecca e Marco si abbracciavano sul sedile posteriore.
In un’altra occasione avrei fatto una battuta riguardo il loro stare sempre appiccicati, ma in quel momento sembrava crudele e inappropriata.
Lei aveva bisogno d’amore ancor più del solito.
Provai una fitta di leggerissima invidia nel vederli insieme, occhi negli occhi, stretti l’uno all’altra, come fossero una cosa sola.
Non mi lamentavo della mia situazione sentimentale, solo che a volte sarebbe stato bello avere qualcuno accanto, qualcuno con cui condividere tutto…
Ma forse avevo dei gusti troppo complicati.
Me lo diceva sempre anche Reb.
Avvertii una mano posarsi sul mio ginocchio e mi voltai alla mia sinistra, trovando un angosciato Gab, che tuttavia si sforzava di sorridere.
«Sta’ tranquilla» sussurrò, prima di voltarsi nuovamente verso la strada.
Sospirai, attendendo di arrivare all’aeroporto.
Non era molto distante, appena un quarto d’ora di macchina.
Be’, noi ci mettemmo dieci minuti, vista la spericolata guida di Gab.
Ci dirigemmo al check in e attendemmo l’arrivo del volo, sperando vivamente di arrivare il più presto possibile.
Seduta sulla poltroncina di plastica dura e grigia, seguivo con lo sguardo i passeggeri indaffarati che si dirigevano verso i propri voli.
Una signora paffuta in tailleur, decisamente troppo stretto per lei, si dirigeva affannata verso l’imbarco, con le voluminose valigie che la seguivano a stento, traballanti.
Una bambina dalle trecce brune trotterellava allegra, con la mano stretta in quella del papà stanco ma sorridente e l’altra che agguantava un ventaglio colorato e grande.
Ad un certo punto la bambina si arrestò e con un adorabile broncio implorava il padre di farla salire sulla schiena. Ovviamente l’uomo la sollevò di peso e, nonostante le valigie, la sistemò per bene sulle proprie spalle, mentre la bimba si dimenava tutta contenta con in mano solo lo strampalato ventaglio.
Sorrisi assistendo a quella scenetta.
Ecco l’amore incondizionato, quello di un padre verso la propria figlia, la propria principessa, quando nonostante la stanchezza, i problemi, le preoccupazioni, riesce comunque a regalarle un sorriso e una giornata più felice.
Continuai la mia osservazione.
Un gruppo di persone in bermuda a fiori si dirigevano dalla parte opposta, verso l’uscita dell’aeroporto, probabilmente diretti al mare o in qualche località turistica.
Un’altra equipe di uomini in giacca e cravatta nera di muovevano a blocchi verso zone diverse dell’edificio, alla ricerca di chissà cosa o chissà chi.
Sembrano tanto guardie del corpo. Pensai distrattamente, dirottando nuovamente i pensieri verso l’universo Anna.
Come l’avrei trovata?
Quali zone del suo piccolo corpicino fragile erano state squartate durante l’incidente?
E la sua brillante memoria avrebbe resistito al trauma?
Scossi la testa, tornando a guardare davanti a me.
Sempre meglio che deprimermi pensando al peggio.
Passò un ragazzo dai capelli scuri, di corsa, diretto al check in, con le basette corte appiccicate alle tempie per il sudore.
Aveva con sé solo un piccolo bagaglio e si guardava intorno ansioso, spostando il peso da una gamba all’altra.
Ridacchiai tra me e me, pensando che magari quei signori cercavano proprio lui.
Un criminale in camicia azzurra, jeans e Superga non si era mai visto.
Sembrava un ragazzo della mia età.
Probabilmente doveva aver sentito la mia risata, o forse aveva notato il mio sorriso con la coda nell’occhio – non ero così lontana da lui, dopotutto – e fece scontrare il suo sguardo con il mio.
La prima cosa che pensai, in quel momento, fu azzurro.
Quel colore era ovunque.
Azzurri gli occhi, azzurra la camicia, azzurre le scarpe.
La seconda fu figuraccia.
Gli avevo appena riso in faccia, cazzo.
Tuttavia fui costretta in ogni caso a smettere di ridere, perché i suoi occhi mi avevano incatenata.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Lui sì.
In meno di un millisecondo, si voltò verso il luogo d’imbarco e sparì dalla mia vista, lasciandomi intontita.
Per cinque minuti buoni non riuscii a muovermi, scioccata dall’intenso colore di quelle iridi e da quanto erano messe in risalto grazie alla camicia del medesimo colore.
Avevo sempre avuto un debole per gli occhi chiari in contrasto con il colore scuro dei capelli, ma per mia sfortuna ogni ragazzo che avevo incontrato e aveva quelle caratteristiche non mi filava di striscio.
Avevo detto di avere dei gusti complicati, no?
Mi alzai traballando dalla sedia, sentendo chiaramente la chiamata del nostro aereo e cercando i miei amici tra la folla.
Una volta insieme, ci imbarcammo.
Il viaggio fu relativamente tranquillo.
Relativamente perché, nonostante le eccezionali previsioni metrologiche, dentro ognuno di noi stava avvenendo una tempesta di straordinaria intensità.
Gab, al mio fianco, continuava a shakerare la gamba su e giù, su e giù, su e giù, tanto da farmi impazzire.
Reb continuava a singhiozzare in modo insopportabile, mentre Marco stava zitto.
Ehilà, c’è nessuno?!
Avrei voluto scuoterlo fino a farlo svegliare e non avrei disdegnato di strozzare Rebecca con le mie stesse mani.
Dio, un po’ di autocontrollo.
Dopo ore di volo, atterrammo all’aeroporto di New York, affollato come una strada all’ora di punta.
Quasi ci perdemmo e fu solo per miracolo se riuscimmo ad uscire da quel nido di vespe.
«Okay, dove si va adesso?» chiese tirando su col naso Reb, mano nella mano con il suo ragazzo.
Gab tirò fuori una cartina e un foglietto con quello che doveva essere l’indirizzo dell’ospedale nel quale era ricoverata Anna.
«Dobbiamo imboccare la 165 e poi girare subito a destra. L’ospedale St. George è lì di fronte» spiegò tra uno sbadiglio e l’altro, cercando di chiamare un taxi.
Gli strinsi una spalla e lo superai. «Così non si fermeranno mai» spiegai in un sussurro, fischiando il più forte possibile e sorridendo debolmente alla vista di un taxi che inchiodava a pochi metri da noi.
«Veloci» intimai, entrando nell’abitacolo buio e cercando di spiegare al tassista la strada da percorrere.
Questo mi fece un cenno d’assenso e partii a tutta velocità nel traffico di New York City.
Mi lasciai cadere all’indietro sullo schienale, sospirando. «Fortuna che ho fatto il linguistico»
Reb fece una breve risata, posando la testa sulla mia spalla e chiudendo gli occhi, esausta dal pianto e dal viaggio.
«Volete andare subito da lei?» chiesi quando ormai mancavano pochi isolati alla 165 «possiamo anche sistemarci in hotel prima, e poi farle visita domattina» proposi di malavoglia.
Non avevo alcuna intenzione di aspettare ancora, ma erano tutti degli zombie, me compresa.
«No» disse deciso Gab, seguito a ruota dagli altri due, che scossero la testa.
Sospirai di sollievo. «Neanche io. Gab, i suoi sono già lì?»
«Sì. Sono arrivati stamattina»
«Quando è successo?» chiesi finalmente.
Non avevo avuto la forza di domandare i dettagli dell’accaduto, era successo tutto troppo in fretta.
«Ieri mattina, stava andando all’università, quando un pazzo l’ha messa sot…» spiegò, ma lo bloccai in fretta.
«Non voglio sentire altro» tagliai corto, chiudendo gli occhi e sperando nel meglio.
Non avevo chiesto come era accaduto, non avrei potuto sopportare le immagini del suo corpo dilaniato in chissà quale maniera, o del suo sguardo terrorizzato appena prima di perdere i sensi.
«Arrivati. Sono sessanta dollari» annunciò il tassista, contando soddisfatto le banconote che gli aveva porto stancamente Gab.
Scendemmo dall’abitacolo, inoltrandoci in una via stracolma di fiorai, bar e cartolerie.
Sospirai, conoscendo fin troppo bene quel tipo di business.
Per anni, durante la mia infanzia e adolescenza, avevo fatto visita all’unica struttura ospedaliera presente nella mia vecchia città.
Semplici controlli medici, prelievi sanguigni per tenere sotto controllo la mia celiachia, nulla di preoccupante, soprattutto quando a proteggerti ci sono le mura accoglienti e tappezzate di carta colorata del reparto pediatria.
Il vero dramma era iniziato quando dovetti spostarmi per un po’ nel reparto gastroscopia, praticamente a pochi metri da quello di chirurgia.
Odiavo l’odore stantio di disinfettante, odiavo i volti angosciati dei visitatori, odiavo i pianti sommessi che provenivano dai corridoi.
Ma tutto si era normalizzato al momento del mio ritorno in pediatria.
Purtroppo nulla poteva evitarmi di scorgere quelle espressioni traumatizzate e dolorosamente consapevoli, al piano terra, vicino all’entrata.
Evitavo gli ospedali come la peste e li frequentavo solo se strettamente necessario.
Ritrovarmi a chilometri di distanza da casa, praticamente sola, in una struttura ospedaliera sconosciuta, era qualcosa di surreale.
Probabilmente la mia, di espressione, non aveva nulla di diverso da quelle che mi terrorizzavano durante la mia infanzia.
Lo sguardo perso, vuoto, le labbra tirate in una smorfia agonizzante, il volto pallido e stanco.
Tutti elementi comuni in ciascuna delle facce lì presenti.
Prendemmo le scale, il reparto chirurgia si trovava solo al secondo piano.
«Qual è la stanza?» chiese Rebecca ritrovando un po’ di contegno.
Le sorrisi per ciò che cercava di fare.
Mostrarsi forte, nonostante dentro di sé stesse urlando.
«La 103. In fondo al corridoio a sinistra. C’è una nota musicale sulla porta, ha detto sua madre» informa Gab, sorridendo mestamente.
Ricambiai il sorriso con altrettanto entusiasmo.
Quasi corremmo fino alla porta della camera, ma ci arrestammo notando che era già occupata da alcuni medici e infermieri.
«Emma» mi sentii chiamare da una voce familiare e mi voltai verso la proprietaria con gli occhi quasi inondati di lacrime.
Una donna bionda, con i capelli vaporosi a caschetto mi fissava, con un sorriso tirato sulle labbra pallide e secche.
Doveva avere circa quarantacinque anni, ma in quel momento ne dimostrava sessanta.
I capelli di solito perfettamente in ordine erano sconvolti sulla fronte, gli occhi vivaci erano arrossati dal pianto e dalla stanchezza e il colorito aveva assunto una tonalità giallastra.
Anche l’abbigliamento era radicalmente cambiato.
Indossava dei pantaloni di tuta grigi, troppo pesanti per la stagione e una maglia a collo alto consumata e scolorita.
Mi venne incontro abbracciandomi e a quel punto fu troppo.
Vedere di persona, toccare con mano il dolore palpabile di Lucia, la mamma di Anna, era insostenibile.
Piansi tutte le lacrime trattenute troppo a lungo, affondando i singhiozzi nella sua spalla.
Non volevo farmi vedere così vulnerabile, ma non era assolutamente il momento di far prevalere il mio egoismo, non in una situazione come quella.
«Dio, stai tremando» mi sussurrò Lucia, stringendomi forte e facendomi accomodare su una sedia di plastica affiancata ad altre tre.
Non sapevo che dire, non sapevo che fare.
Come avrei potuto, d’altronde?
«Andrà tutto bene, tutto bene. I dottori dicono che c’è qualche probabilità che ne esca, non è un coma profondo come sembra e… e…» spiegò a bassissima voce, bloccandosi per via dei singhiozzi e posandosi una mano sulla bocca.
Fu il mio turno di stringerla.
«Non ce la faccio…» quasi urlò, angosciata.
Strinsi i denti e le palpebre, facendo gocciolare un altro po’ di sale e cullandola dolcemente.
«Lo so, Lucia. Lo so» e quella notte non ci fu che l’amara consapevolezza di una possibile vita senza Anna accanto.


Note della pseudo autrice Just Another Ghost:
Okay, questa cosa è venuta fuori durante una lezione di Scienze della Terra a scuola, mentre i moti rivoluzionari del nostro caro pianeta mi facevano venire la nausea.
Non sono una fan appassionatissima di Logan Lerman o dei suoi film, ho visto Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo un po’ di tempo fa, ma è stato guardando un trailer de I Tre Moschettieri che mi ha colpito sul serio.
Voglio dire, ho sempre avuto un debole per i ragazzi dal faccino d’angelo, con gli occhi azzurri (oh Santa Madre di Dio) e i capelli scuri, ma questo qua diventa una specie di tigre quando recita, e io AMO i ragazzi dalle mille risorse è.é
Comunque sia, è davvero un bravo attore e vista la nostra passione per la musica in comune, mi è sembrato carino renderlo protagonista della mia storiella J
Benissimo, è tutto. Per capire meglio il racconto ecc ecc vi indicherò alcune canzoni che verranno citate nei vari capitoli a cominciare da “My Heart” nella versione al piano dei Paramore, i miei Tesssori ♥ http://www.youtube.com/watch?v=HoN2gMrQya8 
Mi sono dilungata anche troppo. Buon proseguimento ;)
Un bacio.
G.

 

  
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